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Gestalt Mental Training nel Tiro a Volo L’ applicazione dei principi della Psicoterapia Gestalt nell’allenamento mentale con un atleta del tiro a volo A cura di Emiliano Bernardi Istituto Gestalt Firenze sede di Roma Anni Accademici 2009 2012

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Gestalt Mental Training nel Tiro a Volo

L’ applicazione dei principi della Psicoterapia Gestalt nell’allenamento

mentale con un atleta del tiro a volo

A cura di Emiliano Bernardi

Istituto Gestalt Firenze sede di Roma

Anni Accademici 2009 – 2012

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Capitolo 1

Storia e discipline del tiro a volo

Le origini

Nella seconda metà dell’ottocento, gli statunitensi attribuirono un impiego diverso alle

palle di vetro ornamento degli abeti natalizi ideando un gioco di abilità che consisteva

nel colpire queste palle che venivano lanciate in aria da apposite macchine chiamate

balltraps. Questo "passatempo" divenne in breve un esercizio popolarissimo in America,

mentre in Europa non trovò molto entusiasmo in quanto considerato divertente, ma

poco impegnativo. Diversamente fu accolta nel 1880 la proposta, sempre di marca

statunitense, di un bersaglio mobile in argilla a forma di disco.

Il bersaglio si diffuse molto nei paesi anglosassoni con il nome di clay-bird (uccello

d'argilla), quindi come pigeon d'argile (piccione d'argilla) in Francia ed infine in Italia e

Spagna dove il dischetto fu ribattezzato piattello.

L'effetto Olimpiadi (il tiro a piattello specialità Trap o Fossa Universale fu ammesso

come sport facoltativo ai Giochi di Parigi del 1900) giovò senz'altro alla promozione

internazionale della disciplina.

Nel 1926 un appassionato industriale del settore, Ettore Stacchini, fondò la Federazione

Italiana Tiro al Piccione d'Argilla (FITPA) che riuscì a riunire 30 società di tutte le

regioni italiane. L'anno successivo la FITPA si trasformò in FITAV (Federazione

Italiana Tiro a Volo) ed entrò a far parte del CONI con 151 società e 916 tiratori, sotto

la guida del suo fondatore che ne divenne il primo Presidente.

La diffusione non fu immediata, ed il problema dell'impiantistica rallentò l'espandersi

della disciplina fino agli anni '30 quando Stacchini decise di far organizzare a Roma sia

i Campionati Mondiali che gli Europei dell'unica specialità di tiro al piattello

conosciuta, la Fossa Olimpica. Nella successiva edizione italiana degli Europei, nel

1940 sempre a Roma, l'Italia ottenne la prima affermazione internazionale con Giuseppe

Melini, ma si dovettero attendere altri 10 anni per il primo titolo mondiale, la vittoria di

Carlo Sala a Madrid nel 1950 con il punteggio record di 296/300. La prima spedizione

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italiana alle Olimpiadi, nel 1952, ad Helsinki, non fu molto fortunata, infatti, Galliano

Rossini giunse settimo e Italo Bellini finì ottavo. Ma l'appuntamento con la vittoria

Olimpica fu solo rimandato; nel 1956 a Melbourne, ancora Rossini centrò l'oro

Olimpico, mentre Sandro Ciceri si aggiudicò il bronzo e quattro anni più tardi, a Roma,

sempre Rossini sfiorò un clamoroso bis ottenendo l'argento e nel 1964, alle Olimpiadi di

Tokio Ennio Mattarelli vinse l'oro. L'altra specialità, lo skeet, fece il suo esordio alle

Olimpiadi nel 1968, e l'argento di Romano Garagnani lasciò ben sperare per il futuro,

ma l'esplosione in campo internazionale avvenne nel 1978 con il titolo mondiale di

Luciano Brunetti e di Bianca Rose Hansberg, ed il titolo europeo nuovamente di

Romano Garagnani.

Nel 1972, alle Olimpiadi di Monaco di Baviera fu ancora protagonista la Fossa

Olimpica con un altra medaglia d'oro che conquistò Angelo Scalzone, seguito al terzo

posto da Silvano Basagni e nel 1976 a Montreal Ubaldesco Baldi portò a casa una

medaglia di bronzo. Il 1980, alle Olimpiadi di Mosca, fu l'anno che incoronò per la

prima volta campione olimpico, sempre nella Fossa Olimpica, Luciano Giovannetti che

si riconfermò nel 1984 a Los Angeles e fu il primo a vincere due Olimpiadi consecutive.

Sempre a Los Angeles Luca Scribani Rossi si aggiudicò il bronzo nello Skeet.

Nel 1989 fece la sua prima comparsa in ambito internazionale l'attuale terza disciplina

Olimpica, il Double Trap. Al termine dei Campionati Mondiali di Fossa Olimpica e

Skeet di Montecatini Terme, la FITAV decise di organizzare, con il benestare

dell'Unione Internazionale di Tiro, una competizione open di Double Trap.

Alle Olimpiadi di Barcellona nel 1992 l'Italia del Trio a Volo vinse due medaglie di

bronzo, una nella Fossa Olimpica con Marco Venturini ed una nello Skeet con Bruno

Rossetti.

Grazie all’ufficializzazione Olimpica della nuova specialità (dicembre 1991), ai giochi

di Atlanta 1996 le gare di Tiro a Volo passarono da due a quattro (Trap e Skeet

maschile, Double Trap maschile e femminile). E l’edizione del Centenario rilevò,

peraltro, in assoluto l’Olimpiade più trionfale per il tiravolismo italiano: gli azzurri

incamerarono infatti tre medaglie. Ennio Falco vinse l’oro nello Skeet e sul podio con il

capuano salì anche Andrea Benelli, terzo classificato. Il quarantaseienne Albano Pera

catturò invece la medaglia d’argento proprio nel Double Trap.

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Nell' Olimpiade di Sydney 2000 Deborah Gelisio ha vinto l'argento nel Double Trap e

Giovanni Pellielo il bronzo nella Fossa Olimpica.

La storia del tiro a volo è quindi ricca di successi: in dodici edizioni dei giochi Olimpici

il Tiro a Volo Italiano ha conquistato 6 medaglie d'oro, quattro d'argento e otto di

bronzo, e numerosissimi tra Campionati del Mondo, Coppe del Mondo e Campionati

Europei. L'ultima grande affermazione è avvenuta nel 2003 con la vittoria della Coppa

del Mondo da Parte di Giovanni Pellielo nella Fossa Olimpica e di Ennio Falco nello

Skeet. Nella stessa competizione Massimiliano Mola si è piazzato al terzo posto nella

Fossa Olimpica.

Nel 2004 ad Atene gli azzurri bissarono il successo del 2000 conquistando altre due

medaglie. Il vercellese Giovanni Pellielo migliorò il risultato di Sydney conquistando

un argento nella Fossa Olimpica ed il fiorentino Andrea Benelli arrivò all'oro e al titolo

di Campione Olimpico nello Skeet Maschile.

A Pechino 2008, hanno segnato un nuovo record per il Tiro a Volo azzurro. Il risultato

quantitativo ha eguagliato quello dell''edizione del 1996 ma lo ha migliorato

qualitativamente. L'oro della friulana Chiara Cainero nello Skeet Femminile, prima

italiana a conquistare il titolo olimpico, e gli argenti conquistati da Giovanni Pellielo

nella Fossa Olimpica Maschile e dal nettunense Francesco D'Aniello nel Double Trap

hanno pareggiato il conto aperto con l'oriente nei Giochi di Seul 1988, unica edizione in

cui gli azzurri tornarono senza medaglie. La storia del

tiro a volo è quindi ricca di successi, in quattordici

edizioni dei giochi Olimpici il Tiro a Volo Italiano ha

conquistato 8 medaglie d'oro, sette d'argento e otto di

bronzo, e numerosissimi tra Campionati del Mondo,

Coppe del Mondo e Campionati Europei.

A Londra 2012 abbiamo assistito al trionfo di Jessica Rossi (20 anni) e l’argento di

Fabbrizi che tengono alto l’onore di questo sport, che si conferma tra i più vincenti del

mondo.

Intervista a J. Rossi (fonte: gazzetta.it) "Avevo preparato questa gara nei

minimi particolari, sia dal punto di vista tecnico che psicologico, non ho

lasciato nulla al caso - è stato il commento di Jessica subito dopo la gara -

Non ho avuto emozioni, questo giorno lo avevo già vissuto tante volte

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proprio così, dopo l'unico errore mi è venuto da sorridere. Dedico la vittoria a tutti i

terremotati dell'Emilia".

Specializzazioni del tiro a volo

Fossa olimpica

Nella specialità della "Fossa Olimpica", i tiratori sparano su una linea di tiro rettilinea

posta parallelamente a quindici metri dietro la fossa in cui si trovano le macchine

lanciapiattelli, alternandosi su cinque pedane diverse. Il piattello viene lanciato

automaticamente appena arriva l'ordine del tiratore, che attende con il fucile imbracciato

e caricato con due colpi. Ad ognuna delle cinque pedane corrispondono tre macchine

lancia-piattelli (per un totale di quindici) ed una roulette automatica stabilisce la

successione dei lanci. Questo elemento rappresenta la difficoltà per il tiratore che, pur

conoscendo il tempo di uscita del piattello, deve intercettarne la direzione che può

variare, sul piano orizzontale, di 90° e la sua altezza, a dieci metri di distanza dalla

fossa, da un metro e mezzo fino ai tre metri e mezzo.

