Genesi Della Mafia

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Senato della Repubblica 91 Camera dei Deputati LEGISLATURA VI — DISEGNI DI LEGGE E RELAZIONI - DOCUMENTI CAPITOLO PRIMO LA GENESI DELLA MAFIA Premessa L'esposizione dei risultati conseguiti dalla Commissione durante ii lunghi anni del suo lavoro, deve necessariamente prendere le mosse dall'indagine circa le orìgini della ma- fia; e questo non tanto e non solo perché la legge istitutiva pone specificamente tra i compiti della Commissione quello di esami- nare « la genesi » del fenomeno mafioso, quanto perché non è nemmeno possibile tentare di individuare i modi tpiù efficaci di una lotta decisa alla mafia, se prima non si cerca di scoprirne le origini 'Stcxniche e le motivazioni profonde che, in una parte del territorio -nazionale, qua! è la Sicilia occi- dentale, sono state alla base di questo feno- meno singolare. Si può dire anzi che è stata proprio la mancanza di un'analisi approfondita delle cause iniziali della mafia che ha tallora com- promesso le iniziative prese dalle autorità responsabili per reprimere le manifestazioni del fenomeno, e che ha spesso nociuto alH'ef- ficacia delle numerose proposte che da più parti sono state di volta in volta avanzate nel .tentativo, purtroppo mai riuscito, di sra- dicare dalla società nazionale la mala pian- ta della mafia. La Commissione, perciò, si è resa conto fin dal primo momento della necessità di uno studio attento dei fattori, sociali o più in generale umani, che hanno inizialmente determinato la nascita della mafia e che ne hanno favorito la sopravvivenza, nonostante i mutamenti, tatara profondi, delle struttu- re istituzionali e sociali della comunità na- zionale e correlativamente di quella isolana. Questi mutamenti non hanno inciso, se non in misura esigua, sulle radiici del fenomeno, ma hanno soltanto provocato .una sensibile, continua evoluzione dalle sue manifestazio- ni esteriori, così da faA'orirne il progressivo adeguamento alle mutate condizioni obiet- tive. La percezione deJla forza, sempre rina- scente, defila mafia e della sua capacità di resistere agli eventi e alle vicende stesse .del tempo, ha maggiormente convinto la Com- missione dell'estrema utilità di una indagi- ne diretta a identificare con precisione le origini del fenomeno per metterne quindi a nudo, in tutte le possibili implicazioni, le posizioni attuala. Solo un'attenta ricerca sto- rica può permettere di capire veramente ciò che è vivo e ciò che è morto della mafia, così che sia possibile costruire, sulle basi di una meditata consapevolezza della real- tà, un sistema articolato di proposte che serva, nel tempo, a rimuovere, o almeno a comprimere, le cause della mafia, tuttora operanti nella società siciliana (e più in ge- nerale in quella italiana). La Commissione, naturalmente, non ha mai pensato di scrivere una propria storia della mafia che 'si andasse ad aggiungere, come un ennesimo, autonomo tentativo di interpretazione, a quelli già esistenti. Consapevole del contenuto e dei limiti del- la sua funzione, la Commissione si è invece proposta di ripensare, in una prospettiva po- litica (la sola che le è propria), le conclu- sioni e i giudizi a cui è pervenuta la sto- riografia sulla mafia, per poter così disporre di un utile, insostituibile parametro ai fini della ricostruzione e della vakitazione .dei risultati delle indagini compiute con riferi- mento alle specifiche manifestazioni che ha avuto negli ultimi anni il fenomeno mafioso.

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percorso storico sulla mafia

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LEGISLATURA VI — DISEGNI DI LEGGE E RELAZIONI - DOCUMENTI

CAPITOLO PRIMO

LA GENESI DELLA MAFIA

Premessa

L'esposizione dei risultati conseguiti dallaCommissione durante ii lunghi anni del suolavoro, deve necessariamente prendere lemosse dall'indagine circa le orìgini della ma-fia; e questo non tanto e non solo perchéla legge istitutiva pone specificamente tra icompiti della Commissione quello di esami-nare « la genesi » del fenomeno mafioso,quanto perché non è nemmeno possibiletentare di individuare i modi tpiù efficacidi una lotta decisa alla mafia, se prima nonsi cerca di scoprirne le origini 'Stcxniche e lemotivazioni profonde che, in una parte delterritorio -nazionale, qua! è la Sicilia occi-dentale, sono state alla base di questo feno-meno singolare.

Si può dire anzi che è stata proprio lamancanza di un'analisi approfondita dellecause iniziali della mafia che ha tallora com-promesso le iniziative prese dalle autoritàresponsabili per reprimere le manifestazionidel fenomeno, e che ha spesso nociuto alH'ef-ficacia delle numerose proposte che da piùparti sono state di volta in volta avanzatenel .tentativo, purtroppo mai riuscito, di sra-dicare dalla società nazionale la mala pian-ta della mafia.

La Commissione, perciò, si è resa contofin dal primo momento della necessità diuno studio attento dei fattori, sociali o piùin generale umani, che hanno inizialmentedeterminato la nascita della mafia e che nehanno favorito la sopravvivenza, nonostantei mutamenti, tatara profondi, delle struttu-re istituzionali e sociali della comunità na-zionale e correlativamente di quella isolana.Questi mutamenti non hanno inciso, se nonin misura esigua, sulle radiici del fenomeno,

ma hanno soltanto provocato .una sensibile,continua evoluzione dalle sue manifestazio-ni esteriori, così da faA'orirne il progressivoadeguamento alle mutate condizioni obiet-tive.

La percezione deJla forza, sempre rina-scente, defila mafia e della sua capacità diresistere agli eventi e alle vicende stesse .deltempo, ha maggiormente convinto la Com-missione dell'estrema utilità di una indagi-ne diretta a identificare con precisione leorigini del fenomeno per metterne quindia nudo, in tutte le possibili implicazioni, leposizioni attuala. Solo un'attenta ricerca sto-rica può permettere di capire veramente ciòche è vivo e ciò che è morto della mafia,così che sia possibile costruire, sulle basidi una meditata consapevolezza della real-tà, un sistema articolato di proposte cheserva, nel tempo, a rimuovere, o almeno acomprimere, le cause della mafia, tuttoraoperanti nella società siciliana (e più in ge-nerale in quella italiana).

La Commissione, naturalmente, non hamai pensato di scrivere una propria storiadella mafia che 'si andasse ad aggiungere,come un ennesimo, autonomo tentativo diinterpretazione, a quelli già esistenti.

Consapevole del contenuto e dei limiti del-la sua funzione, la Commissione si è inveceproposta di ripensare, in una prospettiva po-litica (la sola che le è propria), le conclu-sioni e i giudizi a cui è pervenuta la sto-riografia sulla mafia, per poter così disporredi un utile, insostituibile parametro ai finidella ricostruzione e della vakitazione .deirisultati delle indagini compiute con riferi-mento alle specifiche manifestazioni che haavuto negli ultimi anni il fenomeno mafioso.

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Ripercorrendo, sia pure sommariamenite,le esperienze storiche secondo ili giudizio dicoloro che già ne hanno fatto oggetto dellaloro meditazione, la Commissione si (ripro-mette, in particolare, di individuare i mo-menti e le cause del fallimento della lottadello Stato democratico contro il fenome-no della mafia per trame spunti preziosinella ricerca di rimedi più efficaci e più in-cisivi di quelli finora adottati dalle autoritàresponsabili.

La Commissione vuole, in altri termini,che anche questa parte della oblazione, chesi propone di individuare la genesi dallamafia, sia finalizzata all'articolazione dellecomdlusioni che dovranno essere sottoposteall'attenzione del Parlamento. Non si inten-de oioè studiare la storia della mafia, quan-to capire i fenomeni sociali, economici e,più in generale politici, che ne sono statialla base, per poterne quindi desumere — aldi fuori perciò di un impegno meramenteteorico o accademdco — le premesse e leidee necessarie, per tradurre il lavoro com-piuto in tanti anni di indagine, in preciseproposte di interventi legislativi e ammini-strativi. In questa prospettiva, Ila Commissio-ne si propone di ricercare nelle vicende sto-riche della mafia le origini di alleimi pro-blemi, che in cento e più anni1 di vita na-zionale non ancora è stato possibile -risol-vere compiutamente e che, certo, hanno pe-sato in modo negativo nella lotta al fenome-no della mafia. Si tratta in particolare deiproblemi inerenti allo sviluppo economicodella società italiana, al suo autogoverno, aisuoi rapporti con lo Stato e con le sue ìstì-tuazioni, in primo luogo la Magistratura ela Polizia. Ritrovare nella storia le radicidi questi problemi, che sono ancora sul tap-peto, significa scoprire le cause della mafiae della sua invincibilità, ma significa insie-me porre le basi di un intervento più inci-sivo dell'apparato statale nella lotta alla ma-fia. La ricerca storica si-salda così con quel-lo che resta il compito principale deflla Com-missione: interpretare la mafia in chiavepolitica e sottoporre al Parlamento e al Pae-se le proposte più opportune per poterla al-la fine debellare.

SEZIONE PRIMA

LE ORIGINI REMOTE

La nascita vera e propria dèlia mafia sicolloca, per comune consenso, verso 'la me-tà del secolo scorso e cioè in un tempo inpratica corrispondente alla formazione del-l'Uniità d'Italia. È solo un questo periodo, in-fatti, che cominciano a verificarsi e a ripe-tersi con frequenza le manifestazioni più ca-ratteristiche del fenomeno (specie quelle ditipo delittuoso), e che si evidenzia, con sem-pre maggiore chiarezza, quella connotazio-ne specifica della mafia, che è costituita dal-l'incessante ricerca di un collegamento coni pubblici poteri.

Ciò non toglie, naturalmente, che la mafiaabbia radici lontane e che di essa si trovinonel passato gli elementi sparsi e diversi, ohehanno concorso a formarla, in una sintesinuova, tale da proporsi come una realtà, chenon è direttamente riconoscibile nei fattorisociali ed umani che ne sono stati alla base;ma appunto perciò è indispensàbile, per in-dividuare le origini profonde della mafia,scrutarne i segni premonitori nelle vicendedella storia siciliana, precedente all'Umitàd'Italia.

Come meglio si vedrà in seguito, la mafianon è una lega segreta e non è nemmeno unaorganizzazione in senso proprio, ma si qua-lifica piuttosto come .un comportamento diun certo tipo, che, sia pure mei quadro dideterminate costanti, ha avuto aspetti di-versi nelle varie situazioni storiche. Di con-seguenza, la storia della mafia si intrecciacon le vicende del popolo siciliano, e in par-ticolare della Sicilia occidentale, proprio inquanto sono queste vicende che hanno crea-to le premesse del fenomeno mafioso ed ènell'ambito più vasto della storia della Sici-lia che i mafiosi hanno svolto un proprioruolo, spesso significativo.

Nessun popolo, si può dire, ha subito, co-me quello siciliano, vicende così travagliate,

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e nessun popolo ha vissuto esperienze altret-tanto angosciose a contatto con civiltà di-verse, tutte interessate a lasciare nel suolooccupato e negli abitanti dell'Isola l'impron-ta della propria presenza.

Giustamente si è detto che la storia dellaSicilia è stata iuna storia di sbarchi, da quel-lo dei fenici a quello degli anglo-americaninel 1943: e tutte le volte le popolazioni lo-cali sono state costrette, nei modi più .vari,e spesso anche con la ricerca di un compro-messo, a difendersi dalle prepotenze e dallavolontà di conquista degli invasori.

La molteplicità e la varietà di queste vi-cende, che dovettero rappresentare per lepopolazioni siciliiame un terribile .trauma, nonimpediscono tuttavia di intravedere al fon-do delle cose la pratica identità, nel corsodei secoli, di due fattori particolarmente rile-vanti ai finii che qui interessano, e costitui-ti, l'uno dalla struttura ('sostanzialmente)feudale che ebbe per un lungo periodo del-la sua storia la società isolana, l'altro dal-l'assenza (o dalla lontananza) di un poterecentrale, che agglutinasse ile forze economi-che e sociali ed impedisse la formazione diceti privilegiati rispetto alle masse popolari.

Tutte le dominazioni, che sa succedetteronell'Isola, non furono in grado di esercita-re con incisività di proprio potere sulle po-polazioni locali.

iLa Sicilia, infatti, non fu mai un terri-torio coloniale totalmente soggiogato e sfrut-tato, ma non fu neppure messa .in condizio-ne di avere un governo autonomo, mentre ladistanza e i frequenti mutamenti del centrosovrano impedirono alle popolazioni indige-ne di identificarsi e di unirsi con i detentoridel potere.

La lontananza e la debolezza delle dinastiedominanti ebbero come naturale conseguen-za la dilagante, sfrenata indipendenza dellepotenze locali, interessate ad accrescere, conogni forma di vessazioni e di angherie, la pro-pria posizione di 'privilegio.

Il fenomeno ebbe manifestazioni più ac-centuate a Palermo e nella Sicilia occidenta-le, perché a Messina la debolezza dei gover-ni centrali fu messa a profitto 'dell'indipen-denza comunale, della libertà di commercio,dell'autorità e del prestigio degli organi loca-

li. 'Più specificamente, Messina e la Siciliaorientale cercarono di acquistare un'autono-mia di governo, per la tutela dei commercilocali, e si sforzarono quandi di valorizzaregli organismi amministrativi locali, nel ten-tativo, non dissimile da quello compiuto damoke città dell'Italia settentrionale e cen-trale, di contrapporre .un forte potere comu-

| naie a un potere statale in pratica inesistente.A Palermo, invece, e in genere nella Sicilia

occidentale, l'incapacità costituzionale dei•governi centrali di far sentire la propria pre-senza nell'Isola favorì un rafforzamento, nondegli organi ufficiali del potere, ma del pote-re privato dei singoli o di gruppi., che aveva-no tutti i caratteri di veri e propri « clan ».

Ne derivò una posizione di privilegio e didominio per le potenze locali, e specialmen-te par i baroni. Costoro erano proprietari difondi feudali e riuscirono per lunghi periodiad esercì taire di fatto .un'influenza decisivasullo sviluppo e sulle stesse condizioni di vitadei siciliani.

In effetti, la difficile situazione economicadell'Isola e in particolare l'espansione dellapopolazione rurale senza terra e la conse-guente eccedenza della manodopera consen-tivano ai ricchi proprietari una /politica ves-satoria nei confronti dei contadini e deglistessi mezzadri. Tra l'altro, il signore potevaimporre ai contadini, non solo l'obbligo dicoltivare la terra e la consegna dei prodotti,ma anche diverse e numerose prestazioni per-sonali, a cui erano talora sottoposte — comedocumenta il « catalogo » compilato da Win-speare — non solo il coltivatore, ma anchesua moglie e i suoi figli. La precarietà dellecondizioni di lavoro facevano insomma delproprietario il sovrano della vita del mez-zadro o della vita del bracciante; ma ciono-nostante, a causa dello stato di insicurezza edelle continue violenze, che caratterizzavanonel medioevo la vita sociale, anche molti li-beri proprietari, specialmente i più deboli,preferirono abbandonare la propria condi-zione per rifugiarsi nella servitù feudale, af-fidando al barone se stessi e la propria terra.

A questi aspetti peculiari della società feu-dale siciliana se rie andò aggiungendo, coltempo, un altro ancora più caratteristico,quello dell'assenteismo, sempre più accen-

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luato, dei baroni, che preferivano vivere incittà, piuttosto che rimanere in campagna eoccuparsi in proprio della coltivazione dellaterra.

Per concedersi il lusso di una vita comodae spensierata a Palermo, i ricchi feudatarinon esitavano ad affidare l'amministraziionee la coltivazione della terra a igrandi locata-ri, ohe sarebbero diventati i gabeltottii per an-tonomasia. Quasi sempre i gabellotti pagava-no il canone in denaro e in anticipo ed è pro-prio questa circostanza che finì per trasfor-marli in pratica nei veri proprietarii dellaterra. Di fronte ai contadini, i gabellotti pren-devano il posto dei feudatari ed erano legit-timati ad esercitarne tutti i diritti, con la con-seguenza che la loro posizione si rafforzavaanche mei confronti dei proprietari. In que-sto modo', con l'esercizio di una funzione dimera intermediazione, a gabellotti si metteva-no in condizione di realizzare consistenti pro-fitti, da una parte sfruttando i contadini, dal-l'altra contestando, in forme crescenti, i di-ritti dei proprietari e venendo meno, confrequenza sempre maggiore, all'obbligo dipagare canoni corrispondenti aille renditedella terra.

•Dal canto loro, i baroni si mostravano sod-disfatti della propria -posizione, interessaticoon'erano a sfruttarne i risvolti di presti-gio formale e personale, piuttosto che a uti-lizzarla per finalità speculative. Inoltre, findai tempi più antichi, per proteggere se stes-si e i propri beni contro le pretese dei con-tadini dipendenti presero l'abitudine di cir-condarsi di « bravi » armati, che venivano^così a formare un vero esercito personale.Naturalmente, venivano reclutati come « bra-vi » individui coraggiosi e spregiudicati, chespesso avevano conti in sospeso con ila giusti-zia, e ohe perciò si mettevano al servizio deiproprietari .feudali, in cambio dell'impunitàe della protezione che ne ricevevano.

Nemmeno l'istituzione delie compagnied'armi dissuase i proprietari dalla consuetu-dine di assoldare personale col compitò spe-cifico di sorvegliare i campi. Col tempo, iguardiani presero il nome di campieri, ebbe-ro come capi i « soprastanti » e furono or-ganizzati in forme paramilitari; divennerocosì lo strumento dei soprusi e delle sopraf-

fazioni dei proprietari sui contadini e sulceto borghese. Per evitare le loro vessazioni,i coltivatori presero l'abitudine di pagare aicampieri veri e propri tributi, anche .in natu-ra, e di riconoscere a i]oro favore diritti di va-rio genere (il « diritto di cuccia », il « .dirittodel (maccherone »), non diversi, nella sostan-za, di quello che sarebbe stato il « pizzu »nella subcultura mafiosa.

Questa situazione si perpetuò nei secoli ealla vigilia della involuzione liberale le strut-ture feudali della proprietà fondiaria costi-tuivano ancora la base sociale ed economicadella potenza dei baroni. D'altra parte, l'as-senza di un potere centrale efficiente, favori-va i peggiori arbitri del ceto dominante, con-sentendo tra l'altro ai padroni di esercitarela giustizia punitiva e di lasciare ai loro « bra-vi » o campieri il diritto di spadroneggiarenelle campagne al riparo di un'impunitàpraticamente assoluta, quindi legittimandol'esercizio di un potere vessatorio specie neiconfronti dei coltivatori della terra, mezzadrie braccianti.

Nel 1812, sotto l'influsso delle forze d'occu-pazione inglesi, fu abolito il feudalismo e laCostituzione di quell'anno decretò l'abolizio-ne di « tutte le giuorisdizioni baronali » e delle« angherie e pai-angherie introdotte soltantodalla prerogativa signorile ». Si consentì inol-tre la vendita dei fondi feudali, ma la dispo-sizione ebbe soltanto l'effetto di favorire ilpassaggio della terra dalle mani degli aristo-cratici im quelle dei gabellotti, e cioè del nuo-vo ceto intermedio che si era venuto creandonel corso degli anni; non determiniò invecela fine del latifondo, e di conseguenza mon•riuscì a modificare nella sostanza i rapportiesistenti tra i proprietari, coloro che coltiva-vano e quelli che sorvegliavano.

Iil successo della rivoluzione liberale e larealizzazione dell'Unità d'Italia indubbia-mente completarono la progressiva riformadelle strutture giuridiche dello Stato autori-tario, ma nella Sicilia occidentale e, in misu-ra meno accentuata e meno duratura, anchein alcune zone della Sicilia orientale, lo Statonon riuscì a farsi accettare dalla inorale po-polare. I provvedimenti adottati dai governiche si succedettero alla guida del Paese su-bito dopo l'Unità mon furono taili da guada-gnare al potere centrale la lealtà delle popò-

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lazioni locali. La prima leva militare suscitò,secondo tutte le testimonianze, gravi (preoc-cupazioni tra i giovani e nelle loro famiglie,tanto ohe (molti richiamati (preferirono darsialla macchia e unirei ai (banditi piuttosto ohefare il soldato al nord; inoltre, il sistema tri-butario, colpendo anche i redditi di lavoro,apparve a molti, e specie al ceto medio, piùsvantaggioso di quello .borbonico, essenzial-mente fondato sulla tassazione della .renditafondiaria.

Ma la delusioine più cocente fu certo rap-presentata dalla mancata lottizzazione del la-tifondo e dalla mancata distribuzione ai con-tadini di una parte almeno delle terre. 'Lo Sta-to liberale infatti non riuscì a risolvere il pro-blema della riforma agraria e non fiu neppurein grado di (porre su nuove basi ili rapportocon i cittadini siciliana, in modo da dare spa-zio alle loro legittime aspirazioni all'autogo-venno. In questo settore si può dire che la si-tuazione si aggravò rispetto ali passato, inquanto il nuovo regime provocò .una scis-sione tra le norme dell'ordinamento statalee quelle effettivamente vigenti (anche se en-tro limiti circoscritti) tra le popolazioni del-la Sicilia occidentale.

Prima della rivoluzione liberale, le prero-gative dei baroni e in genere dei proprietariterrieri avevano nel sistema 'Una legittima-zione 'giuridica, anche nel isenso che era con-naturato all'organizzazione dello'Stato l'eser-cizio della forza da parte dei ceti dominantisulle popolazioni contadine. Lo Stato liberaleinvece rifiutò l'ipotesi di un potere sovranoche si sostituisse al suo e che ne esercitasselegittimamente gli attributi nei confronti deiconsociati; ma la sua struttura oinganizzativanon riuscì ad imporsi — con la forza e l'in-cisività necessarie — in tutto il territorio del-la Sicilia; così come non riuscì a farsi stradanella coscienza popolare di queMe zone laconvinzione che non può esserci giustizia aldi fuori di quella statale e che gli organi del-lo Stato sono i soli legittimati ad assicurarea tutti e ad ogni cittadino un'efficace prote-zione (giuridica e di fatto) contro le prepo-tenze e le sopraffazioni altrui. Le popolazionisiciliane, specialmente quelle delle zone oc-cidentali, non accettarono (in tutta la sua la-titudine) la preminenza dell'ordinamento

formale dello Stato, ma si mostrarono pro-pense a preferirgli le norme vigenti nell'am-bito di determinati rapporti di gruppo con lafamiglia, gli amici, i ctenti. Di conseguen-za, i fenomeni di affermazione di un potareprivato, che avevano conitirassegmato la so-cietà feudale siciliana, si trasformarono neldato più significativo di una subcultura chesi oppone alla pretesa statale di conforma-re alle proprie norme l'azione di tutti. È inquesito contesto ohe nasce la mafia, intesaappunto come l'espressione di un potere(economico e politico), che cerca di affer-marsi nelle condizioni effettive della societàsiciliana, non solo inserendosi nei vuoti del-l'organizzazione statale, ma anche attraversola ricerca di un collegamento con i poteripubblici.

SEZIONE SECONDA

LA MAFIA NELLA STORIA DELL'ITALIAUNITA

1. — / prodromi.

