Gianfranco Ravasi I dieci comandamenti · GIANFRANCO RAVASI 148 RELIGIONE A soli 11 anni Mozart...

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Note di Pastorale Giovanile Gianfranco Ravasi I dieci comandamenti

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Note di Pastorale Giovanile

Gianfranco Ravasi

I dieci comandamenti

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GIANFRANCO RAVASI

148 RELIGIONE

A soli 11 anni Mozart componeva un testomusicale intitolato Die Schuldigkeit des ersten Ge-botes (KV 35), cioè «Il dovere del primo comanda-mento»: era la prima parte di un oratorio esegui-to nel 1767 con cinque attori-cantanti: lo Spirito cri-stiano, la Misericordia, la Giustizia, lo Spirito delMondo, il Cristiano (un’edizione discografica èquella di Schwann-Musica sacra AMS 714 15). Il ri-lievo dato a questo comandamento, di cui sopraabbiamo offerto la formulazione biblica completapresente nel libro dell’Esodo, è giustificato perchéla prima delle “dieci parole” del Decalogo è il so-stegno, la base e l’interpretazione delle altre no-ve. Se per il filosofo greco Protagora (V sec. a.C.)«l’uomo è misura di tutte le cose» – tesi ripresa al-la lettera da Platone nelle Leggi (IV, 716c) – «il De-calogo non percorre la via dell’uomo a Dio ma vada Dio all’uomo per cui misura di ogni cosa non èl’io ma Dio» (J. Schreiner).

Del primo comandamento il testo biblico of-fre tre formulazioni diverse che ora esamineremo:esse sono come altrettante sfaccettature dellostesso messaggio che, in questo caso, è squisita-mente religioso.

Ecco, innanzitutto, la formulazione teologica:«Non avrai altri dèi di fronte a me» (o con una sfu-matura di ostilità «contro di me»). Questa nega-zione di ogni dio inferiore o parallelo non è tantouna professione teorica di monoteismo, di diffici-le espressione per la mentalità simbolica orienta-le. È piuttosto un monoteismo intuitivo, acritico,“affettivo”, è una dichiarazione di adesione amo-rosa al Signore il cui nome sacro e impronuncia-bile è, però, rivelato a Israele, Jhwh. È per questoche è detto “il comandamento principe”. «Dio nonè un’idea, non è un’astrazione come allora lo rap-presentava la piramide dei valori della filosofiagreca. Dio è persona. Dio è un Tu che si piega ver-so gli uomini e vuole essere un Dio vicino, amicodegli uomini e ricco di aiuto: il tuo Dio» (A. Läp-ple).

Commentava Lutero nel suo Catechismo: «Ave-re un solo Dio significa avere ciò a cui il cuore si

La costruzione del Tempio di Gerusalemme in un foglio mi-niato francese del Medioevo.The building of the Temple of Jerusalem in a French miniaturedating back to the Middle Ages.

Dio allora pronunziò tutte queste parole:Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fattouscire dal paese d’Egitto, dalla condizionedi schiavitù: non avrai altri dèi di fronte ame. Non ti farai idolo né immagine alcu-na di quanto è lassù nel cielo né di quan-to è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nel-le acque sotto la terra. Non ti prostrerai da-vanti a loro e non li servirai. Perché io, ilSignore, sono il tuo Dio, un Dio geloso,che punisce la colpa dei padri nei figli fi-no alla terza e alla quarta generazione, percoloro che mi odiano, ma che dimostra ilsuo favore fino a mille generazioni, perquelli che mi amano e osservano i miei co-mandamenti.

(Esodo 20, 1-6)

Prefetto della Biblioteca – Pinacoteca Ambrosiana di Milano; Docente nella Facoltà di Teologia dell’Italia Settentrionale e nel Seminario Arcivescovile Milanese.

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abbandona totalmente». La professione di fede chel’ebreo recita ogni giorno proclama: «Ascolta Israe-le il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo!»(Deuteronomio 6, 4).

Ecco poi la formulazione concreta del coman-damento. «Non ti farai idolo né immagine alcunadi ciò che è lassù nel cielo, né di ciò che è quag-giù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto laterra». Israele rifiuta ogni immagine di pietra op-pure intagliata nel legno e ricoperta di metallo chei popoli circostanti usavano come simulacri delladivinità. Alla base di questa proibizione reiteratada tutta la S. Scrittura c’è la convinzione, tipica del-la cultura simbolica orientale, secondo la qualel’immagine è come la realtà stessa raffigurata.Dall’effigie, dai simboli sacri, come gli amuleti o italismani o i pali fallici dei culti orientali della fer-tilità traspariva il dio stesso: l’icona era portatri-ce del fluido della divinità, era mediatrice efficacee magica della presenza della persona raffigurata.Il Signore, invece, non è riducibile a un oggetto ma-nipolabile, non è imprigionabile in uno spazio, néoggettivabile in una statua, è un Dio persona, con-dottiero che pellegrina coi suoi fedeli.

A questo proposito suggestivo è il parallelocol computer, l’idolo del racconto filmico Decalo-go 1 del regista polacco Kieslowski, a cui nei pre-cedenti articoli abbiamo fatto riferimento per uncommento moderno ai dieci comandamenti: a que-sto idolo il protagonista affida tragicamente la vi-ta di suo figlio. Noi possiamo, invece, ricorrere aun episodio storico per illuminare questa conce-zione biblica di Dio cosiddetta “aniconica”, cioèsenza immagini. Il tempio di Gerusalemme era ber-saglio delle frecce e dei proiettili delle legioni ro-mane, il sangue delle vittime sacrificali si mesco-lava a quello dei sacerdoti uccisi, la resistenzaebraica era ormai disperata. Dopo tre mesi d’as-sedio il tempio fu invaso: era l’autunno del 63 a.C.e a Roma era console M. Tullio Cicerone. In quelgiorno Pompeo anticipando il gesto di Tito nelladefinitiva distruzione di Gerusalemme del 70 d.C.,decise di penetrare nel Santo dei Santi del tempio,il luogo valicabile solo dal sommo sacerdote unavolta sola l’anno: tutto il mondo ebraico a questanotizia si fermò con sgomento e raccapriccio.Scrisse lo storico ebreo Giuseppe Flavio, contem-poraneo di S. Paolo: «Fra tante sciagure quella checolpì maggiormente la nazione fu che il tempio, fi-no a quel momento sottratto alla vista, fu svelatoagli stranieri» (La Guerra Giudaica I, 7, 6). Solleva-to il velo che celava quel tempietto interno, il ro-mano Pompeo, religiosamente grossolano, crede-va di incontrare qualche mostruoso simulacroorientale e invece, nota Tacito (Historiae V, 9),trovò «una sede priva di alcuna effigie divina e unsantuario inutile». Il Dio vivente, il Signore del cie-lo e della terra, non aveva bisogno di un elemen-to magico per farsi rappresentare nel dialogo colsuo popolo.

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La proibizione delle immagini di Dio, che è for-se la più antica formulazione del primo comanda-mento, si estende a ogni settore del cosmo vistocome tripartito secondo la cosmologia classicadella Bibbia: nessun elemento del cielo, della ter-ra e dell’abisso primordiale può “riprodurre” ilCreatore. La censura si estenderà, così, a ogni rap-presentazione di creatura vivente e Israele resteràun popolo senza arti pittoriche o plastiche (le ec-cezioni appariranno nel tardo Giudaismo oppurenelle note rappresentazioni dei cherubini dell’ar-ca). Se si vuole cercare l’immagine più splendidae più somigliante a Dio sulla terra non bisogna ri-correre a una statua fredda o a un vitello d’oro,come farà Israele nel deserto (Esodo 32) o comefarà il re d’Israele Geroboamo I nel X sec. a. C. coidue torelli sacri collocati nei santuari di Dan e diBetel (1 Re 12, 28). Si deve, invece, guardare il vol-to di un uomo perché «Dio creò l’uomo a sua im-magine, a immagine di Dio lo creò» (Genesi 1, 27).La religione biblica ha come punto di riferimentosolo la Parola di Dio e l’uomo come segni viventidi Dio; la religione genuina è dinamica, personale,libera, non statica, oggettuale e magica. Perciò è«maledetto l’uomo che fa un’immagine scolpita odi metallo fuso, abominio per il Signore, lavoro dimano d’artefice e la pone in un luogo occulto!»(Deuteronomio 27, 15). Cantava il grande poeta au-striaco Rainer M. Rilke (1875-1926) nel suo Librod’Ore:

Tutti quelli che ti cercano ti tentano,e quelli che ti trovano ti leganoa un’immagine e a un gesto.Noi erigiamo statue davanti a te come pareticosì che già mille muri stanno intorno a te.

Ecco, infine, la terza formulazione di taglio li-turgico del primo comandamento: «Non ti pro-strerai davanti a loro e non li servirai».

“Prostrarsi” è l’atto orientale dell’adorazionecultica. Esso deve avere come termine solo il Diotrascendente: «Colui che offre un sacrificio agli dèioltre che al solo Signore, sarà votato allo stermi-nio» (Esodo 22, 19). Come nel giorno gloriosodell’ingresso nella terra promessa, Israele devesempre ripetere la sua scelta religiosa: «Noi vo-gliamo servire il Signore perché egli è il nostroDio» (Giosuè 24, 18).

A questo punto il testo del primo comanda-mento si espande in una descrizione del vero vol-to di Dio espressa secondo il pittoresco linguag-gio semitico. Dio è qanna’, “geloso”: è questo il pri-mo lineamento della fisionomia di Dio. Egli è in-transigente ed esclusivo (l’idea è desunta dal te-ma dell’amore proprio, della passione per una“proprietà”), non tollera che la sua “eredità” piùpreziosa, l’uomo, gli sia alienata e passi sotto altripadroni. «Il Signore tuo Dio è fuoco divoratore, unDio geloso» (Deuteronomio 4, 24). Successivamen-te, però, si introdurrà una sfumatura di tenerezza

Studio per undipinto di

D. Beccafumi:“L’adorazione del

vitello d’oro”, 1531.Nella pagina a

fianco: il primocomandamento è unatto d’accusa contro

la modernaidolatria, i cui

feticci si chiamanopotere, denaro,

lavoro disumano,sesso, sfruttamento.

Study for a paintingby D. Beccafumi:

“The adoration ofthe golden calf”,

1531. - In the facingpage: the first

commandment isagainst modern

idolatry, the fetishesof which are power,

money, work asslavery, sex,exploitation.

THE FIRSTCOMMANDMENT:

«YOU SHALL HAVENO OTHER GODS...»

The interpretative basis ofthe other commandmentswhich follow in the Decalo-gue are truly in this firstmoral formula. It concernsan affective monotheism.God is not seen as an ideaor abstraction but as a per-son who needs an exclusivetype of devotion. The im-age is reality itself in thedimension of the humanform, and Man must notmake images or idols be-cause God, his God, cannotbe reproduced by any ele-ment of heaven and earth.He is manifested only inthe face of Man who Godhas created in His ownimage and likeness. Thisfirst commandment there-fore also becomes the actof accusation againstmany modern idols such aspower and money.

150 RELIGIONE

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in questa gelosia. Nell’VIII sec. a.C. Osea, il profe-ta dal matrimonio in crisi, la intuirà e l’annunzierà.Israele è una sposa che ha abbandonato suo ma-rito, ma il Signore tradito continua ad attenderlapresso il focolare abbandonato. Il suo dolore nonoffusca la speranza del ritorno: «Ecco la attirerò ame, la condurrò nel deserto e parlerò ancora al suocuore» (Osea 2, 16). L’amore, comunque, non can-cella la giustizia, come attestano le benedizioni ele maledizioni finali riservate a chi accoglie i co-mandamenti e a chi li vìola. Tuttavia a prevalere èsempre l’amore: se è vero che la giustizia del Si-gnore ricorda il peccato “per quattro generazioni”,è altrettanto vero che il suo amore si estende “fi-no a mille generazioni”.

A questo punto si pone un interrogativo mol-to semplice: questa prima e fondamentale “paro-la” antica che significato ha per l’uomo contem-poraneo? Il primo comandamento è un atto d’ac-cusa contro la moderna idolatria i cui feticci sichiamano potere, denaro, lavoro disumano, sesso,sfruttamento. Dio ci ricorda che questi feticci cheadoriamo sono vuoto, nulla, cose che durano co-me la scia di una nave nel mare o come una nu-vola che si dissolve al calore del sole.

Il primo comandamento è un atto d’accusacontro l’indifferenza in cui vive la società del be-nessere: Dio non è combattuto o cancellato, masemplicemente dimenticato e ignorato. È il trionfodi un ateismo comodo che rifiuta i grandi oriz-zonti, che fa abbandonare l’ansia della ricerca l’in-quietudine della coscienza per occuparsi solo diinteressi limitati, per affidarsi solo a piccole palli-de lampade anziché lasciarsi guidare dal sole sfol-gorante, come diceva Sant’Agostino.

Il primo comandamento è un atto d’accusacontro le immagini errate di Dio che noi ci co-struiamo. Dio viene ridotto a un oggetto manipo-labile secondo i nostri interessi e la religione si tra-sforma in superstizione. «Io sono il Dio di Abramo,il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, non il Dio deimorti, ma dei vivi!» (Matteo 22, 32).

Il primo comandamento è un invito alla co-noscenza di Dio. Il “conoscere” nella Bibbia è il ver-bo dell’amore sponsale: una conoscenza, quindi,fatta di intelligenza, di volontà, di passione, di sen-timento e di azione. Non basta conoscere Dio, bi-sogna riconoscerlo, cioè amarlo, anche attraver-so un lungo itinerario di ricerca finché brilli «la stel-la del mattino» (Apocalisse 2, 28).

Il primo comandamento è un invito alla coe-renza spirituale e gioiosa nella vita. Perciò il cultoe la fedeltà che si danno a Dio non devono esseresimili alla tassa versata nell’amarezza al fisco di Ce-sare (Matteo 22, 21).

Il primo comandamento è un invito a scopri-re dietro l’aspetto fragile e persino odioso del pros-simo il profilo di Dio. Dobbiamo amare l’uomo,“immagine di Dio” e luogo dell’incontro vivo conDio. ■

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«Bada, nun biastimà, Pippo, ché Iddio / è omoda risponne per le rime». Così, con la sua ben no-ta ironia lievemente dissacrante, Giuseppe Gioac-chino Belli, il famoso poeta romanesco (1791-1863), ammoniva un suo immaginario interlocuto-re contro i rischi della bestemmia. Il titolo del so-netto era emblematico: Primo, non pijà er nome deDio invano, titolo desunto dal Decalogo biblicoove appunto leggiamo – in realtà come secondocomandamento – il precetto: «Non pronunzierai in-vano il nome del Signore, Dio tuo, perché il Si-gnore non lascia impunito chi pronunzia il suo no-me invano» (Esodo 20,7). Per noi, anche se forsesolo nel ricordo remoto di un’adolescenza ormaistinta e persino estinta, il comandamento è rima-sto impresso nella formulazione essenziale e lapi-daria: «Non nominare il nome di Dio invano».

Tutti, comunque, quando sentono riecheg-giare quelle parole, corrono spontaneamente a uncomportamento ancora diffuso, nonostante il cat-tivo gusto che esso rivela anche agli occhi (o me-glio alle orecchie) di chi non è credente, quello ap-punto della bestemmia, comportamento un tem-po punito anche dalla legislazione civile. Con uncerto sarcasmo un proverbio orientale afferma:«Quando la rabbia ti fa sputare contro il cielo, fi-nisci sempre con lo sputarti in testa». E, nono-stante il nostro luogo comune, espresso anche dal-la locuzione “bestemmiare come un turco”, la pro-fanazione del nome divino è una non esaltante pre-rogativa dell’Occidente: si pensi che in arabo ègrammaticalmente e stilisticamente quasi “im-possibile” bestemmiare, a meno di compiere un ve-ro e proprio errore letterario.

È stato detto tanto sulla bestemmia, sulla vol-garità, sulla sua rivelazione di impotenza, sul suoessere frutto della collera sconfitta, ma anche sulsuo “depotenziamento semantico”, cioè, in parolepovere, sull’essere divenuta spesso solo un inter-calare un po’ ribaldo, un po’ arrogante, un po’ in-fantile e così via. Si è anche ridimensionata, conl’ausilio della psicologia, la sua gravità nei manuali

di teologia morale: talvolta, come si diceva, essanon fiorisce – si fa per dire – sulle labbra come at-tacco cosciente e insolente alla divinità, ma sem-plicemente è espressione di una volgarità socialestrutturale e generalizzata, un’imitazione ingenuache si trasforma in abitudine inconsapevole e co-sì via.