Skeet

Questa specialità, la più recente fra quelle olimpiche, ha origine da quella chiamata

"Around the clock", di provenienza americana, in cui il tiratore sparava al bersaglio

dalle dodici posizioni corrispondenti alle ore sul quadrante di un orologio. Oggi il

percorso si è modificato; si spara, infatti, da otto pedane, situate lungo un semicerchio

dal raggio di 19,20 metri, alle cui estremità sono collocate, in due cabine, le macchine

lanciapiattelli, una situatata a sinistra, detta pull, ed una in basso a destra, detta mark. Il

tiratore aspetta l'uscita del piattello con l'arma non ancora imbracciata, in posizione di

attesa, ed ha a disposizione un solo colpo per ogni piattello (due in totale). In questo

caso il tiratore conosce altezza e direzione dei piattelli, che vengono lanciati dalle

macchine sempre nello stesso modo; l'elemento di difficoltà è rappresentato dalla

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diversa posizione del tiratore rispetto alle macchine lanciapiattelli e dal tempo del

lancio, che può variare da zero a tre secondi dalla chiamata del tiratore.

Double Trap

Ultima nata nella famiglia del piattello, questa specialità prevede che i tiratori,

alternandosi su cinque pedane, intercettino due piattelli lanciati simultaneamente con

traiettoria fissa. Il tiratore attende in posizione non predeterminata con due colpi in

canna che devono essere usati per colpire i due piattelli. Anche in questo tipo di

specialità il piattello si allontana dal tiratore che conosce, per ogni pedana di tiro, quale

sarà la coppia di piattelli e la loro traiettoria. Le macchine lanciapiattelli sono tre per

ogni campo, ed i loro abbinamenti di lancio sono predeterminati (1-2 oppure 1-3 oppure

2-3) a seconda del programma scelto. I lanci vengono prestabiliti in un raggio di trenta

gradi sul piano orizzontale e la loro altezza varia, ad una distanza di dieci metri dalla

fossa, da tre metri a tre metri e mezzo.

( fonte: fitav.it)

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Capitolo 2

Le competenze psicologiche dell’atleta di

tiro a volo

Il tiro a volo è uno sport dove l’errore è fatale e si entra in finale o si sale sul podio per

un piattello in più o in meno. Anche un semplice battito di ciglia imprevisto, un

pensiero che sfugge al controllo della mente, l’emozione di un momento, possono

rovinare una prestazione che sembrava perfetta.

I tiratori sono consapevoli di tutto questo che è parte della loro abituale vita sportiva.

Pensiamo allo stato d’animo del campione del mondo di tiro a volo che alle olimpiadi di

Sydney ha sbagliato il primo piattello, sapendo così di vedersi preclusa la medaglia

d’oro e questo una manciata di secondi dopo l’inizio della gara e dovendo ancora tirare

124 piattelli. (Cei, 2007).

In questo capitolo si susseguono le principali abilità e competenze che possiede un

atleta professionista di questo sport. L’attività di ricerca in psicologia dello sport

approfondisce questi concetti e li sperimenta da anni, integrando teorie diverse, alla

ricerca del modo migliore di comprenderli e di “allenarli”.

Per comprendere quali siano le competenze di un atleta di livello assoluto possiamo

prendere spunto dagli studi di Gould (Gould et al., 2002).

Egli identifica alcune abilità fondamentali:

1. Elevata motivazione e impegno

La motivazione può essere definita come un aspetto dell’individuo che inizia, dirige,

sostiene l’azione umana verso un obiettivo ed è “ una variabile determinante del

comportamento insieme all’abilità delle conoscenze e dei vincoli situazionali”

(Borgognoni L., 2002).

Nelle fasi iniziali della psicologia dello sport, le ricerche sulle motivazioni, sia con

giovani che con atleti adulti, venivano spesso effettuate chiedendo semplicemente ai

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soggetti quali fossero i motivi che li spingevano a praticare una specifica attività

sportiva e che sostenevano nel tempo questo loro impegno. La risposta più frequente

riguardava il divertimento, assieme al desiderio di formare nuove amicizie, conseguire

successo, ottenere stima ed approvazione da parte degli altri, sentirsi valorizzati,

stabilire soddisfacenti relazioni sociali, apprendere abilità e migliorare lo stato di forma.

Si è però compreso successivamente che le ragioni che le persone dichiarano in modo

esplicito sono spiegazioni di superficie, alla base delle quali vi sono costrutti più

profondi, e a volte meno consapevoli, come il bisogno di realizzazione personale

(dimostrare le proprie capacità e la propria competenza) e di approvazione da parte di

persone significative (genitori, allenatori ed amici). Inoltre, entrano in gioco anche le

capacità individuali di affrontare le situazioni competitive e gestire lo stress, che è in

funzione sia dell’importanza oggettiva di una gara, sia della valutazione personale: ad

esempio, anche una gara di scarso rilievo può rivelarsi ansiogena se l’allenatore o i

genitori manifestano aspettative eccessivamente elevate nei confronti del ragazzo.(L.

Bortoli C. Robazza, 2010).

Il livello di motivazione di un atleta è determinato dall’interazione fra fattori

individuali, quali la personalità, i bisogni, gli interessi, le sue caratteristiche fisiche e le

sue capacità tecniche e fattori situazionali, quali le caratteristiche dell’allenatore, del

proprio ambiente familiare e sportivo (Cei A. 1987).

Vi sono numerosissimi studi sulla motivazione degli atleti, come ad esempio la teoria

dell’autodeterminazione di Decy e Ryan (Decy e Ryanl, 1885), in cui si parla di

motivazione Intrinseca ed Estrinseca,secondo cui le conseguenze che derivano ad una

persona dalla messa in atto di un comportamento dipendono (almeno in parte) dal tipo

di motivazioni che hanno portato quella persona verso il comportamento. Quindi se la

motivazione è intrinseca dovrebbero aumentare le probabilità che gli associati positivi

del comportamento si verifichino (p.e. divertimento, etica, piacere nello svolgere

l’attività, esperienza di flusso); invece se la motivazione è estrinseca aumentano le

emozioni e i comportamenti negativi associati alla pratica sportiva (utilizzo di sostanze,

senso di costrizione, disturbi alimentari, esercizio compulsivo, ansia, paura, ecc. ).

Un’altra teoria molto interessante è l’Achievement goal theory sviluppata per studiare

la motivazione nel contesto scolastico da Nicholls (1984;1989; Nicholls et al.,1990),

Dweck (1986), Ames (1984; 1992) e Mahr (1984;1991; 1993). Successivamente è stata

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ampiamente utilizzata per analizzare la motivazione in ambito sportivo (Duda, 1999) e

in contesti di educazione fisica.

Secondo l’achievement Goal Theory le prospettive che le persone adottano nei

confronti di uno scopo in un dato momento sono influenzate da tre fattori:

• Le tendenze disposizionali verso il compito o al sè.

• Le percezioni degli obiettivi salienti nella situazione (I.e. Motivational climate)

• Il livello di sviluppo cognitivo

Nel caso di G. la motivazione principale è la voglia di divertirsi e migliorare, unita alla

passione per le armi da fuoco di cui è grande esperto.

2.Livello elevato di fiducia

La Psicologia dello sport di stampo statunitense si è occupata moltissimo della “self

confidence”, che può essere definita il grado di certezza di possedere le abilità

necessarie per avere successo nello sport che si pratica.

Si possono identificare 8 variabili che la sostengono:

• padroneggiare il tiro

• dimostrare di saperlo fare

• essere preparati fisicamente e mentalmente

• percepirsi in forma

• essere sostenuti dal proprio ambiente sociale

• sentirsi guidato dall’allenatore

• Sentirsi a posto in ogni ambiente

• accettare positivamente quanto accade in gara

Nel caso di G. La sua autovalutazione di queste 8 variabili è stata molto alta nel

sentirsi guidato dall’allenatore e padroneggiare il tiro, invece è stata più bassa

nell’accettare positivamente quanto accade in gara e sentirsi apposto in ogni ambiente.

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3.Identificazione degli obiettivi

Darsi degli obiettivi è fondamentale in un percorso di miglioramento e lo psicologo ha il

compito di aiutare l’atleta, in accordo con l’allenatore, a scegliere gli obiettivi più adatti.

La prima distinzione da fare in questo caso è tra obiettivi di risultato ed obiettivi di

prestazione, inoltre è importante scandire nel tempo questi obiettivi suddividendoli a

breve, medio e lungo termine.

Le mete da raggiungere sono molte, e si possono suddividere in tecniche, atletiche e

psicologiche; è importante che l’atleta sia consapevole di cosa sta allenando e di come

lo sta facendo.

Un’ altro tipo di distinzione è quella che riguarda gli obiettivi in allenamento e gli

obiettivi in gara, di seguito riporto un esempio su 4 punti fondamentali :

Focus sull’obiettivo

in allenamento: la focalizzazione è centrata sul miglioramento delle abilità

in gara: la focalizzazione è centrata nel fornire una prestazione ottimale o nel superare

gli avversari.

Abilità Psicologiche

-in allenamento: gli obiettivi riguardano il miglioramento di abilità relative alla

dimensione mentale. Riguardano abilità come la concentrazione e il suo recupero dopo

un errore, il sapersi mantenere motivati in qualsiasi momento dell’allenamento, o la

costruzione di routine di esercizi di ripetizione mentale.

-in gara: le abilità psicologiche riguardando la gestione ottimale dello stress agonistico e

il sentirsi fiduciosi di saper fronteggiare la situazione agonistica.

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Tipi di obiettivi scelti

-in allenamento, gli obiettivi scelti devono essere orientati nello sviluppo di abilità

complesse: nel tiro a volo riguarderanno, ad esempio, l’imbracciare il fucile, il tempo di

fuoco e la qualità del tiro che deve essere fluido e coordinato.

-in gara: gli obiettivi si riferiscono principalmente alla gestione dello stress e alla abilità

di recuperare energia psicologica e fisica tra le serie.

Difficoltà dell’obiettivo

-in allenamento: bisogna che l’atleta si alleni a mettersi in situazioni il più possibile

analoghe a quelle della gara, allo scopo di potenziare la sua abilità a fornire prestazioni

positive in condizione di stress.