Alla vigilia dell'unificazione, sono già pre-senti i primi sintomi di un fenomeno che dilì a pochi anni sarebbe esploso in tutta lasua specifica evidenza, fino a .guadagnarsi unnome, quello di mafia, che servisse a distin-guerlo da fenomeni analoghi e in particolaredalle forme comuni di delinquenza. La situa-zione di disordine e di confusione, che carat-terizza la vita di alcune zone dell'Isola, e l'af-fermazione, sempre più incisiva, diluii potereinformale in contrasto con quello statale, in-capace di imporre la sua forza legittima, ven-gono denunciati con chiarezza dal Procura-tore di Trapani Pietro Cala Ulloa in un suorapporto del 1838 al Ministro della giustizia« Non vi ha quasi stabilimento » scrìve Ul-loa « che abbia dato i conti dal 1819 a que-sta parte, non ospedale o ospizio che avendo-li dati li abbia visti e discussi; così non vi haimpiegato che non si sia prostrato al cennoe al capriccio di un prepotente, e che non ab-bia pensato al tempo stesso a trair profeto

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dal suo uffìzio. Questa generale corruzioneha fatto ricorrere il popolo a 'rimedi oltre-mo do strani e pericolosi. Vi ha in molti pae-si delle -unioni o fratellanze, specie di sette,che dicono partiti, senza colore o scopo poli-tico, senza riunione, senza altro legame chequello della dipendenza da un capo, che quiè un possidente, là un arciprete. Una cassacomune sovviene ai bisogni ora di far esone-rare un funzionario, ora di difenderlo, oradi proteggere un imputato, ora di incolpareun .innocente. Somo tante specie di piccoligoverni nel governo. La mancanza della for-za pubblica ha fatto moltiplicaire M numerodi reati. Il popolo è venuto a tacita conven-zione con i rei. Così come accadono i 'furtiescono i mediatori ad offrire transazione pelricuperamento degli oggetti involati. Il nu-mero di tali accordi è infinito. Molti possi-denti perciò han creduto- meglio divenire op-pressori che oppressi, e s'iscrivon nei parti-ti. Molti alti funzionar! li coprivan di unaegida impenetrabile ».

Nello stesso periodo di tempo, il Procura-tore generale di Palermo Giuseppe Ferrignodenunciava, anche lui in una relazione aJMinistro della giustizia, da situazione di pre-carietà e di inefficienza dei servizi di pubbli-ca sicurezza, mettendo in evidenza come lecause del disordine sociale e delle manifesta-zioni sempre più frequenti di prepotenza edi sopraffazione fossero riconducibili soprat-tutto « alla mancanza di fortuna del terzoceto, che lo rendeva dipendente dalla no-biltà ».

È una diagnosi sostanzialmente analoga aquella espressa da Lodo/vico Bianchina, af-fiancato dal Re al Luogotenente Laurenzano,con l'incarico di aiutarlo nel preparare la ri-forma della Pubblica amministrazione in Si-cilia. Anche Bianchini si mostra specialmentepreoccupato dell'inefficienza degli origani dipubblica sicurezza e della pratica invalsanelle compagnie d'armi di ricorrere a patteg-giamenti e ad accordi con i delinquenti e spe-cie con d ladri. Si era arrivati ai punito —avrebbe scritto più tardi lo stesso Bianchirli•m una storia di quegli anni (« Un periododi storia del Reame delle due Sicilie dail 1830al 1859 ») — ohe « gli uomini di armi, ila piùparte senza disciplina e di scadente morale,

in diversi luoghi partecipavano ai furti chesi commettevano ed inoltre non impedivano,anzi facevano quelle turpi convenzioni soittonome di componende, sinonimo di ricatto,che annualmente facevansi fra famigerati la-dri e i proprietari per le quali costoro cor-rispondevano a quelli una data somma di de-naro per evitare d'essere violentamente de-rubati »; ed erano guai per quel proprietario« ohe non prestavasi a siffatte convenzioni,che i suoi poderi sarebbero distrutti o incen-diati ed ucciso il bestiame, senza che la giu-stizia facesse il suo corso ed i rei fossero me-nomameate preseguita-ti o puniti. Quindi iproprietari nel difetto delle istituzioni e nellaimpotenza delle leggi, e della potestà, paven-tando delle vendette sia dei ladri, sia deglistessi uomini d'arme, non osavano muoveredoglianze ».

Non potrebbe essere più precisa di quan-to sia nei documenti citati1 la descrizione deiprodromi o meglio ancora delle prime mani-festazioni della mafia nelle regioni occiden-tali della Sicilia. Anche se il suo nome è anco-ra sconosciuto alle cronache, emergono giànegli ultimi anni della dominazione foodbo-nica i caratteri più significativi del fenomenomafioso. Emergono cioè i segni di un potereextralegale, che tende ad affermarsi1, rispettoa quello statale, mediante l'esercizio di unaprotezione più efficace di quella pubblica,col ricorso a forme rapide e persuasive diautogiustizia, infine con la ricerca costantedi una legittimazione nella coscienza sociale.« Sono tante specie di piccoli governi nel gO"verino », dice incisivamente Calla Ulloa a pro-posito delle sette o fratellanze fiorite nellazona di Trapani ed aggiunge che « il popoloè venuto a tacita convenzione con i rei », sot-tolineando così come l'acccttazione del po-tere mafioso da parte della comunità sia findall'inizio la nota più caratteristica del nuo-vo fenomeno. La debolezza e le carenze dellpotere statale sono all'origine di quésto rap-

. porto tra la mafia e le popolazioni locali; l'i-nefficienza, la corruzione, le complicità degliorgani pubblici ne favoriscono le ramifica-zioni, e ine spiegano, in termini politici, l'e-stensione e da profondità, mentre la fragili-tà costituzionale del ceto medio siciliano ela sua condizione di dipendenza dalla nobil-

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tà, e cioè, dal ceto dei proprietari terrieri, necostituiscono — come ben intuisce Ferri-gno — la matrice sociale ed economica.

Non manca ormai che il nome perché lamafia diventi, anche formalmente par la co-scienza sociale, uno dei tanti problemi, che•travagliano, fin dal momento della sua for-mazione, lo Stato unitario.

2. — La parola mafia, le sue origini, il suosignificato.

Secondo l'opinione corrente, la prima vol-ta che la parola mafia venne pubblicamen-te riferita a un'associazione di delinquenti funel dramma popolare di Giuseppe Rizzotto« I mafiusi di la Vicaria di Palermo » (1) rap-presentato a Palermo nel 1862 e replicato suc-cessivamente in tutta Italia con grande suc-cesso. L'opera teatrale descriveva le bravatedi un gruppo di detenuti delle carceri paler-mitane (allora note col nome di Vicania) emetteva in evidenza come essi godessero diuno speciale rispetto da parte dei compagnidi prigione, appunto perché mafiosi, membricome tali di un'associazione a delinquere, congerarchle e con specifiche usanze, tra le qualiveri e propri riti di iniziazione.

In precedenza, il termine mafia veniva usa-:to in Sicilia e arache in altre regioni con signi-ficati diversi. Così, in Toscana, la parola si-gnificava « povertà » o « miseria », mentrein Piemonte con l'analoga espressione « ma-fàum » s'indicavano gli uomini gretti. In Sici-lia, invece, e specialmente nel palermitano,prima della commedia di Rizzotto, la parolamafia veniva impiegata nel senso dii audacia,arroganza, o di bellezza, baldanza e, attribui-ta ad un uomo, stava ad indicare la sua supe-riorità, donde — scrisse Pitrè — « l'insoffe-renza della superiorità o peggio ancora dellaprepotenza altrui ».

Successivamente, quando ila parola fu de-finitivamente eollegata al fenomeno socialeche oggi va sotto il nome di mafia, non man-carono i tentativi degli .studiosi per indivi-

(1) Questo il titolo del copione rinvenuto dalLo Schiavo presso una delle vecchie compagniedialettali siciliane e pubblicato dai appendice al vo-lume « Cento armi di mafia » di Giuseppe GuidoLo Schiavo (Roma, 1962).

duarne l'etimologìa più lontana. Molti au-tori la fanno derivare dall'arabo « mahìas »,che significa spavalderia, orgoglio, prepoten-za, oppure da « Ma afir », come si chiamavala stirpe saracena che dominò Palermo. Unaaltra teoria invece fa risalire la parola al ter-mine arabo « malia » (che si pronuncia mafa),e col quale si indicavano le immense cave dipietra, in cui si rifugiavano i saraceni perse-guitati e che offrirono poi ricetto, al riparodalla polizia, anche ad altri fuggiaschi. Inparticolare, in queste cave di pietra si sareb-bero rifugiati nel 1860 a Marsala i simpatiz-zanti di Garibaldi, per attendere nelle « ma-fie » l'arrivo di colui che li avrebbe liberatidall'oppressione borbonica, così che talunili avrebbero chiamati « mafiosi », cioè gentedelle mafie.

Il problema etimologico comunque è discarso rilievo ai fini che qui interessano. Èpiù importante sottolineare che, dopo la rap-presentazione del Rizzotto, e quindi all'indo-mani dell'Unità d'Italia, la parola cominciòad essere usata, a tutti i livelli, solamenteper designare quei caratteristici fenomeni didelinquenza o più genericamente di devianzasociale che andavano allora emergendo e chenegli anni successivi avrebbero assunto con-torni sempre più netti. Presto il termine pe-netrò anche nel linguaggio burocratico e se-condo gli storici i primi documenti ufficialiin cui venne usato nel senso indicato furonoun rapporto del 25 aprile 1965 del prefettodi Palermo, Filippo Antonio Gualtiero, alMinistro dell'interno e i rapporti riservatiche in quello stesso anno vennero inviati alprefetto Gualtiero da diversi informatóri.

Nel -suo rapporto, il prefetto Gualtieroindetntifica esplicitamente la mafia con « unaassociazione mailamdrinesca » e sottolineainoltre come la sua caratteristica peculiarefosse ravvisabile nell'esistenza di stretti col-legamenti tra i mafiosi e i partiti politici. Laprecisazione ovviamente ha soltanto una fi-nalità pratica, quella di favorire, attraversoun'operazione di polizia, la penetrazione inSicilia dell'ideologia e dedla prassi moderatadi governo. Secondo Gualtiero, infatti, lamafia aveva rapporti con i gruppi borboniciancora operanti in Sicilia e con i gruppi ga-ribaldini d'opposizione e perciò combatterel'organizzazione delittuosa significava in de-

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linitiva reprimere ogni forma di 'ribellione ein particolare screditare il passato .patriotti-co e i motivi ideali che animavano sulla isi-nistra il partito garibaldino. Ma 'il rapportodel prefetto Gualtiero, anche se si presentacome un tentativo di distorsione a scopi po-litici di orna dolorosa realtà sociale (negli an-ni successivi se ne troveranno esempi analo-ghi e forse più significativi), conserva tutta-via un preciso valore storico, appunto per-ché documenta, con l'uso specifico del marne,l'avvenuta nascita di quel fenomeno extra-legale di violenza criminosa che è la mafiasiciliana.

3. — La mafia come organizzazione e comecomportamento.

Alla ricerca che riguarda le prime originidella mafia e i significati tradizionali delnome poi impiegato per designarla, è piùdifficile far seguire — sia pure nei limiti eai fini dell'inchiesta affidata alla Commis-sione — l'analisi critica delle vicende chediedero corpo al fenomeno mafioso nei de-cenni successivi all'Unità d'Italia.

Il compito, certo, sarebbe più agevole, sefosse possibile accertare le conclusioni diquella letteratura che ha descritto la mafiacome una specie di supergoverno del crimi-ne, con manifestazioni interregionali, con acapo un pontefice massimo, con sottocapi,con parole d'ordine. Si è anche ipotizzatoche l'organizzazione mafiosa, o meglio le sin-gole associazioni che ne farebbero parteopererebbero secondo regolamenti codifica-ti a cui gli aderenti sono tenuti ad attenersi,e non è nemmeno mancato chi ha credutodi poter affermare che questi regolamenti siarticolano in concreto: a) nell'obbligo pergli associati di aiutarsi scambievolmente avendicare col sangue le offese ricevute; b)nell'obbligo di procurare e propugnare la di-fesa e la liberazione del socio caduto nellemani della giustizia; e) nel diritto dei socidi partecipare alla distribuzione, secondo ilprudente arbitrio dei capi, del prodotto deiricatti, delle estorsioni, delle rapine, dei fur-ti e degli altri delitti perpetrati; d) nell'obbli-go di conservare il segreto, pena per i con-travventori la morte, in seguito a una de-

cisione del competente organo giurisdizio-nale della mafia.

Senonchè, la realtà sembra diversa. Anchese in certi periodi hanno operato in Siciliaassociazioni a delinquere di stampo mafioso,i più pensano oggi che la mafia, come tale,non si è mai organizzata secondo formulesacramentali, non ha mai avuto statuti,né segni di riconoscimento, né parole d'ordi-ne o riti di iniziazione, non ha mai eletto onominato in altri modi i propri capi. Lamafia, in altre parole, non è sorta e nonsi è mai trasformata nel lungo periodo dellasua vita in un'organizzazione formale, e nonpuò quindi considerarsi come un'associazio-ne o una setta, i cui aderenti siano inqua-drati secondo una scala gerarchica.

La più recente ricerca scientifica ritieneche la mafia non sia un'organizzazione ouna società segreta, ma un metodo, un com-portamento a cui ricorrono singole persone0 gruppi di persone per finalità determinatee secondo le regole di un vero e propriosistema subculturale, con la conseguenza chesarebbe addirittura impossibile una storiadelle manifestazioni che ha avuto il feno-meno mafioso e delle tappe che ne hannoscandito l'evoluzione fino ai tempi più recen-ti; ciò appunto perché la mafia non può con-siderarsi un'associazione in senso proprio,anche se non è estraneo alla sua natura unospirito organizzativo e se non è mancato enon manca tuttora nella letteratura chi l'haconcepita come un'organizzazione chiusa con1 suoi riti e le sue gerarchie.

Per la verità, la tradizione e le fonti rife-riscono dell'esistenza in Sicilia durante glianni dal 1870 al 1880 di parecchie associazio-ni a delinquere, delle quali si ricordano e sitramandano anche i nomi, come quelli dei" Fratuzzi " di Bargheria, degli " Stoppaglie-ri " di Monreale, degli " Oblonica " di Ca-strogiovanni (in provincia di Erma), dei" Fontanuova " di Misilmeri, dei " Fratellan-za " di Favara. In tutti i casi si trattava —come risulta anche dalle prove raccolte invari procedimenti penali — di associazionicreate e mantenute per favorire la mutua as-sistenza nel delitto, per preparare e svolge-re insieme un'attività di rapine e di estorsio-ni, per fornirsi inoltre di testimoni falsi

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• o compiacenti e per procurare agli ar-restati i necessari mezzi economici perla loro difesa. Quasi sempre questi grup-pi vivevano in un'ombra di mistero, comevere e proprie associazioni segrete, con ini-ziazioni, gradi gerarchici, servizi di medicie di avvocati, pagamento di contributi, e conl'impegno, per tutti i consociati, di rispetta-re il segreto, a prezzo della propria vita, incaso di tradimento. Tutti i gruppi, anche sedislocati in territori diversi, si aggregavano esi confondevano tra loro, secondo il poteredi accentramento che avevano i rispettivi ca-pi, mentre altre volte si muovevano guerraallo scopo di esercitare la propria egemoniasu una contrada o su tutto il territorio.

La presenza operante di questi gruppi inSicilia, la conseguente terminologia usatadalla Polizia, dai testimoni e dai tribunali neiprocessi penali relativi alla loro attivitàe infine le cronache giudiziarie (spesso ro-manzate o arricchite di particolari inesisten-ti) determinarono e rinsaldarono la convin-zione che la mafia fosse nel suo complessouna associazione o una lega segreta e furo-no all'origine delle opinioni, a cui prima siaccennava; ciononostante che i fatti, o me-glio ancora, il tempo smentissero, in modosempre più evidente, la tesi di un'identifica-zione della mafia con una organizzazionedelittuosa. Questo naturalmente non signifi-ca che i singoli mafiosi agissero isolatamen-te, al di fuori di rapporti e di contatti con al-tri mafiosi; al contrario il loro comporta-mento è stato sempre condizionato da unreciproco spirito di solidarietà, così come ècerto che il metodo si è espresso e si è im-posto, in zone determinate della Sicilia, at-traverso l'azione di 'Strutture, le cosiddete co-sche, in cui se non è presente un dato orga-nizzativo formale, è tuttavia identificabile lapresenza di più persone che operano insie-me, se non per la realizzazione di un pro-gramma comune, certamente per il raggiun-gimento di scopi contingenti, prefigurati divolta .in volta, secondo il corso degli avve-nimenti.

Resta comunque il fatto che l'inesistenzadi un'organizzazione formale, unica o pluri-ma, impedisce di collegare a un filone unita-

rio la storia della mafia e di ipotizzarne levicende secondo uno sviluppo globale ed or-dinato nella realtà. La storia del fenomenomafioso è intessuta di fatti e avvenimenti,non collegati tra loro e che rispondono astimoli immediati e contingenti; piuttostoche a un disegno prestabilito ed organico,magari elaborato attorno a un tavolo da unaassemblea di capi.

Negli anni successivi all'Unità d'Italia, lastoria della mafia si identifica con la storiadi personaggi a cui viene attribuita la quali-fica di mafioso, e perciò si fraziona in tanti

, rivoli quante sono le vicende che fanno capoa questi singoli individui o ai raggruppa-menti in cui casualmente si trovano riunitiper il raggiungimento di uno scopo comune.Le loro attività però sono connotate, nel lun-go periodo che va dal 1860 ai primi anni delfascismo, da caratteri di sostanziale identi-tà e si svolgono sempre a difesa di determi-nati interessi e secondo moduli operativi inpratica eguali; mentre le persone, che di ta-li attività fanno la propria regola di vita, ri-spondono tutte a note comuni di origine edi comportamento, tanto che le più recentiindagini sociologiche hanno potuto indivi-duare e definire il tipo del mafioso.

La Commissione perciò ha ritenuto utileai propri fini tentare una descrizione delleattività proprie della mafia, negli anni suc-cessivi all'unificazione, ed indicare le moda-lità con cui venne esercitato il potere mafio-so tra la fine del 1800 e i primi decenni diquesto secolo, valutando naturalmente il fe-nomeno nel contesto delle vicende sociali epolitiche del Paese e in particolare della Si-cilia, così da poter disporre di una validachiave interpretativa della genesi della mafiae dei fatti che ne determinarono la nascitae ne hanno impedito la sconfitta, nonostantei reiterati tentativi compiuti al riguardo daipubblici poteri.

4. — Le attività mafiose.i

L'abolizione del feudalesimo non.segnò lafine delle funzioni che avevano espletato i« bravi » del barone, in quanto lo stato borbo-

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nico prima e poi quello italiano non riusci-rono a garantire con sufficiente efficacia laprotezione dei beni dei ceti possidenti e nem-meno delle loro persone. Per i ricchi, pertan-to, l'aiuto privato continuò ad essere una ne-cessità e i « bravi » perciò continuarono adesistere come campieri, guardiani e guarda-spalle. I proprietari di terre o di armenti sivedevano costretti ad assoldare uomini capa-ci di tenere a bada (ed eventualmente di puni-re) ladri o banditi. Questi uomini furono ap-punto i mafiosi. « È ributtante » scrive alPrefetto nel 1874 il Questore di Palermo « loscandalo a cui si assiste tuttodì: quellocioè di vedere il proprietario sulla tracciadi birbanti e scegliere fra tutti a castaidonelle sue possidenze chi per più proterviad'animo e per più consumati delitti o reducedall'ergastolo, abbia saputo acquistarsi repu-tazione di mafioso e di malandrino nellacontrada. E sventuratamente è questo un an-dazzo che si riscontra altresì in molti agiatiche per nobiltà di origine, per estremo pa-triottismo e liberalità di propositi, hanno ri-scosso e riscuotono le simpatie del Paese ».

La pratica tuttavia non incontrava la ri-provazione dell'opinione pubblica, perché siriteneva che ciascuno avesse il diritto di di-fendersi da sé quando il Governo si era di-mostrato incapace di assicurare l'incolumitàdelle persone e la sicurezza dei beni. « Nonsi può pretendere » si scrisse « che tuttiaccettino un duello a morte con gli assassi-ni », e per un lungo periodo l'amministrazio-ne locale adottò addirittura il sistema di ri-mettere in libertà i delinquenti, ritenuti me-no pericolosi, con la garanzia delle personedi un certo rango, permettendo così a questiuomini di assicurarsi la dovuta protezione dicoloro che avevano fatto liberare. La prote-zione mafiosa veniva naturalmente esercita-ta col ricorso ad azioni di terrore, ma in mol-ti casi, specie dopo la « punizione » di qual-che contravventore, bastava il prestigio delmafioso (campiere o guardiano che fosse),a scoraggiare le iniziative di chi volesse at-tentare alla tranquillità e al benessere deiceti possidenti. In un primo tempo, la prote-zione del mafioso fu diretta contro i banditie contro i ladri, ma ben presto prese anche

altre direzioni, e fu in particolare impiegatacontro i movimenti rivoluzionari dei contadi-ni, per impedire che il sistema, attraverso ladistribuzione delle terre, potesse subire unmutamento radicale.

Un'altra attività, a cui si dedicarono i ma-fiosi nel periodo considerato, fu costituitadalla funzione di mediazione, che essi eser-citavano in vari settori, anzitutto fra i ladri ei derubati, poi in relazione ai sequestri dipersona, infine in tutte le controversie chepotessero giustificare l'intervento di un in-termediario. La persona che veniva deruba-ta o che subiva danni di altro genere (un in-cendio, un danneggiamento) sapeva bene chesolo raramente lo Stato avrebbe identifica-to e punito i colpevoli e preferiva perciò ri-volgersi ai mafiosi (alle persone di rispetto),incaricandole di una missione, che secondol'opinione espressa dal prefetto Mori, nonveniva coronata da successo soltanto nel 5per cento dei casi. Il derubato così recupe-rava la refurtiva e il danneggiato veniva ri-storato dei danni subiti, mentre naturalmen-te il mafioso riceveva un regalo e vedevaaccresciuto il proprio prestigio. Nella stessaprospettiva, soprattutto nei piccoli centriagiati dell'interno dell'Isola, il mafioso siserviva della sua forza coercitiva per risol-vere altre questioni (ad esempio cpstringe-re i debitori a pagare i propri debiti) e peresercitare più in generale quella che è statachiamata una funzione di regolamentazioneeconomica, influenzando, con i propri inter-venti, ogni specie di rapporti giuridici e tral'altro il mercato dei prezzi per acquisti eaffitti di terre.

Nell'economia agricola siciliana del seco-lo scorso e dei primi decenni del XX seco-lo, i mafiosi esercitavano le attività che sisono sommariamente descritte all'ombra de)latifondo, svolgendo la loro funzione di in-termediazione parassitaria, nei rapporti tragrandi proprietari e contadini e in tutte letransazioni relative all'acquisto dei fondi, alloro affitto, allo smercio e alla ripartizionedei prodotti agricoli. Il loro impegno fu di-retto anzitutto a prendere in fitto i grandifondi dell'interno, a trasformarsi quindi inricchi gabellotti e magari in proprietari, per

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mettersi così in condizione di esercitare me-glio la propria forza economica sui ceti me-no fortunati e di acquistare ad un tempouna vera e propria forza politica.

