Giancarlo Erasmo Saccoman · 2015. 4. 5. · Un’azione di politica economica per l’occupazione....

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Giancarlo Erasmo Saccoman

LA (CONTRO)RIFORMA DEL LAVORO

(Jobs Act)

Introduzione diMatteo Gaddi

Edizioni Punto RossoI Tascabili

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Finito di stampare: novembre 2014presso Digital Print, Segrate, Milano.

EDIZIONI PUNTO ROSSO Via G. Pepe 14 - 20159 Milano Telefoni e fax 02/87234046 [email protected]; www.puntorosso.it

Direzione EditorialeRoberto Mapelli e Raffaele K. Salinari.

Redazione delle Edizioni Punto Rosso: Nunzia Augeri,Eleonora Bonaccorsi, Laura Cantelmo, Serena Daniele,Roberto Mapelli, Giuseppe Marchi, Stefano Nutini, EricaRodari, Raffaele K. Salinari, Pietro Senigaglia, DomenicoScoglio, Franca Venesia.

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INDICE

Introduzione di Matteo Gaddi 7

PREMESSA 29

LA FLESSIBILITÀ DEL LAVORO, 47UNA TENDENZA NEOLIBERISTA INTERNAZIONALE

IL RETROTERRA IDEOLOGICO DELL’INSISTENZA SULLA CENTRALITÀ DELLA “FLESSIBILIZZAZIONE” DEL LAVOROUn’azione di politica economica per l’occupazione. Il neoliberi-smo del “laissez-faire” e la teoria delle “aspettative razionali”. La “di-soccupazione di equilibrio”. Le astruse assurdità del calcolo delNawru e le sue gravi conseguenze. Il fallimento conclamato delleteorie neoliberiste sull’occupazione. Il ritorno degli interventi dipolitica economica.

LE ATTUALI TENDENZE DELL’OCCUPAZIONECome si misura la disoccupazione. La mancanza di posti di lavo-ro. Le attuali tendenze della disoccupazione tecnologica.

LE POLITICHE ECONOMICHE CHE INFLUENZANO L’OCCUPAZIONEUna crisi che non passa. Le politiche di austerità concorrenzialee la ripresa senza occupazione. Il ricorso alla “svalutazione com-petitiva interna”. Commissione europea: l’analisi è sbagliata maserve politicamente per l’austerità. L’azione delle banche centrali.

LE CONSEGUENZE NEGATIVE DELLE POLITICHE EUROPEE IN MATERIA DI OCCUPAZIONEI riflessi sulle politiche dell’occupazione. Liberalizzare i licenzia-menti? Lo vuole l’Europa e non solo. La ricetta dell’Ocse. Leproposte della Bce. I veri obiettivi dell’austerità tedesca.

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I MODELLI EUROPEI E OCCIDENTALI 87Convergenza o divergenza?L’attuale revisione delle politiche del lavoro.

I DIVERSI SIGNIFICATI DEL “DIRITTO AL LAVORO”Alle origini del “diritto sociale al lavoro”. La “libertà di lavorare”dell’Unione europea.

IL LIVELLO DI PROTEZIONE DEI LAVORATORI NEI PAESI EUROPEIIl livello di protezione dei lavoratori in Italia e in Europa.

LA TUTELA DAL LICENZIAMENTOLa diffusione della reintegra nei paesi europei. La situazione inSpagna. La situazione in Francia. La situazione in Gran Bretagna.La situazione in Germania.

GLI INTERVENTI A SOSTEGNO DEL LAVOROLicenziabilità e occupazione. La “flessibilità sostenibile” (flexse-curity). Il “Modell Deutschland”. In Italia si può “fare come laGermania”?

GLI EFFETTI DELLA “FLESSIBILITÀ” 135SULLA CRESCITA E L’OCCUPAZIONE

LA LIBERTÀ DI LICENZIAMENTOLicenziabilità e occupazione. Le conseguenze occupazionali dellalibertà di licenziamento. Le conseguenze della liberalizzazionedei licenziamenti in Spagna.

ALCUNE CARATTERISTICHE FONDAMENTALI PER LA TUTELA DAI LICENZIAMENTI DISCRIMINATORI E DI RAPPRESAGLIATutela reale e tutela obbligatoria. La “prova diabolica” del licen-ziamento discriminatorio

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L’EVOLUZIONE DELLE TUTELE 145DEL LAVORO IN ITALIAIl “regime di fabbrica” del primo dopoguerra. La svolta dello“Statuto dei lavoratori”. Le strategie di elusione dello Statuto. Ildeclino dei diritti del lavoro e la lunga storia dell’assalto all’artico-lo 18. La deregolazione del mercato del lavoro.

L’ATTACCO FRONTALE 165ALLA REINTEGRA

L’OFFENSIVA RESTAURATRICE NEI CONFRONTI DEI LAVORATORI E DEI SINDACATIL’attuale dibattito sulla riforma del mercato del lavoro e il pro-getto di Ichino. La riforma Fornero. La tesi della “precarietàespansiva”

IL “CODICE SEMPLIFICATO”, OVVERO IL COSIDDETTO “JOBS ACT”, DELLA RIFORMA RENZI-ICHINO- SACCONIQuali sono le origini dell’attacco all’articolo 18 e quali sono i suoisostenitori? Il porto delle nebbie. Il nodo centrale della riforma.Gli altri contenuti del “Jobs Act”. Lo scontro attualmente in atto.Le ragioni di una battaglia. Un cambiamento antropologico? Ciòche serve all’economia italiana.

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Quando ci propongono una riforma usualmente definita conun termine inglese (perfettamente superfluo, perché esistono icorrispondenti precisi termini italiani), occorre stare molto at-tenti perché c’è dentro sicuramente una fregatura. Usano l’inglese per dare una veste più tecnocratica e interna-zionale, quasi oggettiva e indiscutibile, alle cose che ci vengonopropinate, come se fossero vere e scientificamente inattaccabili. Ma non lo sono, anzi è vero il contrario. Si tratta generalmente di dogmi falsi e assurdi, proposti conprecisi fini politici antipopolari, che ci stanno portando al di-sastro.

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Introduzionedi Matteo Gaddi

Il libro di Giancarlo Saccoman sul progetto di ri-forma del mercato del lavoro del Governo Renzi (ilcosiddetto “Jobs Act”) ha tutti i pregidell’instant–book senza rinunciare, tuttavia, ad ap-profondimenti teorici di grande rilievo, soprattuttofornendo dati e elementi conoscitivi citati da rapportidi ricerca di organismi internazionali.

Questo libro, quindi, è uno strumento assai utileper quanti (sindacalisti, delegati, attivisti politici)sono attualmente impegnati a contrastare questo en-nesimo attacco nei confronti del mondo del lavoro inquanto fornisce argomenti, dati, per contrastare le af-fermazioni del discorso dominante, secondo le qualiun ulteriore indebolimento (per non dire cancellazio-ne) delle tutele previste per i lavoratori indurrebbe leimprese ad un atteggiamento di maggiore disponibili-tà in termini di nuove assunzioni favorendo, quindi,decisioni per una maggiore occupazione.

Saccoman è estremamente rigoroso nel sottopor-re a critica una ad una le presunte “strozzature” dellasituazione economica che si vorrebbero determinateda una legislazione in materia di lavoro improntataalla valorizzazione e al riconoscimento “reale” delletutele a favore dei lavoratori. Ovviamente, secondo ilpensiero dominante, dall’eliminazione di queste“strozzature” deriverebbero automaticamente unaserie di conseguenze positive, quasi che l’abbattimen-

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to di barriere e muri potesse favorire un impetuososcorrere di investimenti, innovazioni, assunzioni,mobilità professionale, miglioramenti quantitativi equalitativi dei dati occupazionali ecc. Si tratta, quindi,di argomentazioni che si sorreggono sulla base diuna serie di affermazioni apodittiche, che non abbi-sognano di dimostrazione, ma che devono essereprese per buone in quanto tali. Soprattutto non de-vono essere sottoposte a procedimenti di verifica al-trimenti ne verrebbe immediatamente dimostratal’inconsistenza. Si tratta di argomentazioni di chiaraimpronta liberista utilizzate per giustificare un inter-vento liberista sul mercato del lavoro: chiamiamo lecose con il loro nome !

Questo libro le prende in esame dimostrando nonsolo l’inconsistenza di queste affermazioni (i daticoncreti spesso ci dicono il contrario di quanto vo-glia farci credere il discorso dominante) , ma addirit-tura il fatto che una volta analizzate esse si tramutino,dal punto di vista delle conseguenze, nell’esatto op-posto di quanto sostengono: l’esempio più lampanteè quello che stabilisce una relazione (come ben di-mostra Saccoman) inesistente tra flessibilità del mer-cato del lavoro e livelli occupazionali; anzi ad una ri-duzione delle tutele si accompagna un netto peggio-ramento degli indici quantitativi e qualitativi del lavo-ro. L’elenco degli argomenti a sostegno delle tesi li-beralizzatrici che Saccoman giustamente bolla come“assolutamente falsi” è piuttosto ampio: a)l’eccessivarigidità del mercato del lavoro italiano per le troppe

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protezioni dal licenziamento; b) l’impedimento (perle troppe tutele dei lavoratori a tempo indeterminato)per i giovani ad entrare nel mondo del lavoro; c) ilfatto che la disparità tra tutele previste dai contratti“tipici” e a tempo indeterminato e i tantissimi con-tratti “atipici” proliferati negli anni debbano esseresuperate con un livello “al ribasso” dei diritti; d) ilfatto che gli imprenditori non investono a causa delladifficoltà di licenziamento (o per dirla allaRenzi-Marchionne: per la scarsa flessibilità in uscita)o addirittura che la riduzione delle tutele dei lavora-tori favorirebbe gli investimenti esteri in Italia; e) imodelli spagnolo e tedesco come esempi virtuosi daimitare.

Tra le ragioni a supporto del Jobs Act sopra ricor-date, vale la pena richiamare quella relativa ad un pre-sunta eccessiva rigidità del mercato del lavoro italia-no, sia come elemento in sé, sia come possibile causadella scarsa competitività del sistema economico. Inrealtà tutti i rapporti ci dicono che così non è, a par-tire, proprio dall’Europa: il rapporto sull’occupazio-ne in Europa dimostra che dal punto di vista della ri-gidità intesa come disciplina dei licenziamenti l’Italiaè uno dei Paesi più flessibili assieme a Danimarca,Gran Bretagna e Irlanda. Del resto sono gli stessi pa-droni a sapere benissimo come stanno le cose: nelRapporto sulla Competitività Globale presentato aDavos due anni fa (The Global Competitivness Re-port 2010-2011) evidenziava come stanno, per dav-vero, le cose nel mercato del lavoro. Esaminando la

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rigidità del mercato del lavoro (intesa come l’insiemedelle tutele previste dalla legislazione a protezione dellavoratore) e la flessibilità della determinazione sala-riale (cioè il rapporto tra la parte fissa e quella varia-bile del salario), il Rapporto di Davos ha dimostratoche dal punto di vista della rigidità dell’impiego il li-vello italiano era inferiore a quello di Francia e Ger-mania e uguale a quello della Svezia, mentre dal pun-to di vista della flessibilità della determinazione sala-riale la nostra situazione non era dissimile a quella diSvezia e Germania (diverso il caso francese). Eppure,il Rapporto Davos assegnava all’Italia il 48° postonella classifica della competitività, mentre Svezia,Germania e Francia si collocavano nei primi 15 postia livello mondiale.

Inoltre, non si può affermare che in Italia il mer-cato del lavoro sia rigido. Basta prendere in esamel’indicatore utilizzato dall’Ocse, l’EPL (EmploymentProtection Legislation). Questo indice comprende le tu-tele contro i licenziamenti ingiustificati ma anche ladiffusione dei contratti “atipici”. L’indice EPL simuove di pari passo con la qualità e la quantità di tu-tele di cui gode un lavoratore: più è alto più il lavora-tore è tutelato. L’Italia ha un indice EPL tra i più bas-si in Europa, più basso che in Francia o Germania.Cioè in Italia c’è già una elevata flessibilità del lavoro.ma come dimostrato più volte da Emiliano Brancac-cio1 non esiste nessuna correlazione positiva tra fles-sibilità e tasso di occupazione. Ad una riduzione

1 E. Brancaccio (2009), La crisi del pensiero unico, Franco Angeli.

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dell’EPL generalizzata per molti Paesi (ma diversifi-cata come detto sopra, con l’Italia che ha sperimenta-to una delle deregolamentazioni più pesanti) hannofatto da riscontro tassi di occupazione e disoccupa-zione con gli andamenti più disparati. Ad esempio,tra i 1998 e il 2003 l’indice EPL si è ridotto in Au-stria, Germania, Giappone, Norvegia e Portogallo;ma il tasso di disoccupazione è aumentato. Mentrenello stesso periodo, a fronte di un leggere aumentodell’EPL in Spagna, Francia, Regno Unito, Irlanda eNuova Zelanda si era registrata una riduzione delladisoccupazione. Oggi questi dati devono essere tuttirivisti alla luce della crisi (e su alcuni Paesi come laGermania vanno fatti altri ragionamenti), ma le ricer-che empiriche ci dicono una cosa molto chiara: nonesiste nessuna correlazione statisticamente significati-va tra flessibilità e andamento dell’occupazione.

La convergenza liberista dei modelli di relazioni sindacali

Nel testo di Saccoman ricorrono in più parti leconseguenze di un intervento liberista nell’ambitodella legislazione del lavoro. Tra queste figuranoaspetti quali: l’individualizzazione dei rapporti di la-voro, l’aumento della discrezionalità dei padroninell’attuare scelte che riguardano l’organizzazione dellavoro fino alle decisioni relative all’instaurazione oall’interruzione dei rapporti di lavoro; lo svuotamen-to del ruolo e dei contenuti del contratto nazionale disettore; il proliferare di contratti aziendali (o territo-

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riali) in deroga sia rispetto alle disposizioni della con-trattazione nazionale che della legislazione in materiadi lavoro ecc.

Tutto questo incide in profondità sull’intero siste-ma di relazioni sindacali. Vale la pena, quindi, fornireuna sintetica panoramica di quanto sta accadendo alivello europeo dove si assiste ad una traiettoria delleperformance istituzionali convergente, nonostante idiversi punti di partenza, il diverso passo del cambia-mento. Questa convergenza nel sistema di relazioni eistituzioni sindacali segue una direzione comune cheè quella neoliberista. Per fare questo farò riferimentoad un notevole saggio di Lucio Baccaro e Chris Ho-well.2

Col termine neoliberista i due autori, oltre agliaspetti più direttamente economici, in materia di la-voro intendono che i governi siano disponibili a ri-nunciare alla piena occupazione.

Mentre sul terreno delle relazioni industriali signi-fica due cose. Primo: deregolamentazione attraversol’eliminazione o l’allentamento delle barriere istitu-zionali, per eliminare vincoli sulla discrezionalità delcapitale, rimuovendo limitazioni di legge o contrat-tuali nei luoghi di lavoro e più in generale nel merca-to del lavoro. Secondo: passaggio dai livelli di con-trattazione collettiva da livelli più alti a quelli più bas-si (aziendali o territoriali), maggiore ricorso alla con-

2 L. Baccaro e C. Howell (2012), Il cambiamento delle relazioni indu-striali nel capitalismo avanzato: nua traiettoria comune, in Quaderni diRassegna Sindacale n. 1/2012, Ediesse.

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trattazione individuale tra padrone e lavoratore, uni-lateralità della decisione del padrone, indebolimentodel livello di organizzazione e capacità di azione col-lettiva degli attori di classe. Quest’ultimo aspetto benevidenziato da Saccoman: intervenire svuotandol’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori significa in-debolire in generale il sindacato e l’organizzazionecollettiva dei lavoratori.

Si assiste, quindi, ad una riduzione generalizzatadei vincoli – nelle forme del diritto del lavoro o dellaregolazione collettiva – imposti ai padroni, traiettorianeoliberista significa espansione della discrezionalitàpadronale.

Questo avviene in un quadro segnato da:- indebolimento dei sindacati riscontrabili, ad

esempio, dalla riduzione delle adesioni;- calo della conflittualità sindacale (date le

condizioni attuali una bassa conflittualità sindacale èsegno non di forza, ma di debolezza);- processo di decentramento della contratta-

zione collettiva (vedi in Italia tutti i tentativi di forza-re verso il secondo livello di contrattazione, quelloaziendale).- Indice di concertazione in aumento: ma pro-

prio perché i sindacati si stanno indebolendo i Go-verni sono propensi a coinvolgerli.

Vediamo sinteticamente i casi-studio analizzati daidue autori.

FranciaIn Francia la legge Auroux ha spostato il livello

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del “dialogo sociale” a livello di impresa, tra padronie istituzioni di rappresentanza dei lavorator esterne alsindacato, creando i comitati di impresa e i gruppi di“auto-espressione del lavoratore”. Si sono così molti-plicati gli accordi in deroga con sindacati locali oquesti gruppi a livello di impresa che offrivano unamaggiore flessibilità rispetto a quella prevista dalla le-gislazione nazionale o dai contratti nazionali di cate-goria. Negli anni 90 questo trend ha accelerato anchegrazie alla legge Fillon che ha permesso un ricorsomolto più ampio agli accordi in deroga incentivandol’autonomia delle aziende dal sistema più ampio direlazioni sindacali, incoraggiando il passaggio nelleforme di rappresentanza del lavoro, dai sindacati aistituzioni extra-sindacali.

Ma dato che queste ultime tendono ad essere piùdeboli e meno indipendenti dalle dirigenti aziendalirispetto ai sindacati, il risultato è quello che in Fran-cia prevalgono gli accordi che riflettono maggior-mente gli interessi dei padroni. Queste forma ex-tra-sindacali sono state lo strumento attraverso ilquale lo stato è stato portato a sottrarsi ad un ruolodi regolazione diretta del mercato del lavoro, allar-gando quindi l’ambito di discrezionalità degli im-prenditori.

Gran BretagnaIn Gran Bretagna il processo di cambiamento è

avvenuto con un attacco diretto, di distruzione del si-stema di relazioni sindacali esistente portato avantidai Governi conservatori tra il 1979 e il 1997.

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Negli anni 80, in un quadro di aumentata compe-titività internazionale i governi britannici ritenneroche la progressiva individualizzazione del rapporto dilavoro tra padrone e lavoratore fossero la strada perincrementi di produttività. Con l’intensificarsi dellapressione competitiva riduzione dei costi e adozionedi strategie basate su una forza lavoro sottopagata edequalificata.

Va sottolineato che i padroni non sarebbero riu-sciti a cambiare il rapporto con il mondo del lavorosenza l’aiuto dello stato tramite cambiamenti della le-gislazione del lavoro o politiche economiche.

Tra queste figurano le leggi che hanno reso moltopiù difficile lo sciopero, indebolita la contrattazionecollettiva contribuendo a ridurre gli iscritti al sindaca-to (-40% a partire dal 1979, con un tasso di sindaca-lizzazione inferiore al 30%) e con la contrattazionecollettiva il cui grado di copertura è crollato drastica-mente a meno del 40%.

Con il governo del New Labour la stragrandemaggioranza della legislazione conservatrice in mate-ria di relazioni industriali è rimasta in vigore; a questasi è aggiunta una regolazione limitata del mercato dellavoro in forma di diritti individuali sanciti per legge.

GermaniaIn Germania, a partire dall’unificazione, il nucleo

fondamentale delle relazioni industriali ha conosciutoun processo di erosione e trasformazione.

Si è ridotta la presenza di meccanismi di consulta-zione a livello aziendale tramite i consigli d’azienda

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(nel 2005 inferiori al 40% del numero di imprese).La quota di lavoratori coperti da accordi di cate-

goria si è ridotta dal 72% del 1996 e al 57% del2006 . è aumentato il decentramento della contratta-zione dal livello nazionale a quello aziendale, con lacrescente presenza di accordi aziendali in deroga coni consigli d’azienda nell’ambito di alleanze o patti perl’occupazione. Ormai il 75% dei luoghi di lavoro ap-prova accordi che derogano rispetto al livello nazio-nale.

SveziaIn Svezia il modello di relazioni sindacali, vigente

dal 1938, è collassato nel decennio 83-93, con gli im-prenditori che hanno agito per porre fine alla con-trattazione centralizzata, uscendo dal modello tripar-tito. Dalla crisi degli anni ’90 è emerso un nuovo si-stema di relazioni sindacali.

Anche in questo caso lo stato ha svolto un ruolodecisivo nel disegnare il nuovo sistema di relazioniindustriali introdotto tra il 97 e il 2000 il cui pernoera rappresentato dalla determinazione tecnocraticadi un criterio salariale da parte di un “Consiglio eco-nomico per l’industria” indipendente con nuove pra-tiche di contrattazione collettiva con obblighi di me-diazione e periodi di raffreddamento, demandandonel’attuazione a livello locale.

In questo quadro i contratti collettivi nazionalisono diventati sempre più snelli, limitati a garantireun aumento salariale “di riserva”, qualora non si rag-giunga un accordo a livello locale. Al tempo stesso le

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voci della contrattazione collettiva rappresentano unapercentuale sempre più piccola nella determinazionedel salario, lasciando così spazio all’aumentodell’individualizzazione.

Anche nel caso svedese, quindi, il modello scivolaverso decentramento e individualizzazione; il ruolodei sindacati sembra essere quello di limitarsi a “mo-nitorare” l’attuazione di accordi stipulati a livello delsingolo luogo di lavoro, anziché portare avanti unavera e propria contrattazione.

IrlandaIl modello irlandese prevedeva una concertazione

nell’ambito della quale la moderazione salariale (cheha consentito incrementi di competitività) venivascambiata con una riduzione delle tasse individuali(aspetto, quest’ultimo, che ha prodotto gravi riduzio-ni del gettito fiscale complessivo, oltre alla tassazionedi favore per le imprese). Con la crisi il Governo si èsbarazzato immediatamente del modello di partner-ship sociale imponendo ai lavoratori non solo restri-zioni dei salari reali, ma veri e propri tagli ai salari no-minali. Addirittura molte imprese hanno utilizzato laclausola del contratto nazionale relativo alla “incapa-cità di pagare” per attaccare i livelli salariali. Il trendliberista, quindi, ha trasformato il panorama delle re-lazioni industriali lungo la medesima traiettoria sia at-traverso un processo di vera e propria deregolamen-tazione (Francia, Germania, Gran Bretagna), sia ridi-segnando gli obiettivi della contrattazione (Irlanda,Italia, Svezia) tramutandola da strumento redistribu-

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tivo ed egualitario a strumento di attacco alle condi-zioni del mondo del lavoro.

I cambiamenti nelle strategie produttive, le ri-strutturazioni industriali, le pressioni competitive del-la maggior integrazione internazionale, la mobilitàdei capitali: sono tutti elementi che hanno spinto ver-so quella che David Harvey chiama “accumulazioneflessibile” per indicare il notevole aumento della di-screzionalità padronale quale segno caratterizzantel’attuale sistema di relazioni sindacali con le organiz-zazioni di classe fortemente indebolite e gli Stati im-pegnati attivamente a sostenere questo processo.

Situazione produttiva industriale in Italia

Altrettanto bene fa Saccoman a concentrare lasua attenzione sui veri limiti del sistema produttivoitaliano, che non dipendono certo dalla legislazionesul lavoro, dai modelli di contrattazione nazionale,dall’insieme dei diritti (salariali e normativi) dei lavo-ratori; si tratta, invece, di limiti che affondano le lororadici direttamente nella particolare traiettoria di svi-luppo che ha seguito l’economia italiana. Per questogli ennesimi interventi di deregolamentazione delmercato del lavoro o di vera e propria compressionedei diritti possono risultare ulteriormente dannosiper il sistema economico nel suo complesso e perspecifici aspetti come quello della produttività. Anco-ra una volta: le controriforme di segno liberista pro-ducono l’esatto contrario di quello che, a parole, pro-

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clamano di voler perseguire. Per sommi capi si pos-sono ripercorrere alcuni passaggi che hanno contri-buito a determinare la situazione attuale. Nel farequesto attingo a piene mani a dati considerazioniespresse in un recente lavoro da Giuseppe Travagli-ni.3

Non si può non ricordare come dal 1964 le misu-re di aggiustamento, fatte di restrizioni monetarie efiscali, vengano scaricate sul mondo del lavoro e sullastessa matrice del sistema produttivo italiano. A par-tire dagli anni settanta l’indebolimento della lira ven-ne utilizzato come strumento di competitività conl’illusione di colmare i deficit di competitività deter-minando un oggettivo impoverimento tecnologico edella qualità delle produzioni. Il cosiddetto “prote-zionismo interno” degli anni ’70, fatto di agevolazio-ni fiscali e creditizie, si mosse nella medesima dire-zione, indebolendo ulteriormente capacità di crescitae di innovazione.

Se gli anni ’80 sono quelli del “galleggiamento”(senza ristrutturazione dell’apparato tecnologico eproduttivo e con la svalutazione della lira si determi-na una consolidamento della traiettoria di trasforma-zione del tessuto produttivo con l’estensione dellapiccola e micro-impresa, soprattutto in produzioni abasso valore aggiunto, con bassi livelli di ricerca esviluppo ed una corrispondente – cioè bassa - specia-lizzazione produttiva – in particolare nella compo-

3 V. Comito, N. Paci, G. Travaglino (2014), Un paese in bilico. L’Ita-lia tra crisi del lavoro e vincoli dell’euro, Ediesse.

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nentistica); con gli anno ’90 la globalizzazione si ab-batte come un tornado sui limiti della struttura pro-duttiva italiana. Mentre si accentua la divergenza delnostro sentiero di sviluppo da quello dei principaliPaesi industrializzati, una parte consistente di impre-se risponde al nuovo quadro internazionale accen-tuando i processi di delocalizzazione delle produzio-ni verso le aree a più basso costo del lavoro (dallaRomania alla Cina interi distretti industriali sono statidelocalizzati) e con l’ondata di privatizzazioni si sonodistrutti interi settori industriali, anche di caratterestrategico per un Paese industriale, compresi quellisuscettibili di espansione (anche e soprattutto quali-tativa con innovazioni di prodotto) purché adeguata-mente sostenuti con investimenti. Con le privatizza-zioni nei principali settori industriali crollano gli in-vestimenti, con i nuovi proprietari impegnati esclusi-vamente a spremere gli ultimi margini di utili da im-pianti e produzioni sempre più obsolete.

Se negli anni ’90 e nei primi 2000 l’economia ita-liana è ferma, dal 2008 si comincia ad arretrare, congli indici di progresso tecnologico e di innovazioneche si azzerano. Pur nell’ambito di una crisi che inve-ste tutti i Paesi industrializzati, le conseguenze in Ita-lia sono più pesanti con il PIL pro-capite che divergein misura significativa rispetto ad altri paesi europeicome Francia e Germania. Oltre al tasso di parteci-pazione al mercato del lavoro più basso, l’Italia scon-ta una produttività oraria più bassa pur in presenza diun maggior numero di ore lavorate. Insomma in Ita-

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lia ogni occupato lavora più ore che in altri paesi macon una produttività molto più bassa. Colpa dei lavo-ratori ? o forse colpa della bassa qualità e specializza-zione della produzione, del basso contenuto tecnolo-gico del capitale, del pressoché azzeramento di ricer-ca e sviluppo, ossia di tutti quegli elementi che concor-rono insieme al lavoro alla creazione del valore aggiun-to? Vediamo un po’ più nel merito.

Una quota importante prodotto manifatturiero inItalia viene realizzata dai settori tradizionali, a bassaintensità tecnologica e basso valore aggiunto: si trattadel 31% contro il 18% della Germania. Nel 2009 laquota di valore aggiunto manifatturiero prodotto daicomparti a medio e basso contenuto tecnologico rag-giungeva il 62% (44% Germania). Il settore ad altatecnologia nel 2011 non superava il 6,7% del valoreaggiunto industriale. Accanto a questo va segnalatoche i settori tradizionali hanno subito una grave per-dita in termini di produzione: nel “Made in Italy” ilcalzaturiero ha perso rispetto agli anni ’90 il 70%,mentre il tessile è calato del 50%: questa tendenza ècondivisa anche da Francia e Germania ma in Italia èaggravata dal peso molto elevato che avevano questisettori sul sistema industriale nel suo complesso. Perquesto il mix di merci prodotte è assai simile a quelledestinate all’export prodotte dai BRIC che possonocontare su una manodopera a basso costo, incompa-rabile con quella dei livelli dell’Europa Occidentale.E al tempo stesso, va rilevato che anche nelle espor-tazioni a più alto contenuto tecnologico i BRIC han-

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no fatto meglio dell’Italia. Inoltre, come dimostratobenissimo da Gallino4, questa tendenza alla progres-siva perdita di base industriale (che in alcuni casi ri-guarda veri e propri settori) interessa l’intera indu-stria: dall’elettronica alla chimica. Aggiungiamo con-siderazioni sulle dimensioni medie dell’impresa italia-na. Il 95% di essa ha dimensioni da micro-impresa(meno di 10 addetti) coprendo il 48% dell’occupazio-ne complessiva. Con le imprese di piccole dimensio-ni (meno di 49 addetti) si arriva al 99% di imprese eal 70% dell’occupazione.

Cominciando, quindi, a mettere assieme i variaspetti. bassa specializzazione produttiva e bassa in-tensità tecnologica, avanzato processo di deindustria-lizzazione, piccola o piccolissima dimensione mediadi impresa. Tutto questo si ripercuote in maniera ne-gativa sulla produttività del lavoro dell’intero sistema;ma non certo per colpa dei lavoratori o dei loro dirit-ti sanciti da una rigida legislazione del lavoro. semmaiè la Produttività Totale dei fattori (Ptf) nel suo com-plesso ad essere calata, e questo per un contributoassai negativo dovuto al rallentamento nella crescitadell’intensità di capitale e alla decrescita delle compo-nenti tecnologiche. Nell’ultimo decennio si è registra-to il duplice fenomeno del ridimensionamento degliinvestimenti in capitale e della riduzione del tasso dicrescita dell’intensità del capitale. In questo quadro sicollocano le recenti controriforme del mercato dellavoro (dalla legge Treu al decreto Poletti), tutte im-

4 L. Gallino (2003), La scomparsa dell’Italia industriale, Einaudi.

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prontate alla “flessibilità esterna” fatta di contratti atermine, parasubordinati, lavoro interinale, riduzionedei vincoli che disciplinano assunzioni e licenziamen-ti. Tutti questi aspetti hanno influenzato si le scelte diinvestimento delle imprese e la stessa struttura pro-duttiva, ma in negativo.

Per questo è possibile dimostrare che le recentiscelte in materia di flessibilità del lavoro non solonon hanno risolto il problema della produttività inItalia, ma anzi lo hanno aggravato.

Il modello tedesco

Più volte Saccoman ha messo in discussione lepresunte virtù del “modello tedesco” sottoponendoin più occasioni ad una critica stringente la cosiddettapolitica economica del “rubamazzetto”, (“beg-gar-thy-neighbour”). Si tratta di una politica econo-mica di stampo interventista e fortemente concor-renziale, perseguita da un paese che ne beneficia perrisolvere i propri problemi con mezzi che danneggia-no la situazione degli altri paesi. È strettamente con-nessa alle politiche neomercantilistiche, per guada-gnare quote di mercato internazionale a scapito deipropri partner commerciali e con l’obiettivo di soste-nere la propria domanda aggregata mediante un in-cremento delle esportazioni.

Si tratta di una scelta che rischia di innescare cir-colo vizioso in quanto ogni paese preso singolar-mente ha interesse a perseguire tale politica aggressi-

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va nei confronti dei suoi concorrenti, ma in tal modopeggiora la situazione di tutti, compreso sé stesso.

E’ impensabile, infatti, che ogni paesi possa adot-tare una simile politica economica fatta di svaluta-zioni competitive o di ritorsioni tariffarie ingeneran-do una guerra commerciale di tutti contro tutti: setutti si comportassero come la Germania nessunoriuscirebbe ad ottenere vantaggi per le proprie espor-tazioni nette; l’unico risultato sarebbe quello di unarecessione generalizzata.

All’interno dell’Eurozona, l’impossibilità di realiz-zare una svalutazione monetaria, questa verrebbe so-stituita da una “svalutazione competitiva interna”con ovvie conseguenze sociali. In questo libro Sacco-man approfondisce molto bene le scelte adottate dal-la Germania nel proprio mercato del lavoro: essendole scelte tedesche ampiamente trattate dall’Autore,allo specifico capitolo rimando.

Mi interessa invece approfondire qualche aspetto,dal punto di vista dell’organizzazione delle cateneproduttive, del tanto decantato “modello tedesco”.Per questo parte farò riferimento principalmente adue saggi: quello di Simonazzi, Ginzburg e Nocella5,e quello di Sinn6. La Germania ha definito il propriosistema produttivo caratterizzato da una elevatissimapropensione all’export riorganizzandolo in vere e

5 Simonazzi, Ginzburg, Nicocella (2013), Economic relations betweenGermany and southern Europa, in Cambridge Journal of Economics.6 H.W. Sinn (2006), The patological export boom and bazaar effect. Howto solve the german puzzle, Cesifo Working Paper n. 1708.

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proprie catene del valore internazionali. Le principalideterminanti del modello orientato all’export dellaGermania sono: 1) l’aumento della competitività deicosti attraverso la restrizione salariale; 2) il legamecon i mercati in crescita delle economie emergenti(specialmente Cina e India); 3) un incrementodell’esportazione di beni capitali in rispostaall’aumento degli investimenti nei paesi emergenti; 4)la formazione di piattaforme regionali di fornitura at-traverso la delocalizzazione di parti della produzione.Non va dimenticato che dietro al boom dell’exporttedesco non ci sono soltanto le esportazioni, ma an-che le importazioni che la Germania effettua di partie componenti dei propri prodotti che poi vengonoesportati: queste forniture avvengono grazie alle de-localizzazioni tedesche nei Paesi a basso costo del la-voro, specialmente nell’Europa dell’Est. Al tempostesso, mentre in Germania si è registrato un calodella percentuale di investimenti sul PIL, c’è stato unforte aumento di investimenti esteri attraverso le atti-vità produttive delocalizzate. La Germania, quindi,ha molto investito nei Paesi vicini, quelli oltre-corti-na, integrando le industrie che in queste aree realizza-va nelle proprie catene del valore. Il modello di delo-calizzazione tedesco si basa sul mantenimento “incasa” delle fasi finali della produzione, spostando neiPaesi a basso costo del lavoro la produzione di com-ponenti; a differenza di quello italiano che delocaliz-za l’intero processo. In questo modo, tra l’altro lagermania ha riorientato propri flussi commerciali per

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le importazioni verso l’Est Europa riducendo quellicon il Sud Europa, ma quest’ultima area continua arappresentare nua quota importante del surplus tede-sco realizzato tramite le esportazioni. La domanda dibeni intermedi della Germania favorisce solo i Paesiad essa vicini dell’Europa Orientale e Centrale.

Come tante altre economie occidentali, l’econo-mia tedesca si è dovuta confrontare con le economieche competono grazie a bassi livelli salariali, questoha indotto queste precise reazioni da parte delle im-prese tedesche. Da una parte le fabbriche hanno so-stituito i lavoratori con i robot (si tratta dell’intensifi-cazione del capitale degli anni 70-80), dall’altra hannoreagito con questa nuova organizzazione internazio-nale della produzione.

Gli investimenti netti all’estero sono più alti del50% di quelli in Germania: le imprese tedesche sonoimpegnate in uno “sciopero degli investimenti” incasa propria. La maggioranza delle imprese tedeschesi è ristrutturata sostituendo i lavoratori con le mac-chine e utilizzando prodotti intermedi realizzatiall’estero, anche delocalizzando gli impianti per utiliz-zare i vantaggi dei bassi salari dei paesi ex comunisti.

Le PMI tedesche stanno ripetendo nell’Est Euro-pa quello che le grandi imprese hanno fatto neglianni 80 in Asia; il 60% delle PMI ha già realizzatoimpianti all’esterno della vecchia Europa dal 2002,mentre, secondo stime della Deutsche Bank, le im-prese tedesche hanno creato all’estero 3,5 milioni diposti di lavoro. La Germania è diventata il più grande

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investitore diretto nell’Est Europa, più grande diGran Bretagna, Francia e USA messi assieme:l’imprenditoria tedesca ha creato nell’Est Europa tra800mila e 1 milione di posti di lavoro.

