WebDiocesi - Rassegna stampa 28 ottobre 2015 · 2015. 10. 28. · Con i salmi nel lager di...

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RASSEGNA STAMPA di mercoledì 28 ottobre 2015 SOMMARIO Mentre sui giornali oggi si commentano le nuove nomine vescovili a Bologna e Palermo - con l’avvento dei “vescovi-parroci” o dei “preti di strada” (il Giornale parla di “pretacci”) che “diventano (arci)vescovi” - ed anche se è stata già riportata nella Rassegna di ieri, vale davvero la pena riprendere qui alcuni passaggi dell’omelia di Papa Francesco nella messa conclusiva del Sinodo sulla famiglia e a commento del Vangelo della domenica (il cieco di Gerico). “Nonostante abbia appena iniziato il cammino più importante - spiega il Santo Padre -, quello verso Gerusalemme, si ferma ancora per rispondere al grido di Bartimeo. Si lascia toccare dalla sua richiesta, si fa coinvolgere dalla sua situazione. Non si accontenta di fargli l’elemosina, ma vuole incontrarlo di persona. Non gli dà né indicazioni né risposte, ma pone una domanda: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». Potrebbe sembrare una richiesta inutile: che cosa potrebbe desiderare un cieco se non la vista? Eppure, con questo interrogativo fatto “a tu per tu”, diretto ma rispettoso, Gesù mostra di voler ascoltare le nostre necessità. Desidera con ciascuno di noi un colloquio fatto di vita, di situazioni reali, che nulla escluda davanti a Dio. Dopo la guarigione il Signore dice a quell’uomo: «La tua fede ti ha salvato». È bello vedere come Cristo ammira la fede di Bartimeo, fidandosi di lui. Lui crede in noi, più di quanto noi crediamo in noi stessi. C’è un particolare interessante. Gesù chiede ai suoi discepoli di andare a chiamare Bartimeo. Essi si rivolgono al cieco usando due espressioni, che solo Gesù utilizza nel resto del Vangelo. In primo luogo gli dicono: “Coraggio!”, con una parola che letteralmente significa “abbi fiducia, fatti animo!”. In effetti, solo l’incontro con Gesù dà all’uomo la forza per affrontare le situazioni più gravi. La seconda espressione è “Alzati!”, come Gesù aveva detto a tanti malati, prendendoli per mano e risanandoli. I suoi non fanno altro che ripetere le parole incoraggianti e liberatorie di Gesù, conducendo direttamente a Lui, senza prediche. A questo sono chiamati i discepoli di Gesù, anche oggi, specialmente oggi: a porre l’uomo a contatto con la misericordia compassionevole che salva. Quando il grido dell’umanità diventa, come in Bartimeo, ancora più forte, non c’è altra risposta che fare nostre le parole di Gesù e soprattutto imitare il suo cuore. Le situazioni di miseria e di conflitto sono per Dio occasioni di misericordia. Oggi è tempo di misericordia! Ci sono però alcune tentazioni per chi segue Gesù. Il Vangelo di oggi ne evidenzia almeno due. Nessuno dei discepoli si ferma, come fa Gesù. Continuano a camminare, vanno avanti come se nulla fosse. Se Bartimeo è cieco, essi sono sordi: il suo problema non è il loro problema. Può essere il nostro rischio: di fronte ai continui problemi, meglio andare avanti, senza lasciarci disturbare. In questo modo, come quei discepoli, stiamo con Gesù, ma non pensiamo come Gesù. Si sta nel suo gruppo, ma si smarrisce l’apertura del cuore, si perdono la meraviglia, la gratitudine e l’entusiasmo e si rischia di diventare “abitudinari della grazia”. Possiamo parlare di Lui e lavorare per Lui, ma vivere lontani dal suo cuore, che è proteso verso chi è ferito. Questa è la tentazione: una “spiritualità del miraggio”: possiamo camminare attraverso i deserti dell’umanità senza vedere quello che realmente c’è, bensì quello che vorremmo vedere noi; siamo capaci di costruire visioni del mondo, ma non accettiamo quello che il Signore ci mette davanti agli occhi. Una fede che non sa radicarsi nella vita della gente rimane arida e, anziché oasi, crea altri deserti. C’è una seconda tentazione, quella di cadere in una “fede da tabella”. Possiamo camminare con il popolo di Dio, ma abbiamo già la nostra tabella di marcia, dove tutto rientra: sappiamo dove andare e quanto tempo metterci; tutti devono rispettare i nostri ritmi e ogni inconveniente ci disturba. Rischiamo di diventare come quei “molti” del Vangelo che perdono la pazienza e rimproverano Bartimeo. Poco prima avevano rimproverato i bambini, ora il mendicante cieco: chi dà fastidio o non è all’altezza è da escludere. Gesù invece vuole includere, soprattutto chi è tenuto ai margini e grida a Lui. Costoro, come Bartimeo, hanno fede, perché sapersi bisognosi

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  • RASSEGNA STAMPA di mercoledì 28 ottobre 2015

    SOMMARIO

    Mentre sui giornali oggi si commentano le nuove nomine vescovili a Bologna e Palermo - con l’avvento dei “vescovi-parroci” o dei “preti di strada” (il Giornale parla di

    “pretacci”) che “diventano (arci)vescovi” - ed anche se è stata già riportata nella Rassegna di ieri, vale davvero la pena riprendere qui alcuni passaggi dell’omelia di Papa Francesco nella messa conclusiva del Sinodo sulla famiglia e a commento del Vangelo della domenica (il cieco di Gerico). “Nonostante abbia appena iniziato il

    cammino più importante - spiega il Santo Padre -, quello verso Gerusalemme, si ferma ancora per rispondere al grido di Bartimeo. Si lascia toccare dalla sua richiesta, si fa coinvolgere dalla sua situazione. Non si accontenta di fargli l’elemosina, ma vuole

    incontrarlo di persona. Non gli dà né indicazioni né risposte, ma pone una domanda: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». Potrebbe sembrare una richiesta inutile: che cosa potrebbe desiderare un cieco se non la vista? Eppure, con questo interrogativo fatto “a tu per tu”, diretto ma rispettoso, Gesù mostra di voler ascoltare le nostre necessità. Desidera con ciascuno di noi un colloquio fatto di vita, di situazioni reali, che nulla escluda davanti a Dio. Dopo la guarigione il Signore dice a quell’uomo: «La

    tua fede ti ha salvato». È bello vedere come Cristo ammira la fede di Bartimeo, fidandosi di lui. Lui crede in noi, più di quanto noi crediamo in noi stessi. C’è un

    particolare interessante. Gesù chiede ai suoi discepoli di andare a chiamare Bartimeo. Essi si rivolgono al cieco usando due espressioni, che solo Gesù utilizza nel resto del Vangelo. In primo luogo gli dicono: “Coraggio!”, con una parola che letteralmente

    significa “abbi fiducia, fatti animo!”. In effetti, solo l’incontro con Gesù dà all’uomo la forza per affrontare le situazioni più gravi. La seconda espressione è “Alzati!”, come Gesù aveva detto a tanti malati, prendendoli per mano e risanandoli. I suoi non fanno

    altro che ripetere le parole incoraggianti e liberatorie di Gesù, conducendo direttamente a Lui, senza prediche. A questo sono chiamati i discepoli di Gesù, anche

    oggi, specialmente oggi: a porre l’uomo a contatto con la misericordia compassionevole che salva. Quando il grido dell’umanità diventa, come in Bartimeo, ancora più forte, non c’è altra risposta che fare nostre le parole di Gesù e soprattutto imitare il suo cuore. Le situazioni di miseria e di conflitto sono per Dio occasioni di misericordia. Oggi è tempo di misericordia! Ci sono però alcune tentazioni per chi segue Gesù. Il Vangelo di oggi ne evidenzia almeno due. Nessuno dei discepoli si

    ferma, come fa Gesù. Continuano a camminare, vanno avanti come se nulla fosse. Se Bartimeo è cieco, essi sono sordi: il suo problema non è il loro problema. Può essere il

    nostro rischio: di fronte ai continui problemi, meglio andare avanti, senza lasciarci disturbare. In questo modo, come quei discepoli, stiamo con Gesù, ma non pensiamo come Gesù. Si sta nel suo gruppo, ma si smarrisce l’apertura del cuore, si perdono la meraviglia, la gratitudine e l’entusiasmo e si rischia di diventare “abitudinari della grazia”. Possiamo parlare di Lui e lavorare per Lui, ma vivere lontani dal suo cuore,

    che è proteso verso chi è ferito. Questa è la tentazione: una “spiritualità del miraggio”: possiamo camminare attraverso i deserti dell’umanità senza vedere quello che realmente c’è, bensì quello che vorremmo vedere noi; siamo capaci di costruire

    visioni del mondo, ma non accettiamo quello che il Signore ci mette davanti agli occhi. Una fede che non sa radicarsi nella vita della gente rimane arida e, anziché oasi, crea altri deserti. C’è una seconda tentazione, quella di cadere in una “fede da tabella”. Possiamo camminare con il popolo di Dio, ma abbiamo già la nostra tabella di marcia,

    dove tutto rientra: sappiamo dove andare e quanto tempo metterci; tutti devono rispettare i nostri ritmi e ogni inconveniente ci disturba. Rischiamo di diventare come

    quei “molti” del Vangelo che perdono la pazienza e rimproverano Bartimeo. Poco prima avevano rimproverato i bambini, ora il mendicante cieco: chi dà fastidio o non è

    all’altezza è da escludere. Gesù invece vuole includere, soprattutto chi è tenuto ai margini e grida a Lui. Costoro, come Bartimeo, hanno fede, perché sapersi bisognosi

  • di salvezza è il miglior modo per incontrare Gesù. E alla fine Bartimeo si mette a seguire Gesù lungo la strada. Non solo riacquista la vista, ma si unisce alla comunità di coloro che camminano con Gesù. Carissimi Fratelli sinodali, noi abbiamo camminato insieme. Vi ringrazio per la strada che abbiamo condiviso con lo sguardo rivolto al

    Signore e ai fratelli, nella ricerca dei sentieri che il Vangelo indica al nostro tempo per annunciare il mistero di amore della famiglia. Proseguiamo il cammino che il Signore

    desidera. Chiediamo a Lui uno sguardo guarito e salvato, che sa diffondere luce, perché ricorda lo splendore che lo ha illuminato. Senza farci mai offuscare dal pessimismo e dal peccato, cerchiamo e vediamo la gloria di Dio, che risplende

    nell’uomo vivente” (a.p.)

