generAzione rivista - num XVIII - CAMBIARE

37
Anno Anno Anno Anno iV iV iV iV _ numero _ numero _ numero _ numero XVIII XVIII XVIII XVIII _ novembre novembre novembre novembre / dicembre dicembre dicembre dicembre 2011 2011 2011 2011 generAzione

description

novembre / dicembre 2011

Transcript of generAzione rivista - num XVIII - CAMBIARE

AnnoAnnoAnnoAnno iViViViV _ numero_ numero_ numero_ numero XVIIIXVIIIXVIIIXVIII ____ novembre novembre novembre novembre //// dicembredicembredicembredicembre 2011201120112011

generAzione

Perché ogni vero viaggio presuppone la disponibilità

ad accettare l’imprevisto, qualunque esso sia,

anche quello di non sapere più di preciso chi si era prima di partire.

Simone Vinci, Nel bianco

* È il volto delle cose di Elisa Zanola 5

* Prosciutto di Iuri Moscardi 6

* Anatomia italiana di Diana Osti 8

* Marina di Gianpiero Mattanza 10

*Incastrata di Iris Karafillidis 13

* Kambiamento (?) di Andrea Checcucci 14

* Se fossi Foer di Clara Ramazzotti 15

* Vecchie foto di Andrea Boldrin 18

* Cambiare (in immagini), speciale rapsodia fotografica di Andrea Checcucci 20 #1 #2 #3 #4

Il contenuto di questa Rivista è distribuito sotto licenza “Creative Commons” E’ autorizzata la diffusione gratuita della rivista, a patto di citarne gli autori. E’ vietato l’utilizzo a fini commerciali della presente rivista. Tutto il materiale copiato dovrà essere distribuito con la medesima licenza “Creative Commons” Per maggiori specifiche: http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/2.5/it/

Vi siete mai accorti, da un giorno all’altro, che non avevate quell’espressione prima, che i vostri occhi avevano una sfumatura diversa prima, che usavate poco quella parola o non muovevate le braccia così prima? Avete acceso il portatile, dato un’occhiata alle ultime notizie online e vi siete sentiti diversi da prima. Prima non era così. Non pensavate quelle cose, o forse le pensavate, ok, ma era meno evidente. E poi tutti i vostri amici si sposano, e voi sempre a dire “no col cavolo che mi sposo!” e invece avete un figlio e la vostra ragazza ora porta un anello. Sì, il figlio è il vostro. E anche l’anello. Vi ricordate ancora quando c’era Gheddafi, quando c’era Giovanni Paolo II, quando c’era Berlusconi, quando c’era Bush, quando ogni giorno gli arabi erano terroristi e la pioggia era acida? E che dire di quella volta che vi hanno fatto notare quanto siete cambiati e voi non ve ne siete accorti? Cosa è cambiato? Come? Chiedetevi, com’ero prima? E badate bene alle cose intorno a voi, sono diverse. O siete voi diversi? E viste le festività (l’anno scorso ci siamo voluti sdoppiare con due copertine diverse per il numero Dettagli), doniamo ai nostri fedelissimi lettori uno speciale fotografico del nostro Andrea Checcucci. Da pag. 20 una galleria di immagini - portfolio che troverete anche in un pdf a parte dalla rivista, solo per voi, solo per Natale, solo per cambiare. Ogni tanto.

generAzione rivista - A Iv - N�18 pag 5

- è il volto delle cose, che cambia - Io mutai troppo in fretta:

è stata questa la mia condanna, al tempo non diedi retta e lo anticipai nel divenire quello che già non sono

costretto alle regole del finire. - è il volto delle cose, che cambia -

Sono stato ispezionato fino all’ultimo brandello da uno sciame di ore; sono stato catturato

dalle guardie del destino e condotto davanti al loro signore.

- è il volto delle cose, che cambia - Incoerenza, passione, mutamento...

ogni eternità è in scadenza ed io conoscevo le regole del

[cambiamento la feroce verità di questa scienza: nulla di me era rimasto uguale salvo forse la mia parvenza,

più vecchia, di vecchio animale. - è il volto delle cose, che cambia -

Avevo perduto l’amore della giovinezza e nell’età adulta, svanita l’illusione

svanì ogni innocente gaiezza. “Sei cambiato, non ti riconosco”.

Se ne andò così in un fosco mattino, ritornando come sogno o

[ossessione in altri tempi, già mutati da una mutata previsione.

- è il volto delle cose, che cambia - Dove sono finiti l’impegno civile

lo sdegno, la militanza? Arriva una pigrizia ostile che di tutti i grandi ideali

ha fatto una grande mattanza...

E`il volto delle cose

di Elisa Zanola Così persi ogni speranza quando quel cancello

si aprì davanti al mio passo disilluso e al suono di violoncello

si sostituì un cigolio lugubre di prigione; mio dio!