Come visto: le fasi prevalentemente manifatturie-re sono delocalizzate, quelle finali sono mantenute inGermania. Questo avviene anche nel caso dell’indu-stria dell’auto: le linee della Porche Cayenne sono aBratislava (Slovacchia) mentre solo il motore, o pocopiù, viene aggiunto a Lipsia. In poche parole: soloun terzo del valore di quest’auto viene prodotto inGermania. Dietro la produzione manifatturiera c’èun enorme aumento di prodotti intermedi importati.La Germania si è gradualmente trasformata in una“economia bazar” che sta rifornisce il mondo conuna vasta gamma di prodotti, ma una quota crescen-te del valore dei suoi beni prodotti viene realizzatanel suo hinterland est europeo. La quota media delleimportazioni delle esportazioni tedesche è aumentatadal 27% del 1991 al 39% nel 2002 e il contenuto diimportazioni dei beni esportati è già al 53%.

Secondo la vulgata dominante, la fase finale dellacatena, nella quale la Germania è specializzata, nonprodurrebbe solo posti di lavoro per l’assemblaggio,ma anche posti di lavoro sofisticati nel design,nell’ingegneria e degli altri servizi per la distribuzionedei prodotti. Questo è vero solo in parte: dai dati sidimostra che non è vero che i posti di lavoro deloca-lizzati vengono rimpiazzati da posti di alta qualifica;semplicemente non vengono rimpiazzati. A meno

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che non si tatti dei mini-jobs, dei part time ecc, laGermania tra il 95 e il 2005 ha avuto una perdita net-ta di 1,2 milioni di posti di lavoro, comprendendo inquesto calcolo i nuovi posti di lavoro riferiti alle fasipiù pregiate della produzione. Le imprese restanocompetitive sbarazzandosi dei lavoratori tedeschi esostituendoli con polacchi, rumeni, bulgari, unghere-si, cinesi o robot. Questo processo sembra essere de-stinato a durare a lungo: il processo di convergenzadei salari sarà molto lento. I salari dell’Est Europaaumenteranno dall’attuale 13% al 50% di quelli occi-dentali nel 2030. In base alle precedenti esperienze diconvergenza in Europa Occidentale, il 50% del sala-rio tedesco verrebbe raggiunto soltanto nel 2060. Mala convergenza si muove in entrambe le direzioni, percui se i salari dell’est crescono più velocemente, quel-li dell’Ovest crescono meno o addirittura calano, an-che per queste pressioni competitive che le impresesfruttano a loro vantaggio minacciando i lavoratorieuropei di delocalizzare qualora non accettassero ta-gli a salari e diritti.

Questi spunti, che il libro di Saccoman ha avuto ilmerito di suggerirmi, credo debbano essere oggettodi specifici approfondimento da parte delle organiz-zazioni di classe del movimento operaio.

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PREMESSA

Una cesura storica dal Novecento italiano

La quinta Leopolda resterà nella storia d’Italiacome il momento della grande svolta. È dunque par-ticolarmente interessante, e illuminante, leggere le di-verse analisi apparse sui giornali, che convergono tut-te, al di là degli opposti schieramenti politici, su unalettura condivisa di quanto è avvenuto.

Non si tratta, come qualcuno ha suggerito, d’una“Bad Godesberg italiana”, e neppure solo d’una “secondaBolognina”, quanto d’una vera e propria mutazione ge-netica del partito erede del Pci, nelle sue varie tra-sformazioni e contaminazioni democristiane (ma del-la destra DC), che sono alla fine prevalse, prendendoin mano il partito. Si tratta invece d’una cesura stori-ca. Dalla Leopolda nasce una nuova realtà: “il nuovopartito comincia qui”, ci informa Elisabetta Gualmininel suo articolo di fondo su La Stampa, “il nuovo pro-getto si va componendo”, un “partito della nazione” checancella la differenza fra destra e sinistra e tranciaqualsiasi radicamento sociale, sostituito da un populi-smo mediatico officiato da un “capo” carismatico,osannato dalle folle, “spietato nella sua determinazione,con la sicurezza smisurata di aver fiutato lo spirito dei tempi edi saperlo cavalcare alla perfezione, per di più solo e incontra-stato… Lo stile Leopolda può anche lasciare perplessi, più

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che un incontro politico sembrava una diretta radiofonica conil richiamo martellante dell’hashtag da twittare e conduttoriyé-yé, che parevano pronti a lanciare canzoni su richiesta condedica. I difetti ci sono, le incoerenze pure, come la promessanon mantenuta della rivoluzione basata sul merito, sostituitada nomine in gran parte all’insegna di realtà prepolitiche eprossimità personale”.

Contro chi si rivolge l’attacco di Renzi? L’avversa-rio è chiaro, e, come spiega ancora la Gualmini, perRenzi “nel mirino c’è sempre l’indistinta nebulosa compostada professori-gufi, tecnocrati, politici di lungo corso, dall’esta-blishment, insomma, che ha portato l’Italia al collasso e conti-nua a pontificare, che rosica e teme che i ragazzi della Leopol-da possano riuscire dove loro hanno fallito”. Ma, ovviamen-te, “il bersaglio grosso della Leo-polda5 è l’altra sinistra,quella minoritaria, identitaria e nostalgica, nei confronti dellaquale ora la sfida è aperta, potete pure protestare, riempire lepiazze, fare un partito, sarà bello vedere chi vince, quello chenon vi consentiremo è di riprendervi il Pd (applausi scroscian-ti)”. Renzi diventa anche irridente, affermando che“solo noi che abbiamo trent’anni possiamo guidare il cambia-mento, non certo chi, di fronte ad uno smartphone, cerca il foroin cui mettere il gettone, o prendere una macchina fotograficadigitale e metterci il rullino”.

“Renzi scarica la sinistra”, ci informa con soddisfa-zione la prima pagina de Il Giornale, che prosegue“il premier umilia la Cgil e sfida la minoranza Pd: poveri re-duci, provate a riprendervi il partito. Nelle parole di Renzi siintravede addirittura l’auspicio che Bersani, Bindi, Fassina,Cuperlo e soci, siano coerenti e abbiano le palle di portare la

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sfiducia della piazza dentro il Parlamento, come dire, via ildente, via il dolore, cade il governo, si torna a votare in ordinesparso e poi si vede chi l’aveva vista giusta”. Galli dellaLoggia, sul Corriere della sera, sostiene che così vie-ne messa “la parola fine all’intero universo ideologico delNovecento italiano e delle sue culture politiche” e ciò “potevavenire solo da chi fosse in grado di abbattere la fortezza dellaSinistra … perché solo i lontani eredi dell’antico Partito co-munista hanno custodito fino ad oggi l’ultima fiammella.Questa rivoluzione dall’alto (l’ennesima “rivoluzione passiva”della nostra storia) è quella a cui s’è dedicato Matteo Renzismantellando virtualmente il Pd (hanno ragione i suoi avver-sari interni): gettando via pezzi della storia, distruggendone iluoghi comuni della tradizione, le idee ricevute del suo popolo.Lo fa sempre con poco garbo, è vero, spargendo sulle ferite ace-to anziché miele. Ma proprio smantellando il Pd, cioè la sini-stra esistente, Renzi manda all’aria tutto, perché era su quellasinistra che storicamente ormai tutto si reggeva. Inevitabilmen-te egli smantella anche la Destra … che in Italia è semprestata priva d’una vita propria. Accade così che Renzi abbiaben poche speranze di essere un ricostruttore, per cercare di ri-mettere in moto la storia ha dovuto per forza sbarazzarsi delPd, ma facendolo vede farsi il vuoto intorno a sé … oltre Ren-zi non c’è più nulla, solo tabula rasa, gli arride un consensoplebiscitario che non conosce confini di Destra e Sinistra, aven-doli egli cancellati virtualmente tutti ed essendo rimasto di fat-to l’unico in campo. Il suo successo si accompagna dunque allasolitudine. Ma proprio in quella solitudine c’è qualcosa che in-quieta: l’ombra d’un rischio, il sentore d’un eccesso”. Di soli-to chi smantella finisce anche lui smantellato.

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Il “partito della nazione” ha tranciato le sue ra-dici sociali

Proprio la giornata del 25 ottobre ha mostratocon grande chiarezza la distanza ormai abissale chesepara il nuovo “partito della nazione” dal mondo dellavoro e dalle sinistra che vuol mantenerne il riferi-mento ideale.

Oltre un milione di lavoratori sono scesi in piazzaSan Giovanni a Roma, in quella che è la seconda piùgrande manifestazione sindacale europea, dopo quel-la del 23 marzo 2003, per protestare contro l’attaccoai diritti dei lavoratori sferrato da un premier cheavevano votato, esponente d’un partito che è stato fi-nora la sinistra esistente nel governo del paese e ciòha rappresentato per molti un vero dramma, un pro-blema di coscienza risolto però scegliendo di scende-re in piazza a Roma. Risulta del tutto evidente la net-ta contrapposizione fra il milione di lavoratori dipiazza San Giovanni, che manifestavano per la difesadei diritti di tutti, e la quinta “convention” della Leo-polda a Firenze (accusata da Rosy Bindi di essere unariunione di corrente), che ha posto al centro la “rifor-ma del diritto del lavoro”, ovvero l’eliminazione dell’arti-colo 18, ed era affollata di imprenditori e finanzieri.Persino Mario Mauro, presidente dei Popolari, hasintetizzato così la situazione: “gli operai in piazza e ipadroni alla Leopolda”.

Erano presenti, in modo esorbitante, le “cattivecompagnie”, assai legate al premier, che hanno finan-

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ziato attraverso la Fondazione Open (già Big Bang eprima ancora Link), che ha proprio lo scopo statuta-rio di sostenere economicamente le iniziative di Mat-teo Renzi.

Il primo finanziatore della “convention” per oltre lametà del costo totale, ma anche di Renzi nella cam-pagna elettorale del 2012, è stato David Serra, resi-dente a Londra dal ’95, finanziere fondatore e ammi-nistratore delegato del fondo speculativo Algebris In-vestments, con sedi a Londra, Singapore, Boston ealle Cayman (noto paradiso fiscale), e un patrimoniodi oltre 2,5 miliardi, specializzato in “sofferenze”(non performing loans, con un guadagno del 15%). È in-tervenuto sostenendo la necessità “di eliminare il dirit-to di sciopero, come in Russia e in Cina” (ma in Cina discioperi ne fanno moltissimi e sempre di più), e so-stenendo che “la Cgil sostiene i diritti d’una fascia di lavo-ratori, rubando quelli degli altri”.

Osservando la lunga sfilata di imprenditori, spes-so assai discussi, finanziatori della Leopolda, si pote-va notare, fra i tanti, Patrizio Bertelli (che ha transatoun’evasione fiscale di 470 milioni di euro), Aldo Bo-nomi (vicepresidente di Confindustria, rinviato a giu-dizio con l’accusa di falso ideologico in atto pubblicoper induzione in errore di pubblico ufficiale), Alber-to Bianchi (condannato dalla Corte dei conti a resti-tuire 4,7 milioni di euro per la sua attività di liquida-tore dell’Efim), Brunello Cucinelli, Andrea Guerra,Vincenzo Novari, Oscar Farinetti, Fabrizio Landi,Marco Carrai, e moltissimi altri. Pippo Civati ha

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commentato ironicamente “mi sa che c’è anche una dele-gazione della destra repubblicana statunitense”.

La deregolazione del lavoro

Il nodo centrale discusso alla Leopolda è statoquello della deregolazione del lavoro, ovvero del“Jobs Act”. Renzi accusa il sindacato di essere fermoal ‘900. Ma il suo “Jobs Act” segna invece un ritornopiù indietro, all’arbitrio padronale, a un lavoro “schia-vo”, prima delle grandi conquiste democratiche delmondo del lavoro nell’800. Renzi ha detto (ripetendoun ritornello ormai abusato) che lo Statuto dei lavo-ratori e, in particolare, l’articolo 18 “è una regola deglianni Settanta che la sinistra allora non aveva nemmeno vota-to, siamo nel 2014, il posto fisso non c’è più, è cambiato tutto,il modello fordista della fabbrica non c’è più, la monogamiaaziendale è sparita e aggrapparsi ad una norma del 1970 ècome prendere un Iphone e dire dove metto il gettone? Comeprendere una macchina digitale e provare a metterci il rullino.È finita l’Italia del rullino … Sarà bello capire se è più di si -nistra restare aggrappati alla nostalgia o provare a cambiareil futuro”.

Ma il problema è come si vuole cambiare il futu-ro, se in meglio, chiedendo diritti per tutti, come hafatto dal palco Susanna Camusso, o se in peggio, to-gliendoli a chi ce li ha, come fa il “Jobs Act”.

Come spiega Domenico Gallo, l’abolizione delletutele garantite dall’articolo 18 non apre la strada alfuturo, “ma è una regressione a un’epoca in cui le relazioni

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industriali erano regolate esclusivamente di rapporti di forza,a prescindere dal diritto. Di fronte alle mistificazioni con lequali si tenta di ingannare l’opinione pubblica, occorre preci-sare che l’articolo 18 dello Statuto non incide sulla libertà dilicenziamento, che resta regolata dal principio della giusta cau-sa e del giustificato motivo, bensì sulla repressione dei licenzia-menti illegali, consentendo ai forti e ai furbi, di sottrarsiall’osservanza delle regole. Tale sanzione rappresenta l’archi-trave per la tenuta di tutti l’edificio dei diritti, sanciti dalloStatuto, che tutela la dignità del cittadino lavoratore nei con-fronti del potere privato. Infatti da lungo tempo la giurispru-denza della Corte costituzionale e della Cassazione ha rileva-to che i diritti nascenti dal rapporto di lavoro, possono essereesercitati solo in presenza di un regime di stabilità reale”, cheassicuri “la tutela contro il licenziamento ingiustificato, comerichiede l’articolo 30 della Carta dei diritti fondamentalidell’Unione europea”.

La Costituzione italiana assicura il godimento deidiritti della libertà per tutti, garantendo ai lavoratoriuna serie di diritti (retribuzione adeguata, durata mas-sima della giornata lavorativa riposo settimanale, ferieannuali retribuite) che impediscono la riduzione dellavoro a una semplice merce sul mercato dei fattoriproduttivi.

Allo Statuto è stato riconosciuta la funzione diaver fatto valere la Costituzione anche nei confrontidel potere padronale, in un ambito da cui era stataprecedentemente esclusa.

L’eliminazione della reintegra, che costituisce lapietra fondamentale su cui è costruito lo Statuto,

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consente al potere padronale di sottrarsi alle leggi eai principi costituzionali e trasforma nuovamente illavoro in una merce qualsiasi, calpestando i diritti deilavoratori e intaccando il potere negoziale delle orga-nizzazioni sindacali sgradite al padronato che potran-no essere espulse dai luoghi di lavoro, sbarazzandosidai lavoratori sindacalizzati, come avveniva negli anni’50 del secolo scorso.

Che non si tratti d’un pericolo puramente teoricoè dimostrato dall’esperienza di questi ultimi anni checi hanno fatto assistere al tentativo di Marchionne disbarazzarsi del più forte sindacato metalmeccanicoeuropeo, che è stato bloccato solo per l’interventodell’autorità giudiziaria, che il “Jobs Act” intende oggidisarmare, smantellando le sanzioni delle reintegraper i comportamenti illegali e impedendo così di fat-to l’azione di tutela della magistratura.

Se teoricamente rimane la reintegra per i licenzia-menti discriminatori e di rappresaglia, non è peròconcretamente possibile realizzarla perché il licenzia-mento vene sempre motivato con finte ragioni eco-nomiche e la dimostrazione dell’esistenza di motiva-zioni illegali che consentono la reintegra deve in talcaso portata dal lavoratore non sulla base di circo-stanze fattuali ma della dimostrazione della effettivavolontà discriminatoria del datore, ma si tratta d’unacosa impossibile: per questo viene chiamata la “pro-batio diabolica”, perché occorrerebbe leggere nel pen-siero la reale volontà del datore di violare le normeantidiscriminatorie e antirappresaglia.

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Le molte giustificazioni fittizie del governo

Per giustificare la propria azione, motivata essen-zialmente dalla volontà di portare alla Merkel e allaCommissione europea il trofeo (o, come molti l’han-no chiamato, lo “scalpo”) della controriforma del la-voro, per ottenere in cambio una flessibilità del bilan-cio, ma al disotto del limite del 3% del rapporto defi-cit/pil, che, con un Pil in riduzione costituirà comun-que un vero e proprio massacro sociale e occupazio-nale. Ma le giustificazioni portate a sostegno del “JobsAct”, che giunge a breve distanza dal massacro effet-tuato dalla legge Fornero, sono tutte infondate emolte palesemente false. In realtà il “Jobs Act” è laprosecuzione dell’assalto ideologico al diritto del la-voro, che si è concretizzato in Italia nel “pacchettoTreu” del ’98 e nella legge Biagi del 2003, che eranoprovvedimenti caratterizzati da una crescente preca-rizzazione e sottoprotezione sociale

Il problema è limitatoUn primo argomento è che riguarda pochi casi,

ma se il problema è così irrilevante non si spiega allo-ra l’accanimento con cui viene perseguita la cancella-zione della reintegra. Questo problema ha riguardato,in passato, un numero limitato di casi solo perchéoggi c’è ancora, nonostante la riforma Fornero, lapossibilità di ricorrere al giudice per chiedere la rein-tegra in caso di licenziamento illegittimo, e ciò avevaun effetto deterrente, mentre l’obiettivo del “Jobs

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Act” è proprio quello di togliere al giudice ogni pos-sibilità di decidere la reintegra, per consentire al da-tore, pagando un semplice obolo, di disfarsi dei lavo-ratori a lui sgraditi, perché chiedono il rispetto deiloro diritti o denunciano un danno (inquinamento oprodotti nocivi) nei confronti dell’intera collettività.È dunque presumibile una grande diffusione dei li-cenziamenti fintamente economici, e la decontribu-zione triennale per i neoassunti incentiverà il ricam-bio, con il licenziamento dei lavoratori anziani ultra-cinquantenni, cosa che già sta da tempo avvenendo,creando una enorme schiera di “né, né” anziani, senzalavoro e senza pensione, destinati a vivere in un lim-bo di povertà per almeno un ventennio, in attesad’una pensione miserabile verso i settant’anni.

Non ci sono più i padroni d’una voltaRenzi sostiene che siamo nel 2014, e non ci sono

più i padroni d’una volta, sono lavoratori anche loroe occorre collaborazione e non conflitto. Probabil-mente è per questo che la Leopolda era affollata dapadroni e speculatori, mentre mancavano i lavoratorie i sindacati. Ma basta guardare agli infortuni e mortisul lavoro, alla nocività delle produzioni, all’allunga-mento dell’orario di fatto, alle numerose violenze (dalcaporalato al sottosalario, fino all’uccisione di chichiedeva solo il pagamento del proprio salario), percapire che ci sono ancora i “padroni” d’una volta,Marchionne docet. Del resto a smentire la favola deipadroni buoni ci ha pensato Warren Buffet, un guru

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della finanza mondiale, fra i più ricchi del mondo,che ha detto “c’è una guerra di classe, è vero. Ma è la miaclasse, la classe ricca, che l’ha dichiarata, e stiamo vincendo”.

Favorisce i giovaniUn altro argomento è che favorisce i giovani. Alla

Leopolda compariva la scritta “Qui si crea lavoro”, invecelo si distrugge. Ormai una vastissima produzione dianalisi mostra come la liberalizzazione dei licenzia-menti abbia un effetto depressivo sull’occupazione,anche perché determina una riduzione dei consumi,della domanda interna e del Pil, e perché la maggiorpressione del padronato tende ancor più a concentra-re l’orario di lavoro in un numero sempre più ridottodi lavoratori che lavorano sempre più a lungo e in-tensamente. Se non si crea nuovo lavoro non ci sa-ranno miracoli, e il nuovo lavoro non può scaturireda una produzione in riduzione, ma da un aumentodei consumi e dalla riqualificazione della matrice pro-duttiva, che però nessuno cerca di realizzare. Perciò igiovani più preparati emigrano all’estero in quantitàimpressionante, perché la produzione italiana è trop-po bassa e matura per poterli assorbire.

Inoltre il contratto a tutele crescenti estenderebbei diritti a molti giovani precari che ne erano privi. Mal’unica vera garanzia dei diritti è la reintegra per i li-cenziamenti illegittimi, che viene cancellata, lasciandosolo una mancia, se avviene dopo i tre anni, mentreprima si tratta solo della cessazione d’un rapporto,senza alcun indennizzo. È del tutto ovvio il fatto che,

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data la grande disoccupazione, i lavoratori verrannoespulsi prima della fine del triennio, senza alcuna ga-ranzia e senza neppure la mancia economica. I preca-ri sono intrappolati nella loro situazione, che colpiscein particolare i giovani e gli ultracinquantenni espulsidal lavoro e diviene sempre più difficile uscirne versoun lavoro stabile. Luca Ricolfi su La Stampa dice “chilavora, lavora tantissimo, spesso in nero o col doppio o triplolavoro, chi è fuori dal mercato del lavoro ha poche possibilitàdi entrarci e pochissime di farlo con un contratto di lavorovero, ossia regolare, a tempo pieno e indeterminato”.

La volontà di dividere e contrapporre giovani eanziani sembra però non funzionare, non solo per-ché numerosissimi giovani senza lavoro vengonomantenuti, loro malgrado, dai salari dei genitori odalle pensioni dei nonni, ma anche perché capisconobenissimo che obiettivo del “Jobs Act” è di ridurre di-ritti, salari e pensioni, con una perdita di libertà e di-gnità per tutti. Infatti i giovani in piazza San Giovan-ni erano moltissimi, perché hanno capito che licen-ziare gli anziani non darà alcun lavoro ai giovani, maanzi ridurrà le loro possibilità di lavoro, perché avràeffetti recessivi e dunque il lavoro diminuirà ulterior-mente.

Il licenziamento non lo pagano i padroni ma ci pensa il governo

Il licenziamento non deve pagarlo il padrone,deve pensarci il governo, ha detto Renzi. “Cosa fa ungoverno di sinistra se non una politica che si prende in carico

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quelli che hanno perso il lavoro? Noi ci prendiamo cura conun assegno, poi ti vengo a cercare e ti offro un’occasione di la-voro e facendo questo dico che tu sei importante...Per anni cisiamo divisi in modo profondo tra chi voleva combattere il pre-cariato organizzando manifestazioni, e chi voleva farlo orga-nizzando convegni: ma il precariato si combatte innanzituttocambiando la mentalità delle nostre imprese, e le regole del gio-co. Sarà bello capire se è più di sinistra restare aggrappatialla nostalgia o provare a cambiare il futuro”. Ma il proble-ma è che il lavoro non c’è se non si creano nuovi po-sti di lavoro e i padroni italiani non ci pensano nep-pure lontanamente. Il richiamo alla “flexsecurity” è as-surdo, perché può funzionare solo se la disoccupa-zione è frizionale e dunque il problema è solo quellodi traghettare i lavoratori da un posto di lavoroall’altro, ma oggi il passaggio è dal lavoro alla disoc-cupazione permanente. Inoltre la “flexsecurity” esigerisorse enormi che non ci sono, anzi il governo nonrifinanzia neppure la cig speciale già esistente e inten-de cancellare in gran parte gli ammortizzatori. In-somma si tratta di una enorme presa in giro.

Come si creano posti di lavoro Luca Ricolfi, sul La Stampa, ha sostenuto che la

strategia del governo “per creare posti di lavoro è scrittasulla sabbia. Il piatto forte è la cosiddetta decontribuzione(non far pagare i contributi sui nuovi assunti), un provvedi-mento che in questi giorni viene venduto sul mercato dei mediaora come capace di creare 800.000 posti di lavoro in 3 anni(ministro Padoan), ora come capace di incentivare 850.000

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assunzioni in un anno (Gutgeld), ma si tratta di cifre campa-te per aria: il costo del contributo per un lavoratore a tempopieno è di circa 10.000 euro l’anno, il budget 2015 è pari a1,9 miliardi e dunque è in grado di azzerare i contributi di190.000 lavoratori, non certo di 850.000. Gutgeld si arram-pica sui vetri e, visto che i soldi non ci sono proprio, si ricorreal trucco di conteggiare la assunzioni part-time (4.600 eurol’anno) e per pochi mesi, giungendo a 2.200 euro l’anno. Ilfatto che un’assunzione sia senza contribuzione non garantisceminimamente che corrisponda a un posto di lavoro in più. Lerisorse stanziate non sono in grado neppur lontanamente di le-nire la piaga della mancanza di lavoro”.

Il sindacato sono io Di fronte alla grandiosa manifestazione di Roma

Renzi ha detto che “la piazza non ci fermerà, il lavoronon si crea con le manifestazioni”. “Ascolteremo, come abbia-mo sempre fatto, poi andremo avanti, perché se c’è una cosache non si può fare è pensare che una piazza blocchi un Paese… una volta discusso e deciso si va avanti, con determinazio-ne, perché è del tutto evidente che questo Paese ha bisogno diriforme e io non intendo fermarmi … il lavoro non si crea conle manifestazioni”. Ma l’ascolto è durato solo un’ora enon sembra che abbia influito sulle decisioni di Ren-zi, che ha affermato “Il sindacato sono io”, nella con-vinzione populista del rapporto diretto fra il capo e ilpopolo, che non ammette intermediari e non accettai soggetti sociali, la “società di mezzo”, e dunque anchei sindacati, visti come un ostacolo e un ritardo rispet-to alle proprie decisioni.

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Un vuoto enorme da colmare al più presto

Sia pure preparata da tempo, fin dagli anni ’80,dall’attacco al lavoro e allo stato sociale, e dalla teo-rizzazione del “partito leggero”, che cerca la governabi-lità attraverso le alchimie istituzionali, lontano dallepressione sociali, l’attuale situazione presenta caratte-ri del tutto inediti, anche rispetto agli altri grandi pae-si europei.

Nel suo “blog” sul New York Times, Krugman sichiede dove è finita la sinistra e dove sono finiti glieconomisti di sinistra in Europa.

Non esiste più in Parlamento, un partito di massache si dichiari di sinistra, neppure a quella socialde-mocratica, né un partito che intenda rappresentare ilmondo del lavoro, rimasto, di fatto, senza alcuna si-gnificativa rappresentanza. Ma ancora, il mondo dellavoro e il sindacato vengono visti come il “vecchio”da abbattere, da rottamare, travolgendolo con l’onda-ta giovanilista del “nuovo”, che troppo spesso assomi-glia alla vulgata neoliberista, sconfessata dalla storiama ancora pervicacemente presente per giustificaregli interessi oligarchici. Chi rivendica i diritti sarebbeperciò al di fuori della storia, diverrebbe così fautored’un corporativismo che appartiene al passato, anziquasi a un’altra era geologica e non è in grado di ca-pire la nuova realtà che avrebbe superato destra e si-nistra, togliendo loro qualsiasi significato. Ma è pro-prio così?

Certo, dobbiamo riflettere al fatto che stiamo at-

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traversando una crisi non congiunturale, né solo eco-nomica, ma una “crisi organica”, in senso gramsciano,che investe le rappresentanze politiche, sociali, istitu-zionali, ma anche le culture e i valori collettivi, l’insie-me della vita sociale, generando quello che è statochiamato un “caos sistemico”, una babele di linguaggieterogenei e privi d’un senso comune, da cui non sipuò uscire ritornando semplicemente al passato masolo costruendo un “ordine nuovo”.

Dunque non c’è una società pacificata, anzi nonc’è forse più una vera società, intesa come insieme diindividui legati da interessi, solidarietà e valori comu-ni, perché oggi impera un individualismo dilagante ela concorrenza più sfrenata, accanto a risorgenti na-zionalismi, particolarismi, tribalismi, fascismi, populi-smi, come tentativo, profondamente sbagliato, di tro-vare una protezione, una piccola solidarietà egoisticacementata dall’odio per un nemico comune, un caproespiatorio (in particolare l’immigrato). Proprio inqueste situazioni nasce l’affidamento fideistico e irra-zionale a un “capo”, acclamato in modo plebiscitariocome unico possibile risolutore di realtà troppo com-plesse. È l’epoca della “post-democrazia” o della “demo-cratura” (ovvero della dittatura sotto le mentite spo-glie della democrazia).

Il confronto avviene tra chi intende restaurare, at-traverso la violenza del mercato (contro i diritti dellavoro, lo stato sociale, la solidarietà di classe, la de-mocrazia) un potere oligarchico e antipopolare, e chiinvece intendere estendere diritti, democrazia, solida-

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rietà e partecipazione politica e sociale. Dunque ladifferenza fra destra e sinistra esiste ancora, anzi èpiù forte di prima, ma oggi l’offensiva è in mano alcapitale e le forze democratiche sembrano disorienta-te, deboli e sguarnite, spesso frammentate e apparen-temente incapaci di resistere, spesso profondamenteintrise delle idee dell’avversario.

Occorre dunque un lungo lavoro di ricostruzionedel legame sociale, di solidarietà e valori condivisi,ma ciò non può scaturire da un semplice appello madeve fondarsi sulla ricerca di interessi comuni, dasperimentare e cementare nelle lotte.

Bene, tutto ciò passa necessariamente attraversola centralità del lavoro come fondamento sociale. Sitratta d’una realtà oggettiva fondata sul carattere an-tagonistico del conflitto strutturale che, nel modo diproduzione capitalistico, assumono i contrapposti in-teressi di lavoratori e padronato, che strutturanol’insieme dei rapporti sociali. Ma questo dato oggetti-vo (la “classe in sé”) non si traduce automaticamentein una coscienza dell’esistenza di interessi comuni,nella costruzione d’un soggetto collettivo (la “classeper sé”), che può scaturire solo da una teoria ed unprogetto di trasformazione, dalla costruzione d’unaorganizzazione politica e di vaste alleanze sociali, perrealizzare un nuovo blocco sociale egemone, capacedi unire l’insieme degli interessi delle classi subalterneoppresse e delle contraddizioni vissute nella società,da quella di genere a quella generazionale, etnica, ecc.

Per uscire, dunque, da una grande crisi organica

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come l’attuale, dal caos sistemico oggi imperante, èindispensabile riunificare le forze oggi disperse edeterogenee del mondo del lavoro (innanzitutto evi-tando un’ulteriore frammentazione, come quella cheviene oggi proposta dal “Jobs Act” e chiedendo unaestensione dei diritti e delle garanzie per tutti) batten-dosi per il lavoro (e non solo per un sussidio alla di-soccupazione, peraltro oggi carente) anche attraversouna diversa politica economica, la riduzione delle di-seguaglianze, una estensione dei diritti civili, la rico-struzione d’un universo di valori solidali come nuovaidea di sinistra oggi.

Ma occorre soprattutto una grande partecipazio-ne sociale e politica e dunque la ricostruzione d’unpartito, oggi assente, che rappresenti gli interessi soli-dali del mondo del lavoro e delle sue possibili allean-ze sociali e sia capace di realizzarli con la forza d’unprogetto di trasformazione. Si tratta d’un percorsocerto lungo e difficile, ma necessario e indispensabileper evitare la catastrofe e per ridare un futuro allenuove generazioni.

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LA FLESSIBILITÀ DEL LAVORO,UNA TENDENZA NEOLIBERISTA

INTERNAZIONALE

IL RETROTERRA IDEOLOGICODELL’INSISTENZA SULLA CENTRALITÀ

DELLA “FLESSIBILIZZAZIONE”DEL LAVORO

Un’azione di politica economica per l’occupazione

Nella teoria keynesiana la disoccupazione è deter-minata da un livello insufficiente della domanda ag-gregata, in presenza di una massa di beni invenduti,per effetto della diminuzione dei consumi, con unaconseguente flessione dei prezzi, in regime di reces-sione. Non è invece compatibile con l’inflazione, chederiverebbe invece da una situazione di pieno impie-go, in quanto l’eccesso della domanda aggregata ri-spetto all’offerta aggregata (già al massimo e non piùespandibile in termini quantitativi), non potendo es-sere soddisfatto, determina un incremento dei prezzie del Pil nominale.

Nel ’62 l’economista Arthur Melvin Okun, ha ela-borato il cosiddetto “coefficiente Beta” (della “Legge diOkun”) secondo cui per ogni incremento di un puntodel tasso di disoccupazione naturale il Pil reale si ri-duce dai 2 ai 3 punti percentuali.

La “curva di Phillips” (proposta negli anni ’20 da

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Irving Fisher, ripresa nei ’58 da Alban William Phil-lips e sostenuta da Paul Samuelson e Robert Solow)descrive una relazione inversa (“trade-off”) fra il tassodi disoccupazione e d’inflazione. Essa implica che sipossa ridurre la disoccupazione e aumentare la pro-duzione con una inflazione più alta, e che la politicaeconomica possa influenzare tali variabili: un aumen-to della quantità di moneta, aumentando la domanda,fa diminuire la disoccupazione e aumentare la produ-zione, causando però un aumento dei prezzi. Spiega-va Solow che “la società può permettersi un saggio d’infla-zione meno elevato o addirittura nullo, purché sia disposta apagarne il prezzo in termini di disoccupazione”.

Per questo sarebbe possibile determinare una ri-duzione permanente della disoccupazione nel lungoperiodo attraverso un’azione di politica economicache determini un’espansione della domanda e un in-cremento del tasso di inflazione, facendo aumentarein misura equivalente il reddito e il tasso di attivitàdella popolazione, ovvero:

• Per aumentare l’occupazione fino ad unadata percentuale, occorre aumentare anche laproduzione con una percentuale adeguata eben precisa.

• L’aumento della produzione necessita d’uncorrispettivo aumento della domanda di benie servizi da parte della Pubblica amministra-zione e la disoccupazione si può combatteresolo aumentando la spesa pubblica o incenti-vando la spesa privata.

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Il neoliberismo del “laissez faire” e la teoria del-le “aspettative razionali”

Alla fine degli anni sessanta s’è manifestata per laprima volta nei paesi occidentali la “stagflazione”, ov-vero la contemporanea presenza di inflazione e sta-gnazione economica, che in precedenza erano sem-pre state disgiunte. Ciò ha determinato la crisi delleteorie interventiste, keynesiana e della “curva di Phil-lips”, che, fino ad allora erano state un valido stru-mento di politica economica.

Anche i tentativi di combatterla, sul modello key-nesiano, con politiche economiche espansive hannoaggravato ulteriormente tale fenomeno, e ciò vennespiegato coll’esistenza del monopolio sindacale nelmercato del lavoro, che determinerebbe una rigiditàdei salari, e con i cartelli delle materie prime. Datoche la teoria keynesiana e la “curva di Phillips” nonerano in grado di spiegare questo nuovo fenomenomolti economisti le abbandonarono, ritornando allateoria economica liberista.

Alla fine del 1967 Milton Friedman e EdmundPhelps hanno portato avanti un modello neoliberistache chiedeva il ritorno a politiche economiche noninterventiste, di libero mercato, usando la teoria delle“aspettative razionali” (secondo cui gli individui usanole informazioni in modo efficiente, senza compiereerrori sistematici nella formazione delle aspettativeriguardanti le variabili economiche) per mettere in di-scussione la relazione inversa di lungo periodo tra in-

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flazione e disoccupazione mostrata dalla curva diPhillips. Per i sostenitori delle “aspettative razionali” imercati sono sempre in equilibrio, perché gli agentieconomici determinano prezzi e salari per massimiz-zare profitto e utilità, e non esiste la “disoccupazione in-volontaria”, perché il disoccupato potrebbe sempretrovare lavoro a un “salario d’equilibrio” inferiore (chesecondo Ricardo, potrebbe essere inferiore al salariodi sussistenza), che però non sarebbe disposto ad ac-cettare.

Friedman sosteneva che l’aumento della quantitàdi moneta creerebbe aspettative di inflazione, lascian-do immutata la domanda reale, ma facendo aumenta-re le richieste salariali, perciò non aumenterebberodomanda e produzione, lasciando immutata la disoc-cupazione. La politica economica, e quella monetariain particolare, sarebbero perciò incapaci di determi-nare variazioni della produzione, della domanda edella disoccupazione.

Aveva definito un “tasso naturale di disoccupazione”,coerente col livello potenziale della produzione ag-gregata, che l’economia raggiungerebbe in assenza difrizioni temporanee e che, a loro avviso, non potreb-be essere ridotto da politiche espansive della doman-da che determinerebbero solo un aumento dell’infla-zione ma senza riduzione della disoccupazione.

