Genesi e Sviluppo Storico Dello Statuto Dei Lavoratori Dalla Lotta Di Liberazione Ai Nuovi ti
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ai miei genitoriai miei genitoriai miei genitoriai miei genitori
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INDICE
PRESENTAZIONE p. 4
- PRIMA PARTE -
GENESI DELLO STATUTO DEI LAVORATORI
Introduzione alla I parte
p. 9
Capitolo 1. Tra rigoglio democratico e costituzione mancata p. 12 Capitolo 2. Gli anni ‘50 2.1. Premessa p. 28 2.2. Efficienza tecnica, sviluppo economico e repressione antioperaia p. 30 2.3. Il primo progetto di Statuto dei lavoratori: linea costituzionalista e origine di quella riformista
p. 42
Capitolo 3. Gli anni ‘60 3.1. Premessa p. 58 3.2. Miracolo economico e ripresa del conflitto operaio p. 59 3.3. L’avvento del centro-sinistra p. 71 3.4. Statuto e governi Moro negli anni ’60 p. 79 Capitolo 4. Il sessantotto, l’autunno caldo e la legge n. 300/1970 4.1. Premessa p. 92 4.2. La febbrile opera di Giacomo Brodolini e il disegno di legge del governo Rumor p. 93 4.3. “Tuoni a sinistra”. La crisi sociale dello Statuto p. 101 4.4. Autunno caldo e dibattito parlamentare: lo Statuto è legge p. 115
- SECONDA PARTE -
SVILUPPO STORICO DELLO STATUTO DEI LAVORATORI
Introduzione alla II parte
p. 129
Capitolo 1. Gli anni ‘70 1.1. Premessa p. 131 1.2. Il contesto politico e sindacale del decennio p. 132 1.3. L’affermazione dello Statuto tra uso alternativo e razionalizzazione p. 158
Capitolo 2. Gli anni ‘80 2.1. Premessa p. 184 2.2. La vicenda dei 61 licenziamenti alla Fiat alla vigilia della crisi del garantismo nei luoghi di lavoro
p. 185
2.3. Verso una società post-industriale. Produzioni post-fordiste e crisi politico-sindacale della classe operaia.
p. 204
2.4. Un diritto del lavoro che cambia. Lo Statuto alterato p. 235
3
Capitolo 3. Gli anni ‘90 3.1. Premessa p. 270 3.2. Il diritto del lavoro tra crisi della subordinazione e affermazione del post-fordismo
p. 272
3.3. Dalla crisi della “I Repubblica” ai nuovi progetti post-fordisti sui diritti dei lavoratori
p. 289
3.4. Lo “Statuto dei lavori” tra conflitto e dialogo sociale p. 324 3.5. Possibili scenari futuri p. 348
Appendice p. 354 Bibliografia p. 390 Sitografia p. 398 Riepilogo abbreviazioni riviste e quotidiani consultati p. 398 Ringraziamenti p. 400
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PRESENTAZIONE
Questo lavoro nasce dall’esigenza di ripercorrere le vicende più significative
della storia del movimento dei lavoratori e delle organizzazioni politiche e
sindacali che storicamente sono emerse attorno ad esso. Tale esigenza riaffiora
oggi alla luce dei grandi mutamenti socio-economici che il sistema capitalista del
nostro paese sta attraversando. Un processo avviato tra la fine degli anni ‘70 e
l’inizio degli anni ’80 e che nel 2006 sembra ancora in atto. Da allora si sono
aperte le porte al capitalismo post-industriale e a un nuovo sistema produttivo che
ha rovesciato il modello di sviluppo economico basato sulla grande impresa
taylor-fordista. Ciò ha avuto conseguenze generalizzate su tutto il tessuto sociale,
poiché il nuovo contesto socio-economico ha rapidamente trasformato il modo di
lavorare e la gestione della forza lavoro, i conflitti sociali attorno al fattore lavoro
e dunque lo stesso concetto di “cittadinanza industriale” con cui si sono misurate
le organizzazioni politiche e sindacali per più di un secolo. Queste ultime, nate e
sviluppatesi nel corso degli anni attorno figura social-tipica dell’operaio massa
subordinato a vita e a tempo pieno, sono state seriamente messe in crisi e oggi
sembrano ristrutturarsi difficilmente sulla base di paradigmi totalmente diversi.
Si è scelto di analizzare tale processo, connettendolo direttamente alla legge
che più di tutte ha rappresentato lo sviluppo e il declino del movimento dei
lavoratori. Infatti un punto di vista molto efficacie per comprendere la genesi e lo
sviluppo attuale del capitalismo post-fordista italiano e le conseguenze sul
movimento operaio e sindacale, può essere la crisi che il diritto del lavoro sta
attraversando da ormai un ventennio. Il sistema normativo lavorista infatti nasce e
si sviluppa proprio per introdurre nel nostro ordinamento giuridico, sanzioni
5
normative volte ad assistere il lavoratore subordinato tradizionale emerso dalla
crescita socio-economica basato sulla grande fabbrica taylor-fordista. Con
l’avvento della democrazia repubblicana e il dispiegarsi di una maturo sistema
produttivo, la disciplina giuslavorista approfondì il proprio intervento bilanciando
la debolezza contrattuale del lavoratore subordinato di fronte alla controparte
datoriale e attuando così i principi di democrazia economica e sociale sanciti nella
Costituzione. Una debolezza sociale, quella delle classi lavoratrici, emersa gia ai
tempi della prima rivoluzione industriale e sviluppatasi successivamente grazie
all’imporsi delle organizzazioni politiche e sindacali del movimento operaio come
soggetti perno del sistema socio-economico, capaci di autotutela collettiva e
dunque meritevoli di tutela legislativa secondo i principi inseriti successivamente
nella Carta costituzionale. Tale processo normativo fu caratterizzato dalla
previsione in capo al lavoratore subordinato di diritti fondamentali individuali, di
una regolamentazione dei sistemi di autodifesa collettiva e sindacale e nello stesso
tempo di una serie di doveri e di limiti al potere datoriale nei luoghi di lavoro. Il
processo di giuridificazione del rapporto di lavoro in questo senso, ha avuto nella
legge n. 300 del 1970, denominata Statuto dei lavoratori, l’espressione più
calzante allo sviluppo della disciplina giuslavorista poiché, dopo anni di
intollerabile violazione dei principi costituzionali, la democrazia passava i cancelli
delle fabbriche ed entrava anche nei luoghi di lavoro. In questo senso lo sviluppo
storico del diritto lavoro è, più di ogni altra branca del diritto, fortemente
intrecciato alle vicende politiche e sociali della storia d’Italia, ai conflitti attorno al
fattore lavoro e coinvolto nelle dinamiche storiche delle organizzazioni che
rappresentano gli interessi politici, sindacali ed economici della società capitalista.
6
Lo Statuto è quindi una utilissima cartina tornasole per analizzare i mutamenti
politici, sindacali e culturali dell’assetto socio-economico del capitalismo in
mutamento, proprio perché esso ebbe la pretesa di regolare i conflitti più intimi a
un determinato modello di sviluppo socio-economico.
Con la crisi dell’industrialismo taylor-fordista e con il progressivo passaggio
da una “società del Lavoro” a quella “dei lavori”, la figura tipica del lavoratore
subordinato a tempo pieno e indeterminato è gradualmente entrata in crisi,
facendo emergere nuove e stratificate configurazioni del rapporto di lavoro non
facilmente riconducibili ad un'unica fattispecie d’intervento normativo. Lo
Statuto, in questo contrasto è sembrato sempre più spesso non aderente alla realtà
in continua trasformazione. Già dai primi anni di applicazione della legge 300,
questa fu bersaglio di critiche aspre da parte datoriale e ciò per il semplice fatto
che più di ogni altra legge della Repubblica era aderente al contesto socio-
economico, intensamente efficace e di conseguenza ben presto diventò una legge
simbolo per il movimento operaio e da opposte visioni per i ceti produttivi.
Parallelamente allo sviluppo dei mutamenti socio-economici e politico-sindacali,
la forte efficacia giuridica e simbolica conquistata dallo Statuto, fu prima a livello
politico messa in discussione e successivamente a livello giuridico spesso
aggirata. Con il dispiegarsi del capitalismo post-fordista, nel corso della seconda
metà degli anni ’90, il processo di “fuga” dallo Statuto fece emergere nuovi
approcci di politica del diritto e di politica legislativa sui diritti dei lavoratori. In
questo senso alcune delle vicende politiche e sindacali delle ultime due legislature
non sono altro che la conseguenza di tali nuovi approcci.
7
Si è scelto di trattare la storia dello Statuto consapevoli che ripercorrerla
significa rintracciare i tratti fondamentali della storia politica, sindacale e socio-
economica degli ultimi anni e in un certo senso far riflettere, non solo sul futuro
della politica del diritto e di quella legislativa, ma anche più in generale sul futuro
dei diritti dei lavoratori e sulle nuove prospettive del movimento sindacale nella
fase attuale. Ma è impossibile analizzare le vicende recenti e attuali dello Statuto,
dei diritti dei lavoratori e di conseguenza del movimento sindacale, senza
rintracciare la genesi della legge n. 300. Senza ricostruire una “genealogia” dello
Statuto, cioè i fattori politico-sindacali e socio-economici che hanno portato al
provvedimento legislativo, si rischierebbe un’analisi parziale del suo sviluppo
successivo. Il lavoro è quindi diviso in due parti principali: nella prima parte viene
proposto uno schema interpretativo della genesi dello Statuto dei lavoratori,
mentre nella seconda si ripercorreranno gli sviluppi storici successivi. I “geni”
dello Statuto, come vedremo, vanno necessariamente rintracciati nella lotta di
liberazione e nella Costituzione Repubblicana. Le sorti dei diritti dei lavoratori
infatti furono legate all’annoso ritardo con cui vennero applicati i diritti
costituzionali nei luoghi di lavoro. Solo con il miracolo economico, la ripresa del
conflitto sociale e sindacale e il superamento del centrismo di governo, venne
varata una legge del tutto diversa dalla prima proposta che risale addirittura al
1952. Gli stessi anni ’70, in cui ci fu l’affermazione politica e giuridica dello
Statuto, sono indispensabili per poi proseguire nella narrazione delle vicende
storiche della crisi, apertasi tra il ’79 e ’80 e sviluppatasi fino ai giorni nostri. Lo
Statuto sarà prima messo in discussione dal contesto politico-sindacale e
successivamente alterato e modificato parzialmente dai mutamenti socio-
8
economici. La portata simbolica e giuridica della legge fu quindi intaccata
notevolmente, tanto da suggerire un superamento della legge o, negli ambienti più
vicini al movimento organizzato dei lavoratori, una estensione della sua logica o
un integrazione con altri provvedimenti.
9
Introduzione alla I Parte
“Tutta l’esperienza storica, non soltanto la nostra, dimostra che la democrazia c’è nella fabbrica e c’è anche nel paese e, se la democrazia è uccisa nella fabbrica non può sopravvivere nel paese. Noi dobbiamo difendere la democrazia nella fabbrica, il che non vuol dire che vogliamo sottrarre i lavoratori a ogni disciplina di carattere produttivo-professionale, no, il lavoratore deve compiere il proprio dovere nell’azienda, non deve distrarsi dai propri doveri, ma nelle ore libere dal lavoro ha il diritto, anche all’interno dell’azienda, di conservare le sue idee, di propagandarle di diffondere la stampa che vuole, di svolgere il lavoro sindacale, in una parola deve essere considerato un uomo libero, non uno schiavo.” Giuseppe Di Vittorio, III Congresso CGIL, Napoli 1952.
In questa prima parte del lavoro verrà rintracciata la genesi dello Statuto dei
lavoratori. Si cercherà quindi di ricostruire una sorta di genealogia della legge
300, che riesca a rintracciare negli eventi storici che vanno dal varo della
Costituzione all’approvazione nel maggio 1970, i “geni” politici, sindacali e
socio-economici che hanno reso necessario l’adozione del provvedimento. Lo
Statuto, infatti, è il risultato normativo di diversi “geni”, che vanno dall’emergere
di un determinato modello di sviluppo economico e di organizzazione del lavoro,
alle conseguenti nuove forme organizzative del fenomeno sindacale, dall’opera e
dalle ideologie di giuslavoristi ed operatori del diritto, all’assunzione di un preciso
impegno di riforma sociale a livello politico, come anche degli straordinari eventi
di conflittualità operaia nella fine degli anni sessanta. Elementi che, dalla
Liberazione al ’70, hanno avuto propri percorsi di sviluppo, ma che si sono anche
influenzati o sono stati causa l’uno dell’altro. Per questo si è deciso di trattare
10
l’argomento, ripercorrendo gli eventi politici, sindacali e socio-economico, che
vanno dalla lotta di Liberazione e dal varo del testo Costituzionale, ai primi anni
della conflittualità permanente e dell’approvazione dello Statuto. Infatti se è vero
che con lo Statuto la Costituzione entra nelle fabbriche italiane, è vero anche che
rintracciarne la genesi significa necessariamente partire dal contesto storico in cui
è nata la Carta costituzionale. Un approccio metodologico, confermato dal fatto
che la prima proposta di Statuto può essere individuata già nel 1952 con la
proposta Di Vittorio, quindi quasi venti anni prima della sua approvazione. Le
ragioni del ritardo sono molteplici e iscritte negli eventi della nostra storia
repubblicana. Per questo il lavoro verrà diviso in quattro capitoli relativi alle
diverse fasi storiche prese in esame. Nel primo, si cercherà non solo di rinvenire la
condizione operaia e i diritti dei lavoratori durante e negli anni successivi alla
Liberazione dal nazifascismo, ma di analizzare anche le norme e il ruolo che i
diritti dei lavoratori hanno avuto in sede costituente.
Nel secondo capitolo tratteremo della grave repressione antioperaia dovuta al
primo sviluppo economico degli anni ’50, che comportò un sensibile arretramento
dei diritti dei lavoratori nei luoghi di lavoro. Nello stesso capitolo sarà dato largo
spazio tanto alle denuncie di violazione dei diritti costituzionalmente riconosciuti,
quanto alle prime proposte d’intervento di sindacati e giuslavoristi, che proprio in
quegli anni andavano elaborando le basi teoriche della legge 300.
Nel terzo capitolo svilupperemo il lavoro, ripercorrendo gli eventi sindacali e
politici causati dallo straordinario boom economico a cavallo ’50 e decennio ’60
(ritorno alla fabbrica e avvento del centro-sinistra) che daranno ulteriore impulso
11
alle elaborazioni giuridiche d’intervento in materia di diritti dei lavoratori
subordinati nel contesto di produzione taylor-fordista.
Nell’ultimo capitolo verranno descritti i due momenti essenziali che hanno
dato impulso all’approvazione dello Statuto: la straordinaria stagione di
conflittualità nelle fabbriche che và dalla fine del ’67 all’autunno caldo ’69 e
l’importante opera politica del ministero del lavoro presieduto dal socialista
Giacomo Brodolini che redasse la prima proposta di legge del governo del centro-
sinistra. Inoltre vedremo come lo stesso provvedimento del governo, venne
criticato da giuristi, partiti e dalla stessa mobilitazione operaia e come questo fu,
in sede parlamentare, approvato con rilevanti aggiustamenti.
12
CAPITOLO I
TRA RIGOGLIO DEMOCRATICO E COSTITUZIONE
MANCATA
L’economia italiana nei tre anni successivi all’armistizio era fortemente in
crisi e il tessuto produttivo presentava gravi problemi per le distruzioni provocate
dalla guerra, così che la produzione nazionale si era ridotta a meno della metà
della fine degli anni ’30. La classe imprenditoriale della ricostruzione era
profondamente divisa. Oltre ad una notevole differenza tra imprenditori agricoli e
industriali, la stessa industria, al suo interno, presentava una notevole
disomogeneità. Il tessuto produttivo rimasto era infatti composto da una parte da
un gran numero di piccole imprese e dall’altra da un numero ristretto di grandi
unità produttive. Inoltre notevoli differenze riguardo a concentrazione di capitali e
capacità tecnologica, si riscontravano anche tra i settori dominanti dell’industria
italiana, cioè il settore della meccanica e della chimica, come anche in quelli
idroelettrico, alimentare e tessile. In generale, già in questi anni, emergeva la
grande divisione che si sarebbe sviluppata durante gli anni del boom economico,
cioè quello tra progressisti e conservatori. I primi, in minoranza, erano convinti
che la propria sopravvivenza sarebbe dipesa da un ampio programma di
razionalizzazione e di riconversione postbellico. I secondi erano agguerriti nel
proteggere le proprie posizioni di vantaggio date dall’effettivo monopolio in cui
operavano.
La sostanziale divisione interna veniva meno quando si trattava di difendere i
più generali interessi di classe, sia rispetto al mondo del lavoro sia nei riguardi
delle nascenti istituzioni repubblicane. Infatti già dopo l’insurrezione, il fronte
13
imprenditoriale si ritrovò fortemente compatto nel difendersi dalle aspirazioni del
movimento operaio e dei partiti della sinistra. Tutti erano concordi nel ristabilire
l’autorità padronale a scapito delle richieste di partecipazione proletaria alla
produzione e di libertà politica e sindacale in fabbrica. Scongiurato il rischio di
epurazione per chi aveva collaborato con il fascismo, gli obbiettivi generali della
Confindustria in questo periodo si potevano riassumere in due punti essenziali:
ripristino dell’autorità imprenditoriale in fabbrica nella completa libertà di
controllo sul lavoro salariato e totale autonomia rispetto alla pianificazione statale
della produzione.
Riguardo ai rapporti con il mondo del lavoro la prima conseguenza fu il
ripristino della facoltà di licenziare lavoratori, grazie all’abolizione di un
provvedimento risalente all’aprile ‘45 promosso e ottenuto dal CLNAI e
appoggiato dagli Alleati1, che aveva proclamato illegale ogni licenziamento.
“Secondo gli industriali questa situazione eccezionale doveva finire immediatamente, dal momento che nessuna seria ricostruzione avrebbe potuto aver luogo fintanto fossero stati costretti a pagare lavoratori improduttivi”2.
La libertà sindacale a livello aziendale ebbe una sorte analoga: gli imprenditori
non avrebbero tollerato nessuna possibilità negoziale a livello aziendale,
rimandando ai contratti nazionali, negoziati a livello centrale, la fissazione di
salari e differenziali. Per questo gli istituti nati dalla mobilitazione operaia
(Consigli di Gestione e CLN d’Azienda) erano fortemente osteggiati e ritenuti
1 Gli Alleati appoggiarono immediatamente il provvedimento per il timore di rivolte armate dei disoccupati. 2 P. Ginsborg. Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi: società e politica dal 1943-1988, Torino, Einaudi, 1989, p. 94.
14
pericolosi da tutte le componenti della Confindustria guidata in quegli anni da
Angelo Costa. Le parole di Costa in merito furono emblematiche:
“un bravo tornitore od un bravo meccanico potrà darmi dei consigli per la sua specializzazione, ma non vedo cosa possa dirmi in materia finanziaria[…] la funzione di controllo è lesiva del principio di autorità perché è il superiore che controlla l’inferiore, mai l’inferiore che controlla il superiore”3.
Unico istituto fatto salvo furono le Commissioni Interne (CI) già ricostituite
nel ’43 dall’accordo tra il commissario dell’associazione degli industriali
Giuseppe Mazzini e il socialista Bruno Buozzi. Le stesse CI ebbero tuttavia un
forte ridimensionamento per via di un accordo interconfederale stipulato il 7
agosto del ’47. L’accordo definiva le prerogative e i diritti dei commissari interni,
rendendo decisamente più limitati i poteri che questi avevano conquistato fino a
quel momento4.
Per quanto riguarda il loro atteggiamento verso lo Stato, questo fu di grande
diffidenza. Gli industriali rifiutavano ingerenze che potessero prefigurare un
assetto produttivo pianificato, ciò per via del rafforzamento delle compagini
politiche e associative della sinistra che si richiamavano al blocco sovietico. In
realtà alcuni industriali, quelli più moderati e progressisti, auspicavano un
interventismo statale di basso rilievo, ma la paura del caos e della rivoluzione
sociale comportava per questi che lo Stato si riducesse a semplice garante
dell’ordine pubblico. Sul piano politico quindi, gli industriali guardavano alla
Democrazia Cristiana (DC), mentre mancò da subito l’appoggio al Partito
Liberale Italiano (PLI). Questo si limitava a propugnare un ritorno al liberalismo
3 Ivi, p. 95. 4 Riguardo ai poteri delle CI nel periodo preso in considerazione si veda la ricostruzione di S. Musso, Storia del lavoro in Italia: dall’unità a oggi, Venezia, Marsilio, 2002, pp. 201-203.
15
prefascista, ma non riuscì a creare un vero e proprio partito di massa che potesse
garantire stabilità nel corpo sociale italiano lacerato dalla guerra e affascinato dai
proclami rivoluzionari della sinistra politica e sindacale. Al contrario la DC
riusciva a incorporare nella sua organizzazione larghe fasce della popolazione per
la sua vocazione interclassista e grazie alle innumerevoli organizzazioni collaterali
di ispirazione cattolica. Una volta che la DC rese chiaro il suo programma politico
anticomunista e di adesione all’occidente capitalista tramite la possibilità di
ricevere gli aiuti Usa dal piano Marshall, l’adesione complessiva della classe
imprenditoriale fu inevitabile.
Nel periodo tra l’armistizio e la promulgazione della Costituzione quindi, la
classe imprenditoriale, seppur divisa al suo interno, ebbe una forte capacità di
omogeneizzare le proprie richieste verso l’esterno. Tali richieste prefiguravano il
ristabilirsi dell’autorità padronale in fabbrica con un notevole arretramento delle
conquiste operaie ottenute durante la lotta di liberazione. Essi non ammettevano
stabilità del posto di lavoro, libertà sindacali e politiche e nessun istituto di
controllo operaio sulla produzione. Tale programma doveva essere portato avanti
da forze governative anticomuniste e garanti del liberalismo che, da una parte
ristabilissero l’ordine nelle fabbriche e dall’altra dessero impulso alla
ricostruzione e al ripristino delle regole del mercato.
“Gli industriali erano soprattutto preoccupati di recuperare la libertà di licenziamento, di giungere a una definizione dei diritti e delle competenze delle Ci che ne ridimensionassero l’azione, di evitare l’introduzione per legge di istituti partecipativi quali i consigli di gestione, considerati una inammissibile intromissione nella gestione dell’impresa”5.
5 Ivi, p. 207
16
Le classi popolari dal canto loro non se la passavano certamente bene. Il
fascismo e la guerra avevano gettato gli italiani nell’estrema povertà. Molti erano
rimasti senza casa per le distruzioni provocate dai bombardamenti e c’erano
gravissimi problemi di approvvigionamento di alimenti. Il consumo pro capite di
carne nel 1947 era di circa 4 kg all’anno e solo negli anni ’50 ci fu una sostanziale
ripresa6. I salari vennero rapidamente erosi dall’inflazione che toccò punte
altissime. Inoltre esistevano notevoli differenze tra lavoratori di diversi settori e
contesti territoriali che rendevano ancor più drammatiche le loro condizioni di
vita. La disoccupazione toccava punte ormai dimenticate: nel 1947 erano più di
1,5 milioni gli italiani che non riuscivano a trovare lavoro.
Tuttavia la grave situazione sociale era certamente mitigata dalle posizioni di
forza acquisite dai lavoratori delle industrie del nord. Questi, negli ultimi due anni
della guerra, riuscirono, grazie alla propria mobilitazione, a migliorare le proprie
condizioni di lavoro e di vita. Dove la mobilitazione operaia riuscì a costituire le
CLN d’Azienda e i Consigli di Gestione o ad acquisire libertà d’azione tramite le
CI nelle aziende abbandonate di cui gli stessi operai si fecero carico, ci furono
indubbie modificazioni sostanziali delle condizioni di fatto, sia sul piano
retributivo che su quello dei ritmi di lavoro. Il c.d. “vento del Nord” aveva creato
un clima di mobilitazioni per la democrazia in fabbrica non solo dal punto di vista
strettamente sindacale, ma anche e soprattutto da un punto di vista politico.
“[…] Durante il fascismo ed ancor più nel corso della Resistenza, il luogo di lavoro e soprattutto la grande fabbrica, divenivano importanti centri dell’attività clandestina che era essenzialmente non tanto una un’attività sindacale quanto un’attività politica.”7
6 G. Crainz, L’Italia Repubblicana, in AA.VV., Storia Contemporanea, Roma, Donzelli, 1997, p. 498. 7 L. Ventura, Lo statuto dei diritti dei lavoratori: appunti per una ricerca, in “Rivista giuridica del lavoro”, 1970, I, p. 516.
17
Ma tali esperimenti furono presto lasciati cadere nel nulla e il potere padronale
in brevissimo tempo riprese in mano le aziende. Queste esperienze di lotta infatti,
erano relegate alle città del nord e non toccarono minimamente le zone del
mezzogiorno italiano. Si può parlare in generale di forte desiderio di riforme
sociali ed economiche, ma certamente non di una vera coscienza rivoluzionaria
diffusa anche alle classi medie. Una valutazione condivisa dalle forze politiche e
sindacali della classe operaia. Infatti sia il PCI che il PSI, convinti che la
rivoluzione era di fatto impossibile, contavano nella buona volontà riformista
dell’altro partito di massa con cui erano alleati, la DC. L’alleanza avrebbe quindi
isolato la borghesia reazionaria e dato vita alla stagione di profonde riforme di
struttura. La tattica social-comunista consisteva nel moderatismo e nella
convinzione che l’aumento dei consensi elettorali avrebbe spianato la strada alle
riforme verso una nuova condizione operaia e popolare. Anche dopo l’esclusione
delle sinistre dal governo nel 1947, i partiti della sinistra puntarono tutte le proprie
forze sulla redazione della Costituzione e sulla vittoria dell’elezioni nel ’48 del
Fronte Popolare. Attuare questo progetto significava contenere le spinte eversive
della base operaia e integrare le aspirazioni di classe in un più generale contesto di
forze popolari e di ricomposizione dell’unità nazionale. Nell’immediato quindi gli
obbiettivi furono la pace, la liberazione dal nazifascismo e la collaborazione di
tutte le forze popolari al nuovo futuro assetto costituzionale democratico.8 Gli
eventi successivi avrebbero sconfessato non solo i fautori della rivoluzione
8 A. Pepe, La Cgil dalla ricostruzione alla scissione (1944-1948), in Id., Classe operaia e sindacato: storia e problemi. (1890-1948), Roma, Bulzoni, 1982, p. 154.
18
socialista, ma anche chi, come le forze politiche della sinistra, aveva creduto nelle
buone intenzioni riformatrici della DC.
Dal canto suo il sindacato unitario (CGIL), ricostruito nel ’44 con il patto di
Roma fra le anime comunista, socialista e cattolica, risentì della sua struttura
partitica e della sua azione eccessivamente appiattita alle ideologie di questi.
Inoltre nonostante tra gli iscritti erano di gran lunga maggioritari i comunisti, le
decisioni interne venivano prese con l’imperativo di salvare l’unità sindacale in
ossequio alla teoria del c.d. monopolio sindacale del lavoro e di fatto esse si
conformavano alle volontà della componente democristiana9. La CGIL dimostrò
quindi una mancanza di autonomia che la relegò ad un ruolo di secondo piano
rispetto alle decisioni di Togliatti e De Gasperi. Nonostante nel suo primo
congresso a Napoli nel 1945 si tracciò un programma radicale (nazionalizzazione
delle principali industrie, soppressione del latifondo, uguaglianza salariale
nazionale e cogestione delle aziende), il sindacato unitario si affrettò a firmare i
191 contratti nazionali di categoria ereditati dal sistema corporativo fascista
apportando solo alcune modifiche e provvedendo al ripristino delle sole CI, senza
avere una propria autonoma politica rivendicativa e contrattuale. La maggior parte
dei contratti interconfederali, certo non tutti, furono firmati principalmente per
limitare i danni di una situazione dominata dalla confusione e dallo spontaneismo
operaio a cui la CGIL non avrebbe potuto rispondere con un proprio progetto
sindacale atutonomo. La scelta nel primo congresso del modello di contrattazione
9 In questo senso interessante è la proposta di A. Pepe che vede nella CGIL unitaria confluite tre spinte diverse: “quella proveniente dalla classe e dalle sue lotte che tendeva soprattutto a strutturare l’organismo sindacale in funzione delle esigenze della classe operaia nel conflitto con gli industriali; quella proveniente dalle sinistre che tendeva a circoscrivere l’azione del sindacato nell’ambito economico rivendicativo, delegando al partito la più generale azione di trasformazione politica; e quella proveniente dalla democrazia cristiana che puntava a costruire un sindacato istituzionale con compiti di mediazione sociale, anticonflittuale e stabilizzatore […] in Ivi, p. 143.
19
centralizzato10, se da una parte contribuì migliorare e a razionalizzare le
condizioni dei lavoratori, esse a volte furono la causa di profondi dissidi tra la
base operaia e vertici sindacali11. Il sindacato unitario, che rimaneva
profondamente attraversato dalle divisioni interne, si preoccupò quindi di gestire
la transizione cercando di ristabilire condizioni minime a favore dei lavoratori e
ristabilire l’ordine in azienda per far ripartire la produzione e mitigare così il
problema della disoccupazione.
“Insomma la nuova CGIL rinasceva con una profonda convinzione che la rottura dell’assetto
economico e politico capitalistico non fosse compito diretto della classe operaia, quanto piuttosto il risultato di un’azione politica a livello istituzionale rispetto al quale il movimento doveva indirizzare e calibrare le propria lotta e le proprie rivendicazioni”12
Un altro punto sembra essenziale per tracciare la situazione delle libertà e la
dignità dei lavoratori prima del varo del testo costituzionale, cioè la questione
giuridica del lavoro sia da un punto di vista più generale delle culture e delle
ideologie degli operatori giuridici sia da quello più specifico delle politiche del
diritto attuate dai governi provvisori. La situazione di fatto fu quella del “divario
tra rigoglio democratico nel paese come nelle fabbriche e sua mancata sanzione
negli strumenti normativi”13. Più in generale quindi, al di là delle singole posizioni
e delle forze politiche e sociali in campo, il periodo dal ’43 al ’48 fu dominato da
una sostanziale confusione istituzionale e da un forte indulgenza operativa. Ciò fu
10 Il sistema centralizzato di contrattazione fu il risultato di una temporanea convergenza tra la componente cattolica e quella socialcomunista messa a punto nel congresso di Napoli. Tra i motivi di tale scelta ci furono l’eredità del sistema corporativo e la concezione pubblicistica del sindacato e del contratto collettivo, la volontà di controllo sullo spontaneismo periferico e quella di garantire un equilibrio controllato delle retribuzioni su tutto il territorio nazionale. 11 Esempio di dissenso della base fu il boicottaggio di questa dell’accordo interconfederale sulla reintroduzione dei licenziamenti per scaglioni affidata alle CI. L’accordo infatti ebbe immediato effetto solo nelle piccole aziende dove c’era meno mobilitazione operaia. 12 A. Pepe, cit., pp. 152-153. 13 La frase è di Aris Accornero nella sua pubblicazione Gli anni ’50 in fabbrica: con un diario di commissione interna, Bari, De Donato 1973, p. 42 e citata da U. Romagnoli nel suo Il lavoro in Italia. Un giurista racconta, Bologna, Il Mulino, 1995, p. 125.
20
fortemente penalizzante per le condizioni di vita, le libertà politiche e sindacali dei
lavoratori soprattutto per non aver dato risposta alle lotte operaie e posto sin
dall’inizio le basi per un cambiamento futuro delle strutture giuridiche del lavoro.
I governi di fronte al fiorire di diverse fonti di produzione normative (RSI, CNL,
Comandi Alleati, Repubbliche Partigiane,…) attuarono una politica del diritto che
si basò essenzialmente su provvedimenti certamente radicali, ma che presto
svelarono la loro portata burocratica, a dimostrazione dell’incapacità delle
istituzioni di creare nuove e moderne istituzioni in materia sindacale e di lavoro.
L’eliminazione delle istituzioni corporative ad esempio aveva avuto un effetto del
tutto simbolico. Di fatto le corporazioni non avevano mai funzionato e d’altra
parte gli stessi contratti collettivi stipulati sotto il fascismo e sottoscritti dalla
“nuova” CGIL, senza pensare alla questione della validità erga omnes, non erano
stati sostanzialmente ritoccati. Il rapporto di lavoro rimase quindi disciplinato dal
codice civile fascista del ‘42 e in materia di processo del lavoro le leggi sulla
magistratura del lavoro e sulla possibilità di intervento delle associazioni sindacali
nel processo, furono abrogate. Ciò lasciò un vuoto enorme fino alla riforma del
197314. Le culture e le ideologie degli operatori giuridici d’altronde dimostrarono
una netta convergenza con le scelte governative. Questi nella confusione delle
fonti del diritto, continuarono ad operare in un contesto accademico dove nulla di
nuovo veniva proposto e con gli stessi fondamenti scientifici del corporativismo
giuridico, anche dopo l’abolizione nell’anno accademico ‘43-’44 del corso di
Diritto corporativo sostituito da quello di Diritto del lavoro15. Anche chi respirava
14 Ivi, p. 124. 15 U. Romagnoli fa notare che, nonostante la reintroduzione nelle università del corso di Diritto del lavoro avvenuto con un decreto del governo Badoglio, molti studenti e professori in quel anno e in
21
l’aria di liberazione dal corporativismo fascista, non fece altro che ritornare agli
studi sul contratto individuale di marca liberale risalente all’era prefascista.
“La maggior parte dei lavoristi dopo la liberazione e immediatamente dopo la Costituzione, si
occuparono prevalentemente, se non esclusivamente, del contratto individuale di lavoro; quasi tutti i manuali di Diritto del lavoro si occupavano solo del contratto individuale, e in quasi tutte le università si insegnò, nel corso di Diritto del lavoro, il contratto individuale.16
I temi connessi al lavoro, ai diritti e alle libertà dei lavoratori tornarono al
centro del dibattito politico e sindacale nell’Assemblea Costituente ed ebbero la
prima sanzione normativa nel varo del testo costituzionale il 1° gennaio ‘48.
Indubbiamente nella Costituzione il tema del lavoro e delle libertà politiche e
sindacali dei lavoratori ebbe una così larga trattazione che rappresentò una felice
novità rispetto alle esitazioni e alle confusioni degli anni precedenti:
“[…] stupisce che la costituzione del ’48 parlasse un linguaggio sconosciuto nel passato che non voleva passare”17.
Tutto l’impianto costituzionale, sia nei sui principi fondamentali sia nel titolo
III sui rapporti economici, ha come tema centrale il Lavoro e la figura sociale del
lavoratore. La Costituzione italiana si inseriva quindi nel solco delle Costituzioni
moderne che definitivamente sanzionano il ruolo egemone del Lavoro nelle
società del novecento. L’art. 1 né è la prova fondamentale: l’Italia è una
Repubblica democratica, fondata sul lavoro. Nonostante i dissidi sulla formula da
adottare tra le diverse anime dell’Assemblea18 e il fatto che l’articolo fu frutto di
parecchi successivi, credevano che il corso e l’esame erano tuttavia quelli di Diritto corporativo, in Ivi, p. 123. 16 G. Tarello, Teorie e ideologie del diritto sindacale. L’esperienza italiana dopo la Costituzione, Milano, ed. Comunità, 1967, p. 21 nota n. 4. 17 U. Romagnoli, Il lavoro in Italia, cit., p. 126. 18 Le forze in rappresentanza della sinistra politica proposero come noto l’enunciato “Repubblica dei lavoratori”.
22
un compromesso, il risultato dimostra come tutte le anime politiche riconobbero il
ruolo predominante che il Lavoro si era ormai guadagnato di fronte alla storia.
“E ciò perché – figli del loro tempo – tutti i costituenti sapevano che il ventesimo era il secolo
del Lavoro, con la elle rispettosamente maiuscola”.19
Non solo, è stato anche sostenuto che la stessa anima sociale della costituzione
risieda e sia frutto proprio dell’alta considerazione che si ebbe dei temi connessi ai
rapporti econimico-sociali, dando risalto all’elemento essenziale della
Costituzione che attribuisce ad essa lo spirito “informatore” teorizzato da
Dossetti.20 Il testo nei successivi quattro articoli segue sulla sessa lunghezza
d’onda: sono riconosciuti e garantiti i diritti inviolabili dell’uomo, sia come
singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (art. 2); è
compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale,
che, limitando di fatto il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e
sociale del Paese (art. 3 comma 2); a tutti i cittadini è riconosciuto il diritto al
lavoro e la Repubblica si impegna a promuovere le condizioni che rendano
effettivo questo diritto (art. 4).
A questi principi di carattere generale sono collegati gli altri titoli sui rapporti
civili e come abbiamo detto quelli sui rapporti economici. Ormai il lavoratore ha il
diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e
in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e
19 U. Romagnoli, Pubblico e privato nella cultura del sindacato del dopoguerra, in AA.VV., Il contributo del mondo del lavoro e del sindacato alla Repubblica e alla Costituzione, Roma, ed. Lavoro, 1998, p. 38. 20 V. Saba, Perché la nostra costituzione può a ragione definirsi sociale e come fu che i costituenti diedero vita, approvando l’articolo 39, a un vero e proprio ”mostro” giuridico e culturale, in AA.VV., Il contributo del mondo del lavoro, cit., p. 87.
23
dignitosa (art. 36 comma 1); fu prevista una durata massima della giornata
lavorativa e il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e alle ferie annuali (art.
36 commi 2 e 3); le donne hanno gli stessi diritti e le stesse retribuzioni che
spettano agli uomini (art. 37); l’organizzazione sindacale è libera (art. 39 comma
1) e ai sindacati liberi è riconosciuto il ruolo d’interlocutore privilegiato in materia
di contrattazione sindacale (art. 39 comma 4); è sancito il diritto di scioperare (art.
40) e l’iniziativa privata non può essere svolta in contrasto con l’unità sociale o in
modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e dignità umana (art. 41 comma
2). Nel titolo sui rapporti economici è quindi evidente la figura di primo piano che
i lavoratori dovranno avere nel futuro assetto economico e sociale, pur in un
contesto economico dominato dai pilastri del capitalismo. I lavoratori e le sue
organizzazioni diventano parte integrante della “area legittimità costituzionale” e
ciò rappresentò una svolta storica rispetto agli assetti costituzionali liberali che li
avevano invece relegati in una posizione di contrapposizione rispetto allo Stato.
Tuttavia la svolta non fu facile. Il fascismo e il sistema corporativo erano ancora
vivi nelle menti degli italiani e in realtà, al di là dei principi e delle formule
verbali, le forze popolari all’interno dell’Assemblea, sia politiche che sindacali,
non ebbero la strumentazione culturale, politica e normativa per un progetto
alternativo all’interno del un paradigma costituzionale. Un programma alternativo,
cioè che riuscisse a discostarsi sia dal liberalismo prefascita che dallo stato
“pigliatutto” fascista.
“Nell’epoca in cui si forma il relativo modello costituzionale, l’obbiettivo di un genuino
rinnovamento dei rapporti sindacati-Stato-economia doveva apparire incerto e lontano sia perché
24
la sinistra di classe non possedeva una “dottrina economica alternativa” sia perché non aveva la forza necessaria per tradurla in termini operativi nel breve periodo.”21
In questa prospettiva la questione sindacale fu di primaria importanza: gli
articoli sull’assetto sindacale (39, 40 e 46) furono il frutto di un compromesso che
potrebbe essere considerato con le parole dello stesso Togliatti, un compromesso
“deteriore”22. L’organizzazione sindacale fu dichiarata libera, ma allo stesso
tempo la sua personalità giuridica era subordinata alla registrazione presso gli
uffici e i locali dello Stato preposti per legge. Il tema fu quello della scelta tra un
sindacato di diritto pubblico e quello di associazione di diritto privato. La scelta
per la seconda formula, prefigurava certamente un sindacato libero e autonomo
dallo Stato, ma per esplicare le proprie funzioni di diritto pubblico (la stipulazione
di contratti collettivi valevoli per la categoria rappresentata) esso sarà sottoposto a
regole che ne controllino, non già il proprio ordinamento interno, ma la l’effettiva
rappresentatività dei lavoratori. E’ chiaro che l’enunciato è soggetto ad
interpretazioni differenti, perché il controllo degli organi statali avrebbe potuto
compromettere l’autonomia e l’indipendenza dell’operato delle organizzazioni
sindacali23. Lo Stato democratico si riserva in altri termini una possibile
captazione delle organizzazioni dei lavoratori.
21 U. Romagnoli, T. Treu, I sindacati in Italia: storia di una strategia (1945-1976), Bologna, Il Mulino, 1977, p. 32. 22 Il leader comunista riteneva tale la “costituzione economica”, in quanto si era seguito un metodo che consisteva nel lavorare non più sulle idee e sui principi ma esclusivamente sulle parole, cit. in Ivi, p. 31 23 E’ chiaro che Giuseppe Di Vittorio, unico esponente sindacale presente nella terza sottocommissione che si occupò della discussione e della redazione del III titolo, ebbe un’interpretazione positiva in merito che escludeva di fatto la possibilità di una possibile limitazione dell’autonomia del sindacato dalle ingerenze del potere pubblico. Sul ruolo di Di Vittorio, su questo tema e sugli altri temi connessi all’ordinamento sindacale nel nuovo assetto costituzionale si veda P. Iuso, Giuseppe Di Vittorio e l’assemblea costituente. La relazione sull’ordinamento sindacale, in Il contributo del mondo del lavoro, cit., pp. 109 e ss.
25
Lo stesso diritto di sciopero fu il frutto di una incapacità delle forze politiche
di trovare un accordo preciso24 e ciò comportò la formula ambigua che affidava al
legislatore nascente il potere di disciplinarne l’esercizio. Infatti, una volta
considerato il diritto di sciopero subordinato alla serrata, che fu garantito solo
come una libertà, lasciare tale diritto senza nessun tipo limitazione al suo uso
avrebbe attribuito ai lavoratori organizzati la possibilità di incidere direttamente
sulle questioni politiche e senza nessuna limitazione operativa. Anche riguardo
allo sciopero quindi, i costituenti si limitarono a stabilirne il diritto, ma non
riuscirono in quel momento a regolarne realmente le modalità e il campo d’azione.
In ultimo c’è da analizzare l’art. 46 che disciplina il tema della cogestione
dell’impresa. Anche in questo caso la formula compromissoria dell’articolo fu
puramente verbale e di fatto essa non prese in considerazione la possibilità di una
qualsivoglia presenza di controllo operaio e sindacale nelle unità produttive. L’art.
46 riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti previsti
dalla legge. alla gestione delle aziende,[…]in armonia con le esigenze della
produzione. Fu palese quindi l’intento di sanzionare costituzionalmente la fine
delle esperienze dei CLN d’Azienda e dei Consigli di Gestione ancora in atto nel
paese. Inoltre, la possibilità di esercizio di tale diritto, era subordinato strettamente
ai limiti e ai modi preposti da organi pubblici. Certamente, sia la sinistra politica
che sindacale, non vedevano di buon occhio la possibilità di un controllo operaio
nella fabbrica poiché esso avrebbe potuto rappresentare un centro di mobilitazione
24 Le divisioni principali riguardavano l’ambito in cui questi avrebbero potuto far ricorso lecitamente a tale diritto e quindi alla possibilità per i sindacati di proclamare lo sciopero politico e alle modalità tecniche per la sua proclamazione. E’ chiaro che l’impianto istituzionale pluralistico designato dalla costituzione si poggiava sul ruolo principale dei partiti (si veda l’art. 49). Accettare lo sciopero politico avrebbe significato inserire i sindacati in tale pluralismo come centro di interessi alternativo e competitivo ai partiti.
26
politica e sindacale dal basso non controllabile dai loro modelli organizzativi
fortemente centralizzati. Dal canto loro le forze più liberali ribadivano la centralità
delle esigenze e dell’armoniosità della produzione, mirando così al
riconoscimento “sacrale” dell’autorità padronale in azienda. Di nuovo quindi ci si
accordò per la formula “collaborazione alla gestione delle aziende” che
accontentava tanto le forze liberali quanto quelle popolari.
La Costituzione rappresentò un formidabile punto di partenza per via della
forte considerazione dei temi connessi al lavoro, del ruolo sociale dei lavoratori e
quindi dei loro diritti e libertà. Ma questa si prefigurava come una “costituzione
mancata”. Infatti, le norme più specifiche che regolavano i rapporti economici,
non solo scaturirono da un puro compromesso letterale e quindi facilmente
interpretabili in sensi fortemente contraddittori, ma si caratterizzarono anche per
la mancanza del loro valore normativo. La stessa Corte di Cassazione, circa un
mese dopo l’entrata in vigore della Costituzione, distinse le norme in precettive e
in programmatiche, stabilendo che solo le prime avevano il potere di abolire le
leggi previgenti. Per questi motivi gli anni successivi alla entrata in vigore della
Costituzione si caratterizzeranno per la straordinaria mancanza di applicazione e
di effettività dei diritti e delle libertà dei lavoratori sancite dal testo costituzionale.
In definitiva, nel periodo che va dal ’43 al ’48, in tema di diritti, libertà e
dignità dei lavoratori, si può a buon ragione parlare di una incapacità delle
istituzioni dell’Italia postfascista di dare risposta chiara e immediata alle forti
aspirazioni di rinnovamento e di riforme provenienti dalle masse lavoratrici. Ciò
dimostrava come il fascismo abbia segnato profondamente le istituzioni e la
cultura istituzionale del nostro paese. Inoltre le forze politiche e sindacali più
27
sensibili, in questo periodo dimostrarono una forte propensione all’attendismo,
data principalmente dall’inesistenza di un programma alternativo di riforme e
dalla confusione istituzionale in cui operarono. Segno che il fascismo e i suoi
schemi culturali investirono profondamente anche le forze più progressiste. Gli
stessi buoni propositi riposti sulla Costituzione, se da un lato diedero un impulso
ad un assetto istituzionale in cui finalmente i diritti dei lavoratori erano
considerati, dall’altro questi caddero nel vuoto per via della mancanza di una
chiara ed efficiente strumentazione normativa che li facesse rispettare. Questi
aspetti peseranno fortemente sulle condizioni dei lavoratori negli anni successivi,
dominati dal ritorno dalla completa libertà del potere padronale di disporre a
piacimento della forza lavoro e per questo fortemente lesive dei diritti dei
lavoratori. Tali condizioni, come vedremo, saranno così lesive per i lavoratori,
da far pensare che i tempi del fascismo in fabbrica non smisero mai di operare nel
nostro paese, nonostante il rigoglio democratico che aveva attraversato il popolo
italiano con la caduta del fascismo.
28
CAPITOLO II
GLI ANNI ’50
2.1 Premessa
Gli anni successivi al varo della Costituzione repubblicana saranno gli anni
che vedranno imporsi la società industriale e il conseguente definitivo declino del
mondo contadino. Dall’inizio degli anni ‘50 infatti lo sviluppo industriale ebbe un
impulso straordinario ed esso pose le basi per il miracolo economico degli anni
‘60 e la nascita anche in Italia del capitalismo maturo. Motore di tale sviluppo fu
la grande fabbrica impostata sul modello di produzione taylor-fordista. La
centralità della grande fabbrica nello sviluppo economico del paese ebbe come
conseguenza quello di collegare direttamente i diritti e le libertà dei lavoratori a
questo modello organizzativo di produzione. Lo sviluppo industriale di quegli
anni, come vedremo, fu strettamente legato alle pessime condizioni in cui si
trovava la classe lavoratrice, sia in termini salariali sia per quanto riguardava i
diritti politici e sindacali nelle imprese. “C’è una perfetta coincidenza tra
l’efficienza tecnica, l’aumento della produttività industriale e la scomparsa d’ogni
seria resistenza sindacale” scriveva Eugenio Scalfari nel 1969 nel suo saggio “Il
bastone nelle fabbriche” in cui descriveva le pessime condizioni dei lavoratori nel
pieno dello sviluppo industriale degli anni cinquanta.25 Lo Statuto dei diritti dei
lavoratori è quindi il risultato normativo del modello di sviluppo basato sulla
grande industria fordista, volto a tutelare i diritti dei lavoratori subordinati nel
contesto di quel modello produttivo. Tuttavia l’imporsi della grande fabbrica e del
25 In L’autunno della repubblica. La mappa del potere in Italia, Milano, Etas Kompas, 1969, pp. 68 ss.
29
taylor-fordismo fu il risultato di molteplici fattori e la nascita di uno Statuto dei
diritti non fu certamente automatica ed indolore per i lavoratori. Il miracolo
economico si ebbe infatti solo alla fine del decennio cinquanta e fino a quel
momento il mondo del lavoro si caratterizzò per la drammatica assenza di tutele
per il lavoro salariato e l’inesistenza di una normativa efficace in tal senso.
Certamente, come abbiamo visto in precedenza, le vicende politiche e sociali
postbelliche e le carenze della Costituzione in materia di diritti dei lavoratori,
influirono in modo decisivo sulla possibilità nei luoghi di lavoro di rendere
effettive delle regole che limitassero il potere padronale a tutela dei lavoratori
subordinati. Nonostante la drammatica assenza di diritti nei luoghi di lavoro e la
sistematica violazione dei principi sanciti dalla Costituzione, lo Statuto dei
lavoratori fu varato solo all’inizio degli anni ‘70. Le cause di questo ritardo vanno
certamente ricondotte al fatto che solo con il boom economico vennero a crearsi le
condizioni sociali, politiche e culturali per l’imporsi di una esteso ed organico
complesso di norme a tutela dei diritti dei lavoratori. Lo sviluppo tecnologico,
quindi l’imporsi di nuovi modelli di produzione e l’emergere della società dei
consumi connesso alla ripresa del conflitto sociale e alle mutate condizioni
politiche e culturali dell’Italia degli anni ‘60, rese ormai maturo il varo dello
Statuto dei lavoratori. Gli anni ‘50 sono quindi fondamentali per il mio lavoro non
solo per ripercorrere i c.d. anni del “bastone nelle fabbriche”, caratterizzati cioè
dal brutale ritorno dell’autorità padronale dopo la parentesi dei primi anni
postfascisti, ma anche e soprattutto per analizzare i geni dello sviluppo economico
successivo che determinò il boom economico e le condizioni sociali, politiche e
culturali che stanno alla base dello Statuto dei diritti dei lavoratori. In questa
30
prospettiva, gli anni 50 furono gli anni in cui si rivelano le pessime conseguenze
che lo sviluppo economico provocò sui diritti e le libertà dei lavoratori subordinati
e della conseguente elaborazione sindacale e giuridica per un futuro Statuto dei
diritti dei lavoratori subordinati.
2.2 Efficienza tecnica, aumento della produttività e repressione
antioperaia
Ricostruite le istituzioni democratiche e il tessuto sociale lacerato dalla guerra,
l’obbiettivo principale delle nuove istituzioni repubblicane fu quello di far
ripartire il sistema produttivo. L’Italia degli anni ‘50, dopo la vittoria della
Democrazia Cristiana alle elezioni del ’48, la sconfitta del Fronte Popolare e
l’inaugurazione dei governi centristi (DC, liberali, repubblicani e
socialdemocratici), era pienamente inserita nella logica bipolare della guerra
fredda dalla parte delle forze occidentali capitaliste. Lo sguardo era rivolto tanto
agli Stati Uniti, come ruolo guida del blocco di appartenenza, quanto alle nazioni
europee in una prospettiva di soggetto economico unitario almeno nel medio
lungo periodo.26 Ma tutti gli aspetti della vita sociale e politica erano influenzati
dalla contrapposizione tra due diverse visioni del mondo e questo avrà, come
vedremo, notevoli conseguenze anche rispetto ai diritti dei lavoratori. Le stesse
organizzazioni dei lavoratori erano profondamente divise per via di questa
contrapposizione ideologica e, nel giro di pochi anni, le divisioni interne nella
CGIL unitaria, faticosamente mediate negli primi anni postfascisti, si risolsero in
una serie di scissioni che diedero vita a tre centrali sindacali. Nell’estate del ’48 da
una scissione promossa dalle ACLI, nasce la LCGIL e un anno più tardi un’altra
26 V. Foa, Questo novecento. Un secolo di passione civile. La politica come responsabilità, Torino, Einaudi, 1996, p. 229.
31
scissione di sindacalisti socialdemocratici e repubblicani diede vita alla FIL. Le
nuove sigle sindacali, dopo una breve esperienza unitaria che aveva portato alla
nascita della prima CISL, diedero vita alla UIL (socialdemocratici e repubblicani)
e alla CISL (cattolici). L’esperienza dell’unità sindacale faceva ormai parte del
passato e solo alla fine degli anni ’50 si ricominciò a parlare di unità sindacale.
In questo contesto internazionale fortemente ideologico, l’Italia dimostrò sin
dai primi anni ’50 una buona capacità di far ripartire la propria economia
puntando essenzialmente più che sullo sviluppo del mercato interno, sulla crescita
delle esportazione sfruttando il regime di bassi salari. Si andava delineando il
declino della società contadina e si imponeva definitivamente la società
industriale basata sulla grande industria e sul modello organizzativo taylor-
fordista che ebbe definitiva attuazione nel miracolo economico della fine del
decennio. In quegli anni il ceto imprenditoriale italiano si preoccupò
principalmente di ricostruire la gerarchia di fabbrica per poter realizzare
unilateralmente i processi di razionalizzazione e di adeguamento tecnologico
finanziati dal piano Marshall. La scoperta nel ’48 e negli anni successivi di nuovi
giacimenti di petrolio e metano e l’importazione di combustibili liquidi, grazie
all’opera di Enrico Mattei a capo dell’Agip e poi dell’Eni, generò una forte
competizione tra le maggiori industrie monopolistiche del paese (Eni, Edison e
Montecatini) che ebbe come risultato la nascita del settore petrolchimico e quello
delle fibre sintetiche. La tradizionale posizione monopolista della Montecatini
veniva a mancare, posizione che per anni aveva sostanzialmente subordinato ai
propri interessi monopolistici la possibilità di nuovi investimenti. Eni e Edison
servendosi delle innovazioni tecnologiche acquisite in gran parte grazie al know
32
how statunitense e degli aiuti economici previsti dal piano Marshall, riuscirono a
spezzare il tradizionale monopolio che aveva di fatto ostacolato l’entrata nel
mercato di nuovi soggetti produttivi. Essi riuscirono ad attuare l’ipotesi che gli
economisti indicano con il concetto di “entrata laterale”27 nel mercato
monopolista. Ciò portò a un notevole aumento della produttività, alla introduzione
di nuovi prodotti e quindi ai primi mutamenti nel settore dei consumi. Altro
aspetto importante fu il notevole investimento pubblico nel settore dell’acciaio.
Nacquero così le nuove grandi acciaierie che travolsero l’eccezionale nanismo del
settore siderurgico e diedero impulso ai seppur minimi investimenti nel
Mezzogiorno, grazie anche all’istituzione della Cassa del Mezzogiorno. Tramite
gli investimenti statali nell’IRI con il “piano Sinigaglia” infatti, si riuscirono a
produrre grandi quantità d’acciaio a ciclo integrale. Lo sforzo in questo settore
fece decollare l’industria metalmeccanica e il mercato dell’auto grazie ai bassi
costi delle materie prime e soprattutto agli investimenti della Fiat guidata da
Vittorio Valletta. Nel ’53 erano 112 mila le automobili di nuova
immatricolazione.
“L’Eni e l’Iri svolsero quindi un ruolo considerevole nelle origini del “miracolo”, e se non si può certo affermare che lo Stato italiano pianificò questa grande espansione economica, e pur vero che esso vi contribuì in tanti modi […] furono tutti elementi che aiutarono a creare le condizioni per l’accumulazione del capitale e il suo successivo investimento nell’industria”28.
Alle origini del grande “impero Fiat” ci fu la decisione di Valletta di costruire
Mirafiori e la messa a punto della gigantesca catena per la produzione della nuova
“600” con investimenti pari a circa 300 miliardi. La Fiat nel giro di qualche anno
27 Riguardo all’applicazione di questa teoria economica allo sviluppo degli anni ’50, interessante è la ricostruzione storica di E. Scalfari nel capitolo della sua opera L’autunno della repubblica, cit., con il titolo emblematico di “Il capitale alla riscossa”, pp. 44 ss. 28 P. Ginsborg, Storia d’Italia, cit. p. 288.
33
divenne il motore dello sviluppo economico, tanto da avere un’influenza decisiva
su tutto il sistema economico italiano. L’Italia, che lentamente usciva dalla
povertà e dall’austerità del fascismo e della guerra, vedeva nell’automobile un
simbolo di rivincita e di realizzazione delle proprie felicità, ma anche uno “status”
sociale da ostentare in una società ancora fortemente gerarchizzata. Vittorio Foa,
parlando dei conflitti operai che si verificarono successivamente alla fine del
decennio e dell’opportunità del sindacato di incentrare la sua lotta per lo sviluppo
del settore automobilistico, descrisse il ruolo dell’automobile nella società italiana
con parole che possono sembrare eccessive, ma che più di altre rendono l’idea
delle innovazioni sociali che la motorizzazione introdusse nella società italiana.
“Allora fu un a vera e propria liberazione: lo spazio, anche se lontanissimo, diventava vicino e il tempo era sotto controllo, da lungo e immobile diventava brevissimo […] fu una conquista di libertà. I trattati di diritto costituzionale non ne parlano ma fu veramente la conquista di un diritto.29
Insomma l’Italia nel giro di un quinquennio riuscì a crescere ad un tasso
medio del 5,5% annuo, pose le basi per la crescita di un proprio mercato interno e
fu pronta a competere con i mercati europei ponendo le basi per il futuro miracolo
economico che si ebbe alla fine degli anni ’50 grazie soprattutto all’entrata nel
mercato unico europeo.
Ma parlare delle origini del miracolo economico e degli anni cinquanta senza
sottolineare l’importanza che il lavoro ebbe in quegli anni, non rispecchierebbe la
realtà. Lo sviluppo economico degli anni ’50 ebbe effetti devastanti sui lavoratori.
29 La frase è estrapolata da un passaggio in cui l’autore racconta del suo intervento al congresso della CGIL nel 1960 a Milano in cui, parlando a titolo strettamente personale, sottolineò la sua diffidenza verso uno sviluppo economico basato sulla motorizzazione e chiese una diversa scelta di valori per i consumi. Raccontando questa vicenda ammette di aver valutato male a quei tempi, ma ribadisce le sue posizioni critiche alla luce dell’impoverimento civile e culturale dei nostri tempi e le conseguenze della motorizzazione sulla salute dei cittadini. In Questo novecento, cit., pp. 262-265.
34
Ad un forte incremento di produttività e dei profitti infatti, non corrispose
l’aumento generale dei salari. In realtà “tra il 1953 e il 1960, mentre la produzione
industriale aumentò da 100 a 189 e la produttività operaia da 100 a 162, i salari
reali nell’industria diminuirono impercettibilmente da 100 a 99,4”30. La
disoccupazione dilagante portò a far sì che la domanda di lavoro eccedesse
l’offerta, così che gli industriali potettero disporre di masse di lavoratori a basso
costo. Le condizioni di estrema povertà in cui continuava a vivere gran parte del
popolo italiano, portava molti di loro a scegliere di rimanere in condizioni di
indigenza o accedere ad un salario comunque non sufficiente ad una vita
dignitosa. In fabbrica il potere politico e sindacale dei lavoratori fu fortemente
ridimensionato. Le ristrutturazioni e l’organizzazione del lavoro venivano stabilite
unilateralmente dai datori di lavoro. Negli anni ’50 fu completato quindi il
programma padronale di ritorno del potere gerarchico per eliminare le ingerenze
operaie e sindacali e la loro gestione autonoma dei tempi di lavoro.
Tuttavia le lotte operaie nelle fabbriche contro i licenziamenti dovuti alle
ristrutturazioni e contro i nuovi ritmi di lavoro furono forti fino almeno alla metà
del decennio considerato. Si scontravano due diverse concezioni di fondo della
produzione e della organizzazione industriale. Quella padronale si basava sul
potere centralizzato attraverso l’organizzazione di gradi gerarchici di comando su
fasi della produzione che andavano sempre più standardizzandosi grazie alla
introduzione di nuove tecnologie. A questa si contrapponeva quella basata sulla
garanzia dell’organizzazione operaia e dell’autodisciplina dei lavoratori con
l’attribuzione a questi del potere di controllare l’impiego della manodopera.
30 P. Ginsborg, Storia d’Italia, cit., p. 289.
35
“I due modelli, non potevano che scontrarsi frontalmente, indipendentemente dall’esasperazione politica e ideologica dei conflitti nell’Italia della guerra fredda.”31
Le pratiche di organizzazione del lavoro sperimentate autonomamente dai
lavoratori nel periodo precedente allo sviluppo degli anni ’50, rappresentavano
per gli imprenditori l’ostacolo essenziale agli investimenti di capitali e al
conseguente aumento della produttività. Ma la forte resistenza operaia, che
provenne soprattutto dalla componente socialcomunista e quindi classista, ancora
maggioritaria fino a quel momento nel movimento operaio, non riuscì ad incidere
sulle reali possibilità di realizzare una diversa organizzazione del lavoro in cui
rimaneva centrale la figura del potere operaio. Tali lotte si limitarono a denunciare
l’intensificarsi degli orari di lavoro e della disciplina in azienda, quindi
spessissimo esse non entrarono nel merito delle condizioni di lavoro conseguenti
alle ristrutturazioni32. Era una posizione dominante in tutta la sinistra marxista e
soprattutto nel PCI, quella cioè di non intraprendere una lotta che potesse
prefigurare un’alternativa sulla scorta della realtà che andava affermandosi. In
molti credevano che il capitalismo italiano era arretrato e incapace di svilupparsi,
per questo si impostavano lotte di resistenza per accelerare la crisi, non lotte volte
alla trasformazione della realtà data. Le osservazioni di quegli anni di un militante
a Milano, è forse la più utile testimonianza delle dinamiche interne alla sinistra
italiana degli anni ‘50.
31 S. Musso, Storia del lavoro in Italia, cit., p. 210. 32 Molto interessante è la ricostruzione di quegli anni fatta da E. Pugno e S. Garavini. Essi sottolineavano la reticenza del sindacalismo classista ad entrare nel merito alle questioni delle ristrutturazioni produttive per via della analisi politiche sul capitalismo italiano in voga nella sinistra politica degli anni ’50. Questa era “[…] tendente a sottolineare il carattere arretrato, la mancanza di dinamica, l’incapacità di soluzioni dei problemi del paese” e di fatto non fu “[…] in grado di cogliere la realtà vera del capitalismo” poiché non guardava “[…] ai problemi stessi dei lavoratori nella loro immediata evidenza”, in Gli anni duri alla Fiat. La resistenza sindacale e la ripresa, Torino, Einaudi, 1976, p. 20.
36
“Mentre tutti gli elementi di esperienza diretta, tutte le cifre e i dati statistici ci dicevano che
l’economia milanese era in sviluppo, in sede di Partito Comunista e camerale i vecchi dirigenti sostenevano “Milano degrada”, bisogna lottare per la “salvezza dell’economia milanese”, “per la rinascita di Milano”, e così via. Si negava insomma, in linea puramente astratta […] che il capitalismo potesse essere in grado di sopravvivere” 33
Nell’ambito delle ristrutturazioni, le principali industrie italiane avevano
inoltre provveduto a formare e ad inserire nella struttura gerarchica, una vasta
schiera di quadri aziendali che avrebbero avuto il compito specifico di
razionalizzare e controllare il lavoro operaio nei suoi tempi e metodi. Per tutti gli
anni cinquanta andavano nascendo quelle nuove figure lavorative che avrebbero
rappresentato gli elementi fondamentali dell’aziendalismo taylor-fordista. Anche
in questo caso la classe operaia ritardò ad agire nel merito e sul ruolo che queste
nuove figure ebbero nella ristrutturazione organizzativa, considerandoli solo nel
loro aspetto antioperaio e non, come avvenne successivamente, come figure da
integrare in possibili rivendicazioni di classe.34
Comunque il primo effetto di questi scontri, fu lo scarso potere che in quegli
anni ebbero le istituzioni sindacali e politiche nei luoghi di lavoro, cioè le CI, già
fortemente ridimensionate con l’accordo interconfederale del ’47. Gli industriali
non tolleravano che istituti di rappresentanza operaia in azienda potessero
intromettersi nella gestione della produzione e dei salari. In molti casi le CI non
venivano nemmeno costituite dagli operai, sotto la minaccia della direzione di
licenziamento per l’attivismo sindacale in azienda35. Colpire le organizzazioni dei
lavoratori significava quindi indebolire al contempo la posizione di ogni singolo
33 F. Onofri, Classe operaia e partito, Bari, Laterza, 1957, p. 28. 34 Una ricostruzione efficace e fortemente critica alla sinistra marxista sulla formazione dei quadri dirigenti delle aziende degli anni ’50, specificatamente alla Fiat di Vittorio Valletta, è presente in G. Berta, L’Italia delle fabbriche, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 139 ss. 35 La classe lavoratrice si difende, (a cura delle ACLI), Milano, 1953.
37
lavoratore come parte contraente. In questa prospettiva, le direzioni aziendali
operarono per cercare consenso tra gli operai con diffusissime pratiche di
paternalismo aziendale. In quegli anni vennero potenziati servizi assistenziali e
ricreativi e si cercò di creare una specie di “welfare aziendale”. Questi, lungi da
essere considerati tali, venivano utilizzati a fini di attrazione aziendalistica e di
creazione di quel consenso diffuso per legittimare le decisioni della direzione.
Inoltre sul piano dei salari si faceva largo uso di incentivi extracontrattuali
(incentivi di produzione, aumenti di merito, indennità di mansione e formule di
cottimo) non solo per aumentare la produttività dei singoli lavoratori, ma anche
soprattutto per scongiurare iniziative unitarie e dividere i lavoratori. La parte
aziendale del salario, ormai sottratta al controllo delle CI, era prevalentemente
usata dalle direzioni per premiare il rendimento individuale e la disciplina. Queste
pratiche furono una delle maggiori cause delle sconfitte di quegli anni, soprattutto
quando queste venivano elargite come “premi di collaborazione” per chi non
scioperava. La distinzione tra “costruttori” e “distruttori” operata da Vittorio
Valletta rappresentava più di tutte la situazione descritta.
Alla repressione sindacale si affiancò, sempre più frequentemente, quella più
specificatamente politica ed ideologica, in un contesto come quello italiano
dominato dall’anticomunismo. Le aziende quindi, non solo non tolleravano la
presenza di poteri sindacali nei luoghi di lavoro, ma ostacolavano anche qualsiasi
tipo di attività politica che potesse mettere in discussione le strutture sociali
esistenti. La repressione anticomunista nei luoghi di lavoro era la pratica più
diffusa, sia perché questi nel passato avevano rappresentato la forza più ostile al
potere padronale per vocazione classista, sia perché permetteva alle direzioni
38
aziendali di legittimare provvedimenti vessatori servendosi della giustificazione
ideologica. L’esclusione della sinistra dai governi, la divisione sindacale e l’opera
sempre solerte delle diplomazie statunitensi, in pochi anni resero la vita degli
operai iscritti alla CGIL, o dei simpatizzanti socialisti e comunisti, insopportabile
da ogni punto di vista. In primo luogo fu la stessa dignità umana ad essere lesa nei
suoi principi fondamentali. Avvenivano licenziamenti per il solo fatto di discutere
di politica o di possedere stampa comunista. In quegli anni inoltre si istituirono i
c.d. reparti “confino”, cioè i reparti con mansioni più dure dove venivano trasferiti
di solito militanti comunisti. Alla Fiat, l’Officina Sussidiaria Ricambi veniva
chiamata in quegli anni con il nome allegorico di Officina Stella Rossa36. Le
intimidazioni agli operai comunisti toccavano non solo la sfera individuale: presto
si arrivò anche alle minacce dirette ai familiari. Numerose furono le lettere inviate
da capi e sorveglianti alle mogli di attivisti comunisti che minacciavano di
licenziare i propri mariti.37
“ I meccanismi messi in atto allora dalla Fiat sembrano appartenere a un altro mondo: veri e
propri “tribunali di fabbrica” con verbali di udienza, per dare apparenza di legalità ai licenziamenti; reparti confino come l’Officina Sussidiaria Ricambi; un nutrito corpo di sorveglianze e un’ampia rete d’informatori; un insieme di intimidazioni e di pressioni cui gli altri sindacati non mancano spesso di contribuire”38
E non mancarono di contribuire anche le forze dell’ordine della Repubblica. In
molti casi e in molti contesti aziendali, venivano reclutati poliziotti, carabinieri e
36 E. Pugno, S. Garavini, Gli anni duri alla Fiat. cit, p. 17. 37 Ibidem. 38 G. Crainz, Storia del miracolo economico. Culture, identità, trasformazioni fra anni cinquanta e sessanta, Roma, Donzelli, 1998, p. 34-5.
39
vigili urbani, su cui i superiori chiudevano un occhio, direttamente pagati o
ricompensati con doni di vario genere per spiare gli operai e le loro famiglie.39
“Denaro e donazioni servivano a raccogliere una massa minuta e fitta di informazioni (non di
rado, sembra di capire, con il largo aiuto dei parroci) che ovviamente privilegiava le opinioni politiche dei dipendenti o di chi faceva domanda d’assunzione, ma si allargava – con impietosa, compiaciuta e talora morbosa invadenza – a ogni sfera della vita privata.”40
Certamente un carattere fondamentale della repressione degli operai comunisti
fu il fatto che questa era sorretta dalla più generale repressione sociale di cui i
comunisti erano oggetto negli anni più cupi della guerra fredda. In questo senso le
ingerenze delle diplomazie americane furono straordinarie. Non ci furono scrupoli
nell’attuare le più svariate forme di pressione, sia verso i poteri politici che verso
le direzioni aziendali. Comunisti e simpatizzanti della sinistra erano vittime del
“sistema d’impronta maccartista che devastava allora gli Stati Uniti: la minaccia
del posto di lavoro.”41 Gli Stati Uniti in poche parole, subordinavano il loro
appoggio politico ed economico alla capacità degli industriali, non solo di
introdurre velocemente i nuovi sistemi organizzativi di produzione, ma anche di
espellere chi, secondo la loro visione maccartista, avrebbe più di tutti ostacolato lo
“sviluppo economico”, cioè i comunisti. Ciò avveniva tramite la minaccia di
sospendere commesse e investimenti previsti dal piano Marshall. Le polemiche
con gli industriali italiani che non espellevano dalle aziende gli operai comunisti o
semplicemente gli iscritti alla CGIL (che tra l’altro non erano tutti comunisti),
erano all’ordine del giorno. Nota ormai è la polemica tra la Confindustria e
39 In particolare sulle schedature alla Fiat si veda la straordinaria opera di B. Guidetti Serra, Le schedature alla Fiat: cronaca di un processo e altre cronache, Torino, Rosenberg & Sellier, 1984. L’autore riferiva che le schedature in Fiat continuarono per tutti gli anni ’60 e si estinsero solo verso la metà degli anni ’70, grazie anche alla entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori e all’opera di coraggiosi pretori del lavoro. 40 G. Crainz, Storia del miracolo economico, cit., p. 36. 41 V. Foa, Questo novecento, cit. p. 230.
40
diplomazia americana iniziata nel 1950 e protrattasi negli anni successivi, sulla
presunta debolezza con cui gli industriali italiani avevano provveduto a eliminare
dalle fabbriche i “sovversivi attivisti che continuavano a sabotare deliberatamente
il più grande programma che mai il mondo avesse visto per il miglioramento del
tenore di vita dell’uomo medio.”42 Certo in quegli anni la critica americana ai
dirigenti dell’economia italiana riguardava la questione più ampia della
opportunità d’introdurre anche in Italia il modello di produzione fordista43, ma la
carica ideologica contro i militanti comunisti e la loro scarsa conoscenza della
situazione reale nei luoghi di lavoro, resero le loro critiche quanto meno
strumentali alle logiche della guerra fredda e in definitiva sprezzanti delle liberà
civili e sindacali. I dirigenti dell’economia italiana d’altronde, ebbero su questo
punto un atteggiamento che da una parte rivendicava il loro percorso autonomo di
introduzione delle nuove forme organizzative d’oltreoceano e dall’altra non
perdeva tempo nella minuziosa opera di denigrazione morale e civile dei militanti
socialcomunisti, che certamente fu condotta con attenzione quasi maniacale.
Come dire, sull’introduzione del fordismo in Italia si può discutere, ma non venite
a farci la predica di anticomunismo! Gli industriali italiani infatti non perdevano
un’occasione per sottolineare di fronte alle diplomazie d’oltre oceano la genuinità
della loro quotidiana opera di lotta al comunismo nelle aziende. Ciò per
scongiurare il blocco dei finanziamenti o il taglio delle commesse straniere.
L’evento storico più significativo in tal senso fu certamente l’incontro avutosi il 4
42 Le parole sono di Lucius Dayton, capo della missione speciale della European Cooperation Administration (Eca) in Italia, pronunciate nell’ottobre 1950 a Genova e citato in G. Berta, L’Italia delle fabbriche, cit., p. 101. 43 Sull’intera polemica tra la Confindustria di Angelo Costa e le diplomazie americane si veda la ricostruzione nel saggio sempre di G. Berta, La Confindustria fra atlantismo e fordismo, da cui è stata estrapolata la citazione precedente, in Ivi.
41
febbraio nel 1954 all’ambasciata americana a Roma tra l’ambasciatrice Claire
Booth Luce e Vittorio Valletta, capo della Fiat, il cui svolgimento fu reso noto
solo 1974 grazie alla pubblicazione dalla Rivista di storia contemporanea. E’
sufficiente riportare qualche passaggio del documento per chiarire le strategie
degli industriali italiani di fronte ai richiami statunitensi e alle minacce di
sospensione delle commesse.
L’Ambasciatrice “[…] A lato dei larghi sacrifici fatti dagli Usa […] la situazione del comunismo in Italia in luogo di retrocedere parrebbe in continuo progresso. Conseguentemente si presenterebbero come inutili altri aiuti anche quelli in offshore. […] Il Senato americano […] dovrà esaminare tale situazione […]” Valletta “[…] Tale impressione […] non soltanto è esagerata ma è sostanzialmente sbagliata. […] Malgrado la fiducia storica nelle loro antichissime organizzazioni (CGIL e FIOM) […] continuo è il passaggio alle altre organizzazioni […] nelle quali gli scioperi a base politica o di disturbo non vengono ormai più attuati […] non è possibile ottenere rapidamente un maggior crollo delle votazioni operaie a danno delle antichissime loro organizzazioni […] dovrà piuttosto ricercarsi in avvenire una soluzione atta a schiacciare gli attivisti e comunisti dai posti di comando […] il personale è scelto con criteri severissimi, riferiti […] al loro passato ed alla loro non appartenenza a formazioni politiche […].”44
Detto e fatto: alle elezioni del 1955 la FIOM (sindacato dei metalmeccanici
della CGIL), dopo anni di repressione anticomunista e antisindacale e di
resistenze, perse le elezioni della CI in Fiat, da sempre dominata fino a quel
momento.
Le pratiche volte a reprimere l’esercizio delle libertà civili nelle aziende mano
a mano che si sviluppavano investirono la totalità dei lavoratori, anche quelli non
comunisti. Le direzioni aziendali si sostituivano di fatto alle autorità pubbliche nei
luoghi di lavoro. Tramite i licenziamenti indiscriminati, indagini preliminari per
l’assunzione, ispezioni, sanzioni disciplinari e innumerevoli pratiche vessatorie, i
luoghi di lavoro vennero rapidamente trasformati in una specie di luogo “altro” in
cui i diritti civili sanciti dalla Costituzione non avevano nessuna applicazione.
44 Il verbale della riunione è stato pubblicato integralmente con il titolo “Il governo americano contro gli operai italiani (1954)” in V. Foa, Sindacati e lotte operaie 1943-1973, Torino, Loescher, 1975, pp. 104 ss.
42
Non che fuori dalle fabbriche non si contavano casi di repressione politica e di
limitazioni delle libertà civili45, ma le pretese e le pratiche delle direzioni aziendali
avevano una loro specifica e autonoma strategia volta a creare una doppia
disciplina in merito e dare all’impresa una sorta di immunità rispetto alle
violazioni dei diritti civili. La dimostrazione di ciò fu il fatto che la repressione
delle libertà civili in azienda non investì solo gli operai militanti e simpatizzanti
comunisti, ma con il tempo questa fu utilizzata verso la generalità degli operai con
la pratica delle ispezioni a distanza, con le guardie giurate e con le perquisizioni
personali. Gli operai non comunisti, pian piano che vedevano crescere la
disciplina nelle fabbriche, si accorsero che, fuori da queste, alcuni diritti civili
(certo non sempre) erano comunque tutelati dagli organi statali, mentre nelle
fabbriche si andavano costruendo luoghi in cui tutto era permesso in deroga alle
libertà sancite dalla Costituzione. Soprattutto nelle fabbriche più piccole ormai, la
distinzione tra comunisti e cattolici non esisteva, l’offensiva si dirigeva contro
tutti in violazione dei diritti e della dignità umana dei lavoratori.
2.3 Il primo progetto di Statuto dei lavoratori: linea costituzionalista
e origine di quella riformista
Nel paragrafo precedente abbiamo visto come, nel giro di qualche anno, i
luoghi di lavoro in Italia si trasformarono in veri e propri luoghi di repressione
delle libertà dei lavoratori. Una repressione che non riguardava solo le libertà
sindacali del lavoratore come parte contraente del rapporto di lavoro, ma che
investiva la stesse libertà personali, le libertà di pensiero politico e religioso,
45 Sul nesso strategico tra repressione nei luoghi di lavoro da parte dei datori e repressione sociale da parte degli organi dello Stato si veda la ricostruzione storica di L. Ventura, Lo statuto dei diritti dei lavoratori, cit., p. 517.
43
l’integrità fisica e morale. Un processo iniziato alla fine del decennio quaranta e
che ebbe il suo culmine alla vigilia del miracolo economico nel ’58. E’ indubbio
che in questo lasso di tempo, gran parte dell’opinione pubblica italiana non era a
conoscenza o ignorava la violenza e la brutalità delle condizioni in fabbrica. Le
denuncie e le resistenze furono deboli e soprattutto non furono raccolte dalla
intelligentsia nazionale meravigliata dai fasti del primo sviluppo economico.
“L’Italia di “Lascia e raddoppia” e di “Canzonissima” era presa in quegli anni da occupazioni del tutto diverse. […] “Così il pubblico colto, il pubblico “liberale”, non ha mai saputo nulla. Non ha mai saputo in che modo, per tutto l’arco degli anni ’50, la classe operaia sia stata sistematicamente disarmata, umiliata, sfruttata, quali drammi individuali e collettivi si siano verificati, quale immensa forza d’intimidazione si sia raccolta nelle mani del padronato”.46
Erano quindi anni in cui la gran parte della cultura “alta” italiana dimostrò un
forte distacco con la realtà, poiché basava il proprio pensiero “nell’erroneo
presupposto che i diritti fondamentali di libertà possono essere confiscati o
compromessi solamente dal pubblico potere” e non si preoccupavano “che la
società civile possa generare forme di dominio non meno oppressivo […].”47
Tuttavia denunce e proposte d’intervento ci furono, non si può negarlo. Esse
furono deboli e figlie dei tempi che correvano, ma ripercorrerle è importante
soprattutto per individuare le origini del dibattito sullo Statuto dei lavoratori e le
nuove culture giuridiche che stanno alla base della legge 300 del 1970.
All’inizio del 1952 un’importante inchiesta promossa dalla rivista “Società”48
chiamò importanti giuristi e operatori giuridici a esprimersi in merito al
licenziamento disposto nel capodanno ’52 da parte della Fiat, al militante
46 E. Scalfari, L’autunno della Repubblica, cit., p. 70. 47 U. Romagnoli, Il lavoro in Italia, cit., p. 133. 48 Diritto al lavoro e libertà di opinione, in “Società”, 1952.
44
comunista Giovanni Battista Santhià49, chiedendo a questi se il licenziamento per
motivazioni politiche poteva ritenersi illegittimo alla luce delle norme previste
dalla Costituzione. Le risposte dei giuristi furono per la maggior parte (i
costituzionalisti)50 volte a ritenere illecito il licenziamento alla luce di una vasta
serie di norme sancite dalla Costituzione, ritenendole di fatto imperative non solo
nell’ambito dei rapporti tra cittadino e Stato ma anche nei rapporti interprivati e
quindi in quello di lavoro (Balzarini, Giannini, Natoli, Cesarini-Sforza e
Crisafulli). Dubbi in merito all’illegittimità del licenziamento furono invece
rilevati da Santoro-Passarelli.
Nell’ottobre dello stesso anno, al III congresso dei lavoratori chimici,
Giuseppe Di Vittorio in un’intervista parlò esplicitamente della opportunità di
varare uno “statuto che sancisse i diritti e le libertà del cittadino lavoratore”51
costituzionalmente riconosciuti. Nella stessa intervista, Di Vittorio, spiegando le
ragioni della proposta, denunciò le pratiche vessatorie dei datori di lavoro nei
luoghi di lavoro. Fu una delle prime denuncie ufficiali delle violazioni dei diritti
dei lavoratori nelle aziende e proveniva da chi, più di tutti, in quegli anni soffriva
la discriminazione nelle aziende, cioè la CGIL, “il sindacato dei comunisti”.
Questa vedeva nello Statuto un importante provvedimento per reagire ad una
49 G.B. Santhià ebbe un ruolo di primo piano nella Fiat durante la Liberazione e nota era la sua militanza comunista. Successivamente fu nominato direttore dei servizi sociali. Fu licenziato per motivi apertamente politici. Nella lettera di licenziamento si leggeva che “non poteva ulteriormente essere trascurata l’incompatibilità esistente fra la sua posizione di direttore Fiat e i suoi obblighi di alto esponente di un partito di cui è ben noto il costante atteggiamento di ostilità e di lotta a scopo distruttivo nei confronti della Fiat”, in E. Stolfi, Da una parte sola. Storia politica dello statuto dei lavoratori, Milano, Longanesi, 1976, p. 17. 50 Sull’impegno in quegli anni dei giuristi per l’attuazione delle norme della Costituzione, interessante fu un appello diramato nel 1951 firmato da un gran numero di operatori giuridici in occasione della festa della Costituzione, in cui si rilevava un’applicazione carente delle norme costituzionali e la persistente operatività di vecchie leggi varate sotto la dittatura fascista, in “Rivista giuridica del lavoro”, 1951, I, p. 149. 51 M. Vais, Lo statuto dei diritti dei lavoratori, in “Rivista Giuridica del lavoro”, 1964, I, p. 27.
45
pessima situazione che “interessava soprattutto i suoi uomini e le sue
organizzazioni”52. Il mese dopo gli stessi temi furono riproposti al III Congresso
Confederale della CGIL e fu approvato dai 1429 delegati il progetto di Statuto
proposto da Di Vittorio (si veda Appendice doc. n. 1).
Il primo progetto di Statuto dei lavoratori era quindi composto da 4 articoli e
da un enunciato finale. Ognuno di questi era collegato ai relativi articoli della
Costituzione da applicare anche nei luoghi di lavoro. Il primo era collegato all’art.
2, il secondo all’art. 13, il terzo agli art. 39-40-46 e il quarto agli art. 3-36. Il testo
in realtà non era altro che una riproposizione dei principi sanciti dalla
Costituzione inseriti però nel contesto aziendale. Solo nell’enunciato finale si
proponeva di collegare tali diritti alla questione del licenziamento: il testo limita
esplicitamente il licenziamento ad nutum alle sole ragioni attinenti alle esigenze
della produzione, vietando licenziamenti per rappresaglia a causa dell’affiliazione
del lavoratore ad una organizzazione sindacale o per aver fatto valere i principi
sanciti dalla Costituzione. E’ chiaro quindi che la CGIL propose lo Statuto
raccogliendo le proposte del movimento dei giuristi costituzionalisti che
rivendicavano l’applicazione sostanziale delle norme costituzionali, riproponendo
un complesso di norme da applicare anche al rapporto di lavoro, ma senza
preoccuparsi adeguatamente di come renderle effettive. E’ su questo terreno
d’incontro tra cultura giuridica costituzionalista e il sindacalismo d’ispirazione
marxista che fu fondata nel 1951 la Rivista giuridica del lavoro diretta da Ugo
Natoli. Per tutti gli anni ’50 e ’60, si realizzò quindi un incontro tra le aspirazioni
della classe operaia e giuristi intenzionati a portare avanti la lotta sul piano
52 G. F. Mancini, Lo statuto dei lavoratori dopo le lotte operaie del 1969, in “Politica del diritto”, 1970, n. I, p. 57.
46
giuridico del lavoro. La pubblicazione della proposta di Statuto della CGIL, le
successive pubblicazioni di saggi, l’indirizzo di ricerca sui temi dei diritti dei
lavoratori e l’organizzazione di convegni, dimostravano l’impegno eccezionale
dei giuristi della Rivista, volto da una parte a denunciare la condizione operaia
nelle aziende e dall’altra a trovare strumenti normativi per elevare i diritti dei
lavoratori. In questa prospettiva, i giuristi raccolti attorno alla Rivista, si
contraddistinsero per un atteggiamento professionale di aperta contestazione delle
dinamiche insite al sistema giuridico italiano, che continuava ad essere farcito di
cultura e ideologie conservatrici e antidemocratiche tipiche del regime fascista53.
Lo stesso Luciano Ventura, autorevole giurista della linea costituzionalista (che
tra l’altro avrà come vedremo un ruolo importante nella Commissione giuridica
guidata da Gino Giugni istituita per la redazione del progetto di legge del Governo
Rumor) parlando di quegli anni e dell’opportunità di varare uno Statuto dei diritti
dei lavoratori, dichiarò:
“Sono gli anni nei quali viene fondata questa Rivista, la cui storia è indissolubilmente legata allo sviluppo di quell’indirizzo e di quelle ricerche”54.
Il convegno sulla tutela delle libertà nei rapporti di lavoro, tenutosi a Torino
nel novembre del 1954, fu il segno di questo incontro e del fatto che il problema
“uscì dal mondo delle organizzazioni sindacali dei lavoratori per impegnare anche
studiosi […], in particolare i giuristi”55. Esso fu infatti organizzato dalle riviste: Il
53 Tale atteggiamento è palesemente esternato da M.S. Giannini in un saggio del 1956, in cui commenta una vicenda relativa all’affissione di una manifesto nei locali di un’azienda da parte dei componenti della CI. Ciò aveva provocato l’intervento del questore e successivamente un pronuncia giudiziaria, si veda A proposito di diritti di libertà dei lavoratori nelle aziende, in “Rivista giuridica del lavoro”, 1956, p. I, pp. 72 ss. 54 Lo statuto dei diritti dei lavoratori, cit., p. 519. 55 L. Riva Sanseverino, Problemi attuali di uno “statuto dei diritti del lavoratore”, in “Quaderni di scienze sociali”, 1968, p. 42.
47
diritto del lavoro, Rivista internazionale e comparata del lavoro, Rivista giuridica
del lavoro, appunto, e dall’associazione Giuristi Democratici. I giuristi interpellati
ribadirono che le norme costituzionali dovevano ritenersi imperative anche
all’interno delle aziende come al di fuori di queste e ritennero illegittimo qualsiasi
licenziamento ad nutum per le opinioni politiche e sindacali del lavoratore. Alcuni
dimostrarono una particolare attenzione proprio per la proposta di Statuto della
CGIL.56
Intanto negli stessi anni, anche la cultura cattolica del movimento operaio
aveva dimostrato di interessarsi alle condizioni dei lavoratori nelle unità
produttive. Le ACLI milanesi, dopo aver annunciato al congresso del 1952 che era
in corso un’inchiesta condotta fra i lavoratori della provincia milanese,
pubblicarono un anno più tardi un fascicoletto dal nome La classe lavoratrice si
difende57, in cui venivano descritte le pratiche vessatorie delle direzioni aziendali
dimostrando che la violazione dei diritti civili e sindacali investiva non solo i
militanti comunisti, ma la generalità dei lavoratori. La pubblicazione
nell’immediato provocò polemiche violentissime: le associazioni degli
imprenditori negarono il contenuto dell’inchiesta, accusarono gli “aclisti” di falso
e li descrissero come “comunisti di sagrestia”58. Tuttavia la grande stampa
nazionale ignorò la denuncia e il potere politico dimostrò uno sconvolgente
disinteresse. Ma la denuncia delle ACLI ebbe due effetti importantissimi per il
futuro dello Statuto: primo, l’inizio di un processo di convergenza di interessi su
questi temi - non certo per la loro risoluzione come vedremo - delle
56 Atti del Convegno sulla tutela della libertà nei rapporti di lavoro, Milano, Giuffrè, 1955; si veda anche M. Vais, Lo statuto dei diritti dei lavoratori, cit., p. 35-37. 57 La classe lavoratrice si difende, (a cura delle ACLI), Milano, 1953. 58 E. Scalfari, L’autunno della Repubblica, cit. p. 73.
48
organizzazioni dei lavoratori cattoliche e comunista; secondo, il fatto che qualche
anno più tardi il potere politico iniziò ad interessarsi della questione, con
l’istituzione della commissione d’inchiesta sulle condizioni dei lavoratori nel
1955. Proprio a Milano infatti si svolse un convegno, promosso dalla “Società
Umanitaria”59, sulle condizioni del lavoratore nell’impresa industriale: erano
presenti sia i sindacalisti della CGIL, della CISL, della UIL e delle stesse ACLI,
sia studiosi, giuristi, industriali e parlamentari. Allo stesso tempo le denuncie delle
Associazioni dei Lavoratori Cattolici costrinse la Democrazia Cristiana ad
assumersi le proprie responsabilità politiche di fronte a queste tematiche.
“Con l’Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei lavoratori in Italia, le questione fu poi adottata nel campo politico, anche se sempre in vista di uno dei tanti aspetti della complessa tematica affrontata: infatti, in materia di “Rapporti umani e provvidenze sussidiarie e integrative.”60
L’inchiesta parlamentare infatti sorse dalla fusione delle due iniziative
parallele, quella delle ACLI alla Camera dei Deputati proposta da Buttè e Calvi e
quella della CGIL al senato proposta da Roveda.
In realtà in quegli anni ci fu la denuncia delle pessime condizioni dei
lavoratori, ma esse furono deboli e non riuscirono a raggiungere l’opinione
pubblica generale, anche se furono importantissime soprattutto per il fatto che
unirono aspirazioni delle organizzazioni sindacali a settori della comunità
giuridica, segnando la nascita della linea costituzionalista. Questa, rappresentata
dalla proposta della CGIL e sorretta dall’elaborazione teorica dei giuristi raccolti
attorno alla Rivista giuridica del lavoro, riteneva che le norme costituzionali erano
59 Società Umanitaria, Convegno nazionale di studio sulle condizioni del lavoratore nell’impresa industriale, Milano, Giuffrè, 1954. 60 L. Riva Sanseverino, cit., p. 42-43.
49
già applicabili non solo ai rapporti tra cittadino e Stato ma anche tra privati, a
maggior ragione nel rapporto di lavoro in cui una delle parti era da considerare più
debole (il lavoratore). Si auspicava un intervento legislativo dello Stato,
soprattutto nella misura in cui nei luoghi di lavoro di fatto la parte contraente più
forte (l’imprenditore) non permetteva l’esercizio di tali diritti di libertà, per
garantire a tutti i lavoratori, organizzati o meno, una tutela generale e uniforme
che in definitiva limitasse il potere disciplinare e di licenziamento
dell’imprenditore. Titolari dei diritti erano quindi la generalità dei lavoratori, non i
gruppi, ma i singoli che li esercitavano organizzandosi. La proposta
costituzionalista rifletteva l’ideologia marxista di fondo, sia del sindacato social-
comunista e sia dei giuristi che la portavano avanti. Sul piano sindacale ciò
significava considerare il sindacato come un’organizzazione che guidasse la classe
operaia nella sua totalità, congiuntamente al ruolo preminente del partito,
lasciando a questo il momento politico. Quello che bisognava evitare per la CGIL
era la deriva aziendalista, cioè la contrattazione diretta dagli stessi lavoratori nelle
aziende, che avrebbe incentivato lotte corporative e la stratificazione di condizioni
all’interno della classe operaia. “L’ideologia universalista […] le impedisce di
riconoscere nella fabbrica il centro propulsore non solo del sistema produttivo, ma
anche delle relazioni sindacali”61, quindi dell’esercizio dei diritti di libertà. Per
questo si prediligeva la contrattazione centralizzata già ricostruita negli anni della
CGIL unitaria, a scapito del sindacato in azienda e degli avanzamenti sul terreno
dei diritti da ottenere con la contrattazione aziendale. Data la scarsa forza
negoziale di quegli anni, dovuta sia alla lotta anticomunista sia alla crescita delle
61 U. Romagnoli, T. Treu, I sindacati in Italia, cit., p. 156.
50
altre centrali sindacali, rimaneva come unico modo per ottenere lo Statuto la via
eteronoma e cioè l’intervento legislativo.
A questa prima concezione dello Statuto dei lavoratori, si contrappose in
seguito un’altra concezione, che proprio in quegli anni si andava lentamente
formando: la concezione c.d. “sindacale” o anche “riformista”. Tale linea teorica
collegava la tutela dei diritti dei lavoratori all’attività sindacale direttamente
praticata dalle organizzazioni dei lavoratori nelle unità produttive. Il filone
sindacale ebbe una lenta incubazione e negli anni ‘50 non si occupò direttamente
di Statuto dei lavoratori: anzi, i suoi esponenti, spesso ritennero la proposta della
CGIL del tutto inutile ed erronea62. In realtà l’elaborazione teorica si preoccupava
del fenomeno sindacale e del sistema di relazioni industriali che in quegli anni
aveva scarso seguito nelle culture dominanti. Queste ultime non erano ancora
aperte a impostazioni moderne per via dello sviluppo capitalista italiano ancora
troppo arretrato. Mentre i riformisti si inserivano nel solco tracciato dal più
generale dibattito tra i civilisti che cominciavano a elaborare modelli teorici di un
sistema giuridico di diritto sindacale in un futuro contesto del capitalismo maturo.
Fallito il tentativo di costruzione di un diritto sindacale proveniente dal diritto
pubblico e quindi dall’attuazione degli articoli 39 e 40 della costituzione63, furono
62 Del giudizio negativo sulla proposta di Statuto avanzata dalla CGIL e dai giuristi costituzionalisti da parte della nascente linea sindacale o riformista, ne parla G. Tarello nella seconda edizione del volume sulle teorie e le ideologie del diritto sindacale uscita nel 1972 pubblicata con l’aggiunta di un’appendice, G. Tarello, Teorie e ideologie del diritto sindacale. L’esperienza italiana dopo la Costituzione, Milano, ed. Comunità, 1972, pp. 150-151, nota n. 7. 63 Noto è ormai il dibattito, sia tra gli operatori giuridici, sia nel mondo sindacale e politico, sull’attuazione degli articoli 39 e 40, in corso negli anni successivi all’entrata in vigore della Costituzione e della conseguente “legislazione mancata”. Il potere politico fu tentato a varare una legge che attuasse le norme costituzionali in senso restrittivo per il movimento sindacale. Ma la posizione fortemente ostile del sindacato cattolico per via della posizione assunta dal ’50 contro ogni legge sindacale poiché questa avrebbe limitato l’autonomia collettiva dei lavoratori, fecero presto cadere tutte le proposte in merito, inaugurando la stagione del “meno si legifera, meglio è”. La CGIL dal suo canto, sia per la sua vocazione costituzionalista, sia per la sua posizione di sindacato maggioritario, avrebbe preferito un intervento legislativo che, da una parte si sarebbe
51
proprio questi giuristi d’ispirazione liberale64, tramite un’opera dottrinale e
giurisprudenziale con gli strumenti e nell’ambito del diritto privato, a costruire i
concetti dogmatici che rappresenteranno l’ossatura del diritto sindacale italiano.
Questo filone giuslavorista, tra cui spiccava la figura di Francesco Santoro-
Passarelli, si discostava sensibilmente da quello più strettamente civilista, che
negli stessi anni si distinse per un “esasperato formalismo interpretativo e una
tenace aderenza al dato legislativo nella sua formazione letterale”65.
L’ordinamento sindacale così elaborato si basava principalmente sul fatto che con
esso si regolava rapporti tra privati (scelta privatistica del diritto sindacale),
potenzialmente configgenti (riconoscimento del conflitto); quando il conflitto si
esprimeva sottoforma di sciopero, questo doveva essere limitato e disciplinato il
più possibile (limitazione del diritto di sciopero ancora considerato male sociale),
fino all’intervento del contratto collettivo di diritto comune, che rappresentava
l’ottenimento della pace sociale. Era palese quindi l’ideologia liberale che
sottendeva le scelte interpretative nella costruzione dei concetti appena esposti. E
altrettanto chiare erano le conseguenze sul piano dei diritti dei lavoratori di un
ordinamento sindacale basato su questi presupposti e senza istituti certi e incisivi
verso la generalità dei lavoratori. Ma fu proprio nel solco di questa elaborazione
teorica e dalla critica ad essa, che un nuovo gruppo di giovani giuristi si
inserito nella c.d. “lotta per il diritto” e dall’altra gli avrebbe consentito di avere un ruolo egemone nella politica contrattuale, scongiurando la pratica degli accordi “separati” che la CISL andava attuando in quegli anni. Ma al progetto di legge fortemente limitativo del diritto di sciopero e più in generale del movimento sindacale, presentato dal governo nel 1951 (progetto Rubinacci), ci fu una generale opposizione delle sinistre e di tutto il mondo sindacale per i suoi caratteri illiberali e discriminatori. Per una trattazione più larga della legislazione mancata si vedano G. Tarello, cit., pp. 19 ss.; U. Romagnoli, T. Treu, cit., pp. 44 ss.; U. Romagnoli, Il lavoro in Italia, cit., pp. 132 ss. 64 Ma lo stesso Tarello fa notare che anche i giuristi più inclini a sostenere la politica della CGIL, quindi i costituzionalisti di ispirazione marxista, contribuirono alle costruzioni teoriche di carattere privatiste, spinti dall’esigenza di tutela dei lavoratori singoli, in Teorie e ideologie, cit., p. 24. 65 Ivi, p. 25.
52
preoccupò di approfondire il processo di costruzione dell’ordinamento sindacale,
assumendone alcuni concetti di base e sottolineando i limiti reali che le prime
elaborazioni presentavano. Un impegno che iniziò a metà anni ‘50, ma che ebbe il
suo culmine all’inizio degli anni ‘60 ponendo le basi culturali e giuridiche per la
stagione della “legislazione di sostegno”, di cui lo Statuto dei diritti dei lavoratori,
approvato nel maggio ’70, fu il più valido e incisivo risultato. Il manifesto della
corrente “giusindacalista” apparve nel 1954, redatto dal “padre”66 dello Statuto
Gino Giugni, coadiuvato da un altro giovane giuslavorista Giuseppe Federico
Mancini. Sarà questo saggio dal titolo emblematico Per una cultura sindacale in
Italia67, assieme all’introduzione redatta dallo stesso Giugni un anno più tardi e
pubblicata nel ’56, del libro manifesto della cultura sindacale nordamericana A
Theory of the Labor Movement68, a segnare la nascita del nuovo indirizzo
scientifico e culturale che si svilupperà più compiutamente nel 1960 e troverà
convergenze straordinarie tra giuristi e sindacalisti di diversa impostazione
ideologica. Due scritti che meritano una trattazione a parte e con cui
concluderemo il capitolo.
Nel primo dei due, gli Autori in apertura sottolineavano come l’Italia degli
anni ‘50 fosse priva di una vera e propria cultura sindacale, a differenza dei paesi
anglosassoni dove invece si rilevava un numero notevole di studi su questa
materia e un’attenzione del tutto diversa della comunità scientifica. “[…] la
66 Da tutti Gino Giugni è stato indicato come il padre dello Statuto. Tuttavia come vedremo in seguito, considerandolo tale si farebbero delle confusioni di parentela, visto il ruolo determinate che assunse il ministro del lavoro G. Brodolini. Sarebbe meglio indicarlo come uno zio, più che un padre. 67 G. Giugni, G. F. Mancini, Per una cultura sindacale in Italia, in “Il mulino”, 1954, I, pp. 28 ss. 68 S. Perlman, A Theory of the Labor Movement, New York, Macmillan Company, 1928, ed. It. Ideologia e pratica dell’azione sindacale, Firenze, La Nuova Italia, 1956.
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cultura sindacale in Italia non è”69. Gli stessi continuavano rinvenendo nella
dottrina marxista e in quelle forze che si “sogliono chiamare liberali”, le cause di
questo gap culturale. Ai primi rimproveravano un dogmatismo dottrinario che di
fatto relegava la pratica sindacale e quindi anche il suo studio ad un ruolo di
secondo ordine rispetto alla pratica politica, portando chi si professava marxista
ad interessarsi al moderno sindacalismo solo in una prospettiva meramente “[…]
funzionale, se non proprio sotto un deteriore profilo tatticistico”70. Dei c.d. liberali
criticavano invece lo scarsissimo interesse per le materie sindacali, persino nei
commenti politici. In sostanza i liberali italiani, per gli A., non dimostravano
sufficiente attenzione alle questioni sociali, se non quelle strettamente connesse ai
rapporti tra cittadini e Stato. La loro scarsa attenzione verso le materie
sociologiche71 e le metodologie di questa disciplina, il loro distacco dalla società,
ha indotto l’intellighentsia liberale a non interessarsi del sindacalismo in quanto
fenomeno strettamente connesso alla creatività della società civile. Dopo la critica
alle culture esistenti egemoni che bloccavano la nascita di una moderna cultura
sindacale, i due giuslavoristi indicarono nella nuova cultura moderna cattolica le
linee di ricerca più utili per riempire questo contenitore vuoto della cultura
moderna italiana. I cristiano sociali nella storia si erano sempre occupati della
questione operaia al pari dei marxisti, ma erano incappati nell’errore corporativo.
Ormai, passati i primi anni post-corporativi, “di corporativismo si ode parlar meno
69 G. Giugni, G. F. Mancini, Per una cultura, cit., p. 29. In questo senso gli autori sottolineano il carattere limitato degli studi italiani in tema di lavoro e in tutte le opere, d’ispirazione marxista e cattolica, rilevarono un dibattito in cui è presente un “tormento dialettico” del rapporto tra sindacato e potere politico, parafrasando una espressione di Segre. 70 Ivi, p. 32. Seguendo con le argomentazioni, gli A. riconoscevano comunque alla dottrina marxista di aver comunque intuito nel suo tipo di elaborazione, i caratteri storici del sindacalismo italiano, che “è sempre vissuto sotto la pesante ipoteca di vari paternalismi politici” prima del PSI, poi dei partiti della sinistra marxista e del partito cattolico. 71Facevano notare inoltre, come la sociologia stava scomparendo dal panorama culturale nazionale, Ivi, p. 34.
54
o più cautamente di un tempo; ché anzi, […] si è venuto impostando con un certo
rigore di metodo una notevole critica dello stesso”72. E su questo terreno
vedevano impegnate, tra le altre, le stesse ACLI e le loro pubblicazioni, di cui
abbiamo appreso sopra l’importante ruolo di denuncia delle condizioni dei
lavoratori nelle aziende, grazie alla pubblicazione del fascicolo La classe
lavoratrice si difende. La situazione culturale generale descritta si rifletteva
dunque sulle stesse culture sindacali delle centrali italiane. Pur criticando le
innumerevoli spinte che cercavano di confessionalizzare il sindacato cattolico,
nella elaborazione teorica delle dirigenze della CISL, Giugni e Mancini vedevano
quelle innovazioni organizzative che avrebbero dovuto avvicinare il sindacalismo
italiano ai modelli dei paesi del capitalismo avanzato. Tutto ciò invece, rimaneva
limitato a qualche giovane sindacalista nelle dirigenze della CGIL73. Il saggio si
concluse con una critica complessiva della cultura italiana, del suo sistema
educativo e di ricerca e delle iniziative editoriali, che portava il nostro paese ad
avere un ritardo storico nello studio del lavoro e di tutte le sue implicazioni
economico-sindacali, politiche e sociali74. Mentre ravvisarono un movimento
crescente di studiosi attenti al problema delle c.d. Human Relation di origine
nord-americana.
Non stupisce quindi che dopo due anni Giugni pubblicherà la versione italiana
del libro di Perlaman sul movimento sindacale, stendendone una lunga
72 Ivi, p. 35-36. 73 Il saggio provocò nell’immediato, una polemica con Renato Zangheri, studioso del movimento operaio, che qualche mese più tardi, con una lettera inviata agli autori e pubblicata sulla stessa rivista, criticava Giugni e Mancini per le loro posizioni in merito alla cultura sindacalista marxista, che a suo dire invece si era sempre spesa per dare impulso alla nascita di una propria cultura sindacale moderna. Lo scambio di accuse protrattosi con altre lettere pubblicate su “Il mulino” riflettevano le differenze di fondo tra le due posizioni ideologiche, quella marxista e quella riformista. Si vedano la lettera di Zangheri alle pp. 176-178, la risposta di Giugni e Mancini alle pp. 178-181 e ancora la controrisposta di Zengheri alle pp. 341-342. 74 Ivi, pp. 39-42.
55
introduzione che descriveremo in poche righe. Giugni chiarì già nelle prime righe
l’intento della sua iniziativa, che era quello di incentivare, con la pubblicazione
del testo che descrive uno specifico modello di azione sindacale, “[…] lo sviluppo
di una valutazione più moderna e, soprattutto, in termini più aperti e meno
provinciali, di alcuni problemi di fondo del mondo di oggi,” e “[…] affermare la
necessità che sorga anche in Italia una letteratura sindacale […] e contribuire […]
allo sviluppo della conoscenza del mondo del lavoro e delle sue istituzioni75”.
Successivamente, descrisse il ruolo che il movimento culturale istituzionalista
d’inizio secolo, guidato dalla figura di J. R. Commons e immerso nella università
e nell’ambiente socio-culturale del Wisconsin, ebbe nella nascita di una specifica
e moderna cultura industriale della società americana e che ispirò il
tradeunionismo nordamericano. Le linee generali di questa pratica di azione
sindacale furono descritte ripercorrendo la storia del movimento operaio
americano e connettendolo con il modello proposto da Perlman, allievo della
scuola istutizionalista. Parlando dell’opera di Perlaman, che era uno studio
comparato del movimento sindacale russo, tedesco, britannico e in fine
nordamericano, nell’ultima parte76, l’Autore fece notare che lo stesso Perlman
dedicava al movimento italiano solo una piccola nota a piè di pagina e da qui offrì
al lettore numerosi spunti critici sul fenomeno sindacale italiano. In poche parole,
rilevava che nel sindacalismo italiano fosse presente una “priorità
dell’organizzazione [e dell’azione] politica su quella sindacale”77 e un eccessivo
ruolo di guida degli intellettuali sul movimento operaio. Di fatto questa
75 G. Giugni, Introduzione a op. It. S. Perlman, Ideologia e pratica dell’azione sindacale, cit., p. XI. 76 Ivi, p. LV ss. 77 Ivi, p. LV.
56
caratteristica strutturale del movimento sindacale italiano78, aveva limitato quella
autonomia culturale e di azione che ha bloccato lo sviluppo di culture e istituzioni
autonome che comunque hanno fatto parte della storia del movimento operaio.
Queste secondo lui sono state le Leghe di resistenza, le Camere del lavoro, le
Cooperative e il c.d. “socialismo municipale”. La situazione descritta tramite una
rilettura della storia del movimento operaio italiano, ha limitato molti progressi
civili per la generalità dei lavoratori e per questo Giugni riteneva essenziale “che
la dignità e gli interessi dei lavoratori vengano tutelati sulla base di un efficiente
contrattualismo e di un’attiva iniziativa sindacale. […] Una effettiva democrazia
industriale” potrà fondarsi solo sulla “[…] creazione di un equilibrio di poteri tra
rappresentanza operaia e direzione, in un clima di libertà e di legalità.”79 Per
attuare questo obbiettivo era necessaria un’azione sindacale che costruisse e
consolidasse “[…] una rete di istituzioni operaie, saldamente radicate nel posto di
lavoro, atte esse stesse, indipendentemente dall’azione del governo politico, a
modificare i rapporti di potere nell’ambito dell’azienda e dell’economia.”80
“Due linee, quindi, due politiche del diritto” avrebbe scritto lo stesso Mancini
nel 1970 commentando l’approvazione dello Statuto dei lavoratori81. Da una parte
la tradizione marxista costituzionalista, maggioritaria rispetto all’altra ma certo
non nella società, volta principalmente a ritenere illegittimo il licenziamento in
contrasto con le norme costituzionali e quindi a ritenere tali norme valevoli per la
generalità, organizzati e non, dei lavoratori, in quanto parte contraente debole,
78 Giugni vide nel tardo sviluppo industriale, il crescente squilibrio tra risorse e popolazione, la prevalenza della popolazione agricola, e dello stesso proletariato agricolo su quello industriale, le cause remote delle caratteristiche del movimento sindacale italiano, Ivi, pp. LVIII-LIX. 79 Ivi, p. LXX. 80 Ivi, p. LXXI. 81 G. F. Mancini, Lo statuto dei lavoratori dopo le lotte operaie del 1969, cit., p. 59.
57
anche nel rapporto di lavoro. L’altra, che muoveva i primi passi, d’ispirazione
sindacalista nordamericana, partiva da una critica alla cultura sindacale e più in
generale del lavoro in Italia. Essa si basava sull’azione nei luoghi di lavoro delle
organizzazioni sindacali e sulla concezione pragmatista dell’esercizio dei diritti in
azienda. Quindi, di fatto riconoscevano una sorta di priorità dei diritti sindacali sui
diritti individuali, poiché ritenevano che i principi costituzionali sarebbero stati
esercitati efficacemente solo sulla base della pratica di azione sindacale. Con il
tempo l’azione nei luoghi di lavoro avrebbe autonomamente creato istituzioni
operaie garanti dei diritti dei lavoratori costituzionalmente sanciti. Queste due
posizioni in parte riflettevano le due culture politiche sindacali della CGIL e della
CISL che proprio in quegli anni erano divise sui principali temi
dell’organizzazione sindacale.
58
CAPITOLO III
GLI ANNI ‘60
3.1 Premessa
I primi anni sessanta furono gli anni del boom economico e del definitivo
avvento della società neocapitalista. Ma furono anche gli anni della ripresa del
conflitto operaio e delle nuove forme di contrattazione sindacale articolata.
