G. Del Vecchio - S. Pitrelli: L'occulto in Italia

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www.scribd.com/Religione_in_Ita Gianni Del Vecchio Stefano Pitrelli OCCULTO ITALIA Nel nostro Paese decine di sette operano nell’ombra intrecciandosi con le istituzioni, accumulando denaro, rovinando vite. Scientology, Damanhur, Ontopsicologia, Soka Gakkai, Umanisti... Con le testimonianze dei fuoriusciti, la prima mappa dei culti pericolosi. 2011 BUR

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Gianni Del Vecchio Stefano Pitrelli

OCCULTO ITALIA

Nel nostro Paese decine di sette operano nell’ombra intrecciandosi

con le istituzioni, accumulando denaro, rovinando vite. Scientology, Damanhur,

Ontopsicologia, Soka Gakkai, Umanisti... Con le testimonianze dei fuoriusciti, la prima mappa dei culti pericolosi.

2011 BUR

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Indice

Introduzione 6 Prefazione di Lucia Annunziata 11 Parte prima DAMANHUR

14

Parte seconda SCIENTOLOGY

126

Parte terza ONTOPSICOLOGIA

192

Parte quarta SOKA GAKKAI

229

Parte quinta IL MOVIMENTO UMANISTA

292

Parte sesta GURU, ANGELI, ALIENI

322

Parte settima PLAGIO

338

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Contro ogni luogo comune, alimentato dai media che si occupano solo di sette sataniche perché più appassionanti, il libro ci svela che queste organizzazioni sono tante e sono presenti tra noi. Lucia Annunziata Le sette non sono solo piccole comunità di persone deboli o disperate plagiate da un qualche “santone”, come la stampa tende a presentarle. La realtà è ben diversa, e più pericolosa: non solo questi gruppi rovinano vite e famiglie, ma trovano agganci fra parlamentari, imprenditori, uomini di spettacolo e professori. Facendo della segretezza la propria cifra, organizzazioni di questo tipo sono riuscite a inserirsi in grandi istituzioni pubbliche e private, fino a raggiungere i vertici dello Stato. Docenti formati da Scientology insegnano ai nostri ragazzi con il benestare del governo; l’Ontopsicologia ha goduto dell’amicizia di Marcello Dell’Utri e per anni è stata indirettamente in affari con Fininvest; Damanhur controlla di fatto alcuni comuni piemontesi e allunga i propri tentacoli in Parlamento; il Movimento Umanista si è fatto partito e diffonde le proprie idee dalle fila dell’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro; la Soka Gakkai copre il dispotismo verso gli adepti con il volto buono del buddismo radical chic, e gode di testimonial eccellenti. Ricco di documenti inediti e testimonianze dirette, questo libro presenta la prima inchiesta sulle sette italiane, sabotandone l’arma più potente: l’omertà che le circonda. GIANNI DEL VECCHIO è giornalista. Scrive per “Europa” e “L’espresso”. Collabora alla trasmissione “In mezz’ora” di Raitre. STEFANO PITRELLI è giornalista. Fa inchieste per “L’espresso” e scrive per “Europa”.

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Stefano Pitrelli Gianni Del Vecchio

OCCULTO ITALIA

Prefazione di Lucia Annunziata

Proprietà letteraria riservata

© 2011 RCS Libri S.p.A., Milano

ISBN 978-88-17-04827-9

Seconda edizione digitale 2011 da seconda edizione BUR Futuropassato aprile 2011

Il sito degli autori è

www.pitrelli-delvecchio.com

In copertina: progetto grafico di Mucca Design

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Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.

È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

Mi disse della sua strana fondazione,

ideata a Woodstock durante la manifestazione;

ma gli toccò celar la sua reputazione.

Da povero, la salvezza bussava porta a porta.

Ma adesso che ogni settimana va di moda un santone,

c’è un’«Amore, Pace & Verità S.p.a.» per ogni credulone.

Mi assunse come karma-meccanico, carismatico per il popolo.

Con le mani pronte a ricevere, a ricevere l’obolo.

Genesis, The Battle Of Epping Forest

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Introduzione

L’illusione della setta che non ti tocca Negli ultimi trent’anni [...] ho accumulato una delle più vaste biblioteche al mondo sui fenomeni psichici, sullo Spiritismo, la magia, la stregoneria, la

demonologia, gli spiriti maligni, etc. [...] ma nulla che io abbia mai letto sui cosiddetti fenomeni spiritici mi ha mai dato l’impressione che fossero genuini.

[...] Fino ad ora tutto ciò su cui ho investigato era il risultato di intelletti ingannati, o troppo attivamente e intensamente pronti a credere.

Harry Houdini Quando sul giornale leggi le storie di chi rimane invischiato in una setta, è facile pensare che sia il destino degli sciocchi, e che la cosa in fondo non ti riguardi. Il pregiudizio è duplice, e doppiamente sbagliato. Le sette non sono necessariamente piccole comunità di persone plagiate da santoni «artigianali», o covi di satanisti, pericolosi benché periferici alla vita di tutti i giorni. Le sette possono crescere ed evolversi fino a diventare veri e propri centri di potere occulto. Sofisticate come piccole religioni e altamente efficienti, in grado di convertire l’ultimo dei diseredati quanto di sedurre il politico più navigato. Una volta che i loro lobbisti entrano nel tuo municipio, o addirittura in Parlamento, la setta ormai ce l’hai già in casa senza che tu te ne renda conto. Parliamo delle lobby settarie: influenti, mascherate e tentacolari, se non fondano un proprio partito, ne trovano sempre uno in cui infiltrarsi. È una realtà oscura, ignorata, o peggio ancora corteggiata da media e istituzioni. Questa non è l’inquisizione spagnola. I culti che vi racconteremo si fondano su imperatori alieni e divinità egizie reincarnate, macchinari miracolosi che fanno cantare le piante o ti misurano l’anima, riti alchemici, formule magiche e presunte teorie scientifiche. Abbiamo voluto saperne di più, capire cosa le unisce al di là delle diversità delle loro dottrine: storie di gente dalla vita deragliata, che a fatica se ne è trascinata fuori. Da sola, senza nessun aiuto da parte delle istituzioni. Che non la tutelano per il semplice fatto che ai loro occhi tutto ciò non esiste. Perché in Italia, dai tempi della sua cancellazione

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dal codice penale, non esiste il reato di plagio o di assoggettamento, a seconda di come lo si voglia definire. In sua assenza esiste, di fatto, la «libertà di manipolazione mentale». Questa non è neanche una crociata albigese. Crediamo nella libertà di religione. Ma crediamo anche, e fermamente, nella razionalità come prima virtù dell’uomo. Una virtù cui le sette impongono all’adepto di abdicare, seguendo gli insegnamenti del guru di turno e separandolo dalla sua vecchia vita.1 Abbiamo notato – anche per esperienza personale – che non appena tocchi l’argomento «setta», si grida subito alla caccia alle streghe. Si sfoderano paroloni come «persecuzione», «complotto» e «discriminazione», cioè l’armamentario retorico più comunemente adoperato dai loro lobbisti per ostracizzare chiunque si avventuri a ostacolare o a gettare luce sul sistema-setta. Una storia su tutte: quando nel 1997 la Germania attaccò a muso duro il sistema Scientology, in tutta risposta l’avvocato del noto adepto Tom Cruise progettò una paginata di annuncio (pubblicata a pagamento sull’«International Herald Tribune») con la quale denunciare la «vergognosa persecuzione organizzata» da parte dell’allora governo Kohl nei confronti della chiesa hubbardiana. Azzardando un parallelo alquanto ardito: «Negli anni Trenta erano gli ebrei. Oggi sono gli scientologi».2 Lo riferisce Frank Rich sul «New York Times»,3 che riporta anche i commenti scandalizzati del leader della comunità ebrea tedesca Ignatz Bubis («È un insulto alla memoria delle vittime dell’Olocausto») e di Abraham Foxman, direttore nazionale dell’Anti-Defamation League («Anche dopo Schindler’s List, rimangono del tutto ignoranti»). Curiosamente, mentre in America fanno riferimento alla storia europea, in Italia si cita quella americana. È il caso del Conacreis, un’associazione guidata da adepti della setta piemontese Damanhur, che dai suoi uffici in Valchiusella agita lo spauracchio di un «maccartismo spirituale»: «Oggi, in Italia, si registrano segnali di discriminazione e sospetto nei confronti delle realtà che si occupano di ricerca etica, interiore e spirituale, che per certi aspetti richiamano l’idea della “caccia alle streghe” dell’America anni Quaranta e Cinquanta. [...] Si apprende infatti [...] che sarebbe stata costituita dal ministero degli Interni una Squadra anti sette (Sas), incaricata di investigare anche su associazioni, centri o comunità che con l’idea di sette non hanno nulla a che fare, ma che anzi vivono apertamente le loro scelte di vita. A questo, si unisca l’uso sensazionalistico dei mezzi di informazione, volti a portare discredito ora all’una, ora all’altra organizzazione che si occupa di ricerca etica, interiore e spirituale».4

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Evidentemente qualsiasi opera d’informazione, qualsiasi strumento di contenimento o prevenzione nei riguardi di questo strapotere occulto viene stigmatizzato a priori dai diretti interessati. Una reazione abbastanza prevedibile, che sarebbe perciò inutile riferire, se non ci fossero fior fior di deputati, senatori e amministratori locali pronti a dare loro retta. A prestar soccorso quando le sette sono in ambasce, e a spalleggiarle nel perseguimento dei loro interessi. Avvicinati da associazioni di facciata in nome di una buona causa qualsiasi, i nostri politici si ritrovano a fare il loro gioco, spesso inconsapevolmente. Sulla stessa barca troviamo imprenditori, accademici, magistrati, giornalisti e uomini di spettacolo. Tutti testimonial, a volte involontari a volte conniventi, di quest’Occulto Italia. Alla fine del libro ne troverete un lungo elenco, con il quale non s’intende condannare nessuno, quanto piuttosto fornire un barometro della crescente pressione esercitata dalle lobby settarie sulla nostra società. Troverete anche una mappa dell’Italia delle sette, in grado di offrire a colpo d’occhio un’idea precisa di quanto estesa geograficamente sia la loro influenza sul nostro Paese. Altro che caccia alle streghe. La nostra inchiesta è fatta piuttosto nello spirito con cui Harry Houdini indagava puntigliosamente su maghi e spiritisti, per svelarne gli arcani. Allo stesso modo in questo libro cercheremo di mostrare che cosa si nasconda dietro alle tante promesse di felicità, d’illuminazione e di «guarigione». E l’unico modo per capire che cosa significhi veramente la parola «plagio» è incontrare e guardare negli occhi chi la manipolazione mentale l’ha effettivamente subita. Per mesi siamo andati alla ricerca di fuoriusciti e familiari di adepti che potessero raccontarci – per esperienza diretta, dove possibile – il dietro le quinte delle cinque lobby settarie più attive nel nostro paese: Damanhur, Scientology, Ontopsicologia, Soka Gakkai e Movimento umanista. Per selezionare questa rosa ci siamo rivolti a diversi psicologi ed esperti di sette, chiedendo loro quali fossero le organizzazioni maggiormente in grado di infiltrarsi nei gangli del potere italiano. Poi le abbiamo osservate muoversi nell’ombra, accumulando ricchezze e rovinando vite. E abbiamo scoperto come nelle nostre scuole si aggirino docenti formati da Scientology, che insegnano ai ragazzi con il benestare del governo italiano. Come l’Ontopsicologia abbia goduto della protezione di Marcello Dell’Utri e sia stata per anni in affari con la Fininvest. Come Damanhur controlli di fatto alcuni comuni piemontesi, ma allunghi i propri tentacoli fino in Parlamento. Come il Movimento umanista sia una setta che si fa partito, e oggi diffonda le proprie idee dalle fila dell’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. Come la Soka Gakkai celi il dispotismo verso gli adepti dietro alla retorica umanitaria. E molto altro ancora.

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Abbiamo ritenuto inutile chiedere ai loro rispettivi uffici stampa un commento sulla nostra inchiesta. D’altra parte i loro organi di propaganda ufficiali – alle sette non mancano i megafoni, siano essi quotidiani cartacei, blog o siti web – si guardano bene, ovviamente, dal riferire testimonianze di scontentezza o sofferenza, dubbi o crisi di fede, obiezioni o critiche, presentando sempre un’omogenea e imperturbabile facciata felice. Quando invece parlano i fuoriusciti, quelli non li ascolta nessuno: le loro storie viste dall’esterno – senza conoscere il sistema setta – sembrano troppo bizzarre, e si preferisce ignorarle, anche perché mettono a disagio, come parole senza senso. In realtà, una volta contestualizzate, le loro parole un senso ce l’hanno, eccome. Perché a differenza di quanto comunemente si tende a pensare, nelle sette non ci finiscono solo i creduloni. Ma persone intelligenti, la cui unica «colpa» è stata l’aver incontrato una promessa di felicità, d’illuminazione, di «guarigione» – o semplicemente di fine della solitudine – in un momento delicato o difficile della loro vita. E l’averci creduto. L’aver ceduto, insomma, alla seducente tentazione di liberarsi dal fardello del libero pensiero. Ne abbiamo incontrati tanti, di fuoriusciti, li abbiamo frequentati. Ci abbiamo parlato d’altro, siamo usciti insieme. Li abbiamo conosciuti anche al di là di quella nuvola nera che grava sul loro passato di adepti, e spesso ne abbiamo riso con loro. E ogni volta che li salutavamo la domanda che ci siamo posti era: «Com’è possibile che persone così ci siano cascate?». Ragion per cui in questo libro abbiamo cercato di dar voce alla minoranza silenziosa, quella degli «apostati», dei «soppressivi», degli «eretici», dei «traditori», del «nemico»: tutti marchi d’infamia coi quali le sette bollano e condannano l’adepto che osa riappropriarsi del proprio spirito critico. O chi gli dà la parola. L’abbiamo fatto perché, come disse Albert Camus, «chi scrive è portavoce di coloro che non sanno o non possono parlare». G.D.V. e S.P. 1 Nonché dalla sua famiglia e dai suoi beni materiali, per donarsi, e donare, alla nuova famiglia del «maestro».

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2 L’annuncio era firmato da una folta schiera di trentaquattro colleghi hollywoodiani non scientologi di Cruise (alcuni ebrei, altri no), come Dustin Hoffman, Oliver Stone e Goldie Hawn. Almeno metà dei quali «ha avuto legami professionali passati o presenti con Tom Cruise e John Travolta, le più celebri reclute di Scientology. Altri sembrano esser saliti a bordo tanto per (quale altro documento è mai stato firmato contemporaneamente da Tina Sinatra e Gore Vidal?), ma ad altri ancora, come osserva un produttore, “piacerebbe fare un film con Tom Cruise e John Travolta il prima possibile”» (Frank Rich, Show Me the Money, «The New York Times», 25 gennaio 1997). 3 Ibidem. 4 Maccartismo all’italiana?, concreis.it.

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Prefazione

di Lucia Annunziata «La struttura verticistica e autoritaria di una setta è il sogno inconfessato di ogni leader di partito» scrivono Gianni Del Vecchio e Stefano Pitrelli, e come dargli torto. Una tentazione rilevante della politica, specie in epoca quale quella in cui viviamo, caratterizzata da una fortissima crisi di rappresentanza. Innegabilmente, la politica si è già mossa nel senso di sostituire altre forme di aggregazione a quelle delle riunioni di sezioni, comitati e sottoscala. Del resto, come negare il fascino del potere, l’attrazione del grande leader, la promessa di soluzioni immediate e radicali alla fatica della vita rispetto alle promesse di un lontano avvenire cui bisogna tutti i giorni applicarsi? Tra il modello ad alto contenuto psicologico-erotico del richiamo di una organizzazione verticale che ruota intorno a una figura carismatica, e la spersonalizzata aggregazione burocratica dei partiti tradizionali, la partita non si gioca neppure. In queste righe avrete sicuramente letto un richiamo alla leadership esercitata da anni su buona parte di questo Paese dall’attuale premier Silvio Berlusconi. Ma questo libro non parla di lui, e nemmeno di altri partiti che pure vengono in mente: non è passato tanto tempo, del resto, da quando il Partito comunista italiano veniva comunemente definito, nel bene e nel male, proprio una setta. Questa inchiesta racconta e discute delle sette vere e proprie, e della loro presenza in Italia. La politica italiana vi appare, ma come oggetto del desiderio, strumento di conquista: le sette infatti, secondo gli autori, hanno in corso una lenta ma sicura scalata alla politica. Proprio per il loro essere, naturalmente, per definizione, uno strumento di «convinzione», di «organizzazione» e di «ideologizzazione» dei gruppi. Dobbiamo preoccuparcene? La prima reazione è un tondo «no». Dopotutto di che si tratta, se non delle solite pietose vicende di emarginati, soli e influenzabili? Certo magari questi poveretti hanno anche nomi famosi – il Cruise che non trova pace o l’insicuro Travolta che ancora oggi non sembra essere convinto di saper far altro che ballare… In realtà è esattamente questo modo di pensare che Occulto Italia intende picconare. Contro ogni luogo comune, alimentato dai media che si occupano solo di sette sataniche perché più appassionanti, il libro ci svela che queste organizzazioni sono tante e sono

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presenti tra noi. Hanno molti volti (o meglio molte maschere) e tante cause diverse, incluse «buone cause». Scrivono gli autori: «Ci sono almeno due miti che abbiamo voluto sfatare con questo libro. Il primo è quello per cui le sette sarebbero un fenomeno periferico, che coinvolge soltanto una piccola parte della società. Invece le trovi in Municipio, in Regione o in Parlamento, le trovi nell’azienda o nel negozio sotto casa, le trovi a scuola o all’università – con lezioni e corsi che anche tuo figlio potrebbe seguire senza che tu te ne renda neanche conto – e perfino quando vai al museo o a una mostra. Le trovi al tuo fianco quando ti batti per la pace, per l’ambiente, per i diritti umani e le libertà individuali, per la tutela dei bambini, o contro la droga e il razzismo. Le trovi lodate e strombazzate sulle pagine dei giornali, pubblicizzate sul piccolo schermo come sugli spalti di uno stadio. Le trovi che si aggirano per i corridoi degli organi di governo internazionali, al Palazzo di Vetro dell’Onu o all’Emiciclo del Parlamento europeo a Bruxelles. Le ritrovi che ronzano intorno al tuo attore, musicista, cantante o sportivo preferito. Insomma, le trovi ovunque. Il secondo mito è quello per cui nella ragnatela tessuta dalle sette ci finirebbero solo i pazzerelli, i poveracci, i diseredati, i senz’arte né parte, gli ingenuotti, i creduloni e i superstiziosi. Non è vero. Dentro ci restano impigliati avvocati, medici, giornalisti, imprenditori, manager, personalità del mondo della cultura, politici – anche i più avveduti – e perfino psicologi e militari. Nel corso della nostra inchiesta ne abbiamo conosciuti parecchi, di fuoriusciti che rientrano in queste categorie. Li abbiamo incontrati, ci siamo andati a cena, ci siamo fatti una birra al pub, abbiamo parlato della loro vita passata, ma anche di quella presente, abbiamo conosciuto le loro idee, abbiamo riso e scherzato insieme, li abbiamo guardati negli occhi. Erano per la maggior parte persone intelligenti e spiritose, colte e argute. Dimenticate dalle istituzioni (perché i loro racconti, a chi non sa niente di sette, paiono fastidiosamente fuori dal mondo). Ma oggi di nuovo in piedi, nel mondo.» Il movimento che il libro descrive ha un chiaro punto di arrivo: quello che Del Vecchio e Pitrelli chiamano «un Santo Graal pieno di benedizioni», che sarebbe poi l’intesa con lo stato italiano. Un accordo che vale non poco in termini di denaro e potere. Ma su tutto questo, vi rimando alla lettura. Prima di chiudere voglio solo segnalarvi un altro interessante effetto collaterale di questo libro: ricordarci che l’Italia è forse l’unico Paese dove non c’è più il reato di plagio. È l’effetto a onda lunga di un caso che ha avuto qualche decennio fa uno straordinario impatto sulla opinione pubblica. Parliamo del 1964 e di Aldo Braibanti, intellettuale di sinistra, laureato in filosofia teoretica, con un passato di carcere nel Ventennio per la sua attività

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antifascista. Braibanti nel 1964 inizia una relazione sentimentale con Piercarlo Toscani e Giovanni Sanfratello. Nell’Italia divisa da una nuova linea Maginot dell’etica privata e pubblica, il padre di Giovanni porta il figlio in manicomio e denuncia Braibanti per plagio. Il caso diventa occasione per fare il processo a politica e morale della nuova sinistra. A favore di Braibanti si mobilita infatti il meglio degli intellettuali dell’epoca, Pier Paolo Pasolini, Umberto Eco, Alberto Moravia, Elsa Morante, Mario Gozzano. Braibanti perde il processo, e divenne il primo ma anche l’ultimo condannato per plagio in Italia. Da allora si è stabilita nella opinione pubblica italiana una totale sovrapposizione fra libertà di pensiero e rifiuto del concetto di plagio. È giusto che sia così? O non serve invece, di fronte a nuovi pericoli, riaprire una discussione (e un abbozzo c’è in Parlamento) sulla necessità di un assetto legislativo per questo reato? Gli autori aprono, coraggiosamente, anche questo tavolo, calandovi peraltro una carta a sorpresa. Ricordano infatti che uno dei politici italiani che più ha mostrato sensibilità nel tempo per questo tipo di pericolo sociale, costituito dalla manipolazione mentale e psicologica dei deboli, specie se giovani, è oggi seduto al massimo livello di responsabilità del Paese. Si chiama Giorgio Napolitano ed è il Presidente della Repubblica Italiana.

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PARTE PRIMA

Damanhur

Vede, dottor Stadler, le persone non vogliono pensare. E più finiscono nei guai, meno vogliono pensare.

Ma per una specie d’istinto sentono che dovrebbero, e ciò li fa sentire in colpa. Così benediranno e seguiranno chiunque offra loro una giustificazione per non pensare.

Chiunque trasformi in virtù – una virtù altamente intellettuale – ciò che sanno essere il loro peccato,

la loro debolezza e la loro colpa. [...] Quella è la strada per la popolarità.

Ayn Rand, La rivolta di Atlante

1. Damanhur® L’11 dicembre 2009 due milioni e diciassettemila spettatori sintonizzano i propri teleschermi su Italia 1 per seguire una puntata di Mistero, il programma allora condotto dal cantante-presentatore Enrico Ruggeri.1 Nella feroce guerra dell’audience con il Voyager di Roberto Giacobbo, la trasmissione di Rai 2 alla quale si voleva scippare il pubblico, la redazione di Ruggeri ovviamente non si fa mancare nulla, fra alieni, fantasmi e bestie leggendarie di ogni sorta. Un repertorio da far gola ai lettori di Martin Mystère e Dylan Dog. La sera in questione in sommario c’è un servizio: «Il mistero del regno sotterraneo di

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Damanhur». E con un titolo studiato per somigliare a quello di un film di Indiana Jones, l’attenzione dello spettatore è assicurata. «Il suo nome viene da lontano, dall’antico Egitto. Come il nome della città a cui si sono ispirati, Damanhur» recita il trailer. «Per alcuni sono una comunità spirituale, per altri una setta.» A ben vedere l’intento indagatore della trasmissione resterà quel che è, una buona intenzione. Ciò che ti trovi a seguire dal divano di casa è piuttosto un video turistico, una lunga e ben concepita – per quanto involontaria – réclame in prime time per Damanhur, setta italiana con aspirazioni internazionali. A telecamere spente, però, i mille (presunti)2 «cittadini damanhuriani» li incontri prevalentemente fra le strade della Valchiusella e dell’Alto Canavese, cinquanta chilometri a nord di Torino, dove dal 1975 hanno iniziato a costruire la propria rete di villaggi. Sono una ventina in tutto, disseminati fra i vari paesini3 della valle ai piedi delle Alpi,4 partendo da Vidracco (dove dal 1999 sulla poltrona del sindaco siede sempre uno di loro), e Baldissero Canavese. Cioè i due comuni che trovano la loro principale «attrazione» negli (ufficiali) 8500 metri cubi sotterranei dei «Templi dell’Umanità».5 Che aspetto ha questo tempio sotto terra? I numerosi video che si trovano sul sito pubblicitario tempio.it permettono di farsene un’idea piuttosto chiara,6 anche senza dovervi metter piede di persona. In pratica è una specie di piccola mecca del business New Age. Fra nicchie, vetrate e navate ce n’è per ogni gusto: geroglifici in stile egizio, raffigurazioni alla tibetana, citazioni dalla mitologia celtica e da quella greca. Tutto mescolato senza soluzione di continuità (e senza lasciare neanche un metro di parete libera) in un dedalo di corridoi ricoperti da disegni e simboli ispirati alle culture più disparate. Tornando in tv, Daniele Bossari, l’inviato, introduce così il telespettatore nel labirinto. A un certo punto si ferma, rivolgendosi alla raffigurazione egizia di una donna, poggia le mani sulle sue e spinge il mattone. Che cede, e inizia a rientrare nel muro. Si apre così uno dei numerosi passaggi segreti che insieme a ponti levatoi, ascensori e scale retrattili sono annidati, come in un film horror anni Cinquanta, nelle centinaia di metri di cunicoli che collegano fra loro questi templi. Cunicoli lungo i quali, a quanto pare, è facile perdersi. Il complesso sotterraneo, infatti, ha proporzioni tali da averlo fatto entrare nel Guinness dei primati.7 Il vero numero delle sale del tempio è ignoto, anche perché è costantemente in espansione,8 grazie al lavoro ininterrotto dei fedeli. La propaganda ufficiale ne conta sette ma, secondo quanto riportato dal «Daily Mail» nel 2007 sarebbero almeno nove.9 Un fuoriuscito ci rivela che a oggi sarebbero state realizzate cinque o più altre sale segrete.

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Ciascuna di queste ha un proprio significato, una specifica funzione rituale, e persino un profumo diverso.10 A partire dal minuscolo Tempio azzurro, una stanzetta rotonda di tre metri di diametro. È il nucleo originario, costruito «solo con martelli e scalpelli» e decorato da un mosaico che raffigura una carta dei tarocchi, la Stella. Poi la Sala degli specchi, «dedicata alla luce, all’aria, al cielo, al sole e alla spiritualità»,11 dove la luce (al neon) passa attraverso un’enorme cupola in vetro Tiffany. Qui si celebrano i matrimoni di rito damanhuriano. La Sala dell’acqua, «per entrare in contatto con la propria parte femminile», decorata con quattro serpenti realizzati in foglia d’oro. Qui si va per cantare. La Sala della terra, a trenta metri di profondità, composta da due stanze circolari che dovrebbero simboleggiare l’infinito, per celebrare «il nostro pianeta, la natura, e il principio maschile, attivo e fecondante» (è qui che si va «per la danza e il contatto con il corpo»). Ancora, la Sala dei metalli, che ha «la funzione di collegamento tra la dimensione della vita e l’Oltre»: qui si evocano defunti. Quella delle sfere, il cuore del tempio, è circondata da globi di vetro riempiti di acqua colorata che servono a «ricerche sperimentali di contatto con intelligenze non terrestri» (cioè gli alieni). Infine il cosiddetto Labirinto, un vero e proprio cimitero punteggiato da trentacinque finestre dietro alle quali si conservano le urne cinerarie dei damanhuriani defunti. Le finestre rappresentano altrettante divinità provenienti da «tutti i popoli e tutti i tempi», dal Dio degli ebrei a Buddha, da Gesù Cristo a Bastet, la dea-gatto egizia. Tutti insieme appassionatamente, riuniti sotto la navata centrale, che racconta «il percorso della civiltà dopo la mitica distruzione di Atlantide». Alieni e atlantidei, come vedremo, per gli adepti sono presenze familiari. Il momento culmine del servizio di Mistero arriva però quando Bossari viene introdotto a uno strano apparecchio di plastica verde a forma di foglia, che in teoria servirebbe a «comunicare» con le piante. Le loro risposte, passando attraverso la scatola si tramutano in musica, e il suono, etereo e suggestivo, varia quando le foglie delle piante vengono toccate, come in risposta alla presenza dell’uomo. La scena che gli è stata apparecchiata davanti è sicuramente d’effetto. «Ed emette suoni davvero armonici... è una musica stupenda... Ora... questo già è emozionante, ed è davvero... mi mette... comunque... voglio dire... sta mettendo in disordine le idee che avevo fin adesso, della mia relazione con le piante» balbetta il conduttore, palesemente commosso. Niente di paranormale, nessuna magia: gli ingegneri interpellati sul reale funzionamento di questo iPod vegetale lo spiegano più prosaicamente come un semplice galvanometro, o un resistenzometro.12 Ossia un apparecchio che misura la variazione della resistenza elettrica, connessa a una serie di file audio preregistrati. In poche parole, quando tocchi la foglia, alteri il «circuito», e questo cambiamento viene registrato dalla macchina che – come un juke box – automaticamente provvede a «cambiare disco»: così ce lo

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spiegano due fuoriusciti beninformati. Il suono, quindi, non proviene, né viene «dettato» dalle piante. Ma lo spettacolo funziona. Tanto da aver valicato i confini della Valchiusella, spargendo i propri semi persino all’Università di Firenze che, in collaborazione coi damanhuriani locali, propone laboratori rivolti ai bambini in età scolare13 (cioè i più sensibili al fascino delle piante canterine in stile Alice nel Paese delle Meraviglie). Insomma Bossari è in buona compagnia. In effetti la maggior parte dei reportage da Damanhur presenta tratti comuni, con l’inviato che resta invariabilmente infatuato di fronte alle dimensioni e alla ricchezza del tempio. E non è una fascinazione esclusivamente italiana. Succede lo stesso a Peter Owen Jones, conduttore del programma Bbc Around the World in Eighty Faiths (giro del mondo in ottanta fedi), andato in onda sui teleschermi britannici nel 2009. Approdato in Valchiusella in occasione della puntata finale, dopo aver assistito al solito concerto per clorofilla e orchestra il signor Jones resta incantato di fronte alle vetrate del Labirinto, quelle che riuniscono tutte le divinità sotto un unico tetto. Tenendosi il mento tra le dita, lui che è anche vicario della Chiesa anglicana, sembra avere una sorta di epifania: «È interessante vedere la vostra fede rappresentata come una fra le tante. Mi mette un po’ a disagio, perché come essere umano ho investito così tanto in questa piccola finestra [quella dedicata al cristianesimo, NdA]. E poi arrivando qui, in un posto come questo, sono costretto a riconoscere che qui sta accadendo qualcosa di molto più grande. E che la mia finestra ne è solo una parte, così come tutte le altre. Non avevo mai incontrato la nozione di armonia, che tutti possiamo vivere in armonia. Non ne ho sentito parlare dal cristianesimo, dall’ebraismo o dall’Islam. Sono tutti molto concentrati su loro stessi. Da questa prospettiva, in questa stanza, è così che mi appaiono». Il vicario anglicano ha appena scoperto che la sua fede è solo una fra le tante, e questo grazie a qualcosa di «molto più grande»: ossia il politeismo inscritto a chiare lettere sulle pareti del tempio damanhuriano. Anche pagandolo, uno spazio pubblicitario su Italia 1 o sulla Bbc non varrebbe mai quanto una crisi mistica del conduttore in diretta tv. Né quanto le parole spese dallo studioso cattolico Massimo Introvigne, noto esperto italiano di religioni, che proprio sull’«Avvenire» pubblica un articolo in cui paragona i damanhuriani agli indigeni del film Avatar, il kolossal fantascientifico di James Cameron, arrivando a ipotizzare che il regista vi si sia effettivamente ispirato. Il fatto è che la superiorità morale dei Na’vi deriva dalla loro religione, che lo spettatore è indotto ad ammirare e condividere. [...] Il nome classico di questa religione [...] è panteismo: ma si tratta di un panteismo rivisitato in salsa

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ecologistica e New Age. [...] Chi ha qualche familiarità con questo mondo di fronte ad Avatar non può fare a meno di notare che il gruppo New Age che si avvicina di più alle idee dei Na’vi non sta negli Stati Uniti ma in Italia, in provincia di Torino. È Damanhur, il centro «acquariano» [...] famoso per il suo grande tempio sotterraneo e che, per quanto i suoi «cittadini» [...] non amino questa etichetta rappresenta la più grande comunità New Age del mondo. L’ipotesi secondo cui Cameron potrebbe essersi ispirato a Damanhur non è peregrina. Libri e video in inglese su Damanhur sono molto diffusi nel circuito New Age americano, e la storia del tempio sotterraneo [...] ha affascinato anche i grandi quotidiani.14 Anche in Italia, a quanto pare. Dove oltre al giornale dei vescovi italiani,15 il brand Damanhur ottiene ottime recensioni anche su «Panorama»16 (che ne scrive per ben due volte), «Libero»17 e «Il Messaggero»18 (basta leggerne i titoli, sempre fra l’otti-mistico e il favolistico). Senza dimenticare l’edizione italiana del «National Geographic», che dedica numerose pagine del servizio di copertina a raccontare l’altro grande punto di forza d’immagine damanhuriano: la bioedilizia degli ecovillaggi: «I “cittadini” di Damanhur si dichiarano autosufficienti al 70 per cento per le acque sanitarie, al 35 per l’elettricità [...] e al 90 per il riscaldamento con l’utilizzo di legna potata o caduta e bruciata in caldaie ad alta efficienza. Risparmiano energia, riciclano i rifiuti, utilizzano materiali ecosostenibili e sperimentano nuove tecnologie verdi».19 Ma alla pubblicità gratuita offerta dalla stampa si aggiunge quella portata al traino da alcuni vip stranieri. A partire da Gordon Matthew Thomas Sumner, meglio noto come Sting, leader della storica band dei Police. L’englishman a Damanhur ci arriva a Ferragosto del 2009 insieme alla moglie Trudie Styler – con la quale ha scelto di vivere in Toscana – ufficialmente su segnalazione di un gruppo di nativi australiani (in realtà di una damanhuriana che l’aveva conosciuto in America anni prima). Dai damanhuriani sono andati anche un paio di «eroi» della controcultura americana: a Vidracco nel giugno 2010 è arrivato Hunter «Patch» Adams, il guru americano della medicina alternativa.20 Mentre l’anno prima l’attivissima comunità damanhuriana fiorentina, insieme all’allora governatore toscano Claudio Martini, aveva accolto a braccia aperte – sempre a suon di musica vegetale – Julia Butterfly Hill,21 l’eroina ambientalista che nel 1997 salì su una sequoia gigante per protestare contro il disboscamento in California (calandosi giù due anni più tardi): «Mi piace collaborare con realtà come Damanhur. Se tutti vivessimo come vivono loro, l’acqua che beviamo sarebbe più pulita, le città sarebbero più sicure, e così la vita dei nostri bambini. Tutto il mondo sarebbe più bello e creativo».

