Genius Journal N.1

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-Il giornale che vedete nasce da notti insonni trascorse a parlare di questo, con le menti troppo colme di pensieri per lasciare spazio al sonno.- Aurora Potete scaricarlo gratis, Genius è per voi e per tutti, Genius è di tutti. Potete inviarci quello che volete, articoli, opere, poesie, canzoni, Genius è un Magazine opensource e tramite i social-network diffonde cultura, la vostra cultura, potete essere artisti e giornalisti, farvi un'intervista ed inviarcela ad esempio, o scrivere un articolo su un locale, una serata, una recensione di un film, quello che volete. Contatti: [email protected] 389 841 8961 Genius

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PREMESSA

“Genius”Innanzitutto voglio spiegare che significato ha, per me e per gli altri ragazzi della redazione, la parola “genio”. Secondo noi un genio è chi crede davvero, con tutta l’anima e tutto il corpo a cio che fa, qualunque cosa faccia, chi ci mette passione, tempo, chi ci dedica l’intera vita. Ma forse questo non basta. Forse per essere dav-vero dei “geni” bisogna oltrepassare quella linea invisibile che divide ragione da istinto. Forse bisogna osare. Forse bisogna essere folli. Perchè senza quella vena di pazzia, senza il desiderio irrefrenabile, senza il fuoco che scorre nelle vene e brucia, col rischio di consumare tutto in una sola fiammata, il genio non puo esistere. Il giornale che tenete tra le mani nasce da not-ti insonni trascorse a parlare di questo, con le menti troppo colme di pensieri per lasciare spazio al sonno. E infine abbiamo deciso di crea-re “qualcosa” grazie alla quale i geni potessero avere risalto, essere riconosciuti e riconoscer-si a loro volta. Abbiamo intervistato artisti di ogni genere, scritto articoli, ci siamo urlati addosso e poi abbracciati, ci siamo telefonati ubriachi nel cuore della notte, ci siamo confes-sati i nostri piü intimi segreti. Poi, finalmente, abbiamo creato Genius.

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ARTE E CULTURA

Expo 2015 L’Expo di Milano è argo-mento di dibattito ormai da anni, come si svol-gerà questo evento?

Internet E l’appiattimento cul-turale, dic he sto par-lando? Non lo so...

Valentina Volpi Giovane pittrice, ci spiega come ha iniziato a rendere così partico-lare il suo stile.

Mike the Meme Noto scrittore di Black Humor, oltre che sulla sua pagina FB scrive per Lercio.it

CesareCacitti Il più giovane Maker italiano che a quattor-dici anni ha costruito una stampante 3D.

IND ICE

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MUSICA

Jana’s Band Milanese, spac-cano, fanno Indie Rock. Grazie alla loro passata esperienza ci racconta-no come funziona il loro mondo...(Presentazione, intervista nel N.2).

Gli Amanti Band Torinese prodot-ta da Universal Music. Ci parlano della loro esperienza professionale nell’ ambiente della mu-sica emergente.

Mad Giovane band Milanese, hanno organizzato diver-si eventi e ci parlano dell’ autoproduzione.

INDICE

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RECENSIONI

FILMINTERSTELLAR

Christopher Nolan

FRANKLenny Abrahamson

TUTTO PUO’ CAMBIAREJohn Carney

LIBRINEL SEGNO DELLA PECORA

Murakami

IND ICE

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FOTOGRAFIA

Mattia Crepaldi Giovane fotografo co-nosciuto a Milano per il suo stile particola-re, dittici in Bianco e nero, ci racconta di se.

Umani a Milano Fondata da Stefano d’Andrea, è un’associa-zione ispirata da Humans of New York, fotografa le persone di Milano, asso-ciando descrizioni e pa-role per far capire il contesto, del luogo in cui viviamo.

EVENTI

Lista eventi Tutti gli eventi da Di-cembre a Gennaio! Ecco cosa fare!

INDICEINDICE

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4 CULTURA

L’ATTESA INFINITA. L’ATTESA PER COSA?

Sito espositivo di Expo oggi.

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Arriviamo alla scelta della città, Milano. Come si comporta la capitale della moda e design, rispetto alla realizzazione del secondo dei due eventi Expo avvenuti in questa città? Decide di eliminare le realtà scomode che offuscano la Milano che il governo ed Expo desiderano, sgombera centri sociali, abbatte il vecchio in cerca di un’estetica sobria e priva di conflitti, ma il nuovo non è necessariamente meglio, basta guardare la vista del ca-stello, deturpata da le cosiddette “piramidi di luce” ovvero uno degli “Expo Gate”. Ma questo progetto non è destinato a perdurare. La pulizia che Expo sta provocando a Milano non è una pulizia ambientale, in cui realmente si sta facendo qualcosa per la città, è una pulizia sociale ed un inghirlandare, come fosse un albero di natale, la nostra città. Questo è il tentativo di ottenere una falsa armonia, non condivisibile dai cittadini che vivono concreti momenti di difficoltà economiche e sociali. Perché invece non coinvolgerli? Soprattutto i giovani, dando loro la possibilità di portare avan-ti le proprie iniziative, dargli la possibilità di immaginare una città nuova, vivibile ed eco sostenibile, spiegare ed illustrare loro gli effetti positivi di Expo, coinvolgere invece che chiude-re porte, cambiare grazie ad idee innovative, portate avanti dai nostri futuri cittadini? Proviamo a nutrire davvero il pianeta con nuove menti.

Caterina Moro

Noi siamo ciò che mangiamo.È proprio questo il filo con-duttore di expo 2015. Expo che si dichiara attento e basato sul problema del nu-trimento dell’uomo. Uomo e cibo dunque, strettamente connessi, dipendono in modo diretto l’uno dall’altro. Più banalmente mangio bene, vivo bene. E quale luogo mi-gliore per celebrare que-sta odissea di sapori se non l’Italia, patria del miglior cibo e della miglior cultura gastronomica del mondo?

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6 CULTURA

Novembre - Dicembre 2014

Siamo la generazione che ha troppa informazioneSiamo costantemente a contatto con il mondo, possiamo sapere qual-siasi cosa. Ma forse è un potere troppo grande da gestire, per ora.

Una volta si studiava sui libri, adesso si vive su internet. Bei tempi, direbbe qualsiasi professore di letteratura. Non essendo io un professore di letteratura vi aspetterete che vi dica “Oggi siamo moderni e studiamo su internet”. In realtà, la penso anche io come il professore di letteratura.Internet è un mondo infinito, contenente il sapere del mondo a par-tire della preistoria fino ad arrivare alle previsioni sulla fine della terra. C’è la storia dell’uomo, la scienza, la matematica, la biologia molecolare (Bernacchia’s Rules ndr), l’astrofisica, la meccanica quantistica, la letteratura, la poesia, l’arte, il ci-nema, la musica e ci sono anche tante cose inutili, tante, o forse più, di quelle utili. Internet ci ha reso talmente multitasking che riusciamo a fare tut-to e niente. Lo studio di una volta era concentrazione, prendevi in mano il tuo libro polveroso, che due generazioni di studenti avevano usato pri-ma di te (perché l’edizione semestrale del libro con aggiornamenti multimediali non esisteva ancora), aprivi alla pagina corretta e iniziavi a studiare, sottolineare, appuntare, rileggevi e ripetevi ad alta voce fino a quando non ti era entrato tutto in testa. A quel punto la sapevi, ti eri costruito un blocco di sapere che ti sareb-be rimasto nei cassetti della memoria per tempi più o meno lunghi.Oggi non è così, si è perso il senso dello studio, facciamo così tante cose allo stesso tempo che concentrarci su una sola di esse ci è impossibile, e allora facciamo tutto come viene, senza ren-dercene conto, studiamo sull’e-book con Facebook aperto ridotto ad icona, alla fine di ogni riga di testo letta si alterna un “tudu” di Facebook e “wiwu” di Twitter, quasi fossero lo schema metrico della rima alternata ABAB. Il nostro blocco di sapere, quello che pensavamo ci stessimo co-struendo è offuscato da suoni dei social network, piccoli spezzoni di un film in streaming ed il nuovo pezzo dei Club Dogo. Siamo ab-bandonati in un mondo vasto come internet, alla ricerca di cultura che non riusciremo mai a trovare poiché troppo impreparati. “Inter-net” dovrebbero insegnarlo a scuola, dovrebbero insegnare a trovare quello che si cerca ed a studiarlo tenendo presente che è una cosa che deve rimanerci, non dissolversi dopo i primi tre minuti del nuovo video di Frank Matano.

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7CULTURA

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Prendiamo il primo diciassettenne che ci capita davanti, tre cose sono sempre presenti sulla sua persona: uno smartphone, delle cuf-fie/auricolari,e una libreria musicale che va dalle tremila alle infinite canzoni piratate, e pensare che fino a poco più di dieci anni fa per avere tremila brani nella tua libreria dovevi avere una stanza apposita per contenere (con una media di dieci canzoni ad LP) i tuoi tre-cento dischi. Questo significava spendere parecchi soldi in musica, e spendere parecchi soldi in musica significava prendersi un impe-gno verso la musica che di conseguenza non era, com invece è oggi, una cosa così naturale: “sento e scarico”; ci spendevi del tempo, c’era una passione con la quale riuscivi a scegliere la musica che volevi, c’erano dei gusti musicali ben definiti che descrivevano te e chi avevi intorno. Oggi invece tutti scaricano qualsiasi cosa, non parlo solo di musi-ca: libri, film, playlist create da qualcun’ altro per non parlare dello streaming di Spotify. Ormai avere i propri gusti in fatto di arte e cultura non è più una priorità, basta avere tanto, avere tutto, guardiamo un film solo se MyMovies ci dice che ha più di tre stelline su cinque, o in base al giudizio scritto, che può varia-re da “assolutamente no”, “no”, “nì”, “si”, “assolutamente si”, e diciamocelo molti film che sono giudicati da “nì” ad “assolutamente si”, sarebbero da cestinare.Poi ci si mettono tutti i vari OnDemand di Sky, Apple TV, Premium e tutto il resto, anche qui (oltre che nei siti di streaming illega-li) la scelta è così ampia che ogni poveretto che voglia scegliere un buon film alla fine non sa cosa fare, e gli capita sempre di ri-trovarsi davanti ad un lungometraggio del quale non gli interessa nulla, perché non possiede più dei gusti propri.Ci stiamo appiattendo sotto il peso di servizi che superano le ri-chieste, soprattutto in questi mesi, sotto natale, escono tre album musicali al giorno, addirittura, due per band, o per artista. D’altronde anche la musica ormai è solo business, ce l’ha insegna-to Apple con gli U2, la musica ormai è come un iPhone, se non fai uscire un album ogni sei mesi rimani indietro, e così il mercato diventa saturo, gli utenti insoddisfatti vogliosi dia vere sempre l’esclusiva, il prodotto nuovo, e svuotarsi il portafoglio, dare le informazioni del proprio conto bancario a destra e a manca tra Amazone, Apple Store, PayPal, Ebay, Zalando e tutto il resto, così da poter fare in modo che lo stato riceva quel famoso 22% di iva su qualsiasi cosa voi paghiate, e tra parentesi (il 22% è una cifra esorbitante, infatti il costo della vita è altissimo), ma ce ne sbattiamo e troviamo code di otto ore di attesa fuori dai centri Apple dove la gente entra pulita ed esce con un contratto che li vincola ventiquattro mesi, con una spesa mensile media di cinquanta euro.Tutti vogliono sempre di più, e tutti hanno sempre meno e nonostante l’evoluzione tecnologica vada avanti noi andiamo sempre più indie-tro perché incapaci di gestirla, e così la cultura si appiattisce, noi rimaniamo nel nostro bozzolo mentre intorno a noi nascono sem-pre più mezzi per uscirne, e noi li ignoriamo.Il punto è che in Italia, più che nel resto del mondo, siamo già arrivati sul fondo ma non ci basta, noi sul fondo ci scaviamo e il nostro stato ci offre vanghe sempre più grosse.