Sviluppo economico e centralità della questione sociale del lavoro
rappresentarono il fulcro di straordinari mutamenti che investirono tutta la società
italiana. Mutamenti che non potevano non investire le stesse istituzioni e la
politica. Il centrismo era definitivamente entrato in crisi e le richieste di uno
sviluppo più equilibrato e attento alle conseguenze sociali dell’industrializzazione
non potevano più essere elusi dal potere politico. Scongiurate strette autoritarie e
svolte a destra, l’unica via d’uscita era rappresentata dall’apertura a sinistra e
dall’entrata nel governo del Partito Socialista. Dopo la Commissione d’Inchiesta
sulle condizioni dei lavoratori, l’entrata dei socialisti nella “stanza dei bottoni”,
provocò per la prima volta l’impegno esplicito da parte del governo per la
promulgazione dello Statuto dei lavoratori. Tuttavia lo Statuto, nonostante
l’impegno di Nenni e dei socialisti, come vedremo, rimase al palo per molti anni e
si inserì nel contesto del c.d. “riformismo perduto” degli anni sessanta e dei primi
governi di centro-sinistra organico. Il riaffiorare della crisi economica e della
disoccupazione, verso la metà del decennio, svelò la difficile mediazione di
governo tra socialisti e democristiani e l’incapacità del governo di intervenire in
materia di diritti del lavoratore industriale e delle sue organizzazioni. La stessa
mobilitazione operaia dei primi anni sessanta, risentì della crisi economica e
59
ripropose le divisioni tra le confederazioni sindacali, con la conseguenza di far
arretrare tutto il movimento nelle richieste di democrazia nei luoghi di lavoro. La
realtà sociale tuttavia, suggerì agli operatori giuridici del lavoro nuove
elaborazioni che comportarono delle convergenze importanti per il futuro dello
Statuto. I giuristi riformisti, in questi anni infatti, grazie ai loro approfondimenti
teorici e alle difficoltà oggettive riscontrate del movimento sindacale nella
creazione autonoma di istituti volti alla difesa dei diritti del lavoro, si convinsero
presto delle carenze della legislazione del lavoro italiano. Un intervento
legislativo per colmare queste carenze, apparve omai inevitabile per spazzare
definitivamente i residui corporativi che ancora risiedevano nel nostro sistema di
relazioni industriali. Tuttavia le divisioni con la visione marxista sul contenuto
dello Statuto rimanevano intatte e queste furono travolte solo dagli gli straordinari
eventi di fine decennio e con la mediazione tra le due linee insita nella legge 300
del ’70.
3.2 Miracolo economico e ripresa del conflitto operaio
Tra la fine degli anni cinquanta e i primi tre anni del decennio sessanta, l’Italia
entrò a tutti gli effetti nell’ambito dei paesi più industrializzati. Ci fu il c.d.
miracolo economico, cioè l’avvento definitivo del neocapitalismo e della società
industriale, già apprestato dallo sviluppo degli anni cinquanta descritto nel
capitolo precedente. Tra il 1958 e il 1963 la crescita annuale del prodotto interno
lordo arrivò a percentuali mai viste nella nostra storia: una media del 6,3%. La
produttività e gli investimenti in macchinari ed impianti nel settore industriale,
favoriti dalla grande massa di capitali accumulati nel decennio precedente, ebbero
una crescita straordinaria, così da poter parlare di questo intero processo come un
60
vero e proprio boom economico. Il settore trainante dell’economia italiana fu
decisamente quello industriale dei beni di consumo e di conseguenza quello
commerciale. Inoltre la maggiore novità di quegli anni fu la forte crescita delle
esportazioni, per via dell’entrata del paese nel Mercato Unico europeo. Le
esportazioni crescevano ad un tasso medio annuale del 30% circa dei beni
prodotti. Gli investimenti in produzione di beni di consumo destinati ai paesi
europei mutarono lo stesso tipo dei beni esportati.
“I prodotti tessili e alimentari cedettero il passo a quei beni di consumo che erano maggiormente richiesti nei vari paesi industriali avanzati e che rispecchiavano un reddito pro-capite più elevato di quello italiano”.82
L’industria automobilistica e quella degli elettrodomestici, grazie all’ormai
maturo settore metalmeccanico e petrolchimico, furono l’espressione più
caratteristica del miracolo. L’esportazione riguardava infatti per la maggior parte
frigoriferi, automobili, televisori, macchine da scrivere e prodotti di plastica. Le
imprese industriali come la Candy e la Zanussi (elettrodomestici), la Fiat
(automobile) e la Olivetti (macchine da scrivere) registrarono un aumento di
profitti straordinario. La massa di manodopera disoccupata, prevalentemente
proveniente dal settore agricolo e dal meridione, era ormai stata assorbita, tanto
che nel 1962 la disoccupazione scese al 3%, “un livello, questo ultimo,
assimilabile alla piena occupazione, poiché corrispondeva alla disoccupazione
“frizionale” […] non dipendente da un livello di offerta di lavoro superiore alla
domanda.”83 Andava quindi delineandosi un processo irreversibile di
urbanizzazione, che fino a quel momento fu limitato dalla legge antiurbanesimo
82 P. Ginsborg, Storia d’Italia, cit., p. 289. 83 S. Musso, Storia del lavoro in Italia, cit., p. 51.
61
varata nel 1939 e abolita solo nel 1961. Questa toccò prima di tutto le grandi città
del Nord (Milano, Torino, ma anche Genova, Bologna, Firenze), ma determinanti
furono gli incrementi dei comuni delle cinture industriali. L’urbanizzazione
dovuta al processo d’industrializzazione, comportò quindi una crescita anche
dell’industria edile e del settore commerciale, come anche nel settore dei servizi
privati e nel pubblico impiego. L’organizzazione della produzione in serie e la
catena di montaggio, sul modello Fiat, che già alla metà degli anni cinquanta era
riuscita a introdurla definitivamente nei propri stabilimenti, era ormai stata
generalizzata a tutte le aziende che sfruttavano le economie di scala e quindi nei
settori più dinamici della nostra economia.
Ma il miracolo economico fu un processo spontaneo e le proposte d’intervento
pubblico volte a controllare e a superare gli squilibri sociali rimasero lettera morta
almeno fino alla metà degli anni sessanta. Quindi, seguendo per moltissimi aspetti
logiche rispondenti al libero gioco delle forze del mercato, essa fu dominata da
molteplici squilibri che ne sottolineavano le contraddizioni di fondo. Il fatto che la
crescita era incentrata prevalentemente sulle esportazioni, ad esempio, pose
l’accento sui consumi privati e di lusso a spese dei consumi pubblici, tracciando
un solco tra bisogno dei beni di prima necessità e aumento dei beni di consumo
privati. Inoltre le caratteristiche dualiste della nostra economia furono esasperate
ulteriormente: la maggior parte delle imprese più dinamiche erano stabilite nel
triangolo industriale, nel Nord-est e in alcune aree centrali del paese, mentre
l’industrializzazione del mezzogiorno rimaneva una flebile speranza. Ciò
comportò la ripresa delle migrazioni, per la maggior parte dal sud verso i centri
industriali del nord. Le condizioni dei lavoratori immigrati rendevano ancor più
62
grave la mancanza di una politica sociale. Furono gli immigrati meridionali a
soffrire più di tutti la mancanza di servizi sociali e alloggi dignitosi nei nuovi
contesti urbani dominati dalla speculazione edilizia.
Gli anni del boom economico, se da una parte segnarono una battuta d’arresto
del dibattito sullo Statuto dei lavoratori, dall’altra questi furono gli anni della
ripresa del conflitto sociale nelle fabbriche e delle profonde innovazioni della
stessa mobilitazione operaia. Le ore di sciopero, nel periodo che va dal ’59 al ’63,
ebbero un aumento considerevole, soprattutto se si confrontano con quelle della
metà degli anni cinquanta.84 A favorire questa ripresa fu la rinnovata fiducia della
base operaia, dovuta alle mutate condizioni sociali e alle stesse contraddizioni
dello sviluppo industriale. La classe operaia non pativa più l’esistenza della
disoccupazione dilagante e adesso poteva riattivare le rivendicazioni di aumenti
salariali senza essere ricattata dalla perdita del posto di lavoro. Al tumultuoso
aumento della produttività e dei profitti continuavano a non corrispondere gli
aumenti salariali. Inoltre il disordinato sviluppo economico aveva sconvolto gli
stessi consumi della popolazione italiana. Come scrisse Accornero in una articolo
del 1960 apparso su l’Unità, si introducevano nel consumo tradizionale degli
italiani fatto da “cibo-igene-casa”, prodotti di consumo fin allora sconosciuti
come i televisori, gli elettrodomestici e le automobili.85 Ma a consumi
considerevoli di questi nuovi prodotti non corrispondevano consumi generalizzati
di beni essenziali. L’Italia era fortemente diseguale nella distribuzione del reddito
e questa fu una delle cause maggiori della ripresa del conflitto operaio. Inoltre,
come abbiamo visto, le trasformazioni tecnologiche avevano ormai introdotto
84 Si veda Tabella 3, in G. Crainz, Storia del miracolo italiano, cit., p. 182. 85 A. Accornero, Lettera da Torino, “l’Unità”, 31 maggio 1960.
63
massicciamente le catene di montaggio nei sistemi produttivi, che rendevano il
lavoro sempre più ripetitivo e veloce, con poche pause nell’arco della giornata
lavorativa. Le rivendicazioni di quegli anni riguardavano fondamentalmente
l’aumento salariale e l’orario di lavoro e quindi si collegavano direttamente alle
condizioni stesse dei lavoratori, nella loro immediata evidenza. A queste
condizioni reagirono soprattutto i giovani. Alla fine degli anni cinquanta ormai
una nuova leva di operai era occupata nelle fabbriche italiane del boom
economico. Questi non avevano vissuto gli anni più aspri della disoccupazione,
del “supersfruttamento” e dell’arroganza padronale, mentre vivevano le
contraddizioni della realtà sociale del tempo. Alle ricchezze crescenti si
contrapponevano i bassi salari, alle vacanze al mare gli aumenti di carichi di
lavoro e agli elettrodomestici nelle case e la mancanza di scuole, alloggi e generi
di prima necessità. Di fronte ai premi anti-scioperi, alle minacce di licenziamento
e a tutti quegli atteggiamenti vessatori che avevano caratterizzato lo sviluppo
industriale degli anni cinquanta, le nuove generazioni operaie non erano più
intenzionate ad abbassare la testa.
Una posizione di rilievo nella ripresa del conflitto ebbero gli immigrati
meridionali. In loro la determinazione fu ancora più forte, poiché “trovavano nella
fabbrica un luogo privilegiato di un’azione collettiva che era loro negata
all’interno della comunità”86. Le città industriali dove erano arrivati in cerca di
lavoro li rendeva ancora “ospiti” e molti di loro prima di essere regolarizzati
vivevano al confine con la legalità. L’esser stati sradicati dalla propria terra di
origine e trovarsi in ambienti urbani, sprovvisti di case popolari, scuole e servizi
86 P. Ginsborg, Storia d’Italia, cit., p. 431.
64
sociali, attivava nelle coscienze degli immigrati meridionali una forte critica verso
una società che li aveva costretti ad emigrare e che non li aveva saputi risarcire,
pur in un periodo di abbondanza economica.
In questo ciclo di lotte un altro fattore di innovazione fu quello delle prima
mobilitazione studentesca in appoggio della classe operaia. Gli studenti
universitari erano presenti in molti scioperi e spesso solidarizzavano con le
rivendicazioni dei lavoratori, grazie alla unione generazionale con i giovani
operai.
“In testa a tutti i cortei ci sono sempre i più giovani […] e in mezzo a loro ci sono gli studenti universitari […].”87
L’appoggio di larghe fasce della popolazione universitaria era già visibile
negli scioperi del luglio 1959 per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici e
andarono intensificandosi soprattutto con le grandi mobilitazioni del 1962. Nello
stesso anno agli scioperi dei metalmeccanici si aggiungevano le manifestazioni
per la pace nel momento più acuto della crisi dei missili cubana. Ruolo importante
in queste manifestazioni ebbero gli studenti universitari e un anno più tardi ci
furono le prime occupazioni delle facoltà di architettura. Prima a Milano, subito
dopo a Torino e Roma, gli studenti chiedevano corsi di studio più moderni,
criticavano il sistema universitario ormai obsoleto, tentarono i primi corsi
autorganizzati e svolsero linee di ricerca autonome. In questi anni ci furono i
primi esperimenti di unione d’interessi, quella tra giovani - studenti - classe
operaia, che rappresenterà la caratteristica fondamentale della nuova
mobilitazione operaia a cavallo tra il ’67 e il ‘68.
87 Citato in G. Crainz, Storia del miracolo italiano, cit., p. 188.
65
Ma bisogna sottolineare un’altra caratteristica di queste nuove forme di lotta e
cioè il loro carattere articolato. La maggior parte degli scioperi infatti furono
preparati direttamente dalla base operaia e le rivendicazioni riguardavano spesso
le stesse relazioni sindacali in azienda. “Le richieste sindacali riguardarono il
salario e l’orario, ma il nodo vero è il principio stesso della contrattazione
integrativa”88, cioè d’azienda. La posizione della Confindustria, di fatto dominata
dalle dirigenze aziendali più conservatrici, era sempre stata contraria alle
rivendicazioni in sede aziendale, poiché queste rappresentavano l’entrata dei
sindacati nei luoghi di lavoro e ciò avrebbe compromesso il diritto
dell’imprenditore a dirigere autonomamente la propria impresa.. Ma al di là delle
raccomandazioni della Confindustria e soprattutto dell’Assolombarda89,
associazione di cui faceva parte la maggior parte degli industriali delle aziende più
colpite dal conflitto operaio, la combattività operaia e la crescente solidarietà
dell’opinione pubblica - che questi andavano guadagnando - costringevano molti
industriali a firmare i contratti integrativi per evitare il peggio. Ciò divideva già il
fronte patronale, ma la definitiva spaccatura interna ci fu nell’anno di maggiore
mobilitazione operaia, cioè nel 1962. In questo anno l’Intersid, l’associazione
imprenditoriale delle aziende dell’Iri nata nel 1957, assieme all’Asap,
associazione del gruppo Eni, stipulò un accordo interconfederale in cui si decise
che i contratti interconfederali avrebbero potuto contenere delle clausole di rinvio
alla contrattazione aziendale. Ci fu la nascita del c.d. preambolo contrattuale. Il
contratto dei metalmeccanici firmato nel marzo/aprile ’63, conteneva un
preambolo specifico su questo punto e successivamente tutti gli altri contratti,
88 Ivi, p. 187. 89 Ivi, p. 198, nota 89.
66
anche quelli firmati con Confindustria, adottarono il preambolo sulla
contrattazione aziendale90. Gli scioperi di solito venivano proclamati dalle
organizzazioni centrali di categoria e articolati nelle stesse unità produttive. A
volte le articolazioni non riflettevano le indicazioni delle stesse organizzazioni
sindacali nazionali e provinciali. Cominciava ad emergere durante gli scioperi la
pratica dell’assemblea di tutti gli operai in cui “i lavoratori non [sono] chiamati
solo a dire un sì o un no, ma pretendono di discutere e di decidere, e non vogliono
rilasciare deleghe in bianco […].”91 Questo avveniva principalmente per via
dell’intransigenza degli imprenditori ad accettare mobilitazioni e rivendicazioni
aziendali. I comportamenti antisindacali e le minacce contro chi scioperava, non
scoraggiavano affatto la base operaia come negli anni duri degli anni cinquanta,
anzi inasprivano il conflitto e aumentavano il numero di ore di sciopero,
caratterizzando le mobilitazioni nel loro carattere autonomo, proveniente cioè
direttamente dalla base. Presto quindi le mobilitazioni ebbero una valenza più
generale e non riguardavano solo il rinnovo del contratto, ma le stesse condizioni
del rapporto di lavoro ancora attraversato da ingiustizie pesantissime e a
limitazioni dei diritti individuali e collettivi più elementari.
“Vengono progressivamente alla luce altre ingiustizie profonde nel rapporto di lavoro: le
sperequazioni fra uomini e donne, fra impiegati e operai, o il permanere di gerarchie e di discriminazioni sempre meno accettabili […]”92.
90 V. Foa, Sindacati e lotte operaie, cit., p. 132-133. 91 V. Foa, Intervento sui “Quaderni rossi”, in La cultura della Cgil. Scritti e interventi 1950-1970, Torino, Einaudi, 1984, p. 108, pubblicato la prima volta con il titolo Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, in “Quaderni rossi”, n. I, 1961. 92 G. Crainz, cit., p. 186.
67
“Il bastone nelle fabbriche” era direttamente denunciato e rifiutato dalla
generalità dei lavoratori, grazie alla pratica sindacale articolata nelle unità
produttive.
La nuova combattività operaia si inseriva inoltre nelle vicende interne alle
organizzazioni sindacali, che proprio in questi anni videro nascere all’orizzonte
nuove prospettive di unità sindacale. La CGIL nel congresso generale del 1960
riconobbe ufficialmente la contrattazione articolata come propria strategia di
politica contrattuale. A questa decisione il sindacato socialcomunista arrivava
dopo un processo di autocritica e revisione, iniziato già nel 1955, anno della
significativa sconfitta della FIOM alle elezioni per la commissione interna in Fiat.
In tutti questi anni si riconobbe la scarsa attenzione ai cambiamenti del mondo del
lavoro e alla condizione stessa del lavoratore inserito nel sistema aziendale.
“La realtà è che non abbiamo fatto un esame approfondito dei mutamenti avvenuti nelle aziende per quanto riguarda i diversi aspetti della vita produttiva, dell’organizzazione tecnica della struttura dei salari”93.
Le parole sono del segretario generale Di Vittorio al direttivo confederale
nell’aprile 1955 e a queste si susseguirono dibattiti, incontri e interventi che
ponevano l’accento sull’opportunità di modifiche al modello centralizzato,
articolando le rivendicazioni e riportandole alle questioni salariali e ai carichi di
lavoro. La nuova elaborazione sindacale fu il risultato del c.d. “ritorno alla
fabbrica”94, del quale il portavoce principale fu quella che veniva chiamata la
“sinistra sindacale”. Luogo diffusore di queste nuove idee fu l’iniziativa editoriale
93 V. Foa, La cultura della Cgil, cit., p. 110. 94 Su questo dibattito si veda V. Foa, La svolta del 1955, in La cultura della Cgil, cit., Torino, Einaudi, 1984, p. 18.
68
Quaderni rossi, che più di tutte le riviste sindacali e del lavoro, ospitava interventi
sulle nuove forme di mobilitazione operaia.
Ma a questo processo va anche aggiunto il più generale processo di revisione
politica della stessa CGIL e le critiche che crescevano nelle proprie file sui fatti
internazionali di quegli anni, riguardo ai metodi repressivi usati nell’Unione
Sovietica contro le sollevazioni operaie. La visione positiva del socialismo reale
sovietico, l’appoggio alla dogmatica marxista e al ruolo dominante del partito alla
guida della classe operaia, andavano lentamente scemando, prima con le denuncie
di Kruscev dei crimini di Stalin nel congresso del partito sovietico del 1956 e
successivamente con l’aperto appoggio dello stesso Di Vittorio alle sollevazioni
operaie del ’56 in Polonia e Ungheria. La visione differente dal Partito Comunista
che non arrivò a nessuna revisione sostanziale, portò progressivamente il
sindacato comunista ad avere una propria autonoma visione non solo della
situazione internazionale, ma soprattutto dello sviluppo capitalista, fino a ritenere
che il neocapitalismo fosse ormai una realtà95.
Dal canto suo la CISL, si trovò avvantaggiata per via di un’elaborazione
teorica già avviata agli inizi degli anni cinquanta. Ci fu in questi anni l’abbandono
delle visioni corporative tipiche del pensiero sociale cristiano e l’avvio della
pratica contrattuale d’azienda sul modello produttivista. In questa visione c’era il
rifiuto del classismo e la fiducia nella razionalità intrinseca nel capitalismo che la
portava a ritenere che “la pressione sindacale differenziata nei settori e nelle
95 L’espressione è ancora di Vittorio Foa che, in un saggio del 1957 pubblicato sulla rivista diretta da Raniero Panzieri “Mondoperaio”, criticava le posizioni dominanti nella dottrina marxista che vedevano nel capitalismo italiano in stagnazione e incapace di espandersi, il terreno di lotta della classe operaia. Al contrario Foa fu tra quelli che ritenevano l’economia italiana capace di espandersi e di rigenerare velocemente i processi produttivi. E’ su questa via che bisognerebbe trovare un nuovo terreno di lotta di classe. V. Foa, Il neocapitalismo è una realtà, in “Mondoperaio”, 1957, n. 5.
69
aziende […] sia la via maestra per dare dinamicità anche i settori arretrati
mettendo in moto un processo di diffusione dei risultati raggiunti.”96 Ma di fatto le
derive corporative, date da risultati marginali o settoriali, non cessarono e furono
sfruttate dal padronato per dividere l’unità operaia. Inoltre le scelte per una
contrattazione aziendale della CISL sovente furono intraprese per aggirare il
decennale monopolio di rappresentanza nelle CI dei militanti della CGIL e furono
spesso giustificate da pregiudiziali ideologiche. L’espressione maggiore di questa
scelta strategica, sia in una prospettiva anti-CGIL, sia riguardo all’elaborazione
teorica del ruolo del sindacato, fu l’istituzione nel 1954 nelle grandi aziende della
Sezione Aziendale Sindacale (S.A.S.) in competizione con la Commissione
Interna come luogo di rappresentanza unitaria dei lavoratori. Questa rifletteva al
contrario la concezione non classista e associativa del sindacato e doveva infatti
essere il nucleo dei lavoratori iscritti al sindacato in azienda, che promuoveva le
direttive del sindacato confederale di riferimento. Le sconfitte degli anni
cinquanta, l’atteggiamento padronale che sfruttava la posizione della CISL per
indebolire l’unità lavoratori, assieme alle continue spinte di autonomia rispetto
alla politica del partito di governo dalla stessa base, che in realtà operava nelle
SAS in un contesto dove la propria autonomia rimaneva fortemente condizionata
dagli organi provinciali e quindi anche dalle ingerenze del partito al governo,
portarono la CISL a rivedere le stesse politiche rivendicative, meno accomodanti e
più aderenti alle spinte della base e unitarie. Certo le divisioni restarono, ma le
giustificazioni ideologiche si stavano sanando e si conveniva che le differenti
96U. Romagnoli, T. Treu, I sindacati in Italia, cit. p. 157.
70
posizioni sul ruolo della nuova contrattazione articolata sarebbero state misurate
nella pratica.
Il richiamo alla pratica sindacale era inoltre un richiamo che echeggiava nelle
stanze delle organizzazioni sindacali, grazie all’opera di giuristi del lavoro
impegnati in prima persona nello studio del diritto sindacale. Il filone inaugurato
da Giugni e da Mancini alla fine degli anni cinquanta andava sempre più
intensificando le proprie ricerche sul fenomeno sindacale. Una ricerca
importantissima di Giugni, Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva97,
edita nel ’60, rappresentò l’esempio pratico delle nuove linee di ricerca, a cui una
nuova generazione di giuristi si ispirò nei loro successivi studi. Essi si
differenziarono dalla generazione dei primi anni cinquanta per il loro stretto
contatto con gli ambienti sindacali, centri studi economici e del lavoro in
generale98. Il loro distacco dal potere politico e l’autonomia delle linee di ricerca e
di scelte ideologiche, andavano sempre più intaccando il caratteristico ruolo dei
giuristi come “segretari del principe”, intrisi di dogmatica e di formalismo
giuridico. Vennero alla luce nuovi studi, nuovi concetti e linguaggi. Ordinamento
intersindacale, creazione extralegislativa del diritto del lavoro, autonomia
collettiva e carenza legislativa99, furono i fondamenti concettuali del filone
giuridico sindacale che riuniva ormai, non solo i c.d. riformisti, ma anche giovani
studiosi che non ignoravano le spinte più radicali delle nuove mobilitazioni
operaie.
97 G. Giugni, Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva, Roma, Giuffrè, 1960. 98 Tarello fa notare che la vecchia generazione di giuristi impegnati nella creazione dell’ordinamento sindacale di marca privatista, erano per la maggior parte avvocati, in Teorie e ideologie, cit., p. 78. 99 G. Giugni, Introduzione, cit., pp. 3-20.
71
La ritrovata conflittualità operaia ebbe comunque vita breve. Già a cavallo tra
il ’63 e il ’64 le ore di sciopero diminuirono sensibilmente. Solo verso la fine del
’67 ci fu una straordinaria ripresa. L’aumento dei salari fu considerevole dopo la
stagione conflittuale e le direzioni aziendali risposero con un irrigidimento in sede
di contrattazione e con l’aumento dei prezzi. Le confederazioni, che continuavano
a possedere ampi spazi di potere nel mobilitare gli scioperi, erano tentate di
accettare le proposte governative di politica dei redditi e nonostante l’opposizione
della CGIL ad una qualsivoglia politica dei redditi, di fatto optarono per la
moderazione salariale. Inoltre il calo degli investimenti industriali provocò un
forte aumento della disoccupazione, che limitò sensibilmente l’iniziativa
autonoma dei lavoratori.
3.3 L’avvento del centro-sinistra
Il 13 dicembre del 1963 Aldo Moro illustrando alle camere il programma del
nuovo governo di centro-sinistra dichiarava che il governo intendeva “definire,
sentite le organizzazioni sindacali, uno statuto dei diritti dei lavoratori al fine di
garantire dignità, libertà e sicurezza nei luoghi di lavoro”100. Il nuovo governo di
centro-sinistra organico, scaturito dalle elezioni dell’aprile dello stesso anno e
dall’ estenuante opera di mediazioni nelle trattative tra il leader socialista Nenni e
il democristiano Moro, dichiarava espressamente di voler promulgare uno Statuto
dei lavoratori. Ugualmente fu un governo di centro-sinistra nel maggio ’70 a
varare sotto la spinta delle lotte operaie dell’autunno caldo, la legge 300. Questa
formula politica di governo è quindi determinante per capire come a livello
politico, governativo e parlamentare, si sia approdati alla legge 300. Ma il
100E. Stolfi, Da una parte sola, cit., p. 27.
72
processo di costruzione del centro-sinistra non fu facile e esso affonda le radici
nella fine degli anni cinquanta e nel difficile processo di apertura a sinistra delle
maggioranze centriste, ormai in crisi e incapaci di guidare il paese nelle riforme
economiche e sociali necessarie. Con la morte di De Gasperi, fu il potente leader
della DC Amintore Fanfani già nel 1957 a sostenere “l’apertura a sinistra” e
l’alleanza di governo con il Partito Socialista che, da una parte avrebbe isolato
ulteriormente il PCI e dall’altra avrebbe dato impulso alle riforme economiche e
sociali.
“L’apertura a sinistra era dunque al tempo stesso una chiusura a sinistra.”101
A questo disegno erano contrarie non solo l’ala destra e conservatrice del
partito guidata da Scelba, ma anche le gerarchie ecclesiastiche, l’Azione Cattolica
e la stessa corrente di Fanfani, Iniziativa Democratica, preoccupata dallo
smisurato potere che Fanfani andava acquisendo (dopo le elezioni del ’58 Fanfani
assunse non solo la carica di Presidente del Consiglio e di Ministro degli esteri,
ma mantenne anche la segreteria del partito).
Dall’altra parte, nel Partito Socialista andava progressivamente maturando la
fine del frontismo e dell’alleanza strategica con il Partito Comunista. Questa
dinamica si inseriva nel processo di divisione delle forze della sinistra politica e
sindacale che si andava delineando in relazione alle vicende internazionali del
movimento comunista. Fondamentalmente alla base della crisi del frontismo, non
c’era una diversa concezione dell’azione politica in economia: negli anni
cinquanta socialisti e comunisti rimanevano concordi nella necessità di agire per
le riforme di struttura che avrebbero prefigurato un diverso rapporto tra le classi e
101 V. Foa, Questo novecento, cit., p. 261.
73
avviato il socialismo. Le divisioni a sinistra avvennero invece su questioni di
principio inconciliabili e non più rinviabili. Le denunce di Kruscev dei crimini di
Stalin e le successive repressioni delle rivolte democratiche e operaie in Polonia e
Ungheria, resero i rapporti tra i due grandi partiti della sinistra ormai irriducibili.
Le critiche interne al PCI di intellettuali e di ex-combattenti antifascisti guidate da
Antonio Giolitti, non portarono a nessuna revisione politica e il sostanziale
appoggio al modello sovietico fu fatto salvo. Al contrario il Partito Socialista
condannò duramente gli eventi e rese ufficialmente noto il dissenso verso la linea
dei comunisti. Il distacco definitivo dal Partito Comunista era rappresentato
dall’entrata nel governo del paese, appoggiato ormai dalla gran parte del partito.
Alcuni puntavano su un appoggio incondizionato alla DC, impazienti di staccarsi
definitivamente dal Partito Comunista sanzionando l’operazione con l’entrata al
governo. Ma la maggioranza, guidata da Riccardo Lombardi, subordinava
l’entrata nel governo ad un programma di riforme basato sulla nazionalizzazione
di alcune imprese e su alcune riforme sociali. Successivamente grazie alla ripresa
del conflitto operaio e sulla scia delle nuove prospettive sindacali affiorate alla
fine del decennio ‘50, nacque una nuova proposta interna, più radicale e di matrice
sindacalista che univa le esperienze di lotta sindacale di comunisti e cattolici.
Questi chiedevano riforme strutturali connesse alla partecipazione dei lavoratori e
della popolazione alla vita sociale ed economica del pese.
Ma sull’altra sponda la DC dimostrava di titubare sull’apertura a sinistra e
solo le vicende del governo Tambroni nel 1960 resero ineluttabile l’operazione
politica. Nel congresso dell’ottobre ‘59 divenne segretario del partito Aldo Moro
dopo un aspro scontro interno che vide fondamentalmente unite le maggiori
74
correnti del partito contro lo strapotere creato attorno al leader Fanfani. La destra
di Andreotti e Scelba e la neo-sinistra Dorotea, nata qualche mese prima dai
fuoriusciti della corrente fanfaniana, fecero terra bruciata attorno a Fanfani. Tutti
dopo questa vicenda, destra e sinistra democristiana, erano concordi nel credere
che l’apertura a sinistra non era ancora matura e la prudenza di Moro in questo
senso ne fu una prova eccezionale.
“La caduta di Fanfani e la prudenza di Moro contribuirono così a differire nel tempo ogni possibile cambio di indirizzo politico, proprio nel momento in cui le condizioni economiche erano più favorevoli.”102
Il sistema politico italiano era profondamente instabile e incapace di
prospettare una nuovo progetto di governo che rispondesse alle esigenze di
riforme economiche e sociali che venivano dalla società italiana in pieno miracolo
economico. Alla caduta del governo Fanfani nel gennaio ’59, successero quelli di
Segni ed infine quello di Tambroni. La successione di quattro governi nel giro di
un anno e mezzo furono la prova delle resistenze conservatrici non solo della
classe politica, ma anche degli stessi apparati dello Stato, terrorizzati di perdere le
posizioni di potere consolidate negli anni della guerra fredda e
dell’anticomunismo più feroce, sotto la spinta delle nuove istanze politiche e
sociali di quegli anni. La ricostruzione di G. Crainz dei mesi precedenti al
governo Tambroni, è una chiara descrizione delle tensioni che attraversavano le
istituzioni dello Stato durante la crisi del centrismo.103 La figura ambigua di
Tambroni e l’incarico di Presidente affidatogli nella primavera del ‘60, già
Ministro dell’Interno tra il ’55 e il ’59, ne fu la conferma politica. Il governo
102P. Ginsborg, cit., p. 346. 103 G. Crainz, Storia del miracolo economico, cit., , pp. 158 ss.
75
“prevalentemente amministrativo” che faceva sovente riferimento alla “congiura
comunista”, fu appoggiato dopo aspre polemiche in Parlamento dai voti del
Movimento Sociale Italiano (MSI). In un clima già inasprito da scontri, da azioni
neofasciste e dalla repressione delle forze dell’ordine di scioperi e manifestazioni
di protesta, il MSI decise di convocare il congresso del partito a Genova e qualche
mese più tardi dichiarò che ad esso avrebbe partecipato anche Carlo Emanuele
Basile, ex prefetto di Genova durante la RSI e responsabile di deportazioni e
fucilazioni di partigiani e operai antifascisti. La risposta della popolazione
genovese fu imponente: per due giorni la città fu teatro di manifestazioni e scontri
con le forze dell’ordine che costrinsero il MSI in accordo con il governo a rinviare
il congresso. Ma il governo dimostrò una carica repressiva irragionevole: qualche
giorno più tardi le forze dell’ordine, legittimate dagli ordini dello stesso
Tambroni, spararono sui manifestanti siciliani scesi in piazza per festeggiare la
vittoria antifascista e uccisero un manifestante. Il 7 luglio altri 5 manifestanti
furono uccisi in Sicilia. Anche lo sciopero generale, proclamato dalla CGIL fu
represso nel sangue, e ai vertici della Democrazia Cristiana non restava che far
dimettere Tambroni e affidare il governo di nuovo a Fanfani.
Le vicende del luglio ’60 furono la riprova che il centrismo era ormai
tramontato e la ritrovata spinta popolare antifascista a più di un decennio di
distanza dalla lotta partigiana, mandava a dire alla Democrazia Cristiana e agli
stessi apparati dello Stato che la crisi del centrismo non poteva essere risolta con
l’appoggio dell’ala destra del parlamento e con una stretta autoritaria. Ma le
resistenze conservatrici non erano del tutto sopite e per arrivare al c.d. centro
sinistra organico bisognerà aspettare il governo Fanfani del ’63 e soprattutto
76
quello di Moro nel ’64. Questi furono gli anni in cui le ultime resistenze
conservatrici furono di fatto sconfitte dalle mutate condizioni della società
italiana. Tre sono, a mio avviso, gli eventi decisivi in questa prospettiva: le mutate
condizioni internazionali con l’insediamento di J. Kenney alla Casa Bianca, la
differente posizione delle gerarchie ecclesiastiche dovute al nuovo papato di
Giovanni XXIII e le aperture del ceto imprenditoriale alla stagione delle riforme,
causata della nuova mobilitazione operaia.
Per quanto riguarda il primo aspetto c’è da sottolineare come la nuova
amministrazione democratica negli USA, contribuì a fare cadere le riserve che per
tutti gli anni cinquanta ostacolarono qualsiasi accordo con i socialisti. Certo la
diplomazia americana in Italia era ancora zeppa di anime conservatrici che
addirittura predicavano l’intervento armato in caso ci fosse stata un’alleanza di
centro-sinistra104, ma ciò che è importante fu che i veti in funzione anticomunista
degli anni passati erano ormai caduti. I socialisti, sempre più distanti dal partito
comunista, entrando nel governo avrebbero isolato ulteriormente il PCI e
un’alleanza di governo avrebbe aperto la via alle riforme in linea con il pensiero
della nuova amministrazione democratica della Casa Bianca.
Per quanto riguarda l’aspetto religioso, gli anni del nuovo papato (1958-1963)
furono fondamentali per il delinearsi di una nuova strategia delle gerarchie
ecclesiastiche riguardo alle questioni politiche e sociali del paese. Certamente nei
primi anni la continuità con il pontificato di Pio XII fu un fatto acclarato, ma nel
giro di qualche anno le ingerenze sulla scena politica e sindacale, soprattutto
rispetto alla Democrazia Cristiana e alle organizzazioni cattoliche dei lavoratori, e
104 P. Ginsborg, cit., p. 350.
77
le visioni più tradizionaliste e bigotte, lasciarono il posto ad una posizione più
distaccata e favorevole alle riforme sociali. In questo senso l’avvicendamento più
importante fu quello che si verificò nell’Azione Cattolica, associazione
confessionale che più di tutte aveva ostacolato le aperture a sinistra: il suo
compito fu ristretto alle questioni sociali e spirituali. Anche le posizioni più
anticomuniste, che avevano caratterizzato il pontificato di Pio XII, furono
abbandonate a favore della riconciliazione internazionale e di nuove posizioni di
rifiuto delle guerra fredda.
Tuttavia un ultimo aspetto rimaneva importante per delineare l’appoggio delle
forze sociali all’avvio del centro-sinistra: il ruolo degli imprenditori italiani. La
Confindustria, guidata da Furio Cicogna dal ’61, riusciva ad incarnare le spinte
più conservatrici ed ostili alle riforme economiche e sociali. Queste
rappresentavano soprattutto i monopoli elettrici contrari quindi alle
nazionalizzazioni auspicate dai socialisti. Inoltre controllavano gran parte di
quella stampa nazionale che maggiormente di tutte metteva in guardia le imprese
dalla ritrovata mobilitazione operaia. Erano i settori più conservatori che avevano
fatto le proprie fortune grazie a bassi salari e alla gestione più autoritaria della
forza lavoro. A questa buona fetta della borghesia nazionale si contrapponeva
quella più progressista sia privata (la Fiat di Valletta e la Olivetti) sia pubblica
(l’Iri di Petrilli e l’Eni di Mattei). Questi vedevano favorevolmente le riforme
economiche poiché avrebbero rafforzato il loro ruolo nell’economia nazionale.
Inoltre la presenza socialista al governo avrebbe contribuito a stemperare i
conflitti operai e il ruolo dei sindacati nelle unità produttive. In questo senso
appoggiavano la DC e la sua visione dell’alleanza di centro-sinistra, che
78
certamente non coincideva con quella socialista. Da una parte la posizione
socialista batteva sulle riforme di struttura e al suo interno saltava agli occhi la
visione “sindacale” e più radicale guidata da Riccardo Lombardi e da Bassi e
Vechietti. Questa auspicava riforme a favore delle masse lavoratrici così da
“conquistare lo Stato dall’interno” e sottolineava il rapporto conflittuale esistente
tra le riforme di struttura e la struttura e sovrastruttura della società capitalista105.
Inoltre il PSI al suo interno era ancora attraversato da forti dubbi circa la
possibilità di compiere riforme di struttura tramite l’alleanza con la DC. L’opera
di mediazione di Nenni unì il partito sull’alleanza, ma certamente non riuscì a
sanare le divisioni interne sulle condizioni politiche dell’alleanza. Le stesse
divisioni sull’alleanza di governo furono la causa della scissione dell’area guidata
da Basso e Vecchietti che fondarono il Partito Socialista di Unità Proletaria
(PSIUP). Soprattutto, i dubbi e le divisioni interne erano rafforzate dalla visione
democristiana dell’alleanza di governo, basata questa su una serie di riforme
“correttive” dei disequilibri del sistema economico e sociale del paese e su una
strategia politica volta a ristabilire un blocco sociale di riferimento, con
un’attenzione particolare verso nuovi ceti medi. Una scelta rappresentata
dall’elaborazione teorica dell’economista Pasquale Saraceno e dal sociologo
Achille Ardigò. Il risultato finale per i vertici del partito sull’alleanza con i
socialisti fu quello sì di auspicare le riforme “correttive”, ma un ruolo primario
presto assunsero le scelte più elettoraliste di ricerca del consenso dei ceti medi
urbani. La diversa visione dell’alleanza di governo dei due partiti, fu la causa
105 Ivi, p. 355.
79
principale del c.d. “riformismo perduto”106 di cui lo Statuto ne fu un esempio
eccezionale.
3.4 Statuto e governi Moro negli anni ’60
Come abbiamo visto, la sintesi dell’alleanza elettorale faticosamente raggiunta
tra i due leader Nenni e Moro, aveva reintrodotto nel programma di governo del
1963 la possibilità di varare uno Statuto dei lavoratori, sentite le organizzazioni
sindacali. Ora, dopo l’appoggio esterno al governo Fanfani, il PSI era
ufficialmente dentro “la stanza dei bottoni” per far valere gli interessi dei
lavoratori. In questo contesto, il 1964 si aprì con uno scambio di opinioni tra il
vicepresidente del consiglio Pietro Nenni, che era il più tenace sostenitore dello
Statuto, e appunto le organizzazioni sindacali. Già qualche giorno dopo la
presentazione del programma di governo, la CISL rese subito chiara la sua
posizione: affermò infatti “[…] di conoscere un unico tipo di Statuto che regoli la
posizione del lavoratore nel suo luogo di lavoro: il contratto” e sottolineò che
“[…] la tutela dei diritti dei lavoratori e in particolare degli attivisti sindacali, sia
raggiunta attraverso un accordo-quadro interconfederale […]” per “[…] una
necessaria normalizzazione del quadro istituzionale della contrattazione collettiva
[…]” 107. Diversa era la posizione della CGIL. Questa sollecitava invece una
iniziativa legislativa non limitativa del fenomeno sindacale, che riuscisse al
contrario a modificare le norme giuridiche che permettevano ancora il
licenziamento ad nutum individuale e collettivo, la violazione del diritto di
organizzazione sui luoghi di lavoro e che riconoscesse giuridicamente le CI.108
106 G. Crainz, Storia del miracolo economico, cit., pp. 201 ss. 107 M. Vais, Lo statuto dei diritti dei lavoratori, cit.,, p. 42. 108 E. Stolfi, cit., p. 27.
80
Due posizioni che riflettevano una differenza di contenuto e titolarità dei diritti dei
lavoratori, ma che soprattutto riguardava il metodo con cui arrivarci. La CISL
come si vede rimaneva fedele alla vocazione contrattualista e privatistica dei
diritti dei lavoratori, conquistabili tramite accordi strumentali interconfederali che
riconoscessero il ruolo istituzionale della presenza sindacale in azienda, tramite i
preamboli dei contratti collettivi nazionali conquistati nella stagione conflittuale
dei primi anni sessanta. Rifiuto quindi dell’intervento statale poiché ritenuto
residuale rispetto alla pratica delle organizzazioni dei lavoratori, capaci di creare
istituzioni autonome in difesa dei diritti dei lavoratori. In questo senso il ruolo dei
diritti costituzionali individuali era da considerarsi del tutto secondario o
addirittura inesistente. Inoltre è importante sottolineare come nella visione cislina
i diritti siano prima di tutto diritti di un determinato tipo di organizzazione
operaia, il sindacato. Questa si inseriva nel processo di articolazione della
contrattazione descritto nel paragrafo precedente. Tuttavia la c.d. contrattazione
articolata della metà degli anni sessanta non presentava un’impostazione che
puntasse ad un organizzazione operaia nei luoghi di lavoro dotata di poteri propri.
Ciò equivaleva al fatto che
“[…] la normativa in temi di diritti sindacali, unita all’assenza delle libertà costituzionali individuali, equivale a un assorbimento degli interessi e dell’iniziativa sindacale dei lavoratori nel sindacato-istituzione, contribuendo così a chiudere la dialettica fra lavoratori e organizzazione e fra le diverse possibili forme di organizzazione operaia in fabbrica.”109
Questo aspetto fu una delle cause che portò alle sconfitte della metà degli anni
’60 e al successivo avvento dell’autonomia operaia. Di ciò indubbiamente era
invece consapevole la CGIL, che riproponeva lo schema costituzionalista
109 U. Romagnoli, T. Treu, I sindacati, cit., p. 265.
81
proposto da Di Vittorio nel 1952: i diritti dei lavoratori dovevano essere
conquistati con un intervento eteronomo che limitasse i poteri dell’imprenditore e
che garantissero non direttamente l’attività del sindacato in azienda, ma il più
generico concetto di libertà sindacali e civili dei lavoratori, qualunque sia il modo
con cui questi si organizzino. Assunsero rilievo quindi il diritto di assemblea, il
divieto di licenziamento ad nutum e il riconoscimento giuridico delle commissioni
interne come forma organizzativa che rappresenti la classe lavoratrice tutta.
Saltava all’occhio un “conflitto di metodo”, che si rifletteva anche sul contenuto e
sui titolari dei diritti. Da una parte la fiducia nella riformabilità spontanea del
sistema di fabbrica tramite l’azione sindacale, di fatto proveniente ancora dalla
sezione provinciale, che riuscisse ad acquisire un status civitatis del sindacato
confederale in azienda. Dall’altra la consapevolezza che “senza democrazia nella
fabbrica non vi può essere democrazia nel paese”110 e che tale democrazia non
poteva avvenire semplicemente dotando di diritto di cittadinanza in azienda il
sindacato-isituzione, ma rendendo effettivi i diritti costituzionali, non solo quelli
sindacali, per ogni singolo lavoratore anche nel luogo di lavoro.
Fu lo stesso Nenni, con un articolo apparso sull’”Avanti!” il 28 gennaio111, a
specificare il senso della proposta governativa: “un insieme di provvedimenti volti
ad assicurare l’esercizio integrale dei diritti sindacali e politici dei lavoratori in
tutti i luoghi di lavoro”. Nel testo il leader socialista sottolineava che le intenzioni
del governo erano quelle di riconoscere un sistema giuridico di garanzie emanato
dallo Stato
110 La frase e di G.B Santhià e citata in Ivi, p. 263. 111 “Avanti!”, 28 gennaio 1964.
82
“[… ] giacché infinite [erano] le vie attraverso le quali [poteva] essere eluso il contenuto dei contratti di lavoro […] una volta riconosciuto, come il centro-sinistra riconosce[va], che l’organizzazione sindacale, la sua libertà, la sua autonomia, sono delle componenti essenziali del processo produttivo e non un elemento estraneo e abusivo alla vita sociale e democratica del Pese […]”.
Una posizione che aderiva maggiormente a quella della CGIL ma che ne
approfondiva i contenuti investendo anche gli aspetti più strettamente sindacali.
Ciò si intravedeva anche in un documento edito a cura della Federazione romana
del PSI in cui si inserivano numerosi temi ulteriori oltre a quelli richiesti dalla
CGIL: collocamento, regolamentazione del periodo di prova, regolamentazione
dei contributi associativi sindacali, norme sugli infortuni, determinazioni dei
minimi salariali e molti altri provvedimenti112. L’azione politica del gruppo
socialista nel governo cercava quindi una sintesi tra posizioni contrattualiste e
costituzionaliste per ottenere l’appoggio delle maggiori organizzazioni sindacali e
delle masse di lavoratori, legittimando così il consenso per l’alleanza di governo.
Per quanto riguardava gli industriali, la loro posizione rifletteva
un’opposizione pregiudiziale a qualsiasi intervento che introducesse diritti dei
lavoratori e la stessa presenza del sindacato in azienda. Una posizione
d’opposizione che derivava dal generale rifiuto delle rivendicazioni sindacali, di
aumenti salariali e diminuzione degli orari di lavoro, poiché questi avrebbero
comportato un aumento dei costi in un periodo, come quello della metà degli anni
’60, di recessione economica. Il padronato una volta riconosciuto il sindacato
territoriale come controparte per la stipulazione dei contratti integrativi con
l’imporsi della contrattazione articolata dopo le lotte dei primi anni ‘60, non
intendeva rendere operative le libertà costituzionali, sia in capo ai singoli
112 M. Vais, Lo statuto dei lavoratori, cit., p. 43.
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lavoratori che all’organizzazione sindacale. Non tolleravano cioè ulteriori limiti ai
poteri conferitigli dal codice civile.
Ma le dichiarazioni d’intenti del governo devono essere inserite nell’ambito
del debole riformismo e nel contesto politico e sociale della metà degli anni 60.
La scarsa operatività del governo in tema di Statuto fu eccezionale ed essa si
inseriva tra le cause, come vedremo, della caduta del primo governo Moro. Il PSI
era obbiettivamente debole contrattualmente di fronte alla Democrazia Cristiana e
fu questa ultima a guidare la politica dei “due tempi” causata dalla congiuntura
economica e dal rinnovato scarso protagonismo del movimento operaio e
sindacale. Prima il risanamento economico e poi le riforme! L’aumento dei salari,
che in quegli anni aveva superato per la prima volta quello della produttività,
venne scaricato sui prezzi e ci fu un forte calo degli investimenti. Inoltre ci si
ritrovò di fronte a un considerevole irrigidimento delle direzioni aziendali e delle
loro organizzazioni e questo comportò concessioni minime in sede contrattuale. Il
governo decise per una politica deflazionistica causando l’aumento della
disoccupazione che investì soprattutto la manodopera femminile. Come per gli
altri temi oggetti di riforma, anche lo Statuto fu sacrificato alla pratica dei due
tempi. Allo sforzo di Nenni e dei suoi collaboratori si contrappose l’atteggiamento
zelante e praticamente disinteressato di Moro e del ministro del lavoro
democristiano Bosco. Si aggiunsero le rinnovate divisioni sindacali e il crescente
distacco tra base operaia e organizzazioni sindacali. I sindacati di fronte alla
congiuntura economica e alla rinnovata forza padronale, si ritrovarono di nuovo
divisi soprattutto per le posizioni ottimistiche della CISL e della UIL. La stessa
contrattazione articolata ormai rifletteva un forte distacco con la base, stretta tra le
84
difficoltà di operare in azienda e le direttive delle sezioni provinciali che
andavano ridimensionando le rivendicazioni.
Ma Nenni “credeva nello statuto, sapeva che la crisi economica avrebbe finito
con l’aggravare le condizioni dei lavoratori e intendeva suggellare l’ingresso dei
socialisti al governo con un atto di consacrazione dei diritti individuali e
sindacali.113 Egli incaricò il suo collaboratore Tamburrano di seguire l’evoluzione
dello Statuto e di portare il tema nel contesto del ministero del lavoro.
Tamburrano con la collaborazione di Gino Giugni, già convinto sostenitore della
legislazione di sostegno, preparò tre disegni di legge che riguardavano i
licenziamenti individuali, le Commissioni Interne e i diritti sindacali e li sottopose
all’esame del ministro. Bosco decise di sottoporre l’intera materia ad una
Commissione di studio, in cui vennero chiamati giuristi, rappresentanti del
sindacato e delle aziende e funzionari del ministero. Ma immediatamente la
discussione in commissione si caratterizzò per quella che era: “un dialogo tra
sordi”.
“In assenza di Bosco, la presidenza del gruppo fu assunta di fatto dal direttore generale del ministero, Purpura, il quale fin dall’inizio impose ai lavori un ritmo e un metodo palesemente dilatori.”114
Le dissonanze tra industriali e sindacati e le incomprensioni interne tra
quest’ultimi su tutti i tre temi, non furono minimamente sanate dall’intervento dei
rappresentanti governativi della DC, nonostante le richieste della delegazione
socialista non rappresentassero affatto delle misure radicali. Le reazioni di Nenni
furono forti, ma le denuncie del vecchio leader socialista del comportamento del
113 E. Stolfi, cit., p. 30. 114 Ivi, p. 31.
85
Ministro del lavoro fatte allo stesso Moro, non tirarono fuori lo Statuto dalla grave
situazione in cui si stava arenando. Lo Statuto quindi non veniva risparmiato dalla
tattica attendista del Presidente Moro e dal riaffiorare nel Paese di nuove spinte
conservatrici. Proprio sulla politica dei “due tempi”, si consumò la crisi di giugno
e le dimissioni di Moro posero fine alla prima esperienza del riformismo di
centro-sinistra. Già nel maggio Nenni e il segretario del PSI De Martino
discutevano dello Statuto e del suo rapporto con l’eventuale crisi di governo. Nei
due c’era ormai la coscienza che lo Statuto non avrebbe compiuto passi in avanti
con il perdurare di quella situazione politica. Le scelte erano due secondo i due
socialisti: o andare via dal governo o restare, e per il momento non parlare più
dello Statuto dei lavoratori. Le vicende successive coincisero con la prima delle
due eventualità.
Le sorti dello Statuto non furono dissimili nel secondo governo Moro
costituito nel luglio ’64. Anzi la nuova alleanza di governo di centro-sinistra
risultava assai più moderata e di fatto il PSI avallò la politica dei due tempi
lasciando anch’essa ad un futuro prossimo le riforme di struttura. Le componenti
più progressiste della DC e del PSI non rientrarono nella compagine governativa e
il programma di riforme fu certamente meno ambizioso. Il clima generale di
reazione era dovuto senza dubbi alle paure delle forze progressiste per le possibili
svolte reazionarie collegate alle vicende del generale De Lorenzo e alle intenzioni
del presidente Segni di ridimensionare il peso della sinistra.
Ma paradossalmente sullo Statuto c’era da registrare in questi anni dei piccoli
passi in avanti. Il 13 novembre del ’64 il nuovo Ministro del lavoro Delle Fave
preparò un questionario rivolto alle parti sociali sui tre temi ormai decisivi in
86
materia di diritti dei lavoratori: Commissioni Interne, licenziamenti individuali e
diritti sindacali in azienda115. Dalla visione delle domande sugli argomenti che
sarebbero stati oggetto dello Statuto, si può rilevare una diversa impostazione di
fondo non del tutto neutrale, soprattutto se vista in relazione alla totale
equidistanza che rasentava l’indifferenza, con cui era stata trattata la materia dal
precedente ministero del lavoro. C’era quindi la volontà di risolvere alcuni
problemi e si chiedevano alle parti sociali i metodi e le procedure più adeguate per
raggiungerle. Tale impostazione fu confermata nel 1966 al momento di varare la
legge sui licenziamenti individuali, nonostante l’intransigente opposizione della
confederazione sindacale cattolica. Ma le risposte degli interpellati non si
discostarono fondamentalmente dalle posizioni già annunciate nelle precedenti
iniziative governative. Alla totale indifferenza della Confindustria che non rispose
nemmeno alle domande del ministro, si affiancarono le contrastanti posizioni
delle centrali sindacali: la CGIL fu complessivamente d’accordo con la
promulgazione di una serie di leggi su tutti i temi previsti dal ministro, per attuare
i principi della costituzione e abrogare le norme del c.c. che di fatto ne negavano
l’esercizio; la CISL dal canto suo, confermava la sua opposizione ad ogni
risoluzione normativa in materia sindacale, ribadendo la sua adesione al modello
contrattualista. Persino sui licenziamenti auspicavano l’intervento del contratto
collettivo. Una posizione, quella della CISL, che fu riproposta nel ’66 quando
verrà varata la legge n. 604 sui licenziamenti individuali. La UIL ebbe una
posizione intermedia che in pratica consisteva ne ritenere necessario l’intervento
solo sulla questione dei licenziamenti. Dunque, lo Statuto continuava ad avere
115 Sul contenuto del questionario ministeriale si veda la stessa opera di E. Stolfi, cit., pp. 34 ss.
87
difficoltà enormi, non solo per l’incapacità della compagine governativa di portare
avanti un preciso programma di riforme, ma anche per la situazione economica e
sociale generale e per le divisioni delle centrali sindacali che non riuscivano
nemmeno a superare il conflitto sul metodo.
Tuttavia alla divisione sul metodo dei sindacati si contrapponeva, alla metà
degli anni sessanta, un’importante convergenza della dottrina giuridica. Se in
merito al contenuto delle norme giuridiche rimanevano sostanziali divisioni tra
linea sindacale e linea costituzionalista, che rimasero palesi come vedremo fino al
nascere del progetto Brodolini nel ’68, la maggioranza dei giurislavoristi
impegnati sullo Statuto era finalmente giunta a ritenere l’intervento eteronomo
ormai auspicabile. Rimaneva solo il rifiuto dei giuristi più vicini alla centrale
sindacale della CISL, che dimostravano una visione intransigente e
ideologicamente antiparlamentare. Lo stesso Giugni, esponente di primo piano
della linea sindacale, come abbiamo visto non aveva negato il suo apporto tecnico
alle iniziative socialiste in sede governativa. Gran parte della nuova generazione
di giuslavoristi che aveva seguito le linee di ricerca inaugurate da Giugni
sull’autonomia collettiva e sull’ordinamento intersindacale, era ormai cosciente
che un intervento legislativo a sostegno delle organizzazioni sindacali avrebbe
colmato le carenze normative del sistema italiano di relazioni sindacali. Giovani
studiosi come Romagnoli, Treu, Pera, Ghezzi, Montuschi arricchirono di nuove
proposte il filone giusindacale, auspicando un intervento legislativo incentivante
che “attribuisse alle strutture aziendali del sindacato un ampio spazio operativo e
alcuni fondamentali poteri”116. Furono questi giuristi ad incarnare l’espressione
116 G. F. Mancini, Lo statuto dei lavoratori, cit., p. 59.
88
più innovativa del ruolo del giurista, che rifiutava di svolgere “una funzione filo-
governativa” proponendo “una costituzione materiale delle relazioni sindacali
avente contenuti tali per cui, se proprio si vuole legiferare, si deve farlo a sostegno
dell’attività sindacale”117. Alcuni di essi, oltre ad una forte critica all’immobilismo
del governo Moro, rendevano palese un certo distacco dalle posizioni ostili
all’intervento legislativo da parte della CISL, dimostrando una decisa autonomia
anche dalla centrale sindacale che più di tutte aveva difeso l’autonomia collettiva
e il ruolo della creazione extrastatuale del diritto del lavoro, oggetto privilegiato
dei loro studi.
“[…] Il principio di autotutela degli interessi dei lavoratori non può essere disgiunto dalle garanzie statuali di effettività della sua applicazione.”118
La stella polare di questi giovani giuslavoristi divenne quindi il Wagner Act
roosveltiano, che imponeva il riconoscimento del sindacato in azienda e il dialogo
continuo con esso. Inoltre questi auspicavano l’efficacia delle convenzioni
internazionali dell’Organizzazione internazionale del lavoro nn. 87 e 98 e
ratificate in Italia nel 1958, che trattavano proprio le materie sindacali nella unità
produttive. Per questi giuristi, era proprio la procedura adottata dal governo a
rinsaldare le divisioni tra le centrali sindacali, poiché questa aveva alla base “la
pretesa che il ruolo delle organizzazioni sindacali si esaurisca nell’indicazioni
delle soluzioni “tecnicamente” più appropriate”119. E’ chiaro quindi come lo
stesso filone sindacale, nato soprattutto dalle ricerche sull’ordinamento
intersindacale e sulla capacità creativa di diritto delle organizzazioni dei
117 U. Romagnoli, Il lavoro in Italia, cit, p. 135. 118 U. Romagnoli, Lo statuto dei diritti dei lavoratori, in “Il Mulino”, 1965, p. 489. 119 Ivi, p. 491.
89
lavoratori, auspicasse un intervento dello Stato per promulgare uno Statuto dei
lavoratori, perchè riconoscevano l’impossibilità di superare le carenze legislative
in materia di diritti del lavoro nel nostro paese. Quindi le divisioni dei giuristi sul
metodo, tra chi sosteneva l’adozione di uno Statuto per via eteronoma e chi invece
auspicava la via autonoma erano ormai superate. Una convergenza sul metodo
rintracciabile non solo nella pubblicazione di una inchiesta sulla riforma dei
codici promossa dalla Rivista giuridica del lavoro a cui furono invitati ad
intervenire autorevoli esponenti della linea sindacale, ma successivamente, alla
fine del secondo governo Moro, anche per le considerazioni sulla rinnovata
proposta di uno Statuto inserita nel piano di programmazione economica lanciato
nel ‘67.
La Rivista120, tramite una serie di quesiti posti ai maggiori studiosi del diritto
del lavoro, si interrogava sull’opportunità di riforma dei codici proposta dal
governo di centro-sinistra e su come questa avrebbe investito il diritto del lavoro,
se c’era da prevedersi un codice del lavoro separato o se era più idoneo
provvedere ad aggiustamenti urgenti in materia civile, penale e processuale in
materia di lavoro. Ma il V quesito era più specifico. Si collegava il problema della
riforma dei codici e della legislazione a quello dello Statuto dei lavoratori e
chiedeva specificatamente quale contenuto avrebbe potuto avere uno Statuto dei
diritti che garantisse dignità, libertà, e sicurezza nei luoghi di lavoro. Le risposte
furono molteplici, ma ormai concordi che il sistema giuridico italiano aveva
certamente bisogno di riforme legislative. Tuttavia le divisioni tra costituzionalisti
di ispirazione marxista e sindacalisti riformisti, rimanevano forti. Gli interventi di
120 Inchiesta alcuni problemi relativi alla riforma dei codici, in “Rivista giuridica del lavoro”, I, 1964, pp. 46 ss., pp. 153 ss., pp. 241 ss., pp. 339 ss.
90
Giugni121, Pera122 e Ghezzi123 erano si concordi ad un intervento legislativo per un
moderno assetto giuridico del lavoro, che poteva prefigurare uno Statuto dei
lavoratori, ma questo doveva essere inteso in un senso favorevole all’azione
sindacale in azienda, mentre si opponevano fermamente ad un intervento dello
Stato, a loro giudizio mosso da uno spirito paternalistico, a favore del singolo
lavoratore. Al contrario i giuristi più vicini alla Rivista, come Smuraglia124,
Scognamiglio125 e Musatti126 ribadivano la loro posizione costituzionalista,
auspicando un intervento in materia di diritti dei lavoratori singoli e in attuazione
delle norme costituzionali, che in definitiva avrebbero dovuto limitare alcuni
poteri del datore di lavoro, come quello disciplinare, che permetteva ad esso un
comportamento discriminatorio e lesivo della dignità del singolo lavoratore.
Le posizioni in merito vennero confermate qualche anno più tardi, dagli
interventi di Giugni e di Ghezzi che andavano a chiarire una volta per tutte la
convergenza sul metodo.127 Ma in questi anni il vero punto di scontro non solo tra
le organizzazioni sindacali e le forze parlamentari, ma anche tra i giuristi, fu
ancora quello sul contenuto dello Statuto e sulla titolarità dei diritti che in esso
avrebbero dovuto essere enunciati. Scontro che certamente si ingigantì per
l’inerzia del governo, ma che rifletteva le impostazioni ideologiche degli operatori
giuridici. Da una parte la necessità di un provvedimento legislativo che
riconoscesse il diritto del sindacato ad operare in azienda, “posto che il momento
121 Ibidem 122 Ivi, pp. 56 ss. 123 Ivi, pp. 154 ss. 124 Ivi, pp. 51 ss. 125 Ivi, pp. 242 ss. 126 Ivi, pp. 250 ss. 127 Si vedano gli interventi di Giugni e Ghezzi alla tavola rotonda Per una moderna legislazione sui rapporti di lavoro organizzata dalla rivista “Economia e lavoro”, 1967, pp. 17 ss.
91
sindacale è momento di autonomia e di libero sviluppo civile”128 sviluppatosi
ormai nella prassi della società industriale. Dall’altra un provvedimento a tutela
del singolo lavoratore che garantisse i diritti costituzionali anche nei luoghi di
lavoro e quindi anche quello di organizzazione sindacale, ma senza “demandare
alle stesse organizzazioni sindacali di definire le modalità di esercizio dei diritti
affermati e di risolvere transattivamente le controversie relative alle eventuali
violazioni […]”129. Da una parte l’accento cadeva dunque sui diritti sindacali o
sull’organizzazione sindacale, dall’altra sui diritti dei lavoratori come diritti
sociali. Se, come scrisse Romagnoli, si trattava di garantire i diritti fondamentali
ai sudditi di un ordinamento privato che rappresenterebbe uno “Stato-piccolo”,
dominato dal rapporto di lavoro, al pari della garanzia dei diritti fondamentali
nello “Stato-grande”130, i costituzionalisti contestavano proprio la sudditanza ad
un ulteriore Stato, sudditanza che non poteva essere eliminata attribuendo alle
rappresentanze dei sudditi (i sindacati) i diritti di cui sono direttamente titolari i
sudditi stessi, in quanto cittadini dello Stato.
128 G. Giugni, Intervento, in Ivi., p. 20. 129 M. Vais, Nuovi progetti legislativi sui diritti dei lavoratori, in “Rivista giuridica del lavoro”, 1968, pp. 481 ss. 130 U. Romagnoli, Lo statuto, cit., p. 492.
92
CAPITOLO IV
IL ’68, L’AUTUNNO CALDO E LA LEGGE N. 300/1970
4.1 Premessa
La straordinaria stagione di mobilitazione collettiva iniziata a cavallo tra il ’67
e il ’68 e sfociata nell’”autunno caldo” del ‘69, segnò definitivamente la sorte
dello Statuto dei lavoratori, tanto che la maggior parte della storiografia ha visto
lo Statuto come il risultato normativo della straordinaria stagione di conflittualità
operaia. Solo grazie agli eventi di questi anni verrà varato un complesso di norme
a tutela dei diritti individuali e sindacali dei lavoratori. La stagione del conflitto
travolse gli stessi rapporti di forza nei luoghi di lavoro, consacrando di fatto una
diversa concezione del lavoro subordinato, in forte contrasto con le pratiche
discriminatorie e antidemocratiche ripercorse nei capitoli precedenti. Il debole
riformismo degli anni sessanta ne fu travolto e l’attenzione di Governo e
Parlamento, per la condizione operaia e per i diritti dei lavoratori, mutò
radicalmente. La determinazione del ministero del lavoro, l’adozione di un
disegno di legge dello stesso Consiglio dei Ministri e le tre proposte di legge
presentate in Parlamento, mostrarono come il “tuono a sinistra” condizionò
fortemente le stesse istituzioni, che fino a quel momento avevano dimostrato un
atteggiamento indeciso e praticamente inconcludente. Ma il legame di casualità tra
conflittualità operaia e Statuto dei lavoratori, tuttavia non è così pacifico.
Ripercorrendo i tumultuosi eventi, non è difficile dedurre che proprio la ritrovata
centralità del conflitto operaio mise in crisi l’idea di Statuto dei lavoratori. La
prima fase di mobilitazione dominata dallo spontaneismo, ma anche la nascita
successiva della figura del delegato di linea, certo non aderiva, se non in parte,
93
allo spirito dei progetti di legge, soprattutto con quello proposto dal Governo,
segnato ormai dalla definitiva opzione per la linea sindacale e riformista. Come
scrisse G. F. Mancini “la strategia dei giuristi riformisti fu così messa in crisi
proprio nel momento in cui la redazione dello statuto ne aveva segnato la
definitiva vittoria sulla linea costituzionale; e lo statuto stesso si trovò in
difficoltà.”131 In questo senso quindi da una parte la conflittualità operaia aveva
provocato l’assunzione definitiva da parte del Governo di un vero progetto di
legge, ma dall’altra questo era messo in discussione dalla stessa mobilitazione
operaia, che non fu mai esplicitamente condotta per rivendicare lo Statuto. Fu solo
grazie alla fase successiva, cioè con il riconoscimento da parte delle grandi
organizzazioni sindacali di categoria del movimento dei delegati e dei Consigli di
Fabbrica, che lo Statuto fu varato nel 1970 e con contenuti che lo stesso
Parlamento apportò a modifica del disegno di legge governativo.
4.2 La febbrile opera di Giacomo Brodolini e il disegno di legge del
Governo Rumor
Molti commentatori e studiosi di quegli anni, non a torto, ritengono che la
legge 300 fu il frutto dell’opera politica del Ministro del lavoro socialista
Giacomo Brodolini e dell’apporto tecnico dell’ufficio legislativo presieduto da
Gino Giugni. In effetti l’adozione del disegno di legge n. 738 e il suo contenuto
(si veda Appendice doc. n. 2), non fu solo fornito della necessità del Governo di
intervenire sulla grave congiuntura sociale segnata da aspri conflitti, ma
indipendentemente dal contesto sociale, decisivo fu il ruolo che ebbe proprio
l’opera personale dello stesso Brodolini e dei collaboratori del Ministero del
131 G. F. Mancini, Lo statuto, cit., p. 65.
94
lavoro. La formula come sempre molto vaga della proposta governativa al
momento della presentazione del programma di Governo nei primi mesi del ’68,
non avrebbe certamente dato risultati se non fosse stata portata avanti dalla
determinazione politica e personale del socialista ed ex dirigente della CGIL. Chi
racconta la storia personale di Brodolini ne sottolinea infatti l’impegno “febbrile”,
dovuto non solo alla precarietà della compagine governativa e alla conseguente
azione incalzante dei gruppi parlamentari della sinistra (PCI e PSIUP), ma anche
dalle sue gravi condizioni di salute.
“L’urgenza - ricorda il suo portavoce De Luca - fu il tratto che caratterizzò il lavoro di noi tutti in quel periodo. La lucida consapevolezza della malattia in lui e in alcuni di noi, ci indusse a concentrare il massimo sforzo su alcuni obbiettivi prioritari, che pur facevano parte di un unico grande disegno riformatore. Ci trasmise l’ansia di una drammatica corsa col tempo.”132
Al Ministero del lavoro vedevano lo Statuto come un obbiettivo prioritario,
poiché l’elaborazione politica dei suoi componenti aveva reso necessario un
provvedimento normativo che rivolgesse lo sguardo verso una “una parte sola”,
quella dei lavoratori. Brodolini e i suoi collaboratori del ministero erano convinti
che la congiuntura sociale indicava un unico modo di agire, attento alle
aspirazioni delle masse operaie e ad uno stabile sistema di relazioni industriali nei
luoghi di lavoro. In questo senso l’opzione per una legislazione promozionale del
sindacato era palese. Un ministero non più tradizionalmente al di sopra delle parti,
come nei passati Governi centristi e di centro-sinistra, ma consapevole di agire per
le legittime rivendicazioni operaie e delle sue organizzazioni sindacali. Compito
non facile come abbiamo già detto, anche per le dinamiche interne al Governo e
alle diverse visioni sul contenuto dello Statuto, sia in sede parlamentare che
132 E. Stolfi, cit., p. 50.
95
ministeriale. Lo scontro ribadiva la spaccatura tra visione sindacale e visione
costituzionale dello Statuto. La prima era portata avanti dallo stesso Ministero, dal
Partito Socialista Unificato e la sua proposta di legge e dai collaboratori giuridici
dell’ufficio legislativo Giugni e Mancini e quindi da tutto il filone di giuslavoristi
c.d. riformista. L’altra era appoggiata dai gruppi parlamentari social proletario e
comunista, dai giuristi comunisti interpellati in sede ministeriale, come Luciano
Ventura e dalla Rivista giuridica del lavoro di cui Ventura era condirettore.
Assodata la scelta politica del ministero, l’opera di Brodolini e di Giugni nei
primi mesi del ’68, fu concentrata prima di tutto nel ritardare il dibattito
parlamentare al Senato - richiesto a gran voce dall’opposizione - e presentare una
proposta autonoma del Governo di non facile approvazione al Consiglio dei
Ministri. In questo senso, è da richiamare alla memoria lo scontro in Commissione
Lavoro e in Aula con il presidente del gruppo parlamentare comunista Terracini,
ostinato nel discutere le due proposte di legge comunista e social proletario.133
Scongiurato il dibattito sui progetti di legge che ricalcavano integralmente la
concezione costituzionale dello Statuto, il Ministro propose e riuscì a far istituire
una Commissione di studio per la presentazione al Consiglio dei Ministri di un
disegno di legge, consapevoli delle carenze del progetto di legge proposto dai
socialisti.
La commissione fu presieduta dallo stesso Giugni e ne fecero parte illustri
personaggi: un avvocato dello Stato, Freni, un funzionario del ministero,
133 Terracini intervenendo in aula sottolineava come la materia dello Statuto investisse la materia contrattuale e che quindi questa era rimessa all’iniziativa sindacale. Proseguì esaltando i progetti di legge del PCI e del PSIUP che invece si incentravano sull’applicazione della Costituzione nei luoghi di lavoro, indipendentemente dal favore delle organizzazioni sindacali e degli imprenditori. Concluse dicendo che non si poteva contrattare sul riconoscimento e sull’applicazione dei diritti costituzionali. In Ivi, p. 58, nota n. 1.
96
D’Harmant Francois, il sociologo De Rita, quattro professori di diritto del lavoro,
Mancini, Prosperetti, Spagnuolo Vigorita e Pera, il consigliere politico di
Brodolini, Tamburrano e l’avvocato Luciano Ventura. Il fatto che la presidenza fu
affidata al Giugni era il segno della volontà del ministero di andare fino in fondo e
nel minor tempo possibile arrivare con una proposta al Consiglio dei Ministri. Le
riunioni della Commissione furono frequenti e mostrarono le divergenze delle due
scuole, ma ben presto fu sancita la definitiva vittoria della linea sindacale su
quella costituzionale sostenuta soprattutto dal comunista Ventura. Certamente le
due visioni si influenzarono e integrarono a vicenda. Infatti, affianco ad una serie
di norme che riconoscevano e promuovevano la presenza dei sindacati in azienda,
l’opzione per questo strumento di tutela dei lavoratori era collegato anche
all’esercizio dei diritti civili e politici dei lavoratori individualmente presi in
considerazione. Tutti furono d’accordo quindi nel comprendere nello Statuto una
serie di norme a tutela della libertà sindacale, alla salvaguardia dell’attività del
sindacato in azienda e alla garanzia della sicurezza, libertà e dignità dei lavoratori,
quest’ultima secondo la formula più cara ai costituzionalisti. In realtà fu solo
Ventura in Commissione a riproporre la linea costituzionale più intransigente e
integrale e a criticare l’impianto sindacale generale della relazione finale. Ventura
al contrario vedeva lo Statuto come una norma che limitasse l’iniziativa
economica e la proprietà privata a garanzia dei principi costituzionali per i
lavoratori dipendenti. Una posizione che la stessa CGIL ormai rifiutava e che era
sostenuta ormai solo dal PCI e dagli studiosi della Rivista giuridica del lavoro.
Certo è che le critiche di Ventura e della Rivista riflettevano i temi che
97
successivamente furono dibattuti in Parlamento, di cui parleremo
successivamente. Ma in conclusione Ventura dichiarò che nello Statuto
“non dovrebbe essere inclusa nessuna delle disposizioni relative alla definizione dei compiti
del sindacato, alle procedure di contrattazione ed ai compiti degli organi di conciliazione”.134
I distinguo quindi investirono l’intesa su tutte le norme previste: visite
mediche, sulle indagini delle opinioni dei lavoratori, sulle rappresentanze
sindacali aziendali, sulle loro competenze, il diritto di assemblea e di affissione.
Uno scontro che quindi non riguardava solo le materie inerenti all’attività
sindacale, ma anche quelle sulla libertà e la sicurezza dei lavoratori in generale.135
Un importante dibattito interno è da registrare sulla questione dei licenziamenti
individuali e sul trattamento di miglior favore. Invece in materia sindacale il nodo
essenziale fu quello delle rappresentanze sindacali in azienda. Una volta scelta la
linea incentivante del sindacato in azienda, rimaneva aperta la questione di quale
modello di rappresentanza sindacale la nuova normativa sarebbe stata
incentivante. Un problema di difficilissima risoluzione se si considera il contesto
sociale conflittuale con cui bisognava fare i conti, conflitto che aveva di fatto
messo in discussione tutti i vecchi istituti del sindacato in azienda, dalle CI alle
SAS e che come vedremo mise in discussione lo stesso ruolo del sindacato come
modello organizzativo della classe operaia. Emblematica fu la posizione
intransigente di Ventura, che assunse un comportamento quasi indifferente,
rifiutandosi di intervenire su questi temi che a suo avviso non avrebbero dovuto 134 Ivi, p. 62. 135 Riguardo alla questione delle visite mediche va sottolineato che la maggioranza dei componenti della commissione propose che il controllo dovesse essere effettuato da un sanitario designato dall’imprenditore sentite le organizzazioni sindacali. Ventura propose l’accordo delle organizzazioni sindacali e in mancanza di questo, l’intervento di un ufficiale sanitario pubblico. Sulle indagini, la commissione era contraria al divieto di indagini private, mentre Ventura la sostenne.
98
essere trattati dallo Statuto. Comunque l’opzione per la promozione del sindacato,
integrata da interventi in materia di libertà individuali, fu ribadita e messa a punto
dall’indagine conoscitiva del Senato, con cui non solo si ascoltarono le posizioni
delle parti sociali organizzate, ma degli stessi singoli lavoratori chiamati a
esprimere giudizi in merito. La consultazione delle parti sociali rifletteva ora un
mutato atteggiamento delle organizzazioni sindacali, soprattutto per il favore
ottenuto anche dalla CISL, che abbandonò definitivamente la posizione
intransigente contro ogni intervento legislativo poiché
“niente vieta, evidentemente, al legislatore di intervenire autonomamente sui problemi del lavoro, perché non esiste, nel nostro ordinamento, alcuna esclusiva riserva di competenza a favore delle associazioni sindacali.”136
Il sindacato cattolico rispondendo al documento del ministero del lavoro
consegnato alle associazioni sindacali il 6 marzo 1969, dichiarò infatti che
“la via che oggi si prospetta, di tutelare i lavoratori non individualmente ma rinvigorendo l’autodifesa sindacale, si presenta come alternativa, o comunque radicalmente diversa, da quella che era stata fino a ieri prospettata: la tutela dei diritti dei lavoratori come singoli.”137
Un favore che non solo derivava dall’abbandono di ogni pregiudiziale
ideologica verso l’intervento legislativo, ma che rispecchiava il favore verso una
diversa impostazione politica del ministero del lavoro, in passato tanto criticata
dai giuristi riformisti.
La CGIL dal canto suo era sempre stata favorevole all’intervento legislativo e
confermato il favore per il provvedimento, sottolineò comunque
136 In “Rivista di diritto del lavoro”, 1969, III, p. 168. 137 Ibidem.
99
“l’opposizione del sindacato dei lavoratori a interventi legislativi che tendono ad istituire per legge, per decreto, per via amministrativa, strutture sindacali a livello di azienda, definendone i compiti, le funzioni, gli obblighi e i limiti”.
Strutture che “[…] non esprimono l’attività e la volontà reale dei lavoratori” e
che quindi violerebbero la libertà di organizzazione sindacale del lavoratore.138 La
scelta per le generiche rappresentanze sindacali aziendali quindi, teneva aperta la
difficile questione di quali istituzioni sindacali in azienda avrebbero potuto
garantire la libertà di organizzazione sindacale dei lavoratori e allo stesso tempo
promuovere il ruolo delle Confederazioni. Quindi affianco al riconoscimento della
libertà sindacale in azienda del lavoratore e del suo potere di contrattare, per la
CGIL, bisognava istituire una serie di norme a garanzia della libertà e dignità del
lavoratore secondo i principi della Costituzione, non con una semplice e
inefficacie ripetizione di tali principi.
“ la legge deve colpire con efficaci sanzioni, ogni impedimento da parte padronale all’esercizio dei diritti di libertà, dei quali deve garantire l’esplicazione piena nei luoghi di lavoro.139
Ottenuto l’assenso generale delle centrali sindacali, constatato che tra gli
imprenditori esisteva una base di discussione sull’opportunità di accettare
rappresentanze sindacali aziendali140 e prorogato ulteriormente il dibattito in Aula,
Brodolini poté presentare al Consiglio dei Ministri il suo progetto di Statuto.
138 Ivi, p. 162. 139 Ivi, p. 163. 140 La Confindustria fece sapere che la normativa gia esistente di fatto garantisce la tutela della libertà e dignità dei lavoratori secondo i principi della Carta costituzionale e che i dettagli sull’applicazione di questi rimanevano di esclusiva competenza delle parti sociali maggiormente rappresentative. Quindi di fatto rifiutano ulteriori limiti e sanzioni in materia. Per quanto riguardava l’attività sindacale e la presenza del sindacato in azienda non ci fu un rifiuto pregiudiziale, ma sottolinearono le carenze del progetto del ministero che ne garantiva la libertà e la presenza senza una adeguata disciplina legale. Ivi, pp. 197 ss. Comunque, nonostante le riserve e sostanzialmente la contrarietà della Confindustria al progetto di Statuto, bisogna sottolineare la
100
La bozza preparata da Giugni sulla base dei lavori in commissione e arricchita
dai contributi raccolti, non fu sostanzialmente modificata né dall’ufficio
legislativo della Presidenza del Consiglio, né dal Consiglio stesso. Era ormai
accettata da tutti l’impostazione di fondo del provvedimento e le resistenze
conservatrici, che pure attraversavano la compagine governativa, non riuscirono a
smontarla. In questo senso le obiezioni ebbero un carattere marginale. Esse
riguardarono il campo di applicazione delle norme - il cui limite fu incrementato
alle aziende con almeno 40 dipendenti - e l’istituto dell’assemblea - il cui oggetto
fu limitato ai temi d’interesse sindacale e del lavoro. Ma la lettera della legge non
fu modificata e le sue direttrici principali, cioè la tutela della dignità e libertà dei
lavoratori e la promozione dell’autodifesa sindacale in fabbrica, fu confermata.
Così che il 20 giugno 1969 fu approvato dal Consiglio dei Ministri il disegno di
legge n. 738 “Norme a tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà
sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro”.
Brodolini in quei giorni era allo stremo delle forze e la malattia lo stava
divorando a poco a poco. Si preoccupò quindi di dare le ultime direttive ai suoi
collaboratori per il difficile dibattito parlamentare. La consapevolezza della
genuinità del disegno di legge era affiancata alla certezza che in Parlamento ci
sarebbe stata una battaglia senza esclusione di colpi, proveniente non solo dagli
ambienti conservatori, ma anche e soprattutto dai settori più critici della sinistra
comunista, socialproletaria e indipendente. Il 2 luglio, prima della partenza per
Zurigo, lasciando le ultime disposizioni a Giugni gli raccomandò:
scelta politica ormai matura del Ministero del lavoro, cioè quella di andare avanti in un progetto a favore della tutela del lavoro dipendente indipendentemente dalle riserve degli industriali.
101
“So di certe idee un po’ avventate che circolano in giro e soprattutto in parlamento. Fai in modo che lo Statuto dei lavoratori non diventi lo Statuto dei lavativi.”141
Morì qualche settimana più tardi, all’alba dell’11 luglio. La sua opera politica
fu fondamentale non solo per il destino dello Statuto dei lavoratori, ma per tutta la
successiva attività del Ministero del lavoro. Parlando al congresso della CGIL a
Livorno, nella sua ultima apparizione in pubblico, dichiarò:
“Nella vita bisogna sapere che scegliendosi gli amici si scelgono anche gli avversari. Ebbene,
io ho scelto i miei amici e voi siete, lo sapete, i miei amici e i compagni più cari”142
Un’attività politica consapevole al servizio di una parte sola, quella dei
lavoratori.
4.3 “Tuoni a sinistra”. La crisi sociale dello Statuto
Nonostante lo Statuto dei lavoratori dal ’68 in poi trovò larghi favori e la sua
epoca di consenso più alto nelle istituzioni, fu proprio questo il lasso di tempo in
cui fu messo in crisi dagli eventi conflittuali di quegli anni. Questa volta era il
fronte sociale ad essere riluttante. Forse fu proprio la pressione e la grande forza
delle contestazioni operaie a dare impulso agli interventi istituzionali e quindi a
rinvigorire la buona disposizione verso lo Statuto dei lavoratori, in una prospettiva
di contenimento delle spinte rivoluzionarie del c.d. “secondo biennio rosso
italiano”. Chi vedeva e tuttora vede lo Statuto come un provvedimento legislativo
adottato in una prospettiva di stemperamento del conflitto sociale, sottolineava la
frattura del sistema politico con la realtà sociale di quegli anni. Secondo Foa
infatti
141 E. Stolfi, cit., p. 106. 142 Ivi, p. 105.
102
“lo Statuto dei diritti del 1970, cui posero mano i socialisti Brodolini e Giugni, non nacque dall’impegno del centrosinistra ma dalle lotte operaie.”143
In questo senso lo Statuto fu il risultato non di una chiara volontà politica del
Governo e delle istituzioni, ma solo della determinazione di alcuni uomini politici
più attenti alle questioni operaie. Un senso dove il momento conflittuale assume
un ruolo centrale.
Comunque a cavallo tra il ’67 e il ’68 e successivamente, prima dell’autunno
caldo, l’idea dello Statuto era messo in crisi, poiché era messo in crisi tutto il
sistema sociale e sindacale nel suo complesso. Il ciclo di lotte aveva portato alle
estreme conseguenze la questione operaia e sindacale, nella prospettiva del
sindacato inteso come “realtà organizzativa che vive […] una tensione dialettica
permanente con il movimento operaio e con il progetto sociale di cui questi è
portatore.”144 Un rapporto dialettico questo, sempre presente nelle diverse fasi
storiche, come abbiamo visto nei capitoli precedenti, ma che in questi anni
assunse caratteristiche straordinarie. In effetti prima dell’autunno ’69, in cui le
organizzazioni sindacali riuscirono a “cavalcare” la conflittuale mobilitazione
autonoma della base, la strategia prevalente dei giuristi riformisti era palesemente
messa in discussione. Le stesse critiche della linea costituzionale erano in realtà il
frutto della ritrovata conflittualità nelle aziende, conseguenza di una insanabile
frattura tra base operaia e organizzazione sindacale. Una valutazione di questo
tipo è direttamente collegata alla storiografia che divide gli “anni degli operai” in
momenti e fasi differenti, segnate in prevalenza da dinamiche a prima vista legate
da un unico filo conduttore, ma che in realtà presentano attori e risvolti sociali e
143 Questo novecento, cit., p. 299. 144 G. Romagnoli, Consigli di fabbrica e democrazia sindacale, Milano, Mazzotta, 1976, p. 9.
103
politici molteplici e contraddittori. Nella nostra prospettiva, sono importanti due
momenti essenziali: la nascita dell’autonomia operaia, base teorica dello
spontaneismo operaio e quella del delegato di linea, embrione del Consiglio di
Fabbrica. Questi due momenti della mobilitazione operaia furono le cause della
crisi sindacale e di conseguenza della crisi dello Statuto che del sindacato in
azienda si faceva promotore come momento istituzionale di difesa dei diritti dei
lavoratori.
Analizzare la prima fase della conflittualità operaia, quella cioè a cavallo tra
’67 e ’68, significa inevitabilmente connetterla alla rivolta studentesca iniziata già
nei primi mesi del ’67, da cui le prime lotte operaie ne trasse numerosi spunti e
con cui si verificarono straordinarie convergenze ideali e di azione. Una rivolta
che, lungi dall’essere un’esplosione improvvisa, aveva radici nella condizione
giovanile nella società degli anni sessanta e della prima generazione che si scontrò
con il boom economico e con la società del consumo. Nei precedenti capitoli
abbiamo già sottolineato il ruolo delle nuove generazioni operaie nelle lotte dei
primi anni sessanta e dei mutamenti sociali e istituzionali che essi contribuirono a
provocare. Smorzata quella ritrovata voglia di azione collettiva dentro le fabbriche
per via della pessima congiuntura economica e del riemergere della debolezza
delle organizzazioni sindacali di fronte ad essa, le soggettività giovanili si
espressero fuori dalle unità produttive e spesso lo fecero in modo contraddittorio.
Gli anni che precedettero il sessantotto infatti, furono gli anni
dell’anticonformismo dei “capelloni” e delle loro manifestazioni-happaning, della
generazione c.d. yè yè e del “Piper club”. Espressioni di una generazione
contraddittoria, segnata da due poli contrapposti, caratterizzati questi, da una parte
104
dall’entusiasmo per le nuove opportunità del boom economico, e dall’altra dal
persistente conservatorismo che investiva tutti gli aspetti della società italiana.
Ben presto quindi le nuove soggettività giovanili si espressero nelle istituzioni
scolastiche e universitarie, assumendo un carattere sempre più politicizzato e
conflittuale. Queste espressioni non potevano che travolgere istituti e prassi
consolidate dalle passate generazioni e sempre difese con il massimo delle forze
dalle generazioni adulte. Già nel corso della metà degli anni sessanta, università,
licei e istituti italiani furono teatro di una crescente mobilitazione studentesca.
Queste ormai sottolineavano il carattere collettivo delle nuove soggettività
giovanili nate dal boom economico. Ricalcavano, in parte, le occupazioni alle
facoltà di architettura di Roma e Milano nel 1962. La scolarizzazione di massa e
l’aumento degli studenti universitari145 ebbero un impatto incredibile sul sistema
educativo italiano, segnato ancora da arretratezze e da un cieco autoritarismo. Ma
ad essere contestati non erano solo professori e dirigenti scolastici, “baroni” e
magnifici rettori, ma le stesse organizzazioni studentesche ormai simili a partitini
e segnate da pratiche di rappresentanza vecchie ed inefficaci. Era il frutto di uno
scollamento strisciante tra le dirigenze delle organizzazioni studentesche e
movimento di base reale, secondo una non dissimile dialettica a quella tra
organizzazioni sindacali e classe operaia. Le resistenze e la repressione del
dissenso inoltre furono forti. Presidi e rettori fecero largo uso di istituzioni
(prefetti, forze dell’ordine, questori) per reprimere le mobilitazioni e le aspirazioni
degli studenti. Tra il ’66 e il ’67 le circolari del ministro dell’interno P. E. Taviani
145 Gli alunni delle scuole superiori passano dal 760.000 unità del 1960 a 1.400.000 del 1967, in G. Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni ottanta, Roma, Donzelli, 2003, p. 203. Gli iscritti a corsi universitari passano da 250.000 unità del 1961 a 550.000 nel 1968, in Ivi, p. 208.
105
furono la prova di come le stesse istituzioni repubblicane furono impegnate, a
fianco di presidi e rettori, nel reprimere le agitazioni studentesche146. L’azione
congiunta di repressione e politicizzazione dell’iniziativa giovanile, assieme alla
critica delle tradizionali forme di dissenso, si tradusse in una rivolta imponente.
Le mobilitazioni nei mesi finali del ’67 e per tutto sessantotto, che ebbero il
culmine nella primavera, travolsero tutti, tanto da poter parlare dell’”anno degli
studenti”. La contestazione riguardava la riforma universitaria del Ministro Gui,
ma ben presto le occupazioni investirono obbiettivi politici più generali di
trasformazione sociale. Il dissenso diffuso era alimentato dalla centralità della
lotta e della figura sociale dello studente. Il movimento studentesco, da una parte
assunse caratteri antisistemici di rifiuto della società capitalista e dei sui rapporti
di produzione, dall’altra chiedeva una maggiore integrazione nelle istituzioni
universitarie e in queste un maggior potere decisionale. Fu proprio la prima
caratteristica del movimento studentesco, a mio avviso, a unire nella lotta operai e
studenti. Gli studenti in questo senso rappresentavano i c.d. ”proletari in colletto
bianco”, i futuri operai, inseriti nel medesimo modello di sviluppo neocapitalista.
Proprio nel momento di maggior mobilitazione studentesca, in effetti le
fabbriche italiane furono teatro della nascita della c.d. spontaneità operaia.
Fabbriche come la Olivetti, la Marzotto, la Pirelli, la Saint Gobain, erano teatro di
vertenze gestite direttamente dagli operai, tramite gruppi informali e autonomi
dalle organizzazioni sindacali. In moltissimi casi gli scioperi venivano proclamati
proprio per contestare le organizzazioni sindacali. Gli scarsi risultati degli anni
146 Le due circolari, una emessa il 1° luglio ’66 e l’altra il 27 gennaio ’67, permettevano l’intervento delle forze dell’ordine, anche preventivo, in facoltà e istituti scolastici, in caso di occupazione, senza la richiesta esplicita dei rettori e dei presidi a meno che questi non lo vietassero in modo esplicito.
106
’60, causati dall’atteggiamento prudente delle organizzazioni sindacali e dalla
gestione delle vertenze aziendali tramite le sezioni provinciali, causarono uno
scontento tra le masse operaie e organizzazioni sindacali ormai non più
contenibile. Ciò è spiegabile anche dal livello di sindacalizzazione di quegli anni
che toccò i minimi storici. La dialettica tra movimento operaio e organizzazioni
sindacali raggiunse una fase di crisi che si stabilizzò, certamente non del tutto,
solo con l’autunno del ’69. Tra i contestatari i più agguerriti si dimostrarono
proprio i giovani operai di cui si andavano sempre più dequalificando le mansioni.
Furono i giovani ad incarnare maggiormente la nuova figura dell’operaio comune,
figura sociale su cui si poggia tutto il ciclo di lotte ’68-’72 e che sfociò nella
nascita del movimento consigliare147. Erano gli anni in cui le fabbriche, uscite
dalla congiuntura sfavorevole degli anni precedenti, intensificarono il processo di
parcellizzazione e standardizzazione della produzione, con un notevole aumento
dei ritmi di lavoro e del ricorso alla manodopera a scarsa professionalità tramite
l’introduzione di nuove tecnologie. Nella nuova figura operaia cresceva l’astio
verso i metodi autoritari di disciplina e controllo dei capi reparto. Fu proprio la
scolarizzazione crescente di queste giovani leve operaie, di solito immigrate148, a
dare impulso al nuovo ciclo di lotte. “[…] Grazie alla scolarizzazione di massa, a
all’apporto dei media essi sono dotati […] di una cultura superiore a quella
dell’operaio altamente specializzato di vent’anni prima”149 che li rese riluttanti
verso gli attendismi delle centrali sindacali degli anni precedenti. Ci fu quindi una 147 Sul ruolo centrale del c.d. operaio comune nel periodo considerato faccio riferimento ancora allo studio di G. Romagnoli, Consigli di fabbrica e democrazia sindacale, cit. 148 Importante, in questo senso, il concetto di “ghettizzazione sociale” delle masse di lavoratori immigrati. In questo periodo infatti ci fu una nuova ondata migratoria, grazie ad una maggiore offerta di lavoro nel nord del paese. Le nuove opportunità di lavoro crearono quindi un’alta disponibilità alla mobilità sociale e sul lavoro che si scontrava con il degrado urbano della popolazione immigrata. 149 G. Crainz, Il paese mancato, cit., p. 323.
107
crisi nel disciplinare la forza lavoro, “nel momento in cui l’elevamento e la
diffusione del livello di scolarità provocano uno sfasamento tra aspettative e realtà
di lavoro.”150 Si chiedeva una nuova politica salariale egualitaria in aperto
contrasto con le politiche rivendicative consolidate, basate ancora su cottimi e
premi di produzione e su un’analisi della struttura di classe obsoleta che di fatto
privilegiava ancora l’operaio specializzato e sindacalizzato.
La contestazione verso le organizzazioni sindacali toccò il suo apice nel
febbraio ’68, quando le tre Confederazioni firmarono un accordo con il Governo
per la riforma delle pensioni. L’accordo fu contestato fortemente dalla base, tanto
che la CGIL qualche giorno più tardi, sarà costretta a tornare sui suoi passi e
proclamare lo sciopero generale. Si ritenevano ormai superate tutte le istituzioni
del sindacato in fabbrica, ed ora ad essere superato era lo stesso sindacato,
organizzazione burocratica e garante del sistema capitalista. Nonostante la
vicenda delle pensioni rappresentò il primo caso di recupero del sindacato sullo
spontaneismo operaio, le Commissioni Interne e le Sezioni Sindacali Aziendali,
venivano toppo spesso sostituite da organi che sottolineavano l’autonomia degli
operai da qualsiasi ingerenza organizzativa. Questi nuovi spazi di azione collettiva
erano teatro principale della partecipazione diretta degli operai alle vertenze. Fu in
questa prima fase altamente contestataria che nacquero le coalizioni di sciopero, le
assemblee autonome e i comitati unitari di base (CUB), come quello dall’ATM a
Milano. Questi gruppi informali di lavoratori, in cui, tra l’altro, erano coinvolti
molti iscritti a organizzazioni sindacali e a cui spesso si univano gli studenti
universitari, si basavano su modelli organizzativi chiaramente mutuati dalle
150 G. Romagnoli, cit., p. 23.
108
assemblee studentesche che proliferavano nelle facoltà italiane. Potere operaio e
potere studentesco erano le due facce della stessa medaglia. Fu subito chiaro
quindi il carattere antisindacale di queste nuove forme organizzative e
l’importanza in queste
“[…] dell’influenza del movimento studentesco che si manifestò attraverso il ricorso da parte
operaia a forme innovative di lotta e alla pratica della democrazia assembleare.”151
Questa prima fase mise indubbiamente in crisi lo Statuto dei lavoratori su cui
stavano tanto lavorando al Ministero del lavoro socialisti e giuristi riformisti. In
effetti alla contrattazione, questi contrapponevano la “lotta continua” e
l’assemblea permanente. La critica alle istituzioni sindacali era totale.
“Il sindacato, a cui i riformisti [stavano aprendo] i cancelli delle imprese, era, nelle imprese, contestato e messo alle strette.”152
A questi interessava, tutto al più, l’istituto dell’assemblea, che comunque era
presente nelle proposte governative come in quelle parlamentari. Ma l’assemblea
era per loro il luogo di incontro e di partecipazione diretta di tutti i lavoratori, a
cui non si poteva imporre nessuna limitazione e disciplina. Al contrario la
proposta governativa affidava alle sole rappresentanze sindacali la possibilità di
convocare l’assemblea ed escludeva la possibilità di discutere di temi non
strettamente sindacali.
Nei mesi successivi tuttavia bisogna registrare una battuta d’arresto del
movimento degli studenti. Le difficoltà di rendere effettive le aspirazioni di
trasformazione proposte dagli studenti, causarono un ripiegamento verso
151 F. Loreto, L’anima bella del sindacato: storia della sinistra sindacale, Roma, Ediesse, 2005, p. 50. 152 G. F. Mancini, Lo statuto, cit., p. 65.
109
iniziative più individuali e ad una mobilitazione che non vedeva più
nell’università il luogo privilegiato di azione collettiva. Fu così che molti
protagonisti del movimento studentesco scelsero di impegnarsi nei nascenti gruppi
della sinistra extraparlamentare. Alcuni di questi gruppi, come Avanguardia
Operaia, strinsero rapporti privilegiati con gli stessi CUB e spesso diventarono i
promotori e gli organizzatori di strutture extrasindacali, confermando l’indole
antagonista verso il sindacato, ma dando ad essi un carattere più operaista e meno
attraversato dalla mobilitazione studentesca. Ma la frattura tra sindacato e base
operaia non era ancora risolta. La stessa involuzione delle lotte studentesche e la
nascita di gruppi extraparlamentari, generò una più alta attenzione all’impegno
nella fabbrica e nel quartiere, che di fatto non stemperava, ma anzi rinvigoriva le
critiche alle strutture sindacali. Si sviluppò quindi un altro fattore di crisi che
minava lo Statuto nella sua struttura portante. Questo fu rappresentato dalla
nascita del delegato di linea.
L’avvento della contrattazione articolata all’inizio del decennio sessanta aveva
contribuito, come abbiamo visto, al mutamento delle rivendicazioni e soprattutto
all’abbandono del centralismo confederale, spostando l’azione sindacale su un
terreno più aderente all’organizzazione del lavoro e ai rapporti di lavoro che ne
derivavano. Ciò era avvenuto al parallelo imporsi dei modelli organizzativi di
produzione taylor-fordisti e all’introduzione progressiva della catena di
montaggio. Questo processo avrà il suo apice proprio nella alla fine del decennio
60, il periodo in cui si affermava “la produzione in linea articolata”. La
produzione si parcellizzava all’estremo e il prodotto era il risultato di una serie
numerosa di fasi, ognuna con la propria specificità, segnata cioè da fattori
110
ambientali ed esigenze differenti, ma legate da un'unica strategia aziendale.
Gruppi di operai avranno quindi particolari problemi di cottimo, di salute, di ritmi,
presenti in maniera dissimile in altre fasi e in altri gruppi lavoratori. La
conoscenza e la socializzazione delle condizioni di lavoro nelle diverse fasi, erano
possibili solo se discusse direttamente dai gruppi di lavoratori direttamente
interessati. Un processo di conoscenza e di socializzazione che rimaneva difficile
nella stessa assemblea aziendale, poiché in essa era difficile la partecipazione di
tutti e perchè differenti erano le condizioni di ogni fase della produzione. La
condizione operaia era registrata dall’assemblea solo in superficie.
“Si fa strada l’esigenza del decentramento del meccanismo di organizzazione, si arriva immediatamente alle assemblee di stabilimento di officina e finalmente di reparto, di linea, di gruppo e di cottimo. Qui l’approfondimento è più acuto, la partecipazione è totale, il movimento e la sua direzione diventano agilissimi.”153
Il processo di conoscenza e di socializzazione della condizione operaia era
quindi inverso, nasceva nel modo più aderente al processo produttivo ed era
espressione diretta del posto occupato nella linea articolata di produzione. Questo
momento organizzativo sfociò nella nascita del delegato di reparto e/o dei
comitati di reparto, incaricati ad avere rapporti con i capi reparto e con le direzioni
aziendali. Scioperi e mobilitazioni, se necessario, potevano riguardare quindi
anche il solo reparto poiché “la fermata improvvisa di un piccolo gruppo di
lavoratori su una linea sconvolge il processo a monte e a valle, bloccando il flusso
produttivo dell’intera fabbrica.”154 Una volta superato il particolarismo insito
nell’assemblea di reparto, avvertito dall’esistenza di problemi comuni a tutte le
153 Le parole sono di Gino Guerra in un intervento pubblicato in “Quaderni di rassegna sindacale” n. 24 Dic. 1969 dedicato ai Delegati di reparto, con il titolo “Nessun “vuoto” a nessun livello”, p. 49. 154 G. Romagnoli, cit., p. 27.
111
fasi della produzione omogenee, andavano costituendosi organi più ampi che
rappresentavano l’intero contesto aziendale. Questi furono i Consigli Aziendali
dei Delegati (CAD) e l’Assemblea Generale.
In queste ultime righe, abbiamo descritto brevemente ciò che stava accadendo
nelle fabbriche italiane e la nuova presenza operaia in fabbrica che dilagò tra la
fine del ’68 e l’inizio del ’69 nell’industria metalemeccanica, tessile e chimica. Un
movimento in un primo momento intrecciato alle strutture informali e
extrasindacali di cui sopra abbiamo parlato, ma che ben presto ebbe un suo
sviluppo autonomo e non riconducibile alla fase di contestazione descritta sopra.
Era comunque un metodo di individuazione delle rivendicazioni, in cui il
sindacato non era incluso automaticamente, proprio perché la condizione operaia
rimaneva autonomamente e direttamente individuata dalla base dei lavoratori. Il
delegato, infatti, spesso non era iscritto al sindacato, né faceva parte della CI o
della SAS. E soprattutto a questo era affidato un mandato sempre e in ogni
momento revocabile in sede assembleare. Dunque una forma tutta nuova di
esercizio dell’autonomia collettiva, non prevista dalle prassi sindacali in voga fino
a quel momento.
“Il sindacato di vecchio stampo, a mala pena penetrano nell’impresa e costituita un’embrionale sezione, non arriva alla squadra o al reparto; e, se vi arriva, lo fa necessariamente dall’alto e dal centro, vale a dire in modo paternalistico e burocratico.”155
E’ chiaro quindi lo sconvolgimento che il movimento dei delegati portò sulla
scena sindacale, un movimento che sicuramente non era naturalmente antagonista
al sindacato come i CUB, ma che rifletteva, forse anche in modo più drammatico,
il ritardo delle organizzazioni e il perdurare della frattura con la base. I delegati 155 G. F. Mancini, Lo statuto, cit., p. 69.
112
non rifiutavano il sindacato in quanto tale, ma quel tipo specifico di
organizzazione sindacale, non disposto ad appoggiare vertenze contrattuali
provenienti direttamente dal basso e che quindi avrebbero dotato gli operai di più
ampi poteri contrattuali. Inoltre i delegati non rifiutavano il contratto, al contrario
la loro opera era una continua micro-contrattazione quotidiana a livello di reparto
che sfociava nella costruzione delle vertenze aziendali generali. Per questo se le
federazioni metalmeccaniche, non avessero riconosciuto il movimento dei delegati
nei rinnovi contrattuali nell’autunno ’69, dimostrando di fatto un favore verso le
nuove forme di contrattazione e di autorganizzazione operaia in azienda, grazie
soprattutto alle sue componenti più avanzate, che provenivano dalla c.d. sinistra
sindacale, lo Statuto avrebbe rappresentato per il movimento dei delegati, un
provvedimento del tutto autoritario di riconoscimento monopolistico del sindacato
e ne avrebbe snaturato il ruolo di autonoma elaborazione rivendicativa. Un
riconoscimento dato anche del fatto, che la maggior parte dei gruppi operaisti
legati alla sinistra extraparlamentare, come Avanguardia Operaia e il gruppo del
Manifesto, spingevano per un movimento dei delegati in una prospettiva
consigliare su modelli sovietistici.
“I comitati di reparto, cioè, avrebbero potuto aggregarsi in veri e propri consigli di fabbrica, come quelli per cui si battevano il giovane Gramsci e, nello stesso torno di anni, i Rätekommunisten tedesco-olandesi, da Karl Erler ad Anton Pannekok: dunque, in strumenti di contropotere là dove più nudo e violento è il potere della classe egemone […].”156
Anche di fronte a questa opzione, se non ci fosse stato il ripensamento
organizzativo e politico avviato dalle federazioni metalmeccaniche, lo Statuto
avrebbe rappresentato lo “Statuto dei diritti del sindacato”, togliendo ai delegati
156 Ivi, p. 70.
113
tutti i poteri d’iniziativa autonoma in una prospettiva di captazione sindacale della
figura del delegato.
Il sindacato al contrario, con l’autunno ’69, riconosceva le nuove strutture
autonome di fabbrica, dando ad esse la possibilità di usare gli strumenti del futuro
Statuto, proprio perché se il sindacato doveva entrare in azienda, lo avrebbe fatto
tramite l’autorganizzazione operaia vista come articolazione del sindacato in
azienda e costruttore delle vertenze dal basso. Certo è, che questo processo non fu
facile e una volta approvato lo Statuto, il rapporto dialettico tra organizzazione
sindacale e movimento dal basso non raggiunse mai una sintesi definitiva, ma al
contrario essa fu sempre presente e sarà la causa principale delle diverse
interpretazioni e dell’uso che dello stesso Statuto se ne farà. Non fu facile
soprattutto per il fatto che solo alcuni settori delle organizzazioni erano disposti a
riconoscere il ruolo centrale del movimento dei delegati. In effetti già nella prima
fase di contestazione, solo le federazioni metalmeccaniche dimostrarono una
sensibilità differente verso il movimento studentesco e le nuove forme di
contestazione, mentre debole restava quella dei vertici confederali157. Il favore
delle federazioni metalmeccaniche quindi ci indica che la stessa carica
spontaneista e fondamentalmente antisindacale della prima fase, aveva innescato
nelle federazioni dell’industria e in alcune aree delle stesse confederazioni, una
critica interna e una sensibilità verso le nuove rivendicazioni operaie.
L’intensificarsi delle lotte e lo sfaldamento del movimento studentesco, che 157 Nel febbraio ’68 a Modena e nell’aprile dello stesso anno a Bologna due convegni di categoria dei giovani metalmeccanici, sottolineano la disponibilità delle federazioni dell’industria metalmeccanica, a “indicare nuovi impegni rivendicativi in tema di apprendistato, collocamento, diritto allo studio, lavoro minorile, eliminazioni di sperequazioni salariali per età”, ed “invitava le strutture periferiche a intraprendere iniziative mirate quali la costituzione di Commissioni giovanili provinciali, l’inserimento di giovani negli organismi dirigenti, la promozione di appuntamenti periodici dove dibattere i temi specifici della condizione giovanile”, in F. Loreto, L’anima bella del sindacato, cit., p. 52.
114
confluì nelle file dei gruppi extraparlamentari, fece emergere un dialogo aspro e a
prima vista impraticabile anche con le anime sindacali più sensibili al
rinnovamento. Ma la grande forza d’iniziativa della base operaia aveva orami
avviato un processo di rinnovamento incontrovertibile. Tale processo aveva alla
base la ritrovata unità tra le confederazioni sindacali, proprio perché erano gli
stessi operai a rifiutare il pluralismo sindacale e il sindacato come associazione. In
questo senso i due scioperi generali e unitari a cavallo tra il ’68 e il ’69 sulle
pensioni e per l’abolizione delle “gabbie salariali”, rappresentarono
rispettivamente il riconoscimento dei limiti del pluralismo sindacale e l’appoggio
alle spinte egualitarie che provenivano dalla base. Un rinnovamento a cui
parteciparono non solo esponenti di cultura comunista, ma che si incrociava con le
nuove visioni del lavoro sempre più presenti in esponenti della cultura cattolica.
Congressi, incontri e convegni delle associazioni e federazioni di categoria, ormai
erano tutti incentrati sulla questione della “democrazia sindacale” e sull’unità
sindacale, cioè di una più stretta aderenza delle organizzazioni alle richieste della
base operaia in una prospettiva unitaria. Il tema della democrazia sindacale e
dell’unità era legato inevitabilmente al riconoscimento dei delegati come
interlocutori privilegiati del sindacato, che in quei mesi andavano registrando
vittorie in molte vertenze aziendali.
“I metalmeccanici furono ancora una volta all’avanguardia: essi, infatti, cercarono di smarcarsi dagli
umori prevalenti a livello politico e confederale e puntarono a fare del delegato il principale tramite tra sindacato e lavoratori.”158
Nei congressi delle confederazioni inevitabilmente si scontravano anime
contrapposte. Da una parte le componenti di sinistra che spingevano appunto per
158 Ivi, p, 60.
115
un rinnovamento organizzativo e di rapporto democratico con le esperienze della
base. Dall’altra le componenti più moderate, propense ad un modello burocratico
e scettiche verso le rivendicazioni della base. L’autunno caldo avrebbe dato
ragione alla prima componente e al riconoscimento dei delegati.
4.4 Autunno caldo e dibattito parlamentare: lo Statuto è legge
Come abbiamo visto l’impostazione sindacale dello Statuto faticosamente
redatta dal ministero del lavoro, dopo l’approvazione in Consiglio dei Ministri,
venne appoggiata dallo stesso Governo, anche se alcuni distinguo in merito non
mancarono. Ciò era dato soprattutto dal timore degli stravolgimenti che il disegno
di legge avrebbe potuto subire, data la forza delle sinistre in Parlamento. Inoltre la
situazione sociale nelle fabbriche era esplosiva e la stessa impostazione
promozionale del sindacato in azienda oggetto di forti critiche. Alle critiche su
aspetti giuridici, si affiancavano quelle con chiari risvolti politici. Tra questi prima
di tutto c’era quella dei giuristi costituzionalisti, a cui si appoggiava la posizione
marxista del PCI e del PSIUP. Rispetto al progetto di legge n. 738 infatti la
Rivista giuridica del lavoro prese subito posizione tramite un intervento di Ugo
Natoli159. Nel saggio l’Autore, dopo aver elogiato il ruolo che la Rivista ebbe per
tutti gli anni ‘50 e ‘60 nel denunciare la situazione delle fabbriche, la violazione
delle libertà dei lavoratori previste dalla Costituzione e nel ricercare strumenti
normativi di risposta a tali situazioni, rinnovò le critiche all’impostazione
sindacale e riformista del disegno di legge. Per i costituzionalisti rimaneva il fatto
che lo Statuto avrebbe dovuto rendere efficaci nei luoghi di lavoro i principi di
159 U. Natoli, Luci ed ombre sul disegno di legge n. 738 sui diritti dei lavoratori, in “Rivista giuridica del lavoro, I, 1969, pp. 317 ss.
116
libertà fondamentali dei cittadini anche nei luoghi di lavoro, non con una mera
elencazione di norme già esistenti, ma con
“un’opportuna (esplicita) delimitazione di certi “poteri” (direttivo, disciplinare) del datore di
lavoro e, in secondo luogo, di un adeguato sistema di sanzioni (penali e non) capaci di prevenire, reprimere o, addirittura, rendere irrilevante ogni tentativo di elusione della garanzia costituzionale in ordine all’esercizio dei diritti e delle libertà fondamentali dei lavoratori […]”160
La critica quindi non riguardava solo i titoli in cui si disciplinavano le libertà
sindacali e l’attività sindacale in azienda, che per Natoli non avrebbero dovuto
nemmeno essere trattate dal provvedimento legislativo, pena
l’istituzionalizzazione del sindacato e la limitazione della stessa libertà sindacale,
negativa e positiva, del singolo lavoratore, prevista tra l’altro in Costituzione. Le
stesse norme sulla libertà e dignità del lavoratore inserite nel I titolo dal disegno di
legge, infatti erano ritenute deboli e non sufficientemente limitative dei poteri dei
datori di lavoro, “creando a questi un “statuto” speciale, diverso da quello degli
altri cittadini161”. Alla critica giuridica della Rivista, era collegata quella politica
del Partito Comunista, sempre compatto sulle sue posizioni costituzionaliste e
deciso a modificare il disegno di legge e svuotare le disposizioni sull’attività
sindacale in azienda. Il senatore Giovanni Brambilla162, dopo aver sottolineato gli
ostacoli posti dal Ministero del lavoro e dal Governo alla discussione
parlamentare sui progetti di legge presentati dal PCI e dal PSIUP, riferì che il
progetto “si discosta[va] gravemente” dai principi costituzionali da garantire
anche ai luoghi di lavoro, “limitandosi a disciplinare esclusivamente l’attività
sindacale”. “Esso, inoltre, restringe[va] gravemente il suo campo di applicazione,
160 Ivi, pp. 319-320. 161 Ivi, p. 321. 162 E. Solfi, Da una parte sola, cit., p. 101.
117
ed esclude[va] da ogni tutela sindacale aziendale vaste masse di lavoratori”, cioè
quelli occupati in aziende al di sotto di 40 dipendenti.