-in gara: gli obiettivi basati sul risultato che si vorrebbe ottenere devono essere adeguati

al livello di competenza e di forma dell’ atleta. Per tutti vale il sapere mantenere

costante la qualità e l’efficacia della propria fucilata (Cei, 2007).

Nel caso di G. per quanto riguarda gli obiettivi di risultato abbiamo concordato che

l’obiettivo a breve termine ( circa 4 mesi ) sarebbe stato di sparare senza la benda

qualificandosi per la Finale alla gara internazionale di Malta. Questo obiettivo è stato

raggiunto, G si è qualificato per la finale ed ha ottenuto un risultato di 24/25 senza la

benda.

Per quanto riguarda l’obiettivo a medio termine ( 8 mesi) abbiamo concordato quello

di vincere uno dei 3 Fitav ai quali avrebbe partecipato. Questo obiettivo non è stato

raggiunto, in quanto questo periodo è coinciso con un periodo di calo di forma e forte

stress, in cui inoltre si è accordato di prendersi 15 giorni di riposo dagli allenamenti e

dalle gare.

Infine, come obiettivo a lungo termine (12 mesi) abbiamo deciso quello di entrare nella

categoria eccellenza. L’obiettivo è stato raggiunto: nel settembre 2012 G. ottiene un

punteggio molto alto (118) che gli permette di entrare nella categoria Eccellenza.

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Per quanto riguarda gli obiettivi di prestazione il discorso è un po’ più complesso, in

quanto entrano in gioco gli aspetti del proprio modo di agire, ad esempio un tiratore si

allena per avere un movimento fluido e ben coordinato, oppure desidera mantenere lo

stesso livello di concentrazione in tutta la serie. Sono obiettivi che non si riferiscono

all’effetto dell’azione che comporta la rottura del piattello o lo zero, bensì riguardano

la propria prestazione e il tiratore vi orienta l’attenzione per migliorarsi o per

assicurarsi che sta agendo proprio nel modo corretto.

In questo caso abbiamo scelto come obiettivi a breve termine di migliorare la gestione

dello stress in gara e l’attenzione. Come obiettivi a medio termine il miglioramento

dell’automatismo del gesto tecnico e la reazione mentale all’errore. Infine come

obiettivi a lungo termine migliorare la self confidence, la tenacia e l’ottimismo.

5. Distrazioni ed eventi inattesi

Nel Tiro a Volo uno degli ostacoli principali sono le piccole distrazioni quali, ad

esempio, il restare agganciati per qualche secondo di troppo sul pensiero di un piattello

sbagliato, riducendo così la concentrazione su quello successivo, oppure distrazioni

dell’ambiente esterno, agire in modo affrettato etc... Qui di seguito riporto un elenco

delle distrazioni più frequenti che i tiratori incontrano durante gare e allenamenti:

• Goccia di sudore sugli occhiali, la pulisco ora o dopo?

• Lì dietro dovrebbero fare più

• Non sopporto di fare la bicicletta.

• Sono stanco, silenzio!!

• Pensavo uscisse un destro ... invece era centrale basso.

• Quelli che sparano prima di me mi mettono fretta.

• La seconda serie mi viene sempre peggio.

• A quello che mi precede non partiranno mai i piattelli se chiama con quella

voce.

• C’è stato un cambio di luce durante la serie.

• I piattelli escono in ritardo

• Sto sparando proprio bene.

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• Ho sbagliato il primo piattello, parto subito in salita.

• Non ho capito perché quel piattello non si è rotto.

• Le macchine si sono rotte e quando la serie è ripresa non ho più trovato la giusta

concentrazione.

• C’ho il cuore in gola e non riesco a chiudermi.

( Cei, 2007 )

Nel caso di G. le distrazioni più frequenti hanno riguardato l’ambiente esterno come

ad esempio un pubblico rumoroso o clima atmosferico avverso.

6. Elevata concentrazione

Nel tiro a volo mantenere alto il livello di concentrazione è fondamentale per ottenere

una prestazione soddisfacente. Calcolare l’indice di concentrazione, e monitorarlo nel

tempo è di grande aiuto per l’atleta. Mantenere costante il tempo di preparazione

all’interno dei 10 secondi previsti dal regolamento permette all’atleta di automatizzare il

gesto tecnico non solo nei movimenti ma anche nella tempistica.

L’indice di concentrazione si può anche calcolare tra tempo intercorso fra chiamata e

fucilata, quet’ultimo è molto più complesso da osservare e cronometrare in quanto si

aggira sui 60 centesimi di secondo circa.

Nel caso di G. riporto un esercizio che è stato utilizzato frequentemente durante il

training

Il tiratore fermo e senza avere l’arma è in pedana e si concentra per 10 secondi

sul punto di uscita del piattello. Al termine di questo periodo si muove

distogliendo lo sguardo da quel punto per circa 15 secondi.

In seguito si rimette in pedana e ripete l’esercizio.

Può effettuare 10 ripetizioni di questo tipo. In totale trascorrerà circa 5 minuti.

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7. Regolazione dell’attivazione

La maggior parte degli allenatori e degli atleti è d’accordo nel ritenere che il grado di

competenza dell’atleta nel saper autoregolare il proprio livello di attivazione è uno dei

fattori decisivi della prestazione. Infatti, ci sono situazioni in cui gli atleti sono attivati

in modo eccessivo e devono servirsi di strategie per la riduzione di questi livelli. Mentre

vi sono situazioni opposte, in cui il grado di attivazione è troppo basso e devono essere

utilizzate strategie che la incrementino sino ad un livello ottimale. Molte strategie di

attivazione o di disattivazione sono state utilizzate da allenatori, atleti e psicologi dello

sport.

Alcune di queste sono tecniche somatiche, come il rilassamento neuromuscolare

progressivo e il controllo del respiro, altre invece sono tecniche cognitive, come gli

esercizi di ripetizione mentale o il dialogo interno.

(Cei, A., 1998, )

Nel caso di G. sono state utilizzate maggiormente strategie somatiche nella “fase di

incubazione” e strategie cognitive nella “fase di fuoco”.

8. Visualizzazioni

"Se desiderate compiere qualcosa nella realtà, innanzitutto visualizzate voi stessi

mentre riuscite a compierla."

(Arnold Lazarus, 1989)

La capacità di visualizzare richiede del tempo per essere assimilata e accresciuta nelle

sue sfumature: le abilità principali sono l’immaginazione e la fantasia.

Le visualizzazioni possono essere modificate e ripetute come gli esercizi motori, e

possono essere amplificate utlizzando le percezioni dei 5 sensi.

Una visualizzazione potrebbe riguardare una prestazione del passato che abbia dato un

senso di benessere derivante da una vittoria, piazzamento, record personale, ecc.,

oppure l’atleta può visualizzare qualcuno che l’abbia incoraggiato in passato, dicendo

parole o una frase che ha trasmesso sicurezza, voglia di stravincere. (Simone M., 2011).

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Nel caso di G. imparare a visualizzare è stato un processo abbastanza fluido: col passare

delle settimane le immagini sono diventate sempre più vivide e sempre più ricche a

livello sensoriale.

La gestione dello stress agonistico

Il termine stress deriva dal latino strictus (stretto, serrato, compresso); è stato utilizzato

a lungo nell’ambito della metallurgia nella quale si era soliti “mettere sotto stress” le

travi metalliche al fine di

provarne l’effettiva

resistenza. ( Rossati,

1999). E’ infatti

quest’immagine di

tensione e sovraccarico

che si può ricondurre

una prima definizione

dello stress: esso indica

“che qualcosa non

funziona come dovrebbe

nel nostro organismo,

corpo e mente, e che ciò

dipende da un

sovraccarico di stimoli,

da pressioni ambientali

che comportano un’usura e uno scompenso psico-fisico” ( Oliverio A. 1989).

Hans Selye, uno dei massimi esperti di questo argomento, avvicina il concetto di stress

a quello di un’ altra materia, la fisica: “In fisica tensione e deformazione si producono

ogni qualvolta una forza incontra una resistenza: una forza deforma il materiale che le

oppone resistenza, causando così tensione e deformazione”. ( Selye, 1982)

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Identificare le cause dello stress è diventato prioritario nello sport agonistico, e cercare

risposte a domande come: “cosa mi stressa?” oppure “cosa mi aiuta a gestire meglio il

mio stress?” aiuta l’atleta a gestire le situazioni di pressione che il professionismo

inevitabilmente crea.

Fronteggiare lo stress significa volere agire volontariamente per modificare in positivo

la condizione fisica e psicologica che si sta provando in quel dato momento, al fine di

renderla adeguata a svolgere con efficacia la propria prestazione sportiva.

(Hanin, 1993 )propone una teoria della relazione fra ansia e prestazione denominata

IZOF (Individual Zone of Optimal Functioning): ogni atleta ha la sua zona ottimale di

“ansia” e attivazione emotiva in cui riesce a realizzare prestazioni ottimali.

In questo modello Hanin distingue:

Individual: fa riferimento al fatto che la “Zona di Funzionamento Ottimale” è diversa

per ogni atleta.

Zone: si tratta di un campo di valori e non di un valore unico, superato il quale la

prestazione decade.

Optimal Functioning: la prestazione ottimale è garantita da uno stato “ottimale”

caratterizzato da: condizioni interne “ottimali”, coinvolgimento “ottimale” dell’atleta,

possibilità di accedere a e usare le risorse più adatte al compito.

Nel caso di G. durante una gara Fitav del maggio 2012 il pensiero ricorrente era “ se

vinco probabilmente entrerò in categoria eccellenza”. Questa attenzione sul risultato

ha elevato il carico di stress portando forte tensione, non permettendogli di poter

sparare fluidamente e questo ha pregiudicato il suo risultato (media 22/25).