Matteo Galvani

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Diverse sono le correnti artistiche nate nel mondo con-temporaneo e numerosi sono gli artisti che ci sono oggi; persone normali, indistinguibili esteticamente da chiunque altro, e che tuttavia possiedono, o credono di possedere, un dono, una sensibilità che li rende unici nel loro genere e diversi da chiunque altro, una sen-sibilità che è un vero e proprio inno alla soggettivi-tà, senza la quale nessuna espressione dell’arte sareb-be possibile. Così, incuriositi da questi straordinari anonimi artisti, lo scorso 15 Novembre ne abbiamo in-tervistato uno. Anzi, più precisamente, una: Valentina Volpi, ventiduenne, maturità artistica presso il Lice Artistico “le Preziosine” di Monza e che ora sta appro-fondendo questo suo “dono” nell’Accademia di Belle Arti di Brera.

Ciao Valentina; senti, partiamo con le domande: tu ti ispiri a delle ragazze che hai visto, te le immagini da zero o sono au-to-ritratti? Allora, partiamo dal presuppo-sto che adoro la bellezza femmi-nile, quindi, come per tua so-rella (di M.G. ndr), mi innamoro di qualche ragazza proprio per la sua delicatezza, per i tratti del viso, lo sguardo, e parto dal vero. Quindi non invento nien-te, e anche per gli autoritratti parto da me stessa e poi ovvia-mente idealizzo un po’, cerco di ricreare qualcosa di veramente tanto bello cercando di partire da persone normali. Mi ispiro ad uno stile bohemien, che ricor-da un po’ la natura, uno stile fatto di fiori, una cosa molto nei boschi, e questo per i sog-getti, quindi non invento nulla ma prendo le cose che esistono davvero e le rielaboro sempli-cemente, poi ovviamente le mie opere non sono solamente fatte di donne ma una parte fondamen-tale sono gli sfondi, Mixed media on paper, 29,7x42 cm

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sfondi che non sono solo messi a caso, ma cerco, con la mia linea grafica, di farli interagire con il personaggio in modo che loro pos-sano dare senso ad esso ed esso dare senso a loro.

Come hai cominciato ad approcciarti al mondo dell’arte?Fin da piccola avevo questa passione, credo come tutti, questo im-pulso a dover fare qualcosa di mio: una volt finito un disegno, per esempio, lo guardo e mi dico “cavolo, questa cosa cinque ore fa non esisteva, e l’ho creata io !” ed è una cosa che mi dà una soddisfa-zione pazzesca; ho iniziato da subito, ma in terza media ho reso una strada sbagliata, ovvero quella del liceo scientifico per le solite varie voci che dicono che il liceo artistico non porti da nessuna parte. Questo sbaglio però mi ha portato a girare verso l’artistico.Quindi l’Arte è uno stile di vita?Certamente; e poi, io, non voglio sembrare presuntuosa, ma mi sento una sensibiliutà diversa, quella sensibilità che hanno i musicisti, gli scrittori… Insomma, ci ritroviamo in una certa… “dimensione”, ecco.

Qual è stata la tua esperienza formativa a livello tecnico?Intendi “scolastico”? Beh, ho fatto il liceo prima della riforma, che si focalizzava su tutto, adesso c’è l’indirizzo figurativo, l’in-dirizzo multimediale, design eccetera, io invece ho fatto un po’ di tutto, architettura, design, illustrazione, arti grafiche, un po’ di tutto, e insieme ai professori sperimentavamo diversi tipi di resa pittorica; io ho scelto di focalizzarmi sulla resa grafica, quindi su dei tagli netti, su dei tagli particolari. Il fatto di fare linee molto acute le ho prese, anche se non si direbbe, da Egon Schie-le, un artista fantastico: lui parla dell’auto-scarnificazione, del fatto di scavarsi dentro, dell’io, i suoi continui auto-ritratti mi hanno ispirato fin da subito, mentre le tecniche grafiche, per quanto riguarda l’aspetto decorativo, l’ho presa visibilmente da Gustav Klimt, e quindi il so essere decorativo, il suo essere pieno, pieno di spunti, di dettagli, e quello è il fulcro del mio lavoro.

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Ma mentre lavori, cosa ti ispira, a parte i soggetti?Io lavoro proprio di notte, perché fino alle cinque del pomerig-gio sono “off-limits”: non mi serve a nulla lavorare; di notte (per esempio stanotte sono andata a letto alle quattro e mezza e mi sono svegliata alle sette e mezza) sei da solo… a proposi-to, ho una stanza disordinata per cui mi sono trasferita in sala a lavorare. Non sto scherzando: non riesco a camminare in came-ra mia. Comunque l’ispirazione prevalente è la musica, e dipende dal genere, non mi fisso su uno solo, spazio dal pop, al rock, alla musica classica, alla musica celtica, alla musica antico-elleni-ca… qualunque cosa, anche perché la facoltà di scenografia che sto frequentando incide tantissimo. Poi riviste: riviste che trovo a Milano, in giro, sotto il letto, le prendo, le sfoglio, le rita-glio… Anche loro sono dei punti fondamentali. Anche perché in ogni articolo (che può parlare di gatti, pozzanghere, automobili) posso trovare una parola che mi è utile per l’opera che sto facendo, la compongo e ho lì la mia “opera”, diciamo. E mi piace pensare che tutte quelle parole non siano lì per caso: se sfoglio un quaderno, una rivista, e trovo quella parola, significa che io lì, in quel momento, dovevo trovare quella parola perché mi rappresentava al massimo.

Quindi c’è una grafica, un’estetica, anche nel significato della pa-rola?Sì sì, perché l’importante dei miei lavori è la figura ma anche il collage attorno. Cerco di richiamare il mio sentimento interno. Una cosa che mi ricordo della mia prof. di arte al “Caravaggio” è che lei mi disse che mi avrebbe descritto con due parole: la forza e la dolcezza. E io ho voluto rappresentare questi due aggettivi nelle mie opere, in queste donne consce della propria sensibili-tà, ma anche della propria forza, e quindi non di una fragilità in quanto sensibili, ma piuttosto attente a qualcosa di altro.

Dell’Arte pensi che sia una scienza infusa, che la si abbia den-tro, oppure riconosci un ruolo formativo importante anche all’in-dirizzo che hai scelto di frequentare?Si nasce con questa cosa: io, alle medie, quando ancora non sei tenuto a compiere una scelta specifica, avevo i quaderni pieni di disegni. Di sicuro poi la scuola ti aiuta ad affinare, e ci sono molte persone, migliaia che sono sedicenti artisti ma che dell’Ar-te non hanno assolutamente niente, perché dev’essere una cosa innata. Non voglio dire che ce l’abbiano pochi eletti, ma è, come ho detto prima, una differente sensibilità: o ce l’hai, o non ce l’hai. Io conosco persone che, non dico che siano stupide, però dici “cavolo, ma non riesci a cogliere questa piccola sfumatura? Io ti dico una cosa e tu capisci tutto l’opposto?”, e quindi maga-ri ci sono degli scontri.

Tu come percepisci l’ispirazione? Quand’è che credi di sentirti ispirata?Provo profonda felicità, dico “finalmente!”. Potresti metterti lì per giorni e poi, tre ore prima della consegna, ti viene, e lì, quando arriva, senti una sensazione come quella che proveresti se ti iniettassero del cioccolato nelle vene. Un’iniezione anche di sicurezza, perché dici “meno male, allora non sono “scaduta”, pos-so continuare ad andare avanti” e il trauma del “foglio bianco” è… pazzesco.

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L’hai mai avuto?Sempre! Ogni volta che devi iniziare un disegno piovono molte in-sicurezze anche rispetto alla possibilità di non riuscire a soddi-sfare le aspettative degli altri e anche di me stessa, la paura di deludermi. Comunque so che, alla fine, riesco a cavarmela, in ogni caso.

Qual è stato il primo lavoro che ti ha indirizzato verso il tuo attuale stile?Il mio primo lavoro l’ho realizzato al liceo durante un’ora di quarta storia in quarta (o forse quinta), ispirandomi ad un lavoro di Klimt che si chiama “Le bisce d’acqua” e lì ho detto “ci siamo, sto cominciando a prendere forma”. Ovviamente ero ancora, e forse lo sono anche adesso, proiettata nello stampo di Klimt, come tutti gli artisti: all’inizio devi per forza prendere qualcuno per ispi-razione, nessuno crea dal nulla tutto quanto. Ero ancora molto le-gata; ora sto cercando di divincolarmi un po’. Infatti sto andando su una linea più grafica, illustrativa. Una linea diversa.