A questo tipo di critica di tipo strettamente marxista, si affiancava come
abbiamo visto quella della nascente sinistra extraparlamentare dei gruppi
dell’autonomia operaia. Una critica che ebbe eco anche in Parlamento, grazie
all’opera del Senatore della Sinistra Indipendente Albani, che si fece portatore di
emendamenti e della lotta politica in sede di esame della proposta di legge al
Senato. Le riserve su uno Statuto dei diritti dei lavoratori furono ribadite anche
dopo l’approvazione dello Statuto con la pubblicazione di un opuscolo specifico,
in cui furono raccolte le considerazioni, nonché gli emendamenti proposti, che
talaltro non furono approvate dalla Camera Alta.163 Albani contestava l’impianto
generale del provvedimento, poiché si preoccupava di delegare il potere operaio,
conquistato direttamente grazie all’azione diretta dei lavoratori, al sindacato,
mentre i lavoratori
“non concedono che deleghe limitate, vogliono discutere e proporre piattaforme rivendicative,
forme e tempi di lotta, approvare direttamente risultati e accordi, vogliono autogestire il loro potere attuando, in tal modo, la Costituzione.”164
Ma per l’A., messe da parte quelle poche norme giuste a tutela dei diritti dei
singoli lavoratori, la Costituzione continuava a rimanere di fronte ai cancelli delle
fabbriche anche con il varo dello Statuto, poiché questo non provvedeva a
modificare il regime liberista garantito dalle norme di diritto del lavoro del c.c.
fascista. La critica in sede politica della sinistra indipendente non riuscì ad
163 G. M. Albani, “Statuto dei diritti” o “Potere” dei lavoratori?, Milano, 1970. 164 Ivi, p. 38.
118
esprimere una vera e propria politica del diritto165, ma non furono certo irrilevanti
le idee di alcuni giuristi che provenivano proprio da quel filone giusindacalista
che per tutti gli anni ’60 andavano approfondendo i proprio studi. Questi dalle
contestazioni operaie e dalle nuove compagini politiche della “nuova sinistra”,
“accolsero le profonde motivazioni anti-autoritarie e anti-istituzionali o, per lo
meno, la critica all’istituzione sindacale.”166 Gli interventi di Giorgio Ghezzi e di
Mattia Persiani apparsi il 1 luglio del ’69 sul quotidiano “il Giorno”167 sono
quindi critiche interne allo stesso filone di giuslavoristi d’impostazione riformista.
Ghezzi con il suo intervento intitolato “Apprezzabile, però…”, dopo aver
apprezzato la moderna tecnica giuridica con cui si provvedeva a regolare i diritti
dei lavoratori e l’attività sindacale in azienda, chiariva che, “sotto il profilo di un
giudizio politico”, lo Statuto era “arretrato rispetto ai nuovi significati assunti
dalle lotte operaie in azienda”, che di fatto mettevano in discussione il ruolo del
sindacato come “garante di un movimento che, come quello operaio, vive oggi,
rispetto alle forme tradizionali di organizzazione, innegabili momenti di
dialetticità, che si sostanziano nella difficile ricerca d’un necessario equilibrio tra
165 C’è da rilevare tuttavia che gli eventi della contestazione operaia e della conseguente repressione data dalla situazione di oggettiva tensione sociale, provocarono nella magistratura profonde lacerazioni e forti prese di posizioni da parte di settori rilevanti, che di fatto influenzarono molti altri operatori del diritto e certo anche i giuslavoristi più attenti alle dinamiche sociali. Un esempio è la vicenda di Magistratura Democratica (MD) e la sua svolta radicale dopo una scissione interna, nel finire del ’69. Questa fu provocata dal noto “caso Tolin”, il direttore del settimanale “Potere operaio”, processato per direttissima, per via di alcune pubblicazioni sulla rivista. Con l’ordine del giorno che portava il nome dello stesso direttore della rivista, Md assunse una posizione di appoggio esplicito ai movimenti sociali e civili della nuova sinistra e delle classi subalterne. Con l’approvazione dello Statuto, come vedremo in seguito, molti componenti della corrente interna all’associazione nazionale magistrati (AMN), videro nell’applicazione dello Statuto e nella difesa dei diritti dei lavoratori, una strategia per le loro aspirazioni di riforme radicali del sistema giudiziario e ciò contribuì all’emergere del fenomeno della c.d. giurisprudenza alternativa. 166 G. F. Mancini, Lo statuto, cit., p. 66. 167 Il 1 luglio 1969 il quotidiano milanese accolse nelle sue pagine un’inchiesta a cura di Sergio Turone dal nome La libertà in fabbrica. Lei che ne dice?, in cui si chiedeva a sindacalisti, sociologi e giuristi la loro posizione in merito al disegno di legge del Governo Rumor.
119
istituti di democrazia rappresentativa ed istanze di democrazia diretta”. Ma alle
riserve politiche affiancava anche quelle giuridiche. Suggeriva infatti di affidare il
potere di convocare l’assemblea, “non soltanto dalle rappresentanze sindacali
aziendali, bensì anche per iniziativa dei lavoratori”. Pressappoco sulla stessa linea
di pensiero, Persiani sottolineò il fatto che “c’è qualche rischio”, nella misura in
cui “rafforzare il sindacato potrebbe apparire come un tentativo di puntellare un
istituto già superato”.
Le parti sociali dal canto loro erano immerse nella stagione di conflittualità.
Da una parte le associazioni sindacali vedevano di buon occhio il provvedimento,
visto il favore di quest’ultimo verso l’ingresso in fabbrica delle loro strutture.
Dall’altra le associazioni degli industriali rimanevano ostili ad uno Statuto che
rovesciava le relazioni industriali e che rifletteva il mutamento politico in atto, ora
fortemente favorevole alle rivendicazioni dei lavoratori. Guido Randone168 fece
presente l’opposizione degli imprenditori ad un provvedimento legislativo che
guardava ai soli diritti dei lavoratori dipendenti e non alla figura sociale del datore
di lavoro. Al contrario lo Statuto, a suo avviso, non aveva per la parte
imprenditoriale “riconoscimenti e attestazioni di simpatia o di rispetto, ma solo
ostilità e condanne”.
Ripercorse le critiche più importanti al disegno di legge, bisogna rintracciare i
temi e le norme che nella legge 300 verranno inserite sotto la spinta dell’autunno
caldo e del dibattito parlamentare. Questi due aspetti, come vedremo,
modificarono il teso uscito dal Consiglio dei Ministri, dando alla legge 300 una
più forte aderenza alla realtà sociale. Il disegno di legge n. 738 in effetti fu
168 E. Stolfi, Da una parte sola, cit., p. 98.
120
modificato nei mesi successivi, non solo dalle componenti politiche in
Parlamento, ma anche dalla spinta conflittuale dell’autunno ’69, non tanto, come
vedremo, dalla contrattazione collettiva, che comunque ebbe il suo peso, ma dalla
valenza politica che la conflittualità rappresentò. Il ciclo di lotte di quell’anno per
i rinnovi contrattuali contribuì ulteriormente a modificare i rapporti di forza e a
porre le condizioni politiche in Parlamento per la modifica del testo verso le
aspirazioni dei lavoratori.
Sul primo aspetto, quello della contrattazione, abbiamo già affermato come la
straordinaria mobilitazione per i rinnovi dei contratti nazionali dell’industria
nell’autunno del ’69, sia stata caratterizzata della ritrovata azione delle
organizzazioni sindacali dopo una lunga fase di contrasto con la base. Non è
quindi errato mettere in risalto il fatto che la legge n. 300 rappresenti, in parte, la
sanzione legislativa delle innovazioni provenienti dalla contrattazione collettiva.
Ma bisogna sottolineare anche l’inesistenza nei contratti collettivi di molte delle
norme previste invece dallo Statuto o la presenza in essa di diritti che le fonti
autonome invece rendevano più limitati. Ad esempio, la disciplina sul
collocamento prevista dal titolo V dello Statuto e quella sulla reintegrazione del
lavoratore ingiustamente licenziato prevista dall’art. 18 dello Statuto, non erano
previste da nessuno dei contratti collettivi nazionali. Due temi che non potevano
che avere una tutela di tipo legislativo, visto il ruolo che in esse hanno le
istituzioni, come giudici e gli organi amministrativi dello Stato. E lo stesso si può
dire degli articoli 1, 8, 14, 15, 16 e 17 che rispettivamente tutelano il diritto di
opinione, il divieto di indagini sulle opinioni dei lavoratori, il diritto di
associazione e di attività sindacale, il divieto di atti discriminatori, il divieto di
121
trattamenti economici discriminatori e il divieto di costituire i sindacati di
comodo. Persino degli artt. 4 (divieto di uso di impianti audiovisivi di controllo) e
5 (sulle visite mediche) non c’era traccia nei contratti collettivi. Ma fu proprio
riguardo alle norme sulle materie sindacali che il movimento del ’69 ha ottenuto
le maggiori vittorie, poi inserite nello Statuto senza le inevitabili limitazioni
previste in sede contrattuale. Prova del fatto che “tutto il movimento
dell’”autunno caldo” ha visto indubbiamente tra i punti focali dello scontro
contrattuale quello della più forte presenza e di un maggior potere del sindacato
all’interno dell’azienda”169 e che è stato segnato dalla difficile “sindacalizzazione”
del movimento dei delegati. Il primo fu sicuramente il diritto d’assemblea inserito
nell’art. 20 dello Statuto e già presente i tutti i contratti collettivi. Un altro diritto è
quello di affissione, previsto dall’art. 25 della legge e già istituito grazie alle
vittorie dell’autunno ’69. Inoltre la prassi aveva largamente obbligato le direzioni
aziendali a mettere a disposizione un locale alle rappresentanze sindacali
aziendali, obbligo previsto dall’art. 27 dello Statuto. Lo stesso si può dire della
tutela dei dirigenti sindacali, delle disposizioni sulla raccolta dei contributi
sindacali e dei permessi retribuiti per i lavoratori chiamati a funzioni pubbliche
elettive. Da questa breve disamina del rapporto tra contrattazione collettiva e testo
della legge 300, ci si rende conto che in realtà lo Statuto ha sì sanzionato molti
istituti conquistati tramite la contrattazione collettiva, ma anche che l’intervento
legislativo è intervenuto molto più in profondità, superando di fatto la normativa
prevista dai contratti collettivi. Ciò deriva dal fatto che
“il contratto costituisce sempre, per la sua stessa natura, un punto di equilibrio tra gli interessi
e le forze contrastanti dei contraenti. La legge può invece superare tale equilibrio, in un senso o in
169 L. Ventura, Lo statuto dei diritti dei lavoratori, cit., p. 527.
122
un altro, quando esso non coincide con analoghi equilibri che si determinano in sede politica e parlamentare.”170
E fu proprio questo il merito delle grandi lotte dell’autunno ’69, quello cioè di
obbligare il sistema politico e parlamentare a superare l’equilibrio delle parti in un
senso, quello dei lavoratori e dei sindacati, e di permettere un intervento che
valorizzasse la contrattazione collettiva e la approfondisse in un senso di
maggiore tutela dei diritti dei lavoratoti e della organizzazione sindacale in
azienda. Una scelta di parte già fatta dal disegno di legge preparato da Brodolini e
Giugni, come abbiamo visto nei precedenti capitoli. Ma è certo che il Ministero
del lavoro aveva tenuto sicuramente più conto degli equilibri delle due parti,
equilibri che quindi l’autunno caldo ruppe definitivamente, come si vedrà anche
dal dibattito parlamentare che portò all’approvazione della legge.
Intanto nel luglio di quello stesso anno si era consumata una nuova crisi di
Governo, la fine del Governo Rumor e l’ennesima scissione in casa socialista.
Dopo schermaglie interne e una bella dose di confusione istituzionale, il partito di
maggioranza relativa, la DC, scelse, successivamente al nuovo incarico rinnovato
a Rumor, il “monoclore d’attesa”. Al ministero del lavoro andò il democristiano,
leader di una corrente di sinistra ed ex-sindacalista, Carlo Donat-Cattin. Questo
dimostrò di sostenere l’eredità lasciatagli da Brodolini, soprattutto per l’aver
confermato all’ufficio legislativo, molti degli uomini del passato Governo, tra
questi il giurista Gino Giugni. Le vicende esplosive e il riscaldamento della realtà
sociale, avviatosi già nel settembre dalle contestazioni dei lavoratori, che
dimostrarono di non voler attendere nemmeno l’inizio delle trattative per i rinnovi
contrattuali, mandarono a dire al Ministero del lavoro che, non solo bisognava
170 Ivi, p. 530.
123
mandare avanti l’iter legislativo del progetto Brodolini, ma che per non
scontentare le aspirazioni dei lavoratori, i lavori parlamentari avrebbero dovuto
approfondire le disposizioni ed essere il più possibile aderenti alla realtà sociale in
continua evoluzione. Le modifiche apportate alla X Commissione lavoro del
Senato e successivamente nella discussione alla Camera Alta, che iniziava proprio
in quei mesi l’esame del testo base di Brodolini e Giugni, furono la prova di
questa accelerazione e approfondimento dell’iter legislativo. Le aspirazioni degli
imprenditori furono quasi sempre lasciate cadere nel nulla, per via delle mutate
condizioni politiche in cui il padronato non riusciva a trovare interlocutori o
rappresentanti credibili (liberali e qualche democristiano). Di ciò se ne ebbe la
prova anche dopo l’approvazione del testo al Senato, quando la tragica vicenda di
piazza Fontana che inaugurò la strategia della tensione, aveva allarmato gli
industriali tutti. I richiami all’ordine e le paure per uno Statuto che avrebbe dotato
di un’eccessiva forza contrattuale il movimento dei lavoratori, caddero anche
questa volta nel nulla.
Rimanevano i rappresentanti comunisti e socialproletari da una parte, e
socialisti e gran parte dei democristiani dall’altra. I primi, pur criticando
l’impianto generale della legge, si accordarono su un’azione politica che da una
parte avrebbe dovuto approfondire gli aspetti costituzionali dei diritti dei
lavoratori, e dall’altra cercare di svuotare le disposizioni sull’attività sindacale e
ricondurle in capo al singolo lavoratore. Ma i comunisti erano ormai coscienti che
lo Statuto sarebbe comunque stato approvato e avrebbe comportato un elevamento
delle condizioni morali e civili dei lavoratori e che ciò avrebbe comportato un
sostanziale avanzamento elettorale e di contrattazione in sede politica.
124
Democristiani e socialisti avrebbero accettato una modificazione del disegno di
legge n. 738 riguardante i diritti individuali dei lavoratori, così che da una parte
avrebbero salvato l’impianto generale di promozione del sindacato in azienda,
prioritario dal loro punto di vista, e dall’altra avrebbero reso il provvedimento il
più aderente possibile alla pericolosa situazione sociale del paese.
In effetti il testo uscito dalla commissione e dal Senato e approvato senza
modifiche alla Camera dei deputati, fu il frutto di compromessi su tutti i temi di
contrasto tra le parti. Lo stesso Ventura, che sicuramente seguì da vicino le
vicende parlamentari, intervenendo successivamente sulle pagine della Rivista,
pur rintracciando nell’iter legislativo la presenza di
“due indirizzi di sensibile diversità”, quello parlamentare e quello governativo, non negò il
fatto che “il Governo non assunse un atteggiamento preclusivo nei confronti di eventuali proposte di modificazione e ciò determinò un dibattito di tipo “aperto”, che ha portato all’approvazione di una legge che può essere considerata effettiva espressione del Parlamento come poche altre.”171
Una valutazione condivisa dallo stesso Giugni in un articolo pubblicato
sempre sul Il Giorno il 21 novembre ’69172, alla vigilia del dibattito in Senato.
“Le modificazioni del progetto […] più che il frutto di operazioni di vertice parlamentare,
appaiono come il debito riscontro ad un rapido mutamento di clima sociale, cui devono corrispondere rapporti e contenuti politici adeguati.”
Le modificazioni infatti diedero un impianto dissimile alla legge rispetto alla
proposta governativa, non solo per quanto riguardava la costituzione del rapporto
di lavoro, grazie all’introduzione delle norme sul collocamento, ma anche
relativamente al corso e alla risoluzione di esso, mentre fu fatto salvo l’intento
promozionale del sindacato.
171 Ivi, p. 521. 172 Nuovo rapporto di forze fra direzioni e lavoratori. Lo “statuto Brodolini” sulla strada buona, in “Il Giorno” 21 novembre 1969, p. 2.
125
Sulla questione del collocamento tutti i gruppi furono d’accordo
nell’introdurre il titolo V, che modificò la normativa che risaliva a una legge del
’49. Inoltre lo stesso art. 8, sulle indagini delle opinioni dei lavoratori ai fini
dell’assunzione, introduceva uno speciale divieto per il datore di lavoro nel corso
della costituzione del rapporto di lavoro (art. 8).
Per quanto riguardava il rapporto di lavoro, l’art. 5 modificò il progetto
Brodolini sulla questione delle idoneità e sulla infermità del lavoratore,
demandando tale compito agli istituti pubblici e non come previsto a medici
indicati dal datore di lavoro173. Venne introdotta inoltre con l’art. 7, la preventiva
contestazione dei comportamenti che prevedevano sanzioni disciplinari. Fu lo
stesso Giugni, prima del dibattito alla Camera, a sottolineare che l’articolo in
questione non prevedeva l’ipotesi di licenziamento individuale. Riguardo
all’istituto dell’assemblea, anche se non fu accolto l’invito di Ghezzi di dare a tutti
i lavoratori la possibilità di convocarla, il Senato introdusse due rilevanti
modificazioni a favore della generalità dei lavoratori. L’art. 20 specificava infatti
che l’assemblea poteva riguardare la generalità dei lavoratori o gruppi di essi e
che i permessi retribuiti non erano solo affidati alle RSA, ma anche a tutti i
lavoratori, entro il limite prefissato di 10 ore annue.174 All’art. 21 sul referendum,
fu aggiunto l’enunciato che permetteva la partecipazione ad esso di tutti i
lavoratori appartenenti all’unità produttiva e alla categoria particolarmente
interessata. Fu introdotto ex novo anche l’art. 14 per attenuare le rigide 173 Nello stesso articolo, Giugni fece presente che questa norma avrebbe potuto incentivare l’assenteismo operaio per le carenze dei servizi ispettivi degli enti. Su questo punto in Senato ci si accordò sul potere del datore di lavoro di far intervenire “enti pubblici e istituti di diritto pubblico”. Potere non previsto dal testo uscito dalla commissione lavoro, che invece prevedeva l’intervento esclusivo degli istituti pubblici. 174 Non venne approvata invece la proposta del PCI di allargare i temi delle assemblee anche a temi politici e alla possibilità di farvi partecipare anche dirigenti dei partiti politici. Mentre fu introdotta la possibilità di partecipazione di dirigenti sindacali esterni all’unità produttiva.
126
disposizioni previste dall’art. 19 che affidava i diritti sindacali alle sole RSA,
garantendo a tutti i lavoratori il diritto di costituire associazioni sindacali nei
luoghi di lavoro. Ciò era collegato anche alla modifica del 1 comma dell’art. 26,
che permetteva a tutti i lavoratori indistintamente di svolgere all’interno delle
aziende opera di proselitismo per le loro organizzazioni sindacali. Tra l’altro è
importante sottolineare che nel dibattito in Aula fu abrogato tutto l’articolo che
riconosceva le CI voluto e ottenuto in commissione dal PCI.175
Ma fu sulla risoluzione del rapporto di lavoro che il Senato incise
maggiormente, eliminando definitivamente il diritto per il datore di lavoro del
recesso ad nutum176. La riassunzione infatti nel testo proposto dal Governo era
prevista per i soli licenziamenti intimati per motivi religiosi, politici o sindacali,
collegandosi all’art. 4 della legge 604 del ’66, che in generale prevedeva, per gli
altri casi di licenziamento, la facoltà, per il datore di lavoro, di scegliere tra
reintegrazione e risarcimento del danno.177 Con il testo dell’art. 18, il Senato ha
invece esteso il diritto alla riassunzione a tutti i lavoratori licenziati
illegittimamente, cioè senza giusta causa o giustificato motivo, provvedendo a
175 Su questo punto il PCI riuscì in commissione a spuntarla e a modificare il progetto Brodolini. Per i comunisti, il generale scarso favore verso il vecchio istituto, non giustificava la sua abolizione, poiché avrebbe rappresentato l’abbandono di un baluardo storico dell’organizzazione operaia nelle fabbriche. A questa visione, si contrapponevano non solo i giuristi della linea sindacale (vedi la posizione di Giugni in merito, nell’articolo menzionato alle note precedenti), ma anche le stesse confederazioni sindacali, specialmente la CISL, rappresentato dall’intervento del segretario generale Storti, citato da E. Stolfi, Da una parte sola, cit., p. 144. Le nuove forme organizzative del sindacato in azienda, dopo il ritrovato ciclo di lotte, non potevano infatti non spazzare via definitivamente il vecchio istituto. 176 Socialisti e democristiani, in generale ritenevano, la riassunzione obbligatoria un provvedimento troppo forte. In particolare Giugni, prima del dibattito in Senato, dichiarò che la norma “così come è ora formulata, rischia di risultare peggiorativa rispetto alla legge vigente, per i lavoratori che, dopo il licenziamento e prima della sentenza di riassunzione, abbiano trovato un altro lavoro: il danno di un licenziamento abusivo non si esaurisce nella perdita della retribuzione”, in Il Giorno, cit. 177 L. Ventura fece notare che lo stesso art. 4 della legge 604 del ’66, fu aggiunto in sede parlamentare al progetto di legge del governo Moro, in Lo statuto dei diritti dei lavoratori, cit., p. 523.
127
sostituire il regime di stabilità obbligatoria, con quello di stabilità reale. Un
provvedimento che, limitando il potere del datore di lavoro, rafforzava sia la tutela
di attivisti delle organizzazioni sindacali in azienda, invertendo l’onere della
prova, sia il singolo lavoratore. Tutto ciò rispettando le finalità della legge.
Così il Senato l’11 dicembre del 1969 approvò le “norme sulla tutela della
libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei
luoghi di lavoro e norme sul collocamento”. Votarono a favore DC, socialisti,
socialdemocratici. Si astennero PCI, PSIUP, sinistra indipendente e MSI.
Qualche ora più tardi, la tragedia di piazza Fontana infuocò una realtà sociale
già rovente. L’opportunità politica di varare velocemente lo Statuto non poteva
essere rinviata. Giugni avrebbe voluto preparare emendamenti correttivi e la
sinistra d’opposizione era intenzionata a modificare ulteriormente in senso
costituzionalista il testo della legge. Ma una volta che la Commissione affari
costituzionali della Camera diede il suo via libera alla legittimità costituzionale
dell’art. 19, sia le correzioni preparate da Giugni, sia gli emendamenti dei
comunisti volte a svuotare il contenuto “sindacalizzante” dei diritti dei lavoratori,
erano ormai inutili. La questione delle rappresentanze sindacali aziendali (RSA)
istituite nell’art. 19 poneva dubbi in merito alla possibilità di trattare
differentemente altri organismi sindacali in azienda, alla conformità dell’articolo
alla Costituzione e se i benefici riservati agli organismi sindacali fossero in
contrasto con il principio della libertà sindacale sancito dalla Costituzione. Ma il
dubbio di costituzionalità fu chiarito e la successiva crisi di Governo, risolta il 27
marzo, e le prime elezioni regionali, indette per il 7 giugno, ponevano di fronte al
128
nuovo Governo di centro-sinistra organico, un’opportunità politica storica da non
perdere.
Il 20 maggio 1970, con 217 voti favorevoli e 135 astenuti, venne approvata,
senza ulteriori modifiche, la legge n. 300 che istituiva il c.d. “Statuto dei diritti dei
lavoratori” (si veda Appendice doc. n. 3).
129
Introduzione alla II Parte
“Se la legge chiamata statuto dei lavoratori fosse stata priva di rilevanza pratica, probabilmente non avrebbe suscitato le polemiche che ci sono state; se fosse appartenuta al novero delle tante leggi non applicate che appartengono al corpo legislativo della nostra Repubblica evidentemente non avrebbe destato reazioni di amore e di odio. Le ragioni per cui l’effetto dello statuto fu così incisivo vanno certamente riferite alla particolare stagione politica che visse il paese durante e dopo l’emanazione dello statuto.” Gino Giugni, Lo statuto dei lavoratori vent’anni dopo, in “Lavoro de Diritto, n. 2, aprile 1990, p. 179
La seconda parte del lavoro prenderà in esame gli sviluppi della storia
repubblicana dal 1970, anno di approvazione dello Statuto dei lavoratori, ai giorni
nostri. Si cercheranno di intrecciare gli eventi politico-sindacali e socio-economici
più importanti con le vicende storiche della legge 300. La storia dello Statuto sarà
descritta prefigurando una sorta di parabola. Questa parabola venne intrapresa nel
decennio settanta, decennio di massima ascesa dello Statuto. Un decennio d’oro
che coincise con il decennio d’oro del sindacalismo industriale, in cui lo Statuto
riuscì ad affermarsi non solo dal punto di vista giuridico, ma anche su un piano
politico e simbolico di non minore importanza.
Il declino della centralità giuridica e politico-simbolica dello Statuto, può
essere invece rintracciato al principio del decennio successivo, anche in questo
caso in concomitanza con la genesi della crisi del sindacato industriale. Se per la
potente Federazione CGIL, CISL e UIL i c.d. 35 giorni alla Fiat dell’autunno ’80
culminati nella marcia dei 40.000, furono il principio della sua crisi, un anno
prima un altro evento storico, i 41 licenziamenti alla Fiat, inaugurarono la crisi
130
politica e giuridica dello Statuto dei lavoratori. Dopo quella vicenda nulla sarà più
come prima e per tutto il decennio ’80 lo Statuto si ritrovò a fronteggiare un
contesto socio-economico e politico-sindacale in continuo mutamento.
Alla soglia degli anni ’90, nonostante la legge 300 non fu stravolta nelle sue
caratteristiche essenziali, questa sembrava ormai avere molti rami secchi e la
nuova economia post-fordista pareva guardare al mondo del lavoro in una
prospettiva del tutto opposta a quella dello Statuto. Si andava progressivamente
imponendo la “società dei lavori”, in cui il lavoro salariato andava sempre più
stratificandosi in molteplici modalità sfuggenti alle tutele dello Statuto. Come
vedremo, si dovette quindi far fronte ad una sorta di “fuga” dallo Statuto per via
della crisi del concetto di subordinazione su cui la legge 300 aveva impostato le
proprie tutele più caratteristiche. Alla fine del secolo XX, operatori del diritto e
potere politico andavano proponendo un nuovo sistema di diritti con nuovi
approcci di politica del diritto e di politica legislativa rapportati al contesto della
società post-fordista.
Anche in questo caso si è scelto di proseguire il lavoro per decenni, un po’ per
il fatto che le fonti storiche sullo Statuto sono in gran parte rintracciabili nelle
pubblicazioni in occasione delle celebrazioni dei decennali, un po’ perché in
qualche modo le avventure dello Statuto sono facilmente connettibili alle vicende
politco-sindacali che di fatto hanno avuto tra un decennio e l’altro i momenti di
cesura più significativi.
131
CAPITOLO I
GLI ANNI ’70
1.1 Premessa
In questo capitolo ci apprestiamo a descrivere lo sviluppo dello Statuto dei
lavoratori durante il decennio settanta. Effettivamente questo fu il decennio di
miglior salute dello Statuto e ciò non solo per la sua aderenza alla realtà socio-
economica, ma anche per via del valore politico e simbolico che esso assunse. Per
questo nel primo paragrafo del capitolo ripercorreremo il contesto politico e
sindacale degli anni settanta, in cui il movimento operaio e sindacale assunse una
forza mai vista nella storia dell’Italia repubblicana. Dopo l’autunno caldo infatti le
vicende della Repubblica furono dominate dalla centralità del lavoro operaio e
dalla sua azione organizzata sia nel contesto economico che in quello politico-
sociale. Ripercorre i caratteri principali di questa ascesa non solo ci permetterà in
seguito di individuare i fattori del declino, ma soprattutto ci introdurrà nel
contesto in cui lo Statuto si affermò nella realtà sociale del paese. Un decennio
che ha permesso al lavoro di beneficiare di una serie di diritti e di libertà che
hanno rappresentato il tessuto connettivo e simbolico di un intero movimento
sociale. Ciò non fu causa solo della mobilitazione e degli strumenti del conflitto
classici, ma anche dell’entrata in vigore della legge n. 300 che da una parte ha
arricchito l’azione operaia e sindacale grazie alla possibilità di ricorrere al giudice
e dall’altra ha contribuito alla stessa possibilità, per il movimento, di imporsi nelle
vicende più significative del paese, tramite gli strumenti classici del conflitto
industriale. Ciò ha portato lo Statuto ad essere considerato uno strumento
indispensabile e fondamentale a garanzia sia dei diritti individuali del singolo
lavoratore, sia delle organizzazioni sindacali, che da esso derivano. E’ in questi
132
anni che bisogna rintracciare il successo di una legge, considerata non a torto una
delle poche riforme riuscite del decennio, che sino ai nostri giorni, nonostante le
critiche e i grandi cambiamenti degli anni ’80, è ancora vista da molti come una
legge di “civiltà” e in cui sono riposti i favori di larghi strati della società italiana
e non solo del lavoro dipendente e del sindacato. Un’affermazione che non fu
semplice e che fu minata tanto dalle critiche dei settori conservatori della società
italiana, quanto da chi ne propose un uso e un’applicazione alternativa. Ciò risiede
proprio nel carattere policentrico178 della legge e dal contesto in cui è nata. Tali
caratteristiche verranno confermate e sottoposte alla prova dei fatti e quindi
saranno intimamente connesse alle vicende più rilevanti del movimento operaio e
sindacale del decennio.
1.2 Il contesto politico e sindacale del decennio
I primi anni del decennio settanta non hanno affatto comportato un
contenimento della conflittualità operaia e sindacale. Al contrario, le vittorie
dell’autunno caldo hanno fortemente condizionato tutti gli altri settori del
sindacalismo industriale e ciò comportò, per il sindacato italiano, l’assunzione
generalizzata del fattore conflittuale179 come mezzo principale di affermazione nel
contesto sociale e politico del paese. Un ruolo centrale, quello del conflitto, che ha
conquistato anche settori non strettamente operai e industriali, come quello dei
servizi, del pubblico impiego, dei senzatetto, dei disoccupati e degli emarginati in
genere. Spesso in questi settori, nonostante l’esistenza di fattori corporativi,
178 L. Ventura, Lo statuto dei diritti dei lavoratori, cit. 179 Durante la prima metà del decennio le ore di sciopero rimasero piuttosto stabili rispetto a quelle del ’68-’69, oscillando da 85 milioni del 1970 a 92 milioni nel 1975, con picchi di 127 milioni del 1973 in concomitanza dei rinnovi contrattuali del settore metalmeccanico, in G. Crainz, Il paese mancato, cit., p. 432, nota 1. Il volume degli scioperi è quindi cresciuto al tasso 11,55 (ore perse per occupato dipendente), in M. Regini nel saggio Uno sguardo d’insieme ai mutamenti degli anni settanta, in Id., I dilemmi del sindacato, Bologna, Il Mulino, 1981, p. 45.
133
vennero praticate modalità di mobilitazioni mutuate dal settore industriale e ciò
comportò un notevole aumento della sindacalizzazione, soprattutto nel settore del
terziario e del pubblico impiego. Non è possibile rintracciare comunque, in linea
generale, un percorso omogeneo per tutti gli anni settanta. La crisi economica del
1971 e soprattutto del 1973, ha posto il sindacato di fronte a grandi temi, quali
l’occupazione o la politica degli investimenti, come anche la questione
dell’inflazione e quindi della moderazione salariale.
La storia del movimento sindacale del decennio può essere suddivisa in due
periodi principali: quello che va dall’autunno caldo ai rinnovi contrattuali del
settore metalmeccanico del ’73 e il periodo successivo, che si protrae sino alla
svolta dell’EUR e soprattutto alle sconfitte al principio del decennio ’80.
Nonostante questa periodizzazione sia caratterizzata da rilevanti mutamenti nelle
strategie del sindacato nell’arco dell’intero decennio, come ad esempio il ruolo dei
delegati e del consiglio di fabbrica o i diversi approcci di politica rivendicativa, si
può a buon ragione parlare di decennio caldo del sindacalismo italiano, quel
decennio che, tramite l’azione sindacale e il suo mezzo di mobilitazione
principale, cioè il conflitto, simboleggiò il momento più alto della parabola del
sindacato180, ma che allo stesso tempo si fondò su caratteristiche che saranno alla
base della successiva crisi degli anni ’80. Ciò è pacifico per il semplice fatto che il
primo periodo considerato, caratterizzato da un forte potere contrattuale dei
consigli e dei delegati, in cui le lotte aziendali sia sul piano salariale che su quello
dell’organizzazione del lavoro rappresentarono il luogo privilegiato dell’azione
operaia e sindacale, ha notevolmente influito nel caratterizzare anche il periodo
180 A. Accornero, La parabola del sindacato. Ascesa e declino di una cultura, Bologna, Il Mulino, 1992, pp. 47 ss.
134
successivo, tanto che le linee di sviluppo generali entrarono in crisi solo alla fine
del decennio. Il secondo periodo considerato non va visto quindi come una svolta
del movimento sindacale, ma in una prospettiva di transizione verso il vero
cambiamento epocale di fine decennio. Dal ’79 infatti si registrò una battuta
d’arresto di tutto il movimento e vennero poste le basi di una nuova crisi del
sindacato, inaugurata da un vero e proprio “processo al sindacato”181 e confermata
dalla grande sconfitta dell’autunno 1980.
Come abbiamo detto, dunque, i primi anni settanta furono gli anni della
conflittualità permanente, nonostante le autorità politiche cercassero di uscire
dalla crisi con le consuete politiche deflazionistiche e di ridimensionamento della
lotta di fabbrica. Un’epoca in cui il movimento sindacale italiano mostrò tutte le
sue peculiarità rispetto alle esperienze di altri pesi dell’Europa occidentale. In
effetti, “l’onda lunga dell’autunno caldo” allontanò il sindacato italiano dal
modello contrattualista in voga in altri paesi a capitalismo maturo, nel senso che il
contratto veniva assunto non come fine della mobilitazione di classe, ma come
mezzo per ulteriori mobilitazioni e avanzamenti sul piano economico e normativo.
Inoltre c’è da registrare in questa prima fase, un impegno consistente sul piano più
strettamente politico, nella c.d. strategia delle riforme, in un contesto di grande
inerzia del sistema politico e istituzionale di fronte a movimenti sociali portatori
di nuovi diritti e partecipazione. Qui s’inserisce ciò che qualcuno ha descritto con
il concetto di supplenza sindacale o addirittura di pansindacalismo, caratterizzato
dalla centralità delle organizzazioni dei lavoratori come attori sociali del
cambiamento, in supplenza del sistema dei partiti incapaci di raccogliere le diffuse
181 G. Ghezzi, Processo al sindacato. Una svolta nelle relazioni industriali: i 41 licenziamenti Fiat, Bari, De Donato, 1981.
135
domande di affermazione di nuovi diritti e partecipazione. Un impegno via via
crescente soprattutto nella seconda fase, cioè quella dominata da un processo di
parziale stabilizzazione delle relazioni industriali e da una stagione di
moderazione salariale.
Per quanto riguarda la lotta in fabbrica, il primo effetto della forte
mobilitazione della stagione ’68-’73, si ebbe sul piano retributivo: i salari ebbero
una crescita consistente, con un successivo rallentamento a partire dal ’73, dovuto
ad una fase di moderazione salariale per via della crisi petrolifera. Tutta la
mobilitazione attorno al salario fu dominata dal paradigma ideologico
dell’egualitarismo, che certamente fu mutuato dal movimento studentesco. Attore
sociale centrale di tale paradigma fu l’operaio-comune o l’operaio-massa. Nella
prima parte del lavoro abbiamo già descritto il ruolo determinante che questo ebbe
nella stagione spontaneista del ’68 e come il sindacato ne accolse le
rivendicazione nell’autunno ’69, mettendo in discussione il ruolo, da sempre
centrale nella storia del sindacato italiano, dell’operaio specializzato come figura
d'avanguardia sindacale. Negli anni successivi tale strategia fu ulteriormente
messa in pratica. Questa figura d’avanguardia era ormai incapace di raccogliere e
socializzare le domande delle nuove leve operaie. Un declino che era già affiorato
nella stagione conflittuale ’62-‘63, durante la c.d. “riscossa operaia”, ma di cui il
sindacato non si rese conto fino in fondo.182 Dopo il miracolo economico e
l’assunzione generalizzata della catena di montaggio, fu l’operaio comune non
specializzato, spesso giovane e immigrato, ad incarnare la figura tipica della
produzione taylor-fordista. Era dagli interessi immediati dell’operaio-massa che si
182 Emblematiche in questo senso sono le vicende di Piazza Statuto nel luglio 1962.
136
partiva per dare corpo alle principali strategie di rivendicazione salariale, poiché
questo di fatto era stato il più svantaggiato dal rapporto salariale fordista.
“L’operaio comune […] è quello che da un contributo veramente notevole a tutto il processo
produttivo ed ha sopportato il peso maggiore della lotta rivendicativa, ma è anche quello che ha ricevuto i benefici minori […]”.183
Il sindacato che “cavalcava la tigre” dello spontaneismo sessantottino dovette
conseguentemente continuare a dar conto alle consistenti domande di
egualitarismo salariale provenienti proprio dalla figura sociale egemone
dell’operaio comune. Questo rivendicava aumenti salariali e premi di produzione
uguali per tutti a prescindere dalla specializzazione della forza lavoro, in
opposizione al rapporto salariale fordista unilateralmente imposto dalle direzioni
aziendali negli anni ’60 basato sulla job evaluation184. L’autunno caldo fece ben
presto giustizia delle c.d. “zone salariali”, cioè la differenziazione dell’indennità
di contingenza a livello territoriale, concedendo aumenti salariali uguali per tutti.
Le lotte successive si concentrarono nell’eliminazione del “gabbie salariali”:
assunto il paradigma dell’egualitarismo salariale, non c’era ragione di
mantenerle.185 Ma ad ostacolare l’egualitarismo era proprio il sistema di
qualifiche, che di fatto incideva sulla stratificazione stessa della classe operaia,
cioè i differenziali tra capi e operai comuni e tra questi e i quadri aziendali. Inoltre
è in questo campo che i dirigenti sindacali furono più in disaccordo con le spinte
183 U. Romagnoli, T. Treu, I sindacati in Italia, cit., p. 178. 184 Tale sistema stratificava al massimo le qualifiche in base alle numerose posizione nel processo produttivo. Tuttavia spesso le qualifiche non corrispondevano all’effettiva professionalità richiesta all’operaio nell’esecuzione della mansione. Ad esempio nel corso degli anni ’60 alcuni capi-reparto erano qualificati come impiegati di II categoria, ma di fatto ad essi era richiesta una capacità tecnica e una discrezionalità di esecuzione del tutto identica ad un operaio specializzato. La vera differenza stava solo nel fatto che l’uno ordinava e l’altro eseguiva. 185 Abolite le differenze di zone per eguagliare le retribuzioni tra lavoratori del sud e quelli del nord, non erano ancora eguagliate le differenze di indennità di contingenza corrisposte dalle aziende all’interno delle stesse zone. Le indennità infatti non solo erano diverse tra zone del sud e del nord ma esisteva una differenziazione anche all’interno delle zone stesse.
137
spontaneiste della base, per via della vocazione tradizionale di protezione della
professionalità operaia tramite i differenziali di retribuzione.186 Ma una volta
consultata la base e assimilate le proprie rivendicazioni, la visone egualitaria, il
cui perno era l’operaio comune, si tradusse nella richiesta di aumenti salariali
uguali per tutti e nel c.d. inquadramento unico operai-impiegati. Ciò non sarebbe
mai accaduto
se […] la direzione dei processi di costruzione delle piattaforme rivendicative non si fosse
trasferita dagli operai “di mestiere” agli operai comuni (e, in qualche misura, anche agli impiegati medio-bassi), e cioè alle componenti della forza lavoro maggiormente interessate alla prospettiva egualitaria”.187
Le rivendicazioni riguardanti l’organizzazione del lavoro camminavano di pari
passo alla rivendicazione salariale. Sovente venne contestata la sua
parcellizzazione e lo stabilimento unilaterale dei ritmi e delle pause. Ciò accadde
nelle aziende medie e grandi, grazie soprattutto al notevole attivismo dei delegati
e alla loro micro-coflittualità, che di fatto scavalcava il negoziato ufficiale
ponendolo di fronte a continui riassetti. Inoltre il sindacato in questo senso non fu
spiazzato come sulla questione salariale, poiché già da tempo l’elaborazione
teorica si andava focalizzando sugli effetti della catena di montaggio e di questa
rispetto al lavoro vivo. In molte fabbriche il conflitto sulla organizzazione del
lavoro fu imponente, tanto da poter parlare di una nuova “comunità operaia”, cioè
l’emergere di un contropotere operaio quotidiano e di una sua “consultazione 186 In questo senso interessante fu la posizione espressa da Bruno Trentin in un incontro tra le centrali sindacali per mettere a punto le strategie rivendicative del sindacato. Si veda l’articolo apparso su l’Unità il 13 maggio 1969 di B. Ugolini dal titolo Un assise Fiom-Fim-Uilm deciderà le rivendicazioni. Il dirigente sindacale sottolineò come la qualifica fosse un bene dell’operaio e come questa era stata conquistata dopo grandi sacrifici per i lavoratori. Essa doveva essere difesa e fatta pagare ai padroni. In definitiva le qualifiche non dovevano essere distrutte, ma solo rimodellate secondo una “visione operaia” e la corrispondenza “vera” della mansione alla qualifica stessa. Negli stessi termini Trentin si espresse alla Conferenza consultiva della Fiom sul contratto nazionale del ’69, si veda il supplemento “Sindacato moderno”, giu. ’69, pp. 11-12. 187 U. Romagnoli, T. Treu, Il sindacato in Italia, cit., p. 250.
138
permanente”, sulla qualità-quantità di lavoro. Si può a ragione affermare che in
molti casi e per qualche anno, venne superata di fatto l’organizzazione
monocratica e gerarchica della produzione, grazie alla gestione orizzontale e
negoziale della catena di montaggio. Si innescò un proficuo rapporto tra dirigenti
sindacali e attivismo di base, che si incentrava principalmente nell’elaborazione
critica al modello taylorista per così dire “formale”, cioè unilaterale e fino a quel
momento ritenuto scientificamente legittimo. Le rivendicazioni erano incentrate
sulle contraddizioni tra “lavoro vivo” e “sistema di macchina” a cui il sindacato
seppe contrapporre, non certo il superamento della catena e del taylorismo, ma:
[…] una rete normativa che attraverso il complesso sistema di controllo operaio su saturazioni
e cadenze ribaltava il modello “formale” taylorista facendolo funzionare per così dire a rovescio, come “garanzia” operaia anziché come strumento di comando padronale”.188
Nel caso Fiat, emblematico fu l’accordo dell’agosto 1971 che regolò i
controlli da parte dei “comitati sindacali d’azienda” su ambiente di lavoro e
qualifiche, istituendo vincoli generalizzati all’utilizzo unilaterale della forza
lavoro.
Il carattere più rilevante delle lotte di quegli anni fu soprattutto il superamento
delle c.d. clausole di pace sindacale e della più implicita regola “se si lotta non si
tratta” , da sempre imposta dagli imprenditori nelle dinamiche sindacali dei
decenni precedenti. P. Ginsborg così descriveva la situazione nel racconto di
quegli anni:
“[…] le agitazioni operaie risultarono più frequenti che in ogni altro periodo dal tempo della
guerra; ma ciò che ancor di più sconcertava gli imprenditori era il fatto che, a differenza di tutte le precedenti occasioni, anche dopo la firma dei contratti nazionali la pace non tornava nelle fabbriche”.189
188 M. Revelli, Lavorare in Fiat, Torino, Garzanti, 1989, p. 59. 189 P. Ginsborg, cit., p. 431.
139
E’ indubbio quindi come questa fase fu caratterizzata da un netto ribaltamento
del potere contrattuale a favore della classe operaia e delle sue organizzazioni,
rispetto ad un passato in cui il potere padronale veniva interrotto solo da brevi
“riscosse operaie”. La contrattazione aziendale e il conflitto a livello decentrato
delle federazioni di categoria furono il mezzo principale dello stato permanente
della lotta e quindi della forza del sindacato. Spesso infatti, il contratto aziendale
scavalcava lo stesso contratto nazionale. Nel 1971 vennero firmati circa 7.567
contratti aziendali, mentre nel 1968 ammontavano a 3.870. Il cuore del conflitto e
dell’azione sindacale era ormai la fabbrica. Ma allo stesso tempo il conflitto era
capace di varcare i cancelli della fabbrica, per assumere un valore simbolico e
politico per l’intera società:
“L’ambito del conflitto venne pertanto a incardinarsi tutto sulla fabbrica, locus politico e
habitat sociale delle relazioni e delle tensioni fra capitale e lavoro.”190
Si trattava dunque di un’azione sindacale nuova, da cui nacque una vera e
propria cultura del conflitto, il cui perno centrale e di legittimazione risiedeva
nelle nuove rappresentanze di base dei lavoratori, i delegati e i Consigli di
Fabbrica, le figure più consone a rappresentare la grande massa degli operai
comuni. Per tutti gli anni settanta queste figure ebbero uno sviluppo eccezionale,
tanto da rappresentare definitivamente la struttura organizzativa nei luoghi di
lavoro, riconosciuta formalmente non solo delle federazioni industriali di
categoria, ma anche in larga misura dalle confederazioni centrali191. Si può certo
190 A. Accornero, La parabola del sindacato., Bologna, Il Mulino, 1992, p. 92. 191 E’ chiaro che per quanto riguarda le confederazioni il rapporto tra queste e le rappresentanze di fabbrica era dominato da una forte dialettica, per via del sempre forte spontaneismo. Ma nonostante, nel secondo decennio del ’70, come vedremo, tale dialettica si caratterizzò per un
140
parlare di riconoscimento formale senza ombra di dubbio, ma per quanto
riguardava il riconoscimento di fatto, bisogna precisare che le mobilitazioni di
carattere extra sindacale non erano affatto sopite. Molte di queste spinte
rivendicative provenivano, non solo dai comitati spontanei o da coalizioni di lotta
- cioè la c.d. “autonomia operaia” e la sinistra extraparlamentare - ma anche dagli
stessi delegati e Consigli di Fabbrica. Tali mobilitazioni spesso sfuggivano ai
vertici sindacali oltrepassando o approfondendo le loro politiche rivendicative. Un
esempio calzante fu proprio la dialettica tra spinte di base e dirigenze sindacali in
materia di politica salariale basata sull’egualitarismo, descritta precedentemente.
Ma ancor più spesso accadeva che una volta che la lotta di base scavalcava il
sindacato, questo provvedeva a recuperarle, operando di fatto secondo un
riconoscimento successivo.
Il luogo privilegiato di scavalcamento delle politiche rivendicative dei
dirigenti sindacali furono le assemblee, che registrarono in quel arco di tempo,
una frequenza considerevole. Frequentemente questa si trasformò nel luogo di
influenza della linea sindacale ufficiale.
“Per la prima volta, le fabbriche e i reparti divennero i centri intorno ai quali si costruiva
l’azione sindacale e l’attività contrattuale.”192
Lo stesso negoziato fu travolto dalla forte partecipazione della base. In alcuni
casi infatti nelle stesse delegazioni sindacali furono integrati i lavoratori più
militanti, secondo il c.d. negoziato anti-delega, o addirittura ci si trovò di fronte a
consistente accentramento di poteri contrattuali a favore delle confederazioni, grazie all’influenza di queste ultime nel precostituire le liste di candidati da sottoporre ai lavoratori e ad un riaccentramento della contrattazione a favore delle federazioni, il declino di tale forma organizzativa si ebbe solo nel decennio successivo. Nella tenuta del modello organizzativo basato sui consigli di fabbrica e sulla figura del delegato, un ruolo essenziale ebbe ancora una volta la federazione unitaria dei metalmeccanici (FLM). 192 M. Regini, Uno sguardo d’insieme, cit., p. 47.
141
trattative in cui qualsiasi lavoratore poteva partecipare solo in quanto interessato
alla vertenza per il contratto. La prassi delle delegazioni allargate o addirittura di
quelle di massa, aveva il compito di “portare nella trattativa la viva voce della
base, facendola opportunamente pesare nei momenti cruciali, e di rendere
puntualmente edotta la base circa l’evolversi della trattativa stessa, fase per
fase.”193 Il nuovo modello di negoziato, come l’uso consueto delle assemblee,
descrive benissimo le dinamiche reali che spingevano il sindacato-organizzazione
a permettere la partecipazione della base nella conduzione delle lotte e delle
vertenze: queste erano il mezzo più efficace per rafforzare il suo potere di fronte
all’imprenditore.
Fu quindi, come abbiamo detto, la stagione d’oro dei consigli fabbrica e dei
delegati (di reparto, di linea, di squadra), nati tra il ’68 e il ’69. Nel 1972 i consigli
di fabbrica eletti dai lavoratori nelle settore industriale erano circa 6.000, costituiti
da 60.000 delegati, in rappresentanza di quasi di un milione e mezzo di lavoratori.
Le ragioni di tanta fortuna, sono connesse alla maggiore capacità dei delegati di
rappresentare il lavoro nella catena di montaggio, rispetto ad esempio alle vecchie
CI e alle S.A.S. Le prime, pur esprimendo una rappresentanza unitaria della classe
operaia, erano composte secondo la logica rappresentativa delle tre confederazioni
e non riuscirono né a socializzare gli interessi operai, né a ritagliarsi poteri per
incidere sulla condizione operaia di reparto, di squadra o di gruppi omogenei. Le
seconde si rimettevano ad una logica contrattualista e associativa, che rifiutava
l’unità di classe e tutelava esclusivamente i propri iscritti. Al contrario i delegati e
i consigli garantivano al contempo la rappresentanza del lavoro articolato della
193 A. Accornero, La parabola, cit., p. 140.
142
catena di montaggio e la socializzazione nei consigli, momento finale della
rappresentanza unitaria di classe. Il delegato incarnava al contempo la figura di
incipit del conflitto, la rappresentanza della maggioranza dei lavoratori (l’operaio-
massa) e ruolo essenziale della sua gestione, dando vita a svariate forme di lotta
mai intraprese nella storia del movimento operaio.
Fino a questo momento abbiamo usato l’espressione sindacato e non quella di
sindacati, per via di un altro carattere essenziale del movimento sindacale degli
anni settanta, quello cioè di un’alta unità organizzativa e soprattutto di azione
delle tre Confederazioni. La questione dell’unità inoltre fu strettamente legata al
processo parallelo di autonomia dai partiti e dalle istituzioni. Nella prima parte del
lavoro abbiamo ripercorso i momenti storici salienti delle organizzazioni sindacali
sul piano sia delle loro ideologie politiche e organizzative, sia sul piano del loro
rapporto con le istituzioni repubblicane. Dalla CGIL unitaria, antifascista e
“partitizzata”, alla nascita di tre diverse centrali sindacali rispettivamente social-
comunista e classista (CGIL), cattolica e contrattualista (CISL) e repubblicana-
socialdemocratica (UIL). Una fase di bassa mobilitazione e di scarso peso politico
delle Confederazioni fortemente divise nell’unità d’azione e al contempo molto
legate ai partiti di riferimento. Abbiamo anche descritto i processi di parziale
convergenza che si avvicendarono nel corso dei primi anni ’60, stagione della
“riscossa operaia” e dell’affermazione del sindacalismo industriale, ma anche di
come questi tentativi caddero nel nulla con il declino del potere sindacale durante
la metà degli anni ’60. Dalle contestazioni studentesche ed operaie del c.d.
“secondo biennio rosso” il processo unitario, accanto ad una forte autonomia dal
sistema politico, riassunse un vigore straordinario che si protrasse, soprattutto nel
143
settore metalmeccanico, fino alla grande sconfitta nel referendum sulla scala
mobile. Il processo ebbe inizio, anche in questo caso, con la riscoperta dell’azione
di fabbrica e dello spontaneismo nella primavera del 1968. Le maggiori
confederazioni sindacali si accorsero in questa fase della propria debolezza non
solo rispetto al sistema politico, ma anche rispetto agli stessi lavoratori, ormai
decisi a fare tutto da soli. Fu proprio la necessità del recupero194 e del timore di
nuove forme di rappresentanza del mondo del lavoro, a spingere il sindacato a
superare le barriere ideologiche e le divisioni, che erano state la causa principale
della scarsa rappresentanza degli operai nei luoghi di lavoro. Il processo fu
avviato principalmente dalle federazioni dei metalmeccanici, ma ben presto invase
le stesse confederazioni. La nascita della FLM (federazione lavoratori
metalmeccanici) nel 1972 fu il risultato della convergenza tra le elaborazioni
teoriche e culturali delle punte più avanzate del sindacalismo metalmeccanico, la
FIOM e la FIM, a cui partecipò con minor protagonismo anche la UILM. Queste
furono le prime ad avviare un grande processo di autocritica, che avrebbe
comportato necessariamente la messa in discussione delle differenze che per anni
furono la causa della debolezza di fronte al potere padronale e politico. Uno
scambio di idee e culture politico-sindacali fecondo tra la concezione classista
della FIOM e quella autonomista della FIM. L’apertura verso la concezione
classista permise il superamento da parte della FIM della pregiudiziale
anticomunista e l’assunzione di una visione comune della società attraversata da
194 Molti commentatori di quegli anni sottolinearono come “la parola recupero, i suoi sinonimi e derivati, entr[ò] nel vocabolario dei sindacalisti, martellante come un’ossessione”, in U. Romagnoli, T. Treu, I sindacati in Italia, cit., p. 178.
144
una insanabile dicotomia tra capitale e lavoro.195 D’altro canto la FIOM acquisì il
principio dell’autonomia del movimento sindacale dai partiti, mettendo in
discussione la visione marxista del primato del partito nella guida politica della
classe operaia, ben descritta dalla teoria della cinghia di trasmissione. Un
“collateralismo” rispetto ai partiti intrinsecamente presente in tutto il movimento
sindacale e non solo nel sindacato socialcomunista. In effetti, nonostante il fatto
che nella CISL e soprattutto nella FIM il valore dell’autonomia rispetto ai partiti
entrò a far parte nel proprio bagaglio culturale già dai primi anni sessanta, diversi
dirigenti confederali della CISL avevano mantenuto cariche politiche in
Parlamento e nelle Amministrazioni locali196. Per la UIL fu ancora più difficile,
vista la presenza al suo interno di una numero maggiore di differenti estrazioni
politico-culturali. Alla fine l’incompatibilità tra cariche sindacali e politiche fu
inserita negli statuti delle organizzazioni e praticata realmente, andando al di là
delle semplici dichiarazioni d’intenti. Ciò portò nel 1972 alla nascita della
Federazione CGIL-CISL-UIL.
Grazie all’unità ritrovata e alla forte autonomia dal sistema dei partiti, il
sindacato italiano assunse in questi anni un ruolo centrale nella società italiana, un
ruolo di superiorità rispetto ai partiti e un certo senso di supplenza rispetto ad essi,
nel progresso sociale e istituzionale. L’azione conflittuale quindi non si esaurì nei
luoghi di lavoro, ma ebbe la capacità di varcare i cancelli delle fabbriche per
raccogliere la sfida delle riforme sociali. In effetti i rapporti tra sindacato e
195 La CISL, al contrario, era nata e si era sviluppata, proprio in contrapposizione al classismo della CGIL, sulla base di una concezione sindacale di tipo anglosassone, dove era chiara la visone funzionalista e ideologica delle industrial relation. 196 Per i leader della CGIL, la militanza politica era oltre che un’opportunità, anche un dovere. Mentre per quelli della CISL era essenzialmente un potere ulteriore da utilizzare nella contrattazione e nelle correnti interne alla DC.
145
sistema politico negli anni settanta furono connotati da “un fatto nuovo nella
storia del dopoguerra: la logica tradizionale sembra[va] essere invertita nel senso
che per la prima volta l’iniziativa del mutamento [era] in larga misura del
movimento sindacale”.197
Ma ricercare le cause del nuovo rapporto tra sindacati e sistema politico e
istituzionale esclusivamente nelle dinamiche interne al sindacato, sarebbe certo
riduttivo e quindi condurrebbe ad un’analisi parziale. Alla forza organizzativa e di
mobilitazione in sé del sindacato, si aggiunse l’incapacità del sistema politico di
rispondere alla crisi di legittimazione inaugurata dalla contestazione studentesca e
protrattasi nel decennio ‘70. Il sistema politico, anche dopo l’apertura/chiusura a
sinistra degli anni sessanta, si trovò quindi a dover ristrutturarsi di nuovo di fronte
alla richieste di riforme sociali provenienti da larghi strati della popolazione,
operaia e non. Ma la situazione politica fu dominata ancora una volta dalla
confusione e dai nervosismi interni alle maggioranze di Governo. Lo statuto dei
lavoratori, come abbiamo visto, non fece eccezione e fu varato, da una parte
grazie alla grande opera politica e professionale di personalità di Governo,
dall’altra dalla pura e semplice paura della rivoluzione sociale che aveva
indubbiamente spostato l’asse politico verso sinistra, nell’intento di recuperare
potere sociale.
“Sia la DC che il PSI, i principali membri della coalizione, non potevano non tener conto dei
fermenti sociali in atto o scegliere la strada della repressione o del puro immobilismo”198
Certo non si può non ricordare l’inizio di quella che fu chiamata la “strategia
della tensione”. Le vicende successive allo scoppio della bomba a Piazza Fontana
197 T. Treu, Sindacati e sistema politico, in “Democrazia e Diritto”, 1979, n. 1, XIX, p. 38. 198 P. Ginsborg, cit., p. 442.
146
nel dicembre del ’69, dimostrarono che all’interno delle istituzioni covavano
rancori e mire reazionarie che principalmente erano dirette alla repressione dei
movimenti operai e sociali e favorevoli ad una svolta autoritaria e
antidemocratica.199 Apparati dello Stato e forze neo-fasciste clandestine e non200
furono spesso coperte dalle stesse forze politiche al Governo, con la tecnica dell’
insabbiamento dei processi, volta a sfruttare la situazione per contenere le spinte
di cambiamento sociale.
Tuttavia non si può negare che alcune componenti e personalità di Governo,
cercarono di intraprendere una strada verso le riforme politiche e sociali, seppur
goffa, insufficiente e non programmata201. Queste corrisposero alla domanda di
partecipazione e di riforme sociali richiesta da operai e studenti, ma il divario tra
questi e le istituzioni politiche fu ancora molto alto e le riforme presto si
rivelarono inefficienti a risolvere le più urgenti questioni sociali.202 Il sindacato
ebbe un ruolo essenziale nella lotta per le riforme come per la questione della
casa, nel settore sanità, in quello scolastico e dei trasporti. La sindacalizzazione di
settori non operai fu rilevante e le mobilitazioni diffuse, ma i risultati abbastanza
deludenti. Sembra che ciò che mancò fu un governo deciso, affidabile e
disinteressato a varare riforme per recuperare la centralità del ruolo dei partiti. Per
199 Nel marzo del 1971, grazie a inchieste giornalistiche ben documentate, si venne a sapere che nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970 il principe Junio Valerio Borghese, comandante della X Mas durante la RSI, tentò un colpo di stato, con l’appoggio di alcuni settori dell’esercito e deputati del MSI. 200 Nei giorni successivi alla strage nacque un numero consistente di gruppi di azione neo-fascista che operarono per tutto il decennio settanta. Questi andavano da militanti dell’MSI a centinaia nuclei clandestini o semiclandestini. Secondo uno studio sugli episodi di violenza in quegli anni, il peso dei neo-fascisti tra il 1969 al 1975 fu stabile su una media dell’85%. In D. Della Porta e M. Rossi, Cifre crudeli. Bilancio dei terrorismi italiani. Bologna, 1984, p. 25 201 Ad esempio oltre allo Statuto dei lavoratori, la riforma delle pensioni, la legge sul divorzio, la legge sulla casa, l’istituzione delle regioni e l’introduzione del referendum popolare. 202 Per un ampia critica alla stagione delle riforme nei primi anni ‘70 si veda sempre P. Ginsborg, cit., pp. 441 ss., G. Crainz, Il paese mancato, cit., pp. 419 ss.
147
questo le riforme o non furono varate, o vennero strutturate su logiche clienterali e
di spartizione del potere. D’altro canto anche le forze d’opposizione, ancora
escluse dalle compagini governative, si dimostrarono poco propositive e
coordinate con le forze sociali. Il PCI in molti casi si trovava in disaccordo con le
Confederazioni sindacali che guidavano la mobilitazione, per il timore di perdere
il ruolo di principale riferimento dei movimenti sociali. In effetti il PCI fu il primo
a cercare una connessione con i nuovi movimenti sociali, per guidarli in sede
politica e per recuperare un rilevante calo di consensi. Ma il conflitto sociale
culminato dell’autunno caldo e nella conflittualità permanente stava comportando
sì un aumento dei consensi verso il PCI, ma allo stesso tempo un rafforzamento
consistente del movimento sindacale che andava progressivamente guadagnando
robusti spazi di autonomia dallo stesso PCI. Il rapporto privilegiato che il
sindacato andava assumendo con alcune branche delle istituzioni preoccupava in
parte anche il PCI. Infatti mentre la mobilitazione sociale cresceva, ci si accorgeva
sempre più che le riforme dovevano coinvolgere le istituzioni, in un senso più
democratico ed efficiente. Per questo in molti casi i settori più progressisti interni
alle istituzioni vedevano con simpatia la mobilitazione sociale per le riforme e
quindi lo stesso movimento sindacale.
“Ne [fu] la prova la spinta verso il pluralismo istituzionale sconosciuto nella nostra tradizione,
visibile sia nella creazione di canali istituzionali nuovi, centrali e decentrati (in primo luogo le regioni), per la espressione delle istanze sociali, sia nella apertura delle strutture esistenti alla partecipazione e al controllo delle forze sociali [come il sistema giudiziario]. Il sindacato è stato, oltre che il protagonista, il beneficiario maggiore di queste aperture istituzionali.”203
Dal ’73 ci fu, come abbiamo sopra indicato, un mutamento di strategia
nell’azione del sindacato. Le cause di questo cambio sono da imputare soprattutto
203 T. Treu, Sindacato e sistema politico, cit., p. 40.
148
alla straordinaria crisi economica causata dal rincaro dei prezzi del petrolio e delle
materie prime. Inoltre già dalla fine del decennio ’60, si andava delineando una
congiuntura internazionale negativa, contraddistinta da una parte dalla instabilità
del sistema monetario e dalle oscillazioni del prezzo dell’oro, dall’altra
dall’emergere di una forte concorrenza nel commercio internazionale, proveniente
dall’industria giapponese e da un numero crescente di multinazionali.204 La
congiuntura internazionale fu inoltre aggravata dalla fine dei cambi fissi e della
convertibilità del dollaro nel 1971. L’aumento del costo del petrolio nel 1973
arrivò quindi in un contesto già sufficientemente incerto a livello internazionale
ed esso “giunse a tal punto da far temere una crisi altrettanto violenta come quella
degli anni Trenta”205. Sul piano interno, l’aumento del costo del lavoro e della
rigidità della forza lavoro, vennero scaricati principalmente sui prezzi. Le misure
recessive messe a punto dai governi, non comportarono una espulsione della
manodopera e una diminuzione del costo del lavoro, anzi l’iniziativa operaia e
non, sembrava imporre, da una parte una forte rigidità di utilizzo della forza
lavoro, grazie al potere di questa nel negoziarne l’utilizzo fino a quel momento
unilaterale delle direzioni aziendali, dall’altra un aumento generalizzato dei salari
anche nei settori non operai del pubblico impiego e del terziario. Nella
Confidustria, guidata ancora da settori fortemente conservatori, la maggior parte
degli imprenditori del settore privato reagirono attaccando i sindacati,
provvedendo al ritiro degli investimenti e a decentrare la produzione. Ciò
comportò la crescita di un rilevante settore economico “illegale” di piccole
imprese a cui le grandi demandavano la lavorazione di beni. E’ in questa fase che 204 V. Castronovo, Storia ecnomica d’Italia. Dall’ottocento ai giorni nostri, Torino, Einaudi, 1995, p. 489. 205 Ivi, p. 490.
149
bisogna rintracciare la nascita della nostra consistente “economia sommersa” che
si svilupperà ulteriormente nei decenni successivi. Qui all’assenza dei sindacati e
alla mancanza di tutele previdenziali, si accompagnava l’utilizzo di forme
contrattuali part-time e di lavoro a domicilio. Inoltre si fece largo uso della Cassa
Integrazione Guadagni per ridurre personale, così da contribuire ulteriormente
all’aumento della spesa pubblica, già in ascesa per l’aumento delle spese per
sanità, educazione e assistenza sociale. Tuttavia una minoranza di imprese
pubbliche e private, tra cui la Fiat e l’Alfa Romeo, ebbe una posizione più cauta
rispetto al potere sindacale e alla crisi economica successiva. Una posizione già
manifestata nel periodo più duro di mobilitazione, cioè quello ’68-‘73206. Questi
mantennero alti gli investimenti e spesso li concordarono con i sindacati. Così
intervenne G. Agnelli all’assemblea degli azionisti nel 1975 in occasione della
presentazione del disastroso bilancio relativo all’anno precedente:
“Abbiamo deciso di pagarlo [questo prezzo] […] per legittimare, con la responsabilità dei
nostri comportamenti, la richiesta di comportamenti altrettanto responsabili da parte di Sindacati e Governo, la ricerca costruttiva d’una definizione di ruoli atta a far uscire il paese dalla crisi ed a mantenerlo nella grande corrente del progresso europeo.”207
Una posizione, quella di Agnelli, che andava anch’egli predicando da tempo e
che avrebbe contribuito al superamento del c.d. modello vallettiano della Fiat,
modello a cui numerosi dirigenti del gruppo riponevano ancora molte delle
proprie speranze di uscita dalla crisi socio-economica.208 Lo stesso Agnelli
206 Nel 1971 il segretario generale dell’Intersid Giuseppe Gislenti, pur criticando il sindacato per aver ceduto al ricatto delle frange estremiste della mobilitazione, fece sapere, in un’intervista rilasciata a Federico Bugno per “il Mondo” il 10 gennaio, che “da parte sua, l’Intersid cercherà comunque di rendere compatibili le esigenze poste dalle organizzazioni sindacali con quelle dell’economia di mercato”, in G. Berta, L’Italia delle fabbriche, cit., p. 205. 207 M. Revelli, cit., p. 64. 208 Per uno sguardo d’insieme alle dinamiche interne alla direzione aziendale Fiat durante l’autunno caldo e successivamente nel dibattito per il rilancio del gruppo Fiat, si veda ancora G. Berta, L’Italia delle fabbriche, cit., pp. 210 ss.
150
assunse nel ‘75 la presidenza della Confindustria, segnando la vittoria non solo
della linea riformista, ma anche di quella contraria alle posizioni di rendita
dell’industria di Stato.
Ma l’industria italiana, oltre ad essere attraversata da una forte mobilitazione
sociale nelle fabbriche, scontava anche la presenza di annosi problemi mai risolti
del sistema economico nostrano. L’inflazione divenne galoppante, grazie ad un
disavanzo pubblico e all’eccessivo indebitamento degli enti previdenziali. Il ruolo
degli imprenditori era continuamente minato, mentre il governo non riuscì a
mettere a punto una seria politica economica per combattere l’inflazione. Tra mini
riprese e vittorie sindacali, nel ’73 grazie alla svalutazione della lira e all’aumento
dei costi per l’importazione del 70%, la crisi petrolifera fu dirompente. L’Italia
ben presto si trovò a fronteggiare l’inflazione più alta delle economie occidentali,
a ripiombare nella recessione dopo anni di ascesa e a dover affrontare una
disoccupazione diffusa. In una situazione economica del genere, il sindacato non
poté non reagire e cambiare strategia, ma al contempo consolidare e difendere il
proprio ruolo sociale e politico. Ormai il potere politico e sociale che era riuscito a
ritagliarsi grazie al recupero, gli affidava responsabilità non solo di fronte ai
propri rappresentati, ma anche di fronte all’intera società italiana. Il cambio di
strategia fu simboleggiato da due accordi interconfederali del gennaio 1975 sulla
Cassa Integrazione Guadagni e sul punto unico di contingenza. Due accordi
chiaramente difensivi che, connessi all’accentramento rivendicativo, da una parte
scaricarono sulle casse dello Stato le ristrutturazioni aziendali delle aziende in
crisi e dall’altra vanificarono la lotta autonoma della base per gli aumenti salariali,
agganciandoli automaticamente all’inflazione galoppante. Il recupero era ormai
151
consolidato ed un primo carattere di cambiamento di strategia fu proprio quello di
privilegiare il rapporto con le istituzioni a spese di quello con la base. Ciò avrebbe
limitato rivendicazioni offensive e alimentato politiche rivendicative di tipo
difensive. Dal rapporto base-vertice-base, si tornava al più centralistico vertice-
base-vertice. A farne le spese furono necessariamente i poteri di contrattazione di
base, cioè i Consigli di Fabbrica e i delegati. Questi ultimi cominciarono ad essere
eletti sulla base di liste già predisposte dalle strutture sindacali provinciali e di
categoria. I consigli invece furono spodestati di molti poteri di contrattazione
diretta e riemerse la pratica delle contrattazione con deleghe in bianco, con
successiva ratifica da parte dei lavoratori. I poteri si concentrarono nelle mani
degli Esecutivi dei Consigli di Fabbrica, sempre più composti da attivisti a tempo
pieno. Questi divennero il perno centrale del sindacato in fabbrica, con il compito
essenziale di mediare tra la base e le strutture. E di conseguenza riaffiorarono
divisioni partitiche ed ideologiche, che di fatto rallentarono il processo di unità del
movimento. Insomma la grande stagione conflittuale ’68-’73 non risolse per
sempre la dialettica tra organizzazione e base, poiché “il potenziamento delle
strutture propriamente sindacali di fabbrica, tollerando una presenza organizzativa
collaterale” aveva, in questo momento, lasciato il passo “all’inglobamento [e al
controllo] delle nuove forme di rappresentanza […].”209 Ma i consigli non
vennero affatto superati come modello organizzativo e continuarono ad avere
un’espansione considerevole per tutto il decennio: nel 1977 il numero dei Consigli
di Fabbrica arrivò a 32.000 unità, quello dei delegati eletti a 206.336, per un totale
209 G. Romagnoli, Consigli di fabbrica, cit., 98
152
di 5.188.818 lavoratori interessati.210 Ciò che mutò fu il rapporto tra vertice e
base, che necessariamente influenzò tutta la strategia di lotta del sindacato nei
luoghi di lavoro, dando un potere determinate ai tecnici del conflitto, individuabili
negli Esecutivi dei Consigli di Fabbrica, cioè nei “pochi che contano”, secondo
una loro accezione negativa in voga tra i gruppi extraparlamentari. Per di più
molti attivisti che avevano partecipato alla precedente stagione conflittuale, si
dimisero dai Consigli, per via della loro delusione e disaffezione alla lotta, dando
un ulteriore impulso al riaccentramento confederale. A quanto pare quindi,
l’espansione dei Consigli è da imputare ad un maggiore impegno dei vertici
sindacali nel diffonderli, pur ridimensionandone i loro poteri autonomi.
La crisi economica e la reazione padronale tramite la riduzione degli
investimenti e il ricorso alla Cassa Integrazione spostarono quindi la lotta fuori
dalla fabbrica, portando il sindacato a perseguire principalmente “l’esigenza […]
di difendere la forza e la capacità di durata dell’organizzazione […] rispondendo
con lotte più generali o politiche, […] accentra[ndo] o sposta[ndo] fuori dalla
fabbrica la sua azione.”211 D'altronde lo stesso statuto della Federazione CGIL-
CISL-UIL, sottoscritto nel ’72, rimase ambiguo sulla “questione consigli”,
soprattutto se confrontato con la bozza presentata nel ’69 dai sindacati
metalmeccanici.212 Gia nel ’72 infatti il processo di unificazione organica subiva
una battuta di arresto e le confederazioni optarono invece per la formula
“federazione” a scapito di quella “scioglimento”, previsto dagli accordi
precedenti. Di un diverso approccio rivendicativo, più centrato nella lotta fuori
210 S. Coi, Sindacati in Italia: iscritti, apparato, finanziamento, in “Il Mulino”, 1979, n. 262, p. 209. 211 M. Regini, L’autunno caldo e i primi anni settanta come momento di svolta e di transizione, in Id., I dilemmi del sindacato, cit., p. 76. 212 Si veda U. Romagnoli, T. Treu, I sindacati in Italia, cit., p. 182.
153
dalla fabbrica, una prova fu l’istituzione dei consigli di zona, concepiti per
coordinare la lotta di fabbrica con quella nelle grandi città. Ma tali consigli spesso
vennero usati dai partiti, soprattutto dal PCI, per riassumere la guida delle lotte
sociali, con la pratica della composizione proporzionale rispetto alle forze dei
partiti. La conseguenza principale di questo cambio di strategia, che a buon
ragione può essere visto come una “strategia organizzativa del sindacato”, fu una
diminuzione delle vertenze aziendali o una conduzione più controllata di queste;
una razionalizzazione del conflitto e politicizzazione dell’azione sindacale, che
non potette non incidere sulla forza del sindacato organizzazione, aumentando
ulteriormente il potere a livello sociale e di fabbrica, tramite un processo di
burocratizzazione e politicizzazione delle strutture esterne ai luoghi di lavoro. Si
assistette quindi alle c.d. rivendicazioni di ritorno e di transito213 dopo le sconfitte
della stagione delle riforme, che porteranno rispettivamente agli accordi sui piani
di investimento nel Mezzogiorno214 e all’istituzione delle “150 ore”, per colmare
il divario tra lotte di fabbrica e riforma delle strutture scolastiche. Anche le forme
di lotta e il negoziato sembrarono essere meno forti e incidenti nella realtà
rivendicativa. Si tornò a proclamare scioperi generali di poche ore o scioperi
nazionali di categoria. Nel negoziato spesso si dichiaravano al principio gli
obbiettivi rinunciabili e le delegazioni allargate non furono più utilizzate. La
213 Sui diversi tipi di rivendicazioni praticate dal sindacato nel periodo ’73-’78, si veda G. P. Cella, Le difficoltà della rivendicazione: cinque anni di azione sindacale 1973-1978, in “Il Mulino”, 1979, n. 262, p. 159 ss. 214 In quegli anni ci fu la c.d. seconda ondata d’investimenti nel Mezzogiorno, questa volta di grandi industrie private, tramite la Cassa del Mezzogiorno. In questa fase le imprese in crisi sfruttarono al massimo gi incentivi e in molti delocalizzarono i propri impianti e rinnovarono la gamma dei prodotti in concomitanza con la sempre maggiore diversificazione del consumo. Questo tipo di politica aziendale fu spesso oggetto di accordi sindacali. Il decentramento Fiat degli anni ‘70, che fino a quel momento aveva incentrato il suo sviluppo esclusivamente nel Piemonte e soprattutto a Torino, la c.d. città-fabbrica, rappresenta un esempio lampante. Per quanto riguarda il processo di decentramento della Fiat, D. Cersosimo, Da Torino a Melfi. Ragioni e percorsi della meridionalizzazione Fiat, in “Meridiana”, 1994, n. 21, pp. 35 ss.
154
stagione del recupero sembrò segnare il passo di fronte al consolidamento delle
strutture e prova ne fu la riluttanza da parte delle confederazioni ad assumere e
generalizzare l’unica forma di lotta emergente, cioè l’autoriduzione delle tariffe e
la disubbidienza civile. Nonostante un livello ancora alto di scioperi, la natura del
conflitto mutò necessariamente: essa diventò sempre più dimostrativa e sempre
più attenta a non causare danni alla produzione o fratture politiche. Inoltre si
posero le basi della crisi del ruolo centrale dell’operaio-massa e la domanda dei
lavoratori si stratificò maggiormente. In alcuni casi gli impiegati rifiutavano di
scioperare o presentavano piattaforme rivendicative autonome, mettendo in atto
delle lotte corporative. Gli stessi lavoratori comuni iniziarono a disertare le
assemblee e ad avere una repulsione viscerale verso il lavoro di fabbrica. La
mediazione, per così dire politica, del conflitto tra aperture delle direzioni e vertici
sindacali, incise sulla stessa capacità degli operai di sentirsi in un comune destino
da costruire e ciò portò inevitabilmente nel riflusso individuale.
“Fino a qualche tempo fa si gridava, nei cortei, negli scioperi, tutti insieme; adesso si
bisbigliava, a piccoli gruppi, come sulla piazza del mercato”215
Nella nuova composizione qualitativa della forza lavoro, nessuna figura di
lavoratore riuscì ad imporsi come modello aggregante d’interessi e la grande
quantità di forza lavoro comune andava ormai diminuendo, dato che questa fu la
prima ad essere stata colpita da ristrutturazioni e riconversioni produttive. Ciò che
mancò in quegli anni fu “quella straordinaria corrispondenza fra trasformazioni
negli elementi che costituiscono l’azione sindacale (composizione della forza
lavoro, le forme di organizzazione, gli obbiettivi, le forme di lotta) ed esigenze
215 Testimonianza di un operaio Fiat citato da M. Revelli, cit., p. 70.
155
complessive del movimento rivendicativo che aveva caratterizzato il ciclo di lotte
1968-1972”.216 Ma sul piano politico il sindacato fu il principale interlocutore dei
governi e consolidato attore sociale di contrattazione con gli imprenditori.
Sul piano politico il PCI scontava gli anni del c.d. “immobilismo dignitoso” e
della supplenza sindacale, che in un certo senso fu la causa nella nascita della
nuova via assunta dalla segreteria Berlinguer nel ’72 del “compromesso storico”,
da lui proposto per la prima volta a cavallo tra il ’73 e il ‘74. La proposta era
fortemente interconnessa alla strategia della tensione e all’inasprirsi della violenza
politica neofascista e dei primi nuclei terroristi di sinistra. Berlinguer ritenne che
la forte instabilità sociale e l’incapacità dei governi stava contribuendo a far
crescere varie forze conservatirici ed eversive della destra, che auspicavano già da
anni una svolta reazionaria per impedire il processo di avanzamento sociale e di
rinnovamento democratico delle istituzioni auspicato dalle masse popolari e
appoggiato dagli ambienti progressisti. Agitando lo spettro di una soluzione
cilena217, auspicava una unità di azione politica e governativa, tra i grandi partiti
popolari che avevano condotto la liberazione nazionale: PCI, PSI e DC. Tra l’altro
la svolta a destra delle elezioni anticipate del 1972 fu la prova di una reazione
dell’asse politico e la prova che PSI e PCI non potevano sperare di governare
raggiungendo il 51% dei consensi.
Ma se il primo obbiettivo del compromesso storico fu quello di isolare e di
denunciare le spinte eversive e la violenza neofascista, un chiaro messaggio fu
recapitato alla montante violenza di sinistra e a quei gruppi clandestini che già dal
216 G. P. Cella, Le difficoltà della rivendicazione, cit., p. 162. 217 L’intervento del segretario del PCI apparso su “Rinascita” il 28 settembre del ’73, avvenne in concomitanza con il colpo di stato in Cile del generale Pinochet e la caduta del governo social-comunista di Allende.
156
‘73 diffondevano propaganda per la lotta armata e che volevano imprimere un
accelerazione della storia verso la rivoluzione che tardava ad arrivare.218 Inoltre
con il perdurare della crisi economica, la proposta di compromesso storico, si
nutrì di una forte opposizione al consumismo capitalista, per promuovere una
società in cui lavoratori avrebbero dovuto assumere uno stile di vita austero nella
speranza che i sacrifici dei lavoratori non sarebbero stati vani. Furono questi i due
fattori critici, la fiducia verso la DC e il tema dell’austerità, che di fatto minarono
la riuscita del compromesso storico. Nonostante la fiducia di Berlinguer riposta
nella capacità di apertura della DC alle riforme sociali e ad una politica etica,
questa al contrario andò per tutto il decennio occupando e trasformando lo Stato
“divenendo il partito conservatore e capitalista italiano, e come tale la vera antitesi
del progetto di Berlinguer.”219 Nel suo interno molte erano le anime conservatrici
e ostinate a perpetuare il proprio potere con le pratiche clienterali. Solo alcuni
personaggi, tra cui Moro, auspicavano l’entrata nel governo del PCI, ma
prendendo a modello l’esperienza dell’apertura a sinistra degli anni sessanta verso
il PSI. Una versione totalmente diversa dalle trasformazioni strutturali e dalla via
al socialismo auspicata da Berlinguer. Si arrivò solo ai c.d. governi di unità
nazionale, con l’appoggio esterno di PSI e PCI al governo Andreotti, in cambio
della stesura comune del programma, ma senza nessun Ministro nel governo per i
partiti della sinistra. Era una soluzione di coalizione inedita, l’unica per i partiti di
sinistra per incidere in qualche modo nella grave situazione di crisi. E fu praticata
218 Proprio nel 1973 alcuni gruppi rivoluzionari si sciolsero e molti attivisti scelsero la clandestinità. E’ chiaro che da quel momento, le Brigate Rosse, fondate nel 1970, andavano ingrossando le proprie file e a passare dalla propaganda armata ai sequestri di persona: proprio nel giorno di insediamento di Agnelli alla presidenza di Confindustria ci fu il rapimento del giudice Sossi. 219 P. Gisborg., cit., 481.
157
nonostante un’opposizione interna sia nel PSI che nel PCI e sia nel movimento
sindacale, che auspicavano una nuova unità a sinistra e uno sbocco genuinamente
riformatore delle lotte degli anni ’70. Dopo due governi di unità nazionale, il
progetto politico del compromesso storico, che in definitiva fu una delle poche
operazioni politiche di rilievo nella politica italiana degli anni settanta, venne
distrutto dalle vicende del rapimento Moro.
La strategia di compromesso del maggior partito di opposizione e quella di
consolidamento e burocratizzazione del sindacato, aprirono entrambi spazi di
manovra per quelle organizzazioni rivoluzionarie clandestine che avevano fatto la
scelta della lotta armata. Alcuni dei fondatori delle Brigate Rosse provenivano
direttamente dall’esperienza giovanile nel PCI, che in questa fase non garantiva
più la sua opposizione ai governi centristi. Inoltre, nonostante il rafforzamento
delle strutture sindacali nelle fabbriche, in quelle più grandi andò montando quel
riflusso verso l’individualismo e il rifiuto del lavoro, che andò intaccando i tessuti
comunitari di classe. Fu in questo solco che alcuni operai infiltrati o frustrati
iniziarono la loro ultima sfida, questa volta con i mezzi della violenza verso i
quadri dirigenti e tecnici delle aziende. Il declino progressivo della capacità di
mobilitazione autonoma e di possibilità di incidere direttamente sulla produzione,
che era stata alla base delle costruzione delle “comunità operaie” nelle fabbriche,
assieme all’entrata nelle fabbriche di una nuova leva operaia sempre più
secolarizzata che rifiutava il lavoro di fabbrica in tutti i suoi aspetti, portò ad un
riflusso verso l’individualismo in cui si inserì la sfida terrorista di accreditarsi
come unico “partito operaio”, quello armato. Alla Fiat, tra il ’75 e l’79 furono 16
tra dirigenti, funzionari, capi-reparto e sorveglianti, i feriti dalle azioni
158
terroristiche delle B.R e di Prima Linea. Come vedremo nel prossimo capitolo,
proprio dalle vicende menzionate partirono i licenziamenti per 61 operai che
aprirono il “processo al sindacato”, cioè quell’effetto boomerang che si riversò
contro il sindacato e di cui la tenuta politica e simbolica dello Statuto risentì
considerevolmente.
1.3 L’affermazione dello Statuto tra uso alternativo e
razionalizzazione
Se nel descrivere il contesto sindacale e politico si è parlato di decennio caldo
e addirittura indicato gli anni ’70 come gli anni in cui si raggiunse il punto più alto
della parabola del sindacato, lo stesso si potrebbe affermare del primo decennio
di vita dello Statuto dei Diritti dei Lavoratori, che in questo lasso di tempo visse la
stagione più importante della sua trentennale esistenza. Se il ruolo sociale e
politico assunto dal movimento operaio e sindacale fu in questi anni il più alto mai
raggiunto nella storia dell’Italia repubblicana, ciò fu dovuto anche grazie agli
effetti e all’efficacia della legge 300 e al nuovo modello di relazioni industriali di
cui esso fu portatore. Il largo favore politico e giuridico dello Statuto nelle
vicende sindacali e del lavoro di quegli anni infatti, venne messo in discussione
solo a partire dal 1979, in concomitanza con i primi segnali della crisi sindacale e
in generale del mondo del lavoro edificato sul modello fordista. Sulla stessa linea
interpretativa, anche la stagione di ascesa politica e giuridica dello Statuto, si
realizzò grazie a fattori differenti, che oggi ci permettono di delineare due fasi
principali in cui si concretizzò il decennio d’oro della legge 300.
La prima fase fu quella dell’affermazione socio-politica dello Statuto e la si
può indicare nel lasso di tempo ’70-’73. In un contesto socio-sindacale altamente
159
conflittuale, il movimento operaio e sindacale, nonostante critiche provenienti “da
sinistra” e “da destra”, investì la legge di un forte valore simbolico per alimentare
la spinta alla mobilitazione, affermare gli stessi diritti sanciti dalla legge e
rispondere alla forte domanda di giustizia proveniente dai lavoratori. L’apporto
della legge all’affermazione dei diritti dei lavoratori e del movimento sindacale,
non fu solo effetto della sua applicazione giudiziaria per reprimere quelle
situazioni che di fatto bloccavano la costituzione ai cancelli delle fabbriche, ma
anche e soprattutto per un effetto indiretto, cioè extragiudiziale. E’ indubbio
quindi che il contenuto della legge incise anche indirettamente e
indipendentemente dall’applicazione dei giudici, grazie ad un comportamento per
così dire indotto delle direzioni aziendali a non praticare atti vietate dalla legge.
Per quanto riguarda l’uso e l’applicazione in sede giudiziaria in un periodo
dominato ancora da forti spinte di base dei lavoratori, queste spesso furono
diversificate e non rette da una linea omogenea e generale. In questa lotta per la
giustizia infatti, ad un uso che a buon ragione si direbbe mosso da una logica
organizzativa del sindacato, si affiancò, come vedremo, un uso di tipo
extrasindacale, che ebbe notevoli appoggi sia in dottrina che nella giurisprudenza.
La seconda fase fu invece caratterizzata dalla stabilizzazione e
dall’affermazione giuridica della legge nella società italiana, che da una parte ne
aumentò l’uso più accorto da parte del sindacato secondo una più forte logica del
rischio organizzazione e dall’altra stabilizzò notevolmente il dibattito tra gli
operatori del diritto e tra questi e il movimento sindacale. In questa seconda parte,
nonostante si ravvisarono dei temi su cui lo Statuto non riusciva ad incidere, lo
160
Statuto completò la sua opera di inserimento nel nuovo sistema di relazioni
industriali edificato dall’autunno caldo.
Fu poi sul finire del decennio che lo Statuto entrò in crisi, in un processo di
accerchiamento politico ed ideologico a cui si affiancò una non perfetta aderenza
alla realtà socio-economica in continua evoluzione. Una non perfetta aderenza che
iniziò a svelare le prime rughe e che inaugurò i primi dibattiti per il suo
superamento/abolizione degli anni successivi.
Torniamo ai primi anni di applicazione dello Statuto. Questo fu visto dalle
forze sindacali e operaie come una potente sanzione normativa da affiancare
all’azione conflittuale nei luoghi di lavoro, come abbiamo visto, in quegli anni
dominata dall’aggettivo permanente. In questo senso la legge 300 non fu affatto
un punto di arrivo delle lotte dell’autunno caldo e non rappresentò affatto una
cesura, ma al contrario si presentò come un punto di partenza220, per sempre
maggiori avanzamenti verso il miglioramento dei diritti dei lavoratori e delle
proprie organizzazioni. Tutto ciò non solo per disattendere “i tentativi in atto, in
numerose fabbriche, e in numerosi settori del lavoro, di riporre in discussione le
conquiste dell’autunno scorso e in particolare quelle relative ai diritti del
sindacato e alle libertà del singolo lavoratore”221 - nonostante lo Statuto sia legge
dello Stato - ma anche per estendere alle “zone deboli” della mobilitazione,
conquiste niente affatto acquisite.
“Bisogna ricordare […] che non tutte le fabbriche né tutte le zone del nostro Paese hanno la
stessa capacità di lotta; alle più deboli la nuova legge porta un non indifferente contributo. In queste zone una battaglia per l’applicazione dello Statuto può essere l’occasione di una loro
220 G. Vinay, Lo “Statuto”: un punto di partenza, in “Rassegna sindacale”, 1970, n. 188-189. 221 P. Boni, Applicare e far applicare lo statuto dei lavoratori, in “Rassegna sindacale”, 1970, n. 194
161
maggiore sindacalizzazione […]. Il sindacato dovrà quindi condurre in prima persona tale battaglia politica”222
Nelle parole degli esponenti sindacali fu subito chiaro il valore simbolico e
politico dello Statuto che, indipendentemente dal suo uso giudiziale, avrebbe
dovuto comportare un allargamento dei diritti dei lavoratori e del ruolo dei
sindacati nei luoghi di lavoro. In effetti in questi anni i lavoratori
indipendentemente dall’intervento degli organi giudiziari, riuscirono a
generalizzare la conquista di molteplici diritti individuali e collettivi, non solo
nelle zone calde della mobilitazione, ma anche nelle c.d. zone periferiche del
conflitto, abbracciando anche larghe fasce del lavoro non industriale. Ciò non solo
per l’elevata coscienza dei propri diritti che i lavoratori andarono assumendo, ma
anche per lo sforzo delle organizzazioni sindacali nel rappresentare le istanze
provenienti da larghi settori del mondo del lavoro. Ed è chiaro che la diffusione di
massa del testo dello Statuto con i relativi commentari, da parte delle
organizzazioni e il riporre in questo un alto valore di civiltà, contribuì molto anche
in questo senso.223
In questi anni si fece anche un largo uso da parte dei lavoratori e delle
organizzazioni sindacali della legge di fronte alla magistratura e quindi
dell’intervento del diritto eteronomo, complementare all’azione autonoma dei
lavoratori e del sindacato, nonostante la storica diffidenza verso i giudici dello
Stato. Un uso non solo individuale e di apporto legale ai singoli lavoratori per
raccogliere la loro forte domanda di giustizia, ma anche un uso più
222 G. Vinay, cit. 223 Nell’articolo di P. Boni, risalente ai mesi successivi all’approvazione della legge, egli notava che erano già state distribuite circa 250.000 copie e che provenivano al sindacato continue richieste.
162
specificatamente sindacale (Titolo III dello Statuto e art. 28), soprattutto per
estendere il controllo organizzativo anche nelle “zone deboli” del movimento dei
lavoratori, in una prospettiva “garantistica”, ma soprattutto di sindacalizzazione.
Si andava prefigurando quindi l’intenzione del sindacato all’uso giudiziale dello
Statuto secondo la logica organizzava, prefigurata da una politica giudiziaria che
si traduceva in un impegno del sindacato all’uso della legge in una prospettiva di
sindacalizzazione e di estensione delle strutture sindacali e quindi di crescita del
ruolo sociale e politico nelle Paese. Lo Statuto quindi non solo fu complementare
alla stagione della coscienza e della mobilitazione autonoma del movimento
operaio nei luoghi di lavoro, ma accrebbe quantitativamente l’utilizzo della
mediazione giudiziaria nei conflitti di lavoro224 e con esso l’intervento
generalizzato del sindacato nei luoghi di lavoro.
Di converso le parole di Vinay sembrarono anticipare le difficoltà di rapporti
tra gli attori principali della legge: i lavoratori e le strutture sindacali e di questi
con gli operatori del diritto. Per quanto riguardava la relazione tra lavoratori e
strutture sindacali, questa fu dominata da un forte senso dialettico, per il semplice
fatto che il rapporto tra le due linee di politica del diritto di cui consta la legge -
cioè il sostegno del legislatore alle confederazioni sindacali nei luoghi di lavoro
(Titolo III e art. 28) e la “protezione delle situazioni soggettive di base che
costituiscono il tessuto connettivo del fenomeno sindacale” (Titoli I e II) – risulta
essere dominato da una “dialettica, sconosciuta alle corrispondenti legislazioni
224 T. Treu, Azione sindacale e nuova politica del diritto, in L’uso politico dello Statuto dei lavoratori, Bologna, Il Mulino, 1975, p. 17. Qui il giuslavorista sottolineava come dall’entrata in vigore dello Statuto, la quantità dei conflitti di lavoro gestiti in sede giudiziaria cresceva notevolmente, diversamente al numero stabile dei conflitti in sede civile, pur in un contesto di forte vitalità della società civile italiana.
163
sindacali straniere, che avrà un seguito nella fase di applicazione giudiziaria”.225 Il
Parlamento infatti, aggiungendo numerosi articoli al disegno di legge Brodolini o
modificandone alcuni, individuò “le situazioni - rilevanti da un punto di vista
sindacale - che la legge riconosce direttamente non alle associazioni (cioè al
sindacato in quanto “vertice”) ma ai singoli lavoratori (cioè al sindacato in quanto
“base”)”.226 E, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, nonostante il
recupero, il sindacato in quanto “base” in questi anni ebbe un’elevata attività in
continua dialettica con il sindacato in quanto “vertice” e ciò, per quanto riguarda
lo Statuto, non avrebbe ridotto a sintesi il suo carattere policentrico. Tutta
l’applicazione dello Statuto fu quindi minata dalla tensione tra la difesa
individuale o di “base” del lavoratore e dei suoi diritti e quella collettiva e di
“vertice” dell’organizzazione. Fu una tensione che oscillò continuamente,
pendendo ora verso una burocratizzazione dell’uso degli strumenti preposti dallo
Statuto, ora verso un uso più spontaneo, secondo le spinte della base non sempre
coincidenti con le posizioni del sindacato-istituzione, soprattutto per quanto
riguardava le confederazioni. Come dire che, se su piano sindacale furono gli anni
del recupero, lo Statuto rappresentò un fronte ulteriore e nuovo in cui effettuare il
recupero. Infatti molti comitati di base e consigli di fabbrica fecero un largo uso
della legge anche senza l’appoggio del sindacato, facendo leva sia sulla parte dello
Statuto che attribuiva diritti in capo al singolo lavoratore, sia cercando di
attribuirsi quei diritti preposti a sostegno delle organizzazioni sindacali ufficiali,
grazie all’apporto politico e giuridico di comitati di avvocati e giuristi e anche di
225 U. Romagnoli, T. Treu, I sindacati in Italia, cit., pp. 87-88. 226 P. Martinelli, Interesse collettivo, interesse individuale, interesse sindacale nello Statuto dei lavoratori, in “Quale Giustizia”, 1972, n. 15/16, pp. 347, 348.
164
giudici aperti ad un “uso alternativo del diritto”.227 Questa linea di tendenza si
connetteva ad ambienti politico-sindacali e giuridici che sin dai primi mesi di vita
dello Statuto ne criticarono le lacune e risvolti politici “da sinistra”. La peculiarità
di tale visione stette nel fatto che, nonostante questi ritennero lo Statuto una
“brutta” legge (perché la sua applicazione avrebbe comportato un arretramento dei
diritti dei lavoratori, violando di fatto alcuni diritti costituzionali e comportato un
raffreddamento del conflitto228) essi fecero un largo degli strumenti forniti dallo
Statuto. Ad essere messi sotto accusa furono praticamente tutti gli articoli dalla
legge, specialmente quelli previsti nel Titolo III, perché colpevoli di espropriare i
diritti di libertà conquistati con le lotte per attribuirli alle organizzazioni sindacati
o riconsegnarle in mano ai datori di lavoro. Proponevano quindi un’applicazione
alternativa allo spirito della legge denunciato, che riuscisse a difendere le lotte dei
lavoratori dalle repressioni nei luoghi di lavoro. Fu subito chiaro al sindacato che
il difficile recupero che si andava intentando nelle fabbriche, avrebbe aperto un
altro fronte del tutto nuovo, su cui si sarebbero potute aprire fratture. Attorno a
questa visione si raccolse tutta la sinistra extraparlamentare, gruppi operaisti e
rivoluzionari della “nuova sinistra” che andavano proliferando nella società e
nelle fabbriche durante la strategia della tensione, perché unita dalla
considerazione che “ogni legge borghese, e anche lo Statuto, debbono e possono
essere usati nell’interesse della classe operaia ogni volta che ciò sia possibile”229.
L’esperienza di maggior rilievo dell’uso “rivoluzionario” dello Statuto fu quello
227 P. Barcellona (a cura), L’uso alternativo del diritto, Laterza, 1973. 228 Comitato di difesa e lotta contro la repressione, Uno “Statuto” per padroni e sindacati, in “Quaderni Piacentini”, 1970, n. 42, pp. 75 ss. 229 Id., Statuto dei lavoratori e legislazione sulle fabbriche. Linee di un bilancio politico, in “Critica del Diritto”, 1972, n. 2, p. 60.
165
del Comitato di difesa e lotta contro la repressione: un gruppo di avvocati e
giuristi milanesi protagonisti del sessantotto studentesco. Il Comitato riteneva:
“l’utilizzazione delle strutture legali e giudiziarie un momento necessario di lotta politica non
riformista, in quanto consente di sfruttare una delle istituzioni più contraddittorie del sistema democratico-borghese […]”230
In questa prospettiva il processo e la vertenza in genere, possedeva uno “stile”
d’intervento alternativo, in quanto momento parallelo di una più larga lotta
politica. L’uso dello Statuto fu quindi sempre collegato ad una lotta
corrispondente che si andava attuando nella fabbrica, in un senso di sostegno
esterno alla lotta. Le aule giudiziarie e i palazzi di giustizia spesso venivano
invase da decine di lavoratori come apporto fisico alla lotta. Altre volte la
pressione rimaneva fuori dalle aule, ma presente nei pressi dei Palazzi di
Giustizia. Un metodo per far sentire il peso della vertenza di fronte al giudice.
Romano Canosa, un giudice del lavoro di Milano, così descrisse quegli anni:
“Gli operai arrivavano in massa, alle volte addirittura in corteo, qualche volta anche nei
corridoi della pretura con gli striscioni e le bandiere. […] In genere gli operai ascoltavano in silenzio, salvo rumoreggiare quando i rappresentanti delle aziende la sparavano grossa o quando i legali di queste si lasciavano andare a qualche manifestazione di livore antioperaio […]”231
Per gli avvocati della “nuova sinistra” anche una sconfitta poteva essere utile,
l’importante era che la vertenza fosse guidata dagli stessi protagonisti della lotta
in fabbrica arricchendo il conflitto di una sede diversa e insolita per l’operaio,
quindi di rottura degli schemi consolidati nel sistema giudiziario. E’ chiaro che il
momento tecnico della vertenza fu fortemente subordinato a quello politico.
L’avvocato e il giurista quindi dovevano calarsi nella situazione politica della
230 Ivi., p. 65 231 R. Canosa, Storia di un pretore, Torino, Einaudi, 1978, p. 43
166
vertenza, valutarne il rapporto di forze in gioco in un rapporto dialettico tra
tecnica giuridica e richiesta di giustizia dei lavoratori.
L’uso rivoluzionario dello Statuto ebbe molto successo soprattutto nelle aree
di forte mobilitazione di base, cioè nel triangolo industriale, mentre non ebbe
fortuna nelle zone di basso conflitto e dove era presente un sindacato vecchio e
istituzionalizzato. L’azione di questi gruppi fu varia e soprattutto alternativa. Una
di queste è sicuramente incentrata sul tema dell’organizzazione del lavoro e
soprattutto della nocività facendo leva sugli artt. 9 e 13 dello Statuto. Alle
Commissioni Paritetiche e Ambiente e alla delega alle strutture sanitarie
pubbliche essi riuscirono ad affiancare inchieste autonome dei Consigli di
Fabbrica e la partecipazione diretta degli operai alla verifica delle condizioni di
lavoro, con l’aiuto di gruppi di tecnici e ingegneri direttamente individuati dagli
operai e non dal sindacato. Fu il caso della Cartiera Binda e di alcuni reparti
dell’Alfa Romeo a Milano. Un altro terreno privilegiato fu quello della Cassa
Integrazione e delle sospensioni dal lavoro per via di forme di contestazione
fortemente dannose per i datori. In molti casi infatti le grosse aziende ricorrevano
alle sospensioni e alla messa in Cassa Integrazione di chi scioperava in un reparto
“a valle” poiché i reparti “a monte” erano impossibilitati a continuare la
produzione. L’utilizzo da parte del comitato e dei gruppi informali dell’art. 28
formalmente di uso esclusivo del sindacato232, fu la via privilegiata per far cessare
comportamenti antisindacali. Alcune di queste sentenze furono addirittura
confermate in appello. La richiesta di sanzionare atteggiamenti antisindacali e
232 In una tavola rotonda promossa dalla redazione di “Quaderni di Rassegna Sindacale” P. Boni, in quel momento segretario aggiunto CGIL, dichiarò in risposta alle affermazioni di G. F. Mancini, “Non si fanno cause sull’art. 28 se non sono autorizzate da noi”, in Sindacato e politica del diritto, in “Quaderni di Rassegna Sindacale”, 1974 ,n. 46, p. 17.
167
l’uso dell’art. 28, si verificò anche per i casi di ristrutturazione a cui i lavoratori,
spesso senza l’appoggio del sindacato, risposero con la mobilitazione per la
conservazione del posto. Fu il caso del trasferimento nel ‘72 da Milano alla
provincia di Bergamo di un’azienda tessile dal nome Crouzet, di proprietà di una
multinazionale francese, dove negli ultimi anni c’era stata una forte
sindacalizzazione delle maestranze, in prevalenza donne. La mobilitazione in
difesa del posto fu forte e al di fuori dagli schemi del sindacato (questi avevano
optato per una gestione contrattata della ristrutturazione). La lotta venne condotta
quindi da un CUB informale successivamente costituito degli operai. Alle lotte
questi affiancarono il ricorso in giudizio, per far dichiarare illegittimi sia i
licenziamenti di alcune operaie, sia la ristrutturazione, mosse entrambi da un
volere antisindacale della direzione. Il Pretore accolse le istanze degli operai.
Questo fu un caso emblematico in cui il sindacato poteva essere scavalcato
dall’iniziativa di base degli operai, con un utilizzo radicale dello Statuto. Tuttavia
fu anche un esempio di come attuare il recupero. Infatti successivamente in
appello la Corte dichiarò illegittimo il parere del Pretore, sostenendo l’inesistenza
di una procedura per i licenziamenti collettivi scaturiti da ristrutturazioni
aziendali. Le proteste si inasprirono ulteriormente e gli operai occuparono la
fabbrica. A questo punto il sindacato tessile prese in mano la situazione e ricorse
direttamente in sede giudiziaria secondo l’art. 28 e l’antisindacalità delle decisioni
aziendali furono nuovamente accertate. Fu un formidabile esempio di
superamento della dialettica tra interesse collettivo del sindacato e interessi
soggettivi della base, sfociati in una sintesi prefigurata da un interesse
168
sindacale233. Veniva cioè superata quella cautela che investiva le strutture
sindacali.
Il sindacato infatti privilegiava un uso limitato dello Statuto, percependo
l’azione giudiziaria come estrema ratio e indipendente all’azione rivendicativa
perché “il ricorso del sindacato al giudice a scopi di repressione dell’attività
antisindacale dell’imprenditore equivale ad un riconoscimento della propria
debolezza organizzativa e politica nei luoghi di lavoro”234 E ciò a maggior ragione
dove il sindacato era storicamente radicato, cioè nelle “zone rosse”, in cui
privilegiava una conduzione dei conflitti in sede contrattuale e di ricomposizione
del conflitto per evitare fratture di tipo politico. In queste zone il ricorso allo
Statuto fu il più basso d’Italia per tutto il decennio. Inoltre il sindacato con lo
Statuto fu investito di un ruolo che lo poneva di fronte ad un organo dello Stato da
sempre ostile alle istanze dei lavoratori, soprattutto in tema di sciopero. E ciò
investiva il più generale rapporto tra sindacato e diritto eteronomo.
“La necessità del processo esprime pertanto e rende evidente dei ritardi, delle insufficienze,
spesso degli errori della organizzazione sindacale nella propria azione, e quindi il discorso si sposta necessariamente e torna alla politica del diritto, a una politica cioè che renda sempre meno frequente la necessità del processo”235
Anche una volta che il sindacato conquistò, grazie allo Statuto, un
investimento particolare dalle istituzioni, in esso riaffioravano ancora le memorie
di sconfitte su sconfitte e di un atteggiamento ostile della magistratura - che aveva
sempre rappresentato un corpo estremamente conservatore - che contribuì alla
debolezza degli anni ’50 e ’60 di tutto il movimento sindacale. Al contrario dei
233 P. Martinelli, cit. 234 U. Romagnoli, Una nuova politica giudiziaria, in “Politica del Diritto”, 1972, n. 3-4, p. 363. 235 Le parole sono di B. Cossu, legale della FLM, nell’intervento alla tavola rotonda Sindacato e politica del diritto, cit., pp. 13-14.
169
gruppi di base, per le grandi confederazioni sindacali si pose il problema di una
vera e propria politica giudiziaria, che comprendesse al contempo il rapporto con
la base e quello con gli operatori del diritto. Il rischio organizzazione era quindi
rivolto sia verso lo spontaneismo e i gruppi rivoluzionari, sia verso i giudici, che
con le loro sentenze avrebbero potuto mettere in discussione la forza assunta con
l’azione rivendicativa.
E’ su questo fronte che il sindacato invece riuscì in questi anni a saldarsi con
larghe fasce della magistratura, nel contesto italiano di forte declino dei partiti e
della figura emergente del giudice dissenziente. Il ruolo trainante del dissenso
giudiziario fu assunto dall’associazione dei Magistrati Democratici. Magistratura
Democratica (MD) nacque nel 1964, dalla crisi della cultura giuridica e del
parziale rinnovamento dell’organizzazione giudiziaria della Repubblica. Si erano
conclusi gli anni del rinnovamento delle strutture giuridiche e di applicazione
della Costituzione, con l’istituzione della Corte Costituzionale (1956) e del
Consiglio Superiore della Magistratura (1959). Ma “le ricadute sul sistema
giustizia, peraltro, furono inizialmente limitate, anche perché, nei primi anni
sessanta, arrivarono ai più alti gradi dell’organizzazione giudiziaria, non pochi
magistrati di diretta derivazione fascista.236 A ciò si aggiunse una forte
organizzazione burocratica della carriera, che di fatto rendeva la magistratura
ancora altamente omogeneizzata al potere politico, relegando il ruolo del giudice
in una posizione non autonoma rispetto alle ideologie dominanti, sorretto
dall’irrealistico dogma dell’apoliticità del giudice. Ciò si realizzava nella
repressione dei reati di opinione, nella gestione autoritaria dell’ordine pubblico e
236 L. Pepino, Appunti per una storia di magistratura democratica, in “Questione Giustizia”, 2002, n. 1.
170
delle libertà civili. Lavoratori e sindacati, come abbiamo visto nella prima parte
del lavoro, furono le prime vittime di tale sistema di gestione della giustizia. E’
contro questo tipo di gestione che nasceva MD, nell’intento di democratizzare
l’organizzazione della giustizia e dotarla di strumenti efficaci a proteggere i
cittadini e i loro diritti costituzionalmente garantiti.237 Ma nel 1969, la vicenda
interna della mozione Tolin238 (supra, I parte, p. 147) si risolse con una scissione
a destra e con una radicalizzazione dell’associazione, in concomitanza con
l’autunno caldo. Con bomba la Piazza Fontana e l’inaugurazione della strategia
della tensione, MD assunse l’incarico di portare la contestazione di vecchi
schematismi e degli atteggiamenti autoritari delle istituzioni, direttamente
all’interno della magistratura italiana.239 Da allora le “contro-inaugurazioni”
dell’anno giudiziario, le proposte di referendum per l’abolizione dei reati
d’opinione, politici e sindacali e la ricerca di un legame con le forze politiche e
sindacali di opposizione, resero esplicito il dissenso sociale della figura del
giudice. Il dissenso sociale diffuso nella società italiana in crisi e la sfiducia verso
i partiti al governo, investì quindi anche larghe schiere delle istituzioni e tra questi
i giudici. Di fronte alla crisi di rappresentanza dei partiti e all’incapacità di questi
di gestire la contestazione, emergeva dunque la figura del giudice che sostituiva il
sistema istituzionale di garanzia delle libertà costituzionali dei cittadini e questo
con all’appoggio della più grande realtà politica e organizzativa della società
civile: il sindacato dei lavoratori. Ciò rese la politicizzazione del giudice ormai
237 Per le prime linee programmatiche di MD, si veda il documento presentato alle elezioni del 1964 per il rinnovo degli organi dell’Associazione Nazionale Magistrati, in “La magistratura”, 1964 settembre-ottobre, n. 9-10. 238 La mozione è pubblicato sul sito di MD www.magistraturademocratica.it 239 Su un’analisi generale della dialettica politica all’interno della magistratura italiana fino alla prima metà degli anni settanta, si veda R. Canosa, P. Federico, La magistratura in Italia dal 1945 ad oggi, Bologna, Il Mulino, 1974.
171
una maturazione storica. E se il conflitto ebbe in quegli anni il luogo privilegiato
nella fabbrica e il tema principale inscritto nelle aspirazioni dei lavoratori,
l’intervento del giudice in questo campo fu di primaria importanza. Crescita della
domanda di giustizia e i conseguenti processi di declino del potere politico,
sempre più incapaci di rispondere alle aspirazioni della società civile
“[…] comporta[rono] un allargamento generale degli spazi di relativa autonomia delle varie
istituzioni pubbliche, che assu[nsero] funzioni più o meno di supplenza. La magistratura si presta ad occupare con un ruolo specifico alcuni di questi spazi lasciati vuoti, perché [dovrebbe essere] l’istituzione separata per eccellenza […]”240
Quale strumento migliore dello Statuto per incidere e sviluppare la lotta per il
cambiamento di Magistratura Democratica? E fu in questo solco aperto dalla
legislazione di sostegno e di riconoscimento garantista dei diritti dei lavoratori,
che si inserì l’opera di quei giudici che vedevano nell’applicazione dello Statuto
un vero e proprio contropotere del giudice rispetto al potere padronale241 e allo
stesso tempo una loro affermazione sociale in supplenza al potere politico. Tutto
ciò in una situazione politica e sociale, che attribuiva al giudice il dovere di
conoscere il sistema di fabbrica e i rapporti tra lavoratori e sindacati, sempre
connotati da una vivacissima situazione conflittuale.