Il Timing

Il fattore tempo è molto importante nel tiro a volo, partendo dal regolamento:

Il tiratore deve mettersi in posizione, chiudere il fucile e comandare lo sgancio del

piattello entro 10 (dieci) secondi dopo che il tiratore precedente abbia sparato un

piattello regolare ed il risultato sia acquisito, o dopo che il Direttore di Tiro abbia dato

il segnale per iniziare o riprendere il tiro.

(Art. T.4.1.6 del regolamento tecnico trap)

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Vi sono quindi 10 secondi per eseguire il gesto tecnico in pedana.

In questi dieci secondi si decide se un piattello si romperà o no, in questi dieci secondi

l’atleta deve trovare un movimento equilibrato affinché il gesto tecnico risulti fluido, ma

anche ritmico, in quanto dovrà ripeterlo 25 volte di seguito, spostandosi di pedana in

pedana.

In questi 10 secondi l’atleta deve:

-trovare una posizione eretta stabile nella pedana

-chiamare il piattello nell’apposito microfono

-mirare al piattello

-sparare

NEL CASO DI G: Nella mia esperienza ho ritenuto di fondamentale importanza

definire un “Indice di concentrazione” andando ad osservare e cronometrare:

1)Costanza del tempo di preparazione all’interno dei 10 secondi previsti dal

regolamento

2)Costanza del tempo intercorso fra chiamata e fucilata (circa 60 centesimi di secondo)

Attraverso questa analisi ho potuto ottenere dei dati che mi sono serviti per conoscere i

tempi di reazione che sono circa 8 secondi (dei 10 disponibili dalla chiamata del

piattello allo sparo).

Da un punto di vista gestaltico, ho potuto osservare la percezione del tempo da parte di

G. ed attraverso numerose esperienze ed esercizi siamo riusciti a stabilizzare gli sbalzi

in eccesso verso i 7 o i 9 secondi.

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La routine

La routine è un Insieme integrato e predeterminato di azioni e immagini mentali che

l’atleta attiva in modo coerente prima della prestazione.

Nelle ore precedenti l’avvio della competizione l’obiettivo degli atleti è di sviluppare

una condizione psicologica ottimale giungendo ad avere un tipo di attenzione che, man

mano che si avvicina il momento dell’inizio, è sempre più focalizzata solo sugli stimoli

rilevanti per la prestazione. Maggiore è la concentrazione su questi aspetti, migliore sarà

il controllo sull’ansia, che tende a spostare l’attenzione sulle preoccupazioni e sui

pensieri negativi.

Accanto al riscaldamento fisico, vi deve essere anche quello mentale, che consiste

nell’attivare quell’insieme di pensieri, sensazioni ed emozioni che si sono sperimentate

ogni qualvolta sono state fornite prestazioni eccellenti.

E’ questo quel cocktail assolutamente personale che trasmette all’atleta la convinzione

di sentirsi pronto ad affrontare la competizione.

le routine consentono di:

�spostare l’attenzione da stimoli irrilevanti

� evitare di pensare al risultato finale

�stabilire una condizione di prontezza attraverso un adeguato livello di attivazione

fisica e mentale

NEL CASO DI G: Durante la fase di incubazione abbiamo dedicato 2 incontri per

delineare quella che poi è diventata la routine abituale di G. Insieme abbiamo delineato

alcune azioni per rilassarsi ed isolarsi (ad esempio tornare in macchina dopo aver

preso la pettorina) ma anche azioni per caricarsi ( come ascoltare un brano musicale

durante il riscaldamento fisico) o sciacquare il viso prima di ogni serie.

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L’ imagery

L’immaginazione mentale non rappresenta un’alternativa all’allenamento fisico, bensì

ne costituisce il necessario complemento per qualsiasi atleta che voglia migliorare la

propria prestazione sino a raggiungere il proprio limite personale.

Le caratteristiche principali che un lavoro con l’immaginazione richiede sono:

• Immagini accurate vivide positive e affermative

• Informazioni cinestesiche, visive e uditive

• Aspetti interni ed ambientali

• Riguardano la ripetizione mentale della propria azione sportiva come se la si

stesse eseguendo in quel momento

Visualizzare la serie sviluppa la competenza di mantenere la concentrazione sulla

prestazione per un periodo di tempo piuttosto lungo come è richiesto dal tiro a volo

(circa 25 minuti).

Per comprendere meglio in che modo si utilizza questo modello riporto un esempio di

esercizio di visualizzazione:

Visualizzare la serie sviluppa la competenza di mantenere la concentrazione sulla

prestazione per un periodo di tempo piuttosto lungo come è richiesto dal tiro a volo

(circa 25 minuti).

1. Il tiratore immagina di essere in pedana e ripeterà mentalmente

la sequenza di tiro e il periodo di attesa del suo turno successivo

come se stesse realmente in quella situazione.

2. Inizia l’esercizio immaginandosi la routine di tiro per non più di

10 secondi. Immagina esattamente ciò che fa, chiama nella sua

mente e spara

3. Subito dopo trascorre un periodo di 40 secondi di attesa.

Quando immagina che l’atleta che lo precede sta per sparare si

prepara ad entrare in pedana.

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La correzione di errori attraverso il confronto con la rappresentazione mentale si basa in

gran parte sul monitoraggio delle proprie prestazioni.

Le persone migliorano e perfezionano la loro prestazione vedendo, ascoltando e

sentendo ciò che fanno.

L’aspetto più significativo che emerge dal confronto fra esercizio reale e esercizio

simulato non è tanto che -come prevedibile- chi usa il primo ottiene prestazioni migliori

rispetto al secondo, ma piuttosto che la visualizzazione può migliorare lo sviluppo e il

funzionamento atletico.

Nel caso di G. per migliorare la capacità di visualizzazione si è proceduto per gradi,

inizialmente visualizzando un unica pedana, in seguito tutte e 5 le pedane,

successivamente si è visualizzato la serie intera.

Nella prima fase di intervento le visualizzazioni si sono svolte sul lettino, in ambiente

chiuso, mentre, nella seconda fase sul campo da tiro.

Durante tutto il mio intervento ho modificato e aggiunto alcune variabili, ad esempio

prima di una gara in un campo tipicamente con molto vento la visualizzazione è stata

incentrata sulla presenza del vento stesso e del suo effetto sia corporeo che emotivo.

La variabile che più ha creato difficoltà è stata la “tensione”: immaginare la tensione

di una gara importante è risultato per G. molto faticoso.

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Rilassamento

Le tecniche di rilassamento sono uno dei pilastri dell’allenamento mentale, ne esistono

moltissime, sono utilizzate con gli atleti da decenni con buoni risultati nella gestione

dello stress pre-gara.

Imparare a rilassarsi può aiutare l’atleta a dare il meglio di sé e a migliorare le proprie

prestazioni al meglio delle sue oggettive possibilità:

- Superamento dell'ANSIA nell'attesa pre-agonistica;

- Compensazione dell’eventuale riduzione di sonno;

- Riduzione/regolazione del ritmo respiratorio;

- Maggiore scioltezza nelle prestazioni;

- Diminuzione del rischio di contratture muscolari;

- Aumento della fiducia nelle proprie possibilità/capacità.

NEL CASO DI G. ho utilizzato il metodo di Jacobson.

Il rilassamento muscolare progressivo è una tecnica basata sull'alternanza

contrazione/rilasciamento di alcuni gruppi muscolari. Fu ideata negli anni trenta dal

medico e psicofisiologo statunitense Edmund Jacobson e illustrata nel 1959 in "How to

relax and Have your baby". Nasce dalla volontà di sciogliere rapidamente stati di

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tensione, di ansia o di stress ed è indicata anche per le persone che non riescono a

praticare il rilassamento autogeno, la meditazione o altre tecniche.

L’autoefficacia personale

Un’ altra teoria molto utilizzata nello sport è quella dell’ Autoefficacia di Bandura, il

quale la definisce “ la fiducia che una persona ripone nella propria capacità di affrontare

un compito specifico”.

Bandura identifica quattro fonti di informazioni principali per la costruzione

dell'efficacia:

1. Le esperienze comportamentali dirette di gestione efficace, che hanno la funzione di

indicatori di capacità;

2. Le esperienze vicarie e di modellamento, che alterano le convinzioni di efficacia

attraverso la trasmissione di competenze e il confronto con le prestazioni ottenute dalle

altre persone;

3. La persuasione verbale ed altri tipi di influenza sociale, che infondono e costituiscono

la possibilità di possedere competenze da sperimentare;

4. Gli stati fisiologici ed affettivi, in base ai quali le persone giudicano la loro forza,

vulnerabilità, reattività al disfunzionamento.

L’autoefficacia per un certo compito è resistente quando una persona resta convinta

delle sue capacità anche di fronte a insuccessi e difficoltà di vario tipo; non lo è invece

quando difficoltà e insuccessi portano a sentirsi meno capaci.

L’autoefficacia si sviluppa attraverso esperienze di successo, inteso come riuscita in un

certo compito (ad esempio, in allenamento mantenere punteggi di tiro costanti in una

serie).

La percezione di efficacia è legata anche all’apprendimento ed al perfezionamento

tecnico, che garantiscono al tiratore la possibilità di eseguire gesti tecnici sempre più

controllati. L’intervento didattico ha dunque un ruolo fondamentale. (L. Bortoli C.

Robazza,2010)

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Il livello di autoefficacia viene definito dalla relazione fra i compiti o unità di abilità che

sono necessari per esprimere una determinata azione e ciò che il soggetto ritiene di

essere in grado di esprimere(Bandura, 1973)

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Capitolo 3

L’approccio Gestalt nell’allenamento

mentale del tiro a volo

Il mental training nel tiro a volo, come spiegato nel precedente capitolo, riguarda una

serie di competenze e abilità che se “allenate”, porteranno al miglioramento della

prestazione. L’obiettivo di questo capitolo è tradurre queste abilità e competenze in

concetti Gestalt ad indirizzo fenomenologico-esistenziale, così da ottenere un diverso

punto di vista.