- è il volto delle cose, che cambia - Che ne è del me stesso che ero? Di tutto sono stato privato,

non mi resta, sgradito compagno, che il pensiero.

Mi aggiro per le strade come un dissennato;

un tempo lavoravo, ero amato un buon borghese; ora non mi resta

che questo io che non possiedo, questo me stesso che domani

nemmeno riconoscerò: il volto tra le mani, in queste lacrime

che non compiangerò. - è il volto delle cose, che cambia -

Ed eccomi, più umano per il mio sbagliare

aggrappato alla sola certezza che gli anni

mi hanno potuto insegnare; non è l’amore non è l’ideale non è il talento

quello che non può cambiare, solo il cambiamento

è il solo compagno a restare; così rassegnato, con rabbia

e spasmi di tenerezza, ansiose vertigini d’incompiutezza, ammiro il volto delle cose,

- il mio - che continuamente cambia.

generAzione rivista - A Iv - N�18 pag 6

«Signora, cosa le do?» Era già il suo turno e con la coda dell’occhio Margherita aveva adocchiato quella vecchia con la pelliccia che le stava fissando le scarpe. Cosa voleva? Le sue erano scarpe normalissime, non avevano niente di strano: Margherita le aveva comprate al mercato di via San Marco, quello del lunedì. Era un bel mercato, c’era di tutto, mai pensato di trovarci tante cose e tanta gente. Peccato non esserci andata prima, quando le serviva. «Signora? Tocca a lei.» «Ah sì, mi scusi, mi ero persa. Allora...» Margherita aveva imparato la lista a memoria. Prese un bel respiro e partì. «Un etto di cotto.» «Quale, signora? Quello speciale che le do sempre, un po’ caro ma buono? Stasera solo 4 e 50 all’etto signora.» «Stasera vorrei quello lì che c’è in offerta.» “L’ho detto!”: Margherita sperava che il salumiere pensasse che la sua fronte fosse sudata – dannate luci del supermercato che rendono la pelle lucida – perché non si era tolta la sciarpa. Non per quella sensazione di disagio che sentiva di provare e che – ma questo lo sapeva solo lei – le dava anche un po’ di tachicardia. «Subito.» “E smetti di sorridere, stronzo! Sì, sorrido anch’io per finta come te, ecco: contento? Sì, tagliami il mio prosciutto da pezzente e non pensare a me. Pensa ai cazzi tuoi: è Natale, quasi festa, ferie, i regali, la neve, i parenti. Non pensare a me che per la prima volta ti chiedo il prosciutto in

Prosciutto

di Iuri Moscardi

offerta. Non pensare a me. E anche quella stronza di una vecchia: non pensare alle mie scarpe! Pensa alla pensione. Pensa che hai già un piede nella fossa...”. «Signora mi è scappata la mano: è quasi due etti. Lascio?» “E perché deve scapparti la mano?” A Margherita tremarono leggermente il mento e le labbra quando disse – guardando un punto imprecisato tra l’orecchio destro del salumiere che la fissava e il muro dietro – «No, me ne serve solo uno. Mi scusi...». Il calore che sentiva sotto gli occhi le confermò che era arrossita. «Nessun problema», disse il salumiere. Ma Margherita era sicura che non sorridesse più. E che quella vecchia le venisse sempre più vicina. E che fosse quasi una congiura, che tutti volessero sapere i perché della sua spesa. Fosse stato per lei avrebbe anche detto di lasciare ma non dipendeva più tutto da lei: non aveva più la libertà di scelta di prima. Prima avrebbe schifato quel prosciutto in offerta e anche adesso lo immaginava più grasso e unto e meno rosa del solito prosciutto. Ma non poteva farci niente. «Altro signora?» «Vorrei...». Margherita stava per sparare la solita sfilza di ‘cose buone’, cibi che solo a dirli davano un senso di piacere, come se avessero il magico potere di essere più buoni solo perché tenuti dietro le vetrine della salumeria. Ma Margherita aveva una buona memoria: quella stessa memoria che a scuola le aveva regalato i bei voti e