“[…] l’intensità della frequenza dei contatti conflittuali tra le parti collettive delle relazioni
sindacali, accresciute dai caratteri della nostra situazione sindacale, moltiplicano le occasioni e la complessità degli interventi mediatori del giudice e lo costringono ad attivare inusitate risorse politiche di comprensione dei meccanismi e dei contenuti del conflitto del lavoro”.242
240 T. Treu, Azione sindacale e nuova politica del diritto, cit., p. 28. 241 G. F. Mancini, Il contropotere dei giudici: contenuto e limiti, in “Politica del Diritto”, 1972, n. 3-4, pp. 367. 242 G. Montera, L’applicazione giurisprudenziale dello Statuto e la cosiddetta “giurisprudenza alternativa, in C. Smuraglia (a cura di), Lo Statuto dei lavoratori dieci anni dopo, Milano, Unicopli, 1981, pp. 215-16.
172
Essendo i diritti dei lavoratori, il più grande dei tasselli di un mosaico di
“interessi diffusi della società”243 (ecologia, tutela del consumo,…), il giudice del
lavoro assunse una centralità inedita nel contesto degli anni ’70. Ma lo Statuto
aveva carattere policentrico ed esso era soggetto a una diversa interpretazione e
applicazione, che richiedeva valutazioni politiche al di là della tecnica giuridica.
Se poi a questo si aggiungeva il fatto che “la domanda di giustizia che lo Statuto,
direttamente o indirettamente incanala[va] verso il giudice sia già di per sé carica
di politicità (se non addirittura di istanze politiche antagonistiche), a causa dei
caratteri, prima ricordati, del contesto politico-sindacale da cui proviene, si
comprenderà come quella domanda non possa essere “trattata” con gli schemi
logici con cui tradizionalmente il giudice applica le norme”.244 E su questo aspetto
che i pretori aderenti a MD incisero profondamente in sede di applicazione dello
Statuto, non solo favorendo il ruolo del sindacato nei luoghi di lavoro anche
periferici del conflitto, ma anche rimuovendo tutti gli ostacoli che di fatto
impedivano l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori - sindacalizzati e non,
spontaneisti o moderati - all’organizzazione politica, economica e sociale del
Paese (art. 3 Cost.). Romano Canosa, parlando della sezione lavoro del tribunale
di Milano nel biennio ’70-‘72 ricordò:
“Eravamo in dieci, tutti aderenti a MD, tranne uno il quale, anche se “moderato”, non si
discostava di molto dagli altri nei contenuti delle sue decisioni. […] l’intento di utilizzare lo statuto, nella misura più ampia consentita dalle sue norme, comune a tutti. Comune a tutti era anche la disponibilità verso quanto di nuovo stava accedendo nelle fabbriche, tutto di nuovo, di provenienza sindacale ortodossa o dei gruppi della “nuova sinistra”.245
243 S. Rodotà, Le due liberalizzazioni, in “Politica del Diritto”, 1971, pp. 189 ss. 244 G. Montera, cit., p. 222. 245 R. Canosa, Storia di un pretore, cit., p. 47.
173
Su questa linea interpretativa dello Statuto si collocano molte delle
acquisizioni di tutto il movimento operaio e sindacale, dimostrando di fatto che lo
Statuto lungi dall’essere solo un mezzo “per ricondurre i poteri dell’imprenditore
in una stretta finalizzazione delle attività produttive”246 e far entrare nella fabbrica
il sindacato-istituzione, possedeva al suo interno notevoli appigli giuridici efficaci
per la trasformazione dello stesso assetto gerarchico e organizzativo dell’impresa,
lasciando larghi spazi anche all’iniziativa e alle aspirazioni operaie e sindacali dei
gruppi informali. Una giurisprudenza, soprattutto pretorile, concentrata nelle zone
più avanzate del sindacalismo di tipo nuovo, ma che riuscì a influenzare e a
generalizzare acquisizioni nient’affatto scontate.
“Non bisogna infatti dimenticare il peso rilevante delle componenti di resistenza al nuovo
modello di relazioni industriali, quali i settori più arcaici del padronato, certamente non minoritari, almeno numericamente, la vecchia cultura giuridica ancorata alla rigida astrattezza dei sistemi giuridici, le fasce più arretrate della magistratura depositarie di poteri gerarchici all’interno del corpo, all’uso dei quali non si è fatto a meno di ricorrere per “epurare” pretori colpevoli solo di una rigorosa applicazione giuridica dello Statuto”247
Una di queste fu sicuramente lo sciopero, non regolato ma protetto dallo
Statuto. Si affermò nella giurisprudenza, la visione storicamente data dello
sciopero e intimamente legata alle scelte strategiche del movimento dei lavoratori
in una società democratica e pluralista. Alle rappresaglie padronali contro gli
scioperi a scacchiera e a singhiozzo, come anche contro l’innovativa lotta
dell’autolimitazione dei ritmi dei lavoratori a cottimo, questi risposero con
l’applicazione evolutiva dell’art. 28 ritenendole antisindacali e liberando il
movimento dei lavoratori dai quei lacci sulle modalità di lotta che stavano alla
246 G. Suppiej, Il potere direttivo dell’imprenditore e i limiti derivanti dallo statuto dei lavoratori, in AA.VV., I poteri dell’imprenditore e i limiti derivanti dallo statuto dei lavoratori, atti del IV Congresso di Diritto del Lavoro, Milano, Giuffrè, 1972, p. 26. 247 G. Montera, cit., pp. 229-30.
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base della sua debolezza passata. Nella stessa prospettiva va vista la riscoperta
dell’art. 700 del c.p.c., che permetteva il ricorso al pretore qualora un diritto
riconosciuto fosse minacciato da un pregiudizio “imminente e irreparabile”. Tale
articolo fino a quel momento, fu utilizzato solo in materia di concorrenza sleale,
locazioni,…e la sua adozione nel processo del lavoro permise di accorciare i
tempi del processo. Ciò da una parte contribuì a dare soluzione parziale ad una
delle cause principali della sfiducia delle classi subalterne verso la giustizia e
dall’altra di dotare i lavoratori di un efficace strumento giuridico per evitare le
rappresaglie nei momenti di rivendicazione e disinnescare così contraccolpi alla
strategia di lotta adottata. Esso fu applicato in relazione alla reintegrazione in caso
di licenziamento (art. 18), nell’assegnare le mansioni originarie al lavoratore
trasferito indebitamente in un altro reparto (art. 13) e contro i trasferimenti
illegittimi applicando la lettera dell’art. 28. Lo stesso art. 700 c.p.c. fu un
importante mezzo per rendere effettivo il diritto alla reintegra sancito dall’art. 18
ed evitare che il regime di stabilità reale fosse di fatto inapplicato.248 In materia di
licenziamenti fu anche usato l’art. 612 c.p.c., utilizzato per rimettere forzosamente
in azienda il lavoratore retribuito ma non riammesso al lavoro. Sempre in materia
di licenziamenti, si affermò la giurisprudenza che ritenne illegittimo il
licenziamento disciplinare in violazione delle procedure riguardanti il potere
disciplinare previste dall’art. 7. Anche in materia di trasferimenti, la
“giurisprudenza alternativa” fece registrare molti casi in cui il pretore disponeva
svariati strumenti conoscitivi per valutare l’effettiva “genuinità” dei trasferimenti
248 Tutti i commentatori e le indagini sui primi anni di applicazione dello Statuto, sottolineavano la scarsa applicazione del regime di stabilità reale e registravano invece la pratica diffusa dell’indennizzo del lavoratore licenziato. Su tale aspetto si veda l’interessante sondaggio di M. Fidanza, M. Magnani, Domanda di giustizia ed uso dello Statuto: un sondaggio a Monza, in “Quaderni di rassegna sindacale”, 1974, n, 46, pp. 124 ss.
175
e valutare la presenza di atteggiamenti discriminatori (art. 15). Inoltre bisogna
sottolineare la capacità di trovare mezzi adeguati per far fronte alle lacune dello
stesso Statuto in materia di licenziamenti collettivi conseguenti alle
ristrutturazioni aziendali. Lo stesso si potrebbe dire del loro approccio verso l’uso
indiscriminato della CIG, come “strumento silenzioso al servizio della
ristrutturazione dell’azienda, il mezzo non sospetto per creare disoccupazione
slittante, l’artificio che uccide la lotta”.249
Da questo punto di vista quindi l’opera della “giurisprudenza alternativa” e di
MD in particolare, fu molto utile al sindacato per disinnescare i fattori
potenzialmente destabilizzanti dell’uso dello Statuto da parte delle forze
spontaneiste e rivoluzionarie, in una prospettiva di recupero anche in sede
giudiziaria degli attendismi che hanno caratterizzato l’atteggiamento del sindacato
nella prima fase di attuazione dello Statuto. Molte di quelle conquiste furono
acquisite dal sindacato e praticate anche nella seconda fase, anche se queste
avrebbero potuto minare il ruolo politico e sociale delle confederazioni. Tanto che
da parte padronale qualcuno affermò che
“La legge di sostegno ha colto quindi il sindacato in un momento di cambiamento di identità e sviluppo, ancora sensibile ai contraccolpi emotivi dello “spontaneismo” e alla ricerca di modi stabili per organizzare il consenso che, in ogni caso, stava rapidamente perdendo le connotazioni originarie. […] Con tali premesse, appare comprensibile il motivo per cui il movimento sindacale non ha accolto la proposta imprenditoriale, subito dopo l’approvazione della legge, di aprire una fase di negoziati intesi a conferire concretezza operativa ai molti enunciati normativi contenuti nella stessa legge che risultano formulati in modo tale da renderne problematica l’applicazione e che richiedevano pertanto indirizzi interpretativi unitari.”250
249 M. Pedrazzoli, Il compagno pretore e le lotte operaie, in “Politica del Diritto”, 1972, n. 3-4, p. 377. 250 G. Randone, intervento al Seminario di Studi 29-30 Aprile 1974, L’esperienza dei primi anni di applicazione dello statuto dei lavoratori, 1974, Roma, Fed. Naz. Cavalieri del Lavoro, p. 73.
176
Prendendo spunto da questa citazione, che tuttavia porterebbe a conclusioni
che escluderebbero un’analisi delle dinamiche interne al sindacato, si può a buon
ragione affermare che la dialettica tra movimento di base e organizzazione
sindacale, ancora molto forte nella prima fase di applicazione, fu presente anche
nell’uso dello Statuto, poiché permesso dal carattere ambivalente della legge e
quindi dalla sua aderenza alla realtà sociale. Di fronte ad uno strumento nuovo,
come quello giudiziario, il sindacato, impegnato nel consolidare il recupero sul
fronte delle politiche rivendicative e organizzative, fu obbiettivamente
impreparato nell’elaborare un’unitaria politica giudiziaria e ciò anche per il
rapporto con la dottrina e la magistratura. Fu questa che, grazie ai rinnovamenti
interni, ad una nuova autonomia sociale rispetto al potere politico e soprattutto
grazie alle punte più progressiste di tale processo, riuscì da una parte a dare
risposte alla forte domanda di giustizia proveniente dalle situazioni soggettive del
movimento dei lavoratori e dall’altra a porre le basi per attuare le intenzioni
principali della legge: quella di affidare al sindacato-istituzione il ruolo
privilegiato di rappresentante generale della classe operaia. Senza l’apporto
giurisprudenziale di questo filone della magistratura difficilmente la legge sarebbe
stata vista in generale come una delle più aderenti alla realtà sociale e quindi
realmente “riformatrice” delle relazioni industriali in Italia. Un problema che
investì gli stessi giuristi “riformisti” che più di tutti avevano sostenuto lo spirito
promozionale della legge e che si trovarono nel primo triennio di applicazione a
fronteggiare le opposte critiche provenienti sia “da sinistra” che “da destra”251.
251 In tal senso si veda la polemica in dottrina “a tre”, tra A. Converso, Lo statuto dei lavoratori, in “Quale Giustizia”, 1970, n. 2 “da sinistra”, G. Pera, Interrogativi sullo Statuto dei lavoratori, in “Diritto del Lavoro”, 1970, pp. 188-216, “da destra” e la risposta del riformista G. Giugni, I tecnici del diritto e la legge “malfatta”, in “Politica del Diritto”, 1970, pp. 479 ss.
177
Questi tuttavia non riuscirono ravvisare nelle critiche provenienti “da sinistra” le
reali implicazioni su cui queste si basavano. Molte di queste critiche, nell’intento
di sottolineare la bontà della legge, furono tacciate di “vetero-costituzionalismo” e
pervase da un esasperato tecnicismo, per cui la conseguenza sarebbe stata quella
di smontare l’intera legge assieme alle critiche provenienti “da destra” perché
avrebbero avuto
“[…] una conseguenza cattiva; una conseguenza che fa il gioco della destra più retriva e rischia di ritorcersi a danno dei lavoratori […] Il fatto è che nel mondo giuridico italiano non ci siamo solo noi: intendo dire noi di “Politica del Diritto”, da una parte, il Comitato milanese coi suoi più cauti maggiori, dall’altra, e, in mezzo, gli amici di “Quale Giustizia”.252
Non si ritenne, che promuovere il sindacato in quanto la “sola organizzazione
della classe operaia che sia dotata di “memoria”, di durata, che sia capace di
programmare e cioè di calcolare i costi e i benefici delle fasi di lotta e di
tregua”253, non poteva ancora essere disgiunto dal fatto che “il sindacato […]
proprio perché legato alla fabbrica, sia pure burocraticamente, soffriva un
travaglio reale: per esso, investito da una spinta senza precedenti, rinnovarsi era
una questione vitale, di sopravvivenza254. Non c’è dubbio che le critiche “da
sinistra”, in molti casi eccessive, avrebbero potuto screditare l’intera legge, ma
pensare che lo spontaneismo ormai fosse finito fu un errore di valutazione della
situazione politica. Le critiche invece ebbero un ruolo importantissimo per
permettere alle punte più avanzate della magistratura, di mantenere lo spirito di
una legge che dallo spontaneismo dell’autunno caldo fu fortemente influenzato. Il
252 G. F. Mancini, Sul metodo di alcuni giuristi della sinistra extraparlamentare, in “Politica del Diritto”, 1971, n. 1, p. 105. 253 Ivi, p. 101. 254 A. Carlo, Le avventure della dialettica e lo statuto dei lavoratori, in “Critica del Diritto”, 1974, p. 17.
178
peso politico delle vittorie inaspettate in sede giudiziaria fu fondamentale per
influenzare tutta la giurisprudenza che in quegli anni esprimeva un largo dissenso
per via della crisi polico-isittuzionale. MD riuscì a collegare il dissenso interno
alle istituzioni con il favore del movimento dei lavoratori.255
E tale giurisprudenza influenzò anche la seconda fase, caratterizzata da un
calo dei casi di uso spontaneista e da una stabilizzazione delle applicazioni in sede
giudiziaria, riuscendo a permettere l’entrata di un contropotere sindacale in
azienda con un consenso della base consistente. Questo fu dovuto principalmente
agli effetti della crisi economica e alle conseguenze che questa ebbe sulle strategie
del sindacato, descritte nel paragrafo sul contesto politico e sindacale, perché
“[…] lo Statuto è una legge elastica il cui contenuto muta col mutare dei soggetti che la
applicano e del contesto sociale in cui si inserisce; ciò avviene, in certa misura, per tutte le leggi, ma il fenomeno della elasticità raggiunge i massimi livelli proprio nell’ambito giuslavoristico, perché questa branca del diritto è legata in maniera immediata alla sfera dei rapporti di forza socio-politici tra le classi.”256
In questo senso il dibattito sullo Statuto si inserisce nel più ampio dibattito
sull’ambivalenza delle trasformazioni del nuovo sistema di relazioni industriali e
di trattazione del conflitto nato dall’autunno caldo, cioè il fatto che
“esse sono conquiste della lotta operaia e strumenti di regolazione dei rapporti di classe,
superamento dell’arcaismo proto-capitalista delle relazioni industriali nel nostro paese e nello stesso tempo canali di controllo della conflittualità di base da parte di un sindacato istituzionale e di un management illuminato”257
C’è da sottolineare il fatto che nella seconda parte del decennio si inserì
l’opera della Corte Costituzionale e quella della Corte di Cassazione che,
255 G. Amato, Sistema giudiziario e dissenso sociale, in “Politica del Diritto”, 1972, pp. 308 ss. 256 A. Carlo, cit., p. 16. 257 A. Meucci, F. Rositi, L’ambivalenza istituzionale: sindacato e magistratura nell’applicazione dello statuto dei lavoratori, in L’uso politico dello statuto dei lavoratori, cit., p. 135.
179
escludendo le applicazioni più estremistiche della legge, ribadirono in ultima
istanza il carattere promozionale della legge. Ne conseguì un’opera di
razionalizzazione delle interpretazioni della legge, che da un lato resero più
univoca la sua applicazione pratica e dall’altro smontarono le pretese più
conservatrici di demolirne la portata innovativa. Per quanto riguarda la
Cassazione, si registrò in questa fase un aumento delle decisioni consistente, che a
fine decennio sarebbero arrivate a oltre 700 decisioni.258 Essa si concentrò
prevalentemente sulle parti della legge più inclini al sostegno del sindacato (art.
19, licenziamenti e variazioni di mansioni degli attivisti sindacali e diritto
sindacale in genere), confermando l’acquisizione della legge soprattutto nei suoi
aspetti garantistici fondamentali e sindacali istituzionali. Anche la Corte
Costituzionale si pose sulla stessa tendenza di razionalizzazione e chiarificazione
della legge, nelle due sentenze che dichiaravano la costituzionalità dell’art. 19259 e
dell’art. 28 (n. 54 del 6 Marzo 1974). Per quanto riguarda l’art. 19, negando
l’incostituzionalità della norma, la Corte rilevò che i diritti sindacali in capo alle
r.s.a. in base allo stesso articolo, erano da attribuire alle organizzazioni sindacali
maggiormente rappresentative su scala nazionale evitando che “singoli individui o
piccoli gruppi isolati di lavoratori [si pensi anche al sindacato CISNAL], costituiti
in sindacati non aventi requisiti per attuare un’effettiva rappresentanza aziendale,
258 T. Treu, Una ricerca empirica sullo statuto dei lavoratori negli anni ’80, in “Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 1984, n. 23, p. 513. 259 La norma fu la prima ad essere rinviata in via incidentale già nel novembre ’70, Pret. Milano, 14 novembre 1970, in “Quale Giustizia”, 1970, nn. 5-6, pp. 49 ss. “[…] nessuna norma dello statuto ha suscitato finora dibattiti più appassionati e polemiche più roventi […] e non è certo un caso che essa sia stata anche il primo disposto oggetto di un’ordinanza di rinvio alla Corte Costituzionale.” La citazione è di G. F. Mancini autore del più completo saggio in cui si commenta il dibattito sull’art 19, Le rappresentanze sindacali aziendali nello statuto dei lavoratori, in “Rivista Trimestrale di Diritto e Procedura Civile”, 1971, pp. 766 ss.
180
possano pretendere di espletare tale funzione[…].”260 Se da una parte da tali diritti
(alla contrattazione, a permessi retribuiti, referendum, trasferimenti dei dirigenti
sindacali,…) furono esclusi i gruppi dello “spontaneismo operaio”, dall’altra,
poiché attribuiti esclusivamente al sindacato-istituzione, si lasciava ad esso la
gestione del rapporto con le spinte provenienti della mobilitazione di base.
Non bisogna sottovalutare inoltre il progressivo declino della convergenza tra
le parti più progressiste e aperte della magistratura e l’arcipelago della “nuova
sinistra” operaista, che aveva ispirato un uso della legge molto avanzato e
progressivo. Alcuni di questi gruppi, come abbiamo visto, scelsero la via della
clandestinità e si unirono ai proclami delle BR e alla strategia fuori dalle fabbriche
di “attacco al cuore dello Stato”. Il sequestro del giudice Sossi, come altri gravi
episodi di violenza verso autorità di polizia e del sistema giudiziario, provocarono
uno scollamento della magistratura di sinistra e un progressivo appoggio di questa
ad un sindacato “più responsabile”. Ed in questo contesto che si inseriva la
progressiva sindacalizzazione dei consigli di fabbrica, descritta nel paragrafo
precedente. La presenza in questi di sindacalisti di professione e il declino della
loro elezione diretta su scheda bianca, ma anche la crescita del loro numero,
avrebbero permesso di incorporare i gruppi informali nelle strutture del sindacato-
istituzione e di garantirne i diritti previsti da tutto il Titolo III dello Statuto. E lo
stesso si può dire del parere sull’ uso dell’art. 28, che la Corte attribuisce ai soli
sindacati nazionali. Ciò avrebbe inaugurato la pratica da parte delle
confederazioni e delle federazioni di categoria, della sottoscrizione, da parte di
singoli o gruppi informali, di dichiarazioni volte a legittimare il ricorso diretto del 260 Le parole sono estrapolate dalla sentenza della Corte, citate nella relazione del prof. D. Napoletano al Seminario di Studi 29-30 Aprile 1974, L’esperienza dei primi anni di applicazione dello statuto dei lavoratori, 1974, Roma, Fed. Naz. Cavalieri del Lavoro, p. 19.
181
sindacato per accertare la condotta antisindacale. Una tendenza, quella delle Corti,
che si mescolò a “tutte quelle forze di opposizione – settori sindacali con
accentuata connotazione di classe, nuova sinistra operaia, giuristi e avvocati legati
alle lotte di classe […], giudici democratici – la cui azione” ebbe “un significato
opposto […]”, ma che con esse interagirono “nella comune lotta contro le
resistenze dei gruppi tradizionali e la disgregazione del sistema politico”261 In
effetti, sia nella prima che nella seconda fase, tutto il filone più conservatore del
panorama imprenditoriale italiano, denunciò la rigidità che la legge stava
comportando nell’utilizzo del fattore lavoro: le accuse all’art. 5 (controlli dei
lavoratori in caso di malattia) causa principale del aumento dell’assenteismo,
all’art. 13 (sulle mansioni) che non permetteva di disporre liberamente delle
maestranze, all’art. 18 (reintegrazione) che obbligava alla riassunzione o anche
sulla scarsa regolamentazione delle rappresentanze sindacali. Le critiche furono
più aspre proprio nel momento in cui incise di più la giurisprudenza e l’uso
alternativo della legge.
Ciò che bisogna rilevare quindi è che nella seconda parte del decennio,
nonostante la crisi economica, la domanda di giustizia e quindi la quantità dei
ricorsi relativi allo Statuto continuò a crescere, segno questo di un buon
funzionamento della legge per la risoluzione dei conflitti di lavoro. A ciò si
aggiunse anche una riduzione dei tempi dei procedimenti giudiziali e un aumento
delle cause conciliate. Tali andamenti furono il segno che “a livello processuale,
la costruzione concettuale [superò] il test in maniera soddisfacente e, nel
complesso, il rimedio giurisdizionale [funzionò] egregiamente”.262 Se poi a questo
261 G. Montera, cit., p. 229. 262 U. Romagnoli, Il lavoro in Italia, cit., p. 188.
182
si unisce il fatto, che dopo il boom iniziale (primi mesi del ’70) i ricorsi su materie
di tipo sindacale (Titoli III e art. 28) andarono diminuendo, mentre ci fu un forte
aumento dell’utilizzo individuale, l’intento di tutelare diritti individuali e al
contempo sostenere l’iniziativa del sindacato nei luoghi di lavoro, fu di fatto
raggiunto. I dati infatti sembrarono indicare
“[…] l’avvenuta acquisizione anche sul piano giuridico dei principi legislativi in tali materie,
che sono quelle più caratterizzanti l’obbiettivo promozionale della legge.”263
Acquisita quindi dagli attori sociali la presenza del sindacato nei luoghi di
lavoro (diminuzioni di cause relativi ai diritti sindacali) e la possibilità dei gruppi
informali di incidere in concerto con le strutture istituzionali del sindacato
(sentenze delle Corti di merito), la legge ebbe un uso prevalentemente individuale
concentrato sulle questioni del licenziamento (art. 18) e su quello dei trasferimenti
(art. 13). Ciò è da ricollegare alla situazione economica che sollevò maggiormente
i problemi di stabilità del posto. Si rivelò quindi anche un effetto extragiudiziale
importante indotto dallo Statuto: cioè l’uso ormai diffuso e capillare della
contrattazione collettiva e quindi del riconoscimento generalizzato dei consigli
come rappresentanze sindacali aziendali preposte alla contrattazione.
Nonostante le critiche imprenditoriali puntarono ancora sugli aspetti più
innovativi della legge, il dibattito sullo Statuto, tra operatori del diritto e sindacati
negli ultimi anni del decennio fu caratterizzato da un notevole ottimismo264, nella
comune valutazione che la legge fu “una delle poche riforme che non sono fallite”
263 T. Treu, Una ricerca empirica, cit., p. 506. 264 Si vedano le relazioni dei giuristi G. F. Mancini, T. Treu, U. Romagnoli , G. Giugni e gli interventi dei sindacalisti P. Boni, R. Scheda, D. Valcavi, M. Colombo o anche di avvocati vicini al sindacato e componenti dei consigli di fabbrica, in AA.VV., Lo statuto dei lavoratori: un bilancio politico. Nuove prospettive del diritto del lavoro e della democrazia sindacale, a cura di G. Arrigo, Bari, De Donato, 1977.
183
e che per certi versi ha “funzionato al di là delle aspettative degli interessati”265.
Detto ciò, il discorso si spostò inevitabilmente sulle lacune lasciate dallo Statuto e
sull’emergere di diversi casi di estromissione dal suo campo di applicazione o
addirittura di fuga in frode ad esso.266 Il tema era strettamente connesso al rapido
evolversi del contesto economico e del lavoro italiano: l’impossibilità di
applicarlo alle piccole realtà produttive al di sotto dei 15 dipendenti (art. 35) e agli
enti pubblici non economici (art. 37), rese questi articoli in contrasto tanto con
l’emergere consistente della “Terza Italia” e dei distretti industriali267, quanto con
il proliferare di enti pubblici, come anche con una strisciante ristrutturazione per
aggirare “lacci e lacciuoli statutari”268. I temi economico-sociali avrebbero
inaugurato il dibattito serrato attorno ai grandi cambiamenti degli anni ottanta, che
investì non solo le questioni politico-sindacali, ma anche quelle più
specificatamente connesse alla legge 300.
265 T. Treu, ivi, p. 24. 266 Si veda il capitolo secondo di P. Alleva, Il campo di applicazione dello statuto dei lavoratori, Milano, Giuffrè, 1980. 267 G. Beccattini, Mercato e forze locali: il distretto industriale, Bologna, Il Mulino, 1987. 268 G. P. Alleva, cit., p. 3.
184
CAPITOLO II
GLI ANNI ’80
2.1 Premessa
Il decennio che ci apprestiamo a trattare si aprì con la prima crisi dello Statuto
nel pieno della sua giovinezza. Le numerose critiche rivolte per un decennio alla
legge 300, erano rimaste relegate a settori marginali della politica e della comunità
giuridica italiana. Ma la vicenda dei sessantuno licenziamenti alla Fiat le fece
riaffiorare in un sol colpo e fu così che si aprì il decennio in cui lo statuto fu
additato come uno dei principali mali della nuova società flessibile e tecnologica.
In effetti fino a quel momento lo Statuto era giovane e vitale e perfettamente
aderente ad una realtà socio-economica che non era mutata nei suoi caratteri
strutturali. Per questo i primi dibattiti sul presunto invecchiamento della legge,
assunsero un carattere chiassoso e in alcuni casi affrettato. Essenzialmente questa
prima crisi post-maturità aveva ragioni di carattere politico, perché correlate alla
crisi economica in cui si trovavano le aziende italiane e aggravate dal terrorismo
che entrava nelle fabbriche. Quindi questa prima crisi era frutto del più ampio
dibattito emergente circa l’eccessivo garantismo che l’azione organizzata del
movimento operaio era riuscito a conquistarsi. Tra il ’79 e l’80 la crisi economica
non era più sostenibile tanto per gli imprenditori quanto per i poteri istituzionali.
Per questo è utile nel primo paragrafo ripercorre gli albori del declino dello
Statuto.
Ma per parlare di invecchiamento dello Statuto bisognerà attendere la grande
rivoluzione tecnologica e il declino della grande fabbrica fordista, che nel
decennio ottanta muoveva i primi passi verso la “giapponesizzazione” della
185
produzione. Si dovrà per altro attendere il definitivo dispiegarsi della società post-
industriale e il declino del sindacalismo industriale, conflittuale e unitario. Solo
con l’avvio di questi processi lo Statuto effettivamente iniziò ad essere turbato nei
suoi caratteri essenziali, perché inserito in un contesto nuovo e pieno di
contraddizioni. E’ in questa tendenza verso il post-industrialismo e il post-
fordismo che vanno rintracciate le radici delle alterazioni della legge 300. Per
questo nel secondo paragrafo analizzeremo i mutamenti economico-sociali
principali e il contesto politico-sindacale in cui esso si concretizzò. Mentre nel
terzo ed ultimo paragrafo, daremo ampio spazio alle “avventure” dello Statuto in
questo nuovo contesto, ai tentativi falliti di modificarlo e a quelli messi a segno.
Al principio degli anni ’90 ne uscirà uno statuto alterato, rivisitato, ma ancora
vivo nonostante le burrascose avventure da esso intraprese.
2.2 La vicenda dei 61 licenziamenti alla Fiat alla vigilia della crisi
del garantismo nei luoghi di lavoro
A cavallo tra il ’79 e l’80, con il caso dei 61 licenziamenti alla Fiat di
Mirafiori, si assistette ad una svolta nelle relazioni industriali che inaugurò il
declino della centralità politica e sociale del sindacato industriale in Italia. Per un
decennio, la straordinaria conflittualità che aveva investito lo stabilimento Fiat, fu
il fiore all’occhiello del potere operaio organizzato nelle fabbriche. Un potere
edificato su “un insieme di valori, di regole, di comportamenti collettivi antitetici
rispetto all’ordine sociale preteso e ottenuto, nei due decenni precedenti,
dall’establishment vallettiano”.269 Un ambiente dominato dall’iniziativa operaia e
269 A. Salento, Postfordismo e ideologie giuridiche. Nuove forme d’impresa e crisi del diritto del lavoro, Milano, F. Angeli, 2003, p. 29.
186
sindacale, una vera e propria “università della lotta” fu definita.270 Fu quindi
subito chiaro, agli imprenditori italiani, che la svolta nelle relazioni industriali
acclamata e sognata da un’intera generazione di dirigenze aziendali “illuminate”,
non poteva che partire dalla Mirafiori “capitale operaia”271. D’altronde la Fiat,
come accadde nel ’55, avrebbe rappresentato il luogo ideale per consumare le
sconfitte epocali del movimento sindacale. Ma la vicenda delle 61 sospensioni,
avviata il 9 ottobre ‘79, non rappresentò solo l’origine di una sconfitta, quella dei
35 giorni di sciopero a cui seguì la marcia dei 40.000272. Con essa ebbe inizio
parallelamente un dibattito strisciante sullo Statuto, già presente nel decennio
settanta, ma che in questo momento assunse caratteri del tutto nuovi e soprattutto
volti a mettere in discussione l’importanza politica e simbolica dello Statuto dei
lavoratori. Fu proprio la vicenda e la sconfitta del sindacato in sede giudiziaria, a
creare un clima politico che mise in discussione la “genuinità” della norma. Una
norma ormai entrata a far parte dell’universo simbolico di un intero movimento
sociale, ma che gli eventi del terrorismo e della violenza nelle fabbriche da una
parte e l’emergere di una “nuova soggettività operaia” dall’altra, contribuirono a
mettere in discussione per la prima volta. Solo nella seconda parte del decennio,
sulla scorta dei grandi cambiamenti degli anni ottanta, le “rughe” dello Statuto
vennero effettivamente a galla. Conviene quindi ripercorrere brevemente la “storia
interna”273 della vicenda e analizzare le polemiche politiche e giuridiche che ne
scaturirono. Esse contribuirono a porre l’attenzione di larga parte dell’opinione 270 G. Polo, I tamburi di Mirafiori, Torino, Circ, 1989. 271 M. Revelli, Lavorare in Fiat, cit., p. 9. 272 A. Accornero, A. Baldisserra, S. Scamozzi, Le origini di una sconfitta. Gli operai alla Fiat alla vigilia dei 35 giorni e della marcia dei quarantamila, in “Politica ed Economia”, 1990, n. 12, pp. 33 ss. 273 Sulla vicenda processuale faremo riferimento principalmente alla testimonianza diretta di uno dei più autorevoli componenti del collegio di difesa preposto dal sindacato, cioè G. Ghezzi, nel suo Processo al sindacato, cit.
187
pubblica, delle parti sociali e degli operatori del dritto sul ruolo del garantismo nei
luoghi di lavoro.
Il 9 ottobre 1979 giunsero per raccomandata ai recapiti di 61 operai Fiat delle
lettere che recitavano tutte allo stesso modo:
“Le contestiamo formalmente il comportamento da Lei sin qui tenuto, consistente nell’aver
fornito una prestazione di lavoro non rispondente ai principi della diligenza, della correttezza e della buona fede; e nell’aver costantemente mantenuto comportamenti non consoni ai principi di civile convivenza sui luoghi di lavoro […]. In relazione a quanto sopra, e cioè tanto per le moralità della Sua prestazione quanto per il comportamento da Lei tenuto in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro, Ella ci ha procurato nocumento morale e materiale […] nel concorso di tali circostanze è divenuta impossibile la prosecuzione del Suo rapporto di lavoro”274
Tra l’altro secondo il contratto collettivo per la Fiat questi sarebbero stati
sospesi con effetto immediato. Tra i 61 molti appartenevano a collettivi operai o ai
gruppi della sinistra extraparlamentare, ma altri ancora erano dirigenti sindacali o
non lo erano più per via della loro posizione polemica verso la linea confederale
(linea dell’EUR). Se le lettere di licenziamento furono improvvise, certamente
esse non arrivarono a “ciel sereno”, anzi il cielo era già pesantemente rannuvolato
dalla montante violenza politica. In effetti da anni ormai, alla conflittualità e
all’asprezza dello scontro tra operai e dirigenze aziendali, si affiancava, un’opera
di violenza quotidiana al di fuori della fabbrica che colpì direttamente decine di
dipendenti Fiat. Oltre ad aggressioni e ferimenti, i terroristi avevano già ucciso per
ben tre volte. L’ultima volta il 21 settembre: ad essere assassinato fu l’ing. Carlo
Ghiglieno, responsabile pianificazione Fiat. Fu da quel momento che prese piede
la decisa reazione dei vertici Fiat, non solo contro il terrorismo, ma soprattutto
contro quelle lotte “dure” che contribuirono a creare “il grave clima che da tempo
si [era] istaurato nelle fabbriche” e che rappresentava il terreno adatto alla
274 Citato in ivi, p. 10.
188
strategia dei terroristi. Subito dopo l’agguato infatti, un nota informativa275
affidata alla stampa da Corso Marconi affermava che
“il clima trova troppo pavide coperture e costituisce il terreno fertile per le azioni criminose
che certamente hanno, all’interno delle fabbriche, le loro basi di appoggio”.
E ancora:
“la strategia della destabilizzazione, obbiettivo dichiarato dei terroristi, ferimenti e uccisioni
sono solo l’aspetto più doloroso e impressionante di quella campagna che passa per i sabotaggi della produzione, le telefonate intimidatorie, gli atti di violenza sui capi: tutti fatti che concorrono a creare quel clima di insicurezza nel quale il terrorismo si è sviluppato.”
Non è difficile, per i lettori più attenti di quotidiani, fare i conti e arrivare al
risultato sperato dalle dirigenze Fiat: è il sindacato ad essere “pavido” e a coprire
tale situazione di ingovernabilità della fabbrica. Due settimane dopo, per via
dell’ennesimo ferimento ai danni di Cesare Varetto, responsabile delle relazioni
industriali, partirono le lettere di licenziamento. E sulla stessa lunghezza d’onda la
Fiat diramò nello stesso giorno un “dossier terrorismo” in cui nella nota
introduttiva la Fiat dichiarava “di non poter distinguere
nel giudizio gli atti criminali che si sostanziano in ferimenti e uccisioni, da quegli atti che,
superando i limiti di un corretto confronto tra le parti sociali, finiscono per contribuire ad un clima di tensione e di terrore”.276
Chi più del sindacato dovrebbe garantire il normale confronto delle parti
sociali? La nota diramata dalla Fiat e i conseguenti commenti di carta stampata e
televisione, contribuirono ulteriormente a dare all’opinione pubblica l’idea che il
sindacato fosse troppo debole non solo verso i terroristi, ma anche verso azioni di
violenza in genere. Ma intanto, nonostante i materiali per la stampa, la dirigenza
275 In “L’Unità” del 22 settembre 1979. 276 In “la Repubblica” del 10 ottobre 1979.
189
non diramò nessuna notizia sui fatti addebitati direttamente ai 61 licenziati. La
decisione della dirigenza Fiat di fare sul serio, venne confermata nello stesso
giorno, quando questa annunciò il blocco delle assunzioni delle circa 130 società
del gruppo. Il blocco per tanto si inseriva nella strategia “di favorire il ripristino
negli stabilimenti di condizioni che abbiano un minimo di normalità operativa”.277
Ed è chiaro che l’attacco veniva portato soprattutto ad un istituto specifico del
diritto del lavoro che limitava la selezione unilaterale dell’”operaio massa”: il
collocamento su base numerica. Ghezzi precisò che l’attacco al collocamento su
base numerica fu fatto
“non in quanto, però, appaia da riformarsi in relazione alla crisi profonda che oggi lo
caratterizza, di fronte alle continue scomposizioni che segmentano il mercato del lavoro[…] Ma proprio in quanto si basa su una concezione di fondo, che lo vuole come una funzione pubblica ispirata al principio dell’imparziale distribuzione delle occasioni di lavoro mediante criteri obbiettivi.278
Inoltre celava l’attacco allo stesso art. 8 dello Statuto dei lavoratori, che di
fatto vietava indagini ai fini dell’assunzione: di fronte a terroristi e violenti che
rendono la fabbrica ingovernabile, indagini sulle maestranze erano indispensabili
per la stessa governabilità! L’attacco fu ancor più grave se si considera che lo
stesso collocamento era gestito dalle commissioni comunali e a Torino il
sindacato stesso aveva un ruolo rilevante nel selezionare le assunzioni.
Intanto i mass media continuarono la loro importante opera di formazione
dell’opinione pubblica critica verso gli istituti simbolici del mondo del lavoro,
ormai da ritenere non intoccabili per via della violenza che si andava sviluppando
nelle fabbriche. Il 20 ottobre su “Repubblica”, assieme ad un’intervista di E.
Scalfari fatta ad Agnelli sulla vicenda, venne pubblicato un dossier proprio sullo 277 Ibidem. 278 Processo, cit., p. 17.
190
Statuto dei diritti dei lavoratori, aperto da una firma prestigiosa del giornalismo
d’inchiesta italiano, Giorgio Bocca.279 E fu proprio il suo articolo di apertura dal
titolo Quella conquista democratica non è un testo sacro, a mettere in discussione
politicamente per la prima volta l’istituto simbolo del potere operaio e sindacale e
di conseguenza a far riemergere le critiche più care al padronato. Tutto l’impianto
dell’inchiesta, tra l’altro, era basato in questi termini. L’occhiello di apertura
recitava così: “E’ colpa dello Statuto dei Lavoratori se l’industria italiana è in
crisi? E’ da lì che nascono assenteismo e violenza? Dopo i casi Olivetti e Fiat,
Dossier ha chiesto di rispondere senza complessi a una domanda tabù: conviene
rivedere quella legge?” Torniamo all’articolo di Bocca. L’autore al principio
descriveva il contesto da cui lo Statuto scaturì e allo stesso tempo dava una
spiegazione di come questo diventò “un culto” per il movimento operaio.
Successivamente l’analisi si incentrò sul fatto che lo “Statuto è un testo
fortemente politico e a volte eccessivamente “da una parte sola”, qua e là con toni
di requisitoria verso gli imprenditori[…]”. E’ incredibile la somiglianza tra le
parole di Bocca e quelle espresse dieci anni prima da Randone, rappresentante di
Confindustria, il giorno dell’approvazione del testo alla X Commissione lavoro
del Senato (si veda parte I, cap. 3). L’analisi in poche parole era volta a dare dello
Statuto una visione per il quale il testo, fortemente politicizzato dalla sinistra
durante l’autunno caldo, era in quella fase troppo garantista, in un Italia in cui
crisi economica e il terrorismo, minavano la figura dell’imprenditore. Così
venivano ripercorsi i principali articoli della legge, che furono già oggetto di
critiche “da destra”: dall’articolo 1 (troppo vago e per questo permissivo verso
279 Statuto dei lavoratori. Chi comanda in fabbrica, in “la Repubblica – Dossier”, Sabato 20 ottobre 1979.
191
azioni violente), all’art. 5 (che permetterebbe l’assenteismo), passando per l’art. 8
(l’impossibilità di fare inchieste ai fini dell’assunzione potrebbe comportare il
rischio di assumere persone “dalla fedina penale nera”). Addirittura lo stesso
divieto di finanziare sindacati di comodo (art. 17) fu messo in discussione, poiché
“patentemente anticostituzionale: […] come se nella pratica non ci fossero periodi
in cui le aziende hanno sostenuto con denaro e altrimenti il sindacato operaio
preferendolo alle sabbie mobili dell’autonomia” Conclusione: “due cose ovvie:
come legge nel suo assieme è una conquista democratica; e che nessuna sacralità
impedisce di rivederla là dove patentemente non funziona.”
Le parole di Bocca, al di là del ragionevole giudizio sul fatto che una legge
può avere dei problemi di attualità e che quindi può essere in ogni momento
rivista e aggiornata, furono la prova più significativa di come la violenza terrorista
stava incidendo sulle dinamiche politiche e di come la sua sfida stava producendo
un effetto boomerang contro le conquiste democratiche del movimento operaio. E
ciò fu portato avanti da intellettuali, in questo caso G. Bocca, che avevano
impersonato per tutti gli anni ’60 e parte dei ’70 il ruolo del giornalista che usava
la penna per affermare nella società italiana maggiori diritti per le classi
subalterne. Tutto il dossier di Repubblica peraltro, si mosse verso questa
direzione: snocciolando dati sull’assenteismo e sui licenziamenti e comparandoli
con altri paesi280, come anche ricostruendo gli anni del “bastone nelle
fabbriche”281, tutta l’inchiesta seppur ben documentata, pose il lettore di fronte ad
una critica serrata all’eccessivo garantismo provocato dallo Statuto e causa prima
dei mali economici e sociali della società italiana. Unico dato di segno contrario, 280 Si veda l’articolo di L. Giustolisi, Licenziare all’estero. 281 Si vedano gli articoli di M. Maffai, Come finì il tempo della schiavitù, C. Sereni, Quando in Fiat si reprimeva.
192
l’intervento del solito U. Romagnoli282 e la pagina in cui si interrogavano partiti e
sindacati sulla possibilità di cambiare lo Statuto.283 Anzi, tali interventi, che
difesero generalmente la legge, diedero al lettore la sensazione proprio di un
sindacato e di una sinistra politica attaccato al dogma dello Statuto intoccabile,
mentre rinvigoriva la visione di un sistema politico incapace di far fronte ai
problemi del paese.
Il sindacato da parte sua fu messo decisamente alle strette dalla strategia della
Fiat: che fare di fronte ad una strategia volta a danneggiare la controparte
sindacale? Ricorrere o no alla richiesta di fronte al giudice di una pronuncia di
comportamento antisindacale secondo le procedure dell’art. 28 o far ricorrere
individualmente gli operai usando l’art. 700 c.p.c. per violazione delle procedure
per il licenziamento? E’ chiaro che il sindacato era consapevole di non avere nulla
a che fare con il terrorismo, che minava la stessa esistenza delle strutture del
sindacato in azienda. Ma come fronteggiare l’impostazione data dalla Fiat che non
distinse più azioni terroristiche da azioni violente, quali anche sabotaggi, i
picchetti “duri” o anche i cortei interni e allo stesso tempo respingere la strategia
Fiat che palesemente cercava di imprimere una svolta in vista delle ristrutturazioni
che da tempo andava annunciando? E soprattutto, su che fatti si basava la Fiat
nell’accusare i 61 licenziati? La preoccupazione era quindi quella di assumere una
tattica che avrebbe difeso il contropotere sindacale respingendo le intimidazioni
della Fiat, ma che allo stesso tempo riuscisse a garantire davanti all’opinione
pubblica la visione di un sindacato responsabile di fronte ad eventuali eccessi. La
visione di un sindacato che non si “sporca le mani”. E anche per questo si
282 U. Romagnoli, Quello che ha capito il Sciur Brambilla. 283 No, cambiarlo non si può.
193
richiedevano a gran voce quali fossero le prove che incriminavano i 61 operai284.
Ma lo stesso sindacato al suo interno fu attraversato da molte spaccature, sia nella
base, sia tra i vertici e gli esperti del collegio di difesa. Le inchieste di G. Pansa su
Repubblica, ma anche molti interventi sull’Unità, descrissero la Fiat come uno
scenario infernale, dove la frustrazione e la violenza dei giovani si contrapponeva
ai vecchi operai, o anche alla stanchezza dei capi, stufi degli scioperi, delle
minacce e del disordine della produzione. Una tensione interna che si confermò
sia durante gli scioperi indetti contro i licenziamenti, come anche nell’assemblea
dei delegati al Palazzetto dello Sport del 16 ottobre.285 Una tensione interna al
sindacato che sarà palese qualche mese più tardi con la marcia dei 40.000. Inoltre,
come abbiamo visto, proprio sul fronte dell’opinione pubblica, la situazione non
fu facile per il sindacato. Si andava incrinando quel “felice connubio”286 tra una
generazione di intellettuali di settori diversi e il sindacato, su cui si edificò per un
decennio la forza culturale del sindacato. Cominciò a serpeggiare la c.d. “cultura
del sospetto”, cioè quella che imputava al sindacato di essere troppo garantista
verso atteggiamenti anche esagerati della lotta di classe.
“V’è, tra loro, chi argomenta, evidentemente già facendo propria una presunzione di
colpevolezza, nel senso che le garanzie formali vanno bene soprattutto per difendere gli innocenti, […] Come se, nei confronti di eventuali colpevoli, potessero giustificarsi processi sommari”287
284 Si vedano nei quotidiani degli stessi giorni le richieste ufficiali da parte dei dirigenti del sindacato locale e di categoria. 285 Tutti gli organi di stampa riportarono i fischi della platea a L. Lama che nel suo intervento affermò che “anche i capi sono sfruttati” e che quindi dovevano essere tutelati dal sindacato al pari degli operai comuni, vedi “l’Unità” e “la Repubblica” del 17 ottobre 1979. 286 Cosi fu definito da G. Giugni in un articolo apparso su “la Repubblica”, 2 novembre 1980. 287 G. Ghezzi, Processo, cit., p. 25.
194
Una visione critica verso il sindacato provenne anche da intellettuali da
sempre schierati per le prerogative del sindacato e la bontà dello strumento
statutario. G. F. Mancini scrisse che:
“la violenza non è nel sindacato e tanto meno nelle sue istanze decisionali; è, come tutti
sappiamo, nella cultura di vaste face giovanili. Il sindacato se la trova davanti e finisce per “mediarla” (cioè la usa e insieme la argina). Alla violenza, tuttavia, esso avrebbe potuto opporre ben più di un argine se[…] non avesse per anni “acriticamente esaltato la democrazia assembleare di fabbrica.”288
Per Mancini quindi il sindacato si poneva in un rapporto ambiguo con l’odio
che pervadeva larghe fasce del mondo operaio giovanile, “un rapporto che
“in termini istituzionali si manifesta per solito come semplice accordo di mutua
irresponsabilità, ma talvolta si fa copertura politica o, peggio, difesa giuridica coi congegni offerti dallo statuto dei lavoratori”289
Era palese la critica rivolta al sindacato di aver usato e non represso
comportamenti deprecabili delle frange più estremiste del movimento e di come
questi si servivano di strumenti giuridici garantisti, in primis lo Statuto, per avere
la libertà di agire in tal senso.
L’intervento di Mancini per altro si inserì nella polemica tra PCI e sindacato
già innescata dal duro intervento di Giorgio Amendola su Rinascita290, a proposito
della vicenda Fiat. Il leader comunista ritenendo il comportamento della Fiat folle
e tendente a spezzare il potere sindacale nelle fabbriche per uscire dalla crisi, si
chiese tuttavia
“[…] perché il sindacato si è fatto sorprendere dall’iniziativa padronale e non ha preso per
primo l’iniziativa di una lotta coerente contro ogni forma di violenza e di teppismo in fabbrica e contro il terrorismo?[…] L’errore iniziale compiuto dal sindacato è stato quello di non denunciare immediatamente il primo atto di violenza teppistica compiuto in fabbrica, come quello compiuto nelle scuole […].” 288 G. F. Mancini, La lezione della Fiat, in “Mondoperaio”, 1979, n. 11, p. 5. 289 Ivi, p. 6. 290 In “Rinascita”, 9 novembre 1979.
195
Dagli interventi e le polemiche riportate sopra, non è difficile capire come la
FLM, “il sindacato guida” della classe operaia, si trovasse in una situazione di
difficile risoluzione. Per questo il sindacato scelse come prima mossa, l’assistenza
legale ai 61 nella richiesta di illegittimità dei licenziamenti per violazione delle
procedure, richiedendo la reintegra ai sensi dell’art. 700 c.p.c. Questa fu una scelta
del tutto politica poiché il sindacato, ricorrendo al “28” sarebbe stato costretto di
fronte all’opinione pubblica ad “affrontare il problema – così spesso rimosso, o
semplicemente rinviato nei tempi della soluzione – della legittimità o no di certe
forme di lotta all’interno della fabbrica (ad esempio, il pubblico dileggio o la
coercizione esercitata verso i “capi”)291. Tale problema non poteva essere rimesso
al giudice, in quanto tema tutto politico ed interno alle dinamiche sindacali. Per
questo si scelse in un primo momento la via che più di tutte avesse potuto palesare
i vizi formali del procedimento di sospensione adottato dalla Fiat292 e far emergere
la strategia di attacco messa a punto dall’azienda.
Già la mattina dell’8 novembre il pretore di Torino, Angelo Converso,
depositò il decreto nel quale accolse le istanze dei sospesi e dichiarò illegittimo il
licenziamento per vizi procedurali imposti dal contratto collettivo. Inoltre, in via
d’urgenza, ordinò la reintegrazione dei lavoratori, almeno fino al momento in cui
si sarebbe concluso il contraddittorio delle parti sui fatti addebitati ai lavoratori.
Ma ciò non avvenne e i lavoratori rimasero ancora fuori dai cancelli. La Fiat
291 G. Ghezzi, Processo, cit., p. 40. Lo stesso Ghezzi fu tra quelli che nel collegio di difesa, assieme a L. Venutra e B. Cossu, criticò la proposta avanzata dalla FIM e da Tiziano Treu di fare ricorso ai sensi dell’art. 28. Per questi i licenziamenti non potevano essere visti a sé stanti ed erano insieme viziati da un comportamento antisindacale. 292 Per la precisione si decise che i 61 avrebbero dovuto sottoscrivere un documento di procura al collegio di difesa e in cui si dichiarava di accettare i valori fondamentali del sindacato, di ripudiare il terrorismo e le forme violente di lotta. Dieci dei licenziati si rifiuteranno di sottoscriverlo e formeranno “un collegio alternativo”.
196
infatti si incaricò da una parte di far partire le lettere per una nuova disposizione
cautelare ai sensi del contratto collettivo e dall’altra rinnovò gli addebiti
disciplinari individuali secondo la procedura legale. Inoltre ottemperò all’ordine
di pagare le retribuzioni perse dai lavoratori sospesi. E a questo punto il pretore,
dopo aver sentito le parti, il 16 novembre dichiarò chiuso il processo e di fatto
accolse le tesi della Fiat confermando i licenziamenti. Insomma punto e a capo, e
da questo momento il sindacato non potette che ricorrere alla procedura prevista
dall’art. 28 in prima persona.
Intanto si vennero a sapere alcuni dei fatti di violenza addebitati ai 61: questi
andavano dai casi di rifiuto di lavorare e in genere di insubordinazione, a veri e
propri atti di violenza, di intimidazione alle strutture aziendali e anche sindacali e
di incitamento alla lotta armata.293
Non fu facile quindi per la FLM predisporre i contenuti del ricorso ai sensi
dell’art. 28, che fu depositato il 7 dicembre ‘79. Si ritenne la documentazione
della Fiat poco dettagliata e soprattutto non caratterizzata dalla distinzione tra lotte
“dure” e azioni palesemente violente e incivili sanzionabili penalmente. Inoltre si
imputò alla direzione aziendale di aver chiuso gli occhi di fronte a tali
atteggiamenti, non ricorrendo immediatamente al magistrato e rifiutando le
richieste degli operai di predisporre un proprio servizio d’ordine. Si sottolineò
dunque che l’intera strategia della Fiat, sia per il boicottaggio del servizio di
collocamento sia per le modalità con cui la direzione gestì tutta la vicenda in
special modo riguardo all’uso strumentale dei mezzi di comunicazione, mirava a
colpire il sindacato in azienda. Insomma si richiese al pretore di sanzionare come
293 La Fiat riferì addirittura di operai che avrebbero proposto ai compagni di lavoro la vendita di armi all’interno degli stabilimenti.
197
antisindacale tutta la strategia Fiat, che non agendo preventivamente di fronte a
gravi fatti individuali, si serviva della situazione di ingovernabilità della fabbrica
per schiacciare tutto il movimento organizzato dei lavoratori.
La risposta della Fiat fu quella di giustificare il ritardo nell’intervenire sui fatti
addebitati ai 61, denunciando le difficoltà di esercizio del potere disciplinare,
perché interdetto dalle intimidazioni e dall’azione violenta degli operai estremisti.
Per i legali della Fiat, solo dopo la morte di Ghiglieno il potere disciplinare riuscì
a sbloccarsi e a funzionare, tramite l’individuazione e la sospensione di 61
lavoratori. Inoltre la parallela sospensione delle assunzioni si inseriva
nell’eccezionalità della situazione di ingovernabilità della fabbrica, per cui
l’assunzione numerica avrebbe potuto aggravare ulteriormente la situazione.
Il 17 dicembre si aprì il dibattimento. Inevitabilmente questo fu incentrato
sulla verifica della ingovernabilità della fabbrica e di conseguenza sulle forme di
lotta assunte dagli operai. C’era da accertare la tesi dell’eccezionalità della
situazione che avrebbe portato i vertici aziendali a tenere comportamenti il
sindacato riteneva viziati a un pregiudizio antisindacale. Dopo cinque giorni, il
pretore Denaro, depositò il decreto in cui respinse tutti i capi e i motivi del ricorso
della FLM. Di fatto venne accettata la tesi dell’azienda, sottolineando l’incapacità
dei vertici aziendali di usare il potere disciplinare di fronte a violenze e
sopraffazioni accertate. Inoltre il pretore respinse la tesi portata avanti dalla FLM,
secondo cui la Fiat avrebbe usato i mezzi di comunicazione secondo una ben
precisa strategia propagandistica per accreditare nell’opinione pubblica il fatto che
la lotta operaia fosse identificabile direttamente con il terrorismo e con
l’ingovernabilità della fabbrica. L’atteggiamento Fiat - argomentò il pretore -
198
“[…] non è antisindacale, a meno che non intenda identificare negli atti di violenza descritti i
propri strumenti di lotta, facendoli rientrare in un ambito “allargato” delle modalità dell’esercizio del diritto di sciopero[…] In sostanza, il collegamento che la Fiat ha ingenerato è tra terrorismo e quei fenomeni di violenza che nulla devono avere a che vedere con l’attività sindacale anche nella sua definizione più evoluta in relazione alla attuale fase storica [mentre] nessun abbinamento risulta invece con l’attività sindacale vera e propria.”
Nonostante il clamore provocato dalla vicenda, successivamente
all’emanazione del decreto, il dibattito politico e sindacale si spense. L’unico
dibattito che si sviluppò fu proprio quello sullo Statuto, non solo perché già
inaugurato dall’inchiesta di Repubblica, ma “anche perché, in questo caso, dalla
vicenda specifica dei 61 si trae[va] argomento per portare la discussione sul piano
di un giudizio più generale sul significato dello statuto dei diritti lavoratori a dieci
anni dalla sua entrata in vigore”294. Già Mancini, nel novembre ’79, cioè prima
della sentenza, affermò che
“Lo statuto dei diritti dei lavoratori postula e promuove il contropotere sindacale. Usarlo a fini
diversi costituisce una rottura dell’equilibrio voluto dal legislatore: ed è naturale che, moltiplicandosi le rotture, sorga la domanda di rivederlo o, nei gruppi più retrivi, di tornare all’equilibrio precedente”295
Lo stesso Mancini, intervenne sul tema con un articolo apparso su
“Repubblica”296, anche dopo la sentenza. Ritenne del tutto sbagliata la strategia
della FLM, poiché “con l’iniziativa del 9 ottobre la Fiat non voleva mettere alle
corde il gruppo dirigente dei metalmeccanici”, ma entrare nel dibattito interno
sulla gestione di “riottosi” e “irriducibili”. A ciò la FLM “poteva rispondere in
molti modi, anche duri. Il più rischioso era l’azione giudiziaria”. Per Mancini
quindi la sconfitta della FLM limitò i danni perchè
294 G. Ghezzi, Processo, cit., p. 135. 295 G. F. Mancini, La lezione della Fiat, cit., p. 5. 296 Id., Quei 61 della Fiat, in “la Repubblica”, 31 gennaio 1980.
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“così come è andata, Agnelli ha avuto solo l’uovo: un precedente dotato di efficacia dissuasiva rispetto ai comportamenti operai che giudica intollerabili. Ma, se avesse perso una causa tanto improvvidamente drammatizzata dalla sua controparte, egli avrebbe ottenuto anche la gallina: cioè la prova che il diritto del lavoro ha raggiunto un livello di garantismo incompatibile con la governabilità delle fabbriche e, di qui, un poderoso argomento per il taglio delle sue punte più acuminate. Sotto tiro, in questo caso, non sarebbero venuti unicamente i congegni preposti alla repressione della condotta antisindacale e i limiti al potere di licenziare. Altrettanto minacciate sarebbero state le norme che impediscono un controllo efficace sugli operai da assumere; quelle che regolano il collocamento e quelle che vietano le indagini sulle loro opinioni politiche e sulla loro vita privata. Sono – ci saremmo sentiti dire – garanzie buone per tempi meno ferrei, ma a quanti terroristi o fiancheggiatori del terrorismo consentono oggi d’infiltrarsi nei luoghi di lavoro?”
II giorno successivo fu Tiziano Treu a rispondere alle dure prese di posizione
di Mancini in un articolo apparso questa volta sul “il Manifesto”.297 L’autore,
contestò quanto detto da Mancini, quando questo “afferma che con i 61
licenziamenti la Fiat non voleva mettere alle corde il gruppo dirigente della FLM,
accusandolo di connivenza con il terrorismo”, anzi fu proprio questo il motivo di
tutta la strategia Fiat. Infatti analizzando la sentenza del pretore, Treu fece notare
che questo “per escludere l’antisindacalità dei licenziamenti […] ha detto che
l’ingovernabilità della fabbrica giustificherebbe i provvedimenti eccezionali” e ciò
non nel senso di giustificare una restrizione dei diritti individuali, ma
giustificando i licenziamenti proprio sul piano dei rapporti sindacali.
“La montatura dell’operazione dimostra che l’obbiettivo era quello di stabilire rapporti più
favorevoli in fabbrica. Ho sempre creduto (come immagino creda ancora Mancini) che lo statuto dei lavoratori impone all’azienda delle regole di correttezza elementare sia nei rapporti collettivi che individuali. Penso che la Fiat abbia violato le regole del gioco su tutti e due i piani. L’unico modo per uscirne è dire che l’ingovernabilità sospende lo statuto dei lavoratori: ma questa è appunto l’affermazione più grave.”
Il botta e risposta riprese a distanza di qualche giorno e andò dritto al nocciolo
del problema: l’attualità della legge 300 a dieci anni dalla sua approvazione. Fu
Mancini, di nuovo su “Repubblica”298, a prendere “il toro per le corna”. L’autore,
297 T. Treu, E’ proprio un bene che la FLM abbia perso contro la Fiat? Una risposta a Federico Mancini, in “Il Manifesto”, 1 febbraio 1980. 298 G. F. Mancini, Le rughe dello statuto, in “la Repubblica” 7 febbraio 1980.
200
eclissando dalla polemica con Treu sulla vicenda dei 61 ed elogiando la legge,
parlò tuttavia per la prima volta di rughe dello statuto.
“Lo statuto rimane la maggior conquista sociale del centro-sinistra, ma, a dieci anni dalla sua
entrata in vigore, comincia a mostrare qualche ruga. Le rughe, per la precisione sono due, e a procurargliele è stato lo sviluppo di una cultura operaia profondamente diversa da quella dominante nell’epoca in cui la legge fu scritta. […] Quali fenomeni la mettano in luce è noto: da un lato, la crescente richiesta di lavori multipli, di part time, di contratti a termine, di mansioni precarie; dall’altra, gli innumerevoli comportamenti – antagonistici per i teorici della nuova sinistra, devianti per tutti gli altri – che vanno dall’assenteismo al sabotaggio. […] Ebbene, l’attuale domanda di rapporti flessibili mette in crisi – ed è la prima ruga – il garantismo dello statuto: […] per i congegni che fanno di ogni posto o di ogni mansione un fortilizio difficilmente espugnabile. E, d’altro canto, il diffondersi di condotte illegali mina – seconda ruga – la filosofia del conflitto che lo statuto fa sua. […] La fabbrica, insomma, è divenuta difficile mentre lo statuto supponeva una fabbrica facile: quella cosa recintata […] da cui si esce a ore fisse dopo aver lavorato sodo o lottato con grinta e dignità.”
E di nuovo Treu, tre giorni più tardi, sempre su “il Manifesto”299, sostenne che
i problemi derivanti dall’emergere di una nuova “soggettività operaia” non
potevano essere risolti abbassando le garanzie per i lavoratori o emendando lo
statuto dei lavoratori.
“Di questo dobbiamo tenere conto [della nuova soggettività operaia - ndr]. Ma come reagire?
Non certo sospendendo le garanzie dello Statuto perché lo statuto dei lavoratori, come è inteso e utilizzato del sindacato (in modo molto cauto) non legittima le forme violente di lotta. E perché i problemi posti dal deterioramento delle relazioni industriali e sociali in Italia si possono e si devono risolvere diversamente, almeno da parte delle forze democratiche e progressiste. Il compito è più arduo, ed è di fronteggiare i motivi per cui la fabbrica è diventata più difficile; rimuovere le cause sociali e politiche di un conflitto che risulta incontrollabile dal sindacato e da leggi anche più rigorose delle nostre, come dimostra l’esperienza europea. Non si dimentichi che persino in Germania e nei paesi scandinavi la stragrande maggioranza dei conflitti, in questi ultimi anni, sfuggono al controllo del sindacato e della legge.”
Con questo scambio di opinioni, tra due storici sostenitori della legge 300 e
del riformismo giuslavorista, si aprì per la prima volta un dibattito critico sullo
statuto e ciò avvenne, come abbiamo visto, in conseguenza agli eventi giudiziali e
politici dei licenziamenti Fiat. Si andava delineando, nel contesto degli anni di
piombo, il dibattito tra chi, come Mancini, riteneva che a distanza di anni lo
299 T. Treu, Lo statuto dei lavoratori è troppo vecchio per una fabbrica più difficile e più giovane? Una polemica con Federico Mancini, in “Il Manifesto”, 10 febbraio 1980.
201
Statuto presentasse delle incongruenze con lo sviluppo delle domande della nuova
soggettività operaia e che queste dovevano essere assestate modificando alcuni
tratti essenziali della legge o della disciplina da essa regolata anche
indirettamente. A ciò si rispondeva, come fece Treu, che tali sviluppi, essendo
interni alla classe operaia, dovevano essere guidati dalle forze progressiste e
democratiche, senza ridimensionare o rimodellare la lettera della legge e anzi
approfondendone la lettera rimasta morta.
Il tema si ripropose nei mesi successivi, nei consueti convegni sulla legge a
dieci anni dalla sua approvazione. In uno di questi, quello organizzato dalla
Fondazione G. Brodolini300, sempre molto attenta ai cambiamenti in atto nel
movimento dei lavoratori e nella società, parteciparono proprio i due contendenti
della disputa di cui sopra. Mancini, nella sua relazione301, ripropose il suo schema
interpretativo legato alle conseguenze sulla legge della emergente nuova
soggettività operaia. Per l’autore infatti non c’era dubbio “che [era] la filosofia
dello Statuto ad essere entrata in crisi”, perché fondata sulla rigidità nell’uso della
forza lavoro e sul modello di fabbrica “facile”, in cui la conflittualità era
rappresentata dal “soggetto storico classe-operaia” che contestava “la durata, la
gravosità, la retribuzione non l’etica del lavoro”. Mancini sottolineava la presenza,
in quel momento storico, di una sempre maggiore richiesta di lavori “multipli,
interinali, part-time, lavori a termine” e il fatto che il soggetto di riferimento del
conflitto sembrava essere sempre più quello “empirico-lavoratore singolo” che
contestava l’etica stessa del lavoro. In questo senso la conflittualità “si [faceva]
sempre più dura, più violenta”. L’autore, nonostante dichiarava di non voler
300 AA.VV., Lo Statuto dei Lavoratori dieci anni dopo, Venezia, Marsilio, 1981. 301 G. F. Mancini, Statuto e nuova soggettività operaia, in Ivi, pp. 15 ss.
202
identificare le sue critiche allo Statuto con quelle che da anni provengono dalla
parte padronale (art. 5 assenteismo e art. 8 indagini sui lavoratori vietate) e che
non avessero “senso in [quella] fase interventi legislativi che potino i rami secchi
del vecchio garantismo”, propose comunque di aggirare tali punti critici, tramite
l’azione contrattuale e anche legislativa. Propose, ad esempio di riformare tutto il
sistema di collocamento, come anche di abolire “quella ormai intollerabile legge
18 aprile 1962, n. 230, sul contratto a tempo determinato”. Sul tema della
conflittualità poi, alla dichiarazione di non voler cambiare la lettera dell’art. 28
dello Statuto, affiancò proposte di intervento per “introdurre procedure, introdurre
regole e anche, quando sia necessario, di dare luogo a rinunce.” E’ palese come
Mancini, da sempre grande sostenitore della legge, in quel momento storico in cui
ravvede delle rughe nello Statuto, cerchi da una parte di mettere in rilievo il più
possibile queste rughe e dall’altra di non identificarsi con chi da un decennio
criticava la legge “da destra”, proponendo non interventi di modifica, ma di
“aggiramento” per far fronte alle rughe stesse. Talaltro, lo stesso Mancini, nello
stesso anno, dichiarò proprio riguardo allo Statuto, che ognuno “ha il diritto di
cambiare opinione al massimo ogni dieci anni.”302
Diverse le impostazioni su cui si mosse la relazione di Treu303 che in prima
istanza elogiò la legge e il suo buon funzionamento, in quanto i suoi principi più
importanti “in questo decennio sono stati acquisiti dalla società italiana, e
soprattutto in gran parte delle aziende, quelle a cui lo Statuto si dirigeva
beninteso, cioè l’area forte del lavoro.” E ciò per l’autore “non [era] una cosa da
poco”. Per Treu non esisteva un problema di rughe dello statuto: ciò che 302 G. F. Mancini, Terroristi e riformisti, Bologna, Il Mulino, 1981, p. 7. 303 T. Treu, Statuto e prospettive di democrazia industriale ed economica, in AA.VV., Lo statuto dei lavoratori dieci anni dopo, cit., pp. 21 ss.
203
bisognava verificare era il ruolo della fabbrica nei rapporti con la società e “la
società nei rapporti con lo Stato”. L’autore dichiarò che
“se volessimo cominciare con una controbattuta rispetto a quella delle “rughe” io non credo
che lo Statuto nella sua normativa essenziale abbia delle rughe, sia invecchiato per così dire. Secondo me lo Statuto è accerchiato, non è riuscito cioè a mettere in moto un processo che doveva continuare, portare alcune indicazioni fino in fondo. […] Quindi, in questo senso, mi pare che è un problema non di “rughe” ma di limiti e di incapacità delle forze che dovevano portare avanti il discorso, appena cominciato dalla legge, della trasformazione della vita in fabbrica, di rispondere a queste nuove esigenze dei giovani, me è un problema che lo Statuto non voleva e non poteva risolvere”
Per Treu quindi il problema si poneva politicamente verso quei soggetti
preposti al cambiamento e che avrebbero dovuto e che dovranno in futuro, capire
l’evoluzione della fabbrica e del lavoro nella società italiana.
“Credo quindi che il problema centrale sia la riverifica della realtà di fabbrica. Il garantismo
non è sufficiente, non basta garantire dall’arbitrio padronale i lavoratori per risolvere i problemi della fabbrica. Questo non significa, ovviamente, che il garantismo vada né abolito né ridimensionato. Inoltre bisogna distinguere tra rigidità e rigidità; io credo che la rigidità sia inevitabile per quanto riguarda le norme di tutela delle libertà, che non sono negoziabili. Ci sono invece rigidità che sono invece adattabili, vanno storicizzate.”
Comunque sia al principio del decennio ’80 lo Statuto, per via degli eventi
degli anni di piombo e in modo specifico per via della vicenda dei 61
licenziamenti, veniva messo sotto accusa per l’eccessivo garantismo che dava ai
lavoratori nelle aziende. Si può quindi affermare che lo Statuto venne
“accerchiato” politicamente, da chi, a destra come a sinistra, riteneva che esso
fosse la causa materiale e simbolica di eccessivo garantismo e quindi di
permissivismo anche verso la libertà di azione dei gruppi violenti e terroristi. Ma
questo processo di accerchiamento politico era strettamente connesso ai primi
segnali di crisi che attraversarono il movimento operaio e il sindacato industriale
consolidatosi nel decennio ’70. L’emergere di una nuova soggettività operaia,
poco dedita al lavoro di fabbrica e alla rigidità della catena di montaggio, inoltre
204
avveniva parallelamente alle strategie di ristrutturazione aziendali post-fordiste
sempre più auspicate da larghi settori dell’imprenditoria italiana. In questo senso
lo Statuto, legge fordista, operista e industriale per eccellenza, come rilevò
Mancini, indubbiamente veniva vista come legge non più aderente tanto alle
aspirazioni della nuova soggettività operaia, quanto a quelle di superamento del
fordismo auspicate dagli imprenditori per uscire dalla crisi economica.304
2.3 Verso una società post-industriale. Produzioni post-fordiste e
crisi politico-sindacale della classe operaia
Gli anni ottanta furono gli anni del declino della “Società industriale” e della
produzione taylor-fordista. In tutti i paesi occidentali si assistette a cambiamenti
epocali delle caratteristiche essenziali del capitalismo avanzato basato sulla
centralità della grande industria e sulla produzione industriale di massa.
L’emergere di un consumo sempre più stratificato e particolareggiato, la
straordinaria impennata del commercio internazionale e l’avvento di nuove e
potenti tecnologie, mutarono per sempre i paradigmi e le categorie di riferimento
su cui si era basato lo sviluppo economico per circa mezzo secolo. Si aprirono le
porte alla c.d. “società dei servizi” e a diverse esperienze produttive post-
industriali e post-fordiste. Anche l’Italia, seppure in ritardo rispetto ad altri paesi,
fu attraversata da questi cambiamenti e ciò ebbe notevoli conseguenze per il
mondo del lavoro e le organizzazioni storiche del movimento operaio che si erano
sviluppate proprio in risposta di un determinato modello di sviluppo, cioè quello
industriale e fordista. Nonostante l’Italia rappresenti un caso particolare, anch’essa
304 In questo senso, cioè all’eccessiva rigidità della forza lavoro causata dallo Statuto, si veda l’intervento al convegno della Fondazione G. Brodoloni, di E. Massacesi, presidente dell’Alfa Romeo, in Ivi, pp. 67 ss.
205
può a buon ragione essere inserita in questo processo di generale superamento
dell’industrialismo taylor-fordista.
Già alla metà degli anni settanta l’economia italiana faceva registrare una
diminuzione degli occupati e del valore aggiunto derivanti dal settore secondario e
un aumento consistente dei servizi305. Ma questo movimento,
“per l’Italia […] nel periodo 1970-’80 può essere considerato il decennio di preparazione
all’avvento post-industriale. Negli anni successivi, infatti, l’andamento dell’occupazione italiana segue la strada della terziarizzazione, indicandone meglio la direzione”.306
Una società, tuttavia, in cui è lo stesso sistema produttivo a intraprendere
nuovi modi di produrre, grazie all’apporto delle tecnologie applicate e a nuovi
modelli organizzativi. E’ questa la chiave di lettura per capire i mutamenti del
decennio, cioè quella di non registrare un semplice aumento di carattere residuale
del settore terziario classico, ma di rintracciare in questi anni la crescita
prorompente di un “terziario avanzato” direttamente applicabile alla produzione di
valore e quindi fortemente incisivo sulle dinamiche produttive e quindi
occupazionali. Una dinamica messa in moto dalla nascita di una serie di nuovi
servizi, come le società di consulenza, di comunicazione e di ricerca applicata, di
marketing, di informatica e software, caratterizzate da una straordinaria capacità
trainante per tutto il sistema economico, tanto da incidere sugli stessi modelli
organizzativi e aziendali della produzione. Questo nuovo corso dell’economia
mise in discussione quella “società entro la quale, indipendentemente dalla forma
di governo, i più importanti rapporti e relazioni sociali, la stratificazione sociale,
305 Nel 1973 gli occupati nel settore servizi (44,9%) superavano quelli nel settore industriale (38,4%), fonte in F. Somigliano, D. Siniscalco, Terziario totale e terziario per il sistema produttivo, in AA.VV., Il terziario nella società industriale, Milano, F. Angeli, 1980, p. 29. 306 G. Natoli, L’avvento post-industriale in Italia, in “Sociologia del Lavoro”, n. 28, 1987, p. 173.
206
le principali istituzioni economiche e politiche, le forme del potere e del dominio,
la cultura materiale e non materiale, sono condizionati e improntati più che da
ogni altro fattore dalla presenza e dall’attività dell’industria [fordista], dallo
sviluppo delle [grandi] aziende industriali, dal lavoro [parcellizzato] nelle
fabbriche”.307 Ciò che vogliamo affermare è che il decennio ottanta, nonostante
rimase un periodo di transizione, fu teatro di un vero e proprio cambiamento
strutturale dell’economia italiana, che di fatto portò al superamento della “Società
Industriale” e che ebbe conseguenze rilevanti sul modo di lavorare e quindi sui
diritti dei lavoratori e sulle dinamiche politico-sindacali. Settori chiave di questa
crescita del terziario, sia pubblico che privato, furono quello finanziario, delle
telecomunicazioni e quello sociale, come anche nella vendita commerciale al
dettaglio. Per tutto il decennio l’Italia dimostrò quindi una sufficiente vitalità sia
per quanto riguardava i servizi destinati al consumatore che per quelli destinati
alla produzione.
In questo contesto di tendenza alla terziarizzazione dell’economia, la grande
industria italiana per tutto il decennio si adoperò per il superamento dei vecchi
modelli di produzione e di organizzazione aziendale, sfruttando le nuove
opportunità fornite dalla rivoluzione informatica. Se gli anni ’50 e ‘60 furono gli
anni dell’espansione della grande industria fordista sul modello nordamericano e
dell’investimento nella grande produzione di beni standardizzati per sfruttare le
economie di scala, gli anni ’80 furono invece gli anni in cui si cercò una via di
uscita dal modello organizzativo che aveva determinato la nascita del
neocapitalismo in Italia. Già dalla seconda metà degli anni settanta le maggiori
307 L. Gallino, “Società Industriale”, in Dizionario di Sociologia, Torino, Utet, 1978, p. 627.
207
imprese pubbliche e private, sotto la pressione della conflittualità operaia,
dell’emergere di una nuova concorrenza internazionale e della crisi petrolifera,
operarono per una consistente ristrutturazione, provvedendo a decentralizzare
alcune fasi della produzione e ad introdurre alcune tecnologie nei processi
produttivi. Ma fu nel decennio ’80 che queste iniziarono quel processo di
“flessibilizzazione” e “giapponesizzazione”308 che segnò la prima fase post-
fordista dell’industria italiana. Una fase di cambiamenti epocali, che proprio negli
anni ottanta andò assumendo, non certo una svolta facile ed immediata, ma i
connotati di una vera e propria transizione verso modelli produttivi alternativi al
taylor-fordismo. M. Revelli così ha descritto queste trasformazioni, osservando i
grandi temi politici e sociali cui assisteva alla metà degli anni ’90:
“Esse affondano le radici in un quadro di trasformazione epocale dei processi di lavoro e di
organizzazione produttiva: per la precisione in quella che chiamerei la fase di transizione dal modello fordista-taylorista che ha segnato a fondo il Novecento, e ha rappresentato, fino ad ora, il contesto e l’ambiente in cui si è sviluppato il conflitto sociale e si sono strutturate le forme organizzative della rappresentanza politica, a un nuovo modello, a un nuovo paradigma produttivo di cui s’incomincia appena ora a intravedere le linee portanti, e che si può chiamare, per semplicità, “postfordista”, a sottolineare il carattere incompiuto, di “transizione”, appunto.”309
Si può a buon ragione affermare che fu il decennio dell’incontrastata ricerca
per affermare un nuovo liberismo, cioè un nuovo modo di produrre e di gestire la
forza lavoro, secondo paradigmi del tutto nuovi rispetto alla società industriale e
taylor-fordista. Il senso dello sviluppo illimitato e la sicurezza di produrre grandi
quantità di beni sicuramente vendibili nel mercato interno e internazionale,
308 Con questo termine intendiamo riferirci ai modelli organizzativi introdotti dalla scuola giapponese, basati sulla produzione flessibile in alternativa alla produzione di massa tipica del modello americano fordista. 309 M. Revelli, Economia e modello sociale nel passaggio tra fordismo e toyotismo, in P. Ingrao, R. Rossanda, Appuntamenti di fine secolo, Roma, ManifestoLibri, 1995, p. 161.
208
entrarono in crisi in un contesto di forte differenziazione dei mercati, dominati da
una crescita lenta e da una competizione sempre più globale e agguerrita.
“La dilatazione ad libitum dei volumi produttivi secondo dinamiche lineari non può più
rappresentare il terreno su cui regolare la dinamica costi-profitti. E di conseguenza devono essere radicalmente mutate tutte le regole organizzative che dominavano in una struttura produttiva “centrata sulla crescita”.310
Quindi non si assistette semplicemente ad una crescita fisiologica del settore
terziario in un’ottica di sviluppo lineare del capitalismo che va
“deindustrializzandosi”, ma soprattutto ad una ricerca costante di sperimentare
nuovi modi di produrre in un’ottica post-industriale che del settore dei terziario
avanzato avrebbero avuto estremamente bisogno. Questa volta la “stella polare”
del nuovo corso fu fornita da modelli organizzativi più flessibili e meno rigidi, a
cui le stesse grandi organizzazioni dei lavoratori erano riuscite a rispondere e a
proporre con la propria azione conflittuale, una propria “rigidità operaia”.
L’imperativo fu quello di snellire, flessibilizzare, eliminare inutili formalismi
produttivi e individuare valore aggiunto nella cooperazione della manodopera e
nella ricerca di prodotti nuovi, differenziati e rispondenti ai gusti individuali del
consumatore.
“In questo nuovo modello non si puntava più a macchine specializzate per la fabbricazione di
prodotti standardizzati, ma su macchine polivalenti che utilizzavano automatismi flessibili per fabbricare un ampia gamma di prodotti”311
Nonostante in Italia, come vedremo, questo processo ebbe sue caratteristiche
(e sia attualmente ancora in fase di attuazione) si può certamente affermare che le
maggiori aziende del paese tendevano verso una non facile acquisizione di
310 Ivi, p. 178. 311 P. Ginsborg, L’Italia nel tempo presente. Famiglia, società civile, Stato 1980-1996, Torino, Einaudi, 1998, p. 27.
209
modelli di organizzazione della produzione di tipo “toyotisti”, della ricerca
ossessionata della c.d. lean production o della costruzione della “fabbrica
integrata”. Tale processo sembra ancora in corsa al principio del nuovo secolo e
ha avuto diverse applicazioni nei vari paesi occidentali e nonostante i modelli di
organizzazione di riferimento siano nati e si siano sviluppati in Giappone negli
anni ’50, si può certo rintracciare già dagli anni ‘80 una tendenza comune a tutto
l’occidente e in esso anche in Italia. Come suggerì un acuto studioso francese,
“[…]questa constatazione non li priva [i nuovi modelli organizzativi provenienti dal Giappone
– ndr] affatto della loro valenza generale, o per essere ancora più espliciti, della loro “trasferibilità” ed applicabilità in spazi socio-economici differenti da quelli nei quali e per i quali queste tecniche sono state concepite.”312
Lo stesso Coriat, che preferiva identificare i nuovi modelli di produzione con
una vera e propria corrente che chiamava “ohnismo”313, sottolineava che
“nell’ohnismo c’è del “particolare” e dell’”universale”, ma né più né meno di
quanto c’è ne sia (o fosse) nel taylorismo o nel fordismo.314 E’ utile quindi
descrivere brevemente le caratteristiche essenziali del toytotismo per poi
focalizzare l’analisi sull’esperienza italiana degli anni ottanta.
La caratteristica principale, ovvero il cuore della produzione post-fordista, è
quella di diversificare il prodotto e di renderlo il più possibile aderente alle
richieste del mercato. Quindi ad un metodo di produzione basato sulla produzione
standardizzata di massa, si contrappone al rovescio la c.d. “produzione snella” in
piccole serie di modelli diversificati. Una produzione che sfugge al mercato
312 B. Coriat, Ripensare l’organizzazione del lavoro. Concetti e prassi del modello giapponese, Bari, Dedalo, 1991, p. 14. 313 Questo perché nella letteratura numerosi studiosi tra cui lo stesso Coriat, nello studio del modello di produzione giapponese fanno riferimento a Taijchi Ohno, autore giapponese dell’opera fondamentale Lo spirito Toyota, scritto negli anni ’70 e pubblicato in Italia da Einaudi nel 1993 e introdotto tra l’altro da M. Revelli. 314 B. Coriat, cit., p. 14.
210
fordista standardizzato e che rovescia le logiche delle economie di scala. Per fare
ciò c’è bisogno di una “fabbrica minima”, flessibile e senza nessuna fonte di
spreco. L’imperativo è quindi quello di ridurre al minimo le scorte di magazzino,
il lavoro in esubero e i tempi morti. La fabbrica deve integrare e sincronizzare le
fasi produttive per rispondere giusto in tempo (just in time) all’ordine del
consumatore.
“Tre giorni di lavoro di un’intera squadra per sostituire i giganteschi stampi delle grandi
presse […] erano tollerabili quando quella determinata componente doveva esser prodotta in milioni di esemplari […] Ma ora, quando la produzione si struttura in piccoli lotti, quando la crescente diversificazione e personalizzazione del prodotto accorcia drasticamente i differenti sotto-cicli produttivi […] ogni ora di lavoro perduta nell’alloggiare l’utensile, ogni uomo impiegato nel preparare la macchina a produzione ferma è una perdita secca.”315
E’ chiaro quindi che, oltre ad una notevole massa di informazioni esterne
provenienti dal mercato e servizi per il mercato, il sistema produttivo deve
necessariamente fornirsi di un sistema generale di informazioni interne, capace di
controllare tutte fasi della produzione per rendere la produzione snella e
“sgrassata” da ogni tipo spreco e di errore sopravvenuto. La fabbrica si trasforma
in una specie di tubo di cristallo316 dove ogni operazione errata o un qualsiasi
intoppo possa essere immediatamente visibile tramite l’apporto di tecnologie
informatiche capaci di creare un sistema informativo interno al processo
produttivo. Ci riferiamo a dispositivi informatici capaci di comunicare al
momento stesso il sorgere di un problema nella fase produttiva dove esso
sopravviene, valutarne la sua entità e di provvedere velocemente alla sua
risoluzione, il tutto senza compromettere l’intero processo produttivo. Tale
modello quindi tende alla “qualità totale”. Inoltre non è affatto necessario che 315 M. Revelli, Economia e modello sociale, cit., p. 179. 316 G. Bonazzi, Il tubo di cristallo. Modello giapponese e fabbrica integrata alla Fiat Auto, Bologna, Il Mulino, 1993.
211
tutto il processo produttivo debba essere realizzato all’interno di un unico
stabilimento. Anzi, la produzione snella predilige un’organizzazione a rete, cioè
una serie di piccole unità produttive fornitrici e sub-fornitrici, specializzate nella
produzione delle diverse componenti del prodotto finito, dove qualità e
eliminazione degli sprechi sono più facili e gestibili. Anche in questo caso i
sistemi di informazioni tra fornitori, sub-fornitori e casa madre sono
indispensabili per realizzare una produzione integrata e sincronizzata. Ed è del
tutto ovvio che i “gigantismi” della grande fabbrica fordista non rispondono a
queste esigenze, perché più difficili da controllare e generatori di sprechi e
rigidità.
“Il principale criterio di efficienza diviene […] il controllo e la ottimizzazione della “catena
del valore” nella ideazione, ingenierizzazione, approvvigionamento, fabbricazione, vendita, consegna, incasso: non vi è più una variabile centrale e fissa che determina l’efficienza (per esempio l’efficienza della manodopera) ma si ricerca una composizione ottimale dell’efficienza dei vari fattori, sia interni che esterni all’impresa.”317
Come nella fase d’importazione del fordismo in Italia l’azienda di riferimento
fu la Fiat già dai tempi del fascismo, anche nella corsa alla “giapponesizzazione”
post-fordista si può affermare che l’impresa torinese rappresentò il caso su cui
concentrare l’analisi dell’esperienza italiana. Fu lo stesso amministratore delegato
della Fiat, Cesare Romiti, a sottolineare il ruolo guida della Fiat in tale processo:
“la pietra che abbiamo gettato nello stagno ha prodotto cerchi concentrici, via via sempre più
larghi. Ora, si pensi a tutto l’indotto Fiat, tante piccole e medie aziende, non soltanto in Piemonte, ma il Lombardia, Veneto, Toscana, Emilia. Abbiamo chiesto a queste imprese di ristrutturarsi, come stavamo facendo noi, e di affrontare questi sacrifici molto forti […]. Qualche impresa non ce l’ha fatta a tenere il nostro ritmo, ed è caduta lungo il cammino. Ma la maggioranza ha tenuto, ha saputo cambiare”318
317 F. Butera, Il lavoro nella rivoluzione tecno-economica, in “Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, n. 36, 1987, 4, p. 736. 318 La citazione è ripresa da P. Ginsborg, L’Italia del tempo presente, cit., p. 27, che fa riferimento all’intervista di Gimpaolo Pansa allo stesso Cesare Romiti, in C. Romiti, Questi anni alla Fiat, a cura di G. P. Pansa, Milano, Rizzoli, 1988.
212
Certamente l’Italia ebbe molti ritardi nell’intraprendere diffusamente modelli
organizzativi della produzione secondo una prospettiva toyotista. Tuttavia se negli
anni ottanta “la “produzione snella” non era assolutamente divenuta la norma, e le
aziende italiane spendevano in ricerca e sviluppo molto meno dei loro concorrenti
esteri”319, le strategie Fiat rappresentavano comunque un caso emblematico del
nuovo corso della grande industria italiana. Ma vediamolo più da vicino.
Lo stallo in cui il gruppo torinese si era arenato nel decennio settanta ebbe una
svolta proprio negli anni successivi alla vicenda dei 61 licenziamenti e alla
sconfitta sindacale dell’autunno ’80 culminata con la famosa marcia dei 40.000.
Che questi due eventi successivi aprirono la nuova fase di rilancio della Fiat e il
superamento del modello vallettiano auspicato e atteso già da un decennio, è
ormai assodato. Un processo che successivamente avrebbe assunto i caratteri di
una vera e propria rivoluzione organizzativa, non poteva non passare da un netto e
consistente ridimensionamento dei contropoteri operai e sindacali emersi per tutto
il decennio settanta. Due eventi successivi, l’uno conseguenza logica dell’altro,
che inaugurarono il declino della centralità politica e sociale del sindacato, prima
alla Fiat e poi nell’intero contesto politico e sociale del Paese.
“Il durissimo scontro sindacale del 1980, produsse un rivolgimento profondo delle relazioni
industriali nell’azienda. Esse non furono interrotte, ma dall’agenda della negoziazione vennero a mancare gli interventi sull’organizzazione del lavoro, i problemi della forza lavoro in fabbrica (dalle qualifiche all’ambiente, ai ritmi di lavoro) […] Il management si limitava a comunicare le modifiche della struttura organizzativa e produttiva, l’introduzione di nuovi impianti e metodi di produzione.”320
319 Ivi, p. 30. 320 A. Salento, cit., p. 33.
213
Da qui iniziò la fase della “ristrutturazione”, del ridimensionamento
produttivo e occupazionale che aprì le porte al compimento della rivoluzione
organizzativa degli anni ’90. La direzione apprese che per competere con il
mercato aveva bisogno di ridimensionare le strutture produttive, “sgrassare” la
produzione dagli sprechi e allo stesso tempo aumentare la produzione
introducendo maggiormente strumenti tecnologici di “automazione flessibile”321.
Nel corso di tutto il decennio si assistette ad un forte ridimensionamento del
personale, tramite il ricorso alla cassa integrazione e allo stesso tempo ad un forte
aumento della produttività. Revelli fece notare che la prima ondata di riassetto
occupazionale fu intrapresa secondo un criterio che colpisse, non solo “gli operai
più combattivi, protagonisti del ciclo di lotte e detentori di una memoria
conflittuale diventata incompatibile con il nuovo ordine produttivo”, ma anche
tutte quelle figure lavorative “deboli” e meno avvezze al lavoro di fabbrica, quali
donne, giovani, invalidi “e, in generale, i settori meno qualificati”.322 Le nuove
soggettività operaie non avvezze al lavoro di fabbrica emerse nella seconda metà
degli anni settanta, vennero quindi presto espulse perché il nuovo modello
organizzativo non era più compatibile con una forza lavoro non cooperativa o
quantomeno non consensuale. Inoltre molti accordi di solidarietà sottoscritti con i
sindacati per il rientro dei cassintegrati furono disattesi e molti di questi scelsero
l’autolicenziamento e la ricerca di una nuova occupazione. Ma a fronte del calo
occupazionale, la produzione per occupato al contrario cresceva: dal ’80 all’83 la
321 Già nel corso degli anni settanta ci furono le prime introduzioni di strumenti tecnologici di automazione flessibile: l’utilizzo di 18 robot Ultimate per la produzione della Fiat 132, l’introduzione del sistema Digitron per l’assemblaggio della Fiat 131. In questo caso, l’introduzione di queste tecnologie era connessa alla capacità di queste di ridurre lo sforzo fisico degli operai e per questo intimamente collegata alle rivendicazioni sindacali di quegli anni. 322 M. Revelli, Lavorare in Fiat, cit., p. 104.
214
produzione scese solo del 4%, mentre la produttività per dipendente era in crescita
costante.323 La causa va ricercata proprio nell’introduzione delle tecnologie e nella
razionalizzazione della forma organizzativa, che portò alla nascita della “Fabbrica
ad Alta Automazione”.
Alle strategie aziendali di introduzione delle nuove tecnologie, il sindacato
non riuscì ad impostare una autonoma condotta negoziale che riuscisse a superare
la dicotomia tra un’azione sindacale di opposizione all’introduzione tecnologica -
secondo una logica classista del sindacato conflittuale tipica degli anni sessanta e
settanta - e una condotta di cooperazione passiva - secondo una logica di
approvazione delle decisioni aziendali ex post. A posteriori, l’atteggiamento
sindacale in un primo momento assunse caratteri di resistenza all’introduzione di
nuove tecnologie perché fonte di esuberi. Inoltre il processo veniva visto in
un’ottica di ristrutturazione transitoria che non avrebbe rivoluzionato i caratteri
fondamentali del processo produttivo. Per questo ci si preoccupò principalmente
di contenere la diminuzione dell’occupazione. Successivamente, individuati i
caratteri rivoluzionari del processo di automazione tecnologica, l’atteggiamento
mutò verso una collaborazione passiva e burocratica che assunse un ruolo
periferico od almeno indiretto alle scelte strategiche delle direzioni aziendali.
Adottando la linea interpretativa proposta già nel 1985 da M. Biagi, giuslavorista
sempre attento ai mutamenti del sistema impresa, dopo strategie “orientate in
senso egualitario” e alla resistenza, il sindacato sembrò accettare la sfida
tecnologica e cooperativa, ma certamente esso non riuscì ad impostare una
cooperazione di “tipo attivo (dove il sindacato accetta di pianificare in anticipo
323 Si passò dalle 9,4 auto per dipendente nel 1979 alle 19,2 nel 1986, Ivi, p. 110.
215
l’impatto sociale della rivoluzione tecnologica)”, optando al contrario per una
condotta “passiva (in cui ci si limita ad arginare ex post gli effetti del
cambiamento).”324
La strategia d’introduzione delle tecnologie era intimamente connessa alle
strategie di meridionalizzazione. Fu negli stabilimenti di Termoli e Cassino che si
realizzò la Fabbrica ad Alta Automazione.
“A differenza degli stabilimenti piemontesi, dove l’intensificazione tecnologica interessò solo
alcune fasi del processo produttivo, in quelli meridionali le innovazioni di processo riguardarono l’intero ciclo, da monte a valle senza soluzioni di continuità. Così, nel Sud “arretrato” e “sottosviluppato”, la Fiat […] realizzò quella che, a posteriori, fu efficacemente denominata la Fabbrica ad Alta Automazione: un nuovo contenitore manifatturiero incentrato su un’automazione tendenzialmente integrale, in grado di assicurare (in teoria) regolarità produttiva, flessibilità e qualità perfetta.”325
Qui si cominciò a parlare di fabbrica “senza operai”, nella convinzione che
l’uscita dal fordismo potesse essere effettuata senza profonde innovazioni
organizzative in grado di superare l’organizzazione gerarchica del taylorismo
burocratico. Ma l’avvento del toytismo in Italia e della fabbrica integrata alla Fiat
Auto furono ritardati e completati solo nel corso degli anni ’90, proprio per la
debole introduzione di nuovi modelli organizzativi che superassero le
caratteristiche gerarchiche del taylorismo.
“Bisognava ritornare al capitale umano e al suo ineludibile contributo al processo tecnico-
produttivo in termini di discrezionalità, creatività, polivalenza e professionalità. Occorreva
324 M. Biagi, Sindacato, partecipazione e accordi tecnologici, in “Politica del Diritto”, n. 2, giugno 1985. L’autore al tempo proponeva come punto di partenza di una strategia cooperativa attiva, il protocollo d’intesa firmato tra sindacati ed IRI nella persona di Romano Prodi, ma ne sottolineava anche i limiti. L’accordo prevedeva un sistema partecipativo nell’introduzione e nell’investimento in tecnologie. Si può certo affermare che la strategia di “controllo sociale anticipato delle nuove tecnologie”, fallì sia per la mancanza in esso di un efficace sistema sanzionatorio in caso di non cooperazione da parte delle imprese, sia per la mancanza di partecipazione e democrazia interna al sindacato, come anche per le divisioni delle confederazioni sindacali causate della pratica diffusa delle firme di accordi separati. 325 D. Cersosimo, Da Torino a Melfi, cit., p. 57.
216
ricorrere alle competenze e all’intrinseca flessibilità dell’uomo, il cui coinvolgimento intelligente e cooperativo alla produzione risulta decisivo ai fini del risultato finale”.326
Sul piano organizzativo infatti la ristrutturazione degli anni ottanta aveva
comportato una “razionalizzazione debole”, non solo “nei settori a più elevata
densità tecnologica”, ma “anche, sebbene in misura decisamente ridotta, nelle
situazioni esecutive tradizionali, dove l’introduzione di sistemi automatizzati
faceva sorgere esigenze di microregolazione del flusso e di controllo e piccola
manutenzione delle macchine”.327 Si andava progressivamente allentando
l’organizzazione gerarchica di tipo taylorista e cominciarono a nascere i primi
circoli di qualità e ad essere istituite le c.d. gare di qualità, che introducevano
nuove forme lavorative con una, seppur minima, discrezionalità operativa.
“In quest’ottica, lo scarto tra l’agire produttivo e la norma “ufficiale” non è più osservato
come un dato necessariamente e invariabilmente patologico (come tipicamente avviene nella prospettiva taylorista); piuttosto, va accolto qualora introduca nella produzione margini di miglioramento. E tuttavia, di un’eccezione si tratta, sia pur giustificabile e addirittura apprezzabile a determinate condizioni”328
In questa fase di costruzione della fabbrica ad Alta Automazione,
l’introduzione di nuove tecnologia non comportò necessariamente e
automaticamente un riassetto organizzativo di tipo post-tayloristico,
essenzialmente per ragioni sia di tipo economico che di tipo culturali.
“Infatti le maggiori difficoltà incontrate nella partecipazione nei processi innovativi sono: - di
natura economica, nei casi in cui si vuole che l’automazione sia introdotta nel più breve tempo possibile e dia benefici immediati. La partecipazione non viene adottata per i tempi lunghi e i costi della stessa, oltre che per il prevalere di modelli gerarchico-funzionali in quanto tali; - di natura culturale, anche quando vengono promossi percorsi applicativi di tipo partecipativo la tendenza
326 Ivi, 58. 327 A. Salento, cit., p. 37. 328 Ivi, p. 38.
217
all’interno dell’organizzazioni gerarchico-burocratiche è quella di riprodurre se stesse nel nuovo contesto e individuare la partecipazione come un processo disfunzionale alla propria logica.”329
Bisogna non sottovalutare nel difficile contesto economico degli anni ottanta,
l’estrema vitalità e importanza delle piccole e medie imprese, proprio perché
l’Italia storicamente ne ha sempre mantenuto attive un numero considerevole. Ci
riferiamo all’emergere del “capitalismo molecolare”330 e al suo interno dei c.d.
distretti industriali. Già nel corso degli anni settanta era stata ravvisata la vitalità
economica di una “Terza Italia”, cioè di una serie di territori localizzati
prevalentemente nel nord-est e nell’Emilia-Romagna, dove la presenza di sub-
culture (quella bianca nella prima e quella rossa nella seconda) nate dalla
cristallizzazione di culture politiche presenti da anni in modo massiccio, aveva
permesso un notevole sviluppo produttivo basato su piccole e medie aziende. La
“terza Italia” si dimostrava alternativa sia al nord industrializzato, sia al sud
agricolo e in via d’industrializzazione.
Bisogna tuttavia escludere da questa prospettiva, il proliferare di piccole
aziende fornitrici di grandi aziende e nate in una prospettiva di aggiramento delle
normative fiscali, previdenziali e del lavoro, che essenzialmente andavano a
costituire un settore illegale e del lavoro “nero”. Per tutto il decennio ottanta
questa tendenza ebbe impulsi crescenti e l’economia “sommersa” o più
semplicemente illegale, continuava a rappresentare una fetta consistente
dell’economia italiana. E si può certamente affermare che molti dei rapporti di
lavoro precari, flessibili e sottopagati, vietati o non praticati nell’economia
329 G. Della Rocca, Automazione del lavoro nella società flessibile, in “Politica ed Economia”, XX, n. 3, marzo 1989, p. 38. 330 Cioè un sistema economico dove le attività produttive sono fortemente legate e organizzate in territori circoscritti e da cui ne traggono la loro forza nel mercato interno e internazionale. Si vedi A. Bonomi, Il capitalismo molecolare: la società al lavoro nel nord Italia,Torino, Einaudi, 1997.
218
“formale”, derivino anche dal largo utilizzo che se ne fece in questi settori
sommersi dell’economia. Ad essi si aggiungeva il c.d. settore terziario minore,
cioè i servizi di pulizia, di baby-sitter e dog-sitter, assistenza agli anziani, ecc.
Ben diverse sembrarono invece quelle zone dove già dagli anni settanta, in
piena crisi petrolifera, si andavano raggruppando reti di piccole imprese, spesso a
conduzione familiare, specializzate nella produzione di un unico prodotto
intimamente legato alle conoscenze del territorio e implementate dagli sforzi delle
istituzioni politiche e finanziarie locali. Poggibonisi (mobili), Sassuolo
(ceramiche), Prato e Carpi (tessuti), Belluno (occhiali): la letteratura su questo
universo produttivo fu fiorente e spesso essa ne tesseva le lodi. Addirittura i
distretti vennero descritti come vera e credibile alternativa alla fabbrica fordista e
alla produzione di massa, tanto da mettere in discussione consolidati schemi di
analisi economici sull’affermazione della produzione di massa.331 In questo senso
gli assembramenti di piccole imprese
“sono pronte a incunearsi negli interstizi, sempre più larghi, dei mutamenti di un mercato
recalcitrante davanti a una standardizzazione delle forme di consumo ormai obsoleta. La partita economica si gioca su una produzione di piccoli lotti, quindi flessibile per definizione, commisurata a nicchie di consumo che introducono un segno potente di discontinuità nella massificazione e nella omologazione che avevano imperato per vent’anni.332
Pur di fronte ad una spietata concorrenza internazionale esse seppero
sopravvivere e svilupparsi puntando su piccole innovazioni di prodotto che ne
valorizzarono la presenza sui mercati. Inoltre si assistette alla tendenza per tutto il 331 M. J. Piore, C. F. Sabel, Le due vie dello sviluppo industriale: produzione di massa e produzione flessibile, Torino, ISEDI, 1987. In quest’opera si cercava di presentare lo sviluppo economico del novecento come l’effetto della scelta tra le c.d. “alternative storiche” dello sviluppo. Tra queste sarebbe stata privilegiata la produzione di massa e la grande impresa fordista per via del maggiore favore politico e istituzionale che questa ebbe nelle vicende del secolo. Da qui si cercava di rivalutare la produzione artigianale delle piccole imprese, mai scomparse e ora, in una prospettiva neo-artigianale, più consone al nuovo contesto economico, perché più flessibili e rispondenti alle richieste del mercato. 332 G. Berta, L’Italia delle fabbriche, cit., p. 252.
219
decennio ad una loro espansione in diversi settori e fuori dai confini dove si erano
originariamente affermate, toccando molte province del centro e del sud del Paese.
Nel 1991 si stimava che i distretti presenti nel nostro territorio fossero circa 238
per un numero di occupati che superava il milione e mezzo. Bisogna quindi
sottolineare il ruolo trainante che la piccola e media impresa ebbe per l’economia
italiana e il fatto che la forma distrettuale effettivamente fu la prima vera risposta
che “abbia saputo percorrere i più celebrati marchingegni organizzativi (just in
time, lean production ecc.) giapponesi […]”.333 Ma non bisogna affatto
enfatizzare questa forma organizzativa, per il semplice fatto che già dalla seconda
metà degli anni ottanta, esse cominciarono ad organizzarsi tendendo a
raggrupparsi attorno ad “imprese-leader”, per far fronte non solo alle innovazioni
di prodotto, ma anche e soprattutto a quelle di processo. Alcune di queste furono:
la Marazzi per le ceramiche di Sassuolo o la Uno-A-Erre per gli orafi di Arezzo.
Ciò sottolineava la tendenza per le imprese di minore dimensione a rientrare sotto
il potere di “imprese-guida” e per le grandi imprese a esternalizzare la produzione
assumendo forme organizzative reticolari. Questo perché le grandi società e le
concentrazioni di capitali, grazie alle ristrutturazioni avviate nel corso degli anni
ottanta e rafforzate nel decennio successivo, furono capaci di produrre sia per i
mercati di massa che per quelli di nicchia e spesso lo fecero anche grazie al potere
sulle piccole imprese, sfruttando il loro know how locale e inserendole nella
propria “catena del valore”.
“La flessibilità funzionale, la capacità di adeguare l’offerta di merce ad una domanda in
continuo mutamento (e ancor più la capacita di creare domanda), non è assicurata soltanto né
333 Ivi, p. 255.
220
soprattutto da ridotte dimensioni, ma dalla disponibilità di ingenti risorse che permettano non la semplice innovazione di prodotto, ma una innovazione di processo.”334
La complessità dei mercati e l’aumento della concorrenza internazionale della
grande impresa sempre più impegnata all’introduzione di innovazioni del
processo produttivo, fecero quindi emergere seri limiti alla tenuta del modello di
produzione distrettuale.
“[…] La piccola impresa nelle aree periferiche dovrà porre maggiore attenzione
all’introduzione dell’A.F. [Automazione Flessibile], e in generale alle tecnologie elettroniche. Questo salto qualitativo può trovare però seri limiti negli stessi rapporti di reciprocità che nel passato costituivano la principale risorsa del sistema. Questi rapporti stabilizzatisi nel successo possono condizionare la concentrazione delle risorse finanziarie e lo sviluppo conoscitivo necessario all’innovazione.”335
Fu in questo contesto di grandi mutamenti descritti nel passaggio dalla società
industriale a quella dei servizi, che abbiamo chiamato fase post-industriale, che si
andava consumando il declino del sindcalismo industriale italiano e si aprì una
nuova crisi sindacale, per certi aspetti non ancora risolta ad oggi. Certamente con
il senno di poi, le cause principali del progressivo declino della centralità politica
e sociale del sindacalismo italiano, possono essere individuate nell’incapacità di
far fronte agli stessi mutamenti economico-sociali che avevano reso estremamente
complesso l’universo della forza lavoro. A questo si aggiunsero una rinnovata
divisione delle confederazioni sindacali, la nascita dei sindacati extraconfederali e
fattori politici in generale.
Per quanto riguarda i mutamenti della forza lavoro, innanzitutto bisogna
sottolineare il declino della forza lavoro nella grande industria, che aveva
rappresentato il nucleo essenziale su cui si era incentrata l’iniziativa sindacale per
334 A. Salento, cit. 335 G. Della Rocca, cit., p. 36.
221
un ventennio. Se dalla fine degli anni cinquanta la società italiana tendeva verso il
pieno impiego e verso la centralità politica e sociale dell’operaio della grande
industria, gli anni ottanta videro il riemergere della disoccupazione di massa e il
proliferare di diverse figure lavorative non operaie. Le ristrutturazioni, nonostante
la pratica crescente della contrattazione gestionale degli esuberi, comportarono il
riemergere di una diffusa disoccupazione solo parzialmente assorbita dal settore
terziario. In molti all’affiliazione e alla mobilitazione sindacale preferirono la via
della ricerca individuale di alternative al lavoro operaio e subordinato, ritenuto
ormai non gratificante e spesso questi andarono ad ingrossare le file del lavoro del
terziario inferiore e del lavoro nero. In questo settore si sperimentava il grosso del
lavoro precario, a tempo determinato, sottopagato e senza tutele previdenziali che
si intrecciava spesso all’assenza di sindacalizzazione. Inoltre le conclamate
capacità di assorbimento del settore terziario furono disattese e gli “inoccupati”,
cioè coloro in cerca di primo impiego, crebbero estremamente assieme ai
fenomeni di emarginazione sociale e di crescita della delinquenza giovanile nelle
periferie urbane. La disoccupazione di massa e il crescente numero dei
casseintegrati rese l’azione sindacale più difficile, visto che “rappresentare il
lavoro” avrebbe dovuto significare battersi anche per chi il lavoro non l’aveva o
chi lo aveva “a nero”. Un compito di cui il sindacato della crescita illimitata si era
preoccupato solo in relazione alle strategie di mobilitazione e che, dopo il
miracolo economico che aveva comportato la tendenza al pieno impiego,
concentrò tutti i suoi sforzi nel rappresentare principalmente gli occupati nella
grande industria. I sindacati furono quindi impreparati ad una strategia
rivendicativa per l’occupazione e nei primi cinque anni del decennio il sindacato
222
si limitò a contenere l’espulsione della forza lavoro e ad appostare una
contrattazione aziendale incentrata alla gestione contrattata delle ristrutturazioni, il
tutto nel timore di perdere i consensi di chi aveva rappresentato lo zoccolo duro
del sindacalismo industriale. Infatti “la gestione contrattata della crisi poteva
essere difesa agli occhi dei lavoratori con quanto si riusciva a strappare in ordine
alla minor consistenza dei tagli occupazionali e al miglior impiego degli
ammortizzatori sociali, ma era molto elevato in rischio di perdere il consenso.”336
Ma era la stessa manodopera occupata ad imboccare la via del cambiamento.
Un cambiamento non lineare e difficilmente interpretabile, per via della
compresenza di fattori innovativi e sconosciuti e il perdurare di caratteri vecchi e
consolidati. Ad esempio l’espansione del settore terziario era avvenuta già dalla
seconda metà degli anni settanta e il sindacato era riuscito a espandere la propria
rappresentanza anche a questi settori. La sindacalizzazione di questi settori fu una
delle cause della crescita del potere politico e sociale del sindacato ed essa fu fatta
mutuando il grosso delle esperienze della mobilitazione e della rappresentanza
operaia dell’industria. Per tutti gli anni settanta il crescente conflitto nel settore
del terziario, sia pubblico che privato, aveva visto nel sindacato lo sbocco
organizzativo delle aspirazioni di insegnati e infermieri, come anche di
macchinisti e lavoratori della pubblica amministrazione. Ma ben presto la
“terziarizzazione del conflitto”337 si dispiegò incanalando le frustrazioni di una
porzione sempre più crescente di queste figure lavorative, non solo per la presenza
di “uno scarto tra progetti e realizzazioni, tra aspettative suscitate e soddisfazioni
336 S. Musso, Storia del lavoro in Italia, cit., p. 248. 337 A. Accornero, La terziarizzazione del conflitto e i suoi effetti, in G. P. Cella, M. Regini, Il conflitto industriale in Italia: stato della ricerca e ipotesi sulle tendenze, Bologna, Il Mulino, 1985.
223
date, tra risultati a breve ottenuti e quelli che si volevano ottenere a lungo, tra le
scelte strategiche e le scelte di fatto”338, ma anche e soprattutto per il declino del
c.d. “modello proletario”.339 Tale modello aveva retto per tutti gli anni settanta
perché si basava sulla capacità di ricondurre attorno alla figura centrale
dell’operaio industriale l’unità organizzativa e strategica del sindacato. I colpi
inferti al lavoro operaio, per via delle ristrutturazioni e il passaggio ad una società
dei servizi, stavano ormai mutando la stessa struttura interna del sindacato.