In questo modo, i mafiosi divengono, in uncerto senso, gli arbitri dei conflitti econo-mici e sociali che caratterizzano la storiasiciliana successiva all'Unità. La loro posi-zione è tale che essi possono anche taglieg-giare i grandi proprietari, costringerli a fit-tare le loro terre a prezzi non sempre remu-nerativi, derurbarli sui prodotti del suolo,impossessarsi a poco a poco delle loro terre,e arrivare così a sostituirsi almeno in partealla vecchia classe baronale nell'esercizio diuna vera e propria egemonia sulle popola-zioni contadine. Ma ciononostante i latifon-disti non possono fare a meno del loro aiuto,perché in ogni occasione in cui se ne presen-ti la necessità, i mafiosi si mostrano sempredisposti a difendere, anche con la violenza,l'assetto economico e sociale esistente con-tro le rivendicazioni e le tendenze rivoluzio-narie che partono dal ceto dei contadini.

Già nel 1860, quando Garibaldi promise aicontadini la terra, la mafia, allora nascente,si schierò con decisione a favore del feudo econtro il frazionamento del latifondo, favo-rendo così l'accettazione delle tesi cavouria-ne dell'annessione « incondizionata », e im-pedendo una soluzione politica che servissea garantire alla Sicilia una certa autonomia.Anche nel 1867, la mafia appoggiò la borghe-sia agraria contro il tentativo del Governonazionale di attuare un programma di rifor-me sociali, che incidendo sui rapporti esi-stenti nell'Isola tra i ceti possidenti e le clas-si popolari, servisse a garantire, in termininuovi, lo sviluppo economico della Sicilia;ma fu certamente nell'offensiva contro il mo-vimento dei Fasci dei lavoratori che i gruppimafiosi riuscirono a guadagnarsi le maggio-ri benemerenze.

È inutile rifare qui, sia pure sommaria-mente, la storia dei Fasci dei lavoratori edelle azioni che il movimento conduceva adifesa degli interessi contadini; basta soltan-to ricordare che tra il 1892 e il 1894 i Fascicercarono di ottenere il cambiamento dellecondizioni di affitto delle terre e promosserola formazione tra i contadini di grandi con-

sorzi d'appalto; si voleva così che i contadininon fossero più isolati di fronte ai proprieta-ri ed è evidente che se il disegno fosse riu-scito, e se i latifondisti fossero stati costret-ti a trattare con i consorzi, si sarebbero cer-to affievolite le condizioni di dipendenza deicontadini dai proprietari. Per sostenere que-ste rivendicazioni, i Fasci organizzarono confrequenza scioperi e dimostrazioni, provo-cando da parte delle autorità governativeuna reazione sempre più decisa, che dovevaculminare nel 1894 nella proclamazione del-lo stato d'assedio e nello scioglimento delleorganizzazioni dei lavoratori. Prima che que-sto si verificasse, molte dimostrazioni orga-nizzate dai Fasci furono seguite da tumultie da sanguinose repressioni, e in alcuni casil'azione delle forze statali di polizia fu af-fiancata, o addirittura preceduta, dall'inter-vento dei gruppi mafiosi dei comuni interes-sati, « che difendevano la propria egemo-nia e anzi il proprio potere dispotico nel-le amministrazioni locali. Se una par-te infatti dèi morti in quei disordinifu dovuta all'intervento delle truppe cheusarono le armi, un'altra parte fu do-vuta ai gruppi di guardie al servizio dei ca-pi mafiosi dei comuni (i sindaci), che si in-serirono facilmente in quei disordini e sfug-girono, mimetizzandosi, alle denuncie e allecondanne ». (S. ROMANO, Storia della mafia,Verona, 1966, pag. 216). Così a Lercara, du-rante una dimostrazione popolare avvenutail 25 dicembre 1893, le guardie municipalispararono sulla folla dal campanile dellachiesa contigua alla casa comunale, e a ter-ra rimasero i cadaveri di undici lavoratori.Anche a Gibellina, il 2 gennaio 1894, le guar-die campestri spararono sui dimostranti, ea Giardinello, il 10 dicembre 1893, i contadi-ni furono presi tra due fuochi, quello delletruppe e quello delle guardie del corpo deigruppi mafiosi locali. Le vittime in questaoccasione furono sette e gli organi dì polizia,al termine delle indagini, denunciarono comeautori dell'eccidio le guardie campestri e illoro capo, Girolamo Miceli, un boss locale,avendo potuto stabilire « con certezza ma-tematica » e sulla base di « prove irrefraga-bili », come si esprime il rapporto, la lororesponsabilità nella strage. Tuttavia, il prò-

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cesso per i fatti di Giardinello e quelli rela-tivi agli espisodi di Lercara e di Gibellina sichiusero con l'assoluzione delle guardie cam-pestri e con la condanna a pene talora gra-vissime (e in qualche caso all'ergastolo) de-gli esponenti contadini.

Niente meglio di questi episodi potrebbeillustrare la funzione svolta dalla mafia neidecenni che seguirono l'unificazione d'Italia.Fu essenzialmente una funzione di interme-diazione, esercitata da gruppi di personeprive di ogni scrupolo, che erano riuscite araggiungere nei piccoli paesi dell'interno unaposizione di potere reale e che presto mi-rarono ad estendere la loro influenza anchenelle città. Il fenomeno fu descritto con ef-ficacia da Pasquale Villari, già nel 1878:« Non abbiamo che classi distinte; in Paler-mo stanno, i grandi possessori di vasti lati-fondi o ex feudi, nei dintorni abitano i con-tadini agiati, dai quali sorge o accanto aiquali si forma una classe di gabellotti, diguardiani e di negozianti di grano. I primisono spesso vittime della mafia, se con essanon si intendono; fra i secondi essa reclutai suoi soldati, i terzi ne sono i capitani-Fra i tiranni dei contadini sono le guardiecampestri, gente pronta alle armi e ai delittie sono ancora quei contadini più audaci chehanno qualche vendetta da fare o speranodi trovare coi delitti maggiore agiatezza: co-sì la potenza della mafia è costituita. Essaforma come un muro tra il contadino e ilproprietario... Spesso al proprietario è im-posta la guardia dei suoi campi e colui chedeve prenderli in affitto. Chiunque minacciaun tale stato di cose, corre pericolo di vita ».E ancora: « La base, le radici più profondedella potenza dei mafiosi sono nell'internodell'Isola, fra i contadini che opprimono esu cui guadagnano, ma questa potenza siestende e si esercita anche nella città, dovela mafia ha i suoi aderenti perché vi ha an-che i suoi interessi. A Palermo infatti sonoi proprietari, a Palermo si vende il grano esi trovano i capitali, a Palermo vive una ple-be pronta al coltello che può all'occorrenzadare un braccio. E così la mafia è qualchevolta divenuta come un govenro più fortedel Governo. Il mafioso dipende in apparen-

za dal proprietario, ma in conseguenza dellaforza che gli viene dalla associazione, in cuiil proprietario stesso si trova qualche voltaattirato, egli riesce di fatto ad essere il pa-drone ».

5. — I mafiosi. La delinquenza mafiosa.

L'analisi precisa di Pasquale Villari costi-tuisce un punto di partenza di incomparabilevalore per una ricerca più approfondita inordine ai caratteri che connotarono, nel se-colo scorso e nei primi decenni di quello at-tuale, il comportamento mafioso e la perso-nalità dei soggetti, a cui si fanno risalire, nel-le cronache, le azioni di quel tipo.

È certo anzitutto che una parte dei mafio-si, che operarono in Sicilia nell'epoca chequi interessa, provenivano dai ceti inferiorie specialmente della classe dei contadini;molti di loro non riuscirono mai a raggiun-gere posizioni di vertice, né a procurarsi mez-zi economici di una certa consistenza, ve-nendo così a formare quella che è statachiamata la bassa mafia, una pletora di gre-gari, di persone disposte a tutto, impiegatedai capi in ogni occasione come un docilemezzo di manovra. Altri invece pervenneroal successo, percorrendo una carriera presti-giosa, ed inserendosi, anche se di umili ori-gini, nell'alta mafia, fatta di individui chegodevano di potere politico ed economico,che rifiutavano l'esercizio in prima personadella violenza, che svolgevano davvero, neicentri in cui vivevano, funzioni di arbitrioper tutte le vertenze relative a questionid'onore, di lavoro, di denaro.

Questa differenza di successo spiega la di-versità (spesso accentuata) dei mestieri eser-citati dai mafiosi. Quando non facevano car-riera, rimanevano pecorai o contadini po-veri, se invece raggiungevano il successo po-tevano diventare ricchi proprietari, ma neltempo in cui era ancora prevalènte la strut-tura agraria della società siciliana, il maggiornumero dei mafiosi si ritrovava nelle attivi-tà intermedie tra i contadini e i ricchi pro-prietari terrieri: campieri, guardiani di giar-dini e dell'acqua nelle zone dei latifondi,

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commercianti di bestiame e di cereali, media-tori, macellai, che servivano da ricettatoriper i frequenti abigeati.

In ogni caso, il mafioso, ieri come oggi,tendeva a monopolizzare la sua posizione ein particolare le fonti di guadagno, e cioè indefinitiva le sue funzioni di protettore e dimediatore in certi tipi di rapporti sociali.Erano appunto queste funzioni (esercitatespesso in forme illecite) ad assicurare aimafiosi i mezzi necessari per arricchire eper realizzare quell'ascesa sociale che avreb-be alla fine garantito loro un potere reale,col quale tenere testa al legittimo poteredegli organi statali. Naturalmente le fontid'introito potevano anche essere costituiteda guadagni di una professione regolare, manella maggior parte dei casi, è evidente, era-no rappresentate dalla strumentalizzazionee monopolizzazione illecita dei mezzi di pro-fitto o direttamente da un'attività delittuosa,soprattutto di tipo estorsivo. Fin dagli inizi,infatti, una forma di guadagno specificamen-te mafiosa è rappresentata dalla rivendica-zione di un tributo ('u pizzu) per una prote-zione (reale o fittizia).

Basta ciò che si è detto, per comprenderecome il ricorso alla violenza, e più in gene-rale al delitto, sia stata sempre una costan-te (preminente se non esclusiva) del feno-meno mafioso. Per acquistare una posizionedi potere nella comunità in cui viveva, il ma-fioso aveva bisogno di usare la violenza; co-sì come ne aveva bisogno per sfruttare il-lecitamente, e quindi in modo più redditi-zio, le normali fonti di profitto o per mono-polizzare la sua posizione di prestigio, neiconfronti di possibili concorrenti o di oppo-ste fazioni. Una volta almeno nella sua vita,il mafioso doveva usare personalmente laviolenza per mettersi poi in condizione, se lecose gli andavano bene, di servirsi dell'operadi sicari, nell'esecuzione dell'attività delit-tuosa.

Nel mondo della mafia, l'uso della violen-za è indispensabile per la conquista del po-tere, ma è altrettanto necessario per la suaconservazione e perciò — come giustamenteè stato detto (HESS, Mafia, Bari, 1973, pa-gina 78) « il mafioso deve essere sempre in

grado di incutere timore e di aver davanti asé la paura del sottomesso, per poter conciò esercitare un'influenza sugli altri attra-verso la sempre presente possibilità di appli-care una concreta costrizione fisica ».

Nascono di qui le causali più frequentidella delinquenza, che dall'unificazione d'Ita-lia in poi, e fino al fascismo, lentamente infe-stò la Sicilia e soprattutto le sue regioni oc-cidentali. Negli anni immediatamente suc-cessivi al 1860, i disordini creati dalla ri-voluzione e la mancanza di un'efficiente for-za pubblica si accompagnarono a un aumen-to verticale della criminalità. In seguito, ilfenomeno non conobbe pause, ma raggiunse,in certi momenti, punte elevate, che miseroa dura prova la capacità e l'efficienza delleforze dell'ordine. Per determinati periodi eper alcuni tipi di reato, le statistiche prova-no in modo inconfutabile che nelle provin-cie occidentali dell'Isola i fatti delittuosi su-perarono di gran lunga la media nazionale.Negli anni dal 1890 al 1893, le provincie diAgrigento, Caltanissetta e Palermo furonoin testa e di parecchio nelle percentuali de-gli omicidi volontari, delle rapine e delleestorsioni commesse in Italia. La media an-nua degli omicidi fu ad Agrigento di 66,87su 100.000 abitanti, a Caltanissetta di 42,76,a Palermo di 32,07, quando nelle provinciecontinentali la media più alta fu quella diNapoli con 27,97 omicidi su 100.000 abitan-ti. Anche per altri periodi si notano diffe-renze analoghe. Così, ad esempio, negli annidal 1902 al 1906 la media annua degli omici-di per ogni 100.000 abitanti fu in Italia di8,94, mentre in Sicilia fu di 22,35, e quella del-le rapine e delle estorsioni fu in Italia di11,83, in Sicilia di 31,46. Più in generale sipuò dire che nel lungo periodo le percentua-li dei suddetti delitti (omicidi, rapine edestorsioni) raggiunsero in Sicilia quasi iltriplo della media del Regno, ciò che invecenon si riscontra per altri tipi di reato, co-me ad esempio i furti. Naturalmente non tut-ti i reati del genere possono attribuirsi a cau-sali di stampo mafioso, ma è fuori discussio-ne che l'indice maggiore di delinquenza ac-certato in Sicilia rispetto al resto d'Italiafu dovuto, in larga misura, alla presenza

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della mafia. Le stesse statistiche documenta-no peraltro come in quei tempi i più carat-teristici reati di mafia siano stati appuntol'omicidio, la rapina e l'estorsione. La sop-pressione fisica di un avversario o di coluiche si era sottratto alle regole del sistemasubculturale, nel quale prosperava la mafia,era il mezzo nemmeno straordinario a cuiil mafioso doveva (e deve) ricorrere per eser-citare (o per continuare ad esercitare) lefunzioni proprie del suo ruolo; l'estorsionee la rapina servivano, dal canto loro, ad as-sicurare ai mafiosi i mezzi di arricchimento,mentre la violenza privata rappresentava lostrumento di impiego abituale (anche se didifficilissimo accertamento) per l'eserciziodel potere mafioso. Accanto a questi, un al-tro reato di mafia molto frequente fu l'abi-geato, diffuso nelle campagne dell'internoe utilizzato dai mafiosi sia per incrementareil mercato della macellazione clandestina, equindi a scopi immediati di lucro, sia a finidi vendetta o anche di ricatto, per contrat-tare cioè la restituzione degli animali rubatiin cambio di un adeguato corrispettivo.

A questa massiccia estensione della delin-quenza mafiosa fece riscontro, negli anniche precedettero il primo conflitto mondiale,un insuccesso pressoché completo della re-pressione giudiziaria. La maggior parte deiprocessi iniziati per i fatti delittuosi com-messi dalla mafia o si chiudevano senza chela Polizia fosse riuscita a indiziarne gli auto-ri o con l'assoluzione degli imputati, quasisempre per insufficienza di prove. Basta ri-cordare, per rendersi conto dell'insolita am-piezza del fenomeno, che Vito Cascio Ferro,ritenuto uno dei capimafia più autorevoli,fu processato sessantanove volte, ma fu sem-pre assolto, fino a quando non venne con-dannato nel 1926.

Quali le cause della delinquenza che dila-gò in Sicilia per tanti decenni? Quali le ra-gioni che impedirono agli organi statali direprimere efficacemente, se non di preve-nire, le attività delittuose della mafia?

Sarebbe un errore pensare che sia stata lamancanza di una legislazione severa a pro-vocare o a favorire una situazione del gene-re. In quegli anni, al contrario, furono fre-

quenti i provvedimenti e le leggi repressi-ve, tanto che nel 1875, alla vigilia dell'appro-vazione di nuove misure eccezionali, propo-ste dal Governo Minghetti, Francesco Crispi,poteva parlare della Sicilia come di « unpaese governato per quindici anni con lostato d'assedio, con l'ammonizione e con ildomicilio coatto ». Eppure lo Stato non fumai in grado di garantire a sufficienza la si-curezza pubblica. Una delle cause di questainefficacia degli interventi di polizia fu cer-tamente costituita dal mantenimento fino al1892 di un ordinamento di sicurezza semi-privato, fondato sui militi a cavallo. Se è ve-ro infatti che costoro, provenendo spessodalle comunità locali, avevano un accesso piùfacile alle informazioni e la possibilità quin-di di individuare i colpevoli con sufficienterapidità, è altrettanto certo che essi eranoinvischiati in una rete di amicizie e di ini-micizie e che non sempre riuscivano a con-formare la propria condotta alle regole diuna necessaria imparzialità. Dal canto loro,le guardie campestri che operavano in molticomuni della Sicilia, invece di svolgere conla necessaria onestà la funzione loro propriadi proteggere la terra e gli armenti, agivanonella maggior parte dei casi (e se ne è vistoqualche esempio particolarmente significati-vo) sotto l'influsso dei detentori locali del po-tere mafioso ed erano talora essi stessi ma-fiosi, interessati quindi non al mantenimen-to dell'ordine pubblico, ma piuttosto al rag-giungimento di finalità illecite.

Accanto a questo, altri fattori ostacola-rono l'azione della Magistratura e degli orga-ni statali di Polizia (Carabinieri e Pubblicasicurezza). Le cause più immediate del feno-meno, ma anche le meno importanti, furonoindubbiamente rappresentate dalla configu-razione geografica, particolarmente acciden-tata dell'Isola, che spesso favoriva la fuga eil rifugio dei latitanti, dalla mancanza diadeguate vie di comunicazioni, dal dialetto,spesso incomprensibile ai funzionar! conti-nentali. Ma furono altre le cause vere del-l'insuccesso.

In primo luogo, come già si è accennato,le popolazioni locali rimasero sempre contra-rie ad ogni forma di collaborazione con gli

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organi giudiziali e con quelli di Polizia. Lefunzioni e la forza di intimidazione della ma-fia e la tacita acccttazione del suo potere in-ducevano i cittadini a non presentare denun-cie o querele, a rifiutare la propria testimo-nianza anche in occasione di fatti delittuosidi particolare gravita, a ritrattare in giudi-zio le testimonianze eventualmente rese a se-guito delle violenze fisiche e morali eserci-tate su loro dagli inquirenti.

Alla formazione e alla persistenza di que-sto atteggiamento contribuì anche la condot-ta dei funzionari di Polizia venuti dal conti-nente, i quali si facevano spesso condiziona-re da un pregiudizio di superiorità, tanto daconsiderare i siciliani come barbari che nonavevano ancora raggiunto il grado di civil-tà necessario per esigere un trattamentoconforme alle leggi e ai regolamenti. Per con-to loro, i funzionari di origine siciliana si fa-cevano spesso influenzare da motivi estraneia una rigorosa imparzialità, sì che è beneadattabile alla condotta tenuta in Sicilia da-gli organi di Polizia nei decenni che segui-rono l'Unità, l'amara constatazione che il fun-zionario scambia spesso la legge di tutti conil privilegio dell'esercizio d'autorità.

A tutto ciò deve aggiungersi che la presen-za contemporanea di più polizie creava con-tinui attriti, anche e forse soprattutto perchéla diversità degli ordini impartiti alle varieunità rendeva impossibile o diffìcile ogni for-ma di collaborazione. Altrettanto complessie spesso caratterizzati da un'estrema tensio-ne erano i rapporti tra Polizia e Magistra-tura, mentre non mancarono episodi di diso-nestà, di inefficienza o di arbitrio, tali dagiustificare un giudizio storico non certo be-nevolo sugli organi statali, a cui era affida-ta in Sicilia la lotta contro la delinquenza ein particolare contro la mafia.

Gli attriti tra Magistratura e Polizia e trale varie polizie si esprimevano spesso in re-ciproci atti d'accusa, o addirittura in una ve-ra e propria guerriglia, di cui finivano pergiovarsi soltanto i delinquenti.

Nel 1868, il Procuratore generale Borsanilamentava in un rapporto al Ministro della

giustizia che interventi di gente facoltosaavevano fatto ritardare il processo a caricodella banda di Angelo Pugliesi, e scriveva te-stualmente: « È questo uno scandalo aggiun-to a molti che dimostrano non essere in Si-cilia soggetti alle leggi penali gli uomini chehanno denaro. In una causa complessa dimoltissime accuse, collegate in una vastissi-ma associazione di malfattori o mafiosi eraevidente l'interesse di procedere lestamenteper non fare affievolire la memoria dei fatti.La celerità poi diventava la suprema condi-zione della riuscita di questa causa, ...ma ildenaro ha sopraffatto ancora una volta lagiustizia e di un famoso processo non ri-mane che la memoria di pochi cenciosi, man-dati ad espiare nelle galere la colpa comuneai ricchi rimasti impuniti ».

In questo stesso quadro, è morto signifi-cativa una lettera del 12 novembre 1885, nel-la quale il Questore di Palermo, nel dare no-tizia al Prefetto dell'assoluzione del notomafioso Giuseppe Valenza di Frizzi, afferma-va esplicitamente che il compito della difesaera stato agevolato dalla deposizione deldelegato Farini, che aveva sconfessato i suoirapporti, dicendo di essere stato tratto ininganno e sostenendo che Valenza era unapersona dabbene. « Ciò invero non mi sor-prende » concludeva il Questore « avendoritenuto sempre il Farini un impiegato pocofedele ».

Altrettanto duro (sull'opposto versante)era il giudizio che in una nota del 18 luglio1885 dava il sottoprefetto di Cefalù sul vice-pretore di Cangi, arrivando a scrivere che.« come pubblico funzionario (era) indiscuti-bilmente disonesto e sfiduciatissimo ».

Traendo spunto da questi e da analoghiepisodi, Franchetti potrà giudicare negativa-mente l'operato della Polizia e degli organigiudiziari in Sicilia ed affermare esplicita-mente che non sempre la Magistratura erastata « all'altezza del proprio ufficio ». Saràpoi lo stesso Franchetti a farsi eco della ri-corrente denuncia di uno dei fattori, chemaggiormente intralciavano le indagini dipolizia, scrivendo che « fra gli uffici di Pub-

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blica sicurezza, gli stessi uffici giudiziari daun lato e il pubblico dall'altro v'ha una cor-rente di relazioni continue e misteriose... Per-sone designate per essere colpite da arre-sto, sono avvertite prima ancora che si fir-mi il relativo mandato, e la forza che vieneper prenderli li trova partiti da tre o quat-tro giorni o più ». Ma nel secolo scorsol'episodio più noto degli arbitri addebitabilialle forze di Polizia e dei loro contrasti conla Magistratura fu certamente quello che eb-be come protagonista il questore di Palermo,Giuseppe Albanese, « un personaggio » èstato detto (S. ROMANO, op cit., pag. 149)« che riassumeva in se stesso tutti gli elemen-ti caratteristici della mentalità e dei metodidelle autorità governative di quegli anni ihSicilia ». Sarebbe inutile esporre qui tuttele vicende in cui rimase implicato il questo-re Albanese, e che gettano un'ombra sini-stra sui metodi usati allora dalle forze diPolizia. Basta ricordare che il funzionarioe i suoi uomini (tra cui l'ispettore di Pub-blica sicurezza David Figlia) furono tra l'al-tro accusati di avere imposto una concilia-zione tra gli assassini di una donna e i suoiparenti, d'essere ricorsi alla formazione didocumenti falsi, per indirizzare determinatiprocessi in un senso sbagliato, di aver usatosevizie e torture contro persone arrestate,di essersi compromessi in un grosso furtonel museo nazionale di Palermo. L'Albaneseinfine fu accusato dell'omicidio di SantiTermini/e del tentato omicidio di SalvatoreLo Biondo, che erano entrambi latitanti eche avevano chiesto un salvacondotto all'Au-torità giudiziaria, per fare rivelazioni com-promettenti contro le forze di Polizia. Nel1871, il Procuratore generale Diego Trapanifece arrestare il Questore per istigazione al-l'omicidio, nel presupposto che l'Albaneseavesse preso accordi con mafiosi per fareeliminare dei testimoni pericolosi, ma la Se-zione istruttoria prosciolse il Questore perinsufficienza di prove e quindi il Procurato-re generale si dimise, venendo poi eletto de-putato al Parlamento nelle liste dell'opposi-zione.