Tutto questo, comunque, non toglie la realtàsostanzialmente miserabile della bestemmia chenon ha nulla della sfida di Prometeo al cielo mache è solo semplice espressione di rifiuto, di rab-bia, di impotenza e, ribadiamolo, di volgarità. Loscrittore francese Julien Green, morto alle sogliedei 97 anni nell’agosto del 1998, in un’intervista di-chiarava: «Quello che caratterizza la nostra epocaè la volgarità, non solo nelle maniere e nel lin-guaggio, ma anche nel modo che essa ha di offri-re un’immagine di se stessa; non lo nasconde, neè molto soddisfatta». Prima ancora che una que-stione teologica, la bestemmia è un problema distile, di umanità matura e dignitosa.

Ma, detto questo, dobbiamo dirottare il no-stro discorso verso una direzione un po’ inattesa.Sopra affermavamo che l’Oriente, soprattutto quel-lo antico, ignora l’atto blasfemo, sia nella sua for-ma più bassa, sia nella sua espressione più alta –si usa ora ricorrere al vocabolo grecizzante bla-sfemia, almeno nel linguaggio colto – di ribellionee di rifiuto di Dio. Facile, allora, è la domanda: senegare o offendere la divinità è alieno dalla men-talità di quell’orizzonte culturale e religioso, checosa significa in realtà il secondo comandamento?Per rispondere al quesito e per indirizzare il pre-cetto del Decalogo verso un nuovo orientamento,è necessaria una puntualizzazione attorno a dueparole capitali della norma biblica.

«Non pronunzierai il nome del Signore...»: ilprimo termine da precisare è proprio il nome di-vino. In ebraico shem, il “nome”, è molto più di unsegno convenzionale dato a cose e persone per co-municare, è la realtà stessa nella sua identità piùprofonda. Per questo chi dà il nome a un esserene è, per certi versi, signore, come è attestato daAdamo che impone il nome agli animali (Genesi2,19-20), affermando in tal modo il suo dominio.Per questo chi conosce il nome di una persona neè in comunione intima e profonda. Se già i Roma-ni dichiaravano con un giuoco di parole che nomenomen, cioè che il nome è un augurio e un indizio,per chi lo porta, del suo destino, anche noi nellaselezione dei nomi dei figli cerchiamo di ricorrere

GIANFRANCO RAVASI

Prefetto della Biblioteca-Pinacoteca Ambrosiana di Milano;Docente nella Facoltà di Teologia dell’Italia Settentrionalee nel Seminario Arcivescovile Milanese

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a valori simbolici di parentela, di gusto, di esteti-ca e – ahimè, per quella volgarità a cui sopra si ac-cennava – di moda (i nomi degli “eroi” delle tele-novelas!).

Più complessa è la questione quando è di sce-na il nome di Dio. E qui dobbiamo idealmente tra-sferirci nelle aspre solitudini del Sinai, in un acro-coro montuoso spazzato dal vento e reso incan-descente dal sole implacabile del deserto. Là unuomo, profugo e solitario, sta marciando su unapista. Quand’ecco, all’improvviso, un cespuglios’incendia. È una combustione di materiale seccoa causa dell’alta temperatura? È un cosiddetto“fuoco di Sant’Elmo”? Chi ci racconta questo epi-sodio celebre che ha per protagonista Mosè, laguida degli Ebrei nella liberazione dall’oppressio-ne faraonica, non ha dubbi: l’autore del capitolo 3

del libro dell’Esodo in questa modesta scena neldeserto vede il segno di una teofania, cioè di un’ap-parizione misteriosa di Dio. Il fuoco, infatti, raffi-gura la divinità: è esterno a noi come il Signore tra-scendente, ma è in noi, ci attraversa con la sua lu-ce e il suo calore, proprio come il Dio vicino e sal-vatore. Ebbene, in quel luogo, sul quale ora si le-vano un tempio e un monastero, quello di S. Ca-terina al Sinai (alla cosiddetta “cappella del rove-to ardente” si accede – come fece Mosè – a piediscalzi), una voce proclama il nome sacro divino,ma strana è proprio la qualità di quel nome chesembra dire e negare, svelare e celare. Ascoltiamodue battute di quel dialogo davanti al rovo incen-diato: «Mosè disse a Dio: Ecco io arrivo dagli Israe-liti e dico loro: Il Dio dei vostri padri mi ha man-dato a voi. Essi però diranno: Come si chiama? Eio cosa risponderò loro? Dio rispose a Mosè: Io so-no colui che sono! Dirai agli Israeliti: Io-sono mi hamandato a voi» (Esodo 3,13-14). Sorprendente èquesto nome affidato non a un sostantivo ma a unverbo, «Io sono».

La tradizione ebraica ricorrerà a quattro con-sonanti, JHWH, per indicare quel nome che si col-lega al verbo hyh, “essere”. Ma curiosamente neimpedirà la pronunzia (Jahweh è una resa voca-lizzata escogitata successivamente; Jehowah oGeova è, invece, sicuramente erronea, anche seusata dai Testimoni di Geova). Al suo posto ancoroggi gli Ebrei leggono ’Adonaj, cioè “Signore”. Per-ché questo silenzio mistico? E quella definizione

«Io sono colui chesono». Così, dalroveto ardente,

nelle aspresolitudini del Sinaidove oggi sorge il

monastero diS. Caterina, unavoce proclamò il

nome sacro divino.

«I am who I am»,thus a voice

announced the HolyName from the

burning bush in theSinai desert, now the

site of the S.Caterina monastery.

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“Io sono colui che sono” è una rivelazione o un ve-lamento del nome di Dio? La risposta è proprio nelsignificato del nome presso gli Orientali. Se essoincarna la realtà di una persona, è ovvio che il no-me di Dio è ignoto e ineffabile, proprio come il suoessere misterioso. Eppure non è un vano e vagoappellativo quel JHWH perché rimanda a un ver-bo, “Io-sono”, a una presenza efficace, a un’azioneche si insinua e opera nella storia degli uomini.

A questo punto dobbiamo spiegare il secon-do termine: «Non pronunzierai il nome del Signo-re invano». In ebraico “invano” è un vocabolo conun valore preciso: shaw’ è qualcosa di “falso”, di“vuoto, vano e inutile”, è la parola con cui si indi-ca l’idolo. Allora scopriamo un altro senso da at-tribuire al secondo comandamento, un senso chelo collega al primo. La vera bestemmia è scambiareil nome-persona di Dio col nome “vano” di una co-sa inutile e impotente. È un attacco sferrato allafalsa religione, agli idoli che ci costruiamo con lenostre mani, alle divinità comode e manipolabili,alle spiritualità simili a omogeneizzati in cui si mi-scelano sapori vaghi. Il filosofo inglese David Hu-me (1711-1776) affermava che «gli errori della filo-sofia sono sempre ridicoli; quelli della religionesono sempre pericolosi».

Ai nostri giorni movimenti, sette, gruppi reli-giosi offrono una specie di fitness dell’anima, uncocktail di sapori spirituali esotici e speziati, un Dioshaw’, cioè “vano” e comodo, che però alla fine ri-sulta impotente e pericoloso, certamente incapa-ce di salvare. Il pensiero corre al vitello d’oro deldeserto, abbagliante nei suoi luccichii, ma desti-nato a essere frantumato e polverizzato. Tutti ab-biamo un “nome vano” che pronunziamo nella su-perstizione e nell’illusione. Tutti ci rivolgiamo aqualche idolo, come confessava Pier Paolo Paso-lini nel suo Usignolo della Chiesa Cattolica, raccol-ta poetica del 1949: «Come gli Ebrei ho anch’io ilmio vitello d’oro / e solo ai suoi incanti / porgo at-tenzione».

Molti idoli contemporanei sono più appari-scenti e clamorosi di quella statua e portano ma-gari il nome di tecnologia, finanza, potenza, pia-cere, consumo, pubblicità... Ma la radice è semprela stessa, l’auto-adorazione dell’uomo o la sosti-tuzione di una cosa al Dio vivente. Una sostitu-zione tragica perché l’uomo è mortale e le cose so-no limitate e non possono salvarsi e salvare. Sa-rebbe come voler uscire dalle sabbie mobili in cuisi sta affondando alzando le mani verso l’alto persollevarsi. Il noto filosofo e psicologo Erich Fromm(1900-1980) nell’opera Voi sarete come dèi sugge-riva una riflessione sull’idolatria che vorremmoporre a suggello di questo commento al secondocomandamento.

Scriveva dunque: «L’uomo trasferisce le suepassioni e qualità nell’idolo. Più egli si svuota, piùl’idolo si ingrandisce e si fortifica. L’idolo è la for-ma alienata dell’esperienza dell’uomo di se stes-

so. Adorandolo, l’uomo si adora... L’idolo è una co-sa e non ha vita. L’uomo, cercando di assomiglia-re a Dio, è un sistema aperto che si avvicina a Dio;l’uomo, sottomettendosi agli idoli, è un sistemachiuso, che diventa egli stesso una cosa. L’idolo èprivo di vita; Dio è vivo. La contraddizione tra ido-latria e il riconoscimento di Dio è, in ultima anali-si, tra l’amore per la morte e l’amore per la vita».

La lotta tra l’idolatria e la fede è sostanzial-mente un confronto tra morte e vita, come dice ilfilosofo tedesco. Proprio come cantava l’anticopoeta ebreo, il Salmista: «Sono un soffio i figlidell’uomo / e illusione i potenti del mondo: / a pe-sarli, insieme, sono aria... / Non vogliate affidarvialla forza, le rapine non portano frutto: / pur se ab-bonda la vostra ricchezza, / mai ponete in essa ilcuore / ... Solo in Dio il mio cuore riposa, / da luiviene la mia speranza. / È mia rupe e mia salvez-za lui solo, / la mia roccia: io più non vacillo» (Sal-mo 62).

Dobbiamo allora ricordare il monito di EliasCanetti, famoso scrittore di origini ebraiche, natoin Bulgaria nel 1905 e morto nel 1994, nel suo ri-tratto impietoso di quella folla di cristiani che no-minano il nome di Dio invano, praticando una re-ligione interessata e idolatrica. Ecco le sue paro-le: «Ogni volta che non ha niente da dire, costuinomina Dio. Possono prendere il loro Dio nellabocca come pane. Possono, quando vogliono, no-minarlo, chiamarlo, proclamarlo. Masticano il suonome, inghiottono il suo corpo. E dicono ancorache per loro non c’è nulla di più alto di Dio. So-spetto che molti di quelli che pregano cerchino diarraffare da Dio una quantità di cose che non vo-gliono cedere mai più, e questo prima che un al-tro le abbia arraffate al loro posto». ■

«… Solo in Dio ilmio cuore riposa, dalui viene la miasperanza. È mia rupee mia salvezza luisolo, la mia roccia:io più non vacillo»(Salmo 62).

«…My soul lies onlyin the Lord. He aloneis my rock andsalvation, I will besteadfast»(Psalm 62).

DO NOT TAKETHE NAME OF THE

LORD IN VAIN

Blasphemy is certainly notto be admired. In the bestcases it shows the vulgarityof our times, but it can beworse. True blasphemy isswitching the God’s namewith the futile name ofsomething useless and im-potent, namely creatingidols in today’s world thatno longer hark back to theGolden Calf. Today’s idols,which we use to take thename of the Lord in vain,are different: technology,money, consumerism andhedonism. In any case weface a type of self-adora-tion of ourselves replacingthe gift of God. The conflictbetween idolatry and faithbecomes a battle betweenlife and death.

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GIANFRANCO RAVASI *

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«La levata, il tram, le quattro ore di ufficio odi officina, la colazione, il tram, le quattro ore dilavoro, la cena, il sonno e lo svolgersi del lunedì,martedì, mercoledì, giovedì, venerdì e sabato sul-lo stesso ritmo... Soltanto, un giorno, sorge il “per-ché” e tutto comincia in una stanchezza coloratadi stupore». Così appare la vita dell’uomo con-temporaneo: un ripetersi inconcludente e insen-sato di azioni e occupazioni, costellato solo daqualche attimo di tregua, anch’esso programma-to e scontato, emblematicamente chiamato week-end, fine settimana, cioè porzione di giorni mono-toni e identici. A dar voce a questo sentimento digrigiore è il grande scrittore ateo francese AlbertCamus (1913-1960) nel brano che abbiamo estrat-to dall’opera Il mito di Sisifo. Egli continua: «Di so-lito viviamo facendo assegnamento sull’avvenire:domani, più tardi, quando avrai una posizione, conl’età comprenderai. Queste incoerenze sonostraordinarie dato che, alla fine dei conti, si trattadi morire».

In una sequenza così priva di soste meditati-ve autentiche è arduo ritrovare un senso alla vita,un “perché” che impedisca di giungere alla con-clusione drammatica dello scrittore francese: «Viè un solo problema filosofico serio: quello del sui-cidio». È in questa atmosfera cupa che vogliamointrodurre – nella nostra costante e progressivalettura del Decalogo – il terzo comandamento, unprecetto positivo e solare, così caro all’ebreo daavergli fatto escogitare questa mini-parabola tra-dizionale: «Dio disse a Mosè: Mosè, io posseggonella mia tesoreria un dono prezioso che si chia-ma sabato. Voglio regalarlo a Israele». Il giorno fe-stivo è, dunque, un tesoro, è una scintilla di lucedeposta nel grigiore delle ore feriali; è un seme chefeconda la terra del lavoro; è uno sguardo verti-cale, levato verso l’alto e l’infinito, capace di in-terrompere l’orizzontalità della nostra visione co-mune e continua.

Quel tesoro è consegnato al Sinai, all’internoappunto dei dieci comandamenti, laddove leggia-mo: «Ricordati del giorno di sabato per santificar-lo: sei giorni faticherai e farai ogni tuo lavoro; mail settimo giorno è il sabato in onore del Signore,tuo Dio: tu non farai alcun lavoro, né tu, né tuo fi-glio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schia-va, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimorapresso di te. Perché in sei giorni il Signore ha fat-to il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, masi è riposato il giorno settimo. Perciò il Signore habenedetto il giorno di sabato e lo ha dichiarato sa-cro» (Esodo, 20, 8-11). Il termine “sabato” è allusi-vamente connesso al verbo shabat, “riposare”. Tut-tavia, è più probabile che originariamente esso sicolleghi al numero sette, in ebraico sheba‘, dondesarebbe semplicemente il “settimo giorno”, fermorestando che – come noto – nella mistica simboli-ca orientale dei numeri, il sette è la cifra della pie-nezza e della perfezione.

Già in Mesopotamia esistevano calendari aritmo settenario regolati dalla divinità lunare chescandiva il tempo. Tuttavia si trattava di uno “spa-zio” confinato e isolato nel tempo, tant’è vero che

«Ogni sette giorni Israele deve ricordarsi che il suo Dio è unDio liberatore…». Nella miniatura del XIV secolo è raffigura-ta la partenza di Israele dall’Egitto.«Every seven days Israel must remember that its God is a liber-ating God…». The XIV century miniature shows the departureof Israel from Egypt.

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esistevano altri giorni intangibili e magici analoghial settimo giorno ed erano considerati nefasti perintraprendere ogni tipo di attività (erano chiama-ti in babilonese umu lemnuti, in pratica “giorni in-toccabili”). Certo, il rischio di isolare sacralmenteil giorno festivo in un’aura di incensi e di prescri-zioni legali, rendendolo una specie di tabù, cir-condato da una siepe di proibizioni, emergerà an-che nella tradizione ebraica.

Un testo giudaico del II secolo a.C., il Libro deiGiubilei, minaccia la pena capitale per la violazio-ne di alcune proibizioni classiche proprie del sa-bato: ad esempio, accendere il fuoco o prepararecibi, norme ancor oggi rispettate dagli Ebrei os-servanti, come ricordano coloro che in Israele tro-vano di sabato ascensori particolari che si spo-stano senza essere comandati manualmente per-ché premere il pulsante è considerato un’accen-sione e quindi una violazione del riposo sabbatico.

Il trattato del Talmud sul sabato elenca 39precetti per una corretta osservanza di quel gior-no sacro. E la tentazione di considerare la giorna-ta festiva solo come uno spazio vuoto da tutto ciòche è profano è stata forte anche nel cristianesi-mo con la distinzione tra lavori servili e liberali. Ilriposo, invece, non deve essere fine a se stesso;tra il tempio ove si celebra il culto sabbatico o do-menicale e la piazza della città – come diceva il teo-logo ortodosso russo Pavel Evdokimov – non cidev’essere una barriera isolazionista, ma una so-glia attraverso la quale corre il vento dello Spiritoche unisce sacro e profano. Il sabato non dev’es-sere un’isola sacrale che disdegna il resto deigiorni; non può essere solo un’area vuota,votata all’inerzia, come ironizzava lostorico Tacito a proposito del sa-bato ebraico, secondo laconcezione che egli neaveva. Il riposobiblico, tral’altro,

è un concetto positivo, non si riduce a mera as-senza di fatica, ma è simbolo di comunione conl’eterno, con l’infinito di Dio, col senso ultimo del-la vita: è questa la requies aeterna che i cristianiaugurano ai loro defunti, una festa piena e senzaappannamento nella luce intramontabile di Dio.