generAzione rivista - A Iv - N�18 pag 7

prima anche lei era una da carrello fashion – almeno, moderato. Ma da quasi un mese le era arrivata una lettera inaspettata: licenziamento. Sembrava incredibile, una lettera finta. Ma non era finta, certe cose non possono esserlo. E nel tempo esatto che separa due secondi aveva perso quel lavoro che le piaceva tanto e che faceva da tredici anni. E nemmeno una parola riconoscente, solo quelle dannate cinque lettere con cui ormai si giustificava tutto: crisi. E Margherita c’era rimasta secca. Aveva pianto, aveva urlato, aveva fatto fatica a dormire e a mangiare per qualche giorno. Ma era ancora viva, anche se i bambini avevano capito subito che non andava «tutto bene» come invece lei continuava a ripetere. Margherita aveva dovuto cambiare abitudini, era stata costretta a farlo. Per questo le serviva un colpevole, qualcuno da accusare per la vergogna di quella spesa da poveracci. Qualcuno che però non esisteva. Era per questo che fin dalla prima occhiata aveva odiato quella vecchia che non aveva mai visto prima: perché era una donna che poteva ancora permettersi le sue abitudini. “Una fottuta vecchia con la pelliccia e il super conto in banca: altro che crisi. Maledetta vecchia che ti fai pure i cazzi miei e mi giudichi”. Mentre a lei toccava fare i conti su tutto. E le veniva pure la faccia rossa e sudava dentro a quel cazzo di supermercato dove andava da una vita e tutti avrebbero pensato male di lei. «Buonasera. Paga con carta o in contanti?» Ecco, pure la stronza alla cassa la prendeva per il culo.

all’Università la lode stavolta le servì a salvare la faccia. Quindi si ricordò che il pan grattato non le serviva perché lo recuperava dal pane secco della settimana prima, quello che i bambini avanzavano perché dicevano che era troppo duro e che era inutile spiegargli che non c’entrava niente aver cambiato panettiere. Il formaggio grattugiato invece lo avrebbe cercato al banco tra quelli già grattati e imbustati, e anche le mozzarelle. Il brie non la attirava più, si chiedeva come mai prima gli avesse sempre dato tanta importanza. E tolse subito gli occhi da quella montagna di salsine speciali e da tutte le specialità di pasta fresca: le avrebbe trovate da un’altra parte del supermercato. «Signora? Desidera altro?» «Come? Ah, sì, certo. No, basta così.» Ora la vecchia le era davvero vicina: Margherita vide che praticamente le spiava dentro il cestino. “Ma come si permette questa? Vuoi vedere se sono una pezzente perché compro le sottomarche?” Margherita ringraziò, mise via il prosciutto e si allontanò. “Che poi non esistono le sottomarche: tutto è buono uguale. Non capisco come la gente non ci creda: la qualità si paga, certo, ma mica son cose raccattate nella spazzatura. Si spende solo un po’ di meno. Ce la fanno tutti, c’è gente che lo fa da sempre e che non va mai neanche al ristorante. Invece c’è gente come quella vecchia di merda che fa solo la spesa fashion. Fa la spesa ricca e si sente superiore. Che schifo! Roba da vergognarsi”. A Margherita, che andava verso la cassa gironzolando tra gli scaffali, adesso tremavano leggermente anche le mani: un po’ per la vergogna, soprattutto per la rabbia. Perché queste cose lei non le credeva per davvero. Fino a due mesi

generAzione rivista - A Iv - N�18 pag 8

Dillo che avresti voluto

stringermi i glutei fino a farli scoppiare e sentirmi gridare

sono tuoi! Sono tuoi e stanare

la mia voglia mortale intrappolata nelle ossa,

nella cavità tibiale...

Cosa fai? Muovo la tua tibia, disse

mentre le mie ossa si spostavano e perché?

Per farti sentire che il tuo cuore non è lì; è solo

il corpo che grida, che fa male, che vuole farsi amare.

Quell’osso lungo con la rotula

in cima sembra la fiaccola delle olimpiadi,

come se in fondo a me ci fosse un’atleta sepolta, ironicamente ingannata

dal destino.

Anatomia italiana

di Diana Osti

Voglia di perdere, perdersi nel vuoto rimanere distaccati dalla vita che ti tiene per il collo. Annullamento arruffato scompiglio di capelli una pesantissima virtù mi scuote con un tonfo dalla nebbia. A che ora dev’essere passato Settembre? Dicono che Berlusconi se n’è andato, e che la gente sta facendo festa io ho visto la vita passare dalla finestra con in testa un cappello sulle ventitré. Forse ero io, quella che vuole darsi coraggio o forse solo un tono da passeggio sognare forte fino a mordersi le dita il dolore, il dolore ti riporta alla vita facendo un giro più lungo, allungando

«And would it have been worth it, after all,/ After the cups, the marmalade, the tea,/ Among the porcelain, among some talk of you and me,/ Would it have been worth while,/ To have bitten off the matter with a smile,/ To have squeezed the universe into a ball/

To roll it towards some overwhelming question,/ To say: "I am Lazarus, come from the dead,/ Come back to tell you

all, I shall tell you all"/-- If one, settling a pillow by her head,/ Should say: "That is not what I meant at all./ That is not

it, at all."»