Ricorreva anche a un “ritardo d’azione” (isteresi) delrecupero salariale dovuto alla “illusione monetaria”(quando per effetto della inflazione l’aumento dei sa-lari nominali nasconde la caduta di quelli reali) per

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cui uno shock improvviso vede una reazione di rin-corsa salariale solo dopo un certo periodo di tempo,quando diviene palese la riduzione del potered’acquisto.

L’evidenza empirica ha mostrato che si trattad’una teoria errata che è stata accettata solo da pochieconomisti conservatori, mentre è stata generalmen-te sottoposta a vaste critiche perché gli individui nonsono adeguatamente informati e razionali nelle loroscelte, e non esiste un mercato del lavoro di concor-renza perfetta, ma solo un mercato organizzato sin-dacalmente, su posizioni di monopolio del venditoree di monopsonio del compratore, che dipende dalloro rispettivo potere negoziale, influenzato dal livel-lo di disoccupazione. Di volta in volta prevale il “mer-cato del venditore” di forza lavoro, in una situazioneprossima alla piena occupazione che consente mag-giori richieste salariali, e un “mercato del compratore” diforza lavoro, in presenza di una disoccupazione ele-vata e involontaria, con un “esercito di riserva” di disoc-cupati che preme sugli occupati, indebolendoli e ab-bassandone la retribuzione.

La “disoccupazione di equilibrio”

Proprio per cercare di spiegare la “stagflazione”, lateoria delle “aspettative razionali” ha creato il Nawru(Non-accelerating wage rate of unemploiment), che è il “tas-so di disoccupazione di stabilità salariale”, ovvero, secon-do i suoi autori, il tasso di disoccupazione necessario

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ad evitare un’accelerazione della crescita dei salari, eil Nairu (Non-accelerating inflation rate of unemploiment),che è il “tasso di disoccupazione di stabilità inflattiva”, ov-vero il tasso di disoccupazione necessario ad evitareuna crescita dell’inflazione, strettamente correlato alprecedente. Rappresenterebbero, secondo i neoliberi-sti, una situazione d’equilibrio macroeconomico (di-soccupazione di equilibrio), senza sovra- e sotto-produ-zione, in cui il tasso di disoccupazione e la crescitadei salari reali corrispondono all’evoluzione dellaproduttività.

Differiscono dal “tasso di disoccupazione naturale”,perché, mentre quest’ultimo si riferisce a un mercatodel lavoro concorrenziale in equilibrio, in cui la di-soccupazione è unicamente “frizionale” (ovvero unaforma di disoccupazione di breve periodo e di lieveentità, connessa agli scompensi temporanei nella rial-locazione dei lavoratori fra i diversi settori), il Nairuè dovuto a imperfezioni del mercato del lavoro(come una eccessiva rigidità dei salari verso il basso)e consta anche della disoccupazione strutturale (ov-vero di una forma duratura e più elevata di disoccu-pazione determinata da profondi mutamenti struttu-rali dell’economia). Friedman prevede solo una di-soccupazione volontaria, mentre l’analogo concettoneokeynesiano di “disoccupazione d’equilibrio” prevedela disoccupazione involontaria e un effetto d’isteresi,ovvero un aumento della durata della disoccupazioned’equilibrio oltre le cause che l’hanno prodotta.

Questi due parametri distinguono fra una “curva

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di Phillips di breve periodo”, che escluderebbe qualsiasiimpatto sull’occupazione (che richiederebbe inveceun periodo più lungo per poter mostrare i suoi effet-ti), e una di “lungo periodo”, in cui ogni sforzo teso aridurre il tasso di disoccupazione al di sotto del Nai-ru determinerebbe una “accelerazione della inflazione”,ovvero un immediato aumento delle aspettatived’inflazione con un conseguente peggioramento del“trade-off” fra disoccupazione e inflazione e un con-nesso fallimento delle politiche di contrasto, chespiegherebbe il fenomeno della “stagflazione” e impe-direbbe qualsiasi possibilità di intervento di politicaeconomica per ridurre il tasso di disoccupazione.

Questi indicatori hanno assunto un rilievo parti-colare in quanto sono stati assunti come il perno sucui ruota l’intera concezione economica (fiscale e dibilancio) dell’Unione europea e della Bce e, cosa an-cor più importante, per la definizione degli obiettivicogenti imposti dalla Commissione ai singoli paesidell’Unione ed in particolare della Eurozona, rispettoal riaggiustamento semi-automatico del bilancio pub-blico in conformità ai parametri di Maastricht, resiancor più cogenti dal Patto di bilancio (Fiscal compact).La sua influenza è particolarmente rilevante in quan-to ogni variazione, anche lieve, del Nawru, determinavariazioni assai più rilevanti sugli obiettivi da raggiun-gere per il contenimento del disavanzo e del debitopubblico, determinando conseguenze assai rilevantisulle politiche economiche e sociali dei singoli stati.

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Le astruse assurdità del calcolo del Nawru e lesue gravi conseguenze

Le regole, formali e informali, dell’Unione euro-pea prevedono che le politiche economiche e di bi-lancio espansive possano essere perseguite da unpaese solo in presenza di un consistente “output gap”(che è la differenza tra il prodotto interno lordo ef-fettivo e quello potenziale, ovvero quello massimoraggiungibile stabilmente da un sistema economico),in quanto consentono solo un indebitamento di na-tura ciclica, collegato appunto all’“output gap”, mentrevietano un indebitamento di tipo strutturale.

A parità di indebitamento nominale, l’indebita-mento ciclico e quello strutturale sono complemen-tari e dunque più basso è l’“output gap” e quindil’indebitamento ciclico, tanto più alto risulta quellostrutturale, che la Commissione europea impone dicorreggere attraverso le politiche di austerità.

Tanto più si avvicina il tasso reale di disoccupa-zione e il Nawru, tanto più si riduce l’“output gap”, edi conseguenza si restringono i margini concessi dal-la Commissione europea per le politiche di sviluppo.

Ma il Nawru presenta rilevanti contraddizioniperché, a differenza di altri indicatori, come il Pil rea-le e l’indebitamento nominale, il cui valore è costrui-to sulla base di regole precise, sia pur discutibili, edunque è misurabile con certezza, al contrario il rap-porto fra indebitamento strutturale e ciclico è il risul-tato d’una valutazione stimata sulla base del Nawru,

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“che a sua volta non è un valore fisso ma è estremamente va-riabile nel tempo”. il calcolo del Nawru scaturisce dauna serie di stime previsionali che presentano un ele-vato carattere di discrezionalità e aleatorietà, se nondi arbitrarietà, e le variazioni troppo consistenti a cuiè stato sottoposto da un anno all’altro, fanno pensaread una manipolazione politica volta a costituire ele-menti di pressione sulle politiche di bilancio dei paesidell’Unione, in particolare nei confronti dei cosiddet-ti “Piigs”.

A causa di questa volatilità del Nawru, la Com-missione tende a fissarlo sempre più in alto, proprioquando nella realtà esplode anche il tasso di disoccu-pazione e, di conseguenza, la Commissione europeaimpone ai paesi che sono già in crisi, l’obbligo, nonsolo di evitare politiche espansive, ma di promuoverepolitiche restrittive che peggiorano la situazione. “Inquesta concettualizzazione regolatoria e giuridica – sostienein un’intervista a IlSole24ore Stefano Fantacone,capo economista del CER, il centro di ricerca econo-mica che per primo ha sollevato il problema – risiedequella meccanicità che dà forza operativa e giustificazione teo-rica ai fautori di un rigore severo che nulla ascolta. E non acaso, è un meccanicismo basato su uno strumento predittivo, ilNawru, che ha una sua ragion d’essere nel controllo dell’infla-zione” che in questo momento non esiste, perchél’Europa, e ancor più l’Italia, hanno un enorme pro-blema di deflazione che questo meccanismo tende apeggiorare. “La Commissione formula un’ipotesi per ognipaese, per non avere inflazione bisogna che il tasso di disoccu-

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pazione sia a un certo livello, e fa una stima i quale sia questolivello. Il problema è quello che concretamente che capita inuno scenario dissestato come quello europeo, con un disoccupa-zione crescente e difficile da controllare, che fa sì che ogni annoil filtro statistico del Nawru postulato dalla Commissione ten-da anch’esso ad aumentare sempre più, quasi inseguendo iltasso di disoccupazione reale”.

Proprio per questo motivo il Nawru è causa didissidi e di veri e propri scontri fra i fautori d’un ri-gore ossessivo che dovrebbe sostituire qualsiasi valu-tazione degli obiettivi di politica economica e coloroche tale concezione subiscono come una camicia diforza, un vero e proprio “letto di Procuste” che amputaogni possibilità di crescita economica e, di conse-guenza, di stabilità anche di bilancio. Vladimiro Giac-ché, presidente del CER, sottolinea il fatto che il Na-wru “è la leva che viene adoperata per garantire l’iperconteni-mento dell’inflazione”, ma in una situazione in cui il proble-ma è invece quello della deflazione”.

Anche Draghi, con una implicita polemica neiconfronti della Germania, pur considerando valido ilNawru, sostiene che nella cassetta degli attrezzi percurare le patologie recessive non esiste solo la politi-ca monetaria, ma ci sono anche le politiche economi-che espansive, evidenziando il fatto che propriol’austerità sta portando l’Europa, Germania compre-sa, in un vicolo cieco.

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Il fallimento conclamato delle teorie neoliberistesulla occupazione

Alla fine degli anni ’90 il tasso naturale d’inflazio-ne è sceso negli Stati Uniti, al 4%, ben al di sotto diogni possibile stima del Nairu, mentre l’inflazione,anziché accelerare, come era previsto dai neoliberisti,è rimasta moderata e ciò ha tolto ogni validità espli-cativa al Nairu e al Nawru, che tuttavia sono ancoracomunemente usati dagli economisti, in particolaredalla Ue.

Anche il concetto di “aspettative razionali” che siauto realizzerebbero è stato smentito dal fatto chetale modello era fondato sull’esistenza d’un unicopunto di equilibrio dell’economia, indipendente dallecondizioni della domanda, mentre è ormai chiaro cheil Nairu non ha un unico punto d’equilibrio, comeera precedentemente ipotizzato.

Il ritorno degli interventi di politica economica

Da tali fallimenti sono sorte ulteriori teorie. Moltieconomisti hanno continuato ad usare la “curva diPhillips”, trasformandola però da fissa in dinamica edunque rendendola sensibile agli interventi di politicaeconomica che potrebbero influire nel migliorare il“trade-off”, come negli anni ’90 o peggiorarlo, comenegli anni ’70.

Il modello del “triangolo di Gordon”, proposto daRobert J. Gordon della Northwestern University, fa

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dipendere l’andamento del tasso d’inflazione da trefattori: l’inflazione a breve termine della “curva diPhillips”, gli shock sull’offerta (come quelli del petro-lio) e la “inflazione intrinseca” (built-in-inflation), che ri-flette le aspettative d’inflazione e la spiraleprezzi-salari.

Questo modello modifica il Nairu rispetto alletendenze di lungo periodo per cui con una bassa di-soccupazione e un’alta inflazione pluriennale deter-mina una accelerazione delle aspettative d’inflazionee la spirale prezzi-salari (come negli anni ’60 negliStati Uniti), mentre con una disoccupazione elevata euna bassa inflazione pluriennale rallentano le aspetta-tive d’inflazione e la spirale prezzi-salari (come negliStati Uniti negli anni ’80).

LE ATTUALI TENDENZEDELL’OCCUPAZIONE

Come si misura la disoccupazione

I dati sulla disoccupazione si prestano a svariatemanipolazioni, perché sono fondati su un numerominimo di giornate ed ore lavorative in un dato pe-riodo di tempo, per cui basta abbassare la soglia e,per incanto, sparisce buona parte della disoccupazio-ne. Ad esempio l’Istat considera occupate “le personedi 15 anni e più che nella settimana di riferimento abbianosvolto almeno un’ora di lavoro in qualsiasi attività che preve-da un corrispettivo monetario o in natura, o un’ora di lavoro

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non retribuito nella ditta di un familiare nella quale collabo-rano abitualmente”. Naturalmente riducendo il numerodi ore di lavoro necessarie per essere considerati oc-cupati, si assiste ad un apparente miglioramento, pu-ramente statistico e fittizio della situazione occupa-zionale anche se sta in realtà peggiorando. Ciò è par-ticolarmente vero in una situazione di supersfrutta-mento come quella attuale, che vede un utilizzo dimanodopera a bassissimo costo, o a volte persinogratuita (nella speranza di accumulare esperienze peril proprio “curriculum”) dei cosiddetti “stagisti”, spessotenuti al lavoro per uno o due mesi e poi sostituiticon altri, dato che la richiesta non manca.

Per avere un’idea più precisa dello stato del mer-cato del lavoro è perciò necessario introdurre il con-cetto di “disoccupazione relativa”, ovvero del fenomenoinedito della “povertà relativa” degli occupati. Infatti ladisoccupazione non è costituita solo dalla mancanzadi lavoro, perché chi vive di rendita e non è interessa-to a cercare un lavoro, pur non lavorando, non puòcerto essere considerato disoccupato, ma anche i di-soccupati di lungo periodo escono dal mercato dellavoro perché, avendo perso la speranza di trovareuna occupazione, sono “scoraggiati” dal cercarla e nonappaiono più nelle statistiche dei disoccupati. Il pro-blema della disoccupazione è dunque strettamenteconnesso a quello del reddito perché si può lavorareanche dieci ore al giorno pur rimanendo “disoccupatiparziali” se tale lavoro non offre un reddito sufficien-te.

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La mancanza di posti di lavoro

Il vero problema del mercato del lavoro è oggideterminato dalla carenza di posti di lavoro, abba-stanza generalizzata in tutti i paesi avanzati, anche secon significative differenze a seguito delle diverse po-litiche economiche adottate, espansive come negliStati Uniti o recessive, come in Europa. Ciò non de-riva certo da una eccessiva rigidità delle tutele, ormaiprofondamente lacerate, per cui si assiste semmai adun eccesso di “flessibilità” sotto forma d’una precarie-tà multiforme, con una labilità del lavoro che impedi-sce di accumulare esperienze e consolida un modellodi concorrenza fondato sul costo e non sulla qualitàdel lavoro, che non è reggibile in un paese avanzatodi fronte alla pressione dei paesi emergenti.

In realtà oggi la flessibilità e precarietà del lavorosono già eccessive rispetto alla stessa esigenza di qua-lità della produzione e ciò è chiaramente dimostratodalle ormai molto frequenti richieste di richiamo inproduzione, specie negli Stati Uniti, di lavoratoripensionati perché le loro conoscenze sono indispen-sabili per far funzionare l’attività dell’impresa. Ma intal modo si persegue un’impossibile competitività diprezzo e si va verso un rapido declino anche produt-tivo del paese. Si entra, come dice Lucrezia Reichlin,“dell’epoca buia dei mezzi lavori”, anzi, d’un lavoro senzaqualità.

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Le attuali tendenze della disoccupazione tecnologica

David Ricardo, il più liberista fra gli economisticlassici, era inizialmente convinto che il progressotecnico avrebbe dato vantaggi per tutti ma poi, neisuoi “Principi” del 1821, ha affermato di dover cor-reggere questa sua valutazione erronea, perchél’introduzione di innovazioni tecnologiche potevadanneggiare i lavoratori, in quanto porta ad una mo-difica della composizione del capitale trasformando-ne una parte da circolante (fondo salari) in fisso(macchinari) e se il capitale complessivo non cresce,ne consegue una riduzione dell’occupazione, deter-minata dalla “disoccupazione tecnologica”.

Il modello di Ricardo è fondato sull’idea, ripresadai neoliberisti, che il “salario di equilibrio” potrebbescendere al di sotto del livello di sussistenza. Questainterpretazione è stata riproposta con la crisi del2007, che ha mostrato come il progresso tecnico in-tervenuto negli ultimi decenni, specie nel campodell’informatica e delle comunicazioni, ha portatonella maggior parte dei paesi avanzati ad una vasta ecrescente disoccupazione e ad una riduzione dei sala-ri reali. Si tratta d’una linea di tendenza verso la di-soccupazione tecnologica di massa destinata ad ac-centuarsi a seguito della digitalizzazione dell’econo-mia e dell’introduzione delle stampanti 3D.

Tale fenomeno è stato offuscato nel trentenniopostbellico (definita l’“età dell’oro” o i “trenta gloriosi”)

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da un’intensa crescita economica conseguente allaglobalizzazione e integrazione delle economie, che èprevalsa rispetto agli effetti del progresso tecnico,creando più posti di lavoro rispetto a quelli distruttidalle tecnologie, consentendo di ridurre la disoccupa-zione a livelli “frizionali” e dando l’impressione di unasituazione di relativo equilibrio.

Tuttavia, con la riduzione della crescita, la situa-zione è cambiata da circa trent’anni, causando l’ero-sione dei salari reali dei lavoratori, in particolare diquelli meno qualificati. Le tutele del lavoro (assicura-zioni contro la disoccupazione, salario minimo con-trattuale o legislativo, tutela dal licenziamento discri-minatorio, assistenza sanitaria, ecc.), oggi sotto attac-co, hanno frenato in passato la riduzione dei salarireali mentre prosegue il taglio dei costi dell’automa-zione produttiva che determina un ulteriore spiazza-mento dell’occupazione.

Sono ormai molti gli economisti che ipotizzanol’impossibilità d’un ritorno alla situazione precedentela crisi, perché, a causa della scarsa quantità di lavoroincorporata nelle nuove tecnologie e della loro pro-duttività assai più elevata della dinamica dei consumi,non funziona più il meccanismo di trasferimento“frizionale” della ’occupazione da un settore in decli-no ad un nuovo settore in crescita, per cui si deter-mina una conseguente disoccupazione e una carenzadi consumi con effetti depressivi. In questa situazio-ne, sostiene Summer, la crescita potrà dipendere uni-camente dalla creazione di bolle che offrano una cre-

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scita della domanda non salariale tale da determinareuna crescita dei consumi, come del resto è stato fattonegli Stati Uniti con la bolla immobiliare e poi della“new economy”, con gli effetti infausti che conosciamo.L’unica terapia plausibile, però difficile da realizzareperché si scontra frontalmente con i dogmi economi-ci oggi imperanti, sarebbe la distribuzione del lavoro,a fronte di una forte riduzione dell’orario individualecomplessivo nel corso della vita (incidendo sull’ora-rio settimanale, mensile ed annuo, ma anche aumen-tando i periodi di formazione e anticipando il pen-sionamento), accompagnato da investimenti pubblicinell’economia verde e nei servizi sociali e a un au-mento di salari e pensioni.

LE POLITICHE ECONOMICHE CHEINFLUENZANO L’OCCUPAZIONE

Una crisi che non passa

Dopo aver ormai da anni annunciato, già a partiredall’ormai lontano 2008, l’imminente uscita dal tun-nel, i dati economici mostrano, in particolare in Eu-ropa, a causa delle sue politiche di una pretesa “auste-rità espansiva” che è invece in realtà fortemente reces-siva, una tendenza al peggioramento, aggravata dalleturbolenze geostrategiche che stanno imperversandonel mondo, tanto da suggerire, persino per bocca dipapa Francesco, l’inizio d’una “terza guerra mondiale”,diffusa e strisciante.

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Le politiche di austerità concorrenziale e la ripresa senza occupazione

Data la situazione dell’economia internazionale,anche nel caso di una ripresa economica, questa sa-rebbe comunque, secondo tutte le organizzazionieconomiche internazionali, “senza lavoro” (jobless reco-very) a causa della trasformazione tecnologica dellaproduzione che esige un sempre minore utilizzo dellamanodopera, da ultimo con la produzione attraversole stampanti 3D. Si spezza così la connessine fra pro-duzione e consumi salariali, anche a causa d’una cre-scente concorrenza internazionale da costi che con-tribuisce ad eroderli. Per questo, data la carenza didomanda interna, determinata dalle politiche di de-flazione salariale a fini concorrenziali, l’economiad’un paese è ricercata in un’improbabile aumentodelle esportazioni. Ciò non è tuttavia sufficiente a ri-mediare alla carenza di domanda interna, datal’assenza d’un paese che svolga il ruolo, interpretatoa lungo dagli Stati Uniti, di “consumatore di ultima istan-za” a livello mondiale, finanziato stampando dollari eaumentando i “debiti gemelli” (debito pubblico e debi-to della bilancia dei pagamenti), ed ora definitiva-mente scomparsa. Siamo perciò in presenza diun’acuta carenza di consumi che impedisce, sia purein misura differenziata da paese a paese, una ripresadell’economia.

L’unica soluzione positiva plausibile sarebbe co-stituita da un accordo cooperativo a livello mondiale

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per un rilancio coordinato dell’economia, accompa-gnato dalla distribuzione del lavoro esistente, con lariduzione dell’orario individuale non solo settimana-le, mensile e annuale, ma anche nell’arco della vita,ovvero riducendo l’età di pensionamento e aumen-tando i periodi di formazione.

Ciò esige però un profondo mutamento degli at-tuali orientamenti economici, riducendo la concor-renza (che è il vero e proprio feticcio della Ue) e fa-vorendo la cooperazione fra stati, trasformando lacompetizione in collaborazione finalizzata al contra-sto della disoccupazione tecnologica, anche attraver-so una formazione continua capace di conciliare losviluppo tecnologico con quello delle risorse umane,con il consolidamento d’una ripresa economica, so-cialmente e ambientalmente favorevole.

Questa soluzione collaborativa, ampiamente sol-lecitata dalle autorità statunitensi, è resa attualmenteimpossibile dalle politiche deflattive europee, impo-ste dalla Germania attraverso i parametri di Maastri-cht, ulteriormente irrigiditi dal Patto di bilancio (Fi-scal compact). Infatti la soluzione attualmente persegui-ta, particolarmente nell’Eurozona, è invece quellaneoliberista, che consiste in una ulteriore accentua-zione della concorrenza, anche a prezzo di enormicosti sociali, con la riduzione del salario medio sottoil livello di povertà relativa, attraverso la riduzionedelle tutele del lavoro e la liberalizzazione dei licen-ziamenti, nonché il taglio di pensioni e stato sociale.

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Il ricorso alla “svalutazione competitiva interna”

Proprio per la difficile situazione dell’economia el’assenza di progetti di cooperazione espansiva dellepolitiche economiche, quasi tutti i paesi hanno adot-tato politiche mercantilistiche e vogliono forzare leproprie esportazioni attraverso il taglio della doman-da interna (privata e pubblica, ovvero salari e spesapubblica e sociale), ma si tratta d’un gioco a sommanegativa in cui tutti, compresa la Germania che l’hapiù fortemente sollecitato, escono perdenti. Comeaveva precisato Roy Harrod, in assenza d’una crescitageneralizzata, un aumento della produzione d’unpaese superiore a quello medio comporta il fatto che,per riportare il sistema in equilibrio è necessario chein qualche altro paese si produca di meno (o che lesue merci restino invendute), per cui ogni variazionedel tasso di accumulazione in un paese genera unmovimento cumulativo che non corregge gli scosta-menti ma anzi li aggrava.

Per questo, in modo particolare nell’Eurozona,dove, a causa della presenza dell’euro, i singoli paesinon possono sostenere la propria competitività attra-verso la svalutazione monetaria, agendo sulla leva delcambio, le autorità europee hanno promosso la “sva-lutazione competitiva interna” come fattore concorren-ziale, attraverso la svalorizzazione del lavoro (con laliberalizzazione dei licenziamenti, la abolizione delcontratto nazionale, la commisurazione del salario

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alla redditività della singola azienda), la sua concen-trazione (con un allungamento dell’orario di fatto el’aumento dell’età di pensionamento) e la compres-sione del “welfare” (col taglio delle pensioni, dell’assi-stenza, della sanità, dell’istruzione e dei lavoratori delpubblico impiego)

Ma la spinta ad una maggiore produttività, in as-senza d’una crescita della domanda, significa solocreare nuove schiere di disoccupati e può essere otte-nuta solo attraverso un’ulteriore intensificazione dellavoro umano (che viene così concentrato) o median-te l’introduzione di innovazioni di processo che so-stituiscono il lavoro con macchine (espellendo altrilavoratori).

Si tratta infatti della cosiddetta politica “rubamaz-zetto” (B.T.N.,“beggar thy neighbour”, letteralmente “fre-ga il tuo vicino”) che però, come è noto, ha il difetto dipoter funzionare unicamente se è praticata da unsolo paese, mentre se viene imposta a tutti i paesi,chiedendo di fare deflazione salariale “come la Germa-nia”, gli effetti si neutralizzano a vicenda, con il solorisultati di portare tutti quanti in una spirale recessivadi tagli sempre più rilevanti, in una continua corsa alribasso che conduce inesorabilmente alla depressio-ne, con i connessi costi sociali e politici e l’esplosionedei populismi di destra.

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Commissione europea: l’analisi è sbagliata maserve politicamente per l’austerità

Nonostante la sua palese incongruenza, le istitu-zioni europee hanno ripreso il concetto neoliberistadel “tasso di disoccupazione naturale” e della sua evolu-zione nel “tasso di disoccupazione necessario di stabilità eco-nomica”, che ha portato alle politiche reaganiane ethatcheriane.

La struttura tecnica della Commissione europea(l’Output gap working group), che calcola la crescita po-tenziale in funzione della applicazione dei parametridi Maastricht, continua a fondare le proprie previsio-ni di deficit strutturale di ciascun paese membro suun obiettivo della “disoccupazione di equilibrio”(Nawru/Nairu), che non produrrebbe inflazione, no-nostante il fatto che, come abbiamo già visto, le ana-lisi economiche abbiano ormai dimostrato la loro as-soluta discrezionalità e inattendibilità. Il suo valorevaria da paese a paese e l’Ue ha fissato come obietti-vo il Nairu italiano all’assurda cifra del 10,4% nel2013, al 10,8% nel 2014 e all’11% nel 2015.

Va osservato come la previsione sulla “disoccupa-zione di equilibrio” abbia subito un’impennata repenti-na, che appare come una vera e propria manipolazio-ne politica, nell’autunno del 2012, rispetto alla prece-dente previsione dell’8,5% della primavera del 2012 edel 7,5% dell’ottobre 2011. Infatti tale valore influen-za grandemente il saldo strutturale di bilancio.

La crescita della disoccupazione strutturale pro-

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duce infatti effetti rilevanti sul Patto di Bilancio (Fi-scal compact) e gli Omt (Obiettivi a medio termine) peril consolidamento fiscale, perché riduce lo scarto trail tasso di disoccupazione strutturale e la disoccupa-zione effettiva e ciò determina, nei calcoli del Pattodi stabilità europeo, un restringimento dei marginiper la politica economica, per gli strumenti d’inter-vento di stampo keynesiano e della domanda pubbli-ca e, di conseguenza anche degli spazi per le politichestrutturali industriali. Col venir meno di tali spazid’azione, per rispettare i vincoli di bilancio (che nonsono il 3% nel apporto deficit/Pil di Maastricht, mail pareggio, con uno scarto massimo dello 0,50%, macomprendendoci anche il 5% di rientro ventennaledel debito pubblico oltre il 60% del Pil) l’unica stradapossibile è quella, socialmente ed economicamentedevastante, della “svalutazione interna”, ovvero del ta-glio della spesa pubblica (servizi, stipendi e occupa-zione), e di quella privata (flessibilità del lavoro conconseguente riduzione del salario medio), ma ciò haevidenti effetti recessivi in una situazione dove il pro-blema principale è la carenza di domanda, in declinoovunque, anche nei Brics, che l’hanno tirata negliscorsi anni. Si instaura così una spirale di tipo grecoche aumenta il debito pubblico e richiede semprenuovi tagli che peggiorano ulteriormente economia eoccupazione.

Secondo i calcoli del Cer, “se l’Europa avesse stimatoper l’Italia un Nairu di circa l’8%, come fino all’inizio del2012, oggi potremmo vantare un surplus strutturale dello

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0,3% del Pil invece di un deficit dello 0,6% e l’Italia sarebbein attivo”. La differenza è di circa 15 miliardi di euro.Come spiega Manuele Buonaccorsi “uno strumento dimisurazione concepito per contrastare la crisi economica, messonelle mani dell’Ue, è diventato pro ciclico: rende ancora piùforte la crisi e rafforza le politiche di austerità”.

Anche il Ministero del Tesoro italiano ha scrittonel Def che “i parametri da cui è ricavato il Nairu sonoparticolarmente soggetti a discrezionalità” e le cifre dellaUe molto sovrastimate, con un effetto particolar-mente negativo per l’Italia, perché ne consegue undeficit strutturale più alto.

Va anche ricordato che la Spagna ha contestato lestime del Nawru fornite dalla Ue ed è riuscita ad ot-tenere una revisione di ben due punti del deficitstrutturale, allentando in tal modo i vincoli e aumen-tando la flessibilità che da tempo le è già stata con-cessa, ma non è ancora soddisfatta e chiede una ulte-riore revisione di dimensioni ancora maggiori.

Al contrario il governo italiano, che appare succu-be della Commissione e delle pretese della Merkel,non ha sollevato il problema, accontentandosi dichieder una insufficiente flessibilità sotto il 3% delrapporto deficit/Pil, ampiamente superato da Spa-gna, Francia e molti altri paesi. Ma una richiesta ana-loga a quella avanzata, con successo, dalla Spagna, sa-rebbe tuttavia molto importante rispetto alle conse-guenze sul bilancio pubblico e le richieste di rigoreconnesse alle regole del Patto di bilancio (Fiscal com-pact) che la Commissione europea intende far spetta-

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re, nonostante derivino da un accordo interstatale enon su norme europee.

L’azione delle banche centrali

Per questo le autorità monetarie internazionali, apartire dalla Fed e Bce, sono spaventate da una ulte-riore tendenza al declino che non sembrano in gradodi contenere, anche a causa dell’inflessibile austeritàtedesca che ci sta portando alla rovina. Rinunciandoal loro professionale ottimismo di maniera che deri-vava dal loro ruolo istituzionale, hanno annunciano,negli ultimi tempi, il ricorso a misure straordinarienon convenzionali (compreso il cosiddetto “bazooka”dell’acquisto diretto di titoli pubblici sul mercato pri-mario), impegnandosi a fare “tutto quanto è necessario”per combattere la deflazione, suscitando così l’imme-diata irritazione tedesca che ha cercato di porre osta-coli a questi provvedimenti.

Infatti la Bce ha cercato di combattere la deflazio-ne promuovendo una maggiore “facilitazione moneta-ria” (ovvero il finanziamento dei debiti pubblici sulmercato primario, emettendo moneta), ma per giusti-ficare il proprio operato agli occhi ostili della Germa-nia, ha chiesto in cambio, nel solco d’una tradizionaleimpostazione neoliberista e per ribadire una richiestada ormai lungo tempo avanzata, l’attuazione di “rifor-me strutturali” che si concretizzano in una serie di mi-sure economiche di contenimento dell’azione sinda-cale (come una contrattazione solo aziendale e legata

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alla crescita della produttività) dove l’aspetto centralee determinante è però dato dalla riforma del lavoro,nel senso di accrescerne la flessibilità in uscita, ovve-ro la libertà di licenziamento, come strumento perpoter ridurre il salario medio al di sotto dei minimicontrattuali per favorire le esportazioni sulla base diuna accanita concorrenza di prezzo. Hanno così riaf-fermano, anche se solo in un senso assai negativo,quella “centralità del lavoro”, ormai dimenticata da granparte della stessa sinistra.

LE CONSEGUENZE NEGATIVE DELLEPOLITICHE EUROPEE IN MATERIA

DI OCCUPAZIONE

I riflessi sulle politiche dell’occupazione

Sulla base di questa impostazione neoliberista, leistituzioni europee e internazionali (come la Troika)che fondano la propria azione essenzialmente sullaconcorrenza, hanno proposto, o addirittura imposto,di aumentare la flessibilità del lavoro, estendendo,come è avvenuto in Germania, l’occupazione povera,e promuovendo la riduzione del salario e delle tuteledel lavoro, eliminando quelle protezioni che eranostate definite quando la situazione economica eramolto più favorevole di quella attuale, e dunquequando ve n’era un minore bisogno. Ma anche unatotale flessibilità e una completa liberalizzazione delmercato del lavoro, socialmente devastante, non sa-

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rebbe sufficiente a fronteggiare la disoccupazionetecnologica che condizionerà sempre più le condizio-ni di vita di miliardi di persone, ma solo a ritardarnegli effetti, persino nei paesi emergenti a basso costodel lavoro.

L’analisi dei dati Ocse mostra chiaramente che lepolitiche di flessibilità del lavoro perseguite negli ulti-mi 25 anni non hanno avuto alcun effetto nel ridurrela disoccupazione in Italia e nella Eurozona. La stes-sa Ocse è giunta alla conclusione di negare l’esistenzadi una correlazione tra flessibilità e occupazione, e ilcapo economista del Fmi, Olivier Blanchard ha so-stenuto, in uno studio del 2006, che “le differenze neiregimi di protezione dell’impiego appaiono largamente incorre-late alle differenze tra i tassi di disoccupazione dei vari Paesi”e uno studio più recente mostra come, nel periodo1990-2013, la correlazione tra la variazione della pro-tezione del lavoro e il tasso di disoccupazione mostraun segno negativo, per cui la riduzione delle tuteledel lavoro si è registrato un incremento tendenzialedel tasso di disoccupazione. Nonostante ciò in Italiasi continua a sostenere, anche da parte del governo,che la flessibilità del lavoro favorisce la crescitadell’occupazione.

Andrea Boitani e Lucio Landi hanno evidenziatosu lavoce.info come “i paesi dell’eurozona che hanno fattomaggiori aggiustamenti di bilancio primario (al netto delle va-riazioni cicliche) sono anche quelli che hanno visto crescere dipiù il tasso di disoccupazione. Dato un trend comune di cre-scita della disoccupazione, per ogni punto in più di “migliora-

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mento” del saldo primario in media si è registrato un aumentodi 0,67 punti del tasso di disoccupazione. La correlazione trapiù austerità e più disoccupazione è abbastanza elevata. InGermania, dove la variazione del saldo primario è stata nul-la, il tasso di disoccupazione si è ridotto di un punto”. Dun-que queste misure non solo non favoriscono l’occu-pazione, ma anzi la danneggiano profondamente.

Il problema è ancora più acuto proprio in paesicome l’Italia che presenta una disoccupazione elevataed anche un imponente numero di lavoratori “scorag-giati”, ovvero che non cercano neppure più il lavoroperché non hanno alcuna speranza di trovarlo. Sitratta di una carenza di posti di lavoro che deriva dal-lo sfacelo industriale che attraversa attualmente l’Ita-lia, per carenza di domanda interna e il mancato ag-giornamento della matrice produttive rispetto allenuove esigenze di produzioni tecnologiche, accom-pagnato da una fuga delle imprese verso paesi a mi-nor costo del lavoro e a minor prelievo fiscale (comeavviene del resto anche in Francia, Germania, GranBretagna e Stati Uniti, che stanno correndo ai ripari).

Come spiega anche Boeri, “le riforma che riducono ilgrado di protezione dell’impiego durante le recessioni finisconoper aumentare i licenziamenti, come mostra un’ampia casisti-ca internazionale. La riforma Fornero sembra aver avutopronunciati effetti negativi sul lato delle assunzioni”. LuigiPasinetti spiega che “sebbene possa essere significativo pen-sare che il singolo imprenditore accresca la sua domanda di la-voro a fronte d’una riduzione del salario, non ha senso asseri-re che la domanda complessiva di lavoro aumenta se si verifica

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una riduzione del salario, ad una data struttura dei prezzi.Infatti se il salario viene ridotto, ciò implica che si riduca ilreddito e quindi la domanda complessiva, il che intacca la basesu cui si suppone si fondasse l’originale domanda di lavoro”.

Perciò Dunque l’aumento della flessibilità, perse-guito per motivi concorrenziali dalla Commissioneeuropea, non è una soluzione praticabile, non solosocialmente ma anche economicamente, con conse-guenze irreparabili.

Ma un fattore importante per la riduzionedell’occupazione risiede anche nella riduzione dellostato sociale, perché l’introduzione dei diritti sociali(istruzione, malattia, invalidità, pensioni) ha determi-nato una forte riduzione del tempo di lavoro indivi-duale nell’intero arco di vita, sottraendo al mercatodel lavoro una quota rilevante di popolazione, in par-ticolare fra i giovani e gli anziani, consentendo diriassorbire i disoccupati rilasciati dall’agricoltura edalla trasformazione dei settori industriali, mentre laattuale tendenza ad aumentare l’età di pensionamen-to e ridurre l’istruzione e lo stato sciale, possono de-terminare un rilevante aggravamento della disoccu-pazione.