La mostra a Londra com’è arrivata?La mostra a londra è arrivata perché mi sono iscritta ad una community di artisti, tipo Facebook, però ci sono artisti e gal-leristi che si cercano a vicenda e una donna, Rosy Ranieri, mi ha contattata per esporre nella sua galleria di Londra, vicino a Piccadilly Circus. Da lì poi ci siamo sentite, messe d’accordo ed è nata quest’opera, “Disarmonico cast di forme belle”, alquanto grande, e lì ho adottato una tecnica diversa: infatti di solito lavoro su cartoncino ed uso pantoni, grafite… tutto ciò che trovo: pezzi di chiodi, di giornale… qualunque cosa. Lì, viste le di-mensioni, non potevo lavorare su carta e così ho lavorato su MDF trattato con gesso acrilico e sopra ho lavorato solo con colori acrili, appunto, e ritagli, ed è stato difficile perché lì non po-tevo avere la gestualità del tratto di matita, di penna, ma dovevo attenermi al pennello, insomma.

Stavamo dicendo che la facoltà che frequenti è Scenografia, giusto?Sì, ma non è quello che voglio fare nella vita, ma ho scelto que-sta facoltà perché raggruppa più strade diverse, dal canto alla recitazione, al teatro, alla musica, al cinema… è davvero tut-to. Poi il fatto che andiamo a teatro tutti insieme colla classe è davvero un arricchimento in più. Ho scelto scenografia appunto per la sua poliedricità e spero che questi continui stimoli diver-si mi facciano crescere da più punti, insomma. Vorrei fare questi tre anni al Brera e poi passare allo IED, anche se è solo un’idea, a fare illustrazione. E in tutto questo desidererei anche un tot di mesi all’estero per contaminarmi di altro, perché stando sem-pre negli stessi posti con sempre le stesse persone si rischia di fare le stesse cose, quindi ho bisogno di altro. In questo perio-do specialmente sento che devo cambiare. Mi sono detta “forse devi smetterla e iniziare qualcosa di altro”, perché alla fine è sem-pre così, fai un lavoro e dopo quattro giorni lo riguardi e dici “cavolo, avrei potuto fare un’altra cosa”, e lì ti viene in mente altro. E’ un continuo crescere, è un continuo rifare, strappare fogli… Perché poi io sono una perfezionista, purtroppo o per for-tuna, e quindi se non mi vedo in una cosa semplicemente la butto: non cancello il foglio e anche se sono a metà non m’interessa, dev’essere perfetto, altrimenti mi urta.

Simone di Molfetta

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MIKE THE MEME

ARTE

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Abbiamo intervistato Mike the Meme, admin dell’omonima pagina di black humor e autore di due romanzi.

Che liceo hai frequentato?Liceo linguistico

Come hai iniziato a scrivere? Be’ oddio… ho sempre avuto la voglia di scrivere però, data la mancanza di stimoli, fino alla quinta liceo non sono mai riuscito a scrivere nulla. Poi quell’anno la mia classe ha cambiato professo-re di filosofia. Il nuovo prof era un tipo un po’ misterioso, ma le sue lezioni erano interessanti a tal punto che mi hanno motivato a scrivere il mio primo libro.

Il tuo romanzo, il Cielo in Rovina, di cosa tratta?In sostanza racconta di un ragazzo che vive in una società simile alla nostra e che attraverso il suo vissuto nel corso del libro, esprime vari concetti filosofici. In generale, il succo del romanzo è la tematica della realtà assoluta, che per me è impercettibile all’occhio umano.

Come sei passato da scrivere libri al black humor, per il quale sei particolarmente famoso in rete?Be’ guarda, secondo me, ognuno ha un percentuale di black humor, una percentuale di scrittura seria, etc. Il mio black humor è so-prattutto figlio del fatto che lavoro in un albergo e spesso mi tro-vo a dover affrontare persone e situazioni abbastanza irritanti.

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ARTE

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Come hai cominciato a lavorare in hotel?Be’ essendo l’editoria italiana in mano alla mafia, perché per me quando si creano dei monopoli si diventa automaticamente mafiosi.. insomma ho dovuto trovare un la-voro. Tra l’altro sto pensando di apri-re una casa editoriale, indipen-dente e totalmente separata dalla effettiva merda dell’editoria ita-liana. E penso che se questa cosa andasse in porto, potremmo sul serio cambiare le cose. Alla fine il numero di miei iscritti arriva al milione. Ciò significa che in Italia una persona su sessanta mi conosce. Questa cosa andrebbe ben sfruttata.

E il tuo stile di scrittura come lo descriveresti?Come lo descriverei? Eh.. Guar-da, in generale non ho uno stile di scrittura, diciamo che in base a cosa scrivo mi adatto. Ulti-mamente sto sviluppando uno sti-le molto delirante che prescinde dall’ortografia.

Scrivi su Lercio?No, non scrivo su Lercio. Ogni tanto do una mano, scrivendo qualche cazzata, ma in generale sono un libero professionista.

Come ha influito nel tuo sviluppo Genova?Be’ Genova è un città bella quanto incasinata. E’ a tutti gli effetti la “Napoli” del nord. Disagiata, nel degrado, bellissima ma lasciata a se stessa. Ecco, Genova descrive a pieno la realtà che racconto nei miei libri.

Qusta è l’ultima: una domanda che ti faresti tu?Mm.. Be’ cosa ne penso del sistema di istruzione in Italia. E la mia risposta in breve sarebbe che è obsoleto e troppo indietro rispetto al resto del mondo.

-Grazie mille Mike.-Grazie a te.

Matteo Galvani, Filippo Spada

Versione integrale su N.2

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CESARE CACITTI

CULTURA

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Il ragazzo prodigio, a soli 13 anni costruisce una stampante 3D tutto da solo.

Hai soltanto 15 anni, immagino tu vada a scuolaDirei di si, per il momento devo andarci per forza. E ci andrò, spero, fino alla fine dell’univer-sità. Speriamo di non essere boc-ciato. Faccio il liceo scientifi-co, scienze applicate e comunque ho ancora un po’ di anni davanti, per ora sono obbligato.

Ah perché non ti piace andare a scuola?No, no, si che mi piace, però sono ancora almeno 8 anni.

Come hai iniziato?Allora ho cominciato a, circa, 6 anni quando mi hanno regala-to un kit di elettronica al mio compleanno e da lì è partita la passione. Ho cominciato a espe-rimentare. E poi su internet e su youtube ho cominciato a guardare tutorial e ad informarmi. I video erano in inglese quindi ho dovuto impararmi anche quello. Poi circa nel 2008 mentre stavo navigando su youtube tra i video correlati c’erano video di una stampante 3D. mi sono interessato, era una delle prime stampanti. Da lì ho cominciato a cercare come si fa-cesse una stampante 3D però non c’era tanto materiale e quel poco che c’era era in inglese, e non lo sapevo ancora così bene.

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Allora ho lasciato perdere e alla fine del 2012 ho ritirato fuori questo sogno dal cassetto e ho deciso di cominciare a costruire questa stampante in 3D. Ne avevo viste in giro e avevo più infor-mazioni.Ho cercato cosa dovessi comprare, ho sbagliato qualche cosa però dopo 8 mesi di lavoro mi sono progettato e costruito la mia stam-pante.

In cosa era diversa rispetto al progetto originario? (alle altre stampanti 3D)Beh..sono partito da zero. Ho guardato le stampanti 3D che erano in commercio e ne ho scelta una che mi piaceva e ho detto: “faccio una stampante 3D simile a questa” e da lì ho cominciato a fare la progettazione meccanica, poi ho cominciato ad assemblare e poi ad ultimare i dettagli.

Hai vinto anche un concorso?Si, il premio Masotto. Sono arrivato fra i primi 22 e ho vinto sei mesi di incubazione a un covo a Padova che non è vicino ma neanche lontano da Vicenza.

Oltre alla stampante 3D hai altri progetti? Ho un’altra stampante 3D che ormai è quasi finita e per il momen-to mi sto concentrando su quella stampante 3D che vorrei vendere a basso costo e si chiamerà C15 (Cesare e 15 anni). Prima della stampante ho fatto altre cose, però che non avevo fatto in maniera definitiva e poi ho smontato. Ad esempio ho modificato una macchinina telecomandata le ho messo il bluetooth e la potevo comandare dal mio telefono. Era a controllo numerico e fatta da pezzi di vecchi computer ecc… ho fatto vari progetti per gli amici.

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I tuoi coetanei come si relazionano con te?Mi chiedono cover per telefoni. Però non le stampo a tutti, solo amici amiciPotresti stamparle a pagamentoPotrei, però le regalo volentieri.

Le progettazioni le hai fatte con i tutorial, giusto?No per la stampante 3D niente tutorial.

E come hai fatto?Eh…sono partito dall’enciclopedia (Wiki) del progetto delle stam-panti 3D. Mi sono letto la documentazione di quelle stampanti e poi sono andato a vedere delle stampanti 3D che c’erano in giro ed ho elaborato la cosa per riuscire a farla con ciò che avevo a casa o che comunque ciò che sarei riuscito a procurarmi. Arduino quando hai cominciato ad a usarlo? Per fare la stampante hai usato anche quello?Ho fatto l’ordine del mio arduino nel 2010-2011 e così ho inco-minciato ad usarlo perché ormai l’avevo comprato. Ho imparato ad usarlo e ci ho fatto quello che ci ho fatto.

La tua start-app sta partendo per il tuo progetto C15, tu vorresti vendere le tue stampanti e come intendi fare la distribuzione?La vendita comars e la distribuzione, va be, scatola, corriere e indirizzo.

Quante ne produci?Dovrei riuscire a procurare i pezzi per una stampante in un giorno o poco più.

Il tuo progetto oltre a vendere stampanti 3D può essere quello di stampare cose specifiche?Si, se si va su 3Dapp.it e si cerca Cesare Cacitti mi mandate i file, io faccio il preventivo e poi lo spedisco. Sono 30 euro al kg e non è tanto…

Usciamo dal campo lavorativo, la tua giornata tipo? Cerco di svegliarmi per andare a scuola e quando torno a casa o vado in piscina o a lezione di piano, oppure sto a casa. Poi com-puter, studio e poi a letto.