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Fra gli ospiti, nel 2008 troviamo anche l’italianissimo Bruno Bozzetto,22 il celebre autore di lungo e cortometraggi animati. Caso a parte, invece, quello della cantante Nena, al secolo Gabriele Susanne Kerner. Autrice della famosa hit 99 Luftballons e oggi diva pop tedesca di fama internazionale, con Damanhur ha stretto rapporti tali da inserire in un album simboli segreti del culto piemontese. «Bild», il giornale che ha dato la notizia,23 spiega anche come i damanhuriani siano dotati di una «macchina del tempo» – ben nota a tutti i fuoriusciti – dove si entra nudi (come nei film di Terminator). Ma in Germania24 la setta era già nota dal 1996, quando era andato a investigarci «Der Spiegel», con una lunga inchiesta dal titolo Un diavolo a tre teste.25 E qui la fiaba comincia a farsi gotica. Secondo la testata tedesca, critici e pentiti concorderebbero nel presentare la setta come una vera e propria organizzazione totalitaria. In Italia non la lesse nessuno. Tant’è che da noi l’unica voce fuori dal coro finora è rimasta quella del mensile «Focus». Che più di dieci anni dopo, nel 2007, pubblica un’inchiesta critica sulle sette in Italia,26 includendo nel novero il culto piemontese. Più dell’articolo, però, fu il forum in rete inaugurato dal periodico a disperdere un po’ la fitta cortina di fumo. Il forum rappresentò la valvola di sfogo per tutti i fuoriusciti di questa comunità, che per la prima volta trovarono voce e ne inondarono le pagine, presentando una realtà di sofferenza poco somigliante all’oleografico ritratto degli indigeni di Avatar, ai reportage patinati o alle idilliache testimonianze fornite online da qualche fedelissimo.27 I loro appelli, tuttavia, si sono sempre persi nel mare magnum della rete, ma principalmente nel più assoluto disinteresse da parte di politica e istituzioni. Coi politici distratti dai tanti specchietti per le allodole (al pari di molti giornalisti), o più comunemente allettati dalla prospettiva di un bacino di fedelissimi voti. E con le istituzioni spesso assenti. Perché indifferenti, o magari semplicemente incredule di fronte a storie che possono risultare di difficile comprensione a chi non possieda alcuna conoscenza del mondo delle sette. Una notevole eccezione è quella di Giorgio Napolitano. Nel 2009, in risposta all’appello di un padre che gli aveva scritto lamentando di aver perso ogni contatto con la figlia a causa dei damanhuriani («in tre anni l’ho vista e sentita una volta sola perché non mi permettono di incontrarla»), il presidente della Repubblica ha mostrato tutta la sua sensibilità rivolgendo l’attenzione al caso e sollecitando i magistrati d’Ivrea a prenderlo in esame.28 Il gesto del Capo dello Stato ci aiuta a squarciare il velo sulla dimensione più grave del fenomeno: l’assoggettamento psicologico delle persone che ne vengono toccate.

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Il fatto è che i resoconti dei fuoriusciti (o dei familiari degli adepti) risultano incomprensibili se non inquadrati in una setta complessa come quella damanhuriana. Prima di entrare nel merito delle loro esperienze, dunque, bisognerà provare a capire che cosa sia il marchio Damanhur, come funzioni. E soprattutto chi sia Falco, il guru-imprenditore che l’ha ideato. Lo stesso uomo che «un tempo, come “provocazione culturale”, comprava le anime [degli abitanti della valle] a centomila lire l’una».29 1La puntata registra uno share del 9 per cento, e uno share sul target dell’11 per cento (Mediaset). 2A noi risulta, essendo entrati in possesso dell’elenco dei cittadini damanhuriani aggiornato al 12 novembre 2009, che il numero più corretto sia 537, una cifra che appare ben più proporzionata alla realtà dei cinquemila abitanti complessivi della valle. 3 Nove in particolare: Baldissero Canavese, Vidracco, Issiglio, Vistrorio, Trausella, Cuceglio, Agliè, Caluso e Lugnacco. 4 Lungo un’area complessiva dichiarata di quattrocento-cinquecento ettari. 5 Basta dare un’occhiata alla homepage del Comune di Vidracco (comune.vidracco.to.it).

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6 Questi rappresentano l’unico modo per dare un’occhiata senza passare per le fitte maglie di gatekeeping (letterale e figurato) con le quali, come vedremo, i damanhuriani proteggono la loro énclave da occhi indiscreti. 7 Su «La Stampa» di giovedì 7 dicembre 2000, nella sezione «Torino e provincia», si legge che «i responsabili britannici della Guinness World Records hanno [...] certificato [...] l’inserimento della costruzione nel libro che raccoglie tutti i primati del mondo». Quando questo libro è andato in stampa nell’archivio del sito www.guinnessworldrecords.com, tuttavia, non se ne trovava menzione. Ne scrive, invece, Colin Wilson nel suo Atlas of holy places & sacred sites (Dk Adult, Londra 2006), dove sostiene che si tratta del «più grande tempio sotterraneo del mondo», per un volume complessivo (all’epoca) di «seimila metri cubi». 8 Secondo la Bbc, il Tempio come è nel 2010 dovrebbe rappresentare appena il 10 per cento di quanto pianificato per il prossimo futuro. 9 Hazel Courteney, Eighth wonder of the world? The stunning temples secretly carved out below ground by «paranormal» eccentric, «Daily Mail», 22 novembre 2007. 10 Massimo Novelli, Ecco la città nella roccia, «la Repubblica», 15 ottobre 1992.

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11 Le descrizioni, accompagnate da altrettanti video, si trovano in www.tempio.it, sito ufficiale della principale attrazione turistica damanhuriana. 12 Cioè qualcosa di non molto lontano da un marchingegno scientologo di cui si parlerà in seguito. 13 Il 30 aprile e 7 maggio 2005 l’Orto botanico del Museo di storia naturale fiorentino ha proposto una serie di «incontri-laboratorio» dal titolo Ascoltando i vecchi alberi, nel quale – si può leggere sul sito del museo, www.msn.unifi.it – «i partecipanti vengono stimolati a rappresentare con il proprio corpo il processo di crescita della pianta. Si osservano foglie, semi, rami, radici, corteccia, si toccano si esplorano e si riproducono con il corpo e il movimento. Si studiano le fasi di crescita di un albero, lo sforzo del seme per uscire, le radici che penetrano nella terra, i movimenti dei rami, la caduta delle foglie e questi elementi diventano una rappresentazione e una danza». Dulcis in fundo si legge: «il laboratorio ha un accompagnamento musicale molto particolare: la Musica delle Piante, realizzata mediante un’apparecchiatura elettronica che trasforma in suoni le variazioni di conduttività della pianta». L’iniziativa, spiegano, è rivolta «a bambini e ragazzi di età compresa fra i cinque e i nove anni», ed è promossa e realizzata «in collaborazione con l’associazione di Promozione sociale Damanhur Firenze». 14 Massimo Introvigne, La religione di Avatar? È nata in Piemonte, «L’Avvenire», 30 gennaio 2010. 15 Meno entusiasta si era mostrato molti anni prima il vescovo di Ivrea, Luigi Bettazzi, quello della famosa lettera aperta a Berlinguer e delle marce a fianco

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dei lavoratori. Il monsignore sull’argomento aveva infatti preso una posizione piuttosto netta: secondo lui i cattolici che entrano a far parte della comunità di Damanhur «non si possono più giudicare cristiani. Le dottrine professate che si riallacciano a religioni tradizionalmente definite pagane e la prassi morale in uso nella comunità sono in contrasto con la fede e la vita cristiana. I loro matrimoni, le loro convivenze, la programmazione delle nascite sono atteggiamenti che si scontrano con la morale cristiana» (Lodovico Poletto, Anatema di Bettazzi su Damanhur, «La Stampa», 20 ottobre 1992). 16 Giulia Crepaldi, Damanhur, comunità utopica dove i nomi sono Elfo e Pistacchio, Panoramablog, 19 giugno 2007; Pier Mario Fasanotti, Le inchieste passano, i nonni dei fiori restano, «Panorama», 7 maggio 2008. 17 Claudio Antonelli, I mille di Damanhur, regno dell’utopia, «Libero», 24 agosto 2005. 18 Corrado Giustiniani, Quegli uomini farfalla che pregano sottoterra, «Il Messaggero», 2 dicembre 2007. 19 Marco Pinna, Verde Speranza, «National Geographic», marzo 2009. 20 Fondatore del Gesundheit! Institute, comunità medica olistica. Olistiche, come vedremo in seguito, sono anche le pratiche della «sanità» damanhuriana.

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21 Fabrizia Argano, La ragazza della sequoia, «la Repubblica», 10 settembre 2009; Ludovica Zarrilli, «Io, in cima a un albero per un mondo migliore», «Corriere della Sera», 10 settembre 2009. 22 Ritroveremo Bruno Bozzetto anche nel capitolo dedicato a Scientology. 23 Eva Rullmann, Damanhur leader uses this machine for naked time travel!, «Bild», 8 ottobre 2009. 24 È interessante notare come Damanhur attragga tanti tedeschi, e un sorprendente numero di giapponesi: nel novembre 2009 erano ventisette i nipponici nell’orbita gravitazionale di Airaudi. 25 Jürgen Neffe, «Ein Teufel mit drei Köpfen», «Der Spiegel», giugno 1996. 26 Michele Scozzai, Il potere delle sette, «Focus», aprile 2007.

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27 Come l’autobiografia pubblicata in rete dal «cittadino» Silvio Palombo sul sito www.unostambeccoadamanhur.it. Peccato che Palombo non sia affatto un fedele qualsiasi, ma un alto grado della loro gerarchia: non è solo il nuovo addetto stampa damanhuriano, ma anche il neoeletto presidente del loro Collegio di giustizia, uno dei massimi organi istituzionali interni. 28 Giampiero Maggio, Plagiata da Damanhur, interviene Napolitano, «La Stampa», 1° ottobre 2009 (articolo pubblicato, erroneamente, con la firma di un altro autore, Alessandro Ballesio). 29 Meo Ponte, La «Città del Sole» nel mirino della Finanza, «la Repubblica», 4 ottobre 1991. 2. Vidracco, Italia (?) Se Damanhur ottiene tanta pubblicità – e poco scrutinio – è soprattutto merito dell’opera di lobby politica, istituzionale e mediatica tessuta da Oberto Airaudi, il suo fondatore e incontestato leader spirituale. È lui l’uomo dietro alla setta che trova la sua énclave in Valchiusella, ma la cui influenza è arrivata perfino in Parlamento. Prima di assurgere al ruolo messianico di Falco, il nome con cui tutti i suoi fedeli lo conoscono, il signor Airaudi – nato a Balangero nel 1950 – era un semplice assicuratore col pallino della pranoterapia e della pittura. Anche se (come non esita a riportare il quotidiano «Libero») «fin dall’infanzia ha manifestato notevoli capacità paranormali e di guarigione, che da subito si è

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impegnato a sviluppare attraverso una costante sperimentazione al di fuori delle istituzioni accademiche classiche».1 A Torino Airaudi fonda un circolo esoterico, il Centro Horus di ricerche parapsicologiche, che prevedeva conferenze e corsi sul paranormale e sull’esoterismo (fra i quali: telepatia, telecinesi, telescrittura, spiritismo, mummificazione, pranoterapia, radioestesia, vite precedenti, ipnosi, sviluppo di facoltà paranormali e così via). Ma nel 1975 il self-made guru piemontese – che sostiene di essere l’incarnazione della divinità egizia del sole, Horus – aveva già in mente qualcosa di ancor più ambizioso. E leggenda vuole che dopo aver viaggiato in giro per il mondo alla ricerca di un luogo dotato di particolari caratteristiche energetiche per fondarvi la propria comunità, alla fine l’avrebbe trovato. In Tibet, ma anche – fatalità – a quaranta chilometri da casa sua. Ineffabile il ragionamento, quanto inesorabili le conclusioni: Le linee sincroniche sono i canali di energia che percorrono il nostro Pianeta [...] attraverso un reticolo composto da nove linee principali verticali, cioè con direzione Nord-Sud e da nove orizzontali, con direzione Est-Ovest. Le linee sincroniche trasportano pensieri e idee e attraverso di esse è possibile collegarsi a qualsiasi punto del Pianeta. Damanhur, e in particolare i Templi dell’Umanità, sorgono dove si incrociano quattro di queste linee principali, seguendone lo scorrimento all’interno della Terra. [...] Sono state individuate con viaggi fisici [e] sistemi medianici.2 E così l’incrocio di questo reticolo di linee invisibili si verifica magicamente proprio a Baldissero Canavese. Lì Falco acquista un terreno e ci fonda la sua prima comunità. Insieme a dodici seguaci. Da allora la sua presenza domina sovrana su tutto il culto da lui creato: in forma umana, o totemica, l’icona sacra del fondatore spunta un po’ ovunque nella loro simbologia. Come nelle sale sotterranee, dove il falco con le sue ali spiegate dall’alto abbraccia tutto. Immagine che, insieme alle dimensioni del tempio, fornisce una misura delle aspirazioni di Airaudi. Per lui e per i suoi adepti, Damanhur non è né una religione né una semplice «filosofia», ma vuole essere una specie di San Marino in chiave mistica: una «nazione» a parte, «un aggregato che molto ricorda le città-stato dell’antica Grecia».3 Con un leghismo metafisico, la Federazione delle comunità di Damanhur si è perciò dotata di una sua bandiera (una stella a sei punte formata da due

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quadrati intrecciati), di una sua capitale (Damjl) e di un suo inno. Della sua Costituzione4 (che nel testo non fa alcun cenno alle leggi italiane, nemmeno en passant), delle sue istituzioni e delle sue scuole (Damanhur Education, la loro Scuola familiare, dal nido alle medie). Batte moneta (il Credito, una valuta magica).5 Ha una sua lingua (sacra, ma si può esprimere anche ballando). Pubblica un suo quotidiano, «Qui Damanhur Quotidiano», che circola solo fra i «cittadini». E si esprime politicamente attraverso un proprio partito: si chiama Con te per il Paese, e fa il verso all’espressione «con te», che i damanhuriani usano per salutarsi al posto di «ciao».6 Quando si parla di «Paese», però, sorge qualche dubbio sul fatto che ci si riferisca proprio all’Italia, data la vocazione esplicitamente autarchica di Damanhur. Dice lo stesso Airaudi ai microfoni di Exit, trasmissione di La7: «Se venisse la fine del mondo, se ci fosse una crisi petrolifera, be’, noi ce la caviamo bene. Dal punto di vista energetico siamo sufficientemente autonomi. Per il riscaldamento, anche. Per l’alimentazione, pure. Per la scuola, per le esigenze sanitarie, siamo in grado di cavarcela. Ma non perché auspichiamo la fine del mondo. Non siamo millenaristi. Ma come logico una qualunque struttura umana dev’essere in grado di pensare alla propria sopravvivenza ed essere utile al territorio».7 Daltronde: «Il progetto secondo i fondatori è realizzare un esperimento sociale volto a dimostrare che solo attraverso una vita gioiosamente mistica e comunitaria è possibile salvare l’umanità dal disastro mentale ed ecologico cui l’attuale società postindustriale sta portando il nostro mondo».8 A marcare socialmente la netta separazione della vita fuori e dentro il territorio di Damanhur, infine, c’è l’adozione rituale di nomi altri rispetto a quelli anagrafici. Così come Airaudi è per tutti Falco, i suoi fedeli scelgono di adottare appellativi di animali, veri o mitologici, e cognomi pescati da un erbario. Abbandonando simbolicamente la società da cui provengono, e al contempo le rispettive famiglie d’origine. Del resto, i non-damanhuriani vengono definiti cittadini «esteri». Uno Stato nello Stato, insomma,9 difficile da inquadrare nelle categorie offerte dall’ordinamento giuridico italiano. Allora che cos’è Damanhur? Tutto e nulla. Di per sé è solo una parola, ma poi vai a vedere e trovi la cosiddetta Federazione Damanhur, che è di fatto un’Associazione di promozione sociale (seppur non ufficialmente riconosciuta nel registro delle Aps).10 Ma il business, quello si trova tutto intorno alla Federazione. A partire dall’associazione Tempio dell’Uomo, che si occupa di raccogliere i fondi per il tempio, fra manutenzione e nuovi lavori. E poi una miriade di aziende artigianali e cooperative. In primis la cooperativa Olami Damanhur, cioè la loro «università», dove fra i corsi proposti spiccano Fisica esoterica, Atlantide e civiltà galattiche, Bral

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Talej (cioè la divinazione attraverso la «lingua sacra damanhuriana»), Contattismo (utile per colloquiare con le «intelligenze galattiche», ospiti da «fuori città» che di tanto in tanto decidono di fare una capatina sulla Terra, per alloggiare nel corpo dei loro abitanti),11 Danza sacra e Massaggio damanhuriano, nonché Ricerca delle vite precedenti.12 La Olami riveste anche il doppio (e fondamentale) ruolo di agenzia turistica. Perché il turismo è una risorsa importante,13 con la duplice funzione di buon affare e di implicito proselitismo. Basti dare un’occhiata ad alcuni articoli smaccatamente promozionali comparsi sulle pagine torinesi della «Repubblica»14 o della «Stampa»:15 pacchetti con tour, pranzi nell’agriturismo e visite al Tempio.16 E funzionano, se è vero che negli ultimi tempi si contano almeno venticinquemila visitatori l’anno da tutto il mondo17 (dieci euro per entrare, cinquantacinque per una giornata di immersione totale, secondo il tariffario 2004). Se vuoi, puoi anche alloggiare da loro: c’è Aval, il bed and breakfast che ha avuto l’onore di essere inaugurato dall’ex presidente della Regione Mercedes Bresso. E così, quello damanhuriano è un turismo un po’ d’élite. A testimoniarlo la formula business retreats, cioè i «ritiri per personalità del mondo del business, della politica e dell’arte», abilmente pubblicizzata sul loro sito: In questo momento storico di crisi e veloce trasformazione di tutti i modelli di riferimento, i leader alla guida di imprese, associazioni e organismi hanno bisogno di una visione lucida per trovare soluzioni innovative, e della capacità di collegarsi alle loro motivazioni più profonde per guidare gli altri al cambiamento. Da molti anni personalità del mondo del business, della politica e dell’arte vengono a Damanhur in visita privata – da soli o in piccoli gruppi – per trarre vantaggio dalle straordinarie energie del suo territorio e per meditare nei suoi Templi. Forti di questa esperienza, offriamo oggi programmi personalizzati per chi desidera utilizzare Damanhur e i Templi per ricaricarsi, trovare porte di comunicazione profonda con se stesso/a, mettere a fuoco nuovi obiettivi e individuare le strade per raggiungerli. I programmi sono creati in armonia con i desideri di ogni persona o gruppo e possono comprendere meditazioni guidate e libere nei Templi e immersi nella natura, giornate di relax in un centro termale, momenti di cura di sé attraverso il massaggio, degustazione di vini e cibi tipici accompagnati da poesia e musica... Il pernottamento può essere in un piccolo hotel di charme della zona, oppure – per chi desidera un’esperienza più semplice – in hotel, foresterie e b&b della zona. Inoltre, per chi desidera seguire un percorso personalizzato e continuativo nel tempo per risvegliarsi alla propria parte spirituale, facilitatori con molti anni di esperienza nel campo dello sviluppo delle potenzialità umane sono a disposizione per un servizio di coaching personalizzato.

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Siccome anche il turismo d’affari è un settore in forte crescita negli ultimi anni, non poteva mancare un centro convegni. Si chiama, non sorprendentemente, Damanhur Crea, e ha preso il posto dell’ex Olivetti di Vidracco (dove si fabbricavano le custodie delle storiche macchine da scrivere Lettera 22). L’acquisto, nel 2004, dei quattromila metri quadri dello stabilimento sarebbe costato a Damanhur un milione di euro,18 con il doppio beneficio di portare soldi e contatti politici: tanto per fare un primo esempio, a tagliare il nastro c’era ancora una volta Mercedes Bresso. La direzione scientifica del Centro congressi A. Olivetti è stata affidata a Giancarlo Fiorucci, che – nonostante l’assenza di un appellativo damanhuriano noto – è sposato con una fedele airaudiana e viene considerato «cittadino» onorario,19 anche in virtù dei contatti accumulati negli anni (essendo stato primario presso gli ospedali di Ivrea e Chivasso e all’ospedale infantile di Torino, nonché, sempre in città, direttore sanitario d’azienda presso l’ospedale valdese). Al di là della lussuosissima sala conferenze da quattrocentocinquanta posti (e oltre alla mostra permanente dei quadri di Airaudi), il centro Dh Crea20 ospita almeno la metà delle aziende21 che fanno parte del Consorzio Damanhur, la cooperativa che lo gestisce (riunendole quindi sotto lo stesso tetto). Nel suo bouquet ce n’è – come sempre a Damanhur – per tutti i gusti, dalla casa editrice che serve a pubblicare i testi sacri airaudiani, la coop Val Ra Damanhur, all’oreficeria sacra delle due cooperative Selet e Oro Crea. Dal mediatore finanziario all’agenzia di assicurazioni (Dino Raccagni, alias Piranha). Dalla produzione di software (la coop Damanhur.net, che guarda caso ha progettato il sito del Comune di Vidracco) a quella di tessuti (la NeDh Tessit), da quella di detergenti (la Brillor, che produce detersivi ecologici e sapone liquido per le mani) al laboratorio di sculture in ceramica. Da un istituto di bellezza (Kythera) a un parrucchiere uomo-donna (Performa). Gli ecovillaggi su cui tanto puntano a Damanhur servono evidentemente anche come ritorno d’immagine per fare pubblicità alle loro diverse attività nel settore. C’è la coop Solerà, un’azienda per l’installazione di impianti solari che nel 2007 dichiara di averne realizzati oltre quattrocento, fatturando più di un milione di euro.22 Poi la cooperativa Optima Impianti, che si occupa di idraulica, e la cooperativa Mbm Edil Dh per la bioedilizia. Mentre la Archolis lavora nelle «finiture». Infine uno studio di bioarchitettura (Medialuna srl, con sede anche a Firenze). Anche l’alimentazione è un punto forte del business, con un supermercato di prodotti biologici (la coop Tentaty), il Punto Verde S.C. Agricola, cooperativa dedita all’agricoltura e all’allevamento, e la

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Compagnia dei Caraibi srl, che commercia alcolici. Ancora, due bar-ristoranti: La Sequoia (sas) e la cooperativa Arielvo (che gestisce lo snack-bar di Dh Crea). Le cooperative dedite all’oreficeria meritano però un discorso più ampio. Fabbricano infatti gli innumerevoli gioielli e oggetti cosiddetti «selfici», basati cioè sulla stessa arte con cui Airaudi ha progettato il suo tempio sotterraneo e le cui basi «matematiche» risalirebbero niente meno che ad Atlantide.23 Fondamentalmente si tratta di fili metallici (di solito in rame) avvolti a spirale, di tutte le forme, dimensioni e colori. I damanhuriani li considerano «oggetti “vivi”, capaci di svolgere funzioni mirate al benessere di chi le utilizza, per armonizzare persone e ambienti e per amplificare le capacità sensoriali». Ma soprattutto «in grado di ospitare energie intelligenti», cioè alieni, che svilupperebbero un rapporto di simbiosi con chi li acquista e li indossa. Il lusso e la vanità, quindi, c’entrano poco con questa bigiotteria: si tratta piuttosto di oggetti «sacri» che ogni fedele che si rispetti è tenuto ad acquistare, in virtù delle loro strabilianti doti, descritte con minuzia nel sito sel-et.com, che permette tra l’altro di acquistare online oggetti personalizzati: L’interazione di una self con gli individui è sempre basata sul vantaggio reciproco: per questo motivo le self possono essere considerate dei simbionti specializzati. La self attira condizioni utili per la vita fisica o per lo sviluppo delle potenzialità della persona, collegandosi alla sua aura attraverso le «micro linee», cioè le linee di energia del corpo umano. In cambio l’intelligenza selfica ha l’opportunità di fare esperienza in un mondo diverso da quello da cui proviene. Self e forma umana non vivono quindi tutti gli aspetti della loro esistenza in interazione reciproca, ma solamente per le specificità per le quali hanno vantaggi reciproci. Vantaggi spesso a caro prezzo: per una self puoi andare a spendere dalle decine alle migliaia di euro. Dagli 11 ai 18 per un braccialetto per bambini e ragazzi, 19 per le piante in vaso (canteranno pure, ma anche loro hanno bisogno di aiuto), 20 per la propria sensibilità, 21 per il sonno (ma per proteggerti dall’insonnia ne spendi 37, e per gli incubi 140), 22 contro le mestruazioni dolorose, 24 per il sistema immunitario, e alla stessa cifra quello per la memoria. Con 25 euro ci compri il bracciale contro la radioattività, ma anche l’anello mente-cuore. Con 26 una cavigliera per la circolazione, 28 euro ti mettono al riparo dai dolori cervicali, e altri 28 se ne possono andare per un aggeggio da tenere sempre in auto per proteggersi durante i viaggi (non è l’assicurazione Casco). Stessa cifra per

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assicurarti l’armonia dei pensieri. Di euro ne spendi 36 per la personalità, 37 per l’antistress. Con 37 ci compri, innanzitutto, il self dell’allegria. A 44 euro ottieni un bracciale che ti grarantisce l’ispirazione creativa. Gli orecchini per l’udito costano 95 euro, 150 quelli per tutelare la vista. Ma per aggiudicarsi l’«alta tecnologia selfica» i prezzi iniziano a galoppare: si parte dal più economico «pendolino in oro e microcircuiti» che «facilita tutte le operazioni radiestesiche: dalla semplice esplorazione probabilistica degli eventi fino alla diagnostica e alle prospezioni temporali. Inoltre, può agire anche come medium con altre forme intelligenti. Può essere facilmente utilizzato da tutti». Basta spenderci su quei 3300 euro. Poi si passa all’accoppiata stiloself (2580 euro) più slittino selfico (1800 euro, «l’ideale complemento della stiloself»). La stiloself «rappresena un efficace e polivalente strumento terapeutico [...] più efficace dell’agopuntura nel trattamento di: cefalea, cervicalgia, lombalgie e lombosciatalgie, artrosi e artriti in ogni locazione articolare, tendiniti, nevralgie, gastralgie, colon irritabile, emorroidi, dismenorrea e patologie del ciclo mestruale. È da usare come coadiuvante in moltissime patologie anche gravi, come dolore da metastasi ossee o per controllare l’accrescimento di neoformazioni benigne (lipomi, fibromi, cisti ovariche). Aiuta la risoluzione di piccole imperfezioni cutanee (macchie, ectasie capillari, verruche), e in generale aiuta i processi di riparazione dei tessuti). Ha azione sedativa, ansiolitica, favorisce la concentrazione e la memoria». Insomma, indipendentemente dal fatto che tu abbia le verruche o una metastasi ossea, ti serve comunque. Il top gamma però è la sferoself, il vero coltellino-svizzero mistico damanhuriano. La struttura più versatile e complessa per uso personale e di gruppo. Composta da una parte selfica in metalli diversi – tra cui rame e oro – e da una sfera che contiene liquidi specificatamente preparati, la sferoself permette utilizzi straordinari in qualsiasi campo [...] attirando gli eventi più propizi per una vita armoniosa e ricca di occasioni di crescita [...] creando una «sfera» di protezione e difesa per le persone che ci vivono. Ogni sferoself può inoltre essere utilizzata da chi la possiede per indirizzare coscientemente eventi e propiziare situazioni positive. [...] A titolo esemplificativo – e non esaustivo – citiamo: l’amplificazione di capacità terapeutiche, intuitive e creative in ogni campo; l’intervento terapeutico diretto su patologie di chi la utilizza; l’attenuazione degli effetti degli Ogm sull’organismo; [...] il potenziamento di abilità mentali e fisiche; l’armonizzazione di gruppi e lo sviluppo di una comprensione profonda tra persone che condividono gli stessi ideali; l’integrazione di gruppi di lavoro; l’amplificazione del messaggio trasmesso, per esempio durante il lavoro con gruppi o discorsi in pubblico...

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Se sei un politico e devi fare un discorso a una folla, quindi, ti serve. Se sei un manager e vuoi fare team building, ti serve. Se hai paura degli Ogm, ti serve. Se vuoi andare bene a un colloquio di lavoro, ti serve. Se stai male, comunque ti serve. Basta investirci quei cinquemilacinquecento euro, e se ci tieni a potenziarne gli effetti puoi arrivare a spenderne quasi diecimila. Selfica non è solo l’architettura del Tempio, che ospita tra l’altro la più grande struttura del genere,24 o l’oreficeria sacra. Selfica può anche essere la pittura, antica passione di Airaudi. E sul sito quadriselfici.it si capisce che Falco con la sua produzione artistica continua a guadagnarci bene pure oggi, vendendo dipinti che si basano anch’essi, per l’appunto, «sull’applicazione della selfica». Questi «quadri terapeutici» si possono acquistare online, e i prezzi partono dalla modica cifra di 1760 euro. A giudicare dall’entusiasta «lettura critica» che ne viene data dal suo stesso sito («guidano l’osservatore in un’esperienza che va al di là dei sensi e diventa viaggio dentro di sé»),25 la spesa deve sicuramente valere l’impresa. Ora. Abbiamo visto come per gli adepti un anello, un braccialetto o un quadro selfico non siano un lusso, quanto piuttosto una necessità. Vitale, visto che fa parte della concezione damanhuriana della salute: «L’intento è di ottenere un coordinamento di quadri selfici, sferoself, self personale, per tenere ed esaltare ogni parte. Buona parte di questo continuerà ad avere a che fare con l’aspetto terapeutico».26 Terapeutiche sono anche le cosiddette «cabine», ossia i macchinari spiraliformi che a Damanhur mettono generosamente a disposizione anche dei non-credenti. Generosamente, ma non gratis. Sul listino troviamo la cabina ringiovanimento: ti ci infili per quaranta minuti, e suoi effetti presunti durano fra i sei e i dodici mesi. Il costo della seduta è di 333 euro per i damanhuriani, 600 per gli ospiti (ma può arrivare fino a 1000 euro). Poi c’è la cabina terapeutica, quarantacinque minuti di seduta al costo di 300 euro per i cittadini e 800-1000 per gli «stranieri» (con un bonus, però: una seduta di pranoterapia). Infine la cabina leggera, i cui costi variano a seconda del problema (dalla presbiopia alla pressione): 25 euro per dieci minuti di seduta (vale per una settimana), 40 euro per venti minuti con un piccolo sconto (vale per un mese). Dunque la selfica sarà anche considerata un’arte (seppure ai limiti della fantascienza, col suo contorno di simbionti alieni e macchinari per il ringiovanimento), ma sconfina spesso e volentieri nel territorio della medicina. Ambito con cui, però, ha evidentemente ben poco a che spartire. Vallo a spiegare allo staff della Casa della Salute srl, il poliambulatorio

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medico damanhuriano con sede alla Dh Crea.27 Qui lavorano almeno due medici, nessuno dei quali vede alcuna contraddizione tra la scienza ufficiale e quella selfica. Ecco le loro rispettive biografie:28 Formichiere Carota (Maria Luisa Ravaioli). Medico, è specializzata in anestesia e rianimazione, psicoterapia, ipnosi; è inoltre esperta in agopuntura e medicina tradizionale cinese oltre che in altre branche della medicina non convenzionale. Si dedica alla ricerca di un modello olistico che integri la visione dell’essere umano, della salute, della malattia, secondo una logica naturale e armonica. Vive a Damanhur. Daina Albicocca (Maria Vittoria Marangoni). Medico chirurgo e veterinario. Lavora al centro di Emergenza 118. Da undici anni medico della Comunità di Damanhur, dove ricerca e sviluppa un approccio alla medicina olistica che considera l’uomo nella sua totalità. Lavora attraverso lo sviluppo della prevenzione e applica l’integrazione della medicina convenzionale con le altre medicine. In Damanhur si occupa anche degli animali di affezione. Vive in Damanhur. Entrambe, insomma, non avvertono alcun conflitto. Anzi, come sostiene il responsabile sanitario della Casa della Salute, la dottoressa Formichiere Carota (che è anche il medico di base preferito da Damanhur):29 i medici e gli operatori sanitari vengono «affiancati nella struttura limitrofa da operatori del benessere: tutti lavorano in modo sinergico sullo stesso paziente. La ricerca si basa sull’integrazione tra medicina convenzionale e medicina non convenzionale. [...] In particolare si integra nella cura la tradizione damanhuriana rivolta alla salute: ci saranno ad esempio pranoterapia, cromoterapia, massaggi damanhuriani e sistemi selfici, ma anche l’affiancamento di altri tipi di consulenze, come tocco col cuore, lavoro sulle personalità, counseling, ipnosi. Operare alla Damanhur Crea significa per la Casa Salute poter anche operare in stretta sinergia con gli altri centri specializzati, che sono presenti, come la fisioterapia di Astice e Khytera». Cioè l’istituto di bellezza. Perché la medicina damanhuriana non si accontenta del mens sana in corpore sano: va oltre. Quanto, ce lo spiega Daina Albicocca, medico, come abbiamo visto, del 118 di Ivrea: «La cura del corpo e della mente sono utili sia a livello individuale che collettivo. Abbiamo sviluppato ed elaborato sistemi estremamente raffinati e avanzati rispetto all’intero