La concentrazione

In Gestalt la concentrazione è una tecnica terapeutica importante, al fine di ripristinare

la sensazione. Tutti sanno che, per fare bene qualsiasi cosa, ci vuole concentrazione; la

difficoltà sta nel sapere come concentrarsi, perchè le istruzioni in merito, in genere sono

vaghe, generiche o moralistiche. Ciononostante, la concentrazione può essere un

procedimento specifico che suppone il focalizzare l’attenzione su un unico senso e su un

particolare oggetto di interesse. Quando si centra l’attenzione sulle sensazioni interne,

possono aversi fenomeni di notevole importanza, paragonabili a quelli generati

dall’ipnosi, dalle droghe, dalla deprivazione sensoriale, da episodi di eroismo e da altre

circostanze che allontanano l’individuo dal suo abituale quadro di riferimento.

Anche se di effetto meno poderoso ed infallibile rispetto ad alcune di queste

circostanze, la concentrazione offre due vantaggi per l’intensificazione dell’esperienza.

Primo, la persona può tornare facilmente ai fatti e alla comunicazione ordinaria;

secondo, l’esperienza è avvertita come qualcosa che ha contribuito a produrre, non

come un salto in uno stato insolito che normalmente non è sotto il suo potere. ( Mazzei

S. rivista In-psicoterapia n°12 ).

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Il qui e ora e la consapevolezza

Il qui e ora è il presente, il punto d’incontro tra passato e futuro, il luogo delle decisioni,

in sui si può cambiare il corso degli eventi: questi saranno congrui o incongrui alla

persona a seconda di come gestirà la relazione fra i tre momenti del tempo.

La consapevolezza è al vertice di un processo in cui l’attenzione si sposta lungo un

continuum che va dal particolare al generale, da noi stessi agli oggetti. Per raggiungere

la consapevolezza è necessaria l’attenzione e la presenza. La Gestalt utilizza

l’attenzione/consapevolezza come strumento principale per promuovere lo sviluppo

personale e la capacità di stare nel qui e ora. Attraverso l'acquisizione di zone di

consapevolezza sempre più ampie, attuata mediante una riconversione dell’attenzione, il

modello gestaltico tende al recupero della presenza e della responsabilità del paziente.

Naranjo evidenzia come la consapevolezza del qui e ora nella terapia gestaltica va di

pari passo con un’altro punto messo in luce dalle psicologie transpersonali, e dal

buddhismo in particolare. Possiamo chiamarlo apertura: essere consapevoli di ciò che è

dato qui e ora nel campo della nostra esperienza comporta un atto di base, quello di

accettare in modo indiscriminato l’esperienza, che si può dire comporti a sua volta

l’abbandono di modelli e aspettative.

Quando l’organismo raggiunge una certa consuetudine con determinate condizioni di

esistenza e di relazione con l’ambiente, alcune o molte delle sue funzioni passano al di

sotto della soglia della coscienza, diventano delle funzioni di base, le quali si

ripropongono costantemente senza più bisogno di controllo cosciente. Questo diviene lo

sfondo che sorregge l'identità intesa come figura emergente. (Rossi, O. 1998).

Il terapeuta può dunque proporre al paziente di ri-sperimentare le situazioni insolute del

passato nel presente. Solo nel presente il sistema motorio e sensoriale possono

funzionare e l’esperienza avvenire.. Nella terapia quindi la dimensione temporale viene

trattata nel qui e ora. Se la persona riesce a vivere nel qui e ora chiudendo ogni gestalt

che si presenta può muoversi verso altre esperienze evitando che le azioni incomplete

persistano nel fondo distraendo la persona stessa da quelle in atto.

Una maggiore consapevolezza può permettere meno avarizia e investimenti più oculati,

ossia più costosi ma di maggiore respiro nel tempo e nello spazio”. (P. Quattrini, 2011)

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Nel caso di G. l’apprendimento di tecniche di rilassamento e l’abitudine agli esercizi di

consapevolezza gli hanno consentito di poter riequilibrare il suo stato psicofisiologico

sia in gara che in allenamento.

Il pensiero giudicante

Perls proponeva l’attivazione di una condizione di pura e semplice consapevolezza in

cui non si giudica ciò che si manifesta: si constata, si accetta come inevitabile e si

mantiene una posizione contemplativa. Il punto di vista fenomenologico sostiene infatti

la necessità di osservare il processo della propria coscienza senza entrare nelle

valutazioni, poiché se giudichiamo ciò che accade , blocchiamo la nostra auto-

osservazione e ci identifichiamo in un singolo aspetto, pensiero o sentimento di noi

stessi, perdendo il senso il senso della nostra totalità.

Nel caso di G. il pensiero giudicante più ricorrente è “ sto sparando male”, ma anche

“sto sparando bene”, in entrambi i casi questo tipo di pensiero ha influito

negativamente sul risultato.

Un’altra considerazione che G. mi ha riportato durante un colloquio nell Agosto 2012 è

stata di aver ipotizzato di cambiare facoltà universitaria, questo non era mai accaduto

in precedenza, ed approfondendo questo argomento ho potuto notare come sia

cambiata la consapevolezza delle proprie scelte, soprattutto era meno influenzata dal

giudizio esterno

Il dialogo tra Polarità

Attraverso l’utilizzo del dialogo tra le polarità è possibile mettere in comunicazione

parti di sè in conflitto tra loro, e questo permette un dialogo interno più efficace che

come detto precedentemente, migliorerà la prestazione finale. Una delle tecniche

maggiormente utilizzate in PDG è il dialogo tra le polarità attraverso la “sedia calda” :

Nel setting, oltre alla sedia del terapeuta e a quella del paziente, ce n’è una terza, vuota,

su cui siedono via via gli interlocutori problematici del paziente: dialogando con

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quell’interlocutore, esterno o interno che sia, che il paziente stesso dichiara disturbante,

si costituisce tra polarità un’interazione che diventa lo spazio attraverso il quale si può

lavorare fino a scendere nel sostrato emozionale, dove il comportamento disfunzionale

si è strutturato.(P. Quattrini, 2011).

Nel caso di G. dialogo tra le polarità è stato utilizzato per mettere in contatto parti di

sè in conflitto soprattutto prima di gare che lo preoccupavano molto, ad esempio

durante la gara di Malta e il fitav del settembre 2012.

La responsabilità personale

Uno dei capisaldi della PdG è il concetto di responsabilità personale: etimologicamente

responsabilità significa “abilità a rispondere”, insomma l’essere disponibile a pagare il

costo di quel che si è fatto, in sostanza consiste nella capacità di scegliere

consapevolmente. Molto spesso la responsabilità è nel linguaggio comune sinonimo di

potere, ad esempio se si parla di carriera lavorativa, un “posto di responsabilità” è

sinonimo di un “ruolo di potere”. Ciò che lo psicologo può fare è aiutare la persona ad

accorgersi di ciò che fa, di ciò che sarebbe in grado di fare e di assumersi la

responsabilità delle proprie scelte, dato che, nella vita, ci sono sempre diverse

possibilità e occasioni di scelta. ”Il tanto diffuso bisogno di essere approvati, che spesso

rende la convivenza umana difficile, equivale a una mancanza di responsabilità: quando

si cerca ad ogni costo l’approvazione esterna, si sta disconoscendo la propria

responsabilità e rinunciando al proprio potere” ( P. Quattrini, 2011).

Nel caso di G. si possono evidenziare alcuni benefici, come ad esempio, la scelta di un

università che permetta di seguire le lezioni a distanza, e così, continuare a disputare

gare internazionali. Nel caso della scelta di prendersi un periodo di pausa nel luglio

2012 ho notato come G. abbia preso una decisione più consapevole rispetto al passato.

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Il lavoro sul corpo

Fin dagli albori della psicologia il corpo è stato protagonista, le pulsioni di Freud dove

si trovano? Nel corpo. La libido che spingerebbe tutte le nostre azioni? Nel corpo. Le

emozioni sono qualcosa che ci muove (ex-moveo), e cosa muovono? Ancora il corpo .

Il corpo in movimento rivela sia l’azione sciolta e fluida di una persona che sostiene

l’attività in cui è impegnata, sia l’azione maldestra e senza grazia che è il compromesso

tra un impulso e la sua inibizione.(Polster 1973)

Reich descrive questo comportamento: “... è una funzione sostitutiva di qualcos’altro,

essa ha uno scopo difensivo, assorbe energia ed è un tentativo di armonizzare le forze

conflittuali... Il risultato è del tutto sproporzionato rispetto all’ energia spesa.

(Reich W, 1949)

Il lavoro corporeo non è equivalente al tocco. Si può praticare il lavoro corporeo anche

solo con le parole, ma è spesso difficile raggiungere la concentrazione necessaria sui

muscoli contratti per abitudine, in questo caso il tocco può aumentare l’efficacia del

lavoro (Quaderni di Gestalt 6-7 M. Spagnuolo Lobb).

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Box 1 Esercizio di concentrazione corporea Gestalt

Nel caso di G. il lavoro sul corpo è risultato efficace fin dall’inizio in quanto ha una

buona consapevolezza del suo corpo ed è in grado di riconoscere facilmente il suo stato

di forma così come il ritmo del battito cardiaco e le tensioni muscolari.

L’immaginazione

L’immaginazione e quindi l’abilità ad immaginare è considerata dai principali psicologi

dello sport, sia dei paesi dell’est che dell’ovest, come fra le più importanti abilità da

sviluppare negli atleti ( Cei, 1998).