Ciò spiega anche il motivo del funzionamentodella “flexsecurity” nordica, non trasferibile nella realtàitaliana, perché in Scandinavia le limitate garanzie inuscita sono compensate da elevati servizi sociali e in-dennità di disoccupazione, nonché da un caratterefrizionale e non strutturale della disoccupazione, checonsente il passaggio da un posto di lavoro vecchio

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ad uno nuovo e non ad una disoccupazione perma-nente..

Liberalizzare i licenziamenti? Lo vuole l’Europa e non solo

Dunque, a differenza dei molti altri casi in cuil’Europa è stata invocata per imporre provvedimentiantipopolari, nel caso della liberalizzazione dei licen-ziamenti non si tratta d’una scusa, ma d’una vera epropria imposizione.

Lo impone l’Europa, ma non solo, lo chiedonoanche molte organizzazioni internazionali, a partiredalla Troika, che ritengono che per uscire dalla crisioccorra una dura repressione di classe, con la libertàdi licenziamento, la fine dello stato sociale e la limita-zione dei diritti civili e sociali. Impongono la cosid-detta “svalutazione interna”, sposando la teoria neolibe-rista, assolutamente infondata e controproducente,della “disoccupazione di stabilità”, propugnata da Rea-gan e dalla Tatcher. Si tratta d’un enorme salto indie-tro nel passato che intende annullare le grandi con-quiste di più d’un secolo di lotte del movimento deilavoratori, che ha prodotto una liberazione sul terre-no delle libertà sociali, civili e democratiche, non soloper il mondo del lavoro ma per l’avanzamentodell’intera società.

Si tratta però d’una soluzione inefficace e perden-te, come spiega Lucrezia Reichlin nel suo articolo sulCorsera (“L’epoca buia del mezzi lavori”), “la disoccupa-

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zione europea, dice il presidente della Bce, non è dovuta soloall’insufficienza della domanda: in parte ha radici in cambia-menti strutturali. Come di consueto Draghi invoca l’importan-za delle riforme del mercato del lavoro e pone l’enfasi nella dif-ferenza tra un mercato virtuoso, a bassa disoccupazione, comequello tedesco, e uno vizioso e rigido, che genera alta disoccupa-zione”. Ma, prosegue la Reichlin, “la Bce, ma anche le al-tre istituzioni europee, dovrebbero fare un passo ulteriorenell’analisi. I cambiamenti del mercato del lavoro, soprattuttonell’ultimo decennio, hanno generato nuova precarietà e unafragilità che, come insegna Yellen, è difficile capire da una let-tura dei soli dati della disoccupazione o del numero degli occu-pati. Questa fragilità tocca non solo la periferia europea maanche la Germania e gli altri paesi dell’Europa forte”.

Un chiaro esempio di ciò sta proprio, come ve-dremo più avanti, nella precarietà legalizzata dei“Kleinarbeiten” tedeschi, che nascondono, nei fatti,una semi-disoccupazione involontaria e sono usatiper abbassare, sia pur in termini dualistici, il salariomedio tedesco per motivi mercantilistici e concor-renziali nelle esportazioni.

La ricetta dell’Ocse

Constatando la gravità della situazione e l’aumen-to impressionante della disoccupazione strutturale dilungo periodo, particolarmente nell’Eurozona,l’Ocse propone unicamente una maggior flessibilitàdel mercato, ovvero meno regole e costi per le assun-zioni e, soprattutto, la liberalizzazione dei licenzia-

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menti, con l’invito ad eliminare la possibilità del rein-tegro per i licenziamenti illegittimi.

Secondo l’Employment Outlook dell’Ocse, il lavoroin Italia “è caratterizzato da un basso livello di sicurezza, acausa dell’elevato rischio di disoccupazione e di un sistema diprotezione sociale caratterizzato da un tasso di copertura piut-tosto ridotto e da un contributo economico poco generoso”. Perquesto ritiene urgente una “riforma del lavoro” che so-stenga “le imprese che devono adattarsi ai cambiamenti tec-nologici e di mercato, ma dia anche più sicurezza ai lavoratoriche devono trasferirsi da un lavoro all’altro” e offra un sup-porto adeguato alla disoccupazione. Il cosiddetto“Jobs Act” deve essere “approvato e reso operativo subito… in modo da ridurre i costi di licenziamento e l’incertezzasull’esito del licenziamento economico”. L’Ocse propone,fra l’altro, l’utilizzo dell’indennità che aumenta sullabase dell’anzianità aziendale ma precisa che le nuovenorme dovrebbero essere applicate “allo stesso modoper l’interruzione dei contratti permanenti e temporanei (anchese giunti a scadenza), come accada in Irlanda e in Gran Bre-tagna”, ovvero precarizzare tutti. Il problema è chequeste denunce sono effettuate da una organizzazio-ne che è tra gli ispiratori della precarizzazione delmercato del lavoro, ma non esiste alcun rapporto frale critiche alle carenze rilevate e le misure che vengo-no proposte che hanno invece l’effetto di peggiorareulteriormente la situazione.

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Le proposte della Bce

L’incremento della “flessibilità” del lavoro è statol’argomento centrale della conferenza annuale deigovernatori delle principali banche centrali mondiali,tenutasi il 22 agosto a Jackson Hole nello Wyoming,che si propone di definire le priorità strutturali da af-frontare per guidare le scelte di politica monetaria.

Il presidente della Bce, Mario Draghi, nel suo in-tervento alla conferenza ha collegato la possibilità diallentare i parametri previsti dal Patto di bilancio (Fi-scal compact) per dare il tempo necessario a realizzarele riforme strutturali, a suo avviso non più rinviabili,proponendo uno scambio fra una politica monetariapiù accomodante, con il ricorso alla “facilitazionequantitativa” (quantitative easing, Qe, con l’acquisto di ti-toli sovrani sul mercato primario effettuato attraver-so l’emissione di moneta non sterilizzata, sul percor-so già da tempo intrapreso dalla Fed e da altre ban-che centrali) e l’attuazione di tali riforme strutturali.

Ha anche chiarito, una volta per tutte, se mai cene fosse ancora bisogno, che queste riguardano inprimo luogo la riforma del mercato del lavoro e cheil tema dirimente è la flessibilità in uscita (licenziabili-tà) attraverso la soppressione dell’articolo 18 delloStatuto dei lavoratori e dunque che il governo italia-no verrà giudicato innanzitutto sulla base della suacapacità di realizzarla, come condizione per otteneremargini di flessibilità sul deficit e il debito pubblico.

Ciò avverrebbe in modo analogo a quanto già av-

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venuto in Spagna dove tale flessibilità è stata conces-sa al governo di Mariano Rajoy, solo dopo il varo ditale pesantissima riforma ed ha perciò consigliato diseguire l’esempio spagnolo.

Si tratta d’una richiesta non nuova, già avanzatadalla Bce nella lettera all’Italia del 5 agosto 2011, fir-mata da Trichet e Draghi, che perseguiva l’obiettivodi ridurre il costo del lavoro e che è stata nuovamen-te ribadita da Draghi e dalla Commissione europea,assieme alla richiesta di legare i salari alla produttivitàe di promuovere la contrattazione aziendale di secon-do livello a scapito di quella nazionale. Ma tutti sonoben consapevoli che tale scelta costituisce un “feticcio”ideologico neoliberista, che può produrre solo unpeggioramento della occupazione, ma viene conside-rato come una sorta di sacrificio rituale da concedetealle pressioni ideologiche della Commissione europeae della Germania, che serve a Draghi per giustificarele proprie politiche di reflazione e vincere le forti re-sistenze tedesche rispetto all’uso della “facilitazionemonetaria”, ma ciò non gli ha risparmiato un duro at-tacco della Buba, del ministro delle finanze e una te-lefonata di protesta della Merkel, nonché una forteresistenza, che dura tuttora, rispetto alle sue scelte diinterventi non convenzionali per salvare l’euro e conesso l’Unione europea.

Draghi ha effettuato anche un confronto fra laSpagna e l’Irlanda, spiegando che quest’ultima avreb-be limitato la crescita della disoccupazione consen-tendo, fra le altre misure, anche un più ampio “down-

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ward wage adjustment”, ovvero una maggiore compres-sione salariale: un consiglio evidentemente rivoltoanche all’Italia, perché proprio questo è l’obiettivoultimo della cancellazione dell’articolo 18.

Questa impostazione, che cancella di colpo secolidi conquiste dei lavoratori, ha trovato una critica im-plicita nell’intervento della Yellen, capo della Fed,che ha posto il problema dei possibili danni struttu-rali causati dalla crisi al mercato del lavoro ed ha evi-denziato il rischio permanente per la stabilità econo-mica nel vasto utilizzo del sottoimpiego.

I veri obiettivi dell’austerità tedesca

Dal punto di vista della Germania, o almenod’una parte rilevante della sua classe dirigente, si trat-ta anche d’una scommessa pericolosa sul fatto di riu-scire ad uscire per primi dalla recessione, dopo averlafavorita con la politica di austerità, conquistando ilprimato economico sulla base dell’altrui distruzione.“Mors tua, vita mea”, dicevano i latini o meglio, comedice un illuminante proverbio tedesco, “San Floriano,risparmia la mia casa, brucia le altre”: si tratta d’una ver-sione molto più truce del “frega il tuo vicino” inglese,che illustra in modo chiarissimo la natura della politi-ca economica tedesca, anche secondo osservatori in-ternazionali come il Financial Time.

Un libro di Vittorio Feltri sostiene che la Germa-nia si sta avvantaggiando della crisi a scapito degli al-tri paesi europei i cui governi sembrano incapaci di

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resistere efficacemente ai diktat della Merkel e ai pa-rametri depressivi europei imposti dalla Germania,che sta bacchettando tutti perché non sfuggano allepolitiche di un rigore mortifero, mentre resiste soloDraghi, ma con estrema difficoltà, di fronte ai conti-nui attacchi tedeschi e per il fatto che per salvarel’Europa non bastano iniezioni di liquidità ma occor-re una svolta drastica di politica economica e una ri-forma dei Trattati europei e dello statuto della Bce.Feltri accusa la Germania di usare la tattica del “poli-ziotto buono” interpretato dalla Merkel che prometteaiuti, che mai verranno, ai paesi in difficoltà, e del“poliziotto cattivo”, interpretato dal capo della Buba,Jens Weidman, dal ministro dell’economia WolfgangSchäuble e dai giudici costituzionali tedeschi, chesono gli strenui persecutori di ogni deviazione dal ri-gido sentiero tracciato dalla Germania.

Rispondendo al dilemma posto da Thomas Manncirca il futuro di “un’Europa germanica o d’una Germaniaeuropea”, Feltri non ha alcun dubbio nel propendereper la prima ipotesi, relativa all’intenzione tedesca diun “Quarto Reich” che sta conquistando l’Europa fa-cendone una appendice subalterna del proprio impe-ro, per assicurarsi, sulle macerie economiche degli al-tri paesi europei, un ruolo fra i “grandi” a livello mon-diale, a cui, da sola, non avrebbe mai potuto aspirare.“Siamo al guinzaglio della Merkel, la quale evidentemente fagli interessi della Germania e non i nostri e quindi proseguia-mo nel nostro rapido, inarrestabile declino”.

Questa strategia tedesca è stata definita l’“An-

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schluss” dell’Europa, perché la Germania vuole entra-re come grande potenza fra i pochi protagonisti dellafutura economia mondiale del dopo-crisi, assieme aStati Uniti e Cina, ma non ne possiede le dimensionieconomiche necessarie. Per raggiungerla intende ri-petere, su scala molto maggiore, nei confrontidell’intera Europa, ciò che ha già fatto con l’annes-sione della Germania orientale, colonizzandonel’apparato produttivo a prezzi di liquidazione e su-bordinandone alle proprie esigenze la politica econo-mica e l’attività produttiva. Una smania di dominioche, in una sorta di “coazione a ripetere” ripercorrereb-be, sia pure in forma solo economica e dunque menocruenta, gli altri tentativi di dominio tedeschi chehanno portato alle due grandi guerre mondiali. Delresto anche papa Francesco ha giustamente parlatod’una “terza guerra mondiale” strisciante, già oggi inatto.

Paolo De Ioanna, in un articolo su Repubblicaspiega come in una “Europa a trazione tedesca”, la Ger-mania “che guarda con un occhio ad ovest e uno a est sta cer-cando di capire come fare per gestire al meglio la tempestaucraina, che ha contribuito non poco essa stessa ad alimentare,la stessa tecnica che aveva utilizzato per disarticolare alcunistati della ex-Jugoslavia che ora sono saldamente nella sferatedesca (Croazia in testa)”.

Un editoriale di El Pais, il principale quotidianospagnolo, di orientamento progressista ha accusato laMerkel di essere “come Hitler, che ha dichiarato guerra alresto del continente, stavolta per garantire alla Germania il

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suo spazio economico vitale”, ovvero il Lebensraum hitle-riano. Il settimanale laburista britannico New State-sman sostiene che la Merkel “è il leader tedesco più perico-loso dopo Hitler”, una minaccia all’ordine globale peg-giore di Almadinejad e di Kim Jong-un. In FranciaMarine Le Pen, capo dell’estrema destra con quelloche è oggi il primo partito del paese, s’è richiamataalla resistenza francese contro l’invasione nazista du-rante la Seconda guerra mondiale e Syriza in Greciaavanza giudizi analoghi.

Il vero problema è che non si vede oggi chi sia ingrado di fermare questo progetto, a cui si adeguanoanche le sue vittime sacrificali. Non esistono neppurei presupposti per un fronte comune anti-austerità deipaesi mediterranei, perché ciascuno invoca singolar-mente la grazia alla Germania, assecondandone i vo-ler. Aznar ha fatto un patto con la Germania, dellaquale è diventato un satellite, chiedendole una proro-ga della flessibilità del deficit oltre il 3%, che già gli èstata concessa. Hollande, dopo aver rinunciato allabattaglia anti-austerità che aveva promesso nellacampagna elettorale, punta anche lui a prorogare finoal 2017 la flessibilità oltre il tetto del deficit del 3%,mentre è ancora tutta da verificare l’alzata di scudidel nuovo ministro dell’economia, che potrebbe sem-plicemente cercare di ottenere ulteriori margini diflessibilità. Renzi ha chiesto, in cambio della comple-ta liberalizzazione dei licenziamenti, di cui la Merkels’è detta molto soddisfatta, una flessibilità per il 2014sotto il tetto del 3%, chiedendo il rinvio al 2017 del

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5% di rientro del debito entro il tetto del 60%, chenon sarà assolutamente in grado di rispettare, nono-stante i conseguenti massacri sociali, oltretutto otte-nendo solo un sostanziale diniego tedesco (“prima oc-corre vedere gli effetti della riforma del lavoro e poi si vedrà”),perché l’Italia si vede costantemente negare ciò che ègià stato concesso, da tempo e in misura molto mag-giore (sia per quantità che per scadenza), a Francia eSpagna (ma che si era autonomamente concessa nel2003 la stessa Germania).

Si tratta d’una sorta di “mobbing” europeo nei no-stri confronti che, con qualche debole e timida prote-sta, sembriamo disposti ad accettare, impegnandoci afare i “compiti a casa” ed osannando addirittura quel“modello” tedesco che ci sta massacrando. Siamo evi-dentemente affetti dalla “sindrome di Stoccolma”, ovve-ro, nella definizione di Anna Freud, dall’identificazio-ne con l’aggressore, per cui, durante i maltrattamentisubiti, la vittima prova un sentimento positivo neiconfronti del proprio carnefice, una sorta di alleanzae solidarietà sino all’amore nei confronti del proprioaguzzino.

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I MODELLI EUROPEI E OCCIDENTALI

Convergenza o divergenza?

Sul piano internazionale sono a lungo convissutimodelli profondamente diversi sia sul piano struttu-rale che su quello normativo, che riguardano le retri-buzioni, la spesa sociale, la tipologia (centrale o de-centrata) e la copertura contrattuale, la presenza dilavoro precario ed atipico (tempo parziale, determi-nato e interinale, nonché il lavoro nero), la protezio-ne sociale in caso di disoccupazione, l’adesione aisindacati e la partecipazione sindacale alla concerta-zione politica.

I due modelli tradizionali divergono rispetto allaplatea dei beneficiari e ai metodi di finanziamento:

Il modello continentale “bismarkiano” ha unacopertura contributiva di tipo contributivooccupazionale e l’intervento statale è solocomplementare e limitato, prevalentemente,ai casi di tipo assistenziale.

Il modello universalistico “beveridgiano”, fi-nanziato fiscalment, con un ruolo sostitutivodello stato, che prescinde dalla famiglia,dall’occupazione e dal mercato. Questo mo-dello presenta due diverse varianti: quella li-beristica residuale della Gran Bretagna that-cheriana, fondata su bassi costi e sulla dispo-nibilità all’avviamento (“workfare”) e quello

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socialdemocratico, con prestazioni e costielevati, attualmente in progressivo disarmo.

Esistono anche due doversi approcci interpretati-vi: coloro che sostengono l’esistenza di una crescentedivergenza e quelli che sostengono invece l’esistenzadi una progressiva convergenza dei modelli sociali edella gestione del lavoro fra i diversi paesi.

Chi sostiene l’esistenza d’un processo di diver-genza ritiene che la diversità dei sistemi politici con-dizioni negativamente la possibilità di una omoge-neizzazione della regolazione del lavoro e porta adesempio la difficoltà incontrata nella elaborazione diuna regolazione comune europea in materia di dirittodel lavoro e nel ricorso a un Metodo Aperto di Coor-dinamento per un’emulazione delle “buone pratiche”fra i diversi paesi.

Chi sostiene l’esistenza di un processo di “conver-genza” ritiene invece che la pressione della concorren-za, della globalizzazione e l’evoluzione tecnologicatendano a ridurre le divergenze esistenti nei modellidi accumulazione dei singoli paesi, spingendoli versouna maggiore omogeneità in senso neoliberista.

L’attuale spinta verso una deregolazione di stam-po reaganiano da parte delle istituzioni internazionalie soprattutto da parte delle istituzioni europee, cheparte dalle regole della concorrenza, tende oggi a fa-vorire una convergenza negativa, che promana da unarbitraggio fra i diversi sistemi che favorisce quellipiù deregolati, con minori costi e diritti, rispetto a

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quelli che difendono le tutele, la remunerazione e laqualità del lavoro, colpiti da “punizioni” quali il rifiutodi sostegno economico della banca centrale e la con-seguente esposizione alla speculazione finanziaria in-ternazionale e alla fuga di imprese e capitali, come“vendetta del mercato”. Con una moderna legge di Je-vons, il lavoro cattivo scaccia quello buono.

L’attuale revisione delle politiche del lavoro

Esiste attualmente una tendenza, che deriva dallerestrizioni del Patto di bilancio (Fiscal compact) euro-peo, ma esprime anche una tendenza più generale,alla riduzione delle prestazioni e della platea dei be-neficiari:

⋅ L’attenuazione della tutela dal licenziamento,sollecitata da Bce, Fmi e Commissione europea e rea-lizzata in Spagna, Austria, e, parzialmente, in Franciae oggi nei nuovi provvedimenti del “Jobs Act” in Ita-lia.

⋅ Una riduzione dell’accesso al trattamento didisoccupazione (Hartz IV in Germania, veri inter-venti e propositi di esclusione degli immigrati, ecc.).

⋅ Un allentamento dei vincoli al lavoro tempo-raneo e atipico (Italia, Germania, Svezia, Olanda).

Il Rapporto sull’occupazione in Europa ha pro-posto cinque diverse tipologie:

• Nordico, alta flessibilità del lavoro, della si-curezza sociale e del prelievo fiscale.

• Anglosassone, elevata flessibilità, bassa tas-

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sazione e sicurezza.• Mediterraneo, prelievo fiscale medi e bassa

flessibilità e sicurezza sociale.• Continentale, intermedio fra i tre modelli

precedenti.• Centro orientale: media flessibilità e tassa-

zione ma poca sicurezza sociale. Va osservato che l’Italia viene collocata in

quest’ultima tipologia, la più debole. Inoltre tutte le riforme, tranne Francia e Gran

Bretagna, sono state precedute da accordi con i sin-dacati, recepiti nella contrattazione collettiva, cheprevedono una partecipazione dei sindacati anchenella loro gestione.

I DIVERSI SIGNIFICATI DEL“DIRITTO AL LAVORO”

Alle origini del diritto sociale al lavoro

Il “diritto al lavoro” può assumere, nei diversi con-testi legislativi, un valore profondamente diverso.Può essere interpretato come un diritto civile, ovverocome la facoltà di stipulare un contratto di lavoro frasoggetti privati senza alcuna interferenza pubblica, ocome un diritto sociale di tutti i cittadini al lavoro cheesige un sostegno normativo pubblico in favore delsoggetto più debole, ovvero del lavoratore.

Il diritto sociale al lavoro è comparso per la primavolta nella stesura iniziale della Costituzione francese,

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sulla spinta del proletariato, ma ne fu espunta nellesuccessive elaborazioni, specie dopo la repressionedel febbraio 1848, su sollecitazione di Alexis de Toc-queville che ha sostituito il diritto al lavoro con il di-ritto all’assistenza caritatevole. Il diritto sociale al la-voro è ricomparso (come “diritto al lavoro o al manteni-mento”), nel 1929, durante il fugace periodo della re-pubblica di Weimar.

La Costituzione italiana, “fondata sul lavoro”, ha se-gnato un mutamento di paradigma, riprendendo ilconcetto del diritto sociale al lavoro, affermando che“L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi incontrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno allasicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determi-na i programmi e i controlli opportuni perché l’attività econo-mica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata afini sociali” (art. 41), e stabilendo così precisi limiti so-ciali all’attività d’impresa e un ruolo attivo dello statoper farli rispettare.

Affermava che il lavoro era un “diritto sociale”, tu-telato dallo stato, che limitava il libero arbitrio delmercato, ponendogli dei limiti per assicurare una suafunzione sociale, volta a garantire una retribuzioneche assicurasse una vita dignitosa ai lavoratori e alleloro famiglie.

Questi principi sono rimasti però inapplicati finoalla metà degli anni ’60, in una situazione caratteriz-zata da una “dittatura di fabbrica”, caratterizzata da unadura repressione e da licenziamenti discriminatori edi rappresaglia, che colpivano i sindacalisti, gli scio-

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peranti, gli appartenenti alla sinistra, ma anche ledonne che si sposavano o che mettevano al mondodei figli. Sono state le spinte sociali prodotte dallegrandi lotte operaie della seconda metà degli anni ’60che hanno sbloccato la situazione consentendo, conil centro sinistra, il varo delle leggi sociali previstedalla Costituzione e, in primo luogo, quello della leg-ge 300/70, lo “Statuto dei lavoratori”, che ha sancito ildiritto sociale al lavoro, e portato diritti e democraziaentro i cancelli della fabbrica, consentendo finalmen-te l’ingresso del sindacato nei luoghi di lavoro, supe-rando quella “dittatura di fabbrica” che nei decenniprecedenti aveva lasciato mano libera alle discrimina-zioni e rappresaglie del padronato (parola oggi vieta-ta).

La norma fondamentale è costituita dall’articolo18, che definisce i casi legittimi di licenziamento, sta-bilendo la reintegra per tutti i casi di licenziamento il-legittimo, ovvero immotivato, discriminatorio e dirappresaglia. Si tratta della pietra angolare dello Sta-tuto perché è quella che consente l’azionabilità diogni altro diritto, che sarebbe altrimenti impedito, at-traverso la minaccia del licenziamento nel caso di unmero indennizzo del lavoratore che farebbe comun-que perdere il posto di lavoro.

Anche i licenziamenti discriminatori e di rappre-saglia, che sono teoricamente nulli e dunque sempretutelati dalla reintegra, sono sempre mascherati da li-cenziamenti economici, ed è pressoché impossibileprovare, non in via presuntiva, ma sulla base di una

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documentazione certa delle reali intenzioni del dato-re, la reale natura. Senza tale protezione diviene im-possibile per il lavoratore denunciare il mancato ri-spetto delle norme sulla sicurezza (con la moltiplica-zione degli infortuni, spesso mortali), la nocività, idanni ambientali e alla salute, la criminalità e così via.Ha consentito il licenziamento motivato da “giustacausa”, per un comportamento improprio del lavora-tore, o “giustificato motivo” per esigenze della produ-zione, prevedendo invece per i licenziamenti “ingiusti-ficati”, discriminatori e di rappresaglia, e dunque ille-gittimi, la reintegra nel posto di lavoro.

Dallo Statuto sono derivate le norme sulla libertàsindacale, il diritto di sciopero, la contrattazione na-zionale e il suo valore “erga omnes”, per garantire unatutela generale anche alle situazioni più deboli. La suaapplicazione era tuttavia limitata alle aziende con ol-tre 15 dipendenti e ciò ha creato una discriminazioneche ha dato origine al tentativo di omogeneizzazionedelle situazioni attraverso l’estensione delle tutele an-che alle aziende minori da parte della sinistra e attra-verso la soppressione generalizzata della reintegra daparte della destra.

La “libertà di lavorare” dell’Unione europea

L’Unione europea è stata invece costruita sulla li-bera concorrenza del mercato e si occupa del lavorosolo per evitare che possa costituire un ostacolo allaconcorrenza, nella convinzione che se il lavoro è

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protetto rallenterebbe la crescita economica, per cuisi limita ad affermare, nel Trattato di Nizza, una “li-bertà di lavorare” individuale, che non implica alcun in-tervento pubblico di sostegno a livello europeo. Perquesto il modello neoliberista di Reagan e della Tat-cher, è stato adottato dalla Ue nella forma specificadell’“ordoliberismo tedesco”, che ammette un interventodello stato solo per fissare le regole del mercato.

Sta proprio qui la contraddizione fra il “diritto so-ciale al lavoro” della Costituzione, tutelata dallo stato ela “libertà di lavorare” della Ue, affidata al solo merca-to, libero da vincoli sociali, che si concretizza proprionella reintegra, come garanzia del “diritto sociale al la-voro” della Costituzione italiana, che risulta incompa-tibile con il principio fondamentale su cui si basal’Unione europea della piena libertà dell’impresa, afini concorrenziali, che rifiuta qualsiasi limite sociale.

Il dogma neoliberista imposto dalla Ue comportaalcune precise conseguenze, che sono state peraltroesplicitate nelle “raccomandazioni” europee, inviate aivari governi dell’Eurozona, ivi comprese le lette-reinviate al governo italiano. Il primo concetto è che ilmercato trova sempre una sua situazione di equili-brio, ma questa può realizzarsi anche a livelli salarialimolto bassi, e dunque l’eccesso di disoccupazionederiva dalle resistenze dei sindacati ad adeguare i sa-lari verso il basso, al di sotto dei minimi contrattuali.

Ne deriverebbe perciò la necessità di eliminaretutte le rigidità del lavoro, attraverso il superamentodel contratto nazionale e dei minimi salariali in esso

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previsti, nonché del suo valore “erga omnes”, portandola contrattazione a livello unicamente aziendale, sullabase della produttività ivi realizzata. In tal senso ilsindacato si trasforma da soggetto contrattuale insemplice esecutore subalterno delle esigenze azienda-li, mentre divengono peraltro superflue anche le stes-se organizzazioni padronali, come la Confindustria,come già è avvenuto in Gran Bretagna, dove è statasciolta. Si tratta in sostanza dell’applicazione del mo-dello statunitense, che abbiamo conosciuto anche inItalia attraverso il “modello Fiat”, che prevede normediverse in ciascun stabilimento). Ne discende la “rac-comandazione” europea di eliminare il contratto nazio-nale e, soprattutto, di perseguire l’obiettivo della di-soccupazione “necessaria”, di “stabilità” contro l’infla-zione, che è stata fissata per l’Italia oltre l’ 11%.

IL LIVELLO DI PROTEZIONE DEILAVORATORI NEI PAESI EUROPEI

Il livello di protezione dei lavoratori in Italia e inEuropa

Per lungo tempo l’Italia è stata accusata d’avereuna eccessiva rigidità del mercato del lavoro a causadei vincoli eccessivi posti nei confronti del licenzia-mento, perché proprio questa sarebbe la causa, se-condo i dogmi neoliberisti, la causa dell’elevata di-soccupazione del paese.

Tale giudizio nasce dal fatto che da oltre un de-

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cennio l’Ocse, interpretando male le nostre leggi,aveva assegnato all’Italia un punteggio più alto nellaclassifica dei paesi con i lavoratori più tutelati, crean-do l’illusione di una loro protezioni eccessiva, che haspinto la Germania (e di conseguenza le istituzionieuropee) a chiederne una riduzione a fini concorren-ziali.

Infatti l’errore dell’Ocse, “già segnalato da Bankita-lia e ripreso dalla Bocconi”, ad opera del professor Mau-rizio Del Conte, era quello di considerare “il Tfr comeun indennizzo a beneficio del lavoratore in caso di licenzia-mento, mentre non lo è, essendo una porzione del salario cheinvece di esser versata al lavoratore viene trattenuta, una voltain azienda ora nei fondi” e liquidata all’atto del licenzia-mento. Proprio l’intervento di Bankitalia e della Boc-coni per spiegare all’Ocse una corretta lettura dellasituazione italiana, è riuscito ad ottenere un ricalcolodell’indice di rigidità del mercato del lavoro italianoche, una volta corretto, risulta inferiore agli altri prin-cipali paesi europei.

“Ma non è l’unico esempio. Il punto, purtroppo, è che ilmito è rimasto nonostante le ultime riforme abbiano pesante-mente cambiato il quadro”, sostiene Del Conte, e “noicontinuiamo ad essere il paese dei luoghi comuni sul mercatodel lavoro”, commenta Emilio Reyneri, sociologo dellavoro all’Università di Milano Bicocca. Proprio daquesto errore, spiega ancora Del Conte “nasce il mitodel modello tedesco, che è sbagliato” perché “il mercato dellavoro tedesco ha elementi di rigidità anche più forti del nostro,soprattutto se non consideriamo solo i parametri presi normal-

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mente in considerazione dalle grandi statistiche, come quellaelaborata dall’Ocse”, dato che “non è indifferente, nel deter-minare la rigidità del sistema, il meccanismo tedesco dei sinda-cati in azienda e dei consigli di fabbrica, con una strutturapartecipativa, non solo di facciata ma sostanziale, negli organidi governanza. Non è vero che il mercato del lavoro tedesco èun mercato dove si licenzia liberamente. Nei fatti un impren-ditore tedesco, quando si tratta di licenziare, ha difficoltà ana-loghe o superiori a quelle di un imprenditore italiano”.

Dunque “il modello tedesco è solo un mito da sfatare.La nostra normativa in materia di licenziamenti collettivi èuna delle più flessibili al mondo e l’imprenditore che decide dilicenziare paga pochissimo, basta che dica che intende procede-re a una riduzione del personale per ragioni economiche e lo facon un costo minimo, 6 mensilità di contributi al fondo Inps, eal lavoratore non va nulla, salvo gli eventuali ammortizzatorisociali”, per cui “l’Italia è un campione assoluto nei licenzia-menti collettivi”.

Infatti il Rapporto sull’occupazione in Europache ha esaminato il grado di rigidità (stricness) del rap-porto di lavoro, in particolare per la disciplina dei li-cenziamenti, da cui risulta che l’Italia è fra i paesi piùflessibili d’Europa, assieme a Danimarca, Gran Bre-tagna e Irlanda, ma osserva anche, smentendo undogma neoliberista, che esiste uno stretto rapportofra elevata rigidità e tassi di occupazione più elevati.Una constatazione confermata anche da un’analisidella C.c.i.a di Mestre che ha dimostrato come, senzal’articolo 18 ci sarebbero già in Italia centinaia di mi-gliaio di licenziamenti in più.

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L’indice Epl (OECD indicators on Employment Pro-tection Legislation Index), elaborato annualmentedall’Ocse, che misura il grado di protezione generaledell’occupazione dipendente previsto dall’assettonormativo di ciascun paese, dopo la correzione deidati italiani, è da tempo inferiore in Italia rispetto amolti altri paesi europei, a partire dalla Germania.

Rispetto all’indice della tutela per il lavoro a tem-po indeterminato (Eprc, che definisce la rigidità inuna scala di protezione crescente da 1 a 6), nel 2013il valore italiano (2,51) risulta più flessibile di quellodella Germania (2,87), indicata come modello di fles-sibilità, e di molti altri paesi dell’Ocse (3,18 in Porto-gallo, 2,82 in Olanda da tutti elogiato per la sua “flex-security”, 2,61 in Svezia). Inoltre tale indice è calato inItalia del 40% dal ’90 al 2013 e, dal 2012 al 2013, èsceso da2,76 (che era stabile fin dall’85) al 2,5, per ef-fetto della riforma Fornero che ha ridotto le tuteledell’articolo 18, mentre è rimasto invariato in Ger-mania, Olanda e Svezia.

Rispetto invece all’indice della flessibilità dei con-tratti a tempo determinato (Ept) l’Italia, con il 2 ri-sulta meno rigida della Francia (3,63), della Norvegiae della Spagna (3%), mentre la Germania si collocaesattamente un punto sotto l’Italia. Ma l’Italia ha ef-fettuato una discesa rapida verso la flessibilità con il“pacchetto Treu” del 1997 (prima era al 4,75).

Va inoltre osservato che questa rilevazione è ante-riore alla legge del ministro Poletti, che ha liberalizza-to i contratti temporanei, abolendo la causale e allun-

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gando il numero delle proroghe. Il precariato in Ita-lia, dalla metà degli anni ‘9, è cresciuto del 122%, su-perando ogni record, rispetto a un aumento del 62%della Spagna e del 48% della Francia e Germania.

Il principio è che tanto più la legislazione accen-tua la flessibilità del mercato del lavoro, eliminandoprotezioni, vincoli e costi per le imprese, intervenen-do sulla disciplina dei contratti a tempo indetermina-to e a termine, tanto minore risultano i due rispettiviindicatori (Eprc/ Ept), come pure l’indicatore gene-rale Epl.

Maurizio Del Conte, spiega che “sul lavoro siamopiù flessibili della Germania”. Infatti l’analisi sui datiOcse del grado di flessibilità del mercato del lavoromostra che negli ultimi 25 anni tutti i paesi dell’Euro-zona, tranne Francia, Austria e Irlanda, hanno note-volmente ridotto la protezione del lavoro, flessibiliz-zando fortemente i loro mercati e l’Italia è tra i paesiche si sono maggiormente impegnati a ridurre laprotezione dell’occupazione (oltre il 40%, dal 3,82del ‘90 al 2,26 del 2013).

Questi dati sono fermi alla fine del 2013 e quindinon considerano gli effetti del decreto Poletti, checomporta una ulteriore riduzione dell’Epl e l’effettodel “Jobs Act”, che saranno visibili nelle rilevazionidei prossimi anni.

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Altro luogo comune da sfatare è che l’Italia abbia

un mercato del lavoro scarsamente flessibile in entra-ta, con troppi vincoli ed oneri, per assumere: “il no-stro mercato del lavoro è flessibilissimo, offriamo ogni genere dipossibilità”.

Nel suo articolo “Le fandonie sui lavoratori troppoprotetti” Nicola Acocella ha spiegato che “in Italia i la-voratori sono meno protetti che in Francia e Germania el’accanimento sull’art.18 è inutile e solo simbolico. Sembraquasi che le ragioni della riforma siano essenzialmente di na-tura cosmetica (abbattimento di simboli che denoterebberol’attuale presunto ingessamento del mercato del lavoro italia-no). Una ventata di liberismo, da lungo tempo auspicata dallagrancassa mobilitata dal più becero capitalismo nostrano estranamente sostenuta e utilizzata in alcuni ambienti accade-mici, doveva essere il suggello della positiva novità apportatadal governo Monti alla licenziabilità dei lavoratori a tempoindeterminato. È strano però che questa ripetizione di falsità

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che accreditano l’idea di lavoratori italiani eccessivamente pro-tetti non regga il confronto dei dati. A parte il fatto che ormaii 3/4 dei nuovi lavori sono di carattere temporaneo e assoluta-mente non protetti, ciò che accomuna l’Italia a pochi altri pae-si europei, quella che è stata per anni la stessa giustificazionedi questa anomalia, ossia l’esistenza di lavoratori a tempo in-determinato eccessivamente protetti, è infondata”.