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pianeta, che permettono una migliore salute, una maggiore capacità di convivere con se stessi e anche un migliore aspetto estetico. Una persona che si sente bella è una persona più contenta». E a tal fine «nel progetto sanitario è stato chiesto a tutti di fare gli esami genetici, per prevenire malattie con decenni di anticipo [...] a volte con piccole correzioni si possono evitare grandi problemi». Esami genetici che servono a tutelare le caratteristiche tipiche del popolo damanhuriano, che «ha tutti i mezzi per poter essere decisamente longevo [...] i nostri cittadini sono al di sopra della media. [...] Possiamo migliorare questi aspetti, non tanto per essere più longevi a tutti i costi, ma per non perdere tempo in un’altra incarnazione».30 Eppure a poco più di un anno dalla nascita ufficiale della struttura, qualche «perdita di tempo» i medici della Casa della Salute si troveranno comunque ad affrontarla. Nel novembre del 2009 i Carabinieri del Nas di Torino fanno una visita a sorpresa, e mettono i sigilli:31 il centro è risultato abusivo. Fonti ufficiali ci riferiscono che il responsabile legale della società, Domenico Biadene (Caimano Salice, oggi uno dei più alti vertici della gerarchia airaudiana) è stato quindi «segnalato amministrativamente» per aver attivato un centro medico polispecialistico senza alcuna autorizzazione.32 Autorizzazione – spiega una nostra fonte riservata dell’Arma – che avrebbe potuto esser agevolmente rilasciata dal sindaco di Vidracco (damanhuriano per tradizione). D’altronde, mancando l’autorizzazione, dell’esistenza di questa Casa della Salute l’Asl non poteva saperne niente, né quindi effettuare i propri controlli. Anche se a dire il vero qualcuno – nell’Asl di pertinenza – sapeva di questo centro. Fra i medici damanhuriani infatti troviamo anche Maria Cristina Bosco, alias Civetta Bianca, dal 2004 al 2009 direttore ospedaliero supplente all’Asl 9 di Ivrea33 (che nella Casa della Salute collabora come volontaria).34 Ma i guai seguiti all’attenta ispezione dei Nas non finiscono qui: la Ravaioli in quell’occasione viene contemporaneamente denunciata due volte. La prima è per furto. All’interno del centro infatti i carabinieri trovano un ingente quantitativo di farmaci con l’etichetta «confezione ospedaliera», e che perciò non avrebbero dovuto trovarsi lì. I damanhuriani si erano difesi dicendo che quei farmaci erano stati assegnati dall’Asl. Cosa che però era impossibile, dato che (come abbiamo appena visto) il centro medico all’Asl risultava sconosciuto. «Erano invece stati sottratti in qualche ospedale: la confezione ospedaliera non lasciava dubbi» riferisce la fonte dei Nas. La seconda denuncia a carico della Ravaioli è per truffa, in concorso con la Marangoni: quest’ultima, infatti, aveva prescritto analisi cliniche – probabilmente dal suo studio a Damanhur – utilizzando il ricettario regionale della Ravaioli (che il ricettario ce l’ha in quanto medico di famiglia). A completare il quadro di questo piccolo sistema sanitario damanhuriano, un

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locale chiamato «medicheria» e attrezzato come un piccolo pronto soccorso, con tanto di lettino medico, barella spinale, aspiratore chirurgico, ossigeno, defibrillatore e altre strumentazioni: insomma il necessario per l’esecuzione di un primo intervento. In una città-stato dove paghi le tasse, vai al bar e ti prendi un caffè coi soldi stampati dalla zecca locale, e a fine mese intaschi lo stipendio, non poteva certamente mancare una banca. I damanhuriani hanno infatti a disposizione una vera e propria banca interna, con tanto di logo che si sviluppa intorno al solito doppio quadrato intrecciato (simbolo della «nazione»). Ma siccome l’istituto in questione ufficialmente non esiste,35 gli iniziati ai misteri damanhuriani (cioè i suoi correntisti) si riferiscono a esso con il nome in codice «salvadanaio». Al cuore delle finanze damanhuriane incontriamo le due cooperative Peal e Atalji: la prima fa da finanziaria, la seconda si occupa di servizi immobiliari (ma la distinzione è più che altro accademica). Prese insieme rappresentano la cassaforte della setta, dove si vanno accumulando tutti gli immobili e i terreni (in sostanza le ricchezze). Più di venti milioni di euro.36 Ma i dati e il sistema fin qui descritto sono validi sino agli ultimi mesi del 2010: è probabilmente in corso una sua riorganizzazione. Ora, da dove vengono i soldi per tutti questi investimenti? Di sicuro anche dalle tasche dei cittadini damanhuriani, come del resto vogliono i regolamenti interni, i quali prevedono che «i guadagni dei membri del gruppo, tolte le spese personali, vengano messi in comune».37 Ce lo confermeranno più avanti i fuoriusciti intervistati. E lo ribadisce al di là di ogni ragionevole dubbio l’articolo 10 della Costituzione damanhuriana, sia nella sua versione datata 14 dicembre 1998, di cui siamo riusciti a ottenere una copia, sia in quella di una decina d’anni dopo:38 «Il cittadino damanhuriano contribuisce con le proprie risorse, con il proprio lavoro e in ogni altro modo al mantenimento economico personale e di tutta la Federazione. Il fondo comune partecipa agli investimenti di interesse generale in armonia con il principio di solidarietà. Tutti coloro che lasciano la popolazione non avanzano alcuna pretesa di carattere economico nei confronti di essa e non hanno diritto a quanto in essa versato». In poche parole, i beni e i soldi che cedi a Damanhur restano a Damanhur. E chi s’è visto s’è visto. Non finisce certamente nelle casse damanhuriane, invece, il considerevole reddito di Oberto Airaudi (che lui sostiene aggirarsi sui trecentomila euro l’anno). Il suo patrimonio è disseminato in una quindicina di conti correnti in Italia:39 un tesoretto per il quale, però, Falco è andato incontro a qualche problema con l’Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza, insospettite da un tenore di vita significativamente superiore al dichiarato. La verifica

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condotta dalle Fiamme Gialle è stata complicata – come ci raccontano dal Nucleo polizia tributaria di Torino – e ha richiesto accertamenti bancari piuttosto articolati, oltre ad «accessi domiciliari». Tanto da protrarsi per ben due anni,40 pur concentrandosi solo sull’attività di pranoterapeuta svolta da Airaudi nel periodo 2003-2006. Il risultato? Una molto più grossa «base imponibile complessiva»: ben due milioni e duecentomila euro,41 con un’Iva dovuta42 di quattrocentotrentacinquemila euro. A quel punto la Guardia di Finanza si è vista costretta a segnalare alle Entrate che forse era meglio cautelarsi, per evitare ogni rischio che il contribuente corresse in qualche modo ai ripari.43 Così nell’autunno del 2009 è stato eseguito un sequestro dei suoi beni pari a quattro milioni e cinquecentomila euro.44 In Piemonte, come ci spiegano, non era mai successo prima: un altro Guinness di Airaudi, oltre a quello del Tempio dell’Uomo, del quale, fra l’altro, risulta usufruttuario unico. Certo è che quattro milioni e mezzo di euro rappresentano senza dubbio un bel gruzzolo. Secondo una visura al febbraio 2009 ne farebbero parte quarantanove alloggi e sessanta terreni a lui intestati, sparsi fra i comuni di San Lorenzo al Mare, Balangero, Baldissero Canavese, Cuceglio, Lugnacco e Vidracco. E anche se alla fine45 Airaudi ha saldato il conto con l’erario46 (cavandosela con un milione e centomila euro) dalla Guardia di Finanza rendono noto che «potendo essere superata la soglia penale, è stata fatta notizia di reato alla procura della Repubblica». I guai per Airaudi, quindi, non finiscono qui. Sotto scacco, Falco adirato proverà a sfoderare gli artigli, scaricando da copione la colpa sul commercialista e arrivando a contestare la stessa Agenzia delle Entrate: «Con un reddito di circa trecentomila euro l’anno posso vantare una delle dichiarazioni dei redditi più alte del Piemonte: so di essere controllato, figuriamoci se mi metto a evadere il fisco. Tutto questo nasce da imprecisioni commesse dal mio commercialista di Roma. Io non curo la gestione patrimoniale di quello che ho. Quando l’ho chiamato, mi ha assicurato che potevamo essere sanzionati con cinquecento o seicento euro al massimo: alla faccia». Lui si fidava, spiega: «Per questo la colpa è mia e quindi ho pagato, anche perché non ti puoi difendere. Con l’Agenzia delle Entrate non c’è contraddittorio, non puoi dimostrare la tua buona fede, anche se le tasse le ho sempre pagate dichiarando tutto fino all’ultimo centesimo. Bisognerebbe fare una class action contro questo nuovo metodo di procedere agli accertamenti fiscali che somiglia a un baratto. Sono rimasto sconvolto, sembrava quasi di essere al mercato delle vacche».47 In risposta gli arriverà subito una bacchettata sulle mani dall’Agenzia: nessun mercanteggio, nessun mercato delle vacche.48 E dopo questa storia fonti riservate bene informate ci fanno sapere che l’attenzione sulle finanze damanhuriane non è affatto calata.

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In conclusione, ai guai col fisco del maestro va aggiunto che alcune aziende, coop e laboratori stanno surrettiziamente scomparendo dalle brochure pubblicitarie damanhuriane (cioè hanno chiuso i battenti); che altre ancora (come ci confermano le nostre fonti) navigano in cattive acque; che nuovi ambiziosi progetti sotterranei – come quello di un centro congressi grosso «più di un campo di calcio» – sembrano caduti nel dimenticatoio.49 E che nel frattempo la valuta damanhuriana, il Credito, non gode proprio di buona salute (al massimo i cittadini ne adoperano gli spiccioli).50 Diventa chiaro che attualmente le prospettive future della loro economia non sembrano fra le più rosee. Ma nessuno se ne dovrà fare un cruccio, perché «i damanhuriani sono tenuti a un pensiero ottimista; se non lo si usa, se ci sono i “se” e i “ma”, non si è damanhuriani».51 1 Claudio Antonelli, I mille di Damanhur, regno dell’utopia, «Libero», 24 agosto 2005. 2 Dal sito ufficiale di Damanhur. 3Costituzione di Damanhur. Premessa. 4 La prima in ordine cronologico è quella del primo settembre 1981, che si chiamava, non senza una certa modestia, Costituzione del Regno di Damanhur. Ne sono seguite numerose altre: almeno una decina. 5 «Falco [...] ha rispiegato il valore magico del Credito: questo avviene con il passaggio del Credito dall’uno all’altro, con la circolazione; serve a “pulire” le monete, porta al concetto di scambio e stacca dall’attaccamento all’idea di ricchezza» (Elefantina Genziana, Il valore magico del Credito, «Qui Damanhur Quotidiano», 5 dicembre 2004).

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6 Nell’antico dialetto veneto «ciao» significava «schiavo», ma era soltanto una formula di cortesia, come dire «servo vostro». I damanhuriani non lo tollerano. 7 20 novembre 2007. 8 Motivazioni della sentenza del 23 novembre 2010 del Tribunale di Ivrea. 9 O, per usare le loro stesse parole, «un vero e proprio Stato in miniatura» (Costituzione di Damanhur. Premessa). 10 Lo si legge su «Panorama» (Pier Mario Fasanotti, Le inchieste passano, i nonni dei fiori restano, 7 maggio 2008). 11 «Dal 23 luglio Pernice e Tapiro ospitano in condivisione una intelligenza aliena che tramite loro fa esperienza in questo tipo di forma. Sono ormai trascorsi più di dieci anni da quando Falco disse che era possibile ospitare entità aliene. Adesso la possibilità si è espressa. Tutto è iniziato quando Tapiro si è accorto di ospitare una creatura, in forma più o meno consapevole: ne ha parlato con Falco [...] Falco ha risposto che effettivamente da tempo si fanno sondaggi, queste creature sono ospitate in noi ma per circa un minuto, come fosse un modo per valutare le possibilità di essere ospitati in questo tipo di forme. [...] In viaggio Falco ha parlato di questa esperienza, forse in serata ne dirà di più. “Consigliamo a chi si accinge a fare questa esperienza di non avvicinarsi solo con l’idea di provare qualcosa di strano [...] ma [...] come faresti con un amico con cui condividere qualcosa di intimo”» (Elefantina Genziana, Ospitare un’intelligenza aliena, «Qui Damanhur Quotidiano», 7 settembre 2005). 12 www.olamidamanhur.it.

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13 Franco Marcoaldi, in visita a Damanhur, racconta «la sensazione di essere finito nella reception di un centro agrituristico» (Franco Marcoaldi, Nella città del sottosuolo, «la Repubblica», 12 agosto 1997). 14 Emanuele Gamba, Con Damanhur tra i misteri dell’«altra» città. Il Graal e il Vello d’Oro in riva al Po, «la Repubblica», 30 giugno 2002; Luca Mercalli, Alla ricerca di se stessi. Ecco dove rifugiarsi, «la Repubblica», 6 agosto 2004. Ma vedi anche: Nel sottosuolo o a Rivoli basta guardare, «la Repubblica», 11 agosto 2002. 15 Arianna Verdecchia, Vado a vivere (per un po’) a Damanhur. La famosa comunità del Canavese apre le porte a chi voglia provare per qualche tempo uno stile di vita alternativo, «La Stampa», 20 ottobre 2010. 16 Ci sono pacchetti da mezza giornata, una giornata intera, due giorni, tre giorni. Poi c’è quello da una settimana, che include: quattro diversi ingressi ai Templi, una visita al «bosco sacro», una visita al Museo egizio torinese, con annesso tour della Torino «magica», un tour dei territori di Damanhur, manipolazione dell’argilla e svariate sessioni di meditazione. Ma si veda anche la presentazione che danno sul loro stesso sito: «Damanhur offre corsi ed eventi in ogni stagione, ed è possibile visitarla sia per brevi periodi sia per lunghi soggiorni di studio, vacanza o rigenerazione». 17 Claudio Antonelli, I mille di Damanhur, cit. Al «Sole 24 Ore» (Fabrizio Pasquino, Anche l’anima fa business, 16 luglio 2004), invece, i pr damanhuriani sparano il doppio, e Pasquino ipotizza «un fatturato complessivo da venti milioni». 18 Rita Cola, Adriano rivive a Damanhur, «la Repubblica», 18 maggio 2004.

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19 Sebbene di classe C; ma su queste classificazioni interne torneremo più avanti. 20 Dh sta sempre per Damanhur. 21 Fabrizio Pasquino, Anche l’anima fa business, «Il Sole 24 Ore Nord-ovest», 16 luglio 2004. 22 Marco Pinna, Verde Speranza, cit. 23 «Uno dei campi di ricerca più interessanti ai quali Damanhur ha dato grande sviluppo è quello legato alla “Selfica” [...] un’antica arte che crea strutture basate su una precisa matematica, in grado di collegarsi a energie specializzate e intelligenti. [...] La selfica era ampiamente utilizzata ad Atlantide e tracce se ne trovano nella cultura egizia, etrusca, celtica e degli antichi arabi che la usarono fino al secolo VIII a.C.» (www.sel-et.com). 24 Così è riportato sempre nel sito sel-et.com: «La più grande struttura selfica del pianeta Terra è ospitata dal Tempio dell’Uomo, la grande opera d’arte sotterranea costruita dai cittadini della Federazione di Damanhur. L’impianto selfico del Tempio ha tra le funzioni principali quella di correggere, bilanciare e modificare suoni, ritmi e tempi affinché il Tempio stesso, inteso come laboratorio, sia il luogo ideale per interagire con Forze Superiori per l’evoluzione dell’umanità tutta. L’utilizzo delle strutture selfiche del Tempio ha permesso lo sviluppo di nuovi filoni di ricerca nel campo della salute e dell’esplorazione del tempo e dello spazio». 25 «Oberto Airaudi integra mirabilmente elementi cromatici, figurativi e astrattismi fino a un risultato che stravolge l’ordinario paradigma della comunicazione pittorica. Ancor più stupefacente, il tutto, se si considera la semplicità, quasi provocatoria, della tecnica: risultati strabilianti attraverso l’uso di colori acrilici e tempera. La pittura di Airaudi viene così ad assumere

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una potente carica drammatica, evocata dal corpo e dall’intensità del colore. [...] In molti quadri selfici, sembra mancare l’oggetto stesso dell’opera: è la scelta di rinunciare a un universo manifesto, canonizzato attraverso schemi realisti o astratti – ma sempre di schemi si tratterebbe – per invece creare un universo autonomo, nel quale i concetti di astratto e concreto, rivisitati alla luce del colore e del segno, si rifacciano a coordinate che risuonano dentro l’osservatore e non nei suoi punti di riferimento. Né astrattismo né tardo espressionismo, dunque, ma un codice espressivo assolutamente originale e finora, pur ammirato, non riprodotto da alcuno. Nella pittura di Oberto si avvertono grandi forze in gioco; stabilità e movimento, contrapposizioni e paralleli sono aspetti gravemente pesati delle cose. In pari tempo si esprimono le migliori qualità della sua natura: la convinzione, l’integrità e la robustezza della mente sensibile e personale del Maestro. È l’arte di un uomo che vive con le proprie percezioni, immergendosi nel mondo visibile non già con malinconia o esitazione, ma serenamente pur essendone spesso commosso. Questa pittura richiede di essere osservata a lungo e con concentrazione, e l’intelligenza pittorica di Oberto è nell’aver intuito come in arte sia possibile e necessario, per avanzare, trarre profitto dall’esperienza sensoriale e razionale dello spettatore, chiamandolo a intervenire direttamente nella lettura e nell’interpretazione dell’opera. Il suo sviluppo, infatti, dai primi dipinti del 1966 alle estreme, arditissime raffigurazioni di oggi, quasi dissolte nell’atmosfera e al limite dell’informale, è determinato sia dal suo costante approfondimento del problema dell’uso dei colori e dei materiali, sia dalla consapevolezza di aver potenziato le capacità visive di quanti in questi anni avevano seguito e inteso i suoi lavori precedenti. È una pittura la cui sostanza eterna è fatta di immagini ritagliate dal continuo svolgersi del tempo, sottratte al suo inarrestabile distruggersi. Entità iperurania e incorruttibile per virtù di nascita, ma costretta per vivere a scendere tra gli uomini, a seguire i loro mutamenti, a diventare storia.» 26 Daina Albicocca, Politica, Self e Quesiti, «Qui Damanhur Quotidiano», 24 novembre 2004. 27 Elefantina Genziana, Casa della salute alla Dh Crea, «Qui Damanhur Quotidiano», 22 aprile 2008. 28 Curricula pubblicati nella presentazione del convegno «La Nascita» del maggio 2010.

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29 Formichiere Carota è stata scelta in massa da almeno duecentocinquanta damanhuriani «in deroga rispetto all’ambito territoriale di residenza» (Importante vittoria legale per Damahur, damanhur.info, 12 gennaio 2008). 30 Daina Albicocca, Politica, Self e Quesiti, «Qui Damanhur Quotidiano», 24 novembre 2004. 31 ]I Nas sigillano lo studio medico di Damanhur, «La Sentinella del Canavese», 30 novembre 2009. 32 E dire che Caimano nel 2008 era partito con le migliori intenzioni: «È già arrivata l’autorizzazione dal Comune per la programmazione edilizia e in questi giorni si sta preparando la documentazione da portare all’Asl» (Marmotta Melissa, Intervista a Caimano Salice, «Qui Damanhur Quotidiano», 22 aprile 2008). 33 Oggi accorpata nell’Asl Torino 4, dove la dottoressa Bosco risulta «responsabile direzione medica presidio» (www.aslto4.piemonte.it). 34 Elefantina Genziana, Intervista a Formichiere Carota, «Qui Damanhur Quotidiano», 22 aprile 2008.

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35 A dimostrazione della sua esistenza l’estratto conto di cui siamo venuti in possesso grazie a un fuoriuscito, con tanto di apertura, prelievi, versamenti, giroconti e persino spese bancarie. 36 Valore commerciale, dati 2008. 37 Rino Di Stefano, Il tempio nella roccia cerca condono, «Il Giornale», 3 ottobre 1994. 38 Il precetto è confermato nella sostanza dalla decima Costituzione, quella del 2007, dove nel frattempo è diventato l’articolo 8: «Il cittadino damanhuriano provvede al mantenimento personale e contribuisce con le proprie risorse e con il proprio lavoro a sostenere la Federazione delle Comunità, in armonia con il principio di condivisione. Chi lascia la cittadinanza non avanza alcuna pretesa di carattere economico nei confronti di essa e non ha diritto a quanto in essa versato». 39 Come ci dicono dalla Guardia di Finanza.

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40 Dal 15 gennaio 2007 al 27 gennaio 2009. 41 Cifra riferita solo a quei quattro anni. 42 Relativa a quegli importi. 43 Una legge, infatti (la 472 del 1997, articolo 22) prevede che l’Agenzia, su segnalazione della Finanza, possa procedere all’ipoteca dei beni di proprietà del contribuente, e anche al loro sequestro conservativo. Perché tutta questa cautela col Falco milionario? «Il sequestro» chiariscono alla Gdf «viene fatto se ci sono i presupposti che una persona possa far sparire dei cespiti del patrimonio o di quelle disponibilità su cui lo Stato si potrebbe avvalere per il pagamento dell’imposta o delle sanzioni.» 44 Ossia il doppio dell’imponibile contestato. 45 In seguito al sequestro conservativo è partita la notifica dell’accertamento da parte delle Entrate, cui è seguita la definizione in via breve delle sanzioni, e quindi dell’imposta dovuta.

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46 Rita Cola, Airaudi chiude la partita con il fisco, «La Sentinella del Canavese», 20 maggio 2010. 47 ]Domande a Oberto Airaudi fondatore. «Il mio unico errore? Fidarmi del commercialista», «La Stampa», 23 maggio 2010. 48 «“Il controllo non è stato smontato per il 70 per cento e l’adesione non è stata gestita in un clima da mercato boario. Non è stato applicato nessuno sconto a forfait e la riduzione dell’imponibile è un atto dovuto a fronte di nuovi documenti prodotti”. Il direttore generale dell’Agenzia delle Entrate, Vincenzo Palitta, replica alle considerazioni del fondatore di Damanhur, Oberto Airaudi, sulle sue vicende fiscali. E aggiunge: “In seguito a un processo verbale della Guardia di Finanza, dopo una serie di incontri in contraddittorio con i procuratori di Airaudi, nel pieno rispetto dello Statuto del Contribuente, l’Ufficio di Ivrea ha notificato gli avvisi di accertamento. Successivamente alla notifica, il contribuente si è avvalso della possibilità di aderire, ottenendo, come previsto dalla legge, una riduzione dell’imponibile e di un quarto delle sanzioni irrogate. A esse si sono inoltre sommati gli abbattimenti già considerati in un precedente contraddittorio”» (Agenzia delle Entrate: «Con Airaudi nessun mercanteggio da foro boario», «La Stampa», 28 maggio 2010). 49 Fino all’estate 2009 si parlava di una nuova grande costruzione, sempre sotterranea. Uno spazio con una cupola, annunciava Airaudi in video, «più grande di un campo di calcio». Con un ampio teatro, un’area per la musica e una per i libri. Ma soprattutto «una parte di questo grande spazio ipogeo diventerà un punto d’occasione per incontri internazionali di politici e personaggi che hanno bisogno di trovare un punto d’accordo, d’incontro, non soltanto un punto per lo scontro e tutto l’ambiente sarà formato apposta per facilitare questi incontri» (Oberto Airaudi, Il nuovo progetto di ampliamento dei Templi dell’Umanità, DAMANHURtube, 14 agosto 2009).

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50 Nel tempo il Credito si è rivalutato parecchio: prima dell’euro era scambiato a 1200 lire, poi a 1400 lire/72 centesimi di euro, mentre ora lo scambio è alla pari con l’euro, cioè 1936,27 lire. Tuttavia il Credito damanhuriano non è proprio quel dollaro che vorrebbero far credere: somiglia piuttosto a un rublo sovietico. Tant’è che gli stessi damanhuriani, quando aprono il portafogli, sono gli euro quelli che tirano fuori per fare la spesa, accettati dalla maggior parte dei servizi della comunità nonostante esista un decreto che invita a utilizzare la moneta magica. A partire dal 2004 sono stati addirittura adottati dei procedimenti per il rispetto di questa norma: «Per stimolare i cittadini all’utilizzo del Credito [...] abbiamo incaricato il Dsd [cioè i loro sceriffi, NdA] a effettuare dei controlli nelle varie aziende e servizi interni e di dare multe, molto salate, nei posti in cui il Credito non viene utilizzato. La multa sarà sia a carico dell’utente, sia a carico dell’azienda» (Il Credito tra alti e bassi, «Qui Damanhur Quotidiano», 26 novembre 2004). Nel 2010 il problema è ancora all’ordine del giorno e si sta valutando la possibilità di creare «un Credito non convertibile da affiancare in via sperimentale per un periodo al Credito convertibile a cui siamo abituati. L’uso del Credito non convertibile ha la capacità di trasformare il lavoro in ricchezza [...] perché funzioni bisogna crederci» (Elefantina Genziana, Credito, non debito, «Qui Damanhur Quotidiano», 22 luglio 2010). 51 Daina Albicocca, Politica, Self e Quesiti, «Qui Damanhur Quotidiano», 24 novembre 2004. 3. I cittadini (non) sono tutti uguali Di fronte alla legge di Damanhur i cittadini non sono tutti uguali. I diversi livelli di cittadinanza vengono addirittura canonizzati attraverso un sistema di rating simile a quello con cui agenzie come Moody’s, Fitch e Standard & Poor’s danno i voti alle finanze dei Paesi del mondo: AA, A, B, C e D.

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Il livello AA, che conta cinquantaquattro persone,1 rappresenta ovviamente la cerchia più interna dell’entourage airaudiano: i falchi e i fedelissimi. A partire dai suoi amministratori, le cosiddette Guide o Re guida, cioè la sua longa manus. Quanto siano potenti ce lo spiega la loro Costituzione del 2007: «Il parere unanime da loro espresso ha carattere vincolante per qualsiasi individuo» (ma nella versione 1998 si aggiungeva minacciosamente: «In casi gravi di necessità o urgenza, esse possono adottare ogni specie di misura e provvedimento»). In cima alla piramide ci si arriva solo per cooptazione. Il gradino immediatamente inferiore, invece, racchiude la maggior parte del gregge dei fedeli: duecentosessantanove in tutto. In serie A ci si arriva dopo un periodo di prova di sei mesi e vari percorsi di formazione. Tutto dipende da quanto di sé, del proprio tempo e delle proprie finanze si è convinti a regalare: innanzitutto occorre giurare obbedienza totale2 al maestro (cioè Airaudi), poi donare tutti i propri beni a Damanhur, e anche dopo averlo fatto bisogna comunque pagare regolarmente le varie tasse e balzelli che la cittadinanza impone, con un esborso medio mensile che si aggira attorno ai mille-millecento euro (cioè il grosso di uno stipendio). In aggiunta ti toccherà svolgere ciascuna delle diverse attività che ti impongono, cannibalizzando così quel poco che resta del tuo tempo libero. Eventuali trasgressioni a questo regime di vita si traducono in multe e sanzioni che (spiega il loro avvocato Gian Piero Ragusa, alias Cormorano Sicomoro) «si comminano quando si va contro i principi universali della comunità. Queste sanzioni si traducono in ore di lavoro gratuito per la comunità».3 Se sei un residente, infine, oltre che sulla veglia sentirai sindacare sul tuo sonno: dovrai necessariamente trascorrerci la notte, almeno quattro volte a settimana. Più di tanto, insomma, da Damanhur non potrai allontanarti.4 Il cittadino B individua una categoria molto più ridotta: conta appena venticinque persone. In pratica si hanno tutti gli obblighi degli A tranne quello della donazione dei beni. Le tasse si pagano comunque, però senza poter sfruttare gli sconti di cui godono ai livelli superiori. Senza contare che «un cittadino B viene a tutti gli effetti considerato meno importante del cittadino A, tanto che alle elezioni interne anche il suo voto vale meno».5 A parlare è Aconito, un ex fedele damanhuriano che ha rivestito incarichi di rilievo nella cerchia interna della setta.6 Scendendo giù, sempre più lontani dalla vetta, e dall’illuminazione, troviamo gli ottantatré damanhuriani di serie C, tutti non residenti. «Una categoria adatta per chi vive lontano da Damanhur ma vuole comunque “sentirsi utile”. Viene molto incoraggiata. D’altronde nel loro caso si ricevono soldi, ma non

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se ne spendono»: Aconito si riferisce ai duecento euro di tasse mensili che tocca comunque pagare, pur senza usufruire dei servizi comunitari. In fondo troviamo i trenta cittadini di serie D, il cui unico impegno sta nel pagare le tasse (in misura, però, concordata). Sono le imposte, quindi, il minimo comun denominatore fra ogni livello di cittadinanza. C’è un «paniere di Nucleo», che riguarda le spese della singola microcomunità in cui il damanhuriano vive, cioè un gruppo formato da una ventina di persone: alimentazione, affitto, riscaldamento, utenze varie, prodotti per le pulizie, manutenzione, ma anche, per esempio, l’abbonamento – non facoltativo – al loro quotidiano ufficiale. A questo paniere si aggiunge un secondo livello di tasse federali: per pagare le «grandi opere», il cosiddetto abbonamento per la sanità interna (che però non dà diritto a niente, perché le prestazioni le paghi a parte), la scuola, il welfare, la ricerca. Queste imposte stipendiano anche la guardia, cioè gli agenti del Dipartimento di sicurezza damanhuriano (Dsd), che svolgono diverse funzioni: fanno ronde come vigilantes, indagini e intercettazioni come detective, fungono da esattori e da pretoriani, facendo da scorta a Falco e alla sua famiglia. Dal 2005 al Dsd si affiancherà una vera e propria agenzia investigativa di Forlì.7 Così è organizzato (e munto) il gregge damanhuriano. Per governarlo Airaudi si è inventato negli anni quattro strutture di potere, chiamate Corpi, a cominciare dalla Scuola di meditazione. Damanhur nasce qui, dal primo strumento di proselitismo del Falco. Entrarvi significa abiurare la propria religione, giurare obbedienza assoluta al maestro, nonché abbracciare la cosiddetta religione di Horus. La Scuola di meditazione è però anche il principale mezzo di controllo degli iniziati – cioè tutti i damanhuriani – i cui meriti e demeriti vengono stabiliti in questa sede. «Il giudizio è inappellabile» ci illustra Aconito «perché il suo vertice è nominato direttamente da Falco.8 E quindi abbandonare la Scuola significa tradire, dissolvere la propria anima, perdere l’unica opportunità evolutiva esistente. Significa, letteralmente, essere maledetti». Nasce poco tempo dopo la cosiddetta Comunità,9 nella quale si formano gli organi di controllo chiamati Collegio di giustizia e Senato, nonché le autorità dei singoli Nuclei comunità. Ai vertici della comunità troviamo i Re guida, gli amministratori eletti nell’ambito della Scuola di meditazione. «Ma siccome Airaudi ne è capo indiscusso, le “guide” votate sono sempre quelle da lui indicate. Tanto che in passato è arrivato ad annullare gli incarichi affidati a persone a lui non gradite» racconta Aconito.

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Nel 1983 Airaudi istituisce il Gioco della vita, sicuramente la più fumosa fra le strutture di potere damanhuriane. La funzione è doppia: innanzitutto un mezzo di proselitismo, in secondo luogo uno strumento di riforma: «È attraverso il Gioco che Airaudi cambia sostanzialmente le regole a suo piacimento, in nome dell’innovazione» spiega Aconito. Il Gioco trova la sua massima espressione nel Viaggio, il rito magico-alchemico con cui Falco lascia Damanhur a bordo del suo camper per periodi più o meno prolungati, seguito da una carovana di prescelti. Infine il Tecnarcato, istituito a fine anni Novanta, che impone ai fedeli la stesura di diari personali, «entrando nell’ambito della vita privatissima e nelle relazioni fra le persone». Sarà ormai evidente come Damanhur si faccia sempre gli affari dei suoi adepti, compilando una lista dei buoni e dei cattivi. Esiste infatti un sistema di voti in condotta che parte dalle mura di casa tua, cioè il Nucleo in cui vivi, dove ogni tuo comportamento viene valutato dal caponucleo: quanto partecipi, se sei gentile e collaborativo. Ogni due mesi, quindi, dalla pagellina stilata derivano gli avanzamenti, o le eventuali retrocessioni. Se sei recidivo, rischi anche una specie di «santa inquisizione»: il tuo caso può arrivare ai gradi superiori, con tanto di interrogatori e processi. Dall’alto, insomma, Falco (o chi-per-lui) ti osserva e ti giudica. Sempre. Certo, la Costituzione sembra molto severa nel sottolineare quanto difficile sia entrare: «Coloro che desiderano divenire cittadini damanhuriani presentano domanda scritta e motivata. Se i richiedenti possiedono i requisiti basilari per divenire cittadini, vengono ammessi al periodo di prova. [...] La Concessione della Cittadinanza può avvenire solo dopo che i richiedenti abbiano dimostrato la conoscenza dei principi e del patrimonio culturale della Popolazione». Ma l’aspirante accolito non tema: negli ultimi tempi la newsletter prospetta un iter facilitato:10 Caro Amico/a, Damanhur apre la possibilità di diventare cittadini in breve tempo. [...] In questo momento anche tu puoi partecipare al progetto di Damanhur, scegliendo il modo per farlo: oltre al percorso verso la cittadinanza permanente, esiste ora anche la possibilità di una cittadinanza “a tempo”, che ti permetterà di sperimentare la vita comunitaria e partecipare attivamente a questo grande Sogno. Il momento è adesso. In realtà, per entrare in Damanhur, ogni momento è quello giusto. 1 Dati (provenienti da fonte riservata) al 12 novembre 2009.

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2 Si chiama «giuramento di meditazione». 3 Alberto Gaino, «Damanhur ci batte in giustizia. Nella comunità esoterica un sistema vincente». Provocazione del pubblico ministero, «La Stampa», 8 marzo 2008. 4 Come ci dicono i fuoriusciti esiste inoltre una forma di cittadinanza A leggermente meno invasiva, concepita per trattenere chi stava uscendo dalla comunità, e per tenersi stretti gli adepti benestanti più timorosi. Questa formula non richiede la residenza, ma incoraggia comunque laute donazioni. 5 Come per la A, anche della cittadinanza B esiste una formula leggermente attenuata: la B non residente. 6 Per lui, come per tutte le altre fonti fuoriuscite da Damanhur, abbiamo usato un nome di fantasia. 7 L’evento è annunciato in pompa magna dal quotidiano della comunità: «La realizzazione di un’agenzia investigativa damanhuriana è diventata oggi realtà [...] Il lavoro dell’investigazione farà riferimento all’articolo 134 Tulps e agli articoli 38-222 relativi alle Norme di Attuazione del Codice Penale, che consentono di tutelare gli interessi dei privati rispetto alle loro necessità di conoscenza connesse ai propri affari o alla propria vita privata (articolo 134), e la possibilità di lavorare in indagini penali per conto di avvocati a favore di eventuali imputati. Un’altra possibilità è rappresentata dalle attività connesse al “portierato” (concessione comunale che consente di svolgere attività di sorveglianza, antitaccheggio e controllo merci)» (Cavalletta Prezzemolo, Centro Cavalieri Security, «Qui Damanhur Quotidiano», 12 febbraio 2005).