«Dio benedisse il settimo giorno – si legge inGenesi 2,3 al termine del racconto della creazionea cui rimanda anche il precetto del Decalogo sulsabato – e lo consacrò perché in esso aveva ces-sato da ogni lavoro che egli creando aveva fatto».Il settimo giorno è, sì, esodo dal lavoro alienante,dalla tensione quotidiana, ma non è rinuncia allavita quotidiana e al lavoro. Al sabato l’uomo nondomina più le cose, ma ne scopre il senso e lodail Creatore; nel sabato egli intuisce l’armonia delcreato. La logica consumistica del tempo libero co-me è vissuta dalla nostra società contemporaneaè ulteriore alienazione; la logica del settimo gior-no biblico è, invece, l’ingresso nell’unità armoni-ca tra mondo e uomo, tra azione e contemplazio-ne, tra parole e Parola. Una foglia, attraversata dal-la luce del sole, rivela un reticolo di nervature eun ampio tessuto connettivo: se essa fossesolo nervatura, si accartoccerebbe e di-venterebbe un mostro; se fossesolo tessuto, si dissolvereb-be e si affloscerebbe.Così è la settima-na del cre-dente.

Come una foglia habisogno dellenervature persostenersi, così lasettimana delcredente ha bisognodel settimo giornocome di unanervatura chesostiene i sei giorni.

As a leaf needs veinsto support itself, sothe week of thefaithful needs theseventh day asveining supportingthe six days.

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REMEMBERTHE SABBATH

The term Sabbath is linkedto the verb “shabat” (torest). But it can also bederived from “sheba” (sev-en), in Eastern numerologyseven is the symbol of per-fection. The holiday daymust be considered a treas-ure, a light in the grey ofworking days. But rest isnot an end in itself, it mustbe used by man to redis-cover himself and find God.Thus on the seventh dayyou leave an alienating joband daily tensions withoutrenouncing life but, on thecontrary, devoting yourselfto the sense of creationand the harmony of things.This is to sanctify the hol-iday, the Sabbath is madefor man and not man forthe Sabbath said Jesus.The seventh day provides,in time, a taste of eternity.

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Ha bisogno del settimo giorno come di una ner-vatura che sostiene i sei giorni: guai se la settimanafosse priva di questo alimento; ma guai se si igno-rasse il profano chiudendosi in un misticismo eva-nescente!

In questa luce si comprende il monito dei pro-feti biblici che bollavano l’osservanza meramenterituale del sabato: il rito senza la vita è farsa, la li-turgia domenicale senza giustizia negli altri seigiorni è magia. «Non posso sopportare delitto e so-lennità», afferma il Signore in Isaia (1,13). E Gesùdichiarerà in modo lapidario che è il sabato che èfatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato (Mar-co 2,27) e non esiterà a guarire malati anche di sa-bato, pur compiendo un’azione apparentementevietata dalle normative citate sul riposo sabbati-co. Non per nulla nella seconda versione che è of-ferta dalla Bibbia riguardo al Decalogo, quella pre-sente nel capitolo 5 del Deuteronomio, si invita aricordare nel giorno di sabato la libertà donata daDio in occasione dell’esodo dalla schiavitù egizia-na: «Ricordati che sei stato schiavo nel paesed’Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha fatto usciredi là con mano potente e braccio teso; perciò il Si-gnore tuo Dio ti ordina di osservare il giorno delsabato» (Deuteronomio 5,15). Commentava unostudioso tedesco, Hans W. Wolff: «Ogni sette gior-ni Israele deve ricordarsi che il suo Dio è un Dioliberatore, il quale pose fine a una dura schiavitùe che continua a ergersi contro tutte quelle po-tenze che vogliono opprimere il suo popolo».

«Santificare la festa» è, quindi, prima di tuttosantificare se stessi, sostare per contemplare Dioe per penetrare nella propria coscienza, ritrovarela carica per rientrare nei giorni feriali in modo piùpuro e generoso. Come diceva il bel documento di

Giovanni Paolo II Dies Domini, pubblicato il 31maggio 1998, la festa dev’essere per il cristianodies Domini, dies Christi, dies Ecclesiae, dies homi-nis, dies dierum, cioè «giorno del Signore, di Cristo,della Chiesa, dell’uomo e giorno dei giorni».

Queste espressioni illuminano l’intreccio tra“verticalità” (il sacro e il divino) e “orizzontalità”(quotidianità, concretezza, umanità e fraternità)del giorno festivo. È, perciò, con particolare calo-re che raccomandiamo la lettura di quella bellaLettera apostolica che cerca di far riscoprire ilsenso perduto della festa e che potrà essere me-ditata attraverso una delle varie edizioni reperibi-li presso una libreria religiosa.

Noi vogliamo concludere questo commentoal terzo comandamento con due note ulteriori, de-sunte come spunto da quel testo pontificio. La pri-ma riguarda proprio la caratteristica della “dome-nica” come giorno del culto (il termine di originelatina, come è noto, significa “giorno del Signore”).Cerchiamo di esprimere questo aspetto, che po-trebbe essere tratteggiato in molteplici forme, at-traverso una poesia di Carlo Betocchi (1899-1986),intitolata suggestivamente Messa piana: «Quandovado alla messa spesso non prego, / guardo. Sonocome un bambino. Guardo, / e credo. E il Signoremi dice (con povere fiammelle di candela, muta-mente entro me, nel mio guardare), / – Bravo, haifatto bene a venire. E al segreto consenso la co-scienza / s’indebita, riconoscente. E mormora: Ba-sta; così sian tutti, tutti oramai, con me. / Anchequei pochi a cui ho fatto del bene. E solo mi la-scino, / taciti, solo nel mio guardare».

Spesso nei suoi versi questo poeta torinese,formatosi e vissuto a Firenze, ha lasciato fremerel’ansia spirituale, nel quotidiano ha fatto provarei brividi della trascendenza. Questa sua testimo-nianza, certo, non deve essere considerata comeuna guida alla celebrazione eucaristica che devecomprendere il canto, la preghiera, la lettura,l’ascolto, la coralità. Tuttavia c’è un aspetto che èaltrettanto fondamentale e che viene spesso igno-rato: la liturgia è “spettacolo” nel senso nobile deltermine, è un guardare dei segni che ci devono par-lare dell’Altro, di un Oltre che supera la storia. Lapreghiera domenicale come meta terminale deveavere il silenzio della contemplazione pura, del-l’adorazione, dell’abbandono sereno, pacato e pla-cato da Dio. «Io ti conoscevo per sentito dire; orai miei occhi ti vedono», dirà Giobbe al termine delsuo lungo e travagliato itinerario umano e spiri-tuale (42,5). Sarebbe importante creare sempreuno spazio libero e puro di contemplazione, unavera e propria oasi dello spirito. E questo non so-lo per il credente, ma per ogni uomo che vuole ri-trovare se stesso estraendosi dalla superficialitàe dalla frenesia della vita. «Guardo, e credo», diceBetocchi. Essere aperti al mistero che si manife-sta e sentire anche noi quelle parole tenere e sem-plici che Dio ci rivolge: «Bravo, hai fatto bene a ve-

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nire». C’è però un’altra considerazione che vo-gliamo proporre ai nostri lettori a margine del ter-zo comandamento. In un testo giudaico antico, laVita di Adamo ed Eva, si legge questa frase: «Il set-timo giorno è il segno della risurrezione e del mon-do futuro». Un filosofo mistico ebreo contempo-raneo, Abraham J. Heschel (1907-1972), in una suaopera intitolata Il sabato. Il suo significato per l’uo-mo moderno (Rusconi 1972), affermava che «il set-timo giorno fornisce nel tempo un assaggio di eter-nità» attraverso la preghiera, il silenzio e la sere-na contemplazione. Nella Genesi si racconta chel’uomo fu creato come vertice del creato, ma lo funel sesto giorno, e noi sappiamo che il sette è lacifra della perfezione, il sei è segno del limite edell’imperfezione. Ebbene, attraverso la fede e laliturgia del settimo giorno l’uomo può gustare il“tempo” di Dio, il suo riposo di pace e di luce.

«Quando giungerà la nostra ora, moriremorassegnati e lassù diremo che abbiamo sofferto,abbiamo pianto, che la nostra vita è stata cosìamara, e Dio avrà compassione di noi, e tu ed io,zio, zio caro, conosceremo una vita radiosa, stu-penda, meravigliosa. La gioia ci riempirà e noi con-sidereremo con un sorriso commosso la nostrapresente infelicità, e riposeremo. Riposeremo! Tunon hai mai conosciuto la gioia in tutta la tua vi-ta, ma aspetta, zio Vanja, aspetta... Riposeremo, ri-poseremo!».

Forse qualche lettore ha riconosciuto in que-ste parole e nel nome del personaggio la finale deldramma Zio Vanja composto da Anton Cechov nel1896 e rappresentato la prima volta nel 1899. I duecolpi di pistola destinati al suicidio vanno a vuo-to e il protagonista rimane ancora in vita, rice-vendo l’appello a sperare oltre la stessa esistenzae la morte.

A sperare in quel riposo che darà tregua aogni esistenza travagliata.

È curioso notare che in russo la domenica èespressa col vocabolo voskreséné, che letteral-mente significa “risurrezione”. Il cristiano ogni do-menica celebra la risurrezione di Cristo e profes-sa la sua fede nel destino ultimo che l’attende,quel “riposo eterno” a cui sopra abbiamo già ac-cennato, una “vita radiosa, stupenda, meraviglio-sa”, come dice Cechov, perché sarà trasfigurazio-ne del nostro essere in una nuova e perfetta crea-zione. È per questo che il pastore e teologo Die-trich Bonhoeffer, mentre stava andando incontroal martirio sotto i nazisti, che l’avrebbero impic-cato il Sabato Santo del 1945, aveva esclamato:«Riposo di Dio, tu vieni incontro ai tuoi fedeli co-me una sera di festa immensa!». ■

* Prefetto della Biblioteca-Pinacoteca Ambrosianadi Milano; Docente nella Facoltà di Teologia dell’ItaliaSettentrionale e nel Seminario Arcivescovile Milanese

Il settimo giorno èun assaggio dieternità attraversola preghiera, ilsilenzio e la serenacontemplazione.

The seventh day is ataste of eternitythrough prayer,silence and serenemeditation.

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GIANFRANCO RAVASI *

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Nel 1997 Rizzoli ha pubblicato un volume la-pidariamente intitolato Decalogo. In esso un criti-co letterario, Arnaldo Colasanti, vicedirettore del-la rivista Nuovi Argomenti, aveva convocato dieciscrittori italiani invitandoli a “narrare” ciascuno uncomandamento del Decalogo. Sono, così, sorti rac-conti diversi per genere, qualità e pertinenza checercano di attualizzare quelle antiche parole. Co-sì il “Non avrai altro Dio fuori di me” è riportatoda Aurelio Picca all’interno di un ospedale ove unanonna vive le sue ultime ore, mentre Erri De Lucarappresenta il “Non desiderare la donna d’altri” at-traverso la storia personale di una brigatista irri-ducibile e Luca Doninelli nel “Non uccidere” in-troduce la giornata di un killer. Il terzo comanda-mento è offerto da Linda Ferri nel racconto “Il tem-po che resta” da un’angolatura particolare, quella

di una donna gravemente malata che vive il suoultimo compleanno.

Potremmo continuare in questa esemplifica-zione narrativa per tutti i comandamenti. Voglia-mo, invece, segnalare solo un dato generale chetocca in modo particolare il quarto comanda-mento che ora presentiamo: è necessario soffiarvia dal Decalogo la patina polverosa, arcaizzantee “da vecchio confessionale” odorante di muffa. Es-so, come aveva a suo tempo insegnato Enzo Biagicon la sua trasmissione televisiva dedicata ai die-ci comandamenti, colpisce la permanente e co-stante quotidianità, cioè l’universalità dell’uomo edella donna nella sua essenza profonda e nelle suerelazioni capitali.

Ecco, il quarto comandamento apparente-mente sembra arroccarsi su una remota fortezzapatriarcale ove domina il “Padre padrone”, perusare il famoso titolo del libro autobiografico diGavino Ledda, divenuto un fortunato film dei fra-telli Taviani. In questa lettura letteralista del pre-cetto è facile far esplodere la reazione di ribellio-

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THE FOURTHCOMMANDMENT

HONOURTHY FATHER AND

THY MOTHER

The commandments, too,must blow away the con-fessional dust in daily ac-tivities. The fourth com-mandment, in particular,deserves a more modernand universal interpreta-tion today. It does not, infact, mean a moment ofsubmission to a domineer-ing father. Honouring goesbeyond obedience and re-spect. It becomes an obli-gation to help and supportone’s parents when theirlife is drawing to a close.The father must be treatedwith sympathy and, in ex-change for this patience,God will forgive us our sins.Indirectly, respect for par-ents also represents a con-structional relationshipwith the previous genera-tion, in the perspective ofa more just society.

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ne, ben espressa dal paradossale “Disonorate il pa-dre!”, motto ideale della contestazione di qualchetempo fa.

In realtà, come vedremo, il comandamento èben più “moderno” e universale, una volta com-preso andando “al di là del versetto”, cioè della let-tera, come usava dire il filosofo francese israelitaEmmanuel Lévinas. Un altro filosofo, il tedescoMartin Heidegger, ci ammoniva che “interpretareè dire il non detto” di un testo, cioè andare oltrela superficie scavando nella profondità del signifi-cato ultimo e recondito. Tuttavia dobbiamo parti-re dal dettato della pagina biblica. In essa leggia-mo questo appello: Onora tuo padre e tua madre,come il Signore tuo Dio ti ha comandato, perché latua vita sia lunga e tu sii felice nella terra che il Si-gnore tuo Dio ti dà. Così si legge nel Decalogo dellibro biblico del Deuteronomio (5,16), mentrenell’altra redazione, quella dell’Esodo (20,12), si hain modo più essenziale: Onora tuo padre e tua ma-dre perché si prolunghino i tuoi giorni nella terra cheil Signore tuo Dio ti dà.

Notiamo innanzitutto che questo è, col terzoriguardante il riposo festivo, un comandamentoesposto in forma positiva, a differenza degli altriprecetti del Decalogo martellati da un severo“Non”, seguito dall’imperativo della proibizione.Inoltre è l’unico comandamento ad essere seguitoda una benedizione (la vita lunga e felice). Questofatto indica il rilievo attribuito all’“onorare” i ge-nitori. È altrettanto significativo notare che, no-nostante l’antica società patriarcale maschilista,padre e madre sono messi sullo stesso piano co-me degni di tutela e rispetto, cosa che non acca-de, ad esempio, in uno dei testi fondamentali deldiritto dell’antico Vicino Oriente, il celebre Codi-ce di Hammurabi (verso il 1750 a.C.). Il verbo cen-trale è quell’“onorare”, in ebraico kabbed, che me-rita particolare attenzione per il suo valore speci-fico che va ben oltre l’obbedienza o il vago ri-spetto.

Si pensi, infatti, che lo stesso verbo viene usa-to per esprimere anche la “venerazione” nei con-fronti di Dio e quindi il culto e la vita religiosa,tant’è vero che nel libro del profeta Malachia si ap-paiano i doveri verso Dio e verso i genitori: «Il fi-glio onora suo padre e il servo rispetta il padrone.Se io sono padre, dov’è l’onore che mi spetta?...Dice il Signore degli eserciti» (1,6). Ma c’è ancheuna dimensione molto concreta in questo verbo“onorare” e che può essere sintetizzata nell’obbli-go del sostentamento dei genitori. Scriveva unostudioso della Bibbia, Antonio Bonora: «In una so-cietà dove gli anziani non godevano dell’assicura-zione o della pensione, i figli devono dare l’‘ono-rario’ ai genitori vecchi, cioè garantire loro il so-stentamento, il necessario per vivere e, alla loromorte, anche un’onorevole sepoltura».