[T. S. Eliot; The Love Song of J. Alfred Prufrock. 1914]

generAzione rivista - A Iv - N�18 pag 9

per il cambiamento, per l’alba di domani non ricordo più dove ho messo il resto (i vestiti laceri di sudore? I guanti per

[proteggere le mani?). Il silenzio ricopre la mia nuova speranza come la nebbia il Duomo di Milano. Ma senza nebbia non sarebbe quel paesaggio che tanto amiamo. Ma ora, che ti ho vessato con il mio crack interiore, lasci squillare il telefono mi lasci sola a tutte le ore. Io bevo le tue menzogne con grande devozione. Sempre mi sveglio con una domanda sempre, la notte quando sento te vicino a un passo dal ricordo sempre, come apro gli occhi mi siedo, le mie gambe poggiano per terra. Camminare o no in questa Italia sciocca come una parodia del dopoguerra.

Gandhi

la strada di ore navigando a occhi chiusi seguendo

le stelle, scoprirsi spiaggiati, coperti soltanto

dai brividi sulla pelle.

Quel giorno in cui le forze della natura e della medicina

si scatenarono su di me attraverso te io ero ancora una bambina un’ingenua ammaliatrice

poi divenni tremenda seduttrice quando il mio corpo cominciò a tremare

e la mia pelle diventò così sottile avrei voluto fartelo toccare, spalmarti tutto sopra me,

insieme a me farti affondare.

Non si muore forse quando (ci) si

[abbandona? Morire godendo, svenendo, o almeno

[finendo una pompa, attaccati così bene ai lembi

lacerati, ricuciti e riattaccati a caro prezzo

sentire tutto il prezzo, e non solo metà afferrare senza sosta e senza successo

la scaturigine di questa falda sottopelle e tremare alla luce della palpabile vanità

la vertigine del senso, la gioia

del convesso. Lanciarsi su di sé come nella corsa, e avvicinarsi

alla fine, con ancora il vento fra i capelli.

Quel male invisibile (che forse non c'è!)

l’ho perso in un tuffo mentre lasciavo

i miei vestiti alla deriva e nelle tasche dei jeans

dev'essere rimasto qualche antico morso incrostato.

Ma ora, che tanto ho lottato

generAzione rivista - A Iv - N�18 pag 10

A te, che hai stuprato

ogni mio valore.

Per poi

gettarmi via

Il sole non è ancora nato, fuori. L’aria è gelida, umida: è l’inizio di Dicembre, precisamente il cinque. È il suo compleanno, ma è abituato a mettere se stesso in secondo piano, quindi si sveglia e basta, senz’altri pensieri. La sveglia del cellulare è appena suonata, accende il telefono: nessun messaggio, nemmeno della sera precedente. Pensa a quando, prestissimo la mattina, arrivava l’sms del buongiorno di Marina, già sul treno tutta intirizzita per il freddo e con il naso rosso e ghiacciato: un breve brivido, ma irreale. Il sottofondo di amaro in bocca che ha imparato a conoscere in questi tre mesi. Vestendosi scorge nello specchio la propria figura, che riflette più anni di quanti non ne abbia in realtà (del resto quella ragazza, in sala studio, non ha “attaccato bottone” credendo che lui fosse più grande?). Ventuno anni, oggi: nulla di diverso, se non qualche consapevolezza in più e sempre meno palle per la testa. Si infila gli scarponi di pelle nera, quelli senza stringhe che fanno un po’ ss. Mette il tascapane a tracolla, di traverso sul giubbino nero. Sembra davvero un po’ fascista, visto così.

Marina

di Gianpiero Mattanza

Camminando verso la fermata dell’autobus sente risuonare ritmicamente i propri passi nell’aria vuota: si muove nell’interstizio temporale che separa quelli che già sono in coda in auto da quelli che stanno facendo colazione in questo momento, con tanto di aroma di caffè nelle narici. Lui appartiene ad una specie eletta, quella che tenta di vivere nel giusto mezzo. Dà un occhio all’orologio del cellulare (non ama portarne uno al polso, crede che rovini la simmetria dell’immagine) e vede che in realtà mancano quindici minuti buoni al passaggio della diciassette: decide di proseguire per il parco ed arrivare in fondo ad esso, dove finisce la stradina in cemento bianco. Alla sua sinistra si apre un grande spazio, non abbastanza illuminato dalla luce fioca dei lampioni ancora accesi. Nell’osservare le panchine di legno umido per la notte inclemente, pensa a quando loro due si parlarono da vicino per la prima volta, scambiandosi poi messaggi silenziosi: sentiva sulle proprie labbra quelle morbide di lei, e tutto era bello e giusto. Pieno era il sole di Ottobre. Quella stessa panchina ora giace immobile, in un prato roso dall’umido e dal freddo, colorato di un verde scuro e torbido, che ricorda quello dei campi di battaglia quando la morte vola silenziosa su di essi. Accanto alla panchina, oltre una montagnola, c’è un piccolo lago artificiale. Non c’è traccia ora dei cigni che vi nuotavano, tracciando traiettorie invisibili nell’acqua poco profonda. Anche il lago è