Nel corso degli anni la letteratura scientifica ha definito l’immagine mentale in molti

modi ma il termine più utilizzato è senza dubbio “imagery” che Richardson

(Richardoson 1969) definisce: come l’insieme delle esperienze quasi-sensoriali e quasi-

percettive di cui siamo coscienti e che per noi esistono in assenza di quelle condizioni di

stimolo che realmente determinano quelle specifiche reazioni sensoriali e percettive. A

differenza dei sogni, la ripetizione mentale è un attività che si svolge sotto il controllo

Immobilizzando il nostro sistema motorio, immobilizziamo nel tempo stesso anche le

nostre sensazioni; possiamo ri-mobilitare entrambi attraverso un’adeguata

concentrazione, ristabilendo i movimenti differenziati, l’intorpidimento e la goffaggine

della personalità rigida e reintegriamo le funzioni motorie dell’Io. Una tecnica è quella

di lasciar vagare l’attenzione attraverso il corpo: se scopriamo parti che non sentiamo,

cerchiamo di individuare i confini tra le parti che sentiamo e quelle che non sentiamo e

solo dopo torniamo con l’attenzione alla parte del corpo che non percepiamo. Alla fine

ci sarà una particolare sensazione come un intorpidimento o opacità, un velo. In questa

esperienza ripetuta del “come se” fosse una realtà, le sensazioni e le immagini

biologiche emergeranno fino ad assumere il loro posto appropriato nel funzionamento

della personalità.

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cosciente dell’individuo, che produce e dirige precise immagini da lui scelte. Sono, in

altre parole, copie mentali ben controllate di specifiche attività motorie. Le immagini

mentali attivano specifici circuiti nervosi che consentono il lavoro dell’apparato

muscolare nella direzione immaginata dall’atleta. Quindi immaginare fa lavorare il

corpo!

Box 2 Di seguito riporto un esercizio di visualizzazione Gestalt

Lo scopo dell’esercizio seguente è quello di trarre il massimo beneficio per il nostro

organismo dall’uso dei sensi. C’è chi guarda le cose senza vederle; e chi osserva e

guarda le cose attentamente, in modo che possa ri-crearsi il mondo con i propri occhi.

Se chiudiamo gli occhi possiamo scoprire che siamo capaci di visualizzare diverse

immagini, nel frattempo ci accorgiamo che può nascere la voglia di fuggire da alcune di

queste, e che questo saltare da un’immagine all’altra ci rende incapaci di fissarne

almeno una per qualche secondo in più. Per fronteggiare questa instabilità è necessario

rendersi conto che non sono le immagini a saltare ma siamo noi a saltare da

un’immagine all’altra, una tale consapevolezza può essere acquisita lasciando

continuare l’irrequietezza, senza opporre resistenza. Il passo successivo è capire cosa ci

fa saltare (paura, mancanza di interesse, impazienza?); quando una determinata

immagine si annebbia o noi saltiamo da una all’altra cerchiamo di scoprire la relazione

tra l’immagine in questione e quello che evitiamo. L’esercizio va fatto con perseveranza

in modo tale da poter padroneggiare l’evitamento e poter interrompere il saltare qua e

là.

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Ridefinizione in positivo

Il dialogo interno è stato molto studiato nella psicologia dello sport, ad esempio si

analizza con l’atleta cosa si dice in una determinata situazione di gara o di allenamento.

Ridefinire il dialogo interno in positivo influenza la prestazione aiuta l’atleta ad essere

più consapevole se si sta incoraggiando o scoraggiando.

Ridefinire per una persona è molto complesso, riuscire ad applicarlo ad una situazione

agonistica è difficile, in quanto il pensiero dovrà essere realistico e fare riferimento a

prestazioni passate o ad abilità realmente possedute.

Nel Caso di G. una frase che ha cominciato ad utilizzare è “ Mi basta un colpo”,

soprattutto quando si è accorto di puntare troppo sul secondo colpo a disposizione.

Un altro esempio è stato quando ho adottato questa tecnica con una sua difficoltà fisica

(problema all’ occhio) L’esempio che ho proposto è stato quello di Fred Astaire, il

quale ha utilizzato una sua limitazione fisica per esprimere un modo di ballare che solo

lui poteva effettuare proprio grazie a questa limitazione fisica, trasformandola in una

possibilità di esprimersi diversamente e unicamente rispetto agli altri ballerini.

La metafora

Aristotele nella Poetica, definisce la metafora "trasferimento a una cosa di un nome

proprio di un'altra o dal genere alla specie o dalla specie al genere o dalla specie alla

specie o per analogia".

La metafora è stata un elemento essenziale della comunicazione umana sin dai tempi

antichi,se si pensa alle parabole attraverso le quali Gesù insegnava, i miti,le fiabe.

A proposito di quest'ultime Bettelheim ne sottolinea il valore e l'importanza nel suo

libro "il mondo incantato"Il mondo incantato: uso, importanza e significati

psicoanalitici delle fiabe (Battleheim, 1976), la fiaba non solo diverte,ma anche illumina

il bambino su se stesso,promuove lo sviluppo della sua personalità, arricchisce la sua

vira in una grande varietà di modi. I personaggi delle fiabe sono nettamente buoni o

cattivi, pieno di virtù o di difetti, stupidi o intelligenti. Una tale polarizzazione permette

al bambino di capire facilmente la differenza tra i due estremi. Inoltre i racconti sono

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strutturati in modo che il bambino di identifichi con il buono, che risulta di solito più

attraente e generalmente trionfa sul cattivo.

Le fiabe di solito sottolineano alcune cose specifiche e mirano a dare insegnamenti

specifici.

In psicoterapia la metafora può essere definita utilizzando le parole di (Kopp 1975),

come “specchi che riflettono le immagini che abbiamo di noi stessi, della vita e degli

altri. Le immagini metaforiche possono diventare una chiave che apre nuove possibilità

di insight e di cambiamento terapeutico”. La metafora obbliga la parola a diventare viva

e si ricollega all’esperienza. Sotto i pensieri, infatti, ci sono le immagini, sotto le

immagini ci sono le emozioni, sotto le emozioni ci sono le sensazioni e sotto le

sensazioni ci sta il movimento. La metafora ci permette di esprimerci attraverso il

linguaggio analogico.La metafora non è una spiegazione bensì un’evocazione, uno

strumento che ci permette di passare dal conosciuto allo sconosciuto e dallo sconosciuto

al conosciuto.

Nel caso di G. alcune metafore hanno segnato il percorso di G. durante questi 12 mesi,

la più significativa è stata quella del “foglio bianco”. Spesso questa metafora è stata

richiamata dopo alcuni errori consequenziali.

Per recuperare la concentrazione e tornare nel qui e ora immaginava un foglio bianco

gigante che appare davanti a lui come immagine di pulizia dagli errori precedenti.

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Le situazioni stressanti e il contatto

Noi maestri d’arco diciamo: un colpo- una vita! Ciò che questo significa lei non lo può

ancora capire, ma forse l’aiuterà un altra immagine che traduce la stessa esperienza.

Noi maestri d’arco diciamo: con l’estremità superiore dell’arco l’arciere fora il cielo,

all’estremità inferiore è appesa la terra, fissata con un filo di seta.

Se il colpo parte con una forte scossa c’è il pericolo che il filo si spezzi.

Per il volitivo e il violento la frattura diventa allora definitiva e l’uomo resta

irrimediabilmente nello spazio tra il cielo e la terra.

“ che debbo fare dunque?”

“imparare la giusta attesa”.

“ e come si impara?”

“ Staccandosi da se stesso, lasciandosi dietro tanto decisamente se stesso e tutto ciò

che è suo, che di lei non rimanga altro che una tensione senza intenzione”.

(Zen e tiro con l’arco, Herringel, 1975)

Gli atleti professionisti nel corso della loro carriera sportiva si confrontano con

situazioni sempre più difficili. Man mano che si passa di categoria gli avversari sono

sempre più forti e nel caso di competizioni prestigiose c’è molta più pressione esterna (

ad esempio da parte dei media)

Il rischio per l’atleta è che si crei un sovraccarico di pressione e si generi stress.

In gestalt lo stress può essere definito come una forma di allarme interno che scatta

dentro le persone quando le richieste dell’ambiente sono percepite come superiori alle

proprie forze.

La risposta che l’organismo da allo stress è la funzione di adattare l’organismo alle

mutate condizioni esterne, di fronte a tutto ciò che minaccia la sopravvivenza, nel caso

di un atleta professionista che minaccia la prestazione sportiva.

La difficoltà maggiore è che molte cause di stress non si possono eliminare ( es. i

media, gli avversari o il pubblico) quindi ciò che si può fare è intervenire sulla propria

capacità di reagire alla situazione stressante.

La reazione da stress non è una risposta lineare agli eventi stressanti; entrano in gioco

variabili soggettive ed il proprio modo di rispondere alle richieste dell’ambiente.

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Il modo più efficace per riconoscere lo stress è nell’osservazione del corpo: lo stress

“non ascoltato” per periodi prolungati può creare problemi di salute come per esempio:

cefalee, disordini alimentari, disturbi del sonno, gastriti, irritabilità, coliti, perdita di

capelli..etc.

Riconoscere le reazioni psicosomatiche legate allo stress è il primo passo, il secondo sta

nel riequilibrare l’organismo attraverso il processo di autoregolazione, in cui la persona

soddisfa i propri bisogni psicologici e fisiologici, sapendo che non esistono

comportamenti sani, giusti, maturi che ci salvano dallo stress, ma si può migliorare la

consapevolezza e la comunicazione, ascoltando i propri bisogni e i segnali del corpo,

seguendo il ciclo del contatto. In Gestalt per contatto si intende una situazione di

scambio: si dice che si è in contatto con qualcuno o con qualcosa quando fra i due poli

in questione succede qualcosa. In un ottica fenomenologica si può dire che l’essere in

contatto corrisponda al costituirsi del senso. Due persone sono in contatto quando la

situazione acquista senso per loro, quando cioè si costituisce una Gestalt di cui fanno

parte entrambe con le loro specifiche intenzioni, un insieme di cui si avverte la presenza

e che non può esistere senza entrambi. Nella psicoterapia della Gestalt a orientamento

fenomenologico esistenziale implica qualità: agli effetti pratici per contatto si intende

uno scambio dotato di senso e qualità, uno scambio che riveste valore per la vita delle

persone, e non valore in senso semplicemente quantitativo o astratto, ma in senso

esperenziale . Uno scambio tra le intenzioni dei partecipanti ( P. Quattrini, 2006).