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8 Quando questo libro è andato in stampa il vertice era ancora in mano a Franca Nania, alias Serena Ninfea, la compagna di Airaudi, che nel 2010 è stata perfino nominata garante, cioè suo effettivo vice in caso di assenza. 9 Che poi è il nome che viene dato al sistema economico di cui abbiamo parlato in precedenza. 10 Newsletter del 26 settembre 2010. 4. Labora ergo ora Recita l’articolo 17 della Costituzione 2007:1 «Le eventuali controversie tra i Cittadini, e tra questi e Damanhur e i suoi Organi saranno sottoposte con esclusione di ogni altra giurisdizione alla competenza del Collegio di Giustizia, che giudicherà secondo equità [...] e il cui giudizio sarà inappellabile2». Come a dire: i panni sporchi si lavano in famiglia. Che piaccia o no alla Giustizia damanhuriana, però, il 2 ottobre 2010 è stato il Tribunale di Ivrea dello Stato italiano a riconoscere che la giornalista britannica Jan Turvey – cioè l’ex adepta Orata – ha lavorato per Damanhur dal 1998 al 2007:3 «Dapprima nell’insegnamento della lingua inglese nelle scuole della comunità, in seguito nell’effettuazione di traduzioni, nella fotografia, nel mantenimento dei contatti in lingua inglese con l’e-group Virtual Damanhur e infine nel contributo dato alla rivista “Qui Damanhur”». Ragion per cui la Federazione Damanhur viene condannata a pagarle il Tfr su ottantacinquemila euro, cioè il totale degli stipendi al nero ricevuti in quegli anni (cosa di cui il giudice del lavoro procede a informare immediatamente l’Agenzia delle Entrate, l’Inps e l’Inail).4 «La sentenza ha un che di rivoluzionario» si legge su «La Stampa», e «potrebbe fare da apripista ad altre cause intentate da altri ex appartenenti alla Federazione.»5

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Anche perché in poche pagine smonta la difesa damanhuriana – affidata all’avvocato Ragusa, che definisce la sentenza «inaccettabile», annunciando un ricorso in appello –6 secondo la quale il lavoro svolto sarebbe stato «in piena adesione alle finalità di ordine spirituale che permeano la comunità damanhuriana, e dunque, in definitiva, assimilabile al lavoro gratuito prestato affectionis vel benevolentiae causa». «Ho lavorato per Damanhur per dieci lunghi anni» ci racconta la Turvey subito dopo aver ricevuto la notizia tanto attesa, «facevo la giornalista web e la fotografa, ma fungevo anche da interprete e curavo le traduzioni dei loro testi. Per un periodo ho anche rivestito il ruolo di art director del loro magazine “QDf”. Alla fine, come cittadina europea avevo diritto al trattamento di fine rapporto. Come chiunque altro. A Damanhur avevano promesso che mi avrebbero messo in regola, ma non l’hanno mai fatto. Così quando lasciai la comunità decisi di battermi: in questo modo quando andrò in pensione non sarò costretta a tornare in Inghilterra. Amo questo Paese, è diventato la mia casa. Mio figlio è cresciuto qui, e partire mi spezzerebbe il cuore.» La vicenda della Turvey non è un caso limite, ma il sintomo di un particolare approccio al lavoro, «inteso come donazione di sé agli altri»:7 la chiamano Terrazzatura, il nome deriva dall’uso della terra di riporto della collina sbancata, che veniva usata per costruire terrazze nel territorio circostante. Spiega uno dei testimoni, citato nelle motivazioni della sentenza: «La Terrazzatura è un’attività devozionale: all’inizio era attività destinata all’edificazione dei Templi dell’Umanità per otto ore al mese, poi divenute ventiquattro; in seguito, le attività si sono diversificate. Ad esempio, se c’è da fare una fiera, il lavoro di allestimento può essere assegnato ad alcuni cittadini come attività di Terrazzatura; tale attività non è retribuita e va a favore della comunità». È proprio grazie a questo lavoro regalato che i damanhuriani hanno realizzato imponenti opere collettive: non solo i Templi, ma anche la ristrutturazione di Dh Crea, «i circuiti, il Bosco Sacro, l’anfiteatro, il Tempio Aperto, e [...] prossimamente le Buche e altro ancora».8 Il tempo libero si traduce di volta in volta in: lavori nei boschi, ristrutturazioni, pulizia delle cucine, riciclaggio dei rifiuti, e molto altro ancora. Oltre a una serie di attività che fanno sempre bene all’immagine, come la donazione di sangue, l’antincendio boschivo e la Protezione civile (associazione che attinge ai fondi pubblici del 5 per mille).9 Per finire coi loro boyscout, che fra l’altro sono persino riusciti a entrare nella federazione nazionale FederScout.10 Queste forme «spirituali» di lavoro nero, loro le chiamano, secondo un’espressione coniata da Airaudi, «la nostra preghiera», cioè come a dire:

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labora ergo ora. Dove per labora s’intende, come abbiamo visto, qualsiasi tipo di attività utile a Damanhur. Perché «qualsiasi lavoro, qualsiasi mansione, a seconda delle necessità del momento, può essere considerata Terrazzatura» ci spiega Aconito. «Metti che oggi c’è bisogno di braccia per l’agricoltura, allora tutti contadini.» E per ora, invece, s’intende la seguente invocazione: Signore Horo / che il mio lavoro tessa il Tuo disegno / che il mio pensiero e la mia presenza / si riflettano sul mondo / e ciò porti crescita a tutti i popoli / Che l’Uomo possa ritrovare / l’equilibrio e l’armonia con ogni creatura / su questo pianeta / Io sono cittadino del mondo / nel Tuo nome / Così sia. Il tutto scandito da regole molto precise:11 Le ore assegnate in maniera progressiva dovranno attenersi indicativamente alla tabella che segue: dall’iniziazione otto ore mensili; dopo sei mesi dall’iniziazione sedici ore mensili; dopo un anno dall’iniziazione o al passaggio a Fratello Maggiore [uno dei loro gradi, NdA] ventiquattro ore mensili [che però arrivano a una sessantina quando poi ci aggiungi il lavoro nel Nucleo dove vivi, i turni di cucina e di pulizia e gli altri incarichi settimanali, NdA] [...]. Il quaderno della Terrazzatura, predisposto da ogni responsabile di settore, dovrà essere compilato da ogni Terrazzante riportando quanto segue: giorno; ora d’ingresso; ora d’uscita; lavoro svolto; firma. Durante lo svolgimento delle ore di Terrazzatura non è possibile compiere attività estranee a quella assegnata (es. fare o ricevere telefonate, incontri, ecc.) [...]. Il calcolo delle ore di lavoro devozionale svolte nella propria attività lavorativa deve essere concordato con l’incaricato Federale designato.

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Le ore assegnate devono essere svolte o corrisposte [cioè ripagate in denaro, dai sette e mezzo ai dieci-dodici Crediti, cioè euro, a seconda delle mansioni del lavoratore interno, NdA], entro l’ultimo giorno del mese. L’effettivo interesse di ogni settore nel richiedere e mantenere le ore devozionali, sarà strettamente collegato al rigoroso rispetto delle regole indicate. Tutto questo permetterà al responsabile ultimo della Terrazzatura insieme a Meditazione di poter condurre al meglio tutto l’apparato devozionale in tempi veloci, e di poter formare veramente le persone, tramite il lavoro e la preghiera. Peccato che, così come la Turvey, anche altri damanhuriani abbiano da tempo smesso di «pregare» in questo modo. A partire da Aconito, che dipinge un quadro ben poco selfico della Terrazzatura: «Se ubbidisci, quel lavoro si somma al tuo impiego vero e proprio, senza il quale del resto non riusciresti mai a pagare le tasse interne. Se invece non esegui, ti tocca sganciare soldi. E se non lavori e non sganci, poi ci paghi su pure la multa. Tutto in nome di quell’ossimoro damanhuriano che è il lavoro volontario-obbligatorio». 1 L’ultima a nostra disposizione. 2 «Il Collegio di Giustizia è eletto periodicamente dagli appartenenti al Corpo di Meditazione secondo le regole determinate all’interno di esso» (Costituzione di Damanhur 2007). 3 «I motivi illustrati inducono alla conclusione che la ricorrente fosse assoggettata al potere direttivo, organizzativo e disciplinare degli organi della Federazione Damanhur: tale forma di etero-direzione imprime al rapporto in esame i connotati tipici della subordinazione» (Motivazioni della sentenza, 2 ottobre 2010, Tribunale di Ivrea). 4 «L’accertamento giudiziale di un rapporto di lavoro subordinato mai regolarizzato sotto il profilo fiscale, amministrativo e previdenziale, impone a questo giudice di disporre la trasmissione della presente sentenza agli enti

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interessati (Agenzia delle Entrate, Ministero del Lavoro, Inps e Inail)» (Ibidem). 5 Giampiero Maggio, Anche il dio Horus deve versare il Tfr, «La Stampa», 15 dicembre 2010. 6 «Per i damanhuriani si tratta di una sentenza assurda: “Ricorreremo in appello, ciò che sostiene il giudice è inaccettabile” tuona Gian Piero Ragusa, l’avvocato di Damanhur. Più soft, invece, la posizione di Roberto Sparagio, esponente storico di Damanhur: “Mi fa piacere che il giudice riconosca la validità della nostra Federazione. Ne esce un quadro che è tutto il contrario di quello che sostiene chi ci dipinge come schiavisti, maneggiatori di coscienze”» (Ibidem). 7]7 Costituzione di Damanhur 2007, articolo 4. 8 «Essere disponibili dove e quando serve per manipolare e trasformare la materia: la misura di chi siamo, di ciò che possiamo e vogliamo [...] È bello ed emozionante [...] passando accanto alle opere poter dire “c’ero anche io quando lo abbiamo fatto” e continuare con orgoglio il lavoro fatto da altri per aggiungere ancora un altro pezzo”» (Spugna Fragola e Raganella Lilium, 15 agosto: Festa della Terrazzatura, «Qui Damanhur Quotidiano», 13 agosto 2009). 9 Ma nelle liste del 5 per mille troviamo anche la loro base fiorentina (Gianni Del Vecchio e Stefano Pitrelli, I mille del 5 per mille, «L’espresso», 16 dicembre 2010). 10 La notizia è riportata da damanhur.org, 29 marzo 2005. Sul sito nuke.federscout.it, Scout Damanhur Italia viene elencata fra i soci, sotto la presidenza di Gianluca Gallerani, alias Arciere Aglio.

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11 «Regole della Terrazzatura (da applicare in ogni settore)». 5. Il vivaio La damanhurizzazione sistematica del lavoro e del tempo libero, della veglia e del sonno, vale anche per i più piccoli, cui evidentemente non verrà mai offerto uno stile di vita alternativo a quello dei genitori che ce li hanno trascinati o direttamente fatti nascere. La Scuola familiare di Damanhur ospita una settantina di alunni, perlopiù figli di cittadini, considerati cittadini di fatto, e copre le fasce di età dal nido fino alla scuola media, cioè dai cinque-sei mesi fino a dodici anni. Non sarà una scuola vera e propria, ma di certo ci tiene a dare una buona impressione di sé, tanto quanto un istituto privato. Includendo fra i riconoscimenti ricevuti un «certificato di apprezzamento» dell’ambasciatore del Nicaragua a Roma, un «attestato di benemerenza» rilasciato dai Comuni di Vidracco, Baldissero e Castellamonte. Nonché un altro «certificato di apprezzamento» dei Lions Clubs International (per le «opere artistiche della nostra scuola»). A legittimare la scuola damanhuriana è la cosiddetta «istruzione parentale», una scelta prevista dal ministero dell’Istruzione –1 e tuttavia poco adottata – in base alla quale i genitori possono provvedere in proprio all’educazione dei minori. Ma a Damanhur non è proprio una scelta. Il sistema comunitario infatti, ci illustra la nostra fonte Giglio, «non prevede che i figli dei cittadini frequentino una scuola diversa da quella interna. Perlomeno non fino alla terza media. La Scuola ha il fine di “formare i futuri damanhuriani” e la priorità è la salvaguardia della loro “damanhurianità”. Punto di partenza è la teoria, tutta airaudiana, secondo la quale i genitori sarebbero i peggiori educatori dei propri figli. Quindi la sua ricetta consiste nell’esautorazione del genitore». Ce lo conferma anche un’altra fonte, Stella Alpina: «Nel percorso dall’asilo nido alle medie i ragazzi vengono tirati su come piccoli soldatini damanhuriani. Fin dalla materna insegnano loro la lingua sacra e i gesti della danza sacra. Oltre alle materie del programma scolastico si aggiungono discipline damanhuriane come metratura e armonizzazione», cioè due

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tecniche di meditazione airaudiane che svilupperebbero una coscienza totale di sé e un ampliamento delle percezioni. Ancora, «si fanno gite al Tempio dell’Uomo per i rituali di “aggancio” con le divinità. E alle medie arriva lo stesso Airaudi a fare dei corsi di magia ai ragazzini». La loro scuola, dunque – alla maniera degli antichi spartani – vuole sostanzialmente creare figli di Damanhur. Cosa che non si può ottenere lasciando fare alla natura... Non solo ne pianificano la nascita,2 ma vanno molto oltre, predisponendo coi loro «riti magici» una specie di reincarnazione programmabile delle anime nei corpi dei bambini.3 Loro la chiamano «eugenetica spirituale» (perché neanche le anime, evidentemente, sono tutte uguali).4 E grazie a questa preparazione i loro figli cresceranno. Impareranno subito a essere dei bravi fedeli. E presto assumeranno un nome damanhuriano. Tutto ciò non è che il riflesso di una peculiare concezione della famiglia, dove la paternità si dissolve nella comunità, e i matrimoni hanno una scadenza come il contratto di un precario. Perché qui la famiglia è nella migliore delle ipotesi un elemento neutrale, e nella peggiore un pericoloso filtro nel rapporto fra l’individuo e il resto del gregge dei fedeli.5 Lo si legge chiaramente su «Libero»6 in un articolo orgogliosamente segnalato dalla rassegna stampa ufficiale damanhuriana (il reportage presenta infatti Damanhur come un «regno dell’utopia»): Un bambino avrà mamma e papà e un numero variabile di zii e zie acquisiti.7 Anche i matrimoni avvengono all’interno della Federazione. [...] «Di fronte agli altri ci si proclama marito e moglie per un anno.» Un periodo di prova al termine del quale l’unione si può rinnovare oppure sciogliere. «Per i bambini la separazione è sempre difficile [...] ma per i nostri meno.» Hanno tanti punti di riferimento. In più i bimbi si abituano al distacco affettivo già a scuola. I figli dei damanhuriani non frequentano la scuola statale, ma un istituto a gestione interna che abitua i ragazzi a stare lontani dalle rispettive famiglie, in senso allargato, anche per più giorni. «Non si tratta di gite classiche» spiega Furetto, uno dei precettori che seguono nido, elementari e medie, «ma di viaggi che insegnano ai bambini a crescere autonomi a diretto contatto con la natura e gli animali.» La chiamano Itineranza, ed è un altro cacciavite adoperato per allentare i vincoli familiari nella comunità. «Dalla tenera età di due anni vengono portati dagli insegnanti e dai loro collaboratori a fare esperienze in luoghi diversi, sia nelle zone circostanti sia in posti lontani da casa. Ma soprattutto lontani dai genitori» precisa Giglio. «Per due, tre, cinque giorni. Quali esperienze? Sopravvivenza nel bosco e cose così, chiaramente a misura di bambino.

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Sembra tutto molto interessante e formativo, e viene portato da Damanhur come un fiore all’occhiello. In realtà il bimbo viene tenuto lontano il più possibile da mamma e papà, e perdendo il suo punto di riferimento non gli resta che affidarsi all’adulto presente.» Cioè gli insegnanti. Così, ci spiega Stella Alpina, «ai bambini viene inculcata sin dalla più tenera età la nozione di Oberto Airaudi-dio in terra. E siccome vedono gli stessi genitori che per fare qualsiasi cosa chiedono consiglio ad Airaudi, che vengono sempre messi sotto verifica, nel Nucleo, nella Meditazione, nel Tecnarcato... quindi che non si comportano da adulti. Madre e padre cessano di essere punti di riferimento». In poche parole, conclude Giglio, «non si tratta affatto di una scuola “laica”, ma i piccoli sono tenuti a partecipare ai rituali previsti dalla comunità, dalla purificazione del cibo al rito del compleanno, ai solstizi e agli equinozi». Da incruente cerimonie fino alla cosiddetta «mantica dell’agnello», a cui partecipano anche i bambini. Ricorda Giglio: «Il rituale funziona così: prendi un giovane agnello o un capretto, lo metti in un cerchio enorme disegnato sul prato, diviso in quattro spicchi. Intorno a questo cerchio si dispongono i damanhuriani che partecipano al rito. Due gruppi vestiti di verde e due di rosso, uno per spicchio. Poi dopo aver fatto girare il capretto per tre volte dentro al cerchio, lo si lascia libero, e da quel momento in poi ciascuno dei due gruppi cercherà di attirarlo dalla propria parte. A un certo punto per sfinimento l’animaletto uscirà, dall’una o dall’altra, e il rito si conclude quando la povera bestiola è andata per tre volte verso lo stesso colore. La “mantica” in questione consiste nell’interpretare il suo girovagare: in pratica dai movimenti dell’ovino si dovrebbe dedurre che cosa accadrà a Damanhur l’anno successivo. Se alla fine vince il verde la creatura porta a casa la pelle, e al suo posto vengono sacrificati dei galli. Se vince il rosso, invece, l’agnello la pelle ce la lascia. E se lo mangia chi decide Airaudi». Tra una lezione e un rito magico, così come succede anche per gli adulti, «gli stessi insegnanti» conclude amaramente Giglio «stilano i profili dei più piccoli, senza che i genitori ne sappiano niente. Mi riferisco alla scuola nido-materna. Profili che vengono poi presentati all’Airaudi. I genitori ne vengono a conoscenza solo se ai suoi occhi emerge qualcosa di grave». Che si sia grandi o piccini, insomma, non fa alcuna differenza: nessuno sfugge all’occhio di Falco. 1 «Istruzione parentale. I genitori o gli esercenti la potestà parentale che intendano provvedere in proprio all’istruzione dei minori soggetti all’obbligo di istruzione devono rilasciare al dirigente scolastico della scuola della tipologia richiesta più vicina alla propria residenza apposita dichiarazione, da rinnovare anno per anno, di possedere capacità tecnica o economica per

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provvedervi, rimettendo al dirigente medesimo l’onere di accertarne la fondatezza. Per quanto attiene all’esame di idoneità degli alunni che si siano avvalsi dell’istruzione parentale o comunque frequentanti scuole non statali e non paritarie, si rinvia alle successive disposizioni che saranno diramate in materia di valutazione» (CM n.17, ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, 18 febbraio 2010). 2 «I Cittadini damanhuriani predispongono al meglio sia spiritualmente sia socialmente l’ambiente per la nascita e la crescita dei figli e a tal fine privilegiano la programmazione delle nascite» (Costituzione di Damanhur 2007). Nella pianificazione rientrano anche, spiega Stella Alpina, «l’ok del Nucleo, della comunità e dei Re guida, per il vaglio economico della tua richiesta di avere un figlio, e pure quello della “sanità”, che ti dice se la coppia è pronta da un punto di vista psicofisico». 3 Cristina Caparesi, Damanhur, comunità magica (reperibile online). 4 Ce lo conferma Stella Alpina: «L’obiettivo è che tuo figlio ospiti un’anima che non sia “una qualunque”. Ti fanno scrivere su un foglio come vorresti che fosse tuo figlio, così che Airaudi possa programmarlo “alchemicamente”, e richiamare l’anima “giusta”: “vorrei che fosse bravo in matematica, bravo a calcio, biondo con gli occhi azzurri”, tanto per fare un esempio. Se poi così non è, è perché alla fine ti arriva sempre il figlio che ha deciso lui. Il maestro». Anche dopo la nascita, i rituali non si interrompono: «Nei primi anni il bambino è sempre soggetto a rituali. Ai primi ce lo portano i padrini da soli. Poi una volta al mese, poi ogni sei mesi. Il pressing è costante. D’altronde sottoporre i figli a questi rituali è un “privilegio”. E se i genitori non si comportano bene, Airaudi congela questi rituali dei figli come un’arma di ricatto nei confronti del suo “popolo”». 5 «Il passaggio intermedio costituito dalla famiglia in Damanhur non ha un riconoscimento e una valenza secondo la Costituzione damanhuriana, ma attiene alla sfera personale. Ci sono i matrimoni secondo la formula del matrimonio rinnovabile per cui, dopo uno, due o tre anni, la coppia viene invitata a rinnovare la propria unione [...] oppure a decidere di concluderla [...] I nuclei formati dalla coppia o dalla famiglia diventano addirittura un

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problema perché interferiscono con il sistema del gruppo. In Damanhur l’orientamento sembrerebbe quello di ignorare la relazione di coppia relegandola a una sfera di secondaria importanza e subordinata ad altri rapporti più codificati e importanti quali quelli comunitari.» Così scrive Cristina Caparesi in La Federazione damanhuriana e lo Stato Italiano (reperibile online). 6 Claudio Antonelli, I mille di Damanhur, regno dell’utopia, «Libero», 24 agosto 2005. 7 «Tutti i Cittadini residenti partecipano alla formazione dei figli, alla loro cura e al loro mantenimento» (Costituzione di Damanhur 2007). 6. L’ottava meraviglia del mondo Setta, brand o città-stato che sia, Damanhur non è mai andata proprio d’accordo con le leggi del Paese che la ospita. La stessa storia del Tempio lo dimostra chiaramente: è in quest’occasione che Falco segnerà i primi punti nel suo gioco della politica. Gli scavi iniziarono a Vidracco, in località Montiglio, nel 1978 (leggenda vuole a partire da un sogno che Airaudi aveva avuto quando aveva dodici-tredici anni).1 «Era importante costruire [il Tempio, NdA] in segreto, o non avremmo potuto farlo. La legge italiana non prevede questo genere di costruzioni sotterranee.» A parlare è lo stesso Airaudi, intervistato da Abc News nel 2008.2 Lungi dal preoccuparsi dell’illegalità, o quanto meno della pericolosità dell’opera – «mere ragioni burocratiche» –3 Falco mette così faraonicamente all’opera fra i centocinquanta e i duecento adepti lungo un arco di tempo di quindici anni. Nasce così la pratica damanhuriana della Terrazzatura, il lavoro volontario che si è moralmente tenuti a prestare per Damanhur.

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E nonostante in tutto questo periodo i damanhuriani trasformati in minatori stessero sventrando un’intera collina (in barba non solo alle leggi italiane, ma a quel tanto sbandierato amor sacro per la natura), la cosa passò del tutto inosservata sotto il naso delle autorità locali. «Eravamo molto bravi a tenere il segreto» racconta orgogliosa ai microfoni della testata americana la portavoce Silvia Buffagni sotto lo pseudonimo damanhuriano di Esperide Ananas.4 «Quando si faceva molto rumore, mettevamo su dei dischi. E se a qualcuno capitava di sentire qualcosa, avrebbe solo pensato che stavamo facendo una festa.» Una festa di quelle piuttosto rischiose, visto che si scavava sotto terra senza alcun tipo di supervisione. «Dovete capire che abbiamo fatto tutto senza neanche un ingegnere o un architetto» ammette Ananas. «Tutto è stato scavato a mano.» E qui si parla di una struttura («a prova di bomba atomica» dicono)5 che nella sua parte principale è alta quanto un palazzo di undici piani – settantadue metri in profondità all’interno della collina – coperta da una cupola in cemento armato che pesa un centinaio di tonnellate, sulla quale premono dieci metri di terreno. Solo per pura fortuna, insomma, nessuno ci rimise la pelle. Secondo Airaudi il tempio doveva essere «un dono all’umanità». Cosa abbastanza strana, visto che il resto dell’umanità – cioè i non-damanhuriani – non ne avrebbe saputo niente fino al 1992. Che ci fosse qualcosa da scoprire, le autorità avevano però iniziato a subodorarlo già l’anno prima, il 3 ottobre 1991, quando un esercito composto da trecento uomini in divisa, fra carabinieri e finanzieri – con l’aiuto di due elicotteri – cinse d’assedio la città-stato, perquisendola. Senza però cavare un proverbiale ragno dal buco. Tanto che alla fine, per consolare i militari «disillusi e stanchi», i damanhuriani – «magnanimi nella vittoria» – offrirono il caffè a tutti e trecento (o almeno così vuole la loro coloratissima aneddotica).6 In quel periodo, racconta Aconito, «sapevamo che sarebbero arrivati. In dieci giorni abbiamo allestito in una stanza un piccolo tempio finto perché fungesse da specchietto per le allodole, distogliendo l’attenzione dalla vera porta d’ingresso al Tempio-bunker. Gli ordini erano: ufficialmente quello era il Tempio». Gli altri stratagemmi saltarono fuori in aula qualche anno dopo, durante il processo del 1995,7 a vaso scoperchiato. Chi chiedeva del Tempio veniva condotto di fronte a una grossa pietra in mezzo ai boschi, sistemata sulla sommità della struttura sotterranea (perché tanto dall’esterno non si vedeva nulla). «Anche all’ultimo» riferiva in aula il maresciallo Ennio Sebastiani, all’epoca comandante del nucleo operativo della compagnia di Ivrea, «tentarono di bluffare. Sapevamo che l’accesso era consentito da una porta segreta che si apriva solo con un telecomando. Quando ordinammo di consegnarcelo ci diedero quello di un televisore.»

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Tutt’oggi, conferma Aconito, esiste un efficace sistema di sicurezza interna: «Le informazioni riservate vengono raccolte esclusivamente su chiavette usb. Se suona l’allarme, prima che chiunque arrivi dal cancello agli uffici, ci vogliono dieci minuti. C’è tutto il tempo di farle sparire nei boschi, e così nella memoria dei computer non resta più niente». Ad allertare le autorità, come spiega Luigi Berzano8 nel suo libro sul culto della Valchiusella,9 era stato, nel 1992, «un ex damanhuriano, al termine di una vertenza economica con Damanhur per il mancato riconoscimento di servizi resi alla comunità». Si trattava di Filippo Cerutti, un fuoriuscito che però aveva visto costruire la prima parte della struttura.10 Quindi le forze dell’ordine ormai sapevano che questa costruzione abusiva esisteva, ma a causa di quella lunga e consolidata abitudine alla riservatezza dei damanhuriani, non potevano avere idea di dove fossero celate le vie d’accesso al Tempio. E come avrebbero potuto? Erano nascoste in un’insospettabile capanna di legno addossata alla collina. Il 3 luglio di quell’anno gli uomini in divisa tornarono a bussare alle porte dei damanhuriani. Un evento «profeticamente» previsto da Airaudi la sera prima, nel corso di un incontro coi fedeli: «Durante un momento pubblico in piazza dello Studio, Oberto, rispondendo a una domanda di Gabbiano, aveva detto che “solo un qualche fatto di grossa portata entro il giorno dopo avrebbe potuto permettere il buon proseguimento della fase di nascita del Popolo”».11 A guidare la carica l’allora procuratore della Repubblica di Ivrea Bruno Tinti, seguito da alcuni carabinieri. Così riferisce la storia Esperide Ananas, la loro portavoce: «Armati e accompagnati da artificieri, i carabinieri arrivarono il 3 luglio 199212 alle sette del mattino, accompagnati dal procuratore di Ivrea, che aveva ordinato l’incursione. La polizia minacciò di fare saltare in aria la montagna se i damanhuriani non avessero rivelato l’accesso al loro Tempio segreto. Oberto Airaudi, il fondatore di Damanhur, e Cormorano Sicomoro decisero di aprire la porta del Tempio al procuratore e a tre ufficiali dei carabinieri. Un quarto li seguì all’interno con una telecamera per riprendere la visita. Un’ora più tardi, gli uomini che uscirono dalla montagna erano tutti profondamente commossi e toccati dalla bellezza di cui erano stati i primi testimoni esterni. Il procuratore poggiò una mano sulla spalla di Oberto Airaudi e disse semplicemente “dobbiamo fare qualcosa per salvare il Tempio”. Il 9 ottobre 1992 Damanhur tenne la sua prima conferenza stampa per annunciare l’esistenza dei Templi dell’Umanità e la sera dopo immagini del Tempio vennero trasmesse in esclusiva su un canale televisivo nazionale». Pur «commosso», Bruno Tinti constatò l’assenza dei permessi e quindi contestò il reato di abuso edilizio, con conseguente sequestro del tempio. A

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Damanhur però, come vedremo, ci sarebbe tornato: non tutte le amicizie iniziano col piede giusto. «Il nostro vero scopo» diceva Airaudi a «La Stampa» «è soprattutto quello di far conoscere al mondo un’opera straordinaria.»13 Ma quando Airaudi parlava di «mondo», in quel momento stava pensando alla politica italiana. Locale, ma soprattutto nazionale. Tanto più che sull’onda della «scoperta» – scrive Berzano – «la Comunità montana Valchiusella sentenziò che il Tempio dovrà essere distrutto». L’altro nemico, ancora più pericoloso, era evidentemente la Chiesa cattolica, la quale – sostiene la portavoce – «cominciò a esercitare pressione sulle autorità locali affinché la soluzione legale non venisse mai trovata e il Tempio fosse distrutto, oppure trasformato in attrazione turistica». A onor del vero, come abbiamo visto, a trasformarlo in una proficua attrazione turistica ci avrebbero pensato i vertici di Damanhur. Nemici alle porte o no, Airaudi e i suoi avevano comunque avuto tutto il tempo per prepararsi a dovere: era venuto il momento di mettere in moto la macchina lobbistica, di far pesare i propri voti,14 la propria economia15 (fecero anche il gesto di versare circa sette milioni di lire16 come acconto modesto per una possibile sanatoria che all’epoca si stimava intorno ai cento milioni).17 Nonché di sfoderare tutta la loro magia.18 «Iniziò così un’estenuante battaglia per salvare questo edificio sacro» racconta Ananas. «I damanhuriani lanciarono una campagna mondiale, raccogliendo oltre centomila firme in Italia e da un numero sempre maggiore di gruppi di sostenitori all’estero [raccolta largamente incentivata da una gara che prevedeva come primo premio un quadro dipinto da Oberto e quattro tome dal loro caseificio, NdA].19 Giornalisti e televisioni di tutto il mondo vennero invitati a visitare le sale sotterranee, per rendersi conto della meraviglia spirituale e artistica che i damanhuriani avevano creato e per diffonderne la conoscenza su tutto il pianeta. Anche autorità del mondo della cultura e della politica vennero portate in visita perché appoggiassero la campagna per salvare questa opera d’arte collettiva.» E in effetti da allora iniziò una lunga passerella di politici: tra i primi a fare capolino nel Canavese, ricorda Aconito, il futuro consigliere regionale forzista Enzo Ghigo,20 eletto nel 1994 e nel 1995 asceso allo scranno di governatore piemontese.21 I rapporti con Ghigo, però, andranno allentandosi col tempo (tanto che poi, nel 2004, a Damanhur si parlava di «riprendere i contatti con lui»).22 In quel periodo a Damanhur si fece vedere anche Carlo Ripa di Meana, ex ministro dell’Ambiente, allora coordinatore nazionale dei Verdi, che ci tenne a visitare il tempio e che il giorno dopo avrebbe subito rilasciato un comunicato in cui esprimeva «solidarietà verso esperienze di avanguardia

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di comunità e appoggio a favore della preservazione del Tempio dell’Uomo da ogni speculazione».23 «Anche Vittorio Sgarbi, che è stato ospite qui a Damanhur, è rimasto affascinato dal nostro Tempio» ricorda Airaudi.24 Il critico d’arte, allora parlamentare, sarebbe stato fra i primi promotori della salvezza del Tempio: «Quando lo visitò rimase a bocca aperta» raccontavano i pr ai giornalisti, «ci aveva promesso che avrebbe fatto tutto il possibile per il nostro tempio sotterraneo. Se fosse stato per lui, a quest’ora sarebbe già inserito a pieno titolo nell’elenco delle opere d’arte che ci sono in Italia.» L’incontro iniziale di Sgarbi con i cosiddetti «esponenti del Dipartimento esteri» – cioè gli inviati damanhuriani nel mondo esterno – così come la sua successiva visita al Tempio, erano stati sollecitati da una lettera25 del deputato leghista piemontese Pier Corrado Salino, che insieme al suo collega di partito, amico e conterraneo, il senatore Bruno Matteja,26 in quel periodo per Damanhur si sono spesi più di chiunque altro. Tanto che Airaudi arriva a dichiarare apertamente che «dalla nostra parte ora ci sono i parlamentari canavesani Matteja e Salino, che faranno da tramite tra noi e il governo».27 Matteja, per esempio, era protettivamente presente quando i delegati damanhuriani contestarono in prefettura28 «alcuni comportamenti» (men che favorevoli) degli enti locali. E dal canto suo l’onorevole Salino si diede da fare ospitando nel castello di Mazzè un gruppo di colleghi parlamentari leghisti che volevano visitare il tempio.29 Puntare sulla politica, per Falco, avrebbe dato i suoi frutti. E alla fine non gli toccò sborsare neanche una lira allo Stato italiano. La legge Galasso per la tutela dei beni naturalistici e ambientali,30 ossia quella che Airaudi era stato accusato di aver violato,31 fu direttamente aggirata in Parlamento. Dove Matteja riuscì a tirar fuori dal cappello – con una pionieristica operazione di legiferazione-su-misura che oggi non stupirebbe più nessuno – un «emendamento Damanhur», inserendolo nel decreto legge del condono edilizio (non prima, però, di averlo faxato32 per conoscenza ai damanhuriani). All’articolo 10 si poteva leggere che la sanatoria era prevista per «opere sotterranee di particolare pregio artistico e architettonico, superiori ai settecentocinquanta metri cubi» – caratteristiche a cui, in tutta Italia, corrispondeva soltanto il cosiddetto «Tempio dell’Uomo».33 Matteja in questo fu spalleggiato dal collega e vicino di casa Giancarlo Tapparo, nonché dal progressista Fausto Giovannelli, che in aula fecero entrambi interventi (bipartisan) a favore del tempio.34 Un assist, infine, gli arrivò niente meno che dalla sovrintendenza alle Belle arti della Regione Piemonte, i cui funzionari (perfettamente in linea con lo Sgarbi-pensiero) sponsorizzarono ufficialmente la causa presso il ministero dei Beni culturali. «È un’opera d’arte, che va tutelata [...] non va distrutta.