w w w . g e n e r a z i o n e r i v i s t a . c o m

generAzione rivista - A Iv - N�18 pag 11

mandare via quel triste pensiero, quel mozzicone di un passato che non torna. D’un tratto sente, attutito dalla distanza e dai vetri dell’aula, il suono delle campane che battono le cinque. Il maestoso, ieratico ed immaginario movimento delle onde sonore colpisce il centro del suo essere, provocando una sovrapposizione di immagini antiche e vissute, tutte invernali, visioni di chiese e di persone lì scorte; guizzi acromatici di pietre e marmo ed odore d’incenso acutizzato dal freddo. Osserva il duomo vecchio, millenario testimone di un’epoca che tornerà. La sera in autunno arriva presto: ora è già sera. Luci artificiali, gialle, illuminavano l’antica pietra di questo luogo di culto. Ci sposeremo nel duomo vecchio, Gianpi? È tanto bello. Certo, è una bella idea. Però sai che non sono credente, non è un problema? Ma no… Dai, è tanto bello. Va beh, potrò fare uno sforzo. E risa, baci, stupide parole, prive di senso, che ne assumevano uno assoluto ed eterno, nel freddo dell’inverno incombente. Il duomo vecchio è ora spoglio di qualsiasi luce, come spoglio è chi lo osserva. Nel tiepido tepore di una fede forse ritrovata, spinge con timore la porta d’ingresso, percependo subito l’odore arcaico dei secoli. Scende le scale e ricorda un capodanno passato a Firenze, lontano nel tempo e nell’animo. Ricorda come vagavano avvinghiati come l’edera al tronco, osservando la bellezza del tempo sedimentatosi nell’arte. Lungo l’Arno guardavano le pietre antiche dei monumenti lontani, dei ponti, dei palazzi. All’interno delle chiese, l’odore era lo stesso che ora percepisce qui. Un mezzo per saltare da uno spazio all’altro, da un tempo all’altro, giusto per sentire il dolore della pugnalata che il ricordo infranto regala agli ingenui. L’odore è lo stesso, la

come morto, immobile. Le sue acque sono melmose e d’un freddo siderale, letto perfetto di qualche saggio, letargico animale. Il cielo, sopra il lago e l’erba, è di un blu scuro che dà calma agli eletti: l’aria è abbastanza limpida e si può vedere ancora qualche stella, che tra poco scomparirà nel freddo bianco del giorno quasi invernale. Stringe la mano destra e per un attimo sente ancora quella piccola e docile di tenera donna che lui amava serrare con deciso amore, ogni tanto portandola al volto durante lunghe passeggiate da bambini già adulti. La sua mano ora tocca, nella tasca, qualche spicciolo dimenticato ed un biglietto del treno usato e spiegazzato. Le sopracciglia si aggrottano in uno sguardo severo che scruta il nulla. Il silenzio è totale. Ora è seduto in un banco di legno. Si trova in una grande ed alta stanza, cinta da scansie che arrivano al soffitto affrescato e piene di libri antichi, che creano uno spesso muro di arcana consapevolezza attorno a chi legge. Sta meditando il contenuto di un testo nella luce soffusa della biblioteca, attento a non fare rumore. Ad ogni pagina il pensiero migra dal nero seme e dal prato bianco della pagina inchiostrata a qualcosa di indistinto ed incorporeo, lontano dallo spazio e dal tempo. La superficie della consapevolezza sta ancora leggendo le carte severe, ma le immagini che nascono non hanno nulla a che vedere con esse. Un volto femminile, dai lineamenti mediterranei e con i capelli corvini, sorride, osservandolo con un’espressione che tradisce affetto. Amore. Uno scoppio di risa della ragazza, vivo nella mente del ragazzo, fa involontariamente arcuare la sua bocca: si accorge di sorridere alla carta, alle rigide parole nere. Il ragazzo, coltosi in un attimo di spontaneità, abbassa lentamente la testa, quasi a voler

generAzione rivista - A Iv - N�18 pag 12

spegneva nel sonno con dolci parole incomprensibili. Si muove nel letto, come a rievocare quella sensazione, quello stato di pace prossima alla perfezione. Nulla resta se non il suo freddo, ruvido corpo maschile. E la consapevolezza della metamorfosi che uccide il sogno.