Immagino tu vada meglio nelle materie scientifiche piuttosto che quelle letterarie. In ogni caso qual è il tuo libro preferito? Sherlock Holmes. Ho comprato la raccolta completa. Mi piace Harry Potter anche.

Aurora Zoso Terzitta, Margherita de Pace

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I jana’s sono una band milanese che si sta facen-do strada, con dirompente e appassionata originalità, nell’universo musicaleIl nome “Jana’s” deriva da “Domus de Janas” (Case delle Fate), strutture sepolcrali preistoriche scavate e de-corate nella roccia, presenti soprattutto in Sardegna. Questo vocabolo sardo estrapola l’essenza di ciò che era il culto della Grande Madre, della Potnia Theron (la “signora delle Fiere”) il rispetto e l’adorazione della della figura femminile, capace di donare e toglie-re la vita. Il loro recente album “A Tratti Irregolari” è decisa-mente rock ma vi si fondono la decisione e la dolcezza, uniti all’immancabile vena poetica dei testi; è un con-nubio di sonorità tra cui spicca anche l’unica cover, “Anna” di Battisti. Vedere una canzone di questa porta-ta tra le tracce lascia interdetti, ma il risultato è ottimo, quindi si perdona loro la tracotanza, e ne si apprezza la revisitazione.

Dal momento che le loro sonorità sono profon-damente affascinanti, Genius ha fatto loro un’intervista, che po-trete leggere nel pros-simo numero.“Che siano fedeli compa-gne di viaggio, amanti, o puttane è dalle don-ne che veniamo e da loro torneremo... Siamo tutti di proprietà delle fate”

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Ciao ragazzi. Allora, iniziamo con una domanda classica: come s’è formato il vostro gruppo?DOMI: È nato un po’ come tutte le band: c’era un progetto, c’era-no già delle canzoni; poi ci siamo trovati in Puglia io e Piero al BucoBum Festival di cui è anche organizzatore), (dove tra l’altro avevo già suonato colle vecchie band, ma quella volta ero lì solo a prendermi un gin tonic) e abbiamo deciso di confrontarci su dei brani che avevamo e volevamo creare un qualcosa che, rispetto alle band che avevamo già avuto fosse più… concreto, qualcosa che avremmo portato avanti a livello professionale…(A questo punto entra un ragazzo nella sala in cui stiamo intervi-stando i ragazzi. Peppe gli chiede se anche lui fa parte del gruppo e tra qualche ri-sata cambiamo sala.)Stavamo dicendo: mentre appunto eravamo a questo festival, anche se lavoravo già al Massive Art qui a Milano al posto di Andrea e Peppe…

PEPPE: In verità noi al posto suo!

Ci ritroviamo in una sera di Novembre in una saletta della Massi-ve Art per intervistare un giovane gruppo, a nostro giudizio molto promettente, chiamato “Gli amanti”: suonano musica melodico/indie, hanno già registrato il loro album di debutto, Strade e Santi, e tra non molto ne partirà anche il tour. Ma ora facciamo raccontar loro qualcosa sulle “origini”.

DOMI … e all’inizio mi sono tra-sferito qui colla band vecchia qui al Massive ed è qui che ho imparato cosa vuol dire “approccio profes-sionale”, che è un approccio com-pletamente diverso da quello che hai colla band. È come lavorare ve-ramente, come costruire un pezzo… quindi, con questo background (che è un background un po’ diverso) la voglia di creare qualcosa di nuo-vo era palese, evidente, e Piero, oltre al gin tonic, mi aveva offer-to la possibilità di legarsi anche lui a questo treno e di prenderlo anche lui e l’abbiamo preso insie-me. All’inizio eravamo noi due, poi siamo diventati quattro, e siamo partiti con questo progetto,

Strade e Santi - Gli Amanti

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È come lavorare veramente, come costruire un pezzo… quindi, con questo background (che è un background un po’ diverso) la voglia di creare qualcosa di nuovo era palese, evidente, e Piero, oltre al gin tonic, mi aveva offerto la possibilità di legarsi anche lui a questo treno e di prenderlo anche lui e l’abbiamo preso insieme. All’inizio eravamo noi due, poi siamo diventati quattro, e siamo par-titi con questo progetto, con quest’idea che parte dai pezzi e colla voglia comunque di concretizzare. Siamo partiti così e poi abbiamo tirato dentro anche Fabio e Peppe e abbiamo fatto il primo EP e poi il primo disco coll’Universal Music, Strade e santi, ed è la nascita di una band. Ora facciamo live, tour, ed è una cosa che molto proba-bilmente quattro o cinque anni fa potevamo solo sperare, mentre ora s’è realizzata. Abbiamo sempre suonato molto in giro per l’Italia, ma ora siamo comunque chiamati da agenzie e locali, cosa che non era mai successa: caricare il furgone e andare in giro a fare “la vita da tour” non c’era mai capitato, ed è una cosa molto molto bella.Quindi la formazione professionale è stata maturata grazie anche a Massive art?

DOMI: Esatto, il Massive è stato il nostro punto che ha dato due aiuti concreti alla nascita di questa band: è stato sicuramente una possibilità di conoscere nuove realtà e quindi di imparare da que-ste nuove realtà, tra le quali posso prendere ad esempio i fratelli Calafuria, con cui andavo in giro a fare un po’ di merchandising, di back liner… In poche parole, aiutandoli ho scoperto cosa volesse dire avere a che fare col promoter, andare in giro, prendere il furgone… insomma, tante cose. Un approccio un po’ più concreto.

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Novembre - Dicembre 2014PEPPE: Senza contare il rapporto col materiale umano, che siamo noi e con i “personaggi grossi” con cui dovevamo gestire la “sa-letta”.

DOMI: Esatto. E poi è stato il nostro punto di aggregazione, dove ci siamo incontrati tutti. Qui abbiamo beccato Peppe, abbiamo beccato Fabio e quindi è servito da corsia per conoscere gente nuova e gente ovviamente fondamentale come Peppe e Fabio in questo caso, perché senza di loro oggi non saremmo noi, non saremmo “Gli amanti”. Infine il Massive ci ha dato due o tre dritte importanti.

Il primo EP come lo avete sviluppato?DOMI: Dunque, all’inizio avevamo cinque pezzi, a cui poi ne abbiamo tolto uno, coi quali volevamo creare un percorso. Jack Garruffi ci ha seguito dal primo EP e ci continua a seguire col disco. Quindi, intanto abbiamo identificato una figura che potesse far fare la diffe-renza con un prodotto abbastanza acerbo, in quanto primo prodotto. PINO: Sì, era acerbo, ma era anche genuino; ingenuo sotto alcuni punti di vista, nel senso carino del termine: avevamo bisogno di misurarci e anche di tastare un po’ il terreno.PEPPE: Che poi, acerbo fino a un certo punto: ieri stavamo parlando di un pezzo dell’EP, “Bonjour” che piace ancora. È quel sound che apprezzi anche all’indomani del nuovo disco, quindi non è un passo indietro, anzi capisci da quello che c’era già tutta la stoffa.

DOMI: E a differenza delle altre band volevamo fare qualcosa di ve-ramente professionale: l’intenzione era quella di “fermarci” con questa band, di non avere altri progetti un domani- Magari sì, ma comunque sempre investendo in questo progetto le nostre potenzia-lità, che possono essere artistiche ma anche a livello di sacrifici, e siamo partiti con delle scelte: “registriamo al Massive”, studio 1… Insomma, delle scelte professionali improntate per un prodotto professionale: “scegliamo Jack Garuffi come produttore artistico”, ed è servito tanto anche quello, perché ci ha permesso di creare un prodotto dove, anche se la canzone era un po’ “acerba” poi è diven-tata una canzone degna d’essere presentata a un pubblico molto più vasto. Da lì poi la ricerca di un’etichetta, che in questo caso è stata Sonorica, quindi, mentre prima andavamo noi a portare il disco in giro, lì ci siamo affidati a una struttura, a una figura che è di Massimo Morgante che per noi ha fatto tutto: ha mandato mille mail, ha mandato i dischi ai magazine… Quindi un approccio più profes-sionale anche sugli EP. Quindi già di base l’approccio era diverso rispetto a quello delle altre band.

PINO: … di essere reattivi noi per primi al cento per cento, perché poi alla fin fine da questa “palestra” cos’è venuto fuori? Che anche durante il periodo della genesi di Strade e santi che alla fin fine più cose riesci a fare tu in prima persona, anche se non sono quel-le che ti si addicono come personalità anche come capacità a volta, però è meglio perché hai pieno controllo di quello che fai, la piena padronanza. Infatti è stato così anche per Strade e santi, perché una volta che il disco è stato finito è stato presentato e colto bene per quello che era dalla Universal, però prima sono state tutte de-cisioni nostre, da quelle artistiche a quelle promozionali, quindi anche quello è stato un disco fatto completamente da noi: la scelta del crowdfounding, di avere Jack come produttore artistico, il fatto di resgistrare all’Orvieto, di registrare su nastro,

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Genius magazine n.1scelta che abbiamo fatto perché rispondeva benissimo alle esigenze sia artistiche che di sound. Quindi sono state tutte decisioni che abbiamo preso noi, alla fine.

DOMI: Sì, infatti, le scelte sono state una conseguenza della “pa-lestra” che abbiamo fatto prima: grazie sia all’ambiente che ci ha aiutato molto a livello professionale, di marketing, di management, di band, quindi si aveva molta più capacità di lavorare, di cercare di capire dove potevamo arrivare, di che cosa volevamo. La scelta di non buttarci direttamente coll’EP in un’etichetta differente da Sonorica, che era “un amico”, indicava proprio il fatto che avevamo capito come volevamo fare determinate cose. Siamo riusciti ad acqui-sire una conoscenza di mezzi, come i “banchi” o i suoni; abbiamo co-nosciuto diversi fonici che potevano accogliere e ben sviluppare il nostro lavoro. Quindi diciamo che questa parte è servita anche per le scelte, e il discorso di non andare direttamente di un’etichetta è anch’esso derivato dal fatto che abbiamo acquisito queste espe-rienze, abbiamo avuto la possibilità, grazie alla cultura musicale e professionale che ci siamo creati, magari coll’EP, siamo riusciti a fare un disco esattamente come volevamo noi, senza nessun vincolo da parte di nessuno; e poi presentare questo disco così com’era, cosa veramente, insomma, difficile, e farlo acquisire a livello measure… Beh, è stato accolto bene anche perché aveva uno storico dietro, tutta una scelta appunto che derivava dall’esperienza, da una serie di decisioni prese con cognizione di causa, prese coll’esperienza di noi nell’ambito anche musicale oltre che artistico. Poi a livello artistico ci sono scelte diverse. A livello pratico diciamo che sia-mo arrivati all’Universal per una serie di esperienze maturate nel tempo e per scelte ponderate, quindi non è stata proprio una cosa “buttata lì a caso”, ma anzi abbastanza “lavorata”.