Su questa scia devono essere allegati altri te-sti biblici che sottolineano vari aspetti degli ob-

blighi derivanti dal quarto comandamento. Si no-ti, ad esempio, la durezza con cui l’antico Israelebiblico condannava la violazione di questi obbli-ghi: «Colui che percuote suo padre o sua madresarà messo a morte. Colui che maledice suo padreo sua madre sarà messo a morte» (Esodo 21,15-17).Il profeta Ezechiele si lamenta con la città di Ge-rusalemme perché «in te si disprezza il padre e lamadre» (22,7). Nel libro dei Proverbi si condanna«l’occhio che guarda con scherno il padre e di-sprezza l’obbedienza della madre» (30,17) o «chideruba il padre o la madre, dicendo: Non è pec-cato! Ebbene, costui è compagno dell’assassino»(28,24); si colpisce anche «chi rovina il padre o fafuggire la madre, rivelandosi un figlio disonoratoe infame» (19,26); «chi maledice il padre e la ma-dre vedrà spegnersi la sua lucerna nel cuore del-le tenebre» (20,20). In sintesi si esorta ad «ascol-tare tuo padre che ti ha generato e a non disprez-zare tua madre quando è vecchia» (23,22).

Forte e lapidario è il monito del libro del Deu-teronomio: «Maledetto chi maltratta il padre e lamadre!» (27,16), addolcito dal Levitico: «Ognunorispetti sua madre e suo padre» (19,3). Ma è un sa-piente biblico vissuto nel II sec. a.C., il Siracide, aoffrire il più intenso e appassionato commento alquarto comandamento: «Il Signore vuole che il pa-dre sia onorato dai figli, ha stabilito il diritto del-la madre sulla prole. Chi onora il padre espia ipeccati; chi riverisce la madre è come chi accu-mula tesori. Chi onora il padre avrà gioia dai pro-pri figli e sarà esaudito nel giorno della sua pre-ghiera. Chi riverisce il padre vivrà a lungo; chi ob-bedisce al Signore dà consolazione alla madre. Chiteme il Signore rispetta il padre e serve come pa-droni i genitori. Onora tuo padre a fatti e a paro-le, perché scenda su di te la sua benedizione. La

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benedizione del padre consolida le case dei figli,la maledizione della madre ne scalza le fonda-menta. Non vantarti del disonore di tuo padre,perché il disonore del padre non è gloria per te;la gloria di un uomo dipende dall’onore del padre,vergogna per i figli è una madre nel disonore. Fi-glio, soccorri tuo padre nella vecchiaia, non con-tristarlo durante la sua vita. Anche se perdesse ilsenno, compatiscilo e non disprezzarlo, mentresei nel pieno vigore. Poiché la pietà verso il padrenon sarà dimenticata, ti sarà computata a scontodei peccati. Nel giorno della tua tribolazione Diosi ricorderà di te; come fa il calore sulla brina, siscioglieranno i tuoi peccati» (3,2-16).

Anche Gesù sarà severo nei confronti di ogniviolazione di questo comandamento, soprattuttoquella codificata dalla tradizione giudaica e notasotto il termine qorban (“realtà sacra”). Ipocrita-mente si dedicava in voto a Dio una cifra, così daessere esentati dal dovere del sostentamento deigenitori anziani. Gesù con veemenza dichiara: «Per-ché voi trasgredite il comandamento di Dio in no-me della vostra tradizione? Dio ha detto: Onora ilpadre e la madre e inoltre: Chi maledice il padre ela madre sia messo a morte. Invece voi asserite:Chiunque dice al padre o alla madre: Ciò con cuiti dovrei aiutare è offerto a Dio, non è più tenutoa onorare suo padre o sua madre. Così avete an-nullato la parola di Dio in nome della vostra tra-dizione. Ipocriti!» (Matteo 15,3-7).

Sulla duplice dimensione che il rapporto pa-dri-figli comporta interviene, invece, Paolo quan-do agli Efesini scrive: «Figli, obbedite ai vostri ge-nitori nel Signore, perché questo è giusto. Onoratuo padre e tua madre: è questo il primo coman-

Il comandamentosui genitori è

soltanto la punta diun iceberg. La

famiglia, infatti,rappresenta anche

altre forme naturalidi comunità e di

autorità, soprattuttola comunità del

popolo.

The commandmentregarding parents is

only the tip of aniceberg. The family,

in fact, alsorepresents othernatural forms ofcommunity and

authority, especiallythe community of

peoples.

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damento associato a una promessa: perché tu siafelice e goda di una vita lunga sopra la terra» (6,1-3). Proprio sulla base delle parole dell’Apostolo,dobbiamo scavare più in profondità in questo co-mandamento per scoprire l’ampiezza del suo oriz-zonte.

Giustamente uno studioso, J. Becker, osser-vava che «il comandamento sui genitori è soltan-to la punta di un iceberg. La famiglia, infatti, rap-presenta anche altre forme naturali di comunità edi autorità, soprattutto la comunità del popolo».

È per questo che del quarto comandamentosono possibili altre interpretazioni più estensive epersino attuali. C’è innanzitutto quella sociale chevede nei genitori il simbolo del retto funziona-mento delle relazioni familiari, tribali, comunitariee, quindi, dell’intera vita socio-politica. In questaluce il precetto esalta il diritto-dovere di parteci-pare alla costruzione di una società armonica egiusta.

C’è un’altra dimensione che potremmo chia-mare tradizionale. I genitori incarnano la genera-zione precedente coi suoi valori che devono es-sere trasmessi e attualizzati. Nell’onore da rende-re ai genitori è, allora, implicito anche il ricono-scimento della loro funzione di maestri, di tutoridella tradizione, dell’eredità morale di una famigliae di un popolo, dei valori spirituali e religiosi.L’onore reso ai genitori in questa luce dovrebbecontribuire a edificare una società sana e coeren-te. Per questo è grave la responsabilità del ge-nitore come maestro: egli non deve lasciarsitentare dallo scimmiottare i giovani igno-rando la sua missione. Purtroppo, come no-tava il filosofo Friedrich W. Nietzsche, «ipiù grandi sbagli nel giudicare una per-sona li fanno proprio i suoi genitori», in-capaci di educarla. C’è, quindi, nel co-mandamento un cenno implicito anche al-la responsabilità del padre e della madreche, come diceva il Concilio Vaticano II,«devono essere per i figli i primi maestridella fede» (Lumen Gentium n. 11). Il poe-ta latino Giovenale (I sec. d.C.) scriveva:«I vizi che i genitori trasmettono ai figlisono numerosissimi. I cattivi esempiche vengono dalla famiglia corrom-pono più in fretta e più a fondo, per-ché penetrano nell’animo attraver-so modelli autorevoli».

Infine, lo studioso tedesco R.Albertz ha identificato nel quartocomandamento una dimensioneche chiameremo psico-fisica: il fi-glio, ormai autonomo e adulto, di-venuto a sua volta responsabiledella patria potestà, è invitato asostenere moralmente ed econo-micamente i genitori, radici dellasua vita, mentre oramai essi si av-

viano verso il viale del tramonto. È questo un ca-pitolo particolarmente rilevante per la nostra so-cietà che assiste all’invecchiamento di strati sem-pre più vasti e si trova impreparata a seguire e adassicurare una vita dignitosa all’anziano. Certi ri-coveri, simili a lazzaretti, la stessa realistica dimi-nuzione delle forze lavorative giovani, l’allunga-mento dell’età media della vita, la frenesia dell’esi-stenza moderna rendono sempre più importantee spesso drammatica la riflessione e l’impegno chepromanano da questo precetto decalogico. Ma ildiscorso s’allargherebbe a dismisura coinvolgen-do aspetti etici, economici, psicologici, politici esociologici. Noi ci accontentiamo di concluderecol detto amaro dello scrittore inglese Oscar Wil-de: «I figli cominciano con l’amare i loro genitori;quando crescono, li giudicano e il più delle volteli dimenticano». ■

* Prefetto della Biblioteca-Pinacoteca Ambrosianadi Milano; Docente nella Facoltà di Teologia dell’ItaliaSettentrionale e nel Seminario Arcivescovile Milanese

La nostra societàassisteall’invecchiamentodi strati sempre piùvasti e si trovaimpegnata adassicurare una vitadignitosaall’anziano.

Our society helpsthe ageing of anincreasingly vaststrata of society andis committed toensure a dignifiedlife to the elderly.

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Lapidario e potente nella sua formulazioneimperativa, il quinto comandamento esalta la sa-cralità della vita umana. Già la prima alleanza chesi era stipulata tra Dio e la nuova umanità, gene-rata dal lavacro purificatore del diluvio e incarna-ta emblematicamente da Noè, era retta da questaclausola: «Chi sparge il sangue dell’uomo / dall’uo-mo il suo sangue sarà sparso, / perché a immagi-ne di Dio / Egli ha fatto l’uomo» (Genesi 9,6). È fa-cile comprendere come, al di là del dettato così es-senziale ed elementare del comandamento, si an-nodino tra loro tante questioni complesse, dive-nute ancor più incandescenti e aggrovigliate ai no-stri giorni: pensiamo solo all’aborto, all’eutanasia,alla pena di morte, alla guerra...

Ovviamente non ci è possibile in questo bre-ve saggio su un tema così delicato costruire unasistematica e completa “morale della vita” o bioe-tica. Ci accontenteremo, perciò, di illustrare la ba-se di questo precetto e al massimo di fare una so-la applicazione concreta a mo’ di esempio, per

quanto concerne la legittima difesa. Partiamo, dun-que, dalla frase biblica che in ebraico suona così:Lo tirsah (Esodo 20,13). Gli studiosi da tempo han-no fatto notare una cosa curiosa: il verbo usato perindicare l’“uccidere” non è quello comune, ma ilraro rasah (si pronuncia, però, razah con una zaspra) che di per sé dovrebbe essere reso comese fosse un “commettere assassinio”. E qui ci im-battiamo in una questione capace di sollevare ainostri occhi anche qualche imbarazzo.

Ciò che il quinto comandamento nel suo te-nore letterale condanna in modo inequivocabile èl’azione violenta su un soggetto privo di difesa.Pensiamo, tanto per fare un paio di esempi bibli-ci, innanzitutto all’orribile uccisione per stuprocollettivo compiuta dagli abitanti del villaggio diGabaa nei confronti della seconda moglie di un le-vita ospite in quel piccolo centro della tribù ebrai-ca di Beniamino. Quella povera vittima riesce so-lo a trascinarsi fino alla soglia della casa ove eraospitato il marito, per morire. All’alba il levita, difronte a questo delitto orrendo, reso ancor piùgrave dalla violazione del diritto orientale di ospi-talità, prenderà quel cadavere, lo porterà a casasua nella regione montuosa centrale di Efraim e lotaglierà “membro per membro, in dodici pezzi,spedendoli poi a tutto Israele”, cioè alle dodicitribù ebraiche perché, di fronte a questa “lettera”di carne e di sangue, reagissero in modo sdegna-to. Si legga l’intera vicenda nell’impressionantecap. 19 del libro biblico dei Giudici.

Un altro esempio clamoroso di violazione delprecetto “Non uccidere” nel senso sopra indicatosarebbe l’assassinio perpetrato dalla coppia rega-le Acab e Gezabele: il contadino Nabot, che nonvuole vendere il terreno dei padri sito presso ilparco della villa estiva del re, con un processo-far-sa è condannato a morte così da poter annetterequell’appezzamento ai possedimenti del sovrano.Nel silenzio timoroso e complice dei sudditi si le-va solo la voce del profeta Elia che – nel raccontodel cap. 21 del Primo Libro dei Re – urla al sovra-no: «Hai assassinato e ora usurpi! Per questo ti di-ce il Signore: Nel punto ove lambirono il sanguedel contadino Nabot, i cani lambiranno anche il tuosangue» (versetto 19). Similmente nel libro del Deu-teronomio si legge: «Maledetto chi uccide (rasah)il suo prossimo indifeso!» (27,24).

Tuttavia – e questo è l’elemento imbarazzan-te e fin “scandaloso” – nell’Antico Testamento cisono casi in cui le uccisioni non sono condanna-

GIANFRANCO RAVASI *

“Caino”. Scultura diD. Trentacoste, GalleriaNazionale d’ArteModerna, Roma.“Caino”. Sculptureby D. Trentacoste,Galleria Nazionaled’Arte Moderna,Rome.

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te, anzi, sono per certi versi raccomandate o im-poste: pensiamo alla cosiddetta “guerra santa”,che comprendeva la strage e la distruzione radi-cale dei nemici (l’“anatema”, in ebraico herem);oppure pensiamo alla pena di morte, che è sanci-ta in alcuni casi in modo formale, o ancora alla “leg-ge del taglione” che all’offesa risponde con un’of-fesa proporzionata e all’omicidio con un atto pa-rallelo per ristabilire la giustizia. È per queste im-portanti eccezioni che nel quinto comandamentosi usa il verbo specifico rasah e non quello più am-pio e generale riguardante le uccisioni.

È stato spiegato a più riprese dagli studiosiche questi limiti dell’Antico Testamento sono le-gati a un dato fondamentale della Bibbia. Essa nonè una collezione di tesi teologiche e morali perfettee atemporali, come sono i teoremi di geometria,bensì è la storia di una manifestazione di Dio all’in-terno delle vicende umane. È, dunque, un percor-so lento di illuminazione dell’umanità perché escadalle caverne dell’odio, dell’impurità, della falsitàe s’incammini verso l’amore, la coscienza limpidae la verità. S. Agostino definiva appunto la Bibbiacome “il libro della pazienza di Dio” che vuole con-durre gli uomini e le donne verso un orizzonte piùalto. Si legge, infatti, nel libro della Sapienza: «Pre-valere con la forza a te, Signore, è sempre possi-bile perché nessuno può opporsi alla potenza deltuo braccio... Eppure tu risparmi tutte le cose per-

ché sono tue, Signore, amante della vita... Con ta-le modo di agire hai insegnato al tuo popolo cheil giusto deve amare gli uomini» (11,21-26; 12,19).

È per questo che già nell’Antico Testamentosi hanno pagine di condanna aspra della violenza.Si legge nel Levitico: «Non coverai nel tuo cuoreodio contro tuo fratello... Non ti vendicherai e non

La macchina legaleaustraliana perl’eutanasia.Quest’ultima, comel’aborto, la pena dimorte e la guerra, èuna delle complessee incandescentiquestioni che siannodano al quintocomandamento.

The Australian legalmachine foreuthanasia. Likeabortion, the deathpenalty and war,this is one of thecomplex and heatedissues linked to thefifth commandment.

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serberai rancore contro i figli del tuo popolo, maamerai il prossimo tuo come te stesso» (19,17-18).Anche per quanto riguarda la pena di morte – cheè ancor oggi praticata da ben 76 Stati, tra i qualispiccano in un triste e tristo primato la Cina (1.876esecuzioni nel 1997) e gli Stati Uniti (68 esecuzio-ni nel 1998), come risulta dal dossier La pena dimorte nel mondo, edito da Marsilio – si hanno ri-serve significative.

Pensiamo a quella frase che si legge in Gene-si 4,15 e che è divenuta il motto del movimento“Nessuno tocchi Caino” contro la pena di morte:«Il Signore impose a Caino un segno perché non locolpisse chiunque l’avesse incontrato». Anche lavita del criminale è sotto la giurisdizione esclusi-va e suprema di Dio, proprio per il carattere tra-scendente dell’uomo e della donna, creati «a im-magine e somiglianza di Dio» (Genesi 1,26-27). Con-tro le tentazioni forcaiole che stanno risorgendoai nostri giorni, anche in Italia, la patria di CesareBeccaria, il grande antesignano dell’abolizionismocon la sua opera Dei delitti e delle pene (1764), bi-sognerebbe ricordare ai credenti le parole divineriferite dal profeta Ezechiele: «Forse che io ho pia-cere della morte del malvagio o non piuttosto chedesista dalla sua condotta e viva? Io non godo del-la morte di chi muore!» (18,23-32).

Ma il progressivo sviluppo del quinto co-mandamento verso la condanna di ogni uccisionee violenza raggiungerà il suo vertice con Cristo.Certe sue parole sono più taglienti di quella spa-da che egli ha ordinato a uno dei suoi discepoli dirimettere nel fodero, dopo aver troncato l’orec-chio del servo del sommo sacerdote, nella nottedrammatica dell’arresto di Gesù al Getsemani: «Ri-metti la spada nel fodero perché tutti quelli chemettono mano alla spada periranno di spada»(Matteo 26,52). Cristo, infatti, nel suo celebre “Di-scorso della Montagna” aveva esplicitamente di-chiarato: «Avete inteso che fu detto: Occhio per oc-chio e dente per dente. Ma io vi dico di non opporvial malvagio; anzi, se uno ti percuote la guancia de-stra, tu porgigli anche l’altra; e a chi ti vuol chia-mare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia an-che il mantello; e se uno ti costringerà a fare unmiglio, tu fanne due con lui... Avete inteso che fudetto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo ne-mico. Ma io vi dico: Amate i vostri nemici e pre-gate per i vostri persecutori!» (Matteo 5,38-44). Tut-tavia, lasciando da parte le ormai obsolete di-squisizioni sulla guerra giusta e ingiusta, c’è dacomporre queste parole di Gesù con la tradizio-nale dottrina della legittima difesa alla quale ancheil recente (1992) Catechismo della Chiesa Cattolicariserva un intero capitoletto (nn. 2263-2267). Inol-tre, nel n. 2243 dello stesso documento, si affron-ta anche la resistenza all’oppressione del poterepolitico e nei nn. 2302-2317 si ha una forte apolo-gia della pace, osservando però che «si devonoconsiderare con rigore le strette condizioni che

giustificano una legittima difesa con la forza mili-tare». È in questo testo della Chiesa che ritrovia-mo un passo famoso della Summa Theologiae diTommaso d’Aquino (II-II, 64,7): «Se per difendersisi esercita una violenza più grande del necessario,questo sarà illecito. Ma se si respinge la violenzain modo misurato, è lecito... L’azione di difender-si può causare un duplice effetto: l’uno è la con-servazione della propria vita, l’altro la mortedell’aggressore. Il primo soltanto è voluto; il se-condo non lo è».