Recenti studi che hanno confrontato le variazionidella disoccupazione con l’indice di protezionedell’Ocse hanno dimostrato che si tratta di due varia-zioni non correlate, o addirittura blandamente corre-late in senso negativo, mentre è del tutto evidente lacorrelazione positiva fra la riduzione dell’indice diprotezione e la minor crescita dei salari. Ciò suggeri-sce il fatto che la progressiva decrescita dei salari ri-spetto al Pil sia stata distribuita su di una più ampiaplatea di lavoratori, con una nuova forma di “disoccu-pazione nascosta”.

Secondo le rilevazioni dell’Ocse la protezione dellavoro a tempo indeterminato in Italia risulta sostan-zialmente in linea con la media dell’Eurozona e infe-riore a quella che si registra nei principali paesi condimensioni economiche analoghe, Germania e Fran-cia. Rispetto alla reintegra la protezione del lavoro inItalia è inferiore alla Germania (con un indice rispet-tivamente di 2 e 3), ma anche alla Grecia, alla Norve-gia e al Portogallo, mentre risulta allineata con Dani-marca, Irlanda, Olanda e Polonia e maggiore rispettoalla Francia, alla Spagna, al Belgio e alla Svezia. È ilrisultato del pesante depotenziamento della reintegra

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in Italia, a seguito della “riforma Fornero” del 2012, el’Ocse registra al riguardo la riduzione del grado diprotezione della reintegra da 6 (il valore massimo)degli anni precedenti a 2 nel 2013, scendendo al disotto del dato tedesco. Anche la protezione dei lavo-ratori con contratti a tempo indeterminato sono in li-nea con la media europea. Ciò dimostra la totale in-fondatezza dell’idea che la disciplina dell’articolo 18abrogata dal “Job Act” costituisca un eccesso di pro-tezione dei lavoratori.

I dati Ocse mostrano che anche il dualismo delmercato del lavoro italiano (misurato attraverso ilrapporto Ept/Epcr, ovvero tra la protezione del la-voro a termine e quello a tempo indeterminato: tantominore è questo rapporto, tanto maggiore risulta ildualismo del mercato), risulta in linea con la mediaeuropea, al contrario della Germania che mostra unaccentuato dualismo, ben maggiore di quello italiano,con una drammatica divaricazione della protezionetra i lavoratori a tempo indeterminato, più tutelati diquelli italiani, e quelli a termine, con tutele bassissi-me.

Ciò è avvenuto a seguito delle riforme Hartz,spesso citate come esempio da seguire dal governoitaliano, che tra il 2002 e il 2005, hanno dimezzato gliindicatori tedeschi di protezione del lavoro a termine,mentre nel contempo veniva lievemente accresciutala protezione del lavoro a tempo indeterminato.

Il mercato del lavoro italiano è dunque flessibilecome la media dei paesi dell’Eurozona, a seguito del-

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le (contro)riforme attuate negli ultimi quindici anniche hanno drasticamente ridotto la tutela del lavoro,ma nonostante ciò il dualismo fra lavoratori protettie non protetti resta ancora di gran lunga inferiore allaGermania e ad altri paesi europei. Ciò mostra la falsi-tà della tesi, addotta dal governo italiano a sostegnodell’abolizione della reintegra, secondo la quale essacostituirebbe un’eccessiva protezione dei lavoratori atempo indeterminato che approfondirebbe il duali-smo tra lavoratori protetti e non protetti e disincenti-verebbe gli investimenti italiani e stranieri.

Ciò non significa che non si debba operare per ri-durre ulteriormente tali differenze, ma ciò dovrebbeessere fatto innalzando le tutele di chi attualmente èmeno protetto e non portando tutti al livello più bas-so.

LA TUTELA DAL LICENZIAMENTO

La diffusione della reintegra nei paesi europei

Viene spesso citato il confronto con gli altri paesieuropei, ma la reintegra è prevista in gran parte deigrandi paesi industrializzati, con la significativa ecce-zione degli Stati Uniti. Ad eccezione della Svizzera ilreintegro è previsto da tutti gli ordinamenti europei(compresa la bozza di Costituzione europea e la Car-ta di Nizza), ma assume forme assai eterogenee neidiversi paesi. Il reintegro è obbligatorio, ma con di-verse limitazioni, in Italia, Grecia, Portogallo, Au-

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stria, Svezia e Danimarca. L’esecuzione forzata dellareintegra è però esclusa in Germania, Svezia, GranBretagna e Spagna e, in caso di rifiuto di eseguirla daparte del datore, viene sostituita da una indennità.

La situazione in Spagna

La Spagna è stata ripetutamente citata, anche daDraghi, come un esempio virtuoso da imitare perché“ha introdotto la norma per cui i contratti aziendali prevalgo-no su quelli nazionali e i licenziamenti individuali possono es-sere effettuati autonomamente dalle imprese senza alcuna au-torizzazione”.

Nella Spagna, afflitta da una delle più elevate di-soccupazioni dell’intero mondo sviluppato, il gover-no di Mariano Rajoy è intervenuto con una leggemolto drastica, che abbassa i costi del licenziamentoper motivi economici o senza giusta causa e facilita illicenziamento per motivi economici nel caso in cui lariduzione del livello di entrate o di vendite dell’azien-da si verifichi per almeno tre trimestri consecutivi.

Ha eliminato la notifica degli esuberi, liberalizzatoi licenziamenti senza giusta causa, abbassandone ilcosto per l’imprenditore, dato alle aziende la possibi-lità di modificare le mansioni e tagliare gli stipendidel 10% senza il consenso del lavoratore (come hagià imposto la Troika alla Grecia nel 2011), l’aumen-to del lavoro fuori dai contratti standard, incentivi altempo-parziale per i primi impieghi a tempo deter-minato e l’estensione dell’apprendistato.

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Nel 2013 i lavori temporanei sono saliti dal 23%del 2012 al 30%. Il giudice può accordare al lavorato-re (solo dopo un anno di lavoro, aumentato rispettoai precedenti 6 mesi) la reintegra in caso di licenzia-mento illegittimo, ma la riforma l’ha resa facoltativaper il datore che perciò sceglie generalmente la viadell’indennizzo, che prevede un indennizzo di 20giorni per ogni anno di anzianità; nei contratti a tem-po indeterminato riduce da 45 a 33 giorni all’annol’indennizzo per licenziamento senza giusta causa,per un massimo di due anni anziché di tre e mezzo.

Tale deregolazione, che ha favorito i datori di la-voro, ha prodotto un significativo peggioramentodell’occupazione.

La situazione in Francia

In Francia il Code du travail impone che il licenzia-mento debba essere basato su fondate e valide ragio-ni, debba essere comunicato per iscritto e precedutoda un mese di preavviso. In caso di licenziamento“sans cause réelle et sérieuse” è previsto a reintegra nelposto di lavoro, ma il datore può opporsi, e in talcaso il giudice non può imporlo e può disporre, a fa-vore del lavoratore con contratto a tempo indetermi-nato, solo un indennizzo, generalmente concordatofra le parti, di importo non inferiore a 6 mesi, cheaumenta sulla base dell’anzianità di servizio del lavo-ratore. La reintegra è invece obbligatoria in caso di li-cenziamento discriminatorio, ovvero nullo per motivi

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attinenti alla vita privata del lavoratore o a seguito dimolestie.

La Commissione ha invece censurato la Francia,giudicando insostenibili nel lungo periodo i suoiprovvedimenti che legano una maggiore flessibilità amaggiori controlli del Ministero del lavoro, con gene-rosi sussidi statali: il 75% dell’ultima retribuzione per2 o 3 anni, senza alcun obbligo di accettazione del la-voro che viene proposto (obbligo che invece esiste,con il cosiddetto “workfare”, nei paesi nordici).

La situazione in Gran Bretagna

In Gran Bretagna il licenziamento è legittimoquando il lavoratore è in esubero o inadeguato o in-capace di svolgere determinate mansioni, o tiene unacondotta che viola un dovere legale. È invece illegitti-mo se attuato sulla base di discriminazioni sessuali,razziali o sindacali e, in tal caso la legge lascia al giu-dice un’ampia discrezionalità nel decidere se sceglierela reintegra o la riassunzione, con un risarcimento. Lareintegra può essere nel medesimo posto occupato inprecedenza(reinstatement) o in altro posto a parità diretribuzione (reengagement).

Il datore può rifiutare la reintegra pagando uncompenso aggiuntivo e, in tal caso il giudice opta perun risarcimento, variabile secondo l’anzianità di ser-vizio, generalmente piuttosto elevato e ulteriormenteaumentato qualora il datore non abbia rispettato laprocedura prescritta per i recesso.

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La situazione in Germania

In Germania esiste un diritto alla reintegra. Il si-stema del lavoro è caratterizzato da forme di com-partecipazione molto avanzate e per i licenziamenti ènecessaria una consultazione con il comitatod’impresa che, se lo ritiene illegittimo, ricorre al giu-dice. Le tutele sul licenziamento si applicano nelleaziende con più di 10 dipendenti. Il licenziamentodeve essere motivato con argomenti inerenti ai com-portamenti personali o alla condotta del lavoratore oad urgenti ragioni economiche dell’impresa. Il lavora-tore può impugnare il licenziamento entro tre setti-mane. Per i licenziamenti non economici non è pre-vista alcuna indennità di licenziamento salvo diversaprevisione dei contratti collettivi.

In linea di principio la legge prevede il reintegrodel lavoratore licenziato in modo illegittimo, ma ilgiudice ha la facoltà di verificare caso per caso checiò non turbi gli equilibri economici e socialidell’impresa, ed esiste una giurisprudenza ormai con-solidata che privilegia il solo indennizzo e consente aldatore, in caso di licenziamento illegittimo, di sceglie-re la via dell’indennizzo, perché opta per una tutelareale solo se c’è una ripresa d’una proficua collabora-zione tra datore e lavoratore.

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GLI INTERVENTI A SOSTEGNODEL LAVORO

La “precarietà espansiva”

Di fronte al crescente dramma occupazionale neidiversi paesi europei sono state avanzate differentistrategie per realizzare un miglioramento della situa-zione occupazionale, che comunque prevedono unimponente intervento dello stato per supportarne icosti e dunque sono difficilmente imitabili nei paesiche presentano maggiori difficoltà rispetto ai vincolidel Patto di bilancio (Fiscal compact), mentre i tentatividi escludere tali spese dal computo del deficit sonostati duramente rintuzzati dalla Germania.

I maggiori paesi dell’Eurozona e la Troika sosten-gono la tesi della “precarietà espansiva”, ovvero che lamaggiore flessibilità dell’offerta di lavoro ed una li-cenziabilità indiscriminata porterebbe più occupazio-ne.

Come abbiamo già visto, si tratta d’una valutazio-ne completamente errata, ma, sulla base di tale teoria,tutti i paesi cercano di far fronte alla disoccupazionecon dosi sempre più massicce di neoliberismo, macosì la situazione non può che peggiorare.

Le politiche espansive di stampo neokeynesianodegli Stati Uniti hanno portato a un miglioramentodella situazione occupazionale, mentre il fanatismoideologico dell’assurda “austerità espansiva” ordoliberi-sta, figlia dei dogmi reaganiani e tatcheriani, imposta

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dalla Germania alla Commissione e agli altri paesi eu-ropei, sta ovviamente aumentando la disoccupazionee ci sta portando verso il baratro della depressione,da cui è oltremodo difficile uscire. Ma quando cisono di mezzo i dogmi non si discute: se la realtà vain un’altra direzione è certamente la realtà che sba-glia.

Anche in Italia Renzi s’è adeguato a questa ideo-logia, secondo la quale togliendo gli attuali “lacci e lac-cioli” le imprese, anche straniere, sarebbero invogliatead investire in Italia. Si tratta di una affermazione chenon ha alcun fondamento in generale e che è ancorpiù sbagliata nell’attuale situazione economica, per-ché “il cavallo non beve”, ovvero non c’è alcuna vogliadi investire, per svariati motivi:

• Mancano gli indispensabili consumi interni,sia privati (per la crescente disoccupazione eimpoverimento dei salari e dalle pensioni) chepubblici (con il taglio della domanda pubbli-ca) ed esiste un consistente sottoutilizzo degliimpianti rispetto alla domanda solvibile.

• Mancano gli indispensabili investimenti pub-blici infrastrutturali e nell’innovazione per al-zare il livello della matrice produttiva italiana,specie nelle nuove produzioni ad alto valoreaggiunto, in crescita nel commercio mondia-le.

• L’Italia non è attrattiva perché è un paese indeclino economico e demografico.

Come si vede tutto ciò nulla ha a che vedere con

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la libertà di licenziamento illegittimo che, anzi, da unlato non favorisce una crescita qualitativa della pro-duzione, che esige un’occupazione stabile e di qualitàe dall’altro agevola licenziamenti di lavoratori che,data la mancanza di posti di lavoro, non troverannoalcuna occupazione.

La tesi della “precarietà espansiva” è stata ormaismentita da innumerevoli studi che hanno dimostra-to esattamente il contrario. Basti citare il rapportoOcse del 2004 sull’occupazione, i dati dell’Isfol, le ri-cerche del Cnel e della C.c.i.a. di Mestre, nonché glistudi di numerosi economisti. Inoltre, come abbiamogià visto in precedenza l’Italia è un campione di fles-sibilità e precarietà e dunque, se la tesi della “precarie-tà espansiva” fosse giusta, dovrebbe vedere una cresci-ta galoppante, mentre è il paese più in recessionedell’Europa che, a sua volta è l’area mondiale più inrecessione del mondo, anche a causa del suicidio cau-sato dall’austerità tedesca.

La stessa motivazione era stata già avanzata dallaFornero, per giustificare la propria riforma, che pre-vedeva anche una verifica che però non ha dato i ri-sultati sperati: si sono rifotte drasticamente le assun-zioni a tempo indeterminato e, fra quella a tempo de-terminato, il 67,3% delle assunzioni è a breve o bre-vissimo termine, a volte addirittura per un solo gior-no. Negli ultimi 25 anni è esplosa la precarizzazionee c’è stato un crollo delle protezioni di legge per il la-voro, più che in qualsiasi altro paese europeo, mal’occupazione va, ovviamente, sempre peggio.

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Inoltre la precarietà taglia l’occupazione stabilema incentiva un’occupazione di scarsa qualità, bassaproduttività e bassissima retribuzione, di brevissimoperiodo, ovvero, come abbiamo visto in precedenza,“mordi e fuggi”, di pochi mesi e comunque inferioreall’anno, che non offre alcuna qualificazione. Non sitratta di “licenziati” perché si tratta solo della scaden-za d’un contratto a termine, che in genere non vienereiterato. La riforma si limita a precarizzare anche ipochi contratti a tempo indeterminato, che diventa-no licenziabili e dunque simili agli altri. Con il con-tratto a tutele crescenti, legate all’anzianità di lavoro,o anche per i nuovissimi “contratti Poletti”, senza moti-vazione, non sarà comunque accessibile, perché lastragrande maggioranza dei lavoratori interessati ver-ranno normalmente licenziati prima. Per i pochi ri-confermati con un contratto a tempo indeterminatosi avrà una sorta di “apartheid generazionale”, semprecomunque esposti al licenziamento fintamente eco-nomico.

La flessibilità sostenibile (“flexsecurity”)

L’Unione europea ha indicato, nella “strategia euro-pea per l’occupazione del 2005” e poi nel “Libro verde”l’obiettivo della “flessibilità sostenibile” (“flexsecurity”,ovvero flessibilità del lavoro e sicurezza sociale), pas-sando dalla sicurezza del posto di lavoro alla “occupa-bilità”), che garantisce una rapida ricollocazione dellavoratore licenziato, ma ciò esige ben precise condi-

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zioni di attuazione: • Un mercato del lavoro “frizionale” (ovvero

connessa allo spostamento dei lavoratori daun vecchio settore in declino ad uno nuovoin crescita), con una bassa disoccupazione euna facile reperibilità di nuove occupazioniuna volta abbandonata quella precedente:cosa ormai del tutto lontana dalla realtàodierna del mercato del lavoro, in presenza diuna vasta disoccupazione strutturale di lungoperiodo, di disoccupazione cronica giovanilee anziana, di assenza di posti di lavoro, di di-soccupazione scoraggiata.

• Un sostegno abbastanza elevato e costoso alreddito e alla contribuzione per i periodi dinon lavoro: anche questa è un miraggio inuna situazione in cui l’obiettivo è la riduzionedei costi degli ammortizzatori sociali el’abbreviazione del periodo di copertura. Vaperò ricordato che ormai da qualche anno ipaesi che hanno adottato questo sistema nestanno riducendo fortemente l’impatto eco-nomico perché risulta eccessivamente costo-so in tempo di crisi, e, proprio per realizzareuna protezione consimile, pur in una situazio-ne economica ben diversa dall’attuale, la stes-sa Germania era stata costretta a sforare nel2003 il 3% del rapporto deficit/Pil. Per que-sto i vincoli di Maastricht che rendono oltre-modo difficile attuare tali programmi.

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• Politiche attive del mercato del lavoro, oggidel tutto carenti.

• La formazione permanente lungo tutto l’arcodella vita.

In Danimarca esiste il cosiddetto “triangolo d’oro”,fra un’ampia permissività nei licenziamenti, elevatisussidi di disoccupazione (fino al 90% dello stipen-dio, fino a un nuovo lavoro o a 4 anni), efficaci poli-tiche attive del lavoro, in materia di servizi all’impie-go e formazione continua, che garantiscono il reim-piego.

Il “sistema Ghent” della Danimarca, presente inmodo consimile in Svezia e Finlandia, fondato sulmodello della “flexsecurity”, garantisce una elevataprotezione dei lavoratori, la libertà di licenziamentoper i datori, il ruolo negoziale forte del sindacato.

Ma si tratta ovviamente di una situazione non ri-petibile in altri paesi come l’Italia, sia per motivi dicosto che di situazione di disoccupazione strutturaledel mercato del lavoro. Del resto anche in Danimarcae negli altri paesi dove è stata applicata, a seguito del-la crisi economica c’è stato un sensibile peggiora-mento degli interventi di sostegno all’occupazione.

Il “Modell Deutschland”

La Merkel ha consigliato agli altri paesi europei di“fare come la Germania”, aumentando produttività econcorrenza, e molti attori economici e politici, an-

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che del nostro paese, hanno fatto proprio questoobiettivo. Giovanni Ajassa, capo ufficio studi Bnl, so-stiene “impariamo dalla Germania a fare le riforme”, inmateria di occupazione. Ma l’esperienza tedesca èstata evocata anche da Draghi e dallo stesso Renzi,che dice di voler seguire l’esempio tedesco, come unabuona pratica da imitare per risolvere i nostri proble-mi occupazionali.

Si tratta però d’un obiettivo irraggiungibile, per-ché in un mercato in recessione i guadagni di produt-tività e bilancia commerciale, attraverso le esporta-zioni, d’un paese (la Germania) sono ricavati a spesedegli altri paesi dell’Eurozona (i Piigs soprattutto), at-traverso la politica economica “rubamazzetto” (beg-gar-thy-neighbour, B.T.N.), apertamente perseguita dallaGermania, come ha denunciato anche il FinancialTime.

Ma poi siamo proprio sicuri che il comportamen-to tedesco sia così virtuoso? C’è da dubitarne, speciese si esamina il mercato del lavoro tedesco, dove dila-gano i lavori precari a basso reddito, oltretutto soste-nuto dalle finanze pubbliche che pagano la maggiorparte di questi salari, sussidiando in tal modo le im-prese e praticando quei comportamenti di concor-renza sleale che la Germania stigmatizza duramentenegli altri paesi. Vale anche qui la parabola evangelicadi chi condanna la pagliuzza nell’occhio altrui senzabadare alla trave che ha nel proprio.

Per rispondere alla domanda se possano esserepraticati anche in Italia e se siano utili alla sua econo-

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mia per uscire dalla crisi, è dunque opportuno esami-nare alcuni strumenti del mercato del lavoro tedesco,ovvero i “mini lavori”, i “midi lavori” ed il “sistema dua-le”.

All’origine del modello tedesco: Terza via e mercato del lavoroNel giugno ’99 Gerhard Schröder aveva firmato a

Londra con Tony Blair un documento programmati-co comune sull’Europa (“La strada da seguire per i so-cialdemocratici europei”), rimasto famoso in Italia comeil manifesto della “Terza Via” (denominato in Ger-mania “Nuovo Centro”, “Neue Mitte”), che cercava diindividuare una risposta ai problemi posti dalla glo-balizzazione finanziaria e dal crescente invecchia-mento della popolazione.

Accanto alla riforma strutturale della sanità, dellepensioni e del mercato del lavoro e al taglio delle tas-se, conteneva fra l’altro l’idea di una “rinuncia al sala-rio in cambio di posti di lavoro”, per far fronte alla mi-naccia di trasferire i posti di lavoro all’estero. Infattinegli anni ’90 Blair, Clinton e Schröder avevano pen-sato di ridurre la disoccupazione, che aveva origine inrealtà dalla carenza di posti di lavoro derivante da uneccesso di capacità produttiva rispetto alla domandasolvibile, attraverso un aumento della flessibilitànell’utilizzo della manodopera, con la cosiddetta“precarietà espansiva”.

Tale scelta di deregolazione del mercato del lavo-ro è promossa attualmente anche dalla Commissioneeuropea, che pure non ha competenze in materia di

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lavoro, ma giustifica il suo intervento in termini dicompetitività nelle esportazioni, ed ha coinvolto an-che Grecia, Spagna, Francia e Italia.

L’austera resurrezione della GermaniaAll’inizio del millennio la Germania, nonostante

fosse stata avvantaggiata da un cambio con l’euro as-sai favorevole, era considerata il “grande malatod’Europa” con un crescita bassissima, a causa d’unmodello economico fondato sulle esportazioni mani-fatturiere (export oriented), che subiva la pressioned’una competizione salariale che si trasformava daeuropea a globale, a seguito dell’ingresso della Cinanell’Omc. Nel 2004 la situazione economica tedescaera particolarmente pesante, con cinque milioni didisoccupati. Il governo tedesco ha reagito con unapolitica ordoliberista di “austerità deflattiva”, fondatasulla cosiddetta “svalutazione interna” riducendo lo sta-to sociale, l’occupazione pubblica e la spesa pubblicaprimaria (al netto degli interessi, dal 45% del ’97 al43% del 2013, contro una crescita in Italia dal 41% al46%), ma il recupero concorrenziale è stato ricavatoa danno degli altri paesi dell’Eurozona, che assorbo-no la maggior parte (circa i due terzi) delle sue espor-tazioni.

L’intervento più importante è stato appunto quel-lo sul mercato del lavoro, voluto da Schröder, che in-tendeva sostenere la competitività del sistema indu-striale tedesco, per cui è stato elaborato un patto frastato, regioni, imprenditori e sindacati, per la forma-

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zione certificata e la lotta contro il lavoro nero masoprattutto trattenendo una quota più elevata di ca-pacità produttiva nel paese attraverso la riduzione delcosto del lavoro, con una retribuzione al di sotto deidieci euro all’ora per un quarto degli occupati tede-schi.

La Germania ha così aumentato la sua capacitàcompetitiva e ha avuto negli scorsi anni un andamen-to economico assai più favorevole, fondato sulleesportazioni, a causa della politica di deflazione sala-riale, ovvero al fatto che il costo unitario del lavoro èaumentato assai meno che negli altri paesi della Eu-rozona, a causa di un andamento più contenuto dellacrescita salariale media, proprio a causa della vastapresenza di “Kurzarbeiten”, più noti all’estero con ilnome inglese di “mini-jobs”, e “midi-jobs” ovvero i“mini-lavori” e “midi-lavori”, a bassa retribuzione.

Ciò non bastava da solo a competere con paesiemergenti con un costo orario di 3-5 euro all’ora, maha contribuito al successo economico degli ultimianni, assieme agli investimenti, alla buona produttivi-tà, alla riduzione delle tutele contro la disoccupazio-ne (rese più economiche e accorciate nel tempo),all’efficienza burocratica e all’adozione dell’euro, cheha rappresentato una svalutazione competitiva fra il15 e il 30% cristallizzata nel tempo.

Il Piano HartzLa Germania presentava poi, rispetto agli altri

paesi, un problema aggiuntivo specifico. Dopo la riu-

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nificazione s’è diffusa nel mercato del lavoro tedescola giornata ridotta, riguardante i lavori non superiorialle 15 ore settimanali o ai 50 giorni annuali, con unsalario inferiore ai 630 marchi che, con l’introduzionedell’euro, nell’aprile ’99 il limite salariale è stato por-tato a 325 euro.

Da queste premesse in Germania era scaturito, trail 2003 e il 2005 un accordo con sindacati e imprese(guidate da Martin Kannegiesser, allora leader dellaGesamtmetall, la federazione delle imprese metalmec-caniche e metallurgiche), una riforma del mercato dellavoro, costituita da quattro leggi che prendono ilnome da Peter Hartz, all’epoca ministro del lavoro. Il“piano Hartz” era parte integrante dell’“Agenda 2010”,articolata in 13 punti, che uniformava l’assegno di di-soccupazione e riformava il collocamento pressol’Agenzia Federale per il lavoro, prevedendo:

• - la semplificazione delle procedure di assun-zione, l’introduzione di buoni per la forma-zione e l’istituzione dei centri per l’impiego,

• l’introduzione dei “Kurzarbeiten”, contratti dilavoro atipici con una retribuzione massimaodierna di 450 euro al mese e per lo più nonsoggetti a contribuzione pensionistica e so-ciale.

• la trasformazione dell’Ufficio Federale delLavoro in Agenzia Federale per l’Impiego,con l’unificazione dei sussidi sociali edell’indennità di disoccupazione in un unicosistema di assistenza finalizzato alla riduzio-

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ne della disoccupazione di lungo periodo(con il cosiddetto “workfare”, ovvero l’obbli-go di accettare l’avviamento per qualsiasi la-voro).

Ha anche determinato il passaggio, ormai avvenu-to, verso un sistema contrattuale interamente decen-trato azienda per azienda, dove passa la “moderazionesalariale” con forti tagli del costo del lavoro, allo sco-po di favorire la competitività dell’impresa.

La riforma ha introdotto una indennità di disoc-cupazione universale, di poco più di 300 euro mensiliper un singolo, a cui va aggiunto un contributo perl’affitto che può raggiungere anch’esso un massimodi 300 euro al mese, ma è maggiore per chi ha persoil lavoro ed è in tal caso calcolata in proporzione allostipendio precedente.

Questo ammortizzatore ha trasformando però ilprecedente sussidio di “welfare” (ovvero un diritto in-condizionato), in un “workfare”, ovvero una presta-zione vincolata all’accettazione di qualsiasi lavoro cheviene proposto dall’Agenzia dell’impiego, talvolta an-che a stipendio zero o retribuito a un euro all’ora,come è avvenuto ad Amburgo per le mense popolaridi quartiere, e se il lavoratore rifiuta gli viene ridottal’indennità fino ad azzerarla.

Esiste inoltre lo “Arbeitlosengeld” , un reddito dicittadinanza, anch’esso sottoposto a una serie di ob-blighi, con contributi per casa, famiglia, figli eun’assicurazione sanitaria. Esistono inoltre buoni diformazione e misure mirate agli ultracinquantenni

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espulsi dal lavoro. Ciò ha portato al “Jobwunder”, ov-vero al “miracolo occupazionale”, che ha ridotto la disoc-cupazione dal 10,5% del 2004 al 5,3% del 2013, otte-nuta essenzialmente attraverso la crescita degli impie-ghi precari, temporanei e a tempo parziale, che supe-rano il 35% del totale, per cui la Germania si pone alsecondo posto, in Europa occidentale, dopo la Spa-gna, per il lavoro temporaneo e a tempo parziale, edha la più alta proporzione di lavoratori a basso sala-rio rispetto al reddito nazionale mediano.

Ma la riduzione della disoccupazione è stata paga-ta in termini di una diffusione di lavori precari perlegge, di scarsa qualità e a bassissima retribuzione.L’Eurostat, nel suo censimento periodico dei lavora-tori a bassa retribuzione (low wages earners), che com-prende i lavoratori che ricevono un compenso (inclu-sivo dell’eventuale contribuzione previdenziale) nonsuperiore ai due terzi della retribuzione oraria media-na del paese, per cui è differente nei diversi paesi(10,2 euro all’ora in Germania, 9,2 in Francia, 7,9 inItalia), ma differiscono anche rispetto alla diffusione(22,2% in Germania, 12,4% in Italia e 6,1% in Fran-cia).

Ma anche la percentuale tedesca va meglio speci-ficata, perché sale al 38% nel caso dei lavori a tempodeterminato e dei lavoratori sotto i 30 anni, supera il50% per i lavoratori con titoli di studio inferiore aldiploma, ma si riduce al 18% fra gli apprendisti, i di-plomati professionali e i partecipanti ai corsi di“scuola-lavoro” (Berufschülen).

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Cosa sono e come funzionano i “Kurzarbeiten”?La parte più importante del Piano Hartz consiste

nella creazione dei “Kurzarbeiten”, introdotti nel 2003dal governo socialdemocratico di Gerhard Schröder,con l’obiettivo di ridurre il tasso di disoccupazione efar emergere l’economia sommersa, esplosa con lacrisi economica dei Länder dell’est dopo la riunifica-zione.

È stata in tal modo sancita, anche a livello legisla-tivo, con il consenso del sindacato, una crescenteprecarizzazione attraverso forme di lavoro atipico,volte a liberalizzare gli orari, a ridurre i salari ed i be-nefici sociali, ma anche i diritti e le tutele dei lavora-tori. Ne è derivata una forte segmentazione del mer-cato del lavoro, con una crescente divaricazione fralavoratori contrattualizzati e precari “ufficiali”, con undoppio mercato, quello centrale delle grandi imprese,tutelato dalla “Mitbestimmung” (codecisione), e quellomarginale, escluso dalla contrattazione, con poco sa-lario e scarsi diritti, prevalentemente privo di coper-ture previdenziali, ovvero, nella sostanza, d’un preca-riato legalizzato e malpagato, ritenuto la condizionenecessaria per scongiurare la disoccupazione di mas-sa. Proprio a seguito della introduzione dei “Kurzar-beiten” la Germania ha la più alta proporzione di la-voratori a basso salario rispetto al reddito nazionalemediano di tutti i paesi dell’Europa occidentale. Esi-stono due diverse tipologie, i “mini-impieghi” e i“midi-impieghi”, la cui differenza consiste nel fatto chei primi danno diritto ad una pensione, sia pure di di-

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mensioni pressoché solo simboliche, mentre gli altrinon prevedono alcuna pensione.

I “mini-impieghi” hanno uno stipendio massimo di450 euro mensili (aumentati dal gennaio 2013 dalprecedente limite di 400 euro) perché è questo il li-mite che segna la soglia di esenzione fiscale e dal pa-gamento dei contributi sociali per il lavoratore, e conun tetto, del tutto teorico e sostanzialmente fittizio,quasi mai rispettato, di 15 ore di lavoro settimanali.Di solito un’ora viene pagata tra i 5 e i 7 euro, ma ciòdipende dall’accordo fra le parti perché in Germanianon esiste un salario minimo interprofessionale.

Hanno un regime tributario assai vantaggioso perle imprese, che pagano il 2% al fisco e il 28% allaprevidenza sociale (15% al fondo pensioni e 13% perla malattia), per cui il contributo sociale complessivoammonta al 30% (135 euro per uno stipendio massi-mo di 450, per un totale lordo di 585 euro).

Il lavoratore può integrare il proprio esiguo fon-do pensione con una contribuzione volontaria del4,5% dei propri emolumenti. Possono essere pratica-ti solo grazie a un intervento da parte dello stato dicirca 600 euro per sgravi fiscali e il pagamentodell’affitto, che riguarda in Germania circa l’80% del-la popolazione. I “midi-impieghi” sono privi di contri-buti previdenziali, con uno stipendio oscillante fra401 e 850 euro (aumentato dal gennaio 2013 dai pre-cedenti 800 euro), con ferie pagate, congedi per ma-ternità e i termini per il licenziamento.

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Il loro utilizzo ha cambiato naturaLe statistiche hanno rilevato come, nel quinquen-

nio 2005-2010, i “Kurzarbeiten” siano aumentati trevolte più rapidamente del resto dell’occupazione, ri-ducendo la quota del lavoro standard a tempo pieno.Circa nove milioni di lavoratori tedeschi, ovvero unlavoratore su quattro, il 25% dei dipendenti, ma oltrela metà dei nuovi occupati, rientra in questa categoriadi rapporti di lavoro instabile ed a basso salario.

Un rapporto del 2011 del Ministero per gli affarifamiliari sulla verifica della loro applicazione mostracome in realtà non costituiscano affatto un ponteverso il lavoro regolare a tempo pieno e indetermina-to e che anzi tale passaggio risulta molto difficile.

Secondo la Fondazione Bertlsmann, gli imprendi-tori non utilizzano tale strumento come flessibilitàper fronteggiare i picchi della produzione, ma per so-stituire il lavoro regolare, trasformandolo in un con-tratto precario a tempo determinato, per cui la Ger-mania ha uno dei tassi più bassi della Ue rispetto allatrasformazione dei lavori precari in lavoro stabile diqualità; anzi, al momento della sostituzione delturn-over, avviene ormai normalmente il processo op-posto, con la trasformazione dell’occupazione rego-lare esistente in mini-impieghi precari.

Sempre più spesso le imprese utilizzano imini-lavori anche per coprire il tempo pieno, pagan-do le ore supplementari in nero, evitando di accredi-tare la previdenza sociale e gli altri contributi obbli-gatori del lavoro ordinario.

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La disoccupazione ufficiale tedesca è scesa dall’11al 6,6%, ma è peggiorata drasticamente la qualitàdell’impiego e la condizione di vita della sempre piùvasta popolazione con un lavoro precario.

Dunque uno strumento creato come impiegotemporaneo o integrativo per entrare nel mercato dellavoro, rivolto in particolare a studenti, pensionati,donne, disoccupati di lungo periodo, è stato inveceutilizzato, specie nel sud, come soluzione stabile persostituire il lavoro standard con un lavoro precario abasso stipendio e con contributi minimi o assenti,determinando un forte incremento delle disegua-glianze retributive e un crollo delle prestazioni pen-sionistiche future.

I mini-impieghi costituiscono dunque una pro-mozione da parte dello stato (attraverso aiuti pubblicifiscali alle imprese) di impieghi a bassa qualificazionee basso salario, non soggetti a contributi o soggetti acontribuzione ridotta, che penalizza la possibilità diaccesso alla previdenza pubblica. La logica è quellaneoliberista della “disoccupazione volontaria”, il cui sala-rio di equilibrio può scendere anche al di sotto del li-vello di sussistenza.

La retribuzione troppo esigua di tali lavori non èassolutamente sufficiente per vivere, per cui molti la-voratori devono fare più “mini-lavori” o comunquetrovare altre fonti di sostentamento. Rappresenta co-munque un costo elevato per lo stato, che non è tra-sponibile, per ragioni di vincoli di bilancio, per cuiproprio l’introduzione di questo piano ha costretto la

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Germania a sforare, nel 2003, i parametri da essastessa imposti a tutti gli altri paesi.

Il costo per il sistema previdenziale e assistenzialeIl costo per il sistema assistenziale sarà molto ele-

vato, perché questi lavoratori non avranno una pen-sione adeguata e dovranno ricorrere all’assistenza perpoter vivere. Si tratta d’una bomba a orologeria per ilsistema pensionistico, perché i contributi alla previ-denza pubblica danno diritto solo a 3,11 euro almese di pensione per ogni anno di lavoro: dopo 37anni di contribuzione si avrebbe diritto ad una pen-sione mensile di soli 115,07 euro.

Per questo milioni di lavoratori tedeschi, specie ledonne si troveranno in una condizione di estremapovertà nella pensione, anche al di sotto dei 680euro, la pensione minima attuale del paese.

Gli impieghi poveri sono una strada diretta versola miseria degli anziani e, dato che l’80% dei lavorimeno pagati vengono effettuati da donne, ciò deter-mina una crescente divaricazione economica di gene-re che è in contraddizione con la tendenza mondialealla sua riduzione.