Beh, ci avete parlato della vostra vita professionale diciamo, dalla “metà” sino ad adesso, ma qual è stato il vostro vero inizio, quello di sedici, quindici anni? Quali erano i vostri sogni e i vostri gusti musicali di allora? Come siete arrivati al momento in cui siete arrivati in Puglia?

DOMI: Innanzitutto bisogna dire che il sogno della vita è quello d’essere sul palco, e non te ne frega assolutamente niente, tu senti di dover essere lì, ed è una cosa bellissima perché ci ha dato la forza e la voglia di continua-re a ricercare un palco, la volontà di ricercare la musica suonata, ovvero sicuramente i nostri gusti musicali ci hanno inflenzato in quello che abbiamo suonato, in quello che poi siamo diventati, ma la passione di essere su un palco di sedici anni è quello di vedersi lì; almeno, per quanto mi riguarda, essere sul palco è quello che volevo fare e non abbiamo mai smesso di crederci, ed è questa la cosa fondamentale: eravamo l colla voglia di fare questa cosa, portata avanti come quando dici ad un bambino di crescere e non lo fa, e per noi è stata la stessa cosa.

PEPPE: Ovviamente cambia lo spirito per quello che stai facendo, però non cambia mai quando sei o sul palco o in sala prove, nel senso che magari cambiano molte cose dietro, proprio perché ami la musica, nel senso che se ricerchi il tuo suono inizi ad avere una strumen-tazione propriamente tua, cose che ti creano dei problemi prima e dopo che suoni, ma non cambia l’atteggiamento che hai mentre suoni, sia in sala prove che sul palco, ed è quello che deve rimanere tale.Il resto varia perché più lo fai in modo professionale, più ci sono sbattimenti, quindi da lì ad essere da San Siro dove ti portano gli strumenti sul palco c’è un grande passo da fare.

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PINO: Per quanto riguarda gli ascolti, invece cosa succede: quan-do hai sedici anni, i tuoi gusti sono vincolati dal fatto che tu sei innanzitutto un ascoltatore. Sì, magari suoni, sei alle prime esperienze: suoni sui palchi qualcosina, però lì è, per quanto mi riguarda, è come se stessi suonando comunque ancora come ascolta-tore, non sei ancora maturato, ti senti un supereroe sul palco, e proprio per questioni biologico-anagrafiche quando sei a quindici, sedici anni hai anche sviluppato un senso critico innanzitutto su te stesso e su quello che ascolti che non è ancora maturato al cento per cento, poi, col passare del tempo divieni più padrone dei tuoi strumenti compositivi, nel momento in cui scrivi una canzone pian piano ti distacchi, diventi un ascoltatore più critico, anche più appassionato verso ciò che ascolti, comunque hai sviluppato un orec-chio più critico a livello intellettualistico-musicale, quindi ti muovi in modo diverso, riesci a vedere le cose in un modo un po’ più chiaro, e quello ti permette di concentrarti su te stesso e sulla tua crescita personale.

Quindi c’è anche un distacco dal genere di ascolto?

Comunque alla fine ognuno di noi diventa ciò che è perché mette insie-me una serie di esperienze. Anche se pensiamo di essere sempre stati noi stessi, in verità non è così: noi eravamo diversi a sedici, a ventisette e a trent’anni, e siamo diversi perché ci portiamo dietro diverse esperienze come se avessimo messo dei mattoncini ma oramai siamo molto più in alto del primo mattoncino, ma anche quel primo mattoncino fa parte di noi, e così quello che abbiamo ascoltato, anche se non ci pensiamo, e in qualche modo riusciamo a rimetterlo in ciò che facciamo.

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Genius magazine n.1PINO: E poi, sembrerà una bestemmia, ma anche i “Beatles”, che tu ascoltavi con una “devozione”, poi pian piano inizi a formarti, ini-zi tu ad essere protagonista all’interno di un contesto musicale, e allora inizi a vederlo, e qui c’è la bestemmia, come un collega, nel senso che inizi ad essere parte attiva e inizi naturalmente a vederli sotto un’altra luce, prendi più coscienza di te stesso, è semplicemente quello: prendi coscienza, sai che potenzialmente potresti agire nel mondo della musica così come hanno fatto tanti altri grandi che prima ascoltavi ma ascoltavi con quel distacco che ha l’ascoltatore verso un mostro della musica. Molte volte continua così, ma cambia anche questo.

DOMI: Io sono convinto poi che anche i “Beatles” portassero già con sé un loro bagaglio: c’era John Lennon che era un grandissimo fan di Elvis, e quindi all’inizio molte cose facevano riferimento ad Elvis, per esempio. Quindi quello che ascoltiamo da ragazzi di sicuro ce lo porteremo dietro, anche se non ce ne accorgiamo.Sappiamo benissimo che in realtà la musica non parte da zero, ma parte “da tre”.

Che consigli dareste ad un quindicenne che si sta relazionando col-la musica?

DOMI: Intanto due consigli: la prima cosa che dovete fare è diver-tirvi, dovete suonare collo spirito del divertimento, dovete farlo proprio colla voglia, colla passione che è la cosa principale. Poi se davvero si vuole suonare ci saranno tante batoste e mazzate che prenderete, ma bisogna continuare ad andare avanti e non arrender-si, perché niente arriva subito, è inutile andare a vedere l’altro che sta facendo successo e io non ci riesco: bisogna andare avanti sempre e comunque, perché la musica è la parte principale, non è il successo o ciò che devi fare della musica, ma la musica stessa. Il fatto che comunque dedichi la tua vita alla musica prima o poi ti porterà da qualche parte, non si sa come, dove o quando (e soprat-tutto quando), ma ti porterà di sicuro da qualche parte.

PINO: un ragazzo che si forma deve già potersi esprimere nel modo più imperfetto, acerbo, ma è comunque il più bello del mondo: ogni idea, se personale, per quanto imperfetta e brutta è valida solo per il fatto che è tua, e crea solo personalità artistica, che va bene.

DOMI: Esperienza anche.

PINO: Certamente, e anche applicarsi e studiare la musica, appro-priarsi delle regole che la compongono, farne l’uso più libero fino a quasi infrangere le stesse regole.

PEPPE: Soprattutto in quell’età in cui ti è permesso stare tanto in sala prove, di sfruttare questo fatto, perché per quanto molte cose le imparerai sui palchi, però nel tempo in cui riesci a stare in sala prove, stacci il più possibile perché suonando cogli altri si acquisisce tanto, poi ci saranno sempre delle occasioni per imparare qualcosa. Non bisogna mai sprecare tempo e bisogna veramente sfrut-tare la sala prove.

Per concludere: il nome del gruppo com’è venuto fuori?DOMI: È un nome più che altro facile da ricordare, e insomma un po’ “amante” ti senti, cerchi di crederci. È un po’ come se portassi una bandiera.

Simone di Molfetta

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Sono nati nel 2009, si sono formati negli anni. Han-no cambiato i membri, nome della band. Hanno imparato a suonare, a scrivere can-zoni. Hanno imparato a in-cidere, a autoprodursi.

Come si è formata la vostra band?Matteo: La band è nata quando io e Gabrio, ci siamo co-nosciuti in seconda media. Ci chiamavamo Crash and Trash. La musica che facevamo era molto influenzata dai Sum 41, e suonavamo punk-rock. Suonavamo tutti e due la chitarra, in-somma, una merda.Ascoltando nuova musica abbiamo cominciato a cambiare gene-re e siamo diventati più rock. Dopo un po’ Gabrio, che non era bravissimo con la chitarra, ha comiciato a suonare la batteria.Abbiamo trovato un nuovo chitarrista: Federico Lami. Non eravamo molto bravi, suonavamo un po’ a caso. (Facevamo proprio cagare).

In prima liceo Matteo conosce Alessandro Benzi, anche lui chitarrista, che prende il posto di Federico.

Alessandro: La prima volta che sono stato in sala prove ero in prima superiore, Matteo cercava un chitarrista e sono an-dato a suonare con lui. Non ero molto bravo con la chitarra, così ho provato col basso che mi aveva sempre appassionato ma non andava di moda come la chitarra.Eravamo bassista, chitarrista e batterista. Eravamo assolu-tamente incapaci. Col tempo ho cominciato a prendere lezio-ni di basso e Matteo ha preso più seriamente la chitarra.”Dopo un po’ Federico torna, sempre come chitarrista, ha tro-vato una cantante, Elisa.Matteo:” dopo qualche prova abbiamo capito che non volevamo una cantante femmina e allora ho cominciato a cantare io. Anche Federico è uscito dalla band in seguito a questa de-cisione. Eravamo solo io, Alessandro e Gabrio, fino a quando anche Gabrio è uscito dalla band e abbiamo trovato Gianluca.Alessandro: Alla prima prova Gianluca mi era sembrato un testa di cazzo. Ha portato nella band Alessandro Asquino, chitarrista, ed abbiamo cominciato provare una volta a set-timana.

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Genius magazine n.1Arriva il momento del primo concerto.

Alessandro: Era la prima volta che ci trovavamo di fronte ad un pubblico.Matteo: Abbiamo deciso di chiamarci Mad, Mad perché vaffancu-lo, il nome non deve avere troppi giri dietro, deve essere d’impatto, far capire chi siamo cosa facciamo.

Oggi è passato più di un anno dal loro primo concerto.

Alessandro: C’ è stato un periodo in cui pensavamo di scio-glierci: Matteo e Gianluca continuavano a litigare per una tipa del cazzo, ma quando hanno smesso perché si sono resi conto che erano tutte cazzate, siamo tornati a suonare tutti assieme più uniti di prima.