Proprio sul contatto e lo stress che si crea ai suoi confini, ritengo utile soffermarmi sui

meccanismi di difesa dal contatto: “Un buon contatto non è unione, non è separazione,

ma è, da una parte, la capacità di essere uniti con l’oggetto, e dall’altra, la capacità di

mantenere un’identità separata, dunque una capacità di auto-sostegno e di

differenziazione dall’ambiente. Quando l’individuo si sviluppa in modo sano, manifesta

questa elasticità che permette di essere in armonia e allo stesso tempo di non essere

dipendente e di funzionare separatamente.” ( Mazzei S. rivista In-psicoterapia n°12 )

Per Perls, le resistenze sono chiamate anche “disturbi al confine del contatto”, cioè

disturbi nella relazione organismo/ambiente secondo la definizione gestaltica o nella

relazione sé/oggetto in quella psicoanalitica.

In generale quindi, quando si parla di resistenze, dobbiamo immaginare che qualcosa

accade nella zona intermedia fra l’Io ed il Tu. L’Io ed il Tu sono la diade della relazione

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del contatto interpersonale e la zona intermedia dove si applicano i meccanismi di difesa

o resistenze è il confine del contatto e quando, in questo spazio, la relazione non è

armoniosa, si manifestano disturbi di vario genere.

I meccanismi di difesa dal contatto

Cosa sono:

• strategie che l’individuo ha utilizzato per poter stare al mondo

• meccanismi di evitamento del contatto

• non sono negativi, in alcune situazioni hanno grande utilità

• è importante esserne consapevoli e osservarli allo scopo di trovare nuovi modi di

stare in relazione con l’ambiente

quali sono:

• Confluenza: Conformarsi alle aspettative degli altri, accettare di fare cose che

non gli piacciono . Essere confluente con l’ambiente, con l’oggetto, significa che

non si sa chi si è o che si sperimenta davvero e si risponde soltanto alle

aspettative dell’ambiente. La confluenza è semplicemente un falso contatto: il

contatto implica uno stato precedente di separazione, una frontiera che la

sancisce e un’operazione di superamento della distanza, mentre la confluenza è

semplicemente un’assenza di separazione.(P. Quattrini, 2011).

• Desensibilizzazione: Anestetizzarsi, fare, fare senza sentire la fatica, non

ascoltando il corpo e i sentimenti.

• Introiezione: E’ la tendenza a conformarsi alle direttive dell’autorità senza

assumersi la responsabilità della propria esistenza.

• Retroflessione: si ha quando invece di manifestare sull’ambiente un proprio

impulso lo rivolgiamo a noi stessi, attraverso la retroflessione si cambia la

direzione delle emozioni, che non si indirizzano verso l’effettivo dedestinatario,

ma si ritorcono su se stessi.

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• Proiezione: Attribuire all’esterno ciò che in realtà appartiene al sè,

colpevolizzando, lamentandosi, giustificando il proprio vissuto. La commistione

tra percezione e proiezione cambia a seconda della situazione: se si temono gli

orsi, li si vedono ovunque; se si hanno problemi con la propria mamma, questa

diventa onnipresente.(P. Quattrini, 2011).

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Capitolo 4

L’integrazione tra competenze sportive e

competenze affettive

L’obiettivo di questo capitolo è definire alcune possibilità di integrazione tra ciò che

accade dal punto di vista della prestazione sportiva e ciò che accade dal punto di vista

psicofisiologico.

Partendo dalle abilità e le competenze di un atleta del tiro a volo, dopo aver

approfondito il loro significato dal punto di vista della PdG, è possibile individuare una

sintesi in cui gli aspetti relazionali ed emozionali si integrano agli aspetti della

prestazione sportiva, creando un filo conduttore nella persona che compie il gesto

tecnico.

La gestione della gara dal punto di vista relazionale

Nella gara si possono analizzare diverse relazioni: tra atleta e l’ambiente, atleta e

allenatore, atleta e avversari, l’atleta e il pubblico, l’atleta, il fucile e così via.

La prestazione finale sarà di certo influenzata da queste relazioni, quindi ritengo di

grande importanza approfondire e far si che queste relazioni siano il più soddisfacenti

possibili e il meno stressanti possibili, proprio per permettere all’atleta di esprimere le

proprie abilità al meglio. Buber, il teologo ebreo che ha descritto un cammino

esperienziale alla trascendenza, dice che: “nella relazione si produce una grandissima

energia, che fonde quello che c’è intorno, un’esplosione capace di fondere la barriera

che separa le persone dal mondo. Da questo punto di vista il miglioramento della qualità

della vita di una persona non consiste allora solo nella recessione dei sintomi, ma

nell’incremento della vita spirituale, nell’accorgersi appunto di quello che succede fra

sè e gli altri, fra sè e sè, fra sè e i fiori, fra sè e le cose...tutti i fra che possono venire in

mente” ( P. Quattrini, 2006).

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NEL CASO DI G. una differenza da evidenziare riguarda l’avvicinarsi alla gara.

Precedentemente partiva per la località in cui si sarebbe svolta la competizione con 3

giorni di anticipo e si allenava sul luogo fino alla gara. Dal Giugno 2012 abitualmente

arriva alla sede di gara la mattina precedente la competizione.

Inoltre ho osservato ed approfondito un aspetto sociale durante i giorni di gara, infatti

dal Giugno 2012 ha cominciato a limitare notevolmente le relazioni sociali anche nei

momenti di riposo, in cui preferisce isolarsi e rimanere focalizzato sulla gara.

La relazione con il fucile

In una cornice gestaltica mi sono accorto di quanto la relazione con l’arma sia

importante e quanto possa influire sulla prestazione.

Nel tiro a volo il fucile è il mezzo per rompere i piattelli, quindi il gesto tecnico deve

passare obbligatoriamente per esso, chiaramente anche attraverso le cartucce.

Il fucile moderno è molto modificabile, per essere adattato alle caratteristiche

dell’atleta, di conseguenza ogni atleta ha la possibilità di modificarlo in qualsiasi

momento, ed ogni minuscola modifica può cambiare il modo di tirare.

Questo influisce a livello sia emotivo che cognitivo sulla relazione con l’arma.

Riuscire a creare una relazione di fiducia stabile nel tempo con l’arma è difficile.

Una delle maggiori difficoltà nella relazione atleta-fucile è l’attribuzione di causalità

nell’errore: spesso gli atleti attribuiscono un errore al fucile, ad esempio un suo

malfunzionamento, oppure una modifica a cui si fa fatica ad abituarsi. Questo può

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creare delle difficoltà o conflitti all’interno della relazione, fino a perdere la fiducia e

dire “ questo fucile non va bene per me”oppure “è tutta colpa del fucile”.

Il tiratore sceglie con grande attenzione il proprio fucile e le cartucce, fidandosi delle

proprie sensazioni e di quelle dell’allenatore, dal primo momento si instaura un legame

e l’arma diventa una protesi del corpo che si muove all’unisono con esso.

Spesso nella relazione con il fucile nasce anche un significato affettivo, ad esempio il

primo fucile, o quello con cui si è vinto qualcosa di importante, a volte invece risulta

complicato “abituarsi” alle modifiche o ad un nuovo fucile.

NEL CASO DI G. il fucile è stato modificato diverse volte: Nel dicembre 2011 cambia

fucile in quanto il precedente si era usurato nel tempo, nell’aprile 2012 modifica il

calcio ( dopo 3 anni che utilizzava lo stesso) il nuovo calcio risulta più lungo e con il

nasello regolabile. Nel Giugno 2012 accorcia ed alleggerisce il calcio.

Un esempio di quanto possa essere causa di errore il cambiamento del fucile è stato

quando durante un colloquio dopo un allenamento del gennaio 2012 G. dice di aver

sparato molto male in quanto sentiva di dover dimostrare che sapeva sparare bene col

fucile nuovo di fronte al padre ( che ha pagato il fucile) e all’allenatore senza darsi il

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tempo di prendere confidenza con l’arma. Questo stato d’animo lo ha portato a sparare

senza controllo e con rabbia.

Competere

Nello sport, la performance è una forma speciale di comportamento. E’ il

comportamento che incorpora la dimensione competitiva, che coinvolge il desiderio di

maestria e superiorità, e molto spesso è effettuato in presenza di altri...la Peak

performance è una performance incredibile.

(Pargman, 2006).

Gli esseri umani sono competitivi e quindi anche in caso di pace è facile che spesso il

rapporto sia spesso competitivo anche quando apparentemente amichevole. Questo

comporta di regola malessere, difficoltà, rabbia e paura: le persone si spaventano, si

chiudono e più sono chiuse e meno sono flessibili, e la competizione diventa allora

l’unica opzione possibile e la creatività non ha più chances. Un modo tipico di essere

competitivi in modo difensivamente mascherato è pretendere di avere ragione. ( P.

Quattrini, 2006).

La competizione ha per sua natura una specificità concreta, si compete per qualcosa.

Quando le persone gareggiano per essere il migliore, sono fuori dalla competizione

reale perché ogni atleta può gareggiare al meglio di sé e il risultato finale dipenderà da

molti altri aspetti della gara su cui nessuno può esercitare un controllo (ad esempio,

l’abilità degli avversari o i cambiamenti meteorologici). Al contrario chi pretendesse di

essere il migliore vive in realtà una competizione ritualizzata, dietro la quale si evince

l’idea che “ se sono meglio, otterrò senza dover competere o impegnarmi troppo”.