    3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 4 Ecco il respiro della Chiesa L’omelia che Paolo VI tenne in concilio il 28 ottobre 1965 Pag 7 Pastori non tosatori di Diego Fares La figura del vescovo secondo Bergoglio AVVENIRE Pag 2 La misericordia è il nostro imperativo di Marina Corradi Nelle parole del Papa la prima eredità del Sinodo Pag 24 Bonhoeffer. Con i salmi nel lager di Gianfranco Ravasi CORRIERE DELLA SERA Pag 22 Due preti di strada diventano arcivescovi di Luigi Accattoli e Marco Imarisio Don Matteo, da Roma al capoluogo emiliano: “Amo confessare i fedeli e andare in giro in bicicletta”. Una pagina nuova nell’ex roccaforte Pag 31 La nomina dei vescovi di strada figlia delle aperture del Sinodo di Andrea Riccardi LA REPUBBLICA Pag 18 I vescovi conservatori sostituiti da Francesco con due preti di strada di Paolo Rodari A Bologna e Palermo Pag 19 Ma il Papa più amato non porta consensi a una Chiesa sotto assedio di Ilvo Diamanti IL MESSAGGERO Assunzioni in Curia, lo stop del Papa di Franca Giansoldati Una lettera di Bergoglio contesta all'australiano la lievitazione dei costi e chiede di «garantire equanime trattamento ai collaboratori» Sul blocco del turnover duro scontro in Vaticano tra il Segretario di Stato Parolin e il cardinale Pell, l'uomo che amministra i conti IL GIORNALE Francesco colpisce ancora. Fa vescovi due «pretacci» di Renato Farina IL FOGLIO Pag 2 Messaggio del Papa alla chiesa italiana: arrivano i vescovi callejeros di Matteo Matzuzzi Cambio della guardia a Bologna e Palermo Pag 2 Nuovi ambiziosi progetti degli anglicani: discutere il gender di Dio di

  • Antonio Gurrado Chiesa d’Inghilterra proiettata verso la modernità WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT I «vescovi parroci» per la Chiesa italiana di Andrea Tornielli Il criterio delle ultime scelte di Francesco, da Padova a Bologna a Palermo. La proposta di una «conversione pastorale» fuori dagli schemi precostituiti WWW.CHIESA.ESPRESSONLINE.IT Chiesa sinodale. Ma a decidere tutto sarà il papa di Sandro Magister La parola "comunione" nemmeno c'è, nel testo approvato dal sinodo che riguarda i divorziati risposati. Ma in pratica ciascuno fa già come vuole. Lo spirito vale più della lettera, dice Francesco 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 8 No alle nozze gay, il caso dei giudici cattolici di Ilaria Sacchettoni Polemica per i messaggi in Rete dell’estensore della sentenza Pag 30 L’esibizionismo di Stato sui social network del giudice che condanna le nozze gay di Pierluigi Battista LA REPUBBLICA Pag 1 L’ignavia politica di Gianluigi Pellegrino Pag 10 “Mi accusano solo perché sono cattolico. Se vogliono i matrimoni, cambino la legge” di Liana Milella AVVENIRE Pag 1 Giudizio e pregiudizi di Francesco Ognibene Matrimoni gay e attacco al cattolico Pag 6 Chiarezza e buon senso hanno avuto la meglio: la Costituzione non si forza di Francesco Belletti IL FOGLIO Pag 3 Nozze gay. E discutiamone, no? Il Sinodo è finito, la Consulta ha deciso. Politica e società dove sono? 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA Pag 26 Volontariato, maratona da record di Marta Artico Hanno aderito oltre 700 ragazzi: domani il via da Piazza Ferretto Pag 26 Il centro di preghiera è abusivo, i fedeli se ne devono andare di Francesco Furlan Nella sede del controverso gruppo pentecostale “Luce del mondo” riscontrate irregolarità edilizie. Nata in Messico, per alcuni studiosi è una setta Pag 27 Celestini contro don Roberto: “Denigra il nostro lavoro” di Simone Bianchi Associazione di Chirignago IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XIII Marghera: raid dei ladri nella chiesa di Gesù Lavoratore 8 – VENETO / NORDEST

  • CORRIERE DEL VENETO Pag 1 La legittima ma saggia difesa di Massimiliano Melilli Ladri, vittime e diritto Pag 9 Perpetua senza soldi, prete indagato di Federica Fant Nel Feltrino scoppia il caso di una novantenne che avrebbe visto eroso il suo patrimonio. La querela spinta da badante e parenti. La difesa: “Quel denaro l’ha speso solo per lei” … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 L’Occidente si pente troppo di Antonio Polito Dall’Iraq alla Libia Pag 3 Il fallimento del piano europeo di Fiorenza Sarzanini Dovevano essere trasferiti 40 mila rifugiati: finora accolte 525 richieste Pag 13 Piccole vittorie che consolidano lo strano asse tra premier e Ncd di Massimo Franco Pag 30 Il consenso di opinione dopo il crollo dei partiti di Giuseppe De Rita Pag 30 Migranti, il salto di qualità che Merkel chiede alla Germania di Danilo Taino IL GAZZETTINO Pag 1 Meno Regioni per un’Italia federalista e con più efficienza di Alessandro Campi LA NUOVA Pag 1 Italicum, rivedere il malfatto di Gianfranco Pasquino

    Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 4 Ecco il respiro della Chiesa L’omelia che Paolo VI tenne in concilio il 28 ottobre 1965 Avete ora ascoltato le parole dell’apostolo, che discorre dell’azione di Cristo Signore, il quale dall’alto dei cieli continua nella Chiesa l’opera sua; opera non solo conservatrice di quella da lui stesso compiuta durante la sua vita temporale sulla terra, ma edificatrice, progressiva cioè e accrescitiva, come già in un celebre episodio del Vangelo egli stesso aveva annunciato, qualificandosi artefice degli sviluppi organici e coerenti dell’edificio da lui fondato sulla pietra da lui stesso prescelta e resa idonea al sostegno di tanta mole: «Edificherò la mia Chiesa» (Matteo, 16, 18); dice infatti san Paolo, nel brano della lettera agli Efesini testé offerto alla nostra meditazione: «Egli, Cristo, stabilì gli uni apostoli, gli altri profeti, gli altri evangelisti, gli altri pastori e maestri, per il perfezionamento dei santi, in vista dell’opera di ministero, che è l’edificazione del corpo di Cristo, fino a tanto che ci riuniamo tutti nell’unità della fede e nel riconoscimento del Figlio di Dio, giungendo alla maturità dell’uomo fatto, alla misura di età della pienezza di Cristo» (Efesini, 4, 11-13). Questo fatto, divino nella sua causa, umano nella sua storica e sperimentale consistenza, è ancor oggi tangibile ai nostri sensi spirituali, solo ch’essi siano aperti a tanto prodigio. Noi possiamo far nostra la parola messianica, già espressa da Gesù: «Oggi si è adempiuta questa Scrittura nelle vostre orecchie» (Luca, 4, 21). Che cosa infatti avviene oggi in questa basilica? Voi lo sapete: avviene che in questo

  • sacrosanto Concilio, guida e sintesi della santa Chiesa di Dio, dopo non poco studio e ripetuta preghiera, si promulgano tre Decreti di grande importanza, riguardanti la vita della Chiesa medesima; e cioè l’ufficio pastorale dei vescovi, la vita religiosa, la formazione sacerdotale; a queste leggi solenni due non meno solenni dichiarazioni fanno seguito: circa l’educazione cristiana e circa le relazioni della Chiesa cattolica con coloro che professano altre religioni. Non occorre che noi illustriamo il contenuto, a voi notissimo, di questi documenti, non la gravità, non l’estensione ch’essi avranno nel mondo e nel tempo, non la loro ripercussione, che speriamo oltremodo salutare, nelle anime e nel successivo svolgimento della vita ecclesiastica, perché ognuno di voi ha già valutato questi aspetti mirabili degli atti in questione. Diremo piuttosto a noi stessi che sarà sommamente proficuo per noi e per il nostro ministero se vorremo, anche dopo la loro promulgazione, nuovamente e tranquillamente considerare simili pronunciamenti, che la Chiesa, nell’esercizio più alto e più responsabile del suo ministero, certamente mossa dallo Spirito Santo, trae dal seno della sua interiore sapienza e a se stessa propone come conquista del suo amoroso e laborioso pensiero, fissa a se stessa come nuovo impegno, che non già la aggrava, ma la sostiene e la sublima, e le conferisce quella pienezza, quella sicurezza, quella letizia, a cui altro nome non possiamo dare che quello di vita. La Chiesa vive! Eccone la prova; eccone il respiro, la voce, il canto. La Chiesa vive! Non siete, venerabili fratelli, per questo accorsi alla convocazione di questo Concilio ecumenico? Per sentir vivere la Chiesa, anzi per farla più intensamente vivere, per scoprire non già gli anni della sua vecchiaia, ma la giovanile energia della sua perenne vitalità, per ristabilire fra il tempo, che passa e oggi, nelle mutazioni che esso provoca e presenta, si fa travolgente, e l’opera di Cristo, la Chiesa, un rapporto nuovo, che non storicizza, non relativizza alle metamorfosi della cultura profana la natura della Chiesa sempre eguale e fedele a se stessa, quale Cristo la volle e la autentica tradizione la perfezionò, ma la rende meglio idonea a svolgere nelle rinnovate condizioni dell’umana società la sua benefica missione? Per questo siete venuti; ed ecco che questi atti conclusivi del Concilio ce ne dànno esperienza: la Chiesa parla, la Chiesa prega, la Chiesa cresce, la Chiesa si costruisce. Noi dobbiamo gustare questo stupendo fenomeno; noi dobbiamo avvertirne l’aspetto messianico: da Cristo viene la Chiesa, a Cristo va; e questi sono i suoi passi, gli atti cioè con cui essa si perfeziona, si conferma, si sviluppa, si rinnova, si santifica. E tutto questo sforzo perfettivo della Chiesa, a ben guardare, altro non è che un’espressione d’amore a Cristo Signore; a quel Cristo che suscita in essa l’esigenza di essere e di sentirsi fedele, di mantenersi autentica e coerente, viva e feconda; e che a sé, sposo divino, la chiama e la guida. E questo movimento ha la sua causa ministeriale precisamente nell’apostolicità della Chiesa, in quella funzione, di cui Cristo ha dotato il suo corpo mistico e sociale, e che mette in evidenza ed efficienza una gerarchia apostolica e pastorale, la quale deriva parola, grazia e potere dal Signore medesimo, li conserva, li perpetua, li trasmette, li esercita, li sviluppa, rendendo vivo e santo al di dentro, visibile, cioè sociale e storico al di fuori il Popolo di Dio. Noi stiamo celebrando uno dei momenti più pieni e più significativi di tale apostolicità; noi dobbiamo sentircene investiti, non già per attribuire merito alle nostre persone, ma per far risalire a Cristo la gloria di atti, che, nel suo nome e in virtù dello Spirito Santo ch’egli c’infonde, stiamo compiendo, e per far discendere, umili ministri mediatori quali noi siamo, alla grande famiglia di Dio, ch’è la santa Chiesa, gli incrementi costruttivi approntati per la sua edificazione tuttora in atto. Ci piace perciò che questo avvenga nella festa dei santi apostoli Simone e Giuda, all’onore dei quali una parola del Signore è stata dedicata, con la lettura del Vangelo ora ascoltata, nella quale parola non della facilità e della felicità della missione apostolica è fatta promessa, sì bene della difficoltà ch’essa incontra e della sofferenza riservata, a chi la esercita, è data lezione. Ci piace, altresì, che questo si verifichi nel giorno anniversario dell’elezione del nostro venerato predecessore Giovanni XXIII, alla cui ispirata idea si deve la convocazione del Concilio. Ci piace pertanto l’essere con noi, concelebranti intorno a questo apostolico altare, alcuni vescovi, fratelli carissimi, rappresentanti di terre, dove la libertà, a cui il Vangelo ha sovrano diritto, è limitata o negata, testimoni alcuni stessi di loro della sofferenza, di cui è fatto segno l’apostolo di Cristo. A questi fratelli, alle Chiese, di cui ci portano il ricordo della generosa passione, ai Paesi, ch’essi con la loro presenza ci fanno maggiormente amare, sia con questa nostra sacrificale preghiera l’espressione della nostra solidarietà, della nostra carità, del nostro voto di giorni migliori. Così a quei vescovi fratelli, qui con noi presenti