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Perché è testimonianza di un gruppo che ha saputo dare veste artistica alle sue idee» sostiene l’architetto Daniela Biancolini della sovrintendenza ai Beni architettonici nell’inoltrare la sua «richiesta di salvaguardia» al ministero. «Lo ritengo un’opera d’arte collettiva di autori viventi [...] riconoscendo l’indubbio valor di un bene di dimensioni immense, che attinge a un repertorio artistico con riferimenti all’intera memoria collettiva del bacino mediterraneo, ricco di richiami all’arte cretese, micenea, etrusca e romana [...] Solo nei film di Indiana Jones» osa la Biancolini «si è visto qualche cosa del genere».35 L’azzardo paga. In tempi brevi, il 27 aprile 1996, a condono ottenuto – riferisce Berzano – «il pretore di Ivrea decreta il dissequestro del Tempio affidandone la custodia ai damanhuriani». Il Tempio, e Airaudi,36 erano salvi grazie ai loro appoggi politici. Il quotidiano inglese «Daily Mail» scriverà che fu lo stesso governo italiano a coniare la definizione di «ottava meraviglia del mondo»: difficile da credere, ma è questo lo spin con cui i damanhuriani ti piazzano il loro prodotto, e lo slogan da allora ha sempre funzionato, continuando a rimbalzare in quasi ogni articolo scritto sul loro conto. «In quegli anni» conclude Aconito «il pendolo del sostegno politico damanhuriano oscillava dalle parti della destra forzista e leghista.» Ma le cose stavano cambiando: la sempre più marcata vocazione ambientalista che aveva portato Damanhur a tingere i propri villaggi di verde – e a presentarsi come una ecosocietà – li avrebbe presto sospinti a sinistra. 1 «Il primo piccone colpì la roccia in una calda notte di agosto. Era una sera di sabato, nel 1978. Oberto Airaudi e un’altra decina di damanhuriani sedevano intorno al fuoco, in uno spazio dietro la casa a ridosso della collina di Vidracco. Cadde una stella nel cielo, grande e luminosa, che lasciò dietro di sé una striscia ben visibile di polvere dorata che ricadde sulla Terra. Tutti pensarono che fosse un buon segno, e Oberto disse che in effetti indicava il momento perfetto per iniziare a scavare un Tempio, come quelli che da migliaia di anni non esistevano più. Si sarebbe fatto tutto grazie alla volontà e al lavoro delle mani... Increduli ma entusiasti, due dei presenti iniziarono subito a scolpire la montagna con martello e piccone e continuarono con fervore tutta la notte. Al mattino altri giunsero a dar loro il cambio e da quel momento i turni continuarono ininterrotti a gruppetti, quattro ore alla volta per quindici giorni. Poi divennero meno fitti ma non si fermarono mai: tutti partecipavano con grande energia. Scavare dentro la montagna aveva un valore profondo, equivaleva a scavare dentro di sé. Dopo un paio di mesi, si giunse al termine della prima tappa: si era costruita una nicchia ricavata nel fianco del corridoio, dove andare a raccogliersi nel contatto con la terra, in pratiche di meditazione. Con l’acquisto di due martelli elettrici due squadre

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contrapposte cominciarono a procedere a semicerchio, seguendo calcoli che fino all’ultimo si temette fossero sbagliati. Ma non lo erano e il momento dell’incontro, al centro di quello che sarebbe diventato il Tempio Azzurro, fu celebrato con euforia. E dopo i festeggiamenti i lavori ripresero ancora più febbrili...» Lo si può leggere sul sito del www.tempio.it: il brano è tratto da I Templi dell’Umanità di Esperide Ananas, pubblicato nel 2006 dalla casa editrice Val Ra Damanhur. 2Chris Cuomo, Alberto Orso e Imaeyen Ibanga, Mystery Behind the Damanhur Temples, Abc News, 31 gennaio 2008. 3 Scrive sempre la signora Ananas (I Templi dell’Umanità, cit.): «Per lungo tempo dopo l’inizio degli scavi del Tempio nell’estate del 1978, il progetto rimase riservato esclusivamente agli artisti, artigiani, muratori impegnati direttamente nella costruzione. Persino molti degli appartenenti alla comunità non ne sapevano nulla. Per i damanhuriani che condividevano il segreto, era chiaro che costruire queste grandi sale sotterranee, arricchite da dipinti, sculture, mosaici e vetrate artistiche era un’azione rivoluzionaria e allo stesso tempo essenziale, ma in Piemonte non c’erano leggi che regolamentassero costruzioni sotterranee, né autorità a cui poter chiedere il permesso. I damanhuriani si rifiutarono di abbandonare il loro grande sogno per mere ragioni burocratiche, e così il lavoro di scavo proseguì silenziosamente, giorno e notte, per i successivi sedici anni». 4 La responsabile delle cosiddette «relazioni internazionali» (cioè tutto ciò che si trova al di fuori dei confini di Damanhur). 5 Maurizio Lupo, Lettera al ministro: «L’edificio sotterraneo non va demolito», «La Stampa», 17 maggio 1994. 6 Prosegue il racconto di Esperide Ananas: «Ricorda l’avvocato di Damanhur, Cormorano Sicomoro, che un mattino presto, nell’ottobre del 1991, venne svegliato da uomini in divisa, armati di pistole e mitragliette. Senza rispondere alle domande poste da Cormorano, il gruppo di militari e officiali di polizia

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ordinarono [sic] che con la sua famiglia si spostasse dalla casa alla piazza lì vicino. Lì incontrarono i visi confusi e spaventati dei loro fratelli damanhuriani. Ovunque guardassero, c’erano ufficiali armati che si muovevano concitati, conducendo perquisizioni e urlando ordini. Avevano con loro cani antidroga addestrati, e tre elicotteri muniti di telecamere sorvolavano la zona. I damanhuriani si chiedevano come mai la loro pacifica comunità fosse diventata l’obiettivo di quella che pareva proprio un’incursione in grande stile. Cormorano temeva che la polizia avesse scoperto il Tempio. Cormorano ricorda che gli ufficiali si presentarono con un mandato da parte della magistratura che attestava una presunta evasione fiscale di cinquanta milioni di lire (circa ventiseimila euro) a carico di due cooperative damanhuriane. Ma sapeva bene che per un’evasione fiscale non veniva mai utilizzato un tale dispiegamento di forze. Tra le forze dell’ordine intervenute c’erano corpi specializzati in operazioni ad alto rischio, richiamati nel cuore della notte da tutto il Nord Italia e preparati per affrontare una situazione molto pericolosa. Coboldo Melo, addetto stampa di Damanhur in quegli anni, chiese loro la vera ragione del raid, ma gli venne risposto che stavano solo eseguendo degli ordini. Coboldo, che ora trova umoristica la gratuità dell’operazione, ricorda che, col passare delle ore, le forze dell’ordine diventarono sempre più disilluse, stanche e infine arrabbiate per essere state buttate giù dal letto prima dell’alba per essere mandate nella comunità di Damanhur dove non c’era assolutamente nulla di pericoloso. Obbligati ad aspettare senza nulla da fare, i soldati vennero rifocillati dagli stessi damanhuriani. Coboldo ricorda che “l’intrusione ci costò una fortuna in caffè”». 7 Lodovico Poletto, «La Stampa», 28 settembre 1995. 8 Luigi Berzano, ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi al dipartimento di Scienze sociali dell’Università degli Studi di Torino, è lo stesso chiamato a parlare, come vedremo, all’inaugurazione della chiesa romana di Scientology. 9 Luigi Berzano, Damanhur popolo e comunità, Editrici ElleDiCi, Rivoli 1998.

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10 Lodovico Poletto, Ruspe nel cuore di Damanhur, «La Stampa», 28 febbraio 1993. 11]Tappe storiche salvezza Tempio, «Qui Damanhur Quotidiano», 3 luglio XXXI. Il numero romano fa riferimento al trentunesimo anno di vita di Damanhur, secondo il loro calendario. D’ora in avanti citato semplicemente come Tappe storiche. 12 Data da allora santificata come «festa del ringraziamento» damanhuriano. 13]Domande a Oberto Airandi fondatore. «Il mio unico errore? Fidarmi del commercialista», «La Stampa», 23 maggio 2010. 14 Sulla capacità di Damanhur di adoperare il proprio peso politico nelle elezioni amministrative della valle si potrà leggere più avanti. 15 Risalgono all’epoca le prime cifre diffuse ai giornalisti, ostentando un fatturato complessivo delle attività damanhuriane di circa dieci miliardi di lire l’anno. 16 «Tappe storiche», 21 dicembre 1994. 17 Lodovico Poletto, Baldissero, versati sette milioni per salvare il «Tempio dell’Uomo», «La Stampa», 22 dicembre 1994. 18 «2 febbraio 1993 – Possibilità di utilizzare il pensiero magico di Popolo a difesa del Tempio» (Tappe storiche).

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19]Tappe storiche. 20 Oggi senatore pidiellino. 21 «10 settembre 1995 – Nelle prossime settimane incontri a Torino. La Regione per il Tempio? Impegno del Presidente Enzo Ghigo» (Tappe storiche). 22 Elefantina Genziana, Contatti politici, convegni, «Qui Damanhur Quotidiano», 23 maggio 2004. 23]Tappe storiche (anche se non è ben chiaro di quale speculazione si tratti). 24 Rino Di Stefano, Il tempio nella roccia cerca condono, «Il Giornale», 3 ottobre 1994. 25 11 giugno 1994, Tappe storiche. 26 Salino e Matteja erano talmente sulla stessa lunghezza d’onda che nell’ottobre del 1994 lasciarono entrambi la Lega per passare contemporaneamente nel Gruppo misto. (Anche) all’epoca c’era chi ipotizzava la mano di Berlusconi dietro a queste migrazioni. Come si legge sul «Corriere della Sera»: «Nella lettera scritta a Irene Pivetti e a Carlo Scognamiglio essi accusano apertamente il segretario piemontese Gipo Farassino di comportamento “truffaldino” durante l’ultimo congresso perché avrebbe impedito loro di partecipare ai lavori dell’assemblea e conseguentemente di votare. “Quando ho saputo che questi due rompicoglioni se n’erano andati” dice Farassino al telefono da Strasburgo “ho stappato una

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bottiglia di champagne.” E aggiunge, l’ex chansonnier, che Salino e Matteja non hanno votato al congresso perché così aveva deciso lo stesso congresso. I due infatti, secondo Farassino, “erano inadempienti poiché da quando erano stati eletti non avevano mai versato la quota mensile di tre milioni come ogni parlamentare è obbligato a fare e quindi, a norma di statuto, non avevano diritto a partecipare”. In realtà, suggerisce Farassino, “dietro di loro potrebbe esserci una manovra di Forza Italia”» (Lorenzo Fuccaro, Bossi allarmato: ci vogliono sgretolare, «Corriere della Sera», 20 ottobre 1994). 27]Si chiede il condono edilizio, «La Stampa», 6 ottobre 1994. Vedi anche Tappe storiche alla voce del 6 ottobre 1994: qui i due parlamentari vengono presentati come «intermediari con il governo italiano per il Tempio dell’Uomo». 28]Tappe storiche, 18 luglio 1994. 29]Tappe storiche, 31 luglio 1994. 30 La legge 431 dell’8 agosto 1985, nota come legge Galasso (dal nome del politico e storico Giuseppe Galasso), ha introdotto a livello normativo una serie di tutele sui beni paesaggistici e ambientali. È la prima normativa organica per la tutela di tali beni in Italia, e si preoccupa di classificare le bellezze naturalistiche in base alle loro caratteristiche peculiari suddividendole per classi morfologiche. L’azione di tutela all’interno delle aree individuate secondo le direttive della legislatura non esclude totalmente l’attività edificatoria, ma la sottopone all’approvazione degli enti preposti alla tutela, nonché al ministero del Beni culturali e ambientali. Nel caso di abusi non è inoltre prevista la possibilità di ottenere concessioni edilizie in sanatoria, unitamente alle sanzioni pecuniarie è previsto il ripristino dello stato dei luoghi a carico di colui che commette l’abuso. Le regioni vengono obbligate alla redazione di un Piano paesistico che tuteli il territorio e le sue bellezze, in particolare i piani devono porre la totale inedificabilità in: aree alpine al di sopra dei milleseicento metri, aree appenniniche al di sopra dei milleduecento metri, a distanza di trecento metri dalla riva di mari e fiumi e centocinquanta metri dalle sponde di fiumi e torrenti, sui vulcani, nelle paludi, in aree di interesse archeologico, università di agraria e aree per il rimboschimento o

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incendiate. Tutte le aree individuate dalla Galasso sono sottoposte alla giurisdizione demaniale. 31 L’accusa è dovuta alla costruzione del tempio in un’area sottoposta a vincolo idrogeologico. 32 «Tappe storiche», 7 febbraio 1995. 33 Lodovico Poletto, La rivincita del «dio Horus». Il tempio salvato dal condono, «La Stampa», 27 aprile 1996. 34 «3 gennaio 1996 – Discussione al Senato Italiano per l’emendamento relativo al Tempio dell’Uomo. Interventi a favore di Giovannelli, Matteja e Tapparo» («Tappe storiche»). 35 Maurizio Lupo, Lettera al ministro: «L’edificio sotterraneo non va demolito», «La Stampa», 17 maggio 1994. 36 «8 giugno 1996 – Ivrea: ultima udienza per il Tempio durata quattordici minuti. Damanhur: seconda vittoria. Assolto Oberto per “Non luogo a procedere”» (Tappe storiche). 7. Il Nemico alle porte di Damanhur

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I damanhuriani hanno un’idea precisa – metafisica, ma molto chiara – su come definire chi non è d’accordo con loro: il Nemico. Cioè la «Forza che si oppone alla libera evoluzione dell’Uomo nell’Universo [...] presenza insidiosa fuori e dentro di noi». Chi è il Nemico? Colui che sostiene una verità «che nulla ha a che fare con una visione illuminata [...]. Questo egoismo, questa mancanza di consapevolezza e la conseguente visione limitata della realtà sfociano in un atteggiamento distruttivo: ecco il Nemico».1 Nemico era lo Stato che minacciava la sacralità di quell’enorme abuso edilizio che è il Tempio dell’Uomo. Nemici sono i giornalisti che fanno informazione senza lasciarsi distrarre dallo scintillar degli ori e dei marmi, o dai concertini di musica vegetale. Ma soprattutto il Nemico per Damanhur sono i fuoriusciti che chiedono solo quanto spetta loro, cioè giustizia. O più semplicemente parlano: per il diritto di raccontare la propria storia e la propria sofferenza, oppure per il dovere di avvisare il pellegrino di passaggio in Valchiusella che certe «illuminazioni» possono ingannare. Che in certi labirinti sotterranei ci si perde, e poi è difficile venirne fuori. «Un altro diritto fondamentale dei cittadini sarebbe quello di uscire da Damanhur, eppure Stambecco [Silvio Palombo, addetto stampa, NdA] informa che questo è un diritto difficile da esercitare perché non è più dialogante come per l’entrata, e infatti chi desiderasse uscire preferirebbe quasi sempre non dialogare negando tutta l’esperienza e possibilmente lamentandosi».2 Qui di seguito leggerete quattro storie di persone che da Damanhur sono scappate. Le abbiamo incontrate nel corso dell’estate 2010, ma non possiamo entrare più nello specifico per proteggere le loro identità: sarà un caso, ma hanno tutte paura di ritorsioni. Il fatto è che per i damanhuriani la loro fuga li rende «non dialoganti», ergo aggressori. La colpa? Il desiderio di riprendere il controllo sulla propria vita. Chimera «In tanti mi hanno chiesto come abbia mai potuto ritrovarmi coinvolto in questo gruppo. Scoprii Damanhur verso la metà degli anni Novanta, pubblicizzata in un articolo come una comunità di artisti ai piedi delle Alpi. Lessi del loro fantastico tempio sotterraneo, e ne fui colpito. Volevo vederlo coi miei occhi. Mi sentivo come se avessi scoperto il mio destino. Volevo andarci a vivere e lavorare, e mi trascinai dietro la mia compagna e nostro figlio. Vendemmo la nostra casa e ci mantenemmo per un po’, entusiasti all’idea di vivere in una nuova forma di società etica, anche se in realtà nessuno dei due poteva dire di credere nella New Age. Però l’esoterismo

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damanhuriano mi affascinava, con la sua Scuola di meditazione, e la prospettiva di studiare antichi misteri: sembrava ne valesse la pena. «Così mi iscrissi, e dopo solo un anno decisi di comprare casa lì vicino. La Scuola m’instillò l’irrefrenabile desiderio di diventare un iniziato, cioè un cittadino damanhuriano a tempo pieno. Dopo due anni di condizionamento ero pronto a fare qualsiasi cosa, avrei rinunciato a tutto, pur di diventarlo. Cosa che feci. La mia compagna, che invece era riuscita a resistere alla loro feroce opera di proselitismo, mi lasciò per un altro: una conseguenza inevitabile del mio totale asservimento. Nella mia vita non c’era più spazio per alcuna relazione. L’unica cosa importante era diventare un cittadino di serie A, intraprendendo il cammino dell’iniziato. «Mi convinsero a donare la casa alla comunità: ai cittadini A non è concessa la proprietà privata, e tutti devono donare tutto. A eccezione di Falco. Mi assicurarono che se mai me ne fossi andato mi avrebbero restituito il valore della mia casa in quote della cooperativa immobiliare damanhuriana, la Peal, che poi avrei potuto liquidare. Così, ingenuamente, vendetti la mia casa alla cooperativa, e depositai i soldi con cui mi avevano pagato in un conto corrente bancario appositamente aperto. Dal quale li ritirai in tre tranche, per poi restituirglieli. Non battei ciglio e obbedii, convinto di aver appena compiuto un gesto nobile: del resto l’idea damanhuriana era quella di iniziare una nuova vita spirituale lasciandosi alle spalle i beni materiali per “rinascere”. «E io rinacqui... in quello stato di povertà che poi rappresenta la vera trappola del loro sistema. Vivendo con poco, cavandomela a stento, lavorando sette giorni su sette con uno stipendio minimo, senza premi, straordinari, giorni di malattia o vacanze. Le costanti richieste di donazioni mi alleggerivano di quel poco che restava del mio gruzzolo, insieme alle tasse interne, alle tariffe dei corsi obbligatori della Scuola di meditazione, all’acquisto delle self... Non c’era mai fine alle richieste di denaro. «Non mi ci volle molto prima di trovarmi pesantemente indebitato, senza neanche i soldi per partire e andare a trovare i miei. Ero esausto: giorno e notte il mio tempo veniva consumato dal lavoro damanhuriano, dal Nucleo, dalla Scuola e da tante altre attività “volontarie” obbligatorie, nonché dai lunghi riti esoterici. «Non avevo neanche il tempo per curare i rapporti con mio figlio, che la mia compagna aveva lasciato con me. Per cui lui fu cresciuto dal Nucleo. Del resto come genitore a Damanhur, per di più single, avevo ben poca autorità sulla sua educazione: il gruppo decideva tutto. La vita di Nucleo era dura. Convivere insieme a quindici-venti persone non è proprio la condizione ideale per l’armonia o l’illuminazione. Il regime alimentare era povero. Mi sforzavo

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di vestire mio figlio e pagare per i suoi studi, mentre lui faceva fatica a capire per quale ragione dovessimo vivere in quel modo. Lui non lo sopportava. Ma per me era un cammino spirituale, e non m’importava di nient’altro. «Ci vollero più di dieci anni prima che mi svegliassi. A darmi una scossa fu la reazione dittatoriale di Falco, che punì chi aveva ignorato le sue indicazioni nell’elezione dei Re guida. Solo allora riuscii a guardare oltre il velo, e presi in considerazione dubbi che avevo ignorato per anni. Mi resi conto di che cosa fosse veramente la comunità di cui ero entrato a far parte: una setta terribilmente sofisticata. Coi suoi viaggi nel tempo, la sua selfica, i contatti alieni, i poteri sovrannaturali di Falco. Tutto l’illusionismo. Ne fui devastato. Non riuscivo proprio a capire come ci fossi cascato, ma ero a terra. E passò un anno intero prima che trovassi la forza di fare le valigie. «La mia partenza fu accuratamente pianificata. Me ne andai nel giro di poche ore. Damanhur non è quel genere di posto dove ti trattieni dopo aver dichiarato pubblicamente il tuo dissenso nei confronti del regime. Per allontanarmi psicologicamente, invece, ci misi molto più tempo. Non so se sarò mai in grado di scrollarmi del tutto di dosso la sua influenza. Per molti mesi dopo la fuga ho sofferto la sindrome da stress post-traumatico. D’altronde i miei ultimi mesi nella comunità erano stati segnati da convocazioni repentine, umiliazioni pubbliche e lunghi interrogatori da parte dei capi della Scuola di meditazione, che mi accusavano di tradimento, e di esser passato dalla parte del Nemico. Cioè dei fuoriusciti. «Essere umiliati può significare tante cose, le alternative non mancano. C’era lui, Airaudi, che ti faceva sembrare pubblicamente uno stupido alle serate, se solo osavi fare una domanda che lui non riteneva degna di esser posta. Bisogna capire che tutti lì dentro lo idolatrano, e che ogni sua parola di disapprovazione viene percepita in maniera molto acuta, soprattutto se pronunciata davanti agli altri. Perché Falco non ha mai torto, ma tu sì. E lui è in grado di demolirti. «Se poi diventi famigerato per le tue posizioni critiche nei confronti del regime, allora vieni interrogato dal capo della Scuola di meditazione. Si tratta di interrogatori veri e propri che terrorizzano la gente quanto un’inquisizione, durante i quali viene presa nota di tutto ciò che dici. Verbali che Falco si leggerà. Quando vieni ammonito, poi, ti tocca indossare un nastro giallo come segno evidente a tutti del fatto che sei caduto in disgrazia. A quel punto il copione vuole che tu spieghi le tue “colpe” e ti scusi davanti all’intera Scuola di meditazione durante l’incontro del lunedì sera. Cosa che, ovviamente, ritarda il tuo cammino lungo il percorso esoterico. Visto da fuori può sembrare stupido, ma all’epoca c’ero ancora dentro, e ne fui molto ferito.

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«Per essere puniti non ci vuole molto. Basta arrivare in ritardo a un incontro, e ti tocca supplicare di fronte a tutti. A volte Falco minacciava di chiuderti nel Tempio, se eri in disaccordo con lui, e di farti uscire solo a problema risolto. Ma alla soggezione e all’umiliazione psicologica, ovviamente, si aggiungono le sanzioni: il lavoro cosiddetto volontario – che si somma a quello che già ti “spetta” – o le multe in denaro. Lì dentro ti tocca pagare anche se è tuo figlio a “sbagliare”. «Ormai sono passati anni da quando me ne sono andato. Ho ricostruito la mia vita dal niente. Mio figlio è cresciuto, ma è ancora arrabbiato con me. Comprensibilmente: abbiamo perso tutto.» Ariete «A Damanhur ci arrivi attraverso i corsi nei loro centri. Come quelli di ipnosi, durante i quali ti insegnano ad acquisire la fiducia totale: ti fanno cadere di spalle a occhi chiusi, fin quasi per terra, ma poi ti tengono da dietro. O quelli di armonizzazione, una specie di yoga reinventato. O ancora la pranoterapia nei centri Horus. Ma soprattutto quando ti propongono il mitico “corso di meditazione”: un corso che “dura una vita” e che prelude alla proposta di entrare in Damanhur. Ti viene presentato come l’ultima occasione per conoscere la verità sulla natura dell’Uomo e dell’Universo! Un vero e proprio corso di magia: è così che te lo propinano. Oggi ho capito che quando si tratta di magia in generale è meglio starne molto alla larga, ma all’epoca aveva ai miei occhi un certo fascino esotico, e non m’incuteva alcun timore. D’altronde ti facevano sentire come in famiglia, ti riempivano di attenzioni, ti ascoltavano. Ti sentivi “accolto”. Però ti chiedevano sempre di fare qualcosa, fosse anche solo volantinaggio. Se poi non lo facevi partivano i sottili ricatti psicologici: che fai, approfitti di ciò che ti fa star bene e non dai niente in cambio? La sudditanza nasce così, coi sensi di colpa. «Il corso si svolgeva con cadenza obbligatoria settimanale, leggevamo le cosiddette “dispense”, che altro non erano se non le sbobinature delle serate tenute da Airaudi. Qui ti dicono che il Nemico è dentro di noi, e che bisogna combatterlo fino all’annientamento, perché il Nemico vuole distruggere l’umanità. Il Nemico può essere chiunque, anche l’abitante del paese vicino che non ha i damanhuriani in simpatia. O l’adepto che ti sta a fianco: la delazione s’impara presto. E se vai via da Damanhur perdi l’anima, e passi dalla parte del Nemico. Un terrore che ti viene instillato costantemente. «Su quanto veniva detto durante questi incontri eravamo obbligati a mantenere il più assoluto segreto, agli inizi persino fra i partecipanti stessi al corso, perché il Nemico ti ascoltava. Tardare alle lezioni, alle quali ci si

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preparava col digiuno, significava esser ammoniti con delle lettere gialle: “Medita su questo grave danno che hai arrecato”. Vieni estromesso, ti senti una merda. Poi ti toccano le scuse pubbliche, dopodiché sei riammesso. Mancare è impensabile: se ti assenti sei fuori. Col sole o con la pioggia, devi esserci. «Poi a un certo punto del corso ti dicono che per andare avanti è necessario fare una scelta: rinunciare e rinnegare il battesimo o qualsiasi altro sacramento di qualunque altra religione. Ti spiegano che il battesimo rappresenta un legame magico con una divinità, e per Damanhur tutte le divinità sono “fuori controllo”: invece di aiutare l’uomo nella sua evoluzione ne prosciugano la vita e lo mantengono in schiavitù. L’unica eccezione era questo Horus, una divinità “stellare” da sempre amica dell’uomo, risvegliata dall’Airaudi stesso, della quale lui è l’incarnato portatore. Questo, insomma, è lo spartiacque: chi ha il coraggio, o meglio la stupidità, di accettare il compromesso va avanti. Oggi, però, mi pare di aver capito che il passaggio sia stato ammorbidito, per evitare di perdersi troppa gente per strada. Una volta era: o dentro o fuori, adesso sono stati inventati i cosiddetti livelli di cittadinanza. «La preparazione include i “ritiri” nei boschi, dove si fanno pulizie, si tagliano gli alberi, lavori manuali, cose così. Lo scopo ufficiale? Aggregare le persone, farle conoscere. Poi ci sono le lezioni, mirate a interrogarti sul tuo futuro. Se la prospettiva ti piace, allora si apre la possibilità “remota” di partecipare a questo “grande sogno collettivo”: “Non credo che tu abbia la stoffa, non credo che tu sia in grado”, ti sfidano. Quindi bisogna prepararsi bene, anche perché “si viene solo per portare, non per prendere”! Quando entri in Damanhur avverti subito una pressione data dalla rigidità della struttura, dall’intensa mole di lavoro. Alle tue domande non ci sono mai risposte: “Capirai più avanti”. Così ogni dubbio viene evaso in nome del fatto che Damanhur è più grande di te. E anche se capisci che qualcosa non va non vuoi riconoscere il tuo errore, e speri che la cosa migliorerà. «In seguito all’abiura del battesimo, si passa al Rito delle tavolette: vengono preparate delle tavole d’argilla con scritto sopra il nome, cognome e data di nascita delle persone, tutto sotto l’effige di Horus. Segue un rito con il fuoco intorno a un cerchio, dove avviene la “presentazione” delle persone a Horus. Poi ti portano nel Tempio di preghiera, uno dei tanti luoghi dove si pratica il culto, e qui avviene la vera e propria iniziazione. Ti si presenta il responsabile di meditazione, che dice: “Tu ora sei ai Misteri di Horus iniziato”, e a questa formula si risponde con un “Così sia”. Poi bisogna mettere una triplice firma su un libro, e su questo e sulla tavoletta si versa qualche goccia della cera di una candela accesa. Inizia così il distacco psicologico dalle proprie tradizioni.

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«Ti danno una veste bianca, e comincia il tuo percorso. Quando frequentavo io, dopo l’iniziazione c’era il passo successivo: entrare in Damanhur. La realtà comunitaria che ti facevano vedere in sé non era esaltante, ma le pressioni erano tante: ti dicevano che non si poteva sprecare questa occasione servita su un piatto d’argento (parole loro). Che dovevamo impegnarci a costruire una società nuova, che si faceva affidamento su di noi, sulle nostre fresche energie. Che a Damanhur ci aspettavano, che ci pensavano, che ci volevano bene. È il primo passo della tua sconfitta morale, cosa che ho vissuto sulla mia pelle. «Il percorso ha diversi gradi, ciascuno con una veste e una cintura di colori diversi. E a ogni passaggio corrisponde un rito. Più ti adegui alle direttive comunitarie, più fai Terrazzatura, più ti dai da fare, meno rompi le balle... Insomma, più ci si dimentica di sé, meglio è per la propria carriera iniziatica. Non bisogna mai criticare Damanhur. Contemporaneamente al percorso esoterico, c’è quello di appartenenza al “Popolo Damanhur”, a sua volta caratterizzato da bracciali di lana o cotone colorati. Anche qui il percorso dipende da quanto si va bene nel “sociale”, da quanto si fa i bravi nel Nucleo, se si fanno i turni. Il braccialetto nero, in particolare, si indossava a turno, e aveva il significato di una “protezione magica” di Damanhur. «Magico è anche l’approccio alla politica. Si preparano delle sfere di vetro riempite di liquido, la chiamano pratica sferale, e attraverso queste sfere si “agganciano” le persone su cui Airaudi esercita la propria “influenza psichica”. Questo rito riguarda gli esiti elettorali, gli aiuti e la protezione per Damanhur, i programmi politici. «Una volta l’anno poi ti toccano le “cabine selfiche”, naturalmente obbligatorie per mantenere il tuo livello di cittadinanza: si entra dentro queste cabine contornate da spirali collegate a un generatore. È come trovarsi davanti a una grossa bobina, si sente un leggero “friccichìo”, o anche niente, e poi si esce. Fatto questo, Airaudi dopo qualche giorno dice che il popolo è migliorato. «Poi ci sono i vari corsi tenuti da Airaudi dentro Damanhur, almeno uno all’anno. Obbligatori, va da sé. Nel senso che se uno non ha proprio voglia di farlo, viene abbassato di bracciale, non passa di grado e così via. Chi non fa i corsi ritrova addirittura il proprio nome segnalato sul quotidiano, nelle varie bacheche, e stigmatizzato pubblicamente da Airaudi durante le sue “serate”. «Uno dei più avvilenti era forse il corso sulle emozioni. Si viene portati nel bosco di notte, si viene messi l’uno davanti all’altro, e si deve urlare in faccia all’altra persona tutte le cose che non piacciono di noi, le cose che vogliamo cambiare. A Damanhur il concetto di base è che bisogna cambiare se stessi,

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ma la direzione è quella che ti impongono dall’esterno, non quella che senti dentro di te. Quella sera ne ho sentite di tutti i colori. Ero imbarazzato, mi ricordo che scoppiai persino a ridere, meno male che la persona davanti a me non era un integralista come tanti altri. Ci siamo messi a ridere a crepapelle, e abbiamo iniziato a urlare le cose più assurde. Naturalmente ci hanno sentiti, e immediatamente cazziati. La fase finale del corso era un lungo e noioso pippone sulle emozioni. Ma la cosa veramente tremenda era che ti veniva chiesto di strappare le radici di una tenera piantina che ti era stata data all’inizio delle lezioni, e che avevi dovuto accudire con amore. Se non le strappavi in una frazione di secondo non avevi passato il corso e lo dovevi rifare. C’era gente con me che lo stava ripetendo per la terza volta, perché non ce la faceva proprio a strappare quelle radici. Io lo feci subito: ormai ero un robot. «E poi, come dimenticare il corso dei “sensi interni”? A coronamento del corso ti portavano nel tempio sotterraneo perché Airaudi ti mettesse delle “protesi astrali” che avrebbero dovuto migliorare la tua percezione delle realtà interiori, ricostruendo così la forma antica dell’uomo con la u maiuscola. Si chiamavano “astrali” perché in realtà non ti mettevano niente addosso, aria fritta. In teoria, invece, indossavi un “gonnellino energetico”, delle “ali”, delle vibrisse, cioè i baffi dei gatti, una coda, e un “sensore” al dito medio. Ciascuna delle quali aveva un costo. Tu dovevi solo pagare, e poi startene nella sala di Horus, quella che oggi chiamano “dell’aria”, dove arrivava Super Airaudi che ti faceva fare due respirazioni e diceva che ti stava innestando quella protesi. Al che in teoria avremmo dovuto sentirci in salute, colmi di gioia e felicità. A me non sembrava. «Ricordo infine il corso di “inseminazione aliena”, durante il quale chiedi ad Airaudi di farti “inseminare” con delle intelligenze aliene “di confine” che hanno fatto un contratto con lui e che hanno sete di esperienza nella dimensione umana. Noi potevamo ospitare per un certo tempo nel nostro corpo e nella nostra coscienza. Feci anche questo, e mi ricordo gli incubi: sognai che mi si era attaccata alla gamba una enorme sanguisuga che riuscii a strapparmi di dosso con l’aiuto di mio padre. Il giorno dopo stetti malissimo fisicamente, e non ne volli più sapere di alieni. Ormai era entrato in me quel disgusto, quella stanchezza, quella voglia d’altro. Di dire basta a quella storia. «Il fatto è che attorno a me vedevo solo persone scontente, che sorridevano per obbligo, che vivevano per obbligo, che facevano tutto per obbligo, cercando di dare un significato alla propria scontentezza e sofferenza. Per obbligo, sì, ma anche per paura di guardarsi dentro e scoprire l’orrore. C’è chi ha avuto il coraggio di farlo e se n’è andato, e c’è chi è ancora lì. Ricordo che ci fu un momento, più d’uno, durante la mia permanenza in cui, consapevole della disfatta della mia vita, di una carriera compromessa, dell’annichilimento

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di tutti i miei interessi – che non fossero quelli eterodiretti da Damanhur – pensai più volte al suicidio. Non lo feci solo per non dare un ulteriore terribile dolore alla mia famiglia. Avrei voluto restituire loro quella serenità di cui li avevo privati con la mia scelta dissennata, così cominciai a coprirli di ogni attenzione. Ma non avevo mai denaro, e ogni volta che li vedevo avevo la disperazione negli occhi, e loro se ne accorgevano. Ad ogni incontro sentivo un fiume in piena e rischiavo sempre di scoppiare in un pianto senza fine. «Non so come feci, non lo so. Uscire dal labirinto di Damanhur è difficile: sei a corto di energie, ti senti sempre inadeguato. Forse l’unica ancora di salvezza fu esser riuscito di nascosto a conservare qualche rapporto con l’esterno. Una cosa proibitissima: il confronto con il mondo di fuori viene sempre vietato, e filtrato attraverso gli addetti ai rapporti con l’esterno. Ti “consigliano” addirittura dei corsi per imparare che cosa dire in presenza degli estranei. Anche i tuoi compagni ti vedono come un pericolo, se diventi un ponte con l’esterno, perché rischiano a loro volta pressioni, ammonimenti. È difficile trovare gli spazi per coltivare i contatti all’esterno: come damanhuriano devi stare sempre nel Nucleo, se manchi mezz’ora e non ti vedono iniziano a sospettare. Devi essere abile a giustificare tutto. «Fu così che pianificai la mia fuga. Se l’avessi preannunciato avrei subito un insopportabile strascico di interrogatori e pressioni psicologiche. Così non diedi a nessuno alcun motivo di sospetto, anzi negli ultimi mesi fui ancora più ligio. Mi ero messo in buona luce, ero disponibilissimo. «La cosa difficile fu tagliare i legami con i vecchi compagni. In compenso ogni tanto vedevo gli uomini della sicurezza damanhuriana girarmi intorno a casa. Quando uscii, però, sentii subito la sensazione dolcissima di essermi riappropriato della mia umanità e della bellezza di stare al mondo. Ossigeno. Lo choc di non avere più obblighi. Tanto tempo libero a disposizione, il lusso di gestire il mio denaro. Mi sentii come in iperventilazione. «Alla fine, insomma, mi scoprii pieno di risorse, di forza, e cominciai a perseguire ciò che sentivo, a lottare dentro di me per riappropriarmi di me stesso. Comincia a contrappormi alle loro regole, non avevo più paura. Di botto la paura scomparve e iniziai il mio lento cammino verso l’uscita.» Aconito «Ho conosciuto Damanhur alla fine della scuola superiore e, come tanti ragazzi della mia generazione, vivevo le contraddizioni di quell’epoca “di mezzo”: fine degli anni di piombo, era del consumismo più sfrenato, crisi delle ideologie. I figli dei fiori erano già storia, qualcuno ancora faceva il