Il giudizio negativo dei sindacati tedeschiIl giudizio dei sindacati sugli effetti prodotti dai

mini-lavori è molto negativo ed è fonte di grandepreoccupazione, perché ritengono che si tratti d’unamisura che ha peggiorato la condizione di lavoro,con effetti più pesanti sui lavori meno qualificati. An-

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che Schröder, che ne era stato l’artefice, ha dato ungiudizio negativo, attribuendo la colpa del fallimentoal fatto che “il capitale era da troppo tempo diventato inter-nazionale, mentre era ancora organizzato su base nazionale”e che “la disoccupazione di lungo periodo avrebbe chiarito chequesto problema strutturale non poteva essere attenuato danessun modello, per quanto possa essere sofisticato”.

I sindacati tedeschi sostengono che si tratta diuna “trappola della precarietà” che riguarda soprattuttole donne: 4,5 milioni di tali lavori sono coperti dadonne (tra il 70 e l’80%) di cui 3 milioni non hannoaltra fonte di reddito. “È una società in cui le donne conti-nuano ad essere soggette a chiudersi in casa a badare ai figli”,spiega un sindacalista.

Il modello tedesco dei mini-impieghi sta consa-crando una casta di persone impoverite e produceuna segregazione per età e sesso. Secondo la Sūddeu-tsche Zeitung oltre 800.000 pensionati tedeschi(120.000 ultrasettantacinquenni) hanno un mini-lavo-ro per incrementare la propria pensione, svolgendolavori poco attraenti (come la distribuzione dei gior-nali, i rifornimenti degli scaffali nei supermercati,ecc.), rifiutati dagli altri lavoratori.

I lavoratori del settore pubblico hanno effettuatouno sciopero di 24 ore contro la precarietà, cosa as-solutamente insolita in Germania, dove lo sciopero èconsentito per legge solo in materia di “tariffe” (comevengono da loro chiamati i minimi contrattuali di ca-tegoria), mentre è vietato per i temi da loro ritenuti“politici”, come previdenza, fisco, occupazione, sanità,

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stato sociale, che sono di pertinenza esclusiva delparlamento.

L’introduzione del salario minimoQueste riforme hanno suscitato un vivace dibatti-

to circa le loro conseguenze, che molti, in ambitosindacale e della sinistra, ritengono abbiano esteso econsolidato la precarietà. I sindacati, che si erano fi-nora opposti, vogliono introdurre il salario minimo,per far fronte ad una situazione giudicata ormai in-controllabile. Per questi motivi il governo tedesco(assieme a quello olandese che lo ha imitato in passa-to) sta rivedendo la propria posizione e intende vara-re delle leggi per disincentivare l’utilizzo deimini-lavori.

In tal senso la Ministra del lavoro tedesca, An-dreas Nahles ha avanzato la proposta, fatta propriatanto dai socialdemocratici che da una parte del par-tito popolare, di un “Mindeslohn”, ovvero una retribu-zione minima di 8,50 euro all’ora, da 18 anni in su, apartire dal gennaio 2015. L’intenzione è quella dicorreggere il fatto che ormai troppi milioni di lavora-tori (a partire dai “mini-jobber”) hanno una retribuzio-ne troppo bassa.

Secondo uno studio della Deutsche Bank tale mi-sura dovrebbe determinare degli incrementi salarialiper il 17% della forza lavoro, con un aumento chepuò raggiungere anche il 30%, ma sta trovando unaforte resistenza da parte delle aziende, che prevedo-no in tal caso una perdita di un milione di posti di la-

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voro. Questa proposta ha suscitato un vivace dibatti-to. Autorevoli istituti hanno calcolato l’onere perl’industria, ad esempio il Diw sostiene che il costoper i datori di lavoro potrebbe ammontare a 16 mi-liardi di euro. Il governo invece parla solo di “costi bu-rocratici” di imposto pressoché nullo.

Un rapporto del “Normenkontrollamt” (una com-missione di dieci esperti indipendenti, fra i quali Ha-hlen, ex presidente dell’Istituto di statistica, istituitanel 2006 presso il Kanzleramt, ovvero dagli uffici dellaCancelleria), sostiene che la proposta ministeriale disalario minimo “il calcolo dei costi è lacunoso” e “mancanole alternative”.

Gli effetti in Europa: distorsione della concorrenza e dumpingsociale

Tutto ciò incide negativamente anche sul restodell’Europa perché se i tedeschi pagano stipendimolto bassi per incrementare la loro produttività, ciòcostringe gli altri paesi a tagliare i propri salari per re-stare competitivi ed evitare di perdere ulteriori quotedi mercato, con una conseguente pressione generaliz-zata verso il basso che riduce salari, previdenza e tu-tele. Si tratta d’una spirale perversa, perché determi-na una riduzione della domanda salariale individualee della domanda collettiva pubblica, con effetti reces-sivi e depressivi che riducono il mercato complessi-vo, accentuando la concorrenza che viene effettuataper la spartizione di una domanda sempre più ridot-ta.

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La Germania è stata accusata da altri stati, come ilBelgio, l’Olanda e l’Austria, di concorrenza sleale e di“dumping” salariale proprio per la grande diffusione dimini-impieghi introdotti dalla riforma Schröder, chepossono essere praticati solo grazie alla compensa-zione statale. Le critiche avanzate sono che:

• Si tratta di aiuti di stato alle imprese, con cuilo stato tedesco si accolla buona parte deicosti di manodopera, severamente vietatidalle regole anticoncorrenziali della Ue, vo-lute proprio dalla Germania e da lei invocatanei confronti degli altri paesi. Si tratta in ef-fetti di un lavoro nero legalizzato.

• Proprio a causa di questi aiuti, di dimensionienormi, la Germania ha sforato nel 2003 iltetto del rapporto debito/pil, ma ha chiestoe ottenuto, con il voto favorevole di tutti glialtri paesi, Italia compresa, di non esseresanzionata.

• La compressione salariale ha determinatoun’inflazione molto bassa, inferiore al 2% (illimite fissato dalla Bce su pressione dellaGermania) ma poi proprio la Germania hapoi superato questo limite senza sanzioni.

Adam Posen, già membro del comitato di politicamonetaria della Banca d’Inghilterra, pur appartenen-do ad un paese che presenta scarse tutele per l’occu-pazione, ha scritto sul Financial Time: “se il modelloeconomico tedesco è il futuro dell’Europa, allora dobbiamo es-sere tutti molto preoccupati. La Germania ha ora la più ele-

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vata proporzione di lavoratori a basso salario rispetto al red-dito nazionale mediano in Europa occidentale. Dopo oltre undecennio di stagnazione salariale solo lo scorso anni i salarimedi sono aumentati più dell’inflazione e della crescita dellaproduttività”. In pratica ha accusato la Germania diaver praticato il dumping sociale fin da quando è en-trata nell’euro e di essere diventata più competitivaproprio perché ha svalutato i salari con la cosiddetta“svalutazione interna”.

Infatti il mercato del lavoro tedesco ha subito unadeflazione salariale, ovvero una stagnazione dei sala-ri, rimasti, proprio a causa dei mini-impieghi, in me-dia pressoché invariati dalla fine degli anni ’90 adoggi, per cui la Germania è l’unico paese europeo incui il salario medio non è aumentato da oltre un de-cennio, con conseguenza depressive sull’intera eco-nomia della eurozona, proprio a causa di questa dua-lità del mercato del lavoro dove, mentre i lavoratoridelle grandi aziende sono tutelati dalla “Mitbestim-mung”, gli altri lavoratori ne sono esclusi e hanno sa-lari bassissimi che riducono la media nazionale, no-nostante la crescita economica assai sostenuta primadella crisi.

Ciò comprime la domanda interna per cui il paesecresce per l’export, sottraendo quote di mercato edesportando deflazione negli altri paesi della UnioneEuropea. Secondo l’archivio sindacale tedesco Wirts-chafts- und Sozialwissenschaftlichen, dal 2000 al 2012 i sa-lari medi sono scesi dell’1,8%, sacrificando i consumiinterni con una manovra deflattiva che ha inciso ne-

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gativamente sull’economia degli altri paesi, esportan-dovi la recessione.

Occorre una svolta decisa della politica sociale edeconomica tedesca, che deve adeguare i propri com-portamenti proprio a quelle norme che la Germaniaha imposto agli altri paesi.

Il “sistema duale”Oltre ai mini-impieghi non va dimenticato il “si-

stema duale” (scuola-lavoro) ha consentito di ridurre ladisoccupazione giovanile (a luglio) al 7,8%, contro il42,9% in Italia, attraverso un orientamento certifica-to alla professione. Gli imprenditori tedeschi hannoinvestito 24 miliardi per collegare mezzo milioni digiovani con le aziende e il 70% resta occupato inazienda al termine della formazione. Ma per aver ri-sultati adeguati occorrono molti soldi : la Germaniaha investito in questo progetto 2 miliardi, con 5.000addetti, contro i 6,6 milioni investiti in Italia col D.l.Carrozza, e senza addetti specifici al progetto. Il col-locamento pubblico occupa 120.000 addetti in Ger-mania, contro i 9.000 addetti in Italia. Ma ciò che fala differenza fondamentale non è tanto lo strumentoper gestire l’intervallo fra la fine di un lavoro e la ri-cerca d’un altro, ma è il fatto che in Germania il lavo-ro c’è e la disoccupazione è solo “frizionale” e di bre-ve periodo, mentre in Italia il lavoro non c’è e la di-soccupazione è strutturale e di lungo periodo.

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In Italia si può “fare come la Germania”?

Dunque il “Modell Deutschland” attuale è figlio del-la austerità, della deflazione salariale, del taglio delleprestazioni sociali e del contenimento del mercatointerno. Si tratta d’un modello diseguagliante ed ini-quo, giustificato con la tenuta dell’occupazione, madi scarsa qualità e a bassissimo reddito. Molte peròsono le voci, anche in Italia che sostengono che oc-corre “fare come la Germania”.

Il precedente governatore della Bce, Jean-ClaudeTrichet, aveva inviato una lettera segreta alla Spagnae all’Italia che poneva come condizione per la con-cessione dei prestiti l’introduzione dei mini-impieghianche in questi paesi. Renzi, nel corso della sua visitaalla Merkel ha spiegato che vede nei mini-lavori tede-schi la via maestra per la riforma del lavoro italiana.

Ma si tratta d’un modello riproducibile altrove,come, ad esempio, in Italia? E quali ne sarebbero i ri-sultati? Nel dibattito italiano sono emerse varie con-siderazioni:

• L’importo rappresenta circa il 60% del salariomedio, come anche in Francia, mentre inGran Bretagna il salario minimo rispecchiacirca il 40-45% del salario mediano. Tito Boe-ri e Paolo Guerrieri ritengono che gli 8,5 euroorari sia una cifra già enorme per la stessaGermania e molto difficile da applicare inItalia e “per moltissimi lavoratori già 5 euro sarebbeun enorme miglioramento rispetto ai livelli attuali”.

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• I criteri sono differenziati: in Olanda e GranBretagna il salario minimo viene erogato al30% a 16 anni, per salire gradualmente fino al100% a 23 anni; in Germania gli 8,50 euroverranno applicati dai 18 anni in più. Boeripropone una modulazione fondata sull’età.

• Boeri ritiene importante che sia una commis-sione indipendente (e non il governo o leparti sociali) a decidere le modalità, comeproposto in Germania; in Gran Bretagna de-cide una commissione mista, composta perun terzo da esperti indipendenti, un terzo leparti sociali, e un terzo da membri di nominapolitica.

Tra il 2005 e il 2013 il tasso di disoccupazione èsalito in Italia dal 7 al 12%, mentre in Germania èsceso dall’11 al 6,6% per cui la Germania è diventataoggi il paese con l’economia più solida e con minoredisoccupazione in Europa, anche se la sua crescitasta oggi arenandosi. Ma la situazione italiana non di-pende certo dalla libertà di licenziamento, ma dallacarenza di domanda interna, dovuta alle politiche diausterità, che stanno affossando l’economia del pae-se. Del Conte della Bocconi sostiene “che la soluzionenon sono i mini-job. Se li facciamo in Italia, senza il resto delsistema tedesco, collassa tutto. In Germania, oltre agli ammor-tizzatori, c’è un fortissimo apparato di orientamento e avvia-mento al lavoro, in particolare per i giovani. È un sistema ef-ficiente, che interviene fin dalle scuole. In Germania hanno

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100 mila dipendenti addetti al servizio per l’impiego, un nu-mero impensabile in Italia, dove è tutto frammentato e deman-dato alle regioni, e dove meno del 3% delle nuove assunzionipassa per i centri”.

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GLI EFFETTI DELLA “FLESSIBILITÀ”SULLA CRESCITA E L’OCCUPAZIONE

LA LIBERTÀ DI LICENZIAMENTO

Licenziabilità e occupazione

La libertà di licenziamento viene spesso invocatasulla base della giustificazione che indurrebbe unamaggiore occupazione. Ciò deriva dal fatto che neldibattito politico europeo degli ultimi anni vieneusualmente stabilito un nesso causale tra la rigiditàdel mercato del lavoro e la gravissima situazione oc-cupazionale di molti paesi europei.

Il confronto viene effettuato con il mercato dellavoro statunitense individuando la sua maggiore ca-pacità di creare occupazione di quello europeo nonnel carattere maggiormente espansivo della politicaeconomica e monetaria (che ne è la vera ragione), maperché è più flessibile, ovvero, secondo tale interpre-tazione, è caratterizzato da bassa sindacalizzazione,scarsa copertura della contrattazione collettiva, ampiafacoltà di assumere e licenziare senza alcun vincolo(employment at will), e da prestazioni sociali di carattereresiduale.

Ma anche i partiti di sinistra hanno accettato latesi che per ridurre la disoccupazione sia necessarioaumentare la flessibilità del mercato del lavoro.Come ha osservato Esping-Anderson “anche i sociali-

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sti non pentiti, da Stoccolma a Madrid, si inchinano, sia purriluttanti, al muovo mantra: se vuoi creare posti di lavoro devideregolamentare”.

Tra le rigidità che impedirebbero l’azione equili-bratrice del mercato vengono citate la sindacalizza-zione, la contrattazione collettiva (specie quella cen-tralizzata in contratti nazionali), l’eccessivo caricoprevidenziale sui salari e il regime di protezionedell’impiego attraverso la tutela dai licenziamenti.

Secondo un’altra interpretazione la protezione dellavoro (legislativa, sindacale, della contrattazione col-lettiva, a causa della mancanza di una libertà di licen-ziamento indiscriminata e della presenza di ammor-tizzatori sociali) aumenterebbe l’isteresi (ovvero il ri-tardo di reazione) del mercato, per cui la disoccupa-zione si mantiene elevata anche all’inizio delle fasiespansive e l’occupazione declina meno rapidamentenelle fasi recessive.

Il taglio di salari e occupazione e dunque del red-dito disponibile e dei consumi interni costituisconoun fattore recessivo che aggrava l’economia. Perl’Italia il fattore critico è stato l’andamento della pro-duttività (rimasta ferma tra il 2000 e il 2013, controuna crescita del 15% in Germania, del 18% in Spa-gna e12% in Gran Bretagna, 13% in Francia) che de-riva dal ritardo tecnologico della produzione e nondalla produttività del lavoro, dato che le ore lavorateannualmente in Italia sono ben 300 in più della me-dia tedesca, né dipende dalla crescita dei salari, attual-mente in declino.

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Le conseguenze occupazionali della libertà di li-cenziamento

Ma tale libertà indiscriminata per le imprese haprodotto storicamente in diversi Paesi un aumentodella disoccupazione e l’esplosione della spesa pub-blica e delle assunzioni nel pubblico impiego in fun-zione di ammortizzatori sociali: basta considerarel’esperienza di Svezia e Norvegia, caratterizzate da unelevato prelievo fiscale e da una vasta gamma di ser-vizi pubblici, agli Stati Uniti dove un quinto dei citta-dini sono dipendenti dello Stato (in particolare nelle15 agenzie della sicurezza nazionale), al Regno Unitodove la spesa pubblica raggiunge il 40% del Pil e ilgoverno Cameron si appresta a licenziare mezzo mi-lione di dipendenti pubblici.

Una ricerca condotta dall’Ocse sugli effetti delleleggi di protezione dell’impiego mostra che non in-fluenzano il livello di disoccupazione. Le uniche, de-boli correlazioni statistiche mostrano che con unamaggiore protezione si riduce il tasso di disoccupa-zione degli uomini in età matura, che vengono espul-si in misura inferiore, aumentano i lavoratori autono-mi (veri o finti?) e, stranamente, si riduce la quota dilavoratori temporanei.

Le conseguenze della liberalizzazione dei licenziamenti in Spagna

La Spagna è stata più volte citata da molti, com-

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preso Mario Draghi, come esempio virtuoso da se-guire, ma i risultati ottenuti sembrano smentire talegiudizio.

Secondo Mariano Rajoy tale riforma del lavoro edelle relazioni sindacali è una leva per creare nuovaoccupazione, ma, come spiega, Lezcano Lòpez delleCc.Oo, “in agosto s’è perso occupazione e il lieve migliora-mento registrato nei mesi precedenti è derivato non dalla crea-zione di nuovo lavoro ma dalla sua redistribuzione con con-tratti a tempo determinato con una grave svalorizzazione dellavoro”. Tali politiche “hanno realizzato una frattura so-ciale senza precedenti, caratterizzata dall’incremento della po-vertà, la scomparsa di settori intermedi della società e l’esclu-sione. Il disastro sociale è così grande che sconsiglio di seguirequello che si è fatto da noi”.

La ripresa spagnola è precaria e fondata sul super-sfruttamento del lavoro attraverso la distruzione dioccupazione e la deflazione salariale. “I contratti a tem-po determinato sono cresciuti notevolmente con condizioni diprecarietà e bassi salari che non garantiscono neppure la sussi-stenza: avere un lavoro non garantisce più dalla povertà”.L’ultimo rapporto dell’Ocse denuncia la rilevante ri-duzione dei salari spagnoli come un rischio di pover-tà per i lavoratori e le loro famiglie, ma questo èl’ovvio risultato, del resto esplicitamente perseguito,delle politiche di austerità imposte dalla Germania eaccettate dalla Spagna, che però ha ottenuto negliscorsi anni, assieme alla Francia, una deroga al Pattodi stabilità.

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ALCUNE CARATTERISTICHE FONDAMENTALI PER LA TUTELA

DAI LICENZIAMENTI DISCRIMINATORI E DI RAPPRESAGLIA

Tutela reale e tutela obbligatoria

Nel diritto del lavoro, la “tutela reale” si differenziadalla “tutela obbligatoria” perché dà diritto, in caso di li-cenziamento illegittimo o discriminatorio, ove previ-sto dalla legge in vigore (ormai molto frequentemen-te modificata) non solo ad un risarcimento di naturaeconomica (ovvero ad una “obbligazione”) delle retri-buzioni maturata dal licenziamento, ma, oltre a que-sto, anche alla reintegra nel posto di lavoro che con-siste nella ripresa della medesima attività lavorativacon azzeramento degli effetti del recesso; il lavorato-re può, a sua scelta, chiedere la corresponsione d’unrisarcimento economico sulla base della retribuzioneglobale di fatto.

La reintegra differisce dalla riassunzione perchénon si tratta di un nuovo contratto di lavoro ma dellaprosecuzione di quello precedentemente esistente,non ha mai cessato di avere validità e di vincolare ildatore agli impegni in esso sottoscritti, mantenendoinquadramento, mansione e retribuzione.

La tutela reale è stata oggetto di critiche perchéera applicata solo alle imprese che impiegano almeno15 dipendenti, e dunque escludeva un notevole nu-mero di lavoratori, essendo il tessuto produttivo ita-

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liano composto da una prevalenza di piccole e medieimprese. Un’altra critica sosteneva che la tutela realeincentiverebbe il nanismo delle imprese italiane, in-dotte a restare sotto i 15 dipendenti per mantenereuna libertà di licenziamento, mentre le imprese mag-giori sarebbero indotte a “dividersi” in aziende sotto i15 dipendenti, che operano come un’unica realtàproduttiva.

Anche Renzi ha sostenuto che “non c’è cosa più ini-qua che dividere i cittadini tra quelli di serie A e di serie B.Essere di sinistra vuol dire essere contro questa diseguaglian-za, è un mondo del lavoro basato sull’apartheid”, anche sedeve spiegare perché mantiene questa divisione, sop-primendo le tutele dal licenziamento solo per i nuoviassunti. Occorre inoltre chiedersi perché l’omoge-neizzazione dei lavoratori dovrebbe avvenire soloverso il basso, togliendo le garanzia e precarizzandotutti, anziché verso l’alto, estendendo le garanzia achi ne è oggi sprovvisto.

L’attuale distorsione del mercato potrebbe essereeliminata attraverso l’estensione delle tutele a tutti ilavoratori, come è stato richiesto in vari referendume disegni di legge e nei 5 milioni e mezzo di firmeraccolte dalla Cgil, o calcolando il numero di chi la-vora nella stessa attività integrata, indipendentementedalla scomposizione giuridica puramente informa ilpiù aziende e in diversi contratti, anziché con l’aboli-zione della tutela reale e la riduzione dei diritti pertutti i lavoratori togliendo le tutele a tutti, come erastato invece richiesto nel referendum bocciato e in

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numerose proposte di legge, in particolare di Ichino,che è stato anche l’ispiratore del “Jobs Act”.

La libertà di licenziamento azzera l’efficacia delgiuslavorismo, come insieme di diritti e tutele a pro-tezione del lavoratore, che potrebbe adire al giudiceper ottenere l’applicazione dei diritti garantiti dallaCostituzione e dalle leggi vigenti, ma il datore po-trebbe intimare il licenziamento con una motivazioneeconomica, che, anche in caso di illegittimità, preve-de solo un indennizzo, a distanza di tempo perchénon sia possibile ravvisare un nesso causale con il ri-corso del lavoratore: ed è proprio ciò che avvienenella quasi totalità dei licenziamenti discriminatori,teoricamente sanzionabili con la reintegra, ma che ri-sulta impossibile da dimostrare.

Per questo motivo la libertà di licenziamento im-pedisce una effettiva azionabilità di qualsiasi diritto etutela, non solo relativi al lavoro, ma anche ad altridiritti come quello alla salute (personale e ambientale,contro nocività e inquinamento), alla sicurezza (con-tro gli infortuni sul lavoro, la criminalità organizzata,ecc.), alla famiglia (maternità e matrimonio), ecc.

La libertà di licenziamento confligge con la liber-tà di opinione e di azione richieste ai lavoratori,quando si intendano introdurre democrazia e plurali-smo sindacale, un approccio più partecipativo emeno conflittuale nelle relazioni con i datori di lavo-ro. Viene di fatto preclusa l’esistenza dell’autonomiadecisionale connessa all’esistenza di forme partecipa-tive.

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La “prova diabolica” del licenziamento discriminatorio

Nel modificare l’articolo 18 dello Statuto dei lavo-ratori, la riforma Fornero ha riconosciuto il dirittoalla reintegra al lavoratore in caso di licenziamentodiscriminatorio (ovvero quello dovuto alla attività ealle idee del dipendente espresse dentro o fuoridell’ambiente di lavoro, in ragione di opinioni politi-che, le credenze religiose, orientamenti sessuali,l’etnia o per ragioni comportamentali). La giurispru-denza vi ha incluso anche il “motivo di ritorsione” e il“motivo illecito” unico e determinate. Il licenziamentodiscriminatorio è vietato dall’art. 3 della Costituzionee dal codice civile ed è stato disciplinato dall’art. 4della legge 604/196 e dall’art. 3 della legge108/1990. Secondo l’art. 15 Statuto dei Lavoratori ènullo qualsiasi atto o patto diretto a “licenziare un lavo-ratore] a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovve-ro della sua partecipazione ad uno sciopero”, “a fini discrimi-nazione politica, religiosa, razziale, di lingua e di sesso”.

La legge prevede la nullità del licenziamento pertutti i lavoratori (compresi i dirigenti), indipendente-mente dalla motivazione adottata e dalle dimensionedell’azienda (anche sotto i 15 dipendenti), e l’applica-zione della tutela reale, per cui l’interessato può sce-gliere fra il risarcimento del danno o la reintegra nelposto di lavoro.

Per eludere la nullità, i licenziamenti discriminato-ri vengono, nella quasi totalità dei casi, mascherati dal

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datore con falsi motivi organizzativi ed economici edato che l’onere della prova ricade sul ricorrente, ov-vero sul lavoratore licenziato, il maggiore ostacoloper una effettiva repressione degli atti discriminatoriconsiste nella difficoltà di provare l’esistenza della di-scriminazione (o ancor prima, più a monte, la cono-scenza delle circostanze idonee ad attestarla con ilcosiddetto preliminare onere di allegazione) addu-cendo le prove necessarie, per cui si parla di “probatiodiabolica”, un’ espressione giuridica latina usata per in-dicare una prova impossibile, in tutte le ipotesi in cuil’accertamento di un diritto o la dimostrazione diuno o più fatti dipende da ricostruzioni probatorieestremamente complesse e difficili da realizzare.

Per questo spesso si assiste al rigetto della do-manda per carenza di prova (perché, secondo la Cas-sazione occorre fornire elementi idonei a “dimostrarela sussistenza di un rapporto di causalità fra le circostanze de-dotte e l’asserito intento di rappresaglia, in difetto del qualedeve escludersi il carattere discriminatorio del licenziamento”),o, ancora più spesso, alla rinuncia al ricorso da partedel lavoratore discriminato. L’unica eccezione è datadall’inversione dell’onere della prova in caso di discri-minazione per sesso (legge 125/91) perché il datoredi lavoro deve provare l’insussistenza della discrimi-nazione, anche se indiretta, prescindendo anche dalsuo intento soggettivo. Ma per dimostrare il fatto cheil licenziamento economico non è solo illegittimo (edunque sanzionabile in termine economici senzareintegra), ma che si tratta di un licenziamento discri-

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minatorio, l’onere della prova ricade evidentementesul ricorrente. Il problema è dunque che si tratta diun fatto del tutto indimostrabile, specie nel contestodella nuova normativa prevista dal cosiddetto “Jobsact”.

La vera garanzia contro i licenziamenti discrimi-natori consiste nella tutela reale anche nei licenzia-menti economici illegittimi, per cui nella riforma nonè prevista la reintegra. Un’estensione delle fattispeciedi licenziamento discriminatorio, che è nullo a priori,amplierebbe la casistica di lavoratori non licenziabili,riducendo la discrezionalità oggi di fatto concessa aidatori.

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L’EVOLUZIONE DELLE TUTELEDEL LAVORO IN ITALIA

Il “regime di fabbrica” del primo dopoguerra

Nel primo dopoguerra la necessità di superare lastruttura corporativa introdotta sotto la dittatura fa-scista ha portato i padri costituenti a definire, nel pri-mo articolo della Costituzione, il lavoro come ele-mento fondante dell’ordinamento democratico re-pubblicano, come per costruire una nuova “civiltà dellavoro”.

Ma ancora per molto tempo, fino agli anni ’60, acausa della prevalenza delle formazioni politiche diimpronta conservatrice, che avevano promosso lascissione del sindacato, sostenendo gli interessi dellaclassi dominanti e di un padronato reazionario, la de-mocrazia e i diritti finivano davanti ai cancelli dei luo-ghi di lavoro, perché al loro interno, data l’assenza diuna tutela dal licenziamento, imperava ancora un du-rissimo “regime di fabbrica” dove regnava indisturbatoil padrone, in modo discrezionale, incondizionato eincontestabile, con una sorta di dittatura fondata sul-la repressione e il ricatto della disoccupazione.

Per questo erano del tutto normali i licenziamentidi rappresaglia per gli scioperi, quelli nei confronti dimilitanti politici e sindacali, o di chi si faceva vederecon in tasca l’Unità, ma anche delle donne in gravi-

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danza o di chi protestava per la mancanza di prote-zione per la sicurezza e contro le lavorazioni alta-mente nocive. La repressione dei lavoratori da partedelle cosiddette “forze dell’ordine”, su indicazionedel padronato, era all’ordine del giorno. Il sindacatoera sostanzialmente esterno perché chi faceva sinda-cato all’interno veniva immediatamente licenziato, adesclusione, ovviamente, dei rappresentanti dei “sinda-cati gialli”, creati dall’azienda e alle dipendenza direttedell’ufficio del personale.

La situazione ha iniziato a cambiare, con il primocentrosinistra, quando, negli anni ’60, sono stateemanate delle leggi di tutela su infortuni e malattieprofessionali, le pensioni sociali e di anzianità, la tu-tela delle lavoratrici madri. Le lotte dell’“autunno cal-do”, hanno portato alla conquista di nuove libertà etutele e portato all’unità sindacale della “Triplice al-leanza”.

La svolta dello “Statuto dei lavoratori”

Il licenziamento era stato regolato dall’articolo2118 c.c. che consentiva il licenziamento “ad nutum”,ovvero con un semplice “gesto”, effettuato con il solocenno della mano (via!), totalmente discrezionale,che non poneva alcuna limitazione, senza alcun vin-colo od obbligo per il datore, consentendo il pienouso del ricatto costituito dall’Esercito Industriale diRiserva (Eis) dei disoccupati, che premevano sullecondizioni di lavoro e di vita dei lavoratori, abbassan-

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done la retribuzione e la sicurezza. Già una prima re-golamentazione in materia di licenziamento è stataintrodotta dalla legge 604/66 che prevedeva la tutela“obbligatoria” per i licenziamenti arbitrari, così definitaperché prevedeva unicamente un “obbligo” al risarci-mento, senza prevedere però la reintegra. Non ridu-ceva perciò la ricattabilità del lavoratore perché inuna situazione di pesante difficoltà occupazionale, ilpagamento d’una penale, del tutto irrisoria era un co-sto ben sopportabile per il datore, che si liberava coìdi soggetti che considerava inutili o dannose (donnein gravidanza, sindacalisti, lavoratori politicizzati escioperanti, ecc.), mentre il lavoratore restava ricatta-bile perché era disposto a qualsiasi sacrificio pur dinon diventare disoccupato.

La svolta decisiva che ha cambiato profondamen-te la situazione, portando la democrazia e il sindacatofin dentro i cancelli della fabbrica e dando citt5adi-nanza al lavoro si è concretizzata nel ’70 con il varodello “Statuto dei lavoratori” (Legge 20 maggio 1970, n.300), scritta da una commissione voluta da GiacomoBrodolini e guidata da Gino Giugni, considerato ilpadre dello Statuto, il cui perno centrale, fondamen-tale per l’accesso a tutti gli altri diritti, è stato proprioquello della tutela reale, assistita dalla reintegra, dai li-cenziamenti ingiustificati, contenuta nell’articolo 18dello Statuto, che ha prodotto effetti profondamentediversi dalla tutela obbligatoria, sostenendo il lavora-tore, come parte debole, rispetto al diritto del datoredi licenziare.

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Lo Statuto non ha vietato il licenziamento ma loha consentito sulla base di determinati criteri chesono il licenziamento disciplinare per “giusta causa”(talmente grave da impedire il proseguimento delrapporto neppure per il preavviso) e per “giustificatomotivo” (più lieve, che consente la risoluzione del rap-porto al termine del periodo di preavviso); inoltreesiste licenziamento individuale per “giustificato motivooggettivo”, non disciplinare, per ragioni di riorganizza-zione tecnica, organizzativa o economica, o per la so-pravvenuta inidoneità del lavoratore (malattia o ina-bilità) o per il superamento del periodo di comporto(previsto per la conservazione del posto in malattia),ovvero del limite del periodo di malattia previsto nelcontratto per la conservazione del posto). Il licenzia-mento immotivato era consentito solo nel caso dellanatura fiduciaria dell’attività del datore (organizzazio-ni di tendenza, che esigono un’adesione culturale:partiti, sindacati, enti religiosi) e per i dirigenti, i lavo-ratori domestici, i dipendenti in prova e i lavoratoriultrasessantenni che hanno maturato i requisiti per ildiritto alla pensione.

Per il licenziamento illegittimo lo Statuto prevedela “tutela reale”, con la reintegra nel posto di lavorosopra i 15 dipendenti (o l’indennizzo, a scelta del la-voratore), e quella “obbligatoria”, unicamente risarcito-ria, sotto i 16 dipendenti che obbliga il datore solo aun indennizzo economico.

L’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori si appli-cava solo alle aziende con almeno 15 dipendenti e ri-

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teneva il licenziamento è valido solo se attuato pergiusta causa o giustificato motivo. Prima della Rifor-ma del lavoro del 2012, il giudice che aveva ricono-sciuto l’illegittimità del licenziamento era obbligatoad ordinare la reintegrazione del lavoratore (col man-tenimento dello stesso posto precedentemente occu-pato) e il risarcimento degli stipendi non percepito,ma in alternativa, il dipendente poteva accettare, asua scelta, un’indennità pari a 15 mensilità dell’ultimostipendio, o un’indennità crescente con l’anzianità diservizio.

Le strategie di elusione dello Statuto

Per eludere tale normativa la soglia numerica diapplicazione, originariamente fissata sopra i 15 di-pendenti nell’unità produttiva o nel comune o 60complessivamente, è stato man mano ampliata esclu-dendo dal computo varie tipologie di lavoratori e losmembramento dell’attività in diverse società e con-tratti che operano nella stessa struttura produttiva,per cui si è giunti, ad esempio nella grande distribu-zione, ad attività di oltre 200 lavoratori che non supe-rano la soglia dei 15 dipendenti. Il tetto numerico hafacilitato la destrutturazione delle imprese, scivolatesotto la soglia, con il risultato di un indebolimentostrutturale del sistema produttivo italiano. Questa si-tuazione di ulteriore frammentazione del tessutoproduttivo italiano ha ristretto progressivamentel’area coperta dalle tutele dello Statuto, con effetti de-

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generativi sui diritti e le tutele del lavoro. Già nel1982 Dp aveva promosso un referendum per esten-dere l’efficacia dello Statuto anche alle aziende mino-ri, ma non è stato ammesso dalla Consulta per etero-geneità del quesito, in quanto interveniva a modifica-re più punti della legge.

Episodi gravissimi, come la strage della Elisabet-ta Montanari, il 13 marzo 1987 a Ravenna, hannoreso più impellente il problema dell’estensione dei di-ritti anche alle piccole aziende e Dp ha promossonuovamente un referendum, molto simile a quello ef-fettuato poi nel 2003, che avrebbe dovuto svolgersinel ’90, ma non venne effettuato perché per fermar-lo, in previsione d’un suo successo, venne approvatauna legge (108/90, detta legge Cavicchioli) che elimi-nava il licenziamento “ad nutum” (ovvero a gesto,senza motivazione), rendendo necessario i requisitodella “giusta causa” e dunque imponendo la motiva-zione scritta per i licenziamenti in tutte le aziende, in-dipendentemente dalla dimensione, ma lasciando latutela reale solo per i lavoratori delle imprese sopra i15 dipendenti.

Il declino dei diritti del lavoro e la lunga storiadell’assalto all’articolo 18

Con la fine dei “trenta gloriosi” e l’avvio dell’epocadella crisi è iniziato anche in Italia, un ripensamentodelle politiche sindacali, sulla scia della costituzionedel governo di solidarietà nazionale. Nel ’77 Luciano

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Lama aveva annunciato , in una intervista alla Repub-blica, i contenuti della svolta dell’Eur, sostenuta nelPci da Napolitano e Amendola: “La politica salarialenei prossimi anni dovrà essere molto contenuta … l’interomeccanismo della cassa integrazione dovrà essere rivisto dacima a fondo: Non possiamo più obbligare la aziende a tratte-nere alle loro dipendenze un numero di lavoratori che esorbitale loro possibilità produttive , né possiamo continuare a pre-tendere che la cassa integrazione assista in via permanente ilavoratori eccedenti”. Ma questa linea non è stata recepi-ta nei rinnovi contrattuali del ’78, mentre nel ’79 ilPci usciva dal governo di solidarietà nazionale.

Va tale proposito ricordato che l’articolo 18 nonvieta il licenziamento per giusta causa o giustificatomotivo, ma solo quello ingiustificato, che costituisceun continuo ricatto che impedisce la effettività deglialtri diritti indisponibili (maternità, assenze per ma-lattia, salute in azienda, licenziamenti di rappresaglia,retribuzioni sotto i minimo contrattuali, iscrizione alsindacato, ecc.) perché la richieste di rispettarli con-duce al licenziamento, in quanto i comportamentiperseguibili penalmente sono difficili da dimostrate(occorrerebbe la cosiddetta “prova diabolica”, ovverola possibilità di leggere nel pensiero le reali intenzionidel datore di lavoro che ha licenziato).