luce ed il periodo dell’anno pure. Ora però la sua mano stringe l’aria gelida, il tepore di Marina non è più. Tutto ha un significato diverso, tagliente. Fa un gesto per chiamare la fermata. La diciassette è semivuota, a quest’ora. Ci sono anziani seduti malamente su luridi sedili, immigrati che berciano al telefono ed anche studenti che tornano da una giornata di fatiche intellettuali. Studentesse. Ne guarda alcune con il timido occhio dell’inesperto. Una o due sembrano non accorgersi di lui. Un’altra, che avrà un paio d’anni più di lui, ricambia lo sguardo. Quando non la osserva, fingendo di guardare altrove, e poi torna a cercare i suoi occhi, nota che lei li distoglie in ritardo dai suoi, arrossendo lievemente. Questo gli regala un lieve brivido di autocompiacimento, ma nulla più. Ricorda le lunghe ore passate con Marina su quella stessa linea e lo stesso malinconico sorriso si disegna sul suo volto. Il sorriso che coinvolge solo le labbra, perché gli occhi sono fermi e freddi. Occhi che ora fissano il lercio pavimento dell’autobus. Nel tepore del letto, sta per addormentarsi: il buio è totale, il silenzio anche. I pensieri, durante la giornata un grovig l io ines tr icab i le , s tanno dipanandosi. Traspare in lui la stanchezza, una spossatezza fisica e spirituale. Nel perdere i sensi, prossimo al sonno, una sensazione, una necessità si fa viva in lui. Ricorda, nel dormiveglia, un passato lontano. Un tempo in cui, quando era fortunato, non era da solo, nel letto e nella vita. Ricorda il profumo di quei capelli corvini, il tenero corpo accarezzato da mani innamorate, la flebile voce di lei che si

generAzione rivista - A Iv - N�18 pag 13

Incastrata in questo vespaio di specchi mi accorgevo immobile

dell’onda nella pozzanghera.

Forse era solo un fiato di vento

che sussurrava alle rughe un nuovo scroscio.

Mi guardavo.

E percepivo la differenza tra le perle ossute

e i possibili girasoli lontani.

Ma ora? Galleggiare sui binari che sfilano concentrici.

Ero il disaccordo tra trecce innocenti

e quel sopracciglio ghiacciato. Non più baco

non già certo maschera.

Panorama opaco, foschia, del giro in tondo: il moto non è più solo rettilineo.

Incastrata

di Iris Karafillidis

generAzione rivista - A Iv - N�18 pag 14

[…] ho capito che sono cresciuto

perché mi sono scoperto a vagare di notte con zero gradi fuori

e 24 dentro in tangenziale, poi nella strada a due

[corsie, a tornare indietro e ripassare:

quasi sentivo caldo nel cono di luce dei lampioni.

Ho vagato per ore da solo in auto

e mi son dato prova di essere kresciuto:

ho scoperto che non ero forte come [credevo

non sono alto, neppure tanto furbo; hanno scoperto che so fotografare

e scrivere poesie molto bene, ma non so fare tutte le cose importanti

non ho nulla di interessante: scendevo in cantina a prendere l’acqua

facevo una doccia, - così ridotta la mia vita -

e di nuovo in auto, fuori zero gradi e dentro 24, di nuovo in tangenziale

in zona industriale a guardare capannoni e a volte spegnevo anche la radio

è che scusa ma volevo solo sentirti

[parlare:

non me l’avevano mai girata in faccia

la medaglia: è tutto nero dietro.

Kambiamento?

di Andrea Checcucci

generAzione rivista - A Iv - N�18 pag 15

“And i’m afraid to say…” «Che dice che dice che dice! Alza!» “E sono profondamente dispiaciuto nel dover dire a tutti i miei affezionati lettori che dopo questo romanzo non scriverò più nulla. Mi ritiro. Sono felice di aver dato al mondo qualcosa da leggere, un momento per riflettere, anche piccolo. Ricordo ancora di quella volta che dissi al mio editore che avrei parlato delle Torri Gemelle, lui mi...” «Spegni.»

Sei settimane dopo Caro JSF, perché hai smesso di scrivere? Cosa ti dice il cervello? Io ho tutte le edizioni dei tuoi romanzi. Sai quanto ci ho messo a recuperare ‘Molto forte, incredibilmente vicino’ in taiwanese? E tu smetti. Non puoi. Tu non sei solo uno scrittore, sei il mio Maestro, il mio mentore, il mio yin, io sono come te, capisci? Io scrivo come te, penso come i tuoi personaggi, e faccio tutte quelle foto che mia sorella non capisce (è stupida, tutto qui). Ti prego scrivi ancora. TIPREGOTIPREGOTIPREGOTIPREGO.