6. — L'accettazione del potere mafioso.L'omertà. Lo spirito di gruppo. Episodidi collusione con i pubblici poteri.

Le cose dette fin qui documentano, sia pu-re per grandi linee, come la mafia si siaespressa nel passato se non esclusivamentealmeno prevalentemente mediante il ricorsoa forme delittuose, quasi sempre violente, incontrasto con le leggi e con la stessa moraledello Stato; ma se l'uso della violenza ac-comuna la mafia al banditismo, altre carat-teristiche hanno sottolineato in modo nettola differenza tra i due fenomeni. In primoluogo i mafiosi hanno sempre cercato di le-gittimare la loro presenza nella comunitàsociale in cui vivono, senza esibirsi, ma of-frendo con cautela i propri servizi; a diffe-renza dei banditi, inoltre, i mafiosi non han-no mai sfidato in forme aperte l'apparatostatale, ma hanno al contrario tentato di sta-bilire agganci e contatti con gli organi pub-blici, aspirando a creare un rapporto con idetentori del potere formale o ad apparirecome i loro indispensabili sostituti.

Sotto il primo aspetto, le cronache e laricerca storica documentano chiaramenteche i mafiosi riuscirono ad ottenere, nei de-cenni successivi all'Unità, che le popolazionilocali riconoscessero ed accettassero, comenecessaria, la loro posizione di preminenzae di potere. Basta considerare ohe i mafiosivenivano chiamati « uomini di rispetto » perintendere quanto estésa e profonda fossel'acccttazione tacita del potere mafioso daparte delle comunità isolane. Una delle com-ponenti principali di questo fenomeno è cer-tamente stata nel passato quella norma delsistema subculturale siciliano che va sottoil nome d'omertà. La parola omertà nonsignifica umiltà, come potrebbe sembrare aprima vista, ma deriva dal siciliano « omu »,uomo, e, secondo Cutrèra e l'accezione en-trata nell'uso comune, sta a indicare la capa-cità di farsi rispettare con i propri mezzi,senza rivolgerei mai all'autorità, sapendo an-che accettare la galera, piuttosto di dire ciòche si sa o di accusane l'autore di un tortosubito. La tradizione siciliana è ricca di poe-

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sie e di leggende che esaltano questa atti-tudine a risolvere problemi e controversiecon le proprie forze e a mantenere il segretosu tutto ciò che riguarda la propria persona,perché — ha scritto T'itone — « 'il vero uo-mo è anzitutto il suo silenzio, la segreta pre-senza di un potere occulto e di vie lunghee nascoste, l'essere e di farsi ritenere al cen-tro di altri uomini, che come lui operanonell'ombra ».

Così concepita, l'omertà appare come unacaratteristica del costume isolano, addirit-tura come una connotazione dell'essere sici-liano; ed è indubbio ohe da più parti l'omer-tà è stata talora esaltata come la qualitàtipica di un popolo, indicativa, in mancanzadi una superiorità materiale, cento di unapreminenza morale, che farebbe dei sici-liani uomini veri a fronte degli altri, e so-prattutto di coloro che nel corso dei secolisi sono succeduti nel governo dell'Isola.

Ma è facile rinvenire al fondo di questaconcezione un senso di frustrazione per lecondizioni di inferiorità e di sostanzialeemarginazione in cui il popolo siciliano èstato costretto a vivere (rispetto ai detentoridel potere formale e quindi una volontà dirivincita e di affermazione psicologica dellapropria persona. L'omertà perciò anzichécome una caratteristica naturale del costumesiciliano, sembra doversi interpretare comel'espressione di una situazione di necessità,il frutto di una lunga esperienza, che avevaprovato ai siciliani come fosse inutile denun-ciare i torti subiti alle autorità statali, chetroppo spesso identificavano i propri inte-ressi con quelli dei ceti dominanti, e comefosse invece più vantaggioso accettare le re-gole di un sistema subculturale, almeno piùefficiente nel mantenere l'ordine e nell'assi-curare la risoluzione delle controversie se-condo la morale vigente negli ambienti po-polari.

Deve essere spiegato nella stessa chiavel'altro elemento che fu all'origine dell'accct-tazione del potere mafioso e che si concretanei particolari vincoli che legano i siciliani,non alla società, ma entro la società, a de-terminati gruppi autonomi e ai sistemi nor-mativi che li governano, in primo luogo allafamiglia, poi al comparaggio, all'amicizia e

così via. « In Sicilia » è stato detto (HESS,op. cit.) « il comparatico è la parentela spi-rituale più considerevole e stimata, è unvincolo pari a quello di sangue e talvolta hauna forza di affetto anche maggiore. Il com-pare vuoi bene al compare come a un fra-tello e se questi è di età minore con vene-razione... comparatico vuoi dire fiducia cie-ca, fedeltà a tutta prova, silenzio scrupolosonei più pericolosi segreti. Il compare, in unaparola, "è pronto a mettersi, per aiuto alcompare, a qualunque sbaraglio" ».

Allo stesso modo l'amicizia cementa unrapporto di forza speciale, che può resistereanche agli imperativi della legge o dellamorale.

Nascono di qui, dall'omertà e dalla logicadel « gruppo », che anima i siciliani, la sfi-ducia e la diffidenza verso i poteri costituitie tirova qui le sue radici un'altra causa (enon certo la meno importante) del fallimen-to in Sicilia dell'amministrazione della giu-stizia.

Le ricorrenti assoluzioni dei mafiosi, checostellano la storia giudiziaria degli annisuccessivi all'Unità e fino al fascismo, si spie-gano non solo con le ragioni di ordine gene-rale, che sono state prima indicate, ma an-che con l'influenza (spesso decisiva) che eser-citavano sui testimoni e sugli stessi offesila regola dell'omertà e la logica del gruppo.Risulta inoltre da alcuni degli episodi primaricordati che non dovettero essere rari i casiin cui, per essere assolti, i mafiosi si avval-sero dei loro rapporti con amici influenti econ autorevoli protettori. Come già si è ac-cenato, la 'mafia, se non è stata mai un'orga-nizzazione in senso formale, ha sempre cer-cato idi favorire la formazione di gruppi « lecosche » che potessero funzionare, in casodi necessità, come strumenti di azione, dilotta o di mutua assistenza. « L'alta mafia »scrisse il sottoprefetto di Cefalù in un suorapporto del 1885 « quando la sicurezzascopre e colpisce, si affretta a montar le di-fese, ad ammannire alibi e testimonianze, afalsare l'opinione pubblica nella piazza, adintrigare nelle carceri, nelle cancellerie, aprotestare contro la forza pubblica e controgli stessi funzionali ». Nello stesso tempo,proprio nella misura in cui tende ad assicu-

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rarsi posizioni di dominio, ila mafia ha sem-pre mirato a crearsi un « partito », a crearsicioè relazioni con personalità socialmenteed economicamente altolocate e, direttamen-te o tramite la loro mediazione, anche con idetentorc del potere formale, uomini politicie titolari di pubblici uffici.

La lontananza e la debolezza dello Statopossono essere sufficienti alla mafia, per so-stituirsi con la propria forza alla loro man-canza, ma sono anche il fattore principaledi ' illecite connivenze o di pericolose com-plicità, proprio perché possono indurre afunzionari statali e gli uomini politici a cer-care per primi contatti e rapporti con i ma-fisi o a subirne la suggestiva presenza. Nelleloro relazioni del 1876, Sennino e Franchettiscrissero che era assolutamente impossibilea « chi entrava nella gara delle ambizioni po-litiche locali sottrarsi a contatti con perso-ne che debbono la loro influenza al delitto »,e non v'è autore che si sia occupato della suastoria che non attesti la presenza costantedi un rapporto della mafia con la politica, opiù in generale, con i pubblici poteri.

Nella seconda metà del secolo XIX e nellaprima metà del XX questo rapporto si espres-se in forme varie, tra l'altro nella collabora-zione prestata dai mafiosi alla Polizia nellalotta contro i banditi, ma soprattutto nel-l'appoggio ai candidati nelle elezioni ammi-nistrative e politiche. La forma più frequen-te che assunse in quei tempi l'appoggio aicandidati fu quello dell'uso della violenza odella minaccia per acquistare voti o anchequello dell'impiego di violenze contro i can-didati awersari o di manovre truffaldine (le« pastette », i « coppini ») per alterare i ri-sultati delle elezioni o direttamente l'espres-sione del voto popolare. È naturalmente su-perfluo in questa sede attardarsi a descriverei singoli episodi di infiltrazioni e collusioniclientelistiche di origine mafiosa, posto cheil fenomeno ebbe certamente carattere gene-rale e un'estensione amplissima, se nel 1911Michele Vaina potette scrivere, nei quadernide La Voce: « Ormai in Sicilia siamo abi-tuati ad un genere siffatto di elezioni senzaproteste e senza ribellioni: di ciò sono causaprincipale la forma e i'1 significato diversoche da noi assumono le lotte amministrative,

basate sull'intrigo e sulla camorra che vannoa braccio con la mafia ». Allo stesso modosarebbe inutile elencare i singoli episodi dicollusione tra la mafia e i pubblici poteri, digenere diverso da quello elettorale. « Laclientela » scriveva Francesco Saverio Mer-lino « ecco la forma originaria della mafia.I gruppi di clienti hanno il loro protettorenel paese o nella città, difendono la sua per-sona e il suo patrimonio, fanno le sue ven-dette, sono docile strumento dei suoi ca-pricci e delle sue ambizioni, ma nello stessotempo commettono delitti per conto loro,con la quasi certezza dell'impunità. Il feudoè il rifugio, la causa dei delitti più gravi ».

L'episodio che meglio esprime questa si-tuazione, e che è il solo forse che vale lapena di ricordare, è quello in cui furono coin-volti il marchese Emaiiuele Notarbartolo, di-rettore del Banco di Sicilia, e l'onorevole Raf-faele Palizzolo, deputato al Parlamento emembro del Consiglio di amministrazionedel Banco di Sicilia.

Tra il 1891 e il 1892 il Notarbartolo denun-ziò la situazione 'Scandalosa del Banco, rac-cogliendo elementi di prova, che coinvolgeva-no alti esponenti del mondo politico in Par-lamento e mettevano in particolare a repen-taglio la reputazione dell'onorevole Palizzo-lo. Fu pertanto promossa un'inchiesta mi-nisteriale, ma subito dopo, il 1° febbraio1893, il Notarbartolo venne ucciso con ven-tisette colpi di pugnale, mentre viaggiavain uno scompartimento del treno TerminiImerese-Palermo. Durante il processo con-tro i ferrovieri esecutori materiali del delit-to, emersero gravi indizi contro Palizzolo, ilquale, dopo l'autorizzazione a procedere del-la Camera, fu incriminato e arrestato l'8 di-cembre 1899. Successivamente il Palizzolovenne condannato a trent'anni di reclusionedalla Corte d'Assise di Bologna a cui il pro-cesso era stato rimesso per legittima suspi-cione, ma in appello fu assolto con la solitaformula dell'insufficienza di prove.

Ma ciò che conta mettere qui in rilievo èche dagli atti del processo emersero proveirrefutabili dei rapporti che il parlamenta-re aveva avuto con mafiosi pregiudicati dellazona di Palermo e di numerosi interventi

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che egli aveva effettuato a loro favore pressopubblici funzionali.

« Comunque » conclude sull'episodio unostorico della mafia (S. ROMANO, op. cit., pa-gina 205) « per un Palizzolo scoperto, c'è dapensare che, prima e poi e nello stesso tem-po, non mancassero altri più abili e fortu-nati ».

7. — Lo Stato di fronte alla mafia.

Non è possibile chiudere la ricerca, che laCommissione ha tentato, sulle origini e su)]consolidamento della mafia negli anni del-l'Italia liberale, senza ricostruire, sia purein via approssimativa, la linea politica se-guita dallo Stato nel corso di quegli anni,per conoscere e per fronteggiare un fenome-no che diveniva col tempo sempre più preoc-cupante; ciò anche per avere, ai fini delleconclusioni cui la Commissione perverràun preciso punto di riferimento, che val-ga a ricollegare la presente inchiesta a quel-le che l'hanno preceduta, affinchè sia pos-sibile non ripetere gli errori del passato,nel mutato contesto politico e sociale, e bat-tere alla fine una via nuova ed efficace per lot-tare, in modo deciso e si spera definitivo, ilfenomeno della mafia.

In questa prospettiva, il primo dato di fat-to ohe viene in considerazione è il notevoleritardo col quale il problema della mafiaemerse alla consapevolezza della classe di-rigente.

I governi unitari, per la verità, si preoccu-parono subito di acquisire una conoscenzapiù approfondita delle condizioni di vitadelle popolazioni meridionali e già nel 1861il Presidente Minghetti incaricò DiomedePantaleoni di recarsi nel sud e in Sicilia perstudiarne le strutture e i rapporti sodato eper indagare più semplicemente sulla situa-zione dell'ordine pubblico. Pantaleoni perònon si occupò specificamente della mafia,che del resto era allora alle sue prime mani-festazioni, ma riuscì egualmente a farsi unaidea abbastanza precisa delle caratteristichee della natura del disordine che regnava in-contrastato nell'Isola e a mettere anche inuna certa evidenza, nella relazione conclusiva

dell'inchiesta e più ancora nelle lettere pri-vate che scriveva al Presidente del Consiglio,le cause d'ordine sociale, e quelle riconduci-bile alle croniche disfunzioni di una Pubbli-ca amministrazione inefficiente.

Ma quando si andò ai rimedi, il Governonon seppe fare altro che usare metodi re-pressivi, pensando ohe con la forza si potes-se porre fine ai mali della Sicilia. Memora-bile, in questo quadro, la missione affidatadal Governo nel 1863 al generale Covone dipercorrere con « truppe disposte a cerchioe in assetto di guerra » le province di Calta-nissetta, di Agrigento, di Trapani e di Paler-mo, alla ricerca idi malviventi, ma anche alloscopo di togliere ogni possibilità di azione aigruppi politici dissidenti che ancora opera-vano nell'Isola.

I risultati di questa iniziativa del Governofurono deludenti, così come non ebbe esito,ai fini della lotta contro la delinquenza, l'in-carico affidato in seguito al generale Medicidi reprimere, con i fermenti insurrezionaliche facevano capo all'ala sinistra del partitod'azione, anche la mafia, che, secondo l'opi-nione allora diffusa, costituiva « una setta »scriveva l'esponente moderato Nicolo TurrisiColonna « che trova ogni giorno affiliati nel-la gioventù più svelta della classe rurale, neicustodi dei campi e nell'agro palermitano,nel numero immenso dei contrabbandieri,che da e riceve protezione e riceve soccorsida certi uomini che vivono col traffico e in-tenso commercio, che poco o nulla teme laforza pubblica, perché crede potersi facil-mente involare alle sue ricerche, che pocoteme la giustizia punitrice, lusingandosi nel-la mancanza di prove, e per la pressione chesi esercita sui testimoni, e sperando sulle ri-voluzioni che al 1848 e al 1860 fruttaronodue generali amnistie pei prevenuti e poicondannati per reati comuni ».

Di fronte a questi insuccessi, la Cameracon una deliberazione del 25 aprile 1867 no-minò una Commissione d'inchiesta, presie-duta dall'onorevole Giuseppe Pisanelli, conl'incarico di indagare sulle condizioni dellacittà e della provincia di Palermo. Nemmenoquesta volta la Commissione parlò dellamafia, ma si limitò ad esporre l'opinione cheper riportare alla normalità la situazione si-

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ciMana non fossero necessaire leggi eccezio-nali, ma strade ed opere pubbliche, che ser-vissero a favorire i traffici e quindi ad accre-scere le possibilità di sviluppo del Paese. Fu-rono inoltre proposti ed approvati alcuniprogetti di legge, per finanziare opere strada-li e per facilitare le comunicazioni anche conil continente.

La successiva Commissione di inchiesta,nominata con deliberazione del 3 luglio 1875,si occupò specificamente della mafia, ma lasua diagnosi fu superficiale e approssimati-va, perché si negò decisamente che il feno-meno potesse trarre origine in fattori di ca-rattere sociale, come la disparità delle con-dizioni economiche *ra le classi abbienti equelle .popolari, e si arrivò ad affermare chela mafia era dovuta a circostanze contingentie che non era nemmeno un fenomeno pecu-liare della Sicilia, perché « sotto varie forme,con vari nomi, con varia e intermittente in-tensità si manifestava anche nelle altre partidel Regno, e si scoprivano a quando a quan-do terribili mostri del sottofondo sociale: lecamorre di Napoli, le squadracce di Ravennae di Bologna, i pugnalatoti di Parma, la coc-ca di Torino, i sicari di Roma ». La Com-missione in conclusione ritenne di indivi-duare le cause delle manifestazioni mafiosenel pervertimento sociale, residuo dell'anti-co regime, e nella riluttanza delle popolazio-ni locali a lasciarsi modificare dalle nuoveistituzioni; con la conseguenza percolò chea suo giudizio la mafia poteva essere eli-

, manata con un'operazione di forza.Furono invece ben diversi i risultati a cui

pervennero, nello stesso periodo di tempo,le inchieste condotte per proprio conto sullecondizioni della Sicilia da Sidney Sommino eLeopoldo Franohetti. Entrambi sottolinearo-no come la mafia avesse profonde radici nellasocietà e nell'economia siciliane e come unadelle cause, che ne erano state all'origine,fosse stata la mancanza di un ceto medioefficiente, insieme alle condizioni precarie edi estrema miseria della classe dei contadini.L'analisi dei due giovani studiosi perciò fusoprattutto rivolta a studiare il problemadella mafia, non come un problema di sem-plice delinquenza, ma inserendolo nel con-testo della vita sociale dell'Isola e ricavan-

done quindi la conclusione che per combat-terlo non bastavano i mezza di polizia, maoccorrevano invece profonde riforme orga-niche, capaci di eliminare le premesse dallequali il fenomeno traeva alimento. Intantoperò il Governo, avvalendosi delle misureeccezionali adottate con la stessa legge cheaveva istituito la Commissione di inchiesta,aveva intrapreso e portato avanti in tuttal'Isola una massiccia operazione di polizia,con un accanimento che non aveva preceden-ti. Si ricorse, come sempre, ai solito mezzirepressivi e cioè all'accerchiamento di nottedei comuni e alla perquisizione delle casesospette, ma si provvide in più ad applicaresu larga scala l'ammonizione e il confino. Leoperazioni, specie tra il gennaio e l'agosto del1871, furono dirette, secondo l'indirizzo delministro dell'interno dell'epoca, Pasquale Ni-cotera, dal prefetto di Palermo, Antonio Ma-lusardi, certamente 'meno famoso del pre-fetto fascista Cesare Mori, ma che comelui menò vanto di aver totalmente e definiti-vamente liberato l'Isola dal flagello del bri-gantaggio e della mafia. L'opera del Prefettoebbe anche pubblici ed entusiastici ricono-scimenti e .furono molti, e tra gli altri Paga-no, ad approvare le misure illegali adottatedalla Polizia, essendo una necessità socialecolpire in modo deciso « più Ja mafia chepreparava, che il brigantaggio che eseguiva ».

Sul versante opposto invece, si accusò ilGoverno (come poi si sarebbe fatto anchened confronti del governo fascista) di avercondotto un'azione tipicamente mafiosa,usando arbitrariamente la violenza contropacifici cittadini e adottando una politicaindiscriminata 'di forza, ohe avrebbe finitocol favorire, piuttosto che sconfiggere, quelfenomeno che si voleva combattere.

La mafia comunque non diede segni distanchezza, ma riprese con vigore la propriaattività; tanto che il deputato Abele 'Daxnia-ni, autore della relazione conclusiva dell'in-chiesta disposta con legge del 15 marzo 1877sulle condizioni della classe agricola in Ita-lia, dovette riconoscere, nonostante l'otti-mismo che caratterizzava il suo giudizio, che« le associazioni di malfattori, il malandri-naggio, la mafia, quantunque molto scematenon sono spente del tutto; anzi, anche quan-

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do una di queste forme di malessere socialeaccenni ad essere scomparsa, ricompariscealle volte inaspettatamente e mostra conciò che la sicurezza pubblica lascia colà adesiderare ».

La verità è infatti che proprio negli ultimidecenni del secolo XIX e nel primo decenniodel nuovo secolo, la mafia riuscì ad accresce-re di proprio potere, non solo continuandonegli abusi e nelle angherie da sempre, maanche rafforzando i legami con i detentoridel potere formale, e in modo speciale congli uomini politici, spinti dai loro interessielettorali a cercare accordi con i mafiosi.

Non possono dunque far meraviglia leconsiderazioni a cui pervenne Giovanni Lo-renzoni nella relazione che chiudeva perl'Isola l'inchiesta parlamentare sulle condi-zioni dei contaidini nelle provincie meridio-nali e nella Sicilia, disposta nel 1907 e ulti-mata nel 1910. Oltre a ribadire quanto giàavevano rilevato Franchetti e Sennino circale connessioni esistenti tra dil fenomeno ma-fioso e le strutture econorniche e sociali dellaSicilia, Lorenzoni non esitò a demandare leresponsabilità, non solo del ceto dirigente lo-cale, ma dei dirigenti (politici nazionaili, col-pevoli di non aver mostrato la necessariacomprensione per il popolo locale, ma diaver anche favorito, per ragioni elettorali edi partito, le mene dei mafiosi. La mafia per-ciò — secondo Lorenzoni — sarebbe natadalla naturale diffidenza del popolo nellagiustizia e nell'azione degli organi statali,con la conseguenza dell'omertà e della ven-detta privata. I 'mafiosi, in altri termini,avrebbero saputo approfittare delia sfiduciadel popolo nello Stato e avrebbero saputoestendere le proprie amicizie verso l'alto, fa-cendo poi pagare i propri favori « anchequando chi li subisce è l'autorità prefettiziao politica, che in una lotta tra un candidatoamico del Governo e,un candidato dell'oppo-sizione difficilmente resiste alla tentazionedi valersi anche della mafia, perché il candi-dato amico abbia a riuscire; e da per talmodo un esempio che è più pernicioso dellaazione di mille mafiosi, perché alimenta lafonte stessa dello spirito di mafia: lo sprezzodell'autorità della giustizia e dello Stato, il

quale giovandosi di mafiosi, diventa essostesso tale ».