A partire dal 1984 è iniziato un processo di pro-gressiva demolizione delle tutele del lavoro conqui-state nei decenni precedenti, per ristabilire più rigidirapporti di classe che consentissero un taglio dei sala-ri, delle pensioni e, più in generale, dello stato sociale.

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La “flessibilizzazione” del mercato del lavoro ha vistola sua prima applicazione con la legge n. 863 (19 di-cembre ’84), come risultato del cosiddetto ProtocolloScotti sul costo del lavoro (1983), che ha ampliato icriteri di applicazione del tempo parziale e introdottoi contratti di solidarietà e di formazione-lavoro. Nel1987 la legge 56 ha esteso i contratti termine a tutti isettori. Sul lato del salario e dei diritti sindacali, inti-mamente connessi alle politiche sul mercato del lavo-ro, dopo il fallimento del referendum abrogativo deldecreto di San Valentino (14 febbraio 1984) emessoal Governo Craxi che riduceva l’incidenza della scalamobile iniziava il processo di revisione della stessascala mobile sfociato poi nell’accordo del 31 luglio1992, accettato con tribolazione da Trentin, allora se-gretario generale della Cgil, che sanciva l’abolizionedegli scatti di contingenza sulla base della accettazio-ne del Trattato di Maastricht, ma con la garanzia chela Banca Centrale non avrebbe mai svalutato la liraper evitare un incremento dell’inflazione da cui i sa-lari non erano più protetti. Ma dopo un solo mese, il9 settembre 1992, il Sistema Monetario Europeo(Sme) collassava, e la lira subiva la più grande svalu-tazione del dopoguerra (30% in un anno). Questa si-tuazione, assieme ai vincoli di Maastricht avevanoportato il governo Amato a varare una finanziaria“lacrime e sangue” di 90.000 miliardi di lire. Era la pri-ma d’una lunga serie di finanziarie volte a smantellarelo Stato sociale per consentire il rispetto dei parame-tri di Maastricht in materia di deficit pubblico e infla-

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zione, addebitando a lavoratori e pensionati il costodel processo di armonizzazione monetaria europea.

Il 23 luglio 1993 veniva firmato, tra i sindacaticonfederali, la Confindustria e il Governo Ciampi, il“protocollo” sul costo del lavoro, la politica dei redditie dell’occupazione, gli assetti contrattuali, le politichedel lavoro e il sostegno al sistema produttivo, cheprevedeva nuove forme di flessibilità e nuove regoleper l’elezione dei rappresentanti dei lavoratori nelleaziende. Concludeva il processo di deregolamenta-zione e flessibilizzazione del salario, iniziato col de-creto Craxi dell’84, che ha determinato una spaccatu-ra nella Cgil fra socialisti e comunisti, sopprimendola scala mobile e predeterminava la dinamica salaria-le, vincolandola al tasso d’inflazione programmato,con un risultato costantemente inferiore al tassod’inflazione effettivo, e ciò ha determinato negli anni’90 una rincorsa salariale rispetto alla perdita di pote-re d’acquisto, senza redistribuire verso il lavoro gli in-crementi di produttività e del Pil, pressoché intera-mente assorbiti da profitti e rendite, con una conse-guente costante erosione di oltre 10 punti rispetto alPil in un decennio. La concertazione durò però soloun anno e mezzo, a partire dal 1 giugno 1992. Mal’erosione prosegue tuttora, in particolare con un at-tacco al salario differito (accantonato mensilmentecome Tfr e contributi previdenziali e sanitari).

Nel ’95 si tenne il referendum contro l’abroga-zione della scala mobile, promosso da Berlinguer edeffettuato un anno dopo la sua morte, che ha visto

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una partecipazione di massa (77,9%), ma anche unavittoria dei no (54,3%), a causa della campagna di di-sinformazione mediatica portata avanti dal governo.Il 1995 fu anche l’anno della riforma delle pensionidel governo Dini che ha cambiato profondamente ilmeccanismo di calcolo, passando dal sistema retribu-tivo a quello contributivo. La riforma fu bocciata daimetalmeccanici e l’accordo non fu firmato da Con-findustria, ma venne approvato dal referendum in-detto dalle confederazioni. L’11 novembre del 1997,è stato stipulato l’“accordo di Ognissanti” tra il GovernoProdi e sindacati che ha revisionato il percorso dellariforma del ’95 omogeneizzando le regole di pensio-namento tra i lavoratori pubblici e privati, cancellan-do le “pensioni baby” e accelerando il percorso del ’95per mandare in pensione di anzianità gli italiani conmeno di 35 anni di contributi e 57 anni di età.

La deregolazione del mercato del lavoro

In tale situazione, nel corso degli anni ’90 riprese vi-gore la discussione sull’articolo 18, ma von propostedi segno contrario, volte a ridurne l’efficacia, ancheda parte dello schieramento di centro-sinistra.

È iniziato così il lungo processo di deregolamen-tazione del mercato del lavoro e della prestazione la-vorativa a partire inizialmente dalla “flessibilità in in-gresso”, con la proliferazione delle modalità di assun-zione atipiche e poi con la “flessibilità in uscita” con laliberalizzazione dei licenziamenti ed anche con il

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cambiamento delle modalità concertative delle rela-zioni sindacali o addirittura con il rifiuto del confron-to col sindacato. Lo scopo è stato quello di realizzareuna maggiore subordinazione e ricattabilità del lavo-ro ma anche di rompere verso il basso i vincoli deiminimi salariali, fissati contrattualmente.

La legge 236 (19 settembre 1994) ha dato la pos-sibilità di assumere lavoratori con contratto di ap-prendistato; la legge 299 (16 maggio 1994) ha estesol’uso della mobilità e dei contratti di forma-zione-lavoro e disciplinato i contratti di solidarietà.

Nel ’96 venne pubblicato un libro di Pietro Ichi-no che sosteneva che il diritto del lavoro italiano for-niva, con l’articolo 18, tutele e rigidità eccessive ri-spetto alla licenziabilità, a favore dei lavoratori a tem-po indeterminato delle grandi aziende, disincentivan-dole assunzioni e lasciando privi di tutele tutti gli al-tri. Anche la Confindustria, guidata da Giorgio Fossachiedeva una liberalizzazione dei licenziamenti “siaindividuali che collettivi”. Nel ’97 il senatore Debenedet-ti dei Ds, sulla base delle proposte di Ichino, chiede-va una deregolamentazione sul modello anglosasso-ne, con una modifica dell’articolo 18 che eliminasseinteramente la reintegra (tranne che per i licenzia-menti discriminatori e di rappresaglia), sostituendolacon un risarcimento crescente con l’anzianità. Que-sto disegno di legge aveva sollevato l’indignazionedei sindacati e il commento del Presidente della re-pubblica che l’aveva bollata coma una “battuta infeli-ce”.

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Il “pacchetto Treu”

L’accordo per il lavoro, interconfederale, del 24 set-tembre 1996, che prevedeva la introduzione di misu-re che favorissero l’utilizzo di manodopera flessibilenel mercato del lavoro, ha aperto la strada al pacchettoTreu (legge 196, 24 giugno 1997), che disciplinava inun unico articolato le forme di lavoro “non standard”,con tutele affievolite, eliminato di fatto il monopoliopubblico del collocamento, previsto nella Statuto deilavoratori, introdotto il “lavoro interinale”, esteso l’usodei contratti a termine e a tempo parziale, e dei con-tratti d’inserimento, a costo ridotto (forma-zione-lavoro e apprendistato), ecc. La Legge Treuaveva proclamato l’intenzione di favorire l’occupa-zione flessibilizzando l’ingresso nel mercato del lavo-ro, ma il suo reale obiettivo era quello, perseguito an-che in Germania, di realizzare una deflazione salaria-le, abbassare il costo del lavoro medio, sostituendo illavoro a tempo indeterminato con lavoro precarioscarsamente retribuito, favorendo la diffusione diforme di lavoro atipiche. La successiva legge 469 (23dicembre 1997) ha decentrato e privatizzato il collo-camento, privilegiando la chiamata individuale suquella numerica.

S’è trattato del provvedimento fondamentale cheha destrutturato il mercato del lavoro italiano, crean-do l’attuale sfarinamento dei contratti precari. Pro-prio l’applicazione del “pacchetto Treu” ad un tessutoproduttivo strutturalmente flessibile, fortemente de-

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centrato, con una ridottissima dimensione d’impresa(metà della media europea) e una scarsa presenza del-le organizzazioni sindacali, ha reso il mercato del la-voro italiano il più flessibile d’Europa, con una mo-bilità paragonabile quella esistente negli Stati Uniti,una quota di lavoro autonomo (spesso fittizio) piùche doppia rispetto all’Europa e agli Stati Uniti, ladiffusione dei lavoratori parasubordinati (co.co.co.,co.co.pro, coordinati e continuativi, autonomi etero-diretti, partite Iva, ecc.). Tutto ciò ha limitato forte-mente il numero dei lavoratori che possono esseretutelati dallo Statuto dei lavoratori.

Le limitazioni poste dal sindacato ai progetti di li-beralizzazione venivano bollate dalla Confindustria edai neoliberisti come una manifestazione di conser-vatorismo inaccettabile. In questo contesto nel ’97, alcongresso DS Massimo D’Alema si scontrò con ilsegretario della Cgil, Sergio Cofferati, sulla revisionedell’articolo 18 ma poi fece marcia indietro. Il “Pattodi Natale” del 22 dicembre 1998 tra il governo D’Ale-ma, imprese e sindacati, ha definito un nuovo pattosociale, affidando alla concertazione il compito di in-dividuare strumenti e misure per abbattere l’inflazio-ne, riavviare lo sviluppo e accrescere l’occupazione.Nel ’99 Massimo D’Alema, allora presidente delConsiglio aveva inserito, all’interno di alcune misureper la crescita dimensionale delle imprese, l’ipotesi diconsentire a quelle con meno di 15 dipendenti di as-sumere altri lavoratori a tempo indeterminato, appli-cando loro una moratoria triennale dell’articolo 18,

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ma l’opposizione di Sergio Cofferati, allora segretariodella Cgil, aveva bloccato l’iniziativa. Facendosi inter-prete delle volontà confindustriali, il Partito radicale,sostenuto dalla Confindustria (che affermava cheavrebbe ridotto la disoccupazione), e anche da ForzaItalia e Pri, prese l’iniziativa di sfidare i sindacatoproponendo un referendum abrogativo dell’articolo18 che liberalizzava i licenziamenti individuali ingiu-stificati, ma la consultazione, svolta il 21 maggio2000 non ha raggiunto il quorum (32,7% di parteci-panti, dei quali i 66,4% si era espresso per il no). Il“Comitato per il No”, capeggiato da Cofferati che ave-va sottolineato che non era un attacco “contro il sinda-cato, ma contro i cittadini lavoratori d’ogni genere”, aveva vi-sto un sostegno compatto delle confederazioni e delcentro sinistra. In un’intervista su La Repubblica,Cofferati aveva testimoniato di sapere con certezzache Silvo Berlusconi aveva detto a Confindustria dinon preoccuparsi del fallimento del referendum radi-cale, perché ci avrebbe pensato lui a risolvere il pro-blema appena vinte le elezioni.

In quello stesso anno era sorta una divaricazione,destinata ad approfondirsi, fra la Cgil, che considera-va la flessibilità come lesiva dei diritti dei lavoratori ela Cisl (seguita a ruota dalla Uil), che lo riteneva unpossibile oggetto di scambio con il governo.

Nel marzo 2001 la Confindustria, guidata daD’Amato, in un suo convegno a Parma, in vista delleelezioni, dichiarato le sue “affinità culturali” con ilPolo di Berlusconi, con cui aveva stretto un’alleanza,

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aveva proposto un documento sulle “Azioni per lacompetitività”, che portava avanti un pesante attacco alsindacato, alla concertazione e alla contrattazionecollettiva, proponendo la contrattazione individualegià introdotta dalla Tatcher, e il cui pezzo forte era laderegolamentazione del mercato del lavoro, sullabase di quanto avvenuto in Spagna e Gran Bretagna,prevedendo per tutti i lavoratori la sola tutela risarci-toria e chiedendo la liberalizzazione dei contratti “ati-pici”, lasciando più spazio alla “libera volontà delle par-ti”. Stupisce la durezza della Confindustria se si pen-sa che la concertazione, fino ad allora praticata negliincontri triangolari, la maggior pace sociale dal dopo-guerra, ed aveva consentito, secondo l’Istat, fra il ’96e il 2001, una riduzione dei salari reali del 3,4%, men-tre erano aumentati in tutto il resto d’Europa e lacrescita della produttività aveva ridotto il Clup (Co-sto del lavoro per unità di prodotto) del 16,6% con-tro una media europea del 7,5%.

La svolta del “Libro Bianco” di Maroni

Dopo la vittoria elettorale, per mantenere gli im-pegni assunti con Confindustria, già nell’agosto 2001i ministri Maroni (Lavoro), Marzano (Sviluppo) eTremonti (Economia) del governo Berlusconi si di-chiaravano favorevoli alla modifica dell’articolo 18. Il3 ottobre 2001 il governo Berlusconi 2 ha presentatoil “Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia”, cosiddet-to “di Maroni” (che era ministro del lavoro), elaborato

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da un gruppo di lavoro presieduto da Maurizio Sac-coni e Marco Biagi nel quale sono state presentatedelle proposte di intervento:

• Aumento delle fattispecie di lavoro flessibile,con una liberalizzazione dalle limitazioni delloro utilizzo, e con l’introduzione del lavoroa progetto come nuova tipologia contrattua-le di lavoro per aumentare la flessibilità iningresso.

• Sviluppo della flessibilità in uscita, ovvero laliberalizzazione dei licenziamenti, tramiteuna revisione dell’art. 18 dello Statuto deiLavoratori per eliminare la reintegra: questoobiettivo è poi divenuto centrale nella delegainterna alla Legge Finanziaria per il 2002 inmateria di riforma del mercato del lavoro.

• Eliminazione della concertazione e riduzio-ne della contrattazione collettiva nazionale avantaggio di quella aziendale e della contrat-tazione individuale.

• Liberalizzazione dei servizi di collocamento.

La Cisl aveva accolto il Libro bianco come“un’opportunità e un terreno di negoziazione vero”, mentrela Cgil l’aveva respinto come un progetto negativo,specie in materia di legislazione del lavoro e di con-trattazione individuale.

È interessante esaminare alcune affermazioni inesso contenute che mostrano una strategia organicavolta a considerare il lavoro come una merce qualsia-

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si, sulla base d’una fittizia parità dei contraenti, e a ri-portare, come nell’800, verso un rapporto individua-le, non gestito a livello collettivo, negando così il ruo-lo di rappresentanza solidale del sindacato.

“Il principi di fondo su cui si sviluppa il Libro Bianco etutto il processo di flessibilizzazione degli ultimi 15 anni sibase sul primato del libero mercato. Il mercato del lavoro è unmercato come tutti gli altri, dove l’equilibrio è garantito dal li-bero incontro tra domanda e offerta. Perché ciò avvenga occor-re che vi sia piena flessibilità nella domanda e nell’offerta dilavoro, in modo tale da consentire il raggiungimento di un li-vello di salario in grado di garantire la piena occupazione(flessibilità del salario). La filosofia di questo approccio stanell’individualismo metodologico, ovvero quell’insieme di postu-lati che descrivono lo scambio economico come un atto che av-viene solo tra individui e non su basi aggregate o collettive.L’individualismo economico è condizione necessaria e sufficien-te per garantire l’equilibrio economico generale e il massimobenessere per tutti. Ne consegue che il principio regolatore delmercato del lavoro deve essere l’individualismo contrattuale.Per raggiungere ciò, occorre innanzitutto colmare il deficit cul-turale, di natura ideologica, che ancora attanaglia buona partedei lavoratori, che non si rendono conto, che lavoro e capitalesono elementi paritari costituenti il processo produttivo. Condi-zione propedeutica, infatti, perché domanda e offerta di lavorosi esplichino in modo individuale, come una qualsiasi attivitàdi scambio tra agenti economici, è che lavoratore/trice e impre-sa/imprenditore si muovano in ambiti di assoluta parità, sen-za nessuna discriminazione aprioristica. Pertanto, qualunquesia la forma contrattuale e giuridica che regola lo scambio pa-

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ritario di lavoro, essa deve svolgersi all’interno delle regola dellibero mercato. L’ambito giuridico di riferimento diventa cosìquello del diritto privato e del diritto commerciale. Il diritto dellavoro e il diritto pubblico o sono superflui o non devono averenessuna voce in capitolo”. “Il sistema di contrattazione collet-tiva ha … caratteristiche di centralizzazione che si sono rile-vate eccessive e inadeguate ad assicurare quella flessibilità dellastruttura salariale capace di adeguarsi ai differenziali di pro-duttività e di rispondere ai disequilibri di mercato. … Essaproduce norme che escludono la libera pattuizione individualee non lascia alcuna flessibilità alle parti”. “La contrattazioneindividuale è l’unico ambito che può regolamentare lo scambioeconomico che avviene sul mercato del lavoro. Qualunque in-tervento ad un livello sovra-individuale diventa distorsivo equindi, capitalisticamente, inefficiente”. “Il processo di indivi-dualizzazione del rapporto di lavoro è in atto da molto temponel nuovo paradigma dell’accumulazione flessibile. Tale pro-cesso, non solo è implicito nelle forme di lavoro autonomo, dovela contrattazione tra lavoratore e committente è per definizionediretta e senza intermediari, non essendoci formalmente un co-mando sul lavoro (rapporto di lavoro indipendente), ma co-mincia sempre più a diffondersi anche all’interno del lavorosubordinato (rapporto di lavoro dipendente”. “Un mercato dellavoro flessibile, al contrario di quanto spesso temuto, può mi-gliorare la qualità oltre che la quantità dei posti di lavoro,rendendo più fluido l’incontro tra obiettivi e desideri delle im-prese e dei lavoratori in tema di caratteristiche della prestazio-ne lavorativa, consentendo ai singoli individui di cogliere le op-portunità lavorative più proficue ed evitando che gli stessi ri-mangano intrappolati in ambiti ristretti e segmentati. I lavo-

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ratori necessitano, in tale contesto, adeguate forme di tutela,ma queste devono agire innanzitutto nel mercato, non operarecontro il mercato”.

Dopo il “Libro Bianco”

Il 15 novembre 2001 il governo Berlusconi, cheintendeva rompere l’unità sindacale, aveva presentatoil decreto legge delega 848 bis sul mercato del lavoro,che prevedeva, con il consenso di Cisl e Uil, l’aboli-zione dell’articolo 18.

È iniziata una ondata di proteste in tutto il paese,e la Cgil, con il dissenso delle altre confedereazioni,si è posta alla testa della mobilitazione. Il 23 marzo2002 la Cgil ha effettua a Roma, al Circo Massimo, lapiù grande manifestazione mai registrata in Italia e intutto l’Occidente, con tre milioni di partecipanti.

Nel suo intervento Cofferati aveva detto di consi-derare l’articolo 18 un diritto fondamentale per unnecessario sistema universale di diritti e dando la di-sponibilità della Cgil aduna trattativa col governosolo se veniva stralciata la soppressione dell’articolo18. Il segretario della Cgil appena eletto, GuglielmoEpifani ha consegnato al presidente del Senato, Mar-cello Pera, 5 milioni e mezzo di firme contro l’abro-gazione dell’articolo 18.

Battaglie analoghe sono state combattuta anche inaltri paesi europei, con alterni risultati. In Gran Bre-tagna lo scontro fra Tony Blair e le Unions, che loaccusavano di essere una variante del thatcherismo,

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s’è risolta con la vittoria di Blair e il cambiamento ge-netico del Labour Party. In Germania lo scontro sui“Kurzarbeiten” fra Gerhard Schröder e Oskar Lafon-taine s’è concluso con l’uscita dal governo diquest’ultimo.

La manifestazione aveva spinto verso uno sciope-ro generale unitario di metà aprile, ma Berlusconiaveva offerto, sen stralciare l’articolo 18, un tavolo acui aderivano Cisl e Uil, a cui non ha partecipato laCgil, che ha portato all’accordo separato del “Pattoper l’Italia”, stipulato il 5 luglio 2002 fra Il governo,Confindustria, Confesercenti, Lega delle Cooperati-ve, Cisl, Uil e sindacati autonomi, a cui non ha aderi-to la Cgil. Riguardava la politica di contenimento deiredditi e dello stato sociale, e prevedeva, per la primavolta tre allegati sulla delega al governo per il supera-mento dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, la ri-forma fiscale e il ddl per la modifica di trasferimentodi ramo di azienda. Ma, a seguito della enorme mani-festazione del 23 marzo, l’attacco frontale per la de-molizione dell’articolo 18 era stato sventato.

Il 15 e 16 giugno 2003 s’è svolto il referendum,chiesto dal Prc, per l’estensione della giusta causa an-che alle piccole aziende, ma non ha raggiunto il quo-rum. Enrico Letta e Maurizio Sacconi l’hanno giudi-cato “un referendum sbagliato”, proponendo invece dicancellare la reintegra per tutti.

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L’ATTACCO FRONTALEALLA REINTEGRA

L’OFFENSIVA RESTAURATRICE NEICOFRONTI DEI LAVORATORI

E DEI SINDACATI

L’attuale dibattito sulla riforma del mercato dellavoro e il progetto di Ichino

In Italia la discussione sulla riforma del mercatodel lavoro è stata giustificata con la necessità di favo-rire la crescita delle imprese e di evitare una eccessivarigidità del lavoro (oggi del tutto assente in Italia),che frenerebbe gli investimenti italiani ed esteri. Vie-ne inoltre sostenuta con l’argomento che consenti-rebbe una crescita dell’occupazione, nella logicad’una inesistente “precarietà espansiva”. S’è da tempoincentrata sul terreno della libertà di licenziamentoingiustificato anche sopra la soglia dei 15 dipendenti,attraverso la revisione dell’articolo 18 dello Statutodei Lavoratori.

Uno dei più insistenti sostenitori, già da moltianni, di questa tesi, è stato Pietro Ichino (ex dirigentesindacale della Fiom e della Camera del lavoro di Mi-lano, poi deputato del Pci e senatore del Pd, ora pas-sato a Scelta civica), che, in materia di lavoro ha so-stenuto una riforma che preveda una disciplina radi-calmente nuova del licenziamenti, concretizzata in un

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disegno di legge contenente un “Codice del lavoro sem-plificato” (9 novembre 2009 n. 1873), ripresentato il 5agosto 2013 (n. 1006). Prevede un contratto di lavo-ro unico per tutti i nuovi assunti, in aziende di ognidimensione, con garanzie crescenti nel corso deltempo, di carattere esclusivamente economico, pre-vedendo la reintegra solo in caso di licenziamenti di-scriminatori e ritorsivi, per motivi politici, sindacali,di genere. Nei primi anni dall’assunzione ogni rap-porto di lavoro può essere liberamente sciolto daparte del datore col solo pagamento di una indennitàdi licenziamento pari a una mensilità dell’ultima retri-buzione per ogni anno di anzianità di servizio e la li-beralizzazione dei contratti a termine. A partire dalterzo anno in caso di licenziamento immotivato il da-tore deve aggiungere all’indennità di licenziamentol’offerta di un percorso di ricollocazione (outplace-ment) assistito nella ricerca d’un nuovo lavoro, conformazione e trattamento complementare di disoc-cupazione che cessa in caso di rifiuto del lavoratoredella formazione o d’una occasione di lavoro (workfa-re). La tutela reale della reintegra è soppressa nei li-cenziamenti economici, è lasciata al consenso del da-tore in caso di licenziamento disciplinare immotivato,mentre è prevista per i licenziamenti discriminatori odi rappresaglia.

Secondo Ichino tale progetto intende superarel’attuale dualismo del mercato del lavoro italiano e at-tuare in Italia i principi della “flexicurity”, che sta datempo al centro delle raccomandazioni rivolte agli

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stati membri dalla Ue. Sostiene che con questa rifor-ma dei licenziamenti si realizzerebbe una sostanzialeeguaglianza di opportunità per tutti i lavoratori cheaccedono al tessuto produttivo, con superamentodell’attuale dualismo caratteristico del mercato del la-voro italiano. Sostiene anche il primato dei contrattiaziendali e la loro derogabilità rispetto a quelli nazio-nali e intende intervenire anche per liberalizzare i li-cenziamenti collettivi.

Come si può chiaramente vedere, il progetto diIchino è quello che ha ispirato gli interventi governa-tivi degli ultimi anni, dalla riforma Fornero al “JobAct”, ma anche i progetti di cui si sta discutendo ri-spetto alla deregolazione aziendale del contratto na-zionale, che andrebbe abolito secondo la Commis-sione europea.

Nella manovra finanziaria 2011 è stata inserita,dietro sua ispirazione, una norma (art. 8) che facilita ilicenziamenti e, secondo i giuslavoristi, rende di fattoinefficace l’articolo 18 allorché si realizzino “specificheintese” tra sindacati e azienda.

Il progetto di Ichino ha sollevato numerose criti-che da parte della Cgil e dei giuslavoristi, che ritengo-no che con tale riforma diviene di fatto impraticabilel’applicazione della tutela reale, ovvero della reinte-gra, anche nel caso dei licenziamenti disciplinari, di-scriminatori, di rappresaglia, potendo il datore inter-rompere in tutti i casi, il rapporto di lavoro con unadiversa motivazione economico-organizzativa, nonopponibile davanti al giudice, come effettivamente fa.

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Inoltre mancano filtri ai licenziamenti collettivi, spe-cie se trasformati in licenziamenti individuali plurimiper motivi economico-organizzativi, perché vengonomeno gli obblighi di informativa e consultazione sin-dacale.

La riforma Fornero

Nel febbraio 2013 la riforma del lavoro di ElsaFornero, varata dal governo Monti, ha profondamen-te trasformato la disciplina di licenziamenti illegitti-mi, con l’abolizione della reintegra automatica e lasua sostituzione, salvo poche eccezioni, con un sem-plice risarcimento economico.

La profonda modifica dell’articolo 18 sulla disci-plina dei licenziamenti illegittimi è sicuramente ilpunto più controverso di tutta la riforma del lavorodel governo Monti, usualmente definita riforma For-nero, dal nome della ministra del lavoro che l’ha pro-posta. Ha limitato i casi in cui è prevista la tutela rea-le della reintegra, privilegiando quella obbligatoriacon un semplice risarcimento economico per alcunetipologie di cause all’interno dei licenziamenti collet-tivi e di quelli con motivazione economica, superan-do l’automatismo tra licenziamento illegittimo e lareintegrazione del lavoratore. Distingue tra tre tipi dilicenziamento: disciplinare, economico e discrimina-torio.

Il licenziamento disciplinare è quello motivato dalcomportamento del lavoratore e può essere per “giu-

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sta causa”, se deriva da una circostanza così grave danon consentire la prosecuzione, nemmeno provviso-ria, del rapporto di lavoro (come il rifiuto di lavorare,l’insubordinazione, il furto in azienda ecc.), o per“giustificato motivo soggettivo”, cioè in caso di significati-ve violazioni disciplinari, degli obblighi contrattuali odi illeciti penalmente perseguibili da parte del lavora-tore. Il giudice poteva ritenere il licenziamento illegit-timo per due motivi: se il fatto non sussiste, o se puòessere punito con un altro tipo di sanzione. I requisitidel licenziamento disciplinare erano restati sostan-zialmente gli stessi, ma in caso di licenziamento ille-gittimo, mentre in precedenza il giudice ordinava au-tomaticamente la reintegra del dipendente nel postodi lavoro, la riforma Fornero obbliga il datore di la-voro, anziché a reintegrare il dipendente, a un risarci-mento economico pari alla retribuzione da 12 a 24mensilità, senza versamento dei contributi; se il giu-dice accerta che il dipendente non ha commesso ilfatto che ha dato origine al licenziamento, poteva de-cidere, a seconda dei casi, di disporre il reintegro eun’indennità pari alla retribuzione dovuta dal mo-mento del licenziamento con un massimo di 12 men-silità.

Il licenziamento economico può essere motivato da“giustificato motivo oggettivo”, cioè da ragioni inerentinon al comportamento del lavoratore ma a “l’attivitàproduttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funziona-mento di essa” (come la chiusura dell’attività, l’automa-zione della produzione, outsourcing ecc.), che im-

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pongono all’azienda di fare a meno della collabora-zione del lavoratore (riduzione addetti fino a un mas-simo di 4). In precedenza l’insussistenza del requisitovalido faceva scattare la reintegra. Con la riformaFornero se il giudice accerta che non ricorrono gliestremi del giustificato motivo oggettivo, ovvero, inpratica, quando viene camuffato con ragioni econo-miche un licenziamento di altra natura, come è prassinormale per i licenziamenti discriminatori, può con-dannare l’azienda al pagamento di un’indennità risar-citoria in misura ridotta, da 12 a 24 mensilità, tenen-do conto dell’anzianità del lavoratore e delle dimen-sioni dell’azienda stessa, oltre che del comportamen-to delle parti. Può decidere la reintegra nel posto dilavoro, applicando la stessa disciplina prevista per illicenziamento disciplinare, nell’esclusiva ipotesi in cuiaccerti che il licenziamento sia “manifestamente infonda-to”, ovvero “la manifesta insussistenza del fatto” posto abase del licenziamento per giustificato motivo. Per ilicenziamenti collettivi il reintegro resta per la viola-zione dei criteri di scelta e in caso di licenziamentosenza forma scritta.

Il licenziamento discriminatorio è quello effettuatoviolando diritti costituzionali o tutelati dalla legge,(sulla base del credo politico o della fede religiosa;dell’appartenenza ad un sindacato a dalla partecipa-zione a scioperi ed altre attività sindacali; del sesso,dell’età, dell’appartenenza etnica o religiosa,dell’orientamento sessuale, della concomitanza conmatrimonio, maternità o paternità) o in caso di licen-

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ziamento orale (cioè comunicato solo verbalmente).Come in precedenza, il licenziamento è nullo e vieneapplicata la reintegra) e il risarcimento integrale (pari atutte le mensilità perdute, con un minimo di 5 mensi-lità, oltre ai contributi previdenziali e assistenzialinon versati). Tale licenziamento è nullo e ciò obbligail datore di lavoro (qualunque sia il numero dei suoidipendenti) alla riassunzione del dipendente, al risar-cimento di un minimo di 5 mensilità e al versamentodei contributi arretrati. Il dipendente ha in più la fa-coltà di richiedere invece del reintegro un risarcimen-to di 15 mensilità.

La tesi della “precarietà espansiva”

Gli interventi di riduzione delle tutele “eccessive”del lavoro, che, come abbiamo già esaminato, sonodel tutto inesistenti, riflettono la tesi della “precarietàespansiva”, sostenuta anche da Renzi, secondo la qualela maggiore flessibilità dell’offerta di lavoro portereb-be più occupazione, perché, togliendo gli attuali “laccie laccioli”, le imprese, anche straniere, sarebbero invo-gliate ad investire in Italia. Si tratta di una afferma-zione che non ha alcun fondamento in generale e cheè ancor più sbagliata nell’attuale situazione economi-ca, in particolare in Italia, perché “il cavallo non beve”,ovvero non c’è alcuna voglia di investire, per svariatimotivi:

• Mancano gli indispensabili consumi interni,sia privati (per la crescente disoccupazione e

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impoverimento dei salari e dalle pensioni) chepubblici (con il taglio della domanda pubbli-ca) ed esiste un consistente sottoutilizzo degliimpianti rispetto alla domanda solvibile.

• Mancano gli indispensabili investimenti pub-blici infrastrutturali e nell’innovazione per al-zare il livello della matrice produttiva italiana,specie nelle nuove produzioni ad alto valoreaggiunto, in crescita nel commercio mondia-le.

• L’Italia non è attrattiva perché è un paese indeclino economico e demografico.

La tesi della “precarietà espansiva” è stata ormaismentita da innumerevoli studi che hanno dimostra-to esattamente il contrario. Basti citare il rapportoOcse del 2004 sull’occupazione, i dati dell’Isfol, le ri-cerche del Cnel e della C.c.i.a. di Mestre, nonché glistudi di numerosi economisti. Inoltre, come abbiamogià visto in precedenza l’Italia è un campione di fles-sibilità e precarietà e dunque, se la tesi della “precarie-tà espansiva” fosse giusta, dovrebbe vedere una cresci-ta galoppante, mentre è il paese più in recessionedell’Europa che, a sua volta è l’area mondiale più inrecessione del mondo, anche a causa del suicidio eco-nomico causato dalla austerità tedesca.

Dato che le riforme del mercato del lavoro già at-tuate e quelle incorso di approvazione sono finalizza-te ad aumentare la “flessibilità” del lavoro e dunque lasua precarietà, in una situazione già largamente com-

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promessa, è interessate effettuare una ricognizionesulla situazione al riguardo attualmente esistente. Ciagevola il fatto che sono apparsi di recente i risultatidi alcune indagini dell’Istat, relative al bilancio deglieffetti della riforma Fornero, che chiariscono megliol’attuale situazione.

Il contratto a tempo determinato pesa per il16,4%, ma è prevalente nei nuovi rapporti di lavoro(68% nel 2013; fra i contatti a tempo determinato il46,3% ha avuto una durata inferiore al mese, e il19,3% tra i due e tre mesi, il 31% entro un anno,mentre solo il 2,5% ha superato l’anno.

Il Co.co.co, istituito nel ’97 dal “Pacchetto Treu” elargamente abusato dalle imprese, è ormai pressochéabbandonato perché è stato ormai superato dal “con-tratto a progetto” (Co.co.pro) della legge Biagi (tranneche in pochi casi: albi professionali, lavori pubblici,ecc.), che è più specifico nella definizione dell’ogget-to per evitarne la reiterazione, ma è anch’esso abusa-to e scarsamente utilizzato. Ma anche il lavoro a pro-getto (Co.co.pro) è in declino: dopo il calo del 6,5%nel 2012, si è aggiunto un calo del 22% nel 2013(sono ora 503.000 con una riduzione di 145.000 sul2012), con un picco fra i giovani sotto i 30 anni(-30% sul 2012 e -40% sul 2008). La retribuzionemedia annua è di 5.000 euro, da cui scaturiscono esi-gui contributi previdenziali: un terzo di questi giovaninon riesce ad accumulare neppure un mese di contri-buti e 1l 45% da 1 a 5 mesi. Per sapere come cambie-ranno le regole con la riforma occorre attendere

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l’approvazione dei decreti delegati. Il governo ha fi-nora annunciato, in modo spesso contraddittorio, divoler cancellare i soli Co.co.pro, lasciando in piedi lealtre forma di lavoro atipico, estendendo anche aloro l’Aspi (che sostituirà l’indennità di disoccupazio-ne, finanziata attraverso la revisione degli attuali stru-menti di sostegno al reddito, nonché l’indennità dimaternità.

Il contratto di apprendistato pesa per il 2,5% (leprevisioni hanno alleggerito i programmi di forma-zione), Le altre tipologie (intermittente, interinale, ac-cessorio) pesa per il 6%. Il lavoro accessorio (63,5%sotto i 40 anni, specie donne del commercio) con untetto di 5.000 euro all’anno, è pagato con “buoni lavo-ro” (voucher), comprensivi di contributi Inps e Inail.Erano 950.000 per un importo medio di 527 euroannui. Il lavoro con partite Iva e le associazioni inpartecipazione sono in larga parte in realtà un lavorosubordinato fintamente autonomo (12%, circa400.000 persone). La gestione separata dell’Inps per iparasubordinati con 1,3 milioni di iscritti ne ha perso167.000 in un anno e 350.000 rispetto al periodopre-crisi (-11,7% sul 2012, -18% sul 2008).