  • e provenienti da nazioni, dove la pace è turbata con tante lacrime e sangue e rovine, e con tanta minaccia di nuovi dolori, un affettuoso saluto augurale affinché l’ordine con la giustizia, la concordia e la pace sia nelle loro contrade felicemente ristabilito. E parimente a voi tutti, fratelli in Cristo carissimi, apostoli e pastori nel suo nome, araldi del suo Vangelo e costruttori della sua Chiesa, sia con la comunione della presente celebrazione, alla quale partecipate, ovvero assistete, l’assicurazione della nostra carità e l’invito a perseverare con noi concordi e unanimi, confortati dai nuovi decreti conciliari a edificare la santa Chiesa di Dio. E voglia il Signore, che abbiamo misticamente e fra poco sacramentalmente con noi, confortare e santificare il nostro apostolico e pastorale ufficio; ne profitti e ne gioisca l’universale comunità del clero, dei religiosi, dei fedeli, come per novella ostensione di carità; a ciò Cristo ha infatti ordinato il ministero gerarchico. E vogliamo a questa manifestazione del volto reso più bello della Chiesa cattolica guardare i nostri cari fratelli cristiani, tuttora separati dalla sua piena comunione; vogliamo parimente guardare i seguaci delle altre religioni, fra tutti quelli a cui la parentela di Abramo ci unisce, gli ebrei specialmente, non già oggetto di riprovazione o di diffidenza, ma di rispetto e di amore e di speranza. La Chiesa infatti progredisce nella fermezza della verità e della fede, e nell’espansione della giustizia e della carità. Così vive la Chiesa. Pag 7 Pastori non tosatori di Diego Fares La figura del vescovo secondo Bergoglio Pubblichiamo ampi stralci tratti dal secondo capitolo del libro di un gesuita argentino, scrittore della Civiltà Cattolica, che il Pontefice ha regalato ai padri sinodali al termine dell’assemblea straordinaria del sinodo dei vescovi sulla famiglia (Il profumo del pastore. Il vescovo nella visione di Papa Francesco, Milano, Àncora, 2015, pagine 127, euro 12,50). È possibile concentrare la figura del vescovo, nel pensiero di Papa Francesco, in un’immagine nettamente pastorale: quella del pastore con l’odore delle pecore e il sorriso di padre. “L’odore delle pecore” fa ricordare anche altri temi di Bergoglio molto caratteristici: il vegliare e il custodire. Così pure il discernimento, attento ad alimentare il gregge con la sana dottrina e a difenderlo dai nemici, i lupi che vengono in veste di pecora, ma non possono nascondere il loro “odore di lupo”. Infatti, il senso spirituale dell’olfatto permette al vescovo di scoprire e respingere la tentazione della mondanità spirituale, con i suoi profumi sofisticati: gli offre un criterio “olfattivo” per conservare l’appartenenza al gregge dal quale fu tolto e per essere riconosciuto dalle pecore in modo che non le possa perdere. In che senso questa prospettiva pastorale è la chiave della figura del vescovo? Comprendere le opzioni pastorali di Papa Francesco come frutto di un discernimento che lo fa andare avanti in perfetta continuità e sintonia con la Tradizione implica comprendere bene che, nello spirito del concilio Vaticano II e dei papi suoi predecessori, le esigenze pastorali e le esigenze dottrinali non si oppongono, ma si unificano. Diceva Bergoglio nel 2009, parlando alla riunione plenaria della Pontificia Commissione per l’America Latina: «Nel linguaggio del concilio e della conferenza di Aparecida, “pastorale” non si oppone a “dottrinale”, ma lo implica. E nemmeno l’esigenza pastorale è una semplice “applicazione pratica e contingente della teologia”. Al contrario, la Rivelazione stessa - e quindi tutta la teologia - è pastorale, nel senso che è Parola di salvezza, Parola di Dio per la vita del mondo». Sappiamo che Papa Francesco non ha difficoltà a parlare dei “peccati dei pastori” - includendo in essi anche se stesso e la Curia - a un mondo come il nostro nel quale si è ridotto “il senso del peccato”. Tuttavia, se guardiamo bene, la sua frase più emblematica sui pastori, quella che ha raggiunto il cuore di tutti, non è venuta dal versante dell’“etica”, che si impone in modo costrittivo, ma da quello dell’“estetica”, che attrae irresistibilmente. La frase famosa è questa: voglio «pastori con l’odore delle pecore [...] ma con il sorriso di papà», come ha aggiunto nel Giovedì santo del 2015. Questa è la figura del vescovo che c’è nel cuore del Santo Padre. Ed è uguale per i sacerdoti, per i cardinali e per lo stesso Papa: pastori che non solo non pretendono di vestirsi con la lana delle pecore, ma che sono “appassionati” a servirle. Come vediamo, più che di una figura del vescovo, si tratta di un odore. Un odore che, come ogni odore forte, evoca “chiaramente” molte immagini, ma la

  • principale, quella che si deve leggere sine glossa, “senza commenti”, quella che va “annusata”, è senza dubbio l’immagine dei pastori che pascolano le pecore e non se stessi. Facciamo un po’ di storia. Alla fine degli anni settanta si mettevano in evidenza le immagini che usava il giovane provinciale dei gesuiti di Argentina: alcuni vogliono essere dei «tosatori di pecore» - diceva - invece che «pastori del popolo di Dio». «Quando la mia coscienza è così isolata dalla coscienza di quella porzione del fedele popolo di Dio che devo pascolare, allora è il momento di domandarci cosa vogliamo “guadagnare”. Cosa difendo con questo isolamento? Un dispotismo pastorale? Un compito strano che mi porta a essere “tosatore di pecore”, invece di pastore? La realtà pastorale è quella di gente desiderosa di una religione che la avvicini a Dio, che il prete sia un pastore, e non un tiranno, o un raffinato che si perde nelle fioriture di moda». Aveva altre espressioni, come quella del gesuita che non deve essere «né talpa né farfalla», ma questa dei tosatori di pecore ha descritto bene la tentazione di diventare apostoli decorativi che non curano le pecore più deboli e non cercano quelle smarrite, ed è rimasta nel cuore di molti per sempre. Forse è utile dire che le sue non erano semplici “figure retoriche”. Durante la formazione ricevuta come studenti gesuiti, il nostro Colegio Máximo ha preso nuova vita come Casa di formazione, e il discorso delle pecore divenne realtà, sia nella tenuta agricola che nell’attività apostolica delle cappelle. Nella tenuta agricola avevamo comprato pecore, mucche e maiali, avevamo ricuperato alveari residui di periodi precedenti e anche coltivato un bellissimo orto. Noi studenti ci dedicavamo al lavoro e allo studio, e l’odore dei maiali rendeva quello delle pecore, letteralmente, più gradevole. Mi ricordo di un compagno che, passeggiando per l’orto del nostro Colegio Máximo, ha visto che Bergoglio, nostro rettore, stava aiutando una pecora a partorire. Sorpreso, il mio compagno gli ha offerto il suo aiuto. La pecora aveva rifiutato un agnellino dei tre che aveva partorito. Bergoglio ha riflettuto un attimo e improvvisamente ha preso quell’agnellino e glielo ha consegnato dicendogli: «Custodiscilo!». «E come si fa?», ha detto il mio compagno. «Vai all’infermeria e riscalda un po’ di latte e daglielo con il biberon». Per cinque mesi questo studente ha avuto l’agnello in camera sua, che propriamente puzzava di odore di pecora! L’agnello lo seguiva per tutta la casa, fino in chiesa e nelle aule. Alla fine, Bergoglio gli ha detto: «Ti ho provato. Tu hai imparato questo: se tu la custodisci, la pecora ti segue. Fa’ così». AVVENIRE Pag 2 La misericordia è il nostro imperativo di Marina Corradi Nelle parole del Papa la prima eredità del Sinodo C’è un asse portante, un nucleo forte che questo Sinodo ci lascia, una parola semplice abbastanza perché tutti, anche noi semplici fedeli, la si possa comprendere, e su cui si possa riflettere? «Il primo dovere della Chiesa non è quello di distribuire condanne o anatemi, ma è quello di proclamare la misericordia di Dio, di chiamare alla conversione e di condurre tutti gli uomini alla salvezza del Signore», ha detto il Papa sabato, nel suo discorso conclusivo. Il primo dovere della Chiesa non è distribuire condanne, ma proclamare la misericordia di Dio. Questa è una parola chiarissima; non nuova, ma nel corso della storia tanto dimenticata quanto, ogni volta, riscoperta da nuove generazioni di cristiani. Perché tenaci e risorgenti sono le due tentazioni citate nello stesso discorso da Francesco: quella del fratello maggiore del Figliol prodigo, e quella degli operai gelosi. Sempre, fra noi, chi osserva tutta la legge corre il rischio di finire con il sentirsi 'bravo', e di ingelosirsi per le attenzioni del Padre a quelli che tanto bravi non sono stati: il fratello che ha dilapidato la sua fortuna, i compagni che solo al tramonto si sono messi all’opera. E allora nasce la tentazione di credersi detentori della grazia, di poterla amministrare oculatamente, seguendo alla lettera la legge, e perdonando, se si perdona, con rigida misura. Ma, ha ricordato il Papa, la Chiesa è «dei poveri in spirito e dei peccatori in ricerca del perdono e non solo dei giusti e dei santi, anzi dei giusti e dei santi quando si sentono poveri e peccatori». Dove il sapersi peccatori è la condizione per essere capaci di misericordia: quanto duri si diventa, quando si crede di non avere nulla da farsi perdonare. E dunque l’asse portante pare disegnato, dopo tanto ampio e dotto lavoro del Sinodo, in poche, profonde parole di Francesco. Prima di tutto la Chiesa è chiamata ad annunciare al mondo la misericordia infinita del nostro Dio, e non a distribuire anatemi e condanne. È questo, possiamo interrogarci, il nostro sguardo? C’è, e da qualche anno

  • più forte, fra alcuni cattolici una spinta all’irrigidimento, quasi che la pratica troppo larga della misericordia fosse un annacquamento della fede. Eppure, c’è anche, nella 'base' della Chiesa, in tanti semplici sacerdoti e parroci e credenti, la coscienza ereditata dell’imperativo morale della misericordia: di guardare all’altro, dal significato etimologico della parola, «con viscere materne». Ci vengono in mente i preti 'di strada' intervistati questa estate su Avvenire. Quello di Napoli che, al domandargli di come si opera in una terra di camorra, ha risposto fiero, e con paterna tenerezza: «Guardi che i figli dei camorristi, sono i miei bambini», spiegando poi come il bene e il male negli uomini non siano mai del tutto distinti, e non si possa, mai, chiudere la porta a chi bussa a una chiesa. Oppure quella frase di Francesco ci riporta il pensiero al giovane prete della Val di Non, in Trentino, parroco di un’Unità pastorale con ben 13 piccole comunità sparse per le montagne: i cui nomi elencava a memoria, indicandole, biancheggianti le pievi nella vallata, come un pastore indica le sue pecore. Gli avevi chiesto se l’insistere di Francesco sull’andare verso le periferie, sulla 'Chiesa in uscita' aveva cambiato il suo sguardo sulla sua gente. No, ci aveva risposto: «La mia Chiesa era già sulla linea della accoglienza, il Papa ci ha rafforzato in questo sguardo». Che cosa vuol dire per lei, gli avevamo chiesto allora 'accoglienza'? «Vuol dire che come cristiani, prima di qualsiasi giudizio, dobbiamo essere capaci di abbracciare chiunque ci si presenta davanti». E la breve frase, detta con naturalezza in una nuda canonica di montagna, ci aveva colpito nella sua limpida semplicità. Abbracciare chiunque ci si presenta davanti, come fa una madre con i suoi figli che ritornano a casa, comunque. Non è questa forse la misericordia cui il Papa richiama la Chiesa? Una Chiesa che in tanti dei suoi, preti, o fedeli sconosciuti, questa memoria e questo imperativo non lo ha dimenticato. Pag 24 Bonhoeffer. Con i salmi nel lager di Gianfranco Ravasi Chi prega nei Salmi? «In primo luogo è David in persona a pregare nei salmi, ma in quanto anticipazione profetico-messianica, che porta già in sé il messia: in David è Gesù Cristo che prega. Ma Cristo non può venir separato dal suo corpo, la Chiesa, e dalle sue membra: quindi in Cristo pregano con le parole del salterio anche la chiesa e i singoli cristiani». È la sintesi, che si legge nella postfazione, del volume Pregare i salmi con Cristo, l’ultimo degli scritti pubblicati in vita da Dietrich Bonhoeffer (1940), ora pubblicato da Queriniana (pp 88, euro 9,50) con una prefazione del cardinale Gianfranco Ravasi (che a fianco anticipiamo). Dalla biografia apprendiamo che Bonhoeffer «si è occupato intensivamente dei Salmi nel periodo del vicariato collettivo nella Pomerania orientale»: questo lavoro biblico, che amplia il discorso che il teologo sviluppa in Vita comune sull’interpretazione e «sull’uso costante dei salmi», ha una chiara impostazione pedagogica: «Signore, insegnaci a pregare». Ed è opportuno ricordare che lo stesso testo che in questi giorni pubblica Ludwig Monti, monaco di Bose, è significativamente intitolato Imparare a pregare (Qiqajon, pp. 126, euro 13). Pregare «significa procedere nel cammino verso Dio e parlare con lui». Non è semplice: «Per trovare questa strada non bastano le risorse umane ed è necessario Gesù Cristo». La lettura bonhefferiana del Salterio è essenzialmente cristologica. Egli raggruppa i Salmi in dieci capitoletti: la creazione, la legge, la storia della salvezza, il messia, la Chiesa, la vita, la sofferenza, la colpa, i nemici, la fine. Studia il rapporto tra queste sezioni e il Pater noster e spiega che tutto il Salterio è incluso nella preghiera di Gesù». Saggio robusto, frutto di sofferta meditazione. Gianfranco Ravasi per l’edizione italiana e Gerhard Ludwig Muller e Albrecht Schonherr (che scrivono pagine introduttive e di commento: sono i curatori dell’edizione critica in lingua tedesca), ci guidano nella lettura del testo con riflessioni ricche di riferimenti storici, esegetici, teologici. I Salmi suscitano a una prima lettura sorprese, perplessità, dubbi: occorre accostarli non solo col cuore ma soprattutto con la mente, muovere dalla consapevolezza che l’importante «non è ciò che risponde al nostro volere, ma ciò che Dio vuole sia detto nella nostra vocazione». I Salmi sono Parola di Dio, ma Parola di Dio «non è solo quella che Dio ci dice, ma anche quella che egli vuole udire da noi, in quanto Parola del Figlio che egli ama». Cristo muore «con le parole dei salmi sulle labbra». Bonhoeffer lo ricorda con passione. E aggiunge: «Una comunità cristiana perde un tesoro incomparabile se non ricorre al salterio, mentre scopre in sé una forza insospettata quando lo ritrova».