Tuttavia fu proprio nel settore terziario che il sindacato confederale non riuscì a
mantenere un ruolo egemone e per tutti gli anni ’80 si assistette alla presenza
massiccia e crescente dei sindacati extraconfederali e ad una costante diminuzione
della presenza di CGIL, CISL e UIL. Se nel 1980 la sindacalizzazione confederale
nel terziario rappresentava il 34,93% del totale, nell’85 essa scese al 30%, mentre
nell’89 si arrivò ad una percentuale del 28,92.340 Dalla metà degli anni ottanta
andava quindi sviluppandosi una sindacalizzazione anomala del settore terziario,
nel senso che essa sfuggiva al controllo delle confederazioni ed era dominata da
una serie di sigle sindacali autonome. Tale tendenza fu uno dei fattori che
contribuì non solo ad intaccare il monopolio di CGIL, CISL e UIL nel settore
terziario, ma anche a screditare, di fronte all’opinione pubblica, il ruolo generale
del sindacato nella società. Infatti la grande capacità di mobilitazione dei sindacati
extraconfederali in settori chiave dei servizi di pubblico interesse, accresceva nella
popolazione l’astio verso il conflitto sociale proveniente comunque da categorie
ristrette, ma fortemente lesive di interessi collettivi.
338 C. Donolo, Il sindacato nella crisi di rappresentanza, in “Quaderni di Rassegna Sindacale”, n. 90/91, XIX, maggio-agosto, 1981, p. 29. 339 A. Accornero, La parabola del sindacato, cit. 340 Fonte: P. Di Nicola, Confederali, autonomi, cobas: la sindacalizzazione nel terziario, in “Politica ed Economia”, XXII, n. 2, Febbraio, 1991, Tab. 1, p. 74.
224
Non è facile descrivere la sindacalizzazione nel terziario, per la presenza di un
vero e proprio arcipelago di formazioni autonome più o meno strutturate e con
diversi gradi di militanza. Da registrare la presenza di alcune organizzazioni che
presto si dettero una struttura confederale, cioè la CISAL, la CONFSAL e la
CONFAIL. Mentre un ruolo decisivo fu assunto, soprattutto nel pubblico impiego,
dai nuovi Comitati di Base (COBAS). Essi si distinsero per un grado di militanza
e di radicalismo eccezionale e per la loro forte presenza nel settore scuola, tra i
lavoratori delle ferrovie e della sanità. L’azione dei COBAS si basava
essenzialmente sulle rivendicazioni salariali, ma ben presto risultò spinta da
molteplici altri fattori. Tra questi il bisogno di valorizzazione professionale, di
resistenza ad un presunto declassamento sociale e il riconoscimento della propria
identità sociale. Ma anche una forte avversione alle confederazioni sindacali e alle
prospettive neo-corporative, come anche al qualunquismo di molte altre sigle
autonome e dei sindacati professionali.341 Essi nacquero nel settore del pubblico
impiego proprio per il fatto che i costi e rischi della mobilitazione erano minimi e
allo stesso tempo questa aveva un’efficacia massima.342 A questo si può
aggiungere il fatto che i COBAS emersero proprio dove l’iniziativa confederale fu
limitata e nei settori più svantaggiati dalla “politica dei redditi”. Inoltre bisogna
ricordare che nel 1983, con la legge quadro sul pubblico impiego si introdusse la
contrattazione triennale anche in questo settore e che le relazioni sindacali,
nonostante il formale monopolio della rappresentanza accordato alle tre
confederazioni, fu caratterizzata dall’assenza di regole certe sul diritto di sciopero
e sulla rappresentanza. Quindi è chiaro come la formazione del c.d. “arcipelago 341 M. Carrieri, C. Donolo, L’incerta rappresentanza sindacale, in “Politica ed Economia”, XX, n. 3, marzo 1989, p. 71. 342 Ibidem.
225
COBAS”343, cioè del frastagliato mondo del sindacalismo extraconfederale, sia
proprio il prodotto della sindacalizzazione anomala del pubblico impiego344 della
seconda metà degli anni ottanta, poiché tale settore
“sembra[va], con le sue irrazionalità gestionali e la sua schizofrenica politica del personale
improntata a criteri di consenso anziché secondo logiche di efficienza, poter agire da elemento moltiplicativo della protesta.”345
La presenza dei COBAS e degli altri sindacati extraconfederali era molto
pericolosa per il sindacalismo confederale visto che in questi anni il sindacato
perdeva iscritti nell’industria senza compensarli con quelli dei servizi, cioè si
indeboliva nei settori in declino senza rafforzarsi in quelli in ascesa. La stessa
composizione interna era fortemente differenziata e in essa andavano crescendo
costantemente i pensionati, che a fine decennio superarono i lavoratori attivi. La
crisi inoltre investì gli stessi settori operai tradizionalmente rappresentati. Secondo
il ricercatore dell’Ires-CGIL Carlo Donolo, già nel 1981,
mentre per la CGIL la classe operaia della media e grande industria è uno dei gruppi sociali di
riferimento predominante a livello di strategia, di cultura sindacale, la capacità di rappresentanza dei questa classe operaia è in fase calante perché si concentra sulla fascia centrale degli operai, tagliando fuori sia la nuova classe operaia in formazione, sia la parte “alta” della classe operaia in senso lato, i tecnici, gli impiegati.”346
Se consideriamo che la citazione risale al 1981, cioè al principio della grande
ristrutturazione del decennio che portò alla creazione in Fiat della Fabbrica ad
Alta Automazione, bisogna desumere che la differenziazione interna crebbe
progressivamente per tutto il decennio. Si avvicendò un vero e proprio mutamento
che non privilegiava più l’operaio comune alla catena di montaggio intimamente
343 L. Bordogna, Arcipelago Cobas: frammentazione della rappresentanza e conflitti di lavoro, in AA.VV., Politica in Italia, a cura di P. Corbetta e R. Leopardi, Bologna, Il Mulino, 1988 344 L. Bordogna, Il pubblico impiego alimenta i Cobas, in “Lavoro 80”, n. 8, 1989. 345 G. Della Rocca, cit., p. 74. 346 Il sindacato nella crisi della rappresentanza, cit., p. 30.
226
antagonista al lavoro gerarchico e parcellizzato. Questa fu la figura lavorativa di
riferimento principale per tutta la mobilitazione conflittuale degli anni settanta e
su cui si edificò la gestione rigida della forza lavoro. L’introduzione di tecnologie
e di nuove forme organizzative accentuò la differenziazione delle mansioni e delle
qualifiche. Il c.d. “modello proletario”, cioè il quadro unitario determinato dalla
figura centrale dell’operaio comune alla catena di montaggio entro il quale si
andavano sintetizzando le differenze, sembrava velocemente declinando anche nel
lavoro industriale. Nelle imprese emersero numerose possibilità per chi volesse
specializzare le proprie mansioni e cooperare con la direzione aziendale per
migliorare la qualità del prodotto, grazie all’introduzione dei circoli di qualità al
di fuori degli orari di lavoro e a numerose iniziative delle direzioni per incentivare
la partecipazione alla produzione.
“Ai lavoratori si chiedeva di essere competenti, flessibili e soggettivamente coinvolti in quello
che facevano. Le ruote delle relazioni industriali venivano lubrificate dal minore formalismo dei rapporti e dal coinvolgimento collettivo nei destini dell’azienda”347
Le nuove esigenze del capitale avrebbero comportato una erosione della
gestione rigida della forza lavoro e fu quindi la stessa tutela che mirava alla
stabilità del posto di lavoro e alla riduzione delle fonti di precarietà del lavoro
(contratti a termine, licenziamenti ad nutum, clausole di nubilato o anche rapporti
di lavoro a tempo parziale) ad essere messe in discussione. Questa strategia di
tutela del lavoro fu una risposta ai bisogni del lavoratore, come anche alle
strategie di consolidamento organizzativo del sindacato. Ma se al principio degli
anni ottanta le richieste di flessibilizzare l’uso della manodopera erano
principalmente mosse da una esigenza degli imprenditori, con l’introduzione
347 P. Ginsborg, L’Italia del tempo presente, cit., p. 107.
227
progressiva della tecnologia, la richieste di flessibilità dei rapporti di lavoro e di
riduzione della rigidità, cominciarono a pervenire anche degli stessi lavoratori. Ci
si trovava in una fase contraddittoria dove a nuove opportunità professionali si
contrapponevano richieste di semplice collaborazione in una prospettiva di ordine
sociale in fabbrica. Si andava rimodellando nelle domande di tutela dei lavoratori
il rapporto tra stabilità e flessibilità, sempre presente nelle aspirazioni esistenziali
della mano d’opera dipendente.
“Non è un paradosso bensì una realtà ben nota il desiderio dei lavoratori di potersi muovere
quando serve, cambiando qualifica azienda orario ufficio zona settore e così via, ma di poter rimanere quando serve nella medesima posizione, condizione e situazione.”348
Di fronte a queste tendenze il sindacato certamente si trovò spiazzato e solo
nella seconda metà degli anni ottanta accettò di mettere in discussione la tutela
tutta sbilanciata verso la rigidità. Fino a quel momento ci fu una sostanziale
opposizione alla riduzione della rigidità dell’uso della manodopera, perché
flessibilità era sinonimo di mano libera del capitale sul lavoro. L’istituzione
tramite contrattazione di commissioni paritetiche per la gestione dei contratti part-
time e a termine o anche sul miglioramento della qualità e per la reintroduzione
dei premi di produzione, furono il segno di una parziale accettazione
dell’introduzione di forme di uso flessibile della forza lavoro. Ma a quanto pare
con questo nuovo corso, il sindacato si era preoccupato più di rispondere alla
nevrosi di cambiamento auspicate a gran voce dalle imprese, che alle esigenze
soggettive dei lavoratori, operando per una sorta di formalizzazione di nuove
forme di tutela flessibili contrattate dall’alto con i rappresentanti delle imprese. E’
348 A. Accornero, Fra stabilità e flessibilità: sindacato e modelli di tutela, in “Quaderni di Rassegna Sindacale”, n. 108/109, XXII, maggio-agosto 1984, p. 83.
228
che in questi anni furono la stessa contrattazione e i modelli di rappresentanza
consolidati ad entrare in crisi.
I consigli di fabbrica nel decennio entrano definitivamente in crisi. L’istituto,
nato dall’emergere del delegato e dalla azione sindacale unitaria inaugurata con
l’autunno caldo e sviluppatasi nel decennio settanta, pur rimanendo la struttura di
base delle confederazioni fino alla riforma del 1991 che istituì le nuove
Rappresentanze Sindacali Unitarie (RSU), soffrì nel decennio ottanta di una grave
crisi d’identità. Essi erano nati e si erano sviluppati conciliando i caratteri
associazionisti (presenza di iscritti ai sindacati) e quelli movimentisti (presenza di
eletti indipendentemente dall’appartenenza ad un sindacato rappresentativo).
Inoltre erano il luogo di rappresentanza naturale del sindacalismo industriale
basato sulla centralità dell’operaio massa. Un primo segno di crisi bisogna
rintracciarlo proprio nella mancata presenza di nuovi modelli di rappresentanza
nel settore terziario, visto il fallimento dei trapianti dei consigli ad esempio tra i
macchinisti. Ma i C.d.F. ebbero notevoli problemi di funzionamento anche nelle
imprese industriali, proprio perché negli anni ’80 si andarono differenziando le
figure lavorative che non permettevano più la sussunzione degli interessi
dell’operaio massa a quelli dell’intera composizione di classe. Di fatto già negli
anni settanta in essi erano sovra-rappresentati gli operai comuni per via dei
consensi plebiscitari da essi ottenuti nelle elezioni su scheda bianca. Anche
quando iniziò la prassi delle liste predeterminate dai vertici sindacali e
dell’iniziativa in mano agli esecutivi, il consiglio era ancora appannaggio delle
rivendicazioni egualitarie dell’operaio comune, per via della sintesi ancora
efficace tra vertici sindacali e la base. Negli anni ottanta questa situazione non era
229
più praticabile. La stessa rottura dell’unità sindacale, dopo la vicenda della scala
mobile, ebbe ripercussioni rilevanti sul suo funzionamento originario, proprio
perché essa acutizzo la duplicità dell’istituto, cioè luogo di rappresentanza sia dei
lavoratori in generale sia degli iscritti ai sindacati. Per tutti gli anni settanta, per
via del timore di non istituzionalizzare l’istituto non ci fu nessuna
regolamentazione in merito e ciò con il passare del tempo ebbe conseguenze
negative, poiché in molti casi i consigli non venivano rieletti e in essi
continuavano a non essere rappresentati sia le organizzazioni sindacali più
piccole, sia i lavoratori non comuni. Accadeva dunque che sindacati non
rappresentati (soprattutto CISL e UIL) ripresero a costituite proprie
rappresentanze aziendali delegittimando ulteriormente le rappresentanze elette dai
lavoratori. Solo alcuni accordi sporadici cercarono di rimodellare l’istituto
conciliando la componente associativa con quella generale eletta direttamente dai
lavoratori. Fu proprio per questi correttivi ottenuti in sede contrattuale, che i
consigli ressero fino alla fine del decennio.
Rispetto al sistema politico, i sindacati negli anni ottanta mutarono
sensibilmente la propria forza e la propria autonomia d’azione. Come negli altri
paesi industrializzati in cui i sindacati furono vittima di un attacco alla propria
legittimità e potere sociale, anche in Italia si assisteva ad un declino della forza del
movimento operaio organizzato e alla fine della supplenza sindacale. La crisi
economica e la necessità di contenere la spinta conflittuale del mondo del lavoro
avrebbe dovuto comportare di conseguenza un ridimensionamento dell’attività
politico-sindacale delle organizzazioni dei lavoratori. Tuttavia i sindacati italiani,
grazie all’imponente movimento sociale per le riforme costruito nel decennio ’70,
230
avevano acquisito una presenza organizzata nella società impressionante e non
facilmente scalfibile da un sistema politico incapace di scelte chiare anche se
impopolari. Ma, se per tutto il decennio precedente, i sindacalisti erano riusciti a
mantenere potere e autonomia dal sistema politico ed istituzionale, ben presto essi
furono facilmente cooptati nei molteplici incarichi di natura politica ed
istituzionale. Consigli d’amministrazione, enti pubblici, commissioni paritetiche,
istituti previdenziali, tutti luoghi dove erano presenti rappresentanti sindacali
indicati grazie al favore del potere politico e spesso per la loro appartenenza a
qualche corrente partitica. Una presenza poco incisiva perché in assoluto
consistente, ma relativamente alle singole istituzioni, senza veri poteri
d’intervento. Per usare le parole di U. Romagnoli, un sistema di relazioni
industriali malato aveva bisogno di medicine e “una di queste [fu] certamente la
progressiva integrazione delle organizzazioni sindacali nel sistema statuale”, non
certo per gestire e indirizzare una crisi socio-economica diffusa, ma per il
semplice fatto di “condividere l’esigenza di auto-conservarsi mano a mano che
cresce[va] l’impopolarità delle scelte da prendere.”349
“Tuttavia, ciò che il sindacato acquista in termini di protagonismo politico grazie
all’espansione del principio della rappresentanza istituzionale lo perde in termini di rappresentatività reale, sulla quale riposa le volontà del sindacato non dico di cambiare il mondo, ma di dargli di tanto in tanto un’aggiustatina.”350
Inoltre queste cariche non avevano alla base nessun esplicito mandato né dai
lavoratori in generale né dai propri iscritti per via della mancanza di strumenti di
verifica del consenso e di legittimazione a prendere decisioni. Per descrivere
349 Medicine amare, in “Politica del Diritto”, n. 3, settembre 1985, p. 515. 350 Ibidem.
231
meglio l’ambivalenza del ruolo che il sindacato andava assumendo nella società,
sarà forse utile servirci di un’altra particolare citazione in merito.
“Il sindacalismo è cosa grande e grossa. Ma come tutte le cose grandi e grosse che sono
cresciute nel quotidiano degli uomini, al pari delle chiese, persegue cose nobili e meno nobili. La chiesa serve encomiabilmente a placare il terrore tutto umano della morte, ma è anche un’accolita di persone che vivono di questo mestiere. Così il sindacato. Dà alla gente, come è desiderabile, migliori condizioni di vita. Ma è anche un apparato di persone che sbarcano il lunario con questa nobile bottega”351
Se negli altri paesi europei l’attacco all’egemonia sindacale sul lavoro fu
portato avanti da personalità decise e incisive come Margaret Tatcher o Ronald
Reagan con un chiaro e forte disegno neo-liberista, mentre in altri si era
provveduto a coinvolgerli e a responsabilizzare il sindacato in grandi progetti di
riforma del welfare state, in Italia i governi “pentapartitici” (DC, PSI, PSDI, PRI,
PLI) guidati da Bettino Craxi e poi da Giulio Andreotti e altri, al di là degli intenti
e dei proclami, si distinsero per una strategia tutta italiana di immobilismo. E ciò
comportò una istituzionalizzazione anomala delle burocrazie sindacali: occupare
più posti di rappresentanza possibili per far fronte alla crisi di rappresentanza nel
mondo del lavoro e mantenere una consistente forza organizzativa, ma senza
momenti di verifica della propria rappresentatività sociale. Grazie quindi alla
mancanza di iniziativa del potere politico e all’incapacità dei sindacati di avere
una propria versione del cambiamento in atto, si può certamente affermare che i
grandi cambiamenti degli anni ottanta furono praticamente portati avanti dalle
forze del libero mercato e che non ci fu né una vera e propria strategia politica
neo-liberista né tanto meno una strategia di concertazione di carattere
socialdemocratico. I Governi si preoccuparono principalmente di implementare
351 G. Pera, Intervento, al dibattito sul tema Nuove regole dell’organizzazione sindacale, in “Lavoro e Diritto”, n. 3, luglio 1987, pp. 406-7.
232
l’influenza dei propri partiti nelle istituzioni o addirittura di quella personale dei
suoi stessi componenti, in un intreccio di trame eversive sotterranee (vedi la
vicenda della loggia massonica P2) e di corruzione dilagante che presto minarono
gli spazi di democrazia politica. Anche se si inaugurò la c.d. stagione della
flessibilità, i provvedimenti legislativi furono disorganici e improntati
sull’imperativo di scalfire il garantismo senza costruire un nuovo sistema di tutele
e di garanzie per il lavoro. L’unica vera iniziativa di rilievo fu la vicenda della
scala mobile, dopo alcune fallite esperienze di concertazione triangolare nel solco
della c.d. “politica dei redditi”.352 Nel 1984 CISL e UIL, la prima ormai attestata
su posizioni moderate e la seconda da tempo votata alla concertazione per
intervenire nella crisi economica, si accordarono con il governo per l’emanazione
di un decreto per un taglio di tre “punti” di contingenza al meccanismo della scala
mobile353. Il c.d. “Patto di San Valentino” provocò una spaccatura insanabile che
colpì il già labile patto federativo unitario, proprio per il fatto che esso era ancora
salvo perchè basato sull’intesa di non stipulare accordi separati. La stessa CGIL si
spaccò al suo interno tra la sinistra sindacale, contraria al provvedimento e
l’anima socialista favorevole al c.d. “decreto della discordia”. La sconfitta un
anno più tardi al referendum per l’abrogazione del decreto convertito in legge,
promosso dal Partito Comunista e da Democrazia Proletaria (DP), non fece altro
352 Ci riferiamo al “lodo Scotti”, proposto dal governo e firmato da CGIL, CISL e UIL il 22 gennaio 1983. Fu il primo caso di concertazione sociale secondo lo schema dello “scambio politico”. Tuttavia gli eventi dell’anno successivo sullo scala mobile palesarono l’impossibilità di importare anche in Italia una vera concertazione sociale che non coincidesse con un neo-corporativismo in deroga tanto alle garanzie del mondo del lavoro, quanto alle aspirazioni degli imprenditori. 353 Per anni la c.d. scala mobile, cioè l’accordo Lama-Agnelli sul punto unico di contingenza, nonostante rappresentasse una rinuncia per il sindacato ad una autonoma azione di politica salariale, aveva rappresentato l’istituto intoccabile per antonomasia, perché proteggeva i salari dalla crescente dinamica inflazionistica dei prezzi.
233
che aggravare la situazione. Essa fu la seconda grande sconfitta del movimento
operaio ormai in declino, dopo quella alla Fiat nel 1980.
“Sconfitta Fiat e vicenda del decreto segnarono la crisi della cultura dell’intransigenza e della
miopia, e il declino del movimento sindacale operista ed egualitario. Pagò l’intero movimento sindacale, ma più duramente colpita fu la CGIL, specie la componente comunista”354
Tale declino si connetteva alla perdita di consensi e alla crisi definitiva del
movimento comunista internazionale e in Italia del PCI. Già nel ’81, in seguito al
colpo di stato in Polonia e alla repressione del movimento sindacale indipendente
Solidarnόć, Berlinguer dichiarava che “la capacità propulsiva di rinnovamento
delle società, che si sono create nell’Est europeo” andava ormai esaurendosi. Si
andava esaurendo, forse in ritardo, il riferimento del PCI al ruolo guida dell’URSS
nel movimento comunista internazionale. Dopo la fine del compromesso storico,
la segreteria intraprese la strategia della c.d. “alternativa democratica”, cioè la
ricerca di una intesa con il PSI sul modello francese. Ma Craxi aveva puntato tutto
sull’anticomunismo e sulla ricerca del consenso in una visione acritica della
società degli anni ’80. Un iniziativa quella di Craxi che provocò la fuoriuscita di
molti militanti e intellettuali da un partito che, al di là degli slogan e dei retaggi
simbolici, non esprimeva più nessuna critica all’esistente e andava abbandonando
i principi di solidarietà e giustizia sociale nel solco della tradizione del movimento
operaio. Grazie ai fuoriusciti dal PSI, che intanto accolse una nuova leva di
dirigenti e amministratori politici non provenienti dalla cultura socialista storica,
molti dei voti di questi confluirono nel PCI e ciò spiega il perché i comunisti, pur
in declino di iscritti e suffragi, scongiurò il collasso repentino.355 Intanto,
354 A. Accornero, La parabola, cit., p. 152. 355 S. Turone, Storia del sindacato, cit., p. 546-7.
234
nonostante le aperture e i ripensamenti, il PCI, al contrario del PSI che riusciva a
cavalcare l’individualismo e la voglia di affermazione sociale della società
italiana, rimaneva fortemente attaccato alle proprie visoni classiche e non riuscì ad
individuare i cambiamenti della società italiana.
“Berlinguer riconosceva che i nuovi soggetti collettivi – le donne, i giovani, i disoccupati, gli
anziani – stavano facendo il loro ingresso sulla scena della storia, ma allo stesso tempo gli era difficile individuare il processo in virtù del quale le nuove compagini non erano organismi compatti e forti, ma realtà costituite da componenti singole e autonome. Di conseguenza la società civile, in quanto luogo d’incontro di individui liberi, difficilmente riusciva ad attirare su di sé l’attenzione che avrebbe meritato da parte della dirigenza comunista. Ciò che contava era il partito e la sua disciplina, i suoi riti e le sue celebrazioni, le sue assemblee di massa e la sua forza numerica.”356
Così che per tutti gli anni ottanta gli iscritti e i consensi del partito erano in
continuo declino. Se nel 1976 gli iscritti ammontavano a 1.814.317, nel 1989 essi
erano scesi a 1.412.230 e nell’anno successivo arrivarono a 1.264.790.357 Lo
stesso si può dire dei consensi elettorali: alle elezioni del 1983 il PCI raggiunse il
29,9% dei voti validi, mentre nel 1987 scesero al 26,6%.358 Il calo elettorale si
ebbe anche in altre tornate elettorali.359 La morte improvvisa di Berlinguer nel
1984 aggravò quindi la crisi del partito che non fu risolta, nonostante i numerosi
ripensamenti, dalla segreteria di transizione di Alessandro Natta, a cui gli successe
Achille Occhetto nel 1988. Dopo l’appoggio incondizionato e appassionato alle
strategie di Gorbaciov di riforma interna del sistema sovietico, la caduta del muro
di Berlino e l’implosione del sistema sovietico diedero un’accelerazione
straordinaria alla riforma del partito per evitare il collasso. Nacque nel 1991, dopo
356 P. Ginsborg, L’Italia del tempo presente, cit., p .296. 357 Ivi, nota 91, p. 301. 358 Ivi, appendice statistica, tavola n. 38, p. 590. 359 Unica eccezione furono le elezioni europee dell’84 svoltesi a pochi giorni dalla morte di Berlinguer. In questo caso ci fu, sulla spinta emotiva della morte di un politico rispettato anche da numerosi non comunisti, per la prima ed unica volta, il sorpasso ai danni della DC con il 33,3% dei consensi. Ma certamente la vittoria elettorale non fu una vittoria politica.
235
duri ma appassionati scontri interni, il Partito Democratico della Sinistra (PDS) e
ad essa non aderì la minoranza filosovietica di Armando Cossutta che costituì un
nuovo partito: Rifondazione Comunista (RC). Il PCI fu il primo dei grandi partiti
di massa della prima Repubblica ad entrare in crisi. Una crisi che fu accelerata
dalla caduta del blocco sovietico, ma che si rifletteva nella situazione interna al
paese. Per il crollo della I Repubblica a seguito della crisi degli altri due partiti
che avevano condotto la resistenza antifascista ed erano stati i principali artefici
della politica italiana per quaranta anni, si dovettero aspettare le inchieste del
tribunale milanese e la stagione di Tangentopoli.
2.4 Un diritto del lavoro che cambia. Lo Statuto alterato
Dopo aver trattato i principali mutamenti economici e socio-politici degli anni
ottanta, ci apprestiamo in questo paragrafo a descrivere le sorti politiche e
giuridiche dello Statuto dei lavoratori. Già nel paragrafo di apertura avevamo
individuato l’origine della parabola discendente dello Statuto, correlandola alla
vicenda dei sessantuno licenziamenti e alla conseguente emersione di un dibattito
dottrinale e politico sulla “questione Statuto”. Tale dibattito che qualcuno ai tempi
descrisse come “chiassoso”360, si protrasse per tutto il decennio ed esso andò
sempre più coinvolgendo non solo gli operatori del diritto, ma anche lo stesso
potere politico. Le cause principali del trend crescente di questo dibattito, sono da
rintracciare nei rivolgimenti economico-sociali dell’epoca e nelle conseguenze
che essi ebbero a livello politico e sindacale. Inoltre lo Statuto già negli anni
settanta era stato al centro di accese controversie circa la sua applicazione, grazie
sia al grande valore simbolico da esso assunto sia alla sua consistente effettività
360 Così lo definì G. Giugni in un suo articolo apparso su “la Repubblica” del 10 gennaio 1981.
236
giuridica nel contesto politico-economico conflittuale della società industriale
italiana.
La crisi economica di quegli anni tuttavia provocava crescenti malesseri
contro il presunto eccessivo garantismo del diritto del lavoro italiano e ben presto,
come la vicenda dei licenziamenti Fiat dimostrò, il primo colpevole ad essere
portato sul banco degli imputati fu proprio la legge 300. Negli ambienti politici e
giuridici si cominciò a parlare di diritto del “lavoro della crisi” o di “legislazione
d’emergenza”. In sostanza gli imprenditori, incapaci di intraprendere una via
d’uscita dalla crisi che investiva le grandi fabbriche italiane, chiedevano maggiore
flessibilità nell’uso della forza lavoro, rivolgendo al potere politico e agli
operatori del diritto un monito alquanto rozzo per la rimozione di “lacci e laccioli”
(leggi e contratti) che garantivano rigidamente le prerogative del fattore lavoro
nell’ambito della produzione fordista. Fu subito chiaro a tutti che per uscire dalla
crisi si sarebbero dovuti contenere i diritti individuali dei lavoratori, in una sorta
di transizione per uscire dall’emergenza. Il salto di qualità si ebbe proprio nel
corso della prima metà degli anni ottanta. Le consistenti ristrutturazioni e
l’introduzione di nuove tecnologie direttamente applicate alla produzione secondo
un’ottica post-fordista, resero palese che la flessibilità della manodopera sarebbe
stata il fulcro dei nuovi modelli di produzione e che avrebbe lasciato il carattere
iniziale di emergenza.
“L’obbiettivo si è fatto più complesso (la flessibilità dell’uso della forza lavoro è richiesta
dalle imprese come condizione permanente), ed anche i mezzi per realizzare l’obbiettivo sono meno semplici della sola riduzione di tutele del lavoro. Un rilevante contributo al chiarimento di tali mezzi viene dai giuslavoristi: dopo qualche sbandamento registrabile nell’interpretazione del caotico diritto del lavoro della prima emergenza, si impegnano decisamente nella elaborazione di progetti di flessibilizzazione della disciplina del lavoro subordinato.”361 361 M. V. Ballestrero, La flessibilità nel diritto del lavoro. Troppi consensi?, in “Lavoro e Diritto”, n. 2, aprile 1987, p. 290.
237
Per tutto il decennio quindi cresceva la consapevolezza, in primis tra gli
imprenditori e successivamente tra operatori del diritto e nel potere politico, che
lo Statuto rappresentava ormai un provvedimento del passato e che esso
apparteneva ad un sistema di garanzie del lavoro subordinato non più
corrispondente alla realtà socio-economica e politico-sindacale che richiedeva
flessibilità e in qualche caso, deroghe ai diritti dei lavoratori così come si erano
configurati per un decennio. Una consapevolezza via via crescente non solo per
chi auspicava un superamento se non una abolizione delle principali norme della
legge in un’ottica di drastico ridimensionamento dei diritti individuali, ma anche
per chi, dalla sponda opposta, denunciava la tendenza del diritto del lavoro della
flessibilità a ridurre tanto le garanzie individuali quanto quelle collettive. Questo
secondo filone quindi accentuava la crisi dello Statuto nell’attuale contesto,
sottolineandone le carenze e auspicando una rivisitazione migliorativa per far
fronte alla tendenza deregolativa del diritto del lavoro. Due visioni contrapposte,
“da destra” e “da sinistra”, che si fronteggiarono per un decennio, anche
aspramente, ma che in definitiva non riuscirono a provocare una sostanziale
modifica della legge. Si possono certo rintracciare nel decennio delle “alterazioni”
che potrebbero prefigurare una riforma “sotterranea” dello Statuto, cioè
caratterizzata da alcuni ritocchi in sede legislativa e contrattuale, come anche in
sede di interpretazione giurisprudenziale. Ma la grande quantità di tentativi messi
in atto da una parte e dall’altra, soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni
ottanta, avrebbero contribuito a rafforzare la percezione di una cattiva aderenza, in
un senso o in un altro, al contesto socio-economico.
238
“Chi avesse letto il testo della l. 20 maggio 1970, n. 300, lo Statuto dei lavoratori, in quel 1990 nel quale se ne celebrò il ventennale, ne avrebbe di sicuro ritratto l’impressione che esso aveva retto magnificamente, almeno fino a quel momento, alle tante prove che la società e l’economia italiane avevano dovuto affrontare in quegli anni così graviti di mutamenti. Senonché, contemporaneamente, proprio in quell’anno si avvertì netta la sensazione che questa legge fondamentale, nata nel clima di enorme conflittualità socio-politica seguito al “sessantotto” e all’”autunno caldo”, fosse sul punto di essere sensibilmente modificata, e stesse vivendo i suoi ultimi momenti prima di acquisire il volto ritenuto più adeguato alla nuova realtà di fine secolo”.362
Infatti, al di là delle alterazioni, lo statuto fu modificato in parte solo nel
decennio successivo. Un decennio in cui l’acuirsi dei mutamenti del lavoro,
suggerì addirittura un suo superamento tramite la configurazione di un nuovo
modello normativo in cui centrale diveniva non più il modello social-tipico del
lavoro subordinato, ma una differenziazione di fattispecie lavorative che
trascendevano il concetto classico di subordinazione (si veda capitolo successivo).
Negli anni ottanta furono quindi più i tentativi falliti che quelli messi a segno.
Questa tendenza può essere interpretata in due direzioni differenti. La prima è che
comunque lo Statuto, pur rimanendo una legge varata in un contesto
profondamente diverso, abbia saputo rispondere ai mutamenti degli anni ’80,
adattandosi e promuovendo il cambiamento grazie alla presenza in esso di un
nucleo centrale di norme in definitiva elastiche o comunque adattabili a diversi
contesti socio-economici363. La seconda direzione parrebbe invece prefigurare lo
Statuto come una norma rigida e troppo garantista che avrebbe condizionato lo
stesso mutamento socio-economico rallentandone il corso e contribuendo ai ritardi
del sistema Italiano. La prima visione postula una concezione di fondo dello
Statuto che ne sottolinea sì il carattere fondamentale, ma che ne ridimensiona il
valore normativo, posto che “la struttura del provvedimento […] è tutt’altro che 362 L. Gaeta, I tentativi di modificare lo statuto dei lavoratori (1970-1990), in “Quaderni di Diritto del Lavoro e delle Relazioni Industriali”, 1990, p. 391. 363 T. Treu, Lo Statuto dei lavoratori vent’anni dopo, in “Quaderni di Diritto del Lavoro e delle Relazioni Industriali”, 1990, p. 7 ss.
239
organica, perché lo statuto non è un codice del lavoro ma riguarda solo alcuni
aspetti del rapporto di lavoro”.364 Mentre la seconda ha alla base una visione
totalizzante del Statuto che lo vede come strumento normativo centrale su cui si è
edificata tutta la disciplina giuslavorista incentrata sul garantismo individuale e
sulla promozione dell’attività sindacale ad esso strumentale. La contrapposizione
tra le due concezioni di fondo può essere sanata affermando che il diritto del
lavoro certo non si esauriva nello Statuto, ma che quest’ultimo “oltre ad indurre
una riforma del rapporto individuale e delle relazioni collettive di lavoro in
azienda, determi[nò] una gamma molto ampia di input innovativi sul piano
sistemico”365 con effetti “moltiplicatori” e di “sovrapposizione” di tutta la
disciplina del diritto del lavoro.
Ma vediamo nei fatti, le principali “avventure” dello Statuto negli anni ottanta.
Per via della massiccia introduzione di nuove tecnologie informatiche, non solo
nell’industria, ma anche nel settore dei servizi pubblici e privati, saltò subito
all’occhio una delle vicende più critiche dello Statuto: il rapporto tra nuove
tecnologie e titolo I. Le diverse tecnologie per il controllo a distanza del processo
lavorativo, come abbiamo visto, rappresentarono l’innovazione principale su cui
si basava la flessibilizzazione del processo produttivo e che provocarono
l’emergere di numerose attività del settore terziario avanzato. L’articolo 4 S. L.,
che si inseriva nelle disegno giuridico di limitazioni al potere direttivo e
organizzativo dell’imprenditore a tutela della libertà e dignità del lavoratore
subordinato, permetteva al datore di lavoro di istallare tecnologie di controllo a
distanza solo in caso di esigenze organizzative e produttive e per la sicurezza del 364 G. Giugni, Intervento, cit., p. 180. 365 L. Mariucci, Lo statuto vent’anni dopo. Prospettive di riforma, in “Lavoro e Diritto”, n. 2, 1990, p. 309.
240
lavoro (2° comma). Ma l’introduzione di queste tecnologie negli anni ottanta era
proprio correlata alle nuove esigenze organizzative e produttive, tanto da mettere
in crisi la stessa interpretazione garantista consolidata per tutti gli anni settanta.
“E’ evidente che il datore di lavoro porterà, a sostegno della sua tesi di controllo del
lavoratore, per una produttività sempre maggiore, proprio le esigenze tecniche organizzative e produttive e che in alcuni casi, purtroppo, la magistratura ha ritenuto valide a discapito del lavoratore”366
Tutto ciò faceva emergere inoltre la problematica del controllo da parte dei
lavoratori e delle organizzazioni sindacali dell’introduzione delle nuove
tecnologie. L’articolo 4 infatti prevedeva anche che per introdurre nuove
apparecchiature, se introdotte per controllare a distanza le varie fasi produttive,
provocando necessariamente un controllo a distanza del lavoratore, gli stessi
lavoratori dovevano esserne tempestivamente messi a conoscenza. Se ne
prevedeva quindi l’introduzione tramite un accordo con le r.s.a. o in mancanza
tramite l’intervento dell’Ispettore del lavoro. La norma dunque non vietava
l’introduzione di nuove tecnologie, ma le subordinava ad un accordo con le
rappresentanze dei lavoratori. Quindi, se da una parte l’articolo era investito da
nuove criticità, perchè concepita per reprimere atteggiamenti tipici
dell’autoritarismo aziendale degli anni ’50, dall’altra non si può negare che nel
nuovo contesto come quello degli anni ottanta, l’art. 4 si presentava come una
norma elastica, cioè adattabile alla massiccia introduzione di nuove tecnologie.
Per di più scontava la mancanza in Italia di una normativa generale sulla privacy
del cittadino e sulla gestione delle banche dati. Piuttosto il dispositivo che
prevedeva un accordo con le r.s.a., introduceva il tema della stessa strategia del
366 M. R. Valentino, Controllo a distanza, innovazione tecnologiche e privacy del lavoratore, in “Lavoro 80”, n. 4, ott.-dic. 1984, p. 949.
241
sindacato nell’incidere sull’introduzione delle nuove tecnologie e in generale del
suo intervento in materia di organizzazione del lavoro in una prospettiva di
democrazia industriale. A quanto pare, come rilevava M. Fezzi, che si occupò per
tutti gli anni ottanta di una serie di vertenze in merito alla violazione dell’art. 4, i
sindacati si trovarono in netto ritardo nel negoziare l’introduzione di nuove
tecnologie, poiché interessati quasi esclusivamente alle ricadute di queste
sull’occupazione e non anche sulla libertà e dignità del lavoratore. Come abbiamo
sottolineato nel paragrafo precedente, in un primo momento il sindacato appostò
una strategia che oscillava dalla resistenza alle tecnologie alla sola difesa
dell’occupazione. Solo successivamente si preoccupò di negoziare in merito
l’utilizzo delle tecnologie. Noti furono gli accordi alla IBM, alla Honeywell, alla
Foster Weelher, alla RAS, alla Merzario e alla Rank-Xeros. Ma erano tutti accordi
successivi all’introduzione dei software in apparecchiature tecnologiche, che di
fatto non escludevano del tutto la capacità di controllare a distanza il lavoratore.
Fezzi intervenne in merito suggerendo che
“Anziché cercare di adottare rimedi quando il sistema è già installato e funzionante
bisognerebbe forse riuscire ad intervenire a monte, contrattando il software prima della sua istallazione, cercando di ottenere l’esclusione di tutte le funzioni che possono raccogliere ed elaborare dati sul singolo operatore”367
Il clima politico e il grosso favore verso nuove tecnologie che avrebbero
permesso un forte sviluppo della produttività, spesso poneva il sindacato e la
sinistra politica di fronte alla difficoltà di contrapporsi alle critiche di
oscurantismo verso la rivoluzione tecnologica in atto.368 In questo senso
367 Controlli elettronici e contrattazione, in “Lavoro 80”, n. 3, luglio-settembre 1987, p. 628. 368 Da sottolineare in questo senso la ricostruzione dalla ratio dell’art. 4 fatta da W. Saresella, che la individuava non solo nel potere del sindacato di tutelare, tramite la contrattazione, la privacy del lavoratore, ma la estendeva alla tutela della dignità del lavoratore in rapporto con le tecnologie.
242
l’atteggiamento del sindacato rispetto all’introduzione delle tecnologie nel
processo produttivo, sembrava scontare una consistente subalternità ideologica.
Alle vicende dell’articolo 4 erano correlate le stesse vicende dell’articolo 8
dello Statuto, che vietava indagini sulle opinioni dei lavoratori, sia ai fini
dell’assunzione che nel corso dello svolgimento della rapporto di lavoro, sempre
che esse non fossero rilevanti ai fini della valutazione professionale del lavoratore.
Una norma quindi che proteggeva la libertà e la dignità del lavoratore, sia nella
sua sfera individuale concernente gli stili di vita e le abitudini, sia nella sfera
pubblica inerente le proprie opinioni politiche, religiose e sindacali. Con
l’introduzione di nuove tecnologie che permettevano di incrociare dati che un
tempo erano praticamente inutilizzabili, il datore di lavoro sarebbe potuto risalire
facilmente alle stesse attitudini professionali del lavoratore sia ai fini di una
assunzione puntuale dei lavoratori sia ai fini di controllo del processo lavorativo.
“L’elettronica rende estremamente più semplici le operazioni di memorizzazione e, quindi, la
costituzione di banche-dati assai sofisticate e complesse; le interconnessioni realizzabili con le sempre più fitte reti diffusive di informazione consentono risultati neppure pensabili fino a poco fa, anche in considerazione delle nuove possibilità di “incrociare” ed elaborare dati che in precedenza potevano apparire innocui.”369
Così facendo, le indagini non sarebbero vietate, perché pertinenti alla
valutazione delle attitudini professionali. E ciò potrebbe riguardare anche la
raccolta di dati sulla razza, sulle opinioni politiche e sindacali, sugli stili sessuali e
via dicendo. La nuova impresa “trasparente” che prefigurava l’emergere di una
Queste ultime provocherebbero uno svuotamento della stessa dignità del lavoratore secondo il concetto marxista di alienazione del lavoratore alla tecnologia, in L’art. 4 S.L. e l’impiego di elaboratori elettronici, in “Lavoro 80”, n. 2, apr.-giu. 1986, p. 340. Vista in questo senso, la norma sembra fortemente anacronistica al nuovo contesto e al clima economico di necessità oggettiva di introdurre nuove tecnologie nei processi produttivi. E non furono pochi casi in cui il sindacato fu dipinto come agente sociale conservatore perché ancora favorevole al concetto marxista di alienazione del lavoro alle tecnologie. 369 L. Gaeta, La dignità del lavoratore e i “turbamenti” dell’innovazione, in “Lavoro e Diritto”, n. 2, aprile 1990, p. 212.
243
specie di tubo di cristallo, dove tutto era controllabile e dove tutto doveva essere
rimodulato di volta in volta, mal si conciliava anche con questa norma dello
Statuto. E anche in questo caso rigidità e interpretazione elastica della norma,
sembravano essere una conseguenza dell’altra.
Un altro dispositivo dello Statuto “turbato” dalle tecnologie, fu la norma sulla
tutela della salute e l’integrità fisica, cioè l’art. 9. Più che turbata sarebbe meglio
sottolineare che la norma non fu in questo decennio praticamente utilizzata, né ci
fu un interesse consistente di dottrina e giurisprudenza. Anche qui i tempi delle
commissioni d’indagine sulle nocività del lavoro erano un ricordo lontano degli
anni settanta. Ciò era dato dal fatto che, al di là delle tragedie eclatanti,
l’introduzione di nuove tecnologie nel settore industriale e l’emergere di nuovi
lavori non “pesanti”, avevano di fatto diminuito i casi “classici” di infortunio sul
lavoro, che per altro non andavano diminuendo nell’agricoltura e nel settori del
lavoro sommerso.370 Ma la stessa introduzione di queste tecnologie, provocava
nuovi e sconosciuti rischi per la salute del lavoratore, rendendo palese il doppio
effetto della rivoluzione tecnologica in atto.371
“Si prenda il tema della salute […] Anche qui ci eravamo abituati all’idea che talune forme di
nocività, quali fumo/polveri/rumorosità ecc., fossero state superate, almeno nelle imprese di medie dimensioni, grazie alle innovazioni ambientali e alle stesse nuove tecnologie. Scopiamo però che queste provocano nuove forme di nocività, di tipo sia “elementare” sia “raffinato”: qui l’esempio più ovvio è quello degli addetti ai video-terminali, a cui la costante adibizione ai monitor, provoca una serie di disturbi visivi e psicologici.”372
370 In tal senso anche G. G. Balani che citava i risultati, consegnati nel 1989, della commissione senatoriale d’inchiesta sulle condizioni di lavoro nelle aziende presieduta da L. Lama. Inoltre si faceva riferimento ai dati rintracciati all’Inail, che indicavano dall’80 all’88 un decremento di casi d’infortunio da 1.001.888 a 816.887. G. G. Balani, Individuale e collettivo nella tutela della salute nei luoghi di lavoro: l’art. 9 dello Statuto, in “Lavoro e Diritto”, n. 2, aprile 1990, p. 220. 371 L. Mariucci, Le due facce del rapporto tra innovazione tecnologica e diritto del lavoro, in “Lavoro 80”, n. 2, apr.-giu. 1985, pp. 369 ss. 372 Ivi, p. 371.
244
Bisogna sottolineare inoltre che l’art. 9 dello Statuto introdusse il principio di
tutela collettiva e reale delle condizioni di lavoro, superando la mera dimensione
risarcitoria e monetarizzata delle norme poste dal Codice Civile a tutela della
salute nei luoghi di lavoro, inserendo misure di controllo come anche d’intervento
sulla stessa organizzazione produttiva. Ciò fu fatto tramite la previsione del diritto
dei lavoratori tramite proprie rappresentanze, di controllare l’applicazione delle
norme per la prevenzione degli infortuni e la previsione dello stesso diritto di
promuovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte le misure idonee a
proteggere la loro salute e l’integrità fisica. Inoltre lo stesso termine usato -
“rappresentanze” - stava a sottolineare che l’esercizio di questo diritto non era
attribuibile necessariamente alle r.s.a., ma a tutte quelle rappresentanze ritenute
più idonee dagli stessi lavoratori. Alla tutela di tipo giudiziaria, sia preventiva che
successiva, si affiancava quindi una tutela di tipo collettivo tramite l’impulso della
contrattazione collettiva e in essa, della possibilità di diverse prospettive di
iniziativa autonoma dei lavoratori. Se la tutela di tipo giudiziaria ebbe una minima
effettività nel corso della prima metà degli anni settanta, essa andò
progressivamente esaurendosi, tanto da poter parlare di una vera e propria
sindacalizzazione della tutela.373 Negli anni ottanta l’attenzione delle
organizzazioni sindacali ad altri temi, sia nell’industria come anche per i nuovi
lavori del settore terziario e la mancanza di iniziative spontanee della base,
avevano ormai relegato l’articolo ad un disposto normativo in disuso.
373 A ciò contribuì evidentemente anche la legge n. 833/1978 che istituiva il Servizio Sanitario Nazionale. Nell’art. 20 comma 3 si prevedeva infatti che gli interventi di prevenzione non previsti dalla stessa legge (quindi quelli nei luoghi di lavoro) fossero effettuati secondo le modalità della contrattazione collettiva, tramite accordi tra datori di lavoro e rappresentanze sindacali aziendali di cui all’art. 19.
245
L’art. 13 dello statuto sulle mansioni dei lavoratori fu un’altra norma che
risentì dei mutamenti socio-economici degli anni ottanta. Essa già negli ultimi
anni del decennio settanta era spesso stata attaccata dal padronato poiché causa di
una non sufficiente flessibilità del lavoro con conseguenze sullo stesso diritto di
disporre liberamente dei fattori produttivi. La norma, fortemente limitativa dello
jus variandi, era stata inserita nello statuto per far fronte tanto alla protezione
dalla libertà e dignità dei lavoratori (eliminare l’odiosa pratica dei reparti
confino), quanto alla necessità di espansione dell’occupazione nel contesto della
c.d. crescita illimitata. In questo contesto dottrina e giurisprudenza accentuarono il
carattere garantista della norma, limitando i trasferimenti di mansione ai soli casi
di accrescimento delle capacità professionali – che peraltro nel contesto taylor-
fordista erano molto limitati – o in ogni caso usando il concetto di equivalenza
delle mansioni. Le ristrutturazioni e i mutamenti del processo produttivo del
decennio misero in crisi proprio il concetto di equivalenza, difficilmente
interpretabile in un contesto di nuova divisione del lavoro e di nuove
professionalità richieste per l’efficienza produttiva.
“In presenza di realtà produttive in rapido divenire, si fa sempre più difficile rintracciare
mansioni che presentino piena equivalenza tecnico-professionale, dal momento che la riorganizzazione, la diversificazione dei prodotti, l’innovazione tecnologica produce fenomeni di scomposizione e di nuova ricomposizione delle operazioni tradizionali, ne alterano la sostanza contenutistica e disegnano scenari organizzativi difficilmente comparabili con i precedenti.”374
Un trasferimento orizzontale da una “vecchia” mansione verso una “nuova”
mansione poteva apparire non equivalente e per questo ritenuta illegittima. O
poteva accadere il contrario: un trasferimento verso una “nuova” mansione poteva
374 R. L. De Tamajo, F. B. D’Urso, La mobilità professionale dei lavoratori, in “Lavoro e Diritto”, n. 2, aprile 1990, p. 236.
246
essere ritenuto equivalente, se non migliorativo e quindi ritenuto legittimo, ma
successivamente di fatto avrebbe potuto svuotare la professionalità del lavoratore.
C’è anche da correlare il disposto alle stesse riconversioni e al taglio
dell’occupazione, poiché una interpretazione rigida della norma, che non
permettesse deroghe in peius della stessa, avrebbe potuto limitare lo stesso diritto
individuale del lavoratore a mantenere il posto di lavoro anche con una mansione
peggiorativa della sua professionalità. L’imperativo per la dottrina fu quello
quindi di cercare di elasticizzare il concetto di equivalenza, correlandolo a diversi
e nuovi profili della professione per evitare deroghe ai diritti individuali del
lavoratore e allo stesso tempo rispondere alle richieste di flessibilità degli
imprenditori. Lentamente in questi anni si andava sviluppando il concetto di
“professionalità”.
“In fondo anche in una realtà in rapido mutamento riesce agevole porre regole precise allo jus
variandi, costruite sui concetti di dignità, di tutela delle aspettative professionali, di disposizione sostanziale del lavoratore nell’impresa nient’affatto estranei alla originaria ratio dell’art. 13: una ratio caricata, in sede interpretativa, di valori ulteriori connessi alla garanzia della professionalità del dipendente che […] può essere oggi recuperata nei suoi termini essenziali non ostili di principio a forme di dinamismo dell’organizzazione imprenditoriale […].”375
Ma quali furono le risposte del potere politico ai turbamenti del Titolo I dello
statuto? Come abbiamo detto il sistema politico bloccato e l’incapacità
riformatrice dei Governi avrebbero comportato solo una serie di provvedimenti
secondari, che certo alterarono alcune norme statutarie, ma non le modificarono
direttamente. Per quanto riguardava l’art. 4, il Parlamento fu praticamente
immobile e tutta la disciplina dei controlli a distanza fu rimessa all’interpretazione
dottrinale e giurisprudenziale e agli accordi sindacali. Ci furono solo un paio di
375 Ivi, p. 239.
247
interventi che toccarono l’art. 8 sulla tutela della riservatezza. Nell’81 con la legge
n. 121 ci fu una prima regolamentazione nell’uso della banca dati nella pubblica
amministrazione, cioè quella istituita presso il Ministero degli interni. Ma essa
non fece altro che riprodurre fedelmente l’art. 8. Nell’89 invece con la l. n. 89 si
recepì la convenzione del Consiglio d’Europa n. 108 del 1981. In essa si
disciplinava la raccolta e la gestione delle banche dati, provvedendo a sottoporla a
garanzie di privacy e di informazione ai cittadini. In tema di salute non ci furono
modifiche rilevanti, ma solo due proposte legislative. La prima, pdl n. 2082/1980,
prevedeva l’istituzione di esperti della sicurezza dipendenti direttamente dal
datore di lavoro. La seconda, di segno opposto, pdl n. 1118/87 proposto da DP,
proponeva di qualificare come antisindacale secondo le procedure dell’art. 28
anche la violazione delle condizioni di igiene e sicurezza sul lavoro. Ci fu un
intervento relativo all’art. 10 sul tema dei lavoratori studenti: la legge n. 845/78
estese le agevolazioni previste anche a chi frequentava corsi di formazione.
C’è da sottolineare anche la tendenza del Parlamento ad incidere sulla
promozione di nuovi valori sociali nei luoghi di lavoro e a proporne l’inserimento
nello statuto. Tale tendenza proveniva dalle proposte di legge, tra l’altro mai
approvate, dei Radicali. Le pdl n. 2992/81 e n. 1640/81 prevedevano l’esplicita
introduzione dell’obiezione di coscienza del lavoratore coinvolto nella
produzione, trasporto e commercio di armi, prevedendo la possibilità per il
lavoratore di dimettersi e percepire comunque una tutela economica, nonché la
reintegra in caso di riconversione produttiva. Mentre il ddl n. 1250/88 prevedeva
l’estensione dell’art. 15 anche agli atti discriminatori fondati sul presupposto della
negazione dell’identità sessuale. Inoltre quest’ultima proposta riguardava anche
248
un rafforzamento del divieto di indagini e schedature su appartenenti a minoranze
sessuali, etniche, religiose e linguistiche. Nessuno di questi valori fu introdotto
direttamente nelle norme dello statuto.
Il Parlamento dunque sul titolo I fu “latitante”, mentre il grosso fu fatto, come
abbiamo visto, dagli operatori del dritto, sindacati compresi. Ciò dimostrò di fatto
che le norme sui diritti individuali erano applicabili anche in senso diverso e
secondo le nuove prospettive richieste dal contesto socio-economico, poiché in
esse erano presenti notevoli appigli interpretativi.
Dopo aver trattato i turbamenti del titolo I dello Statuto e rinviando ad una
trattazione successiva le vicende inerenti al campo di applicazione, proseguiremo
ora l’analisi della parte della legge che regola i diritti e l’attività sindacale (Titoli
II e III). Anche in questo caso lo Statuto soffrì molti turbamenti a causa del
difficile contesto delle relazioni industriali del decennio. Andava
progressivamente tramontando il sindacalismo conflittuale e unitario degli anni
settanta che aveva visto nello Statuto la sanzione normativa al passo con i tempi.
Tutto il decennio fu attraversato dal dibattito sindacale e politico, ma soprattutto
dottrinale, sulla necessità di “nuove regole” sui conflitti di lavoro e sulla
rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro. Una nuova legislazione di sostegno
molto diversa da quella contenuta nello Statuto.
“La tecnica non è il sostegno legislativo esterno di un sistema sindacale volontaristico e
autonomo e l’obbiettivo non è il consolidamento organizzativo del sindacato di fronte alla controparte. Si discute oggi di una legificazione (più o meno forte a seconda delle preferenze) delle relazioni sindacali a fini di stabilizzazione del sistema sindacale di fronte a spinte centrifughe e disgregatrici che sono scaturite al suo interno, e che si sviluppano sull’asse della relazione tra rappresentanti e rappresentati.”376
376 M. D’Antona, Sindacati e stato a vent’anni dallo statuto dei lavoratori, in AA.VV., Sindacato e diritti dei lavoratori a vent’anni dallo Statuto, a cura di I. De Zanet, Venezia, Arsenale Editrice, 1990, p. 99.
249
Il sistema di relazioni industriali doveva essere necessariamente riformato per
promuovere un assetto capace di rispondere al nuovo contesto economico.
L’assetto di tale sistema entrava in crisi per la convinzione che la storica
mancanza di regole chiare sulla contrattazione e sulla rappresentanza non avrebbe
retto l’impatto dei cambiamenti economici e politici del decennio. Nella prima
metà degli anni ottanta, il dibattito sulla possibilità di riformare il sistema
sindacale rimase al palo perché era opinione diffusa, tanto tra le parti sociali
quanto tra le istituzioni statali, che i mutamenti in corso fossero una sorta di
transizione da cui si sarebbe potuti uscire senza la necessità di un cambiamento
radicale del sistema. Tutti gli indici della crisi venivano quindi interpretati come
risolvibili grazie a qualche minimo aggiustamento, ma senza compromettere i
principi di fondo dell’intero sistema. Si pensava ad esempio che la crisi di
legittimità sociale del sindacato avrebbe comportato un suo lento declino generale
e una sorta di desindacalizzazione di tutta la società. Ciò non avvenne: la tendenza
ad organizzarsi “sindacalmente” continuò a crescere, i conflitti non si fermarono
ma si terziarizzavano e nuovi sindacati combattivi facevano ingresso nel sistema
sindacale. Anche nella zona forte dominata dal “sindacato storico” (industria),
nonostante inizialmente ci sia stato un consistente arretramento - di iscritti e di
potere contrattuale - la presenza di questo non venne mai a mancare. Le ragioni a
favore di nuove regole erano anche di natura istituzionale. Il prevedibile declino
della supplenza sindacale non avrebbe comportato un emarginazione politica del
sindacato, mentre “il coinvolgimento dei sindacati confederali nell’attività dei
pubblici poteri, il riconoscimento e la cooptazione nei circuiti decisionali dello
Stato, [erano] cresciuti vistosamente e costitui[vano] addirittura uno dei fenomeni
250
più significativi di questo decennio.”377 Lo stesso sindacato, che vedeva crescere
la sfasatura tra base e vertice per via della progressiva stratificazione della forza
lavoro, si accorse che nessun recupero sarebbe stato possibile con le vecchie
strategie organizzative e di politica rivendicativa degli anni settanta. Ciò sia nel
settore industriale, sia in quello terziario, dove il difficile recupero sui sindacati
autonomi e professionali sembrava lontano anni luce da quello attuato sulla
contestazione “sessantottina”. Era la stessa contrattazione che stava assumendo un
nuovo volto.
“Essa [la contrattazione] non è più diretta solo al miglioramento normativo delle condizioni
salariali e normative, per quanto tale funzione resti ovviamente essenziale. L’attività negoziale è invece destinata a svolgere, per un ciclo la cui durata non è prevedibile, anche funzioni diverse, di gestione, adattamento, revisione delle discipline a fronte dei processi di innovazione. […] In tale situazione si pone quindi l’esigenza di nuovi meccanismi di formazione e verifica del consenso.”378
Bisogna aggiungere l’incapacità di uscire dalla crisi latente che da tempo
investiva l’unità sindacale e che la vicenda della scala mobile ne decretò
definitivamente la morte. Per questo ci si sbaglierebbe profondamente se si
pensasse che in questo decennio ci fu un semplice ritorno al passato stile anni ‘50,
una sorta di “punto e a capo” delle relazioni industriali. La forza assunta dal
sindacato non poteva essere dispersa così facilmente e l’incapacità di
autoregolamentare il conflitto terziario e la rappresentatività nei luoghi di lavoro
avrebbe comportato una disgregazione mortale del sindacato. Per questo c’era
bisogno di “nuove regole”.
In questo senso lo Statuto era il testo normativo da cui partire perché perno di
tutta l’attività sindacale nei luoghi di lavoro. Saltavano subito all’occhio i
377 Ibidem. 378 L. Mariucci, Ancora sulle regole sindacali: dalla rappresentatività allo sciopero, in “Lavoro e Diritto, n. 2, aprile 1988, p. 290.
251
turbamenti dell’art. 19 di fronte alla necessità sopra esposta. L’articolo molto
elastico e applicabile in diversi modi, aveva funzionato egregiamente fino a quel
momento principalmente perché la forte identificazione tra rappresentati (in
maggioranza operai comuni) e rappresentanti (il sindacato unitario), non poneva
significativi problemi d’interpretazione del disposto normativo che affidava alle
organizzazioni più rappresentative e a quelle firmatarie dei contratti collettivi il
monopolio della rappresentanza. Fu così che tutte le norme collegate all’art. 19
(Titolo II e III) non ebbero problemi d’interpretazione così gravi da scomodare
dottrina e potere politico nell’intervenire in materia, proprio perché il contesto
storico del “decennio caldo” permise al sindacato di risolvere autonomamente i
problemi circa il rapporto tra base e vertice. Nella seconda metà degli anni ottanta
invece era chiaro a tutti che i processi di sintesi interni al sindacato non erano più
percorribili. Il nuovo contesto quindi provocava dei “turbamenti” di origine
orizzontale (quelli tra le tre organizzazioni sindacali e tra queste e quelle
autonome) e quelli di origine verticale (quelli tra i sindacati e i lavoratori, iscritti e
non, operai comuni e altre figure professionali). Era necessario un nuovo assetto
che avrebbe comunque dovuto avere una qualificazione formale nell’ordinamento
giuridico statuale.379
379 In relazione a tali turbamenti è importante far riferimento ad alcune proposte di legge approdate in Parlamento volte a desindacalizzare alcuni istituti del titolo III (nel senso di staccarne le l’esercizio dall’iniziativa sindacale). Sul referendum ci furono proposte “da destra” e “da sinistra”. La pdl n. 544/83 formulata dal MSI consentiva l’indizione del referendum al 5% de lavoratori o da singole rappresentanze sindacali, con la previsione della segretezza del voto. La pdl n. 2236/83 formulata dalla Sinistra Indipendente, prevedeva invece la possibilità per qualsiasi organizzazione sindacale (anche non rappresentativa) di indire un referendum su richiesta del 5% dei lavoratori e direttamente dal 5% dei lavoratori di convocare assemblee anche senza l’iniziativa del sindacato. Sulla desindacalizzazione degli istituti statutari va sottolineato anche il tentativo di convocare il referendum abrogativo di parte dall’art. 28 per sottrarre il monopolio di azione alle confederazioni sindacali e affidarlo a tutti i lavoratori che avessero avuto interesse ad agire. Ma la Corte Costituzionale rigettò la richiesta.
252
In relazione ai “turbamenti orizzontali”, in assenza di procedure e regole certe
accettate da tutti per la costituzione delle r.s.a., chi doveva essere investito del
potere di contrattare, di indire un referendum tra i lavoratori (art. 21) o di
percepire i permessi retribuiti (art. 23) e le trattenute sindacali (art. 26)? Come
costituire le r.s.a. senza più la capacità autonoma di unità rivendicativa e di azione
tra le tre confederazioni e di fronte all’emergere dei sindacati extraconfederali? Lo
stesso potere imprenditoriale era interessato ad una regolamentazione che gli
avrebbe permesso di avere una controparte credibile e legittimata per portare a
compimento la sua rivoluzione organizzativa senza rotture.
Mentre a livello di “turbamenti verticali”, quale era il rapporto tra le
rappresentanze di origine associativa (gli iscritti) e quelle di origine generale (i
non iscritti)? Per conto di chi si sarebbero dovuti stipulare i contratti collettivi:
della generalità dei lavoratori o dei soli iscritti al sindacato stipulante? E come
ricostruire la crisi dei valori di solidarietà e uguaglianza che investiva la forza
lavoro sempre più stratificata? Come valutare il consenso tra questi verso le
strategie e i risultati dell’azione organizzata?
Ma il “turbamento” dell’art. 19 e di tutto il titolo III, paradossalmente
ripropose una visione originaria dello Statuto. In realtà lo Statuto intendeva
sanzionare il sostegno alle organizzazioni sindacali prevedendo rappresentanze
sindacali aziendali nell’ambito di ciascuno dei sindacati maggiormente
rappresentativi. Nella normativa il legislatore prevedeva un sistema di
autoregolazione pluralista del fenomeno sindacale che fu sintetizzata
autonomamente con la formula unitaria dei consigli di fabbrica. Le r.s.a.
253
dovevano essere costituite necessariamente tramite l’iniziativa dei lavoratori,
tuttavia il titolo III non andava oltre tale assunto.
“L’unica manifestazione di consenso che lo statuto richiede espressamente ai lavoratori
riguarda la fase di costituzione della rappresentanza sindacale aziendale, che deve avvenire, secondo l’art. 19, “ad iniziativa” dei lavoratori. […] ma una volta costituita, la rappresentanza sindacale non è soggetta ad alcuna specifica verifica del mandato. Lo statuto predispone, è vero, istituti di democrazia diretta, come l’assemblea e il referendum, ma non impone alle rappresentanze sindacali di farne uso per rispondere, in forma elettorale o referendaria, ai lavoratori rappresentati.”380
E’ chiaro dunque che lo statuto presupponeva una rappresentatività presunta,
cioè valutata altrove e non in azienda. La presunzione era funzionale alla capacità
di creazione di un contropotere sindacale nel contesto antagonista e conflittuale
tramite l’accordo tra burocrazie sindacali e base, ma essa entrava in crisi in un
contesto in cui fondamentale era la ricerca del consenso effettivo. La ricerca di
effettività dovuta alla crisi organizzativa in azienda presupponeva una diversa
ricomposizione tra i due fondamentali criteri di legittimazione delle r.s.a.: quello
associativo (rappresentanza unitaria dei sindacati) e quello elettorale
(rappresentanza di tutti i lavoratori interessati, iscritti o non iscritti). Ma come e
quali nuove regole creare in merito a tutto il titolo III?
Il dibattito politico e sindacale fu consistente e in crescita soprattutto nella
seconda parte del decennio quando vennero proposti ben due disegni di legge in
materia, “forse anche perché” - come affermava L. Gaeta - “fecero allora ingresso
in Parlamento due professori di diritto del lavoro, Gino Giugni tra i socialisti e
Giorgio Ghezzi tra i comunisti.”381 Ma anche in questo caso, per una serie di
“nuove regole” che incidessero sul titolo III dello Statuto si dovette aspettare il
380 M. D’Antona, Diritti sindacali e diritti del sindacato: il titolo III dello Statuto dei lavoratori rivisitato, in “Lavoro e Diritto”, n. 2, aprile 1990, p. 249. 381 I tentativi di modificare lo statuto, cit., p. 402.
254
Protocollo d’intesa del luglio ’93 e l’accordo interconfederale del dicembre dello
stesso anno che istituì le nuove Rappresentanze Sindacali Unitarie (RSU).
Successivamente con il referendum del giugno ’95 fu abrogato il comma b
dell’art. 19. Comunque le proposte ci furono e non solo per intaccare la sostanza
dell’art. 19, ma anche per specificarne l’ambito della sua operatività.382 Già dal
1973 approdò in Parlamento una proposta avanzata dal MSI di costituzione di una
Commissione Parlamentare d’Inchiesta per accertare il libero esercizio delle
libertà sindacali in particolare riguardo alla costituzione delle rappresentanze
sindacali. La stessa pdl n. 2236/83 della Sinistra Indipendente prevedeva la
possibilità per il 5% dei lavoratori di costituire rappresentanze sindacali svincolate
dalle organizzazioni più rappresentative e per queste di godere di tutti i benefici
previsti dallo statuto. Sulla stessa linea si presentava qualche anno più tardi la pdl
n. 2951/88 di DP.
Ma le due proposte più organiche furono presentate proprio da Giugni (ddl n.
1550/89) per il PSI e da Ghezzi (n. 3769/89) per il PCI. Le due proposte
convergevano sulla necessità di superare il carattere presuntivo della
rappresentatività tramite l’introduzione di tecniche di controllo effettivo del
consenso. Mentre divergevano proprio sulle tecniche da adottare.
“I due progetti muovono da presupposti divergenti: l’uno (progetto Giugni) è in linea con la
tradizione statutaria che colloca al centro della galassia sindacale il pianeta confederale quale espressione della vocazione del sindacalismo italiano a realizzare la “solidarietà intercategoriale” o quanto meno extra-aziendale. L’altro (Ghezzi) si affida alla nozione più “astorica” del “sindacato rappresentativo” […] ove il riferimento alla struttura confederale ed inevitabile per la sede centralissima e perciò politica del confronto con i pubblici poteri.”383
382 In questo senso le proposte sulla democrazia industriale e sull’obbligo d’informazione alle rappresentanze nei luoghi di lavoro. Le pdl n. 3480/82, n. 4006/83, n. 66/83 e la pdl del CNEL del 1986. 383 B. Veneziani, Il sindacato dalla rappresentanza alla rappresentatività, in Sindacato e diritti dei lavoratori, cit., p. 92.
255
I progetti socialista e comunista, pur rispondendo alle istanze comuni “di
rilegittimazione democratica che è cresciuta col processo di istituzionalizzazione
della figura del sindacato maggiormente rappresentativo” 384, si differenziavano
nella ricerca delle tecniche per superare “l’anomalia italiana”, ossia la pretesa di
far vivere in un solo organismo la rappresentanza associativa dei sindacati e quella
generale dei lavoratori.”385
La proposta socialista prevedeva la modifica dell’art. 19 innanzitutto
sopprimendo il requisito dell’”iniziativa dei lavoratori” e modificando il disposto
in: “le norme del presente titolo (III) si applicano alle r.s.a. costituite in ogni unità
produttiva”. Da contrappeso era prevista una verifica in capo ai sindacati di cui
lett. a) e alla lett. b) di un minimo di consistenza a livello aziendale misurata sulla
base delle deleghe ai sensi dell’art. 26. o sulla base delle adesioni nelle elezioni di
organismi di rappresentanza unitari. Inoltre si proponeva la modifica anche
dell’art. 23 sui permessi retribuiti, inserendo un criterio di ripartizione
proporzionale al numero di deleghe ottenute in caso di rappresentanza separata,
mentre in caso di organismi unitari elettivi, si rinviava ad accordi intrasindacali. I
contratti collettivi erano efficaci erga omnes a livello aziendale
indipendentemente dalla verifica della rappresentatività a livello aziendale, ma si
prevedeva la possibilità per chi dissentiva di promuovere un referendum, previa
richiesta del 20% dei lavoratori.
Diversamente la proposta comunista prevedeva una revisione dell’art. 39 della
Costituzione e proponeva una riforma delle rappresentanze sindacali in due sensi:
primo, si attribuivano a tutte le r.s.a. un minimo di diritti sindacali (permessi, 384 U. Romagnoli, Riprogettare la rappresentatività, in “Rivista Trimestrale di Diritto e Procedura Civile”, I, p. 248. 385 M. D’Antona, Diritti sindacali e diritti del sindacato, cit., p. 259.
256
assemblea, affissione, locale, ecc.); secondo, si promuovevano (non
obbligatoriamente) delle r.s.a. particolari, cioè quelle che scaturivano da elezioni
(almeno il 50% dei lavoratori) di rappresentanti aderenti ai sindacati
maggiormente rappresentativi. Ad essi era concesso uno “statuto speciale”, poiché
unici detentori, oltre che dei permessi commisurati ai voti ricevuti, dei diritti di
informazione, consultazione, parere e proposta. Inoltre non si prevedeva il divieto
di costituire più r.s.a. speciali concorrenti e in caso di firma di un contratto
stipulato da una rappresentanza eletta da un numero inferiore al 50% dei
lavoratori, era previsto un referendum aperto a tutti i lavoratori. Tra l’altro la
proposta di legge di Ghezzi sembrava accogliere e concretizzare le proposte
d’intervento legislativo diramate in una nota della Consulta Giuridica della CGIL
e resa pubblica nel 1988. Secondo tali proposte, che muovevano anch’esse da una
revisione dell’art. 39, si prevedeva la costituzione tanto di r.s.a. dei sindacati
maggiormente rappresentativi quanto di r.s.a. di qualsiasi altra organizzazione
sindacale che avrebbe raggiunto un certo numero di deleghe dai lavoratori. Queste
ultime avrebbero potuto usufruire dei diritti sindacali, ma non avrebbero potuto
sottoscrivere contratti collettivi. Tuttavia erano previsti incentivi per la
costituzione di rappresentanze unitarie su base elettiva, non obbligatori, con diritti
di partecipazione alle scelte aziendali. Si proponeva inoltre che i contratti
aziendali stipulati dalle r.s.a. fossero sottoposti a verifica dei lavoratori tramite
referendum.
Non sono da sottovalutare i tentativi di riforma interna provenienti dalle stesse
organizzazioni sindacali. Questi prefiguravano soluzioni “conservative”, nel senso
che, cercando di rivitalizzare i consigli di fabbrica, tende[vano] a ricostruire quelle
257
condizioni di fatto che hanno consentito fin qui tassi accettabili di funzionalità
nonostante l’anomalia del nostro sistema di relazioni industriali.”386 Era chiaro
come questi accordi erano volti principalmente a regolare i rapporti tra le tre
centrali sindacali, ma non introducevano criteri di legittimità interna, cioè
provenienti dai lavoratori. Le prime proposte in questo senso vennero da alcuni
accordi stipulati nell’88 tra strutture decentrate (CGIL, CISL e UIL Piemonte) e di
categoria (metalmeccanici, chimici e tessili). Gli accordi prevedevano tutti una
composizione elettiva delle r.s.a., ma mista, nel senso che una parte veniva eletta
solo dagli iscritti ai sindacati e l’altra (maggioritaria) da tutti i lavoratori iscritti e
non. Tutti i candidati venivano però proposti dalle organizzazioni sindacali. Il
ruolo delle r.s.a. era quello pieno di rappresentanza negoziale in azienda di tutti i
lavoratori. Tali soluzioni autonome furono rielaborate a livello centrale con una
bozza d’intesa, mai approvata, tra CGIL, CISL e UIL nel maggio ’89. Il nuovo
istituto di rappresentanza, che conciliava criterio associativo e criterio elettorale,
mantenendo il canale unico di rappresentanza, venne denominato Consiglio
Aziendale delle Rappresentanze Sindacali (CARS).
Un altro tema centrale inerente lo Statuto fu quello della suo campo di
applicazione. In questo caso ci si riferisce alla mancanza di applicazione del
regime di stabilità reale nelle unità produttive di piccole dimensioni (artt. 18 e 35
S.L., l. 604/66) e alla esclusione dell’applicazione dello statuto al pubblico
impiego (art. 37).
Per quanto riguarda il primo aspetto, cioè il capo di applicazione della stabilità
reale, bisogna precisare che già nei primi anni di applicazione della norma, oltre
386 M. Magnani, Le rappresentanze sindacali aziendali vent’anni dopo, in “Quaderni di Diritto del Lavoro e delle Relazioni Industriali”, 1989, p. 61.
258
alle difficoltà di attuazione della reintegra del lavoratore illegittimamente
licenziato, il problema di giurisprudenza e dottrina fu quello di combinare lo
stesso art. 18 con l’art. 11 della legge 604/66. L’art. 11 di quest’ultima prevedeva
infatti che il licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo comportava la
reintegrazione o in alternativa il risarcimento (stabilità obbligatoria ai sensi
dell’art. 8, l. 604/66) solo nelle aziende al di sopra dei 35 dipendenti. Si
contrapponevano due interpretazioni: la prima, maggioritaria in dottrina ma
minoritaria nella giurisprudenza, sosteneva che l’art. 18 avrebbe abrogato
tacitamente l’art. 11 della legge 604 e che quindi la tutela reale si sarebbe dovuta
applicare nelle imprese (comunque organizzate) che avevano almeno 16
dipendenti; la seconda invece, minoritaria in dottrina e maggioritaria in
giurisprudenza, si basava sulla rilevanza della soglia dei 35 dipendenti, per cui la
stabilità reale troverebbe applicazione solo nelle unità produttive facenti capo ad
un’impresa con 36 dipendenti, e a loro volta composte da più di 15 dipendenti. Le
controversie interpretative vennero risolte appunto secondo la “teoria delle tutele
parallele” secondo la quale sussisterebbero dei regimi normativi differenziati in
base al numero degli occupati nelle unità produttive e nelle imprese. Nei fatti
quindi emergevano tre aree di tutela. La prima, l’area di tutela della stabilità reale:
le unità produttive con più di 15 dipendenti. La seconda, l’area di stabilità
obbligatoria: le imprese con più di 35 dipendenti solo nelle unità produttive con
più di 15 dipendenti. La terza, l’area del recesso a nutum: le imprese con 34
dipendenti nelle sole unità produttive con meno di 15 dipendenti. Insomma oltre
alla diversità della tutela contro il licenziamento illegittimo tra grandi aziende e
piccole aziende, si era ormai provveduto a stratificare la stessa tutela nella piccola
259
azienda, grazie a diversi regimi di tutela che avrebbero comportato notevoli
contraddizioni. Infatti spesso succedeva che
“lavoratori dipendenti da un’impresa di grandissime dimensioni, ma organizzata in unità
produttive di piccole dimensioni si vedono applicare una tutela debole contro i licenziamenti. Lavoratori alle dipendenze dello stesso imprenditore possono essere beneficiari di tutele molto diverse a seconda che lavorino in una o altra articolazione organizzativa della stessa impresa; addirittura nell’ambito di un’impresa di 34 dipendenti, vi possono essere lavoratori addetti ad una unità con più di 15 dipendenti che godono di stabilità reale, e lavoratori addetti ad unità produttive di dimensioni minori praticamente privi di tutela.”387
Tali contraddizioni si andavano acuendo proprio nel momento di massima
espansione delle ristrutturazioni aziendali e alla tendenza all’esternalizzazione
della produzione e alla creazione dell’impresa a rete. Nei stessi distretti industriali
la stratificazione del processo lavorativo di fatto differenziava i regimi di tutela e
ciò rendeva sprovvisti di tutela un gran numero di lavoratori. Inoltre, spesso lo
stesso art. 7 sulle sanzioni disciplinari, permetteva di fatto il licenziamento
disciplinare, incurante della giurisprudenza affermata dalla Corte Costituzionale
che più volte aveva integrato nei casi di licenziamento illegittimo quello in
violazione dei procedimenti sulle sanzioni disciplinari. Per di più con
l’introduzione del contratto di formazione-lavoro nell’83, venivano esclusi dal
computo dei dipendenti in forza all’unità produttiva quei rapporti di lavoro
flessibili di cui la maggior parte delle piccole imprese faceva uso. Così disponeva
l’art. 8 della l. n. 79/83 per i contratti a finalità formative, come anche gli artt. 2 e
3 della l. n. 864/84 che introducevano tra i rapporti di lavoro non computabili
anche i contratti di solidarietà. Considerando anche l’abuso che in quegli anni gli
imprenditori fecero dei “neo-assunti con contratto di tirocinio o di (poca)
387 M. V. Ballestrero, Ambito di applicazione della disciplina dei licenziamenti: ragionevolezza delle esclusioni, in “Lavoro e Diritto”, n. 2, aprile 1990, p. 266.
260
formazione e (molto) lavoro”388, si può certamente affermare che nei primi anni di
applicazione della normativa sui rapporti di lavoro flessibili, si contribuì
ulteriormente ad allargare la fascia di lavoro non protetto dal licenziamento ad
nutum,389 grazie alla possibilità di assumere a contratto di formazione e mantenere
il numero di dipendenti sotto le soglie stabilite contro i licenziamenti
ingiustificati. Inoltre c’è da sottolineare l’impossibilità di sindacalizzare le unità
produttive al di sotto dei 16 dipendenti, cioè di costituire rappresentanze sindacali
aziendali che usufruiscano dei diritti previsti dal titolo III. Ciò causava una grave
violazione della libertà sindacale e quindi anche del diritto di sciopero. Certo era
impensabile sindacalizzare i piccoli esercizi commerciali, cioè fornirli di un
locale, di una bacheca per le affissioni e via dicendo. Ma il proliferare di piccole
aziende a gestione familiare, spesso celava vere e proprie violazioni delle libertà
sindacali e individuali, con il pretesto che in queste attività mancherebbero
situazioni conflittuali.
Comunque la questione dell’estensione dello Statuto anche alle piccole
imprese e lo specifico tema delle “tutele parallele” animò considerevolmente
l’iniziativa della sinistra politica e sindacale per un adattamento “da sinistra” dello
Statuto nel nuovo contesto socio-economico. Come abbiamo visto già nel 1982 fu
rigettata la proposta di una serie di quesiti referendari tra cui era prevista anche la
richiesta ai cittadini di abrogare le parole “quindici” (settore industriale) e
“cinque” (settore agricolo) dall’art. 35 dello Statuto. Nello stesso anno approdò in
388 L’espressione è di U. Romagnoli, Attuazione e attualità dello statuto dei lavoratori, in AA.VV. Lo statuto dei lavoratori (1970-1990), a cura di A. Garilli e S.Marramuto, Napoli, Jovene, 1992, p. 14. 389 Su un’ampia trattazione delle prime critiche rivolte all’abuso del contratto di formazione e lavoro si veda, L. Meneghini, Sul pericolo di abuso del contratto di formazione e lavoro, in “Lavoro 80”, n. 3, luglio-settembre 1986, pp. 697 ss.
261
Parlamento una proposta di legge di iniziativa popolare, la n. 3218, promossa da
CGIL, CISL e UIL che non andava a modificare l’art. 18, ma che proponeva una
serie di norme a garanzia dei lavoratori di aziende che occupavano da quattro a
quindici dipendenti, prevedendo una specie di tutela obbligatoria e istituti di
conciliazione. Il progetto si arenò e nel 1983, in pieno sviluppo della teoria delle
“tutele parallele”390, venne presentata una pdl che prevedeva l’abrogazione
dell’art. 11 della legge 604 (n. 1090). L’anno successivo la Sinistra Indipendente
propose una pdl in cui si voleva ribadire l’abrogazione tacita dei limiti posti dalla
legge 604/66 e superare quindi ogni contrasto interpretativo. Anche questa
proposta non fu approvata. Successivamente anche Giugni per i socialisti propose
un pdl, il n. 1537, per intervenire in materia di licenziamenti individuali. Il testo
prevedeva l’abrogazione dell’art. 18, riscrivendo una nuova disciplina sui
licenziamenti razionalizzata, impostata cioè su un trattamento graduato a seconda
delle dimensioni aziendali (per le aziende da 5 a 19 addetti era possibile il
licenziamento ad nutum, ma era prevista la possibilità per il lavoratore di
promuovere un tentativo di conciliazione e solo in assenza ingiustificata del
datore era prevista la reintegrazione; per le aziende da 20 a 80 dipendenti era
prevista la tutela obbligatoria; per le aziende da 81 in su era prevista la tutela reale
e in caso di mancata reintegrazione una pena pecuniaria per il datore).391 Altre
proposte furono avanzate dal PCI (pdl. 2324/88 e pdl 4496/89). Queste, di cui il
primo firmatario era Ghezzi, proponevano una sostituzione integrale dell’art. 18 e
390 Nello stesso anno ci fu una pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che di fatto confermava l’interpretazione in senso di “tutele parallele”. 391 Per le critiche a questa proposta si vedano S. Chiusolo, Il disegno di legge sulla disciplina dei licenziamenti individuali e collettivi: verso il diritto del lavoro della ristrutturazione o della restaurazione?, in “Lavoro 80”, n. 4, 1986, pp. 995 ss.; G. Ghezzi, Un disegno di legge per la riforma della disciplina dei licenziamenti, in “Lavoro e Diritto”, n. 2, aprile 1987, pp. 379 ss.
262
l’introduzione di nuove garanzie sia in base alla consistenza numerica delle
aziende sia che prevedevano criteri relativi al volume di affari delle aziende in
questione.392 Ci fu inoltre un’altra proposta avanzata da CGIL, CISL e UIL che
riprendeva la proposta n. 3218/82 insabbiata tra i lavori parlamentari.
In questo contesto di inerzia del Parlamento nel varare una legge richiesta
anche dalle Corti di merito, arrivò nel febbraio 1990 una sentenza della Corte
Costituzionale che accolse il quesito referendario proposto da Democrazia
Proletaria. La sentenza provocò polemiche aspre nel mondo politico e sindacale,
come tra gli operatori del diritto. In molti credevano che paradossalmente una
vittoria del sì avrebbe avuto un effetto boomerag, cioè non avrebbe esteso a tutti i
lavoratori la tutela contro il licenziamento illegittimo, ma addirittura avrebbe
ridotto l’area della tutela reale.393 Tuttavia era convinzione diffusa che il
referendum non era sicuramente la strada migliore da percorrere. E ciò per due
motivi, uno più strettamente politico e l’altro di natura tecnica. Per quanto
riguardava il primo aspetto, da anni ormai i referendum sulle questioni sindacali e
del lavoro erano visti come pericolosi e controproducenti, perché i rapporti di
forza politco-sociali erano obbiettivamente sfavorevoli al sindacato e alla sinistra
politica. Una sconfitta avrebbe potuto rilanciare proposte riduttive che avrebbero
reintrodotto anche nelle imprese più grandi la tutela obbligatoria. Le memorie del
referendum sulla scala mobile nel 1984 erano ancora vive e ciò contribuiva
moltissimo a diffidare di un istituto che aveva decretato non solo la fine dell’unità
392 Per una trattazione di queste pdl vedi L. Gaeta, I tentativi di modificare lo statuto, cit., pp. 412-13. 393 In questo senso si veda M. Rendina, La Corte Costituzionale ed il referendum per l’abrogazione dei limiti alla disciplina dei licenziamenti individuali, in “Massimario di Giurisprudenza del Lavoro”, 1990, pp. 10 ss. In senso contrario M. D’Antona, Gli effetti abrogativi del referendum sul campo di applicazione dello Statuto dei lavoratori: veri e falsi problemi, in “Foro Italiano”, I, 1990, pp. 750 ss.
263
sindacale, ma che aveva inaugurato la crisi da cui il PCI stava cercando
drammaticamente di uscire.
“[…] sembrava realistico – ad esempio – prevedere che la Cisl e la Uil si sarebbero lasciate
condizionare dai loro referenti governativi più dalla loro identità di sindacati dei lavoratori. E che l’eventuale impegno della Cgil sarebbe stato ancora una volta neutralizzato e ammorbidito dalle esigenze diplomatiche dei rapporti tra le sue componenti […]”.394
Sulla questione tecnica, anche in caso di vittoria del sì, un’analisi realista della
normativa, suggeriva comunque un intervento legislativo, volto si ad estendere la
tutela reale, ma sicuramente escludendo da quest’area ad esempio le micro
imprese di due o tre dipendenti. Fatto sta che i sindacati assunsero una posizione
unitaria a favore del sì, mentre il potere politico si affrettò ad unificare i diversi
progetti di legge in un unico testo e approvare celermente una legge per
scongiurare il referendum. Fu così che l’11 maggio il Parlamento approvò, in tutta
furia395, la legge n. 108/90 sull’estensione della tutela reale contro i licenziamenti
individuali. Essa prevedeva l’abrogazione dell’art. 11 della legge 604/66 e
estendeva la tutela reale anche a) ai lavoratori dipendenti da datori di lavoro non
imprenditori, esclusi le associazioni di tendenza, che avevano alle dipendenze
almeno 60 dipendenti o 16 nell’ambito dello stesso comune b) ai lavoratori
occupati in imprese con più di 60 dipendenti che non godevano della tutela reale
perché occupati in unità produttive al di sotto dei 16 dipendenti396 c) ai lavoratori
dipendenti di imprese di 16 dipendenti nello stesso comune o di 60 dipendenti
394 M. Pivetti, Licenziamenti nelle piccole imprese: dal referendum alla legge, in “Lavoro 80”, n. 1, 1990, p. 213. 395 Molti commentatori della vicenda sottolinearono addirittura che l’imminenza dei campionati mondiali di calcio che si tenevano a giugno avrebbe accelerato l’approvazione della legge. 396 Su questo punto interessante fu la polemica tra M. Pivetti e G. Ghezzi su “il Manifesto” dei giorni 16 e 17 maggio 1990. Il primo riteneva che il disposto avrebbe toccato un numero limitato di lavoratori (dall’ 1 al 3 per cento degli interessati). Al contrario Ghezzi riferiva dell’esistenza di un numero considerevole di imprese organizzate a rete. Ciò avrebbe comportato, per il senatore comunista, l’estensione della tutela ad un numero di gran lunga superiore alla stima di Pivetti.
264
complessivamente soltanto se venivano computati anche i lavoratori con contratto
di formazione lavoro. Inoltre era prevista l’applicabilità dell’art. 7 in tutte le
aziende e l’illegittimità del licenziamento discriminatorio senza limiti
dimensionali. Il 21 maggio la Corte di Cassazione dichiarò precluso il referendum
abrogativo a seguito dell’emanazione della legge. La vicenda, al di là del
contenuto della legge che comunque estese ulteriormente l’area di tutela reale,
sottolineava ancora l’incapacità del Parlamento di predisporre una seria e
complessiva riforma dello statuto in un senso o in un altro. Solo grazie
all’iniziativa referendaria e all’accoglimento della Suprema Corte, il sistema
politico bloccato riuscì a sbloccarsi e ad emanare una legge.
Sempre riguardo al campo di applicazione dello Statuto, gli anni ottanta
furono il teatro di una parziale estensione della sua normativa all’agitato settore
del pubblico impiego. L’art. 37 dello Statuto infatti prevedeva l’applicazione solo
alle imprese pubbliche economiche escludendo tutta l’area della Pubblica
Amministrazione e degli altri enti pubblici non economici. La storica
differenziazione tra lavoro pubblico e lavoro privato aveva eretto degli steccati
non facilmente abbattibili, per via del regime giuridico speciale del lavoro alle
pubbliche dipendenze. Tuttavia con gli anni molti di questi steccati andavano
progressivamente cadendo per via di un “ambiguo” processo di privatizzazione
del lavoro pubblico. A ciò contribuì moltissimo la sindacalizzazione degli anni
settanta e la strategia delle riforme impostata dal sindacato unitario. Tuttavia, la
progressiva terziarizzazione del conflitto aveva investito anche larghi strati del
pubblico impiego e dove la stessa tenuta delle organizzazioni sindacali storiche fu
molto difficile. Certamente l’art. 37 non taceva del tutto, ma non diceva molto,
265
poiché nel suo disposto ambiguo affermava che le sue disposizioni si applicavano
anche agli altri enti pubblici, salvo che la materia sia diversamente regolata dalle
norme speciali. Come affermava Romagnoli, il maggior difetto dell’art. 37
“non era quello, subito denunciato, di escludere che lo Statuto fosse la casa comune dei
lavoratori privati e pubblici, bensì quello di non escluderlo senza, peraltro, curarsi di precisare che sarebbe stato abitabile a condizione di pagare pigioni salate di cui soltanto adesso si comincia a calcolare l’entità”397
In effetti la “nevrosi regolativa” degli anni settanta che investì i diversi
comparti del pubblico impiego nell’intento di equiparare lavoro pubblico e
privato, aveva portato ad una serie di interventi disorganici e intermittenti, ora a
livello negoziale, ora legislativo, ora d’interpretazioni giurisprudenziali, che di
fatto mantenevano la diversità delle due discipline e ne complicavano
l’interpretazione. Il dpr 411/76 prevedeva l’estensione degli art. 1, 6, 8 e 11 e dei
titoli II e III dello statuto, ai soli dipendenti degli enti parastatali, estensione che
doveva avvenire tra l’altro secondo norme di attuazione da emanarsi con accordi
sindacali. Così che nel 1980 una sentenza della Corte Costituzionale (n. 88)
mandava a dire al legislatore che, nonostante i progressi in materia, lavoro
pubblico e lavoro privato erano ancora diversi e che solo il legislatore avrebbe
potuto chiarire il processo di avvicinamento tre le due normative. Una estensione
integrale dello statuto al principio degli anni ottanta era quindi impensabile.
In questo clima nevrotico nel 1983 venne varata la legge quadro sul pubblico
impiego. Essa estendeva integralmente alcune libertà individuali (artt. 1, 3, 8 e 11)
e rimodellandolo l’art. 4 sulla professionalità dei lavoratori. Tuttavia in relazione
a tali diritti non fu sanato il problema della tutela giurisdizionale. Infatti il
397 U. Romagnoli, Il titolo III dello statuto dei lavoratori e il pubblico impiego, in “Quaderni di Diritto del Lavoro e di Relazioni Industriali”, 1990, p. 49.
266
dipendente pubblico di regola avrebbe dovuto rivolgersi al tribunale
amministrativo e non al pretore e certamente la giustizia amministrativa rimaneva
poco favorevole al lavoratore sia sul piano processuale che sui tempi del processo
assai più lunghi rispetto alle pronunce del giudice ordinario.398 Inoltre la legge
taceva sulla repressione della condotta anti-sindacale (art. 28), “perpetuando una
situazione fortemente differenziata nella quale vi è anche il rischio che alcune
situazioni rimangano del tutto prive di tutela e che su altre vi siano decisioni
contrastanti di giudici diversi.”399 L’estensione dell’art. 28 fu un altro tema
importante su cui il Parlamento cercò di incidere una volta espunto dalla legge
quadro. Durante la IX e la X legislatura il PSI propose ben due ddl e due pdl che
estendevano la tutela contro la condotta antisindacale impugnabile di fronte al
tribunale amministrativo. Mentre il PCI propose di estendere l’art. 28
demandando la giurisdizione al tribunale ordinario. Ma nessuna di queste proposte
fu approvata e alla fine del decennio la repressione della condotta antisindacale
nel pubblico impiego non trovava ancora applicazione.
La legge quadro inoltre introdusse le tutele sindacali previste dal Titolo III
dello statuto in conformità con la legislazione di sostegno presente nel settore
privato. Tuttavia essa si differenziava dallo Statuto poiché non venivano indicati i
titolari e i limiti dei diritti sindacali rimettendoli alla contrattazione collettiva. Ciò
che venne regolata minuziosamente fu proprio la contrattazione collettiva,
indicando i soggetti, gli oggetti, livelli e procedure. La scelta fu tutta politica,
398 M. Rusciano, Rapporto di lavoro “pubblico” e “privato”: verso regole comuni?, in “Lavoro e Diritto”, n. 3, 1989, p. 392. A quanto pare in assenza di una riforma del processo amministrativo, il grosso fu fatto dalla giurisprudenza costituzionale, sia permettendo di fatto strumenti per i provvedimenti processuali d’urgenza (sent. n. 190/1985), sia estendendo al giudizio amministrativo alcune caratteristiche del regime delle prove del processo del lavoro privato. 399 L. Zoppoli, Statuto dei dipendenti pubblici: ancora diversi, in “Lavoro e Diritto”, n. 2, aprile, 1990, p. 282.
267
perché vennero indubbiamente privilegiati i sindacati confederali più idonei a
contenere le spinte di rivendicazione salariale per controllare spesa pubblica e
inflazione. Tuttavia nel corso della seconda parte del decennio, l’emergere delle
componenti sindacali extraconfederali, soprattutto dei COBAS, svelò
l’impossibilità di servirsi dei sindacati confederali per evitare rivendicazioni
salariali troppo onerose. Inoltre alla base del crescere dei c.d. conflitti di status o
più semplicemente corporativi, c’era proprio la scelta del legislatore di puntare
tutto sulla regolamentazione minuziosa della contrattazione collettiva.
Insomma alla fine del decennio, nonostante il progressivo avvicinamento,
lavoro pubblico e privato rimanevano ancora profondamente diversi e non erano
poche le norme dello statuto che di fatto non erano adottate nel pubblico impiego.
E ciò nonostante le proposte di legge provenienti dai soliti Giugni per i socialisti e
Ghezzi per i comunisti, come anche di quelle più decise della Sinistra
Indipendente e della stessa CGIL.
L’unico istituto regolato dallo Statuto e totalmente stravolto dall’intervento
legislativo era stato il sistema del collocamento. In verità il Titolo V dello Statuto
non riuscì nemmeno nel decennio settanta ad incidere sull’annoso problema del
mercato del lavoro italiano. Le commissioni per il collocamento ebbero una
diffusione minima a livello comunale e si richiedeva a gran voce una riforma
complessiva della materia. Il nuovo contesto degli anni ottanta e l’emergere di una
drammatica disoccupazione di massa, specie giovanile, non permettevano più
rinvii. Dopo che numerosi progetti di legge rimasero insabbiati nelle aule
parlamentari, si arrivò solo al 1987 ad una legge che regolava la materia. La
nuova legge revisionava indirettamente tutti i commi dell’art. 33, prevedendo
268
l’istituzione di sezioni e commissioni circoscrizionali, nuovi criteri di avviamento
a lavoro, l’attribuzione alle commissioni della competenza esclusiva al rilascio del
nulla osta alle richieste di assunzione e la depenalizzazione delle assunzioni non
avvenute per collocamento. Lo stesso art. 34 sulle richieste nominative fu
progressivamente modificato. In un primo momento vennero previsti un numero
maggiore di casi eccezionali per la richiesta nominative di manodopera,
successivamente con la legge del 1987 la norma fu praticamente ribaltata, poiché
erano previsti numerosi casi in cui si potesse assumere su richiesta nominativa. Il
processo di liberalizzazione e di flessibilizzazione del mercato del lavoro dunque
fece terra bruciata del titolo V dello statuto.
La disamina delle avventure principali dello Statuto nel decennio ottanta ci
svela il progressivo “processo di alterazione” della legge i un contesto socio-
economico zeppo di mutamenti rilevanti. Usiamo il termine “alterazione” perché
in realtà lo Statuto, profondamente turbato da critiche e proposte di riforma in un
senso e in un altro, non ha sostanzialmente mutato la sua morfologia, ma si è
adattato al nuovo contesto. L’adattamento si è avuto sia grazie ai limitati
interventi legislativi diretti o indiretti, sia grazie alla sua applicazione
giurisprudenziale meno garantista e più flessibile. Tale adattamento comportò sia
una deregolamentazione strisciante di cui ne fecero le spese gli stessi lavoratori,
sia un allargamento di alcune tutele che certamente diedero maggiori benefici ad
altri lavoratori, soprattutto nelle piccole imprese e nel settore del pubblico
impiego. Fatto sta che alla fine del decennio il forte valore simbolico acquisito
negli anni settanta veniva continuamente intaccato non solo dagli ambienti politici
più avvezzi al ritorno definitivo della supremazia del mercato e del potere
269
padronale, ma anche da chi ne era stato tra i più fermi sostenitori. Per questo
cresceva nella società la percezione che lo Statuto fosse una legge storica
rappresentativa dei fasti di un’epoca ormai passata, una specie di leggenda da
sbandierare contro i vertiginosi mutamenti in atto. Ciò fu una costante dei nuovi
sviluppi degli anni novanta.
270
CAPITOLO III
GLI ANNI ’90
3.1 Premessa
In questo ultimo capitolo andremo a ripercorrere il dibattito sui diritti dei
lavoratori di fronte all’emergere della società post-fordista. Effettivamente lo
sviluppo della società post-industriale non comportò esclusivamente
un’alterazione delle norme statutarie descritte nel capitolo precedente. Il
consolidarsi di nuove forme di impresa sia nel settore secondario che in quello
terziario, incidendo sulla struttura del mercato del lavoro in generale, provocò il
declino del lavoro subordinato in senso tradizionale. Esso andava non solo
stratificandosi e diminuendo di fronte alla mancanza di occupazione, ma andava
acquisendo quote di autonomia richieste dalla stessa impresa post-fordista. Il
comando gerarchico andava declinandosi e il lavoratore sembrava sempre più
autonomo e meno dipendente. Di fronte a questi cambiamenti già nel corso della
seconda metà degli anni ’80 gli operatori del diritto del lavoro si trovarono di
fronte alla c.d. crisi della subordinazione e all’emergere della crisi d’identità della
disciplina. Il contesto economico-sociale non era solo causa di turbamenti e
ispiratore di aggiustamenti al passo con i tempi, ma minava la stessa
sopravvivenza di una disciplina nata e da sempre rivolta al lavoro subordinato
tradizionale. Ciò comportava la crisi giuridica più rilevante dello Statuto, poiché
si inaugurava quella sorta di “fuga” dallo Statuto del lavoratori che ancora oggi è
alla base della sua minore effettività sociale e giuridica. In un primo momento
tuttavia, il dibattito, sia in dottrina sia nella giurisprudenza, sembrava assecondare
la confusione, mentre a partire dalla seconda metà del decennio, di fronte a scenari
271
ottimisti di fine della subordinazione che celava la mancanza di diritti e di dignità
dei nuovi lavoratori post-fordisti, si impostarono nuovi approcci teorici per una
nuova politica del diritto post-fordista. Nel primo paragrafo quindi ripercorreremo
il dibattito e lo immergeremo negli sviluppi del mutamento socio-economico già
tracciato nel precedente capitolo.
Lo stesso dibattito influì necessariamente nel contesto politico, che in quel
momento era alle prese con la grave crisi del biennio ’92-’93 e l’ormai inevitabile
crisi del sistema dei partiti della c.d. “I Repubblica”. Ne uscì, al di là delle
contraddizioni e delle restaurazioni striscianti, un sistema politico mutato, in cui il
riassetto delle gradi famiglie politiche si intrecciava a quello del sistema elettorale
proporzionale, aprendo le porte al nuovo assetto politico della II Repubblica delle
coalizioni di governo. Fu in questo contesto che tra il 1996 e il 1997 furono
presentati i primi progetti di legge che impostavano una nuova legislazione dei
lavori post-fordisti. Nel paragrafo successivo ci preoccuperemo quindi di
ripercorre le vicende salienti e le sorti di questi nuovi progetti di legge.
Falliti i tentativi del primo governo Prodi e inaugurato il II governo Berlusconi,
la questione dei nuovi lavori si intrecciò con le recenti riforme del mercato del
lavoro e con il riemergere di un consistente conflitto sociale. In questi anni
riemersero gli attacchi all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori e a completamento
della riforma il governo propose una riscrittura dello Statuto, riprendendo il
progetto di Statuto dei lavori, presentato da Treu nella legislatura precedente. A
questo progetto se ne contrapposero altri, ma ancora una volta le elezioni politiche
del 2006 fecero fallire il progetto governativo.
272
3.2 Il diritto del lavoro tra crisi della subordinazione e affermazione
del postfordismo.
Come abbiamo visto nel capitolo precedente, di fronte ai mutamenti
economico-sociali tendenti verso la terziarizzazione e il superamento di modelli
organizzativi taylor-fordisti, già dalla seconda metà degli anni ’80 andava
prendendo piede un ampio dibattito sul futuro del diritto del lavoro. Presto la
maggior parte degli studiosi e degli osservatori dei mutamenti del mondo della
produzione in relazione alla normativa esistente, concentrarono la propria analisi
sul concetto giuridico della “subordinazione”. Dopo il diritto dell’emergenza e in
un contesto in cui la flessibilità faceva i suoi primi passi con l’estensione dei
contratti a termine, i part-time e i contratti di formazione lavoro, dottrina e
giurisprudenza convogliarono l’analisi sulla natura “esistenziale” del diritto del
lavoro.
“[…] le tensioni provocate dai processi di mutamento diversi si scaricano […] sulla chiave di
volta della materia, quel concetto di “subordinazione” su cui fa perno l’intero castello del diritto del lavoro”400
Quindi i turbamenti dello Statuto come effetti rilevanti di un diritto del lavoro
che cambiava di fronte alla tecnologia e al declino dell’azione collettiva della
classe operaia, “partendo dalla subordinazione, tend[ono] ad investire la stessa
identità e lo statuto scientifico del diritto del lavoro”.401 Tutta la seconda metà
degli anni ottanta fu dominata da un contesto economico-sociale che tendeva alla
destrutturazione/frammentazione del lavoro subordinato tradizionale a vita e a
tempo pieno. Una destrutturazione che tuttavia non offriva repentinamente un 400 M. D’Antona, I mutamenti del diritto del lavoro e il problema della subordinazione, in “Rivista Critica del Diritto Privato”, 1988, p. 195. 401 Ibidem.
273
nuovo modello socialtipico di tutela giuridica, ma che si caratterizzava come un
processo di transizione non facilmente leggibile. In effetti il processo di
affermazione del settore terziario e della lean production rimaneva una meta non
ancora del tutto raggiunta. Il settore terziario, seppur in crescita, stentava a
configurarsi come un settore avanzato applicabile alla produzione, mentre il
processo di ristrutturazione dell’industria era limitato all’introduzione di
tecnologie e ad una decentralizzazione debole che certamente flessibilizzò il
processo produttivo, ma che solo in parte scalfì l’organizzazione gerarchica e
burocratica taylorista. Dunque l’affermazione di un lavoro post-fordista a cui far
fronte era ancora una prospettiva, non una realtà composita.
Tuttavia fonti di tensione ce n’erano e tutte puntavano sulla natura stessa del
lavoro subordinato che sembrava meno eterodiretto e più cooperativo, meno
rigido e più variabile. Erano tutte tensioni che nascevano dall’introduzione
massiccia delle nuove tecnologie che avviavano anche in Italia la “terza
rivoluzione industriale”. Franco Carinci nel 1985 osservando le conseguenze
dell’introduzione delle tecnologie sul rapporto individuale di lavoro e la tendenza
verso il cambiamento, sottolineava:
“E’ ormai impossibile padroneggiare la letteratura in materia, che comincia a parlare anche in
lingua italiana. […] ogni libro, saggio, articolo condivide la consapevolezza del salto di qualità dovuto all’avvento delle “tecnologie leggere” o “tecnologie intellettuali”, allo sviluppo dell’informatica, della telematica, della meccatronica.”402
Il diritto del lavoro infatti nacque dall’identificazione del suo oggetto di tutela
esclusiva: il lavoro subordinato ricondotto ad un'unica, ma precaria nozione
unitaria. Con l’identificazione dell’oggetto di tutela giuridica si provvedeva
402 F. Carinci, Rivoluzione tecnologica e diritto del lavoro: il rapporto individuale, in “Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali”, n. 26, 1985, p. 205.
274
all’autonomia della disciplina nei confronti del diritto civile, distinguendo il
lavoro alle dipendenze altrui dalla generica locazione di opere. Fu così che si
arrivò al concetto giuridico di lavoro subordinato contrapposto a quello di lavoro
autonomo.403 Tutto lo sviluppo successivo, pur approfondendo la tutela e
appostandola non più su caratteristiche meramente assistenziali ma inserendola in
un processo di crescita progressiva delle tutele, tanto da far parlare di diritto del
lavoro come un diritto sociale, non intaccò la definizione unitaria di lavoro
subordinato su cui si andarono sviluppando leggi e contratti collettivi. Questo per
il semplice fatto che il modello di sviluppo del capitalismo occidentale taylor-
fordista permetteva la corrispondenza tra contratto di lavoro subordinato e
socialtipo di lavoratore protetto, così da tendere verso una tutela universale delle
garanzie che disinnescavano la pur sempre latente “permeabilità del confine tra
lavoro autonomo e subordinato”404. Lo stesso Statuto dei lavoratori non fu che una
evoluzione di questo approccio teorico, poiché rivolto esclusivamente al
lavoratore subordinato e applicabile alla generalità dei rapporti di lavoro impiegati
nei settori economici. Esso quindi era perfettamente aderente alla realtà socio-
economica dell’epoca. Lo stesso codice civile del ’42 (art. 2094), pur facendo
riferimento ad un tipo di rapporto di lavoro, quello nell’impresa, non poneva
particolari problemi riguardo al “chi” del diritto del lavoro e al “come” della
403 In Italia tale operazione dottrinale fu condotta nei primi anni del ‘900 da Ludovico Barassi tramite l’inserimento del rapporto di lavoro nel corpo del diritto civile, perseguendo tra l’altro una precisa politica del diritto di tipo liberale. Infatti l’emergere del movimento dei lavoratori a fronte della rivoluzione industriale, andava spesso assumendo un carattere potenzialmente eversivo del sistema. Per questo si operò verso una negazione dell’autonomia contrattuale del lavoratore rispetto al datore di lavoro. Ciò avrebbe comportato una serie di interventi giuridici di protezione e di assistenza sociale verso tali figure lavorative. Per una trattazione storico-giuridica della nascita del contratto di lavoro subordinato U. Romagnoli, Il lavoro in Italia, cit., pp. 19-97, con una dettagliata bibliografia in merito. 404 M. D’Antona, Intervento, in Proposta di discussione: il lavoro e i lavori, in “Lavoro e Diritto”, n. 3, luglio 1988, p. 413.
275
prestazione dedotta nel contratto di lavoro. Fino quindi alla metà degli anni ’80 fu
facile sussumere le poche diversità di prestazione lavorativa nell’ambito del
lavoro subordinato e quindi nella zona protetta dallo Statuto dei lavoratori.405 Ma
successivamente pareva sempre più che dal mercato del lavoro protetto dallo
Statuto “salp[asse] un bastione carico di uomini e donne di giovane età,
inoccupati, sottoccupati, disoccupati […] cassa-integrati senza speranza ed espulsi
da aziende in crisi, decotte o defunte. Tutti insieme, appassionatamente, si
imbarca[vano] per il continente pressoché inesplorato del lavoro autonomo,
parasubordinato, atipico […]”406 e quindi fuori dall’area tutelata dallo Statuto. In
questo nuovo continente, l’introduzione della tecnologia tanto nel settore terziario
come in quello secondario modificava il “come” della prestazione e ciò scalfiva la
visione unitaria del lavoro subordinato e la sua estraneità dal lavoro autonomo,
facendo emergere un numero non del tutto marginale di differenti “aree grigie”
del lavoro, cioè non riconducibili facilmente né al lavoro autonomo né a quello
subordinato.
Il problema della qualificazione del rapporto di lavoro venne quindi affidato
caso per caso alla giurisprudenza. Con il passare del tempo durante gli anni
ottanta i casi andarono aumentando, segno del processo di mutamento in atto. Dal
famoso caso estremo del pony express a quello dei consulenti (finanziari,
immobiliari, informatici), passando dalle telefoniste dell’144, tutte figure
lavorative c.d. “di frontiera”. La struttura del mercato del lavoro 405 Lo stesso lavoro a domicilio, che era riaffiorato nella prima metà degli anni ’70 a fronte della prima crisi petrolifera, fu facilmente riconducibile al lavoro subordinato sulla base di ragioni sociali incontrovertibili che lo descrivevano, usando un espressione citata da D’Antona, un “lavoratore dal guinzaglio lungo”, in Id., I mutamenti del diritto del lavoro, cit., pp. 197-98 e 199. Sulla tendenza espansiva del diritto del lavoro e sugli aspetti storici connessi, si veda Spagnuolo Vigorita, Subordinazione e diritto del lavoro. Profili storico-critici, Napoli, Morano, 1967. 406 U. Romagnoli, Attuazione e attualità dello statuto dei lavoratori, in Lo statuto dei lavoratori (1970-1990), cit., p. 11.
276
“non [era] più riconducibile alla dicotomia tradizionale tra lavoro subordinato regolare –
tendenzialmente stabile – e lavoro subordinato c. d. sommerso – irregolare o precario – ma [era] caratterizzata da una crescente segmentazione dell’occupazione, determinata dalla diffusione delle prestazioni c.d. flessibili tanto nell’area del lavoro dipendente quanto nell’area del lavoro indipendente, autonomo e associato.”407
La stessa giurisprudenza si trovava per altro in enorme difficoltà per
l’incapacità di pervenire a una ricostruzione affidabile del tipo legale lavoro
subordinato ora difficilmente interpretabile, stante l’evanescenza qualificatoria
che il concetto di subordinazione andava assumendo di fronte alla diversificazione
delle prestazioni. Fu così che il c.d. metodo sussuntivo, che “impone, per
l’imputazione di determinati effetti giuridici, una perfetta identità fra fattispecie
concreta e tipo legale del lavoro subordinato”408, non potendo più funzionare
bloccava lo Statuto stesso alla frontiera edificata dai c.d. “nuovi lavori”. Per
intercettare tali differenziazioni la giurisprudenza andò quindi elaborando una
serie di indizi e criteri sussidiari di qualificazione delle fattispecie concrete (c.d.
metodo tipologico). Nel corso degli anni furono introdotti elementi sussidiari
quali la proprietà dei mezzi di produzione, la forma della retribuzione, l’assenza di
rischio economico, la sottoposizione a direttive o a sanzioni disciplinari, ecc., tutti
da raffrontare con le modalità concrete dell’esecuzione della prestazione, al di là
della volontà delle parti. Ma lo stesso metodo tipologico avrebbe condotto ad una
varietà di qualificazioni in potenziale contraddizione e negli stessi casi in cui
veniva applicato il metodo sussuntivo, spesso le sentenze venivano sorrette dal
ricorso a criteri sussidiari e indiziari della fattispecie concreta, visto che “il
metodo giuridico della sussunzione […] può essere certo integrato con l’impiego
407 E. Ghera, La subordinazione tra tradizione e nuove proposte, in “Giornale di Diritto del Lavoro e delle Relazioni Industriali”, n. 40, 1988, 4, p. 623. 408 M. Biagi continuato da M. Tiraboschi, Istituzioni di diritto del lavoro, Milano, Giuffrè, 2004, III edizione, p. 107.
277
di criteri o modelli socio-economici per l’ordinamento tipologico della realtà […]
ma non può essere accantonato”.409 Tuttavia la difficoltà del metodo sussuntivo,
anche se parzialmente integrato con quello tipologico, non permetteva una
qualificazione delle nuove forme di lavoro così da lasciare un numero crescente di
lavoratori al di furori delle tutele del lavoro subordinato e quindi dello Statuto.