Il rapporto dell’Istat sul lavoro a tempo parzialemostra una forte crescita di tale fenomeno (+40%dal 2000 al 2013, da tre a quattro milioni), ma ancheuna profonda trasformazione della sua natura. Untempo era prevalentemente femminile, usato perconciliare lavoro e problemi familiari, mentre oggi al-meno un terzo di tali rapporti nasconde situazioni di

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lavoro nero dei falso tempi parziali e ciò è avvenutosoprattutto negli ultimissimi anni, dopo la riformaFornero, con un andamento in forte progressione. Ifalsi tempi parziali nascondono in realtà tempi pienisottopagati (e le ore medie lavorate sono il 40% inpiù di quelle contrattualmente previste) o un utilizzoultra-flessibile (come un lavoro a chiamata secondole mutevoli esigenze produttive dell’azienda), subitodai lavoratori per mancanza di alternative ed è dive-nuto prevalentemente maschile. Più di un quinto deicontratti sarebbe completamente falso e nel 2011, giàprima della recente impennata, gli imponibili non di-chiarati superavano i 2 miliardi. Questo strumento èstato dunque utilizzato dalle imprese per ridurre i co-sti di produzione, dato che sul lavoro non dichiaratonon vengono pagati contributi e imposte e che le orelavorate non dichiarate vengono spesso non retribui-te o sono retribuite in misura minima, inferiore aquella contrattualmente prevista. Esiste anche il fe-nomeno opposto di tempi parziali mascherati datempi pieni, per conseguire i requisiti (78 giornate la-vorative) per maturare l’indennità di disoccupazione,o, nella scuola, per maturare i contributi previdenzialio i requisiti per il conseguimento d’una cattedra, an-che rinunciando, in tutto o in parte allo stipendio.

Va considerato anche il fatto che la precarietà ta-glia la occupazione stabile ma incentiva una occupa-zione di scarsa qualità, bassa produttività e bassissi-ma retribuzione, di brevissimo periodo, ovvero,come abbiamo visto in precedenza, “mordi e fuggi”, di

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pochi mesi e comunque inferiore all’anno, che nonoffre alcuna qualificazione. La cessazione del lavoroper mancata reiterazione del contratto temporaneoalla scadenza non viene computata fra i “licenziamen-ti”.

Ciò traspare anche dalla verifica degli effetti dellariforma Fornero, anch’essa giustificata come un van-taggio per l’occupazione, che però non ha dato, ov-viamente, i risultati sperati: si sono ridotte drastica-mente le assunzioni a tempo indeterminato e, fraquella a tempo determinato, il 67,3% delle assunzioniè a breve o brevissimo termine, a volte addiritturaper un solo giorno. Negli ultimi 25 anni in Italia èesplosa la precarizzazione e c’è stato un crollo delleprotezioni di legge per il lavoro più che in qualsiasialtro paese europeo, ma l’occupazione va semprepeggio.

Esiste poi il problema dello sfoltimento della sel-va di contratti atipici e precari prodotti dal “PacchettoTreu” e dalle leggi successive. Renzi giustifica l’abro-gazione dell’articolo 18 come uno strumento perabolire la precarietà ma, rispetto alle 47 modalitàcontrattuali a tutele ridotte, create a partire dalla Ri-forma Treu, si sta parlando, sembra, di abolire solo icontratti di collaborazione coordinata e continuativa(Co.co.co) e dei contratti a progetto (Co.co.pro), or-mai obsoleti. In compenso la separazione fra vecchie nuovi assunti sembra contribuire a infoltire ulte-riormente la selva delle differenti modalità contrat-tuali, per cui alla fine il risultato potrebbe essere

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un’ulteriore crescita e non una diminuzione delle di-verse fattispecie contrattuali atipiche. Da ultimo il re-cente decreto Poletti ha portato a 5 entro 36 mesi irinnovi senza causale. Non è chiaro cosa avverrà conla nuova riforma. Il professor Del Conte della Boc-coni spiega che “oggi abbiamo una platea di lavoratori sog-getti a regole e tutele troppo differenziate. La riduzione deveesserci ma il punto è prevedere un regime di tutela valido pertutti i contratti e non rendere un contratto più convenientedell’altro. Altrimenti resterà la tendenza allo shopping delleforme contrattuali, favorendo quelle con meno oneri”.

Come si vede tutto ciò nulla ha a che vedere conla libertà di licenziamento illegittimo che, anzi, da unlato non favorisce una crescita qualitativa della pro-duzione, che esige un’occupazione stabile e di qualitàe dall’altro agevola licenziamenti di lavoratori che,data la mancanza di posti di lavoro, non troverannopiù alcuna occupazione. Perciò non ha senso affer-mare che il mercato del lavoro è ingessato dalle ec-cessive garanzie e che liberalizzando i licenziamentiin Italia si possa incentivare nuove assunzioni giova-nili e favorire la ripresa economica. Basti pensare cheil 90% delle aziende in Italia è sotto i 15 dipendenti edunque non deve rispondere agli obblighi dell’artico-lo 18, ma non fanno certo assunzioni in mancanza diuna adeguata domanda interna.

Le riforme si limitano a precarizzare anche i po-chi contratti a tempo indeterminato, che diventanolicenziabili e dunque simili agli altri. Con il contrattoa tutele crescenti, legate all’anzianità di lavoro, o an-

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che per i nuovissimi “contratti Poletti”, a termine senzamotivazione, la stabilizzazione non sarà comunqueaccessibile, perché la stragrande maggioranza dei la-voratori interessati verranno normalmente licenziatiprima. Per i pochi riconfermati con un contratto atempo indeterminato si avrà una sorta di “apartheidgenerazionale”, e saranno sempre comunque esposti allicenziamento fintamente economico.

Dunque il vero obiettivo dell’attuale attacco neiconfronti della reintegra dell’articolo 18 è un salto in-dietro di molti decenni, per restaurare un dominioincontrastato del datore calpestando i diritti indispo-nibili, ma in realtà così non più esigibili, dei lavorato-ri, mentre svariati studi evidenziano l’effetto, deside-rato dalla Ue, di un ulteriore taglio delle retribuzionisotto i minimi contrattuali, già pesantemente falcidia-te. Liberalizza i licenziamenti, rende inesigibili tutti idiritti (alla salute, alla sicurezza, alla maternità, all’atti-vità politica e sindacale), trasforma tutti i lavoratoriin precari instabili, come aveva spiegato lo stessoMonti, sostenendo che occorre dare l’addio al lavorostabile da lui giudicato troppo monotono. Ma oggil’uscita dal lavoro in Italia non è verso un altro lavo-ro, ma verso la disoccupazione cronica con la con-nessa inevitabile miseria.

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IL “CODICE SEMPLIFICATO”, OVVEROIL COSIDDETTO “JOBS ACT”, DELLARIFORMA RENZI-ICHINO-SACCONI

Quali sono le origini dell’attuale attacco all’articolo 18 e quali sono i suoi sostenitori?

Il ministro dell’interno Angelino Alfano, inun’intervista su La Repubblica ha affermato che latutela sul licenziamento “è un totem degli anni ’70 e nonè stato abolito finora perché ha retto un asse fra il Pd e i sin-dacato, ma ormai è venuto il momento di mettere davanti atutti la necessità di dare un lavoro a chi non ce l’ha, liberandoda ogni laccio l’imprenditore che vuole assumere qualcuno esbloccare l’idea che un’assunzione sia un matrimonio a vita.L’abolizione dell’articolo 18 a questo punto diventa necessa-ria” e ne ha chiesto “l’abolizione entro la fine d’agosto”.Una posizione inizialmente respinta da diversi espo-nenti governativi, ma poi assunta da Renzi, che ha af-fermato “sul Jobs Act siamo pronti anche a intervenired’urgenza, anche sulla base delle sollecitazioni europee, per di-mostrare che fa sul serio e ottenere in cambio una maggioreflessibilità dei conti pubblici italiani rispetto ai vincoli del Pat-to di bilancio. Viene sostenuta anche da Maurizio Gasparriper Forza Italia, che promette di far “uscire allo scoperto chiveramente vuole tenere imbrigliata l’Italia”.

In effetti, come abbiamo visto, l’origine della sop-pressione dell’articolo 18 risiede proprio nelle posi-zioni tradizionali della destra, che lo considera unsuo patrimonio ideologico, ma i suoi contenuti costi-

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tuiscono la concretizzazione del modello di(contro)riforma dell’articolo 18 e della sostanzialesoppressione della reintegra tracciato ormai da annida Ichino.

Ma il “Jobs Act” risponde anche al tentativo diRenzi di scambiare una riforma simbolo chiesta dallaUe con una flessibilità di bilancio (ma entro il 3%,che non basta certo alle esigenze di crescita dell’Ita-lia), ma si tratta d’un risultato reso difficile dai rigur-giti di rigorismo suicida della Germania e della Com-missione, ormai infarcita da “kamikaze” dell’austerità,come il finlandese bocciato alle elezioni nel suo pae-se proprio per il suo fanatismo nel promuovereun’austerità fondamentalista.

Ma anche Draghi sollecita il “Jobs Act” per giusti-ficare il suo intervento di sostegno finanziarioall’economia europea a fronte dei continui pesanti at-tacchi della Germania, che sembra ormai preda d’unirrimediabile “cupio dissolvi”. Sacconi ha spiegato che“siamo attesi da tutte le istituzioni sovranazionali alla provadi discontinuità sul mercato del lavoro”.

Il porto delle nebbie

Il provvedimento di riforma del mercato del lavo-ro è molto stringato ed alquanto nebuloso nella for-mulazione della delega. Presenta, secondo Pomicino,“un testo legislativo che a leggerlo impressiona per la sua gene-ricità e per un linguaggio talmente ermetico da capirci poco an-che dopo averlo letto più volte. Forse non si sa ancora come ri-

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formare il mercato del lavoro o perché si vuole avere poi cartabianca con una delega generica?”.

Presenta anche problemi di una applicazione noncorretta, perché si tratta, nella sostanza, d’una vera epropria delega in bianco, mentre la norma che regolale leggi delega impone una chiara e precisa definizio-ni dei concreti obiettivi da raggiungere. Viene avan-zata anche una critica circa la legittimità costituziona-le rispetto alla adozione d’un decreto legge che nellasua stesura generica non rispetta i precisi requisiti ri-chiesti per garantire i contenuti dei relativi decreti de-legati, che non prevedono un voto di ritorno in aula.

Infatti l’articolo 76 della Costituzione consente didelegare al governo di emanare decreti legislativi masolo sulla base e con l’osservanza dei “principi e criteridirettivi” fissati nella stessa legge delega. Si tratta dun-que d’una indicazione molto generica che non indivi-dua i criteri e gli obiettivi della riforma.

Per questo motivo il “Job act” e i suoi decreti at-tuativi incorrerebbero, secondo Piergiovanni Alleva,in un giudizio di incostituzionalità sulla base dellasentenza n. 340 dell’8 ottobre 2007, secondo la quale“il libero apprezzamento del legislatore delegato non può maiassurgere a principi o criteri direttivo, in quanto agli antipodidi una legislazione vincolante, quale è, per definizione, la legi-slazione su delega”.

Trattandosi d’una legge delega, il governo ha tem-po un anno per stendere i decreti delegati, ma ne po-trebbe anticipare alcune parti con un decreto.

Discutibile è anche la procedura seguita, prima

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negando il confronto col sindacato e poi limitandoloa un’informativa d’una sola ora, quasi offensiva, tan-to che persino il Financial Time ha spiegato che “hadato loro solo 60 minuti, iniziando alle 8 di mattina” e, ci-tando una frase di Susanna Camusso “solo una voltaprima di adesso è stata vista in Europa una tale assenza didialogo sociale, con la Tatcher”. Sono in gioco il ruolo delsindacato e gli assetti di medio e lungo periodo dellasocietà italiana.

Primeggiano idee di Pietro Ichino, sostenute findagli anni ’90 e attaccato dalla sinistra. Mentre Renzirifiuta un vero confronto col sindacato, usa “esperti”che provengono tutti dalla parte datoriale ed esautoradi fatto tenendosi le mani libere nella definizione deidecreti delegati, sostenendo che “la difesa dell’art 18 èuno slogan del passato e chi non lo capisce è un retrogrado,questa sarà anche la nostra risposta all’Europa e a chi vor-rebbe fermarci”.

Il nodo centrale della riforma

La legge delega mira a un complessivo cambia-mento del diritto del lavoro, attraverso la “redazione diun testo organico di disciplina delle tipologie contrattuali delrapporto di lavoro semplificato”. Dovrebbe dunque intro-durre il “Testo unico semplificato” (Tus), “sostitutivo delloStatuto dei Lavoratori”, che cancella i capisaldi della tu-tela del lavoratore nella disciplina dei rapporti di la-voro, con un ulteriore ampliamento della precarietà.

Ma il punto più controverso della nuova riforma

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del lavoro (Jobs act) Renzi-Ichino-Sacconi, che riflettele posizioni sostenute da ormai molti anni da Ichino,riguarda i licenziamento individuali. Renzi ha sinte-tizzato la proposta nello slogan “via il reintegro sìall’indennizzo” per tutti i lavoratori.

Dato che Renzi ha dichiarato “non c’è cosa più ini-qua che dividere i cittadini tra quelli di serie A e quelli di se -rie B” mentre mantiene quasi per intero i contratti“precari” esistenti, introducendo una ulteriore divari-cazione fra giovani e anziani, non è ancora chiaro se,nella stesura dei decreti delegati verrà mantenuta ladifferenziazione per i nuovi assunti o se la precariz-zazione sarà generalizzata.

Anche se il tema centrale dell’attuale dibattito èl’articolo 18, con la mancata reintegra del lavoratoreingiustamente licenziato, questo non viene neppurenominato.

La novità fondamentale del “Job Act” rispetto allalegge Fornero, che nel 2012, ha profondamente mo-dificato la disciplina sui licenziamenti individuali, èche con la nuova ipotesi riformata sull’articolo 18,contenuta nella legge delega, non è più possibile unareintegra decisa dal giudice per i licenziamenti econo-mici “manifestamente infondati”, ovvero usati per ma-scherare un licenziamento dovuto ad altre ragioni.Resta invece per i licenziamenti disciplinari, ma neviene ulteriormente ridotta la portata a casi estremi, eper quelli discriminatori, che è tuttavia oltremododifficile perseguire.

Ciò significa “in modo inequivoco che la sanzione della

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reintegrazione deve essere riservata ai soli casi estremi, quellidel motivo illecito determinante, come la discriminazione o larappresaglia antisindacale’’, spiega Padovan.

Il problema è che con la nuova normativa questesituazioni sono assolutamente indimostrabili, perchéesigerebbero la “prova diabolica”.

La nuova normativa si applicherà a tutti i nuovicontratti di lavoro, ma non a quelli attualmente in es-sere fino alla loro cessazione (anche nel caso di “ces-sione di contratto”, come la cessione di rami d’azienda,ma la questione è ancora incerta), ma ciò rappresentaun vero e proprio invito ad effettuare un’ondata di li-cenziamenti in favore della applicazione della nuovanormativa.

Viene così attaccata la pietra angolare su cui èfondato il sistema di diritti e tutele dello Statuto deilavoratori e dunque la sua rimozione ha il senso di unsuo complessivo superamento verso un “modello Tat-cher”, con un “ritorno all’800”, come ha affermato Su-sanna Camusso.

In una visione conservatrice che torna oggi ad es-sere dominante questa libertà di movimento del pa-dronato è interpretata come il motore dello sviluppodegli anni del boom economico, prima dell’introdu-zione dello Statuto dei lavoratori, da riproporre an-cor oggi.

Prevede soprattutto una clausola di licenziamentoche non può essere sindacata dal giudice. Si tratta insostanza della complessiva demolizione dello statutoe del ritorno alla repressione del “regime di fabbrica”

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deli anni ’50 o, come dice la Camusso, dell’800, primadelle grandi conquiste del mondo del lavoro.

Potranno così iniziare le epurazioni (di chi sciope-ra, svolge attività sindacale o politica, o intende spo-sarsi o avere un figlio). È la via maestra per concen-trare sempre più lavoro, sempre meno pagato: finti“stage” brevissimi e malpagati e tempi parziali constraordinari non pagati.

Colpisce i lavoratori, ma anche la loro organizza-zione collettiva nei sindacati. Basta guardare le ade-sioni, al sindacato molto ridotte e quasi insignificanti,nelle piccole aziende, nell’artigianato e fra i giovani,che non derivano da un fatto culturale, ma dal timorefi perdere il lavoro, così faticosamente raggiunto, nonessendo protetti dalle tutele dell’articolo 18.

Gli altri contenuti del “Jobs Act”

Oltre che sull’articolo 18, il governo vuole inter-venire anche sul demansionamento del lavoratore,per garantire una “mobilità interna alle aziende”, rive-dendo l’articolo 13 dello Statuto dei lavoratori, e in-troducendo il demansionamento, e consentendo lavideosorveglianza a distanza dei posti di lavoro. “Sa-rebbe sbagliato”, secondo Del Conte, professore dellaBocconi, “intervenire lasciando mano libera alle aziende, siasulle mansioni che sui controlli”, sarebbe meglio seguirel’esempio tedesco che prevede “l’intervento dei consiglidi fabbrica e la loro partecipazione alla governanza”, perché“è sul luogo di lavoro che si capiscono meglio i processi. Affi-

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dare ancora di più al solo datore di lavoro le funzioni orga-nizzative avrebbe, come sanno perfettamente le imprese, unimpatto negativo sulla produttività, abbattendola”. L’inten-zione è quella di proseguire poi con la liberalizzazio-ne dei licenziamenti collettivi.

Lo scontro attualmente in atto

Secondo molti osservatori lo scontro attuale è pa-ragonabile a quello con Craxi sulla scala mobile e aquello con Berlusconi sull’articolo 18, che ha portatoalla manifestazione del 23 marzo 2002. Non riguardacertamente solo il merito, pur assai rilevante, perchécostituisce la pietra angolare di tutto lo Statuto dei la-voratori, ma costituisce anche un attacco durissimoal ruolo negoziale del sindacato, che punta ad unasua marginalità e persino al suo superamento.

Naturalmente, secondo Treu “il premier non cerca loscontro, sta ai sindacati cambiare atteggiamento, devono deci-dere se arroccarsi o no, senza reintegro e con l’indennizzo leaziende stanno più tranquille”. Squinzi ha detto: “Renzi,tu realizzi i miei sogni”, ma anche molte imprese giudi-cano inutile e inopportuno una scontro col sindacatoin un momento economico difficile come questo,che esigerebbe invece un forte impegno comune perlo sviluppo, che è l’unica soluzione possibile e indi-spensabile per una ripresa dell’occupazione.

Renzi, assieme a molti giornali, sostiene che sitratta d’un “totem” ideologico dei sindacati, senzagrandi aspetti concreti, perché il numero dei casi por-

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tati in giudizio è assai esiguo. Il problema è che se sitrattasse solo di un “totem”, lo sarebbe anche per lui enon si comprende perché invece insiste a portarloavanti, mentre i casi sono esigui proprio perché lalegge impediva finora di praticare i falsi licenziamentieconomici per obiettivi discriminatori e di rappresa-glia, che la nuova legge invece di fatto consentirà, no-nostante le affermazioni contrarie, mentre i licenzia-menti saranno più facili e incentivati dal fatto che inuovi rapporti sono senza protezione.

Il lavoratore potrà essere liberamente licenziato inqualsiasi momento durante il precariato a tempo, masoprattutto, data la grande disponibilità di disoccupa-ti, e la durata media attuale del lavoro a tempo deter-minato, avrà mano libera nel lasciare a casa il lavora-tore prima del termine di conferma (di cui è ancorain discussine la durata triennale o sessennale, che saràdefinita dai decreti delegati), evitando qualsiasi vinco-lo. Non a caso Draghi s’è preoccupato di dire chenon ritiene che la nuova legge provocherà licenzia-menti di massa, ma si tratta d’una smentita che sem-bra essere invece una conferma.

Per di più la proposta d’una defiscalizzazionetriennale delle nuove assunzioni, unita alla licenziabi-lità illegittima senza reintegra, può essere, per molteimprese, una ghiotta occasione per ridurre il costodel lavoro sostituendo lavoratori maturi con giovani,su una platea occupazionale complessiva in costanteriduzione a causa della carenza di domanda internache viene aggravata da questi provvedimenti. Se si

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considera che già oggi in Italia esiste il vasto fenome-no del cosiddetto “invecchiamento sociale”, per cui moltilavoratori vengono licenziati attorno ai cin-quant’anni, ma debbono attendere ancora quasi altrivent’anni per avere una pensione, spesso assai miserae in declino, accanto ai “né né” giovani (né studio nélavoro) cresceranno i “né né” anziani, con il fattoreaggravante che, mentre i giovani ritardano l’uscitadalla famiglia d’origine fin oltre i trent’anni, con unconseguente calo demografico, ma vengono mante-nuti dai genitori (i cosiddetti “bamboccioni”, che sonotali per mancanza di lavoro), gli anziani erano quelloche spesso mantenevano una famiglia, compresi i fi-gli adulti disoccupati e dunque in tal caso la tragediaè ancora maggiore. Il problema della ricomposizionesociale deve affrontare il nodo dell’avvenuto supera-mento della classica divisione fordista tra primo eterzo mondo, perché la globalizzazione, attraverso lespinte del mercato non governate politicamente, lepone ovunque in concorrenza diretta fra loro pro-prio sul costo del lavoro.

Le ragioni di una battaglia

Il governo Renzi insiste, incontrando forti diffi-coltà, sulle “riforme” istituzionali come quella del mo-nocameralismo con la trasformazione del Senato inun’istanza di secondo livello, l’abolizione delle pro-vincie e del Cnel, la riduzione dei tribunali, la riformadel Csm, per dimostrare alla Ue che sta facendo i

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“compiti a casa” ed ottenere una maggiore “flessibilità”nei vincoli di bilancio. Ma in realtà sono altre le co-siddette “riforme” richieste dalla Commissione euro-pea e dalle istituzioni internazionali, riunite nelle co-siddetta “Troika”, la Bce e il Fmi, che erano già statedettate nella lettera di Van Rompuy e in quelle diDraghi al governo italiano, come condizione per in-tervenire contro la speculazione finanziaria interna-zionale che si accaniva contro il debito pubblico ita-liano, elevandone fortemente il costo del servizio.Come ha confermato l’ex ministro delle Finanze Vi-sco, “l’hanno chiesto quelli che comandano e non è certo quelche serve al mercato del lavoro”, o, come sostiene la Ca-musso, “è uno scalpo per i falchi della Ue” che Renzi hapresentato alla riunione europea di Milano dell’8 ot-tobre. Ciò spiega l’indisponibilità di Renzi a discuteredi possibili modifiche: è un trofeo che deve conse-gnare all’Europa, e in particolare alla Merkel, per di-mostrare che fa sul serio, sperando in una modesta einsufficiente “flessibilità”, un allentamento dei vincolidi bilancio che gli verrà comunque probabilmentenegata.

Va considerato il fatto che la liberalizzazione deilicenziamenti ingiustificati, chiesti dalla Commissioneeuropea sulla base di un’erronea interpretazione delleleggi italiane sul lavoro, come dimostrato anche daBankitalia, serve anche a Draghi per poter giustifica-re la prosecuzione della sua operazione di rifinanzia-mento per salvare l’euro, duramente attaccata dalleGermania, ma anche a Renzi, che è stato accusato in

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Europa, oltre che in Italia, di non essere riuscito arealizzare nessuno dei programmi annunciati e inten-de portare l’approvazione del “Jobs Act”, nella spe-ranza di portarlo come trofeo simbolico alla riunioneeuropea di Milano sul problema del lavoro, da luiconvocata per lo’8 ottobre, al fine di ottenere unamaggiore flessibilità, che intende forzare al di là del3% che si era in precedenza assegnato come obietti-vo.

Un cambiamento antropologico?

Ma non c’è solo questo. Renzi non vuol più sentirparlare di “padroni” (come ha fatto invece D’Alema),perché parla di un “imprenditore che si spacca la schienaper aprire l’azienda”. Un’affermazione che non convin-ce, se si pensa alla ancor vasta diffusione del capora-lato, alla vasta presenza di aziende mafiose, ma anchea quelle imprese che non rispettano le regole sulla si-curezza causando infortuni spesso mortali, a quelleche inquinano acqua e aria con emissioni tossiche,alle numerosissime imprese che trattano i loro dipen-denti come veri e propri schiavi malpagati, col ricattodel licenziamento per chi rivendica i propri diritti e lepropria dignità. Ha dunque ragione Camusso quandoparla di un a volontà di farci ritornare alla situazionedell’800, prima delle conquiste di diritti e democraziaprodotte da più d’un secolo di grandi lotte dei lavora-tori. Di fronte al rifiuto dei sindacati, Renzi ha detto“ma dove eravate voi quando è cresciuta il precariato?” e gli è

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stato risposto che la legge Treu l’ha fatta i parlamen-to e non il sindacato, che manifestava invece nellepiazze.

Rispetto all’attuale conflitto sull’articolo 18, uninteressante intervento di Polo Cirino Pomicino so-stiene che “lo scontro attuale sulla riforma del mercato dellavoro, e in particolare sull’articolo 18, ricorda da vicino loscontro che avvenne alla metà degli anni ottanta sulla riformadella scala mobile tra il governi di centro sinistra guidato daBettino Craxi e il Pci di Enrico Berlinguer. Lo scontro eratutto politico e alimentato da visioni strategiche diverse sul fu-turo della sinistra italiana tra Berlinguer e Craxi, come oratra Renzi e la minoranza del Pd sul futuro del Pd. Da unlato un grande partito personale che declinerebbe un giornocome il suo leader, come è sempre accaduto nella storiadell’umanità, dall’altra un partito saldamente ancorato a unacultura di riferimento e collegialmente organizzato nei suoiprocessi decisionali. Oggi sembra che le ragioni strategiche sulterreno politico pendono dalla parte della minoranza del Pd.Purtroppo a entrambi i contendenti, così come al sindacato,sfugge la vera sfida che l’Europa e il mondo hanno davanti, lacrescente egemonia d’un capitalismo finanziario selvaggio cheper alimentarsi in ricchezza e potere deve desertificare largaparte dell’economia reale e coltivare diseguaglianze intollerabi-li”.

Quello che descrive con acume Pomicino è unafrattura che non è solo politica, ma è molto più pro-fonda, di carattere culturale, di una diversa “visione delmondo”. Renzi sostiene di voler fare la riforma del la-voro “per cambiare l’Italia, come ci hanno chiesto gli eletto-

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ri”, ma anche per cambiare il Pd, come ben testimo-nia la sua affermazione “la vecchia guardia è spianata”.Ha affermato, in una trasmissione di Fabio Fazio suRai 3, che “se l’imprenditore deve fare a meno di alcune per-sone, siccome l’imprenditore non è cattivo, deve avere anche ildiritto di lasciare a casa alcune persone” e perciò RenatoBrunetta ha dichiarato che “il premier ci ha rubato ilpensiero”, mentre Sallustri dice che “Renzi sta facendociò che il centro destra ha tentato di fare, senza riuscirci, da18 anni”, ma anche Pippo Civati afferma “Sono moltopreoccupato, sento il premier dire cose di destra, simili a quelloche diceva la destra dieci anni fa”. Ma il richiamo allasvolta del ’59 di Bad Godesberg, quando la socialde-mocrazia tedesca ha ripudiato la lotta di classe, è im-proprio, perché quella scelta era stata effettuata nelpieno d’un boom economico che aveva garantito lapiena occupazione, mentre la scelta odierna del “JobsAct” di Renzi avviene nel corso d’una grande depres-sione senza precedenti, con una disoccupazione im-pressionante, contribuendo così a peggiorarla.

Angelo Panebianco in un fondo sul Corriere hasostenuto che “Renzi sta toccando l’identità stessa della si-nistra italiana … e sta calcando le orme di Tony Blair” nellasua battaglia contro le Trade Unions, e “sulla riformadel lavoro Renzi si sta giocando la partita della vita: o i suoioppositori lo ridimensionano, magari riuscendo anche a farlofuori, oppure difficilmente riusciranno a fermarlo in futuro.Sdoganando il diritto il diritto a licenziare Renzi sta com-piendo una rivalutazione drastica del ruolo dell’impresa al co-spetto della sinistra”. Le sue argomentazioni, sostiene

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Marco Valerio Lo Prete “hanno esplicitamente riabilitatoil ruolo del mercato. Dire che l’imprenditore non è cattivo e chele sue ragioni meritano più ascolto di quelle di un giudice dellavoro sui licenziamenti individuali, vuol dire ribaltarel’approccio degli ultimi 44 anni”.

Non mancano anche le accuse di incompetenza,avanzate da D’Alema e quelle sul piano della corret-tezza, dalla Anm, che accusa Renzi di falsità, mentreBersani ha affermato “no al metodo Boffo: se uno dice lasua, deve poterla dire senza che gli venga tolta la dignità”.

Un argomento spesso invocato dai vari governicome alibi per giustificare i ritardi nella propria azio-ne, è stata l’ostilità del “poteri forti”: uno slogan richia-mato moltissime volte da Berlusconi, ed ora usatoanche da Renzi. Il dubbio che sorge deriva dal fattoche di “poteri forti” italiani non se ne vede più neanchel’ombra (vengono definiti “poteri mosci”, impotenti efiacchi, in disfacimento, da Davide Giacalone), men-tre assistiamo ad una profonda e progressiva coloniz-zazioni da parte dei poteri economici stranieri, nonsolo europei (tedeschi, francesi, spagnoli), ma anchecinesi, indiani, sudafricani, ecc. I cosiddetti “poteri for-ti” italiani sono solo le succursali periferiche di grup-pi stranieri. Se invece di poteri forti si parla di “con-venticole”, spesso in lotta fra loro, allora va ricordatocome la marcia trionfale di Renzi sia stata sostenuta epromossa da una parte significativa dei “media” chene hanno sostanzialmente creato l’immagine pubbli-ca vincente, sulla base del “nuovismo”, contrapposto al“vecchiume” di partiti, sindacati, magistrati e così via.

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Oggi possiamo registrare il fatto che la “luna dimiele” è ormai tramontata e questi suoi vecchi soste-nitori, assieme persino alla Cei e al Vaticano, sembra-no sempre più insofferenti della sua azione politicache giudicano inefficace e inconcludente, lamentan-do un eccesso di promesse e un deficit di realizzazio-ni.

In particolare sono molto numerose le voci checonsiderano con grande irritazione l’aver sollevato,per soddisfare le brame europee, uno scontro ideolo-gico e simbolico (naturalmente accusando di esserelegati ad un “totem” ideologico i propri avversari), de-stinato, secondi le rilevazioni economiche, a peggio-rare l’occupazione, bloccando anche per mesi il par-lamento in una situazione economica sempre piùdrammatica che esigerebbe iniziative incisive per losviluppo. Persino Della Valle, che aveva finanziato lasua ascesa, lo ripudia proponendo un governo diver-so.

La reazione più importante, per il peso politicoche assume, è stato l’editoriale di De Bortoli, diretto-re del Corsera, che ha attaccato duramente Renzi, ac-cusandolo di inefficacia e concludendo con un’accu-sa di “massoneria” (naturalmente non riferendosi aquella ufficiale, ma a quella “coperta” dei poteri occul-ti, come la P2, infiltrati nei gangli dello stato), rife-rendosi chiaramente al “patto del Nazzareno”, fattocon Berlusconi (membro della P2), i cui contenutisono finora rimasti segreti.

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Ciò che serve all’economia italiana

Il nuovo modello europeo è oggi basato su unacompetitività fondata sul taglio dello stato sociale edei diritti dei lavoratori, ma si tratta di un modello disottosviluppo: una produzione buona esige un lavorobuono, stabile, ben retribuito e tutelato. L’attaccoall’articolo 18 è dunque squisitamente politico e dise-gna un modello sociale autoritario e inaccettabile, disvalorizzazione del lavoro e di restaurazione della li-bera licenziabilità padronale, che intacca la stessa de-mocrazia rappresentativa. Si legittima così l’azione diMarchionne di esclusione della Fiom dai luoghi di la-voro e il mancato reintegro in fabbrica dei lavoratorilicenziati per attività sindacale e reintegrati dalla ma-gistratura, ma anche l’ormai diffuso licenziamentodelle lavoratrici in maternità.

“Si sono perciò preferiti target simbolici rispetto ad obietti-vi reali, eludendo il principale problema del quale soffre il no-stro sistema economico, quello della bassa crescita della pro-duttività. Per ciò che si è appena detto, questo problema nonpuò avere fondamento in una scarsa collaborazione dei lavora-tori dovuta alla loro elevata protezione. La scarsa dinamicadella produttività non è imputabile a lavoratori fannulloniperché protetti, semplicemente perché la nostra legislazione nonprotegge i lavoratori più di quanto essi non siano protettiall’estero; anzi, li protegge di meno. Ciò a cui essa va inveceimputata è l’incapacità della nostra classe dirigente, sia im-prenditori sia politici. I primi hanno seguito strategie azienda-li di breve respiro, che sono risultate negative per il nostro si-

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stema economico (scarsa innovazione tecnologica e organizzati-va e mancato riposizionamento della specializzazione produt-tiva). I secondi hanno peggiorato la performance del settorepubblico, contribuendo negativamente ai fattori esterniall’impresa che influenzano la produttività”.

Susanna Camusso ha dichiarato “Mi sembra che ilpresidente del consiglio abbia un po’ troppo in mente il model-lo della Thatcher”. Non si tratta semplicemente diun’affinità politica ma di una identità di obiettivi, sianella volontà populista di colpire il sindacato, eluden-do qualsiasi confronto (“il sindacato sono io” ha dettoRenzi), che nella qualità della proposta che vede nellalibertà di licenziamento un fattore propulsivo perl’economia, anche se le rilevazioni economiche sug-geriscono proprio il contrario.

Per giustificare la (contro)riforma vengono usatialcuni argomenti assolutamente falsi:

• Gli imprenditori non investono perché è dif-ficile licenziare: gli investimenti mancano per-ché, con l’impoverimento della popolazionedeterminato dalle politiche di austerità, man-cano i consumi c’è un eccesso di capacitàproduttiva inutilizzata. La matrice produttivaitaliana è a bassa qualità del la-voro e perciònon è in grado di assorbire laureati che fug-gono all’estero per trovare un lavoro

• Il mercato è del lavoro italiano è rigido per-ché il lavoratore è troppo protetto dal licen-ziamento: secondo l’Ocse la protezione dal li-cenziamento individuale dell’Ocse è fra i più

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bassi d’Europa, assai inferiore a Francia eGermania.

• Le tutele dei lavoratori a tempo indetermina-to impediscono ai giovani di essere concor-renziali nei loro confronti, per cui i licenzia-menti favoriscono l’ingresso dei giovani: è or-mai chiaramente provato che la libertà di li-cenziamento riduce l’occupazione e dunquedanneggia anche i giovani; inoltre riduce ulte-riormente i consumi e dunque l’occupazionefutura.

• Occorre seguire il modello spagnolo o tede-sco: il modello spagnolo, fatto di tagli drasticidi salari e pensioni e di licenziabilità sta pro-ducendo una ulteriore crescita della disoccu-pazione, mentre il modello tedesco dei“mini-lavori”, che riguarda un quarto dei la-voratori e oltre la metà dei neoassunti è una“precarietà” legalizzata, con un tetto salarialedi 450 euro, contributi previdenziali mi-nimio assenti e straordinari non pagati, il tuttousato come “dumping sociale” contro gli altripaesi della Ue.

• Esiste una eccessiva disparità di tutele fra iltempo indeterminato e i numerosissimi con-tratti “flessibili”: è vero, ma va superata esten-dendo i diritti, non facendo diventare tuttiprecari come nel con-tratto unico del JobsAct.

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• Riducendo le tutele (e, di conseguenza, i sala-ri) si favoriscono gli investimenti esteri: la ri-dotta attrattività dell’Italia non deriva certadalla pretesa rigidità del lavoro, ma dal decli-no dei consumi in-terni.

Il governo sostiene che si mantiene la reintegraper i licenziamenti discriminatori e di rappresaglia,come prevede la Costituzione, ma non è, di fatto,vero. Tali licenziamenti vengono sempre mascheratida motivi economici e se non sussistono è previstol’indennizzo, mentre è praticamente impossibile di-mostrare che tale licenziamento immotivato è origi-nato da una volontà discriminatoria, perché non ba-sta l’evidenza dei fatti, occorre dimostrare l’intenzio-ne del padrone, ma occorrerebbe leggergli nel pen-siero e per questo viene definita dai giuristi la “provadiabolica”. Dunque solo la reintegra per l’inesistenzadi motivi economici8, abolita dal Jobs Act, può di-fendere dai licenziamenti di discriminatori, altrimentidi dà via libera al licenziamento di chi sciopera o èiscritto al sindacato (modello Fiat) o semplicemente,alle donne in gravidanza, co0n un ritorno alla “ditta-tura di fabbrica” degli anni ’50.

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