  • Con le sue 19531 parole ebraiche il Salterio è, per ampiezza, il terzo libro anticotestamentario, dopo quelli di Geremia e della Genesi. Ma la sua presenza nella storia della tradizione giudaica, prima, e cristiana, poi, è stata primaria. Si pensi, ad esempio, che delle circa 60.000 citazioni bibliche che costellano gli scritti di sant’Agostino, 20.000 appartengono alle Scritture ebraiche e di esse 11.500 sono desunte dai salmi, il libro sacro più citato dopo i Vangeli. Ma non è stato solo l’aspetto quantitativo a dominare. Lo stesso Padre della Chiesa, infatti, nelle sue Enarrationes in Psalmos esclamava: « Psalterium meum, gaudium meum!, dando idealmente voce a un’appassionata adesione corale che continuerà per secoli nella cristianità. Questa stessa adesione gioiosa e mistica pervade anche il breve e denso testo che Dietrich Bonhoeffer ha dedicato ai Salmi. Egli, infatti, confessa: «Chi ha iniziato a pregare il Salterio con serietà e regolarità, ben presto darà il 'ben servito' alle altre più facili e familiari 'preghiere devozionali' dicendo: 'Qui non c’è il vigore, la forza, l’impeto e il fuoco che trovo nel Salterio, tutto sembra freddo e arido' (Lutero) ». Non è, però, una sintonia sentimentale per cui «l’eco di ogni nostra invocazione resta confinata all’interno del nostro io». Il pregare salmico genuino è, infatti, grazia; sboccia da un dialogo aperto da Dio stesso: come «il bambino impara a parlare in quanto il padre gli parla [...], allo stesso modo impariamo a parlare a Dio, in quanto Dio ci ha parlato e ci parla». In questa luce non dovrebbe stupire che nella Bibbia, che è per eccellenza Parola di Dio, ci si imbatta in un libro di preghiere. «A un primo sguardo è molto sorprendente trovare nella Bibbia un libro di preghiera. Infatti la sacra Scrittura è la Parola di Dio a noi, mentre le preghiere sono parole umane. Come mai entrano nella Bibbia? [...] La Bibbia è Parola di Dio anche nei salmi. Ma allora le preghiere a Dio sono Parola di Dio?». La risposta a questo interrogativo sta proprio nella natura dialogica delle Scritture, ma soprattutto nella loro chiave di volta che è la figura del Figlio, di Gesù Cristo, Dio e uomo. È lui a trasfigurare la parola umana orante in parola divina benedicente. «Gesù Cristo ha portato al cospetto di Dio ogni miseria, ogni gioia, ogni gratitudine e ogni speranza degli uomini. Sulle sue labbra la parola umana diventa Parola di Dio, e nel nostro partecipare alla sua preghiera la Parola di Dio si fa a sua volta parola umana». L’asse ermeneutico che Bonhoeffer adotta erigendolo a chiave costante di lettura dei Salmi è, quindi, cristologico: «Se la Bibbia contiene anche un libro di preghiere, questo ci insegna che la Parola di Dio non è solo quella che Dio ci dice, ma anche quella che egli vuole udire, in quanto Parola del Figlio che egli ama». L’arco intero della nostra esistenza umana viene assunto da Cristo e trasformato in gloria divina, anche nel momento più cupo perché «Gesù è morto sulla croce con le parole dei salmi sulle labbra». Anzi, il grande teologo e testimone cristiano non esita a rispondere anche al quesito più spinoso: «Come può Cristo pregare con noi coi salmi» che confessano una colpa? Ebbene, i cosiddetti 'salmi penitenziali', in realtà, oltre ad essere espressione della fiducia pura nella grazia divina che getta alle spalle il peccato (per cui Lutero li definiva «salmi paolini»), sono attestazione dell’espiazione redentrice di Cristo per la nostra salvezza: «Gesù prega per la remissione del peccato, non a causa di un suo peccato, ma a causa del nostro peccato di cui egli si è fatto carico, per il quale soffre». noto, però, che il Salterio è anche un testo poetico che dev’essere sottoposto all’analisi storico-critica, come già aveva intuito san Girolamo che nella sua Lettera 53 a Paolino non esitava a scrivere che «Davide è il nostro Simonide, il nostro Pindaro, il nostro Alceo, il nostro Flacco, il nostro Catullo. È la lira che canta Cristo!». Il libro si rivela, infatti, come un cantiere per la critica testuale, a causa della sua secolare trasmissione e delle relative modifiche e persino degenerazioni. Si presenta anche come un laboratorio filologico sia in ragione della disparità cronologica nella composizione dei vari carmi, sia per le caratteristiche lessicali molto variegate, sia per i passaggi dall’originale ebraico alla versione greca dei Settanta e al finale testo masoretico vocalizzato. Il Salterio è anche un campo fecondo di analisi letterarie: si pensi alla questione dei vari generi letterari, alle strutture poetiche spesso raffinate e complesse, all’affascinante dispiegarsi delle immagini che rendono i salmi «un giardino di simboli», per usare un’espressione del grande Thomas S. Eliot. Né si possono ignorare le reinterpretazioni che, come accade per i canti regali, possono trasferire certe composizioni salmiche nell’orizzonte messianico, come faranno i Settanta per l’intero Salterio e come è accaduto nella liturgia e nella teologia cristiana attraverso la prospettiva cristologica. Anche Bonhoeffer, sia pure in modo semplificato, è consapevole di questi problemi esegetici, a partire dalla

  • simbolica e fittizia attribuzione a Davide, «il cantor de lo Spirito Santo... il sommo cantor del sommo duce», come lo aveva definito Dante nel Paradiso. Ecco, allora, la scelta di organizzare la sua sintesi introduttoria al Salterio attraverso un decalogo tematico che è anche una catalogazione dei vari registri e generi letterari che reggono le 150 composizioni salmiche. Si passa, così, dagli inni che cantano la creazione, contemplata non tanto liricamente ma in un atto adorante, alla legge divina celebrata come meditazione dell’«azione redentiva di Dio e prescrizione di una nuova vita nell’ubbidienza ». Si va dalla storia della salvezza, esaltata come sequenza di atti divini che dall’Egitto giungono al Golgota, perché è in Cristo che si ha il compimento dell’itinerario salvifico. La storia salvifica ha, poi, un approdo con l’irrompere della figura del Messia, il cui volto è naturalmente riletto alla luce di quello di Cristo. Nei salmi dedicati a Sion e al tempio si intuisce il profilo della «Chiesa di Dio in tutto il mondo e di ogni luogo in cui Dio abita presso la sua comunità nella Parola e nel sacramento». In questa linea si colloca anche l’ampio spettro oscuro delle suppliche nelle quali si stende il pianeta tenebroso della sofferenza, della lotta, della paura, del dubbio. «Chi soffre, combatte contro Dio in difesa di Dio», osserva Bonhoeffer che, però, in questo orizzonte vede ancora una volta ergersi la figura di Gesù paziente, «il solo ad aver provato integralmente» la sofferenza, irradiandola però con la sua fiducia e con la sua stessa divinità che vince e trascende il male. Così accade, come si è detto, per i salmi 'penitenziali' e anche per gli imbarazzanti 'salmi imprecatori', segnati da un anelito bruciante alla vendetta. La domanda, in questo caso, è scontata: essi incarnano forse «un grado inferiore di religiosità?». «Possiamo, dunque, da cristiani pregare questi Salmi?». E la risposta è ancora una volta cristologica. «La preghiera per la vendetta di Dio è la preghiera per la piena applicazione della sua giustizia nel giudicare i peccati»; ma questo compimento lo si ha «non per la via più consueta». «La vendetta di Dio non ha infatti colpito i peccatori, ma l’unico innocente, che ha preso il posto dei peccatori, il Figlio di Dio. Gesù Cristo ha portato il peso della vendetta di Dio», dell’adempimento della necessaria giustizia nei confronti del male. Creazione, legge, storia della salvezza, Messia, Sion-Chiesa, vita, sofferenza, colpa, vendetta: il decalogo dei generi salmici delineato da Bonhoeffer si conclude con uno sguardo proiettato verso l’ultima meta, che è anche l’ultimo tema, «la fine» o, forse meglio, «il fine » dell’intero essere ed esistere, l’escatologia. «Oggetto della preghiera nei salmi è la vita in comunione con il Dio della rivelazione, la vittoria finale di Dio nel mondo e l’instaurarsi del regno messianico». È la stessa meta a cui ci conduce il Nuovo Testamento, è lo stesso respiro che regge il Padre nostro, considerato da Bonhoeffer come l’ideale summa del Salterio. Perciò, «l’unica cosa importante è il ricominciare di nuovo con fedeltà e amore a pregare i salmi, in nome del nostro Signore Gesù Cristo». CORRIERE DELLA SERA Pag 22 Due preti di strada diventano arcivescovi di Luigi Accattoli e Marco Imarisio Don Matteo, da Roma al capoluogo emiliano: “Amo confessare i fedeli e andare in giro in bicicletta”. Una pagina nuova nell’ex roccaforte Città del Vaticano. Ancora due nomine spiazzanti fatte annunciare ieri dal Papa: un parroco di Modica, Corrado Lorefice, 53 anni, sarà arcivescovo di Palermo; e un vescovo ausiliare di Roma, Matteo Maria Zuppi, 60 anni, diventa arcivescovo di Bologna. Prendono il posto dei cardinali Paolo Romeo e Carlo Caffarra dimissionari per età, ambedue hanno 77 anni. Si tratta di due scelte sorprendenti - benché anticipate dai media - perché in discontinuità con i criteri tradizionali di nomina dei vescovi delle grandi sedi, che una volta si chiamavano «cardinalizie». Il criterio tradizionale voleva che a capo delle città capoluogo venissero posti degli ecclesiastici con vasta esperienza e - possibilmente - con una qualche tappa romana del loro curriculum. Il criterio che invece pare segua Francesco è quello dell’uscita dalle cordate ecclesiastiche e dell’avvicinamento alle «pecore». Zuppi era già vescovo da tre anni: la sua fu una delle ultime nomine di papa Benedetto. Nato e sempre vissuto a Roma, è stato parroco di Santa Maria in Trastevere dal 2000 al 2010 e poi a Torre Angela, una periferia a dominante nigeriana. È stato assistente della Comunità di Sant’Egidio e con la comunità si è adoperato nella vicinanza agli anziani, agli immigrati, agli zingari, ai tossici. Sempre con Sant’Egidio si è interessato dell’Africa: da iniziative per la liberazione di missionari rapiti alle mediazioni di pace, in particolare nel Mozambico e in Burundi, in questo caso