“[…] nell’opinione dei giudici del lavoro, e soprattutto dei più alti in grado […] moltissime
[…] sentenze negano la qualificazione del rapporto di lavoro subordinato – e quindi l’applicazione della relativa normativa di tutela […] In casi sempre più sparuti la giurisprudenza (quasi mai quella di legittimità) si sforza di adattare la concezione degli indici rivelatori in relazione alla peculiarità del caso; negli altri casi tiene ferma la tradizionale configurazione degli indici di subordinazione, tende a negarne la sussistenza nel caso concreto e finisce così per dare rilievo alla “volontà espressa” delle parti nel contratto più che ai connotati del rapporto di lavoro nel suo svolgimento.”410
La giurisprudenza dimostrava quindi notevoli difficoltà ad individuare le figure
idonee a cui applicare le tutele esistenti, mentre la dottrina andava elaborando
schemi di individuazioni del quantum delle tutele posto che il giudice poteva
“decidere se una certa figura entra[va] o non entra[va] in un universo di garanzie,
ma una volta che l’abbia fatta entrare, non [poteva] essere arbitro del grado di
protezione che ad essa viene ricondotto”.411
Di fronte a tali segnali di crisi e all’incapacità del legislatore di razionalizzare
un diritto del lavoro in crisi d’identità, a cavallo tra il decennio ’80 e ’90, parte
della dottrina si preoccupò di ripensare lo schema della norma inderogabile e
provvedere ad una rivalorizzazione della compressa autonomia individuale. Era
una soluzione neo-contrattualista. Tale impostazione si basava sulla
considerazione che il nuovo mercato del lavoro stava facendo emergere nuove
figure lavorative, la quale maggiore autonomia li rendeva più forti
409 E. Ghera, La subordinazione, cit., p. 624. 410 A. Salento, cit., p. 159. 411 M. D’Antona, Intervento, cit., p. 415.
278
contrattualmente nel mercato del lavoro. I mutamenti in atto erano contraddistinti
quindi da un processo di “fuga dalla subordinazione” 412 e dall’emergere di figure
lavorative così “forti” sul piano contrattuale da sfuggire dal vincolo solidaristico
delle norme inderogabili del lavoro subordinato.
“Sta dunque allargandosi il novero dei lavoratori “forti” poco interessati, o addirittura
controinteressati, rispetto al modello standard di organizzazione del lavoro previsto dalla legge o dalla contrattazione collettiva, cioè rispetto allo schema di tutela imperniato sulla norma inderogabile. E con la fuga dei “forti”, l’area nella quale opera il principio egualitaristico e solidaristico si contrae […]; il suo baricentro si sposta verso il basso, con il risultato di una accentuazione del sacrificio imposto, al suo interno, ai più produttivi e di un ulteriore incentivo alla loro fuga.”413
Di conseguenza l’affidamento a queste emergenti figure lavorative outsider di
una tutela adeguata doveva avvenire “attraverso il rafforzamento del loro potere
contrattuale individuale, garantendo e/o rafforzando la loro posizione di
sostanziale sicurezza nel mercato, quindi nella fase della negoziazione del
contratto, prima ancora che nel rapporto di lavoro.”414
“La via d’uscita - si potrebbe pensare - è oltremodo facile: “deregolazione” e
“neocontrattualismo” sono gli slogan onnipresenti. Niente, infatti, appare meglio adeguato all’obbiettivo di liberarsi in un colpo solo degli ostacoli che impediscono un’appropriata considerazione degli interessi individuali e degli spazi decisionali del singolo.”415
E’ chiaro che in questa prospettiva lo Statuto rappresentava uno degli strumenti
normativi che più ostacolavano il progetto “neocontrattualista”, poiché garantiva
l’autotutela collettiva degli insider e contribuiva al processo di fuga dal lavoro
subordinato sopra descritto.
412 P. Ichino, La fuga dal lavoro subordinato, in “Democrazia e Diritto”, 1990, pp. 69 ss. 413 Id., Norma inderogabile dell’autonomia individuale nel diritto del lavoro, in “Rivista Giuridica del Lavoro”, I, 1990, p. 78. 414 Ivi, p. 79. 415 S. Simitis, Il diritto del lavoro e la riscoperta dell’individuo, in “Giornale di Diritto del Lavoro e di Relazioni Industriali”, n. 45, 1990, 1, p. 92.
279
A questa concezione si contrappose tutta la dottrina che, basandosi sulla
considerazione che la maggiore autonomia del lavoro spesso nascondeva nuove
forme di dominio e di dipendenza, proponeva un nuovo schema normativo
indisponibile basato sulla dignità, sicurezza e solidarietà dei nuovi lavori, non
conservando le norme esistenti come baluardi inespugnabili, ma appostando una
tutela modulata rispetto alla nuova complessità sociale. Tale filone prendeva le
mosse dagli studi in tema di differenziazione dei trattamenti proposta già nel
1985 da Marcello Pedrazzoli.416
“Molto più convincente appare la richiesta di una modulazione flessibile dell’intervento,
abbandonando quindi in misura sempre più cospicua l’idea di una disciplina chiusa e vincolante […] In altri termini, mentre le tradizionali “leggi di tutela”, che hanno fatto la storia del diritto del lavoro, proponevano un modello comportamentale vincolante e privo di alternative, una legislazione di “incentivo” si limita intenzionalmente ad esplicitare determinate preferenze e allo stesso tempo ad invitare datori e prestatori di lavoro ad utilizzare la loro competenza regolativa per precisare più in dettaglio le disposizioni che alla fine dovranno essere seguite.”417
Secondo questa altra prospettiva lo Statuto non era una norma immodificabile e
per questo essa avrebbe dovuto essere aggiornata e affiancata da una normativa di
sostegno minima diretta a chi rimaneva fuori dalla tutela statutaria. Questa tutela
minima doveva obbligare le parti a negoziare nuove regole aderenti alla specificità
del caso anche in deroga delle norme statutarie e all’autonomia collettiva a favore
di quella individuale.
Intanto da più parti si levava l’opposizione ad un diritto del lavoro visto come
“diritto delle attività”, posto che solo la disciplina del rapporto di lavoro
subordinato avrebbe potuto tutelare le nuove figure di assoggettamento e di
416 M. Pedrazzoli, Democrazia industriale e subordinazione, Milano, Giuffè, 1985. 417 S. Simitis, Il diritto del lavoro, cit., p. 96.
280
sottoprotezione emergenti.418 Questo ulteriore filone della dottrina proponeva una
estensione della tutela tipica del lavoro subordinato alle c.d. fasce del lavoro
parasubordinato valorizzando la “debolezza contrattuale” delle prestazioni
coordinate e continuative previste dall’art. 409, comma 3, c.p.c. Tutto questo
filone metteva in evidenza l’emergere dei rapporti di lavoro non subordinati tra i
quali distinguevano da una parte “l’utilizzo di forzature semitruffaldine di alcuni
istituti giuridici” quali “il rapporto di associazione in partecipazione, quello di
socio d’opera, o quello […] del socio-lavoratore di cooperativa”419 e dall’altra il
rapporto di lavoro coordinato e continuativo. Per quanto riguardava i rapporti di
lavoro coordinato e continuativo, questi sottolineavano una certa autonomia ed un
superamento della c.d. subordinazione personale, ma ravvisavano la permanenza
della c.d. subordinazione tecnico-funzionale ed economica.
“Questo equivoco, insieme politico e tecnico-giuridico, è stato utilizzato in modo,
spregiudicato da parte datoriale, con il crescente consenso della giurisprudenza: in effetti, il rapporto di co.co.co. può dare al datore tutti i benefici del rapporto di lavoro subordinato discendente dalla reale condizione proletarizzata del prestatore […] e dovrà sottoporre alle sue direttive e impostazioni e secondo modalità meno militaristiche, certo, […] ma in concreto non meno coerenti.”420
E’ chiaro che per questo filone lo Statuto rimaneva l’asse portante della
disciplina normativa del lavoro e che anzi esso doveva essere esteso nei sui
caratteri essenziali anche alle nuove forme di lavoro che non potevano usufruire
della tutela statutaria.
418 In questo senso si vedano L. Mengoni, La questione della subordinazione in due trattazioni recenti, in “Rivista Italiana di Diritto del Lavoro”, I, 1985 p. 5 ss.; L. Montuschi, Il contratto di lavoro tra pregiudizio e orgoglio giuslavoristico, in “Lavoro e Diritto”, 1993, pp. 21 ss. 419 P. Alleva, Flessibilità del lavoro e unità-articolazione del rapporto contrattuale, in “Il Lavoro nella Giurisprudenza”, n. 8, 1994, p. 780. L’autore suggerisce nei primi due casi di reprimere tali operazioni “bizzarre” in via amministrativa o giudiziale e, nel caso del socio-lavoratore di cooperativa, di provvedere ad un intervento legislativo che introducesse tutele adeguate in un campo in cui da tempo il legislatore era stato compiacente di forte alle ragioni di “democrazia” dell’ente cooperativo. 420 Ibidem.
281
Bisogna sottolineare tuttavia che in questa fase sia le analisi della dottrina che
le argomentazioni della giurisprudenza risentivano delle contraddizioni in cui il
processo post-fordista si stava attuando nel paese. Il risultato era che tutte le
“opzioni ricostruttive e sistematiche, seppur in seguito riconfermate, riflettevano
uno stile di pensiero calibrato sulla visione “fordista” del lavoro”.421 Ciò non
permetteva agli operatori del diritto di superare lo schema polarizzato tra lavoro
subordinato e lavoro autonomo che era la causa principale delle difficoltà della
disciplina. E certamente i motivi di queste impostazioni di fondo erano inscritti
negli eventi socio-economici in atto che si rivelavano nella loro portata di radicale
mutamento, ma non da prefigurare un contesto post-fordista composito.
“La fase della flessibilità e della crescente segmentazione del mercato del lavoro è da venire;
l’impresa “a rete” non è ancora all’orizzonte, segnato semmai da processi di decentramento produttivo di tipo tradizionale; la “smaterializzazione” del lavoro, tipico delle relazioni polifunzionali informatiche, è ipotesi quasi accademica; soprattutto, i fenomeni neo-industriali dello sviluppo quanti-qualitativo dei servizi non offuscano i contorni del prototipo normativo della subordinazione “personale”.422
Effettivamente le ristrutturazioni e le razionalizzazioni del sistema di fabbrica
fordista (fabbrica ad Alta Automazione), la competizione tra questa e il modello
distrettuale di piccole imprese e la crescita del settore terziario, avevano messo in
discussione la concezione unitaria della subordinazione fordista, ma non avevano
ancora fatto emergere in maniera generalizzata quelle nuove figure professionali
formalmente indipendenti che oggi caratterizzano la nostra economia post-
fordista. Fu invece durante il decennio ’90 che il processo di
“giapponesizzazione” della produzione venne approfondito e calato nel caso
italiano, mentre nello stesso periodo il settore terziario avanzato continuò a
421 A. Perulli, Crisi della subordinazione e lavoro autonomo, in “Lavoro e Diritto”, n. 2, primavera 1997, p. 181. 422 Ivi, 181-182.
282
crescere ulteriormente. Nel periodo considerato infatti grazie allo sviluppo
dell’informatica, applicata tanto ai settori industriali quanto a quelli dei servizi,
alla crescita del commercio globale e dell’interdipendenza economica a livello
europeo e mondiale, i processi di affermazione del post-fordismo ebbero
strumenti e motivi ulteriori per svilupparsi nel nostro contesto economico. Tutte le
nuove forme organizzative che si andavano sperimentando (dal lavoro di squadra,
all’impresa a rete, al franchising) o l’emergere di nuove attività (imprese
pubblicitarie, di desigh, marketing, di consulenza informatica,…) prefigurarono
un mercato del lavoro in cui il lavoro subordinato classico andava riducendosi ad
una minoranza, mentre sembrava crescere il lavoro indipendente. L’esecuzione e
la progettazione della prestazione lavorativa non erano più rigidamente divise e la
discrezionalità del lavoratore diventava sempre più ampia. Tuttavia non ci si
trovava affatto di fronte ad una mera imprenditorialità diffusa. La discrezionalità
della prestazione era comunque accompagnata dal permanere di specifiche
direttive sui risultati da raggiungere che di fatto limitavano l’autonomia della
prestazione. Gli stessi risultati erano inseriti in un più generale disegno di
produzione di valore ai quali benefici i prestatori rimanevano completamente
esclusi. Vediamo più da vicino alcuni di questi processi di emersione del c.d.
“lavoro autonomo di seconda generazione.”423
Nel corso degli anni ’90 gran parte delle grandi imprese italiane introdussero
modelli organizzativi basati sul sistema di fabbrica “integrata”. Le difficoltà di far
fronte alla flessibilità produttiva dopo l’introduzione di tecnologie di automazione
flessibile nel corso degli anni ’80, avrebbero comportato necessariamente
423 S. Bologna, A. Fumagalli, Il lavoro autonomo di seconda generazione. Scenari del postfordismo in Italia, Milano, Feltrinelli, 1997.
283
l’adozione di un’organizzazione volta alla gestione della stessa flessibilità per far
fronte alle incertezze del processo produttivo e alla concorrenza internazionale
sempre più agguerrita424. Ciò sarebbe stato possibile solo con il coinvolgimento
dei lavoratori e dalla capacità dei questi di far fronte direttamente alle inefficienze
e alle incertezze della produzione flessibile e allo stesso tempo organizzarle
secondo gli obbiettivi strategici dell’impresa.
“Si trattava, dunque, di riconoscere agli esecutori margini di discrezionalità (non di autonomia,
beninteso), di flessibilità decisionale e operativa; e, al contempo, di irretire questa discrezionalità in un quadro di vincoli che, da un lato, garantisse il mantenimento di una direzione di senso nell’esercizio della discrezionalità stessa e, dall’altro, producesse una esplicitazione delle decisioni discrezionalmente assunte, a beneficio dell’apprendimento organizzativo.”425
Chiaramente gli schemi organizzativi della burocrazia gerarchica dell’impresa
tayloristica dovevano essere rinegoziati e non solo alleggeriti. Bisognava superare
la separazione rigida tra progettazione ed esecuzione e quindi istituzionalizzare gli
apporti discrezionali del lavoratore. Un grande gruppo industriale come Fiat Auto
nel corso del decennio attuò tale processo sia a livello macro-organizzativo
(maggiore discrezionalità dei responsabili degli stabilimenti) sia a livello micro-
organizzativo (creazione della officina integrata). In entrambi i livelli
decrescevano prestazioni lavorative dipendenti secondo le logiche della
subordinazione tayoorista-fordista e al tempo stesso si istituzionalizzarono nuove
forme di dipendenza/subordinazione. Ad esempio a livello micro, l’officina
424 La stessa Fiat Auto, che era stata l’impresa all’avanguardia nell’adozione di un sistema produttivo ad alta automazione flessibile, dovette far fronte alla crisi internazionale del settore auto sul finire degli anni ’80, crisi da cui ne usciva rafforzato solo il mercato giapponese. “Sul finire degli anni ottanta l’azienda constata che l’automazione flessibile e il “taylorismo giapponesizzato” […] non migliorano le prestazioni del sistema produttivo ad un livello tale da accorciare le distanze sul terreno della competitività con i concorrenti più agguerriti”, in G. Cerruti, La fabbrica integrata, in “Meridiana”, n. 21, settembre 1994, p. 106. Per una visione generale della crisi internazionale dell’automobile, si veda A. Enrietti, L’auto snella e l’Europa invidiosa, in “Politica e Economia”, n. 6, 1991, pp. 60 ss. 425 A. Salento, cit., p. 48.
284
integrata che provvedeva alla produzione di prodotti omogenei (un motore per
esempio) è caratterizzata soprattutto dalla presenza di Unità Tecnologiche
Elementari (UTE) e dal lavoro di squadra.426 Nello stabilimento di Melfi, fabbrica
integrata e esperienza post-fordista per eccellenza, le UTE non solo erano
autonome dal punto di vista interno da altre unità tecnologiche e interdipendenti
con le sub-unità in un sistema strutturato secondo la logica cliente/fornitore
all’interno dello stabilimento, ma al loro interno erano previste prestazioni
variabili e con larghi margini di discrezionalità che di fatto facevano emergere
lavoratori formalmente autonomi.427 Tuttavia bisogna sottolineare che la
discrezionalità di queste figure professionali, che certamente erano affiancate da
uno zoccolo duro di lavoratori subordinati tradizionali, non li rendeva affatto
lavoratori autonomi poiché rimanevano inseriti in un contesto aziendale il cui
controllo/indirizzo della dirigenza aziendale provvedeva ad inserire tali
discrezionalità nel processo produttivo e nelle strategie aziendali complessive.
Lo stesso avveniva in relazione alla crescita dell’organizzazione reticolare
d’impresa. Questo processo era il risultato congiunto delle decentralizzazioni
constanti avviate già nel corso degli anni ’70 da parte delle grandi industrie
fordiste e la difficoltà in cui si trovarono i distretti industriali di piccole imprese al
principio degli anni ’90. Nel decennio ’90 infatti si assistette ad una redifinizione
del rapporto tra piccola e grande impresa. Se nel corso degli anni ’80 la piccola
426 Un embrione delle UTE fu introdotto già nel 1987 nello stabilimento di Termoli 3. Questo fu il primo esperimento di “lavoro di squadra” e di superamento del “lavoro di gruppo”. Riguardo all’organizzazione del lavoro nello stabilimento di Termoli 3, si veda B. Cattero, Motori di qualità: l’organizzazione del lavoro alla Fiat di Termoli 3, in “Politica ed Economia” n. 6, 1991, pp. 53 ss. Per una differenziazione concettuale tra lavoro di squadra e lavoro di gruppo vedi A. Salento, cit., pp. 46-7. 427 Per una ricognizione ben dettagliata su come è stato concepito e come poi si è organizzato lo stabilimento Melfi, si vedano ancora G. Cerruti, La fabbrica integrata, cit. pp. 103 ss.; Id., La Fiat auto conquista la notte e il sabato: è la fabbrica integrata, in “Politica e Economia”, n. 1/2, aprile 1995, pp. 32 ss.
285
impresa aveva rappresentato una reale alternativa alla grande impresa che intanto
si andava difficilmente ristrutturando (si veda supra, parte II, paragrafo 2.1), tale
capacità andava via via declinando a favore di una compenetrazione dei due
modelli organizzativi e a nuove forme gerarchiche dominate della grande
dimensione.
“Nel momento stesso in cui la grande impresa si ristruttura per diventare anch’essa flessibile, i
rapporti gerarchici precedenti di tipo fordista tendono a riprodursi, seppure in forma diversa […] sul finire degli anni ottanta-inizio anni novanta entrambe le tipologie di imprese […] sono diventate flessibili. La capacità di flessibilizzazione della grande impresa, la possibilità di sfruttare le nuove tecnologie più di quanto possa fare la piccola impresa consentono alla grande impresa di gestire la rete logistica della produzione e di demandare alla piccola impresa settori sempre più ampi della propria produzione, spesso in modo centralizzato e gerarchico.”428
Si vanno creando dunque delle vere e proprie organizzazioni reticolari di
piccole e medie imprese legate ai cicli produttivi di una impresa-leader, impresa-
madre o impresa-capocommessa. Oltre alla zona del Nord-Ovest, le imprese c.d.
corporate nerwork429 si sono sviluppate prevalentemente nelle zone dove c’era
una forte presenza di piccole imprese, in molti casi artigiane, o addirittura nei
distretti industriali. Grazie alla presenza di know how locali e diffusi, le grandi
aziende riuscivano a deverticalizzare la propria produzione demandando, tramite
contratti di fornitura e sub-fornitura intere fasi della produzione. Nella catena del
valore così creata, a valle si trovavano una serie di imprese di piccole dimensioni
che formalmente si configuravano come autonome, mentre realmente erano
strettamente dipendenti dal committente. Ciò non solo per quanto riguardava parti
della produzione in senso stretto, ma anche riguardo ai servizi alla produzione, 428 A. Fumagalli, Aspetti dell’accumulazione flessibile in Italia, in S. Bologna, A. Fumagalli (a cura di), Il lavoro autonomo di seconda generazione, cit., p. 141-2. 429 “Cioè sistemi produttivi che hanno al centro un’impresa leader (o impresa “motore di ciclo”) che in genere possiede le competenze progettuali e tecnologiche del prodotto e tiene ben saldo il legame con il mercato, attraverso le reti di vendita e distribuzione”, in F. Belussi, Il capitalismo delle reti. Stabilità e instabilità del corporate network nel settore della subfornitura del tessile-abbigliamento veneto, in Ivi, p. 206.
286
come trasporti, distribuzione al dettaglio, promozione. E certamente quello dei
servizi diveniva forse il settore in cui maggiormente si riscontrano regimi di
rapporto di lavoro non configurabili come dipendenti tradizionali. Sempre più
spesso imprese di servizio sia al consumatore che al produttore, si avvalevano di
un piccolo nucleo di lavoratori subordinati affiancati da un numero considerevole
di figure professionali autonome (collaboratori professionali, esperti con rapporti
occasionali e specifici, free-lances, tecnici del settore). Il settore dei servizi sia
avanzato che arretrato si presentava caratterizzato da
“un’elevata diffusione di “forme di collaborazione in regime di autonomia dei prestatori
d’opera”, con una particolare accentuazione nelle realtà delle imprese di minori dimensioni;[…] un profilo organizzativo delle imprese come “sistemi dei confini relativamente aperti e fluidi”, che rendono di fatto impossibile consolidare come appartenenti all’impresa soltanto i partners e i dipendenti, senza tener conto dei collaboratori formalmente esterni; […] si verifica che la sola forma del rapporto di lavoro non è sufficiente ad identificare “il grado di centralità, e forza, e sicurezza, della posizione ai singoli nel sistema aziendale”430
Tutti questi mutamenti andavano prefigurando il post-fordismo in Italia, che
lungi da essere rappresentato da una mera crescita del lavoro autonomo, era
fortemente caratterizzato dalla diffusione dei contratti di collaborazione
coordinata e continuativa. Infatti nonostante le analisi sulla forza lavoro occupata
negli anni novanta scontarono forti contrapposizioni di vedute, attorno al 1998 le
indagini andavano sempre più focalizzando l’attenzione proprio sui co.co.co. e
non su una semplice crescita del lavoro autonomo.431 I co.co.co. crebbero in
maniera sostanziale soprattutto a partire dal 1995, tanto che nel 1998 erano giunte
430 M. Ambrosini, Le relazioni di lavoro nel terziario privato, in “Lavoro e Sindacato”, n. 4, 1992, pp. 8-9. 431 In questo senso si veda una importante ricerca dell’Ires relazionata da A. Accornero, Una ricerca sui lavori coordinati e continuativi. Fra subordinazione ed autonomia, in “Lavoro Informazione”, 1998, n. 22, pp. 5 ss.
287
a circa un milione e trecento mila unità.432 Il boom era dovuto non solo al fatto
che nel ’95 venne introdotta la previsione per i co.co.co. del contributo
previdenziale del 10%433, ma anche perché le maggiori politiche di gestione del
personale ormai puntavano proprio su queste figure contrattuali434, ritenute più
idonee alle nuove organizzazioni produttive. In altre parole gli interessi delle
nuove forme d’impresa a fare largo uso di lavoratori formalmente autonomi e le
difficoltà economiche degli enti previdenziali che ebbero come conseguenza
l’istituzione di una minima tutela previdenziale, furono le due cause congiunte
della crescita dei lavoratori coordinati e continuativi, prima come soggetto
economico e successivamente come vero e proprio soggetto socialmente
rilevante.435 Si apriva quindi il dibattito riguardo a queste nuove figure sociali, tra
chi riteneva che questi lavoratori fossero assimilabili più ai lavoratori autonomi,
individuando in essi un lavoratore quasi-imprenditore, secondo una visione
interclassista436, o all’opposto assimilandoli ai lavoratori subordinati, nella
432 Ivi, pp. 5-6. Proprio negli anni tra il ’96 e il ’98 furono pubblicate numerose ricerche che andarono ad indagare la composizione tipica del lavoro c.d. “atipico”. I risultati spesso erano contrastanti, visto che in molti casi si includevano fra i rapporti di lavoro atipici anche quei rapporti chiaramente subordinati a tempo determinato, interinale o part-time. Per una trattazione completa di queste ricerche si veda T. Vettor, Ricerche empiriche sul lavoro autonomo coordinato e continuativo e le nuove strutture di rappresentanza sindacale Nidil, Alai e Cpo, in “Lavoro e Diritto”, n. 4, autunno 1999, pp. 619 ss. Nel caso l’Autrice, presentando i dati di una ricerca del Cerit-Cisl, fa notare che questa contraddice alcune altre ricerche come quella dell’Ires, che sottolineavano la prevalenza di uomini a prestazione coordinata continuativa. Al contrario si riscontrava, nei lavoratori co.co.co., una prevalenza di donne, in possesso di lauree e single, in linea con la teoria della femminizzazione del lavoro nel post-fordismo. In tal senso si veda I. Vantaggiato, La “femminizzazione” del lavoro, in AA.VV., Stato e diritti nel postfordismo, Roma, ManifestoLibri, 1996, pp. 47 ss. 433 C’è da sottolineare che il provvedimento preso con la l. n. 335/1995 non fu certamente mosso solo dall’intento di impostare una politica di protezione previdenziale in capo ai co.co.co., ma essa si inseriva nel più generale riassetto della spesa pubblica, in questo caso della riforma previdenziale del governo Dini. In altre parole il sistema Italia aveva bisogno di “battere cassa”. 434 A quanto pare invece nei primi anni ’90 si preferiva imporre a questi lavoratori l’apertura di una partita Iva. 435 M. Carrieri, Come regolare i nuovi lavori, in “Lavoro Informazione”, n. 3, 1999. 436 E’ una posizione chiaramente espressa in A. Bonomi, Il capitalismo molecolare, cit.
288
prospettiva di un nuovo lavoratore autonomo-massa, secondo una visione
classista437.
“Si confrontano qui due prospettive antitetiche. La prima è quella di un lavoro effettivamente
autonomo, connotato da notevole discrezionalità ed elevato contenuto, che viene scelto e in parte costruito da persone capaci di iniziativa e di relazionalità. […] La seconda prospettiva è quella di un lavoro formalmente autonomo ma svolto con vincoli di dipendenza e in condizioni di attività tipici di quello subordinato, rispetto al quale offre ben poca discrezionalità in più e molte opportunità e garanzie in meno.”438
Solo con l’affermarsi dirompente del lavoro post-fordista e quindi con il boom
co.co.co., la dottrina giuslavorista, si preoccupò di tutelare “quei moderni “uomini
di fatica”[…], quell’universo di forza lavoro desalarizzata, ma non
“detaylorizzata.”439
“Si giunge così a porre il discorso in termini qualitativamente diversi: abbandonando il punto
esclusivamente interno al sistema giuridico positivo, la dottrina appare per la prima volta disposta a mutare il taglio metodologico operante nella costruzione del proprio universo cognitivo, avanzando proposte speculative di sistemi di riferimento categoriali radicalmente nuovi. Andare oltre l’attuale nozione di subordinazione, insomma, non è più un tabù; rappresenta, anzi, una necessità teoretica […] e di politica del diritto.”440
Certo le proposte di riforma elaborate dalla dottrina non furono univoche ed
esse scontavano il fatto di relazionarsi ad un contesto sociale in cui i nuovi lavori
erano ancora poco conosciuti nella loro conformazione. Come vedremo nel
capitolo successivo furono molte le proposte e alcune furono tradotte anche in
disegni di legge.
437 Tale impostazione è chiaramente visibile in S. Bologna, Dieci tesi per uno statuto del lavoro autonomo, in B. Bologna, A. Fumagalli, Il lavoro autonomo di seconda generazione, cit., pp. 13 ss. 438 A. Accornero, Una ricerca sui lavori coordinati e continuativi, cit., p. 10. 439 A. Perulli, Crisi della subordinazione, cit., p. 183. 440 Ivi, p. 182.
289
3.3 Dalla crisi della “I Repubblica” ai nuovi progetti post-fordisti
sui diritti dei lavoratori.
Parallelamente alle trasformazioni socio-economiche avviate negli anni ‘80 e
sviluppatesi nel decennio successivo, nella prima metà degli anni novanta si
assistette a mutamenti epocali che decretarono la fine dell’assetto politico-
istituzionale edificato all’indomani dell’approvazione della Carta costituzionale e
che aveva caratterizzato mezzo secolo della vita politica italiana. Mentre la
comunità giuridica del lavoro era impegnata in gravosi problemi “esistenziali” di
fronte ai mutamenti dell’oggetto della propria disciplina, il sistema politico e
istituzionale era immerso anch’esso in una bufera storica e qualche anno prima
inimmaginabile. Nonostante le caratteristiche contraddittorie della crisi del
biennio ’92-’93 e del “nuovo” sistema che ne scaturì, si può a buon ragione
affermare che nel marzo del ‘94, anno delle prime elezioni con un sistema
elettorale non proporzionale, si inaugurava una nuova era politica, una nuova
Repubblica: la “II”. Si andava costruendo un’arena politica in cui le famiglie
politiche “storiche” e i partiti ad esse relazionati dovettero fare i conti con il loro
declino e con l’emergere di nuove formazioni politiche rappresentative della
società italiana.
Le cause della “crisi italiana” non sono riconducibili semplicemente ad una
crisi di rappresentanza sociale dei partiti che pressappoco investiva negli stessi
anni tutti gli altri paesi occidentali, a causa del declino delle ideologie nazionali
“storiche” e dell’accresciuta centralità delle dinamiche globali, né tanto meno le si
possono analizzare servendosi di categorie analitiche che pongano l’accento su
aspetti particolari e specifici. Piuttosto la crisi del 1992, vista da vari punti di
290
vista, suggeriva differenti approcci, contraddizioni e convergenze che ne
esaltavano la specificità rispetto a altri rivolgimenti storici della Repubblica.
“La crisi fu di natura complessa e contraddittoria. Non si trattò, come nel 1968, di una rivolta
unificatrice dal basso, di una contestazione del potere e della politica di una generazione da parte di quella successiva. Né la crisi ebbe al suo centro un’unica classe, o partito, o forza sociale che la scatenasse, la governasse e ne raccogliesse i benefici. Essa non restò confinata a un’unica sfera e a un solo settore della vita del Paese, né a un teatro esclusivamente nazionale.”441
Tra le molteplici cause di quella che viene indicata come la fine della “I
Repubblica”, da comprendere c’è sicuramente il contesto internazionale. Il
processo di unificazione europea e l’implosione del sistema sovietico introduceva
nella vita politica italiana obblighi e condizionamenti esterni inediti.
L’accelerazione dell’integrazione monetaria a livello europeo infatti introduceva
non solo forti vincoli di politica economica, ma incideva sulle stesse prospettive
della rappresentanza politica, sempre più protesa verso i contesti sovranazionali.
Mentre la crisi definitiva del comunismo internazionale dopo i tentativi di riforma
di Gorbaĉёv, non ebbe conseguenze solo nella sinistra comunista, ma influenzò
anche tutte le altre formazioni politiche che dell’anticomunismo facevano una
propria bandiera ideologica per attirare l’elettorato. Alla vigilia delle elezioni del
1992 infatti non furono pochi gli esponenti politici e gli osservatori a sottolineare
che i partiti al Governo avrebbero ottenuto consensi per quello che erano e non
per il loro anti-comunismo.
Sul piano interno, le inefficienze amministrative e la degenerazione
partitocratrica degli anni ’80, fatta di corruzione, clientele e intrecci con la
malavita organizzata, fecero sorgere spinte contestatarie provenienti tanto dalle
emergenti formazioni politiche di rappresentanza localistica (il c.d. rifiuto di
441 P. Ginsborg, L’Italia del tempo presente, cit., p. 471.
291
Roma e delle sue pratiche corrotte) quanto da quel variegato mondo della società
civile che auspicava, lontano da un approccio localistico, un radicale
rinnovamento delle istituzioni e della politica nazionale. Fenomeni politici come
la Lega Nord e la Rete, come anche il variegato movimento per la riforma
elettorale guidato da Mario Segni, ebbero un ruolo fondamentale in relazione al
calo dei consensi dei partiti storici e nelle vicende della riforma del sistema
elettorale.
La degenerazione della politica interna e delle istituzioni nazionali causò
inoltre la forte presa di posizione di alcune minoranze delle stesse istituzioni,
come la magistratura, che con le sue indagini diedero un’accelerazione
determinante alla crisi. Le indagini del pool milanese, come anche quelle a
Palermo contro le organizzazioni mafiose ormai decise a intraprendere una
strategia aggressiva contro lo Stato, causarono effetti e conseguenze devastanti
sulle élites partitiche e di governo.
Comunque le aspettative di un rafforzamento dei partiti di Governo furono
smentite proprio dai risultati elettorali delle elezioni del ‘92 e da lì si aprì la
stagione politica più burrascosa della storia repubblicana, una stagione che si
concluse con le elezioni del 1994 e la salita al potere di Silvio Berlusconi. La DC
perse più di 4 punti percentuali raccogliendo solo il 29.7%. I socialisti persero
quasi un punto raggiungendo il 13,6%. Entrambi i partiti fecero registrare un calo
dei consensi soprattutto a Nord, che vennero travasati nei consensi per la Lega
Nord. Il partito di Bossi raggiunse l’8.7% dei consensi: un risultato incredibile a
fronte dello 0,5% delle elezioni precedenti. La sinistra comunista e post-
comunista ebbe un calo di consensi consistente. Il PDS raccolse il 16,6% mentre
292
RC il 5,6%. Il dato elettorale sottolineava le difficoltà di un’intera famiglia
politica in transizione. Ma a differenza del voto democristiano, le regioni c.d.
“rosse” rimasero fedeli ai partiti di riferimento storici. Al contrario furono proprio
le regioni “bianche” a garantire l’affermazione elettorale della Lega Nord.442 Un
buon risultato ebbe il movimento politico promosso dall’ex sindaco di Palermo
Leoluca Orlando, la Rete, che ottenne l’1,9% dei voti e 12 deputati. Mentre il MSI
rimase stabile al 5,4% dimostrando di non saper trarre vantaggio dalla dispersione
dei voti democristiani.
All’indomani delle elezioni il Parlamento entrò rapidamente in una fase di
confusione istituzionale mai vista nella storia della nostra Repubblica.
All’incapacità di trovare un accordo tra le forze politiche sull’elezione del Capo
dello Stato, si aggiunsero le vicende del pool di Milano e quelle del pool
antimafia. Le rivelazioni di Mario Chiesa, esponente socialista milanese arrestato
nel febbraio ’92, infatti portavano alla scoperta di un vasto sistema di corruzione
tra esponenti di spicco della politica e delle imprese che non poteva essere più
nascosto. Nei primi giorni di maggio cominciarono a fioccare gli avvisi di
garanzia443: due furono recapitati agli ex sindaci di Milano del PSI, Paolo Pilliteri
e Carlo Tognoli, mentre un altro era destinato al segretario amministrativo della
DC Severino Citaristi. Il pool di magistrati guidato da Giulio Borrelli era quindi
deciso a scoperchiare il pentolone bollente di un sistema di corruzione dilagante.
Il Parlamento, in piena elezione del nuovo Capo dello Stato, entrò nella bufera più
442 Per un’analisi sociologica dell’affermazione del fenomeno leghista nelle zone bianche del nord-est e della tenuta della cultura rossa nelle regioni del centro di fronte ai localismi politici, si veda D. Ungaro, Il localismo politico, Formello, SEAM, 2001. 443 Nell’ottobre 1989 fu introdotto nel nuovo codice di procedura penale l’avviso di garanzia, cioè l’atto con cui si comunicava al cittadino che le sue azioni venivano poste sotto indagine dalla magistratura inquirente.
293
totale444 e nessuna delle personalità proposte dai partiti solitamente al Governo (la
DC propose Arnaldo Forlani, mentre il PSI Giuliano Vassalli) riuscì ad avere
l’appoggio del Parlamento. Le cose si complicarono ulteriormente quando il 23
maggio il magistrato Giovanni Falcone, che si era occupato del maxiprocesso di
Palermo che aveva decretato l’ergastolo a numerosi boss mafiosi, fu fatto saltare
in aria con la sua scorta a Capaci vicino l’aeroporto di Palermo. La Mafia aveva
colpito uno degli uomini che aveva più servito lo Stato e contribuito alla lotta
contro la criminalità organizzata. Fu così che nei due giorni successivi il
Parlamento trovò l’accordo ed elesse il nuovo Presidente della Repubblica Oscar
Luigi Scalfaro.
Indubbiamente le indagini milanesi e le atroci vicende siciliane influirono
moltissimo sulla scelta del Capo del Stato: Scalfaro non era certamente ben visto
dal “CAF”, per via del suo profondo rispetto verso l’autonomia dei magistrati e la
sua elezione contribuì a non ostacolare, come in passato, le indagini scomode del
pool di Milano. La scelta di Scalfaro era frutto di un clima politico in continua
evoluzione, un’evoluzione con prospettive non certo rassicuranti per le élites
politiche dominanti. Lo stesso insediamento di Giuliano Amato il 28 giugno alla
Presidenza del Consiglio, fu il frutto dell’opera politica di Scalfaro che non
vedeva di buon occhio un nuovo mandato per Craxi visto che “troppi fra i [suoi]
più stretti collaboratori […] venivano iscritti ogni giorno nei registri degli indagati
della Procura di Milano, e troppi indizi, che si andavano sempre più accumulando,
puntavano direttamente all’ufficio del leader socialista”.445
444 Note sono ormai le immagini dei parlamentari della Lega Nord e del MSI che lanciavano monetine e gridavano “ladri, ladri,…” 445 P. Ginsborg, L’Italia del tempo presente, cit., p. 495.
294
Ma le emergenze non si limitavano al fenomeno mafioso e alle inchieste del
pool di Milano: si cominciava a farsi sentire il “vincolo” esterno dei parametri di
Mastricht. Alla fine del 1992 il debito pubblico aveva un’incidenza sul PIL del
108,6% a fronte dell’obbiettivo massimo del 60% fissato dal trattato di Mastricht.
Nell’estate del 1992 il governo impostò una finanziaria di chiaro segno
depressivo, che riguardava una manovra di circa 90mila miliardi fra prelievi
fiscali aggiuntivi e tagli alla spesa pubblica. Fu subito chiaro che il governo
puntava a riportare l’inflazione a livelli pressoché fisiologici e per fare ciò
avrebbe dovuto impostare una concertazione delle parti sociali sul costo del
lavoro. Di fronte a queste scelte drastiche di politica economica un nuovo ruolo
doveva essere assunto dai sindacati confederali. Amato chiese ai sindacati e
soprattutto a Bruno Trentin, segretario generale della più grande organizzazione
sindacale, di fare dei sacrifici, di rinunciare alla scala mobile definitivamente e di
firmare un accordo con gli industriali sul costo del lavoro. Non fu facile per la
CGIL accettare di firmare un accordo a cui si opponeva gran parte della base.
La CGIL, già all’inizio del decennio, nel XII congresso confederale aveva
intrapreso un dibattito interno volto a rivedere criticamente il proprio operato e a
ricercare nuove strategie organizzative e rivendicative al passo con i tempi. Fu in
questi anni che si cominciò a parlare per la prima volta del “sindacato dei diritti”,
consapevoli che una svolta strategica volta ad innovare l’azione sindacale e allo
stesso tempo evitare l’adattamento passivo ai mutamenti in atto, era possibile solo
con una maggiore attenzione alle nuove dimensioni personali ed individuali del
295
lavoratore e della sua vita.446 Un ripensamento strategico che in realtà toccava
solo in parte le altre sigle confederali. Un attento osservatore delle dinamiche
sindacali e in questo caso del XII congresso della CGIL, osservava nel dicembre
1991 che
“La tematizzazione congressuale è partita giustamente dalla necessità di definire l’identikit di
nuovo sindacato: tematizzazione che appare carente ad esempio nelle altre due confederazioni, che forse sono “riformiste”, ma che sono tentate più da politiche di adattamento che di innovazione”.447
In quegli anni venivano sciolte le correnti interne, quella socialista guidata da
Ottaviano Del Turco e quella comunista. Il congresso fu organizzato per la prima
volta sulla base di due mozioni congressuali: una di maggioranza e più moderata e
l’altra di minoranza, più radicale, guidata da Fausto Bertinotti che intanto aveva
dato la sua adesione alla nascente RC. Sulla stessa lunghezza d’onda Trentin
propose una nuova strategia di co-detereminazione e di assunzione da parte
sindacato di un maggiore ruolo politico in sede di definizione delle scelte
economiche nazionali ed europee. In questo senso era la CGIL a scontare un
ritardo considerevole rispetto alle altre confederazioni già da tempo attestate su
posizioni concertative. Ma la proposta di Trentin andava ben oltre la dicotomia
esistente tra strategia conflittuale e strategia concertativa. Egli proponeva come
via di uscita dalla crisi che investiva la CGIL, il superamento dei due poli opposti
della strategia sindacale: conflittualità e concertazione. Da una parte, alla
conflittualità fine a se stessa si opponeva l’obbiettivo di una conflittualità volta
alla codeterminazione come nuovo terreno di lavoro della prassi sindacale;
446 B. Trentin, Relazione e conclusioni al XII Congresso Cgil, in “Rassegna Sindacale”, n. 40, 1991. Vedi anche il programma e le tesi del congresso in CGIL, Strategia dei diritti etica della solidarietà, Roma, Ediesse, 1991. 447 M. Carrieri, La Cgil sfuggirà al minimalismo?, in “Politica ed Economia”, n. 12, 1991, p. 12.
296
dall’altra alla concertazione dall’alto e dirigista tipica degli anni ’80, si
contrapponeva una concertazione sociale “considerata come requisito minimo
dell’azione sindacale”448 e base di un nuovo protagonismo sociale e politico del
sindacato. Su queste basi si andavano aprendo nuove ma difficili prospettive di
unità sindacale tra le tre confederazioni anche grazie al parziale abbattimento
degli steccati ideologici che dividevano comunisti, socialisti e cattolici. Tuttavia
fu proprio il governo Amato a svelare le insufficienze del processo unitario e di
rinnovamento proposto dalla CGIL. Il sindacato infatti fu costretto dalla grave
congiuntura economica ad accettare le proposte tutt’altro che equidistanti del
governo e a firmare, il 31 luglio, un accordo che contribuì in modo rilevante a
svelare le difficoltà pratiche di una vera e propria unità organica tra CGIL, CISL e
UIL e tra le stesse componenti interne. Le proposte del governo apparivano infatti
molto più vicine alle aspirazioni di Confindustria che a quelle dei lavoratori.449 La
firma fu giustificata da Trentin interamante sulla base di ragioni estranee agli
interessi dei lavoratori: difficoltà economica e politica del paese che avrebbe
potuto causare una nuova crisi di governo, l’intento di mantenere compatte le
anime socialiste ed ex-comuniste della CGIL e prevenire divisioni tra CGIL, CISL
e UIL che avrebbero minato per sempre gli intenti unitari. Nonostante l’accordo
dell’estate 1992 avrebbe rappresentato per la CGIL e per i lavoratori un sacrificio
eccessivo, con il senno di poi la vicenda rappresentò per il sindacato una prova di
responsabilità politica rilevante di fronte sia all’opinione pubblica che alle forze 448 Ivi, p. 13. 449 Fu lo stesso Trentin all’indomani della firma ad affermare di aver ceduto alle richieste congiunte di governo e imprenditori e che nessuna delle richieste della CGIL era stata accettata dalle parti. Trentin affermava che si sarebbe assunto la responsabilità del suo operato rassegnando le dimissioni da segretario generale. Rassegnate le dimissioni, queste furono respinte e Trentin rimase alla guida della CGIL ancora per due anni, quando fu eletto segretario generale Sergio Cofferati. Per una trattazione della notte delle trattative si veda E. Marro, La lunga notte che spaccò la Cgil, in “Corriere della Sera” 2 agosto 1992.
297
politiche e di governo. Tuttavia la vicenda fu descritta da molti come una vera e
propria “caporetto sindacale” poiché agganciò definitivamente il costo del lavoro
all’inflazione programmata e provocò fratture di non poco rilievo all’interno della
CGIL.
Le nuove misure restrittive annunciate da Amato fecero crescere il malcontento
tra i lavoratori. Dopo l’annuncio di altri tagli alla spesa pubblica, nel settembre si
assistette ad una massiccia mobilitazione di lavoratori di diversi settori e
categorie, volta a contestare la politica di risanamento del Governo toppo
sbilanciata sui sacrifici dei lavoratori. Fu una mobilitazione unitaria straordinaria
che sembrava riportare alla mente le lotte degli anni settanta per le riforme sociali
e dimostrava che, nonostante il declino della classe operaia, la capacità di
mobilitazione del movimento sindacale su temi generali non era affatto
scomparsa. Ma in questo caso l’imponente iniziativa sembrava essere spinta dalla
frustrazione e dalla rabbia verso un Governo in difficoltà di fronte alla crisi
economica e intenzionato a risolvere problemi strutturali tramite il sacrificio dei
lavoratori. Fu anche una mobilitazione partita dal basso con il chiaro intento di
contestare la firma del 31 luglio del patto sulla scala mobile. Il 29 ottobre circa
50.000 lavoratori sfilarono per le vie di Milano aderendo ad uno sciopero
convocato direttamente da un centinaio di consigli di fabbrica e senza l’appoggio
dei vertici confederali. Il movimento degli “autoconvocati”, così fu ribattezzato,
contestava la strategia sindacale subalterna rispetto a Governo e imprenditori
portando molti vertici sindacali ad un ripensamento della stessa strategia.450
450 G. Laccabò, La lezione dei 50 mila di Milano, in “L’Unità” 30 ottobre 1992.
298
Il governo Amato era quindi alle strette tra malcontento dei lavoratori e vincoli
europei, mentre a Milano le inchieste dei magistrati continuavano a puntare
sempre più in alto. Tuttavia il Governo riuscì a varare alcuni provvedimenti: avviò
il processo di privatizzazione di IRI, ENI, INA ed ENEL, istituì una commissione
bicamerale per le riforme istituzionali presieduta da De Mita e successivamente da
Nilde Iotti e varò, sotto la spinta del movimento referendario, la nuova legge
sull’elezione diretta dei sindaci. Inoltre varò un provvedimento importantissimo
sul pubblico impiego che avrebbe definitivamente equiparato il rapporto di lavoro
privato a quello pubblico. Il decreto legislativo n. 29/93 prevedeva una riforma
complessiva del pubblico impiego e l’art. 55 dichiarava espressamente
l’estensione dello Statuto dei lavoratori alle Pubbliche Amministrazioni
indipendentemente dal numero dei dipendenti. Ci furono anche importanti vittorie
contro la mafia: nel gennaio ’93 fu catturato Toto Riina, capo della mafia
siciliana. L’arresto di Riina e il contemporaneo insediamento di Gian Carlo
Caselli a capo della Procura di Palermo, avrebbero inferto un duro colpo alla
mafia siciliana: esse rappresentarono con una vittoria importantissima per lo Stato
contro la strategia aggressiva della mafia siciliana.
Ma il governo restava molto debole politicamente ed era continuamente
costretto ai rimpasti per via degli avvisi di garanzia recapitati ai suoi componenti.
Lo stesso Craxi nel dicembre 1992 aveva ricevuto il primo di una lunga serie di
avvisi di garanzia, mentre Claudio Martelli fu costretto a dimettersi da ministro
della giustizia per il suo coinvolgimento nell’inchiesta sulla P2 e sui finanziamenti
illeciti al PSI. Per di più nel marzo dello stesso anno Giulio Andreotti fu iscritto
nel registro degli indagati dalla Procura di Palermo con l’accusa di concorso in
299
associazione mafiosa. Gli intenti del Governo di arrivare ad una soluzione politica
della crisi451 e di evitare il referendum sull’abolizione del sistema elettorale
proporzionale452 fallirono e Amato fu costretto alle dimissioni. Nacque così in un
contesto parlamentare completamente allo sbando, il governo tecnico di Carlo
Azeglio Ciampi, ex governatore della Banca d’Italia.
La formazione di Governo era composta da molti tecnici a cui parteciparono
anche esponenti del PDS e dei VERDI.453 In questo contesto, il governo tecnico si
preoccupò di attuare una politica economica di rigore in continuità con l’operato
di Amato e di rispettare i patti tracciati nei parametri di Mastricht. Per risanare i
conti pubblici e rispettare i vincoli europei, Ciampi non poteva però più contare
sull’apporto di un Parlamento che proprio in quel momento stava attraversando
una crisi profondissima. Per questo il governo Ciampi si preoccupò
principalmente di razionalizzare il sistema di relazioni industriali ed impostare un
modello di concertazione tra le parti sociali stabile e continuato e introdurre una
vera e propria politica dei redditi. C’era bisogno di nuovo dell’apporto dei
sindacati. Indubbiamente il provvedimento più importante raggiunto dal Governo
Ciampi fu proprio il Protocollo d’intesa con le parti sociali del 23 luglio 1993.
L’accordo, pur proseguendo nel solco tracciato dal Governo Amato di legare il
costo del lavoro agli indici di inflazione programmati, fu ottenuto dal Governo
con un’equidistanza tra sindacati e Confindustria riconosciuta da entrambe le
451 Nel Marzo 1993 Amato propose il varo di alcuni decreti legge che depenalizzavano il finanziamento illecito ai partiti. Ma la reazione della società civile e dell’opinione pubblica fu imponente e il Presidente Scalfaro si rifiutò di firmare i decreti. 452 Il 17 e 18 aprile 1993 si tenne il referendum proposto soprattutto da Mario Segni. Fu raggiunto e superato il quorum e l’82,7% dei votanti si espresse per l’abolizione del sistema proporzionale. Il parlamento avrebbe dovuto affrontare anche il nodo della legge elettorale. 453 Tuttavia, proprio nel momento in cui fu presentata la squadra di governo, la Camera respinse una delle tre autorizzazioni a procedere nei confronti di Bettino Craxi. Il caso provocò subito le dimissioni degli esponenti del PDS e dei VERDI.
300
parti. L’intento di Ciampi e del c.d. protocollo “Giugni” era molto più ambizioso
di quello del Governo Amato: gli accordi prevedevano infatti un assetto stabile e
periodico delle relazioni sindacali a più livelli (centrale e decentrato) che fu
possibile solo grazie ad un ruolo governativo più tecnico e meno politico in senso
stretto. Secondo il Protocollo d’intesa i salari dovevano essere concertati in due
sessioni annuali di confronto nelle quali le parti sociali avrebbero programmato,
attraverso il negoziato, i tassi d’inflazione. Inoltre si prevedeva una contrattazione
collettiva articolata su due livelli: 1) nazionale di categoria a scadenza
quadriennale per la parte normativa del contratto e a scadenza biennale sulla
materia retributiva. 2) aziendale o territoriale a scadenza quadriennale su materie
diverse dal contratto nazionale, sulla base di programmi negoziati dalle parti
aventi come obbiettivi incrementi di produttività, di qualità e tutte le questioni
inerenti all’andamento dell’impresa. Tale sistema era ambizioso e di fatto
contribuì al risanamento economico del paese, a far fronte alle richieste della
dell’unione monetaria e a porre le basi per la ripresa della produttività. Inoltre
includeva stabilmente il sindacato nelle scelte di politica economica e
occupazionale. Ma l’accordo rivelava
“la situazione paradossale per cui il movimento sindacale, che gli avvenimenti avevano lasciato
sostanzialmente immodificato [nonostante le aperture della CGIL alla politica dei redditi], veniva chiamato a collaborare con il governo proprio quando i partiti politici, sottoposti ad attacchi su più fronti, ne venivano espulsi.”454
Inoltre negli anni successivi diversi commentatori sottolineavano non solo il
fatto che le sessioni annuali non vennero mai convocate con assiduità, ma anche la
poca effettività del sistema negoziale a livello decentrato.
454 P. Ginborg, L’Italia del tempo presente, cit., p. 520.
301
“Le ricerche empiriche sull’effettivo impatto del Protocollo del 1993 relativamente al governo
dell’articolazione dei livelli negoziali, dimostrano come la realtà delle grandi imprese proceda secondo logiche non sempre conformi – e, anzi, spesso eccentriche – rispetto al quadro di riferimento delineato nel contratto collettivo nazionale. Inoltre […] il contratto di secondo livello è stato […] caratterizzato in larga misura da erogazioni di tipo tradizionale, non collegate a parametri oggettivi di produttività, redditività, qualità […].”455
E’ chiaro quindi che le ambiziose intenzioni di Ciampi furono spesso disattese
nella realtà, per via di una cultura delle parti sociali non avvezze ad un modello di
concertazione mutuato dai paesi scandinavi. Ma di fronte all’emergenza
economica tale sistema fu straordinariamente incisivo e investì il sindacato di un
ruolo importantissimo al livello di politica economica.
Il protocollo “Giugni” inoltre formalizzava la riforma dell’art. 19 dello Statuto
già prevista dall’accodo tra CGIL, CISL e UIL del 1° marzo 1991 che istituiva le
nuove Rappresentanze Sindacali Unitarie (RSU). Secondo l’accordo le
Rappresentanze unitarie erano composte per 2/3 da rappresentanti eletti sulla base
di una elezione a suffragio universale con criterio proporzionale e a scrutinio
segreto tra liste concorrenti. Per 1/3 dalla designazione o elezione interna
nell’ambito delle associazioni sindacali maggiormente rappresentative o firmatarie
del contratto collettivo. Le liste potevano essere presentate dalle associazioni
maggiormente rappresentative, da quelle firmatarie del contratto collettivo
applicato all’unità produttiva o da altre associazioni sindacali purché abbiano
firmato gli accordi istitutivi delle RSU. A queste ultime e solo ad esse, per la
presentazione di liste è richiesto un numero di firme corrispondenti almeno al 5%
455 M. Biagi continuato da M. Tiraboschi, Istituzioni di diritto del lavoro, Milano, Giuffrè, 2004, III edizione, p. 450. L’autore porta a sostegno della sua critica i risultati della Commissione di verifica del funzionamento del Protocollo, istituita dal Governo Prodi nel 1997. Si vedano i risultati della commissione in www.csbm.unimo.it
302
degli elettori.456 Tuttavia il problema delle RSU si pose due anni più tardi, quando
un vasto movimento referendario di matrice liberale, capeggiato dai Radicali,
propose l’abrogazione del criterio selettivo della maggiore rappresentatività delle
organizzazioni sindacali.457 Ottenuta la vittoria l’11 luglio 1995, le RSU potevano
e possono tuttora essere costituite solo dalle associazioni sindacali firmatarie dei
contratti collettivi applicati nell’unità produttiva di riferimento. Il nuovo testo
dell’art. 19, frutto della crisi di capacità rappresentativa del sindacato, riservando
il sostegno all’attività sindacale esclusivamente nei luoghi di lavoro dove sono
presenti sindacati firmatari di contratti collettivi nazionali, non solo esclude
numerosi settori della nostra economia dove la contrattazione è sistematicamente
elusa458, ma “consente al datore di lavoro di interferire (ammettendo o escludendo
sindacati dalla sigla di un accordo) nella materia dei diritti riservati proprio a
coloro che dovrebbero essere le controparti.459 Comunque sia il governo Ciampi
aprì una nuova stagione che da una parte indicava nuovi e incisivi spazi per il
sindacato, ma dall’altra lasciava ancora aperti i temi di una rappresentanza
generale del lavoro che allo stesso tempo riuscisse a far fronte alle diversificazioni
del “mondo dei lavori”.
Un altro provvedimento importantissimo del governo prima delle elezioni del
’94 fu quello sulla legge elettorale in senso maggioritario. Le leggi nn. 276 e 277
456 Bisogna sottolineare che nel pubblico impiego le RSU sono interamente elettive e che la raccolta firme (2% dei lavoratori per le amministrazioni fino a 200 dipendenti e 1% o comunque non superiori a 200 in quelle di maggiori dimensioni) è prevista per chiunque voglia presentare una lista concorrente. Tale opzione era il frutto della forte presenza di sindacati extraconfederali che con un sistema come quello privato sarebbero stati fortemente ridimensionati. 457 M. Bascetta e G. Bronzini riferirono che i Radicali erano pronti a raccogliere le firme per l’abolizione totale dei due criteri selettivi. Ma un accordo successivo tra CGIL e radicali convinse i movimento referendario a proporre un quesito aggiuntivo che richiedeva la sola abolizione del criterio della maggiore rappresentatività, Id., Lo statuto che non c’è, in AA.VV., Stato e diritti nel postfordismo, cit., p. 71-2. 458 M. Biagi continuato da M. Tiraboschi, cit., p. 475. 459 M. Bascetta, G. Bronzini., cit., p. 72.
303
del 4 agosto prevedevano che il 75% di Camera e Senato erano eletti in 707
collegi uninominali, mentre il restante 25% sulla base del criterio proporzionale a
livello circoscrizionale regionale. Era un sistema elettorale misto che da una parte
spingeva i partiti a creare coalizioni, ma dall’altra rendeva tali coalizioni fragili
per via della quota proporzionale che spingeva le componenti alla competizione
interna.
Fu in questo il contesto che i nuovi partiti della “II Repubblica” si ritrovarono a
ereditare un sistema politico istituzionale stravolto. Alle elezioni del 1994 il Polo
Progressista (PDS, RC, VERDI, RETE, Socialisti Italiani) sembrava essere vicino
al potere, per via delle numerosi affermazioni alle elezioni amministrative
dell’anno precedente. Ma fu in questo momento che si inserì la straordinaria opera
politica di Silvio Berlusconi. Nel settembre ’93, dopo una serie di incontri segreti
con esponenti di primo piano della sua azienda e contatti con i propri consiglieri
personali, Belusconi fondò l’Associazione nazionale Forza Italia e in poco tempo
furono fondati club in tutto il territorio nazionale. Nel gennaio ‘94 annunciò che il
nuovo movimento politico sarebbe diventato un partito e avrebbe partecipato alle
elezioni politiche. Il 26 gennaio annunciava, in un messaggio trasmesso in
televisione, di voler “scendere in campo” per sconfiggere la sinistra e portare
l’Italia verso un “nuovo miracolo economico”.460 In poco tempo riuscì ad
aggregare un polo alternativo alle sinistre: a nord fondò il Polo delle Libertà
alleandosi con la Lega Nord, mentre a sud senza l’apporto della Lega ma con
quello della destra di Fini, creò il Polo del Buon Governo. Il suo programma
politico si basava sulle promesse di meno tasse, meno Stato, competizione ed
460 Per il testo integrale del messaggio si veda S. Berlusconi, “Costruiamo un nuovo miracolo”, in “Il Giornale” 27 gennaio 1994.
304
efficienza del sistema economico. Era un programma di chiaro stampo neo-
liberista, con accentuati connotati populistici all’italiana. Spesso nei suoi discorsi
attaccava la sinistra rea di essere ancora comunista e colpevole della crisi
istituzionale ed economica del paese perché alleata dei giudici di Milano che
venivano chiamati per l’appunto “toghe rosse”. Grazie soprattutto allo strapotere
mediatico del Cavaliere e alla scarsa capacità comunicativa e progettuale dello
schieramento progressista461 – a cui non aderì né il PPI né il Patto Segni – Achille
Occhetto, leader dello schieramento in alternativa a Ciampi che si tirò fuori, fu
sconfitto. Berlusconi e i suoi conquistarono il 42,9% dei consensi (58,1% dei
seggi) alla Camera dei Deputati mentre i progressisti raccolsero solo 34,4%
(33,8% dei seggi). PPI e Patto Segni raccolsero il 15,7% (7,3% dei seggi). Al
Senato tuttavia Berlusconi non ottenne la maggioranza assoluta. Nonostante la
forza simbolica di questa vittoria dipingeva una maggioranza di Governo forte e
determinata nei suoi progetti, il Governo non durò molto e, prima la grande
mobilitazione sindacale contro la riforma delle pensioni462, poi i dissidi interni con
la Lega di Bossi463, fecero precipitare la situazione già compromessa dal contesto
europeo che richiedeva rigore e politiche che mal si conciliavano con le promesse
spettacolari annunciate in campagna elettorale. Le inchieste del pool di Milano
sullo stesso Berlusconi e sull’operato di alcuni tra i suoi più stretti collaboratori,
461 I suoi discorsi erano zeppi di belle promesse (un milione di posti di lavoro, meno tasse e libertà dai comunisti e dallo Stato) e di assicurazioni della sua affidabilità come uomo politico. La sinistra invece sembrava sicura di vincere e si limitò ad accusare l’avversario di essersi arricchito grazie a Craxi. 462 Dopo l’annuncio di riforma delle pensioni, i sindacati confederali si mobilitarono e a novembre più di un milione di persone invase le piazze di Roma in opposizione alla riforma pensionistica. Il 1° dicembre fu firmato un patto con i sindacati che sanciva la vittoria del movimento dei lavoratori. 463 I principali dissidi tra Lega e Forza Italia erano motivati dalla paura di Bossi di perdere consensi nell’Italia settentrionale dove Forza Italia era fortemente radicata.
305
Marcello Dell’Utri e Cesare Previti, convinsero Bossi a ritirare la fiducia al
governo e il 22 dicembre 1994 Berlusconi rassegnò le sue dimissioni.
Le vicende del primo governo Berlusconi sottolineavano come il processo di
riforma del sistema politico non era del tutto completato. Le crisi di Governo
causate dal ritiro dell’appoggio di alcuni partiti più piccoli saranno una costante
della vita politica italiana. Esse sottolineavano le difficoltà del nuovo sistema
politico di aggregare le fragili identità politiche emergenti e con esso le
contraddizioni del nuovo sistema elettorale maggioritario all’italiana.464 Come
vedremo in seguito, le sorti dei nuovi progetti legislativi in materia di diritti dei
nuovi lavori risentirono negativamente anche delle dinamiche interne ai Governi
di coalizione.
Fu in questo momento che le sorti del sistema politico si riallacciano alla
questione dei nuovi diritti. Scalfaro, nonostante l’opposizione di Berlusconi e
Fini465, non sciolse il Parlamento e diede la fiducia ad un nuovo Governo tecnico
guidato da Lamberto Dini appoggiato dall’opposizione e dalla Lega Nord. Fu in
questo anno che, con la riforma delle pensioni conquistata da Dini, si posero le
basi per l’affermazione dei lavori coordinati e continuativi. Con la previsione del
fondo previdenziale per i lavori coordinati e continuativi, non solo si contribuì ad
una specie di pre-regolazione delle nuove figure lavorative post-fordiste, ma
464 Sul caso si veda un’interessante saggio dell’epoca che già sottolineava tali difficoltà: M. L. Pesante, Il maggioritario “doc” e perché sia difficile trapiantarlo in Italia, in “Politica ed Economia”, 1995, n. 1/2, pp. 18 ss. 465 Nel gennaio 1995 con la c.d. svolta di Fiuggi, Fini riuscì a compiere il suo disegno riformatore del MSI. Venne fondata Alleanza Nazionale (AN) che tagliava definitivamente i ponti con il passato fascista e allo stesso tempo accentrava ulteriormente i poteri del segretario del partito. Pino Rauti dal canto suo guidò un piccolo gruppo di dissidenti che rimaneva inquadrato nel vecchio MSI. Sulla svolta di Fiuggi, si veda M. Tarchi, Dal Msi ad An: organizzazione e strategia, Bologna, Il Mulino, 1997.
306
soprattutto essa condusse ad una maggiore conoscenza del frastagliato mondo dei
“nuovi lavori”.
In qualche modo è successo che solo dopo la costituzione della gestione separata i nuovi lavori
sono divenuti da soggetti economici un vero e proprio dato sociale. Intanto, è apparso nel periodo successivo che il numero dei lavoratori rientranti dentro questa tipologia era più largo di quanto venisse immaginato prima”466
Tuttavia avvenne qualcosa di paradossale se si constata che i primi a rispondere
alle esigenze di nuovi diritti di questo universo lavorativo ormai socialmente
rilevante, non furono certo le confederazioni sindacali che affermavano sempre
più spesso di voler rappresentare tutte le diverse soggettività lavorative emergenti.
Esse rimanevano ancorate alle vecchie politiche rivendicative delle federazioni
tradizionali. Affermavano la necessità di nuove leggi di tutela, ma difficilmente si
incaricarono di rappresentarle sindacalmente. Infatti solo nel 1998, come
vedremo, nacquero delle prime e poco efficaci articolazioni rappresentative
sindacali o parasindacali dei nuovi lavori. In questo primo momento i sindacati si
trovarono fortemente in ritardo e a quanto pare preferirono affidarsi alle analisi
dei giuristi.
Diversa, peraltro, era la situazione nell’ambito giuslavorista, che invece
sembrava, sulla scorta delle ricerche avviate già dalla seconda metà degli anni ’80,
più preparata a proporre sbocchi normativi e di tutela legislativa. Come abbiamo
visto nel paragrafo precedente, a partire dalla seconda metà del decennio ’90 da
più parti la dottrina proponeva interventi del legislatore, che sulla scorta delle
indagini sulle nuove forme di prestazione lavorative e del dibattito giuridico ormai
466 M. Carrieri, Come regolare i nuovi lavori, cit., p. 6.
307
approdato al superamento della dicotomia tra subordinazione e autonomia,
impostasse nuove tutele e nuovi diritti in senso post-fordista.
Ad esempio sulla scorta dell’opzione neocontrattualista, P. Ichino propose una
sorta di “competizione virtuosa” tra lavoratori subordinati (insider) e lavoratori
autonomi e disoccupati (outsider). Partendo dal presupposto che di fronte alla
presenza di milioni di lavoratori autonomi in “sostanziale dipendenza economica”
e disoccupati di vario genere, “non si può eludere la questione della ragion
d’essere della disparità di trattamento giuridico della loro posizione rispetto a
quella dei lavoratori subordinati”.467 La ragione in questa prospettiva va
ricondotta alla considerazione che rimarca sull’eccessiva protezione affidata
storicamente al lavoratore subordinato. Per Ichino questi lavoratori sono descritte
come delle persone “minorenni” da proteggere dai pericoli del mercato468 tramite
leggi inderogabili (come lo Statuto) e l’azione delle organizzazioni sindacali
radicate da sempre e esclusivamente rappresentative tra i lavoratori subordinati
che rimangono comunque una minoranza del mercato del lavoro.469 La via di
uscita dalla “fuga del diritto del lavoro”470 sarebbe stata in questa prospettiva
quella di creare una tutela generale, una “rete di sicurezza” comune a lavoro
subordinato e lavoro autonomo”, da raggiungere tramite una riduzione delle tutele
del lavoro subordinato, mantenendo una serie di garanzie minime per le situazioni
di maggiore debolezza, e al contempo ampliare invece la tutela dei lavoratori più
467 P. Ichino, Il lavoro e il mercato. Per un diritto del lavoro maggiorenne, Milano, Mondatori, 1996, p. 54. 468 Ivi, p. 4. 469 L’autore nel primo capitolo dell’opera sopra citata propone una larga ricognizione sul mercato del lavoro italiano, analizzando i dati statistici Istat del 1995. Da questa rappresentazione della realtà ne esce un mercato del lavoro in cui i soli protetti dal diritto del lavoro sarebbero meno di dieci milioni a fronte dei circa 22,7 milioni di lavoratori totali. Tra gli esclusi vengono contati anche i disoccupati e i lavoratori nel mercato irregolare, in Ivi, pp. 13 ss. 470 F. Liso, La fuga dal diritto del lavoro, in “Industria e Sindacato”, 1992, n. 28, pp. 1 ss.
308
forti contrattualmente (subordinati o autonomi che siano). Al di la di questa tutela
minima generale, il diritto del lavoro dovrebbe diventare maggiorenne, nel senso
di dover abbandonare quelle tecniche d’intervento normativo che tutelano i
lavoratori contro il mercato e impostando nuovi interventi che tutelino i lavoratori
nel mercato. “Un gioco normativo a “somma zero” in cui è
“esemplare quanto prospettato in materia di assistenza economica per malattia, laddove si
avanza le proposta di proteggere anche i prestatori d’opera parasubordinati contro il rischio di malattie di lunga durata, eccedente la settimana, contestualmente togliendo ai lavoratori subordinati (che verrebbero dunque parificati agli autonomi) la tutela contro il rischio delle malattie di breve durata (soppressione delle clausole collettive che prevedono a carico del datore la copertura per il periodo di carenza).”471
E’ una proposta che evidentemente sconta una impostazione di tipo
interclassista e liberale, poiché esalta la capacità individuale e l’autonomia delle
nuove figure lavorative. La proposta neocontrattualista comporterebbe quindi
necessarimente una riduzione/flessibilizzazione delle tutele individuali e collettive
del lavoro subordinato e quindi anche una modifica in senso derogatorio dello
Statuto dei lavoratori, soprattutto in termini di stabilità del posto e della
retribuzione e di incidenza della contrattazione collettiva nei luoghi di lavoro.
Tuttavia non può essere certo nascosta l’opera di continua deregolazione e
flessibilizzazione delle tutele del lavoro subordinato (contratti a termine, part-
time, apprendistato, contratto di formazione e lavoro) inaugurata nei primi anni
’80 e approfondita nel corso del decennio successivo. Un processo che aveva
investito, come abbiamo avuto modo di vedere, anche lo Statuto dei lavoratori.
Non sorprende quindi che la proposta neocontrattualista fosse contrastata da
diversi ambienti della dottrina, i quali ritenevano che il diritto del lavoro “già da
471 A. Perulli, Crisi della subordinazione, cit., p. 191, in riferimento ai suggerimenti di Ichino descritti in P. Ichino, Il lavoro e il mercato, cit., p. 70.
309
tempo” aveva “accentuato esplicitamente il carattere derogatorio di buona parte
della [sua] struttura, della funzione e dei frutti del c.d. garantismo collettivo; il
cui esito pressoché nullo in termini di incremento dell’occupazione [era], per
altro, evidente.”472 Una parte consistente di questa impostazione della dottrina era
raccolta nella Consulta Giuridica della CGIL, da cui vennero lanciate ben due
proposte d’intervento legislativo in materia di nuovi diritti. Nonostante all’interno
di questo filone dottrinale siano emerse proposte tecnicamente diverse, esse erano
accomunate da una politica del diritto che individuasse un’area d’intervento
continua e comune tra lavoro subordinato e autonomo. Un intervento legislativo
“che sostanzialmente riqualifichi e ridefinisca la stessa fattispecie di lavoro
subordinato” e attribuisca alcune tutele anche ai lavoratori autonomi “che non
siano quelle proprie di qualsiasi contratto tra privati”.473 Le due proposte474 si
ispirano alla stessa ratio di superamento della contrapposizione tra lavoro
subordinato e lavoro autonomo e di adozione di “uno zoccolo minimo di tutele
comuni”475, da individuare in tutti quei lavori integrati in una attività economica
altrui. L’idea è quindi quella di far riferimento al contratto di lavoro “senza
aggettivi” (o sans phrase). Secondo queste proposte, la normativa di tutela
comune dovrebbe essere impostata sulla falsariga del lavoro subordinato e
dovrebbe essere estesa ai lavori che de jure condito fanno parte del lavoro
autonomo, ma che de jure condendo entrerebbero a far parte del lavoro tout court
perchè inserito in ambiti organizzativi imprenditoriali non propri. 472 G. Ghezzi, Itinerari in atto e percorsi di riforma del mercato del lavoro, in “Lavoro e Diritto”, n. 4, autunno 1996, p. 662. 473 Id., Proposta di un “Testo Unico” in tema di mercato del lavoro, in AA.VV., La disciplina del mercato del lavoro. Proposte per un testo unico, Roma, Ediesse, 1996, p. 232. 474 Ci riferiamo a quella di P. Alleva, Ridefinizione della fattispecie di contratto di lavoro. Prima proposta di legge, e quella di M. D’Antona, Ridefinizione della fattispecie di contratto di lavoro. Seconda proposta di legge, entrambe in AA.VV., La disciplina del mercato del lavoro, cit. 475 Ivi, p. 196.
310
Tuttavia questo nuovo filone che può essere definito “neo-garantista” non ha
certo nelle due proposte dei risvolti pratici di uguale portata. Alleva in sostanza
proponeva un allargamento delle tutele tipiche del lavoro subordinato, secondo un
gioco a somma positiva che tendeva alla crescita verso l’alto delle tutele per
ricomprendervi anche le figure non tutelate. Queste nuove figure di tutela sono
individuate nella nozione di parasubordinazione, che grazie alla riforma del
processo del lavoro del 1973 può solo ricorrere al pretore del lavoro. Di fatto i
parasubordinati vengono individuati come effetto del processo di elusione delle
protezioni tipiche del lavoro subordinato, mentre la proposta prevede solo alcune
tutele minori per i parasubordinati che si avvicinano a prestazioni di tipo
chiaramente autonomo, poiché vengono comunque considerati come “soggetti
economici attualmente o potenzialmente attivi sul mercato”. Tra l’altro sono
previsti degli specifici “patti aggiunti” individuali o collettivi che possono
prevedere l’inserimento del lavoratore autonomo nell’organizzazione d’impresa.
Una valutazione, quella rispetto ai parasubordinati, presente tra tutti quei
giuslavoristi impegnati nel chiarire che
“Con il ricorso al lavoro “autonomo” e in particolare con i contratti di collaborazione
coordinata e continuativa i datori di lavoro riescono a ottenere l’inserimento con una certa stabilità della prestazione nel processo produttivo e quindi l’eterodirezione di essa, in quanto l’attività del collaboratore è nei fatti subalterna anche tecnicamente ai fini di profitto del committente, senza passare per le forche caudine del lavoro subordinato”476
Diversa era invece la seconda proposta della Consulta, firmata da D’Antona.
Essa si basa sul concetto di “redistribuzione delle tutele” al centro del quale si
trova il lavoro senza aggettivi. In un certo senso quindi, pur accettando il concetto
di lavoro sans phrase, D’Antona riconosce la presenza di una eccessiva tutela 476 G. Bronzini, Autonomia e subordinazione nel rapporto di lavoro: verso l’unificazione?, in “Rivista Critica di Diritto del Lavoro”, n. 2, 1996, p. 559.
311
accordata al lavoro subordinato. Posto che le tutele del lavoro subordinato siano
state già oggetto di deregolamentazione, egli propone di mantenere in capo a
questi la tutela tradizionale, mentre individua nei nuovi lavori delle tutele minime
e comuni (equa retribuzione, diritti sindacali, preavviso in caso di licenziamento,
ecc.). Nella proposta di D’Antona si valorizzano quindi le prestazioni
formalmente autonome ed esse non sono viste come una eccezione patologica del
sistema. Tuttavia D’Antona non esclude un utilizzo per così dire truffaldino
dell’uso dei co.co.co. Nella proposta infatti sono previsti degli “indici” di
subordinazione, sostanzialmente ripresi dalla giurisprudenza, per incorporare nei
lavori subordinati tutti quei co.co.co. assunti per aggirare le tutele del lavoro
subordinato.
Un’altra ambiziosa proposta provenne da un gruppo di lavoro composto da
giuristi e sociologi incaricati dalla Confindustria.477 Questi, constatando che i
recenti mutamenti dell’organizzazione del lavoro nell’industria erano “atti a
spostare in misura più o meno irreversibile i confini tra lavoro subordinato, lavoro
coordinato, lavoro direttivo e lavoro autonomo, sia a dare un contenuto differente
a queste quattro categorie di lavoro”478, proponevano anch’essi un superamento
della rigida dicotomia tra lavoro subordinato e autonomo più in linea con la
società postmoderna.
477 Per quanto riguardava l’aspetto giuridico si veda R. De Luca Tamajo, R. Flammia, M. Persiani, La crisi della subordinazione e della sua idoneità selettiva dei trattamenti garantistici. Prime proposte per un nuovo approccio sistematico in una prospettiva di valorizzazione di un tertium genus: il lavoro coordinato, in “Lavoro Informazione”, n. 15-16, 1996, pp. 75 ss. Mentre per l’aspetto sociologico L. Gallino, Mutamenti in corso nell’organizzazione del lavoro, in Ivi., pp. 89 ss. 478 Ivi, p. 89. L’Autore individua questi mutamenti nelle esternalizzazioni, nel lavoro telematico e nel lavoro funzionalmente integrato. Vedi le argomentazioni nelle pagine successive del lavoro, pp. 89-94.
312
“La classica dicotomia (lavoro autonomo-subordinato) più non rappresenta la complessità del fenomeno lavoro nella società postmoderna. Essa è sempre più riduttiva nei confronti dell’implosione all’interno di ciascun capo e vincola l’autonomia negoziale ad una scelta e ad una pre-condizione di carattere normativo, che a volte non riflettono affatto il contenuto obbligatorio e le prestazioni dedotte.”479
Gli Autori. non escludendo la possibilità di “tentare di rivedere e aggiornare gli
indici tradizionali della subordinazione”, proponevano di svuotare l’alternativa
autonomia-subordinazione, per “valorizzare un tertium genus – il lavoro
coordinato alle esigenze delle imprese – al cui interno andrebbe a collocarsi una
vasta gamma di sottotipi caratterizzati da discipline flessibilmente sintonizzate
epperò non “drammaticamente” differenziate.”480 In questa prospettiva i nuovi
lavori erano considerati non una forma patologica e per questo peggiorativa del
modo di lavorare, visto che veniva proposto di mantenere la tutela tradizionale per
tutti quei lavoratori che svolgono lavori di “scarsa professionalità e attività
prevalentemente esecutive”, mentre al tertium genus - da individuare in sede
legislativa e con l’apporto dell’autonomia collettiva - dovevano essere garantite
alcune tutele minime superiori a quelle riconosciute al lavoro autonomo, ma non
certo tramite una estensione di quelle tipiche del lavoro subordinato. Il lavoro
coordinato inoltre, pur concretizzandosi in diversi sotto-tipi, sembra essere
descritto generalmente come contrattualmente molto forti e per questo bisognosi
non di “tutele eteronome” (tutela collettiva) perchè capaci di esercitare tale potere
individualmente (tutela individuale).
Non bisogna tuttavia dimenticare di menzionare chi, tra i giuristi del lavoro,
proponeva una sorta di neo-astensionismo legislativo. Il contributo più importante
di questo filone minoritario, fu quello di L. Spagnuolo Vigorita, espresso in un
479 R. De Luca Tamajo, R. Flammia, M. Persiani, La crisi della subordinazione, cit., p. 83. 480 Ibidem.
313
suo saggio del 1997481. L’A., riflettendo sul dibattito in corso circa le tutele
legislative da appostare nel nuovo contesto economico-sociale, rivendicava un
ruolo del giurista “di contenuto negativo: che sia rivolt[o], cioè, a segnalare al
legislatore l’opportunità di non intervenire affatto (ovvero, di intervenire) in
ordine alla predeterminazione di nuove fattispecie e tutele, da riferire a zone
ulteriori rispetto a quella della “subordinazione forte” […].482 Certamente
l’intervento di Spagnuolo Vigorita, oltre ad essere teso a disinnescare gli
interventi di mera estensione delle tutele tradizionali del lavoro subordinato
presente soprattutto nella proposta di Alleva483, era mosso dal fatto che le attuali
rappresentazioni dei nuovi lavori e soprattutto gli interessi di cui questi erano
portatori, rimanevano ancora offuscati nella realtà e il suo monito si rivolgeva a
tutte le proposte in campo tacciate di ideologismo interventista. Le stesse
considerazioni neo-astensioniste riflettevano proprio le difficoltà delle
organizzazioni sindacali nel raccogliere le domande di un gruppo sociale molto
eterogeneo e non rappresentato a livello sindacale. In effetti i sindacati erano
praticamente latitanti sul tema e ciò contribuiva a mantenere il fenomeno dei
481 L. Spagnuolo Vigorita, Riflessioni sul dibattito in tema di subordinazione e autonomia, in “Massimario di Giurisprudenza del Lavoro”, 1997, pp. 952 ss. 482 Ivi, p. 952. L’autore sostiene che il voler a tutti costi intervenire per predeterminare le tutele dei lavoratori, è un comportamento ideologico e storicamente formatosi nella nostra cultura lavorista. Per questo propone, “almeno in questa fase” che considera di transito perché gli stessi interessi di chi è sprovvisto di tutele sono difficilmente individuabili dagli stessi suoi portatori, un’azione sindacale che permetta di coagulare gli interessi e di appostare tutele contrattate. Insomma “si prospetta il transito dalla tutela data alla tutela conquistata: dunque, regolata da criteri di effettività, perché riconosciuta dalle parti.” 483 Tale interpretazione che collega i timori di Spagnuolo Vigorita alle sue preoccupazioni in merito alle proposte di Alleva e in generale a chi vorrebbe bloccare il processo di erosione della tutela della zona del lavoro subordinato, è presente in M. Magnani, Verso uno “Statuto dei lavori”?, in “Diritto delle Relazioni Industriali”, 1998, n. 3, p. 312 e anche nota (1).
314
nuovi lavori non del tutto chiaro, sia riguardo ai soggetti che agli oggetti della
tutela.484
Intanto con la caduta del I Governo Berlusconi e la vittoria dell’Ulivo (PDS,
PPI, VERDI, SDI, appoggio esterno di RC) alle elezioni del 1996, il nuovo
contesto governato dall’ex presidente dell’IRI Romano Prodi segnava il passaggio
delle proposte relegate nel campo del dibattito teorico a quello legislativo. Il tema
dei lavori atipici inoltre cresceva di giorno in giorno e si inseriva nel più ampio
dibattito sulla flessibilità, sia “in uscita” che “in entrata”, che il mondo della
produzione richiedeva. Alle collaborazioni coordinate e continuative quindi si
affiancava la questione del lavoro interinale, a tempo parziale e a termine e tutte
quelle forme di lavoro che, pur riconducibili al lavoro subordinato, erano
assimilate nell’alveo del lavoro “atipico”. Già nel settembre del 1996, pochi mesi
dopo la costituzione del governo Prodi, venne firmato un accordo, il Patto per il
Lavoro, nel quale i sindacati di fatto accettarono un terreno di confronto su questi
temi. Da quel patto scaturì la difficile mediazione che portò successivamente
all’approvazione del c.d. “pacchetto Treu” (in quel momento Ministro del lavoro)
contenuto nella legge n. 187/97. Parallelamente nei primi mesi del 1997 venivano
proposti in Parlamento ben tre disegni di legge. Il primo (n. 2049), presentato al
Senato della Repubblica e di cui il primo firmatario era il giurista del lavoro C.
Smuraglia, in quel momento Presidente della Commissione lavoro del Senato,
dichiarava esplicitamente nel suo titolo “Norma di tutela dei lavori atipici”. Il
secondo (n. 3972), presentato alla Camera, sempre d’iniziativa di deputati della
484 Le stesse difficoltà furono ravvisate da M. Carrieri, Come regolare i nuovi lavori, cit., pp. 12 ss.
315
maggioranza Lombardi, Salvati, Delbono, intitolato “Disciplina del contratto di
lavoro coordinato”, e il terzo, proposto dai deputati Mussi, Innocenti (n. 3423).
I progetti di legge approdati in Parlamento erano il frutto della rilevanza sociale
acquisita dai nuovi lavori, non solo tra chi pensava di dover intervenire per
limitarne le distorsioni, ma anche per chi ne esigeva un riconoscimento legislativo
e una valorizzazione dell’uso in una prospettiva moderna dell’impresa. Tuttavia fu
proprio in sede politica che affiorarono le differenze e le contrapposizioni tra i
vari aggregati di interesse all’interno della maggioranza. I progetti di legge infatti
erano il risultato di traduzioni in politica-legislativa di alcune proposte sopra
elencate ed esse erano difficilmente conciliabili. Per questo, in sede di esame, i
contrasti furono consistenti ed essi non rispecchiavano solo una contrapposizione
tra maggioranza e opposizione, ma investirono anche le diverse anime della
maggioranza parlamentare e come vedremo anche i rapporti tra Governo e
Parlamento.
Comunque il primo progetto di legge ad essere esaminato fu proprio quello di
Smuraglia. I lavori della Commissione lavoro al Senato si caratterizzarono subito
per la loro tendenza a trattare il tema dei lavori coordinati e continuativi come
tipologie contrattuali utilizzate dalle imprese per eludere le tutele tipiche del
lavoro subordinato e far fronte alla gestione flessibile della manodopera.
“Già nel corso dei lavori in Commissione fu subito notato che la preoccupazione dei senatori
era quella di evitare un uso delle co.co.co. nei casi in cui il rapporto di lavoro poteva essere configurato come rapporto di lavoro dipendente a tempo determinato, quel rapporto “tipico” sul quale erano ritagliate le tutele legislative e contrattuali della “stagione” ’70-’80.”485
485 M. Salvati, Servono gli economisti del lavoro? Riflessioni su una esperienza parlamentare, in www.ail.it, p. 4. Lo stesso saggio è apparso con il titolo Economia e politica: servono gli economisti del lavoro?, in “Stato e Mercato”, n. 1 aprile, 2002, pp. 143 ss.
316
Il progetto tra l’altro era impostato sulle elaborazioni teoriche della Consulta
della CGIL e soprattutto in quelle contenute nel primo progetto di legge elaborato
da Alleva. Il progetto Smurglia infatti prevedeva l’estensione di alcune tutele
dello Statuto dei lavoratori486 ai “rapporti di collaborazione, di carattere non
occasionale, coordinati con l’attività del committente, svolti senza vincolo di
subordinazione, in modo personale e senza impiego di mezzi organizzati e a fronte
di un corrispettivo”. Inoltre erano previsti diritti d’informazione e formazione e i
corrispettivi doveri dei datori di lavoro, un regime di stabilità obbligatoria, un
sistema fiscale e previdenziale, tutele in caso di malattia, diritti sindacali e la
previsione di un congruo intervento della contrattazione collettiva. Il progetto si
muoveva su un impostazione neo-garantista, volta ad estendere alcune tutele
tipiche del lavoro subordinato e ad introdurre nuove regole che limitassero i poteri
imprenditoriali e ricondurre sotto tutele tipiche i casi di uso distorto di lavoratori
formalmente indipendenti. A questa proposta erano chiaramente contrari non solo
l’opposizione, la Confindustria e le altre associazioni di rappresentanza dei datori
di lavoro, ma anche chi, pur inserito in ambienti vicini alla maggioranza e al
movimento sindacale, non vedeva di buon occhio un provvedimento che mirava
alla semplice introduzione di norme tipiche del lavoro subordinato in capo a
lavoratori inseriti in “forme e modalità di svolgimento dell’attività produttiva
distante anni-luce da quelle sulle quali si è storicamente modellato il contratto di
lavoro subordinato”.487 Per gli oppositori del progetto Smuraglia, la proposta non
provvedeva ad una modulazione delle tutele aderenti alle nuove forme
486 Gli artt. 1, 5, 8, 14 e 15. Inoltre si prevedeva l’applicazione della legge n. 903/77 e della legge n. 903/1991 e le disposizioni in materia di sicurezza e di igiene previste dal decreto legislativo n. 626/94. 487 U. Romagnoli, Il lavoro in Italia, cit., p. 196.
317
organizzative d’impresa. Ciò avrebbe contribuito ulteriormente ad una fuga dallo
stesso lavoro parasubordinato e dalle nuove tutele, con la conseguenza di nuovi
contenziosi a livello giudiziario per la qualificazione dei rapporti. Oltre a critiche
di tipo giuridico, agli estensori della proposta si imputava anche una scarsa
conoscenza di sociologia economica riguardo ai nuovi modelli produttivi e in
molti criticarono le impostazioni ideologiche e conservatrici dei neo-garantisti.488
Tra l’altro alla Camera giaceva l’altro progetto di legge (n. 3972) presentato dai
deputati Lombardi, Salvati, che in pratica riproponeva lo schema della
formulazione del tertium genus “il lavoro coordinato” proposto dal gruppo di
lavoro in collaborazione con Confindustria. Un crescendo di critiche di cui era
consapevole lo stesso ministro del lavoro Tiziano Treu489, se si considera il fatto
che nei giorni successivi l’approvazione della riforma dal mercato del lavoro
(luglio 1997), annunciò l’intenzione del Governo di predisporre uno Statuto dei
lavori per tutelare le “aree grigie” dell’occupazione, proponendo un vero e proprio
progetto ministeriale. La predisposizione di un autonomo progetto ministeriale era
chiaramente volta a attenuare la lettera della proposta c.d. Smuraglia e a dirimere
le controversie emergenti in Commissione lavoro al Senato. Il lavoro fu affidato
rapidamente ai giuristi del lavoro che collaboravano nel ministero coordinati da
488 Le critiche al progetto Smuraglia sono state numerosissime e con accenti diversi: tra le più acute si vedano, AA.VV., I cosiddetti “lavori atipici”. Aspetti sociologici, giuridici e interessi delle imprese, Agenzia per la promozione di Economia e Lavoro, 2000, in particolare i saggi di A. Accornero, F. Liso, A. Maresca e in ultimo L. Pelaggi sulle ragioni di Confindustria; M. Salvati, Servono gli economisti del lavoro?, cit.; la presa di posizione generale di tutta la rivista “Diritto delle Relazioni Industriali” diretta da Marco Biagi, per tutti vedi Il dibattito sui nuovi lavori: due disegni di legge a confronto per una difficile mediazione, in “Diritto delle Relazioni Industriali”, n. 2, 1999; lo stesso M. Biagi e M. Tiraboschi, Le proposte legislative in materia di lavoro parasubordinato: tipizzazione di un tertium genus o codificazione di uno “Statuto dei lavori”?, in “Lavoro e Diritto”, n. 4, autunno 1999, pp. 571 ss.; M. Pedrazzoli, Classificazione e rapporti di lavoro, in “Massimario di Giurisprudenza del Lavoro”, 1997, pp. 957 ss. 489 Sulle posizioni di Treu in merito ai nuovi lavori, si veda T. Treu, Politiche del lavoro e strumenti di promozione dell’occupazione: il caso italiano in una prospettiva europea, in M. Biagi (a cura di), Mercati e rapporti di lavoro, Milano, Giuffrè, 1997, p. 11.
318
Marco Biagi. Sotto la direzione scientifica di Biagi fu diramato un documento
ministeriale dal titolo Ipotesi per la predisposizione di un “Statuto dei lavori” 490.
Gli Autori, dopo aver dato largo spazio all’analisi del dibattito giuridico, politico
ed economico, dichiaravano che questo era caratterizzato da “obbiettivi di politica
del diritto e politica legislativa difficilmente conciliabili” (pp. 1-2), proponevano
un percorso di politica legislativa specifica, che da una parte contribuisse a
dirimere le contrapposizioni ideologiche e dall’altro aprisse la strada ad un nuovo
Statuto dei lavori complessivo. La proposta era estremamente pragmatica: 1)
provvedere alla creazione di un apposito sistema di certificazione dei rapporti in
sede amministrativa (pp. 5-23)491; 2) predisporre una rimodulazione generale delle
tutele del lavoro, impostando una normativa generale e modulata nel contesto
della società dei lavori (pp. 24 ss.). Successivamente lo stesso documento fu
approfondito e fu presentata una bozza di progetto di legge (“Bozza Biagi”)492, ma
essa non fu mai tradotta in disegno formale di legge. La proposta di Statuto dei
lavori fu praticamente la prima proposta di riscrittura dello Statuto dei lavoratori
del ’70 ed essa si distanziava tanto dalla proposta Smuraglia, tanto da quella n.
3972, poiché non prevedeva una “meticolosa opera di definizione concettuale
della fattispecie, in modo di ridurre i motivi di contenzioso tra le parti”, ma
“muoveva da un punto di vista diametralmente opposto, e cioè dall’inutilità di
ogni sforzo definitorio di un area contrattuale, per definizione, fluida e
490 M. Biagi, M. Tiraboschi (a cura di), Ipotesi di predisposizione di uno “Statuto dei lavori”, su incarico del Ministro del lavoro Tiziano Treu (1997-1998), in www.csmb.unimo.it 491 Nel testo sono presenti anche dei modelli prestabiliti di certificazione dei rapporti di lavoro, pp. 15-23. 492 Uno “Statuto dei lavori” fu presentato in una prima versione al Consiglio dei Ministri il 25 marzo 1998 nell’ambito della Commissione di studio per la revisione della legislazione in materia cooperativa con particolare riferimento alla posizione di socio-lavoratore (c.d. commissione Zamagni), mentre successivamente fu redatta in una versione “alleggerita” in sede ministeriale presumibilmente con l’apporto di Tiziano Treu. Si veda in Appendice Doc. n. 5.
319
mutevole.”493 In questo senso quindi le proposte di Confindustria, di alcuni
politici della maggioranza e dei giudici raccolti attorno alla proposta di
individuare un tertium genus, furono praticamente accomunate a quelle addensate
attorno al progetto Smuraglia.
“Sul piano delle finalità di politica legislativa, l’opzione in favore della tipizzazione di un
tertium genus pare in se neutra. Essa può essere infatti adottata sia per estendere le tutele del diritto del lavoro ai rapporti difficilmente riconducibili al tipo legale dell’articolo 2094 c.c. (come appunto nel caso del d.d.l. n. 2049) sia in funzione di una operazione diretta a sottrarre nuclei più o meno ampi di tutele a prestazioni lavorative di lavoro subordinato (come nel progetto elaborato da De Luca Tamajo, Flammia, Persiani […])”494
Fu così che di fronte alla impossibilità di trovare un accordo tra le parti sociali
sulla nozione di parasubordinazione, non restò altro che introdurre alcune
modifiche alla proposta Smuraglia. In essa infatti furono introdotte delle
modifiche soprattutto sulla questione della certificazione. I sostenitori
dell’impostazione neo-garantista rimanevano nettamente contrari alla
certificazione perché era mirata in realtà a limitare il ruolo dell’autonomia
collettiva e a destrutturare il diritto del lavoro nato e cresciuto per limitare la
libertà negoziale dei singoli lavoratori come soggetti deboli di fronte alla
controparte contrattuale. Secondo questa visione, se si fossero predisposti dei
rapporti di lavoro certificati, questi avrebbero toccato il problema della
indisponibilità delle tutele anche del lavoro subordinato, poiché il sistema sarebbe
stato spinto necessariamente verso una maggiore propensione alla contrattazione
493 M. Biagi, M. Tiraboschi, Le proposte legislative in materia di lavoro parasubordinato, cit., p. 582.. Gli autori portavano a sostegno dalla loro impostazione anche la posizione manifestata dal Presidente della Commissione per il Lavoro Pubblico e Privato della Camera dei Deputati Renzo Innocenti, si veda R. Innocenti, Un progetto politico per la riforma delle regole del lavoro, in “Diritto delle Relazioni Industriali”, n. 3, 1998, pp. 307 ss. Nello stesso senso anche qualche anno più tardi in M. Tiraboschi, La c.d. certificazione dei lavori “atipici” e la sua tenuta giudiziaria, in “Lavoro e Diritto”, n. 1, inverno, 2003, p. 111, nota n. 4 494 M. Biagi, M. Tiraboschi, Le proposte legislative in materia di lavoro parasuboridinato, cit., p. 584.
320
individuale. Tale prospettiva non faceva altro che minare il ruolo del conflitto e
dell’iniziativa collettiva e sindacale, già fortemente ridimensionata a tutti i livelli e
circoscritta a sussulti momentanei e non certo nel lavoro atipico. Inoltre si faceva
notare che le certificazioni non avrebbero comunque fatto diminuire le
controversie in sede giudiziale poiché “resterebbe pur sempre compito del giudice
di accertare la corrispondenza di quanto dichiarato dalle parti e quanto
effettivamente realizzato sul piano dei fatti.”495
Si capiscono quindi le intime motivazioni delle controversie di politica-
legislativa sul tema delle certificazioni al momento dell’approvazione del testo in
commissione al Senato.496 Tutta la sinistra radicale, da RC ormai passata
all’opposizione, passando per i VERDI e i Comunisti Italiani, fino a giungere ad
alcuni settori della Sinistra DS, si attestava su queste posizioni, mentre debole fu
l’iniziativa dei settori moderati della maggioranza e dell’opposizione. Fatto sta
che la posizione del ministero e dei fautori dello Statuto dei lavori, riuscì a
modificare la legge solo grazie all’aggiunta di alcuni articoli, tra cui quello sulla
certificazione (art. 17). Per altro fu approvato in una versione alquanto riduttiva
rispetto alle proposte di Biagi497. Così fu trasmessa alla Camera dei Deputati la
proposta di legge n. 5651 approvata il 4 febbraio 1999 dal Senato della
495 M. Magnani, Verso uno “Statuto dei lavori”?, cit., p. 315 e anche nota n. 4. 496 Su questo punto vedi, L. Palmerini, Vicina l’intesa sul DDL Smuraglia, ma è scontro sulla certificazione, in “Il Sole 24-Ore”, 12 giugno 1998; A.Del Freo, Lavori atipici, oggi il Senato decide sulle certificazioni, in Ivi, 23 giugno 1998. 497 E’ una considerazione che fu sottolineata dallo stesso Tiraboschi qualche anno più tardi in un saggio dedicato proprio alla questione della certificazione riguardo al rapporto tra Libro Bianco, legge 30 del II Governo Berlusconi e Statuto dei lavori (si veda il paragrafo 3.3). “Il principale merito dell’iniziativa di Smuraglia è stato indubbiamente quello di aver preso atto, con un certo anticipo rispetto gli esiti del dibattito dottrinale, della necessità di un intervento legislativo. […] Il testo approvato dal Senato nel corso della passata legislatura, lungi dal rappresentare una riforma complessiva del nostro diritto del lavoro, si concentra infatti solo esclusivamente sulla figura del lavoro parasubordinato, di cui veniva fornita una sommaria definizione […].” In M. Tiraboschi, La c.d. certificazione dei “lavori” atipici e la sua tenuta giudiziaria, cit., p. 111.
321
Repubblica. Una proposta che in definitiva non mutava il suo impianto neo-
garantista.
Intanto c’è da sottolineare che negli ultimi anni i sindacati confederali, di
fronte al numero crescente di lavoratori co.co.co. e al dibattito di politica
legislativa in corso sul progetto di legge Smuraglia e sullo Statuto dei lavori,
stavano recuperando il terreno perduto accumulato della sostanziale inerzia
rappresentativa di fronte ai nuovi lavori. Inoltre non è da sottovalutare l’influenza
in questo processo della firma di quello che alcuni osservatori indicarono come il
primo Ccnl dei lavori atipici l’8 aprile 1998.498 Il contratto fu firmato solo da
alcuni sindacati autonomi e extraconfederali e in esso non poche erano norme e
tutele previste espressamente nel progetto Smuraglia.
“Come si può agevolmente notare […] il Ccnl […] ha avuto, come proposte e disegni di legge
precedenti, la funzione di riferimento per l’attuale redazione del suddetto disegno Smuraglia. Forse il Ccnl 8 aprile 1998 ha avuto anche il merito di richiamare l’attenzione delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale sui rapporti parasubordinati ed atipici, anche se non ha ancora sortito l’effetto di sollecitare l’impegno sul piano contrattuale.”499
Sempre più spesso i centri di ricerca di CGIL, CISL e UIL si concentrarono
nell’analisi della variegata composizione dei nuovi lavori. Il numero crescente di
ricerche di fonte sindacale attorno al 1998 era indubbiamente indice di nuovo
interesse da parte dei sindacati confederali, ma anche il segno di una difficile
conoscenza del fenomeno. Tali difficoltà si riscontrarono anche quando vennero
fondate, nello stesso anno, le prime organizzazioni di emanazione confederale di
specifica rappresentanza dei lavoratori “atipici”. Gli stessi acronimi delle nuove
sigle: Nidil-Cgil (Nuove identità di lavoro), l’Alai-Cisl (Associazione lavoratori
498 Per un commento al contratto si veda E. Guido, La collaborazione coordinata e continuativa dal primo contratto collettivo al disegno di legge “Smuraglia”, in “Il Lavoro nella Giurisprudenza”, n. 4, 1999, p. 331 e nota bibliografica n. 17. 499 Ibidem.
322
atipici e interinali) e il Cpo-Uil (Coordinamento per l’occupazione),
rispecchiavano le difficoltà di intercettare e rappresentare interessi assimilabili,
con conseguenze negative sia sul piano delle politiche contrattuali che sui modelli
organizzativi. Nonostante le nuove articolazioni organizzative furono strutturate
sin dall’origine su un modello di rappresentanza che non si riferiva a un
determinato settore merceologico, avendo come interlocutori figure trasversali su
base intersettoriale500, esse si riferivano spesso a lavoratori con marcate
differenziazioni di prestazione e di inquadramento contrattuale, organizzati
tramite intrecci di rappresentanza verticale (categoriale) e orizzontale
(territoriale). Al momento della loro costituzione quindi si aveva come unico
riferimento caratteristico la loro propensione verso “l’atipicità” del rapporto
rispetto al modello tipico del lavoratore subordinato a tempo pieno e
indeterminato. Ma all’interno di questa atipicità si potevano riscontrare situazioni
fortemente differenziate, dove lavoratori a tempo determinato o interinali
convivevano con co.co.co e disoccupati. Era difficile far emergere interessi
tangibili su cui costruire una nuova solidarietà, primo stadio per una azione
sindacale e collettiva. Lo stesso Carrieri si interrogava, in prospettiva, circa la
possibilità di poter approdare ad un contesto di azione collettiva parasindacale, più
resa come servizio che come strategia di rappresentanza.501 Per questo le difficoltà
erano affrontate con la necessità di conoscere, indagare e rielaborare le
conoscenze sul tema. Non era un caso che in molti documenti programmatici delle
nuove sigle sindacali, si evincevano strategie che puntavano sulla conoscenza del
500 M. Carrieri, Lavori in cerca di rappresentanza, in “Lavoro e Diritto”, n. 4, autunno 1999, p. 668. 501 Ivi.
323
fenomeno tramite l’ascolto e l’attenzione dei bisogni dei rappresentati.502 E ciò
non era certo facile. Da quanto suggeriscono alcune ricerche503, verso la fine del
decennio, se nel Nidil erano più rappresentati i co.co.co. e lavoratori post-fordisti
in genere, nell’Alai e nel Cpo si riscontravano anche molti lavoratori immersi
nella legislazione di sostegno all’occupazione e ai disoccupati.
“L’accorpamento di tali tipologie (sia Alai sia Cpo) porta a muoversi indifferentemente dal
lavoro-non lavoro, al lavoro a termine, al lavoro autonomo o semi-autonomo/subordinato, senza che sia possibile rinvenire un tratto unificante, che non sia quello della diversità, della fuoriuscita dallo schema tipico del lavoro subordinato a tempo pieno e di durata indetermintata.”504
Tornado alle vicende parlamentari, queste erano immerse in un contesto di
instabilità politica per via delle defezioni nella maggioranza che portarono alla
caduta del Governo Prodi e poi di quello di D’Alema e al successivo insediamento
di Amato. Tra l’estate e l’autunno del 1999 si consumò anche il destino della
proposta Smuraglia. In molti alla Camera dei Deputati erano intenzionati a
modificare la legge licenziata dal Senato nel senso di attenuare le troppe analogie
con le tutele del lavoro subordinato tradizionale. Inoltre giacevano alla Camera
ben due proposte di legge in questo senso e provenivano entrambe dalla
maggioranza. L’impianto della proposta Smuraglia dunque provocava forti
perplessità, non solo nell’opposizione – che per altro non fece proposte rilevanti
sul tema – e Confindustria, ma anche nei settori moderati del centro-sinistra.
Tuttavia si scelse la strada degli emendamenti e non quella di adottare un nuovo
testo base e di sentire ancora le rappresentanze sindacali e gli esperti di sociologia
dell’organizzazione.
502 T. Vettor, Ricerche empiriche, cit., p. 624. 503 Si vedano i saggi di D. Gottardi, Questioni aperte sulle strategie sindacali, in “Lavoro e Diritto”, n. 4, 1999, p. 650 ss., T. Vettor, Ricerche empiriche e nuove strutture di rappresentanza sindacale, cit. 504 D. Gottardi, Questioni aperte sulle strategie sindacali, cit., p. 651.
324
“Venne invece rapidamente imboccata la strada di usare come testo-base da emendare la
proposta del Senato, un poco per non inviare un segnale di sconfessione completa del lavoro da questo compiuto […], ma soprattutto perché, nella gran parte della Commissione non era piena la consapevolezza che un semplice lavorìo di emendamento non avrebbe consentito di redimere i difetti d’impianto della proposta proveniente dall’altro ramo del Parlamento”505
Non pochi erano comunque coloro che pensavano che l’impianto della legge
era in definitiva giusto e che magari qualche emendamento avrebbe rimosso
alcune esagerazioni e forzature così da bilanciare gli interessi in gioco. Fu così
che la Commissione, presieduta dal diessino ed ex-sindacalista Renzo Innocenti,
si apprestava ad esaminare il testo uscito al Senato (si veda l’Appendice doc. n.
4). La discussione, che si incentrò nei punti peculiari del testo (art. 4 cessazione
del rapporto di lavoro, art. 11 comma 1 sulla conversione automatica, art. 1 sul
campo d’applicazione, ecc.), giunse fino a marzo 2000, quando ci si accordò per
formare un comitato ristretto per dirimere i principali dissensi soprattutto interni
alla maggioranza. Il comitato fu direttamente proposto dal Governo tramite
l’allora neo-ministro del Governo Amato, Cesare Salvi della sinistra DS. Furono
sanate le contrapposte visioni sempre sul campo di applicazione, sul diritto al Tfr,
sui diritti sindacali, sul ruolo della contrattazione collettiva e sulla durata e
conversione del contratto. Non fu facile mettere d’accordo le posizioni perchè “la
coperta di un possibile accordo nella maggioranza era piuttosto corta: se la si
tirava per coprire i comunisti e i verdi – Rifondazione era già parte
dell’opposizione – si scoprivano i centristi, e viceversa. Si suscitavano mugugni,
nell’un caso o nell’altro, anche all’interno dei DS […]” 506 Inoltre anche dopo aver
trovato un accordo sugli emendamenti ci si sarebbe trovati di fronte ad un’altra
mediazione, questa volta con il Senato che avrebbe dovuto di nuovo riesaminare il 505 M. Salvati, Servono gli economisti del lavoro?, cit., p. 9. 506 Ivi, p. 11.
325
testo uscito dalla Camera. Il testo fu comunque modificato nel senso di attenuare
l’impianto rigido che lo assimilava al lavoro subordinato. Questo fu approvato
nell’autunno 2000 e fu pronto ad essere discusso in Aula. Ma quando si dovette
passare alla discussione sui singoli articoli, il disegno di legge si arenò di fronte
alla mancanza di tempi congrui per il passaggio al Senato ed un probabile ritorno
alla Camera, visto anche che nella primavera del 2001 si sarebbero tenute le
elezioni politiche. Inoltre riemergevano riserve nella maggioranza che avrebbero
potuto portare all’approvazione di emendamenti dell’opposizione. Fu così che
Presidente della Commissione e capigruppo di maggioranza abbandonarono
l’esame della legge. Il centro-sinistra non riuscì nell’intento di affiancare al
pacchetto Treu una legislazione sui nuovi lavori che limitasse l’uso distorto di
lavoratori formalmente autonomi e che allo stesso tempo valorizzasse queste
nuove figure professionali. Qualche mese più tardi il centro-destra vinse le
elezioni e Silvio Berlusconi tornò al timone del suo secondo Governo.
3.4 Lo “Statuto dei lavori” tra conflitto e dialogo sociale
In questo paragrafo finale ci apprestiamo a concludere il nostro viaggio storico
che ha avuto come protagonisti i diritti dei lavoratori. Questa ultima tappa
coincide con i cinque anni del II governo Berlusconi.
Certamente il recente Governo Berlusconi sarà ricordato non solo per la legge
30/2003 e i relativi decreti attutativi che hanno riformato in maniera profonda il
mercato del lavoro, ma anche per il grave conflitto sociale che si aprì all’indomani
del disegno di legge delega sul finire del 2001. Da quel momento tra Governo e
parti sociali e tra le stesse centrali confederali si aprirono aspri dissensi: da una
parte il Governo deciso a portare a conclusione a tutti i costi il suo disegno
326
riformatore e dall’atra i sindacati a sua volta divisi tra un’opposizione
intransigente (CGIL) e aperture al dialogo (CISL, UIL)
Il nuovo Governo di centro-destra già al principio non prometteva molto bene
né nei riguardi dello Statuto dei lavoratori né rispetto ad una nuova legislazione in
tema di nuovi lavori in generale. I ricordi della prima esperienza nel 1994 non
facevano certo ben sperare riguardo ai rapporti sindacali tra Governo e parti
sociali. Berlusconi inoltre ripropose un progetto politico di chiara matrice neo-
liberista; una nuova riforma del mercato del lavoro sembrava diretta a
flessibilizzare ulteriormente l’assetto già riformato dalla l. 187/97 e a
ridimensionare il ruolo delle organizzazioni sindacali. Al di là delle difficoltà del
“sistema Italia” e della necessità di risolvere problemi fondamentali, le forze
raccolte attorno alla maggioranza di centro-destra sembravano tutte convergere sul
fatto che le cause principali di un’economia italiana in fase di stallo erano
strettamente connesse alla mancanza di modernità del nostro mercato del lavoro. I
sindacati continuavano ad essere decritti come baluardi di vecchi schemi e come
conservatori di fronte alla modernità che avanzava inarrestabile. E non bisogna
sottovalutare che posizioni di questo tipo andarono crescendo soprattutto dopo le
tragiche vicende dell’11 settembre e la crisi economica che ne seguì. L’11
settembre fu sempre più spesso usato per giustificare non solo una politica estera
palesemente interventista, ma indicato anche come causa principale delle
difficoltà economiche e in molti casi fu adoperato per giustificare interventi
riformatori sulle questioni del lavoro. La “ricetta” del Governo Berlusconi
sembrava essere la stessa di qualche anno addietro: diminuzione della pressione
fiscale, taglio della spesa pubblica, più flessibilità e meno garantismo vecchio
327
stampo, più autonomia individuale e meno collettiva. Il tutto da raggiungere con
una pratica politica aggressiva del “noi dialoghiamo con le parti sociali, ma se non
ci stanno, andremo avanti! L’ammodernamento del paese non può aspettare!” E
questo disegno politico aveva alla base una forte alleanza con la Confindustria
guidata da Antonio D’Amato, palesemente espressa sia dal Governo che dalla
stessa Confindustria.
In questa prospettiva diveniva centrale il ruolo del Ministero del lavoro diretto
dal leghista Roberto Maroni, poiché la riforma del mercato del lavoro era il più
importante dei temi previsti dal programma politico del centro-destra. Nell’ottobre
2001 fu diramato un documento progettuale proveniente direttamente da un
gruppo di lavoro del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e coordinato
dal vice-ministro Maurizio Sacconi (FI) e dal professor Marco Biagi, dal titolo Il
Libro Bianco sul mercato del lavoro in Italia. Proposte per una società attiva e un
lavoro di qualità.507 Le carte quindi sembravano doversi rimescolare: il professor
Biagi, che nella passata legislatura fu interpellato senza esiti positivi dal Ministro
Treu per disinnescare le parti più controverse della proposta Smuraglia, si trovava
ora ad essere il maggior collaboratore del Ministero del lavoro e a coordinare un
vasto programma di riforma del mercato del lavoro.