Per eliminare la mafia nell'Isola, pertanto,doveva essere per primo il Governo a nondare il cattivo esempio, valendosi del suoappoggio nelle lotte elettorali e tollerandoche ben noti mafiosi « reggano le sorti deicomuni, facciano da sollecitatori negli ufficie divengano intermediari tra il pubblico e leautorità ».

Purtroppo le parole e le proposte di Loren-zoni rimasero lettera morta, e ancora unavolta la mafia mostrò una vitalità economicae politica tale da permettersi ogni afferma-zione e da sfruttare ogni risorsa, tra le altrequella di assicurare tempestivi espatri agliaffiliati, apertamente compromessi o minac-ciati di arresto.

La guerra mondiale non creò in Sicilia glistessi problemi che movimentarono Ja vitapolitica nel resto della penisola, ma il ritor-no dei reduci disorientati e senza lavoro finìcol favorire la formazione di una mafia gio-vane, che doveva muoversi, in forme nuove,accanto alla mafia tradizionale, interessatacome sempre a conquistare il monopolio del-le terre e a soffocare con i vecchi metodi del-la lupara, degli incendi, delle intimidazioni, leaspirazioni e i movimenti contadini, ricor-rendo ancora una volta alla soppressione vio-lenta rdei loro esponenti più rappresentativi,come avvenne per Nicola Alongi, ucciso aPalermo il 28 febbraio 1920 e per SebastianoBonfiglio, ucciso il 10 giugno 1922.

All'avvento del fascisco, una parte almenodi questo mafia finì con l'aderirvi e dal cantoloro i piccoli proprietari terrieri pensaronoche con l'instaurazione di un regime forteavrebbero potuto liberarsi delle incomodealleanze mafiose e difendere egualmente ipropri interessi, una volta che con la soppres-sione delle libertà politiche e sindacali fossevenuta meno la possibilità stessa delle lottecontadine contro il latifondo.

Questo atteggiamento favorì la lotta cheil fascimo intraprese contro la mafia, ema-nando il decreto-legge 15 luglio 1926 e in-viando in Sicilia, per dirigere le operazionidi polizia, il prefetto Cesare Mori. Il decretodel 1926 consentiva alla Pubblica sicurezzadi denunziare in stato di arresto, per farli

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assegnare al confino di polizia, coloro chefossero designati « per pubblica voce » comecapeggiatori, partecipi o favoreggiatori « diassociazioni aventi carattere criminoso o co-munque pericolose alla sicurezza pubblica ».

Avvalendosi di queste norme eccezionali,Mori portò alla mafia una lotta di tale esten-sione e severità che egli stesso la definì « unostadio di assedio in ventiquattresirno ». Nonsempre le operazioni di polizia furono con-dotte con l'osservanza delle norme di legge,ma almeno in apparenza vennero raggiuntirisultati non indifferenti, non certo control'alta mafia, ma contro la massa di manovradi cui essa si era sempre servita.

Tra l'altro, nel 1926, venne arrestato e con-dannato anche Vito Cascio Ferro, ancoraconsiderato il grande capo della mafia, e nel1931 il Procuratore generale di PalermoGiampietro potette annunciare con compia-oimenito, ma purtroppo con la stessa ingenuafiducia che aveva salutato l'opera del prefet-to Malusardi, che orinai la mafia, che nel1925 era dominatrice e signora di tutta lavita isolana, si era ridotta a pura ombra.

8. — Considerazioni conclusive. Le cause ela forza della mafia.

Due punti emergono con chiarezza dallevicende e dagli episodi che sono stati somma-riamente ricordati nelle pagine precedenti, esi tratta proprio idei punti che dovrebberospiegare le ragioni per le quali la mafia daun lato si è sviluppata soltanto nella Siciliaoccidentale e dall'altro ha avuto una durataben più lunga di fenomeni analoghi, come lacamorra; ciononostante che la storia del-l'Isola, almeno per quanto riguarda l'evolu-zione delle sue strutture sociali, non sia statagran che diversa da quella del resto delMezzogiorno d'Italia.

Il primo di questi punti è senza dubbio co-stituito dal rilievo che le azioni della mafiasi risolsero in genere a favore dei ceti domi-nanti, in particolare dei propnietari terrieri,che ebbero nei mafiosi gli alleati più convin-ti e più preziosi nella lotta contro le riven-dicazioni contadine. La mafia d'altra parte (equesto è il secondo punto), fin dalla sua na-

scita e con un impegno sempre maggiore nelcorso degli anni, si esercitò nella costantericerca di un intenso, incisivo collegamen-to con i pubblici poteri della nuova societànazionale, rifiutando il ruolo di una sempliceorganizzazione criminale in rivolta contro10 Stato, o magari interessata soltanto a unafunzione di supplenza del potere legittimo.Ma se la mafia si rafforzò, grazie ai collega-menti con l'apparato pubblico dello Statosabaudo, è lecito supporre che anche il nuovoStato abbia tratto un preciso vantaggio daquesti collegamenti, il vantaggio cioè di ga-rantirsi una facile posizione di dominio, sen-za essere costretto ad affrontare il problemascottante di un radicale rinnovamento dellasocietà siciliana.

Per realizzare l'Unità, la borghesia nazio-nale, emersa al ruolo di classe dirigente, nonesitò ad allearsi in Sicilia con la nobiltà feu-dale locale, ed è proprio dalla logica di que-sto accordo, e correlativamente, dall'ostina-ta opposizione all'autogoverno, che nacquee si sviluppò il fenomeno della mafia. Dopoavere confermato le sue posizioni di privi-legio e di dominio, infatti, l'aristocrazia ter-riera si trovò ad avere bisogno, al di là dellestrutture legali dello Stato, troppo deboli pergarantirglielo, di un forte potere repressivoche tenesse a bada i contadini e che ponesseun freno alle emergenti rivendicazioni delleclassi subalterne, interpretate in quegli annisoprattutto dai Fasci dei lavoratori. Questoaiuto i proprietari lo trovarono nella mafiadel feudo e nel suo interesse a ricercare, peri propri fini, un collegamento con i ceti do-minanti.

In questo senso, perciò, si può ben direche la mafia è stata all'origine un fenomenonon delle classi subalterne, escluse, come tali,da ogni accordo di potere, ma al contrariodei ceti che al momento dell'Unità già eser-citavamo (e che continuarono ad esercitare)11 dominio politico ed economico nell'Isola,cioè in definitiva, della vecchia nobiltà feu-dale e della grande proprietà terriera. Lamafia, quindi, come, prima si è visto più indettaglio, fu costituita non soltanto da sopra-stanti, campieri e gabellotti, ma anche, e inmisura non sempre marginale, da rappresen-tanti delle classi dominanti. Fu proprio il

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loro interesse a mantenere le posizioni diprivilegio conquistato nel corso dei secoli ea impedire che i ceti medi si trasformasseroin una borghesia imprenditoriale modernache rafforzò le basi, come ora si è detto,del sistema di potere mafioso e dell'intricodi complicità e di connivenze col potere for-male del'lo Stato, che ne ha caratterizzato lastoria. Da questi collegamenti, la mafia trassedecisivo alimento per condurre in porto isuoi illeciti traffici e per assicurarsi la suastessa sopravvivenza. In cambio, i manosiriuscirono a realizzare un'opera imponentedi mistificazione, perché, facendo leva sulmalcontento popolare per gli arbitri e le ves-sazioni dello Sfato poliziesco, finirono perguadagnarsi la solidarietà o almeno la com-prensione dei siciliani, che però sfruttaronocontro il loro interesse, favorendo, per man-tenere in piedi i privilegi dei potentati loca-li, una divaricazione sempre più accentuatatra -la società nazionale e quella isolana eostacolando quindi, con tutti i mezzi, anche ipiù sanguinosi, ogni istanza di rinnovamen-to e di progresso.

Questa situazione cambiò solo apparente-mente con l'avvento del regime fascista. Du-rante il fascismo, il bisogno di fare ricorsoal potere extralegale della mafia si affievolì,perché lo Stato si impegnò a garantire inprima persona la repressione del movimentocontadino, ma non par questo la mafia scom-parve. Il prefetto Mori riuscì certamente adistruggere le bande armate, collegate agliaggregati mafiosi, che infestavano le zone in-terne della Sicilia, specialmente quelle delleMadonie e delle Caronie, e riuscì pure astroncare l'attività delle associazioni manoseche pullulavano nei centri urbani e rurali;ma è altrettanto certo che l'a'lta mafia non.venne nemmeno toccata e che non fu rimossanessuna delle cause, che erano state alla basedel fenomeno. Dal periodo fascista, i mafiosiche contavano uscirono indenni, o perché sierano integrati nel regime o perché avevanopotuto continuare a vegetare all'ombra delpotere, senza bisogno di ricorrere a gesti cla-morosi, visto che bastava la repressione fa-scista a frenare le rivendicazioni e il movi-mento dei contadini.

8.

SEZIONE TERZA

LA MAFIA DEGLI ANNI DELDOPOGUERRA -DAL 1943 AL 1950

1. — La rinascita della mafia.

Nel 1943, alla vigilia dell'occupazione al-leata della Sicilia, la mafia rifece la sua com-parsa nell'Isola, più agguerrita che mai.

La lotta condotta dal fascismo contro il fe-nomeno mafioso aveva avuto, come già si èdetto, risultati apparentemente efficaci. Laenergìa dimostrata in quel periodo dagli or-gani di polizia e dalle gerarchle pubblicheaveva guadagnato allo Stato ampi consensida parte dei ceti dirigenti e sembrava averfatto dimenticare che il prezzo del successo(che si riteneva) ottenuto era anche costitui-to dalla soppressione delle libertà democrati-che e delle competizioni elettorali.

Ora che il regime fascista volgeva alla finee che gli insuccessi militari svelavano al po-polo il tragico volto della dittatura, divenivasempre più chiaro per tutti che il prefettoMori e i suoi uomini non sempre avevanoagito nel rispetto delle regole legali e che isuccessi nella lotta contro la delinquenza, fa-voriti dall'acquiescenza della Magistratura ecelebrati dai suoi rappresentanti nei loro di-scorsi ufficiali, erano stati ottenuti anche colricorso ad arbitri ed abusi di ogni genere.In troppi casi, le concessioni e le dichiara-zioni di accusa erano state estorte mediantevere e proprie torture, gli arresti e le perqui-sizioni erano stati operati senza discrimina-zioni di sorta,, molti innocenti erano statiprivati della libertà personale, ed era acca-duto di regola che gli imputati, .una volta ar-restati, venissero trattenuti nelle stazionidi polizia per intere settimane e messi a di-sposizione del giudice con enorme ritardo esulla base di prove prefabbricate e non sem-pre attendibili.

Man mano che cresceva nella popolazione•la speranza di- un rapido e definitivo ripri-stino delle libertà democratiche, i metodi po-lizieschi e le violazioni della legalità diventa-

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vano intollerabili e ne appariva intollerabilelo stesso ricordo; ciò tanto più che la lottadel fascismo contro la mafia, se aveva indub-biamente conseguito in superficie apprezza-bili risultati, non era tuttavia riuscita nel-l'intento di colpire il male alle radici, di ri-muovere le cause o almeno di delineare unefficace programma di rimedi, che non si ri-ducessero a una mera azione repressiva. Inol-tre, le iniziative poliziésche non erano statenemmeno sufficientemente imparziali, maavevano colpito solo una parte dei mafiosi,e certo non i più importanti. Così, per esem-pio, Calogero Vizzini, che nel dopoguerraavrebbe avuto nella mafia una posizione diprimo piano, era sì stato inviato al confinonel 1925, ma successivamente aveva potutovivere tranquillamente, attendendo tempi mi-gliori e preparando le condizioni necessarieper un dominio incontrastato su una largazona della Sicilia.

È comunque evidente che non furono certole incongruenze e le insufficienze della lottadel fascismo contro la mafia a determinarnenel dopoguerra la clamorosa rinascita; essene furono piuttosto la premessa e ne favori-rono la ripresa solo nel senso che le illega-lità e le violenze arbitrarie, a cui la Poliziaaveva talora ispirato i propri metodi duran-te di ventennio fascista, finirono per suscita-re ed esaltare una posizione rivenidicatorianon solo nei perseguitati politici, ma anchein tutti coloro che erano stati confinati ocondannati per reati comuni o di stampomafioso.

D'altra parte, l'esperienza fascista dimo-strò ancora una volta, dopo il tentativo com-piuto da Nicotera alla fine del secolo XIX,come l'uso della forza, anche se momenta-neamente coronato da successo, non sia tut-tavia (almeno da solo) un utile strumentoper combattere e sconfiggere Ja mafia. Nes-suno come i mafiosi è (pronto a piegarsi difrante all'atteggiamento deciso dal poterecostituito, iper poter -poi rialzare il capo, nonappena sia passato il momento della tempe-sta. Così avvenne puntualmente anche allavigilia 'della caduta del fascismo e della scon-fitta militare.

I fatti di questa rinascita furono moltepli-ci e di ordine diverso. Bisogna cerca-re di in-

dividuarli, in questa sede di ricostruzionestorica, per poter meglio capire quali sianole cause del fenomeno mafioso e quanto pro-fonde siano le sue radici, se tali e tanti rivol-gimenti sociali, politici e istituzionali, nonne hanno scalfito la potenza e se i mafiosidopo parecchi lustri di silenzio e di quiescen-za, furono capaci all'indomani della libera-zione (come se nulla fosse accaduto) di co-stituire, nelle zone occidentali della Sicilia,una rete fittissima di affiliati e di relazioni,con un impianto di tale solidità, che sarebbestato nel futuro una impresa difficilissima, enon ancora portata a termine, tentarne losmantellamento.

2. — L'occupazione alleata e la mafia.

Nei primi anni di guerra, la situazioneeconomica e sociale dell'Isola appariva gra-vemente compromessa e presentava, in moltisensi, note accentuate di arretratezza rispet-to al resto del Paese. Infatti, solo un terzodella popolazione era occupato e il redditomedio degli abitanti era del 35 per cento in-feriore a quello nazionale. Il numero deglianalfabeti era elevatissimo, mentre era bas-sissimo l'indice della consistenza industria-le, riguardo sia alle imprese che agli addet-ti. Le abitazioni erano già insufficienti al-l'inizio della guerra e molte di quelle esisten-ti furono distratte dagli eventi bellici; allostesso modo andarono danneggiati molti im-pianti industriali e una parte consistentedella rete stradale e di quelle portuali. I ser-vizi pubblici infine presentavano gravi ca-renze e le loro condizioni andarono manmano peggiorando, tanto che — come risul-ta da .una pubblicazione del Centro democra-tico di cultura e di documentazione — « 2,9milioni di persone usavano acqua provenien-te da acquedotti o pozzi artesiani, 141.000si approvvigionavano da cisterne, 88.000 dapozzi aperti, 410.000 da sorgenti naturali, tut-te peraltro in qualche modo controllate dalcomune, mentre molte altre decine di mi-gliaia di persone si approvvigionavano dafonti assolutamente incontrollate ».

In mancanza di altre risorse la stragrandemaggioranza della popolazione viveva con i

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redditi dell'agricoltura, ma per ti più i gua-dagni erano miseri, anche perché la strutturaagricola riportò fin dall'inizio gravi danni acausa della guerra. Secondo le statistichedell'epoca, infatti, il 57 per cento del terri-torio agricolo dava un reddito inferiore allediecimila lire, mentre il valore della produ-zione agricola in Sicilia era soltanto di 881lire prò capite. Inoltre il 27 per cento dellaproprietà fondiaria, per complessivi 500.000ettari, aveva i caratteri del latifondo, con unapercentuale quindi notevolmente superiorealla media nazionale, che raggiungeva il 17,7per cento.

In questa situazione di indigenza, di verae propria miseria e di mancanza di fonti dilavoro, era naturale che trovasse nuovo ali-mento il fenomeno della delinquenza; specienelle zone occidentali dell'Isola, i delitti piùgravi andarono sensibilmente aumentandotanto che nel 1942 furono commessi nelleprovince -di Palermo, Trapana, Agrigento eCaltanis'Setta 87 omicidi, 75 rapine e 5 estor-sioni. Peraltro la latitanza di un numerosempre maggiore di delinquenti e la forma-zione di bande di fuori legge, anche armate,fornirono di nuovo alla mafia il suo naturalestrumento di azione; i mafiosi, che erano inlibertà tornarono a poco a poco ad esercita-re le funzioni di una volta, e dando prote-zione ai latitanti si misero in condizione diavere nuovamente a disposizione un utile edocile mezzo di manovra per il raggiungi-mento dei propri scopi illeciti.

Ma furono altre — e in un primo .tempoconnesse all'occupazione alleata — le causevere della folgorante ripresa manosa.

Pare ormai accertato che qualche tempoprima dello sbarco angloamericano in Sici-lia numerosi elementi dell'esercito america-no furono inviati nell'Isola, per prenderecontatti con persone determinate e per su-scitare nella popolazione sentimenti favore-voli agli alleati. Una volta infatti che erastata decisa a Casa'blanca l'occupazione dellaSicilia, il Naval Intelligence Service orga-nizzò una apposita squadra (la TargetSeotion), incaricandola di raccogliere le ne-cessarie informazioni ai fini dello sbarco edella « preparazione psicologica » della Si-cilia. Fu così predisposta una fitta rete in-

formativa, che stabilì preziosi collegamenticon la Sicilia, e mandò nell'Isola un numerosempre maggiore di collaboratori e di infor-matori. Un attento cronista di quegli annicosì annota alcuni degli episodi più signifi-cativi della vasta operazione: « a Castelve-trano cominciò a funzionare un'emittenteclandestina; un'altra a Palermo, in un ap-partamento del centro, e l'agente americanoera una donna. C'era pure un verduraio aPachino, già parecchi mesi prima dell'inva-sione, un certo Gaspare, che andava in girocon la sua carretta per il paese e le campa-gne e parlava un dialetto strettissimo, ma,quando giunsero gli alleati, riapparve in di-visa inglese, e divenne poi il primo governa-tore dell'AMGOT a Rosolino. A Gela, due ope-rai che lavoravano alla diga del Dissuni, fu-rono rivisti, dopo, in uniforme inglese: era-no staiti paracadutati in Sicilia con una radiotrasmittente, che avevano fatto funzionaredurante lo sbarco. A Catania, un lustrascar-pe che per mesi aveva esercitato il propriomestiere davanti alla sede della federazionefascista, ricomparve poi in divisa di maggio-re dell'esercito americano; e perfino un uffi-ciale dell'aviazione, che disimpegnava inca-richi amministrativi in un aeroporto ameri-cano, era in realtà un ufficiale americano »(Salvo Di MATTEO, Anni roventi — La Siciliadal 1943 al 1947, Palermo 1967, pag. 76).

Ma l'episodio certo più importante ai finiche qui interessano è quello che riguarda laparte avuta nella preparazione dello sbarcoda Lucky Luciano, uno dei capi riconosciutidella malavita americana di origine siciliana.Di questo episodio si sono frequentementeoccupate le cronache e la pubblicistica, conricostruzioni più o meno fantasiose, ma laverità sostanziale dei fatti non sembra con-testabile, se si ricorda che il senatore EstesKefauver così si espresse al riguardo nel rap-porto conclusivo dell'inchiesta della SenateCrime Investigatory Committee: « Durantela seconda guerra mondiale si fece molto ru-more intorno a certi preziosi servigi cheLuciano, a quel tempo in carcere, avrebbereso alle autorità 'militari in relazione a pianiper l'invasione della sua nativa Sicilia. Se-condo Moses Polakoff, avvocato difensore diMeyer Lansky, la Naval Intelligence aveva

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richiesto l'aiuto di Luciano, chiedendo a Po-lakoff di fare da intermediario. Polakoff, ilquale aveva difeso Luciano quando questivenne condannato, disse di essersi allora ri-volto a Meyer Lainsky, antico compagno diLuciano; vennero combinati quindici o ventiincontri, durante i quali Luciano fornì certeinformazioni ».

Si comprende agevolmente, con questepremesse, quali siano state le vie dell'infiltra-zione alleato in Sicilia prima dell'occupazio-ne. Il gangster americano, una volta accetta-ta l'idea di collaborare con le autorità gover-

- native, dovette prendere contatto con i gran-di capomafia statunitensi di origine sicilianae questi a loro volta si interessarono di met-tere a punto i necessari piani operativi, perfar trovare un terreno favorevole agli ele-menti dell'esercito americamo che sarebberosbarcati clandestinamente in Sicilia per pre-parare all'occupazione imminente le popola-zioni locali.

La mafia rinascente trovava in questa fun-zione, che le veniva assegnata dagli amicidi un tempo, emigrati verso i lidi fortunatidegli Stati Uniti, un elemento di forza pertornare alla ribalta e per far valere al mo-mento opportuno, come poi effettivamenteavrebbe fatto, i suoi crediti verso le potenzeoccupanti.

Contemporaneamente, la mafia si prepara-va a stabilire, all'interno dell'Isola, i neces-sari collegamenti sul terreno politico col Mo-vimento separatista, il solo raggruppamentodi ispirazione antifascista che avesse già nel-la clandestinità una propria rete organizza-tiva e che si trovasse quindi in condizioni diassumere subito, al momento dell'occupazio-ne, dirette responsabilità anche amministra-tive.

Infatti, i gruppi antifascisti operanti nel-l'Isola non pensarono a costituirsi con la ne-cessaria prontezza in comitati di liberazione,ma continuarono a muoversi attraverso in-contri informali e disorganici, ognuno nelchiuso della propria ideologia, senza cercarecontatti e rapporti che portassero alla for-mazione di una vigorosa • forza politica dacontrapporre subito anche ai disegni deglioccupanti.

I Invece, negli ultimi anni del regime fasci-I sta, alcuni esponenti della vecchia classe di-

rigente siciliana, che avevano mantenuto vivasotto le ceneri un'aspirazione antica d'indi-pendenza e di separazione dell'Isola dal restodell'Italia, si erano impegnati ad organizzareun proprio fronte di resistenza, che cercavadi convogliare nelle sue file, più che gli anti-fascisti, gli scontenti del fascismo, i disillusidel regime, coloro che.ancora credevano nelmito dell'Unità attuata dal settentrione ascapito delle popolazioni meridionali e inparticolare di quelle siciliane e che quindigiuravano nell'effettiva possibilità di unaautosufficienza economica e sociale della Si-cilia.

D'altra parte, i capi indipendentisti pensa-vano di raggiungere il traguardo secessioni-sta con l'aiuto delle forze di occupazione, si-curi come erano che gli Stati Uniti e la GranBretagna avrebbero favorito la loro aspira-zione di vedere staccata la Sicilia dall'Ita-lia. Si trattava in verità di idee fondate, al-meno in parte, non soltanto sui desideri dichi li coltivava, ma anche su qualcosa di con-creto. Gli angloamericani infatti vedevanonel Movimento separatista, quando l'Italiaèra ancora una potenza nemica, un valido al-leato e cercarono perciò, in tutti i modi, diprendere contatti con i suoi capi. Così, peresempio, nell'aprile 1943, il colonnello bri-tannico Handack fu ospite clandestino del-l'onorevole Arturo Verderame e nello stessomese Charles Potetti, che poi sarebbe statogovernatore 'di Palermo, sbarcò in Sicilia eriuscì a stabilire contatti con alcuni latifon-disti di fede separatista, come Lucio. TascaBordonaro e la duchessa di Cesarò. Più ingenerale, il giornalista Gavin Maxwell, rac-contando questi episodi, doveva scrivere:« Sin dal luglio, a pochi giorni dallo sbarcoalleato, il servizio speciale americano aivevanaturalmente fatto il possibile perché questomovimento (il separatismo) si rafforzasse inmodo da assicurarsene una piena coopera-zione contro l'Italia e contro le quattro divi-sioni tedesche che stavano a difesa dellaIsola ».