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mitico viaggio in India, altri abbracciavano la professione di papà. A quell’epoca a vent’anni ci si affacciava al mondo degli adulti, ma a molti di noi quel mondo non piaceva. Così ho incontrato Damanhur, quasi per caso, nessuna storia speciale, attraverso il Centro Horus della mia città. Sembrava la risposta a tutte le domande. Sembrava di poter cambiare il mondo. Sembrava di poter costruire la città dei sogni. «Era l’inizio degli anni Ottanta, e Damanhur era poco più di un villaggetto di una trentina di persone. Nell’estate del 1982 se n’era appena andato un gruppo di persone, entrate in conflitto con il capo e così Airaudi si inventò l’idea del Gioco della vita e del Viaggio per reclutare nuovi elementi. La promessa era il conseguimento dell’Illuminazione in questa vita. Arrivammo in parecchi, giovani, memori delle letture di Castaneda, inseguendo il sogno di una società che ci potevamo inventare. «In quel periodo si cercava di “svecchiare” la comunità – o perlomeno è quanto Airaudi ripeteva – attraverso l’arte, una maggiore liberalità nei costumi (venne abolita la “legge sull’amore” che proibiva i rapporti sessuali fra coppie non sposate), la mensa comune e la creazione delle “case dei ragazzi”, dove i bambini a partire dai due anni di età vivevano con degli “educatori” (persone gradite ad Airaudi), e rigorosamente lontani dai genitori che, all’inizio, avevano rigidi orari d’accesso alle case. «Il lavoro, in quel periodo, veniva “assegnato” dal Governo, e nessuno percepiva stipendio. Si lavorava sette giorni su sette, c’erano pochi soldi, poco da mangiare e poco riscaldamento nelle case. Discutevamo molto, ci ritrovavamo per parlare, cantare, ballare, lavoravamo come somari (soprattutto per scavare il Tempio) ma eravamo molto motivati, molto giovani, molto incoscienti. Il giuramento che si effettuava nella Scuola di meditazione era perentorio: obbedienza assoluta al maestro. Il Tempio doveva ospitare i nuovi dèi che andavamo risvegliando e mettendo “sotto controllo”. La tesi era che il mondo stava precipitando nell’oscurità per via delle divinità fuori controllo (quella cattolica in primis) e che noi, gente scelta da epoche e vite passate, eravamo lì per ottemperare a questa nobile missione. «Poi Airaudi inventò la libera iniziativa, e un giorno alla settimana avremmo dovuto avviare piccole attività per guadagnare qualche soldo. Cominciò lo smercio di self e quadri selfici – a cifre man mano crescenti – cosa che contribuì, col tempo, a indebitare i damanhuriani. Le richieste economiche andavano crescendo con l’ingrandirsi della comunità, così come aumentavano le ore di lavoro, gli scavi al tempio, gli impegni nelle organizzazioni interne. Cantavamo e ballavamo di meno. L’arte era importante solo se rendeva quattrini. Le strutture gerarchiche aumentavano, così come il controllo sulle

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persone. Eravamo meno giovani, si cominciavano ad avere mogli e mariti, qualche figlio. «I cittadini A, gli “eletti” scelti dal maestro per salvare il mondo, avevano l’obbligo di donare tutti i propri beni alla comunità. Molti di noi hanno venduto le case di famiglia, chiesto eredità “anticipate”, versato i propri risparmi nelle casse di Damanhur. C’era una specie di interrogatorio durante il quale ciascuno doveva dichiarare i beni posseduti personalmente e i beni di famiglia. E poi firmare la Costituzione, accettando una regola che di legale non ha nulla: cioè che ogni bene versato nelle casse della comunità (e non registrato da nessuna parte, né come liberalità, né come donazione, né come altro, in quanto la comunità legalmente non esisteva) non poteva essere restituito nel momento in cui le persone avessero lasciato la comunità. Certo, ti viene detto [com’è successo a Chimera, NdA] che a questa regola fanno eccezione le quote Peal. Però quelle quote vengono periodicamente riassegnate, per cui alla fine tu (che fidandoti non controlli) ti trovi con un controvalore ridicolo rispetto a quello che hai effettivamente dato. «I Viaggi intanto continuavano, per inserire al meglio le nuove generazioni... soprattutto quelle femminili, ma questo fra i damanhuriani è il segreto di Pulcinella.3 E siccome i nostri numeri andavano aumentando, cominciammo a comprare case, o meglio, ruderi: costavano meno, in teoria, e poi c’era una nuova motivazione per lavorare come somari. Anche grazie alla collaborazione di istituti bancari che elargivano mutui al cento per cento sottoscritti dagli stessi damanhuriani, con le garanzie dei pochi lavoratori “esterni” che conservavano una fonte di entrate da lavoro dipendente regolare. Si cominciava allora a stendere relazioni sulla propria vita personale, sul proprio stato d’animo. E così, oltre a mogli, mariti e figli ora c’erano pure i mutui da pagare e firme che pesavano come piombo. Cominciarono le prime defezioni di massa. Allora Airaudi pensò che doveva alzare il tiro: l’Illuminazione, il mondo nuovo, il risveglio e il controllo degli dèi non erano più sufficienti! Ecco che nacquero la “fisica esoterica” e il viaggio nel tempo. Airaudi (che nel frattempo si era scoperto essere la reincarnazione della divinità Horus) giungeva da seicento anni avanti nel futuro. Lì il mondo non esisteva più! O meglio, l’umanità non esisteva più. Era stata sconfitta dal Nemico. Noi eravamo il Popolo eletto, unico e solo in grado di salvare l’umanità. Se avessimo fallito, il genere umano sarebbe scomparso da lì a seicento anni. Che fare? Semplice: lavorare, versare tutti i beni alla comunità, comprare le self e i quadri che Airaudi produceva e vendeva, obbedire ai capi di Meditazione (lui e i suoi luogotenenti), costruire il tempio, essere fedeli, lavorare (in nero) all’interno della comunità. Le cose cominciavano a essere interiormente complicate e difficili da digerire. Dubbi, ansie e tentennamenti personali.

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«Così Airaudi si inventò l’Apertura del Tempio. Ufficialmente fu un blitz della procura di Ivrea. Ragionando a mente fredda, anni dopo, fummo in molti a giungere alla conclusione che il fatto era stato concordato e pianificato (o quanto meno preannunciato con largo anticipo). Guarda caso, Airaudi preannunciava la fine di Damanhur a meno di qualche evento strepitoso, guarda caso ci affannammo per notti a costruire un finto tempio in attesa di visite, guarda caso mezz’ora dopo l’arrivo dei carabinieri la custodia del Tempio (doverosamente posto sotto sequestro) fu affidata a Damanhur, guarda caso il sostituto procuratore di Ivrea, Bruno Tinti, incaricato del sopralluogo e del sequestro “divenne” – ed è tutt’ora – amico personale di Airaudi: frequenta la sua casa, le sue amicizie, organizza convegni a Damanhur, presenta libri, si intrattiene con la “corte” di Airaudi. «E così si inaugurò la nuova fase di “apertura al mondo”. Tradotto: nuove persone, tanti, tanti, tanti turisti a visitare il Tempio. Uguale tanti, tanti, tanti soldi in tasca ad Airaudi che, poverino, aveva tanto contribuito alla costruzione del Tempio stesso e ora i soldi delle visite dovevano andare a lui, perché era l’unico in grado di gestire la situazione. «Con l’arrivo di così tante persone qualche truffaldino si infiltrava in comunità. Ma nessun timore: gli aitanti uomini della Difesa (poi diventato Dsd: Dipartimento di sicurezza damanhuriano) erano pronti a intervenire! Ossia placcare il malintenzionato, minacciarlo di “cottura” nel forno della ceramica, dargli una mano di botte tale da dissuaderlo per il resto dei suoi giorni dall’avvicinarsi alla comunità. Le attività “dissuasorie” erano all’ordine del giorno: persone che avevano lasciato la comunità venivano pedinate, a volte malmenate, minacciate. Cittadini schiaffeggiati pubblicamente dallo stesso Airaudi. Le stanze personali controllate e perquisite. «Nel frattempo si era reso necessario “ripulire” l’immagine di Damanhur, così si iniziò a diventare “ecologici”, a cercare rapporti con organizzazioni che potevano tornare utili alla reputazione della comunità e all’afflusso turistico. «Molti furono mobilitati a tale scopo, io fra i tanti. In parecchi diventammo ambasciatori, accompagnatori, guaritori spirituali, istruttori e chi più ne ha più ne metta. Buttarsi nelle cose era un modo per sentirsi “a posto”, per essere gratificati, per ottenere riconoscimenti e – in ultima analisi – vivere un po’ più sereni. Ovviamente le “abilitazioni” si pagavano: il rettore della Libera Università di Damanhur, infatti, era Airaudi stesso, che cominciò a elargire la sua preziosa conoscenza ormai solo a pagamento, attraverso le “serate” (praticamente obbligatorie per i cittadini), i corsi, le “abilitazioni”, i libri, le “cabine” di scambio nel tempio, la vendita di self, sferoself, quadri selfici.

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«Ci furono altre defezioni. Sempre più difficili però: mogli, mariti, figli, mutui, lavoro interno, taglio di rapporti con la famiglia d’origine, visione del mondo completamente filtrata dai “miti” damanhuriani, rapporti di obbedienza... Così Airaudi alzò nuovamente la posta in gioco: la missione non consisteva più “semplicemente” nell’Illuminazione, nel “salvare il mondo”, nel “risvegliare” gli dèi e “metterli sotto controllo”, ma ora ognuno di noi aveva l’irripetibile opportunità di diventare una divinità. La promessa era: tu puoi diventare Dio! Sembrava irresistibile. Così nacque il Tecnarcato: ennesima sovrastruttura di controllo – le altre man mano perdevano presa – finalizzata a “raffinare” il percorso di ciascuno. Tradotto: nuove regole economiche, nuove relazioni, nuovo stretto controllo (attraverso la lettura di diari e relazioni, e un sistema di delazione interno: ognuno era incaricato di spiare tutti gli altri e riferire comportamenti “fuori dai binari”). «Il malumore serpeggiava. I debiti fra mutui, creazione di attività a proprio carico, donazioni per il Tempio, creazione smisurata di un patrimonio immobiliare (di cui buona parte risulta essere proprietà dello stesso Airaudi) non facevano vivere serene le persone... Così si provò a cambiare qualcosa eleggendo nuove figure (contro il parere di Airaudi) quali responsabili della vita sociale: Airaudi fece invalidare le elezioni (era ed è un suo potere indiscusso) e si tornò alla solita cricca. Ma quest’ultimo fatto (unito a tutte le vessazioni precedenti) fu la classica goccia che fece traboccare il vaso. «Da quel momento fino a due o tre anni più tardi, nel periodo 2005-2008, decine di persone lasciarono Damanhur. Fra queste c’ero io. Erano passati più di due decenni dal mio ingresso in comunità: la mia nuova famiglia era lì, il mio lavoro era lì, i miei soldi erano lì, tutte le mie amicizie erano lì. Avevo lavorato per anni a quel progetto, avevo ingoiato rospi in virtù della “missione”, cose sgradite erano state messe in secondo piano per il “sogno”... «Un giorno, lungo la Via della speranza mi fermai a parlare con una persona di cui mi fidavo totalmente. La premessa reciproca fu: “Questo incontro non c’è mai stato. E tutto ciò che dirò, sarà in futuro negato...” (premessa doverosa, visto il clima di controllo, pressione personale e vista la normale pratica della delazione). Così cominciammo a chiederci: “Ma tu ci credi davvero a questo?”, “e a quest’altro?” e “ti dirò di più... ho saputo la verità su una serie di episodi ‘magici’”, “ma tu sai che cosa ha fatto Falco in quella circostanza?” e così via... La chiacchierata durò circa un’ora. Finalmente avevamo avuto il coraggio di dire “Il re è nudo!”. «A quel punto si trattava di costruirsi una exit strategy. Ci vollero mesi. Tanto aiuto dalla mia (vera) famiglia e dai pochissimi amici fidati. Ci volle un curriculum più o meno inventato e sufficientemente credibile. Ci volle una casa in affitto a poco prezzo. Ci vollero qualche migliaia di euro in prestito dai

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miei genitori. Ci vollero ripensamenti, e riconferme: le cimici piazzate dai loro spioni negli studi medici, nel bar e nelle sale riunioni per controllare i dissidenti; le perquisizioni segrete nelle camere (di cui ci accorgevamo grazie a semplici stratagemmi imparati al cinema); l’ordine venuto dall’alto di bruciare diari, conti economici e relazioni; i pedinamenti che ci facevano in auto giorno e notte; il controllo del computer attraverso la rete interna; le convocazioni e le pressanti domande; il mobbing sul lavoro; le inquisizioni negli ambiti lavorativi, di vita e di incontro con gli altri. «E poi uscii! Gradualmente, come l’etichetta imponeva (e la paura richiedeva). Paura che mi ha accompagnato per alcuni anni. E che – purtroppo – ancora accompagna molti di noi che abbiamo lasciato quella setta. Perché una vita lì? Non lo so. Stupidità, probabilmente. Condizionamento mentale, sicuramente. Gabbia economica strettissima. Paura. Tanta paura. Paura dello spauracchio fondamentale: “Perdere l’anima. Essere cancellati!”. Paura di fallire la propria missione. Paura di essere seguiti, controllati, manipolati. Paura delle influenze che Damanhur ha su tante realtà economiche, politiche, sociali. Paura di vedersi di fronte un giorno qualcuno che minacci. Paura dei riti di magia nera che vengono regolarmente fatti contro chi lascia la comunità. Paura di ritrovarsi da soli, ad affrontare la vita, il lavoro, le situazioni di ogni giorno senza più nessuno che ti dica cosa fare, cosa pensare, cosa è meglio per te... Ma poi il senso di integrità interiore è più forte. Urla giustizia. E così ci sono tre scelte possibili: o ti ammali e muori, o scegli di spegnerti definitivamente. Oppure, te ne vai. «Una volta usciti, ci vogliono tanti mesi per lasciar decantare. E poi si può scegliere di dimenticare o di ricordare. Di tacere o di parlare. Per anni le persone sono rimaste in silenzio. È ora di raccontare, perché altri sappiano. Perché magari qualcuno che non si è ancora totalmente spento trovi il coraggio di andarsene, come in molti abbiamo fatto. «Sono rimaste delle belle amicizie con chi se ne è andato e ha fatto un percorso simile al mio. Resta il dispiacere per coloro che consideravamo amici che ora non ci rivolgono più la parola, fanno riti contro di noi, se potessero ci farebbero del male. Un po’ di tristezza per quegli anni che, in parte, sono stati sprecati e tanto, tanto, tanto sofferti. Tante cose imparate sulla propria pelle. Come è giusto che sia. Gratitudine e gioia, comunque e sempre, per questa nuova vita, questa nuova occasione, questa nuova sudata libertà.» Cigno «Lasciare la comunità è stata una liberazione. Per i damanhuriani è sempre e comunque un tradimento della “causa”. In realtà sono io a sentirmi tradita. Mi

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sento presa in giro. Ho creduto a cose che a pensarci oggi mi si accappona la pelle. Ma almeno io ero in buona fede. «Al corso di meditazione, unica strada per diventare damanhuriana a tutti gli effetti, mi avevano detto: “Dura tutta la vita, non costa nulla, non devi pagare. Però sappi che una volta cominciato non puoi più tornare indietro”. Ciononostante decisi d’iscrivermi, attratta dall’idea di studiare testi come la Bhagavadgı¯ ta¯ , testo sacro indù, o il libro tibetano dei morti. Poi, dopo massimo un anno, ti viene chiesto: “O vieni a Damanhur o sei fuori”. Io decido di andarci a vivere, mollo tutto e parto con la mia valigetta. Così comincia la mia vita lì. Nei primi tempi mi sono sentita accolta, lusingata: una nuova figlia della grande famiglia damanhuriana. «Ma l’emozione è durata poco, e ho iniziato subito a sentirmi sola. Il sistema che c’è all’interno è scientificamente perverso. Non lascia tempo per nulla, si va sempre di corsa, c’è sempre da fare, non c’è mai modo di dedicare tempo agli altri. Ho dovuto ricavarmi un po’ di spazio, qualche amicizia, che non c’era il tempo per coltivare. Damanhur è strutturata in maniera gerarchica e autoritaria in ogni suo aspetto: spiritualmente e socialmente. Una piramide in cima alla quale c’è lui, Airaudi, che decide sempre tutto, anche se fanno finta di no. E se non decide lui, glielo vanno comunque a chiedere loro, il suo parere. E se non dice niente, insistono per avere la sua opinione. Lo vedevo. Ma c’era comunque il richiamo del “salviamo il mondo, salviamo il pianeta, salviamo l’uomo”, e anche se non sapevo ancora come, credevo nella magia del tutto. «Poi iniziarono i Viaggi. La rabbia mi sale quando ci ripenso. Il Viaggio, in teoria, serviva come “specchietto per le allodole” nei confronti del Nemico che minacciava Damanhur. Il primo Nemico, diceva Airaudi, era dentro di noi, ma poi c’era il Nemico dell’uomo, che mirava a distruggere l’uomo e la sua parte divina. Noi non potevamo neanche immaginare quanto fosse potente questo Nemico. Ma “per fortuna” al nemico mancava la fantasia, mentre noi ce l’avevamo dalla nostra, e quindi potevamo sconfiggerlo. Questo era il suo ritornello: il viaggio serviva a portarci dietro l’inseguitore. Noi ci credevamo, anche se non avevamo mai visto nessuno che ci seguisse. Per questo si andava in posti isolati. In alta montagna o in riva al mare. Su sua indicazione costruivamo spirali di pietra, camminavamo per ore sulla spiaggia di sera, in estate o in inverno. «Il camper si fermava sempre lontano dai centri abitati. Ti spiegavano come interpretare i segni magici, guardare le stelle, la luna, sentire vibrazioni positive o negative. Io non sentivo un granché. Mi facevano leggere e interpretare una carta dei tarocchi al giorno per capire come sarebbe andata la giornata, mi facevano scrivere i miei sogni, perché Airaudi potesse leggerli.

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Poi si studiavano i suoi libri, in un clima che appariva magico, diverso. Mi dicevano che Damanhur esisteva per salvare il pianeta, si facevano cose per la salvezza dell’uomo. Ne fui affascinata. Di ritorno dal primo Viaggio già ero cambiata, cercai di ritrovare quegli stessi “segni” nel quotidiano, e ovviamente non ci riuscivo. I miei amici non capivano, e siccome i viaggiatori erano tenuti al più assoluto segreto, non potevo dire o condividere niente con loro. «Airaudi viaggiava spesso. Pochi giorni come tre-quattro mesi. Non c’erano sempre le stesse persone: di solito era un gruppo di ragazze giovani e spesso carine e qualche uomo, che serviva quando c’era da guidare i camper e piantare le tende. Lui dormiva nel suo camper, che era come casa sua, noi stivati nello spazio restante. I viaggiatori venivano scelti accuratamente, diceva, perché di volta in volta rappresentavano la “chiave di apertura” necessaria a creare le giuste “condizioni magiche alchemiche”. Quindi lui ci sceglieva in base a quel che gli serviva in quel particolare momento, così diceva.4 «Le sue regole erano ferree: non si poteva mangiare fuori pasto, e al momento dei pasti non si mangiava finché lui non mangiava. Ci faceva lavorare tutto il giorno, fra riti e pulizie. Non si riposava se non di sera, e comunque solo per poche ore: non si poteva andare a dormire finché lui non andava a dormire, quindi si andava a letto tardissimo. Prima di andare a letto, poi, c’era tutta una cerimonia: era il momento della cosiddetta “lista nanna”. Airaudi ci faceva scrivere su un foglietto con chi volessimo andare a dormire. Le nostre preferenze, insomma. Un incaricato raccoglieva i biglietti e glieli portava. I fogli erano riservati, ma non per lui. Il succo era che dovevi prestargli il tuo corpo. «Ma all’epoca non ci vedevo niente di male. Ero convinta che lui ne avesse veramente bisogno, che noi fossimo “chiavi” indispensabili ai suoi rituali alchemici. Così una sera sul biglietto scrissi il suo nome. Il mattino dopo capii che il Viaggio era un po’ diverso da quel che pensavo che fosse. Io però avevo la coscienza a posto, perché sentivo di aver svolto il mio compito: nient’altro. Non ero innamorata, neanche infatuata, lui non mi piaceva nemmeno. Ma mi sentivo lusingata, privilegiata. Era un po’ come sentirsi la donna del “capobranco”. Anche se ogni notte dormiva con una donna diversa, ero convinta di essere “l’unica”: così lui mi diceva, e io – all’epoca – ci credevo. D’altronde fra noi non se ne faceva mai parola. La mattina rientravo come se nulla fosse, e nessuno faceva domande. Era un tabù. E così tornavo alle mie mansioni. Come lamentarsene? Chi andava in Viaggio col maestro era un privilegiato: gli altri restavano a Damanhur a sgobbare.

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«Scoprii che dormire con lui anche per le altre significava andare con lui. Potevo anche sospettarlo, ma non ci volevo credere: il maestro dice sempre la verità. «Non mi andava giù. Così l’ho incontrato e gliel’ho chiesto. Lui mi ha giurato che lo faceva solo con me, ma a quel punto non ci credevo più, e iniziai ad avere dei dubbi. Eppure non era pensabile rifiutarsi di partire: quando lui ti chiamava, non potevi non andare. Per un damanhuriano era comunque un’occasione per “evolverti”, per andare avanti nella tua missione. «Seppur con qualche dubbio, tornai in Viaggio. Iniziai a guardare Falco con occhio più critico, mi rendevo conto delle sue debolezze. Non era scontato: per tutti Airaudi non è umano, ma una sorta di divinità. E non ero solo io a crederlo: lì dentro c’è gente che ha fior di lauree, avvocati, medici, professionisti. Eppure Airaudi è riuscito a convincerci che quello che facevamo era l’unica strada possibile: come dire di no? Sarebbe stato come rifiutare la meditazione: non era possibile. Io continuavo a svolgere le mie mansioni, per dovere e senza alcuna passione, ma ormai la fiducia era incrinata. Quel Viaggio fu l’ultimo. Airaudi cercò di trattenermi con messaggi sdolcinati. Era questo il mio “maestro”? «Se ho sofferto a uscirne? Ho sofferto molto più a restare. Quando sono uscita mi sono sentita di aver ripreso in mano la mia vita. Mi dispiace per le persone che sono ancora lì dentro, totalmente inconsapevoli. Di come hai buttato la tua vita te ne rendi conto solo quando esci. Ho perso tutti i contatti che avevo lì dentro, le amicizie. Oggi perlopiù fanno finta di non vedermi. Dopo che ci hai mangiato insieme, dopo aver scambiato i vestiti, non hai più nulla da dirti. «Sono pochi gli amici che sanno della mia esperienza a Damanhur, non voglio che mi si ricordi il mio passato. Quando dormo, nei miei sogni rivivo spesso quella condizione di angoscia, l’assoggettamento, i turni di lavoro massacranti, e tutte le dinamiche perverse. Poi mi sveglio a casa mia, non più nel Nucleo, e mi dico: meno male che era solo un sogno.» 1 Oberto Airaudi, La Via Horusiana. Principi, Concetti e Tradizioni della Scuola di Pensiero di Damanhur, Edizioni della Scuola di Meditazione di Damanhur, anno XXVII (quarta edizione riveduta e ampliata a cura del Gruppo Teoretico della Scuola di Meditazione). 2 Cristina Caparesi, La Federazione damanhuriana e lo Stato Italiano, cit.

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3 A questo proposito si veda in seguito la testimonianza di Cigno. 4 Nella Premessa alla Costituzione di Damanhur il Viaggio viene così spiegato: «Una strada veloce alla conoscenza, una via all’Illuminazione. Il simbolo del Gioco è una mela che contiene un serpente e una serratura. La mela, simbolo della conoscenza, ripropone il mito di Adamo ed Eva inerente alla tentazione; la serratura è il mezzo attraverso cui è possibile cogliere la conoscenza e raggiungere traguardi più elevati; il serpente è colui che porta la conoscenza ed è in grado di adattarsi strutturalmente a tutte le forme. Nel Gioco l’aspetto più dinamico è rappresentato dal Viaggio considerato strumento ideale per superare le abitudini e contemporaneamente muoversi dentro e fuori di sé. (Ha creato, elevato, sublimato. Ha forgiato valori e coscienze. Ha distrutto pregiudizi e catene. È stato ed è ancora: il GIOCO!)». Corsivo e maiuscolo appartengono al testo originale. 8. Monkey Business Il tratto che accumuna le storie dei fuoriusciti è l’ingresso – e la fuga – da una realtà virtuale e parallela. Cioè la (science) fiction creata ad arte dalla fervida immaginazione di Airaudi. Della sua mitologia il personaggio più riuscito è senza dubbio il supergorilla alieno di nome Enkidu. Presentato per la prima volta ai fedeli nel lontano 1983, tale Enkidu sarebbe ormai un gradito ospite ricorrente – altro che un oggetto volante non identificato – tant’è che le sue apparizioni vengono sempre accuratamente «documentate» dal quotidiano interno. Di seguito riportiamo il resoconto di una sua capatina a Damanhur, dalle parole di una «testimone oculare» damanhuriana.1 Quando Falco mercoledì ha parlato di Enkidu e ha detto che probabilmente avrebbe incontrato chi conosceva già, ma che c’era da temere se fosse cambiato il sentire della persona negli anni. Avevo pensato che mi sentivo pronta, e con lo stesso spirito di allora e gli avevo poi detto con entusiasmo

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che avrei proprio avuto piacere di incontrare nuovamente il suo amico alieno. Ieri ero stata dal dentista e nel pomeriggio avevo molto mal di denti, così ho pensato di andare a farmi un giretto nel Bosco sacro, che per me è sempre un amico rilassante, terapeutico e rigenerante. C’era una serata incantevole e mi faceva piacere andare ad ascoltare e sentire la vita del Bosco, così mi sono avviata con la pila e il pentacolo, godendomi lo splendido paesaggio, le foglie color oro spento, il profumo della terra. Faceva molto freddo e mi ero coperta a strati molto bene perché so che non devo stare al freddo, pensando di soffermarmici comunque solo pochi minuti. Quando sono arrivata alla spirale Diamantel, realizzata anni orsono dal gruppo dei Francesi di Joana, e poi collegata all’impianto dei circuiti, l’ho percorsa e giunta in mezzo mi sono seduta sulla pietra centrale, ho spento la pila e mi sono appoggiata alla quercia ad osservare l’incantevole cielo stellato. I cani tutt’intorno latravano furiosamente, come ormai avviene nel Bosco da giorni e soprattutto di notte, da lì sentivo chiaramente anche quelli di Issiglio. Ero lì seduta tranquilla a guardare le stelle cercando di farmi passare il mal di denti, quando ho sentito improvvisamente rumore sulle foglie dietro di me. Mi è venuta una grande paura che ci fosse un cinghiale (visto che di questi tempi ne girano diversi nel Bosco) e mentre mi giravo a guardare, mi sono sentita chiamare da una voce gutturale: era evidente che il nome era proprio il mio, Elefantina, anche perché l’ho sentito risuonare come un richiamo dentro di me: intanto ho visto lui lì, il gorilla nero, alto più di due metri, subito fuori dalla spirale, stagliato a malapena contro il buio del bosco, e ho sentito un’emozione grandissima che ha iniziato a pervadermi ad onde concentriche sempre più intense e un calore improvviso (che mi è rimasto nel corpo anche nelle ore dopo) il cuore pulsava fortissimo: mi sentivo esplodere di caldo e di emozione, ma era una sensazione splendida, di riconoscimento reciproco, avvolgente, carica di amore; era chiaro che si ricordava di me e io di lui, dopo tanti anni, ed era un grande piacere rivedersi e sentivo giungere da Enkidu un senso di forte accoglienza amorevole e rassicurante, che mi ha portato a sentire in me uno struggente senso di amore, come da ottavo quesito e da responso oracolare. Lui comunicava con suoni gutturali ma soprattutto a livello intimo attraverso l’emozione, una grande bellissima incredibile emozione, che non saprei descrivere. Enkidu mi ha comunicato un messaggio da riportare a Falco, in una lingua a me sconosciuta e ha tracciato dei gesti in aria che non ho visto bene. Ha poi deposto a terra un oggetto per Falco (il nome Falco era gutturale ma molto chiaro anche come suono) e infine si è

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girato e dopo uno o due passi è scomparso nella notte, inghiottito dal nero, così come si era improvvisamente addensato. Anche a livello energetico si sentiva che non c’era più. Avevo una grande voglia di correre da Falco e a raccontare tutto, avrei voluto «tagliare» la spirale, ma mi è arrivato chiaro che invece dovevo ripercorrerla, così, con questa grandissima emozione, l’ho fatta a ritroso e sono uscita a vedere cosa il gorilla avesse deposto. Ho trovato a terra un grande ramo a forma di bidente, girato in direzione di Aval, e a terra il segno del bidente era stato rintracciato, spostando le foglie e proprio nel centro del bidente c’era una pietra, un quarzo, che aveva uno strano insolito calore. In quel luogo ancora il forte odore caratteristico di selvatico che ha sempre caratterizzato l’arrivo di Enkidu quando appare in sembianze di gorilla e che ho avuto occasione di sentire tante volte negli anni. Appena arrivata a casa ho avvolto la pietra in un panno nero per portarla a Falco che ho subito avvisato del mio strano incontro. Il mal di denti mi era improvvisamente passato, sentivo solo la bocca indolenzita ma senza più dolore ed ho mantenuto a lungo un caldo incredibile e il senso di agitazione e intensa emozione, mi sentivo stordita ed ho dovuto scolare subito una intera bottiglia di acqua, forse per compensare il grande calore. Madrepora, che era di turno a Tin e mi ha visto per prima dopo l’incontro, mi ha detto che proprio poco prima aveva pensato che i cani abbaiavano tanto da giorni perché stava arrivando Enkidu e mi ha fatto notare che era calato dopo tanto latrare di cani un grande silenzio nel Bosco. Ho poi saputo che Falco aveva annunciato in precedenza al Caffè Letterario che stava addensando Enkidu nel Bosco e quando gli ho telefonato, infatti, mi ha risposto in modo molto sornione e divertito... Falco dopo il mio racconto ha subito portato il cristallo nel Tempio e mi ha raccomandato di raccontargli appena possibile tutto quello che mi fosse ancora venuto in mente dell’incontro. Effettivamente io non gli avevo detto dei suoni ricevuti come messaggio per lui; nella notte ho sognato Enkidu che me li ripeteva e mi diceva: «Senti, hanno un ritmo, sono facili da ricordare...». Un’altra cosa curiosa è avvenuta più tardi: tornando a casa ho poi trovato una volpe argentata proprio in mezzo alla strada, davanti a Tin, ferma, tranquilla, è rimasta a guardarmi, poi senza fretta si è allontanata attraversando la spirale del sedile in pietra.