Quest’ultima scelta pone l’atleta in una situazione che non è esistenzialmente

compromettente, poiché si aspetta di ottenere la vittoria in virtù deI suo vissuto di essere

il migliore. Se voglio la torta, i casi sono due: o la ottengo o non la ottengo e,

comunque vada, la cosa è compromettente perchè, se la ottengo so che all’altro

dispiace, e se non la ottengo, dispiace a me. Una via d’uscita è appunto convincersi di

essere meglio: da una parte, non c’è nessuno che se ne può risentire; dall’altra,

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l’eventuale sconfitta viene pacificata. Il problema, però, è che essere meglio di per sè,

cioè nell’autoreferenzialità del riconoscimento, non porta a nulla!

Un’altra via d’uscita dalla competizione è la rivalsa, eufemismo per “vendetta”: “ ah

ecco, non ho avuto la torta, tu sei cattivo!”, e ciò dà forza, visto che allora si combatte

non per prepotenza ma per giustizia: questa forza, tuttavia, affonda nel dolore, e alla

fine cattura in una spirale masochista che non fa gli interessi del soggetto, e che, anzi,

può facilmente far perdere la direzione del valore.(P. Quattrini, 2011)

Tipi di competizione

Competizione per interferenza

Succede direttamente tra individui durante l'atto di aggressione, ecc. quando un

individuo interferisce con gli altri per il cibo, la sopravvivenza, la riproduzione o per

stabilirsi in una porzione dell'habitat.

Competizione per sfruttamento

Succede indirettamente a causa di risorsa limitata comune che agisce come un

intermediario. Per esempio, l'uso di una risorsa per alcuni causa la scarsità per altri o,

anche la competizione per lo spazio.

Competizione apparente

Succede indirettamente quando due specie, per esempio, sono prede di un predatore

comune. In tal caso c'è competizione per lo spazio libero dei predatori.

Le persone pensano di venire in terapia per imparare a vincere, in realtà vengono per

imparare a gestire la perdita attraversi una trasformazione. Non importa che poi la

persona sappia difendersi o vinca, l’importante è che viva l’esperienza della

trasformazione della perdita.

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Mettendosi in una situazione di accettazione reciproca della propria competizione e

della propria benevolenza si può raggiungere una sintesi, cioè un risultato in cui

vengono soddisfatte ambedue le polarità.

L’unico posto dove la competizione non fa danni è lo sport: nello sport esiste il fair

play, la possibilità di imparare dall’avversario più bravo, di migliorarsi gareggiando con

i più forti: si perde, ci si stringe la mano e si va avanti. (cit. P. Quattrini).

Le emozioni

Nella psicologia dello sport le emozioni sono state studiate soprattutto nell’approccio

cognitivista, Oatley uno dei più grandi cognitivisti contemporanei nella sua opera

“psicologia ed emozioni” (Oatley, K, 1992) definisce due componenti di un’emozione:

1. La preparazione all’azione: In cosa consiste il nucleo di un’emozione? La risposta

migliore, basata sullo stato attuale delle nostre conoscenze, è che esso è uno stato

mentale di preparazione all’azione ( Frijda N. H., 1986)

oppure un cambiamento nella preparazione. Un tale cambiamento di preparazione si

basa normalmente sulla valutazione di qualcosa che sta avvenendo e che concerne degli

elementi per noi importanti. Questa valutazione non viene necessariamente fatta a

livello conscio. Un’emozione fa emergere una gamma di opzioni per l’azione. Quando

siamo spaventati, valutiamo una situazione in relazione alla preoccupazione per la

nostra sicurezza e ci accingiamo a bloccarci, lottare o a fuggire. Smettiamo di fare ciò

che stavamo facendo e controlliamo se ci siano segnali di pericolo (Gray,J. A. 1982). In

una condizione emotiva siamo spinti in modo compulsivo verso una gamma ristretta di

azioni. Se proviamo paura ci sembra impossibile agire se non cercando dei modi per

metterci in salvo; se siamo tristi possiamo sentirci del tutto incapaci di fare qualsiasi

cosa.

2. Tonalità fenomenologica: Questa descrizione delle emozioni come stati di

preparazione all’azione mette in evidenza una funzione sottostante dell’emozione. Le

emozioni anche anche una tonalità fenomenologica distintiva della quale potremmo

essere consapevoli. Ogni emozione può essere tipicamente sentita come diversa da

un’emozione contrastante e diversa dalle non-emozioni. La tristezza è diversa sia dalla

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felicità che dal ragionamento deduttivo o dalla sonnolenza. A volte possiamo non essere

consapevoli in modo conscio di un’emozione, sebbene gli altri possano vederne dei

segnali nel nostro comportamento. A volte le emozioni sono incipienti e noi stessi non

siamo in grado di capire come realmente ci sentiamo.

La sensazione conscia di un’emozione, della tristezza della paura o simili, non è

identica alla valutazione o allo stato di preparazione. Il nucleo di un’emozione è uno

stato mentale sottostante del quale, come accade per la maggior parte degli stati mentali,

risultano consci solo aspetti limitati. I meccanismi che generano la preparazione

all’azione non sono consapevoli.

In Gestalt uno dei capisaldi teorici è il ciclo del contatto che pone l’emozione prima del

pensiero e dell’azione. Nell’approccio fenomenologico il punto d’interesse psicologico

è l’effetto che fa l’emozione stessa. “Le emozioni non sono ciò che distingue gli esseri

umani dagli animali, ma piuttosto ciò che li apparenta a loro, in quanto tutti gli esseri

viventi sono dotati di quel che si può cosiderare il software necessario per la gestione

del movimento: come il motore muove la macchina, così l’emozione muove il corpo.

Un errore comune è pensare che si faccia qualcosa poichè la sia è pensata, mentre

pensare equivale, metaforicamente parlando, soltanto a girare lo sterzo: se il motore non

è in moto, per quanto si giri lo sterzo non si va da nessuna parte” (P. Quattrini, 2011)

Agli effetti pratici, la gestibilità emozionale si basa fondamentalmente sulla capacità di

trasformazione della paura e del dolore in rassicurazione e consolazione o rabbia, a

seconda delle necessità del momento.

La rabbia, essendo l’adattamento fisico al combattimento, è necessaria quando c’è da

lottare, altrimenti diventa un impedimento, e sono invece soluzioni adatte rassicurazione

e consolazione.

La paura, come tutte le emozioni, è un’esperienza psicofisica, dipende dalla presenza

nel sangue dei neuromediatori che”fanno” l’emozione: quelli possono cambiare

quantitativamente in tempo breve, e se si stà attenti si nota, e si fa esperienza della

diminuzione della paura. Scoprire cosa la fa diminuire fa parte del processo di

rassicurazione, ed è una prassi ben conosciuta per il dolore, ma non praticata abbastanza

per quanto riguarda la paura.(P. Quattrini, 2011)

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Conclusioni

Il mental training è uno degli aspetti del lavoro con l’atleta che è influenzato

maggiormente dal background teorico del proprio modello di riferimento.

Nella bibliografia mondiale, la maggioranza degli studi moderni e delle ricerche sono

state condotte seguendo un approccio cognitivista. Nel corso del secolo scorso la

psicologia dello sport è cresciuta molto grazie a psicologi venuti da modelli come

sistemico-relazionali, comportamentisti e così via.

Allenare abilità come l’attenzione, la concentrazione, il rilassamento, l’immaginazione,

significa per tutti gli approcci la stessa cosa, ovvero la ricerca del miglioramento della

performance. Ciò che fa la differenza è il come: infatti ogni modello ha i suoi vantaggi

e svantaggi.

In questo caso l’approccio gestalt ad indirizzo fenomenologico-esistenziale è stato il

punto di riferimento in ogni incontro con G.e la base sulla quale è stato strutturato tutto

il mental training.

Per uno psicologo dello sport è fondamentale conoscere la disciplina praticata dall’atleta

in ogni suo aspetto: regolamento ufficiale, etica, storia della disciplina, ma anche miti e

leggende del movimento culturale che uno sport ha nel suo “dna”.

Il tiro a volo nello specifico richiede un prontezza mentale degna di uno sprinter, con la

differenza che ogni partenza viene ripetuta per 125 volte, quanti sono i tiri da effettuare.

La preparazione di un solo tiro dura 7/8 secondi e l’azione susseguente di tiro è della

durata di 60 centesimi di secondo. Talvolta gli atleti di questa disciplina, quando sono

sotto pressione, riescono a distrarsi proprio durante questa manciata di secondi. Perché

ciò non succeda l’allenamento mentale è di fondamentale importanza ed è teso a

determinare quella condizione che permette all’atleta di restare focalizzato solo sulla

propria azione tecnica e non sull’idea di dovere rompere il piattello. (Fonte:

albertocei.it).

L’operazione più complessa di questo approfondimento è stata “tradurre” i concetti

cardine della letteratura sul mental training in concetti gestaltici, ed ottenere un diverso

punto di vista su cui costruire un filo conduttore teorico.

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Seguendo i principi teorici di questo modello, il lavoro con l’atleta è stato incentrato

principalmente sulfare esperienza, sulla tematica del contatto e sull’effetto emotivo,

tutto questo all’interno della relazione empatica tra atleta e terapeuta

L’ empatiainfatti rappresenta per il terapeuta la possibilità di lavorare con la persona

mantenendo la consapevolezza di una distanza fluttuante, la quale a sua volta permetta

l’incontro tra Io e Tu - ma non il collassamento dell’Io nel Tu e viceversa. L’empatia “è

la capacità di accorgersi che cosa sente l’altro senza confondersi con lui, ed è certo una

capacità naturale, ma solo praticandola si riesce a gestirla in modo funzionale”

(Quattrini, 2007). Si tratta della capacità di “stare sia nella propria esperienza che in

quella dell’altro” (Quattrini, 2007), accorgendosi delle differenze; ed è proprio nelle

differenze che è stato possibile trovare lo spazio di crescita, sia personale che sportiva.

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