Non c'è perciò da meravigliarsi se pochigiorni dopo la conquista di Palermo e a

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poche ore, si può dire, dalla caduta del fa-scismo, il gruppo promotore del separatismopoteva lanciare un ambizioso proclama, colquale, dopo avere denunziato formaknente leresponsabilità della monarchia sabauda e delfascismo, chiedeva formaknente « ai governialleati di consentire la costituzione di un go-verno provvisorio siciliano, al fine di predi-sporre ed attuare un plebiscito perché si di-chiari decaduta in Sicilia la monarchia sa-bauda -nella persona di Vittorio Einanuele IIIe suoi successori e la Sicilia sia eretta a Statosovrano indipendènte con regime repubbli-cano ».

Nacque così formalmente il Movimento in-dipendentista siciliano (MIS) guidato da An-drea Finocchiaro Aprile, Antonino Varvaro,Lucio Tasca, Antonio Canepa, Concetto Gal-lo, i duchi di Carcaci, il barone Stefano LaMotta. Larghi strati popolari si riconobbero,specie all'inizio, nel separatismo, perché lovidero rendersi interprete della loro anticaaspirazione all'autogoverno.

In tutti i momenti di crisi, nel 1860 comenel 1893, le popolazioni siciliane avevano ri-proposto le loro istanze di autonomia dalGoverno centrale. Anche nel 1943, il popolosiciliano vide nella caduta del fascismo ilcrollo dello Stato accentratore e poliziesco,dello Stato che Sii era sempre opposto alle suerichieste di giustizia sociale e di autogover-no. È naturale quindi che la fine del fasci-smo e correlativamente la mancata tempe-stiva organizzazione dei grandi partiti demo-cratici favorissero in principio una sinceraadesione delle masse popolari al movimentoe alle istanze separatiste.

Ben presto però i proprietari terrieri, pre-occupati delle iniziative prese dal Governonazionale per avviare una nuova politicaagraria, impugnarono saldamente la bandie-ra separatista e non esitarono a distorcereai prapri fini i sentimenti più sinceri dei si-ciliani.

I miti dell'indipendenza, dello sfruttamen-to della Sicilia da parte dei settentrionali,del tradimento consumato ai danni del popo-lo al momento dell'unificazione,, furono abil-mente sfruttati dai capi del Movimento perimpedire che la rinascita democratica po-tesse sacrificare i loro privilegi e interessi,

in sostanza per evitare ancora una volta, se-condo la linea di una tradizione storica chenon aveva conosciuto interruzioni, l'accessoalle terre dei contadini.

Fu proprio questo impegno programma-tico e la comune attività svolta per la prepa-razione psicologica dell'Isola e l'occupazio-ne alleata che spinsero la mafia ad allearsi,sia pure per breve tempo, con il Movimentoseparatista.

È vero che in tempi piuttosto recenti, al-cuni esponenti del MIS hanno cercato di mi-nimizzare la portata del fenomeno, riducen-dolo al livello di sporadiche adesioni non sol-lecitate; e può anche ammettersi che la mafia,com'è suo costume, non abbia manifestatogrande entusiasmo.per il Movimento e abbiasoltanto mirato a ricavarne, al momento op-portuno, le maggiori utilità, pronta quandose ne fosse presentata l'occasione, a cambia-re bandiera e a schierarsi con i (più forti. Re-sta comunque il fatto che nel 1943 i capi se-paratisti e alcune cosche manose concluserouna vera e propria intesa, nell'intento di di-fendere interessi che ritenevano comuni eallo scopo di conquistare insieme, per i pro-pri fini non sempre leciti, cospicue posizionidi potere all'ombra della iniziale protezionealleato. Questa intesa fu raggiunta mediantela partecipazione alle riunioni e alle azioniseparatiste di esponenti mafiosi di primopiano e trova un'attendibile documentazio-ne in fonti di vario genere, anche di naturaufficiale.

Lo stesso Calogero Vizzini, il « grande zio »della nuova mafia, il 6 dicembre 1943 parte-cipò al primo convegno regionale clandesti-no dei separatisti a Catania ed ostentò suc-cessivamente la sua fede indipendentista,portando all'occhiello la « Trinacria », cheera il distintivo del Movimento. Anche altricapimafia, come Gaetano Filippone, PaolinoBontà e Genco Russo, non nascosero le loroinclinazioni e si fecero fotografare mentrepartecipavano a manifestazioni indipenden-tiste. Dal canto suo, il generale dei Carabi-nieri Amedeo Branca scrisse testualmente inun rapporto segreto del 18 febbraio 1946:« II movimento agrario separatista sicilianoe la mafia da diverso tempo hanno fatto cau-sa comune; anzi, i capi di tale movimento,

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tra i quali don Lucio Tasca, si debbono iden-tificare per lo più con i capi della mafia nel-l'Isola »; e in un altro rapporto aggiunse:« il La Manna (un capo separatista) ha affer-mato, la sera del suo arresto, che era statochiamato dal Tasca Giuseppe, per ritirarequattrocento manifestini da portare al cava-liere Vizzini Calogero. Ha affermato inoltreche il duca di Carcaci aveva come collabora-tori diretti Tasca Giuseppe, il barone La Mot-ta, Vizzini Calogero ».

La confluenza dei settori della mafia nelMovimento indipendentista ne rafforzò inmodo sensibile le iniziative e la capacità dipenetrazione tra le popolazioni dell'Isola,mentre da parte sua il governo di occupa-zione, tenendo fede alle promesse della vi-gilia, si affrettò a consegnare l'amministra-zione dell'Isola ai militanti del separatismo,mettendoli così in condizione di esercitaresui cittadini un potere reale e un'influenzaspesso decisiva. Infatti, man mano che leforze alleate occupavano l'Isola, procedendoda sud-ovest verso l'interno, e poi versooriente, i prefetti e i podestà, che non aveva-no abbandonato l'Isola, furono destituiti dal-la carica e sostituiti con nuovi amministra-tori graditi agli alleati.

In molti dei 357 comuni siciliani furonoinsediati come smelaci, a partire dai comunioccidentali, uomini politici separatisti, e traloro anche autentici mafiosi, come avvennetra gli altri per Calogero Vizzini, 'nominatosindaco di Villalba. Anche a Palermo, il 27settembre 1943, venne solennemente inse-diata la nuova Giunta comunale, presiedutada Lucio Tasca, uno dei maggiori esponentiseparatisti, che successivamente il generaleBranca non avrebbe esitato a qualificare nelsuo rapporto come un vero e proprio capo-mafia.

In questo modo, i mafiosi tornavano allaribalta, assumendo posizioni di potere o di-rettamente o per interposta persona, attra-verso quegli esponenti separatisti, che eranoad essi legati da vincoli non solo ideologici;inoltre, i loro rapporti con gli alleati, o me-glio con gli emigrati di origine siciliana chele forze di occupazione avevano portato consé e che spesso erano diventati consulentidelle autorità militari, misero i mafiosi in

condizione di ottenere vantaggi cospicui diogni genere e favorirono inoltre (sul presup-posto che si trattasse di perseguitati politi-ci) la riabilitazione di molte persone cheerano state condannate o confinate per reaticomuni.

Al riguardo, la Commissione ha compiutoogni sforzo (come già risulta dalla relazionesettoriale sui rapporti tra mafia e banditi-smo), per accertare con la maggiore preci-sione possibile quali furono le relazioni trale forze di occupazione e gli esponenti ma-fiosi, e per stabilire in particolare se la riabi-litazione o addirittura l'impunità di determi-nati personaggi della malavita siciliana sianostate l'effetto di un accordo segreto stipulatoal momento dell'armistizio.

Purtroppo, l'impegno della Commissionenon è stato coronato dallo sperato successo,per l'indisponibilità di documenti ufficiali,che servissero a ricostruire nei particolari enell'accennata prospettiva quel periodo tra-vagliato della nostra storia.

È comunque fuori discussione, per quantoprima si è detto, che la condotta degli allea-ti, prima e dopo l'occupazione, costituì unfattore di primaria importanza per la ripre-sa nell'Isola dell'attività mafiosa e .che il mo-vimento politico separatista, cui si appoggiòinizialmente il governo militare alleato, rap-presentò una comoda copertura per le spre-giudicate infiltrazioni manose e insieme lostrumento di cui inizialmente si servì il cetodominante per la difesa dei suoi interessi.

È altrettanto indubbio che gli alleati sicomportarono nel modo accennato, per fina-lità esclusivamente o prevalentemente mi-litari. Nel momento in cui l'Italia era anco-ra una potenza nemica, era interesse vitaledegli angloamericani, guadagnarsi l'appog-gio di una classe dirigente che potesse con-trapporsi al Governo italiano e che fosseeventualmente capace di organizzare e diri-gere, qualora se ne fosse presentata l'occa-sione, un movimento di resistenza. Ma le buo-ne intenzioni .purtroppo furono sopraffattedagli avvenimenti, e l'azione degli alleatiservì almeno in parte, a ridare forza allamafia, a restituirla, con nuove energie, allasua funzione di 'guardia armata del feudo, acreare infine le premesse di quel collegamen-

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to tra mafia e band'itismo, che avrebbe insan-guinato per anni le pacilìche contrade del-l'Isola.

3. — La mafia a difesa del latifondo.

Si è visto nel paragrafo precedente chela democrazia prefascista ,si schierò dallaparte della classe dominante, abbandonan-do nelle sue mani la massa dei contadini eriponendo nel cassetto tutti i progetti idi unariforma agraria che servisse a smantellare,nei fatti e non soltanto con la declamazionedelle leggi, -ili feudo siciliano. Successiva-mente, durante il tormentato periodo delprimo dopoguerra, le forze cattoliche e so-cialiste cercarono di portare avaniti un pro-gramma di rinnovamento .sostanziale dellapolitica agraria e, tra l'altro, nel 1919, i de-putati cattolici presentarono in Parlamen-to un progetto di legge per ilo smantellamen-to del latifondo attraverso da quotizzazionee l'esproprio. Ma 'l'avvento del fascismo di-sperse completamente i frutti, o, forse me-glio, le speranze di questo patrimonio dilotte e di progresso in agricoltura, e di ri-forme che toccassero la struttura del lati-fondo non si sentì più parlare, tanto chedopo più di venti anni di politica fascista,la terra in Sicilia era ancora nelle mani dipochi.

Come già sii è ricordato, .infatti, all'indo-mani dell'occupazione .alleata, circa il 27 percento della proprietà fondiaria aveva nel-l'Isola la struttura del latifondo, contro il17,7 della percentuale nazionale. Secondo lestatistiche dell'epoca, le quote maggiori disuperficie latifondistica si trovavano nellezone orientali dell'Isola, dove minore era l'in-fluenza mafiosa, ma in queste stesse zone,accanto alle grandi proprietà, si (registravaun intenso frazionamento fondiario ed eraparticolarmente diffusa, con un'accentuatapolverizzazione dea .fondi, la piccola proprie-tà contadina. Ad occidente invece la pro-prietà privata fondiaria, anche quando nonaveva le dimensioni del latifondo, presen-tava un fonte accentramento ed era moltodiffuso il sistema del fatto (o gabella).

Si spiega perciò, proprio in .relazione aquesto tipo di struttura socio-economica,come la mafia nel dopoguerra riprese il so-pravvento, 'ali pari di quanto era avvenutonel passato, soprattutto nelle province occi-dentali dell'Isola, anche se non sono consen-tite al riguardo eccessive schematizzazioni ese non mancarono, negli anni successivi al-la caduta dal fascismo, notevoli infiltrazio-ni mafiiose .nella provincia di Messina.

Ancora una volta, più che d'estensione dellatifondo, fu la frequenza con cui i proprie-tari ricorrevano alla gabella a .costituire ilterreno di elezione della mafia. Infatti lafunzione mafiosa tipica, che riassumeva neisuoi caratteri essenziali tutte le altre, erastata nal passato l'intermediazione parassi-taria, e nessuno meglio del gabellotto si tro-vava in condizione di esercitarla, in una so-cietà prevalentemente agricola, come era inquei tempi quella siciliana. Con la cadutadel fascismo, il mafioso della gabella ripre-se di nuovo a svolgere il suo ruolo, impo-nendo con la forza, da propria presenza, so-stituendosi spesso ai proprietari e perseve-rando con la tenacia nello .scopo -di sempre,di itenere a freno (a qualunque costo ed an-che con da violenza) le (rivendicazioni con-tadine. Accanto ai gabellotti, tornarono sul-la scena le schiere di soprastanti, di cam-pieri, di guardiani, in una parola di tutticoloro che i proprietari incaricavano di am-ministrare le proprie tónre e di proteggerledalle ruberie dei .piccoli idelinquenti, ma so-prattutto dalle pretese dei contadini.

Non si tratta, come potrebbe sembrare,di affermazioni generiche e tralatioie, privedi un concreto riscontro nei fatti. Esiste alicontrario una vera e propria .mappa dellapresenza mafiosa oel feudo, o meglio aimargini dal feudo, in quegli anni immedia-tam-enite successivi all'occupazione alleatadella Sicilia, e basta qui ricordare alcuniesempi, per coglierne l'innegabile evidenzastorica e la stessa dimensione del fenomeno.

Così, a Corleone, un centro agricolo delpalermitano, patria di Michele Navarra e diLuciano Leggio, il feudo Donna Beatriceera tenuto din gabella dal noto capomafiaCarmelo Lo Bue, mentre i pregiudicati ma-

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fiosi Michele Pennino, Mariano Sabella, Bia-gio Leggio erano gabellotti di tre feudi nonmeno importanti, e dal canto suo France-sco Leggio, altro 'mafioso, era soprastantedel feudo Sant'Ippolito di 415 ettari. Perfi-no Luciano Leggio divenne in quegli annigabeUotto del feudo Stoasatto, quando giàera colpito da mandato di cattura par esse-re •stato accusato di gravissimi reati.

A Rocoamena pericolosi .mafiosi, come ifratelli Raimondi; Cirrincione; Leonardo,Giordano e Gioacchino Casato; VincenzoCollura; Michele Bellomo e Antonio Gancierano tutti gabellotti dei feudi esistenti nel-la zona e situazioni -analoghe si ripetevanoa S. Giuseppe Tato, a Marameo, a ContessaEntellina, a Belmonte Mezzagno e .in prati-ca in tutti i comuni agricoli delTentroterradella Sicilia occidentale.

Sarebbe -impossibile (o forse imutie) farequi l'elenco completo di tatti i rapporti dellgenere di quelli citati, ma non si può a farea meno di (ricordare — tra gli episodi piùsignificativi del fenomeno — che a VillalbaCalogero Vdzzini era il gestore del feudoMiccdchè, che a Mussameli i Lanza di Trabiaaffidarono il feudo Polizzello a GiuseppeGenoo Russo, che Salvatore Malta prese inaffitto il feudo Vicarietto, Vanni Sacco ilfeudo Parrino, Barbacela le terre di Ficuzzanella zona di Godrano e Joe Profaci il feudoGalardo.

Il fenomeno si spiega, considerando chegli agrari erano in quei tempi preoccupatidella ripresa, sempre più vivace, delle riven-dicazioni contadine, sostenute questa voltadalle forze politiche unitarie che si andava-no poco a poco riorganizzando. Il Movimen-to separatista fu, sul piano politico, lo stru-mento di cui i grandi proprietari pensaronodi servirsi per consolidare al sistema econo-mico che ili favoriva e per impedire che qual-cosa mutasse; ma sul piano dei fatti, degliavvenimenti di ogni giorno, era ancora lamafia l'alleata più valida per tenere testaalle pressioni dei contadini e dei braccianti,per far frante alla spinta della miseria, ma-gari con l'uso delila'violenza più efferata.

La rinascita della mafia infatti coincisetra il finire del 1943 e ili 1944 con un aumen-

to impressionante dei reati di -stampocamente mafioso nelle quattro province oc-cidentali dell'Isola. Basti pensare che nel1944 furono commessi 245 omicidi in pro-vincia di Palermo, 154 ,in proviinoia di Tra-pani, 83 in quella di Agrigento e 44 in pro-vincia di Cakanissetta. Naturalmente, nonsi trattò in tutti i casi di ireati rìconducibi-li direttamente alle iniziative della mafia;per molta parte, quei reati furono commes-sa dai fuorilegge ohe allora infestavano lemontagne dell'Isola e che avrebbero datoorigine, diventando sempre più numerosi eagguerriti, al sanguinoso fenomeno del ban-ditismo. Ma amene se non li commise di-rettamente, è certo che fu la mafia a fa-vorire col .proprio comportamenito l'aumen-to dei delitti, in particolare dando ricettoai banditi, sviando le indagini della Polizia,creando in molti paesi un tìlima decisamen-te contrario agli interveniti degli organi sta-tali e infine intrecciando veri e propri rap-porti, che in iseguito avrebbe stretto sem-pre di più, con ile bande dei fuorilegge e inparrtioolare con quella di Salvatore Giuliano.Fu certamente la mafia a proteggere Giu-lliamo nella fuga dopo l'omicidio, del carabi-niere Mancino e furono ancora i mafiosi apermettere al .fuorilegge e od suoi af filiati disfuggire alla cattura, quando sul finire del1943 le forze dell'ordine organizzarono unavasta azione di rastreliamento, nel tentati-vo di amreatanlo.

Anche in questo periodo inoltre fu tipica x

connotazione della delinquenza di stampomalioso l'alta percentuale idi delitti che re-starono impuniti e di quelli che non furononeppure denunciati. Per la .provincia di Pa-l'anrno, ad esempio, sui 245 omicidi commes-si nel 1944, soltanto -di 38 furano indivi-duati gli autori', mentre per le 646 rapineavvenute nella stessa zona solo per 90 laPolizia riuscì a denunciarne alla Magistra-tura i presunti autori. È d'altra parte signi-ficativo, perché dimostra come non sempred cittadini erano disposti a denunziare i tor-ti subiti, evidentemente per timore di rap-presaglie, che sempre nel 1944 i delitti diestorsione accertati in provincia di Palermofurono soltanto 47, quando è invece presu-mibile che essi siano stati molti di più, es-

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sendo il ricatto, come in altra parte si è giàavuto modo di dire, una 'delle « funzioni »più caratteristiche idei mafiosi.

Ma ciò che è ancora più indicativo dellapotenza della mafia, delle sue ramificazio-ni e dei rapporti che essa aveva saputo im-mediatamente ristabilire con l'ambiante, èche quegli amili, come poi avverrà in segui-to, la giustizia venne spesso elusa, anchequando le (responsabilità erano state accer-tate fin dal primo momento. È sufficientericordare per tutti l'episodio di CalogeroVizzimi, autore con altri del vile attentatocommesso a Vilalba contro l'onorevole Gi-rolamo Li Causi, che nel corso di un comi-zio aveva « osato » sfidare apertamente lamafia, invitando d contadini a non prestar-si! alle sue lusinghe. Vizzini fu [riconosciutocolpevole del delitto e condannato a cinqueanni di reclusione, ma riuscì egualmente asfuggire alla giustìzia e a morire nel suoletto, senza aver fatto nemmeno un .giornodi carcere.

4. — Le vicende del separatismo.

Intanto il Movimento separatista conti-nuava a svolgerle ila sua propaganda e a fareproseliti anche tra gli umili, con la promes-sa di ardite riforme a vantaggio dei conta-dini e degli operai, tali da metterli su unpiano di perfetta uguaglianza con tutte leakre classi sociali.

Alcuni giornali, ma soprattutto volanti-ni e fogli stampati alla macchia, diffonde-vano nella popolazione de tesi separatiste.Il numero 1 di volantini dell'« Indipendenza »diffuso oela provincia di Catania, (riassume-va i princìpi del Movimento nei punti se-guenti:

« La Sicilia vuoi diventane -Repubblica li-bera e indipendente:

1) Porche il suo popolo vuole essere li-bero.

2) Perché essa è entrata a far parte del-l'Italia dopo il tranello .del 1860, onde lasua « .italianità » è posticcia e comunque nau-fragata nel disastroso ottamtennale periodosperimentale.

3) Parche essa parla la lingua italianaper ila stessa iragione per cui nel Belgio siparla francese, nel nord America inglese, nelsud America spagnaio.

4) Perché nessuna delle promesse fattedaili'Italia è sitata mantenuta; anzi la Sici-lia fu sempre tradita, oppressa, sfruttata edisprezzata.

5) Perché le .risorse naturali e la labo-riosità della sua gente sono tali da assicu-rare al popolo la prosperità e il benesseremai goduti.

6) Perché l'Italia ha calpestato ogni suodiritto e impedito che, accanto alla mccaagricoltura, sorgesse una gagliarda industriasiciliana, come quella che si svilupperà nel-l'Isola nel dopoguerra.

7) Perché ila Sicilia Jibera sarà il gran-de emporio economiico del .sud.

8) Perché la Sicilia indipendente rap-presenterà la valvola di sicurezza per il man-tenimento della pace nel Mediterraneo.

Perciò i siciliani sono ormai decisi a ri-nunciare alla vita, non all'Indipendenza ».

Come si vede, alla base del Movimentopalpitavano il ricordo di un nobile passatopolitico e culturale e l'acuto (risentimentoper il mancato adempimento del pubblicoimpegno preso da Garibaldi e da VittorioEmanitele II di mcostituire il parlamento si-ciliano soppresso dai Borboni. Ma la pre-tesa secessionistica era giustificata dallatendenziosa convinzione che il tessuto eco-nomico della Sicilia, una volta florido, fos-se «tato distrutto dagli ottanta anni di vitauniitari/a, col colpevole concorso delle re-sponsabilità del potere centrale; e il succes-so del Movimento era affidato alla pericolo-sa illusione che la Sicilia, una volta sottrat-ta alilo « sfruttamento coloniale » dell'Italia,avrebbe avuto finalmente la possibilità diorganizzare convenientemente il proprio svi-luppo economico e sociale.

Questi ideali venivano esaltati con mes-sianico fervore, nei discorsi dei capi, in par-ticolare da Finocchiaro Aprile e una speran-za di rinnovamento càrcolava foia le masse.Ma nei fatti, come si è detto, il separatismonon tardò a rivelare il suo volto reaziona-

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rio e .conservatore. Con l'aiuto massicciodella mafia, gli indipendentisti riuscitronoa far fail'lire gli ammassi, i cosiddetti « gra-nai del popolo » avvantaggiando così i gran-di latifondisti e i contrabbandieri mafiosi.Ben presto, inoltre, la difesa del feudo nonfu soltanto lo scopo occulto del Movimento,ma divenne un obiettivo apertamente di-chiarato, tanto ohe Lucio Tasca non esita-va a proclamare: « Sia gloria ail latifondosiciliano, grande -riserva di ricchezza che isiciliani .sapranno valorizzare il giorno incui Je risorse eoonomiche della loro terrasaranno impiegate nell'Isola ». Anche nelmemorandum inviato alila conferenza diS. Francisco nel marzo del 1945, i capi delseparatismo .si limitarono ad affermane aproposito 'dei problemi agrari che « non im-porta la questione della proprietà della ter-ra, importa la fornitura di strumenti ai con-tadini ».