  • collaborando con Nelson Mandela. Molto popolare, alla mano, gira per la città in bicicletta. Corrado Lorefice fino a ieri era parroco e teologo, impegnato sul fronte del contrasto culturale alla mafia: ha scritto un libro su Puglisi dal titolo «La compagnia del Vangelo. Discorsi e idee di don Pino Puglisi a Palermo». È nato a Ispica, nel Ragusano, ultimamente era parroco di San Pietro Apostolo a Modica ed è docente presso lo Studio Teologico San Paolo di Catania. Per intendere la mossa audace del Papa basterà ricordare il curriculum dei predecessori a Palermo lungo l’ultimo settantennio: Ernesto Ruffini (1945- 1967) e Francesco Carpino (1967-1970) venivano dalla Curia Romana, Salvatore Pappalardo (1970-1996) dalla diplomazia vaticana, Salvatore De Giorgi (1996-2006) dall’esperienza romana di assistente dell’Azione Cattolica, Paolo Romeo (2006-2015) dalla diplomazia vaticana. Una decisa volontà di uscire dai criteri tradizionali nelle nomine di vescovi e cardinali Papa Bergoglio l’aveva già mostrata in più occasioni. Per esempio con la nomina a cardinali degli arcivescovi di Perugia (Bassetti), Ancona (Menichelli) e Agrigento (Montenegro), che non erano «sedi cardinalizie». Con la chiamata a segretario della Cei del vescovo - allora sconosciuto - di Cassano all’Ionio Nunzio Galantino. Con le nomine recenti di un parroco di Forlì, Erio Castellucci, ad arcivescovo di Modena; e di un parroco di Mantova, Claudio Cipolla, a vescovo di Padova, che è la quarta diocesi d’Italia per numero di abitanti. Don Matteo Zuppi - la chiamo come la chiamano tutti a Roma - quando farà il suo «ingresso» a Bologna? «Non lo so, devo prendere accordi con il cardinale Caffarra. Mi piacerebbe arrivare lassù quando partirà il Giubileo della Misericordia: non potrebbe esservi avvio migliore». Allora l’8 dicembre? «Quel giorno si festeggia l’Immacolata e si ricorda il cinquantesimo del Vaticano II: non potrebbe esservi giorno migliore, ma ancora non so. Bologna ha dato molto al Vaticano II, con il cardinale Lercaro, Dossetti e tanti altri. L’insegnamento del Concilio che ci indica un atteggiamento chiave verso il mondo: quello del servizio di carità e dell’annuncio del Vangelo. Quello di un’immensa simpatia. Mi ispirerò a quell’eredità». Conosce Bologna? «Sono stupito d’essere trasferito, dolorante per i tanti distacchi che si profilano. E sono stupito anche per la destinazione: io sono romano romano, non ho nessun precedente biografico che mi leghi a Bologna». È intimorito? Lei è presentato da tutti come un prete di strada, da tre anni un vescovo di strada: che ci fa un prete di strada a Bologna? «No, per questo non sono intimorito. Conosco i miei limiti, non presumo nulla. Imparerò, mi lascerò cambiare dall’incontro con quella città dalla grande storia e dalle forti esperienze sociali, dal grande umanesimo. Ma come prete di strada penso che mi ci troverò bene, perché è il Vangelo che ci spinge a uscire per le strade per incontrare tutti, a cominciare dai poveri. Gesù è sempre in cammino nei Vangeli e così dobbiamo fare noi vescovi, anzi noi cristiani. Così penso che farò». Uscendo per le strade si corrono rischi... «Ma se resti al chiuso ti ammali, come dice papa Francesco. Non bisogna avere paura di contaminarsi. Il cristiano non deve avere alcun timore di quello che può venirgli da fuori. Deve temere solo il male che gli può uscire dal cuore. Vedo la Chiesa nella città, cioè nella comunità degli uomini, come un fiume che l’attraversa e non ha paura di sporcarsi attraversandola». Lei è stato parroco a Trastevere e a Torre Angela, periferia con l’odore dell’Africa. Gira per Roma in bicicletta anche ora che è vescovo: pensa di cercare le periferie anche a Bologna? «Non so nulla delle periferie di Bologna, ma penso che vi siano. Soprattutto so che vi sono, dappertutto e quindi anche a Bologna, tanti tipi di periferie: quella della solitudine, quella della sofferenza, quella delle molteplici emarginazioni, quella della lontananza da Dio. Indubbiamente le cercherò, o mi lascerò trovare se verranno a cercarmi». Un suo libro è intitolato: «La confessione. Il perdono per cambiare» (San Paolo, 2010). Le piace confessare? «Quel libro l’ho scritto da parroco, per i miei parrocchiani. Sì, amo confessare. La confessione ci mette in rapporto con l’abisso del cuore umano e con l’abisso della misericordia di Dio. È un dono straordinario e invece ne abbiamo fatto un appuntamento

  • pauroso. Condivido spontaneamente l’idea di papa Francesco: abbiamo tutti un disperato bisogno di misericordia. La confessione è il sacramento della misericordia». Lei ha celebrato almeno due volte con il vecchio rito, in latino. Lo farà anche a Bologna? «Mi è stato chiesto e l’ho fatto volentieri. Se me lo chiederanno immagino che lo farò, ma di ciò che farò a Bologna non so ancora nulla. Con i gruppi romani che mi fecero quella richiesta ho ritenuto giusto compiere un gesto di comunione e di vicinanza. Sono favorevole a ogni uscita da ogni chiusura». Nel 1956 il cardinal Giacomo Lercaro nutriva grandi speranze per la sua Bologna. Aveva convinto il teologo ex partigiano Giuseppe Dossetti, rappresentante della Democrazia cristiana all’Assemblea costituente, a sfidare il sindaco uscente, Giuseppe Dozza, comunista, ex partigiano. «La caduta della roccaforte sarebbe per il Soviet italiano un colpo mortale» scriveva in una lettera all’intellettuale cattolico Giuseppe Lazzati. La delusione fu grande. Dozza venne rieletto. Fu allora che Papa Pio XII rinunciò all’utopia di una nuova presenza dei cattolici nella città delle due Chiese. Da quel momento la diocesi di Bologna avrebbe dovuto fare da severo argine al pericolo rosso. Il primo a farne le spese fu Lercaro, protagonista del Concilio Vaticano II, rimosso da Paolo VI nel 1968 dopo l’omelia nella quale condannava in nome di Dio i bombardamenti nel Vietnam. Cominciò l’era intransigente della chiesa bolognese, incarnata dal milanese Giacomo Biffi, che esordì rivolgendosi agli emiliani come popolo «sazio e disperato», propose una «nuova evangelizzazione» della capitale comunista, e sempre bacchettò Bologna per il suo «ansioso estetismo». «Anche da noi è finito il Novecento» sussurra un esponente della curia di via Altabella. La nomina di don Matteo Zuppi ad arcivescovo della seconda diocesi più grande d’Italia può essere letta in modi diversi. Il primo è quello di una prova di forza da parte dell’attuale Pontefice. Nella diocesi finora governata da Carlo Caffarra, difensore della tradizione, uno dei prelati più critici sul nuovo corso, arriva un religioso progressista, un prete cosiddetto di strada da molti considerato come il Bergoglio italiano. Le cose non sono sempre come appaiono a prima vista. L’opposizione di Caffarra a ogni struttura che non rientri nella famiglia tradizionale si è spesso accompagnata a una teologia dei poveri che non disdegnava la pratica, come dimostra l’istituzione del Fondo anticrisi nel 2009. Monsignor Zuppi, uomo di profonda cultura, ha spesso manifestato ammirazione per gli studi di Benedetto XVI. Inoltre è difficile credere che Papa Francesco possa aver tenuto conto del passato, e la roccaforte rossa non è più tale da tempo. Eppure le differenze tra vecchio e nuovo pastore sono evidenti. Non importa se in modo voluto o meno. Ma ieri anche per la Chiesa si è chiuso un pezzo i mportante di storia italiana. Pag 31 La nomina dei vescovi di strada figlia delle aperture del Sinodo di Andrea Riccardi La nomina dei nuovi arcivescovi di Bologna e Palermo è una sorpresa per il profilo dei due prescelti. Il nuovo vescovo di Palermo, Corrado Lorefice, è un parroco siciliano che ha scritto un libro sulla Chiesa dei poveri secondo il Concilio Vaticano II: viene chiamato a una sede prestigiosa a cui erano inviati normalmente vescovi provati. A Bologna è stato nominato Matteo Zuppi, vescovo ausiliare di Roma, uomo dell’incontro, con all’attivo una storia di impegno per i poveri e per la pace in Africa. La nomina di questi due vescovi «di strada», ma anche del dialogo, è stata comunicata proprio il giorno anniversario della preghiera per la pace tra le religioni voluta nel 1986 da Giovanni Paolo II quasi trent’anni fa. Queste scelte sono un segno indicatore per l’intero cattolicesimo italiano, alla vigilia del prossimo convegno nazionale della Chiesa a Firenze. Avvengono anche dopo il Sinodo dei vescovi, quello in cui si è più discusso in tutta la storia di questa istituzione. Molti hanno ipotizzato, sia per il Sinodo sia per gli attacchi mediatici al Papa, una fase calante di un pontificato, finora caratterizzato da una lunga «luna di miele» con l’opinione pubblica. In realtà non sono le discussioni a spaventare o rallentare il Papa. Le avrebbe potute evitare introducendo una riforma sui matrimoni motu proprio . Certo, ha avuto qualche spiacevole sorpresa nei lavori sinodali («metodi non del tutto benevoli» - ha detto). Sono modi che, per lui, nascono dall’ideologizzazione della fede. Invece vanno superate «ogni ermeneutica cospirativa o chiusura di prospettive» - ha ammonito. Sono parole forti e chiare, unite all’invito a vivere il

  • Vangelo come fonte viva, mentre c’è «chi vuole “indottrinarlo” in pietre morte da scagliare contro gli altri». In realtà Francesco sa che una Chiesa di un miliardo di fedeli, presente in mondi tanto differenti, ha bisogno di nuova articolazione e di più profonda coesione. Le differenze ci sono. Ma non si risponde con più centralizzazione, mostratasi, negli ultimi anni, in affanno nelle strutture vaticane. Il mondo globale da una parte unifica mentalità e costumi, ma dall’altra provoca radicalizzazioni delle identità. La Chiesa anglicana è arrivata al conflitto tra le comunità africane e inglesi. Per la Chiesa cattolica è un’altra storia, anche se i mondi che la compongono sono variegati. Al recente Sinodo, sono emersi blocchi, che ricordavano quelli nazionali degli antichi Concili (che però erano legati agli Stati). Si è vista la differenza dei vescovi dell’Est europeo dai colleghi occidentali. Il rapporto tra Cristianesimo e nazione nell’Est, nonostante la secolarizzazione, è diverso dall’Ovest. I vescovi polacchi hanno fatto quadrato sulla famiglia, mentre le opinioni dei vescovi dell’Europa occidentale erano diversificate. C’è poi il blocco africano, non così compatto com’è rappresentato. L’Africa è ricca e complessa. Modelli d’inculturazione del passato sembrano arcaici per i giovani che aspirano a stili di vita globali. La famiglia africana non è più quella di una volta, come si vede dalle gravi difficoltà degli anziani a differenza di ieri. Il Papa andrà prossimamente in Africa e proporrà la grande sfida della missione di fronte a quella delle sette e dell’Islam, ma pure in presenza di corruzione e diritti dell’uomo calpestati. Sta per aprire una nuova pagina del pontificato in un continente in cui la storia corre. Bisogna mettere insieme mondi diversi nella Chiesa. Francesco parla di «decentralizzazione», non per indulgere a spinte centrifughe, ma perché convinto che la complessità vada composta camminando insieme: «sinodalmente» - ha detto. Il che non significa una Chiesa introversa che passa il tempo a discutere e litigare. Nemmeno la copia del regime sinodale ortodosso, incentrato sull’orizzonte nazionale. Nel cuore di questo vasto e vario popolo, c’è il ministero del Papa: «Non è una limitazione della libertà, ma una garanzia dell’unità» - ha detto Francesco, disponibile, come lo fu Giovanni Paolo II, a rivederne le forme di esercizio. Quindi non sono le mediocri «bombe» mediatiche né le discussioni sinodali a impegnare il Papa, bensì la realizzazione d’una Chiesa-popolo, non minoranza «pura e dura», globalmente unita in un mondo lacerato e conflittuale. È un grande cantiere - un processo, direbbe il Papa - a cui egli vuole associare vescovi «di strada», per dare coraggio a un popolo che continua a mostrare voglia di partecipare a questa stagione della Chiesa. In questa linea la nomina di monsignor Zuppi e monsignor Lorefice è un passo ulteriore. LA REPUBBLICA Pag 18 I vescovi conservatori sostituiti da Francesco con due preti di strada di Paolo Rodari A Bologna e Palermo Città del Vaticano. Dopo la nomina del parroco mantovano don Claudio Cipolla come nuovo vescovo di Padova, Francesco stupisce ancora con altre due nomine "dal basso": per Palermo, al posto del cardinale Paolo Romeo, sceglie don Corrado Lorefice, 53 anni, finora semplice parroco a Modica (Ragusa) e vicario per la pastorale della diocesi di Noto; mentre a Bologna sulla cattedra di San Petronio, finora retta dal cardinale Carlo Caffarra, nomina monsignor Matteo Zuppi, 60 anni, figura storica della Comunità di Sant'Egidio, di cui è assistente ecclesiastico dal 2000 oltre che, dal 2012, vescovo ausiliare della diocesi di Roma per il settore Centro. Lorefice e Zuppi sono due sacerdoti molto amati dal popolo, vicini alla gente, pastori «con l'odore delle pecore», come li vuole Papa Francesco. Lorefice, pressoché sconosciuto nei palazzi romani ed estraneo alle "terne" che erano state predisposte per Palermo, si contraddistingue per l'attività contro le mentalità e i comportamenti mafiosi nella sua terra. Ha scritto libri su don Puglisi, il Concilio Vaticano II e il monaco Dossetti. Zuppi, che è stato anche ex parroco di Santa Maria in Trastevere, si è distinto per l'instancabile azione a sostegno dei più poveri, degli immigrati, dei rom, senza escludere l'attività di diplomazia esercitata con la Comunità di Sant' Egidio. Arrivare a Bologna da Roma non è cosa scontata, tenuto anche conto che da anni sulla cattedra di San Petronio si sono succeduti vescovi non contigui alla linea conciliare messa in campo dall'innovatore Giacomo Lercaro dal 1952 al 1968. Significative, anche in questo senso, le prime parole che Zuppi ha rivolto tramite un