Al di là della difficoltà dell’applicazione equi-librata e corretta della regola tomistica (e classi-ca) dell’autodifesa, come comporla col principioevangelico della non-violenza assoluta? La rispo-sta è proprio nella struttura della fede cristiana le-gata all’Incarnazione e quindi alla storia, strutturaa cui si faceva già sopra cenno. I princìpi devonoessere “incarnati” nella concretezza dei casi chespesso sono molto più intricati e complessi (sipensi – per fare un esempio di altro genere – all’ap-pello evangelico alla povertà, al distacco, alla con-divisione dei beni all’interno di una società eco-nomica com’è l’attuale). Si devono, perciò, trova-re vie meno dannose per il principio ma anchecompatibili con determinati contesti speciali e par-ticolari.

Gandhi fu uncampione della

non-violenza;con la sua tenace

opera dipacificazione

ottenne risultatiimpensabili.

Gandhi was achampion ofnon-violence;

his unfalteringpeacemaking missionled to inconceivable

results.

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FIFTHCOMMANDMENT:“DO NOT KILL”

This a tragically topical is-sue, considering so manyattacks against the sacred-ness of life: abortion, eutha-nasia, the death penaltyand war. The Bible is abso-lute in its choice of words:it commands with preci-sion: “do not commit mur-der”, that is, do not com-mit a violent act againstanyone who is defenceless.Christ teaches us to turnthe other cheek when harm-ed. But self-defence is al-lowed only when aimed atmaking the aggressorabandon his attack, ratherthen taking revenge on himafter the immediate reac-tion. Even those who havecommitted a crime are underthe protection of God, theonly judge.

RELIGIONE 71

Così si può ammettere una reazione di difesanel caso in cui essa sia l’unica strada possibile perimpedire l’aggressione, l’ingiustizia, l’oppressione:l’atto violento è finalizzato non a punire l’aggres-sore, ma a farlo desistere e a bloccarlo. In situa-zioni eccezionali è, dunque, da considerarsi legit-timo il ricorso alla forza purché esso sia per la di-fesa dei diritti dei deboli, e non per incrementareinimicizie e odio, quanto piuttosto per estinguer-li. Riconosciuta la legittimità di questa tutela di sée dei valori della persona (vita e libertà) – legitti-mità fondata anche sul principio dell’“amare ilprossimo come se stessi” (esiste, quindi, un leci-to “amare se stessi”) – è, però, necessario per ilcristiano ribadire con forza il principio dell’“ama-re il nemico” e, quindi, della non-violenza. È ciò cheanche S. Paolo faceva scrivendo ai Romani: «Vin-ci il male con il bene!» (12,21). È ciò che GiovanniPaolo II fa sistematicamente coi suoi appelli alla«pace possibile, doverosa, necessaria» e alle vie al-ternative della trattativa, soprattutto in un conte-sto politico così complesso com’è l’attuale.

Anche se apparentemente “utopica” e, pro-prio per questo, tesa verso un superamento co-stante delle situazioni concrete, la non-violenza è,in realtà, molto più efficace di quanto politici e mi-litari vogliono farci credere: basti solo pensare aGandhi o a Martin L. King. In un mondo che spes-

so sbrigativamente si orienta verso soluzioni dimorte, di violenza, di prevaricazione, il seme e illievito di questo principio cristiano devono esse-re ancora deposti nel terreno della storia. In que-sta luce il quinto comandamento acquista un ri-lievo altissimo nella sua forma più pura e assolu-ta. Esso si trasforma in un vigoroso appello alla co-scienza degli individui e dei popoli (non solo cri-stiani), come ci ha ricordato Giovanni Paolo IInell’enciclica Evangelium Vitae. Purtroppo, infatti,osservava il Papa, «il XX secolo verrà consideratoun’epoca di attacchi massicci contro la vita, un’in-terminabile serie di guerre e un massacro perma-nente di vite umane innocenti. I falsi profeti e i fal-si maestri hanno conosciuto il maggior successopossibile».

Dobbiamo, allora, con coraggio ribadire la tu-tela della vita umana in tutti i suoi gradi e forme edobbiamo estirpare da noi stessi il seme veleno-so dell’odio. Il famoso predicatore domenicano escrittore Henri-Dominique Lacordaire (1802-1861)ammoniva: «Volete essere felici per un istante?Vendicatevi! Volete essere felici per sempre? Per-donate!». ■

* Prefetto della Biblioteca-Pinacoteca Ambrosianadi Milano; Docente nella Facoltà di Teologia dell’ItaliaSettentrionale e nel Seminario Arcivescovile Milanese

Martin Luther King(al centro) predicala non-violenzaai convenuti a unamarcia della pacenel 1966.

Martin Luther King(centre) preachesnon-violenceto those presentat the peace marchin 1966.

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Alla fine dello scorso anno, quasi a suggellodell’evento giubilare, il Teatro di Roma ha messoin scena, con la regia del suo stesso direttore ar-tistico Mario Martone, l’opera I dieci comanda-menti di Raffaele Viviani, un autore (e attore) dicommedie e drammi popolati da efficacissimemacchiette, desunte da quell’arsenale di figure,personaggi, vizi e virtù che è da sempre Napoli (Vi-viani, infatti, era nato a Castellammare di Stabia nel1888 ed era morto a Napoli nel 1950). Ancora unavolta, sia pure sotto il velo dell’ironia bonaria e delcolore, quelle dieci parole sacre e antiche sono tor-nate ad essere segno di moralità e divieto di im-moralità.

Nel nostro itinerario all’interno del Decalogosiamo giunti ormai al sesto comandamento che noitutti abbiamo in mente nella formulazione che noncorrisponde all’originale biblico. Infatti, interroga-

ti sul contenuto di questo comandamento, ri-sponderemmo così: «Non commettere atti impu-ri!». Questo, tra l’altro, era il titolo di un filmettinoche il regista Giulio Petroni aveva girato nel 1972,nella linea di quel “pecoreccio” nazionale allora invoga. Qualche lettore più anziano ricorderà anchela più paludata formulazione attraverso un verboormai obsoleto: «Non fornicare!». Il concetto era,comunque, sempre chiaro: siamo in presenza del-la cosiddetta morale sessuale, delle sue spessocomplicate articolazioni che corrispondono allealtrettanto complicate e molteplici perversioni ses-suali (basterebbe solo sfogliare l’ormai datata maemblematica Psychopatia sexualis di Kraft-Ebing o,al contrario, i vecchi manuali di morale sessuale).

Senza voler accantonare questo aspetto, ilprecetto decalogico ha, però, un contenuto pri-mario che è ben espresso nella versione «Non com-mettere adulterio». Nell’originale ebraico del co-mandamento nel libro biblico dell’Esodo (20,14) oin quello parallelo del Deuteronomio (5,18) ci in-contriamo con un verbo piuttosto raro e “tecnico”,

MONS. GIANFRANCO RAVASI *

Marc Chagall: “Il Cantico dei Cantici III”, 1960, olio su tela,cm 149 x 230. Nel Cantico dei Cantici si celebra la donazionetotale e assoluta che compie in pienezza l’aspetto positivo delcomandamento.

Marc Chagall: “The Song of Songs III”, 1960, oil on canvas, 149x 230 cm. The Song of Songs celebrates the total and absolutegift, which completely fulfils the positive aspect of the com-mandment.

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na’af: esso non si riferisceall’area sessuale generale ben-sì a quella specifica del matri-monio.

Noi abbiamo già avutooccasione di dire che i co-mandamenti decalogici sonoformulati all’imperativo nega-tivo apodittico: «Non fare …!».In realtà, nel linguaggio semi-tico, essi non hanno solo lafunzione di vietare un com-portamento in modo netto maanche di stimolarne in formaaltrettanto marcata l’aspettopositivo.

Nel nostro caso, allora,avremmo l’esaltazione del ma-trimonio, dei suoi diritti e del-la sua dignità. Ma prima di svi-luppare questa dimensionepositiva, facciamo un cenno alrovescio oscuro della meda-glia, cioè l’adulterio che quiviene chiaramente condanna-to. Certo, noi sappiamo che laRivelazione biblica non è unasequenza di perfetti teoremiteologici ma è “incarnata” nel-la storia e, quindi, ha una suaevoluzione verso mete più al-te. Ora, se consideriamo la le-gislazione matrimonialedell’Antico Testamento, ci tro-viamo di fronte a vari condi-zionamenti legati a quella cul-tura e a quella società antica.

Così, data la concezionemaschilista dell’antico Vicino Oriente, in quellenorme la donna è sfavorita e la presunzione di col-pa cade prima di tutto su di lei. È ovvio che in ta-le prospettiva non viene colpita seriamente la re-lazione dell’uomo sposato con una nubile o unaprostituta. Inoltre, come è noto, vigeva l’istituto deldivorzio che aveva una codificazione nel libro delDeuteronomio: «Quando un uomo ha preso unadonna e ha vissuto con lei da marito, se poi av-viene che essa non trovi grazia ai suoi occhi, per-ché egli ha trovato in lei qualche cosa di vergo-gnoso, scriva per lei un libello di ripudio e glieloconsegni in mano e la mandi via dalla casa» (24,1).

Non c’è bisogno di insistere sull’evidente con-dizione di sfavore in cui si veniva a trovare la mo-glie in questa procedura sbrigativa e basata suuna motivazione così generica e aleatoria (“nontrovar grazia agli occhi” del marito, oppure “tro-vare qualcosa di vergognoso” nella donna).

La tradizione giuridica successiva del giudai-smo cercherà di precisare questi commi, atte-standosi su due fronti antitetici, quello rigorista

che ammetteva il divorzio solo in caso di adulte-rio e quello lassista che lo concedeva per qualsiasigiusta causa, compresa una minestra scotta e lanoia di vedere sempre la stessa faccia! Inoltre, nonessendo soggetto giuridico riconosciuto, la donnanon solo non poteva aprire una causa di divorzioma neppure appellare contro una sentenza di scio-glimento del suo matrimonio. Si capisce allora lareazione di Gesù che vuole riportare il matrimo-nio alla sua dignità e grandezza originaria di do-nazione totale d’amore, come insegnava la Genesi(«i due saranno una carne sola»): «Per la durezzadel vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudia-re le vostre mogli, ma da principio non fu così»(Matteo 19,8).

Il sesto comandamento, sia pure coi limiticontestuali a cui si è fatto cenno, contiene una net-ta condanna dell’adulterio. Naturalmente, in uncontesto tribale, questa normativa era orientata atutelare non solo la compattezza del clan familia-re ma anche la legittimazione dei discendenti a li-vello giuridico e a fini ereditari. Quella che i cre-

Paolo Veronese:“L’unione felice e lapace fra i coniugi”,1565, LondraNational Gallery.Questa allegoriadella felice unioneconiugale puòraffigurare ilcomandamento cheproibisce l’adulterio.

Paolo Veronese:”Happy Union”,1565, LondonNational Gallery. Thisallegory of the happymarried union canrepresent thecommandment thatprohibits adultery.

RELIGIONE 125

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denti considerano Parola diDio rivela, così, un volto con-creto che non dobbiamo di-sprezzare: è il tentativo di sal-vaguardare al minimo alcunivalori, nella speranza di com-prendere la debolezza uma-na e di spingerla verso tra-guardi più alti.

E questi traguardi più al-ti sono delineati in pagine distraordinaria intensità e fra-granza. Pensiamo solo allosplendore del Cantico deiCantici che è la celebrazionedell’“amore forte come lamorte” (8,6) e della donazio-ne totale e assoluta che com-pie in pienezza l’aspetto po-sitivo del comandamento: «Ilmio amato è mio e io sonosua … Io sono del mio amatoe il mio amato è mio», proclama la donna del Can-tico (2,16; 6,3). I profeti andranno oltre ed esalte-ranno nell’amore nuziale un nuovo valore, quellodi essere simbolo dell’amore divino per l’umanità.Si provi a leggere alcune di queste pagine profeti-che, a partire dalla storia autobiografica di Osea(capitolo 2) e del suo travagliato amore per Gomer,per passare poi a Geremia (2,2; 31,3), alla forte emirabile parabola del capitolo 16 di Ezechiele, pergiungere al capitolo 54 di Isaia…

Noi vorremmo citare ora solo due passi inmodo semplificato. Il primo è nel libro di Isaia, an-che se gli studiosi ritengono che si tratti di un te-sto composto due secoli dopo, nel VI sec. a.C., adopera di un profeta anonimo ed entrato nel gran-de “rotolo” delle profezie isaiane. Dio si rivolge alsuo popolo e lo considera come la donna amata esposata e il profeta commenta: «Sì, come un gio-vane sposa una ragazza, così ti sposerà il tuo Crea-tore; come gioisce lo sposo per la sua sposa, cosìil tuo Dio gioirà per te» (62,5). L’altro testo appar-tiene, invece, al Nuovo Testamento ed è spesso let-to nelle celebrazioni nuziali. Paolo, scrivendo ai cri-stiani di Efeso, vede nel matrimonio cristiano «unmistero grande, in riferimento a Cristo e alla Chie-sa», per cui «i mariti devono amare le loro moglicome Cristo ha amato la Chiesa» (Efesini 5,25-32).È alla luce di questa prospettiva che la Chiesa cat-tolica ha riconosciuto sempre al matrimonio cri-stiano la dignità di sacramento: l’unione d’amoretra l’uomo e la donna nella sua pienezza porta ilsigillo della grazia e della presenza di Dio.

A questo punto dobbiamo riservare un cen-no anche alla lettura tradizionale del comanda-mento che – come si diceva – è stato esteso a tut-ta la morale sessuale. Il matrimonio è, infatti, con-siderato dalla Bibbia come il simbolo di tutte le re-lazioni interpersonali ed è per questo che sotto

quel profilo si possono esplicitare valori e limiti,virtù e vizi dei rapporti tra persone. A questo pro-posito dobbiamo sottolineare che la Bibbia con-sidera la coppia maschio-femmina come alla basedella sua antropologia. Significativo è il passo diGenesi 1,27 ove si dichiara che «Dio creò l’uomo asua immagine; a immagine di Dio lo creò, maschioe femmina li creò». L’“immagine” divina stampatanell’uomo si attua nella bipolarità sessuale e noncerto perché Dio abbia accanto a sé una dea, co-me volevano le religioni circostanti a Israele, maperché l’amore fecondo tra uomo e donna riflet-teva l’amore creatore del Signore (nella pagina bi-blica si descrive, infatti, la creazione).

In questa luce si deve collocare il giudizio mo-rale sulla omosessualità secondo la Bibbia. Certo,la Sacra Scrittura non considera le implicazionipsicologiche, le dimensioni più complesse e altritemi sviluppati dalla riflessione teologica succes-siva. Inoltre alcuni passi considerati classici sul te-ma sono da usare con riserva perché l’autore sa-cro ha di mira prima di tutto la condanna di un al-tro peccato. È il caso del testo che ha dato origi-ne al termine “sodomia”, cioè il capitolo 19 dellaGenesi, ove alcuni abitanti di Sodoma chiedono aLot di consegnare loro gli ospiti “angelici” ‘perchépossiamo abusarne’: la condanna della Bibbia ca-de prima di tutto e soprattutto sulla violazionedella legge sacra dell’ospitalità (implicitamente c’èanche l’orrore per i culti idolatrici degli indigenidella Palestina che comprendevano l’omosessua-lità sacra con sacerdoti chiamati dalla Bibbia “ca-ni” o “prostituti sacri”).

Tuttavia esiste nelle Sacre Scritture anche undiscorso più diretto ed esplicito sulla questioneomosessuale. Nel libro legislativo del Levitico, ilterzo della Bibbia, si legge: «Non avrai relazioni conun maschio come si hanno con una donna: è un

La degenerazionereligiosa e morale

trascina con sé unaserie di vizi

e appannamentodi ogni sensibilità

etica.