Il documento era diviso in due parti: nella prima si illustrava una larga analisi
molto critica del mercato del lavoro italiano, mentre nella seconda si proponevano
le ricette principali per far fronte alle “inefficienze e iniquità” descritte. L’analisi
del mercato del lavoro italiano (pp. 2-24) riferiva in primo luogo di un mercato
del lavoro in cui, nonostante alcuni risultati positivi degli ultimi anni, i disoccupati 507 Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Il Libro Bianco sul mercato del lavoro in Italia. Proposte per una società attiva e un lavoro di qualità, a cura di M. Sacconi e M. Biagi, Roma, 2001, in www. csmb.unimo.it
328
rimanevano ancora troppi rispetto alla media europea. Ciò era dovuto al fatto che
la legislazione era ancora troppo rigida e sbilanciata sulle aree tradizionalmente
forti della tutela: pensionati e lavoratori subordinati. La situazione descritta
avrebbe portato all’esclusione sociale e alla crescita del lavoro nero che allo stesso
tempo si traduceva in una eccessiva spesa pubblica e in gravi difficoltà per
l’economia. Nella seconda parte (pp. 26-79) si tracciava un percorso di riforma da
intraprendere per costruire una “società attiva ed un lavoro di qualità”. Si
proponeva prima di tutto la c.d. sussidiarietà verticale, nel senso di un maggiore
coinvolgimento nella regolazione del mercato del lavoro e anche dei rapporti di
lavoro di regioni ed enti locali. Inoltre ad essa doveva essere affiancata la
sussidiarietà orizzontale che avrebbe dovuto superare la concertazione e istaurare
il c.d. dialogo sociale.508 Si chiedeva una normativa del lavoro che superasse la
mera tutela del posto di lavoro per impostare una serie di garanzie nel mercato,
volte da una parte ad incrementare l’occupazione e dall’altra a non disgiungerle
dallo sviluppo economico: unico vero volano per un incremento dell’occupazione.
In questo senso si proponeva un servizio per l’impiego efficiente che si basasse
sulla competizione tra agenzie pubbliche e private, una politica nuova per la
formazione professionale e un nuovo sistema d’istruzione volto alla crescita della
capacità professionale e ad una più forte sinergia tra scuola e mercato del lavoro.
508 Ci si riferiva in tal senso al dialogo sociale intrapreso a livello comunitario soprattutto dopo il Trattato di Amsterdam. Questo avrebbe comportato un rapporto con le parti sociali per cui le istituzioni avrebbero dovuto consultarle ogni qual volta avessero avuto intenzione di assumere interventi legislativi o comunque di natura regolatori in capo sociale e dell’occupazione. Dopo questa prima fase di consultazione, da attuare in tempi brevi, se il Governo fosse stato intenzionato a proseguire sulle sue proposte avrebbe dovuto negoziare con le parti sociali i temi oggetto del provvedimento proposto. In caso di rifiuto delle parti sociali di negoziare sui temi proposti dal governo o nell’ipotesi di un esito infruttuoso della negoziazione, il Governo avrebbe potuto comunque andare avanti nel progetto dichiarato. I termini essenziali del dialogo sociale proposto nel Libro Bianco sono stati rintracciati nel manuale di diritto del lavoro a cura di M. Biagi e M. Tiraboschi, Istituzioni di diritto del lavoro, cit., p. 10.
329
Nella stessa ottica si proponeva una riforma degli ammortizzatori sociali secondo
l’ottica dei c.d. “cicli lavorativi”, visto il tramonto del posto fisso per tutta la vita.
Ma ciò che più ci interessa nella nostra prospettiva è che, parallelamente a
queste proposte, si parlava specificatamente di Statuto dei lavori (pp. 38-41). La
proposta era praticamente una riproposizione di quella avanzata nella legislatura
precedente ed era inserita in un più ampio disegno di impostazione normativa
leggera e certa, proposta nel Libro Bianco. Veniva avanzata la proposta di “Soft
law”, cioè permettere di flessibilizzare la norma inderogabile, impostando una
normativa minima intesa ad indirizzare i comportamenti delle parti del contratto
“ma senza costringerli ad un determinato comportamento”. Ciò avrebbe
comportato da una parte la semplificazione del carattere alluvionale della legge e
dall’altra la valorizzazione dell’autonomia individuale o nel caso “assistita” dalle
organizzazioni sindacali. E su questa linea direttrice si inserisce lo Statuto dei
lavori.
“Il Governo considera necessario alla luce di quanto sopra esposto procedere ad un’opera di complessiva modernizzazione dell’impianto dell’ordinamento del lavoro in Italia nell’ambito di uno “Statuto dei lavori” che riprende alcune idee progettuali già circolate nel corso della precedente legislatura […] A seguito dei profondi mutamenti intercorsi nell’organizzazione dei rapporti e dei mercati del lavoro, il Governo ritiene che sia ormai superato il tradizionale approccio regolatorio, che contrappone il lavoro dipendente al lavoro autonomo, il lavoro nella grande impresa al lavoro in quella minore, il lavoro tutelato al lavoro non tutelato.”509
Si proponeva in questo senso uno zoccolo duro di tutele inderogabili
costituzionalmente riconosciute a tutti i lavoratori, quale che sia il rapporto di
lavoro (diritto alla tutela delle condizioni di salute e sicurezza sul lavoro, tutela
della libertà e della dignità del prestatore di lavoro, abolizione del lavoro minorile,
eliminazione di ogni forma di discriminazione nell’accesso al lavoro, diritto a un
509 Ivi, p. 39.
330
compenso equo, diritto alla protezione dei dati sensibili, diritto di libertà
sindacale). Al di fuori di questo zoccolo duro, nel Libro Bianco, si proponeva
l’adozione di una sere di tutele differenziate e applicabili ai casi concreti di
rapporto di lavoro “e non (come nel vecchio ordinamento) a seconda delle
tipologie contrattuali di volta in volta considerate”. La proposta inoltre
provvedeva alla costruzione di tutele modulate lasciando largo spazio
all’autonomia collettiva e individuale, secondo “una gamma di diritti inderogabili
relativi.” A tal fine, nell’immediato vengono riproposti dei sistemi certificatori dei
rapporti di lavoro, volti a “consegnare alle imprese un nuovo sistema di gestione
dei rapporti di lavoro, semplice ed agile” e permettere una “validazione anticipata
della volontà delle parti all’utilizzazione di una certa tipologia contrattuale”.
Insomma il Libro Bianco prometteva una riforma consistente del mercato del
lavoro e in esso il Governo prendeva l’impegno di varare uno Statuto dei lavori, in
chiara contrapposizione con le scelte del Governo precedente che aveva puntato
tutto sul progetto Smurgalia e su alcune sue modifiche.
Il Libro Bianco fu presentato in Parlamento nei primi giorni di ottobre del 2001
e già qualche giorno più tardi, il 23 ottobre, una nota della CGIL diramata dal
Comitato Direttivo, dava una valutazione generale sul testo del ministero del
lavoro.
“Il libro bianco contiene, in forma peggiorata, tutte le scelte esistenti possibili in materia di
precarietà del lavoro, sposando unilateralmente gli interessi delle imprese e le richieste avanzate da Confindustria nel convegno di Parma. Quelle scelte pregiudicano quei confronti pure necessari (a partire sugli ammortizzatori sociali) per fare avanzare i processi riformatori […]”510
510 Libro Bianco: valutazioni del Comitato Direttivo Cgil, 23 ottobre 2001, in www.giustizialiberta.org
331
Successivamente le critiche della CGIL furono approfondite in altre analisi che
ribadivano la contrarietà al Libro Bianco e chiamavano ad una opposizione
unitaria di tutto il movimento sindacale. Intanto il Governo sembrava deciso ad
andare avanti per la sua strada, forte di una larga maggioranza parlamentare e
dell’appoggio di Confindustria. Il 15 novembre il Consiglio dei Ministri approvò
il Disegno di Legge Delega511 in materia di mercato del lavoro. Il Governo
chiedeva al Parlamento la delega per ben 11 materie inerenti al mercato del
lavoro.512 Si prospettava quindi una riforma complessiva del mercato del lavoro
con un largo uso dello strumento della legge delega. Di fronte a ciò sia
l’opposizione parlamentare sia i sindacati si ritrovarono uniti nell’opporsi alle
proposte del Governo. In particolare il sindacato contestava non solo il contenuto
della proposta, ma anche il metodo che di fatto superava la concertazione sociale
per inaugurare il c.d. dialogo sociale. Nel merito unitariamente il sindacato
contestava soprattutto le deleghe che avrebbero comportato l’introduzione di
nuove tipologie di lavoro flessibili e una riduzione del ruolo del sindacato a favore
dell’autonomia individuale. In particolare quella specifica sulla modifica dell’art.
18 e sull’arbitrato aprì, dopo i primi incontri con le parti sociali, fratture
gravissime. Nell’art. 10 della proposta di legge delega si leggeva infatti
511 L’istituto della delega consiste nell’approvazione da parte del Parlamento di una legge in cui si delega il governo a legiferare in determinate materie sulla base di criteri generali prestabiliti e iscritti nella legge stessa. 512 Art. 1 (per la revisione della disciplina dei servizi pubblici e privati per l’impiego, in materia di intermediazione e interposizione privata sulla somministrazione di lavoro), art. 2 (in materia di incentivi alla occupazione), art. 3 (in materia di ammortizzatori sociali), art. 4 (in materia di agenzie tecniche strumentali per l’occupazione), art. 5 (in materia di riordino dei contratti a contenuto formativo) art. 6 (in materia di attuazione della direttiva 93/104/CE in materia di lavoro), art. 7 (in materia di riforma della disciplina del lavoro a tempo parziale), art. 8 (in materia di disciplina di nuove tipologie di lavoro) , art. 9 (in materia di certificazione dei rapporti di lavoro), art. 10 (in materia di misure temporanee a sostegno dell’occupazione regolare e a incentivi alla assunzione a tempo indeterminato) e art. 13 (in materia di arbitrato nelle controversie individuali). Si veda il testo integrale della proposta di legge delega in http://www.giustizialiberta.org/polecam/delega.pdf.
332
“Ai fini di sostegno e incentivazione della occupazione regolare e delle assunzioni a tempo
indeterminato, il Governo è delegato a introdurre in via sperimentale, […] disposizioni relative alla conseguenze sanzionatorie a carico dei datori di lavoro in caso di licenziamento ingiustificato […] in deroga all’art. 18 della Legge 20 maggio 1970, n. 300, prevedendo in alternativa il risarcimento alla reintegrazione […]”
Veniva proposta la reintroduzione del regime di stabilità obbligatoria in via
sperimentale e in alcuni casi specifici quali – come recitava il testo della delega –
“ragioni oggettive connesse a misure di riemersione, stabilizzazione dei rapporti
di lavoro a tempo indeterminato, politiche di incoraggiamento alla crescita
dimensionale delle imprese minori” e via dicendo. Si riteneva, come spesso
dichiarato da D’Amato, che l’occupazione sarebbe cresciuta grazie alla facilità per
alcune imprese “particolari” di licenziare, monetarizzando il diritto alla stabilità
del posto di lavoro e superando così il regime di stabilità reale. Non era un’idea
nuova, considerando che già nel 2000 venne respinto un referendum abrogativo
dell’art. 18 proposto dai radicali. Fu su questo punto cruciale per i sindacati che le
trattative tra Governo e parti sociali si fermarono di fronte all’opposizione unitaria
di CGIL, CISL, UIL. Nel gennaio del 2002 a qualche mese dalla rottura delle
trattative così si esprimevano i segretari generali delle tre confederazioni
sindacali:
“Se il governo tenterà di modificare il nostro ruolo e cancellare le nostre conquiste noi sapremo
reagire e colpire uniti”. Savino Pezzotta, segretaro generale della CISL. “Devono imparare a rispettarci”, rincara Sergio Cofferati leader della CGIL. “La nostra sarà una battaglia lunga” prevede il segretario della UIL Luigi Angeletti.”513
Per il sindacato l’articolo 18 era una norma cardine del sistema lavoristico
italiano; modificarlo avrebbe comportato una deroga a tutto l’impianto dello
Statuto dei lavoratori e in generale al ruolo del sindacato nei luoghi di lavoro e
513 In www.repubblica.it, 12 gennaio 2002.
333
nella società. Una strategia ben descritta dal sociologo Luciano Gallino in un
articolo apparso su “la Repubblica”:
“Nell’attacco al sindacato le strategie adottate dal governo Berlusconi sono principalmente due.
La prima, sviluppata in sintonia con i ceti sociali che lo sostengono, consiste nell’etichettarlo instancabilmente come residuo pre-moderno, istituzione demodè, struttura in ritardo irrimediabile sui tempi. […] L’altra strategia che il governo Berlusconi sta perseguendo allo scopo di drasticamente ridurre il peso del sindacato sta scritta in tre documenti, “il Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia”[…]; il documento in cui si propone la Delega […], e la relazione di accompagnamento alla proposta stessa.”514
Per altro il Governo si apprestava ad introdurre una serie di nuovi tipi di
contratti di lavoro che avrebbero contribuito ulteriormente a deregolare il lavoro
subordinato e più che altro le proposte di modifica dell’art. 18 venivano avanzate
anche secondo una strategia basata sul valore simbolico che continuava ad avere
lo Statuto, a dimostrazione della forza del Governo di fronte alle resistenze
sindacali. Il Governo infatti non intendeva affatto trattare su questo punto. Si
dimostrava che il dialogo sociale proposto non avrebbe affatto accettato
pregiudiziali per il continuo delle trattative.
Ma a marzo ci furono dei capovolgimenti della situazione. Il 19 marzo un
gruppo delle “Nuove” B.R. assassinava Marco Biagi, sotto il suo portone di casa a
Bologna. I Brigatisti colpirono a distanza di quattro anni un altro giuslavorista che
collaborava al Ministero del lavoro. Nel ’99 infatti veniva assassinato a Roma
Massimo D’Antona, anch’esso stretto collaboratore del Governo di centro-
sinistra. I Brigatisti tentavano quindi di inserirsi nello scontro sociale in atto sulla
riforma del mercato del lavoro colpendo uno dei principali artefici delle riforme
sul tavolo delle trattative. La situazione si faceva pesante e il Governo si rendeva
conto sempre più di essersi infilato nel vicolo cieco del muro contro muro. Al di là
514 L. Gallino, Chi vuole spegnere la voce del sindacato, in “la Repubblica” 15 gennaio 2002, p. 15.
334
dell’art. 18, erano tutte le riforme auspicate ad essere messe a rischio. Fu così che
il Governo fece sapere in quei giorni di voler ristabilire le trattative e di voler
trovare un accordo per continuare il dialogo. Bisognava trovare interlocutori per
legittimare le scelte del Governo e abbassare i toni dello scontro sociale.
A questa proposta era totalmente contraria la CGIL, mentre più possibiliste
erano CISL e UIL. Tutti i sindacati comunque erano in forte difficoltà di fronte
alla morte di un guislavorista da sempre criticato e indicato come principale
artefice delle proposte del Governo in materia di lavoro. Nei giorni successivi alla
morte di Biagi, furono convocate manifestazioni unitarie contro il terrorismo in
tutte le città italiane. Ma se la CGIL non retrocesse di un millimetro rispetto alle
posizioni intransigenti di rottura del dialogo, la CISL e la UIL sembravano più
possibiliste a tornare al tavolo delle trattative. La CGIL era totalmente contraria
per il fatto che come spesso accade, quando nello scontro sociale si inserisce la
violenza terrorista, a farne le spese erano i lavoratori e le loro organizzazioni
d’interesse. La CGIL, nonostante le frequenti accuse di responsabilità per
l’eccessivo scontro sociale in atto che aveva causato la morte di Biagi, doveva
rimanere intransigente tanto nei confronti del terrorismo, quanto di fronte alle
intenzioni del Governo. CISL e UIL invece optarono per una strategia volta a
sfruttare i ripensamenti del Governo per strappare in sede di trattative risultati che
avrebbero limitato i danni di una comunque sicura riforma generale. Contro
questa strategia la CGIL il 23 marzo organizzò una manifestazione che in molti
hanno indicato come la più grande di tutta la storia repubblicana. Al di là della
guerra delle cifre tra organizzatori e autorità pubbliche, le vie di Roma quel giorno
furono invase da più di due milioni di manifestanti provenienti da tutto il paese.
335
L’imponente manifestazione che era stata proclamata prima della morte di Biagi,
scandì il doppio slogan “No alla modifica dell’art. 18” e “No alla violenza
terrorista” per i diritti e la democrazia. La CGIL quel giorno dimostrò tutta la sua
forza organizzativa e politica. Intanto la CISL faceva sapere di voler riprendere le
trattative, mentre a sorpresa la UIL si dichiarò contraria e propose una piattaforma
unitaria su cui indire uno sciopero generale in aprile, sciopero che poi fu
proclamato per il 12 aprile.
Sull’opportunità di trattare con il Governo si inseriva anche l’opposizione
politica e parlamentare. Nonostante il centro-sinistra fosse compatto nell’opporsi a
tutta la politica economica e del lavoro del Governo, in molti chiedevano alla
CGIL di tornare al tavolo delle trattative. I moderati (Margherita e maggioranza
DS) dello schieramento di opposizione ponevano l’accento sulla marginalità dello
scontro sull’articolo 18 e chiedevano al sindacato un ruolo propositivo e più
pragmatico rispetto alla politica economica. In questa prospettiva le trattative da
una parte avrebbero dovuto abbassare i toni dello scontro e dall’altra ottenere
risultati concreti a beneficio dei lavoratori. Su questa linea di approccio si inseriva
il lancio di una nuova iniziativa politica: quella della tutela della flessibilità. Nel
maggio 2002 venne proposta pubblicamente da tutto il centro-sinistra
(Rifondazione Comunista era fuori da questo schieramento) la Carta dei diritti dei
lavoratori e delle lavoratrici.515 L’iniziativa fu coordinata da Giuliano Amato e da
Tiziano Treu. In particolare, l’ex Ministro del lavoro, constatato che le strategie
del Governo erano ormai lontane dalla costruzione di uno Statuto dei lavori,
515 Su questo punto si vedano gli articoli D. Orecchio, Il centrosinistra presenta la Carta dei diritti dei lavoratori. Più tutele alla flessibilità; Id.,“Apriremo un dibattito nel paese”. Carta dei diritti/parla Cesare Damiano, responsabile Lavoro dei Ds, del 22 e 24 maggio 2002, in www.rassegna.it, in cui si riferisce del lancio dell’iniziativa e della strategia politica adottata dal centro-sinistra.
336
rilanciò la proposta di cui fu promotore ai tempi del Governo Prodi. In un primo
momento il progetto dichiarato era quello di uno “Statuto dei nuovi lavori”, ma
successivamente alle trattative interne tra i partiti venne presentata la Carta.516 Si
apriva un percorso politico che avrebbe portato, come vedremo, alla presentazione
di una proposta di legge formale nel dicembre 2002.
Lo schieramento radicale dell’opposizione politica guidata da Rifondazione
Comunista, dal canto suo, riteneva la strategia della CGIL in difesa dei diritti
sacrosanta. Sempre più spesso R.C., si fece portavoce di quel variegato settore di
opposizione sociale che andava dal movimento no-global alle sigle sindacali di
base. Da questi ambienti politici e sociali venne lanciata la proposta di indire un
referendum che abrogasse la parte dell’art. 18 sulla soglia dimensionale e
permettere l’estensione della stabilità reale anche ai lavoratori di imprese sotto i
15 dipendenti. Alla raccolta delle firme tuttavia parteciparono anche ampi settori
della CGIL.
Nel mezzo rimanevano i partiti della sinistra che rientravano nell’orbita
dell’Ulivo, cioè il PdCI, i VERDI e la corrente di Sinistra dei DS. Questa zona di
frontiera sembrava da un lato appoggiare l’iniziativa unitaria della rimodulazione
delle tutele prevista dalla Carta e dall’altro l’estensione dell’art. 18 anche alle
piccolissime imprese.
516 La scelta del nome fu presumibilmente effetto di una valutazione strategica e allo stesso tempo della mediazione interna ai partiti. Il mutamento di terminologia ci fu “perché l’idea di “Statuto dei lavori” era un’idea politicamente bruciata. Di “Statuto dei lavori” si parla nel Libro bianco del governo di centro-destra”, così Massimo Roccella in un’intervista apparsa sulla Rivista del Manifesto, M. Santostasi, Conversazione con Massimo Roccella, in “La Rivista del Manifesto”, n. 30, luglio-agosto 2002. Inoltre il progetto del Governo, accanto alla modulazione delle tutele, presentava una serie di deroghe ad alcune tutele del lavoro subordinato in linea con il pensiero di M. Biagi. Mentre la Carta presentava una modulazione che tuttavia sarebbe dovuta avvenire, stando alle dichiarazioni dei promotori, senza toccare le tutele acquisite.
337
Comunque sia nel luglio 2002 successe ciò che nei primi mesi dell’anno non ci
si sarebbe mai aspettato. Nel mese precedente il Governo aveva deciso di
stralciare dalla proposta di legge delega alcune parti concernenti gli
ammortizzatori sociali e gli incentivi all’occupazione, arbitrato e per l’appunto le
modifiche all’art. 18. Queste confluirono in un disegno di legge il n. 848-bis su
cui si chiedeva al sindacato di sedersi al tavolo delle trattative. La CGIL si rifiutò,
mentre CISL e UIL accettate le trattative, firmarono il 5 luglio un Patto con il
Governo, il c.d. “Patto per l’Italia”. L’accordo conteneva provvedimenti in
materia di fisco, investimenti nel mezzogiorno e tutta una serie di temi controversi
della riforma. In particolare sulla liberalizzazione delle agenzie per l’impiego e
alla loro gestione bilaterale, riguardo ai diversi regimi territoriali di
ammortizzatori sociali, rassicurazioni sulla riduzione della spesa sociale e per
l’appunto le modifiche all’art. 18. Su questo punto il patto prevedeva una
sperimentazione di tre anni per cui non erano soggette a stabilità reale le imprese
che avrebbero superato la soglia dimensionale tramite neo-assunzioni. Ma il
provvedimento non sarebbe stato applicato alle imprese già attestate sui 16
dipendenti. Il Governo era quindi riuscito ad avere l’appoggio su alcuni temi
controversi della riforma da due delle maggiori confederazioni sindacali e da una
serie di altre piccole sigle sindacali. La strategia del dialogo sociale era riuscita e
l’isolamento della CGIL era un dato di fatto. L’accordo fu giudicato da
quest’ultima fortemente lesivo dell’unità sindacale e pericoloso per i suoi
contenuti principali. Al contrario per CISL e UIL era una vittoria che faceva
riemergere la pratica della contrattazione. Anche nella sinistra politica
emergevano divisioni, tra chi giudicava eccessiva la strategia di Cofferati e chi ne
338
elogiava il comportamento. In particolare a Cofferati e alla CGIL si imputava la
propensione a rispondere no su tutto, anche dopo lo stralcio di alcuni
provvedimenti e l’intento concertativo del Governo.517
Nello stesso patto veniva rilanciato il progetto di Statuto dei lavori. Il Governo
in riferimento al Libro Bianco, “si impegnava entro la fine dell’anno ad istituire
una Commissione di alto profilo scientifico con il compito di predisporre una o
più ipotesi di articolato normativo per la realizzazione di uno Statuto dei lavori”.
Fu così che lo Statuto dei lavori, uscito dalla proposta di legge delega518, rientrava
dal Patto per l’Italia.
Qualche mese più tardi intanto si concludeva la difficile mediazione interna al
centro-sinistra e nelle parti sociali, sulla proposta Amato-Treu lanciata nel maggio
2002. A dicembre fu presentata al Senato la proposta di legge n. 1872 (si veda
l’Appendice, doc. n. 6) che faceva riferimento esplicito alla “diversificazione in
atto fra le diverse tipologie di lavoro” che da tempo aveva “messo in crisi
l’impostazione tradizionale, incentrata sul rapporto di lavoro subordinato”. Il
progetto di legge si basava sulla difficoltà ad impostare tutele per quelle nuove
figure lavorative che crescevano in conseguenza delle trasformazioni delle
organizzazioni produttive. Tutele impostate fino a quel momento in modo parziale
tramite il proliferare di contratti atipici che di fatto creavano zone di tutela
inferiore al lavoro standard. E’ chiaro come il progetto fosse diretto a contenere le
tendenze destabilizzatici dei nuovi modelli contrattuali flessibili e che i
517 Sui diversi approcci e considerazioni interne allo schieramento di opposizione si vedano i due interventi su “la Repubblica” di E. Scalfari e M. Salvati. E. Scalfari, Don Giovanni e Cisl-Uil sedotte abbandonate, in “la Repubblica” 6 luglio 2002; M. Salvati, A che cosa è servito disertare quel tavolo?, in “la Repubblica”, 10 luglio 2002. 518 Nel febbraio 2002 il ministero del lavoro aveva predisposto due ipotesi di legge delega specificatamente alla predisposizione di uno Statuto dei lavori, su vedano le ipotesi A e B, in www.csmb.unimo.it Queste non furono mai approvate dal Consiglio dei Ministri.
339
provvedimenti delegati al Governo sulle nuove figure contrattuali (lavoratori a
progetto, a chiamata, lavoro ripartito, ecc) avrebbero continuato a far proliferare.
Si proponeva dunque di dotare tutte le forme di lavoro di diritti e tutele di base
uguali a tutti i lavori e di dotare i nuovi lavori di tutele modulate a seconda dei
casi e senza mettere in discussione le tutele acquisite dall’area forte del lavoro
subordinato. Particolare rilievo veniva dato ai diritti di formazione e agli
ammortizzatori sociali. Tuttavia non era escluso che al di là della tutela base
uguale per tutti, ci potessero essere, nelle differenziazioni delle tutele, regolazioni
non solo legislative ma anche provenienti dall’autonomia collettiva e individuale
per quelle figure con maggior forza contrattuale nel mercato. Tutte queste nuove
figure lavorative vennero identificate come “lavoratori economicamente
dipendenti”. Tutele minime venivano previste anche per quei lavoratori autonomi
strictu sensu secondo il principio della proporzionalità della tutela e della
regolazione desumibile dal I comma dell’art. 35 della Costituzione (“La
Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme”). Amato e Treu proponevano
dunque un provvedimento che riprendeva pressappoco il progetto di Statuto dei
lavori proposto nel 1998 sulla scorta della negativa esperienza del progetto
Smuraglia. Tuttavia i promotori in più occasioni riferirono che nessuna delle
tutele tradizionali del lavoro subordinato sarebbero state ridotte e che il
provvedimento si sarebbe affiancato allo Statuto del 1970. Questa caratteristica
era sicuramente il frutto della larga opera di mediazione interna al centro-sinistra
tra le varie anime politiche e sindacali. Essa si differenziava invece dal tragitto
proposto del Libro Bianco proprio per la considerazione che l’estrema
proliferazione delle forme contrattuali avrebbe complicato ulteriormente
340
l’individuazione delle fattispecie oggetto della tutela e dall’azione del Governo
volta a derogare alcuni diritti cardine del lavoro subordinato ( ad esempio l’art.
18).
Rimaneva tuttavia il problema di come garantire una serie di diritti classici e
inderogabili e allo stesso tempo provvedere ad una modulazione differenziata
della tutela, senza disporre di una redistribuzione generale dei diritti acquisiti. Era
la preoccupazione principale dei critici della proposta della Carta dei diritti dei
lavoratori, presente in tutta la sinistra radicale e nella CGIL. La stessa iniziativa
referendaria di estensione dell’art. 18 anche alle piccole aziende, si poneva su
questa lunghezza d’onda. A tal proposito si ponevano le nuove proposte
legislative messe in capo dalla CGIL e dalla sua Consulta Giuridica, all’indomani
dell’approvazione della legge delega. Infatti il 14 febbraio 2003 venne approvava
dal Parlamento la legge n. 30 che delegava il Governo a riformare il mercato del
lavoro. Dal progetto iniziale, come abbiamo visto, venne stralciata la delega per la
modifica dell’art. 18 e sull’arbitrato, quella in materia di ammortizzatori sociali e
quella sugli incentivi all’occupazione. Di fronte a ciò la CGIL, criticata anche da
sinistra per l’incapacità progettuale e la mera propensione all’opposizione, scelse
di contrapporre alla riforma del Governo lo strumento della legge di iniziativa
popolare. Da tempo la CGIL andava elaborando un percorso progettuale a cui
sovente si affiancarono alcune riviste: Rivista Giuridica del Lavoro e della
Previdenza Sociale, la Rivista critica di diritto del lavoro, e il gruppo di
magistrati, Magistratura democratica, che a sua volta era impegnato anche nella
lotta referendaria sull’estensione dell’art. 18. Di fronte alle riforme proposte dal
governo e all’attacco contro l’art. 18, la CGIL aveva scelto di opporsi in tutti i
341
modi; ma ciò non bastava, bisognava rilanciare una strategia nuova sulla base del
consenso acquisito.
“Convocammo le prime grandi mobilitazioni di opposizione ai contenuti più emblematici e più evidenti delle politiche del governo, e, già all’indomani del 23 marzo, ci dicemmo: serve a noi una strategia di rilancio, non solo di contrasto. Da questo la campagna per “due si, due no”, la raccolta di oltre 5 milioni di firme, l’elaborazione delle nostre proposte, cioè la messa in campo di una strategia complessivamente alternativa, non di mera opposizione”.519
In tutti i luoghi di lavoro e di aggregazione, nelle università, nelle iniziative
politiche e culturali, la CGIL raccoglieva consensi per 4 nuove proposte di legge
d’iniziativa popolare. Quattro proposte differenti, ma strettamente correlate una
con l’altra520, tutte accomunate da un pensiero forte contrapposto al pensiero
debole sotteso alla legge 30521. Una era diretta alla salvaguardia dell’occupazione,
la qualità del lavoro e la garanzia dei redditi. La seconda riguardava la tempestiva
definizione delle controverse attinenti licenziamenti e trasferimenti. Mentre le
altre due erano dirette all’estensione dei diritti. Una dell’art. 18 alle imprese al di
sotto dei 16 dipendenti, l’altra era rivolta all’unificazione dei diritti nelle
prestazioni di lavoro continuative (si veda l’Appendice, doc. n. 7). Per quanto
riguarda l’estensione dell’art. 18, la CGIL chiariva che il progetto era inteso a
dirimere la controversia tra il movimento referendario che auspicava l’estensione
di un diritto di civiltà e chi credeva che nelle piccole imprese una controversia di
lavoro lasciasse degli strascichi spiacevoli a danno degli stessi lavoratori. Per la
Consulta Giuridica della CGIL entrambe le prospettive avevano alla base un
impostazione del problema errato: 519 G. Casadio, Riforma e controriforma del mercato del lavoro, in AA.VV., La riforma del mercato del lavoro. Dalla legge delega del governo alle controproposte della CGIL, Roma, Ediesse, 2003, p. 11. 520 Si vedano in Ivi, sezione Documenti, pp. 125 ss. 521 L. Mariucci, Intervento ad dibattito “Le proposte della Cgil per l’estensione e l’effettività dei diritti del lavoro, la garanzia dell’occupazione e la tutela dei redditi, in Ivi, p. 100.
342
“[…] dal lato dei sostenitori della estensione pura e semplice dell’articolo 18 perché questa norma, da sola, non esplica nella piccola dimensione la stessa efficacia deterrente che esercita nella dimensione maggiore, a causa della riluttanza dello stesso lavoratore a continuare il rapporto con un datore di lavoro che lo ha trattato ingiustamente. […] Dal lato degli oppositori, per contro, il problema è mal posto perché si confonde la necessaria sanzione di invalidità di un atto che non ha quel fondamento causale che per legge dovrebbe avere, con il diverso problema, successivo ed empirico, di possibili situazioni di incompatibilità personale, e in secondo luogo perché non si distingue fra due tipi di licenziamento fra loro ben diversi, come sono, da una parte, i licenziamenti disciplinari (o per motivo soggettivo, cioè per colpa del lavoratore) e, dall’altra, i licenziamenti per motivo “oggettivo”, ovvero economico-produttivo.”522
A questa proposta si affiancava quella per l’estensione dello Statuto dei lavoratori
alle tipologie contrattuali escluse. La proposta consisteva in una riscrittura
dell’art. 2094 c.c. in modo da sussumere tutti i diritti previsti dal diritto del lavoro
in quanto “con il contratto di lavoro il lavoratore si obbliga, mediante
retribuzione, a prestare la propria attività intellettuale o manuale in via
continuativa all’impresa o diversa attività organizzata da altri, con destinazione
esclusiva del risultato al datore di lavoro” (art. 1 del progetto). Inoltre erano
previsti nuovi diritti come quello d’informazione, in materia di apposizione del
termine del contratto (art. 2), sui contributi previdenziali (art. 3) e una base di
diritti fondamentali per i prestatori di lavoro a collaborazioni occasionali (art. 4).
Inoltre veniva specificata la nozione di associazione in partecipazione (art. 5). La
proposta della CGIL
“fa proprio il convincimento che la condizione di inferiorità economico-sociale e di debolezza contrattuale del lavoratore, che reclama tutele e diritti fondamentali […] non è in realtà costituita dall’essere soggetto a direttive penetranti e controlli assidui sulle modalità della prestazione lavorativa, a orari fissi e sanzioni disciplinari (e cioè alla c.d. “etero-direzione”), bensì dal fatto di lavorare personalmente e continuativamente in una organizzazione produttiva predisposta da altro soggetto, a quest’ultimo appartenente e nel suo specifico ed esclusivo interesse.”523
522 P. Alleva, Le proposte della Cgil per l’estensione e l’effettività dei diritti del lavoro, in Ivi., pp. 66-77. 523 Ivi, p. 64.
343
Il progetto estendeva le tutele classiche del lavoro subordinato, ma a
differenza del progetto Smuraglia che comunque individuava in un tertium genus
l’oggetto di alcune nuove tutele, la riscrittura totale dell’art. 2094 permetteva di
includere in una tutela uguale per tutti le forme di lavoro rese nell’interesse altrui.
Il senso del pensiero forte nella CGIL coincideva dunque con la capacità di
interpretare il lavoro subordinato nell’era post-fordista in un’ottica neo-classista.
Superando, il concetto di subordinazione legato alla catena di montaggio. Come
suggerì Massimo Roccella “la catena di montaggio rappresenta solo un modo di
manifestazione del lavoro subordinato. Ma il lavoro subordinato nasce prima del
fordismo-taylorismo; non si è manifestato in quella forma esclusiva neanche nel
massimo momento di sviluppo del fordismo e certamente continua ad esistere
anche in un epoca in cui il fordismo […] è declinante.”524
Intanto il 15 giugno 2003 si sarebbe votato per il referendum sull’estensione
dell’art. 18 dichiarato ammissibile dalla Corte Costituzionale. Tra lo schieramento
del SI c’era tutta la sinistra radicale, da Rifondazione ai movimenti no-gobal,
PDCI e alcuni settori della Sinistra DS, come anche MD. Mentre per il NO o per
l’astensione si espressero i DS, la Margherita e tutta la maggioranza di Governo.
Per i moderati del centro-sinistra non era solo sbagliato estendere l’art. 18 alle
piccole imprese per via della loro specificità, ma ritenevano errato anche l’istituto
del referendum per una materia così delicata. La CGIL, nonostante la contrarietà
all’uso del referendum abrogativo che ormai era la bestia nera storicamente
provata per il movimento sindacale, e come abbiamo visto all’estensione pura
della tutela reale, si espresse a favore del SI. D’altronde la proposta di legge di
524 M. Santostasi, Conversazione con Massimo Roccella, cit.
344
iniziativa popolare di fatto chiedeva l’estensione dell’istituto. Ma non furono
pochi gli esponenti del sindacato e le personalità storiche del movimento
sindacale, come ad esempio Bruno Trentin, a dichiararsi contrari. Il numero dei
votanti non raggiunse il quorum e si consumò l’ennesima sconfitta referendaria su
un tema cruciale per la sinistra sindacale e politica.525
Dopo la pausa estiva, nel settembre 2003 e successivamente nell’aprile 2004, il
Governo intanto provvedeva ad approvare i decreti attuativi della legge 30. A
larga maggioranza furono varati i decreti nn. 276 e 124 che riformavano
ampiamente il mercato del lavoro nelle parti su cui il Parlamento aveva approvato
la delega. I due decreti ci consegnavano l’attuale mercato del lavoro italiano. In
primo luogo i decreti introdussero nuove tipologie contrattuali. Veniva
praticamente legalizzato l’uso generale dell’apposizione del termine al contratto di
lavoro che secondo i decreti deve essere costituito in forma scritta. Sono stati
introdotte nuove tipologie di lavoro a tempo parziale, come part-time orizzontale,
verticale e c.d. misti e la previsione di clausole flessibili ed elastiche per la
modifica dell’orario della prestazione lavorativa. Per la prima volta nel nostro
ordinamento fu previsto il contatto di lavoro intermittente o detto anche a
chiamata, che in Italia è previsto come sviluppo del lavoro interinale, a differenza
di altri paesi in cui si è configurato come sottospecie del part-time. Anche il
lavoro ripartito (o job sharing) non aveva precedenti nel nostro mercato del
lavoro. Questa figura contrattuale prevede una identica prestazione lavorativa
assunta in solido da due lavoratori. Venivano inoltre regolati i c.d. lavori
decentrati. I co.co.co. furono trasformati in collaborazioni continuative a progetto 525 Bisogna precisare comunque che nonostante non fu raggiunto il quorum, il numero dei votanti fu molto più altro rispetto ad altri quesiti referendari su cui era richiesto l’intervento dell’elettore. Inoltre tra i votanti furono di gran lunga più numerosi i sostenitori del SI.
345
(co.co.pro). La riforma revisionava tutta la disciplina dei contratti a contenuto
formativo, con l’introduzione di 3 nuovi modelli di apprendistato e l’evoluzione
del contratto di formazione lavoro in contratto d’inserimento. Fu introdotto un
nuovo sistema di certificazione dei rapporti di lavoro. Tutto il collocamento fu
riformato con la previsione di diversi centri per l’impiego in cui venivano
valorizzata la concorrenza tra agenzie privati e pubblici.
La riforma del mercato del lavoro era quindi completata e parte del Libro
Bianco era tradotto in legge. Mancava tuttavia la previsione di una generale
rimodulazione delle tutele che configurasse uno “Statuto dei lavori”. Fu così che
con notevole ritardo il Governo si impegnò ad attuare il punto 2.3 del Patto per
l’Italia, firmato con CISL e UIL nel 2002. Nel marzo 2004 un Decreto
Ministeriale526 dichiarava che “visto il Libro Bianco e il Patto per l’Italia, a
completamento delle riforme in corso”, il Governo decretava l’istituzione “presso
il Gabinetto del Ministro del Lavoro e delle politiche sociali della Commissione di
Studio per la definizione di uno Statuto dei lavori” (art. 1 D.M.). Tale
commissione, secondo l’art. 2 del decreto, avrebbe dovuto predisporre, entro il 31
dicembre 2004, una o più ipotesi di articolato normativo, assumendo come base di
lavoro il materiale progettuale elaborato dal prof. Marco Biagi. La Commissione
fu affidata alla presidenza del collaboratore di Biagi, Michele Tiraboschi e ne
facevano parte altri 24 componenti tra giuristi, sociologi e studiosi vari del mondo
del lavoro e della produzione. Il Governo voleva quindi giungere al più presto alla
presentazione in Consiglio dei Ministri di un progetto di legge sulla “Bozza
Biagi” risalente al 1998. Si indicava nel D.M. una chiara scelta di politica del
526 Lo si veda in www.csmb.unimo.it
346
diritto per una modulazione delle tutele a geometria variabile e per la
certificazione dei rapporti di lavoro.
La commissione si riunì per ben nove volte e convocò due audizioni con le
parti sociali, ma alla “scadenza del 31 dicembre 2004 non [era] stato possibile,
alla Commissione nel suo complesso, pervenire alla elaborazione di uno o più
elaborati normativi”527. Nella relazione finale consegnata da Tiraboschi il 19
marzo 2005, venivano descritti i lavori e i limiti che non avevano permesso di
giungere all’obbiettivo dichiarato dal Governo. Tra questi si menzionavano: il
poco tempo a disposizione, il numero eccessivo di commissari espressione di
opzioni di politica del diritto e di soluzioni tecniche estremamente differenziate, la
contrarietà di alcuni rappresentanti delle parti sociali che, anche in astratto,
consideravano lo Statuto dei lavori in alternativa allo Statuto dei lavoratori o come
strumento di arretramento delle tutele e in ultimo le difficoltà di rapporti tra
rimodulazione delle tutele e la messa a regime della riforma del mercato del
lavoro.
Per quanto riguardava i rapporti con le parti sociali 528, la commissione chiamò
in audizione le associazioni datoriali (CONFINDUSTRIA, CONFAPI,
CONFCOMMERCIO, CONFESERCENTI, CONFARTIGIANATO, CNA,
CASARTIGIANI, ABI, CONFCOOPERATIVE e LEGACOOPERATIVE),
quelle dei lavoratori (CGIL, CISL, UIL, UGL e SIN.PA), quelle dei dirigenti, dei
quadri e delle altre professionalità (CIDA, CONFAIL, CONFEDIR,
ITALQUADRI e CONFQUADRI).
527 M. Tiraboschi, Relazione conclusiva della Commissione di Studio per la definizione di uno “Statuto dei Lavori”, Roma, Marzo 2005, p. 3. 528 Materiale raccolto in Ivi, pp. 25 ss.
347
Complessivamente le associazioni datoriali si espressero a favore di un
provvedimento denominato “Statuto dei lavori”, secondo le direttive tracciate dal
Governo e dalla riforma Biagi. In particolare la Confindustria fece sapere di essere
contraria ad accogliere nuove definizioni come quella di “lavoratore
economicamente dipendente” prevista dal progetto Amato-Treu. Si dichiarava
dunque per un sostanziale ripensamento dello Statuto dei lavoratori alla luce delle
nuove forme di organizzazione d’impresa e si dichiarava contraria ad ogni tipo di
approccio che portasse ad una pur modesta estensione delle tutele tradizionali.
Diversa e differenziata era la posizione dei sindacati dei lavoratori. La CGIL si
dichiarò nettamente contraria non solo alla “Bozza Biagi”, ma anche alla proposta
di legge “Amato-Treu”, poiché prefigurerebbero un sistema a “cerchi concentrici”
di tutela, che la CGIL individua come strumento per la progressiva erosione
dell’ambito del lavoro subordinato e delle tutele ad esso proprie”. A questo
disegno la CGIL contrapponeva le quattro proposte di legge d’iniziativa popolare.
La CISL dal canto suo rimaneva decisamente favorevole al provvedimento e
soprattutto riteneva la riforma Biagi un passo in avanti verso la predisposizione
dello Statuto dei lavori.529 Positiva verso uno Statuto dei lavori si espresse anche
la UIL, che indicava nel provvedimento un completamento delle riforme messe in
atto dal Governo. Mentre l’UGL dichiarava di essere contraria perché l’impianto
delle proposte rispecchiavano una destabilizzazione delle tutele classiche del
lavoro subordinato. Il Sindacato Padano invece, più che a favore del
provvedimento si espresse contro lo Statuto dei lavoratori, considerato come un
provvedimento segnato da limiti ideologici quali l’egualitarismo, la centralità 529 In questo senso si veda M. Lai, Introduzione al seminario formativo: verso uno Statuto dei lavori? Organizzato dal Centro Studi Nazionale Cisl il 18 e il 19 settembre 2003, in “Diritto delle Relazioni Industriali”, n. 2, 2004, pp. 187 ss.
348
egemonica della classe operaia nella grande impresa e l’inamovibilità del posto di
lavoro occupato dall’apprendistato alla pensione.530
Il lavoro della commissione fu certamente incanalato in una precisa politica del
diritto indicata dal Governo, cioè quella della rimodulazione delle tutele secondo
le impostazioni di M. Biagi. Nonostante infatti siano emerse forti contrasti tra i
commissari, non furono mai considerate le proposte di mera estensione delle
tutele alle nuove forme di lavoro, come ad esempio quella proposta dalla CGIL.
Tuttavia le difficoltà tecniche nel predisporre un articolato, suggerirono alla
commissione la possibilità di prendere in considerazione anche la proposta
Amato-Treu, che presentava punti di contatto proprio in materia di rimodulazione
delle tutele. E su questo piano ci furono, all’interno di questo filone di politica del
diritto ormai egemone, profonde divisioni, soprattutto per le difficoltà di
impostare la modulazione delle tutele alla luce della riforma Biagi. Secondo gli
estensori e i favorevoli alla Carta dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, infatti
la legge 30 e i decreti attuativi non rappresentavano un passo avanti per la una
rimodulazione delle tutele. Lo stesso Treu all’indomani dell’approvazione del
decreto 276/2003, in un suo intervento si esprimeva in questo modo:
“A mio avviso crea [la riforma] complicazioni di non poco sulla strada che dovrebbe portare
alla elaborazione di un statuto inteso, come era nelle indicazioni originarie della bozza del 1998, a riproposizionare l’apparato di tutela del diritto del lavoro rispetto al continuo mutamento del lavoro e dei lavori.[…] Le complicazioni possono derivare dal cuore della nuova normativa che si propone di adeguare l’assetto normativo del diritto del lavoro alla nuova realtà produttiva moltiplicando le tipologie contrattuali utilizzabili per lo svolgimento di prestazioni di lavoro.”531
530 Tiraboschi riferì che per il Sindacato Padano “l’attuale “Statuto dei lavoratori” non ha più ragion d’essere, ed ogni ulteriore ritardo della sua radicale riforma, significa subire il ricatto ideologico del sindacato confederale e dei suoi alleati politici.”, in Ivi, p. 34. 531 T. Treu, Statuto dei lavori e Carta dei diritti, in “Diritto delle Relazioni Industriali”, n. 2, 2004, p. 194. Nello stesso senso si veda T. Treu, Statuto dei lavori: una riflessione sui contenuti, in www.ildiariodellavoro.it, 18 settembre 2003.
349
In questa prospettiva “da sinistra”, la rimodulazione era di fatto impraticabile
poiché il proliferare di nuove forme contrattuali con le loro specifiche discipline
rigide, complicava l’opera di adattabilità delle norme alla differenziazione delle
figure professionali. Ciò si allontanava dagli obbiettivi politici dichiarati e
contribuiva alla mancanza di tutele e alla precarietà di milioni di lavoratori. Era la
prospettiva su cui si era unito, con non poche difficoltà, tutto l’Ulivo.
Da prospettive opposte non furono pochi, tra cui la CISL, a ritenere che la
riforma del mercato del lavoro aveva provveduto ad intraprendere la strada giusta
per uno Statuto dei lavori. Lo stesso Presidente della Commissione in un paio di
interventi in merito532 espresse delle riserve sulla prospettiva sopra decritta. Per
questo la riforma Biagi non portava affatto ad un proliferare di nuove forme
contrattuali, ma anzi provvedeva ad accorpare e a tipicizzare le innumerevoli
tipologie contrattuali relegate al lavoro nero e nelle aree grigie del diritto della
disciplina lavoristica.
“Procedere alla codificazione di uno Statuto dei lavori senza prima avere aggregato e fatto emergere, attraverso le nuove tipologie contrattuali, quella miriade di prestazioni lavorative collocate nell’area del lavoro grigio e, sempre più spesso, del lavoro nero sarebbe probabilmente stata una operazione meritoria quanto priva di efficacia rispetto ai processi normativi reali.”533
Due posizioni contrastanti, dunque, che tuttavia rappresentarono un ostacolo
insuperabile per la Commissione istituita dal Governo, almeno se si considera
l’aspetto più strettamente tecnico della predisposizione di una tutela modulare.
532 M. Tiraboschi, La c.d. certificazione dei lavori “atipici” e la sua tenuta giudiziaria, cit. e Id., Certificazione e tipi di lavoro flessibile nella riforma dei lavori: un primo passo verso lo statuto dei lavori, in www.csmb.unimo.it 533 Ivi, p. 3.
350
Il tema dello Statuto dei lavori non fu più affrontato e le imminenti elezioni
non portarono a nessun tipo di provvedimento in materia di nuovi diritti dei
lavorati nel contesto attuale post-fordista.
3.5 Possibili scenari futuri
Da ormai un decennio, tra le elaborazioni dottrinali e le proposte di
politica legislativa, va progressivamente emergendo il tema della tutela e dei
diritti dei nuovi lavori, in una prospettiva chiaramente post-fordista. Lo Statuto
dei lavoratori va dunque innegabilmente perdendo la sua centralità socio-politica e
giuridica acquisita soprattutto nel decennio settanta. Da allora tutto è iniziato a
mutare: sistema produttivo, relazioni sindacali, legislazione sociale.
L’introduzione delle tecnologie flessibili ha di fatto destrutturato il lavoro
fordista-taylorista e le tecniche giuridiche apportate dalla legge 300 si sono
rilevate spuntate di fronte alla fuga del lavoro dominante conosciuto dagli albori
dell’industrialismo. Negli anni ’90, nonostante le manutenzioni delle parti più
turbate, sembrava che lo Statuto non avesse più niente da dire e pochi lavoratori
da tutelare. La legge simbolo della democrazia nei luoghi di lavoro veniva
bistrattata, i suoi valori messi in discussione, le sue tutele aggirate. I “testimoni e
gli interlocutori dello statuto” avrebbero dovuto presto ammettere che l’auspicio
espresso da Gino Giugni nel lontano ’73 di vedere lo Statuto come base di
partenza per costruire su di esso soluzioni ancora più nuove, era totalmente
fallito.534 Nonostante esso avesse retto l’impatto con i cambiamenti, tutto ciò che
c’era di nuovo nella società italiana si andava invece costruendo al di fuori delle
impostazioni dello Statuto e in molti casi contro di esse. Tuttavia, ben presto ci si
534 U. Romagnoli, Il dopo-statuto: un testimone, un interlocutore, in “Lavoro e Diritto”, n. 3, autunno 2000, p. 338.
351
accorgeva che le nuove forme di organizzazione produttiva emergenti e il nuovo
assetto capitalista che prometteva flessibilità e mobilità in una prospettiva lontana
migliaia di km da quella che fu dello Statuto del ‘70, non riusciva comunque a
consolare le necessità vitali di quella cittadinanza operosa che del lavoro vive, da
esso percepisce un salario e su di esso progetta la propria esistenza. Il sistema
socio-economico era profondamente cambiato, ma il lavoro alle altrui dipendenze
non era affatto finito e su di esso si riponevano ancora le speranze di milioni di
cittadini della II Repubblica. Un lavoro che stenta oggi a ricostruire nuovi valori
collettivi e aggregarli nel nuovo contesto post-statutario. Tutto sembra oggi
difficile, a volte impraticabile e non è facile nemmeno descrivere il variegato
mondo dei nuovi lavori. Più libertà o solo nuove forme di dominio? D’altronde la
capacità della classe operaia di imporsi come soggetto sociale meritevole di diritti
specifici su cui edificare un modello di società più giusta e democratica, oggi
difficilmente può essere paragonato ai nascenti sindacati dei lavoratori “atipici”.
La difficoltà di avere una figura sociale nuova che imponga nuovi valori e
interessi materiali su cui edificare una nuova cittadinanza post-fordista, rende
tutti, comprese le organizzazioni dei lavoratori, confusi di fronte al nuovo che
avanza. Gli stessi giuristi più avveduti, che in qualche modo sembravano nella
seconda metà degli anni ’90 essersi rimboccati le maniche per un nuovo corso
progettuale, stentano ad avere un soggetto o gruppi sociali omogenei di
riferimento condiviso. Così anche le proposte di uno Statuto dei lavori o di Carta
dei diritti si scontrano con le incomprensioni e la difficoltà di individuare verso
chi e perché bisogna modulare le tutele e soprattutto quali tutele e diritti chiede il
variegato mondo dei nuovi lavori. D’altronde le organizzazioni sindacali non
352
possono certo sentirsi esenti da queste mancanze. Non è certo facile parlare di
nuove organizzazioni sindacali a una giovane ragazza che lavora in un call center
o a un trentenne assunto con il quinto contratto co.co.pro. da una impresa
pubblicitaria multinazionale. Ciò che è certo è che i bisogni dei nuovi lavori
stanno emergendo, altri sono latenti ed emergeranno in futuro e comunque nuovi
soggetti sociali fanno capolino nel nuovo contesto socio-economico. E’ una
percezione presente non solo nei sindacati, ma che si impone anche a livello di
rappresentanza politica. In un certo senso i partiti politici e i Governi a prima vista
sono i più attenti a queste dinamiche. Da un decennio non fanno altro che
presentare ambiziose proposte di legge e sottolineare la necessità di tutelare i
lavoratori che sfuggono alla tutela tradizionale. Ma i risultati sono stati ben pochi
e a quanto pare i Governi sono più preoccupati di creare occupazione, quale che
sia la qualità, che di intraprendere una vera e propria posizione riformatrice in
merito. Così si circondano di giuristi del lavoro che collaborano ai Ministeri e si
affidano alle loro analisi senza assumere un chiaro percorso di rappresentanza
politica. In realtà quindi anche loro non riescono a captare reali aggregati di
interessi da rappresentare. Sembra di essere tornati ai Governi centristi degli anni
‘60, quando cioè di Statuto si parlava solo nelle riviste di diritto del lavoro e nelle
stanze ministeriali tutto si perdeva in un bicchier d’acqua, in barba ai proclami
programmatici ed elettorali. Quella storia l’abbiamo ripercorsa e sappiamo come
andò a finire qualche anno più tardi. Senza assumere la prospettiva della ciclicità
della storia, è certamente utile sottolineare, alla fine di questo lungo viaggio
storico attraverso la lente dello Statuto dei lavoratori, ciò che manca ancora per
l’adozione di norme a favore del lavoro post-fordista. Con lo sviluppo
353
dell’industrialismo pareva imporsi con tutta la sua forza la classe lavoratrice, ma
per giungere a riconoscere dei diritti ad essi si sarebbero dovuti susseguire eventi
straordinari in cui centrale fu il ruolo del conflitto sociale e la mobilitazione
democratica di massa, poi raccolta dalle organizzazioni sindacali. Oggi come ieri
è fondamentale, a mio avviso, un nuovo protagonismo sociale dei lavoratori
salariati post-fordisti e delle organizzazioni di rappresentanza collettiva che
storicamente si sapranno dare. Tutto sembra pronto per provvedimenti legislativi
nuovi, ma mancano quei “tuoni” a sinistra che nel ’68 fecero capire al potere
politico, ai vertici sindacali e agli operatori del diritto la direzione migliore da
intraprendere per adottare un provvedimento aderente ai loro più intimi interessi
economici e politici. Allora fu varato lo Statuto dei lavoratori, oggi la questione è
ancora aperta.
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APPENDICE
DOC N. 2
“LA PROPOSTA DI VITTORIO (1952)”
STATUTO DEI DIRITTI DEI LAVORATORI NELLE AZIENDE
Approvato al III Congresso della CGIL
1) Il rapporto di lavoro tra padrone e dipendente non può in nessun modo, e per nessun motivo, ridurre o limitare i diritto individuali che la Costituzione repubblicana italiana riconosce all’uomo sia come singolo, sia nelle formazioni sociali dove svolge la sua personalità (Costituzione art. 2)
Perciò anche nel luogo di lavoro i dipendenti conservano totalmente e integralmente, nei confronti del padrone, o di chi per esso, i propri diritti, di cittadini, la loro dignità umana, e la libertà di poter sviluppare, senza ostacoli o limitazioni, la propria personalità morale, intellettuale e politica.
2) Il rapporto di lavoro riconosce al padrone solo il diritto di esigere dal proprio dipendente una determinata prestazione d’opera, per un determinato periodo di tempo, nel rispetto di una data organizzazione e disciplina del lavoro. Nella realizzazione di questo diritto il padrone, o chi per esso, deve rispettare la inviolabilità personale del dipendente (Costituzione art. 13)
Perciò, per nessun motivo, il padrone, o chi per esso, può ricorrere, nei confronti del proprio dipendente a insulti, a violenze fisiche o morali, sottoporlo a ispezioni o perquisizioni, per motivi non espressamente autorizzati dai regolamenti di fabbrica, o procedere a controlli e sequestri di cose di qualsiasi natura che gli appartengano.
3) Il rapporto di lavoro non può in nessun modo e per nessun motivo vincolare o limitare i diritti civili del dipendente. Meno che mai può limitare il diritto del lavoratore di discutere con i suoi compagni le questioni relative al proprio lavoro, di collaboratore alla gestione delle aziende, di tutelare i proprio interessi di lavoratore e di adempiere ai propri doveri associativi (Costituzione artt. 39-40-46)
Perciò anche nell’azienda, e durante il tempo non occupato nella produzione, ogni dipendente deve poter fruire liberamente del diritto di manifestare il proprio pensiero, di leggere e far circolare la stampa permessa dalla legge, di associarsi, di riunirsi e di far opera di proselitismo e di organizzazione.
4) Il rapporto di lavoro non deve essere soggetto a nessuna discriminazione politica, religiosa e razziale. Per le assunzioni, per la determinazione delle qualifiche e delle retribuzioni e per le promozioni devono valere solo le norme stabilite dal contratto sindacale e dalla legge, le attitudini o le capacità individuali, i meriti professionali acquisiti (Costituzione artt. 3-36)
Perciò non vi può essere rottura di rapporto di lavoro per ragioni estranee alle esigenze della produzione, né per rappresaglia contro il dipendente a causa della sua appartenenza a determinate organizzazioni o a causa delle sue convinzioni politiche o religiose, né per vendetta contro il lavoratore che intenda far rispettare la propria libertà di cittadino, la propria dignità civile e morale ed il proprio diritto ad esigere che la proprietà assolva ai compiti sociali prescritti dalla Costituzione della Repubblica italiana.
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DOC N. 2 “IL PROGETTO BRODOLINI (1969)”
NORME SULLA TUTELA DELLA LIBERTA’ E DIGNITA’ DEI
LAVORATORI, DELLA LIBERTA’ SINDACALE E DELL’ATTIVITA’ SINDACALE NEI LUOGHI DI LAVORO
DISEGNO DI LEGGE N. 738 IN DATA 24 GIUGNO 1969 PRESENTATO DAL MINISTRO DEL LAVORO E DELLA PREV. SOCIALE
(BRODOLINI) DI CONCERTO COL MINISTERO DI G. e G. (GAVA)
TITOLO I DELLA LIBERTA’ E DIGNITA’ DEL LAVORATORE
Art. 1
(Libertà di opinione) I lavoratori, senza distinzione di opinioni politiche, sindacali e di fede religiosa, hanno diritto, nei luoghi di dove
prestano la loro opera, di manifestare il proprio pensiero, nel rispetto delle altrui libertà e in forme che non rechino intralcio allo svolgimento dell’attività aziendale.
Art. 2
(Guardie giurate) Il datore di lavoro può impegnare le guardie particolari giurate, di cui agli articoli 133 e seguenti del testo unico
approvato con regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, soltanto per scopi di tutela del patrimonio aziendale. E’ fatto divieto al datore di lavoro di adibire alla vigilanza sull’attività lavorativa le guardie di cui al comma
precedente le quali non possono accedere nei locali dove si svolge tale attività, durante lo svolgimento della stessa, se non per specifiche esigenze attinenti ai compiti di cui al primo comma.
E’ fatto divieto alle guardie giurate di contestare fatti che costituiscono motivo per la applicazione di sanzioni disciplinari, salvo che queste ultime ineriscano a fatti lesivi del patrimonio aziendale.
In caso di inosservanza da parte di una guardia particolarmente giurata delle disposizioni di cui al presente articolo, l’Ispettorato del lavoro denuncia il fatto al Questore per i provvedimenti di su competenza.
Art. 3
(Impianti audiovisivi) E’ vietato l’uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei
lavoratori. Gli impianti e le apparecchiature di controllo che siano rispondenti a esigenze organizzative e produttive ovvero
alla sicurezza del lavoro ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza della attività dei lavoratori, possono essere installati soltanto previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna, l’Ispettorato del lavoro dettando, ove occorra, le modalità per l’uso di tali impianti.
Per gli impianti e le apparecchiature esistenti, che rispondono alle caratteristiche di cui al comma del presente articolo, in mancanza di accordo con le rappresentanze sindacali aziendali o con la commissione interna, l’Ispettorato del lavoro provvede entro un anno dall’entrata in vigore della presente legge, dettando all’occorrenza le prescrizioni per l’adeguamento e le modalità di uso degli impianti suddetti.
Art. 4
(Assenze per malattia) Il controllo delle assenze per malattia può essere eseguito solo da un sanitario il cui nominativo deve
preventivamente essere comunicato dal datore di lavoro alle rappresentanze sindacali aziendali, ovvero, in mancanza di queste, all’Ispettorato del lavoro.
Ove le risultanze dell’accertamento compiuto dal sanitario di fiducia del lavoratore, il datore di lavoro o il lavoratore, fatte salve analoghe procedure stabilite dai contratti collettivi di lavoro, possono chiedere all’Ispettorato del lavoro la nomina di un accertamento definitivo.
Art. 5
(Visite personali di controllo) Le visite personali di controllo del lavoratore sono ammesse soltanto nei casi in cui siano indispensabili in relazione
alla qualità degli strumenti di lavoro e delle materie prime o di prodotti. In ogni caso le visite personali potranno essere effettuate soltanto a condizione che siano eseguite all’uscita dai
luoghi di lavoro, che siano salvaguardate la dignità e la riservatezza del lavoratore e che avvengano con l’applicazione di sistemi di selezione automatica riferiti alla collettività o a gruppi di lavoratori.
Le ipotesi nelle quali possono essere disposte le visite personali, nonché, ferme restando le condizioni di cui al secondo comma del presente articolo, le relative modalità debbono essere concordate dal datore di lavoro con le rappresentanze sindacali aziendali oppure, su istanza del datore di lavoro, provvede l’Ispettorato del lavoro.
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Art. 6 (Sanzioni disciplinari)
Qualora i contratti collettivi di lavoro non dispongano al riguardo, il datore di lavoro deve stabilire e portare a conoscenza dei lavoratori dipendenti, mediante affissione in luogo accessibile a tutti i lavoratori, le sanzioni disciplinari, le infrazioni in relazione alle quali ciascuna di esse può essere applicata, nonché le procedure di contestazione delle stesse.
Salvo diverse disposizioni dei contratti collettivi di lavoro, e fermo restando il disposto dell’articolo 2119 del codice civile, non possono essere disposte sanzioni disciplinari che importino mutamenti definiti del rapporto di lavoro; inoltre, la multa non può essere disposta per un importo superiore a quattro ore della retribuzione base e la sospensione del servizio e della retribuzione per più di dieci giorni.
In ogni caso, i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possono essere applicati prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per scritto del fatto che vi h dato causa.
Salvo analoghe procedure previste dai contratti collettivi di lavoro e ferma restando la facoltà di adire l’autorità giudiziaria, il lavoratore al quale sia stata applicata una sanzione disciplinare può promuovere, nei venti giorni successivi, anche per messo dell’associazione alla quale sia iscritto ovvero conferisca mandato, la costituzione, tramite l’ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione, di un collegio di conciliazione e di arbitrato, composto dal un rappresentante di ciascuna delle parti e da un terzo membro scelto di comune accordo o, in difetto di accordo nominato dal direttore dell’ufficio del lavoro.
Qualora il datore di lavoro non provveda, entro dieci giorni dall’invio rivoltogli dell’ufficio del lavoro a nominare il proprio rappresentante in seno al collegio di cui al comma precedente, la sanzione disciplinare non ha effetto. Se il datore di lavoro adisce l’autorità giudiziaria, la sanzione disciplinare resta sospesa fino alla definizione del giudizio.
Non può tenersi conto ad alcun effetto delle sanzioni disciplinari decorsi tre anni dalla loro applicazione.
TITOLO II DELLA LIBERTA’ SINDACALE
Art. 7
(Atti discriminatori) E’ nullo qualsiasi patto od atto diretto a: a) subordinare l’occupazione di un lavoratore alla condizione che
aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale, ovvero cessi di farne parte; b) licenziare un lavoratore o recagli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero
della sua partecipazione ad uno sciopero. Le disposizioni di cui al comma precedente si applicano altresì ai patti o atti diretti a fini di discriminazione politica
e religiosa.
Art. 8 (Trattamenti economici collettivi discriminatori)
E’ vietata la concessione di trattamenti economici di maggior favore aventi carattere discriminatorio a mente dell’articolo 7.
Il giudice, su domanda delle associazioni sindacali alle quali sono iscritti i lavoratori nei cui confronti è stata attuata la discriminazione di cui al comma precedente, condanna il datore di lavoro al pagamento, a favore del Fondo adeguamento pensioni, di una somma pari all’importo dei trattamenti economici di maggior favore illegittimamente corrisposti nel periodo massimo di un anno.
Art. 9 (Sindacati di comodo)
E’ fatto divieto ai datori di lavoro e alle associazioni sindacali di datori di lavoro di costituire o sostenere, con mezzi finanziari o altrimenti, associazioni sindacai di lavoratori al fine di porle il loro controllo.
Le disposizioni di cui al Titolo III della presente legge non si applicano alle associazioni di cui al primo comma.
Art. 10 (Reintegrazione nel posto di lavoro)
La sentenza che dichiara la nullità del licenziamento a norma dell’articolo 4 della legge 15 luglio 1966, n. 604, comporta l’obbligo del datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro.
Il datore di lavoro che non ottempera alla sentenza è tenuto, per ogni giorno di ritardo, al pagamento, a favore del Fondo adeguamento pensione, di una certa somma pari all’importo della retribuzione dovuta al lavoratore, ferma la corresponsione a quest’ultimo di quanto dovutogli in virtù del rapporto di lavoro, fino alla data della reintegrazione.
La sentenza pronunciata nel giudizio di cui al primo comma è provvisoriamente esecutiva. Nell’ipotesi di licenziamento dei dirigenti sindacali di cui all’articolo 14, su istanza congiunta del lavoratore e del
sindacato cui questo aderisce o conferisca mandato, il giudice, in ogni stato e grado del giudizio di merito, può disporre con ordinanza, quando la domanda è sufficientemente provata, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.
L’ordinanza di cui al comma precedente può essere impugnata con reclamo immediato al Pretore medesimo che l’ha pronunciata ovvero al collegio, qualora sia stata preannunciata dal giudice istruttore. Si applicano le disposizioni dell’articolo 178, terzo, quarto, quinto, e sesto comma del codice di procedura civile.
L’ordinanza può essere revocata con la sentenza che decide la causa. Il datore di lavoro che non ottempera all’ordinanza, non impugnata o confermata dal Pretore o dal collegio, è tenuto
al pagamento della penale di cui al secondo comma.
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TITOLO III DELL’ATTIVITA’ SINDACALE
Art. 11
(Costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali ) Le disposizioni del presente Titolo si applicano, entro i limiti di cui al successivo articolo 24, alle rappresentanze
sindacali aziendali, costituite, secondo le norme interne alle associazioni sindacali, nell’ambito dell’unità produttiva, ad iniziativa:
a) dalle associazioni aderenti alle Confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale; b) dalle associazioni sindacali, non affiliate alle predette Confederazioni, che siano firmatarie di contratti nazionali
o provinciali applicati nella unità produttiva.
Art. 12 (Assemblee)
I lavoratori hanno diritto di riunirsi fuori dall’orario di lavoro e in locali messi a disposizione dal datore di lavoro, nella unità produttiva, in cui prestano la loro opera o nelle immediate vicinanze di essa.
Le riunioni sono indette, singolarmente o congiuntamente dalle rappresentanze sindacali aziendali nell’unità produttiva, con ordine del giorno su materie di interesse sindacale e del lavoro e sondo l’ordine di precedenza delle convocazioni, comunicate al datore di lavoro.
Alle riunioni possono partecipare, previo preavviso al datore di lavoro, non più di due dirigenti esterni del sindacato che ha costituito la rappresentanza sindacale aziendale.
Ulteriori modalità per l’esercizio del diritto di assemblea possono essere stabilite dai contratti collettivi di lavoro, anche aziendali.
Art. 13
(Referendum) Il datore di lavoro deve consentire lo svolgimento, fuori dall’orario di lavoro, di referendum su materie inerenti
all’attività sindacale, indetti da tutte le rappresentanze sindacali aziendali tra i lavoratori appartenenti alle categorie per le quali le stesse sono organizzate nella unità produttiva.
Ulteriori modalità per lo svolgimento del referendum possono essere stabilite dai contratti collettivi di lavoro anche aziendali.
Art. 14
(Licenziamento e trasferimento dei dirigenti delle rappresentanze sindacali)
Si presume intimato in violazione dell’articolo 4 della legge 15 luglio 1966, n. 604, il licenziamento dei dirigenti delle rappresentanze sindacali di cui all’articolo 11 della presente legge, quando il datore non abbia fornito la prova della giusta causa o del giustificato motivo.
Le disposizioni di cui al comma precedente si applicano, salvo clausole più favorevoli dei contratti collettivi di lavoro, ai dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali, i cui nominativi siano stati previamente comunicati, mediante raccomandata, dalle associazioni sindacali di cui all’articolo 11 alla direzione dell’azienda, in numero non superiore a:
a) un dirigente per ciascuna rappresentanza sindacale aziendale nelle unità produttive che occupano fino a 300 dipendenti della categoria per cui la stessa è organizzata;
b) due dipendenti per ciascuna rappresentanza sindacale aziendale nelle unità produttive che occupano fino a 2.000 dipendenti della categoria per cui la stessa è organizzata;
c) un dirigente ogni 3.000 dipendenti della categoria per cui è organizzata la rappresentanza sindacale aziendale nelle unità produttive di maggiori dimensioni, in aggiunta al numero minimo di cui alla precedente lettera b).
Il trasferimento dell’unità produttiva dei dirigenti sindacali di cui al presente articolo può essere disposto solo previo nulla osta delle associazioni sindacai di appartenenza.
Art. 15
(Permessi retribuiti) I dirigenti sindacali di cui all’articolo 14 hanno diritto, per l’espletamento del loro mandato, a premessi retribuiti in
misura non inferiore a quattro ore mensili nelle unità produttive che occupano fino a 100 dipendenti e a otto ore mensili nelle unità produttive di maggiori dimensioni
Il lavoratore che intende esercitare il diritto di cui al comma precedente deve darne comunicazione scritta ad datore di lavoro almeno tre giorni prima, tramite le rappresentanze sindacali aziendali.
Art. 16
(Permessi non retribuiti) I dirigenti sindacali di cui all’articolo 14 hanno diritto a permessi non retribuiti per la partecipazione a trattative
sindacali o a congressi e convegni di natura sindacale, in misura non inferiore a sei giorni per anno. I lavoratori che intendano esercitare il diritto di cui al comma precedente devono darne comunicazione scritta al
datore di lavoro almeno tre giorni prima, tramite la rappresentanza sindacale aziendale o l’associazione sindacale di appartenenza.
Art. 17
(Diritto di affissione) Le rappresentanze sindacali aziendali hanno diritto di utilizzare nei locali di lavoro appositi spazi, in luoghi
accessibili a tutti i lavoratori, posti a loro disposizione dal datore di lavoro per l’affissione di pubblicazioni, testi o comunicazioni inerenti all’attività sindacale.
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Art. 18 (Contributi sindacali)
Le associazioni sindacali dei lavoratori che anno costituito le rappresentanze di cui all’articolo 11 hanno diritto di percepire, tramite ritenuta sul salario, i contributi sindacali che i lavoratori intendono loro versare, con modalità stabilite dai contratti collettivi di lavoro che garantiscano la segretezza del versamento effettuato dal lavoratore a ciascuna associazione sindacale.
Nelle aziende dove non si applicano i contratti collettivi di lavoro, il lavoratore può, comunque, chiedere il versamento del contributo sindacale all’associazione da lui indicata.
Art. 19
(Locali delle rappresentanze sindacali aziendali) Il datore di lavoro nelle unità produttive con almeno 300 dipendenti pone a disposizione delle rappresentanze
sindacali aziendali, per l’esercizio delle loro funzioni, un idoneo locale comune all’interno dell’unità produttiva o nelle immediate vicinanze di essa.
TITOLO IV DISPOSIZIONI VARIE E GENERALI
Art. 20
(Repressione della condotta antisindacale) Qualora il datore di lavoro ponga in essere comportamenti diretti ad impedire o limitare l’esercizio della libertà e
della dignità sindacale nonché del diritto di sciopero, su ricorso di una rappresentanza sindacale aziendale ovvero degli organismo locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse, il pretore del luogo ove è posto in essere il comportamento denunziato, nei due giorni successivi, convoca le parti e assume sommarie informazioni. Qualora egli ritenga sussistere la violazione di cui al comma precedente, ordina al datore di lavoro, con decreto motivato ed immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo e le rimozione degli effetti.
Contro il decreto che decide sul ricorso è ammessa, entro 15 giorni dalla comunicazione del decreto alle parti, opposizione davanti al tribunale che decide con sentenza immediatamente esecutiva.
Il datore di lavoro che non ottempera al decreto, di cui al secondo comma, o alla sentenza pronunciata nel giudizio di opposizione, è punito ai sensi dell’articolo 25 della presente legge.
L’autorità giudiziaria ordina la pubblicazione della sentenza penale di condanna nella stampa periodica nazionale e in quella del luogo dove si è svolta la controversia.
Art. 21
(Permessi per i dirigenti provinciali e regionali) Le norme di cui agli articoli 15 e 16 della presente legge sono estese ai componenti degli organi elettivi, provinciali
e nazionali, delle associazioni di cui all’articolo 11 per la partecipazione alle riunioni di tali organi.
Art. 22 (Aspettativa dei lavoratori chiamati a funzioni pubbliche elettive
o a ricoprire cariche sindacali provinciali e nazionali) I lavoratori che siano eletti membri del Parlamento nazionale o di Assemblee regionali ovvero siano chiamati ad
altre funzioni pubbliche elettive possono, a richiesta, essere collocati in aspettativa non retribuita per tutta la durata del loro mandato.
La medesima disposizione si applica ai lavoratori chiamati a ricoprire cariche sindacali provinciali e nazionali.
Art. 23 ( Rappresentanza del datore di lavoro)
Nei casi in cui la presente legge prevede la stipulazione di accordi aziendali, il datore di lavoro può farsi rappresentare dall’associazione sindacale alla quale è iscritto o conferisca mandato.
TITOLO V DISPOSIZIONI FINALI E PENALI
Art. 24
(Campo di applicazione) Per le imprese industriali e commerciali, gli articoli 14, 15 e 16 del titolo III si applicano a ciascuna sede,
stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo che occupa più di 40 dipendenti. Le altre disposizioni del titolo III si applicano alle unità produttive che occupano più di 30 dipendenti.
Gli articoli 14, 15 e 16 del titolo III si applicano alle imprese agricole che occupano in modo continuativo più di 30 dipendenti e limitatamente a questi ultimi. Le alte disposizioni del titolo III si applicano alle imprese agricole che occupano in modo continuativo più di 20 dipendenti.
Le norme suddette si applicano, altresì, alle imprese industriali o commerciali che nell’ambito dello stesso Comune occupano più di 40 o di 30 dipendenti ed alle imprese agricole che nel medesimo ambito territoriale occupano più di 30 o di 20 dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti.
Ferme restando le norme di cui agli articoli 1, 7, 8 e 9, i contratti collettivi di lavoro provvedono ad applicare i princìpi di cui alla presente legge alla imprese di navigazione per il personale navigante.
359
Art. 25 (Disposizioni penali)
Le violazioni degli articoli 1, 2, 3 e 5 sono punite, salvo che il fatto non costituisca più grave reato, con l’ammenda da lire 100.000 a un milione o con l’arresto da 15 giorni ad un anno. Nei casi più gravi le pene dell’arresto e dell’ammenda sono applicate congiuntamente.
Quando, per le condizioni economiche del reo, l’ammenda stabilita nel comma precedente può presumersi inefficacie anche se applicata nel massimo, il giudice ha facoltà di aumentarla fino al quintuplo.
360
DOC N. 3
“LO STATUTO DEI LAVORATORI”
LEGGE 20 MAGGIO 1970, n. 300 (GU n. 131 del 27/05/1970) NORME SULLA TUTELA DELLA LIBERTA E DIGNITÀ DEI LAVORATORI , DELLA LIBERTÀ SINDACALE E DELL'ATTIVITÀ SINDACALE N EI
LUOGHI DI LAVORO E NORME SUL COLLOCAMENTO.
TITOLO I DELLA LIBERTÀ E DIGNITÀ DEL LAVORATORE
Art. 1 (Libertà di opinione)
I lavoratori, senza distinzioni di opinioni politiche, sidacali e di fede religiosa, hanno diritto, nei luoghi di lavoro dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero, nel rispetto dei principi della Costituzione e delle norme della presente legge.
Art. 2 (Guardie giurate)
Il datore di lavoro può impiegare le guardie particolari giurate, di cui gli articoli 133 e susseguenti del Testo Unico approvato con Regio Decreto il 18 giugno 1931, n. 773, soltanto per scopi di tutela del patrimonio aziendale.
Le guardie giurate non possono contestare ai lavoratori azioni o fatti diversi da quelli che attengono alla tutela del patrimonio aziendale.E’ fatto divieto al datore di lavoro di adibire alla vigilanza sull’attività lavorativa le guardie di cui al primo comma, le quali non possono accedere nei locali dove si svolge tale attività, durante lo svolgimento della stessa, se non eccezionalmente per specifiche e motivate esigenze attinenti ai compiti di cui al primo comma.
In caso di inosservanza da parte di una guardia particolare giurata delle disposizioni di cui al presente articolo, l’Ispettorato del lavoro ne promuove presso il Questore la sospensione dal servizio, salvo il provvedimento di revoca della licenza da parte del Prefetto nei casi più gravi.
Art. 3. (Personale di vigilanza) I nominativi e le mansioni specifiche del personale addetto alla vigilanze dell’attività lavorativa debbono essere
comunicati ai lavoratori interessati.
Art. 4 (Impianti audiovisivi) E’ vietato l’uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di
controllo a distanza dell’attività del lavoratore. Gli impianti e le apparecchiature di controllo che siano richieste da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla
sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, possono essere istallati soltanto previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna. In difetto di accordo, su istanza del datore di lavoro, provvede l’Ispettorato del lavoro, dettando, ove occorra, le modalità per l’uso di tali impianti.
Per gli impianti e le apparecchiature esistenti, che rispondano alle caratteristiche di cui al secondo comma del presente articolo, in mancanza di accordo con le rappresentanze sindacali aziendali o con la commissione interna, l’Ispettorato del lavoro provvede entro un anno dall’entrata in vigore della presente legge, dettando all’occorrenza le prescrizioni per l’adeguamento e le modalità di uso degli impianti
Contro i provvedimenti dell’Ispettorato del lavoro, di cui ai precedenti secondo e terzo comma, il datore di lavoro, le rappresentanze sindacali aziendali o, in mancanza di queste, la commissione interna, oppure i sindacati dei lavoratori di cui al successivo art. 19 possono ricorrere, entro 30 giorni dalla comunicazione del provvedimento, al ministro per il lavoro e la previdenza sociale..
Art. 5 (Accertamenti sanitari)
Sono vietati accertamenti da parte del datore di lavoro sulla idoneità e sulla infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente.
Il controllo delle assenze per infermità può essere effettuato soltanto attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, i quali sono tenuti a compierlo quando il datore di lavoro lo richieda
Il datore di lavoro ha facoltà di far controllare la idoneità fisica del lavoratore da parte di enti pubblici ed istituti specializzati di diritto pubblico.
Art. 6 (Visite personali di controllo)
Le visite personali di controllo sul lavoratore sono vietate fuorchè nei casi in cui siano indispensabili ai fini della tutela del patrimonio aziendale, in relazione alla qualità degli strumenti di lavoro o della materie primo o dei prodotti.
In tali casi le visite personali potranno essere effettuate soltanto a condizione che siano eseguite all’uscita dei luoghi di lavoro, che siano all’uscito dei luoghi di lavoro, che siano salvaguardate la dignità e la riservatezza del lavoratore e che avvengano con l’applicazione di sistemi di selezione automatica riferiti alla collettività o a gruppi di lavoratori.
Le ipotesi nelle quali possono essere disposte le visite personali, nonché, ferme restando le condizioni di cui al secondo comma del presente articolo, le relative modalità debbono essere concordate dal datore di lavoro con le rappresentanze sindacali aziendali oppure, in difetto di accordo, su istanza del datore di lavoro, provvede l’Ispettorato del lavoro.
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Conto i provvedimenti dell’Ispettorato del lavoro di cui al precedente comma, il datore di lavoro, rappresentanze sindacali aziendali o, in mancanza di queste, la commissione interna, oppure i sindacati dei lavoratori di cui al successivo articolo 19 possono ricorrere, entro 30 giorni dalla comunicazione del provvedimento, al Ministro per il lavoro e la previdenza sociale.
ART. 7. (Sanzioni disciplinari)
Le norme disciplinari relative alle sanzioni, alle infrazioni in relazione alle quali ciascuna di esse può essere applicata ed alle procedure di contestazione delle stesse, devono essere portate a conoscenza dei lavoratori mediante affissioni in luogo accessibile a tutti. Esse devono applicare quanto in materia è stabilito da accordi e contratti di lavoro ove esistano.
Il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l’addebito e senza averlo sentito a sua difesa.
Il lavoratore potrà farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato.
Fermo restando quando disposto dalla legge 15 luglio 1966, n. 604, non possono essere disposte sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi del rapporto di lavoro; inoltre le multa non può essere disposta per un importo superiore a quattro ore della retribuzione base la sospensione dal servizio e dalla retribuzione di più di dici giorni.
In ogni caso, i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possono essere applicati prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa.
Salvo analoghe procedure previste dai contratti collettivi di lavoro e ferma restando la facoltà di adire l’autorità giudiziaria, il lavoratore al quale sia stata applicata una sanzione disciplinare può promuovere, nei venti giorni successivi, anche per mezzo dell’associazione sindacale alla quale sia iscritto ovvero conferisca mandato, la costituzione tramite l’ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione, di un collegio di conciliazione ed arbitrato, composto da un rappresentante di ciascuna delle parti e da un terzo membro scelto di comune accordo, nominato dal direttore dell’ufficio del lavoro. La sanzione disciplinare resta sospesa fino alla pronuncia da parte del collegio.
Qualora il datore di lavoro non provveda, entro dieci giorni dall’invito rivoltogli dall’ufficio del lavoro, a nominare il proprio rappresentante in seno al collegio di cui al comma precedente, la sanzione disciplinare non ha effetto sei l datore di lavoro adisce l’autorità giudiziaria, la sanzione disciplinare resta sospesa fino alla definizione del giudizio.
Non può tenersi conto ad alcun effetto delle sanzioni disciplinari decorsi due anni dalla loro applicazione.
Art. 8 (Divieto di indagini sulle opinioni) E’ fatto divieto al datore di lavoro, ai fini dell’assunzione, come nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro,
di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose, o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore.
Art. 9 (Tutela della salute e dell’integrità fisica) I lavoratori, mediante loro rappresentanze, hanno diritto di controllare l’applicazione delle norme per la
prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e di promuovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica.
Art. 10. (Lavoratori studenti)
I lavoratori studenti, iscritti e frequentanti corsi regolari di studio in scuole di istruzione primaria, secondaria e di qualificazione professionale, statali, pareggiate o legalmente riconosciute o comunque abilitate al rilascio di titoli di studio legali, hanno diritto a turni di lavoro che agevolino la frequenza ai corsi e la preparazione agli esami e non sono obbligati a prestazioni di lavoro straordinario o durante i riposi settimanali.
I lavoratori studenti, compresi quelli universitari, che devono sostenere prove di esame, hanno diritto a fruire di permessi giornalieri retribuiti. Il datore di lavoro potrà richiedere la produzione delle certificazioni necessarie all’esercizio dei diritti di cui al primo comma.
Art. 11. (Attività culturali ricreative e assistenziali) Le attività culturali, ricreative ed essenziali promosse nell’azienda sono gestite da organismi formati a maggioranza
dai rappresentanti dei lavoratori.
Art. 12. (Istituti di patronato) Gli istituti di patronato e di assistenza sociale, riconosciuti dal ministero del lavoro e della previdenza sociale, per
l’adempimento dei compiti di cui al decreto legislativo del capo provvisorio dello Stato 29 luglio 1947, n. 804, hanno diritto di svolgere, su un piano di parità, la loro attività all’interno della azienda, secondo le modalità stabilitisi con accordi aziendali.
Art. 13. (Mansioni del lavoratore)
L’articolo 2103 del codice civile è sostituito dal seguente: Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acqusito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione delle retribuzione.
Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta, e l’assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi, egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad un’atra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.
Ogni patto contrario è nullo.
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TITOLO II DELLA LIBERTÀ SINDACALE
Art. 14. (Diritto di associazione e attività sindacale) Il diritto di costituire associazioni sindacali, di aderirvi e di svolgere attività sindacale, è garantito a tutti i lavoratori
all’interno dei luoghi di lavoro.
Art. 15. (Atti discriminatori) E’ nullo qualsiasi patto od atto diretto a: a) subordinare l’occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad una associazione
sindacale ovvero cessi di farne parte. b) licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei
provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero.
Le disposizione di cui al comma precedente si applicano altresì ai patti o atti diretti ai fini di discriminazione politica o religiosa.
Art. 16. (Trattamenti economici collettivi discriminatori) E’ vietata la concessione di trattamenti economici di maggior favore aventi carattere discriminatorio a mente
dell’art. 15. Il pretore, su domanda dei lavoratori nei cui confronti è stata atuttata la discriminazione di cui al comma precedente
o delle associazioni sindacali alle quali questi hanno dato mandato, accertati i fatti, condanna il datore di lavoro al pagamento, a favore del Fondo adeguamento pensioni, di una somma pari all’importo dei trattamenti economici di maggior favore illegittimamente corrisposti nel periodo massimo di un anno.
Art. 17. (Sindacati di comodo) E’ fatto divieto ai datori di lavoro e alle associazioni di datori di lavoro di costituire o sostenere, con mezzi finanziari o altrimenti, associazioni sindacai di lavoratori.
Art. 18. (Reintegrazione nel posto di lavoro) Ferma restando l’esperibilità delle procedure previste dall’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, il giudice,
con la sentenza con cui dichiara inefficacie il licenziamento ai sensi dell’articolo 2 della legge predetta o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro.
Il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno subito per il licenziamento di cui è stata accertata la inefficacia o l’invalidità a norma del comma precedente in ogni caso, la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione, determinata secondo i criteri di cui all’articolo 2121 del codice civile. Il datore di lavoro che non ottempera alla sentenza di cui al comma precedente è tenuto inoltre a corrispondere al lavoratore le retribuzioni dovutegli in virtù del rapporto di lavoro dalla data della sentenza stessa fino a quella della reintegrazione. Se il lavoratore entro trenta giorni dal ricevimento dell’invito del datore di lavoro non abbia ripreso servizio, il rapporto si intende risolto.
La sentenza pronunciata nel giudizio di cui al primo comma è provvisoriamente esecutiva. Nell’ipotesi del licenziamento dei lavoratori di cui all’articolo 22, su istanza congiunta del lavoratore e del
sindacato cui questi aderisce o conferisca mandato, il giudice, in ogni stato e grado del giudizio di merito, può disporre con ordinanza quando, quanto ritenga irrilevanti o insufficienti gli elementi di prova forniti dal datore di lavoro, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.
L’ordinanza di cui al comma precedente può essere impugnata con reclamo immediato al giudice medesimo che l’ha pronunciata. Si applicano le disposizioni dell’art, 178, terzo, quarto, quinto e sesto comma del codice di procedura civile.
L’ordinanza può essere revocata con la sentenza che decide la causa. Nell’ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui al quarto comma, non impugnata o confermata dal giudice che l’ha pronunciata, è tenuto anche, per ogni giorno di ritardo, al pagamento a favore del Fondo adeguamento pensioni di una somma pari all’importo della retribuzione dovuta al lavoratore.
TITOLO III DELL’ATTIVITÀ SINDACALE
Art. 19. (Costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali )
Rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituire ad iniziativa dei singoli lavoratori in ogni unità produttiva, nell’ambito:
a) delle associazioni aderenti alle confederazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale; b) delle associazioni sindacali, non affiliate alle predette confederazioni, che siano firmatarie di contratti collettivi
nazionali o provinciali di lavoro applicati nell’unità produttiva. Nell’ambito di una azienda con più unità produttive le rappresentanze sindacali possono istituire organi di coordinamento.
Art. 20. (Assemblea) I lavoratori hanno diritto a riunirsi, nella unità produttiva in cui prestano la loro opera, fuori dell’orario di lavoro,
nonché durante l’orario di lavoro, nei limiti di dieci ore annue, per le quali verrà corrisposta la normale retribuzione. Migliori condizioni possono essere stabilite dalla contrattazione collettiva.
Le riunioni – che possono riguardare la generalità dei lavoratori o gruppi di essi – sono indette, singolarmente o congiuntamente, dalle rappresentanze sindacali aziendali nell’unità produttiva, con ordine del giorno su materie di interesse sindacale e del lavoro e secondo l’ordine di precedenza delle convocazioni, comunicate al datore di lavoro.
Alle riunioni possono partecipare, previo preavviso al datore di lavoro, dirigenti esterni del sindacato che ha costituito la rappresentanza sindacale aziendale.
Ulteriori modalità per l’esercizio del diritto di assemblea possono essere stabilite dai contratti collettivi di lavoro, anche aziendali.
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Art. 21. (Referendum)
Il datore di lavoro deve consentire nell’ambito aziendale lo svolgimento, fuori dall’orario di lavoro, di referendum, sia generali che di categoria, su materie inerenti all’attività sindacale, indetti da tutte le rappresentanze sindacali aziendali tra i lavoratori, con diritto di partecipazione di tutti i lavoratori appartenenti all’unità produttiva e alla categoria particolarmente interessata.
Ulteriori modalità per lo svolgimento del referendum possono essere stabilite dai contratti collettivi di lavoro, anche aziendali.
Art. 22. (Trasferimento dei dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali)
Il trasferimento dall’unità produttiva dei dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali di cui al precedente articolo 19, dei candidati e dei membri di commissione interna può essere disposto solo previo nulla osta delle associazioni sindacali di appartenenza.
Le disposizioni di cui al comma precedente ed ai commi quattro, quinto, sesto e settimo dell’articolo 18 si applicano sino alla fine del terso mese successivo a quello in cui è stata elette la commissione interna per i candidati nelle elezioni della commissione stessa e sino alla fine dell’anno successivo a quello in cui è cessato l’incarico per tutti gli altri.
Art. 23. (Permessi retribuiti) I dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali di cui all’articolo 19 hanno diritto, per l’espletamento del loro
mandato, a permessi retribuiti. Salvo clausole più favorevoli dei contratti collettivi di lavoro hanno diritto ai permessi di cui al primo comma
almeno: a) un dirigente per ciascuna rappresentanza sindacale aziendale nelle unità produttive che occupano fino a 200
dipendenti della categoria per cui la sessa è organizzata; b) un dirigente ogni 300 o frazione di 300 dipendenti per ciascuna rappresentanza sindacale aziendale nelle unità
produttive che occupano fino a 3.000 dipendenti della categoria per cui la stessa è organizzata; c) un dirigente ogni 500 o frazione di 500 dipendenti della categoria per ci è organizzata la rappresentanza
sindacale aziendale nelle unità produttive di maggiori dimensioni, in aggiunta al numero minimo d cui alla precedenza lettera b)
I permessi retribuiti di cui al presente articolo non potranno essere inferiori a otto ore mensili nelle aziende di cui alla lettera b) e c) del comma precedente; nelle aziende di cui alla lettera a i permessi retribuiti non potranno essere inferiori ad un’ora all’anno per ciascuno dipendente.
Il lavoratore che intende esercitare il diritto di cui al primo comma deve darne comunicazione scritta al datore di lavoro di regola 24 ore prima, tramite le rappresentanze sindacali aziendali.
Art. 24. (Permessi non retribuiti) I dirigenti sindacali aziendali di cui all’articolo 23 hanno diritto a permessi non retribuiti per la partecipazione a
trattative sindacali o a congressi e convegni di natura sindacale, in misura non inferiore a otto giorni all’anno. I lavoratori che intendano esercitare il diritto di cui al comma precedente devono darne comunicazione scritta al
datore di lavoro di regola tre giorni prima, tramite le rappresentanze sindacali aziendali.
Art. 25. (Diritto di affissione) Le rappresentanze sindacali aziendali hanno diritto di affiggere, su appositi spazi, che il datore di lavoro ha
l’obbligo di predisporre in luoghi accessibili a tutti i lavoratori all’interno dell’unità produttiva, pubblicazioni, testi e comunicati inerenti a materie sindacali e del lavoro.
Art. 26. (Contributi sindacali) I lavoratori hanno diritto di raccogliere contributi e di svolgere opera di proselitismo per le loro organizzazioni
sindacali all’interno dei luoghi di lavoro, senza pregiudizio del normale svolgimento dell’attività produttiva. Le associazioni sindacali dei lavoratori hanno diritto di percepire, tramite ritenuta sul salario, i contributi sindacali
che i lavoratori intendono loro versare, con modalità stabilite dai contratti collettivi di lavoro, che garantiscano la segretezza del versamento effettuato dal lavoratore a ciascuna associazione sindacale.
Nelle aziende nelle quali il rapporto d lavoro non è regolato da contratti collettivi, il lavoratore ha diritto di chiedere il versamento del contributo sindacale all’associazione da lui indicata.
Art. 27. (Locali delle rappresentanze sindacali aziendali) Il datore di lavoro nelle unità produttive con almeno 200 dipendenti pone permanentemente a disposizione delle
rappresentanze sindacali aziendali, per l’esercizio delle loro funzioni, un idoneo locale comune all’interno della unità produttiva o nelle immediate vicinanze di essa.
Nelle unità produttive con un numero inferiore di dipendenti le rappresentanze sindaclai aziendali hanno diritto di usufruire, ove ne facciano richiesta, di un locale idoneo per le loro riunioni.
TITOLO IV DISPOSIZIONI VARIE E GENERALI
Art. 28. (Repressione della condotta antisindacale)
Qualora il datore di lavoro ponga in essere comportamenti diretti ad impedire o limitare l’esercizio della libertà e dell’attività sindacale nonché del diritto di sciopero, su ricorso degli organismi locali delle associazioni sindacali nazionalei che vi abbiano interesse, il pretore del luogo ove è posto in essere il comportamento denunziato, nei due giorni successivi, convocate le parti ed assunte sommarie informazioni, qualora ritenga sussistere la violazione di cui al presente comma, ordina al datore di lavoro, con decreto motivato e immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti.
L’efficacia esecutiva del decreto non può essere revocata fino alla sentenza con cui il tribunale definisce il giudizio istaurato a norma del comma successivo.
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Contro il decreto che decide sul ricorso è ammessa, entro 15 giorni dalla comunicazione del decreto alla parti, opposizione davanti al tribunale che decide con sentenza immediatamente esecutiva. Il datore di lavoro che non ottempera al decreto, di cui al primo comma, o alla sentenza pronunciata nel giudizio di opposizione è punito ai sensi dell’articolo 659 del codice penale.
Art. 29. (Fusione delle rappresentanze sindacali aziendali) Quando le rappresentanze sindacali aziendali di cui all’articolo 19 si sono costituite nell’ambito di due o più
delle associazioni di cui alle lettere a) e b) del primo comma dell’articolo predetto, nonché nella ipotesi di fusione di più rappresentanze sindacali, i limiti numerici stabiliti dall’articolo 23, secondo comma, si intendono riferiti a ciascuna delle associazioni sindacali unitariamente nella unità produttiva.
Quando la formazione di rappresentanze sindacali unitarie consegua alla fusione delle associazioni di cui alle lettere a) e b) del primo comma dell’articolo 19, i limiti numerici della tutela accordata ai dirigenti di rappresentanze sindacali aziendali, stabiliti in applicazione dell’articolo 23, secondo comma, ovvero del primo comma del presente articolo restano immutati
Art. 30. (Permessi per i dirigenti provinciali e nazionali) I componenti degli organi direttivi, provinciali e nazionali, delle associazioni di cui all’articolo 19 hanno diritto a
permessi retribuiti, secondo le norme dei contratti di lavoro, per la partecipazione alle riunioni degli organi suddetti.
Art. 31. (Aspettativa dei lavoratori chiamati a funzioni pubbliche elettive o a ricoprire cariche sindacali provinciali e nazionali)
I lavoratori che siano eletti membri del parlamento nazionale o di assemblee regionali ovvero siano chiamati a ad altre funzioni pubbliche elettive possono, a richiesta, essere collocati in aspettativa non retribuita, per tutta la durata del loro mandato.
La medesima disposizione si applica ai lavoratori chiamati a ricoprire cariche sindacali provinciali e nazionali. I periodi di aspettativa di cui ai precedenti commi sono considerati utili, a richiesta dell’interessato, ai fini del riconoscimento del diritto e della determinazione della misura della pensione a carico della assicurazione generale obbligatoria di cui al regio decreto-legge 4 ottobre 1935, n. 1827, e successive modifiche ed integrazioni, nonché a carico di enti, fondi, casse e gestioni per forme obbligatorie di previdenza sostitutive della assicurazione predetta, o che ne comportino comunque l’esonero.
Durante i periodi di aspettativa l’interessato, in caso di malattia, conserva il diritto alle prestazioni a carico dei competenti enti preposti alla erogazioni delle prestazioni medesime. Le disposizioni di cui al terzo e al quarto comma non si applicano qualora a favore dei lavoratori siano previste forme previdenziali per il trattamento di pensione e per malattia, in relazione all’attività espletata durante il periodo di aspettativa.
Art. 32. (Permessi ai lavoratori chiamati a funzioni pubbliche elettive) I lavoratori eletti alla carica di consigliere comunale o provinciale che non chiedano di essere collocati in
aspettativa sono, a loro richiesta, autorizzati ad assentarsi dal servizio per tempo strettamente necessario all’espletamento del mandato, senza alcuna decurtazione della retribuzione.
I lavoratori eletti alla carica di sindaco o di assessore comunale, ovvero di presidente di giunta provinciale o di assessore provinciale, hanno diritto anche a premessi non retribuiti per un minimo di trenta ore mensili.
TITOLO V NORME SUL COLLOCAMENTO
Art. 33. (Collocamento)
La commissione per il collocamento, di cui all’articolo 26 della legge 29 aprile 1949, n. 264, è costituita obbligatoriamente presso le sezioni zonali, comunali e frazionali degli uffici provinciali del lavoro e della massima occupazione, quando ne facciano richiesta le organizzazioni sindacali dei lavoratori più rappresentative.
Alla nomina della commissione provvede il direttore dell’ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione, il quale, nel richiedere la designazione dei rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro, tiene conto del grado di rappresentatività delle organizzazioni sindacali e assegna loro un termine di 15 giorni, decorso il quale provvede d’ufficio.
La commissione è presieduta dal dirigente della sezione zonale, comunale, frazionale, ovvero da un suo delegato, e delibera a maggioranza dei prestiti. In caso di parità prevale il voto del presidente.
La commissione ha il compito di stabilire e aggiornare la graduatoria delle precedenze per l’avviamento al lavoro, secondo i criterio di cui al quarto comma dell’articolo 15 della legge 29 aprile 1949, n. 264.
Salvo il caso nel quale sia ammessa la richiesta nominativa, la sezione di collocamento, nella scelta del lavoratore da avviare al lavoro, deve uniformarsi alla graduatoria di cui al comma precedente, che deve essere esposta al pubblico presso la sezione medesima e deve essere aggiornata ad ogni chiusura dell’ufficio con la indicazione degli avviati.
Devono altresì essere esposte al pubblico le richieste numeriche che pervengano dalle ditte. La commissione ha anche il compito di rilasciare il nulla osta per l’avviamento al lavoro ad accoglimento di richieste nominative o di quelle di ogni altro tipo che siano disposte dalle leggi o dai contratti di lavoro. Nei casi di motivata urgenza, l’avviamento è provvisoriamente autorizzato dalla sezione di collocamento e deve essere convalidato dalla commissione di cui al primo comma del presente articolo entro dieci giorni. Dei dinieghi di avviamento al lavoro per richiesta nominativa deve essere data motivazione scritta su apposito verbale di duplice copia, una da tenere presso la sezione di collocamento e l’altra presso il direttore dell’ufficio provinciale del lavoro. Tale motivazione scritta deve essere immediatamente trasmessa al datore di lavoro richiedente.
Nel caso in cui la commissione neghi la convalida ovvero non si pronunci entro venti giorni dalla data della comunicazione di avviamento, gli interessati possono inoltrare ricorso al direttore dell’ufficio provinciale del lavoro, il quale decide in via definitiva, su conforme parere della commissione di cui all’articolo 25 della legge 29 aprile n. 264.
I turni di lavoro di cui all’articolo 16 della legge 29 aprile 1949, n. 264, sono stabiliti dalla commissione e in nessun caso possono essere modificati dalla sezione.
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Il direttore dell’ufficio provinciale annulla d’ufficio i provvedimenti di avviamento e di diniego di avviamento al lavoro in contrasto con le disposizioni di legge. Contro le decisioni del direttore dell’ufficio provinciale del lavoro è ammesso ricorso al ministero per il lavoro e la previdenza sociale.
Per il passaggio del lavoratori dall’azienda nella quale è occupato ad un’altra occorre il nulla osta della sezione di collocamento competente.
Ai datori di lavoro che non assumono i lavoratori peri il tramite degli uffici di collocamento, sono applicate le sanzioni previste dall’articolo 38 della presente legge.. 264, rimangono in vigore in quanto non modificate dalla presente legge.
Art. 34. (Richieste nominative di manodopera)
A decorrere dal novantesimo giorno dell’entrata in vigore della presente legge, le richieste nominative di manodopera da avviare al lavoro sono ammesse esclusivamente per i componenti del nucleo familiare del datore di lavoro, per i lavoratori di concetto e per gli appartenenti a ristrette categorie di lavoratori altamente specializzati, da stabilirsi con decreto del ministro peri l lavoro e la previdenza sociale, sentita la commissione centrale di cui alla legge 29 aprile 1949, n. 264.
TITOLO VI DISPOSIZIONI FINALI E PENALI
Art. 35. (Campo di applicazione)
Per le imprese industriali e commerciali, le disposizioni dell’articolo 18 e del titolo III, ad eccezione del primo comma dell’articolo 27, della presente legge si applicano a ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo che occupa più di quindici dipendenti. Le stesse disposizioni si applicano alle imprese agricole che occupano più di cinque dipendenti.
Le norme suddette si applicano, altresì, alle imprese industriali e commerciali che nell’ambito dello stesso comune occupano più di quindici dipendenti ed alle imprese agricolo che nel medesimo ambito territoriale occupano più di cinque dipendenti anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti.
Ferme restando le norme di cui agli articoli 1, 8, 9, 14, 15, 16 e 17, i contratti collettivi di lavoro provvedono ad applicare i principi di cui alla presente legge alle imprese di navigazione per il personale navigante.
Art. 36. (Obblighi dei titolari di benefici accordati dallo stato e degli appaltatori di opere pubbliche) Nei provvedimenti di concessione di benefici accordati ai sensi delle vigenti leggo dello stato a favore di
imprenditori che esercitano professionalmente un’attività economica organizzata e nei capitolati di appalto attinenti all’esecuzione di opere pubbliche, deve essere inserita la clausola esplicita determinante l’obbligo per il beneficiario o appaltatore di applicare o di far applicare nei confronti dei lavoratori dipendenti condizioni non inferiori a quelle risultanti dai contratti collettivi di lavoro della categoria e della zona.
Tale obbligo deve essere osservato sia nella fase di realizzazione degli impianti o delle opere che in quella successiva, per tutto il tempo in cui l’imprenditore beneficia finanziarie e creditizie concesse dallo stato ai sensi delle vigenti disposizioni di legge.
Ogni infrazione al suddetto obbligo che sia accertata dall’Ispettorato del lavoro viene comunicata immediatamente ai ministeri nella cui amministrazione sia stata disposta la concessione del beneficio o dell’appalto. Questi adotteranno le opportune determinazioni, fino alla revoca del beneficio, e nei casi più gravi o nel caso di recidiva potranno decidere l’esclusione del responsabile, per un tempo fino a cinque anni, da qualsiasi ulteriore concessione di agevolazioni finanziarie o creditizie ovvero da qualsiasi appalto.
Le disposizioni di cui ai commi precedenti si applicano anche quando si tratti di agevolazioni finanziarie o creditizie ovvero di appalti concessi da enti pubblici, ai quali l’Ispettore del lavoro comunica direttamente le infrazioni per l’adozione delle sanzioni.
Art. 37. (Applicazione ai dipendenti da enti pubblici) Le disposizioni della presente legge si applicano anche ai rapporti di lavoro e di impiego dei dipendenti da enti
pubblici che svolgono esclusivamente o prevalentemente attività economica. Le disposizioni della presente legge si applicano altresì ai rapporti di impiego dei dipendenti degli altri enti pubblici, salvo che la materia sia diversamente regolata da norme speciali.
Art. 38. (Disposizioni penali) Le violazioni degli articoli 2, 4, 5, 6, 8 e 15, primo comma, lettera a), sono punite, salvo che il fatto non costituisca
più grave reato, con l’ammenda dal lire 100.000 a lire un milione o con l’arresto da 15 giorni ad un anno. Nei casi più gravi le pene dell’arresto e dell’ammenda sono applicate congiuntamente.
Quando, per le condizioni economiche del reo, l’ammenda stabilita nel primo comma può presumersi inefficace anche se applicata nel massimo, il giudice ha la facoltà di aumentarlo fino al quintuplo.
Nei casi previsti dal secondo comma, l’autorità giudiziaria ordina la pubblicazione della sentenza penale di condanna nei modi stabiliti dall’articolo 36 del codice penale.
Art. 39. (Versamento delle ammende al fondo adeguamento pensioni) L’importo delle ammende è versato al fondo adeguamento pensioni dei lavoratori.
Art. 40. (Abrogazione delle disposizioni contrastanti)
Ogni disposizione in contrasto con le norme contenute nella presente legge è abrogata. Restano salve le condizioni dei contratti collettivi e degli accordi sindacali più favorevoli ai lavoratori.
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Art. 41. (Esenzioni fiscali) Tutti gli atti e documenti necessari per la attuazione della presente legge e per l’esercizio dei diritti connessi,
nonché tutti gli atti e documenti relativi ai giudizi nascenti dalla sua applicazione sono esenti da bollo, imposte di registro o di qualsiasi altra specie e da tasse. La presente legge, munita del sigillo dello stato, sarà inserita nella raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti della Repubblica Italiana. E’ fatto obbligo a chiudere spetti di osservanza e di farla osservare come legge dello stato.
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DOC N. 4 “IL D.d.L. SMURAGLIA”
NORME DI TUTELA DEI LAVORI “ATIPICI” SENATO DELLA REPUBBLICA – XIII LEGISLATURA DISEGNO DI
LEGGE N. 2049. APPROVATO DAL SENATO DELLA REPUBBLIC A IL 4 FEBBRAIO 1999.
Articolo 1 Ambito di applicazione
1. Ai rapporti di collaborazione, di carattere non occasionale, coordinati con l’attività del committente, svolti senza vincolo di subordinazione, in modo personale e senza impiego di mezzi organizzati e a fronte di un corrispettivo, si applicano le seguenti disposizioni: a) gli articoli 1, 5, 8, 14 e 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300; b)la legge 9 dicembre 1977, n. 903, e la legge 10 aprile 1991, n. 125; c) le disposizioni in materia di sicurezza e igiene del lavoro previste dal decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, e successive modificazioni, nonché della direttiva 91/383/CEE del Consiglio, del 25 giugno 1991, in quanto compatibili con le modalità di prestazione lavorativa. 2. L’eventuale ulteriore individuazione e definizione delle modalità di espletamento delle prestazioni di cui al comma 1 è demandata ai contratti o accordi collettivi nazionali stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. 3. Per i rapporti di cui al comma 1, non può essere imposto o comunque previsto alcun tipo di orario di lavoro, salvo i casi in cui la specificità della prestazione richieda l’indicazione di una determinata fascia orari. In caso di particolari esigenze del committente può essere concordata la fissazione di un temine per l’esigenze di una parte specifica della prestazione pattuita. 4. I contratti o accordi collettivi nazionali stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale possono prevedere l’estensione, in tutto o in parte. Delle disposizioni della presente legge anche a rapporti di durata inferiore a quella minima prevista dall’articolo 3, comma1, lettera e), che non abbaino carattere di mera occasionalità.
Articolo 2 Diritti di informazione e formazione
1. Il prestatore di lavoro di cui l’articolo 1, comma 1, ha diritto di ricevere le informazioni previste nei contratti collettivi di lavoro a favore dei lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato, nonché le informazioni relative alla tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro, di cui all’articolo 21 del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, e successive modifiche. 2. Il committente, imprenditore pubblico o privato, è tenuto ad organizzare i proprio flussi di comunicazione in modo da garantire a tutti i lavoratori, quale che sia la natura del rapporto di lavoro, pari condizioni nell’accesso all’informazione attinente all’attività lavorativa. 3. Per il finanziamento di iniziative di formazione professionale e di formazione in materia di salute e di sicurezza sul lavoro, i contratti o accordi nazionali stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale possono prevedere un contributo a carico dei committenti in percentuale al compenso corrisposto ai lavoratori di cui all’articolo 1. I contributi affluiranno, con apposita evidenza contabile, nel Fondo che verrà definito con decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, da emanare entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, nell’ambito del complessivo riordino della formazione, dell’aggiornamento e della riqualificazione professionale. 4. Con apposito provvedimento, da emanare entro sei mesi dalla data di entrata in vigore delle presente legge, il Governo potrà prevedere agevolazioni fiscali per le attività formative svolte dai committenti e documentate. Agli oneri relativi, nel limite massimo di lire 5 miliardi annue e a partire dal 1999, si fa fronte con le risorse disponibili del Fondo di cui all’articolo 1, comma 7, del decreto-legge 20 maggio 1993, n. 148, convertito, con modificazioni, della legge 19 luglio 1993, n. 626.
Articolo 3 Contenuto dei contratti
1. I contratti di cui all’articolo 1, comma 1, devono essere stipulati in forma scritta e devono indicare: a) l’oggetto della prestazione; b) l’entità del corrispettivo, che in ogni caso deve essere proporzionato alla qualità e quantità del lavoro, e comunque non inferiore ai minimi previsti, per prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva del settore o della categoria affine, ovvero, in mancanza, ai compensi medi in uso per prestazioni analoghe rese in forma di lavoro autonomo; c) i tempi di pagamento del corrispettivo e la disciplina dei rimborsi spese; d) l’eventuale facoltà del prestatore di lavoro, previa accettazione del committente, di farsi sostituire temporaneamente da persona resa nota al committente stesso o di lavorare in coppia, dando luogo, in entrambi i casi, ad un unico rapporto con responsabilità solidale di ciascuno dei prestatori per l’esercizio dell’intera opera o servizio; e) la durata del contatto, che in ogni caso non può essere inferiore a tre mesi salvo che per i rapporti destinati per loro particolare natura a concludersi in un periodo di tempo inferiore; f) l’indicazione dei motivi che possono giustificare la cessazione anticipata del rapporto, ove non ancora individuati dalla contrattazione collettiva nazionale;
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g) il rinvio ai contratto o accordi collettivi nazionali stipulato dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale per la definizione di modalità, forme e termini di legittima sospensione del rapporto, in caso di malattia o infortunio, nonché l’eventuale previsione di penalità di natura amministrativa e civile nel caso di recesso ad opera di una delle parti, senza giustificate ragioni, prima del termine convenuto o successivamente propagato.