  • messaggio ai suoi nuovi fedeli: ha posto l'accento sul fatto che la Chiesa deve essere «di tutti, proprio di tutti, ma sempre particolarmente dei poveri»; ha citato il Concilio Vaticano II, monsignor Oscar Romero e Giovanni XXIII. Anche don Lorefice ha avuto ieri parole importanti: «Dopo la nomina ho pensato subito a don Pino Puglisi, la colpa è sua», ha detto a TV2000 . «La mia nomina - ha aggiunto - è frutto della Provvidenza. Nella vigna del Signore si lavora ovunque si è chiamati, a Modica sono stato chiamato a dare la vita e farò lo stesso a Palermo sulle orme di Gesù, non cambia nulla. Ho pensato che fosse un errore, poi pian piano ho maturato dentro di me che fino ad ora sono stato dove il Signore attraverso la Chiesa mi ha chiamato. È accaduto anche per questa nomina e ho deciso di dire sì». Francesco nella scelta de vescovi, così anche nella creazione dei cardinali, non guarda alle gerarchie che negli ultimi anni hanno deciso delle carriere ecclesiastiche italiane. Non considera nessuna diocesi come cardinalizia, e anche nelle sedi sulla carta più prestigiose manda umili sacerdoti, preti che sono stati capaci di contraddistinguersi per un impegno fattivo verso gli ultimi. Spesso, prima di nominare un nuovo vescovo, nomina diversi ausiliari, forse per tastarli sul campo, per rendersi conto lui stesso di quanto siano in grado o meno di essere pastori al servizio della gente. Pag 19 Ma il Papa più amato non porta consensi a una Chiesa sotto assedio di Ilvo Diamanti Il Sinodo, che si è appena concluso, ha confermato i cambiamenti in atto nella Chiesa. Sui temi etici e sociali. È stato, peraltro, scosso dalle rivelazioni, poi smentite, circa un presunto tumore al cervello, da cui sarebbe afflitto il Pontefice. Segnali che confermano come la spinta innovativa, impressa da papa Francesco, abbia prodotto tensioni che trascendono il campo religioso. Papa Francesco e la Chiesa, infatti, si rivolgono a pubblici, in parte, diversi. Per dimensione. E orientamento. Difficile incontrare un divario altrettanto ampio, nei precedenti pontificati. Dai primi anni Duemila, nessun Papa è stato altrettanto apprezzato. Almeno, in Italia. Dove ha sede il Vaticano. Karol Wojtyla, papa Giovanni Paolo II, era, a sua volta, molto popolare. Secondo un sondaggio condotto da Demos nel 2003, più di 3 italiani su 4 esprimevano fiducia nei suoi confronti. All'epoca, fra gli italiani, anche la Chiesa disponeva di un consenso elevato. Superiore al 60%. Nel decennio successivo, tuttavia, il clima d'opinione si raffredda. In particolare, dopo il 2005, anno di elezione di Joseph Ratzinger, Benedetto XVI. Allora la fiducia nel Papa e, insieme, nella Chiesa declina. Si allinea, intorno al 50%. Joseph Ratzinger, d'altronde, è troppo intellettuale e - all'apparenza - distaccato, per suscitare passione. Benedetto XVI, per scelta consapevole, intraprende un cammino diverso. Deve confrontarsi con nuove sfide. Fra tutte: la secolarizzazione "consumista" e le migrazioni, che allargano il campo religioso. Attraverso l'ingresso di comunità che praticano altre fedi. Fra tutte: l'Islam. Così, la Chiesa di Ratzinger si dedica a marcare i confini: religiosi ed etici. Coltiva quello che, il suo maestro, Romano Guardini, definì «il distintivo cristiano». Ciò che "distingue" e differenzia i cristiani - e, in particolare, i cattolici - dagli altri "fedeli". Il messaggio di Benedetto XVI, dunque, si orienta principalmente al mondo cattolico. Per rafforzarne la coesione e le convinzioni. Anche così si spiega la riduzione dei consensi. Verso il Papa e, al contempo, verso la Chiesa. Visto che il Papa agisce, consapevolmente, anzitutto, "nella" Chiesa. E parla, principalmente, al mondo cattolico. La fiducia nei suoi confronti, di conseguenza, si "concentra" e si de-limita. Fino alle sue dimissioni, che ne umanizzano e valorizzano l'identità. Così il suo credito, presso gli italiani, nel febbraio 2013, risale oltre il 53%. Mentre nei confronti della Chiesa si ferma al 44%. D'altronde, allora, oltre il 70% degli italiani si diceva d'accordo con la scelta di Ratzinger. Ritenuta una reazione, di fronte a una Chiesa (romana) lacerata da lotte interne e scossa dagli scandali. Gli succede Jorge Mario Bergoglio, papa Francesco. E ottiene, subito, la fiducia di una larghissima maggioranza di italiani. Più di 8 su 10. Oltre il doppio rispetto alla Chiesa, che, nei primi mesi del suo pontificato, vede scendere la propria credibilità intorno al 40% dei consensi. Da ciò l' impressione che la fiducia nel Papa dipenda, in parte, da una condotta alternativa rispetto alla curia vaticana. Non per nulla l'ha definita e (stigmatizzata) come «l'ultima corte d'Europa». Nei due anni successivi, comunque, il consenso verso Bergoglio si è, in qualche misura, riverberato sulla Chiesa. Che ha visto crescere la propria credibilità, fino a superare il 50%. Come

  • nella prima fase del pontificato di Benedetto XVI. Attualmente la fiducia nella Chiesa si aggira intorno al 47%. In altri termini: quasi 40 punti meno di papa Bergoglio, apprezzato da oltre l' 80% degli italiani. Il distacco fra i due soggetti, il Papa e la Chiesa, in effetti, non è mai stato così ampio. Neppure all'epoca di papa Wojtyla. Le ragioni di questa differenza sono evidenti se si valutano gli orientamenti in base alla pratica religiosa. Papa Francesco, infatti, è guardato con fiducia dalla quasi totalità dei praticanti più assidui e saltuari. Ma anche da una larga maggioranza (57%) di coloro che non vanno a messa. La fiducia verso la Chiesa, invece, è molto elevata, fra i praticanti assidui, ma crolla fra i saltuari e scompare insieme alla pratica. Per un confronto, il consenso verso papa Ratzinger, nel 2009 (Demos per Repubblica), superava il 60%, fra i praticanti e i saltuari, ma scendeva alla metà, fra i non praticanti. In altri termini, papa Francesco unifica il sentimento degli italiani, al di là della fede e della pratica religiosa. La Chiesa, invece, lo divide. Non solo per ragioni di fede. Anche perché non sempre riesce a offrire un' immagine credibile. A causa di alcuni comportamenti che papa Francesco non ha esitato a denunciare. Anche per questo il sostegno a Francesco risulta così alto. E trasversale. Anche dal punto di vista politico. Il Papa, infatti, piace a sinistra ma anche a destra. Agli elettori del PD ma anche, e ancor più, a quelli di FI. Piace alla base del M5S, un po' meno ai leghisti. Che non ne apprezzano la pietà verso i profughi. Tuttavia, anche tra loro il gradimento per Francesco supera l'80%. Questi dati, peraltro, suggeriscono il motivo, forse principale, di ri-sentimento verso il Papa, all'interno di alcune componenti della Chiesa-istituzione. Al di là delle logiche difensive di alcuni soggetti privilegiati, c'è una questione sostanziale. Questo Papa: è troppo popolare - per alcuni un po' populista. Troppo proiettato - e amato - all'esterno. Troppo aperto. Mentre la Chiesa, in questi tempi, si sente minacciata dalla secolarizzazione. Dalla cultura del consumo. Vede il proprio spazio conteso da altre religioni. Questo Papa: piace troppo a troppi, per essere accettato senza problemi da una Chiesa- fortezza. Assediata dal mondo. IL MESSAGGERO Assunzioni in Curia, lo stop del Papa di Franca Giansoldati Una lettera di Bergoglio contesta all'australiano la lievitazione dei costi e chiede di

    «garantire equanime trattamento ai collaboratori» Sul blocco del turnover duro scontro in Vaticano tra il Segretario di Stato Parolin e il cardinale Pell, l'uomo che amministra i conti

    Città del Vaticano. Con una lettera del tutto anomala nel suo genere, il Papa ha comunicato al Segretario di Stato che occorre ripristinare un po' di ordine nell'amministrazione vaticana. Basta con l'anarchia. Il tema in oggetto riguarda la confusione che si era venuta a creare progressivamente, in alcuni dicasteri, a seguito dell'avvio della riforma avviata due anni fa e ancora in atto per ridisegnare la mappa di governo all'insegna della razionalità e del contenimento dei costi. Bergoglio è stato costretto ad intervenire di persona per ripristinare il blocco delle nuove assunzioni con la possibilità del solo turn-over. DIVERGENZE DI VEDUTE - Il blocco in questi anni è stato rispettato pressoché da tutte le congregazioni, eccetto che dal super dicastero dell'economia diretto dal potentissimo cardinale Pell. L'autonomia di azione del cardinale ha dato origine ad una situazione un po' ingarbugliata, fino a fare emergere dissapori tra lo Zar dei conti - come viene chiamato in curia - e la Segreteria di Stato guidata dal cardinale Parolin. Al di là del Tevere sono in molti a rammentare episodi concreti scaturiti proprio dalle divergenze di vedute e di governo: Pell più dirigista e indipendente, Parolin maggiormente orientato al gioco di squadra. Alla fine il Papa è stato costretto ad intervenire di persona per ridisegnare i confini e ripristinare le regole. Visto che il processo di riforma è ancora in atto le norme da rispettare non possono che rifarsi alla vecchia costituzione apostolica, la Pastor Bonus, promulgata da Giovanni Paolo II. Come dire che non c'è vacatio legis. «Mentre il percorso di riforma di alcune strutture della Curia, alla quale si sta dedicando il Consiglio di Cardinali da me istituito il 28 settembre 2013, sta procedendo secondo il programma stabilito, debbo rilevare come siano emersi alcuni problemi, ai quali intendo prontamente provvedere. Desidero anzitutto ribadire come il presente periodo di transizione non sia affatto tempo di vacatio legis».