Che tipo di musica ascoltate e in che modo influisce su quello che suonate?Matteo: L’ascolto fa molto nella produzione che ci sarà poi in seguito, ti costruisci un bagaglio che ti porti sempre in giro, si ascolta di tutto da Jimi Hendrix ai Rage Against the Machine, da Dizzy Gillespie, a John Mayer.

Tra di voi vi dividete i compiti da svolgere?Alessandro: Di solito è Matteo che organizza concerti e regi-stra, è il più intraprendente.Matteo: io organizzo i concerti, e anche le registrazioni, in pratica sono un po’ il manager e fonico, il materiale lo procuro io ma ci dividiamo le spese. Registro, vado a casa le mixo sul computer e poi le pubblico.

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Che cosa utilizzate per registrare e mixare le musiche?Matteo: Per registrare ho cominciato con un mac, Logic Pro, ed un cavo per collegare la chitarra alla play station, lo usavamo sia con la chitarra che col basso che con la batteria elettronica. Abbiamo registrato così fino sei mesi fa, poi ho comprato Focusrite Saffire Pro 40 (Scheda Audio ndr), è una cosa molto più complicata ma sta venendo meglio. Il mixaggio lo sto imparando da solo con Logic, ho scaricato dei plug-in della Waves Audio. Il mio maestro di chitarra mi ha dato un po’ di consigli ma la maggior parte delle cose le ho impara-te da solo, si va avanti per esperienza. Inoltre adesso sto frequentando un corso certificato della durata di tre anni presso Massive Arts Studios, ci insegnano molto sulla storia musicale e la teoria, entrambe molto importanti, forse più della pratica.

Come avete fatto all’ inizio per organizzare i concerti?Alessandro: Per i primi concerti ci siamo rivolti a Stageali-ve era un’associazione che permetteva di organizzare i con-certi sfruttando le band come PR. In pratica bisogna portare la gente vendendo le prevendite. A Milano non ci sono molte occasioni per organizzare serate con i controcoglioni, come in tutta italia del resto, la cultura emergente non è presa in considerazione, e non prende mai il volo, si rimane sempre al punto di partenza perché fondamentalmente viviamo in uno stato del cazzo, che ci sta mandando tutti in malora a partire da quando nasciamo. Comunque si fa quel che si può, qualche contatto per suonare se ti sbatti lo trovi.

Cosa consigliereste a una band che vuole autoprodursi?Alessandro:Consiglierei di crackare programmi professionali, costano anche migliaia di euro, ma se ti prendi un bel Tor-rent vaffanculo, ce l’hai e lo puoi usare, siamo per il file sharing infatti abbiamo distribuito il primo album gratis, il secondo penso che lo metteremo a offerta libera dopo un po’ di Crowdfounding.Matteo: Sbattetevi ed investiteci soldi, badate non -spen-dete- ma -investite-, è ben diverso. Pubblicate ovunque nel mondo di internet, Facebook, Twitter, My Space, Tumblr e che cazzo ne so ma soprattutto YouTube, investite in campa-gne promozionali, in azione che offrono publishing per farvi sponsorizzare sui social, attente visualizzazioni su YouTube, tante, più che potete, non pensate neanche di andare dall’E-tichetta indipendente o dalla major e pensare di ottenere un contratto senza avere più di diecimila visualizzazioni su YouTube, non accadrà mai. Siamo la generazione di internet e dei pochi soldi, della crisi finanziaria, ma internet comunque c’è ed è un mezzo da sfruttare al massimo. E se non vi caga nessuno vuol dire che avete sbagliato società di publishing oppure fate proprio schifo. Ma se cadete cercate sempre di rialzarvi.

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State lavorando ad un nuovo album?Matteo: Si! E siamo cambiati parecchio, il primo album, Don’t Touch This, era in inglese e a me adesso fa schifo, ma co-munque è un’esperienza che ci ha aiutato a crescere. Adesso abbiamo uno stile più maturo e soprattutto abbiamo trovato un’identità, definito un genere, e siamo passati all’italiano. C’è possibilità di andare in italia, cantando inglese, ma è più remota rispetto che cantare in italiano perché cazzo, per quanto possa fare schifo siamo in italia, e per farsi capire da un italiano bisogna parlare la sua lingua, non siamo abba-stanza multiculturali, ancora, per poter recepire i messaggi in altre lingue. L’album si chiama Subliminal ed è composto da 8 tracce, ce la stiamo prendendo con comodo, uscirà in conco-mitanza con l’Expo 2015 e speriamo che spacchi tutto.

Camilla Lorenzi

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Sei pronto? Racconta di come hai iniziato.

Allora, adesso magari vi mettete a ridere… pero paradossalmente io ho cominciato a scattare grazie alla mia ex. La mia ex era la classica alternativa “sai io dipingo, io faccio” ma poi non faceva mai nulla. Con lei è finita malissimo e io ho cominciato a fare foto praticamente per ripicca. Ho sempre avuto la fortuna di conoscere una paccata di ragazze per cui i contatti non mi mancavano. Ho fatto pratica con loro. Continuando a scattare mi sono reso conto che mi piaceva, mi sono fatto la mia cultura e ho iniziato a scattare come se non ci fosse un domani

Perché proprio come soggetto le ragazze? Perché non fotografare la strada? Ci sta come domanda… ho sempre avuto il fascino della donna per cui pensavo, che paradossalmente fosse più facile fotografare le donne piuttosto che paesaggi… le prime cose che fai quando possiedi una macchina, prendi e vai in giro e scatti quel cazzo che ti pare. Suc-cessivamente ti fai una cultura, cominci a guardare quello che c’è in giro e, ripeto, avendo la fortuna di conoscere un sacco di fighe è sempre stato comunque facile per me reperire i contatti. E comunque è bello.. fotografare e ragazze è bello.

Che tipo di formazione professionale hai avuto? Io mi sono approcciato alla fotografia agli inizi del 2010. Dopo un paio di anni di pratica ho deciso di fare una scuola. E tra tutte le scuole di Milano ho scelto l’istituto di fotografia a Corbetto perché tra tutte mi sembrava quello più valido. Mi è costato una bardata di soldi. Il corso era molto completo, ti davano delle garanzie sul futuro che poi non si sono avverate, ma che sostanzialmente ti danno degli input molto forti e davvero molto importante un sacco di cul-tura visiva, teoria e imparare a usare il mezzo. Imparare a usare la macchina fotografica sembra una cazzata, ma se la sai usare si vede…

Io e il fotografo Mattia Crepal-di abbiamo appuntamento per l’in-tervista, sono appena arrivata quando sento una voce: “Aurora?”. Ci stringiamo la mano, ci sedia-mo chiacchieriamo, ordiniamo due birre e poi accendo il registra-tore...

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Quindi hai anche studiato storia della fotografia? Ho studiato storia della fotografia con un’insegnante molto brava, Sara Munari. Imposta le lezioni facendoti vedere dei video di inter-viste di questi che parlano e espongono le fotografie.

Chi ti ha ispirato nel mondo della fotografia? Chi hai preso come “modello”? All’inizio mi ha molto intrippato Ackerman. È un fotografo che usa questa macchina fotografica e fa delle foto che sono fuori di testa. Adesso come adesso sono intrip-pato da Lindebergh. È un crucco.. È considerato un fotografo di moda, però per le fotografie che fa è devastante.

La fotografia per te, dal punto di vista introspettivo, vuol dire qualcosa? Qua vi stendo per terra… citando uno dei miei professori, durante una lezione ci disse: “se fotografi cento persone in modi diversi, sei tu che cerchi di prendere un qualcosa da loro. Se tu fotografi cento persone nella stessa maniera è come se ti facessi un enorme gigantesco autoritratto” - Ecco perché tutti impostati nello stes-so modo. Al posto di fare tante cose mediocri, focalizzarsi su una cosa, spingerla al massimo e trovare un metodo, uno stile. E fare in modo che la gente venga e si faccia fare le foto come vuoi tu e non andiamo in casa, ti faccio denudare e ti metto sul letto.. sono invogliato. Io mi ritengo un ritrattista. Piuttosto che fare tutto, fare una roba fatta bene, con il tuo stile e essere riconosciuto per quello. Ci sono decine di migliaia di foto prodotte al giorno. Devi lasciare un’impronta.

Come sei arrivato a trovare il tuo stile? Dovete capire che con l’avvento del digitale tutto si è sdoganato, basta un po’ di pratica. Mi sono sparato mesi e mesi di pratica, ho preso la mia attrezzatura per fare le foto in un certo modo, mi sono buttato su Photoshop, mi sono fatto il mio bianco e nero e niente.. è stato frutto di un pomeriggio a smanettare su Photoshop e basta. Ho avuto la fortuna che comunque piace… cioè sta piacendo. L’anno scorso ho sbagliato. Sono uscito dalla scuola e ho iniziato a fare cose estremamente strane (graffi sulle foto) e magari iniziare a fare cose strane senza avere un nome, è stato fare il passo più lungo della gamba. Mentre fare cose più basiche… molto più intrippanti. Io ho sempre avuto l’idea che tu puoi buttare una ragazza a letto, farla denudare e chiamare il progetto “nell’intimità” ma dell’intimità che cazzo ha?! Io penso che il viso è molto intimo. Io vorrei che i miei ritratti fossero percepiti come estremamente intimi. Intanto arrotolo una sigaretta, lui ne tira fuori una dal pacchetto, le accendiamo.

Il bianco e nero sta tornando in auge, secondo te perché? Rimpianto del vintage? Da un punto di vista esclusivamente tecnico i colori nella macchina li vedi in un modo, sul monitor in un altro. Te li mando in un altro modo ancora, li stampi e la tecnologia non aiuta. Il bianco e il nero sono sempre quelli lì, sono luci ombre linee geometrie lo puoi vedere più chiaro o più scuro.

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Il bianco e nero sta tornando in auge, secondo te perché? Rimpianto del vintage? Da un punto di vista esclusivamente tecnico i colori nella macchina li vedi in un modo, sul monitor in un altro. Te li mando in un altro modo ancora, li stampi e la tecnologia non aiuta. Il bianco e il nero sono sempre quelli lì, sono luci ombre linee geometrie lo puoi vedere più chiaro o più scuro.

La tua finalità artistica? L’obiettivo e il messaggio? A me piace molto un fotografo che sia chiama Ryan Mcginley. Fa que-sti ritratti stranissimi e lui ogni tot fa una mostra su un anno di ritratto. Anche a me piacerebbe fare una cosa del genere, buttarmi sulle mostre.