Religious and moraldecadence entails a

series of vicesand a tarnishing

of any moralsensibility.

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THE SIXTHCOMMANDMENT

“THOU SHALT NOTCOMMIT ADULTERY”

This does not involve, as isoften thought and recom-mended, a rule that tendsto exclude so-called pro-fane acts. It prescribes, onthe other hand, suitabledignity and sacredness tothe institution of matrimo-ny, which must be safe-guarded against the dan-gers which could overcomeit. In this context the fe-male role was the leastfavourable. The womancould be repudiated in arather abrupt way, whilethe relationship of a mar-ried man with an unmar-ried woman or prostitutewas considered of little sig-nificance. But there is nolack of reminder in theScriptures that husbandsmust love their wives asChrist loved the Church.So, for humanity, maritallove is the symbol of di-vine love.

RELIGIONE 127

abominio!» (18,22). Agli omosessuali colti in fla-grante si commina la pena di morte (20,13), cheaveva anche un valore religioso: era una (discuti-bile e deprecabile per noi ora) forma di “scomu-nica” dalla comunità santa. Paolo, scrivendo ai cri-stiani di Corinto, in una lista di vizi che escludonodal Regno di Dio introduce anche i malakoi, gli “ef-feminati”, cioè il partner omosessuale passivo, egli arsenokoitai, cioè gli omosessuali attivi (1 Co-rinzi 6,9-10), mentre nella Prima Lettera a Timoteoaggiunge nella condanna anche i sequestratori diragazzi per pedofilia (1,10).

È ancora l’Apostolo nella Lettera ai Romani aricordare che dalla decadenza religiosa nasce laperversione morale e menziona anche questo pec-cato: «Le donne hanno cambiato i rapporti natu-rali in rapporti contro natura. Egualmente anchegli uomini, lasciando il rapporto naturale con ladonna, si sono accesi di passione gli uni per gli al-tri, commettendo atti ignominiosi uomini con uo-mini» (1,26-27). La degenerazione religiosa e mo-rale trascina con sé una serie di vizi e di appan-namento di ogni sensibilità etica.

Questo è anche il messaggio del sesto co-mandamento per quanto riguarda l’orizzonte ses-suale. È l’appello a ritrovare nelle relazioni tra uo-mo e donna la trasparenza e la ricchezza di valo-

ri che erano nel disegno del Creatore: la personaumana, infatti, non vive il sesso in modo mera-mente fisiologico e istintivo ma lo può trasfigura-re in eros, segno di bellezza, e lo può condurre adessere amore che è donazione e comunione tota-le. Il sesto comandamento è anche, indirettamen-te, l’invito a vivere le altre relazioni di amicizia edi comunicazione e le stesse pulsioni fisiologichee psicologiche all’interno di una visione di armo-nia, di coerenza, di limpidità, di dominio di sé, dionestà e rispetto.

Il sesto comandamento è, infine, l’esaltazionedella famiglia col suo patrimonio di unità nella di-versità, di amore e di dialogo. Giovanni Paolo II haaffermato che «quanto più la famiglia è sana e uni-ta, tanto più lo è la società. Al contrario, lo sface-lo della società ha inizio con lo sfacelo della fami-glia». È una convinzione che, a livello più genera-le, già condivideva uno dei maggiori scrittori spa-gnoli del Novecento, Miguel de Unamuno (1864-1936) quando dichiarava: «L’agonia della famigliaè l’agonia del cristianesimo». �

* Prefetto della Biblioteca-Pinacoteca Ambrosianadi Milano; Docente nella Facoltà di Teologia dell’ItaliaSettentrionale e nel Seminario Arcivescovile Milanese

Il sestocomandamento èl’esaltazione dellafamiglia col suopatrimonio di unitànella diversità.

The sixthcommandmentis the exaltation ofthe family with itspatrimony of unityin diversity.

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Nell’ottobre dello scorso anno al Palais desSports di Parigi un grandioso spettacolo con 54 at-tori, 250 costumi e imponenti scenografie cine-matografiche (il tutto per un costo di 15 miliardi)ha riproposto I dieci comandamenti. A recitare era-no stati convocati europei e arabi, ebrei, cristianie musulmani (la moglie di Mosè, Zippora, era im-personata dalla cantante israeliana Nourith). Re-gista era Elia Chouraqui che porta lo stesso co-gnome di uno dei più noti e originali traduttoridella Bibbia in francese, l’ebreo algerino e oraisraeliano André Chouraqui che proprio quest’an-no ha pubblicato presso Mondadori un suo ampiocommento a I dieci comandamenti, mostrandonel’insonne presenza in tutte e tre le religioni mo-noteistiche.

Il nostro viaggio testuale all’interno delle 620lettere ebraiche che compongono il Decalogo nel-la loro sostanza imperativa approda ora al setti-mo precetto che è inciso nella mente di tutti conquel lapidario “Non rubare”. Un comando che èsempre stato praticato con molte varianti, comequella suggerita dal titolo di un filmetto america-no del 1976 di Ted Kotcheff con Jane Fonda: Nonrubare… se non è strettamente necessario. A pro-posito ancora di spettacoli, ricordiamo che già nel1932 un film inglese, in cui si fronteggiavano duecoppie di ladri, era stato appunto intitolato Setti-mo: non rubare (regia di Maurice Elvey e Fred Ni-blo).

Il diritto alla libertà

Ma ritorniamo per un momento alla rappre-sentazione musicale parigina. La scena più inten-sa era quella in cui Mosè, accompagnato dalla ma-dre Jochebed, gridava al faraone: «Lascia andareil mio popolo, restituiscigli la libertà! Lascia parti-re il mio popolo, lascialo vivere in libertà!». Ora,nell’originale ebraico del settimo comandamento,l’espressione usata, lô’ tignôb, si estende a un oriz-zonte più ampio del furto di oggetti e beni, com-prendendo anche il ratto o il sequestro di perso-na, compiuto in quei tempi durante le razzie. Èper questo che già nel 1949 un noto studioso del-la Bibbia, Albrecht Alt, aveva sostenuto che origi-nariamente il comandamento condannava il rapi-mento più che la rapina.

Anche noi riteniamo che il senso primigenioe capitale sia questo, così da allineare dal quintoall’ottavo comandamento la sequenza dei dirittifondamentali della persona: la vita, il matrimonio,la libertà, l’onore. La tutela del diritto alla pro-prietà apparirebbe, invece, nel nono e decimo co-mando.

Sul tema della libertà è intessuto tutto l’even-to dell’esodo dalla schiavitù d’Egitto, come si di-ceva nella scena teatrale sopra descritta che, tral’altro, usava espressioni desunte appunto dal li-bro dell’Esodo, al cui interno è collocato anche ilDecalogo (cap. 20). Dovremmo, perciò, prima ditutto esaltare il dono della libertà che già appareagli esordi stessi della creazione allorché l’uomoè posto sotto l’albero della conoscenza del benee del male, lasciato solo nella sua decisione di ac-cogliere da Dio la morale o di costruirla lui stes-so, rapendo il frutto del bene e del male.

È, questa, una visione tipica della Bibbia, a dif-ferenza delle culture circostanti (ad esempio, la ba-bilonese) che consideravano l’uomo come l’impa-sto della polvere del suolo col sangue del dio ri-belle Kingu: secondo questa concezione nelle no-stre vene non potrebbe che scorrere il male a cuisaremmo irrimediabilmente votati. Ben diversa èla persona secondo le Scritture bibliche: «Dio daprincipio creò l’uomo e lo lasciò in balìa del suoproprio volere. Se vuoi, osserverai i comanda-menti: l’essere fedele dipenderà dalla tua buonavolontà. Dio ti ha posto davanti il fuoco e l’acqua:là dove vuoi stenderai la tua mano. Davanti agli uo-mini stanno la vita e la morte: a ognuno sarà datociò che a lui piacerà» (Siracide 15,14-17). Il Crea-tore quasi si ritira per lasciare lo spazio a quellacreatura che non ha voluto simile a una stella fis-sa o a un vegetale ma libera interlocutrice.

Proprio per questo le dittature, le oppressio-ni politico-sociali ed economiche, le strutture chestrappano artificiosamente il consenso, la stessamoderna egemonia della seduzione televisiva, i si-stemi subdoli di avvincimento, oltre naturalmen-te la schiavizzazione economica dei popoli, i se-questri di persona e così via sono crimini non so-lo sociali ma anche religiosi, non colpiscono solola morale ma anche la fede, non si configuranosoltanto come peccati contro il prossimo ma an-che come sacrilegi perché si rivoltano contro ilprogetto divino. Nella Bibbia sono esemplari, al ri-guardo, tre vicende: quella, già citata, dell’esodo,quella di Giuseppe venduto dai suoi fratelli (Genesi37-50) e quella dello schiavo Onesimo che Paolonella lettera al suo padrone Filemone presenta or-

MONS. GIANFRANCO RAVASI *

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mai come figlio e invita ad accogliere «non più co-me schiavo ma come fratello carissimo» (versetto16). Significativa è la durezza della sentenza com-minata proprio poche righe dopo la pagina del De-calogo: «Chi rapisce un uomo, che lo abbia ven-duto o che lo tenga in mano sua, sia messo a mor-te» (Esodo 21,16).

Come è noto, la pena capitale per l’anticoIsraele non era solo un (detestabile) mezzo puni-tivo ma una forma espressiva per indicare la “sco-munica” dalla comunità del popolo di Dio per undelitto gravissimo. Il rapimento di persone è equi-parato, perciò, nell’antica legislazione biblica, aun omicidio perché aliena la persona del suo be-ne più prezioso e specifico, la libertà. Come scri-veva Anton Cechov (1860-1904) nel suo Uomonell’astuccio: «Ah, libertà, libertà! Persino un vago

accenno, persino una debole speranza che essa siapossibile dà le ali all’anima!». Il filosofo ebreo au-striaco Martin Buber (1878-1965) nella sua operaGog e Magog osservava: «Dio è il Dio della libertà.Egli che possiede tutti i poteri per costringermi,non mi costringe. Egli mi ha fatto partecipe dellasua libertà. Io lo tradisco se mi lascio costringe-re».

La condanna del furto

Affermato il valore primario (e solitamenteignorato) del settimo comandamento, è però ne-cessario ricordare che anche l’accezione comuneche bolla il furto non è ad esso estranea. Anzi, sot-trarre al prossimo un bene necessario per la pie-nezza della sua esistenza è un’altra via per ren-

Il senso primigeniodel settimocomandamentoproclama il dirittoalla libertà dellapersona. NellaBibbia è esemplare,in proposito, lavicenda dell’esododalla schiavitùd’Egitto del popoloebreo.Miniatura dellaBible des Sensdel XIV secolo.

The primitive senseof the seventhcommandmentdeclares the right topersonal liberty. Anappropriate exampleis given in the Bibleof the episode of theJews flight fromslavery in Egypt.Illumination fromthe XIVth century Bible des Sens.

THE SEVENTHCOMMANDMENT:DO NOT STEAL

To paraphrase one shouldsay “do not steal their lib-erty from others”. Indeedoriginally the command-ment condemned the rob-bers more than the rob-bery. Therefore, what is be-ing sanctioned is, aboveall, behaviour which de-prives an individual of theabsolute liberty which Godprovided at the moment ofcreation. This situation in-cludes dictatorship, politi-cal-social and economic op-pression and, of course,kidnapping. In ancient bib-lical law it is equivalent tohomicide, because it de-prives the person of hisgreatest asset, liberty. Rob-bery, naturally, in that bydamaging others it makesa life composed of freechoices difficult for them,it is in contradiction toGod’s plan.

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derlo schiavo. Per questo già i profeti, che – comeAmos nell’VIII sec. a.C. – avevano denunciato lavergogna della vendita del “giusto” e del “poveroper un paio di sandali” (2,6), togliendo loro la li-bertà, non hanno esitazioni nel protestare in mo-do veemente contro il furto quasi legalizzato, cioèquella corruzione politica di cui purtroppo siamosempre spettatori complici o impotenti. Gridava,infatti, Isaia pochi anni dopo Amos: «Guai a colo-ro che emettono decreti iniqui e scrivono in fret-ta sentenze oppressive, per negare la giustizia aimiseri e per frodare il diritto dei poveri del mio po-polo, così da fare della vedova la loro preda e spo-gliare gli orfani!» (10,1-3).

Sul furto della proprietà si ha una serie dicommi proprio nella pagina biblica successiva aquella del Decalogo (Esodo 21,37-22,4), ove però siha anche una certa tutela giuridica dello stesso la-dro, soprattutto per impedire la reazione violentadella società o dello stesso derubato: si insiste, in-fatti, sul risarcimento del danno e non si commi-na – come accadeva nel codice babilonese di Ham-murapi (XVIII sec. a.C.) – la pena di morte. Citia-mone almeno uno di questi commi: «Se uno ha ru-bato un bue, un asino o un agnello e li ha conser-vati vivi, restituirà il doppio» (Esodo 22,3). La nor-ma è severa perché la sottrazione di un bue, di unasino o di una pecora in una società agricola eraun forte colpo inferto alla sussistenza di una fa-miglia che veniva in tal modo esposta a una esi-stenza precaria.

In questa luce si comprende la reazione di Da-vide, inconsapevole di essere lui in causa in quel-la parabola, di fronte al profeta Natan che vuoledenunciare il particolare “furto” perpetrato dal re,quello di Betsabea, moglie del suo ufficiale Uria.Natan narra la storia di un ricco proprietario digreggi e mandrie che strappa da un povero “unapecorella piccina” che viveva con lui quasi fosseuna figlia e Davide reagisce così: «Per la vita del Si-gnore chi ha fatto questo merita la morte! Pagheràquattro volte il valore della pecora, per aver fattouna tal cosa e non aver avuto pietà!» (vedi 2 Sa-muele 12,1-7). Analogo è il caso del contadino Na-bot a cui il re Acab, sollecitato dalla regina Geza-bele, aliena l’appezzamento di terreno per aggre-garlo al suo parco reale (1 Re 21). Non riuscendosubito nell’intento, giungerà fino all’assassinio, sol-levando la protesta solitaria, chiara e forte, delprofeta Elia (S. Ambrogio dedicherà a questa vi-cenda biblica un intenso e veemente commento“sociale” nell’opera De Nabuthe).

Proprietà privatae destinazione universale dei beni

Naturalmente il furto può avere mille volti, so-prattutto in una società economicamente cosìcomplessa com’è la nostra. Già nell’Antico Testa-mento si condannavano le frodi e gli inganni: «Nonrimuovere il confine del tuo prossimo, che hannoposto gli antenati nel tuo possesso» (Deuteronomio

«Chi rapisce unuomo, che lo abbia

venduto o che lotenga in mano sua,sia messo a morte»

(Esodo 21,16).Affresco di

Alessandro Franchi:Giuseppe venduto,Duomo di Prato.

«And he thatstealeth a man andselleth him, or if he

be found in hishand, he shall surely

be put to death»(Exodus 21,16).

Fresco by AlessandroFranchi: Joseph

sold, PratoCathedral.

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19,14). Noi oggi potremmo far cenno alle rapineperpetrate dalle multinazionali nei confronti deipaesi del Terzo Mondo, all’usura, allo scambio di-seguale tra le nazioni, al furto della conoscenza tec-nologica e del lavoro, a certe transazioni com-merciali ingannevoli; potremmo anche pensare aquell’infame furto che si consuma ai danni deibambini, violando la loro intimità con la pedofilia,ma anche con una cattiva educazione o un’esi-stenza difficile, rubando a loro il futuro e spessola stessa vita che avrebbero dovuto vivere (e chisa quanto avrebbero arricchito l’umanità!).

La società non è sempre rigorosa e giustanell’individuare e definire con verità il furto e la suagravità. Già il famoso maestro taoista Chuang Tzu(IV-III sec. a.C.) nel Sacro Libro di Nan Hua amara-mente osservava: «Ruba un pezzo di legno e tichiamano ladro; ruba un regno e ti chiamano du-ca». Un’idea che sarà ripresa dalla novella La lam-pada di Sant’Antonio dell’abate Giambattista Casti(1724-1803): «Degno di gloria è quei che ruba unregno, chi ruba poco d’un capestro è degno». Inverità chi prevarica sul prossimo attraverso il fur-to, secondo il Decalogo, pecca innanzitutto controDio: infrange, infatti, l’ordine della creazione, ac-caparrandosi egoisticamente quelle risorse cheDio ha destinato al bene comune. Il ladro, soprat-tutto quando è a livello politico, ferisce la societàe umilia la dignità della persona.