  • «EQUANIME TRATTAMENTO» - Bergoglio ha disposto che l'osservanza delle norme comuni sia necessaria «per garantire l'ordinato svolgimento del lavoro, e per assicurare un equanime trattamento, anche economico, a tutti i collaboratori». Di conseguenza le assunzioni ed i trasferimenti del personale dovranno essere effettuati nei limiti delle tabelle organiche, escluso ogni altro criterio, con il nulla osta della Segreteria di Stato e nell'osservanza delle prescritte procedure, compreso il riferimento ai parametri retributivi stabiliti. Eccezion fatta per lo Ior che resta una zona a parte, totalmente svincolata, sotto l'esclusivo controllo dei cinque cardinali e del Papa. LA PROTESTA DEI TREDICI - La lettera a Parolin, letta in filigrana, rappresenta un ridimensionamento del peso del cardinale Pell, il quale senza mai essere citato viene ugualmente tirato in ballo per le assunzioni fatte e per la lievitazione dei costi dovuti alle consulenze esterne di cui si è avvalso. Spetterà a Parolin portare a conoscenza di tutti le nuove disposizioni di Bergoglio. La lettera era nell'aria da qualche tempo. Avrebbe dovuto essere pubblicata prima del Sinodo ma l'azione di protesta dei 13 cardinali (tra cui Pell) che hanno fatto avere a Bergoglio un appunto scritto e firmato il primo giorno del Sinodo, ha costretto Francesco a farla slittare fino ad oggi. IL GIORNALE Francesco colpisce ancora. Fa vescovi due «pretacci» di Renato Farina Normale in Vaticano. Ormai lo straordinario con Bergoglio si è fatto consueto. Francesco dice del proprio pontificato: «Questo è il tempo della misericordia», e cerca di marcare ogni sua decisione con il segno della vicinanza della Chiesa ai più poveri. Per questo ha scelto come arcivescovi di Palermo e di Bologna due preti che vengono dal duro lavoro della compagnia fatta ai povericristi, a quelli che più sono stati feriti dalla vita, le prostitute, i senzatetto, gli ex detenuti. Insomma, vescovi samaritani. A Palermo va don Corrado Lorefice, parroco di Modica, un giovanottone forte, che veste spesso in borghese, alla Luigi Ciotti, per intenderci, e non dimostra i suoi 53 anni. Viene invece inviato in Emilia, a pascere quei bolognesi «sazi e disperati» di cui parlò il cardinale Biffi, Matteo Maria Zuppi, 60 anni, ma ne dimostra di più, una figura antica, ascetica come i preti di Bernanos, emaciato come il santo curato d'Ars. Lorefice, detto il don Ciotti siciliano bazzicava da giovane prete don Puglisi, assassinato dalla mafia, che visse il proprio martirio con un sorriso carico di tenerezza per il carnefice. Subentra al cardinale Paolo Romeo, il quale aveva tutt'altro curriculum, era infatti stato al top della diplomazia vaticana, nunzio in Italia. In pratica era il prelato che selezionava i candidati all'episcopato. Zuppi, a sua volta, un po' diplomatico lo è stato e lo è: viene dalla comunità di Sant'Egidio e ha condotto con successo le trattative per la pace in Mozambico. Era stato fatto vescovo ausiliario di Roma, nel gennaio del 2012. A Bologna prende il posto del cardinale Carlo Caffarra, grande teologo, ratzingeriano assoluto, forse il cardinale più colto del collegio dei porporati, e nel contempo uomo molto vicino ai lavoratori: quando ereditò la Faac, azienda primaria nei cancelli comandati elettronicamente, il comitato di fabbrica tirò un respiro di sollievo: non avrebbe licenziato nessuno, e così è stato. Bergoglio aveva avvertito: voglio che diventi vescovo chi ha fatto di tutto per non diventarlo. I teologi facciano il loro lavoro nelle università, insegnino nei seminari e scrivano libri. Deve fare il vescovo chi «è pastore e ha l'odore delle pecore addosso», non quello dei libri e dell'incenso. Viene da pensare che, se ci fosse stato un Papa Bergoglio, Bergoglio non sarebbe diventato vescovo. Era provinciale dei gesuiti, non di una comunità di recupero di tossicodipendenti, e fu anche molto diplomatico nel preservare i suoi nel momento della dittatura del generale Videla. Un'avvertenza dunque: occhio all'ideologia. Quella di chi vuole slegare Francesco dal vincolo della tradizione e da un legame coi suoi predecessori, quasi che Benedetto XVI e Giovanni Paolo II si compiacessero di promuovere azzimati monsignori o alti papaveri senza misericordia, invece che preti amici del popolo. La mossa di questi teorici del «papato di rottura» era già stata anticipata con abile mossa di marketing ecclesiastico alcuni giorni fa con lo slogan: «Due preti di strada diventano vescovi». La retorica, che guaio. Si presta molto all'equivoco. In questo caso voluto: costruendo una specie di piedistallo di superiorità morale per Lorefice e Zuppi, instillando così l'idea che gli altri siano sì vescovi, ma un po' meno degni, un po' meno pastori. Di certo il Papa un segno vuole però darlo, e chiaro. Basta con le carriere ecclesiastiche degli abatini del

  • Settecento. Del resto, i primi apostoli erano pescatori, l'unico intellettuale del gruppo era Giovanni. Per altro, tra tutti e dodici, Giuda è quello che si arrabbia con la Maddalena perché spreca profumo prezioso per spargerlo sui piedi di Gesù. Disse: «Si poteva vendere quest'olio per più di trecento denari, e darli ai poveri» (Marco 14, 5). Occhio all'ideologia dunque. IL FOGLIO Pag 2 Messaggio del Papa alla chiesa italiana: arrivano i vescovi callejeros di Matteo Matzuzzi Cambio della guardia a Bologna e Palermo Roma. Il 9 novembre si aprirà a Firenze il Convegno ecclesiale nazionale che darà alla chiesa italiana la linea per il prossimo decennio, con le priorità e direttive nell' èra di Francesco. A pochi giorni dall'appuntamento che vedrà lo stesso Pontefice recarsi nel capoluogo toscano, il Papa ha fornito un primo (e chiaro) segnale dell'orientamento che intende dare alla Conferenza episcopale italiana - che aveva già avuto modo di scuotere un paio di mesi dopo l'elezione al Soglio di Pietro - nominando i nuovi arcivescovi di Bologna e Palermo. Sulla cattedra che è stata occupata prima da Giacomo Biffi e poi da Carlo Caffarra, Francesco ha scelto Matteo Maria Zuppi, sessantenne vescovo ausiliare di Roma dal 2012 e già assistente ecclesiastico generale della Comunità di Sant' Egidio dal 2000 al 2012. Strettissimo collaboratore di Andrea Riccardi, all'inizio degli anni Novanta fu tra i mediatori nella grave crisi politica scoppiata in Mozambico, la cui soluzione positiva gli valse la cittadinanza onoraria del paese africano. A Palermo, Bergoglio ha mandato don Corrado Lorefice, parroco cinquantatreenne di San Pietro a Noto e lì vicario per la pastorale. In entrambi i casi, il Papa ha rifiutato - come la prassi ammette - la terna originaria di candidati che la congregazione per i Vescovi gli aveva sottoposto dopo il lento iter di consultazioni tra il clero locale. Il profilo scelto da Francesco per le due sedi che la tradizione vorrebbe cardinalizie (tradizione che il Pontefice argentino ha già fatto capire di non considerare troppo) è inequivocabile: non professori né diplomatici di carriera, ma preti cosiddetti di strada che camminano con l'odore delle pecore. Nel suo primo messaggio di saluto alla diocesi bolognese, Zuppi ha citato mons. Romero quando disse che "il vescovo ha sempre molto da apprendere dal suo popolo". L'invito è a mettersi "assieme per strada, senza borsa e bisaccia, con l'entusiasmo del Concilio Vaticano II, per quella rinnovata pentecoste che Papa Benedetto si augurava". L'imminente anno giubilare della misericordia diviene l'occasione per dire che "Gesù non di Massimo Bordin condanna ma usa misericordia 'invece di imbracciare le armi del rigore', come diceva Giovanni XXIII. Infatti senza ascolto e senza misericordia si finisce tristemente per vedere, come continua Giovanni XXIII, 'certo sempre con tanto zelo per la religione', ma solo 'rovine e guai'". Don Lorefice ha dedicato, oltre all'attività pastorale a Modica, volumi su don Pino Puglisi e soprattutto sul cardinale Giacomo Lercaro e su colui che questi scelse come proprio perito di fiducia al Concilio, don Giuseppe Dossetti. Libri in cui centrali sono i contenuti dell' intervento programmatico e dal sapore profetico tenuto da Lercaro il 6 dicembre 1962 nel corso della trentacinquesima congregazione conciliare: "Chiesa e povertà", l'auspicio affinché la povertà fosse "l'unico tema di tutto il Vaticano II". Non si tratta di scelte a sorpresa, se si considerano le nomine decise da Francesco negli ultimi mesi per la chiesa italiana. La scorsa estate, ad esempio, aveva mandato a Padova un parroco di Mantova, mons. Claudio Cipolla, anche qui andando a pescare fuori dalla regione ecclesiastica del Triveneto. La linea è chiara: scuotere la chiesa italiana, mescolare le carte, troncare carrierismi e ambizioni di presuli che speravano di intraprendere "scalate alla cattedra", magari arrivando fino alla porpora. Le due nomine odierne confermano poi che Bergoglio è propenso a non compiere troppi trasferimenti di sede, mostrandosi in sintonia con il pensiero fatto proprio qualche lustro fa dal cardinale Bernardin Gantin, per quattordici anni prefetto della congregazione per i Vescovi, in un'intervista alla rivista 30 Giorni: "Quando viene nominato, il vescovo deve essere per il popolo di Dio un padre e un pastore. E padre lo si è per sempre. E così un vescovo, una volta nominato in una determinata sede, in linea di massima e di principio deve rimanere lì per sempre. Sia chiaro. Il vescovo che viene nominato non può dire 'sono qui per due o tre anni e poi sarò promosso per le mie capacità, i miei talenti, le mie doti'".