Tipo galleria? Si..cioè no. Le gallerie puntano al vendere.

Progetti per il futuro? Sicuramente andare avanti con i progetti di muro, sperimentare con le polaroid e le video proiezioni .

Nel mondo emergente in cui sei semi affermato che consigli avresti per chi vuole buttarsi nel mondo della fotografia? Allora innanzitutto: umiltà, rispetto per il tempo degli altri, vo-glia di sbattersi, voglia di fare, di non fare porcate stile faccio 4 foto e faccio la pagina di facebook.

Definisci rispetto per il tempo degli altri... Io sono ritrattista, se io contatto una persona e le faccio spendere due ore del suo pomeriggio nel mio cazzo di antro sottoterra, le foto gliele devo mandare o la sera o entro il giorno dopo. È un puntare alla possibilità che questa persona ritorni se le faccio aspettare tre mesi per le foto, mi manda a fanculo.

Cosa pensi del mondo dei fotografi emergenti adesso?Posso essere rude? Certo... (ammicco): Io credo che siano una mandria di puttane. Il discorso di fondo è che adesso ci sono un sacco di editoriali online di merda e si è creato questo genere di fotografia ci sono tutte queste foto di donne malinconiche in casa. Di questa donna che si denuda per far vedere quanto cazzo è malinconica e scatti per andare su questi editoria-li online di merda. Piuttosto che fare delle robe per andare su un qualcosa, falle per te.

Cosa ne pensi della fotografia tipo reporter? Tipo andare in guerra? E che ci vogliono le cazzo di palle. Per rischiare il culo ci vuole coraggio. Io non ho mai fatto reportage, io voglio controllare la luce.

Che musica ascolti? Ti ispira? A livello ispirazione, io sono della vecchia scuola del rap tutte robe americane, francesi, italiane alla grande. Durante lo shooting zero musica. Si parla e basta. Il metodo che uso io per scattare è comunque molto aperto… nel senso può venire la modella affermata, quella emergente o la modella che ha fatto due scatti in tutta la sua vita.

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Senza fare nomi. La sessualità in astratto che influenza ha per te... In generale l’ambito e la situazione pseudo sessuale che influenza ha sulla tua fotografia? Io cerco di fare robe molto intime. Dipende anche da chi guarda le tue fotografie. Secondo me si possono fare delle robe molto più ero-tiche solo con la faccia rispetto a far vedere le baggiane volanti.

Che domanda ti saresti fatto in questa intervista? Io sono sempre molto intrippato dai “perché”… la cosa che può sfora-re dall’ambito fotografico è che c’è questa generazione di stronzi. Di persone che invece che far vedere gli scatti, fanno vedere la foto di loro che fotografano, che fanno lo stato su facebook tipo “sono con la modella” . Io sono della vecchia scuola…mi sarei aspettato una domanda tipo: “come mai non sei attivo sui social?”

Quindi “essere più che apparire”? Io avrei detto più “volere è potere” . Però anche questo è molto figo. Il discorso di fondo è che se ti sbatti i risultati arrivano, se no non saremmo qua.

Aurora Zoso Terzitta

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UMANI A MILANO

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Stefano D’Andrea, ‘il collezionista di umani’, nonostante il nome del suo progetto potrebbe sembrare agghiacciante, è cordiale e sim-patico, coinvolgente e con tanto di barba. Pensare che ci voleva offrire un Pocket Coffee che aveva trovato poco prima per terra anco-ra impacchettato. Userò il suo stesso metodo di comunicazione e vi lancerò direttamente nella storia con solo questo piccolo sguardo dritto in camera.

Ci parli del suo progetto“Umani a Milano nasce un anno e mezzo fa da uno dei viaggi che ho fatto a New York, dove ho avuto modo di vedere il progetto che è diventato il mio riferimento:‘Hu-mans of New York’, ideato da Bran-don Stanton. La forza del progetto è la capacità di raccogliere delle storie molto semplici e legate a persone sconosciute incontrate per strada. Il mio obiettivo è di ri-proporre qualcosa di simile in una città che non è New York, bensì la mia, Milano. Il progetto è un percorso, chi lo segue ha la sen-sazione che ci siano dei milanesi che oltre ad incrociarsi sui mar-ciapiedi abbiano anche una propria vita. E’ questo che voglio rendere con il mio progetto. Una foto, le-gata ad una didascalia, che rac-conti un pezzetto di vita. Il mio intento è quello di fare del bene alla città, per farla riconoscere come un’identità popolata da esse-ri umani.Una cosa che mi piacerebbe acca-desse sarebbe che qualcuno, una fondazione, il comune, o comunque un ente importante all’interno di Milano contribuisse al progetto. Per farlo diventare una specie di osservatorio sulla città. Una quo-tidiana ricerca sulle sue condi-zioni.”

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Come nascono le sue immagini?“Fermo una persona che mi incuriosisce in mezzo alla strada e chiedo se posso fare un ritratto. Gli domando cosa stava facendo in quel mo-mento della sua vita, rimanendo in quella superficie che da la possi-bilità agli spettatori di inventarsi poi il resto della storia. Non chiedo mai cose troppo personali, perché non è né nel mio carattere né nelle mie intenzioni. Fare una foto consiste nel cogliere un dato momento. La didascalia quindi, è solo un modo di rendere più forte lo scatto, che senza di essa, lascerebbe troppo spazio. Voglio sa-pere un qualcosa delle persone, allora fotografo mentre il soggetto guarda fisso in camera e nel momento in cui pongo la domanda lui mi risponde semplicemente. E’ questo che serve a Milano, uno squarcio di normalità, che riesce a far immaginare delle storie. Sono piccole cose che mi colpiscono e per me sono sufficienti. Non ho intenzione di scavare nell’anima delle persone perché non saprei poi reggere quello che mi dicono. In questo progetto ho coinvolto alcune perso-ne, tra cui studenti universitari e fotografi, che a turno girano per la città insieme a me. Favorendo così i contatti tra umani, che è il

punto fondamentale di questa storia”.

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Ci parli di una delle sue storie, uno scatto“Vediamo, mi viene in mente una fotografia che consideravo sbagliata, ma che in seguito è stata una rivelazione. Il soggetto era un pizza-iolo che si trovava davanti al forno. Al posto di mettere a fuoco lui ho messo a fuoco il fuoco, scusate il gioco di parole. Il pizzaiolo è infatti apparso sfocato. Riguardando lo scatto mi sono reso conto che era sbagliata, ma poi ho pensato che da quell’errore potesse sorgere la domanda. Allora ho chiesto all’uomo: ‘Com’è stare davanti al fuoco tutto questo tempo?’. Lui mi ha risposto che: ‘Il fuoco per me guardare il fuoco è un piacere perché è sempre in movimento, non è mai uguale a se stesso’”.Stefano dice ancora: “La raccolta di storie è un atto creativo, non solo una casualità, l’atto invece della rimessa in forma delle sto-rie raccolte è un atto ipercreativo”.

Ci parli di com’è diventato fotografo“La mia formazione è il risultato dell’insieme di diversi pezzi. Ho frequentato l’università a Bologna, il Dams, dalle discipline dell’arte della musica e dello spettacolo all’indirizzo di comu-nicazione. In seguito ho seguito studi legati alla sociologia, ora insegno allo Iulm a Milano. Nel frattempo ho dato voce alla mia necessità di raccontare storie, infatti, scrivo per diversi siti e programmi radio. Così come i miei maestri, ad esempio Raymond Car-ver o Aldo Nove, che si sono sempre espressi nelle loro storie con il minor numero di parole possibili, mi piace scrivere cercando di essere sintetico. Ho approcciato la fotografia solo quando l’ho ri-tenuta funzionale al mio progetto, Umani a Milano.In tutto ciò ho preso un anno e mezzo fa a in mano la macchina foto-grafica, dicendomi ‘vediamo cosa ci vuole a fare il fotografo’. Per fare un ritratto è necessario conoscere alcune pose senza bisogno di sapere troppo”.

Cos’è per lei Milano?“Mi piace considerare Milano un cactus, non è sul mare come molte delle grandi città, ma ha tutta una serie di canali. Ha una scor-za dura, sopravvive, anche se l’hanno privata dell’acqua. Non è né colorata né rigogliosa, in un certo senso è difficile coglierne il fascino. E’ la città di chiunque abbia voglia di viverla. Io raccon-to la storia, non chi ci abita, ma di chi si trova qui, sono questi ultimi quelli di cui mi interesso. Le persone rimangono sorprese, perché faccio qualcosa che non si aspettavano. Milano non è bella, ma non importa, perché qui è dove vivo, è quindi importante conosce-re ciò che mi sta intorno. Umani a Milano è nato per togliere quel velo che ci distanzia e si pensa un po’ poco fiduciosi degli altri”.

‘Umani a Milano’ and ‘Humans of New York’, quali sono le differenze?“Stanton è davvero molto attento per ciò che riguarda il lato foto-grafico e va molto in profondità nel racconto della storia, chiede, fa domande che io non riuscirei a fare alle persone che incontro.Humans of Ny esprime la forza della città, che non è solo data dagli edifici, ma dalle persone che la popolano. Al contrario di Stanton io non ho la forza di andare così in profondità con le domande, in fin dei conti non è quello che voglio fare e nemmeno ciò che è nel mio carattere. In oltre i milanesi non risponderebbe alle sollecitazioni così come i newyorkesi. Tutto questo per come sono fatto io e per com’è il mio modo di raccontare”.

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Che effetto fa umani a Milano?“Non so che effetto faccia Umani a Milano, ma so che quando guardo le foto sono sempre molto colpito e non ho nemmeno lo spazio di starci a pensare sopra. Perché vengo investito da un pugno, sopraf-fatto da quella storia che è la sua forza. Milano ha più bisogno di questo aspetto di tenerezza, semplicità e umanità, una cosa piccola ma vera. Nelle didascalie c’è solamente un frammento di storia, un qualcosa che potrebbe accadere ad ognuno di noi, come se io mi so-stituissi ad ogni milanese suggerendo un mondo non così distante. Perché, anche se è una grande città, siamo tutti un po’ più vicini di quanto ci rendiamo conto. Penso che l’aspetto del progetto che colpisce maggiormente sia lo sguardo dei soggetti che va dritto in camera. In modo da sottolineare chiaramente che in quel momento le parole sono dette a chi sta guardando l’immagine. Creandosi così un contatto tra lo spettatore e la persona fotografata e allo stesso tempo anche un legame diretto con il fotografo”.