Sara Sta chiusa nella sua camera per ore, tutto il giorno. Dice che scrive e fa fotografie “pregnanti di senso”. Ma nessuno può leggere i suoi quaderni né vedere le sue diapositive. Mi ha obbligata a rintracciare

Se fossi Foer

di Clara Ramazzotti

il numero di telefono dell’editore americano, poi ha cercato di chiamare negli States e quando, 75 euro dopo, le hanno risposto ha pianto. Si è accasciata al suolo in lacrime ululando che il mondo stava andando a puttane. «Non ho mai detto puttane, tu non hai sentito la parola puttane okkei?» Mi chiedo perché una persona di 19 anni dovrebbe essere così succube di un libro. Anzi, di una serie infinita di libri. Ieri ha scritto a Foer, dice che è suo dovere fargli notare che è sbagliato smettere di fare libri. Che uno non può non scrivere più. Magari puoi fare una pausa. Magari un librucolo scemo da ombrellone ma non puoi di punto in bianco smettere. Non si va in pensione se sei un autore. «Lui, Jonathan, dice che non serve cambiare, che si può rimanere nel proprio angolo di mondo e giocare al “fare finta che”. Facciamo finta che…» «Fingiamo che tu abbia amici in carne e ossa». «Taci.» Facciamo finta che questo Foer non abbia mai scritto nulla. Mia sorella starebbe meglio. Sarebbe sicuramente meno pazza, avrebbe anche un ragazzo, e la pianterebbe di fare foto alle maniglie. «Ma non capite? Io SONO così! Non è per Foer. Io ADORO fotografare maniglie». «E ADORI anche ricoprire la tua camera di immagini delle Twin Towers? Non eri neanche nata quando sono cadute! Mamma andava ancora al liceo…» Un pomeriggio di qualche mese fa papà

generAzione rivista - A Iv - N�18 pag 16

tutto. Sarà vero? Sarà che non accetto che le cose a volte smettono, a volte cambiano, si trasformano? Ma perché? Che senso ha? Io sono ancora Sara. E se oggi non sono più Sara, chi sono? Come su tuo consiglio ho inventato due cose: 1) un telecomando che non cambia mai canale e 2) un vestito che non scolorisce mai anche se lo lavi. Jonathan non voglio cambiare. Non ha senso se una cosa va bene così com’è.

Sara Lo scrittore non le risponde mai. La cosa peggiore è proprio il suo continuo insistere aspettando che le arrivi per posta qualche biglietto, una lettera o un libro gratis. Audaci i sogni di mia sorella. Il giorno in cui Foer “ha mollato” Sara si è chiusa in camera e ha battuto a macchina per 4 ore e mezza. Lo so con esattezza perché era impossibile fare qualunque cosa con lei che schiacciava i tasti su quel macchinetto rumoroso. «SARA!TI PREGO!!!» «Jonathan deve sapere che odio i cambiamenti. DEVE sapere che se lui smette io non starò mai più bene, MAI!» e riprese a ticchettare. Ieri le ho buttato dalla finestra la macchina da scrivere. So che non avrei dovuto, so che quella era una macchina introvabile e che ora dovrà usare il Courier New sul pc per fingere che sia uguale, ma stavo impazzendo. E ne basta una di sorella matta. «JSF non risponde. Forse le mie lettere fanno cagare. Mmm… Non ho mai detto cagare, okkei?» «Non sono brutte, solo che ho dei dubbi sul fatto che arrivino. Insomma, se tutti potessero scrivergli non credi che sarebbe sommerso? Da quando ha ricevuto il Nobel è cercato da tutti!»

ha deciso di ridipingere casa ma Sara è diventata furibonda. «NO! La mia stanza rimane così. Non puoi cambiarla come vuoi tu, non potete cambiare i miei mobili, le mie immagini, la mia risma di fogli battuti a macchina, nulla! NULLA! Non potete cambiare ME!» Perché pensa sempre che qualcuno la voglia riprogrammare? Cioè, io vorrei ma so che non puoi diventare un’altra persona se non lo vuoi davvero. Io credo che solo Foer potrebbe farlo. Da quando ha lasciato la scrittura Sara non è più…Sara. Non mi manda neppure lettere incomprensibili mentre studio, lasciandole silenziosamente sotto la mia porta.

Caro JSF, mi sento diversa. Da quando hai smesso di scrivere i tuoi romanzi io penso di avere un vuoto dentro. Sai, quel bruciore nel petto che mi fa capire che non si può tornare indietro. Quando è morto Rubicondo, il mio pesce rosso, ho provato la stessa cosa. Avevo 8 anni e la mamma ripeteva che non si poteva fare nulla, “se un coso muore muore”. Al tempo avevo fotografato Rubicondo e me l’ero appeso sopra il letto. Invece oggi non so cosa fare. Di solito erano i tuoi libri a migliorare

w w w . g e n e r a z i o n e r i v i s t a . c o m

generAzione rivista - A Iv - N�18 pag 17

ricordati di passare dalla mia casa museo. Potremo berci un caffè e parlare dei miei romanzi. Sarà un piacere. Nel frattempo, Have a nice day, and never change yourself.