  • Pag 2 Nuovi ambiziosi progetti degli anglicani: discutere il gender di Dio di Antonio Gurrado Chiesa d’Inghilterra proiettata verso la modernità Lunedì per la prima volta una donna s'è insediata alla Camera dei Lord in qualità di vescovo anglicano ma non sarà questo il motivo per cui la data passerà alla storia. Sulla lunga scadenza ce la ricorderemo piuttosto per l'introduzione di un tema inatteso che potrebbe dominare il prossimo Sinodo generale della chiesa d'Inghilterra, previsto dal ventitré novembre al 2020 con regolari sessioni quadrimestrali fra Londra e York: "Dio è maschio o femmina"? Il vescovo di Gloucester Rachel Treweek infatti ha esordito invitando le gerarchie anglicane a parlare di Dio senza più utilizzare il pronome maschile. In inglese è un bel problema poiché qualsiasi verbo richiede di essere retto da un soggetto che non può essere omesso come in italiano. Sembra una disputa quodlibetale di grammatica teologica che dovrebbe stonare in una chiesa proiettata verso modernità e futuro quale l'anglicana si picca di essere; è invece un punto cardine che, per via della contingenza in cui cade, magari peserà sul Sinodo più di quanto si sospetti. In primo luogo, maschi contro femmine. Questo 2015 è stato l'anno dell’ordinazione del primo vescovo donna, Libby Lane a Stockport, oltre che della prima vescova nominata Lord - mica male considerato che in tutto sono solo tre. Naturalmente è già partita la polemica contro la schiacciante maggioranza di vescovi di sesso maschile che ancora non s'è espressa contro la mascolinità di Dio, mentre da Durham la reverenda Miranda ThrelfallHolmes ha ridotto la questione a slogan: "God is beyond gender". Costei si augura una teologia di modello scandinavo, facendo notare che in Svezia non ci sono pronomi maschili o femminili. "I pronomi che utilizziamo influiscono sul nostro credo", ha dichiarato all' Independent. A furia di pensare a innovazione e avvenire la di Adriano Sofri chiesa d' Inghilterra è regredita ai tempi in cui le femministe americane volevano chiamare le donne "womyn" per evitare di scrivere l'odiato sintagma "men". Probabilmente non sapere lo svedese inficia la mia credibilità teologica ma dal dizionario emerge che "lui" si dice "han" e "lei" si dice "hon"; solo ad aprile è stato introdotto nel vocabolario il pronome neutro "hen". A questo punto tanto vale che i vescovi inglesi dicano "it" e tutto si risolve degradando Dio da Egli a Esso. In realtà il problema è a monte e non c'entra coi pronomi bensì con la definizione dell' io, ormai sempre preponderante su quella di Dio. La Treweek ha fatto correggere la dicitura della propria nomina a Lord in quanto trasponeva la tradizionale formula "reverendo padre in Dio" in "reverenda madre in Dio". Ha dichiarato all'Observer di non voler essere considerata madre perché il termine ha una connotazione troppo limitativa e gregaria per un vescovo che, etimologicamente, "è un leader". Allora è femminista? "Sì, se ciò significa che Dio ha creato uomini e donne uguali ma diversi". Sta camminando sul sottile crinale fra l'ovvia presa di coscienza che di Dio si possa parlare solo per approssimazione, quindi non ha senso attribuirgli un sesso, e la meno ovvia benché diffusa tendenza a ritenere che Dio debba essere "beyond gender" così come ogni individuo lo è per autodeterminazione: infatti al Sinodo anglicano si preannuncia centrale il tema dell' inclusione di fedeli ed ecclesiastici di identità o preferenze sessuali difficilmente catalogabili. Tutto sta in come si rigira la questione del genere; la Treweek sostiene che Dio non possa essere maschio, se ha fatto lei a sua immagine e somiglianza, ma non si domanda se lei non stia facendo Dio un po' troppo a immagine e somiglianza di se stessa. WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT I «vescovi parroci» per la Chiesa italiana di Andrea Tornielli Il criterio delle ultime scelte di Francesco, da Padova a Bologna a Palermo. La proposta di una «conversione pastorale» fuori dagli schemi precostituiti Prima di Bologna e Palermo, c'era stata Padova. Con la nomina a sorpresa del sacerdote mantovano don Claudio Cipolla, approdato dalla sua parrocchia alla cattedra della diocesi del Santo, la quarta d'Italia per estensione. Con le nomine di Matteo Zuppi e Corrado Lorefice, la scelta di Francesco si ripete. Certo, Zuppi non arriva alla guida della diocesi felsinea da semplice parroco, ma da vescovo-parroco, ausiliare di Roma, pastore vicino

  • ai suoi sacerdoti e alla gente. Mentre fa ancora più scalpore che nel capoluogo siciliano venga inviato come arcivescovo un (relativamente) giovane parroco della diocesi di Noto. Di per sé, l'arrivo su cattedre episcopali importanti per antica tradizione ed estensione di sacerdoti non ancora vescovi, non è una novità nella storia anche recente della Chiesa. Basti pensare soltanto che Milano, la diocesi più grande d'Europa e una delle principali del mondo, nell'ultimo secolo ne ha avuti ben tre: Alfredo Ildefonso Schuster, Giovanni Battista Montini, Carlo Maria Martini. I primi due sono già beati, il secondo ha dovuto lasciare Milano perché eletto Papa. I loro profili sono però diversi da quelli delle ultime nomine di Francesco: Schuster era un abate benedettino che Papa Ratti volle inviare come arcivescovo di Milano nel 1929, un anno dopo che aveva concluso per conto della Santa Sede una visita apostolica nel seminario ambrosiano. Montini non era vescovo, ma al momento della nomina milanese - da lui inizialmente vissuta come un «esilio» - contava più di un vescovo ed era pro-Segretario di Stato, principale collaboratore di Papa Pacelli. Infine Martini, gesuita, biblista, era rettore della Gregoriana quando Giovanni Paolo II lo scelse, nel dicembre 1979. Nelle due nomine odierne, ad emergere sembra essere un altro criterio: il prevalere dell'esperienza e del servizio pastorale sul campo. Non tanto o non soltanto la frequentazione delle aule accademiche e dei simposi (ambiente dal quale peraltro non è affatto alieno il nuovo arcivescovo di Palermo, don Lorefice) ma la fatica quotidiana della vita in parrocchia. Con una particolare attenzione al servizio per gli ultimi, i più poveri. Il Papa, oltre a essere vescovo di Roma, è anche primate d'Italia e ha uno speciale legame con la Conferenza episcopale italiana, l'unica a tenere le sue assemblee generali in Vaticano. Le ultime tre scelte di Papa Bergoglio marcano certamente un cambio di rotta per quanto riguarda i meccanismi di selezione dei vescovi da inviare alla guida di diocesi così vaste e storicamente significative. Vi si può leggere in filigrana l'identikit del pastore sul quale più volte Francesco ha insistito: che sta non soltanto davanti al gregge, ma anche in mezzo al gregge per confortare, e dietro il gregge, per far sì che nessuno si perda tra coloro che fanno più fatica. Non si tratta di introdurre nuove parole d'ordine di stampo «bergogliano» per sostituire le precedenti frasi fatte apprezzate dal mainstream del potere ecclesiastico. La portata di queste scelte, soprattutto nei casi di Padova e Palermo (come Zuppi faccia il vescovo ausiliare a Roma è infatti già abbastanza noto), si vedrà sul campo nel prossimo futuro. La riuscita di ogni episcopato, al di là dei limiti delle persone, si gioca soprattutto nel rapporto con il clero e poi con la gente: cioè se i preti trovano nel vescovo qualcuno che accoglie, ascolta, consiglia e non allontana. E se la gente riconosce nel vescovo la figura di un pastore che non gestisce un potere sacro ma con semplicità si fa vicino e accompagna. Allora potrà anche non avere la carica di sant'Ambrogio nel predicare, o non raggiungere sempre le vette di sant'Agostino nelle sue lettere pastorali, ma potrà essere, nella sua diocesi un testimone autentico, «un povero Cristo vicario di Cristo» come si definì, salutando i cardinali che l'avevano eletto, Papa Luciani. WWW.CHIESA.ESPRESSONLINE.IT Chiesa sinodale. Ma a decidere tutto sarà il papa di Sandro Magister La parola "comunione" nemmeno c'è, nel testo approvato dal sinodo che riguarda i divorziati risposati. Ma in pratica ciascuno fa già come vuole. Lo spirito vale più della lettera, dice Francesco Il punto di svolta è stato il terzo rapporto del circolo di lingua tedesca, diramato la sera di martedì 20 ottobre. Interi suoi blocchi sono entrati nel documento conclusivo del sinodo in almeno tre punti cruciali: teoria del "gender", "Humanae vitae" e comunione ai divorziati risposati. Il rapporto del "Germanicus" iniziava però con una nota di biasimo per "le dichiarazioni pubbliche di alcuni padri sinodali". Richiesto di dire a chi la nota si riferisse, il cardinale Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco e personalità di spicco del circolo, ha additato il colpevole nel cardinale australiano George Pell e in quanto da lui dichiarato al quotidiano di Parigi "Le Figaro". In effetti Pell aveva detto di assistere in sinodo "alla terza battaglia teologica tra due teologi tedeschi e dunque due visioni simbolo, quella di Kasper e quella di Ratzinger", uno scontro che "dura da parecchio, ma spero che presto questa stagione si chiuda e da questo sinodo emerga la chiarezza". Verissimo. Perché i due principali punti di scontro di questo sinodo sono stati e

  • continuano ad essere proprio le due questioni capitali su cui si sono scontrati nell'arco di trent'anni Walter Kasper e Joseph Ratzinger: la comunione ai divorziati risposati e il rapporto tra Chiesa universale e Chiese locali. CHIESA UNIVERSALE E CHIESE LOCALI - Riguardo alla seconda questione, Kasper sosteneva la simultaneità originaria della Chiesa universale e delle Chiese particolari e vedeva all'opera in Ratzinger "un tentativo di restaurazione teologica del centralismo romano". Mentre Ratzinger rimproverava a Kasper di ridurre la Chiesa a una costruzione sociologica, mettendo in pericolo l’unità della Chiesa e in particolare il ministero del papa. La disputa tra i due era iniziata nel 1983, culminò con la pubblicazione nel 1992 di una lettera della congregazione per la dottrina della fede di cui Ratzinger era prefetto, dal titolo "Communionis notio", ed è proseguita fino al 2001, con un ultimo scambio di stoccate sulla rivista dei gesuiti di New York, "America". Ma divenuto papa, Ratzinger è tornato a ribadire la sua tesi nell'esortazione apostolica postsinodale "Ecclesia in Medio Oriente" del 2012: "La Chiesa universale è una realtà preliminare alle Chiese particolari, che nascono nella e dalla Chiesa universale. Questa verità riflette fedelmente la dottrina cattolica e particolarmente quella del Concilio Vaticano II. Introduce alla comprensione della dimensione gerarchica della comunione ecclesiale e permette alla diversità ricca e legittima delle Chiese particolari di articolarsi sempre nell’unità, luogo nel quale i doni particolari diventano un’autentica ricchezza per l’universalità della Chiesa". Oggi invece papa Francesco auspica, nella "Evangelii gaudium", che le conferenze episcopali diventino "soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale", poiché "un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria". E in pieno sinodo, lo scorso 17 ottobre, ha ribadito "la necessità di una salutare decentralizzazione", cioè l'affidamento agli episcopati nazionali "del discernimento di tutte le problematiche che si prospettano nel loro territori". La disputa è tutt'altro che astratta, se si bada a ciò che ha detto la scorsa primavera il cardinale Marx, numero uno dei vescovi di Germania: "Non siamo una filiale di Roma. Ogni conferenza episcopale è responsabile della cura pastorale nel proprio contesto culturale e deve predicare il Vangelo nel proprio modo originale. Non possiamo aspettare che un sinodo ci dica come dobbiamo modellare qui la cura pastorale del matrimonio e della famiglia". Il sinodo ora c'è stato, ma in Germania – e non solo – già da tempo si fa ciò che si vuole, a proposito della comunione ai divorziati risposati. E siamo all'altro punto dello storico scontro tra Kasper e Ratzinger. LA COMUNIONE AI DIVORZIATI RISPOSATI - Nei primi anni Novanta Kasper, all'epoca vescovo di Rottenburg, assieme ai vescovi di Magonza Karl Lehmann e di Friburgo Oskar Saier, sfidò il divieto di Roma di dare la comunione ai divorziati risposati, formulato da ultimo nell'esortazione "Familiaris consortrio" di Giovanni Paolo II del 1981. Il botta e risposta con Ratzinger ebbe fine nel 1994, con una lettera a tutti i vescovi del mondo della congregazione per la dottrina della fede di cui era prefetto, che ribadiva il divieto. E per un paio di decenni Kasper tacque sull'argomento. Ma da quando Jorge Mario Bergoglio è papa, l'ultraottantenne cardinale è tornato in prima linea a riproporre le sue tesi, questa volta con l'iniziale sostegno del nuovo successore di Pietro, che nel febbraio del 2014 diede proprio a lui l'incarico di dettare la linea ai cardinali riuniti in concistoro, in vista del doppio sinodo sulla famiglia. E per una citazione inappropriata di Ratzinger fatta da Kasper in quella sua relazione, il confronto tra i due ha avuto l'anno scorso un inatteso seguito. Le reazioni di cardinali e vescovi contro le tesi di Kasper furono però tali e tante da stupire anche papa Francesco, che in effetti da un certo punto in poi sembrò distanziarsi da lui un poco. E ancor più massicce si sono palesate le opposizioni nel sinodo di questo mese d'ottobre, al punto da indurre lo stesso Kasper a ritirare le sue proposte e a ripiegare su una soluzione minima, l'unica che riteneva ancora presentabile in aula con speranze di successo. Curiosità della sorte: tale soluzione minima era proprio un'ipotesi affacciata più volte da Ratzinger, prima da cardinale in un saggio del 1998 e poi da papa con la ripub