Articolo 4 Cessazione di rapporto
1. I contratti o accordi collettivi nazionali stipulati dalle rappresentanze dei datori di lavoro e dalle organizzazioni dei lavoratori, comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, possono prevalere, in relazione alla cessazione dei rapporti di cui all’articolo 1: a) il diritto del prestatore di lavoro ad una indennità di fine rapporto; b) il diritto di preferenza del prestatore di lavoro, rispetto ad altri aspiranti, nei casi in cui il committente intenda procedere alla stipulazione di un contratto di tipo analogo e per lo stesso tipo di prestazione, qualora lo stesso prestatore di lavoro non abbia subito fondate contestazioni circa la prestazione effettuata e non sia stata anticipata, per ragioni giustificate ed obbiettive, la cessazione del rapporto di lavoro rispetto alla sua durata conttrattualmente prevista.
Articolo 5 Regime fiscale
1. Il regime fiscale applicabile ai rapporti di cui all’articolo 1 è quello previsto dalla lettera a) del comma 2 dell’articolo 49 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917.
Articolo 6 Previdenza
1. Tutti coloro che svolgono le prestazioni di cui all’articolo 1 sono iscritti alla gestione speciali di cui all’aticolo 58, comma 16, della legge 27 dicembre 1997, n. 499, anche per quanto riguarda la tutela relativa alla maternità, definita nei termini di cui al decreto ministeriale 27 maggio 1998, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 171 del 24 luglio 1998. Alla stessa gestione, a decorrere della data di entrata in vigore della presente legge, sono iscritti gli incaricati alla vendita a domicilio, di cui all’articolo 36 della legge 11 giugno 1971, n. 426, soltanto qualora il reddito annuo derivante da tale attività sia superiore all’importo, nel medesimo anno, dell’assegno sociale di cui all’articolo 3, comma 6, della legge 8 agosto 1995, n. 335. Ai fini della copertura dell’onere derivante dal precedente periodo, il Ministero delle finanze, con propri decreti, di concerto con il Ministro del tesoro, del bilanci e della programmazione economica, provvede, almeno ogni due anni, alla variazione delle aliquote e delle tariffe di cui all’articolo 2, commi 151, 152, 153, della legge 23 dicembre 1996, n. 662.
Articolo 7 Ricongiunzione di periodi contributivi e tutela in caso di malattia ed infortunio
1. Il Governo è delegato ad emanare, entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi volti ad assicurare, per coloro che svolgono le prestazioni lavorative di cui all’articolo 1, la ricongiunzione di tutti i periodi contributivi e un’adeguata copertura, nei casi di legittima sospensione del rapporto, per i trattamenti per malattia ed infortunio. 2. I decreti legislativi di cui al comma 1 sono emanati secondo i seguenti criteri direttivi: a) attuare gradualmente, nell’ambito di un percorso di omogeneizzazione dei diversi regimi previdenziali, la possibilità di ricongiunzione di posizioni assicurative frazionate o realizzate con enti differenti secondo le modalità previste dall’attuale disciplina per i soggetti iscritti all’Associazione Generale Obbligatoria (AGO); b) nel disciplinare l’estensione della tutela in caso di malattia ed infortunio, utilizzare come parametro di riferimento quanto stabilito in materia per il lavoro dipendente; 3. Agli oneri derivanti dall’attuazione dei commi 1 e 2, si provvede mediante corrispondente adeguamento del contributo alla gestione speciale di cui all’articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, come modificato dall’articolo 59, comma 16, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, determinato con decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di concerto con quello del tesoro, del bilancio e della programmazione economica.
Articolo 8 Comitato amministratore del Fondo
1. Per la gestione speciale di cui all’articolo 6, è costituito un Fondo gestito da un comitato amministratore, composto di tredici membri, di cui due designati dal Ministero del lavoro e della previdenza sociale, cinque designati dalle associazioni datoriali e del lavoro autonomo in rappresentanza dell’industria, della piccola impresa, artigianato, commercio, agricoltura e sei eletti dagli iscritti al Fondo. Il comitato amministratore opera avvalendosi delle strutture e di personale dell’INPS. I componenti del comitato amministratore durano in carica quattro anni. 2. Il presidente del comitato amministratore è eletto tra i componenti eletti dagli iscritti al Fondo. 3. Entro sessanta giorni dalla entrata in vigore della presente legge, il Ministero del lavoro e della previdenza sociale emana il regolamento attuativo del presente articolo e provvede quindi alla convocazione delle elezioni, informando tempestivamente gli iscritti della scadenza elettorale e del relativo regolamento elettorale, nonché istituendo i seggi presso le sedi INPS. 4. Ai componenti del comitato amministratore è corrisposto un gettone di presenza nei limiti finanziari complessivi annui di cui al comma 5. 5. All’onere derivante dall’applicazione del presente articolo, valutato in lire 50 milioni per ciascuno degli anni 1999 e 2000 e a regime, si provvede mediante corrispondente riduzione dello stanziamento iscritto, ai fini del bilancio triennale 1999-2001, nell’ambito dell’unità revisionale di bade di parte corrente “Fondo speciale” dello stato di previsione del Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione economica, parzialmente utilizzando l’accantonamento relativo al Ministero del lavoro e della previdenza sociale.
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6. Il Ministero del tesoro, del bilanci o e della programmazione economica è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio.
Articolo 9 Diritti sindacali
1. Competono ai prestatori di lavoro di cui all’articolo 1: a) il diritto di organizzarsi in associazioni di categoria o di settore o di ramo di attività; b) il diritto di aderire ad organizzazioni sindacali di settore o di categoria, nonché ogni altro diritto sindacale compatibile con la particolare struttura del rapporto; c) il diritto di aderire ad organizzazioni o associazioni anche inercategoriali, conferendo ad esse specifici poteri di rappresentanza; d) il diritto di partecipare alle assemblee indette dalle rappresentanze sindacali aziendali, all’interno delle unità produttive delle aziende. 2. Ulteriori forme di rappresentanza e di esercizio delle attività sindacali potranno essere individuate in sedi di contrattazione collettiva nazionale.
Articolo 10 Sanzioni
1. Il controllo sull’osservanza delle norme della presente legge compete al Ministero del lavoro e della previdenza sociale, che lo esercita attraverso l’organo competente del territorio. L’inosservanza delle disposizioni di cui all’articolo 3 comporta soltanto una sanzione pecuniaria di importo non inferiore, nel minimo, alla totalità dei compensi dovuti fino al momento dell’accertamento e, nel massimo, al doppio di tale importo, fermo comunque restando il limite massimo cui all’articolo 10 della legge 24 novembre 1981, n. 689. 2. L’organo competente ad emanare l’ordinanza di ingiunzione di cui all’articolo 18 della citata legge n. 689 del 1981 è la Direzione provinciale del lavoro competente per territorio.
Articolo 11 Conversione del rapporto
1. Qualora venga accertato dagli organi competenti con provvedimento esecutivo che il rapporto costituito ai sensi dell’articolo 1 è in realtà di lavoro subordinato, esso si converte automaticamente in rapporto a tempo indeterminato, con tutti gli effetti conseguenti. Si applica, inoltre, la sanzione prevista dall’articolo 10. 2. Le organizzazioni non lucrative di utilità sociale, che abbiano provveduto, alla data di entrata in vigore della presene legge, alla trasformazione dei rapporti di lavoro di cui al comma 1, sono esonerate dal pagamento dei contributi e degli oneri accessori derivanti da accertamenti effettuati dall’Istituto nazionale della previdenza sociale successivamente a tale trasformazione e conseguenti al mancato riconoscimento, da parte del predetto Istituto, dell’appartenenza dei rapporti di lavoro alla tipologia di cui alla presente legge. Gli eventuali provvedimenti amministrativi ed i giudizi ancora pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge sono dichiarati estinti, con integrale compensazione delle spese. Alle minori entrate derivanti dal presente comma, quantificate in lire 35 miliardi per il 1999, si fa fronte mediante corrispondente riduzione dello stanziamento iscritto, ai fini del bilancio triennale 1999-2001, nell’unità previsionale di base di parte corrente “Fondo speciale” dello stato di previsione del Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione economica per il 1999, allo scopo parzialmente utilizzando l’accantonamento relativo alla Presidenza del Consiglio dei ministri. 3. E’ fatto divieto al committente di trasformare contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato, in essere presso unità produttive del medesimo, in contratti di cui all’articolo 1, qualora non ricorrano documentate esigenze di ristrutturazione aziendale.
Articolo 12 Conversione volontaria del rapporto
1. Qualora il committente, che ha in atto rapporti qualificati formalmente come appartenenti alla tipologia di cui alla presente legge, decida, previo consenso del lavoratore, di farli rientrare nello schema di cui all’articolo 2094 del codice civile, il rapporto godrà dei benefici, sgravi o incentivi eventualmente riservati alle nuove assunzioni.
Articolo 13 Competenza per le controversie
1. Le controversie relative ai contratti di cui all’articolo 1 rientrano nella competenza funzionale del pretore del lavoro; per il procedimento, si applicano le disposizioni di cui agli articoli 409 e seguenti del codice di procedura civile.
Articolo 14 Coordinamento con la normativa comunitaria
1. Il Governo è delegato ad emanare, entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, norme di coordinamento, per quanto riguarda i prestatori di lavoro di cui all’articolo 1 della presente legge, del decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 152, in attuazione della direttiva comunitaria 91/533 CEE, recante obblighi di informazione sulle condizioni applicabili al contratto o al rapporto di lavoro, per le parti compatibili con la struttura dei rapporti di cui al predetto articolo. 2. Il Governo è altresì delegato ad emanare un decreto legislativo, entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, che adegui alla particolari caratteristiche dei lavoratori di cui all’articolo 1 i sistemi di formazione previsti dalle leggi vigenti, nell’ambito degli stanziamenti previsti dalle singole norme e senza oneri aggiuntivi per il bilancio dello Stato. 3. Gli schemi dei decreti legislativi sono sottoposti alle Commissioni parlamentari competenti, che esprimono il parere entro trenta giorni. Trascorso detto termine, il decreto o i decreti potranno comunque essere emanati. 4. Criteri fondamentali per la delega sono i seguenti: pieno rispetto della normativa vigente, interna e comunitaria; considerazione della peculiarità dei rapporti in questione, con l’obbiettivo di ottenere il maggior risultato per la tutela della salute, per il riconoscimento dei diritti di informazione, per la formazione permanente e continua senza aggravi per le
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imprese. In particolare, all’interno del sistema formativo devono individuarsi modalità tali da consentire la migliore qualificazione professionale dei lavoratori di cui all’articolo 1.
Articolo 15 Privilegi
1. All’articolato 2751-bis, primo comma, del codice civile, dopo il numero 5-bis, è aggiunto il seguente: “5-ter) i compensi dovuti ai prestatori di attività lavorativa con carattere di continuità, non riconducibili alla tipologia del rapporto di lavoro subordinato”.
Articolo 16 Verifica dell’efficacia della legge
1. Trascorsi due anni dalla data di entrata in vigore della presente legge, il Ministero del lavoro e della previdenza sociale riferisce, entro novanta giorni, alle competenti Commissioni parlamentari del Senato della Repubblica e della Camera di deputati sull’attuazione della legge stessa, sulla sua concreta efficacia e sugli effetti prodotti, sulla base dei dati e delle informazioni preventivamente acquisiti dagli organi di vigilanza.
Articolo 17 Certificazione dei rapporti
1. Al fine di ridurre il contenzioso in materia di qualificazione del rapporto di lavoro di cui all’articolo 1, comma 1, il Governo è delegato ad emanare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, disposizioni in materia di certificazione volontaria del relativo contratto stipulato tra le parti, inspirate ai seguenti principi e criteri direttivi: a) individuazione dell’organo preposto alla certificazione nell’organismo bilaterale di settore istituito dai contatti o accordi collettivi nazionali stipulati dalle organizzazioni sindacai dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale ovvero, in caso di sua mancata costituzione, nella Direzione provinciale del lavoro, con previsione della presenza paritetica delle predette organizzazioni sindacali; b) definizione delle modalità di organizzazione delle sedi di certificazione e di tenuta della relativa documentazione; c) indicazione del contenuto della certificazione, da riferire alla descrizione dei dati di fatto risultanti dal contratto scritto di cui all’articolo 3 e dalle dichiarazioni dei contraenti anche in relazione alle tipologie contrattuali ed alle modalità di svolgimento della prestazione, in rapporto a quanto eventualmente definito dalla contrattazione collettiva di cui all’articolo 1, comma 2; d) in caso di controversia sulla effettiva corrispondenza delle mansioni in concreto svolte e delle modalità effettive della prestazione rispetto a quanto risultante dalla documentazione, ovvero sulla qualificazione del contratto, valutazione dal parte dell’autorità giudiziaria competente anche del comportamento tenuto dalle parti in sede di certificazione; e) verifica dell’attuazione delle disposizioni, dopo dodici mesi dalla data della loro entrata in vigore, da parte del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, sentite le organizzazioni sindacali di cui alla lettera a). 2. Gli schemi dei decreti legislativi di cui al comma 1 sono trasmessi alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica almeno quaranta giorni prima della scadenza prevista per l’esercizio della delega; le Commissioni parlamentari competenti per materia si esprimono entro trenta giorni dalle data di trasmissione. Qualora il termine previsto per il parere delle Commissioni scada nei trenta giorni che precedono la scadenza del termine previsto al comma 1 per l’esercizio della delega o successivamente, quest’ultimo è prorogato di sessanta giorni. 3. Entro diciotto mesi dalla entrata in vigore delle disposizioni di cui al comma 1, il Governo può emanare, anche in base alla verifica effettuata ai sensi del comma 1, lettera e), eventuali disposizioni modificative con le medesime modalità di cui al comma 2.
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DOC N. 5 “LA BOZZA BIAGI”
PROGETTO PER LA PREDISPOZIONE DI UNO “STATUTO DEI LAVORI”- A CURA DI MARCO BIAGI, ARTICOLATO NORMATIV O:
BOZZA PRELIMINARE 25 MARZO 1998 .
TITOLO I NORME DI TUTELA DELLA LIBERTA’ E DIGNITA’ DEI LAVOR ATORI
Capo I
DISPOSIZIONI GENERALI
Articolo 1 Campo di applicazione
1. Ai fini della individuazione del capo di applicazione del presente titolo per lavoratore si intende ogni persona che, con apporto prevalentemente personale, presta la propria opera a favore di terzi, mediante contratto di lavoro autonomo, di lavoro subordinato o qualsiasi altro contratto, tipico o atipico, indipendentemente dalla durata del contratto stesso e dall’ambito aziendale o extra aziendale in cui si svolge la prestazione lavorativa. Rientrano altresì nel campo di applicazione del presente titolo i soci lavoratori di cooperative di produzione e lavoro o di società anche di fatto, le persone che svolgono una attività lavorativa, con o senza corrispettivo, anche al sono fine di apprendere un mestiere, un’arte o una professione, che svolgono lavori di pubblica utilità o di volontariato, che frequentano corsi di formazione o addestramento professionale o che partecipano a gare di appalto, a concorsi pubblici o privati o ad alte forme di selezione. 2. Le disposizioni contenute nel presente titolo no n pregiudicano l’applicazione di norme di legge, di regolamento e di contratto collettivo o individuale più favorevoli per il lavoratore. 3. I diritti derivanti dalle disposizioni contenute nel presente titolo non possono essere oggetto di rinunzie o transazioni tra le parti neppure in sede di certificazione del rapporto di lavoro di cui al Titolo VII della presente legge.
Capi II DELLA LIBERTA’, DIGNITA’ E RISERVATEZZA DEI LAVORAT ORI
Articolo 2
Libertà di opinione e dignità dei lavoratori 1. Tutti i lavoratori, senza distinzione di opinioni politiche, sindacali o di fede religiosa, hanno diritto, nei luoghi di lavoro dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero, nel rispetto dei principi della Costituzione e delle norme di legge. 2. A salvaguardia della libertà e dignità dei lavoratori trovano applicazione, in quanto compatibili con la natura del rapporto e con le modalità di esecuzione della prestazione lavorativa, le disposizioni di cui agli articoli 2, 3, 4, e 6 della Legge 20 giugno 1979, n. 300. 3. Nei rapporti svolti in regime di telelavoro i dati raccolti per la valutazione del singolo lavoratore, anche a mezzo di sistemi informatici o telematici, non costituiscono violazione dell’articolo 4 della Legge 20 maggio 1970, n. 300, in quanto siano strumentali allo svolgimento del rapporto di lavoro.
Articolo 3
Molestie sessuali in ambito lavorativo 1. Le molestie sessuali nei luoghi di lavoro o in ambito lavorativo costituiscono una offesa alla dignità della persona e danno luogo all’applicazione delle sanzioni di cui all’articolo 37 quando il comportamento considerato: a) sia indesiderato, sconveniente o offensivo per la persona che lo subisce ovvero crei un ambiente di lavoro intimidatorio, ostile o unanime; b) il suo rigetto o la sua accettazione vengano assunti esplicitamente o implicitamente dai datori di lavoro, dai superiori, dai colleghi, dai tutori o dai committenti a motivo di decisioni interenti alla formazione professionale, all’assunzione di un lavoratore, al mantenimento del posto di lavoro o dell’incarico, alla promozione, alla retribuzione o di qualsiasi altra decisione attinente all’impiego o all’accesso al lavoro. 2. Per la molestia sessuale si intende qualsiasi comportamento a connotazione sessuale o altro tipo di comportamento basato sul sesso, compreso quello di datori di lavoro, superiori, colleghi, tutori o committenti, che offenda la dignità del lavoratore o della lavoratrice. 3. Per la repressione delle molestie sessuali in ambito lavorativo si raccomanda l’adozione del “Codice di condotta relativo ai provvedimenti da adottare nella lotta contro le molestie sessuali” allegato alla Raccomandazione della Commissione delle Comunità Europee del 27 novembre 1991, n. 131/92/CEE. 4. Il rispetto o il mancato rispetto delle indicazioni contenute nel Codice di condotta di cui al comma precedente da parte del datore di lavoro, pubblico o privato, del formatore, del selezionatore, del committente o comunque dell’utilizzatore della prestazione lavorativa costituisce elemento apprezzabile dal giudice sul piano probatorio in sede di applicazione delle sanzioni di cui all’articolo 41.
Articolo 4 Divieto di indagini sulle opinioni
1. Ferme restando le disposizioni di cui alla Legge 31 dicembre 1996, n. 675, sulla tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali, è fatto divieto al datore di lavoro, al fornitore, al selezionatore, al committente o comunque all’utilizzatore della prestazione lavorativa di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche,
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religiose e sindacali, sulle condizioni di salute, sui comportamenti sessuali del lavoratore, nonché su ogni altra circostanza non rilevante ai fini della valutazione della attitudine professionale del lavoratore. 2. Per le imprese di fornitura di lavoro temporaneo di cui agli articoli 2 e 11, comma 3, della Legge 24 giugno 1997, n. 196, nonché per le agenzie private di collocamento di cui al decreto legislativo 23 dicembre 1997, n. 469, l’avvenuto accertamento in sede giudiziale, anche in primo grado di giudizio della raccolta o utilizzazione di dati personali non rilevanti ai fini della valutazione delle attitudini professionali del lavoratore comporta, oltre all’applicazione delle disposizioni di cui all’articolo 37, la sospensione per un anno dall’autorizzazione all’esercizio dell’attività di fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo e di mediazione da parte del competente organo amministrativo. Nei casi più gravi o in caso di recidiva è disposta da parte dello stesso organo amministrativo competente la revoca dell’autorizzazione.
Capo III ATTI DISCRIMINATORIO
Articolo 5
Atti o patti a carattere discriminatorio 1. E’ nullo qualsiasi atto o patto a carattere discriminatorio che comporti la cessazione dei contratti di cui al presente titolo o che comunque produca o possa produrre un effetto pregiudiziale discriminatorio, anche in via indiretta, il lavoratore a causa: a) del sesso, della razza, della lingua, della nazionalità di origine ovvero delle sue condizioni, sociali o di salute; b) della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero legittimo; c) delle sue opinioni politiche o religiose; d) della età. 2. Per gli atti o patti che discriminano il lavoratore o gruppi di lavoratori a causa del sesso trovano in ogni caso applicazione, in quanto compatibili con la natura del rapporto e le modalità di esecuzione della prestazione lavorativa, le disposizioni di cui alla Legge 9 dicembre 1997, n. 903 e alla Legge 10 aprile, n. 125. 3. Per i trattamenti economici collettivi discriminatori trovano in ogni caso applicazione, in quanto compatibili con la natura del rapporto e con le modalità di esecuzione della prestazione lavorativa, le disposizioni di cui all’articolo 16 della Legge 20 maggio 1970, n. 300.
TITOLO II NORME DI TUTELA DELLA SALUE E SICUREZZA DI LAVORATORI
Capo I
DISPOSIZIONI GENERALI
Articolo 5 Campo di applicazione del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, e successive modifiche e integrazioni
1. L’articolo 2, comma 1, lett. a), del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, e successive modificazioni, è così sostituito: “a) lavoratore: persona che presta il proprio lavoro fuori dal proprio domicilio alle dipendenze o sotto la direzione altrui, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere, un’arte o una professione inclusi tutti i lavoratori con rapporto di lavoro subordinato, anche speciale o di durata determinata, i prestatori di lavoro temporaneo di cui agli articoli 1-11 della legge n. 196/1997, gli apprendisti, i collaboratori familiari di cui all’articolo 230 bis del Codice Civile e i lavoratori con altri rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione d’opera continuativa e coordinativa, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato, qualora siano inseriti nell’ambiente di lavoro organizzato dal committente. Sono equiparati i soci lavoratori di cooperative o di società, anche di fatto, che prestino la loro attività per conto delle società e degli enti stessi, i volontari come definiti dalla Legge 1 agosto 1991, n. 266, e gli utenti dei servizi di orientamento o di formazione scolastica, universitaria e professionale avviati presso datori di lavoro per agevolare o per perfezionare le loro scelte professionale. Sono altresì equiparati gli allievi degli istituti di istruzioni ed universitari e partecipanti a corsi di formazione professionale nei quali si faccia uso di lavoratori, macchine, apparecchi ed attrezzature di lavoro in genere, agenti chimici, fisici e biologici”
Capo II NORME DI TUTELA DEI LAVORATORI CON RAPPROTI DI LAVORO OCCASIONALI O DI DURATA
TEMPORALMENTE DEFINITA
Articolo 7 Formazione dei lavoratori
1. Il comma 7 dell’articolo 22 del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, e successive modifiche e integrazioni è sostituito del seguente: “I Ministri del lavoro e della Previdenza sociale e della Sanità, sentita la commissione consultiva permanente, stabiliscono i contenuti minimi della formazione dei lavoratori, con particolare riferimento alle esigenze dei lavoratori non legati con l’utilizzatore della prestazione lavorativa mediante un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, nonché della formazione dei rappresentanti per la sicurezza e dei datori di lavoro di cui all’articolo 10, comma 3, tenendo conto delle dimensioni e della tipologia delle imprese, nonché della percentuale di forza lavoro non assunta con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato presente in azienda”.
Articolo 8 Prevenzione e protezione dei rischi
1. Il comma 2 dell’articolo 9 del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, e successive modifiche e integrazioni è sostituito del seguente: “Il datore di lavoro fornisce ai servizi di prevenzione informazioni in merito a: a) la natura dei rischi;
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b) l’organizzazione del lavoro, la programmazione e l’attuazione delle misure preventive e protettive; c) le funzioni e i compiti assegnati a lavoratori assunti con contratto a tempo determinato ovvero ai prestatori di lavoro temporaneo di cui agli articoli 1-11 della Legge 24 giugno 1997, n. 196, nonché della presenza in azienda di lavoratori con rapporti di continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato; d) la descrizione degli impianti e dei processi produttivi; e) i dati del registro degli infortuni e delle malattie professionali; f) le prescrizioni degli organi di vigilanza”
Articolo 9 Lavoratori sottoposte a sorveglianza medica speciale e lavori particolarmente pericolosi
1. In adempimento degli obblighi contenuti nella Direttiva n. 91/383/CEE del Consiglio, del 25 giugno 1995, è vietato il ricorso a contratti di lavoro a tempo determinato ovvero a rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione d’opera continuativa coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato, per le lavorazioni che richiedono una sorveglianza medica speciale e per i lavori particolarmente pericolosi individuati con decreto del Ministero del lavoro e della previdenza sociale da emanare entro sei mesi dall’entrata in vigore della presente legge. 2. In attuazione del disposto di cui al comma precedente, il Ministero del lavoro e della previdenza sociale istituisce mediante decreto una Commissione tecnica di esperti per la individuazione delle lavorazioni da sottoporre a sorveglianza medica speciale e dei lavori particolarmente pericolosi per l’esecuzione dei quali vietare il ricorso a rapporti di durata temporaneamente definita o di carattere occasionale, quale che sia la natura giuridica del contratto di lavoro in cui viene dedotta la prestazione lavorativa. 3. Il decreto di cui al comma 1 del presente articolo dovrà coordinarsi con il decreto di cui all’articolo 1, comma 4, lett. f), Legge 25 giugno 1997, n. 196, relativo al divieto di fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo per le lavorazioni sottoposte a sorveglianza medica specie o per l’esecuzione di lavori particolarmente pericolosi.
Capo III RAPPORTI SVOLTI IN REGIME DI TELELAVORO
Articolo 10
Tutela della salute e sicurezza nei rapporti svolti in regime di telelavoro 1. A tutti i rapporti svolti a distanza mediante collegamento informatico e telematico si applicano le disposizioni di cui al Titolo VII del decreto legislativo 19 settembre 1996, n. 626, e successive modifiche e integrazioni, quale che sia il titolo giuridico della prestazione lavorativa dedotta in contratto e indipendentemente dall’ambito aziendale o extra aziendale in cui si svolge la prestazione stessa. 2. Previa richiesta motivata, al responsabile aziendale di prevenzione e di protezione e al responsabile per la sicurezza deve essere consentito l’accesso, da parte del datore di lavoro, del committente o dello stesso lavoratore alla postazione, fissa o mobile, di telelavoro, al fine di verificare la corretta applicazione delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sul luogo di lavoro. 3. Le disposizioni contenute nel presente articolo non pregiudicano l’applicazione di norme di legge, di regolamento e di contratto collettivo e individuale più favorevoli per il lavoratore.
Capo IV PREVENZIONE DELGI INFORTUNI SUL LAVORO E STRUMETI DI EMERSIONE DEL LAVORO IRREGOLARE
Articolo 11
Contratti di riallineamento retributivo 1. All’articolo 23 della legge 24 giugno 1997, n. 196, è aggiunto il seguente comma: “I soggetti che si avvalgono degli accordi di riallineamento retributivo di cui al presente articolo, per usufruire dei benefici di legge, devono dimostrare alla Direzione provinciale del lavoro di avere effettuato la valutazione dei rischi si sensi dell’articolo 4 del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, e successive modifiche e integrazioni.
Articolo 12 Delega al governo per il riordino degli organismi ispettivi e di controllo sulla attuazione della normativa di tutela della
salute e sicurezza sul luogo di lavoro. 1. Il Governo della Repubblica, su proposta del Ministro del lavoro e della previdenza sociale di concreto con il Ministro della sanità, con il Ministro delle finanze e con il Ministro degli interni, è delegato ad emanare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno p più decreti per il riordino e la razionalizzazione degli organismi ispettivi e di controllo competenti ala verifica del rispetto delle norme di legge in materia di lavoro, prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali, igiene sul lavoro, evasione fiscale e contributiva.
TITOLO III DELLA LIBERTA’ SINDACALE
Capo I
DISPOSIZIONI GENERALI
Articolo 13 Campo di applicazione
1. Ai fini della individuazione del campo di applicazione del presente titolo per lavoratore si intende ogni persona che, dietro il versamento di un corrispettivo, presta la propria opera a favore di terzi in regime di subordinazione o mediante altro rapporto di collaborazione che si concreti in una prestazione d’opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato, indipendentemente dall’ambito aziendale o extra aziendale in cui si svolge
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la prestazione stessa, ivi compresi i soci lavoratori di cooperative di produzione e lavoro o di società, anche di fatto. Non rientrano nel campo d applicazione del presente titolo i rapporti di lavoro di carattere meramente occasionale come definiti ai sensi dell’articolo 37. 2. I diritti derivanti dalle disposizioni contenute nel presente titolo non possono essere oggetto di rinunzie o transazioni tra le parti neppure in sedi di certificazione del rapporto di lavoro di cui al Titolo VII della presente legge.
Capo II DELLA LIBERTA’ SINDACALE
Articolo 14
Diritto di organizzazione e di attività sindacale 1. Ferme restando le disposizioni di legge e di contratto collettivo di lavoro a tutela della libertà sindacale dei lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato, è garantito a tutti i lavoratori: a) il diritto di organizzare associazioni sindacali, di qualunque livello, oppure di aderirvi, nonché il diritto elettorale, attivo e passivo, per la costituzione di organismi di rappresentanza all’interno delle unità produttive, anche ai fini della stipulazione di accordi o contratti collettivi di lavoro di diverso livello loro applicabili; b) le modalità per l’esercizio dei diritti sindacali saranno definite dagli articoli contratti collettivi di cui alla presente lett. a); c) in ogni caso ai lavoratori è riconosciuto il diritto di partecipare alle assemblee indette dalle rsa o rsu all’interno delle unità produttive. 2. Ai lavoratori che svolgano la prestazione di lavoro in regime di telelavoro è riconosciuto di diritto di accesso all’attività sindacale che si svolge in azienda tramite l’istituzione di una bacheca elettronica o di altro sistema elettronico a cura dell’azienda in cui vengano inserite tutte le informazioni di interesse sindacale e lavorativo. 3. Ulteriori forme di rappresentanza e di esercizio delle attività sindacali potranno essere individuate in sede di contrattazione collettiva.
Articolo 15 Diritto di sciopero
1. Ferme restando le disposizioni di legge e di contratto collettivo di lavoro previste a favore dei lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato, i lavoratori che rientrano nel campo di applicazione del presente titolo hanno diritto a sospendere la propria attività lavorativa ai fini di autotutela entro i limiti e le condizioni di cui alla Legge 12 giugno 1990, n. 146. 2. E’ vietato ricorrere a contratti di lavoro autonomo, di lavoro subordinato o a qualsiasi altro contratto, tipico o atipico, di lavoro per la sostituzione di lavoratori che esercitino il diritto di sciopero.
TITOLO IV TRATTAMENTO ECONOMICO, NORMATIVO, PREVIDENZIALE E FISCALE DEL LAVORATORE
Capo I
DISPOSIZIONI GENERALI
Articolo 16 Campo di applicazione
1. Ai fini della individuazione del campo di applicazione del presente titolo per lavoratore si intende ogni persona ch, afronte di un corrispettivo, presta la propria opera a favore di terzi mediante rapporto di collaborazione coordinata, prevalentemente personale, senza vincolo di subordinazione, indipendentemente dall’ambito aziendale o extra aziendale in cui si svolge la prestazione stessa ed anche se prestata a favoro di una società cooperativa di produzione e lavoro o di fatto. Non rientrano nel campo di applicazione i rapporti di lavoro a carattere meramente occasionale come definiti ai sensi dell’articolo 37. 2. Le disposizioni contenute nel presente titolo si applicano solo ai rapporti di lavoro costituiti dopo la entrata in vigore della presente legge. Per i rapporti di lavoro costituiti anteriormente a tale data, le disposizioni del presente titolo trovano applicazione solo per i contratti che saranno certificati ai sensi del Titolo VII della presente legge. 3. Le disposizioni contenute nel presente titolo non pregiudicano l’applicazione di norme di legge, di regolamento, di contratto individuale e di accordo o contratto collettivo più favorevoli per il lavoratore. 4. Eccetto quanto prescritto dai successivi articoli 17 e 18, i diritti derivanti dalle disposizioni contenute nel presente titolo possono essere oggetto di rinunzie o transazione tra le parti in sede di certificazione del rapporto di lavoro di cui al Titolo VII della presente legge anche in deroga alle disposizioni di cui all’articolo 2113 del Codice Civile.
Articolo 17
Forma di contratto 1. I contratti di lavoro di cui al presente titolo devono essere stipulati in forma scritta e devono indicare: a) l’oggetto della prestazione lavorativa dedotta in contratto; b) i criteri di determinazione del corrispettivo e la disciplina dei rimorsi spese; c) i poteri e le forme di controllo del committente sull’esecuzione dei rimborsi spese; d) l’eventuale facoltà del prestatore di lavoro di avvalersi, sotto la propria responsabilità, si sostituti e ausiliari preventivamente resi noti al committente e da questi accertati; e) la durata del contratto; f) la prevenzione di un congruo periodo di preavviso per il recesso, nonché l’indicazione di motivi che possono comportare la risoluzione del rapporto, compresa la disciplina dell’impossibilità sopravvenuta e dell’eccessiva onerosità
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Capo II TRATTAMENTO ECONOMICO, NORMATIVO, PREVIDENZIALE E FISCALE
Articolo 18 Compenso
1. I lavoratori hanno diritto a un compenso equo, proporzionato alla qualità e quantità del loro lavoro, stabilito negli accordi economici collettivi della categoria o, in mancanza, dei compensi che si praticano generalmente nel luogo in cui si è svolto il rapporto.
Articolo 19
Assistenza e previdenza 1. I lavoratori che rientrano nel campo di applicazione del presente titolo, anche se soci di una cooperativa di produzione e lavoro o di una società di fatto, devono obbligatoriamente essere iscritti al fondo speciali di cui all’articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335.
Articolo 20
Malattia, infortunio e maternità 1. Il Governo della Repubblica, su proposta del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, è autorizzato ad emanare, entro sei mesi della data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi volti a stabilire una disciplina del trattamento economico del lavoratore in caso di malattia, infortunio e maternità, commisurata alla particolare natura dei rapporti di lavoro in cui al presente titolo..
Articolo 21 Estinzione del contratto e preavviso
1. I contratti di lavoro di cui al presente titolo cessano al momento della realizzazione del programma o della fase di esso che costituisce l’oggetto, salva diversa volontà espressa dalle parti. 2. Alla cessazione del rapporto, e per i dodici mesi successivi, qualora il committente intenda procedere alla stipulazione di un contratto analogo e per lo stesso tipo di prestazione, spetta al lavoratore, un diritto di preferenza rispetto ad altri aspiranti qualora lo stesso non abbia subito fondate contestazioni circa la prestazione effettuata ovvero il rapporto di lavoro non sia stato risolto per giusta causa. Qualora il committente non osservi la presente disposizione spetta la lavoratore una indennità pari alla metà del compenso riconosciuto nel nuovo contratto stipulato con persone terze. 3. In caso di recesso i lavoratori hanno diritto ad un congruo preavviso. In mancanza di accordo tra le parti o di disposizioni contenute negli accordi economici collettivi della categoria l’entità del preavviso è stabilita dal giudice secondo equità. 4. Il recesso da parte del committente deve essere comunicato per iscritto. Il lavoratore può chiedere, entro dieci giorni della comunicazione, i motivi che deve, nei dieci giorni successivi alla richiesta, comunicarli per iscritto al lavoratore. 5. Il recesso intimato senza l’osservanza delle disposizioni di cui al comma precedente è inefficiente.
Articolo 22 Recesso privo di giusta causa
1. La parte che recede dal contratto senza giusta causa è tenuta a fornire alla controparte un congruo indennizzo. 2. In mancanza di accordo tra le parti o di disposizioni contenute negli accordi economici collettivi della categoria l’entità dell’indennizzo è stabilita dal giudice secondo equità. 3. Si intende privo di giusta causa il recesso del committente non riconducibile ad una delle ipotesi di risoluzione del contratto di lavoro disciplinata ai sensi dell’articolo 17, lettera f).
Articolo 23 Normativa fiscale
1. Ai fini fiscali, il reddito derivante dalle attività professionali svolte dai lavoratori di cui all’articolo 16, comma 1, è considerato nell’ammontare complessivo annuo, indipendentemente dal numero e dalla durata dei rapporti intercorsi, in forma autonoma o con contratto di collaborazione coordinata e continuativa. 2. Coloro che svolgono attività di collaborazione, anche de iscritti al registro IVA, sono comunque assoggettati al regime fiscale previsto dal comma 2, lett. a) dell’articolo 49 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917.
Capo III DIRITTI DI FORMAZIONE E INFORMAZIONE
Articolo 24 Diritti di informazione
1. Il lavoratore ha il diritto di ricevere le informazioni previste nei contratti collettivi di lavoro a favore dei lavoratori assunti con contratti di lavoro subordinato, nonché le informazioni relative alla tutela della salute e sicurezza di cui all’articolo 21 del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, e successive modifiche e integrazioni. 2. Il committente, se imprenditore pubblico o privato, è tenuto a organizzare i propri flussi di comunicazione in modo da garantire a tutti i lavoratori pari condizioni nell’accesso alle informazioni attinenti al lavoro, quale che sia il titolo giuridico dell’obbligazione dedotta in contratto.
Articolo 25 Diritti di formazione
1. Per il finanziamento di iniziative di formazione professionale e di formazione in materia di salute e sicurezza del lavoro i committenti sono tenuti a versare un contributo pari allo 0,2 per cento del compenso corrisposto ai lavoratori di cui al presente titolo.
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2. I contributi di cui al comma 1 sono rimessi al Fondo di cui all’articolo 5 della Legge 24 giugno 1997, n. 196, per essere destinati al finanziamento, anche con il concorso delle regioni, di iniziative mirate ad soddisfacimento delle esigenze di formazione dei lavoratori di cui al presente titolo. I criteri e le modalità di utilizzo delle disponibilità del Fondo relative ai lavoratori di cui al presente titolo sono stabiliti con decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, da adottare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge: Il decreto provvede ad armonizzare il funzionamento del fondo e la erogazione dei finanziamenti con quanto previsto dall’articolo 5 della Legge 24 giugno 1997, n. 196 e dal decreto in favore di prestatori di lavoro temporaneo. 3. Il Governo della Repubblica, su proposta del Ministero del lavoro e della previdenza sociale, è autorizzato ad emanare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi volti a consentire il riordino dei contratti di lavoro a finalità formativa anche con riferimento alla loro utilizzazione per prestazioni di lavoro non a carattere subordinato.
Capo IV DIRITTI E OBBLIGHI DEL PRESTATORE DI LAVORO
Articolo 26
Diritto per apporti originali e per le invenzioni del lavoratore 1. I diritti di utilizzazione economica relativi alla creazione di apporti originali, alla attività di creazione di programmi per elaboratori elettronici, come pure i diritti di utilizzazione economica riguardanti l’invenzione fatta in occasione dello svolgimento dell’attività o nell’esecuzione del servizio che costituisce oggetto del contratto spettano al lavoratore. Questi deve però dare comunicazione al committente del brevetto eventualmente conseguito. 2. Il committente ha diritto di prelazione sull’utilizzazione economica dei diritti di cui al comma 1, da esercitare entro tre mesi della comunicazione, verso corresponsione di un canone o di un prezzo determinati di comune accordo. In ogni caso di mancato accordo sul canone o sul prezzo, la prelazione decade.
Articolo 27 Obbligo di informazioni.
1. I lavoratore è tenuto a fornire tutte le informazioni che consentono al committente un costante e adeguato controllo sulla realizzazione dell’oggetto del contratto e la verifica dei risultati.
Articolo 28 Obbligo di riservatezza
1. Salvo diverso accordo tra le parti il lavoratore può svolgere la sua attività a favore di più committenti, ma non deve in ogni caso diffondere notizie e apprezzamenti attinenti ai programmi e all’organizzazione di essi, né compiere, in qualsiasi modo, atti in pregiudizio dell’attività dei committenti medesimi. 2. Il divieto di cui al comma 1 si applica anche per l’intero anno solare successivo alla cessazione del rapporto, salva diversa previsione del contratto o di accordi collettivi.
TITOLO V RAPPORTI DI LAVORO IN COOPERATIVE DI PRODUZIONE E LAVORO
Articolo 29
Soci lavoratori di cooperative di produzione e lavoro 1. I soci lavoratori di cooperative di produzione e lavoro stabiliscono con la propria adesione o successivamente ulteriori e distinti rapporti di lavoro con cui contribuiscono ad raggiungimento degli scopo sociali, secondo quanto previsto dal regolamento ai sensi del successivo articolo 39, mettendo a disposizioni le proprie capacità professionali anche in relazione di tipo e stato di attività nonché il volume di lavoro per essa disponibile. 2. In particolare nell’ambito del rapporto associativo il socio: a) concorre alla gestione dell’impresa partecipando alla formazione degli organi sociali ed alla definizione della struttura e conduzione dell’impresa; b) partecipa alla elaborazione di programmi di sviluppo e alle decisioni concernenti le scelte strategiche, nonché alla realizzazione di processi produttivi dell’azienda; c) contribuisce economicamente alla formazione del capitale sociale e partecipa al rischio di impresa, ai risultati economici ed alle decisioni sulla loro destinazione. 3. Le disposizioni della presente legge si riferiscono alle cooperative, nelle quali lo scopo mutualistico sia perseguito attraverso la prestazione di attività lavorative da parte del socio sulla base di previsioni statutarie e regolamentari che definiscono l’organizzazione del lavoro dei soci ai sensi dell’articolo 39.
Articolo 30 Trattamento economico
1. Salvo quanto previsto dall’articolo 36 della legge 20 maggio 1970, n. 300, la cooperativa di produzione e lavoro è tenuta a corrispondere al socio lavoratore che abbia stipulato un rapporto di lavoro subordinato un trattamento economico complessivo annuo non inferiore a quello definito dalla contrattazione collettiva nazionale per i lavoratori dipendenti, a parità di durata e di qualità della prestazione, con eccezione per le erogazioni di cui all’articolo 2 del Decreto Legge 25 marzo 1997, n. 135. 2. Le forme di remunerazione dei soci lavoratori, ulteriori rispetto a quanto corrisposto si sensi del precedente comma 1, devono essere deliberate dall’assemblea in sede di approvazione del bilancio di esercizio e possono essere erogate secondo le seguenti modalità e nella misura massima del 50 per cento in più di quanto previsto dal precedente comma: a) a titolo di maggiorazione del trattamento economico complessivo previsto per i lavoratori dipendenti fino al 30 per cento in più di quanto previsto dal precedente comma; b) ad aumento gratuito del capitale sociale sottoscritto e versato, anche in deroga ai limiti stabiliti dall’articolo 24 del C.p.S. 14 dicembre 1947, n. 1577, e successive modificazioni ed integrazioni ed ai limiti stabiliti dall’articolo 7 della Legge 31 gennaio 1992, n. 59, ovvero a distribuzione gratuita delle azioni di cui agli articoli 4 e 5 della Legge 31 gennaio, n. 52.
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3. Ai fini della determinazione della base imponibile relativa alla contribuzione previdenziale ed assicurativa obbligatoria di cui all’articolo 1 della Legge 7 dicembre 1989, n. 389, si fa riferimento al trattamento economico del precedente comma 1. Restano salve le disposizioni di cui al D.P.R. 20 aprile 1970, n. 602 e successive modificazioni ed integrazioni di cui alla Legge 13 marzo 1958, n. 250, e le norme in materia previdenziale relative ai salari convenzionali previste per le cooperative sociali di cui alla Legge o novembre 1991, n. 381. 4. Nel primo periodo del comma 2 dell’articolo 8 del D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124, come modificato dalla Legge 8 agosto 1995, n. 335, le parole “nel caso di soci di società cooperative il contributo è definito in percentuale degli imponibili considerati ai fini dei contributi previdenziali obbligatori”, sono sostituite dalle seguenti: “nel caso di soci lavoratori di società cooperative il contributo è definito in percentuale del complessivo trattamento economico corrispettivo ai sensi dell’articolo 30, comma 1 e 2 lett. a) della legge “Statuto dei lavori”. 5. Nel comma 8-bis dell’articolo 13 del D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124, come modificato della Legge 7 dicembre 1989, n. 389, le parole “dell’imponibile rilevante ai fini della contribuzione previdenziale obbligatoria” sono sostituite dalle seguenti: “del complessivo trattamento economico corrisposto ai sensi dell’articolo 30, commi 1 e 2 lett. a) della legge “Statuto dei lavori”.
Articolo 31 Trattamento fiscale
1. Qualora le somme erogate ai soci lavoratori siano imputate ad aumento del capitale sociale ai sensi del precedente articolo 30, comma 2, lett. b), si applica il trattamento fiscale previsto dall’articolo 7 della Legge 31 gennaio 1992, n. 59. 2. Il terzo comma dell’articolo 11 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 601, è sostituito dal seguente: “Nella determinazione del reddito della società cooperative di produzione e lavoro e loro consorzi sono ammesse in deduzione le somme erogate ai soci lavoratori ai sensi dell’articolo 30, commi 1 e 2, della legge “Statuto dei lavori”. 3. La lettera a) dell’articolo 47 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 è sostituita dalla seguente: “a) i compensi percepiti ai sensi dell’articolo 30, commi 1 e 2 let. a) della legge “Statuto dei lavori”, dai lavoratori soci delle cooperative di produzione e lavoro, delle cooperative di servizi, delle cooperative agricole e di prima trasformazione dei prodotti agricoli e delle cooperative della piccola pesca, esclusi quelli di cui all’articolo 31, comma 1, della legge “Statuto dei lavori”. 4. Alle erogazioni corrisposte ai soci ai sensi del precedente articolo 30, comma 2, lett. b), si intende applicabile l’articolo 3, comma 2, lett. g), del D.Lgs. 2 settembre 1997, n. 314. La presente norma costituisce interpretazione autentica.
Articolo 32 Trattamento di fine rapporto
1. Alle somme di cui al precedente articolo 30, comma 2, lett. a), si applicano le disposizioni previste dall’articolo 2120 del codice civile, dall’articolo 2 della legge 29 maggio 1982, n. 297 e degli articoli 1 e 2 del D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 80. 2. Alle somme previste dal precedente comma si intende esteso il privilegio di cui all’articolo 2751-bis, n. 1, del codice civile. La presente norma costituisce interpretazione autentica.
TITOLO VI NORME SUI LICENZIAMENTI INDIVIDUALI
Capo I
DISPOSIZIONI GENERALI
Articolo 33 Campo di applicazione
1. Le disposizioni del presente titolo trovano applicazione con riferimento ai lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, anche se soci lavoratori di una cooperativa di produzione e lavoro o di una società di fatto. 2. Le disposizioni contenute nel presente titolo non pregiudicano l’applicazione di norme di legge, di regolamento e di contratto collettivo o individuale più favorevoli per il lavoratore.
Capo II APPLICAZIONE DELLA NORMATIVA SUI LICENZIAMENTI INDI VIDUALI
Articolo 34
Contratto di lavoro a tempo indeterminato 1. Fatti salvi i divieti del licenziamento discriminatorio a norma dell’articolo 15 della Legge 20 maggio 1970, n. 300, del licenziamento della lavoratrice in concomitanza con il suo matrimonio a norma degli articoli 1 e 2 della Legge 9 gennaio 1963, n. 7 e del licenziamento in caso di malattia o maternità a norma dell’articolo 2110 del Codice Civile, le disposizioni in materia di licenziamento individuale di cui alla Legge 15 luglio 1996, n. 604, e successive modifiche, e di cui all’articolo 18 della Legge 20 maggio 1970, n. 300, non trovano applicazione: a) per i lavoratori alla prima esperienza di lavoro con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e comunque non oltre il compimento del trentaduesimo anno di età del lavoratore, fatto salvo quanto disposto nella successiva lettera c); b) per tutte le nuove assunzioni effettuate entro il 1999, per i primi due anni di lavoro, nei territori di Sardegna, Sicilia, Calabria, Campagna, Basilicata, Puglia, Abruzzo e Molise, nonché nelle province nelle quali il tasso medio annuo di disoccupazione, secondo la definizione allargata ISTAT, rilevato per l’anno precedente all’assunzione, è superiore di almeno il 3 per cento alla media nazionale risultante dalla medesima rilevazione; c) per i lavoratori che abbiano maturato una anzianità di servizio presso lo stesso datore di lavoro inferiore a due anni. 2. Nelle ipotesi di cui alle lettere a), b) e c) del comma 1 il licenziamento deve comunque essere comunicato in forma scritta. Quando non sia stato stipulato un patto di prova o il relativo termine sia scaduto, il licenziamento non disciplinare deve essere comunicato al lavoratore con un preavviso di due settimane per ogni anno lavorato. All’atto della cessazione del rapporto non motivato da inadempimento del prestatore, quest’ultimo ha diritto ad una indennità pari a tre settimane per anno lavorato.
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3. Dal momento della comunicazione di cui al comma 2 il lavoratore ha la facoltà di optare per la cessazione immediata del rapporto con conseguente incremento dell’identità di licenziamento, a norma del comma 2.
Articolo 35 Prestazioni di elevata professionalità o specializzazione
1. Fatto salvo quanto disposto dall’articolo 15 della Legge 20 maggio 1970, n. 300, in caso di esecuzione di prestazioni di elevata professionalità o di particolare specializzazione, individuate come tali dai contratti collettivi nazionali di categoria stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale, le parti del contatto possono, in sede di certificazione dei rapporti di cui al Titolo VIII, prevedere una disciplina speciale del regime del recesso dal contratto, anche in deroga alle disposizioni di cui alla Legge 15 luglio 1966, n. 300, e successive modifiche, e di cui all’articolo 18 della Legge 20 maggio 1970, n. 300. 2. Qualora, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, non sia intervenuta, ai sensi del comma1, la determinazione da parte dei contatti collettivi nazionali delle prestazioni di elevata professionalità o di particolare specializzazione, il Ministro del lavoro e della previdenza sociale convoca le organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, al fine di promuovere l’accordo. In caso di mancata stipulazione dell’accordo entro i trenta giorni successivi alla convocazione, il Ministro del lavoro e della previdenza sociale individua in via sperimentale, con doppio decreto, i predetti casi.
Capo V DISPOSIZIONI PENALI
Articolo 36
Disposizione finale 1. I diritti derivanti dalle disposizioni contenute nel presente Titolo IV non possono essere oggetto di rinunzie o transazioni tra le parti neppure in sede di certificazione del rapporto di lavoro di cui al Titolo VIII della presente legge.
TITOLO VII NORME PER LA RIDUZIONE DEL CONTENZIOSO IN MATERIA DI QUALIFICAZIONE DEI CONTATTI DI
LAVORO
Capo I CERTIFICAZIONE DEI RAPPROTI DI LAVORO
Articolo 37
Qualificazione dei rapporti di lavoro 1. Al fine di ridurre il contenzioso in materia di qualificazione dei rapporti di lavoro, le parti possono ottenre la certificazione del contratto di lavoro stipulato secondo la procedura volontaria stabilita dalla presente legge. 2. Sono esclusi dalla previsione di cui al comma precedente: a) i rapporti di lavoro instaurati con lo Stato o con Enti Pubblici non economici; b) i rapporti di lavoro del personale della navigazione marittima, aerea e interna; c) i rapporti di collaborazione familiare di cui all’articolo 230-bis del Codice Civile; d) i rapporti di lavoro occasionali. 3. Ai fini della applicazione della presente legge, per rapporti di lavoro occasionali si intendono i rapporti di durata complessiva non superiore a otto giorni nel corso dell’anno solare con lo stesso committente, salvo che il compenso complessivo per lo svolgimento della prestazione non sia superiore a lire…
Articolo 38 Procedure di certificazione
1. La certificazione potrà avvenire: a) stipulando il contratto con l’assistenza della Commissione di certificazione costituita presso la Direzione provinciale per l’impiego. Tale Commissione sarà a composizione tripartita, con la partecipazione paritetica dei rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori e svolgerà, su richiesta delle parti, funzioni di consulenza ed assistenza con particolare riferimento alla disponibilità dei diritti. b) oppure utilizzando i codici di buone pratiche di cui al successivo comma del presente articolo, nonché appositi moduli o formulari predisposti dal Ministero del lavoro e della previdenza sociale che recepiscano gli accordi o contratti collettivi stipulati ai sensi dell’articolo 14 della presente legge, e depositando il contratto così stipulato presso la segreteria tecnica della Commissione di certificazione, ovvero presso comitati paritetici o denti bilaterali costituiti ai sensi dell’articolo 14 della presente legge, al fine di ottenere la successiva validazione; c) una volta certificato, il contratto non potrà essere impugnato dalle parti se non per vizi di consenso; d) ove, in seguito allo svolgimento del rapporto di lavoro, insorga una controversia sulla esatta qualificazione del contratto di lavoro, le parti che si sono avvalse della procedura dei certificazione dovranno rivolgersi obbligatoriamente alla stessa Commissione dei certificazione, per un tentativo di conciliazione ovvero, ove le parti vi consentano, ovvero per un tentativo di definizione in sede arbitrale della controversia. Contro la decisione della Commissione di certificazione è sempre ammesso ricorso davanti al Pretore in funzione di giudice del lavoro; e) se la controversia sorge in seguito a ricorso in giudizio da parte di terzi, la risoluzione della questione è dovuta al Pretore, in funzione di giudice del lavoro, previa acquisizione da parte del Pretore di un parere obbligatorio, ma non vincolante della Commissione di certificazione; f) il comportamento complessivo tenuto dalle parti in sede di cetrificazione del rapporto di lavoro e di definizionie della controversia davanti alla commissione di certificazione potrà essere valutato dal Pretore, in funzione di giudice del lavoro, ai sensi degli articoli 9, 92 e 96 del Codice di Procedura Civile;
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g) la certificazione del rapporto di lavoro potrà in ogni caso avere valore sul piano probatorio, anche verso terzi, solo in caso di corrispondenza tra quanto dichiarato e sottoscritto nella sede amministrativa e quanto di fatto realizzato nello svolgimento della prestazione lavorativa. 2. Le attività e funzioni della Commissione di certificazione possono essere svolte da enti bilaterali costituiti, ai sensi dell’articolo 14 della presente legge, ad iniziativa delle associazioni imprenditoriali e delle organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative al livello geografico interessato. 3. Il Governo è autorizzato ad emanare codici di buone pratiche per l’individuazione delle clausole indisponibili e delle clausole disponibili in sede di certificazione dei rapporti di lavoro, con riferimento ai diritti e ai trattamenti economici e normativi di cui ai titoli precedenti della presente legge. Tali codici dovranno tenere conto delle indicazioni contenute negli accordi o contratti collettivi applicabili.
Articolo 39 Certificazione dei rapporti di lavoro nelle cooperative di produzione e lavoro
1. La cooperativa di produzione e lavoro disciplina con apposito regolamento approvato dall’assemblea il tipo di rapporto e le modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative da parte dei soci. 2. Ai fini della certificazione il regolamento dovrà in ogni caso disciplinare: a) le modalità di attribuzione delle qualifiche e delle mansioni; b) gli orari ed i periodi di riposo, in conformità con le disposizioni di legge obbligatorie; c) il regime disciplinare e le sanzioni in caso di inosservanza; d) le ipotesi di cessazione dell’attività lavorativa, anche in deroga a quanto disposto dagli articoli 33 e 34 della presente legge. 3. Il regolamento dovrà prevedere che, al fine di promuovere nuova imprenditorialità ovvero di salvaguardare i livelli occupazionali, rispettivamente nelle cooperative di lavoro di nuova costituzione ed in quelle che versino in stato di crisi aziendale, l’assemblea della cooperativa possa deliberare un piano di assunzioni ovvero di crisi aziendale. 4. I piani di cui al precedente comma possono comportare la riduzione temporanea dei trattamenti economici dei soci di cui all’articolo 30, comma 1, della presente legge nella misura massima del trenta per cento. La riduzione temporanea del trattamento retributivo ha effetto anche ai fini di quanto disposto dall’articolo 1 della Legge 7 dicembre 1989, n. 389. Per l’intero periodo di durata del piano è vietata la distribuzione tra i soci degli eventuali utili conseguiti nella gestione dell’impresa. 5. Il regolamento che prevede disposizioni secondo quanto previsto nel presente articolo deve essere certificato ai sensi della procedura di cui all’articolo 38 della presente legge. 6. In ogni caso le controversie inerenti ai rapporti di lavoro svolti in cooperativa rientrano tra quelli previsti dall’articolo 409, n. 3, Codice di Procedura Civile. Il regolamento, nell’ambito della procedura di certificazione di cui all’articolo 38 della presente legge, può prevedere l’adozione di una procedura arbitrale, ai sensi degli articoli 806 e ss., Codice di Procedura Civile. La composizione del collegio arbitrale deve comunque contemplare una rappresentanza paritetica della cooperativa e del socio.
Articolo 40 Altre norme per la riduzione del contenzioso
in materia di qualificazione dei contratti di lavoro 1. A sostegno del meccanismo di certificazione dei rapporti di lavoro il Governo è autorizzato ad introdurre correttivi in materia di contribuzioni e prestazioni previdenziali volti a limitare la convenienza alla riconduzione del rapporto di lavoro in un determinato schema contrattuale piuttosto che in un altro. 2. Tali disposizioni dovranno prevedere meccanismi di ricongiunzione dei diversi assetti contributivi maturati in funzione di prestazioni lavorative svolte in esecuzione di diversi schemi contrattuali, nonché un progressivo riallineamento delle prestazioni contributive e previdenziali con riferimento ai contratti di lavoro subordinati, ai contratti di lavoro autonomo e alle collaborazioni continuative, coordinate di carattere prevalentemente personale di cui alla Legge o agosto 1995, n. 335.
TITOLO VIII DISPOSIZIONI FINALI E PENALI
Articolo 41
Disposizioni penali 1. Le violazioni degli articoli 2, 3, 4, 5 e 15, comma 2, sono punite con le sanzioni di cui all’articolo 38 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modifiche.
Articolo 42 Organi di vigilanza
1. Nell’attuazione della delega di cui all’articolo 9 della presente legge il Governo indica gli organi di vigilanza competenti ad controllo sull’osservanza delle norme della presente legge. 2. In attesa della attuazione della delega di cui all’articolo 9 il controllo sull’osservanza delle norme della presente legge compete agli organi dell’Ispettorato del lavoro competenti per territorio.
Articolo 43 Disposizione finale
1. Decorsi due anni dalla data di entrata in vigore della presente legge, il Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale procede ad una verifica, con le organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, degli effetti e della efficacia delle disposizioni dettate dai precedenti articoli, e ne riferisce alle competenti Commissioni parlamentari del Senato della Repubblica e della Camera dei Deputati entro sei mesi. 2. Ai fini della verifica di cui al comma precedente gli organi di vigilanza di cui all’articolo precedente e le commissioni di certificazione di cui all’articolo 38 forniscono ogni trimestre dati e statistiche sugli effetti della legge, sulla certificazione dei contratti di lavoro e su ogni altra notizia richiesta dall’organo del Ministero del lavoro e della previdenza sociale complementare.
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DOC N. 6
“LA PROPOSTA AMATO-TREU”
CARTA DEI DIRITTI DELLE LAVORATRICI E DEI LAVORATORI
Senato della Repubblica XIV Legislatura - Disegno di Legge n. 1872 - Comunicato alla Presidenza il 4 dicembre 2002
Capo I
PRINCIPI GENERALI
Art. 1 (Principi generali)
1. In attuazione del principio costituzionale di tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni, e in conformità con i principi che informano l’ordinamento dell’Unione europea, la Repubblica adotta le misure necessarie a promuovere la piena e buona occupazione, anche in forma autonoma e imprenditoriale, e riconosce a tutte le lavoratrici e i lavoratori i diritti che rendono effettiva tale tutela e, in particolare, il diritto: a) alla libertà, dignità e riservatezza; b) alla non discriminazione; c) alla sicurezza e alla salute nei luoghi di lavoro; d) alla tutela conto le molestie sessuali in ambito lavorativo; e) a un equo compenso del lavoro e alla tutela in caso di recesso ingiustificato, con modalità e secondo criteri che tengano conto della diversa natura e tipologia dei rapporti di lavoro; f) alla tutela e al sostegno della maternità e della paternità; g) alla cura familiare e personale e alla conciliazione tra vita e tempo di lavoro; h) all’apprendimento continuo e permanente; i) all’accesso gratuito ai servizi per l’impiego; l) a forme di sicurezza sociale adeguate nell’arco della vita lavorativa di ciascuno; m) alla libertà e attività sindacale, allo sciopero, nonché alla libertà di negoziazione. 2. I diritti riconosciuti dalla presente legge costituiscono principi fondamentali dell’ordinamento statale, anche ai fini, per le materie di competenza, della legislazione concorrente delle regioni.
Capo II DIRITTI FONDAMENTALI DELLE LAVORATRICI E DEI LAVORA TORI
Art. 2
(Ambito di applicazione) 1. Le disposizioni di cui al presente Capo stabiliscono i diritti fondamentali garantiti a tutte le lavoratrici e i lavoratori economicamente dipendenti, come individuati dall’articolo 17, e subordinati. 2. Le disposizioni di cui al presente Capo si applicano, in quanto compatibili con la natura del rapporto e con le modalità di svolgimento dell’attività, alle lavoratrici e ai lavoratori che svolgono prestazioni d’opera e di servizio, anche intellettuale, con apporto prevalentemente personale; alle socie e ai soci di opera o di servizio, anche con obbligo di prestazioni lavorative accessorie, nelle società diverse dalle cooperative. 3. Le disposizioni di cui al presente Capo si applicano altresì, in quanto compatibili, alle presone che svolgono un’attività lavorativa, con o senza corrispettivo, al solo fine di apprendere un mestiere, un’arte o una professione; alle persone che frequentano corsi di formazione o addestramento professionale; alle persone che svolgono lavori di utilità pubblica o sociale, o di volontariato; alle persone che svolgono attività di lavoro nell’impresa familiare. 4. Sono fatte salve le norme speciali e le disposizioni negoziali più favorevoli ai prestatori di lavoro.
Art. 3 (Dignità personale e libertà di manifestazione del pensiero)
1. Le lavoratrici e i lavoratori, senza distinzioni di opinioni politiche, sindacali e di fede religiosa, hanno diritto, nei loghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero, nel rispetto dei principi della Costituzione e delle norme di legge. 2. Le disposizioni in materia di impianti audiovisivi, di accertamenti sanitari e di visite personali di controllo, di cui agli articoli 4, 5 e 6 della legge 20 maggio 1970, n. 300, trovano applicazione, in quanto compatibili con la natura del rapporto e con le modalità di esecuzione della prestazione, anche nei confronti delle lavoratrici e dei lavoratori economicamente dipendenti e delle persone che svolgono attività lavorativa, con o senza corrispettivo, al solo fine di apprendere un mestiere, un’arte o una professione; alle persone che frequentano cosi di formazione o addestramento professionale, alle persone che svolgono lavori di utilità pubblica o sociale, o di volontariato.
Art. 4 (Intangibilità della sfera personale)
1. Ferma restando l’applicabilità delle disposizioni vigenti sulla tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali, è fatto divieto al datore di lavoro, al committente di rapporti di lavoro di cui al Capo III, al formatore, al tutore, al selezionatore, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose e sindacali, sulle condizioni di salute, sullo stato matrimoniale o di famiglia, sullo stato di gravidanza, sui comportamenti e orientamenti sessuali della lavoratrice e dei lavoratori, nonché su ogni altra circostanza non rilevante ai fini della valutazione della sua attitudine professionale.
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Art. 5
(Tutela contro le molestie sessuali in ambito lavorativo) 1. Costituisce molestia sessuale nei luoghi di lavoro o in ambito lavorativo ogni atto o comportamento, espresso in forma fisica, verbale o non verbale, a connotazione sessuale o comunque basato sul sesso, posto in essere dai datori di lavoro, superiori, collaboratori o colleghi, committenti nei rapporti di lavoro di cui al Capo III, tutori, formatori e selezionatori, che sia indesiderato dalla persona che lo subisce e che, di per sé ovvero per la sua insistenza, si percepito come arrecante offesa alla sua dignità e libertà, ovvero sia suscettibile di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo nei suoi confronti. 2. Le lavoratrici e i lavoratori hanno diritto all’informazione, alla prevenzione e alla tutela contro le molestie sessuali subite in ambito lavorativo.
Art. 6 (Tutela contro i comportamenti persecutori)
1. Costituisce violenza morale e persecuzione psicologica gli atti o comportamenti, anche verbali, posti in essere da soggetti di cui all’articolo 5, che mirino a danneggiare la lavoratrice o il lavoratore, con carattere sistematico e duraturo e con predeterminazione. 2. Le lavoratrici e i lavoratori hanno diritto all’informazione, alla prevenzione e alla tutela in materia di violenze morali e persecuzioni psicologiche perpetrate in ambito lavorativo o comunque in materia di atti esplicitamente ostili o offensivi, ripetutamente diretti contro la dignità della persona.
Art. 7 (Non discriminazione)
1. E’ nullo qualsiasi atto o patto a carattere discriminatorio che produca o possa produrre un effetto pregiudizievole discriminando, a che in via indiretta, la lavoratrice e il lavoratore a causa: a) del sesso, dei comportamenti o orientamenti sessuali, della razza o etnia, della nazionalità, della lingua, delle suo opinioni politiche, della religione, dell’età, ovvero delle sue condizioni personali, sociali, di disabilità o di salute; b) delle suo opinioni sindacali, ovvero della sua affiliazione o attività sindacale. 2. Costituiscono discriminazione diretta o indiretta che le molestie sessuali e i comportamenti persecutori che, esplicitamente o implicitamente, direttamente o indirettamente, siano accompagnati da minacce o ricatti dal datore di lavoro, dei superiori o colleghi di lavoro, dal committente nei rapporti di lavoro di cui al Capo III, del formatore, del tutore, del selezionatore, in relazione alla costituzione, alla modificazione, alla retribuzione o al compenso, alla formazione professionale, alla cessazione del rapporto di lavoro o dell’incarico. 3. Trovano applicazione, in quanto compatibili con la natura del rapporto e le modalità di esecuzione della prestazione lavorativa, le disposizioni vigenti in materia di parità di trattamento e di divieto di discriminazione diretta e indiretta. 4. Il divieto di discriminazione non osta al mantenimento o all’adozione di azioni positive dirette a evitare o compensare svantaggi con finalità di riequilibrio del gruppo rappresentato.
Art. 8 (Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro)
1. Le lavoratrici e i lavoratori hanno diritto alla tutela della propria integrità e salute psicofisica e della propria personalità morale. A tal fine, il datore di lavoro, il committente nei rapporti di lavoro di cui al Capo III della presente legge, l’utilizzatore della prestazione, il soggetto erogatore di un servizio di istruzione, formazione, addestramento od orientamento professionale, hanno l’obbligo di adottare, nell’esercizio dell’attività, le misure che, secondo le peculiarità dell’attività produttiva, le particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica implicate, sono necessarie al fine di eliminare o ridurre al minimo i rischi per la salute e la sicurezza di lavoratori. 2. Nel disciplinare l’obbligo, gravante sui soggetti di cui al comma 1, nei confronti delle lavoratrici e dei lavoratori che svolgono la propria attività presso una sede diversa dai locali di pertinenza del datore di lavoro o del committente, le disposizioni legislative adottate in conformità con i principi fondamentali di cui alla presente legge tengono conto della peculiarità delle prestazioni lavorative, attenendosi al criterio di adeguare le norme e le misure di sicurezza del lavoro nell’impresa con norme e misure funzionalmente equivalenti. 3. Con le modalità stabilite dall’articolo 36 della presente legge, sono istituite e disciplinate idonee forme di certificazione, assistenza e consulenza a favore dei datori di lavoro e delle imprese che adempiano agli obblighi in materia di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori.
Art. 9 (Promozione della piena e buona occupazione)
1. La Repubblica adotta le misure adeguate a promuovere la piena e buona occupazione, anche in forma autonoma e imprenditoriale. In particolare, lo Stato e le regioni, secondo le rispettive competenze, e in coerenza con gli obbiettivi indicati dagli orientamenti annuali dell’Unione europea in materia di occupabilità, adottano misure di incentivazione al lavoro, finalizzate anche all’inserimento professionale dei soggetti privi di occupazione, dei disoccupati di lungo periodo ovvero a rischio di esclusione sociale o aventi una occupazione di carattere precario o a bassa qualità. 2. Le misure di cui al comma 1 sono adottate secondo la tipologia, per le finalità specifiche, con le modalità e nel rispetto dei principi fondamentali stabiliti dall’articolo 37.
Art. 10 (Politiche attive del lavoro e apprendimento continuo e permanente)
1. Le lavoratrici e i lavoratori inoccupati, disoccupati o occupati hanno diritto di accedere gratuitamente a puntuali informazioni in merito alle opportunità lavorative, ai posti di lavoro vacanti e all’offerta formativa esistente sul territorio nazionale, locale; essi hanno inoltre diritto a servizi gratuiti di orientamento e all’assistenza nella ricerca di lavoro e nella progettazione, nel corso della vita lavorativa, di percorsi, anche individuali, di apprendimento e formazione professionale. 2. Le lavoratrici e i lavoratori di cui al comma 1 hanno altresì diritto all’apprendimento nel corso della vita lavorativa, per accrescere conoscenze e competenze professionali e per conseguire titoli di studio o di qualifica professionale. La
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formazione può corrispondere ad autonoma scelta del lavoratore ovvero essere predisposta dal datore di lavoro o dal committente, anche per il tramite di organismi pubblici o privati certificati. 3. L’apprendimento continuo e la formazione permanente sono incentivati attraverso il sostegno alla costituzione di fondi mutualistici e bilaterali paritetici, nonché mediante il beneficio fiscale della deduzione del reddito da lavoro, dei costi sostenuti per la partecipazione ad attività formative scolastiche o di formazione professionale pubblici e privati accreditati.
Art. 11 (Tutela delle legittime sospensioni dall’attività e della conciliazione tra i tempi di vita e i tempi di lavoro)
1. In caso di infortunio, di malattia, di gravidanza, di maternità e paternità, di congedo parentale, di cura e di assistenza di familiari, di formazione continua e permanente, le lavoratrici e i lavoratori hanno diritto alla sospensione dell’attività lavorativa e a forme adeguate di sostegno, anche economico. 2. Le forme di tutela di cui al comma 1, istituite e disciplinate in base alla legge e ai contratti e accordi collettivi, favoriscono la conciliazione dell’attività lavorativa con i compiti familiari e con le altre attività di cura delle persone. 3. La costituzione di servizi di sostituzione totale o parziale, organizzati per bacini territoriali, settoriali e categoriali, in relazione alla sospensione dell’attività lavorativa autonoma, è sostenuta e incentivata.
Art. 12 (Equo compenso)
1. Qualora sia previsto il corrispettivo per l’attività lavorativa svolta e il suo ammontare non sia contrattualmente definito e equo, esso è stabilito dal giudice secondo equità.
Art. 13 (Equo trattamento pensionistico e mutualità volontaria)
1. Le lavoratrici e i lavoratori hanno diritto a un equo trattamento pensionistico in caso di vecchiaia. La legge prevede idonee forme pensionistiche obbligatorie e promuove le forme pensionistiche volontarie, di cui al comma 2. 2. Le lavoratrici e i lavoratori hanno diritto di accedere, su base volontaria e secondo le previsioni delle fonti istitutive applicabili, alle forme pensionistiche complementari e alle forme pensionistiche individuali. 3. Le fonti istitutive delle forme pensionistiche complementari e gli atti negoziali in base ai quali si perfeziona l’adesione a tutte le forme pensionistiche di cui al comma 2, rispettano, il relazione a tutti gli aderenti e a tutti coloro che domandino di aderire, il principio di non discriminazione. 4. Alle lavoratrici e ai lavoratori è garantito che la mobilità professionale non determini penalizzazioni ai fini della maturazione dei diritti pensionistici nelle forme pensionistiche di cui al comma 1. A tal fine, in particolare, la disciplina delle forme pensionistiche complementari e individuali è modificata secondo quanto stabilito dalla disposizione di ci all’articolo 38, comma 1, lettera d). 5. Le disposizioni di cui ai commi 1 e 4 si applicano anche alle persone che svolgono lavori di cura non retribuiti derivanti da responsabilità familiari. 6. La costituzione su base volontaria e negoziale di fondi mutualistici per la soddisfazione di esigenze socialmente rilevanti e per l’erogazione di prestazioni assistenziali e di sostegno al reddito, anche in relazione a periodi di discontinuità del lavoro autonomo o delle attività delle piccole imprese, è sostenuta e incentivata.
Art. 14 (Diritto al preavviso nei contratti a tempo determinato)
1. In tutti i contratti a tempo indeterminato ciascuna delle parti può recedere dando preavviso nel termine stabilito contrattualmente, o secondo gli usi o, in mancanza, dal giudice secondo equità. 2. Salvo che la legge o il contratto non dispongano altrimenti, il preavviso non è dovuto se il recesso è obbiettivamente giustificato.
Art. 15 (Diritto all’associazionismo professionale)
1. Ai lavoratori e alle lavoratrici è garantito il diritto di costituire associazioni sindacali e professionali, di aderirvi e di svolgere attività di tutela e promozione degli interessi professionali collettivi.
Art. 16 (Divieto di istaurare rapporti di lavoro per finalità antisindacali)
1. L’instaurazione di un qualsiasi rapporto di lavoro, ovvero l’utilizzo specifico di altri lavoratori in organico, per la sostituzione di lavoratori e lavoratrici che esercitano di diritto di sciopero, costituisce condotta antisindacale ai sensi dell’articolo 28 della legge 20 maggio 1970, n. 300.
Capo III LAVORATRICI E LAVORATORI ECONOMICAMENTE DIPENDENTI
Art. 17
(Ambito di applicazione) 1. Le disposizioni di cui al presente Capo integrano le disposizioni di cui al Capo II, che si intendono richiamate, con specifico riferimento ai rapporti di lavoro caratterizzati da una situazione di dipendenza economica del prestatore di lavoro . 2. Si considerano tali i rapporti di collaborazione aventi ad oggetto una prestazione d’opera coordinata e continuativa, prevalentemente personale, svolta senza vincolo di subordinazione, senza vincolo di orario di lavoro, indipendentemente dall’ambito aziendale o extra aziendale in cui si svolge la prestazione stessa. 3. Ove il rapporto di lavoro presenti, nelle sue concrete modalità di svolgimento, le caratteristiche proprie di lavoro subordinato fin dal momento in cui, in sede giudiziale, si riscontri che dette caratteristiche sussistano.
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4. Sono esclusi dall’ambito di applicazione del presente Capo i rapporti di lavoro che abbiano una durata complessiva inferiore a trenta giorni nell’anno solare.
Art. 18 (Obbligo di comunicazione dei contenuti del contratto)
1. Il committente è tenuto a trasmettere ai servizi per l’impiego competenti e a consegnare alla lavoratrice e al lavoratore, rispettivamente entro cinque giorni ed entro trenta giorni lavorativi dall’inizio dell’attività lavorativa, una copia del contratto di lavoro o della lettera di incarico o dei altro documento scritto che contenga la puntuale indicazione dei seguenti elementi: a) l’identità delle parti; b) il luogo o i luoghi di lavoro, nonché la sede o il domicilio del committente; c) la data d’inizio del rapporto, la durata del contratto e l’eventuale periodo di prova; d) l’oggetto della prestazione lavorativa; e) l’ammontare del corrispettivo, i tempi di pagamento e la disciplina degli eventuali rimborsi spese; f) le modalità idonee a garantire le informazioni necessarie all’esecuzione della attività lavorativa o alla realizzazione del risultato, nonché alle forme di controllo del committente sull’esecuzione o sulla realizzazione stessa; g) l’eventuale facoltà del prestatore di lavoro, previa accettazione del committente, di farsi sostituire temporaneamente da persona resa nota al committente stesso, o di lavorare in coppia, dando luogo, in entrambi i casi, ad un unico rapporto con responsabilità solidale di ciascuno dei prestatori per l’esecuzione dell’intera opera o servizio; h) le previsione di un congruo periodo di preavviso per il recesso nei contratti di durata superiore a dodici mesi.
Art. 19 (Diritto al compenso)
1. Le lavoratrici e i lavoratori di cui al presente Capo hanno diritto a un compenso proporzionato alla qualità e quantità del lavoro svolto, e sufficiente per un’esistenza libera e dignitosa, secondo quanto stabilito negli accordi e contratti collettivi applicabili o comunque in uso per prestazioni analoghe o comparabili. 2. Se il compenso non è determinato o determinabile contrattualmente, e comunque se non è conforme a quanto stabilito nel comma1, il suo ammontare è stabilito dal giudice secondo equità.
Art. 20 (Diritto a condizioni di lavoro eque e giuste)
1. Le lavoratrici e i lavoratori di cui al presente Capo hanno diritto, pur in assenza di vincolo di orario, a congrui periodi di sospensione dell’attività, giornalieri, settimanali e annuali. 2. I periodi di cui al comma 1 sono determinati contrattualmente o, in mancanza, dal giudice secondo equità.
Art. 21 (Tutela delle legittime sospensioni della prestazione)
1. In caso di infortunio, di malattia, di gravidanza, di maternità, di paternità, di congedo parentale, di cura e di assistenza di familiari o personale, di svolgimento di attività di formazione continua e permanente, le lavoratrici di cui al presente Capo hanno diritto di astenersi dalla prestazione, percependo, laddove previsto, il compenso o un’indennità previdenziale nella misura e per la durata stabilite dalla legge.
Art. 22 (Diritti di informazione)
1. Le lavoratrici e i lavoratori di cui al presente Capo hanno diritto di ricevere dal committente comunicazione scritta, entro un mese dall’adozione delle modificazione degli elementi del contratto di cui all’articolo 18. 2. Il committente è tenuto a organizzare i propri flussi di comunicazione in modo da garantire a tutte le lavoratrici e ai lavoratori pari condizioni nell’accesso alle informazioni attinenti al lavoro e all’attività sindacale.
Art. 23 (Salute e sicurezza)
1. Ai lavoratori ed alle lavoratrici di cui al presente Capo, qualora siano inseriti nell’ambiente di lavoro organizzato dal committente, si applicano le disposizioni in materia di salute e sicurezza del lavoro previsto dal decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, e successive modificazioni. In particolare essi devono essere considerati ai fini dell’adempimento degli obblighi inerenti la valutazione dei rischi e la relativa documentazione, la tenuta e l’aggiornamento del registro infortuni, i servizi di prevenzione e protezione e di gestione delle emergenze, la sorveglianza sanitaria, i diritti di informazione e formazione. 2. Le disposizioni legislative tengono conto delle caratteristiche delle prestazioni lavorative, adottando misure funzionalmente equivalenti, ma in ogni caso adeguate e sufficienti a garantire i diritti di cui al comma 1. 3. Le lavoratrici e i lavoratori di cui al presente Capo hanno diritto, in caso di attività lavorativa svolta, per un periodo significativo di un tempo e indipendentemente dal luogo in cui si svolge l’attività, su attrezzature munite di videoterminali, allo stesso livello di protezione di cui beneficiano le lavoratrici e i lavoratori di cui al Capo IV. 4. E’ vietato affidare alle lavoratrici e ai lavoratori di cui al presente Capo le lavorazioni che richiedano sorveglianza modica e speciale e lavori particolarmente pericolosi. 5. Le modalità di individuazione delle rappresentanze per la sicurezza dei lavoratori di cu al presente Capo sono stabilite con accordi o contratti collettivi o, in mancanza, con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, previo accordo con le confederazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rapprsentative.
Art. 24 (Diritti di sicurezza sociale)
1. Le lavoratrici e i lavoratori di cui al presente Capo hanno diritto alla tutela previdenziale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti, per malattia e infortunio, per maternità e paternità, per assegni al nucleo familiare.
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2. Le lavoratrici e i lavoratori di cui al presente Capo hanno inoltre diritto di aderire alle forme di previdenza complementare, in regime di contribuzione definita, istituite secondo quanto previsto dalla normativa vigente, anche unitamente alle lavoratrici e ai lavoratori subordinati. A tale fine, ad essi si applica la disciplina delle forme pensionistiche complementari, come modificata dalle disposizioni di cui all’articolo 38, comma 1, lettere a) e b). 3. I lavoratori hanno altresì diritto a che siano assicurati mezzi adeguati alla soddisfazione di esigenze socialmente rilevanti in relazione ai periodi di discontinuità del lavoro.
Art. 25 (Obbligo di riservatezza)
1. Salvo diverso accordo tra le parti, le lavoratrici e i lavoratori di cui al presente Capo possono svolgere la loro attività a favore di più committenti, senza pregiudizio dell’attività dei committenti medesimi.
Art. 26
(Diritti per apporti originali e per le invenzioni della lavoratrice e del lavoratore) 1. I diritti di utilizzazione economica relativi alla creazione di apporti originali, come pure quelli riguardanti l’invenzione fatta in occasione dello svolgimento dell’attività o nell’esecuzione del servizio oggetto del contratto, spettano alla lavoratrice e al lavoratore, salvo il caso in cui l’attività inventiva costituisca oggetto della attività lavorativa così come dedotto in contratto. 2. Salvo il caso in cui l’attività inventiva costituisca oggetto della attività lavorativa così come dedotto in contratto, il committente ha diritto di prelazione sull’utilizzazione economica dei diritti o per l’acquisto del brevetto, da esercitare entro tre mesi dalla conoscenza della creazione o della comunicazione del conseguimento del brevetto da parte della lavoratrice o del lavoratore, verso corresponsione di un canone o di un prezzo determinati di comune accordo. 3. In caso di mancato accordo sul canone o sul prezzo, si applicano le disposizioni legislative in materia di brevetti per invenzioni dalla lavoratrice e del lavoratore.
Art. 27 (Recesso)
1. Nei contratti di cui al presente Capo, stipulati per una durata superiore a dodici mesi, è ammesso il recesso solo per giusta causa, senza obbligo di preavviso, ovvero il recesso per giustificato motivo, con obbligo di preavviso. Nei contratti di durata inferiore, è ammesso il recesso solo per giusta causa. 2. La durata del preavviso, ove non sia stabilita contrattualmente, è determinata in base agli usi, o in mancanza, dal giudice secondo equità. In committente può corrispondere un’indennità sostitutiva di importo pari al compenso che sarebbe spettato alla lavoratrice o al lavoratore per la durata del preavviso medesimo. La lavoratrice o il lavoratore può corrispondere al committente un’indennità sostitutiva di importo pari alla metà del suddetto compenso. 3. Il recesso è comunicato per iscritto. La lavoratrice o il lavoratore può chiedere, entro dieci giorni dalla comunicazione, i motivi che hanno determinato il recesso. In tal caso, il committente deve, nei dieci giorni successivi alla richiesta, comunicarli per iscritto al lavoratore. 4. Il recesso intimato senza l’osservanza delle disposizioni di cui al comma 3 è inefficacie. 5. Il committente che recede ingiustificatamente dal contratto è tenuto a corrispondere alla lavoratrice o al lavoratore un congruo indennizzo, di importo pari a quello dell’indennità di mancato preavviso e comunque modulato sulla base della dimensione occupazionale dell’impresa committente. 6. La lavoratrice e il lavoratore che recede per giusta causa ha diritto a percepire dal committente l’indennità sostitutiva del preavviso. 7. Il recesso per motivi discriminatori di cui all’articolo 7 è nullo. 8. Rientra nella giusta causa o nel giustificato motivo di recesso della lavoratrice o del lavoratore le modificazione unilaterale da parte del committente degli elementi del contratto di cui all’articolo 18.
Art. 28 (Diritti sindacali)
1. Alle lavoratrici e ai lavoratori di cui al presente Capo è garantito il diritto: a) di costituire associazioni e organismi sindacali e di aderire, non aderire o recedere da organizzazioni esistenti; b) di partecipare alle assemblee indette dalle rappresentanze sindacali aziendali all’interno delle unità produttive; c) di negoziare liberamente, per il tramite delle loro organizzazioni, accordi e contratti collettivi per la regolazione dei rapporti di lavoro. 2. Ove i contratti o accordi collettivi di cui al comma 1, lettera c), non prevedano la costituzione di organismi di rappresentanza delle lavoratrici e dei lavoratori medesimi all’interno delle unità produttive, il loro diritto elettorale, attivo e passivo, per la partecipazione alle rappresentanze sindacali aziendali dei lavoratori subordinati costruite o da costituire nelle unità produttive, e comunque il loro diritto di partecipare alle assemblee, può essere previsto e disciplinato dai contatti collettivi applicati nelle unità produttive di riferimento. 3. Alle lavoratrici e ai lavoratori che svolgono la prestazione di lavoro in regime d telelavoro è riconosciuto, nelle unità produttive in cui siano costituite rappresentanze sindacali aziendali dei lavoratori subordinati, il diritto di accesso all’attività sindacale che si svolge in azienda anche tramite l’istituzione di una bacheca elettronica o di altro sistema elettronico a cura della rappresentanza sindacale aziendale e a spese dell’azienda, in cui vengono inserite tutte le informazioni di interesse sindacale e lavorativo.
Art. 29 (Diritto di sciopero)
1. Le lavoratrici e i lavoratori di cui al presente Campo hanno diritto di sospendere la propria attività lavorativa a fini di autotutela sindacale. 2. Nei servizi pubblici essenziali, il diritto di sciopero si esercita nei limiti e alla condizioni di cui alla legge 12 giugno 1990, n. 146.
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Capo IV STATUTO DELLE LAVORATRICI E DEI LAVORATORI
Art. 30
(Ambito di applicazione e fonti di disciplina del lavoro subordinato) 1. Le disposizioni di cui al presente Capo intergrano le disposizioni di cui al Capo II, che si intendono qui richiamare, con specifico riferimento a tutti i rapporti di lavoro subordinato. 2. Ai lavoratori di cui al presente Capo si applica la disciplina stabilita dal codice civile, della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, e da tutte le altre leggi che disciplinano il rapporto di lavoro alle discipline di datori di lavoro privati e di pubbliche amministrazioni.
Art. 31 (Diritti di informazione, consultazione e partecipazione)
1. Le lavoratrici e i lavoratori, tramite i loro rappresentanti sindacali, hanno diritto di essere e consultati in ogni fase di mutamento dell’assetto occupazionale e organizzativo dell’impresa, in particolare dei processi di ristrutturazione, nei trasferimenti d’azienda e nei licenziamenti collettivi. 2. Le lavoratrici e i lavoratori, tramite i loro rappresentanti sindacali, hanno diritto di essere informati e consultati in tutte le maniere previste dalla direttiva 2002/14/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 marzo 2002, che istituisce un quadro generale relativo all’informazione e alla consultazione dei lavoratori nella Unione europea. 3. Le lavoratrici e i lavoratori hanno altresì diritto di essere resi partecipi, tramite i loro rappresentanti sindacali, delle decisioni adottate nell’ambito della “Società europea”, di cui alla direttiva 2001/86/CE del Consiglio, dell’8 ottobre 2001. 4. I diritti di informazione, consultazione e partecipazione si esercitano nelle forme individuate prioritariamente dalla contrattazione collettiva.
Art. 32 (Formazione continua e permanente)
1. Le lavoratrici e i lavoratori hanno diritto di sospendere la prestazione di lavoro per attività di formazione continua e permanente, percependo, laddove previsto, il compenso, secondo quantità, modalità e durata stabilite dalla legge e dai contratti collettivi. 2. Lo Stato, le regioni e gli enti locali assicurano, secondo le rispettive competenze, un’offerta formativa articolata, adeguata e accreditata.
Art. 33 (Diritto alla tutela attiva del reddito in caso di disoccupazione involontaria)
1. Le lavoratrici e i lavoratori di cui al presente Capo hanno diritto, in caso di disoccupazione involontaria, anche parziale, alla tutela attiva della continuità del reddito, anche in forma di integrazione salariale nel caso di sospensione o riduzione dell’attività lavorativa, secondo forme che ne assicurino l’adeguatezza, la temporaneità, la finalizzazione al mantenimento e al miglioramento della capacità professionale e alla rioccupazione produttiva, l’economicità di gestione.
Art. 34 (Disposizioni in materia di previdenza pensionistica complementare)
1. Ai fini della legislazioni concorrente delle regioni in materia di previdenza complementare, la disciplina di riferimento è costituita dalle disposizioni di cui al decreto legislativo 21 aprile 1993, n. 124, e successive modificazioni. 2. Le modalità di adesione ai fondi pensione possono essere stabilite dalle fonti istituite anche attraverso procedure di silenzio-assenso. 3. Alle lavoratrici e ai lavoratori iscritti alle forme di previdenza complementare, deve essere garantita la facoltà di trasferire l’intera posizione individuale ad altra forma di previdenza complementare, quando cessino i requisiti di partecipazione, ovvero quando sia decorso un periodo minimo stabilito dalla legge o dalle fonti istitutive. 4. Il trasferimento della posizione individuale comporta l’obbligo del conferimento dell’accantonamento annuale del trattamento di fine rapporto a favore della forma di previdenza complementare di destinazione. 5. Ai fini di cui al presente articolo, si applica la disciplina delle forme pensionistiche complementari e individuali, come modificata dalle disposizioni di cui all’articolo 38, comma 1, lettere c), e) ed f). 6. Le lavoratrici ed i lavoratori del pubblico impiego accedono alle forme di previdenza complementare con le modalità contributive previste dagli specifici accordi contrattuali, anche in riferimento al conferimento del trattamento di fine rapporto.
Capo V DISPOSIZIONI FINALI
Art. 35
(Diritto alla composizione stragiudiziale delle controversie) 1. Tutte le lavoratrici e i lavoratori hanno diritto di accedere a forme di composizione stragiudiziale delle liti di lavoro, previste e disciplinate su base collettiva e idonee a risolvere le controversie in tempi celeri, secondo giustizia. 2. Sugli importi monetari riconosciuti a favore della lavoratrice o delle lavoratore in caso di risoluzione della controversia in sede conciliativa o arbitrale è riconosciuto il beneficio della riduzione, in misura pari al 50 per cento, dell’aliquota applicabile per il calcolo dei contributi di previdenza e assistenza sociale, nonché della ritenuta ai fini dell’imposta sul reddito.
Art. 36
(Misure di promozione dell’adempimento degli obblighi in materia di tutela della salute e della sicurezza delle lavoratrici e dei lavoratori)
1. Fino a quando non intervengano in materia di leggi regionali, con regolamenti da emanare con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro della salute, previo accordo con le confederazioni sindacali
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comparativamente più rappresentative, e nel rispetto dei principi fondamentali desumibili dalla legislazione statale, sono disciplinate idonee forme di assistenza e consulenza gratuite, a carico dei competenti servizi pubblici, a favore di piccoli imprenditori e dei datori di lavoro non imprenditori, finalizzate all’espletamento non oneroso degli adempimenti previsti dalle disposizione del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, e successive modificazioni.
Art. 37 (Disposizioni in materia di incentivi all’occupazione e all’atuoimpiego)
1. Per le finalità di promozione della piena e buona occupazione di cui all’articolo 9, lo Stato e le regioni, nell’esercizio delle rispettive potestà legislative e regolamentari, possono riconoscere ai datori di lavoro e ai lavoratori apposite incentivazioni all’espansione occupazionale e all’autoimpiego, sotto forma di sgravi contributivi, finanziamenti agevolati, crediti d’imposta, forme d’imposizioni negativa del reddito,prestazioni di garanzie per l’accesso al credito, deduzioni del reddito imponibile. 2. Gli incentivi e le agevolazioni di cui al comma 1 devono essere prioritariamente orientati a favorire: a) l’instaurazione di rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato o a tempo determinato di durata superiore a dodici mesi, con persone in situazione di difficoltà occupazionale, quali in particolare inoccupati e disoccupati di più di un anno, inoccupati di età inferiore a 26 anni, disoccupati di età superiore a 45 anni, inoccupati e disoccupati precedentemente impiegati in lavoro di cura di familiari, disabili gravi o minori di anni 12 o per gravi motivi di famiglia, immigrati regolari, disabili gravi; b) l’instaurazione di rapporti di lavoro subordinato con finalità formativa; c) l’emersione del lavoro non dichiarato o irregolare, inerente sia a datori di lavoro non dichiarati, sia a rapporti di lavoro non dichiarati o irregolari, ma instaurati con datori di lavoro dichiarati; d) l’intrapresa di attività di lavoro autonomi o di attività imprenditoriali; e) la continuità operativa e gestionale delle piccole e medie imprese, attraverso forme di apprendistato o tirocinio idonee ad agevolare il subentro di familiari o collaboratori nell’esercizio dell’impresa; f) il ricorso a prestazioni di lavoro a tempo parziale su base volontaria, con particolare riferimento alle ipotesi di espansione della base occupazionale dell’impresa o di impiego di giovani impiegati in percorsi di istruzione e formazione, di genitori con figli minori, di lavoratori di età superiore a 55 anni, nonché la trasformazione a tempo parziale di contatti a tempo pieno che intervenga in alternativa all’avvio di procedure di riduzione di personale. 3. Fatte salve le competenze delle regioni in materia di previdenza integrativa complementare, nonché quelle attinenti a tributi propri delle stesse ragioni, con riferimento alle misure di incentivazione consistenti in agevolazioni di carattere previdenziale e tributario, le disposizioni legislative g regolamentari adottate a tal fine dello Stato devono prevedere, attraverso specifiche norme di coordinamento: a) l’integrazione del sistema di incentivi statale con le politiche locali di sviluppo e di incentivazione dell’occupazione; b) il collegamento con la disciplina della verifica dello stato di in occupazione o disoccupazione e con la disciplina delle relative sanzioni; c) il collegamento con le misure di tutela attiva del lavoro e del reddito di cui all’articolo 33, e con le disposizioni legislative inerenti i diritti di sicurezza sociale in materia di sostegno e integrazione del reddito, in quanto orientale a favorire la tutela attiva del lavoro. 4. Le disposizioni di incentivazione dell’occupazione e allo sviluppo adottate con le leggi e i regolamenti regionali, nell’ambito della potestà concorrente di cui all’articolo 117 della Costituzione, sono determinate nel rispetto dei principi fondamentali stabiliti o desumibili dalla legislazione statale vigente, delle competenze legislative statali in materia di immigrazione, tutela della concorrenza, perequazione delle risorse finanziarie, nonché di rispetto dei vincoli posti dall’articolo 120 della Costituzione.
Art. 38 (Disposizioni modificative del decreto legislativo n. 124 del 1993, in materia di forme pensionistiche complementari e individuali)
1. Al decreto legislativo 21 aprile 1993, n. 124, e successivamente modificazioni, sono apportate le seguenti modificazioni: a) all’articolo 2, comma 1, lettera b), è aggiunto il seguente periodo: “le fonti istitutive di cui alla lettera a) del comma 1 dell’articolo 3 possono consentire che l’istituzione di forme pensionistiche complementari per i lavoratori economicamente dipendenti avvenga unitamente ai lavoratori di cui alle lettere a) e b-bis) del presente comma, che siano inseriti nelle imprese committenti”; b) l’articolo 2, comma2, la lettera a) è sostituita dalla seguente: “a) per i soggetti di cui al comma 1, lettere a), b-bis) e b-ter), e per quelli di cui all’ultimo periodo della lettera b), esclusivamente forme pensionistiche complementari in regime di contribuzione definitiva”; c) all’articolo 3, il comma 4 è sostituito dal seguente: “4. Le fonti istituite di cui al comma 1 stabiliscono le modalità di adesione ai fondi pensioni, anche definendo procedure di silenzio-assenso alla partecipazione ai fondi, che in ogni caso prevedano un termine non inferiore a tre mesi per la manifestazione del rifiuto di aderire e che tengano altresì ferma la preventiva informazione degli aderenti, come richiesta di attuazione dell’articolo 4, comma 4”; d) all’articolo 7, dopo il comma 3, è inserito il seguente: “3-bis. Al compimento del periodo minimo di partecipazione di cui ai commi 2 e 3 del presente articolo, nonché di cui al comma 4 dell’articolo 9-bis, concorrono anche i periodi di appartenenza alle forme pensionistiche complementari e individuali delle quali l’iscritto abbia trasferito la posizione individuale, secondo le previsioni di cui all’articolo 10, comma 1, lettere a) e b), 2, 3-bis e 3-quinquies”; e) all’articolo 10, comma 1, lettera b), è aggiunto il seguente periodo: “il trasferimento della posizione individuale comporta anche la prosecuzione dell’obbligo di accantonamento del TFR, nella misura stabilita dalle fonti istitutive di cui all’articolo 8. comma 2, a favore fondo pensione di destinazione; f) all’articolo 10, comma 3-bis, il primo periodo è sostituito dal seguente: “Le fonti istitutive prevedono per ogni singolo iscritto, anche in mancanza delle condizioni di cui ai commi precedenti, la facoltà di trasferimento dell’intera posizione individuale dell’iscritto, presso altro fondo pensione, di cui agli articoli 3 e 9, o presso una forma pensionistica individuale, di cui agli articoli 9-bis e 9-ter, non prima di tre anni di permanenza presso il fondo da cui l’iscritto di intende trasferire. Il
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trasferimento non può aver luogo, comunque, prima che siano trascorsi tre anni dalla data del primo provvedimento di autorizzazione di cui all’articolo 17, comma 2, lettera f)”.
Art. 39 (Responsabile disciplinari e tutela giudiziaria)
1. Fatte salve le responsabilità civile e penale, ove sussistenti secondo la normativa vigente, e salva la responsabilità disciplinare a carico di superiori, collaboratori o colleghi della lavoratrice o del lavoratore, secondo la normativa vigente e i contratti collettivi applicabili, le violazioni delle disposizioni di cui agli articoli 5 e 6 costituiscono, per le persone non assoggettabili a sanzioni disciplinari diverse dalla risoluzione del rapporto di lavoro, illecito di carattere amministrativo punibile con la sanzione amministrativa da 500 a 5.000 euro. Il relativo procedimento è di competenza dell’organo individuato ai sensi dell’articolo 41. 2. Per le violazione delle disposizioni di cui agli articoli 5, 6, e 7 della presente legge è ammessa l’azione di giudizio ai sensi dell’articolo 4 della legge 10 aprile 1991, n. 125, e successive modificazioni. Qualora il fatto non costituisca fattispecie discriminatoria, le disposizioni di cui al citato articolo 4 della legge n. 125 del 1991 si applicano nei limiti della compatibilità. 3. In caso di inadempimento dell’obbligo di cui all’articolo 18 della presente legge, si applicano le disposizioni di cui all’articolo 4 del decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 152.
Art. 40 (Sanzioni penali)
1. Le violazioni delle disposizioni di cui all’articolo 3, comma 2, all’articolo 4 e all’articolo 16, sono punite con le sanzioni di cui all’articolo 38 della legge 20 maggio 1970, n. 300.
Art. 41 (Organi di vigilanza)
1. Il controllo sull’osservanza delle disposizioni di cui alla presente legge competente al Ministero del lavoro e delle politiche sociali , che lo esercita attraverso il servizio ispettivo delle direzioni provinciali del lavoro ovvero attraverso l’organo competente per territorio secondo la disciplina vigente.
Art. 42 (Verifica dell’efficacia della legge)
1. Decorsi due anni dalla data di entrata in vigore della presente legge, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali procede ad una verifica, con le organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rapprsentative sul piano nazionale, degli effetti e della efficacia delle disposizioni di cui agli articoli 35, 36, e 37, e ne riferisce entro sei mesi alle componenti Commissioni parlamentari permanenti.
Art. 43 (Copertura finanziaria)
1. Agli oneri derivanti dall’attuazione della presente legge si provvede, fino a concorrenza degli importi, mediante le maggiori entrate derivanti dall’applicazione delle seguenti disposizioni: a) l’articolo 13 della legge 18 ottobre 2001, n. 383, è abrogato; b) a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge, le aliquote di base di cui all’articolo 5 della legge 7 marzo 1985, n. 76, e successive modificazioni, per il calcolo dell’imposta di consumo sui tabacchi lavorati destinati alla vendita del pubblico nel territorio soggetto a monopolio, sono uniformemente incrementate del 50 per cento.
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DOC N. 7
“LA PROPOSTA DI INIZIATIVA POPOLARE DELLA CGIL”
PROPOSTA DI LEGGE DI INIZIATIVA POPOLARE PROMOSSA DALLA CGIL PER L’UNIFICAZIONE DEI DIRITTI NELLE PRESTAZIONI DI LAV ORO CONTINUATIVE
Art. 1
Nuovo testo degli artt. 2094 e 2095 cod. civ. Gli articoli 2094 e 2095 cod. civ. sono sostituiti dalle seguenti disposizioni: “Art. 2094 – Contratto di lavoro “1. Con il contratto di lavoro, che si reputa a tempo indeterminato salve le eccezioni legislative previste, il lavoratore si obbliga, mediante retribuzione, a prestare la propria attività intellettuale o manuale in via comunicativa all’impresa o diversa attività organizzata da altri, con destinazione esclusiva del risultato al datore di lavoro. “2. Il contratto di lavoro deve prevedere mansioni, categoria, qualifica e trattamento economico e normativo da attribuire al lavoratore. “3. L’eventuale esclusione, per accordo tra le parti espresso o per fatti concludenti, dell’esercizio da parte del datore dei poteri di cui agli artt. 2103, primo e secondo periodo, 2104, comma 2, 2106, nonché dell’applicazione degli artt, 2100, 2101, 2102, 2108 cod. civ. e dell’art. 7 della legge 20 maggio 1970 n. 300, non comporta l’esclusione dei prestatori di lavoro interessati dalla fruizione delle discipline generali di tutela del lavoro interessati dalla fruizione delle discipline generali di tutela del lavoro previsti dal codice civile e dalle leggi speciali, né può dar luogo a trattamenti economico-normativi inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi applicati agli altri lavorativi dipendenti della medesima impresa. “4. L’accordo di cui al comma 3, qualora intervenga fra i contraenti di un contratto di lavoro in corso di esecuzione, non costituisce novazione del rapporto di lavoro né può comportare per il lavoratore peggioramenti di trattamento economico-normativo”. “Art. 2094-bis – Diritti di informazione “1. I datori di lavoro informano semestralmente le rappresentanze sindacali aziendali o le Rsu, ove costituite, sul numero, le caratteristiche professionali e le modalità delle prestazioni lavorative dei lavoratori che prestano la loro attività nelle rispettive aziende”. “Art. 2095 – Categorie dei prestatori di lavoro “1. I prestatori di lavoro di cui al comma 1 dell’art. 2094 cod. civ. si distinguono in dirigenti, quadri, impiegati e operai”.
Art. 2 Apposizione del termine al contratto di lavoro
1. Il contratto di lavoro di cui all’art. 2094, comma 1, del codice civile, è stipulato di regola a tempo indeterminato. 2. E’ tuttavia consentita l’apposizione di un termine finale di durate al contratto di lavoro subordinato quando ciò sia richiesto: a) del carattere stagionale dell’attività lavorativa, come risultante dall’elenco delle attività stagionali da approvarsi con decreto del Presidente della Repubblica da emanarsi, su proposta del Ministro del lavoro, entro un anno dall’entrata in vigore della presente legge. Detto elenco può essere successivamente modificato o integrato con le medesime modalità. Nelle more dell’emanazione del decreto si fa riferimento all’elenco contenuto del d.p.r. 7 ottobre 1963, n. 1525 e successive modificazioni; b) da punte stagionali d’intensificazione dell’attività produttiva; c) dall’esigenza di sostituire lavoratori assenti, con l’esclusione di assenze dal lavoro giustificare dalla legislazione sul diritto di sciopero; d) dell’esecuzione di un’opera o di un servizio definiti e predeterminati nel tempo aventi carattere straordinario od occasionale; e) dall’esecuzione di lavorazioni a fasi successive che richiedono maestranze diverse per specializzazioni da quelle normalmente impiegata; f) nelle assunzioni di personale riferite a specifici spettacolari ovvero a specifici programmi radiofonici o televisivi; g) in tutte le ulteriori ipotesi definite dai contatti collettivi nazionali stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi e applicati dal datore di lavoro. In relazione a tali ipotesi i contratti collettivi stabiliscono la percentuale massima di lavoratori che possono essere assunti con contatto a termine rispetto al numero dei dipendenti a tempo indeterminato in forza all’impresa al 1° gennaio di ciascun anno. 3. L’apposizione del termine è priva di effetto se non risulta da atto scritto nel quale devono essere indicate le relative causali giustificative. 4. In tutti i casi di legittima apposizione del termine è riconosciuto al lavoratore i diritto di precedenza ove il datore di lavoro effettui, entro un anno dalla scadenza del termine, nuove assunzioni a tempo determinato. Il contratto di lavoro a termine si trasforma in contratto a tempo indeterminato quando il lavoratore, nel quinquennio precedente, abbia già lavorato alle dipendenze del medesimo datore di lavoro per almeno diciotto mesi, anche non continuativi. L’eventuale violazione, da parte del lavoro, del diritto di precedenza non impedisce il perfezionamento del requisito. 5. Nell’articolo 4, comma 1, del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 le parole “tre anni” sono sostituire dalle parole “diciotto mesi”. Il comma 2 è abrogato. 6. L’onere della prova relativa all’obiettiva esistenza delle condizioni che giustificano sia l’apposizione di un termine al contratto di lavoro subordinato, sia l’eventuale temporanea proroga del termine stesso è a carico del datore di lavoro. 7. In tutte le ipotesi in cui, per disposizioni di legge o per contratto collettivo, si renda necessario l’accertamento della consistenza dell’organico, i lavoratori assunti con contratto a termine, compresi quelli con qualifica di dirigente, si
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computano sommando il numero di ore lavorative da essi effettuate nell’anno del calendario immediatamente precedente e dividendo la cifra ottenuta per 1.905 o per il divisore corrispondente al minor numero di ore normale di lavoro svolte, ai sensi della disciplina collettiva applicabile, da un lavoratore a tempo pieno e indeterminato. 8. Le disposizioni del presente articolo costituiscono attuazione della direttiva 1999/70 Ce relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’Unice, dal Ceep e dalla Ces. Il decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 è abrogato, fatti salvi i commi 3 e 4 dell’art. 1, l’art. 4, comma 1, 4 e 6 dell’art. 10 e l’art. 12. 9. E’ fatta altresì salva la previsione dell’art. 3 con l’esclusione della proposizione “ovvero abbi una durata iniziale non superiore a tre mesi” che è abrogata.
Art. 3
Contribuzione previdenziale 1. La contribuzione previdenziale dovuta per i lavoratori che prestino la loro collaborazione secondo le modalità di cui al comma 3 dell’art. 2094 cod. civ. è uguagliata, a far tempo dalla data di entrata in vigore della presente legge, a quella già prevista dalle norme vigenti per gli antri lavoratori che prestino la loro opera nell’impresa. 2. Per un periodo di dodici mesi dall’entrata in vigore della presente legge, è riconosciuto ai datori di lavoro un credito contributivo, compensabile su debito contributivo mensile complessivo, pari all’importo forfetario di euro 200 moltiplicato per il numero dei lavoratori che prestano lavoro con le modalità di cui al comma 3 dell’art. 2094 cod. civ.
Art. 4
Collaborazioni occasionali 1. Ai prestatori di lavoro che svolgono in maniera occasionale e verso una pluralità di committenti la loro attività con autodeterminazione dei tempi e dei modi di lavoro, vanno comunque assicurati i diritti sociali fondamentali: tutela della maternità, delle malattie, degli infortuni, previdenza equo compenso, diritti sindacali, divieto di recesso senza giusta causa.
Art. 5 Modifica dell’art. 2549
L’art. 2549 del codice civile è sostituito dal seguente: “Art. 2549 – Nozione di associazione in partecipazione “1. Con il contratto di associazione in partecipazione l’associante attribuisce all’associato una partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari verso il corrispettivo di un determinato apporto. Detto apporto in nessun caso può essere costituito da una prestazione di lavoro, di qualsiasi natura. Qualora l’apporto dell’associato si concreti nella prestazione di un’attività lavorativa, in violazione di quanto disposto del presente articolo, il contratto di associazione in partecipazione è nullo e in sua vece si considera stipulato fra le parti un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato”.
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RIEPILOGO ABBREVIAZIONI RIVISTE E QUOTIDIANI CONSULTATI
CD CRTICA DEL DIRITTO CDS CORRIERE DELLA SERA DD DEMOCRAZIA E DIRITTO DRI DIRITTO DELLE RELAZIONI INDUSRIALI EL ECONOMIA E LAVORO FI FORO ITALIANO GDLRI GIORNALE DI DIRITTO DEL LAVORO E DELLE
RELAZIONI INDUSTRIALI GIO IL GIORNALE IDL IL DIRITTO DEL LAVORO IG IL GIORNO IM IL MULINO IS INDUSTRIA E SINDACATO L’U L’UNITA’ L80 LAVORO 80 LD LAVORO E DIRITTO LG IL LAVORO NELLA GIURISPRUDENZA LI LAVORO INFORMAZIONE LR LA REPUBBLICA LS LAVORO E SINDACATO M MERIDIANA MAN IL MANIFESTO MGL MASSIMARIO DI GIURISPRUDENZA DEL LAVORO MO MONDOPERAIO PD POLITICA DEL DIRITTO PE POLITICA ED ECONOMICA QDLRI QUADERNI DI DIRITTO DEL LAVORO E DELLE
RELAZIONI INDUSTRIALI QG QUALE GIUSTIZIA QP QUADERNI PIACENTINI QR QUADERNI ROSSI QRS QUADERNI DI RASSEGNA SINDACALE QSS QUADERNI DI SCIENZE SOCIALI RCDL RIVISTA CRITICA DI DIRITTO DEL LAVORO RCDP RIVISTA CRITICA DI DIRITTO PRIVATO RGL RIVISTA GIURIDICA DEL LAVORO RIDL RIVISTA ITALIANA DI DIRITTO DEL LAVORO RMAN LA RIVISTA DEL MANIFESTO RS RASSEGNA SINDACALE RTDPC RIVISTA TRIMESTRALE DI DIRITTO E PROCEDURA
CIVILE S SOCIETA’ S24 IL SOLE 24 ORE SL SOCIOLOGIA DEL LAVORO
400
RINGRAZIAMENTI I primo luogo un ringraziamento particolare va a Fabrizio e Andrea, che
mi hanno assistito nella redazione della tesi: senza il vostro prezioso aiuto
e la vostra pazienza questo lavoro non sarebbe stato possibile.
Anche se non lo saprà mai, voglio comunque ringraziare il prof. Lorenzo
Gaeta i suoi collaboratori dell’Università di Siena, che mi hanno dato una
mano speciale nella ricerca bibliografica sulla crisi della subordinazione.
Un saluto speciale va inoltre al dottor. Luigi Cavallaro per la splendida
telefonata che mi ha dato spunti importantissimi per la redazione della
seconda parte del lavoro.
Un ringraziamento va anche alla biblioteca di Scienze Politiche e a Luana
per la revisione del testo.
Ancora, ringrazio particolarmente quelli che, standomi vicino, hanno
sopportato ognuna delle quattrocento pagine di questa tesi anche nei
periodi più duri e allucinanti dell’ultimo anno e mezzo.
Inoltre un saluto affettuoso va agli amici e alle amiche di sempre e a tutti
quelli che ho incontrato nel mio percorso di studi universitari.
meeh…fine.