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1 Elefantina Genziana, Il mio incontro con Enkidu, «Qui Damanhur Quotidiano», 4 dicembre 2004. 9. Il partito del (Dio del) Sole che ride La politica secondo Airaudi «inquina». Il suo punto di vista Falco lo spiega al quotidiano «Libero»: «La spiritualità è ciò che manca di più alla politica, [che] a eccezione di pochissimi casi, è diventata solo pragmatismo. Se le comunità fossero presenti con i loro voti, allora, i loro esponenti potrebbero essere eletti e portare una visione spirituale. Ma la politica inquina le persone: bisogna avere una forza enorme per non cedere a certi compromessi, perché la politica è compromesso, ma dev’esserlo finché c’è etica».1 Certo è, però, che dalla scoperta del tempio in poi Damanhur di politica ha continuato a farne parecchia, sia come lobby sia come partito, nella valle e oltre. Con te per il Paese, il movimento politico damanhuriano, nasce alla fine del 1995 a Tempio quasi salvo. E già nel giugno del 1999 prende il controllo dell’amministrazione comunale di Vidracco, roccaforte tuttora saldamente in mano loro, visto che sono ormai al terzo mandato consecutivo. Grazie alla massiccia presenza di elettori damanhuriani alle urne (fenomeno sul quale torneremo più avanti) fu così eletto sindaco Antonio Nigro, perito meccanico ed ex sindacalista tarantino meglio noto come Bisonte Quercia. Con lui ben dodici consiglieri: una maggioranza schiacciante a favore della destra, dalla cui parte il simbolo damanhuriano si era schierato. Alle provinciali Bisonte si era invece candidato coi Verdi. Intervistato su questa contraddizione, il responsabile delle relazioni esterne della comunità, Roberto Sparagio (ossia Coboldo Melo, dal giugno 2009 vicesindaco di Vidracco),2 glissa. E si limita a ringraziare chi li aveva aiutati: «Abbiamo avuto udienza dal [senatore, NdA] verde Luigi Manconi, e solo il fatto di potere andare a Roma e avere a disposizione il suo telefono o l’ufficio ci è stato di grande aiuto. Noi siamo poveri».3

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Perché il portavoce nazionale dei Verdi aveva messo a loro disposizione il suo ufficio? E che ci faceva il senatore l’anno prima a tavola con Oberto Airaudi? A legarli c’è l’esperienza comune del Conacreis,4 un’associazione nata proprio nel dicembre del 1998 con l’intento di mettere insieme l’area della «ricerca etica interiore e spirituale», cioè dalla meditazione allo yoga, dal reiki alle discipline olistiche. In poche parole, il Conacreis nasce come la lobby della New Age italiana, un fenomeno che sarà pure mistico ma anche politicamente pervasivo: «La New Age è un movimento, ma anche un ambiente, un’atmosfera, un network di idee che penetrano dappertutto. Un fenomeno allo stato gassoso che si infiltra ovunque»5 Parola di Massimo Introvigne. Damanhur ne entra a far parte fin dall’inizio, e poi dall’interno – man mano – espande la sua presenza nell’organizzazione. Fino a conquistarla, completamente. Sul loro sito6 si può facilmente verificare come già dal 2004 presidente del Conacreis sia Antonio Bernini, lo stesso Elfo Frassino che oggi siede sulla poltrona del sindaco di Vidracco dopo la staffetta col predecessore, Bisonte. Il segretario nazionale Conacreis è il suddetto Roberto Sparagio, mentre nel consiglio direttivo trovi Michele Scapino (alias Orango Riso). La segreteria è affidata a un certo Cervo Volante. Gli uffici e gli archivi si trovano, guarda caso, a Damanhur Crea. Il sito web è stato disegnato dalla Damanhur.net. E damanhuriano è persino il commercialista.7 La scomparsa Lucia D’Arbitrio, storica presidentessa del Conacreis, «lanciò l’idea di riunire il mondo etico e spirituale italiano durante una trasmissione radiofonica notturna e il primo, per la verità l’unico, a rispondere fu l’allora presidente nazionale dei Verdi Luigi Manconi», racconta Sparagio. «Luigi, politico burbero quanto intellettuale raffinato, trovò una sala per i nostri incontri e partecipò alle nostre discussioni: fu lui, in una saletta dell’ex Hotel Bologna, a inventare l’acronimo Conacreis, tra una telefonata e una votazione volante nelle vicine aule del Parlamento.» Ma la D’Arbitrio – ricorda il damanhuriano – era anche quella che «macinava incontri su incontri, passava da ministri sensibili e rispettosi, come Livia Turco, a presidenti del consiglio di centrodestra o di centrosinistra».8 «È utile sottolineare che non c’è una volontà lobbystica» sostiene l’attuale presidente del Conacreis Antonio Bernini. Ma di lobbying il Conacreis ne fa fin dagli esordi. Nel coro che chiedeva l’istituzione delle cosiddette Associazioni di promozione sociale9 (nel cui calderone Damanhur oggi ricadrebbe), una voce fu senz’altro quella della D’Arbitrio10 e del suo gruppo, che come abbiamo visto godeva della sponsorizzazione dei Verdi.11 Il Conacreis torna a farsi sentire in Parlamento anche qualche anno dopo, entrando nel gruppo di pressione contro l’introduzione del reato di

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manipolazione mentale,12 in compagnia di altre associazioni come il Cesnur di Introvigne: nel giugno 2005 l’associazione guidata da Elfo Frassino annunciava di aver raccolto oltre quattromila firme per contribuire all’alzata di scudi contro il disegno di legge 1777 della senatrice Maria Elisabetta Alberti Casellati.13 Il ddl cola a picco nel settembre dello stesso anno, grazie al gioco di sponda fra il senatore verde Stefano Boco, che si era appena fatto portavoce di questa battaglia a suon di emendamenti, e il vicepresidente della commissione Giustizia – nonché collega di partito – Giampaolo Zancan. Ma Boco aveva già dato prova di sentirsi in sintonia coi damanhuriani il giorno dell’inaugurazione del Dh Crea,14 e durante la prima conferenza del Conacreis a Firenze (con il patrocinio della Regione Toscana, della Provincia e del Comune di Firenze) nel novembre 2005 dov’era stato fra i primi a parlare, insieme a Grazia Francescato15 (presidente onorario dei Verdi) e Martino Artusa16 (all’epoca assessore regionale toscano all’Ambiente). L’irresistibile attrazione esercitata dai damanhuriani sui Verdi non è un caso: storicamente infatti sono entrambi figli degli anni Settanta. Più pragmaticamente, però, spiega Aconito, «il magnetismo è l’esito di una precisa scelta fatta solo nell’ultimo decennio, e mirata a ripulire la propria immagine: quella di presentarsi come un’ecosocietà. Anche se di scrupoli ambientalisti, agli inizi, non ne avevano affatto. Le case venivano costruite col cemento, e la collina è stata evidentemente sbancata senza darsene troppa pena». Una scelta verde alla ricerca di bollini blu: fino all’agosto 2010 la Federazione di Damanhur pubblicizzava un suo corso dal titolo Ecovillage Design Education. Training per la sostenibilità,17 ostentando il riconoscimento ufficiale (letteralmente un endorsement) da parte dell’Unitar, ossia l’Istituto delle Nazioni Unite per la Formazione e la Ricerca. Tuttavia, quando siamo andati a informarci sulla questione, dall’Unitar ci hanno così risposto: «Si è trattato di un’erronea interpretazione da parte di Damanhur. Gli organizzatori del programma sono stati avvisati, e hanno già provveduto a correggere tutto il materiale destinato al pubblico». Si è trattato di un caso di gloria riflessa: la Federazione di Damanhur è infatti membro di gen-Europe, associazione degli ecovillaggi europei, che a sua volta fa parte di gen-International, un’ong che è anche membro consultivo del cosiddetto ecosoc (il consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite). Almeno online le modifiche, come abbiamo verificato, sono state apportate. Anche a costo di qualche «erronea interpretazione», insomma, è evidente come i damanhuriani giochino la carta dell’ambiente in senso spregiudicatamente politico, oltre che mistico. Atteggiamento che dev’essere piaciuto parecchio ad Alfonso Pecoraro Scanio ai tempi del suo primo contatto con Falco e i suoi falchi (Bisonte, Elfo e Coboldo). Era il 7 giugno

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2004, e lui, candidato alle europee, si presentò insieme all’onorevole Laura Cima.18 Come andò lo racconta Coboldo Melo: Alfonso Pecoraro Scanio è ripartito con una moneta da cinque e un’altra da un Credito: le ha avute in regalo da Falco, nel breve e colorito pranzo [...]. Il segretario nazionale dei Verdi è arrivato più che in ritardo, come da tradizione in tutte le campagne elettorali: la visita alla Damanhur Crea è stata rapidissima. [...] Poi subito a Tiglio, per fare il punto sulla situazione delle tessere damanhuriane al Partito dei Verdi. A sorpresa sono arrivate da Torino anche la coordinatrice regionale, nominata dallo stesso Pecoraro Scanio, e l’onorevole Laura Cima, che fa capo alla corrente del segretario nazionale. Saluti, abbracci, strette di mano [...] comportandosi come fosse tra vecchi amici. [...] Il segretario ha chiesto molte cose a Falco, a Bisonte Quercia e a Coboldo Melo: «Ma cosa sono gli Elfi e i Coboldi? Ah, ma allora non avete solo nomi di animali. E tu, invece, perché ti chiami soltanto Falco?». «Si vede che non sono ancora pronto o, magari, non me lo merito» ha risposto Falco, sorridendo. Il Credito ha subito catturato l’attenzione dell’ospite: «Da piccolo facevo collezione di monete, ma non posso fregarti quella da venti, vale troppo, e queste scritte incise sopra cosa vogliono dire, a me la simbologia ha sempre affascinato... [...] si vede che siete brave persone e che fate cose interessanti. Noi abbiamo avuto pure l’iscrizione di gruppi che poi non c’entravano niente con i Verdi. Una volta è successo con gente di Comunione e Liberazione. Ma voi avete una storia vecchia con i Verdi, siete un’altra cosa...». Una stoccata all’amico rivale senatore Boco e via, di nuovo a parlare di altri mille particolari: l’onorevole Alfonso Pecoraro Scanio è anfetaminico, non sta fermo un attimo, anche se il suo moto perpetuo è ammorbidito dalla sua napoletanità, esibita con un certo orgoglio. «Certo che è strano che sia stato un piemontese a fondare Damanhur, voi siete sempre così seri, non uscite molto dagli schemi, ma forse è per questo che la vostra esperienza si è affermata...» Saluti, abbracci e baci, qualche battuta ancora e la promessa di tornare, magari per un convegno importante da organizzare alla Damanhur Crea: tanto gli argomenti non mancano. [...] Arte di arrangiarsi, fantasia del sud innestata nella politica nordista o altro? Il segretario nazionale dei Verdi sembra avere dato la sua benedizione all’iscrizione dei damanhuriani: «Ma quante persone avete iscritto?» e i suoi uomini in Piemonte hanno preso atto del via libera del capo. Salvo sorprese la Federazione nazionale accoglierà senza problemi la rinascita del Gruppo Verdi Valchiusella. «Non male questo vino, io preferisco sempre i rossi...». Pecoraro dà così la sua benedizione all’iscrizione dei damanhuriani, che sarà di buon auspicio per l’ingresso di numerosi airaudiani fra le fila dei Verdi. A partire da Bisonte Quercia.

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I sette delegati damanhuriani, altri «piemontesi» e rappresentanti di alcune regioni hanno votato Bisonte Quercia nel Consiglio federale nazionale: è il parlamentino verde di trenta iscritti che ha il ruolo di organo politico del partito, di supporto e verifica dell’esecutivo nazionale. [...] Per la prima volta, Damanhur è accolta in una struttura formale di partito. [...] Dal palco il presidente Alfonso Pecoraro Scanio, forte di una rielezione all’unanimità, ha annunciato che a settembre riapriranno le iscrizioni ai Verdi e uno degli obiettivi sarà la migliore organizzazione delle regioni poco rappresentate. Il Piemonte è considerata area disgraziata e infelice e, dunque, terra di conquista per chi sarà capace di darsi da fare.19 E i damanhuriani sanno darsi da fare: dal 2004 al 2007, infatti, riescono a piazzare almeno tre loro esponenti nel consiglio nazionale del partito, più altri negli organi locali, come a Torino, Firenze e Modena. Una strategia d’infiltrazione che però era stata già accuratamente prevista, pianificata e ordinata dal Falco negli «obiettivi di Damanhur in politica nazionale ed internazionale»:20 Siamo [...] collegati al movimento dei Verdi, attualmente è il partito più vicino ai nostri interessi. [...] Per avere una sufficiente capacità rappresentativa bisogna riuscire ad ottenere dei risultati elettorali. Dobbiamo avere un numero sufficiente di rappresentanti, di persone collegate al nostro modo di fare e pensare, non solo in Piemonte ma in tutta Italia. Tutti i cittadini sono invitati a chiedere ad amici e parenti se sono interessati a sostenere questa battaglia politica, per avere nel prossimo tesseramento dei Verdi un peso maggiore. A Bruxelles ci sono rappresentanti che abbiamo votato, attraverso i quali vogliamo fare sentire la nostra voce [si riferisce probabilmente a Monica Frassoni, eurodeputata verde dal 2001 al 2009, che nel giugno 2004 si era fatta vedere da quelle parti, NdA]. L’Italia è molto indietro nel campo delle energie alternative. Possiamo portare l’esperienza damanhuriana in questi campi. Le anime principali del movimento verde, cioè Pecoraro Scanio, Boco e altri, riconoscono che il nostro sistema è più avanzato di ciò che loro attualmente propongono. [...] Abbiamo bisogno di Protezione civile addestrata, di persone all’interno della Croce Rossa e della solidarietà pubblica. C’è bisogno di consenso, per accrescere il quale bisogna che tutti i damanhuriani e gli amici si attivino. [...] su ogni tema bisogna prima consultarsi e poi portare la posizione di Damanhur, per essere sicuri che ci sia un coordinamento: niente personalismi, che rischiano di stemperare le idee e linee damanhuriane.

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L’alleanza coi Verdi sarà anche stata «interessata», ma a onor del vero lo era per entrambe le parti: nella primavera 2005, per esempio, i fedeli airaudiani se ne vanno in giro21 a raccogliere firme per sostenere la presentazione della lista verde alle regionali, vantandosi poi di aver raccolto il sessanta per cento di quelle necessarie. Damanhur parteciperà alla raccolta fondi per la campagna elettorale dei Verdi piemontesi con oltre ventimila euro.22 E sempre in quel periodo, alle primarie del Pd nel comune di Vistrorio, Pecoraro Scanio ottiene 281 preferenze, contro le 196 di Prodi: «L’unico luogo in Italia dove Pecoraro Scanio ha ricevuto oltre cento voti più di Prodi» scrivevano orgogliosi. L’idillio, però, si conclude amaramente alla fine del 2007, quando il Líder verde viene invitato al programma di approfondimento Exit su La7. Alla fine di un servizio dedicato agli ecovillaggi damanhuriani, su domanda precisa della conduttrice Ilaria D’Amico, evidentemente informata sui suoi rapporti con il culto piemontese, l’allora ministro dell’Ambiente nicchia,23 dopo che un giudizio apertamente critico lo aveva espresso l’allora direttore del «Giornale» Mario Giordano. La discussione procede in questo modo:24 d’amico: Direttore Giordano ti piace questo modello? (chiede, riferendosi al servizio appena trasmesso sugli ecovillaggi damanhuriani, NdA). giordano: No, non mi piace il modello di Damanhur, lo conosco bene, non mi piace in generale, perché questo è un piccolo aspetto di una realtà molto complessa su cui ho riserve di altro genere. Certo nel filmato ci sono cose che non conoscevo, ho visto e non so come funziona... ma è un gruppo che nasce da motivazioni forti di ragioni spirituali e religiose, per esempio hanno fatto anche grandi costruzioni, grandi templi che ho visitato nelle colline, per cui non so, anche da quel punto di vista, ho molte riserve sulla comunità. d’amico: Ma, al di là dell’ideologia? giordano: In sé dal punto di vista dell’ecologia è un modello accettabile... Comunque quando le imprese fiutano il verde è anche vero il contrario, che il verde quando di moda viene rincorso perché è un’etichetta bella che fa vendere di più...

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d’amico: Ha detto sì il ministro Pecoraro Scanio! pecoraro scanio: È vero che bisogna controllare che le etichette ecologiche siano davvero positive... [...] giordano: Bisogna poi vedere quanto c’è di corretti comportamenti, se uno dice io sono ecologico: vedere chi dice che usa solo cibi biologici ma poi usa il jet privato per andare a prendere i cibi della marca preferita... pecoraro scanio: Devo dire che fa osservazioni che fanno anche ecologisti e ambientalisti, nel senso che è importante, più che aver comunità che si vantano di fare tutto ecologico, fermo restando che queste case ecologiche... d’amico: Allora ha stretto parte con Damanhur, cioè con i Verdi: sono suoi elettori, ministro? pecoraro scanio: No... io penso che penso che persone che vivono così... io non so se essendo comunità poi votano o non votano, perché a volte gli aspetti spirituali sono diversi... ma è chiaro che chi si fa una casa del tutto ecologica, so che molte di queste persone poi votano, cioè spero almeno, per partiti che si occupano di ecologia... Ma quello che volevo dire è che [...] questo dimostra invece che il progetto di coniugare ecologia ed economia, che è un po’ l’obiettivo nostro, di rendere più ecologia l’economia mondiale, è un progetto invece molto tecnologicamente avanzato: quelle case che avete visto sono case che oggi sono le case del futuro: l’altro ieri il premier britannico Gordon Brown ha deciso di costruire centocinquantamila case di quel tipo, e lui non è una comunità spirituale... E per i damanhuriani fu come se il gallo avesse cantato tre volte. È del 26 novembre una lettera aperta firmata «I damanhuriani tesserati Verdi per la

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Pace, residenti nel Canavese». Dove ci tengono a ricordare come a quel particolare ministro avessero l’abitudine di dare del tu:25 Al presidente nazionale dei Verdi per la Pace [...]. Noi siamo i damanhuriani che hanno votato il partito del quale sei presidente nazionale e questo lo sai bene, perché i risultati elettorali parlano da soli e sono indiscutibili: siamo le stesse persone che hanno lavorato in tutto il Piemonte per consentire la raccolta delle firme nelle diverse elezioni amministrative regionali e politiche e alcuni dei nostri rappresentanti ti hanno seguito e votato anche nei congressi nazionali di partito. Ti abbiamo sostenuto al punto che, ad esempio nel comune di Vidracco, alle primarie dell’Unione tu hai surclassato Prodi nelle preferenze di voto espresse dagli elettori. Sai altrettanto bene che due damanhuriani sono tuoi consiglieri nazionali, così come conosci benissimo il presidente dell’esecutivo provinciale di Torino. Forse, però, non ci conosci abbastanza bene, almeno non al punto da sapere che siamo persone abituate a dire sempre quel che pensano, per poi agire di conseguenza. Tu hai visitato la costruzione ipogea chiamata Templi dell’Umanità e sei stato nostro gradito ospite a pranzo: come hai potuto negare di conoscere Damanhur e i damanhuriani? Quale amnesia ti ha improvvisamente colpito quando la conduttrice de La 7 ti ha chiesto se i damanhuriani votano Verdi per la Pace? Ti ringraziamo per le parole di elogio che hai avuto nel commentare la costruzione delle case ecologiche mostrate nel servizio filmato, ma i tuoi commenti su Damanhur ci hanno stupiti e fortemente rammaricati. Tu, oggi, sei un ministro della Repubblica italiana ma, per tua scelta e con il nostro contributo di voto, sei contemporaneamente il presidente nazionale del nostro stesso partito: non comprendiamo come sia possibile il curioso sdoppiamento di personalità che sembra averti causato una sorta di amnesia televisiva. Forse pensi che siamo persone tanto strane, al punto da negare la reciproca conoscenza? Non vorremmo che questo dire e non dire, questo raptus negazionista che ti ha portato soprattutto a non dire quel poco che di noi conosci, fosse dettato da una larvata forma di razzismo ideologico, magari procurata dalla solita cultura cattolica benpensante. Presidente, tu hai combattuto tante battaglie per l’affermazione d’importanti diritti civili: perché non continui a batterti per eliminare del tutto, a partire dalla tua coscienza, nuove forme di emarginazione culturale? In questi giorni i nostri indirizzi di posta elettronica sono pieni di richieste di spiegazioni che ci arrivano dalle diverse centinaia di elettori che si sono fidati delle nostre scelte politiche e che hanno contribuito votando anch’essi per il Sole che ride. Questa situazione è fortemente imbarazzante sia per il nostro continuo, e critico, dibattito interno, sia nei confronti delle persone che fanno riferimento

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a Damanhur per le iniziative culturali e politiche. Ritieni possibile e utile affrontare insieme i tanti dubbi che ti abbiamo esplicitato in questa lettera? Nell’attesa di una tua risposta ti inviamo i nostri saluti verdi La lettera è solo la punta dell’iceberg. Dietro c’è la gelida arringa di Falco tradito al «popolo», durante una delle sue serate rituali. Della serata troviamo il resoconto, come sempre, in un articolo del loro quotidiano interno,26 accuratamente corredato da due foto del Pecoraro dei bei tempi andati:27 nella prima lui sorride mostrando il libretto su Damanhur La città sotterranea, nell’altra è in posa con Bisonte, Caimano e la Francescato. L’improvvisa «amnesia» che ha colto Alfonso Pecoraro Scanio durante la trasmissione di La7 di lunedì sera, all’interno della quale ha fatto finta di non conoscere Damanhur, è stata una degli argomenti trattati durante la serata di ieri. Falco ha letto pubblicamente la lettera indirizzata al segretario nazionale dei Verdi. [...] Il documento verrà inviato oggi a Pecoraro Scanio, ma anche al blog di La7, affinché sia visibile a tutti. L’analisi che è stata fatta dal Dipartimento di Politica di Damanhur ha messo in evidenza l’esistenza di riserve nei nostri confronti, che si pensavano superate ed invece erano solo sopite. «Avevamo dei dubbi che alcuni dirigenti nazionali nutrissero questo tipo di atteggiamento nei nostri confronti» spiega Bisonte Quercia (segretario provinciale dei Verdi a Torino) «ma ora ne abbiamo la certezza. Dobbiamo avere la capacità di trasformare un evento apparentemente negativo in maniera positiva e investire ancora più energia nell’opera di rinnovamento dei Verdi e della politica. Noi non vogliamo avere niente a che vedere con questo tipo di politici [...]. La nostra direzione è da inquadrare adesso nel panorama nazionale: non tutti i dirigenti Verdi concordano con la posizione di Pecoraro, e anzi condannano il suo comportamento, che non fa altro che alimentare ulteriormente il malcontento già esistente nei suo confronti. La politica italiana è in gran fermento, ci sono nuovi partiti che nascono, altri che si disfano, alleanze, gruppi e sottogruppi di vario tipo: anche nei Verdi si stanno creando dei nuovi assetti. Se fino adesso ci “tappavamo il naso” e andavamo avanti comunque, da adesso non siamo più disposti a farlo. L’evento accaduto con Pecoraro è per noi un segnale chiaro che i tempi sono maturi. All’interno dei Verdi ci sono tante correnti scontente di Pecoraro Scanio e c’è la ferma

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intenzione di rilanciare il partito rinnovando i dirigenti e la guida stessa.» Bisonte sta facendo un’azione per coinvolgere nel movimento tutti i dirigenti dei Verdi, da quelli locali a quelli nazionali, inviando il filmato di La7, la sbobinatura dell’intervento di Pecoraro e la lettera da noi spedita. Seguirà l’opera di mediazione dell’amica Grazia Francescato durante il consiglio federale nazionale dei Verdi a Roma.28 «L’incontro con Pecoraro» racconta Coboldo «prima dell’inizio dei lavori, è stato piuttosto freddo, senza alcun accenno al suo comportamento alla trasmissione di La7. Noi non siamo andati a salutarlo, è venuto lui, dopo un po’. Si è parlato in maniera informale della situazione generale e di Torino. Della questione avevamo fatto cenno in precedenza a Grazia Francescato. Lei ha parlato a lungo con Pecoraro e ci ha riferito che lui ha ammesso di aver fatto una cosa stupida, giustificandosi con il fatto di aver subito forti pressioni dal direttore del “Giornale”. In compenso lei ha una grossa stima per noi e non esiterà a darci il suo sostegno, in maniera personale e a nome dei Verdi, in qualsiasi forma noi riteniamo opportuna.» Ma la mediazione della Francescato fallirà miseramente, a giudicare dalla pietra tombale che ci mette sopra Antonio Nigro all’indomani delle elezioni del 2008 (tragiche per la cosiddetta sinistra «radicale» con cui i Verdi si erano schierati): «In un colpo solo ci libereremo di chi aveva occupato le segreterie dei partiti trasformandole in piccoli regni personali. A cominciare da quel contenitore politico dei Verdi che stiamo utilizzando per arrivare ai traguardi che ci siamo prefissi. Pecoraro Scanio è caduto in disgrazia (da quando ha perso la memoria nei nostri confronti?), si è dimesso e difficilmente gli sarà permesso di ripetere le mosse che in passato lo hanno visto diventare presidente dei Verdi».29 Pecoraro passa, così, dai Templi alla polvere. Ma in realtà questo vale anche per l’investimento politico di Airaudi nei Verdi, che escono dal Parlamento e si dissolvono politicamente. Si legge su Repubblica quello stesso anno: «Si parla dei Verdi [...] un partito che era presente in tutte le principali istituzioni piemontesi dal 1985 [...] ormai confinato in una “riserva” sia pur di lusso: quella della comunità di Damanhur, nell’alto Canavese, ultimo reale serbatoio elettorale e il cui leader Antonio Nigro (Bisonte Quercia) è oggi anche il segretario regionale dei Verdi. Ecco ciò che è rimasto dei Verdi piemontesi».30

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Dei Verdi in Parlamento non resta niente.31 Ma ai damanhuriani restano ancora amici in posti importanti. Abbiamo già visto tracce degli (ottimi) rapporti con Mercedes Bresso, presidente della Provincia di Torino dal 1995 al 2004 e governatrice della Regione dal 2005 al 2010 (quando poi fu battuta ai punti dal leghista Roberto Cota). Loro lo dicono chiaramente: con la Bresso, nota per la sua passione per l’ecologia,32 «Damanhur ha avuto sempre ottimi rapporti, condividendo i valori del lavoro, dell’energia pulita e dell’ambiente».33 Tanto per cominciare nel gennaio 200534 l’allora europarlamentare chiamò una damanhuriana, tale Zigola Centella, nella squadra incaricata di organizzare la sua campagna elettorale per il posto di presidente della Regione. Poi nel giugno dello stesso anno, l’appena eletta governatrice nominerà Valter Marenco (alias Gorilla Eucalipto) membro del consiglio dell’Environment Park torinese, un ente amministrato, oltre che dalla Regione, da Enel, Fiat e Comune di Torino.35 Negli anni, la Bresso a Damanhur è stata praticamente di casa, e da quelle parti ai convegni si facevano vedere anche un paio dei suoi assessori: Marco Balagna, all’Agricoltura, e Mario Valpreda, alla Sanità. Ma fra le visite della governatrice ricordiamo in particolare la partecipazione a un incontro del 15 dicembre 2009. Sotto elezioni, in compagnia dell’ex deputato ed ex verde Paolo Cento36 e dell’allora consigliere regionale Luca Robotti (tutti facenti parte del coordinamento nazionale di Sinistra, Ecologia e Libertà). Solo pochi giorni prima, l’8 dicembre, la Bresso aveva preparato il terreno per ottenere un’accoglienza trionfale, dichiarando che: «Da oltre trent’anni i cittadini della Federazione di Damanhur si impegnano in maniera esemplare per rivitalizzare una zona marginalizzata e duramente colpita dagli effetti dello spopolamento postindustriale. I loro risultati dimostrano che anche nel mondo occidentale è possibile sperimentare nuovi modelli sociali, verso la creazione di una società ecosostenibile, innovativa e giusta». Simpatia nei confronti di Damanhur la manifesta anche un autorevolissimo esponente del centrosinistra italiano, l’onorevole democratico Piero Fassino, in quel periodo anche lui a caccia di voti per il sindaco uscente d’Ivrea. In quell’occasione Fassino è entrato negli annali, accogliendo la delegazione del loro partito con un caloroso «con te». Un gesto che stupì tutti,37 e mise evidentemente i leader politici airaudiani dell’umore giusto per tentare di avvicinare, lo stesso giorno, il sindaco torinese Sergio Chiamparino (con l’obiettivo di «stringere i contatti»).38 Qualche giorno dopo, nonostante fosse stato invitato all’inaugurazione di Dh Crea, Fassino non riuscì a partecipare. Ma ciò non gli impedì di far sentire la sua calorosa presenza, inviando addirittura un filmato registrato con il suo saluto (e «tutto il suo appoggio»).39 Ragion per cui da quando lo stesso Fassino ha lanciato la propria candidatura a sindaco del capoluogo

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piemontese, il 18 dicembre 2010, i damanhuriani si fregano le mani. Restando nella stessa area politica, infine, si ricordi la collega deputata del Pd Livia Turco, che i damanhuriani li incontra almeno due volte40 prima che passi la legge per la quale il Conacreis si stava battendo. A fine 2010 i contatti dei damanhuriani con il centrosinistra si stanno intensificando. Evidentemente Falco e i suoi valutano la possibilità di scommettere sull’opposizione di oggi, nella speranza che diventi la maggioranza di domani. Quindi sul Pd (col quale hanno già, come abbiamo visto, qualche contatto di lunga data), ma anche sull’Italia dei Valori. Sicuramente una sponda nel Partito democratico i leader airaudiani – nella doppia veste Conacreis e Damanhur – l’hanno trovata, e proprio sul tema che in questo momento sta loro più a cuore, cioè il «riconoscimento dello status giuridico di comunità»: se si concretizzasse, sarebbe una specie di legge salva-Damanhur. A Roma alcuni parlamentari del Pd hanno accolto le loro istanze in questo senso, tanto che il 23 novembre 2010 Giovanna Melandri ha presentato una proposta di legge.41 Che cosa significhi in pratica lo spiega Elfo Frassino: le (cosiddette) Comunità intenzionali42 «potranno stabilire rapporti di lavoro al loro interno in regime di agevolazione fiscale. [...] Oltre al lavoro, le risorse economiche attraverso cui le Comunità intenzionali potranno finanziarsi riguarderanno [...]: donazioni, lasciti, eredità ed erogazioni liberali,43 contributi di amministrazioni o enti pubblici, entrate derivanti da prestazioni di servizi verso terzi privati o pubblici. [...] Sarà inoltre opportuno prevedere la possibilità di concedere opportunità urbanistiche secondo parametri e indici che tengano conto delle esigenze di gruppi umani comunitari». Tutte e tre questioni particolarmente scottanti per la politica damanhuriana. Innanzitutto l’inquadramento del lavoro prestato dagli adepti: il loro obiettivo è di aggirare quel «sistema di tutela del lavoratore» che, come abbiamo visto, sta portando loro non pochi grattacapi (in pratica, un ritorno all’Ottocento).44 Poi c’è la questione delle donazioni – e simili – imposte ai cittadini dalla loro Costituzione, un aspetto importante per scongiurare ogni rischio di rivendicazioni economiche da parte dei fuoriusciti.45 Per non parlare delle «opportunità urbanistiche» (la possibilità, insomma, di costruire quel che gli pare dove gli pare).46 L’altra sponda politica, invece, Damanhur era andata a cercarla nell’Idv. Nel corso della stessa giornata del politico democratico, riferisce Coboldo, «è avvenuto un altro incontro, nella Sala dei Presidenti di Palazzo Chigi, con un parlamentare dell’Italia dei Valori che sta creando un nuovo movimento olistico».47 Fondatore del Movimento Olistico, creato a Roma nel settembre 2010,48 è Domenico «Mimmo» Scilipoti, il medico agopuntore siciliano oggi

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deputato del gruppo misto, ossia il famoso peon diventato ago-della-bilancia il 14 dicembre 2010, quando, fulminato dalla mistica berlusconiana, ha contribuito a prolungare artificialmente la vita del governo. Scilipoti, che a ben vedere nell’Idv già ci si sentiva stretto per le sue ambizioni,49 a quanto pare ha già accolto a braccia aperte un damanhuriano (cioè Dino Raccagni, Piranha) come consulente50 del neonato movimento. Ma c’è un altro più fedele dipietrista di recente conversione che sembra andare piuttosto d’accordo con gli obiettivi della loro lobby: è Giorgio Schultze del Partito umanista, braccio politico del Movimento umanista,51 che sul tema delle comunità intenzionali ha partecipato a una tavola rotonda modenese organizzata dal Conacreis nel maggio dello stesso anno. Che i loro agganci siano leghisti o forzisti, verdi o democratici, umanisti o dipietristi, agli airaudiani però poco importa: per citare il loro politico di punta, Antonio Nigro, i partiti sono solo contenitori politici usa e getta. Quel che conta è Damanhur. 1 Claudio Antonelli, I mille di Damanhur, regno dell’utopia, «Libero», 24 agosto 2005. 2 Nigro e Sparagio, gli uomini di punta della politica damanhuriana, nel 2001 tentano perfino, senza successo, di candidarsi alla Camera dei deputati dietro al simbolo del loro partito, Con te per il Paese, con il logo che raffigura l’Italia stilizzata alla loro maniera (Rita Cola, Damanhur si presenta per la Camera, «la Repubblica», 5 aprile 2001). 3 Piero Colaprico, Il santone diventa sindaco, «la Repubblica», 25 giugno 1999. 4 Coordinamento nazionale delle associazioni e comunità di ricerca etica interiore e spirituale. 5 Maria Teresa Veneziani, New Age, un «caso» nel governo, «Corriere della Sera», 29 gennaio 1999.

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6 www.conacreis.it. 7www.damanhur.org. 8 www.conacreis.it. 9 Cioè la legge 383 del 2000, fortemente voluta dall’allora ministro per la Solidarietà sociale Livia Turco, oggi deputata Pd. 10 «Chi ha paura della New Age? Livia Turco, ministro per la Solidarietà sociale, ha annunciato un’indagine per “comprendere a fondo” un fenomeno in crescita e “fare chiarezza” nel settore. E sarà anche modificato il Codice civile “per riconoscere queste attività di ricerca spirituale” dice Lucia D’Arbitrio, presidente del Conacreis, il Coordinamento nazionale delle associazioni di ricerca etica e spirituale “per la prima volta, la politica non persegue le nuove realtà, ma cerca di capirle per tempo, e la nostra primaria richiesta è proprio il riconoscimento giuridico per operare in trasparenza”. [...] Forse è per questo che l’“apertura” del ministro sembra preoccupare non poco i vertici della Chiesa cattolica. In prima pagina, ieri “Avvenire” commentava il fatto con un titolo emblematico: Strane attrazioni: la Turco fa l’occhiolino alla New Age. Le perplessità dei cattolici sono espresse dall’antropologa Cecilia Gatto Trocchi che definisce l’iniziativa del governo “molto grave”. E la New Age “un fenomeno inquietante, ma di cui nessuno sa nulla perché passa per spirituale”. Insomma, la “scoperta” della New Age da parte del Palazzo rischia di far scoppiare una vera rivoluzione non solo fra la Chiesa e le istituzioni (“Se il ministro legittima tutto questo, vuol dire che adesso sarà lotta aperta” scrive “Avvenire”» (Maria Teresa Veneziani, New Age, un «caso» nel governo, «Corriere della Sera», 29 gennaio 1999). 11 «Per iniziativa di Lucia D’Arbitrio è nato il Conacreis che adesso chiede al governo: “Norme alle quali si debbano sottoporre quelle associazioni e gruppi che vogliono lavorare nella trasparenza”. [...] L’operazione nasce con il

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supporto dei Verdi, che hanno aperto le porte a questo girotondo di esperienze» (Maria Novella De Luca, Voglia di stare nella comune. I Figli dei fiori sono tornati, «la Repubblica», 17 febbraio 1999). 12 «Rappresenterebbe una grave limitazione dei diritti consolidati e delle libertà del cittadino» spiegavano all’epoca. 13 Prima di Forza Italia, poi del Pdl. Oggi è sottosegretario per la Giustizia. 14 «La realizzazione di un sogno è un tema che ha toccato nell’intimo diverse persone, non ultimo il senatore Boco, dei Verdi, che con il suo sincero discorso ha creato non poca commozione nel pubblico presente in sala. “L’intervento del Senatore Boco” sottolinea Coboldo Melo “è stato molto apprezzato, tra l’altro lui non sapeva di dover fare un intervento, lo ha scoperto quando è arrivato, dieci minuti prima dell’inizio dei saluti da parte delle autorità. Credo sia, quindi, apprezzabile anche il fatto che non fosse un discorso preparato, ma assolutamente spontaneo.” Al termine della fase dei saluti, il senatore Boco si è incontrato a lungo con Falco e i responsabili di Con te per il Paese, per parlare di politica e valutare i punti di incontro tra i Verdi e Damanhur. “Stiamo valutando alcuni ipotesi” prosegue Coboldo “il senatore ha fatto esperienze interessanti riguardo l’organizzazione di iniziative, che possono essere molto interessanti. Ci siamo lasciati con l’impegno di organizzare uno o due iniziative politiche per la prossima campagna elettorale”». (Cavalletta Prezzemolo, Damanhur Crea: il sogno realizzato. Suscita commozione il discorso del senatore Boco, «Qui Damanhur Quotidiano», 19 maggio 2004). 15 «Nel 1973 ho [...] girato tutta l’Italia in cerca di realtà alternative alla famiglia, le comunità di allora: erano quasi tutte comunità ideologiche, parlavano di rivoluzione, qualcuno parlava anche di prendere le armi. La maggior parte di queste comunità si è sciolta. Quando ho incontrato Damanhur, mi ha fatto piacere che resisteva, e non a caso, perché quella marcia in più che ha permesso loro di sopravvivere è stato proprio l’elemento spirituale.»