Ciononostante, come già si è detto, alme-no nei primi tempi, .il separatismo riuscìad ottenere .successi mom indifferenti, grazieanche all'aiuto materiale che ribevette dal-le forze alleate. Ma gli alleati non potetteromantenere a lungo questo atteggiamento. Il13 ottobre 1943, il Governo italiano dichia-rò guerra alla Germania, venendosi così atrovare .in posizione di cobelligerante a fian-co dedl'Inghiilteinfa e degli Stati Uniti. Per-tanto, i governi delle due .grandi potenze fu-rono costretti a iniziare una 'manovra disganciamento, non potendo evidentementecontinuare ad alimentare d'equivoco "sepa-ratista, col pericolo idi dover poi partecipa-re ad una dotta civile nel territorio di unanazione amica.

I separatisti tuttavia non disarmarono.Malgrado gii aspri giudizi, che si levavanoda tutte le parti contro gli indipendentisti,i loro capi organizzarono a Pailenno, il 16 e17 aprile il secondo congresso nazionale delMovimento e inviarono alle delegazioni digoverni che partecipavano aliila conferenzainternazionale di S. Francisco un memoria-le in cui affermavano « la decisa risoluzio-ne dei siciliani .di organizzare la loro terraa Stato Sovrano e la volontà risoluta .di rag-giungere l'indipendenza anche, se ococmres-se, con de 'armi », e col quaile invitavano le

Nazioni Unite a « portare il loro esame sul-la grave situazione esistente nell'Isola e de-cidere sulle sue sorti » e « a volere contri-buire a risollevare l'oppressa (nazione sici-liana datì 'intollerabile situazione inella qua-le malauguratamente versa ».

LI documeoto, mentre suscitò vivissimereazioni nell'opinione pubblica nazionale,non ebbe in sede intemazionale l'accoglien-

. za sperata. L'Ambasciata inglese a Roma ri-badì in una nota che erano del tutto desti-tuite di fondamento le voci di un appoggiodegli alleati al Movimento seperatista, men-tre dal canto suo il senatore americanoJoseph Geoiffry, membro della Commissio-ne per ile .relazioni con l'estero, dichiaròesplicitamente: « la nostra posizione ufficia-le è che non daremo dil nostro appoggio anessun movimento tendente al separatismoe alla, suddivisione » e aggiunse che « l'atteg-giamento assunto dai separatisti siciliani èconsiderato qui dannoso al bene della Si-cilia, la cui storia sociale, economica, poli-tica e culturale è ràsctadibiimente legata alresto dell'Italia; il Governo degli Stati Uni-ti ha più di una volta espresso il suo puntodi vista sul 'Separatismo siciliano, che è con-siderato un movimento sovversivo direttocontro gli alleati, contro l'Italia e contro laSicilia ».

Infine, il 23 agosto, la Presidenza del Con-siglio comunicò uffinalmente: « assunte in-formazioni all'Ambasciata americana, risul-ta al Governo degli Stati Uniti ed alla Con-ferenza che nessun memoriale siciliano odaltro simile documento .sia stato preso inconsiderazione alla Conferenza di S. Franci-sco, me il fatto che in essa se n'è in alcunamisura discusso e neppure che alcuna delledelegazioni presenti abbia approvato 'le ri-vendicazioni separatiste o si sia fatta por-tavoce delle medesime ».

Il Movimento indipendentista aveva per-duto in breve volgere di tempo quelli cheaveva creduto i suoi principali e più potentiallleati. Ma le sue forze andavano declinan-do anche per alltre ragioni. Tra il 1943 e od1947, i contadini si erano langanizzàti in unmovimento senza precedenti per ampiezzae per forza, così da porre, in termini muovi,il problema della distribuzione delle terre

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e così da .scatenare quella sanguinosa e vio-lenta reazione degli agrari, culminata nellastrage di Porteria della Ginestra. Nel frat-tempo peraltro tutti d partiti antifascisti (ildemocristiano, il comunista, ili socialista, ilpartito d'azione, il (liberale, il (repubblicano)avevano .organizzato ile proprie file e aveva-no costituito in molte zone della Sicilia co-mitati inteipartitici, iche avevano come sco-po principale proprio quello di apparsi, inuno spirito nazionale, a'H'iimpossi'bàJle prete-sa di una divisione dell'Isola dal restod'Italia.

Tutti i partiti però, se ribadirono ferma-mente, pur nella diversità delle ideologie edei programmi politici, un sicuro impegnounitario, proposero nello istesso tempo unacomune distanza di autonomia e di decentra-mento regionale, inedia convinzione che ilicentralismo, specie quello esasperato del-l'esperienza fascista, costituisse un fattoredi freno allo sviluppo dell'Isola.

Fu in particolare la Democrazia cristianache si attestò, prima ancora degli altri par-titi, .su posizioni auitonomistiche, e che feceproprie le istanze e le rivendicazioni .dei ce-ti medi delle città e delle campagne. L'óttise-gnamento di Sturzo e le esperienze acquisi-te mei primi due decennii del secolo dal mo-vimento cattolico, specie nella Sicilia orien-tale, spinsero i leader democristiani dell'Iso-la, da Sceiba ad Aldisio, a impegnarsi inun ruolo di protagonisti mella battaglia direcupero, su posizioni di autonomia e diautogoverno, idi quegli strati del'la piccolae media borghesia siciliana, che avevano ade-rito in buona fede e con sincerità di imtential Movimento separatista.

L'alfiere di questa .politica fu indubbia-mente Aldisio, che nominato Alto commis-sario in Sicilia per conto del Governo na-zionale, impostò e portò avanti un ampioprogramma di riforme e .di' (Sviluppo demo-cratico, non rifiutando tuttavia la ricercadi un compromesso con tutti i ceti, che po-tessero dare al nuovo assetto politico, chesi andava delineando sul piano nazionale,una base 'di massa.

L'impegno autonomistico della Democra-zia crisitana e degli altri partiti antifasci-sti portò il 15 maggio 1945, attraverso una

serie di .tappe faticose, all'istituzione dellaRegione siciliana.

•Garirelativamente, la vittoria autonomisti-ca indebolì seriamenite il movimento sepa-ratista, parche lo svuotò del suo contenuto,almeno in parte. La mafia, perciò, appenari sere conto che il Movimento per l'indi-pendenza della Sicilia non aveva ormai nes-suna prospettiva per conquistare il poteredell'Isola, tornò ai suoi amori col personalepolitico dello Stato prefasoista, con i vec-chi notabili che si erano attestati sulle po-sizioni del partito (liberale e dei gruppi didestra, monarchici e qualunquisti.

D'altra parte, le forze. del blocco agrarionon esitarono a tentare un ricatto nei con-fronti del partito che proprio .in quel tem-po emergeva alla direzione dalla Nazione eche era interessato, come si è visto, a con-quistarsi il consenso dei ceti medi e dellaborghesia emergente. Lo .spostamento dellepreferenze e dei voti mafiosi che si verificòin qu esito periodo e megli anni immediata-mente successivi non fu certo l'effetto disollecitazioni o di collusioni, ma fu tutta-via la causa di una grave 'distorsione, perchéinsieme con altri fattori, d'importanza in-dubbiamente maggiore, concorse a piegarein altra direzione la politica di sviluppo de-mocratico e d'impianto riformìstico che erastata (iniziata in Sicilia.'

L'esempio più imponente di questo feno-meno si ebbe alla Regione siciliana, dovel'approvazione dello Statuto speciale, frut-to di un'intesa di tutte le forze antifasciste,fu seguita, all'indomani della strage di Por-tella della Ginestra, dalla formazione di go-verni regionali appoggiati dallo schieramen-to liberale-qualunquista. E mon è dubbio chefu appunto questa una ideile ragioni ohe im-pedì alla vittoria autonomistica di porre unfreno definitivo all'espansione mafiosa.

5. — La costituzione della Regione.

La costituzione della Regione fu l'unicarisposta valida alle tentazioni del Movimen-to separatista e insieme alle aspirazioni se-colari di autogoverno del popolo siciliano.

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Con la Regione, gli autonomisti si propo-nevano -in via primaria la realizzazione diun'umiltà sostanziale, e non .solo formale, colresto del Paese, ma anche la soluzione di unproblema di costume, cercavano cioè, in unaparola, di favorire un processo di ammoder-namento della Sicilia attraverso d'autogover-no e quindi l'assunzione di una responsabi-lità diretta.. Nel programma delle forze politiche auto-nomiste, l'autogoverno veniva concepito co-me uno strumento d'autodisciplina direttoa far acquisire una rinnovata coscienza ci-vica alle popolazioni siciliane e la vita re-gionale come una palestra di democrazia,ohe avrebbe dovuto dare uno slancio nuovoaill'attiività politica in Sicilia.

In questo quadro, era generale il propo-sito di combattere la mafia fin dall'inizio efu assillante preoccupazione dell'Assembleae del .governo regionale impegnare la Regio-ne nella lotta contro la mafia. «Si può anziben 'dire che uno dei fini che l'autonomia siriprometteva di raggiungere era quello diliberare definitivamente ali popolo siiciiliainodal peso oppressivo della mafia.

Ma purtroppo i voti1 e le speranze di queitempi fervidi d'entusiasmo e di irininovamen-to non si realizzarono a pieno, anzituttoperché l'impianto e la gestione del nuovoistituto, rifiutando le alleanze e i coonsensiche ne avevano permesso Ha fondazione, of-frirono nuovo spazio a un sistema di poterefondato sul clientelismo, sulla conruzione esulla mafia.

Non è inoltre senza rilievo che la Regionesi costituì nell'immediato dopoguerra in unmomento ancora drammatico per ila vitadella Nazione e in particolare della Sicilia.Si è visto nei precedenti paragrafi, sia .pureper sommi capi, quali fossero in quel tem-po le condizioni dell'Isola. Tutto allora erada fare o da rifare e la Sicilia aggiungevale piaghe del dopoguerra alila sua arretratez-za secolare e alila carenza di tutte le strut-ture necessarie per assicurare alle popola-zioni un normale tenore di vita, 'tanto chemalti mancavano del lavoro e .perfino d'in-dumenti' e di cibo. L'ondine pùbblico inol-tre era gravemente 'compromesso per la pine-senza di banditi e di fuorilegge che popola-

vano l'Isola e mai come allora la mafia eraapparsa aggressiva e potente.

Perciò, anche se era impossibile fare al-trimenti, in quanto un rinvio sarebbe statoforse fatale -alle istanze autonomistiche del-l'Isola, il momento era il meno adatto e lecondizioni sociali e politiche dell'Isola e delPaese non erano certo favorevoli ad un nor-male ed ordinato sviluppo di un organismodelicato e del tutto nuovo per l'esperienzanazionale, quale era la Regione. D'altra par-te, ilo Stato .non si era dato ancora il suoassetto istituzionale e non ancora era stataeletta l'Assemblea che avrebbe elaborato lanuova Costituzione.

In quel tempo, infine, si andò molto dif-fondendo l'opinione, anche nei ceti dirigen-ti della Nazione, che l'autonomia regionalerappresentava il prezzo ohe lo Stato si eravisto costretto a pagare per far rientrarenell'alveo della legalità la minacciosa pro-testa separatista. Sembrò, in altri termini,che senza il separatismo lo Stato non avreb-be mai concesso l'autonomia e che essa per-ciò non fosse una legittima aspirazione delpopolo siciliano, ma piuttosto una pretesa,che andava contenuta e ridimensionata, se

• non si voleva che ne restasse compromessae intaccata l'unità nazionale.

Nacque di qui un'ostilità preconcetta de-gli organi statali nei confronti del nuovoorganismo e fu una ostilità che, insieme alle.altre circostanze prima indicate, pesò nega-tivamente sui! funzionamento dell'istituto re-gionale e, per certi aspetti, impedì che aves-se effetto l'impegno unanime preso da tuttele forze politiche rappresentate nella Salad'Ercole di lottare e sconfiggere la mafia.

Per di più, l'ostilità che caratterizzò al-meno nei primi .tempi l'azione dello 'Statonei confronti .della Regione si tradusse inuna pesante diffidenza della Pubblica ammi-nistrazione per ile iniziative prese dagli or-gani regionali, provocando interventi nonsempre opportuni e suscitando pregiudizi eprevenzioni, che furono all'origine di moltedisfunzioni anche in relazione al settore chequi interessa. Tra l'altro, l'ostilità e la .diffi-denza dello Stato si manifestarono nel ri-fiuto tenace .dell'amministrazione centrale difornire alla Regione un nucleo modèsto di

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funzionar!, che potesse aiutarla alU'inizio delsuo cammino faticoso; ciononostante chegli organi regionali non si stancassero dichiedere questo aiuto, che li mettesse in con-dizione di disporre di un conpo di funzio-nali esperti, che potessero far funzionareil nuovo organismo, in attesa dell'espleta-mento dei concorsi, che evitassero così ipericoli, che invece non fu possibile evitare,di un reclutamento affrettato senza le ne-cessarie, opportune garanzie.

L'atteggiamento dello Stato finì con l'esa-sperare i sentimenti autonomistici delle for-ze politiche siciliane e le indusse alla ri-cerca di strumenti e di meccanismi chegarantissero meglio alla Sicilia, attraversol'accentuata .latitudine dei poteri regionali,un'indipendenza effettiva rispetto al poterecentrale. Lo Statuto perciò fu congegnato inmodo da assicurare all'organismo regionaleuna somma di poteri particolarmente este-si, che col passare del tempo, e la crescitaeconomica e sociale, avrebbe finito col tra-sformare la Regione in un mastodonticocentro di potere.

Basta ricordare, per rendersene conto,che gli organi regionali furono dichiaraticompetenti a nominare gli amministratorid'una serie di enti, anche di primaria im-portanza, quali il Banco di Sicilia, la Cassadi Risparmio per le province siciliane, l'Isti-tuto regionale finanziario industria siciliana(IRFIS), i Comitati del credito industriale,fondiario e minerale, il Fondo di promozio-ne industriale, la Società finanziaria sici-liana (So.Fi.S.), l'Ente siciliano per la pro-mozione industriale (ESPI), l'Ente sicilia-no'di elettricità (BSE), l'Ente zolfi Sicilia(EZI), l'Agenzia siciliana trasporti (AST),l'Ente minerario siciliano {EMS), l'Aziendaasfalti siciliani (AZASI), l'Ente riforma agra-ria in Sicilia (ERAS), poi trasformato inEnte di sviluppo agricolo (ESA) e l'Ente si-ciliano case-ai (lavoratori (ESCAL).

Furono assegnati inoltre alla competenzadella Regione l'istruttoria e in molti casi laautorizzazione di apertura degli sportellibancar-i, ile fideiussioni, i prefinanziamentiai comuni, la conversione dei titoli nomina-tivi in titoli al portatore, la concessione del-le delegazioni esattoriali, dei contributi >im

capitale, in interessi e in mutui privilegiatialle cooperative edilizie, alle casse per giàimpiegati regionali e alle imprese industria-li, .l'acquisto di immobili, le municipalizza-zioni delle linee .di autotrasporti, il'aoquistodi fondi rustici ai fini della riforma agrariae del rimboschimento.

La Regione infine ebbe il potere di nomi-nare i membri delle Commissioni di con-trollo e del Consiglio di giustizia ammini-strativa, nonché i Commissari straordinariagli Enti locali e i Commissari delle coope-rative agricole di lavoro, di produzione e diconsumo.

Si trattava, come si vede, di una sommadi poteri così estesa ohe la conquista delgoverno o anche la partecipazione alla mag-gioranza rappresentarono fin dall'inizio untraguardo decisivo per esercitare nell'Isolaun'influenza effettiva.

Nacquero di qui gravi deviazioni nella po-litica regionale e un'abitudine tutta parti-colare agli incontri e alile alleanze più inve-rosimili e in genere alla (pratica del com-promesso e del trasformismo.

L'esempio più .caratteristico di questo fe-nomeno si ebbe indubbiamente nel periododi governo dell'onorevole Silvio Milazzo, al-lorquando i gruppi opposti dell'Assembleasi unirono in uno schieramento di collabo-razione governativa, tentando di istituzio-nalizzare un accordo per tanti aspetti im-possibile ed esasperando la tendenza, natu-rale in certi ambienti siciliani, al compro-messo e alla ricerca del potere come fine.In questo clima, ogni specie di accusa di-venne possibile. Si disse così ohe Milazzo siera procurato il voto di un consigliere, chegli assicurava la maggioranza, con la corru-zione di alcuni assessori, indotti a dimet-tersi anche per l'intervento intimidatorio deli-la mafia nei loro riguardi.

Quale che sia la /verità su questi episodi,non è dubbio ohe ila vicenda, nel suo com-plesso, fu l'espressione di una grave degene-razione .del costume politico, tale da renderepossibili pericolose infiltrazioni mafiose, e finìinoltre con l'avvilire, al di là certamentedelle intenzioni dei suoi protagonisti, l'isti-tuto stesso della Regione propino perché

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coinvolse .tutto lo schieramento dell'Assem-blea regionale.

D'altra parte, d'ampiezza dei poteri con-cessi dallo Statuto agli organi della Regionee la discrezionalità spesso assoluta che necaratterizzò l'esercizio, resero impossibilel'organizzazione di una burocrazia ohe po-tesse agire, con la difesa degli strumentitecnici, al -riparo delle (pressioni politiche,ma anzi ne favorirono l'asservimenlo. Ciòtanto più che — almeno .nei primi tempi —la burocrazia, ancora giovane e priva di tra-dizione e reclutata in modi non sempre inec-cepibili, non aveva la necessaria preparazio-ne tecnico-amministrativa per poter eserci-tare le nuove delicate funzioni che la leggele assegnava.

Si è detto prima ohe lo Stato rifiutò contenacia il trasferimento dei suoi funzionar!al servizio della Regione determinando lanecessità di assumere il personale per chia-mata diretta e aprendo così il varco non soloall'immissione nei ruoli 'di persone non sem-pre all'altezza .dei .compiti che avrebberodovuto svolgere, ma anche a una pratica,che avrebbe dato col tempo pessimi frutti,consentendo (come meglio si vedrà, quandoil fenomeno sarà studiato più da vicino) l'in-filtrazione negli organismi regionali di ele-menti mafiosi o vicini alla mafia. Gli abusiche foirono commessi fin dall'inizio in que-sto settore, ispirati spesso alla prassi ma-nosa del favore personale, tolsero al nuovoistituto autorità e prestigio.

La situazione fu inoltre aggravata dal cli-ma di incertezza amministrativa e giuridica,conseguente al mancato coordinamento del-lo Statuto con la Costituzione della Repub-blica e fu addirittura esasperata dalla quo-tidiana polemica fra l'amministrazione sta-tale e il potere regionale.

L'analisi dell'attività amministrativa re-gionale, che è stata uno degli impegni piùsignificativi della Commissione d'inchiestae la cui esposizione troverà posto in altraparte di questa .relazione, dovrà indicare ilimiti dell'influenza che la mafia ha eserci-tato sull'apparato politico e burocratico del-la Regione nei trent'anni della sua vita. Inquesta sede di ricostruzione storica dell'im-pianto mafioso in Sicilia, è solo il caso di

ricordare ohe più di una personalità, nelledichiarazioni rese alla Commissione, ha par-lato esplicitamente di infiltrazioni manosenella Regione o 'meglio di agganci tra il po-tere mafioso e il nuovo organismo, che pureera stato creato con ila speranza e nell'in-tento comune di riscattare ila Sicilia anchedalla oppressione che /per decenni la mafiaaveva esercitato sulle sue popolazioni.

Tra gli altri, il generale dei CarabinieriForlenza ha specificamente accennato ad in-fluenze mafiose nell'assunzione del personalee nel campo 'dell'edilizia, del credito e dèliascuola.

Senza entrare per ora nelle particolari vi-cende .relative a questi settori, basta qui ag-giungere che, per tutti i motivi che si sonoprima esposti, la Regione fu fin dalle ori-gini un organismo funzionalmente e politi-camente debole e che, in una prospettivastorica, è proprio in questa circostanza chedeve individuarsi uno dei fattori ohe con-tribuì nel dopoguerra a rinsaldare, in Sici-lia, l'impianto del potere mafioso.

6. — Mafia e banditismo.

Messo alle corde sul piano politico, ab-bandonato dai potenti alleati di una volta,al separatismo, nella primavera del 1945, nonrestava altra via che quella dell'insurrezio-ne armata. Pertanto, nel marzo del 1945,alcuni capi separatisti, anche se non i piùprestigiosi, decisero di istituire un'organiz-zazione militare, l'EVIS (esercito volontarioper 11'indipendenza della Sicilia) e ne affi-darono il comando supremo al duca Gugliel-mo 'di Carcaci.

In quell'epoca peraltro nella Sicilia orien-tale erano già in opera, sempre nel nomedel separatismo, alcuni raggruppamenti mi-litarizzati ali comando di Antonio Canepa,meglio noto col nome di battaglia di MarioTurri, palermitano di nascita, incaricato distoria dei trattati presso l'Istituto superioredi scienze economiche dell'Università di Ca-tania. Canepa aveva iniziato a dare attua-zione al disegno di organizzare nel cataneseuna vera e propria 'guerriglia, già dalla finedel 1944, impegnandosi con passione nella

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ricerca di (giovani di sicura fede indipen-dentista, disposti ad arruolarsi nel suo pic-colo esercito. Quando fu costituito l'EVIS,i capi separatisti presero contatti con Ca-nepa e lo nominarono colonnello dell'eser-cito indipendentista, affidandogli il compitodell'effettiva preparazione miilitare e dellaguida delle truppe. Ma il 17 giugno 1945,Canepa fu ucciso dai Carabinieri in circo-stanze che sano rimaste avvolte neil miste-ro, tanto che la sua fine è stata anche at-tribuita alla reazione degli agrari, dato cheCanepa, benché inserito nel Movimento se-paratista, cercava di portare avanti un di-scorso, che avrebbe potuto mettere in peri-colo il sistema agrario sostanzialmente feu-dale, ohe ancora caratterizzava in quei tem-pi la società siciliana.

La morte di Canepa non impedì ai separa-tisti di perseverare nel loro disegno insur-rezionale; essi anzi, per portarlo a termine,decisero di agganciare alcune bande di fuo-rilegge che allora operavano nell'Isola e inparticolare quella di Rosario Avila, che ter-rorizzava le regioni orientali e soprattuttole zone di Niscemi e quella del più temibileSalvatore Giulliano, attestato con i suoi uo-mini nelle montagne attorno a Montelepre.In un suo rapporto del 1<8 febbraio 1946, aliMinistro degli interni, il generale dei Cara-binieri Amedeo Branca scrisse che « l'idea diaggregare ad elementi di fede separatistamalfattori comuni è una trovata di LucioTasca, capo autorevole del Movimento sepa-ratista e padre di Giuseppe Tasca, il quale,dimenticando che viviamo in pieno secoloventesimo, ha sempre affermato in politicache tutti i movimenti politici in Sicilia han-no trovato saldo appoggio nel brigantaggiocomune ».