Il Concilio Vaticano II nella Gaudium et Spesva oltre e dichiara: «L’uomo, usando dei beni delCreato, deve considerare le cose esteriori che le-gittimamente possiede, non solo come proprie,ma anche come comuni, nel senso che possonogiovare non unicamente a lui, ma anche agli altri»(n. 69). E il Catechismo della Chiesa Cattolica pre-cisa: «Il diritto alla proprietà privata, acquisita conil lavoro o ricevuta da altri in eredità, oppure indono, non elimina l’originaria donazione della ter-ra all’insieme dell’umanità. La destinazione uni-versale dei beni rimane primaria» (n. 2403). Pro-prio sulla scia di questo principio “primario” vor-remmo concludere con le parole nette e severe diS. Ambrogio nella citata opera De Nabuthe: «La ter-ra è stata creata come un bene comune per tutti,per i ricchi e per i poveri. Perché, o ricchi, vi ar-rogate un diritto esclusivo sul suolo? Quando aiu-ti il povero, tu non gli dai del tuo, ma gli rendi ilsuo. Infatti, la proprietà comune, che è stata datain uso a tutti, tu solo la usi. La terra è di tutti, nonsolo dei ricchi (…). Dunque, quando aiuti il pove-ro, tu restituisci il dovuto, non elargisci il non do-vuto». �

* Prefetto della Biblioteca-Pinacoteca Ambrosianadi Milano; Docente nella Facoltà di Teologia dell’ItaliaSettentrionale e nel Seminario Arcivescovile Milanese

Chi si accaparraegoisticamentequelle risorse cheDio ha destinatoal bene comune,prevarica sulprossimo attraversoil furto.

He who selfishlyhoards the resourcesthat God hasintended for thecommon good,abuses his neighbourby the theft.

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Il nostro itinerario all’interno del Decalogogiunge all’ottava parola che è offerta nelle due ver-sioni bibliche dei dieci comandamenti – quelle diEsodo 20,16 e di Deuteronomio 5,20 – con questaformula: «Non pronunciare falsa testimonianzacontro il tuo prossimo». Del suo tenore originalecercheremo di interessarci tra poco. Per ora ac-contentiamoci di partire dall’accezione più popo-lare che vede in questo precetto la condanna del-la bugia, della calunnia, della mormorazione, del-la maldicenza e così via. È, d’altronde, questo untema classico anche nella storia della cultura ditutti i popoli.

«La calunnia è un venticello»Facciamo solo qualche esempio. Esiodo, poe-

ta greco dell’VIII sec. a.C., nel suo capolavoro Leopere e i giorni affermava: «Un pettegolezzo ca-lunnioso non svanisce mai del tutto, se molti lo ri-petono: anche la calunnia è una specie di divinità».Lo storico greco Erodoto del V sec. a.C. nelle sueStorie ribadiva: «La calunnia è una cosa tremenda:sono due quelli che commettono ingiustizia, e unoquello che la subisce. Infatti il calunniatore com-mette ingiustizia denigrando una persona in suaassenza, e colui che ascolta commette egualmen-te ingiustizia accettando quello che gli viene det-to prima di essersi potuto accertare del vero».

Shakespeare metteva in bocca ad Amleto que-ste parole per Ofelia: «Pur se tu sia casta come ilghiaccio e pura come la neve, non sfuggirai alla ca-lunnia. Vattene in convento!» (Amleto III,1). E an-cora il grande drammaturgo inglese faceva dire aPisanio in Cimbelino (III,4): «La calunnia, il cui filoè anche più tagliente di quello della spada, e la cuilingua è più velenosa di tutti i serpenti del Nilo, eil cui fiato cavalca sopra i venti come fossero cor-sieri e diffonde la menzogna per tutti i quattro ven-ti del mondo».

E come non ricordare quel Calomniez, ca-lomniez; il en restera toujours quelque chose («ca-lunniate, calunniate; ne resterà sempre qualcosa»)del Barbiere di Siviglia, opera del commediografofrancese Pierre Augustin Caron de Beaumarchais(1732-1799)? In verità la stessa idea era già stataformulata dal filosofo inglese Francesco Bacone(1561-1626) che nel suo De dignitate et augmentis

scientiarum attribuiva allo storico e filosofo grecoPlutarco (I-II sec. d.C.) questo detto: Audacter ca-lumniare, semper aliquid haeret, («calunnia sfac-ciatamente, qualcosa resterà sempre attaccato»).Perché – ed è un poeta francese, Casimir Delavi-gne (1793-1843) a ricordarcelo – «più una calunniaè inverosimile, meglio la ricordano gli stolti» (co-sì nel dramma I figli di Edoardo).

E come non finire questa ideale antologiaperversa con la celebre aria di don Basilio in unaltro Barbiere di Siviglia, quello musicato da Ros-sini su libretto di Cesare Sterbini? «La calunnia èun venticello, / un’auretta assai gentile / che in-sensibile sottile / leggermente, dolcemente / inco-mincia a sussurrar. / Piano piano, terra terra, / sot-to voce, sibilando / va scorrendo, va ronzando, /nelle orecchie della gente / s’introduce destra-mente, / e le teste ed i cervelli / fa stordire e fa gon-fiar» (I,7). Forse aveva ragione il moralista france-se Nicolas de Chamfort (1740-1794) quando nei

MONS. GIANFRANCO RAVASI *

La menzogna, dipintodi Salvator Rosa,

Firenze,Galleria Pitti.

The Falsehood,painted by Salvator

Rosa, Florence,Pitti Gallery.

THE EIGHTHCOMMANDMENT:

THE RIGHTTO HONOUR

Many important thinkershave taken a stand againstcalumny: Hesiod, Herodotus,Shakespeare. They have allrecognised the subtle,twisted destabilising na-ture of this atrocious habitof various ignoble spirits.But when reference ismade to the Decalogue,the bearing false witnessthat it is intended to stig-matise takes on a predom-inantly legal value. Accord-ing to the trial practice ofIsrael, in fact, being a falsewitness meant cooperatingin an act of very serious in-justice, which could alsolead the accused to thedeath penalty. It was forthis very position of re-sponsibility that the keywitness in a trial had tocast the first stone forstoning the guilty. Falseaccusations were madeagainst Naboth, whose in-nocence was proclaimed bythe Prophet Elijah. A castleof infamies was builtagainst Jesus Himself, withdeath the certain outcome.

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suoi Pensieri, massime e aneddoti esortava a trat-tare la maldicenza così: «La calunnia è come la ve-spa che ti importuna e contro la quale non biso-gna far nessun movimento, a meno d’essere sicu-ri di ammazzarla». Purtroppo, però, la storia ci av-verte che Chamfort morì suicida...

«Non deporre contro il tuo prossimo»Ma ritorniamo al significato originale dell’ot-

tavo comandamento. In realtà in esso è in causanon tanto un ambito tutto sommato privato com’èquello della calunnia, della bugia, della mormora-zione, bensì è coinvolto prima di tutto e sopra tut-to l’orizzonte giudiziario, tant’è vero che la resa mi-gliore dell’ebraico dovrebbe essere questa: «Nondeporre contro il tuo prossimo come testimone fal-so». Il verbo usato, infatti, è quello tecnico dellacomparizione di un testimone in sede processua-le. Ora, considerando il rilievo che rivestiva la te-stimonianza a voce in una civiltà di cultura orale(lo scritto era secondario rispetto alla parola det-ta o data) è facile comprendere perché questo co-mandamento fosse la prima norma in assoluto nelcelebre Codice di Hammurabi, testo-base del di-ritto babilonese. Si ingloba, certo, anche la que-stione della verità privata e quella delle relazioni

quotidiane, ma si punta diritto al cuore della vitasociale. Merita forse un cenno la prassi proces-suale dell’antico Israele.

Ogni villaggio aveva come sede giudiziaria laporta pubblica che svolgeva le funzioni di muni-cipio. Membri di diritto della corte di per sé era-no tutti i cittadini residenti, non soggetti a tutela(come le donne e i minorenni) e dotati dei diritticivili (matrimonio, culto, servizio militare). I giu-dici e l’assemblea stavano seduti; chi testimonia-va stava in piedi e, per la particolare tipologia diquesta corte popolare, si poteva essere contem-poraneamente testimoni e giudici. Una raffigura-zione dal vivo di un dibattimento municipale allaporta del villaggio, il luogo ove tutti transitavanosia per i commerci, sia per recarsi al lavoro neicampi, è da leggere nel capitolo 4 del delizioso li-bro biblico di Rut.

Proprio da quanto si è detto finora, emergo-no chiaramente i rischi di un simile procedimen-to giudiziario, che successivamente verrà rettifi-cato sia con un diritto processuale più rigoroso siacon la possibilità di interporre appello presso i tri-bunali di Gerusalemme (in epoca tarda sarà il Si-nedrio, cioè l’assemblea suprema, a trattare i ca-si più importanti e gli altri in seconda istanza).

Susanna davanti aDaniele (particolare),di Sebastiano Ricci.Torino, GalleriaSabauda.Susanna, calunniatada due vecchioni,fu difesa e salvatadalla lapidazioneda Daniele.

Susanna beforeDaniel (detail), bySebastiano Ricci.Turin, SabaudaGallery.Susanna, slandered bytwo Elders,was defended andsaved from stoningby Daniel.

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L’ottavo comandamento è, perciò, decisivo per lacorrettezza delle relazioni sociali e delle azioni pe-nali ma anche per la tutela della dignità di una per-sona: per questo, in senso positivo, è l’esaltazio-ne del diritto all’onore come dovuto a ogni per-sona. È ancora per questo che l’accento cade sul“falso testimone” in ebraico ’ed sheqer, colui chescardina la comunità e viola un diritto fondamen-tale, radicale, quasi sacrale.

Scrive, infatti, l’autore di un saggio sulla men-zogna nella Bibbia, M. A. Klopfenstein (Die Lügenach dem Alten Testament, Zurigo e Francoforte1964): «Sheqer non è solo un discorso menzogne-ro, bensì tutto un modo di comportarsi. È, infatti,un comportamento contrario alla fedeltà e alla fe-de, all’assistenza giudiziaria a cui il prossimo hanaturalmente diritto; è un contegno aggressivo,distruttivo della comunità, asociale». Proprio permarcare questa grave responsabilità, il testimonedecisivo per una sentenza capitale era costrettoad essere il primo a scagliare la pietra della lapi-dazione: «La mano dei testimoni sarà la prima con-tro il condannato per farlo morire; poi la mano ditutto il popolo» (Deuteronomio 17,7). E a questoproposito è illuminante la scena dell’adultera el’invito di Gesù a scagliare la prima pietra, se si èsenza colpa (Giovanni 8,1-11).

L’importanza di questo comandamento risul-ta anche dalla sua reiterata ripresa nella legisla-zione biblica. Ecco solo un esempio: «Non spar-gerai false dicerie; non presterai mano al colpevoleper essere testimone in favore di un’ingiustizia.

Non seguirai la maggioranza per agire male e nondeporrai in processo per deviare verso la mag-gioranza, per falsare la giustizia. Ti terrai lontanoda ogni parola menzognera. Non far morire l’in-nocente e il giusto, perché io non assolvo il col-pevole. Non accetterai doni, perché il dono acce-ca chi ha gli occhi aperti e perverte anche le pa-role dei giusti» (Esodo 23,1-2 e 6-8). I profeti sa-ranno veementi nel denunciare la corruzione del-la magistratura, corollario della proibizione deca-logica: «Guai a coloro che fanno decreti iniqui – gri-da, ad esempio, Isaia (10,1-2) – e scrivono in fret-ta sentenze oppressive, per negare la giustizia aimiseri, per fare delle vedove la loro preda e spo-gliare gli orfani».

Il processo contro Nabot e contro GesùPossiamo anche evocare due casi biblici cla-

morosi di ingiustizia processuale causati da falsatestimonianza. Il primo è narrato nel capitolo 21del Primo Libro dei Re. Un sovrano di Israele, Acab,istigato dalla moglie, una principessa fenicia di no-me Gezabele, vorrebbe alienare a un contadino,Nabot, il terreno di proprietà della sua famiglia, peraggregarlo al parco reale della residenza estivanella città di Izreel. Di fronte alla resistenza del con-tadino, forte del suo diritto, la regina organizzauna specie di farsa processuale in cui due falsi te-stimoni – tanti quanti erano necessari per la vali-dità dell’accusa – affermano: «Nabot ha maledettoDio e il re!». A questo punto scatta la condanna amorte: «Lo condussero fuori della città e lo ucci-sero lapidandolo». Ma nel silenzio complice deicittadini, succubi e timorosi nei confronti dell’ar-roganza prevaricatrice del potere, si leverà la vo-ce del profeta Elia che al re grida: «Hai assassina-to e ora usurpi! Per questo dice il Signore: Nel ter-reno ove lambirono il sangue di Nabot, i cani lam-biranno anche il tuo sangue!».

L’altro caso è quello di Gesù di Nazaret neicui confronti si cerca di istruire un processo sul-la base di una falsa testimonianza. Lasciamo la pa-rola all’evangelista Marco: «I capi dei sacerdoti etutto il sinedrio cercavano una testimonianza con-tro Gesù per metterlo a morte, ma non la trova-vano. Molti infatti testimoniavano il falso contro dilui e le loro testimonianze non erano concordi. Ealcuni si alzarono a testimoniare il falso contro dilui dicendo: “Lo abbiamo udito mentre diceva: Di-struggerò questo tempio, fatto da mani d’uomo, ein tre giorni ne costruirò un altro, non fatto da ma-ni d’uomo”. Ma nemmeno così la loro testimo-nianza era concorde. Il sommo sacerdote, alzato-si in mezzo all’assemblea, interrogò Gesù dicendo:“Non rispondi nulla? Che cosa testimoniano co-storo contro di te?” Ma egli taceva e non rispon-deva nulla...» (14,55-61).

Ritorniamo, al termine della nostra analisidell’ottavo comandamento, al punto da cui siamopartiti. Per noi, nell’accezione comune, questo pre-

La calunnia èun’ingiustizia

commessa in due:dal denigratore

e da chi l’ascolta.

Calumny is an actof injustice committed

by two people:by the slanderer

and by the one wholistens.

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cetto è soprattutto la condanna della menzogna.Nel linguaggio dell’evangelista Giovanni, in parti-colare nella sua Prima Lettera, la “menzogna” è lanegazione della “verità” divina: è, quindi, un pec-cato satanico contro la fede. Si ha, quindi, un’ul-teriore accezione forte che Gesù stesso marcaquando accusa: «Il diavolo è stato omicida fin daprincipio e non ha perseverato nella verità, perchénon vi è verità in lui. Quando dice il falso, parladel suo, perché è menzognero e padre dellamenzogna» (Giovanni 8,44). C’è, allora, una gra-vità sociale e teologica nella violazione del pre-cetto decalogico sulla verità da tutelare e ri-spettare. E la nostra comunicazione attuale,spesso segnata dall’inganno (si pensi all’in-flusso televisivo), sembra essere una continuaviolazione dell’ottavo comandamento.

Ma la drammaticità del monito nonesclude anche il suo valore all’interno del-la quotidianità ove alligna la maldicenza eil pettegolezzo. È una specie di catena per-versa che ben illustrava il commediografoe attore francese di origine russa SachaGuitry (1885-1957), autore di almeno130 commedie brillanti: «Se quelli chedicono male di me sapessero quelche penso di loro, direbbero peg-gio» (così nello scritto Toutes ré-flexions faites). E san Bernardinoda Siena nelle sue Prediche volgariammoniva il suo uditorio così, bol-lando l’ipocrisia: «Talvolta il de-

trattore va con apparenza di bene e parla maled’altri; egli va sotto ombra di bello modo, mo-strando di avere carità; e la malizia sta agguattatasotto». �

* Prefetto della Biblioteca-Pinacoteca Ambrosianadi Milano; Docente nella Facoltà di Teologia dell’ItaliaSettentrionale e nel Seminario Arcivescovile Milanese

Il processo a Gesùnella prima cappelladella Via Crucis diCerveno, in ValleCamonica.

The Trial of Jesus inthe first chapel of theVia Crucis in Cerveno,in Valle Camonica.

La comunicazioneattuale, spessosegnata dall’inganno,sembra essere unacontinua violazionedell’ottavocomandamento.

Moderncommunication,often marked bydeceit, seems to bea continual violationof the EighthCommandment.

Page 33: Gianfranco Ravasi I dieci comandamenti · GIANFRANCO RAVASI 148 RELIGIONE A soli 11 anni Mozart componeva un testo musicale intitolato Die Schuldigkeit des ersten Ge- botes (KV 35),

Identico è l’imperativo che regge gli ultimidue comandamenti, ritmato sul verbo “desidera-re”: è per questo che noi optiamo per un’unicatrattazione. Fin dagli inizi del nostro percorsoall’interno del Decalogo abbiamo segnalato la pre-senza nella Bibbia di due varianti dello stesso te-sto, l’una nel libro dell’Esodo e l’altra nel libro delDeuteronomio. Nel nostro caso la comparazionetra queste due formulazioni può risultare signifi-cativa. In Esodo 20,17 ci imbattiamo in due distin-ti comandamenti, appunto il nono e il decimo del-la serie: «Non desiderare la casa del tuo prossimo!Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né ilsuo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né ilsuo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuoprossimo!».