Jonathan Safran Foer

Per capire questo racconto, forse, è necessario aver letto almeno un romanzo di

Jonathan Safran Foer.

«Ma io non sono tutti. E poi anche lui scriveva a Stephen Hawking, e ha ricevuto una risposta. E lui è pure handicappato. Non so, si dice handicappato?» «Sì, si dice. E comunque la lettera a Stephen Hawking era finta». «Piantala.» «Piantala tu! C’è scritto: “…anche se queste lettere sembrano vere sono tutte frutto dell’invenzione” eccetera eccetera». «Che stupida sei. Lo ha scritto solo per difendere la privacy di Stephen». «Sara… Quando cambierai? Queste cose erano divertenti, un paio d’anni fa. Ma ora basta. Fuori succede di tutto. Cambiano i presidenti, le persone muoiono, la Cina è leader mondiale e tu hai paura a ridipingere le pareti della stanza!» «Non voglio altri colori sul mio muro. Sorella, se uno cambia poi non è più se stesso. Se uno dalla mattina alla sera diventa un altro poi si perde, poi la gente non capisce più chi è. Invece, pensaci… tu ogni mattina ti svegli e sai che io sono Sara, che scriverò una lettera a Jonathan, che fotograferò le maniglie di casa e non ti senti bene?» «Veramente no.» «Dovresti. Non cambiare è segno di stabilità. Io sono stabile.»

Otto anni dopo Dear Sara… Cara Sara, grazie per avermi scritto. Purtroppo sono molto impegnato e richiesto da quando ho preso il Nobel per la Letteratura nel lontano 2025. Quindi sono costretto, a malincuore, a inviarti questa lettera proforma. Spero, un giorno, di poterti rispondere come meriti. Semmai dovessi capitare a New York City

generAzione rivista - A Iv - N�18 pag 18

Sono vecchie foto quelle che stai [guardando.

Stampe Kodak di venticinque anni fa. Gli angoli sono rovinati e un po’ ingialliti

[dal tempo. Le hai appoggiate tutte sopra il

[tavolinetto. Avevi gli occhi grandi e prendevi per

[buono tutto quello che veniva. Perché ti fidavi. A quell’età non si può scegliere. Ci si può solo fidare. Accendi una sigaretta mentre cerchi di

[ripensarci. Premi con il pollice la tempia mentre con

[le dita ti strofini la fronte cercando di ricordare quei tuoi occhi così

[grandi innocenti e senza passato. I tuoi occhi grandi che guardano dritto l’obiettivo della macchina

[fotografica. La tua espressione. L’espressione di un bambino che si domanda se quello che sta facendo sia giusto o sbagliato. Ricordi di occhi vivi e qualche dente che spunta tra quei tuoi sorrisi così veri. Eri una scatola vuota, delle pagine bianche da riempire. Ma le cose cambiano. Ora bevi un goccio di vino, mentre batti con l’indice per far cadere la cenere della tua sigaretta.

Vecchie foto

di Andrea Boldrin

Ti stai rivedendo volentieri, come quando rileggi un vecchio libro di cui conosci già la storia. Pensi che sono passati almeno vent’anni, che non sei più una scatola vuota o delle pagine bianche da riempire come

[viene. I tuoi occhi riflessi nel vetro dello specchio ne sono la prova. Sorridi ancora una volta, prima di aspirare il fumo della tua

[sigaretta.

Speciale Dicembre

Cambiare (in immagini)

Rapsodia fotografica by Andrea Checcucci

# 1

# 2

# 3

# 4

generA zione ha molto da dire

da chiedere

da imparare

da comunicare

Leggeteci e scaricateci su

www.generazionerivista.com

/e su Facebook genrivista

e Twitter @ genrivista

mail [email protected]

generAzione rivista

Bimestrale di autoproduzione anno IV _ numero XVIII _ novembre / dicembre 2011

Comitato di Redazione Iuri Moscardi

& Clara Ramazzotti

Le immagini nella rivista

appartengono a:

copertina e portfolio speciale #1 #2 #3 #4, pag.12 e pag. 14 di Andrea Checcucci; pag. 16, 17, 18 di

Clara Ramazzotti

Il contenuto di questa Rivista è distribuito sotto licenza “Creative Commons” E’ autorizzata la diffusione gratuita della rivista,

a patto di citarne gli autori.

E’ vietato l’utilizzo a fini commerciali della presente rivista. Tutto il materiale copiato dovrà essere distribuito

con la medesima licenza “Creative Commons” Per maggiori specifiche:

http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/2.5/it/

Flickr

http://www.flickr.com/photos/

generazionerivista

Youtube

http://www.youtube.com/

generAzionerivista