Una frase per concludere?“Per far questo ci vuole ben poco, bastano un computer, buona vo-lontà, una macchina fotografica e delle scarpe”.

Sarebbe bello sorprendere Stefano stesso in giro per strada, far-gli una foto e chiedergli cosa stava facendo, dove stava andando, a cosa stava pensando, chissà che effetto gli farebbe, chissà come risponderebbe.

Matilde Ongaro, Aurora Zoso Terzitta

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Interstellar, di Christopher Nolan, lo scienziato della cinematografia.

Christopher Nolan riesce a sorprendere sem-pre, a scombinare i neuroni, che siano pochi o tanti, dei suoi spettatori, riesce a far riflettere ed allo stesso tempo ad abbando-narti in una situazione di vuoto mentale, in assenza di gravità, proprio come nel no-stro universo, l’universo di Interstellar. Dopo il suo esordio sui grandi schermi con Memento (2000), un film non certo facile e leggero, la prestigiosa saga del Cavaliere Oscuro (2005, ‘08, ‘12) e i due Colossal sfornati dal regista, The Prestige (2006) con Christian Bale, tratto dal romanzo di Christopher Priest, e il mitico Inception (2010) con Leonardo di Caprio, Joseph Gor-don-Levitt, ed Ellen Page, arriva finalmente il tanto atteso quanto dibattuto Interstel-lar (2014) con Matthew McConaughey, Anne Hathaway e Jessica Chastain.Partiamo con il presupposto che Interstel-lar ha due effetti sul pubblico: piace, non piace, niente mezze misure.

É un film che, di conseguenza, crea dibattito, ed un film che fa parla-re di se in tal modo non è un film da sottovalutare. Chi lo paragona, per le spiccate somiglianze sceniche, a 2001: Odissea nello Spazio, prova in tutti i modi a smontarlo, affiancandolo ad una pietra milia-re del cinema sfornata da Kubrick negli anni ‘70, ed accentuandone aspetti, a parere dell’altra parte della critica (quella positiva), prettamente tecnici, parlando di scelte registiche e sceniche, della lunga durata (tre ore), errori di sceneggiatura, ed argomentazio-ni poco solide. Chi invece ne rimane affascinato per la veridicità scientifica, resa grazie all’aiuto del fisico quantistico Kip Thorne, insistendo sulla matematicità di questo film, di come Nolan riesce a far “tornare” sempre tutto.Ma siamo sicuri che sia solo questo?Noi no, Interstellar è si un film vero, pieno di nozioni interessan-ti, difficili da comprendere per noi che non siamo fisici quantistici, è in oltre un film con errori di sceneggiatura ma che sappiamo, data la passata esperienza di Nolan, non essere sviste.Nolan esce, nonostante l’apparenza, da quello che dovrebbe essere il puro genere Fantascientifico con il quale cataloghiamo questo film, vuole comunicare molto di più, una storia intima, una storia d’amo-re che non ha confini di età, di tempo e di anni luce, non ha confini nell’universo e non ha confini in una quinta dimensione.

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interstellar

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Nolan parla di un rapporto d’amore tra un padre ed una figlia, un rapporto così lontano, così veloce e difficile, ma così forte, da riuscire a salvare il mondo. É un film introspettivo, e mai nella cinematografia moderna c’è stata un’intimità così forte tra univer-so e uomo. Grazie a questo film arriviamo ad imparare molto su noi stessi in quanto uomini, e paradossalmente sullo schermo vediamo l’immensità dell’universo ed il suo potere devastante. Interstellar è un film speciale, è un film che possiamo fare nostro, è un film che McConaughey ha saputo recitare divinamente, è un film che Nolan ha scritto con il cuore, è un film dal quale prendere esempio, non scientificamente ma moralmente.Bypassate i tecnicismi e ammirate l’amore in quanto tale, lasciate-vi trasportare in quel Wormhole alla ricerca non di nuovi pianeti, ma di voi stessi. Diffidate di chi dice che non è così, probabilmente ha paura di se stesso e rimane attaccato al virtuosismo di 2001: Odissea nello Spazio, che diciamocelo, in confronto ad Interstellar è soporifero.

Matteo Galvani

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frank

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Frank, non è un film con cui scherzare, Fassbender non fa ridere, perchè non deve fare ridere.

RECENSIONI

Se pensate di fare la serata tra amici in cui divertirsi con birra e patatine guardando un film per sganasciarsi dalle risate, e incap-pate nel trailer di Frank, state sbagliando film.

Nonostante la copertina simpatica, ronton-deggiante e con degli occhi giganti che ti fissano cordiali, Frank non è un film per tut-ti. Lenny Abrahamson ha scelto una strada poco calcata da altri registi per narrarci argomenti molto difficili ed introspettivi.Si perchè Frank non parla di uno sbandato qualsiasi che suona con una maschera per di-vertirsi, Frank analizza dal profondo, dalle radici, la pazzia umana. Michael Fassbrender si fa sentire nonostante non si veda mai il suo volto, un’interpretazione superba e mol-to difficile.

Domhnall Glesson, che vedermo a breve nel settimo capitolo di Star Wars nei panni di un personaggio secondario, non recita altrettanto bene, Fassbender, nonostante indossi una maschera, riesce ad essere molto più incisivo sul pubblico, anche se Glesson riesce fino alla fine a non sbilanciarsi, rimane su una linea di interpretazione di-screta riuscendo a definire comunque un personaggio molto attuale e realistico. Perchè Frank parla di pazzia?Bhe, dovrete scoprirlo da soli, vi possiamo annunciare che la paz-zia analizzata, oltre che essere tale sul piano clinico, lo è anche nell’ambito sociale, la ricerca del successo, dei follower su Twit-ter, delle visualizzazioni, dell’attenzione da aprte di un pubblico virtuale nella speranza che si materializzi, sono tipi di pazzia che affliggono anche noi, pubblichiamo uno stato di Facebook e ci emo-zioniamo ad ogni “mi piace”. In questo Frank riesce ad essere molto realistico, affronta il tema con una poesia ed una finezza che è dif-ficile trovare.

Matteo Galvani

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Posso quindi dirvi che la storia comincia normalmente, ci introduce il protagonista dandoci un assaggio dei suoi pensieri e della sua vita, per poi proiettarci in un altro mondo, nel quale non si capisce più cosa sia finzione e cosa realtà. Il tutto accompagnato da strani personaggi: una ragazza con delle bellissime orecchie magiche, il ratto e beh, ovviamente non può mancare una pecora bianca con una macchia color caffè a forma di stella sulla schiena. Forse però è meglio parlare dello stile di Murakami che in questo romanzo inizia a definirsi e in seguito sarà sempre più marcato. Troviamo dalla musica, che va dal rock al jazz, a profonde rifles-sioni sul senso della vita, sulla politica giapponese. La solitu-dine dell’uomo è un’altra delle tematiche ricorrenti, così come i continui ricordi che ci portano irrimediabilmente al passato e come ultimo, ma non per questo meno importante, la sublime capacità di narrare eventi al confine tra il reale e l’irreale. Ma torniamo al libro, la storia gira tutta attorno a questa strana pecora, i personaggi si muovono a causa sua e le vicende si intrec-ciano per arrivare ad una risoluzione. Nonostante ciò il lettore non entra mai in contatto con l’animale, che è una forza esterna nel racconto e che rimane al di fuori anche nella nostra visione e conoscenza. Tutto ciò è sorprendente.Come chiave di lettura posso semplicemente suggerire di non imporre la propria volontà a contrastare questo mondo di irrealtà in cui ci porta Murakami. Abbandonatevi e fatevi portare in questa realtà fantastica e onirica in cui verrete trasportati dalla trafficata e caotica Kyoto alle montagne e vallate dell’Hokkaido.Finirete con il risvegliarvi da questo sogno non ricordando bene quello che vi è successo nel tragitto, probabilmente avrete le idee molto confuse, ma non vedrete l’ora di andare a dormire per immer-gervi nuovamente nel mondo onirico.A proposito come si chiama il protagonista? È mai stato detto il suo nome?

Matilde Ongaro

Lo so, il titolo in principio può apparire strano e, magari, tra le centinaia di volu-mi in una libreria, non è il primo che va a colpire l’attenzione. Ma, nessuno vi ha mai raccontato che se aprite un libro a pagina 67 e subito ne siete affascinati, questo deve per forza essere vostro? Beh, questo è stato il mio incontro con questo romanzo. L’autore è il giapponese Haruki Murakami, nato a Kyoto nel 1949. “Nel segno della pecora” è il suo terzo romanzo, quello che gli ha permesso di acquisire notorietà.

Nel segnodella pecora

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La coscienzaframmentata

La coscienza frammentata. Viaggio attraverso gli incubi dell’uomo.Stampato dalla casa editrice Medea nel settembre 2014, Manuel Bi-lardello a soli 16 anni pubblica la sua prima raccolta di poesie. Il suo inchiostro che macchia indelebilmente ogni pagina descrive una società morta, un passato incancellabile, un’oscurità che avvolge questo giovane poeta, che tuttavia riesce a mettere in luce i suoi

più profondi e tenebrosi pensieri. Spiacevole rendersi conto che è proprio un giovane a criticare così amaramente la società, l’uomo, la morte, l’amicizia, l’amore…. Ven-detta, rimorso, odio, desiderio e vita sono le parole che cela l’au-tore in ogni pagina del suo libro. I versi di Bilardello sono duri, forti, dolorosi. Un linguaggio più che diretto e comprensibile ma solo con una più attenta rilettura si può scoprire il vero Manuel

Bilardello e la sua storia. Concludo riprendendo le parole dell’autore:

“Questa è la conclusione,La genesi della fine,Il canto del cigno,

La luce oltre l’incubo” (da ultimo giorno d’estate)

È possibile che con queste parole, l’autore, ci voglia dire che grazie alla condivisione di una parte di sé, ha potuto terminare

finalmente il suo viaggio attraverso gli incubi dell’uomo? E questo viaggio come continuerà?

Margherita de Pace

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EVENTI

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