Se, invece, esaminiamo l’equivalente del Deu-teronomio (5,21), ci imbattiamo in questa sequen-za: «Non desiderare la moglie del tuo prossimo!Non desiderare la casa del tuo prossimo, né il suocampo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né ilsuo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che ap-partenga al tuo prossimo!». A prima vista avrem-

mo una variante suggestiva: nella sequenza deglioggetti del desiderio, il Deuteronomio – compor-tandosi più rispettosamente nei confronti della di-gnità della persona – pone la donna al primo po-sto e solo successivamente la casa e le altre realtà.Tuttavia anche la formula più antica, quelladell’Esodo, è meno lontana di quanto a prima vi-sta sembri dalla stessa concezione. Infatti si di-rebbe: «Non desiderare la casa del tuo prossimo»,cioè la sua famiglia che poi, nel comandamentosuccessivo, sarebbe specificata nei suoi soggettie nei beni: moglie, schiavi, animali, terreni o cose.

A questo punto la nostra attenzione deve con-centrarsi proprio sul verbo fondamentale “desi-derare”, in ebraico hamad (in realtà, il passo delDeuteronomio ne usa un altro per il “desiderio”della donna, ma in pratica essi sono sinonimi). Inun saggio importante, apparso già nel 1927, sulDecalogo, lo studioso tedesco Johannes Herrmannpuntualizzava che «hamad non significa un ‘desi-derare’ nel senso di un semplice volere o augu-rarsi, ma include tutte le macchinazioni che por-tano a impossessarsi di quanto è desiderato». Det-to in altri termini, non siamo in presenza della con-danna di un vago desiderio o di un’attrazione istin-tiva, bensì di un vero e proprio progetto tenden-te alla conquista di una meta prefissata, come sifa capire nel giudizio su chi si lascia catturaredall’idolatria della ricchezza: «Non desiderare l’ar-gento e l’oro che sono negli idoli e non prender-teli, perché non divengano un laccio per te!» (Deu-teronomio 7,25).

Non hanno, allora, molto senso certe ironieche hanno bollato questi due comandamenti co-me impossibili. Pensiamo solo ai film dal titoloNon desiderare la donna d’altri, quelli di Garson Ca-nin del 1940, con Charles Laughton e Carole Lom-bard, e di Vincent J. Donehue del 1959, con Mont-gomery Clift e Myrna Loy. Diverso è il caso del re-gista polacco Krzystof Kieslowski che a suo tem-po evocammo per i dieci film dedicati ai vari co-mandamenti. Nel caso del nono (1988), egli mettein scena il tormento di un ragazzo, ancora ignarodei segreti della sessualità, innamorato a distanzadi una bella e disinibita trentenne. La spia, la se-gue, la ossessiona e alla fine compie un passo fal-so che renderà triste e drammatico l’esito finale.

Nella luce genuina del precetto decalogico simuove anche Gesù quando nel Discorso dellaMontagna, la “Magna Charta” del cristianesimo,

MONS. GIANFRANCO RAVASI *

“Non desiderarel’argento e l’oro che

sono negli idoli enon prenderteli,

perché nondivengano un laccio

per te”(Deuteronomio

7,25).

“Do not covet thesilver or the gold

that is on them andtake it for yourself,because you couldbe ensnared by it”

(Deuteronomy7,25).

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coglie in profondità lo spirito del nono comanda-mento e lo conduce al suo valore radicale: «Io vidico: chiunque guarda una donna per desiderar-la, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuo-re» (Matteo 5,28). Gesù non è così irrealistico e pu-ritano da bollare irrimediabilmente una reazioneprimordiale, un’attrattiva spontanea ma, come sot-tolinea il rimando al “cuore”, cioè secondo il lin-guaggio biblico alla coscienza, egli punta al “desi-derio” nel senso di macchinazione, progettazione,decisione intima e profonda. Cristo è, perciò, pron-to a perdonare l’adultera che in un momento di de-bolezza può aver peccato; ma condanna chi, do-po aver tentato in tutti i modi di irretire nei suoidesideri la moglie del suo prossimo, alla fine pa-radossalmente non ci riesce. Eppure egli ha con-sumato l’adulterio nel suo “cuore”.

Decisiva è, quindi, la volontà, la scelta morale;l’azione aggiungerà gravità, ma la radice del pecca-to è proprio in quel hamad, in quel “desiderare” fon-damentale, coerente e cosciente. In questa pro-spettiva è da leggere quanto scrive S. Paolo riguar-do alla funzione della Legge sinaitica che risvegliail senso del peccato e la sua subdola forza: «Che di-remo dunque? Che la Legge è peccato? No certa-mente! Però io non ho conosciuto il peccato se nonper la Legge, né avrei conosciuto la concupiscen-za, se la Legge non avesse detto: Non desiderare!»(Romani 7,7). Dopo aver puntualizzato il senso ge-nuino di questi due ultimi comandamenti, vorrem-mo scavare nella loro portata permanentementevalida. Faremo, perciò, tre altre considerazioni.

La prima riguarda un elemento positivo, quel-lo del desiderio in sé assunto. Al contrario di quan-to ci ha abituati una certa predicazione ascetico-puritana, la Bibbia non propone un modellobuddhista di cancellazione di ogni desiderio comesorgente dell’esperienza del dolore. Si pensi soloall’attesa quasi spasmodica dei patriarchi (ma nonsolo) per avere un figlio che continui il proprio no-me oppure alla tensione verso la conquista di unaterra in cui vivere in libertà, un desiderio quest’ul-timo che pervaderà tutto Israele nell’epoca del-l’esodo dall’Egitto. Anzi, anche una volta conqui-stati questi beni, essi diverranno la sorgente di undesiderio ulteriore che conduce verso l’eternità el’infinito (la terra promessa diventa segno dell’eter-na comunione con Dio), attuando così l’implicitaassonanza insita tra “desiderio” e de sideribus, cioèqualcosa che ci proviene dalle stelle, dall’immen-sità senza limiti.

Nel suo Zibaldone Leopardi acutamente an-notava: «Diciamo male che il tal desiderio è statosoddisfatto. Non si soddisfano i desideri, conse-guito che abbiamo l’oggetto, ma si spengono, cioèsi perdono ed abbandonano per la certezza di nonpoterli mai soddisfare». Il pessimismo di questa os-servazione non cancella il dato indiscutibile chel’uomo non è mai soddisfatto perché il suo desi-derio è sempre spia di un Oltre infinito. È così che

nel Salterio si ripete: «Signore, davanti a te è ognimio desiderio... Mio Dio, questo io desidero: la tuaLegge è nel profondo del mio cuore... Io desiderola tua salvezza... Come la cerva anela ai corsi d’ac-qua, così l’anima mia anela a te, o Dio... Di te hasete l’anima mia, a te anela la mia carne» (Salmi38,10; 119,174; 40,9; 42,1; 63,2). Anzi, si ribadisce apiù riprese che il Signore esaudisce i desideri delcuore giusto (Salmi 9,38; 21,3; 37,4; Proverbi 10,24).

A questa considerazione che presenta «il de-siderio come albero di vita»(Proverbi 13,12) ne associamoper antitesi una seconda che simuove nello spirito dei nostridue comandamenti. Accanto al“ben desiderare”, che è poi un“desiderare il bene”, c’è peròla bramosia, la concupiscenza,l’ingordigia che è poi un “desi-derare il male”. Emblematico èil racconto del libro biblico deiNumeri sul dono delle quaglie (11,31-35) che ha alcentro il pittoresco ritratto dell’ingordo che accu-mula e alla fine prova nausea: «Avevano ancora lacarne fra i denti e non l’avevano ancora mastica-ta, quando lo sdegno del Signore si accese controil popolo...» (versetto 33). Il monito di Dio era sta-to folgorante: «Mangerete carne non per uno, due,cinque, dieci o venti giorni ma per un mese inte-ro finché vi esca dalle narici e vi venga a nausea»(Numeri 11,19-20). Il luogo dove è collocato que-sto episodio di desiderio frenetico e incontrollatosarà significativamente denominato in ebraico Qi-

Due fotogrammi trattidal film che il registapolacco KrzystofKieslowski hadedicato al nonocomandamento.

Two frames from thefilm that directorKrzystof Kieslowskidedicated to the ninthcommandment.

È marcata l’assonanzatra il termine“desiderio” ede sideribus, cioèqualcosa che provienedalle stelle.

There is strongassonance betweenthe term “desiderio”and “de sideribus”,i.e. something thatcomes from the stars.

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brot-Taava’, “sepolcri della bramosia”, perché –commenta la Bibbia – «qui fu sepolta la gente chesi era lasciata dominare dall’ingordigia» (Numeri11,34).

Le varianti di questo “desiderare” viziato e vi-zioso sono molteplici e si chiamano concupiscen-za, sensualità, avidità, sregolatezza, libidine, invi-dia e così via. Perché il cuore non resti impigliatonelle sue reti deve anche affidarsi alla grazia divi-na, come suggerisce questa invocazione del Sira-cide, sapiente biblico del II sec. a.C.: «Signore, pa-dre e padrone della mia vita, non abbandonarmial volere dei miei vizi, non lasciarmi cadere a cau-sa loro. Chi applicherà la frusta ai miei pensieri, almio cuore la disciplina della sapienza? Signore,padre e Dio della mia vita, non mettermi in balìadi sguardi sfrontati e allontana da me la concupi-scenza. Sensualità e libidine non s’impadronisca-no di me; a desideri vergognosi non mi abbando-nare!» (23,1-2. 4-6).

Eccoci, infine, alla terza e ultima considera-zione che riserviamo agli oggetti del desiderio. Ilnono e il decimo comandamenti sono paralleli alsesto e al settimo (“Non commettere adulterio!” e“Non rubare!”). Si ribadisce, dunque, attraverso ilsimbolo della “casa” il diritto di proprietà di unapersona e di una famiglia, visto come tutela delladignità personale e sociale. È facile registrare nel-

la Bibbia la denuncia più severa contro quanti, co-me il re Acab e sua moglie Gezabele nei confrontidel contadino Nabot (1Re 21), alienano con la vio-lenza o l’inganno lo spazio vitale degli altri. «Guaia voi – ammonisce il profeta Isaia – che aggiunge-te casa a casa e unite campo a campo, finché nonvi sia più spazio...» (5,8). Michea gli fa eco: «Sonoavidi di campi e li usurpano, di case e se le pren-dono» (2,2). Il libro della Legge ha questa maledi-zione: «Maledetto chi sposta i confini del suo pros-simo» (Deuteronomio 27,17).

Il Catechismo della Chiesa Cattolica così com-menta questo precetto: «Esso proibisce la cupidi-gia dei beni altrui, che è la radice del furto, dellarapina e della frode... Proibisce l’avidità e il desi-derio di appropriarsi senza misura dei beni terre-ni; vieta la cupidigia sregolata, generata dalla smo-data brama delle ricchezze e del potere in esse in-sito. Proibisce anche il desiderio di commettereun’ingiustizia, con la quale si danneggerebbe ilprossimo nei suoi beni temporali... Il decimo co-mandamento esige che si bandisca dal cuore uma-no l’invidia che può condurre ai peggiori misfatti»(nn. 2534; 2536; 2538). Dovrebbe valere anche neinostri giorni, che spesso esaltano la ricchezzaostentata e sfacciata come fonte di successo poli-tico e sociale, il monito del Salmista: «Non confi-date nella violenza, non illudetevi della rapina; al-

Tintoretto (1518-1594): Susanna al

bagno. Vienna,Kunsthistorisches

Museum.Il desiderio e

l’eccitazione delusadei vecchi perversi

sfociano neltentativo di delitto

nei confronti diSusanna.

Tintoretto (1518-1594): Susanna al

bagno (Susannabathing). Vienna,Kunsthistorisches

Museum.Desire and the

disappointedexcitation of perverted

old men emerge inthe attempt to accuse

Susanna.

«THOU SHALLNOT COVET...»

THE NINTHAND TENTH

COMMANDMENTS

This is certainly one of themost controversial aspectsof Christian doctrine. Thesecommandments are con-nected to the prospect ofcoveting another’s goodsand, even, another’s wife.In truth there is no roomfor error in the Bible: themessage is clear. It is notonly the emotional andspiritual act that generatescovetousness that is con-demned, but above all theseries of strategies set inmotion to satisfy it. This isthe true meaning of theword “hamad”, namelycovetousness. So not onlyshould we remove any formof covetousness from ourheart, but direct our desirestowards good. When we al-low ourselves to be irritat-ed by our most involvingpassions we cannot controlthe resulting consequences.This is the case of concu-piscence, sensuality, avidi-ty, intemperance and lust.A well-intentioned desire,however, leads towardseternity and the infinite.

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la ricchezza, anche se abbonda, non attaccate ilcuore!» (Salmo 62,11).

L’altra componente del cattivo desiderio è “ladonna del tuo prossimo”. Si riprende, dunque, daun’altra angolatura – quella appunto del “desiderio-macchinazione” che precede, genera e supera l’at-to concreto – il sesto comandamento che già proi-biva l’adulterio. Si condannano, così, Davide e la suacieca passione per Betsabea che lo conduce finoall’assassinio (2 Samuele 11) o quella morbosa disuo figlio Assalonne per la sorellastra Tamar (2 Sa-muele 13,1-20) o ancora l’eccitazione delusa, chesfocia anch’essa in un tentativo di delitto, dei duevecchi perversi nei confronti di Susanna (Daniele13). Giobbe poteva, invece, dichiarare senza esita-zione di «avere stretto con gli occhi un patto: nonfissare neppure una vergine» (31,1). E il citato Si-racide ammoniva il suo discepolo: «Distogli gli oc-chi da una donna bella, non fissare una bellezza chenon ti appartiene» (9,8). E ancora: «Non seguire lepassioni, poni un freno ai tuoi desideri!» (18,30).

È, quindi, condannata dal Decalogo la “con-cupiscenza” nel senso popolare del termine, maanche in quello più profondo ed etimologico cherimanda a «ogni forma veemente di desiderio uma-no». La teologia cristiana ha dato a questa parolail significato specifico di moto dell’appetito sensi-bile che si oppone ai dettami della ragione uma-na. Essa ingenera disordine nelle facoltà moralidell’uomo» (così il Catechismo della Chiesa Catto-lica n. 2515). In questa linea dobbiamo dire che ilnono comandamento non si limita a proteggerel’istituto matrimoniale ma va ben oltre e colpisceil cuore di una mentalità diffusa ai nostri giorni. Es-

so non condanna solo i tentativi di impadronirsidell’amore della donna di un altro ma anche ogniatteggiamento che riduca la donna a mero “og-getto” del desiderio, a un giocattolo. E in questola televisione, il cinema, la pubblicità, i giornalipossono diventare un infame strumento di per-versione morale. Viene così bollato il terribile de-siderio di possedere l’altro, riducendolo a propriodominio e, in casi tragici che sono ben noti a tut-ti, fino alla schiavitù.

Molti testi letterari del Novecento sono la te-stimonianza di questa volontà perversa e sadicadi impossessarsi dell’altra persona fino a tortu-rarla interiormente (e talora anche fisicamente)strappandola ai suoi affetti, alla sua libertà: soloper fare un paio di esempi, pensiamo alla Xavièredel romanzo L’invitata (ed. Mondadori) di Simonede Beauvoir (1943) o alla Cecilia della Noia di Al-berto Moravia (Bompiani 1960). Purtroppo, comesi legge nella Lettera di S. Giacomo: «Ciascuno ètentato dalla propria concupiscenza che lo attraee lo seduce; poi la concupiscenza concepisce e ge-nera il peccato, e il peccato, quando è consuma-to, produce la morte» (1,14-15). È, infatti, «dal cuo-re che provengono i propositi malvagi, gli omici-di, gli adultèri, le prostituzioni», come notava Ge-sù (Matteo 15,19). È per questo che egli ha fatto ri-suonare con forza sulla vetta del Monte delle Bea-titudini questa proclamazione: «Beati i puri di cuo-re perché vedranno Dio!» (Matteo 5,8). �

* Prefetto della Biblioteca-Pinacoteca Ambrosianadi Milano; Docente nella facoltà di teologia dell’ItaliaSettentrionale e nel Seminario arcivescovile Milanese

Il nonocomandamentocondanna ogniatteggiamentoche riduca la donnaa mero “oggetto”di desiderio.

The ninthcommandmentcondemns any actionthat reduces a womanto a mere “object”of desire.