È d'altra parte storicamente accertato chefurono i capi mafiosi a favorire gli incontrie gli accordi tra i separatisti e i banditi.Nessuno meglio della mafia doveva aver ca-pito in quel tempo che la speranza dei se-paratisti di una vittoria sul piano politicoera ormai diventata impossibile, ed è quindinaturale che essa abbia cercato di giocarel'ultima carta ideila strumentalizzazione delbanditismo dilagante anche a fini politici,per la difesa degli interessi connessi al man-

tenimento defila struttura latifondistica dal-l'agricoltura siciliana.

In un rapporto del 7 marzo 1946 dell'Ispet-torato di Pubblica sicurezza si legge testual-mente: « Trattandosi di realizzare il fine po-litico agognato (separazione della Sicilia dal-l'Italia, lotta contro il comunismo) una del-le figure più eminenti era il cavaliere Calo-gero Vizzini, che aveva avuto il compito direclutare gli elementi torbidi della delin-quenza dell'Isola ».

Fu appunto Vizzini, come risulta anche daaltre fonti, che con la sua presenza e le suegaranzie di -mediazione e di protezione, in-coraggiò la decisione, presa dalla maggio-ranza dei capi separatisti, di ingaggiare ibanditi, per continuare la lotta armata con-tro il potere dello .Stato. Come già si è ac-cennato, i capi più prestigiosi del Movi-mento e in particolare Antonio Varvaro, chene guidava l'ala sinistra, non furono favo-

i revoli alla suddetta iniziativa, convinti co-me erano che fosse preferibile continuarein una azione di persuasione defilé massepopolari. . i

Senonchè il 3 ottobre 1945, per decisionedel Governo Farri, Varvaro, FinocchiaroAprile e l'avvocato Francesco Restuocia, unleader seperatista di Messina, furono fer-mati e inviati al confino all'isola di Ponza.

Allora gli altri capi separatisti, temendoun intervento .governativo ancora più ener-gico, abbandonarono ogni indugio e diederoun colpo di acceleratore alla manovra, chegià avevano iniziato, di agganciare definiti-vamente Giuliano e di convertirlo alla cau-sa separatista. Il convegno conclusivo deicontatti inizialmente stabiliti tramite Pa-squale Sciortino avvenne nella località diPonte Sagana, a metà strada tra S. GiuseppeJato e Montelepre, e si svolse a seguito deipreparativi e .secondo le modalità che sonodettagliatamente descritte nel rapporto del-l'Ispettorato di Pubblica sicurezza al Procu-ratore militare di Palermo:

« Giuliano incaricò lo Sciortino e il Lom-bardo (Gaetano Lombardo, cugino di Giulia-no) di invitare il barone La Motta, il ducadi Carcaoi e Pietro Franzone di 'recarsii dalui al Ponte Sagana avendo bisogno di con-

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ferire con loro. Essi si recarono infatti aPalermo in casa di La Motta, che trovaro-no in compagnia di Carcaci, Franzone, Con-cetto Gallo e dell'avvocato Sirio Rossi, in-tenti a studiare un piano tracciato su unfoglio di carta, sul quale erano riportatialcuni punti strategici nei .pressi di un fittobosco in provincia "di Catania, dove i capidelia Gioventù rivoluzionaria per l'indipen-denza della Sicilia avrebbero voluto tendereun'imboscata alle forze militari inviate even-tualmente contro le formazioni separatiste.Ultimata la discussione, partirono tutti, adeccezione dell'avvocato Rossi, a bordo del-l'automobile Bianchi di proprietà dei! LaMotta, da lui stesso guidata, alla volita delPonte Sagana. Ivi attendeva il Giuliano, pro-tetto, a breve distanza, dai suoi gregari benearmati.

Si iniziò la discussione sui piani tattici daattuare per la conquista simultanea dellaSicilia, mediante moti insurrezionali e Giu-liano presentò il progetto di attaccare lezone di Montelepre, Borgetto, Partinico e lo-calità limitrofe, contemporaneamente ad al-tro attacco da effettuare da!l Gallo nella Sici-lia orientale, ciò che, secondo quegli strate-ghi da strapazzo, avrebbe disorientato ed an-nientato Polizia ed Esercito.

Sorsero divergenze fra Giuliano da unaparte e Concetto Gallo e il duca di Carcacidall'altra, pretendendo questi ultimi cheGiuliano si spostasse in provincia di Cata-nia per partecipare all'azione nella Siciliaorientale. Prevalse la volontà di Giulianoche non intese spostarsi dalla sua roccafortedi Montelepre .

Giuliano ebbe altresì un finanziamento dilire 10 milioni per l'attuazione del suo pia-no yma il duca di Carcaci, il barone La Mot-ta e il Gallo apparvero alquanto perplessie indecisi. Intervenne in loro ausilio il Fran-zone, suggerendo che si sarebbero potutitrarre i mezzi necessari con il sequestro afine di estorsione idi persone facoltose, pro-posta bene accolta dal duca di Carcaci, dalGa'llo e dal barone La Motta, il quale si offrìdi designare tihi convenisse sequestrare, sce-gliendo fra persone di sua conoscenza, ma ilGiuliano rifiutò sdegnosamente. Fu allora che

il barone La Motta si impegnò a consegnareal bandito Giuliano la somma di un milione».

Dal momento in cui fu conclusa l'allean-za fra i separatisti e i banditi si ebbe unanotevole recrudescenza di gravissimi delittie frequentisskni divennero gli attentati e gliattacchi contro le forze di Polizia e in parti-colare contro i Carabinieri. Uno dei più gra-vi di questi episodi fu certo quello accadutoil 16 ottobre 1945, quando il bandito RosarioAvila, anche lui agganciato dai separatisti,si appostò con altri banditi in contrada Apa,nei pressi di Niscemi, e attaccò una pattu-glia di sette carabinieri, riuscendo ad ucci-derne tre.

A distanza di pochi mesi dal fatto di Pon-te Sagana, lo stesso Ispettore di Pubblica si-curezza riferì nel rapporto del 1946 che « laproposta fatta a Giuliano (dai separatisti)(era) stata attuata in pieno, a giudicare dalcrescendo dei delitti di sequestro di persona,di estorsioni e di rapine ».

La reazione delle forze dell'ordine comun-que non si fece attendere e neflile prime oredel mattino del 29 dicembre 1945 forti con-tingenti di truppe, composti di reparti difanteria e di Carabinieri, appoggiati dall'ar-tiglieria e da cinque autoblinde, attaccaro-no a San Mauro le postazioni dell'esercitoindipendentista, riuscendo ad averne la me-glio dopo quasi due giorni di combattimen-ti. 'Successivamente, in una serie di altriscontri, le forze residue dell'esercito sepa-ratista furono finalmente debellate e costret-te a cessare definitivamente la propria atti-vità ned marzo del 1946, dopo altri sei mesidi lotta armata.

Nello stesso periodo, i Carabinieri e laPolizia riuscirono ad eliminare o ad arre-stare numerosi delinquenti e a sgominarealcune tra le bande più feroci che avevanoinsanguinato l'Isola. Il 17 marzo 1946 ven-ne trovato ucciso il bandito Rosario Avola efu appunto in quella primavera che il tristefenomeno del brigantaggio si avviò all'esau-rimento tanto che alila fine dell'anno eranostate denunciate 200 associazioni per delin-quere, 1.176 banditi arrestati e 19 uccisi.

Ma nonostante l'impegno delle forze del-l'ordine, il bandito più temibile e più presti-gioso, Salvatore Giuliano, non fu catturato,

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e per moliti anni ancora rimase a capo diuna banda di fuorilegge decisi a tutto.

Nonostante la (sconfitta dell'esercito sepa-ratista, gli fletti della zona di Montelepre,indubbiamente influenzati da Giuliano, con-tinuarono ad appoggiare il Movimento indi-pendentista siciliano democratico repubbli-cano, che faceva capo ad Antonio Varvaro,che intanto il 3 maggio 1946 era stato (libe-rato dal confino, insieme con gli altri capiseparatisti. Ili particolare l'avvocato Varva-ro ottenne un notevole successo personaOealle elezioni regionali del 20 aprile 1947, masta di fatto che egli, oltre ad essere moltoconosciuto nella zona, per esservi nato, ave-va nettamente scisso a quell'epoca la pro-pria posizione da quella dei separatisti agra-ri, mentre Giuliano dal canto suo non avevaancora ceduto al ricatto degli agrari e degildinteressati consigli di chi li rappresentava.

Questa naturalmente fu un'attività del tut-to marginale rispetto alla spieiata serie didelitti che Giuliano continuò a commettere,riuscendo ogni volta a sfuggire alile forzedell'ordine. Ed è proprio questa circostan-za, al di là di qpisodi e di avvenimenti par-ticolari, che ha indotto la Commissione aritenere — come già si è detto nellla rela-zione '(settoriale) sui rapporti tra mafia ebanditismo in Sicilia — che almeno per iprimi tempi, dopo lo scioglimento dell'eser-cito separatista, la mafia continuò ad im-pegnare le sue forze a difesa di Giuliano edella sua banda, ancora nella convinzionedi (potere in questo 'modo portare a terminei propri disegni circa il mantenimento del-l'equilibrio economico e sociale alora esi-stente in Sicilia.

i

'Se infatti la 'banda Giuliano riuscì a resi-stere da 'sola per così lungo tempo nellazona di Montelepre, tenendo dn scacco le ag-guerrite forze di Polizia, che già avevanodato prova della loro efficacia, deve neces-sariamente concludersi che ciò avvenne perla compiacente copertura assicurata dallamafia a Giuliano e anche per le mene a cuii capi mafiosi seppero ricorrere nei rap-porti con le forze di Polizia.

Non si può infatti dimenticare che in quelperiodo il capomafia Ignazio Miceli di Mon-

9.

reale tenne continui contatti con l'ispettoregenerale di Pubblica sicurezza Ciro Verdianie che lo stesso fecero i mafiosi Marco Micelie Domenico Albano di Borgetto, che furonocoloro che avrebbero consegnato a Verdianiil primo memoriale di Giuliano.

La protezione della mafia non solo ga-rantì per anni la impunità di Giuliano, magli consentì purtroppo idi continuare nellasua efferata carriera criminosa, portandoalla cifra incredibile di 430 il numero com-plessivo delle sue vittime.

Tra questi delitti commessi da Giuliano,nel tempo successivo allo scioglimento del-l'EVIS, quello di maggiore risonanza fu cer-tamente l'eccidio di Portdlla della Ginestra,dove il 1° maggio 1947, all'indomani delleelezioni regionali di quell'anno, si erano ra-dunata, secondo una antica tradizione, i la-voratori del'la zona per celebrare la festadel lavoro. Una gran folla si era già rac-colta sulla collina ed era iniziato da pocoil discorso del segretario del Partito socia-lista, quando dalle alture circostanti parti-rono i primi colpi di arma da fuoco, cheavrebbero lasciato sul terreno un numerorilevante di morti e di feriti.

I responsabili ddlla strage furono subitoindividuati dn Giuliano e nei suoi uominie il processo fu celebrato dopo alcuni annidalla Corte di Assise di Viterbo.

È superfluo rifare qui la storia di quell'epi-sodio e delle connesse vicende giudiziarierelative all'individuazione degli eventualimandanti della strage.

La Commissione, come già si è avuto ano-do di accennare, si è ampiamente occupatadella questione, mediante le indagini di unapposito Comitato, che si conclusero conuna relazione approvata all'unanimità nel-la seduta del 10 febbraio 1972.

Qui 'basta ricordare che il Comitato pro-cedette ad un'analisi completa e dettagliatadi tutta la documentazione relativa ài pro-cesso per la strage di Portella della Gine-stra e che, inóltre, nell'intento di approfon-dire in tutti ,gli aspetti e in ogni isenso laquestione relativa a possibili corresponsa-bilità nella preparazione dell'eccidio, il Co-mitato richiese ai Ministeri dell'interno edegli esteri una serie di documenti concer-

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neiiti, per la maggior parte, le ordinarie in-formazioni che gli organi periferici del po-tere politico avrebbero dovuto trasmettereagli organi centrali.

I risultati dell'indagine sono stati purtrop-po deludenti, in quanto si è accertato chele autorità impegnate nella lotta contro ilbanditismo non avevano fornito le opportu-ne informazioni e giustificazioni circa ilproprio comportamento, né si erano preoc-cupate di dare un contributo .all'approfon-dimento del'le cause che .resero così 'lungo etravagliato il fenomeno del banditismo.

La Commissione, quindi, non può che ri-badire che, malgrado tutti i tentativi com-'piuti, mancano aldo stato degli atti validielementi di prova per affermare che la manodi Giuliano sia stata armata da organizza-zioni o personalità politiche; tutte ile accuseformulate durante il processo di Viterboe successivamente contro alcune persone(come presunte mandanti della strage) si so-no finora rivelate prive di fondamento.

È probabile che Giuliano si sia deciso aun delitto così grave per dare una lezioneai contadini, che fino allora avevano contri-buito, almeno col silenzio, ad assicurarglil'impunità, ma che ora sembrava che aves-sero capito come fosse necessario seguireuna strada ben diversa, d'appoggio e di so-lidarietà alle forze politiche democratiche,per accèdere finalmente alla terra cui ambi-vano da secoli. La preoccupazione di Giu-liano idi perdere l'aiuto e la comprensionedei contadini può averlo spinto all'infamedelitto di Portella della Ginestra, nella con-vinzione di potersi così procurare, con laforza, una nuova protezione e nuovi alleati.

Resta comunque il fatto — e la Commis-sione già lo ha sottolineato nella relazionesettoriale più volte ricordata (pag. 50) —che Giuliano ad un certo momento entrònel .complesso gioco di interessi retrivi eparassitari, strenuamente difesi dalla mafia,si rese esecutore dei suoi progetti di vio-lenza, cercò infine di intrecciare le proprieimprese, in un disperato tentativo di acqui-sire impunità e salvezza, alle fortune dei cetiagrairi e delle forze politiche a cui essi ave-vano affidato, di volta in volta, la sopravvi-venza di un'egemonia considerata eterna.

Alla fine però queste speranze andaronodeluse in coincidenza con la decisione dellamafia di. abbandonare Giuliano per cercarenuove cqperture e diversi strumenti di azio-ne a difesa dei propri interessi.

Ma finché la banda 'non venne sgominatae Giuliano ucciso, l'azione delle forze di Po-lizia fu spesso inquinata da episodi e rap-porti non isemipre in linea con quelli chedovrebbero essere i doveri istituzionali de-gli organi dello Stato preposti al manteni-mento dell'ordine pubblico.

È anzitutto pacifico e risuilta accertato insede giudiziaria nel processo per la stragedi Portella delk Ginestra che « un visibilecontrasto » (come si esprime la .sentenza diViterbo) caratterizzò i rapporti fra i Cara-binieri e i funzionar! di Pubblica sicurezzaper tutto il tempo in cui durò la lotta albanditismo. Più volte, nei suoi periodici rap-porti al Ministero dell'interno, il generaledei Carabinieri Amedeo Branca non esitò adenunciare le mene dei dirigenti di Pubbli-ca sicurezza e più di una volta i piani ela-borati dai Carabinieri vennero sventati all'ul-tima ora da contrordini o da interventi in-tempestivi degli uomini alle dipendenze del-l'Ispettore Messana. Sull'altro fronte furonofrequenti casi di confidenti della Polizia, uc-cisi o arrestati., dai Carabinieri e tra essi ilpiù famoso fu certo Salvatore Ferrerà (so-prannominato fra Diavolo), intimo di Giu-liano e confidente dell'ispettore Messana, uc-ciso il 26 giugno 1947 dal capitano dei Cara-binieri Giallom'bardo, che venne poi trasfe-rito per punizione in una sede della Calabria.

Inoltre, quando il Comando forze di re-pressione del banditismo, agli ordini del ge-nerale dei Carabinieri Luca, sostituì definiti-vamente l'Ispettorato di Pubblica sicurezzache aveva avuto fino ad allora la direzionedelle operazioni, sembra certo che i funzio-nar! sostituiti non consegnarono nemmeno« una carta » al comando dei Carabinieri.Per di più l'ispettore Ciro Verdiani, anchedopo essere stato esonerato dall'incarico,continuò ad occuparsi dell'affare Giuliano etra l'altro ricevette il memoriale del banditoche avrebbe poi trasmesso all'indirizzo pri-vato del Procuratore generale presso la Cor-te di Appello di Palermo Emanuele Pili.

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Furono d'altra iparte continui d rapportiche gli uomini della Polizia ebbero con ibanditi colpiti da mandati di cattura e con10 'Stesso Giuliano. Così, è certo che l'ispet-tore Verdiani sa incontrò personalmente con11 capobanda, alla presenza di Gaspare Pi-sciotta, e del mafioso Miceli; così la sentenzadi Viterbo diede per certo, nonostante ildiniego del funzionario, che l'ispettore Mes-sana si serviva come confidente del terribilebandito Ferreo (fra Diavolo) e che il Fer-reri aveva una tessera di riconoscimentoche gli permetteva di circolare liberamentein Sicilia. Anche Pisciotta ebbe il suo tesse-rino dal colonnello Luca e dopo la morte diGiuliano fu accolto come ospite nell'appar-tamento occupato a Palermo dal capitanodei Carabinieri Antonio Perenze.

La Commissione ha già rilevato che peruna parte questi e simili episodi trovano unasufficiente spiegazione nell'eccezionaiità idei-la situazione che aveva creato il banditismonella Siioìlia occidentale.

« Giuliano » ha dichiarato alla Commis-sione un funzionario di Polizia « faceva laguerriglia, e bisognava rispondere con unacontroguerriglia »; sicché si può pure ca-pire come le forze dell'ordine abbiano pen-sato di dover ricorrere in quegli anni terri-bili a 'metodi insoliti non sempre conformiai loro doveri istituzionali; e si può ancheessere d'accordo col colonnello Luca, chetutto quello che facevano Polizia e Carabi-nieri « era diretto a buon fine e se talvoltaera spregiudicato, era fatto per combattereelementi estremamente spregiudicati ».

.Non si può essere certi però che similimetodi siano stati davvero più redditizi diquelli normali, se si pensa che molti perico-losi banditi rimasero in libertà nonostanteche gli organi di Polizia avessero con lorofrequenti e normali rapporti, e che potet-tero perciò continuare indisturbati la loroattività delittuosa, a mantenere ancora invita per un 'lungo tempo ila banda Giuliano,se così si può dire, col consenso degli organistatali.

Furono d'altra parte proprio questi me-todi a permettere a Gaspare Pisciotta digridare nell'aula della Corte di Assise diViterbo: « siamo un corpo solo, banditi, Po-

lizia e mafia, come il padre, i;] figlio e lo spi-rito santo ». Si trattò, è evidente, di unavanteria interessata e ad effetto, ma di fron-te a certe verità sarebbe ingenuo negareche la frase esprìme anche il radicato con-vincimento dei fuorilegge di èssere, alila fine,più forti dello stesso Stato, proprio per ilasomma dei poteri reali che possono eserci-tare nell'ambiente in cui vivono ed operano.I conflitti tra le forze dell'ordine, l'insuffi-ciente coordinamento che vi spinse in queitempi la loro azione, da necessità confessatadi dover ricorrere all'aiuto degli stessi ban-diti e della mafia, per poter ristabilire lapubblica tranquillità, furono tutti elementiche dovettero ingenerare (allora, come sem-pre) il diffuso convincimento di una organicadebolezza dello Stato, nuocere alla sua stes-sa credibilità, convincere il popolo d'ella op-portunità che gli organi dal potere formalefossero suppliti, nelle .naturali funzioni digoverno della società, dai più forti deten-tori di un potere informale.

Non poteva essere più chiara la confes-sione di impotenza dello Stato, nel momen-to in cui le forze di Polizia accettarono espli-citamente l'aiuto interessato della mafia, pri-ma per fare il vuoto intorno a Giuliano epoi per poter definitivamente liberare l'Isoladalla sua presenza.

Può dirsi ormai storicamente accertatoche fu la mafia di Monreale, capitanata daiMiceli e da Nitto Minasela, a frantumare leulteriori resistenze della banda Giuliano ea permettere la cattura di alcuni degli uo-mini che ìgli erano più vicini (Castrense Ma-donia, Nunzio Badalamenti, Frank Manni-no), e fu sempre la mafia che, puntando sultradimento di Gaspare Pisciotta, arrivò alilaliquidazione fisica di Giuliano, per l'inte-resse che aveva al suo definitivo silenziosulle troppe cose che forse sapeva.

Il 5 luglio 1950, infatti, i Carabinieri sitrovarono tra i piedi il cadavere di Giulia-no. Il compito di Pisciotta — ha detto allaCommissione il capitano Antonio Perenze— non era quello di uccidere il bandito, masolo di stanarlo. La dichiarazione però la-scia perplessi in quanto dalli a relazione dellaCommissione ministeriale d'inchiesta sullaattività di Luta risulta che Perenze entrò

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Senato della Repubblica — 132 — Camera dei Deputali

LEGISLATURA VI — DISEGNI DI LEGGE E RELAZIONI - DOCUMENTI

nella casa in cui si trovava Giuliano e glisparò contro una scarica di mitra, senzaprima accertarsi se fosse vivo, ciò che evi-dentemente significa che ìe forze dell'ordinelo volevano prendere morto.

Al processo di Viterbo, Pisciotta procla-mò di essere stato lui ad uccidere Giuliano,ma troppe circostanze mettono oiggi in di-scussione anche questa versione.

La Commissione però non ha potuto re-perire 'sul punto nuovi elementi di provache servissero a chiarire, in tutti i suoi par-ticolari, le vicende che portarono all'elimi-nazione di Giuliano. Gli ostacoli 'maggiorisu questa via sono venuti dal ritardo e dal-l'incompletezza che -hanno caratterizzato lapubblicazione dei documenti relativi alle vi-cende di quegli anni. Come già si è accen-nato, la stessa Commissione non ha trovato,in questo settore, la necessaria collabora-zione delle autorità .governative e non è statamessa in grado .di approfondire fino in fon-do il rapporto tra mafia e banditismo.

È tuttavia merito indubbio della Commis-sione aver contribuito, con le sue indaginisu quegli anni torbidi della nostra vita na-

zionale, a indurre la Magistratura palermi-tana a riaprire un'istruttoria formale sulpersistente mistero della strage di Portellladella Ginestra e sui punti oscuri relativi allamorte di Salvatore Giuliano.

È sperabile che nel prossimo futuro sipossa fare piena luce su quei tragici avve-nimenti, ma già ora si può dire che le tra-giche vicende che portarono alla morte diGiuliano confermano in pieno l'orgogliosaaffermazione di Calogero Vizzini che controi banditi nulla avrebbero mai potuto la Poli-zia senza l'appoggio della mafia.

Si tratta purtrqppo di una verità amara,ma di una verità che è resa ancora p'iù ama-ra dalla falsità della versione iniziale circala morte del bandito.

Fu d'altra parte proprio la certezza, benpresto acquisita dalle popolazioni locali, cheera stata in definitiva la mafia a liberarel'Isola dal terribile flagello del banditismoa costituire l'ultimo, ma non certo di menoimportante, dei fattori che contribuirononel dopoguerra a ristabilire l'oppressionedel potere mafioso sulle contrade dellaSicilia.