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16 «Io vi vedo come quei monaci del Trecento che, in momenti di crisi della società, cominciarono a mettere in pratica concretamente ciò che pensavano. E hanno contribuito a cambiare quel mondo [...]. Sono anche convinto – ve lo dico da politico di parte, da Verde, che fa parte del gruppo dirigente verde della Toscana e nazionale – che il vostro mondo abbia bisogno di attenzione da parte dei Verdi [...]. È evidente che per rapportarsi con la vostra ricchezza il movimento dei Verdi italiani deve cambiare, deve confrontarsi. Io sono nei Verdi per fare questo, voglio fare questo. [...] Cominceremo un percorso di confronto perché poi si tratta di fare confronti, non di altro. Io penso di poterlo fare e penso di farlo anche partecipando alle vostre associazioni.» 17 Fissato per l’aprile 2011, prezzo del corso millecento euro, vitto e alloggio non inclusi. 18]Alfonso Pecoraro Scanio oggi a Damanhur, «Qui Damanhur Quotidiano», 7 giugno 2004; Coboldo Melo, La visita di Pecoraro Scanio. In visita anche l’onorevole Laura Cima e la coordinatrice regionale, «Qui Damanhur Quotidiano», 8 giugno 2004. 19 Coboldo Melo, Un damanhuriano nel Consiglio federale nazionale, «Qui Damanhur Quotidiano», 26 luglio 2004. 20 Esposti durante una delle serate rituali in cui Airaudi incontra il suo popolo, e riportati su Daina Albicocca, Politica, Self e Quesiti, «Qui Damanhur Quotidiano», 24 novembre 2004. 21 «I membri della Scuola di meditazione sono andati in giro in massa in tutta la provincia, nonostante le pesanti nevicate e le temperature sotto lo zero» (damanhur.org). 22]Ibidem.

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23 «Altra domanda è stata rivolta al ministro dell’Ambiente, Alfonso Pecoraro Scanio, chiedendogli se siamo suoi elettori e se ha fatto accordi con noi: il politico con fare piuttosto imbarazzato, senza sbilanciarsi ha detto che immagina che persone come i damanhuriani votino i partiti ambientalisti» (Elefantina Genziana, Ieri servizio su La 7, «Qui Damanhur Quotidiano», 20 novembre 2007). 24 «Pecoraro Scanio nel corso della trasmissione di La 7 di lunedì 19 novembre 2007 ha fatto affermazioni ambigue che non c’è neanche bisogno di commentare: riportiamo tale e quale le sue parole e quelle del direttore del «Giornale», Giordano, per quanto riguarda il commento al filmato e alla realtà damanhuriana (nel filmato sono state viste e descritte le case ecologiche citate nelle risposte). La giornalista ha detto nel video che i mille cittadini di Damanhur si sentono al riparo dalla crisi energetica mondiale, prima di intervistare Falco» (Elefantina Genziana, E «bravo» Pecoraro!, «Qui Damanhur Quotidiano», 20 novembre 2007). 25www.la7.it. 26 Cavalletta Prezzemolo, Quello smemorato di Pecoraro..., «Qui Damanhur Quotidiano», 22 novembre 2007. 27 È pratica consolidata dei damanhuriani documentare ogni incontro dei politici in pellegrinaggio elettorale con numerose foto (gran parte delle quali sono in nostro possesso). 28 Biancone Bouganville, Verdi. Consiglio Federale Nazionale a Roma, «Qui Damanhur Quotidiano», 29 gennaio 2008.

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29 Bisonte Quercia, Analisi voto, «Qui Damanhur Quotidiano», 25 aprile 2008. 30 Marco Trabucco, Quel che resta del sogno ambientalista in Piemonte, «la Repubblica», 21 maggio 2008. 31 «La Federazione dei Verdi guidata da Angelo Bonelli è decimata: fuori dal Parlamento, italiano ed europeo, con soli cinque consiglieri regionali (eccetto i tre Grünen trentini), l’aria da ultimi giapponesi a portare avanti le battaglie ambientaliste. Una disfatta. I più recenti risultati elettorali parlano chiaro: in quelle regioni dove Bonelli è riuscito a presentare una lista autonoma, le percentuali hanno oscillato fra lo 0,7 e l’1,7 per cento. Numeri da Partito dei pensionati. O da specie in via d’estinzione. E pensare che in Europa le cose vanno nella direzione opposta. In Germania, i Grünen del turco-tedesco Cem Özdemir hanno portato a casa il 10,7 per cento alle politiche dello scorso anno, e gli ultimi sondaggi lo danno addirittura al 19, tanto da far scommettere su di un rimpasto di governo: fuori i liberali e dentro i Verdi, accanto alla cancelliera Merkel. Stesso andazzo in Francia, dove alle europee del 2009 Europe Ecologie di Daniel Cohn Bendit ha fatto il botto: con il 16,3 per cento ha quasi raggiunto i socialisti e punta a diventare secondo partito» (Gianni Del Vecchio e Stefano Pitrelli, Il Sole che ride non ride più, «L’espresso», 2 settembre 2010). 32 Esperta di economia dell’ambiente, ha insegnato questa disciplina in numerose università e corsi in Italia e all’estero. Il proprio lavoro di ricerca l’ha portata adessere considerata a livello internazionale una delle principali studiose di economia ecologica. 33www.damanhur.org. 34]Ibidem.

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35]Ibidem. 36 Eletto alla Camera con i Verdi nel 2006, fu nominato sottosegretario di Stato all’Economia e alle Finanze nel secondo governo Prodi. Nel 2008, i Verdi si presentarono – senza riuscire a strappare un seggio – nella lista della Sinistra Arcobaleno, con Cento candidato per il Senato. Così nel 2009 Cento appoggia la Francescato, che spinge per entrare in Sel. Ma a vincere è la posizione opposta di Angelo Bonelli, eletto segretario. All’epoca del convegno Cento è stato appena espulso dai Verdi per aver continuato a far parte del coordinamento di Sel. 37 «Una delegazione di Con te per il Paese, formata da Bisonte Quercia, Coboldo Melo, Elfo Frassino e Lucciola Capelvenere, si è recata ieri sera a una conferenza presso la sala Santa Marta di Ivrea, alla quale ha partecipato anche Piero Fassino. L’evento è stato organizzato in occasione delle prossime elezioni comunali, che si terranno il 25 e 26 maggio a Ivrea. L’onorevole Fassino è intervenuto per sostenere la candidatura del Sindaco uscente Fiorenzo Grujiela, che ha deciso di ripresentarsi. Prima dell’inizio della conferenza c’è stata la possibilità, per i politici damanhuriani, di avere un breve scambio con l’onorevole, il quale li ha salutati con un “con te”, che ha stupito tutti quanti! Nel suo discorso pubblico, Piero Fassino ha anche sottolineato l’importanza rivestita dai movimenti politici locali, facendo chiaro riferimento, pur senza fare nomi, a Con te per il Paese. “Fassino ha fatto un ottimo discorso, da leader politico” commenta Bisonte Quercia “è stato molto concreto, con poca demagogia. Appena è entrato in sala è venuto a salutarci, chiedendomi come andavano le cose sia in Comunità, sia in Valle come Amministrazione. L’onorevole ha poi ribadito il desiderio di venirci presto a trovare”» (Cavalletta Prezzemolo, Un saluto che ha stupito tutti, «Qui Damanhur Quotidiano», 11 maggio 2003). 38 «Dopo la conferenza, la delegazione si è spostata a Lugnacco, dov’era in corso la Festa dell’Unità. Bisonte ha colto l’occasione per stringere contatti con il sindaco di Torino [cioè Sergio Chiamparino, NdA] e con gli altri politici e amministratori presenti» (Ibidem).

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39 «Piero Fassino ha dovuto rinunciare a venire ieri sera alla Damanhur Crea, a causa di sopraggiunti impegni istituzionali, cui non poteva mancare. Fassino ha, però, voluto far sentire la sua presenza, inviando un filmato nel quale ha espresso tutto il suo appoggio a Damanhur e all’amministrazione di Vidracco, per l’importante obiettivo raggiunto con la Damanhur Crea» (Cavalletta Prezzemolo, Un successo oltre ogni previsione, «Qui Damanhur Quotidiano», 19 maggio 2004). 40 «23 maggio 1998. Importante incontro a Roma con il ministro Livia Turco, per progetto di legge Conacreis» (Redazione, Diario Storico, «Qui Damanhur Quotidiano», 23 maggio 2006). Ma la Turco ricambierà due anni dopo: «13 aprile 2000. A Damanhur la ministra per la Solidarietà sociale Livia Turco» (Redazione, Diario Storico, «Qui Damanhur Quotidiano», 13 aprile 2005). 41 Due mesi prima si leggeva: «Proposta di legge alle battute finali, per avviare al più presto l’iter parlamentare per il riconoscimento giuridico delle Comunità intenzionali. Il testo proposto da noi, discusso e rivisto più volte in questi anni con altre Comunità e Associazioni di Conacreis e Rive è stato analizzato ancora una volta con un parlamentare del Pd nell’incontro di ieri a Roma. Un esperto giurista, stretto collaboratore del parlamentare, si è complimentato per il lavoro presentato formalmente da Conacreis e ha proposto soltanto un paio di riflessioni. Le osservazioni riguardano il momento di costituzione della Comunità e il versamento pensionistico collegato all’attività lavorativa svolta nel tempo da chi lascia la Comunità. [...] I tempi di presentazione della proposta di legge potrebbero essere molto brevi e le firme dei parlamentari presentatori non rappresentano un problema: in altre parole la proposta di legge potrebbe essere depositata anche nel giro di una settimana, fatta salva la consultazione sulle osservazioni discusse ieri. [...] “Noi” è stata la conclusione unanime dell’incontro di ieri “presenteremo comunque la proposta di legge sulle Comunità. Se il governo continuerà il suo lavoro” ha concluso il parlamentare “cercheremo di aggregare deputati di minoranza e maggioranza sensibili a questo argomento. Se ci saranno elezioni anticipate avremo già il testo depositato e lo riprenderemo senza rifare tutto l’iter.” All’incontro romano hanno partecipato Elfo Frassino, Testuggine Cacao e Coboldo Melo, nella doppia veste Conacreis e Damanhur, e buona parte del consiglio direttivo Conacreis» (Coboldo Melo, Ultimi ritocchi alla legge sulle Comunità, «Qui Damanhur Quotidiano», 24 settembre 2010).

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42 Sul sito del Conacreis vengono presentate come «Pacs allargati a più di due persone». Ma il significato patriottico-damanhuriano della Comunità intenzionale lo chiarisce Cristina Caparesi (La Federazione damanhuriana e lo Stato Italiano, cit.) «I cittadini di Damanhur hanno scelto di costituire una Comunità intenzionale perché, avendo obiettivi comuni, vanno verso una stessa direzione, diversamente dai cittadini italiani che si trovano a vivere nello Stato italiano per caso, quella che Ragusa [Gian Piero Ragusa, avvocato damanhuriano, NdA] definisce la comunità occasionale». 43 Ne Il sistema economico in Damanhur (dal loro sito ufficiale) si legge che: «Ogni forma di contribuzione che i cittadini versano assumono [sic] la forma di liberalità e/o quote societarie». 44 «Il lavoro comunitario è invece più assimilabile a quello volontario, che a quello salariale. [...] Con questo approccio si potrebbero trattare più correttamente anche gli aspetti previdenziali e gli accordi interni alla comunità stessa, derogando in parte alle regole di un sistema che nasce per tutelare i lavoratori nei confronti dei datori di lavoro.» D’altronde, proseguendo nel documento si legge che «le Comunità intenzionali sono per certi aspetti simili alle famiglie contadine dell’Ottocento». Ma poche righe più avanti si ritorna bruscamente nel Novecento: i rapporti di lavoro al loro interno dovranno essere «in regime di agevolazione fiscale» (www.conacreis.it, Per un riconoscimento giuridico delle Comunità Intenzionali). 45 «La proprietà potrà essere intesa in forma collettiva [...], con l’obbligo di destinare i beni ricevuti e le loro rendite al conseguimento delle finalità istituzionali [...] Oltre al lavoro, le risorse economiche attraverso cui le Comunità intenzionali potranno finanziarsi riguarderanno, a titolo non esaustivo: donazioni, lasciti, eredità ed erogazioni liberali, contributi di amministrazioni o enti pubblici, entrate derivanti da prestazioni di servizi verso terzi privati o pubblici» (Ibidem). 46 «Sarà inoltre opportuno prevedere la possibilità di concedere opportunità urbanistiche secondo parametri e indici che tengano conto delle esigenze di gruppi umani comunitari. Tali possibilità saranno recepite all’interno dei Piani

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Regolatori comunali, anche ricorrendo allo strumento delle Aree Speciali» (Ibidem). 47 Coboldo Melo, Ultimi ritocchi alla legge sulle Comunità, «Qui Damanhur Quotidiano», 24 settembre 2010. 48 «Poi c’è stato un momento significativo: un professionista olistico che si occupa di canto armonico – musicoterapia ha condotto per alcuni minuti una dinamica, dove abbiamo chiuso gli occhi e in silenzio, con un sottofondo di suoni, ci siamo messi in frequenza tra tutti noi e infine ci si è presi tutti per mano mettendo attenzione all’importanza di cucire e unire le varie realtà olistiche in una direzione di evoluzione e di responsabilità. È stato un momento di grande emozione e soprattutto la prima volta che in questo luogo della politica le persone si prendono per mano con un apertura di cuore profonda» (Piranha, Assicurazione Movimento Olistico - Piranha consulente del nascente movimento, «Qui Damanhur Quotidiano», 23 settembre 2010). 49 «Domenico Scilipoti ha confermato quanto anticipato in un precedente incontro romano: se Italia dei Valori accoglierà tutti i punti del programma di lavoro del neo Movimento inizierà un’interessante collaborazione. In caso contrario Scilipoti annuncerà la sua uscita dal partito di Di Pietro e farà parte del gruppo misto della Camera, nel quale rappresenterà direttamente il Movimento Olistico» (Coboldo Melo, E tre: nasce il Movimento Olistico, «Qui Damanhur Quotidiano», 9 ottobre 2010). 50 «Ho conosciuto l’onorevole Domenico Scilipoti che ha apprezzato il mio intervento, abbiamo condiviso alcuni aspetti tecnici inerenti la sua proposta di legge per la musicoterapia che ha presentato alla Camera e resteremo in contatto per sviluppi da concretizzare. Seguirò il Movimento Olistico come consulente, fornendogli i servizi assicurativi per le associazioni e operatori olistici. Ho incontrato molte persone [...], tessendo contatti utili sia per sviluppi professionali, che per la visita ai Templi dell’Umanità (Piranha, Assicurazione Movimento Olistico, cit.)

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51 Un altro gruppo settario di cui parleremo in seguito. 10. Il Risiko della Val di Chy Airaudi ha sempre amato il gioco del Risiko, il gioco di strategia da tavolo che mette in scena una guerra planetaria. A Damanhur se ne usa una particolare variante magica di sua invenzione, il cosiddetto Super-Risiko damanhuriano. Il Super-Risiko damanhuriano è un sistema, un laboratorio, un corso che ha la funzione di simulare possibili realtà storiche di immaginari popoli, di questo o di altri pianeti. Viene usato per esercitarsi alla politica, alla conduzione di popoli e gruppi umani, per prevedere possibili sviluppi storici anche del nostro pianeta. [...] Addestra a complesse strategie di scelta, misurando lo sviluppo dei vari popoli-giocatori attraverso parametri bellici, politici, commerciali, economici, ambientali, tecnologici e sociali, da collocarsi in epoche storiche a volte primitive, altre volte simulando scenari fantascientifici, impiegando, spesso contemporaneamente, diversi tavoli da gioco e componenti costruiti manualmente dai giocatori stessi. Il Super-Risiko damanhuriano può anche diventare una tavola di mantica, oppure innescare rispondenze su questa o altre realtà, mediante l’applicazione consapevole del pensiero magico.1 Falco lo usa per formare i propri lobbisti prima di inviarli nel mondo «esterno». Ma la loro strategia di conquista – la stessa che, come abbiamo visto, li porta a contatto con ministri e parlamentari – in realtà inizia dall’uscio di casa. La Valchiusella – o Val di Chy, come amano ribattezzarla gli airaudiani – è popolata in tutto da circa cinquemila persone. Se i loro «cittadini» fossero un migliaio, come sostengono, un abitante su cinque sarebbe damanhuriano e quindi avrebbero probabilmente in mano la stragrande maggioranza delle amministrazioni locali. Non è così, ma non perché non ci provino. Certo è che Con te per il Paese ha decisamente un vantaggio competitivo su qualsiasi altra formazione politica della valle: l’assoluta determinazione dei propri votanti.

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Per Damanhur, infatti, la fede politica non sembra spostare solo i propri voti, ma addirittura gli elettori. Come spiegare altrimenti le migrazioni a orologeria di comune in comune delle residenze di decine di fedelissimi (subito prima, o giusto a ridosso delle scadenze elettorali)? Niente di illegale s’intende: grazie alla loro nutrita pattuglia di avvocati-cittadini, i giocatori del Risiko damanhuriano sanno bene come muovere le proprie «truppe» entro i limiti di legge. Ma uscendo dal diritto ed entrando in politica, queste migrazioni elettorali costituirebbero una leva importante con cui esercitare pressione sugli amministratori locali. Lo sostengono dietro garanzia di anonimato alcuni funzionari pubblici piemontesi, come Alberto, una delle nostre fonti: «In questi paesini il numero dei votanti è davvero risibile, e un pugno di dieci, venti, trenta voti può davvero fare la differenza. Cosa che, insieme alle stime propagandistiche sulle dimensioni della popolazione damanhuriana, finisce per intimorire i sindaci della zona». Non è sempre stato così. All’indomani della prima vittoria elettorale damanhuriana, che aveva visto Nigro e i suoi conquistare il Comune di Vidracco, nove amministratori locali «ribelli» (fra sindaci e consiglieri comunali) si riuniscono per scrivere al prefetto della Provincia di Torino e al procuratore della Repubblica di Ivrea.2 È il 16 luglio del 1999, e nella lettera i firmatari presentano un piccolo censimento dei damanhuriani nel territorio di Vidracco: «260 persone che si sono inserite [nel] Comune, in cui gli abitanti erano circa 350». Come si è arrivati a questo punto? «Dall’anno 1996 si è verificato un consistente flusso immigratorio di adepti della comunità Damanhur verso Vidracco, pari a 141 persone, particolarmente accentuata nell’anno 1998 (69), e nei primi quattro mesi del 1999 (40). Tali persone hanno assunto formale residenza nel Comune di Vidracco». E con essa, ovviamente, il diritto di voto. Insomma, in soli tre anni Vidracco era diventato tutt’un altro paese. Con tutt’un altro elettorato. I sindaci della lettera fanno anche osservare come i dati su queste migrazioni indichino una «notevole concentrazione di persone agli stessi numeri civici», con picchi affollatissimi di dieci, quindici o venti residenti per civico, manifestando i propri sospetti su un’ipotetica operazione di facciata. Chiedono, in sostanza, «una verifica della effettiva residenza di tale persone e un accertamento circa la presenza di tali persone anche dopo le tornate elettorali». «La lettera» ci racconta Alberto «arrivò alle forze dell’ordine, che iniziarono a andare in giro facendo domande. Ma Damanhur attivò subito i propri referenti politici.» Poco tempo dopo, infatti, a scomodarsi sono – non sorprendentemente – due deputati verdi: Lino De Benetti e Mauro Paissan. La

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loro interpellanza urgente ha i toni di chi denuncia una caccia alle streghe: «All’inizio dello scorso mese di settembre i carabinieri [...] hanno convocato i rappresentanti della Federazione di comunità Damanhur, la quale aderisce al Conacreis. [...] I carabinieri hanno rivolto ai rappresentanti di Damanhur una serie di domande relative al numero dei damanhuriani residenti nei comuni della zona [...] Sempre nel mese di settembre [...] nel comune di Baldissero Canavese i carabinieri hanno chiesto ulteriori notizie dello stesso genere, con un comportamento a mio avviso gravemente lesivo delle libertà costituzionali». De Benetti, chiamato a parlare, mostra di ignorare la questione del «pellegrinaggio elettorale», e conclude che «pertanto non si riesce a capire per quale motivo siano state sottoposte a un’indagine che è sostanzialmente di polizia: a me francamente è apparsa una schedatura fuori luogo, che lede profondamente la libertà religiosa». Livia Turco, che gli risponderà in veste di ministro per la Solidarietà sociale, mostra invece di essere a conoscenza della ragione dietro alle domande dei carabinieri. Ma si limita a riferire che «l’esito degli accertamenti, limitati ai due comuni, è stato riferito al prefetto di Torino e all’autorità giudiziaria». «Dopo l’interrogazione parlamentare, però» chiosa Alberto, «l’appello cadde di colpo nel dimenticatoio.» Lo strano caso dei pellegrinaggi elettorali invece non si conclude qui. Anzi. Attraverso i dati da noi ottenuti siamo in grado di documentarli in almeno altri due comuni della valle. Tutti comuni nei quali normalmente – va da sé – le migrazioni stanno a zero o quasi. Vistrorio, innanzitutto. Un paesino che supera di poco i cinquecento abitanti, dove a cavallo di due tornate elettorali3 le residenze chieste e ottenute dai damanhuriani4 giusto a ridosso delle elezioni5 sono state venticinque: undici per le amministrative del 2000 e quattordici in vista di quelle del 2005. Nel frattempo ci sono state altre migrazioni in uscita, a cavallo delle elezioni nei paesi vicini, compensate però dall’arrivo di altri dieci poco prima di quelle del 2010. «Dal picco del 2005 quindi» conferma Alberto, «il fronte degli elettori damanhuriani in Comune è rimasto stabile»,6 garantendo ai propri politici di riferimento una base di voti costante. Base che a Vistrorio si attesta da almeno due anni sulle trentasei-trentasette persone, ma qui bisogna notare come in un comune con circa trecento aventi diritto al voto una trentina di persone rappresenti un buon dieci per cento dell’elettorato. Il fenomeno si ripete pari pari nel vicino comune di Lugnacco, dove – ci conferma Pasquale, un’altra fonte interna all’amministrazione locale – le residenze richieste dai damanhuriani a ridosso delle amministrative del 2004 sono ventiquattro.

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A destar clamore sulla stampa locale, infine, ci sono stati i trentacinque damanhuriani che recentemente hanno dato l’assalto al comune di Baldissero Canavese in vista delle elezioni 2010. Così scrive «La Voce del Canavese»: Damanhur sposta trentacinque residenze a Baldissero. Così si potrebbe capovolgere il risultato elettorale, a tutto svantaggio della cosiddetta Lista della Pro Loco. I votanti damanhuriani, infatti, raddoppiano. Lo spostamento delle residenze è avvenuto nei giorni scorsi. Nulla di nuovo visto che i candidati della setta hanno abituato da anni i valligiani alle loro strategie preelettorali. Ma stavolta questo potrebbe valere loro la conquista di un territorio importante, finora «inespugnato». Il candidato Diego Nigra, in caso di vittoria, addirittura avrebbe promesso loro due assessorati, e uno potrebbe spettare guarda caso ad Alemanno, moglie dell’ex sindaco di Vidracco Nigro. «Facciano loro» si limita a commentare Gino Ferrero Vercelli, candidato sindaco della lista della Pro Loco. «Di sicuro porteranno una bella scorta di voti. Per quanto ci riguarda non avevamo accettato un’alleanza perché i damanhuriani chiedevano troppo, e rimaniamo sulle nostre posizioni.»7 A togliere ogni dubbio sull’interpretazione di questi flussi migratori a orologeria ci dà ancora una mano Giglio, che ha partecipato in prima persona come fante in questo Risiko della valle: «Noi ci muovevamo in base alle esigenze di Damanhur, era la routine. Io negli anni ho trasferito la mia residenza di volta in volta a Baldissero Canavese, Vidracco e Vistrorio, cioè dove in quel periodo serviva che si portassero voti. A volte si traslocava sul serio, altre si spostava solo la residenza. In quel caso facevamo in modo di farci trovare in casa quando venivano a controllare, o comunque mettevamo i cartellini coi nostri nomi sulle porte a dimostrazione del fatto che vivevamo lì». E tuttavia, ci fa capire Alberto, «a parte Vidracco, che è la loro roccaforte, il vero obiettivo nei comuni non è tanto “vincere” le elezioni ed eleggere il sindaco, quanto piuttosto inserire consiglieri di minoranza nei comuni, e quindi, a cascata, ottenere consiglieri nella Comunità montana della Valchiusella». La cosa funzionava così, continua Alberto: «Il meccanismo di formazione del consiglio di Comunità montana avveniva in ogni comune attraverso la votazione segreta dei consiglieri comunali per eleggere i rappresentanti del consiglio in seno alla Comunità montana. Ogni comune doveva eleggere tre rappresentanti consiglieri in Comunità montana garantendo la rappresentatività delle minoranze, quindi tipicamente si eleggevano due rappresentanti per la maggioranza e un rappresentante per la minoranza. Conquistare consiglieri di minoranza nei comuni voleva dire garantirsi la presenza di consiglieri damanhuriani in Comunità montana».

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Un’ipotesi che trova riscontro sulla stampa damanhuriana: «Siamo presenti in dieci paesi alle elezioni comunali, per ora abbiamo il sindaco di un paese ma contiamo come minimo di avere in altri comuni delle minoranze consistenti, che come tali, se sufficienti, vanno al governo della valle, cioè della Comunità montana, dove noi puntiamo a essere ben più dell’ago della bilancia; in questa situazione andare al governo della Comunità montana vuol dire lavorare alla pari delle altre Comunità montane della Regione Piemonte e questo vuol dire avere un peso: si tratta dello sviluppo tattico del programma».8 «Nell’ultimo consiglio della Comunità montana avevano ottenuto sei rappresentanti su trentasei: cioè un buon peso» spiega Alberto. Per fare cosa? «Bisogna capire che i grossi finanziamenti, fino a poco tempo fa, potevano arrivare ai comuni solo attraverso le Comunità montane. È chiaro, quindi, che piazzare dei consiglieri in Comunità montana significava acquistare peso nell’eventuale formazione della giunta, e di conseguenza poter accedere ai finanziamenti per il “proprio” comune».9 Dal 2009 tuttavia la Comunità montana della Valchiusella è stata accorpata insieme ad altre due per formarne una più grande:10 «Col nuovo sistema i criteri di assegnazione dei consiglieri sono cambiati, ed entrare non è altrettanto automatico. Nella nuova Comunità montana, per il momento, di esponenti damanhuriani non sono riusciti a piazzarne». Ma non per mancanza di buona volontà. Il vero segreto della politica damanhuriana non starebbe nelle loro amicizie influenti, né nei fedeli elettori girovaghi. Quanto piuttosto, e ancora una volta, nella loro magia: «Ieri Falco ha consegnato a Bisonte il quadro selfico preparato per le elezioni: si tratta di un calice molto colorato recante il segno di popolo, che richiama il primo quadro fatto per le elezioni (vinte) nel 1999, che già troneggia presso la scrivania del sindaco di Vidracco. Bisonte, prevedendo che Falco avrebbe dipinto un quadro anche quest’anno, lo ha prenotato come Con te per il Paese: appena lo ha ricevuto, ieri ha girato in auto per tutti i nostri comuni dove ci sono i seggi, scortato da Rampichino e Iguana, con l’intento di tessere una rete magica in valle».11 Magia che nel 2004 aveva collocato rappresentanti damanhuriani nei consigli comunali di cinque amministrazioni (oltre a Vidracco). E che però nel 2009, selfica o no, a quanto pare non è riuscita. Con te per il Paese ci aveva anche provato, inondando di candidati la Valle, ma sui sei comuni sono riusciti a piazzare i propri consiglieri di minoranza solo in due. Vittoria amara anche quella di Vidracco, dopo i plebisciti del passato. Il vero nemico? Il diciotto per cento di schede bianche e nulle, più che raddoppiato rispetto a cinque anni prima: un vero e proprio partito del dissenso, che ha preso oltre cinque punti in più della lista rivale.

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1 Oberto Airaudi, La Via Horusiana. Principi, Concetti e Tradizioni della Scuola di Pensiero di Damanhur, Edizioni della Scuola di Meditazione di Damanhur, anno XXVII (quarta edizione riveduta e ampliata a cura del Gruppo Teoretico della Scuola di Meditazione). 2 Per «portare all’attenzione fatti [...] incidenti sul significato stesso delle elezioni amministrative, sul concetto di democrazia rappresentativa, sul diritto delle Comunità di essere rappresentate da persone elette a seguito di libera e corretta competizione elettorale». 3 La maggior parte dei comuni della Valchiusella ha votato nel 1999, 2004, 2009. Nel comune di Vistrorio (a seguito di un commissariamento) si vota sfalsati di un anno: cioè nel 2000, 2005, 2010. 4 I damanhuriani sono riconoscibili innanzitutto dai loro nomi, stranoti agli amministratori locali. E in secondo luogo dal concentrarsi degli stessi in luoghi determinati, abitati solo da altri concittadini. In particolare nel caso di Vistrorio gli indirizzi delle residenze richieste affollano esclusivamente due grossi nuclei: una regione agricola del comune e un condominio. Entrambi esclusivamente popolati da damanhuriani e da loro stessi identificati con nomi ben specifici (Nuclei). 5 Cioè almeno quattro mesi prima della chiusura degli elenchi elettorali (che a sua volta avviene quarantacinque giorni prima della data delle votazioni). 6 Anche se poi non sono sempre le stesse persone. 7 A.T., «Migrazione» Damanhur. Trentacinque residenze spostate, «La Voce del Canavese», 22 marzo 2010.

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8 Elefantina Genziana e Husky Vaniglia, Verso un’Europa delle Regioni. Venerdì di Falco con gli ospiti, «Qui Damanhur Quotidiano», 14 giugno 2004. 9 Finanziamenti che negli anni all’amministrazione damanhuriana del comune italiano di Vidracco non sono comunque mancati. Il Diario Storico di «Qui Damanhur Quotidiano», per esempio, in data 3 dicembre 2004 riporta: «Vidracco riceve 97.000 euro di finanziamento dalla Regione Piemonte per la Protezione civile». Protezione civile che vede Damanhur attiva con un proprio gruppo. 10 Diventando dal 2009 la Comunità montana Valchiusella, Valle Sacra e Dora Baltea Canavesana. 11 Elefantina Genziana, Oltre a Vidracco, ancora incerto l’esito dei Comuni in valle, «Qui Damanhur Quotidiano», 14 giugno 2004. 11. Toghe rotte e parole sante Un legame storico intrecciato (e gelosamente custodito) da Airaudi è quello con l’ex procuratore Bruno Tinti, il nemico battagliero che arrivò per «sottrargli» il Tempio, e che ne uscì invece fulminato sulla via di Damanhur. Cioè «commosso e toccato», pronto a rassicurare Falco con una mano sulla spalla, dicendogli «dobbiamo fare qualcosa per salvare il Tempio». Nei limiti, Tinti qualcosa la fece, anche solo tacendo la notizia alla stampa, per dare il tempo agli airaudiani di presentare il loro profilo più fotogenico ai giornalisti: «Al termine del sopralluogo, il magistrato e il suo seguito decisero di mantenere il riserbo sulla vicenda, evitando di passare l’informazione ai giornali. L’unica imputazione che scattò fu quella relativa all’abuso edilizio, il Tempio, quindi, fu sequestrato, ma fu dato il permesso per compiere ogni

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giorno le pulizie e le eventuali altre manutenzioni. La custodia cautelare fu affidata a Cicogna Giunco, in quanto responsabile dell’Associazione Tempio dell’Uomo».1 Ma sappiamo che da allora si strinse un rapporto fra l’ex pm2 autore di Toghe rotte, oggi autorevole firma del quotidiano «Il Fatto», e Oberto Airaudi, Falco. Negli anni seguenti infatti l’ex magistrato non farà mistero delle sue simpatie.3 Soprattutto in occasione di un convegno tenutosi al Dh Crea nel marzo 2008, «Leggi scelte o subite: la magistratura si interroga», circostanza nella quale si portò dietro l’amico Marcello Maddalena, in veste di procuratore capo presso il Tribunale di Torino. Di Maddalena si ricorda un garbato ammonimento, che (per quanto vago) venne gelidamente accolto dai presenti: «Inserirsi in queste comunità comporta un rapporto con le istituzioni dello Stato che non sia, che non diventi conflittuale. La nostra società di tutto ha bisogno tranne di un’ulteriore disgregazione». Ma anche una sua battuta, poi rimasta nella storia: «Se pagate tutti le tasse italiane, altro che comunità, sareste da beatificare».4 Il convegno damanhuriano aveva l’ambizione5 di paragonare il proprio sistema a quello italiano,6 per poi uscirne vincitori, giocando in casa. Una bella mano gliela dà Tinti: «Oggi parleremo dei nostri sistemi e li metteremo a confronto: uno è vincente, gli italiani sanno qual è l’altro» si spinge a dichiarare a «La Stampa»7 parlando di Damanhur. «Quella comunità può dire di se stessa che certi tentativi alternativi di coesistenza possono funzionare.» E poi ancora: «Il nostro e il loro sono sistemi non paragonabili», chiarisce a «Panorama» pochi mesi dopo. «Personalmente sono convinto che una nazione intera non possa adottare le regole di una comunità come questa.» Una nazione intera no, ma a Tinti personalmente l’ambiente non dispiace. Tant’è che quell’anno tornerà a trascorrere qualche giorno come ospite8 del b&b damanhuriano insieme a un suo amico, procuratore di Lugano. «Non una visita ufficiale, ma un week end all’insegna del relax e dell’escursionismo: i due amici infatti, hanno visitato il Canavese con le loro motociclette. Tra i suoi progetti, il procuratore di Torino presenterà a Damanhur il suo nuovo libro, che è la prosecuzione di Toghe rotte.»9 In quello stesso numero – e anche in altri – Tinti apparirà in copertina, fotografato sorridente mentre cinge col braccio una bella ragazza damanhuriana in un riquadro con la scritta «Aval-Nucleo Comunità». Tinti lo sa di esser stato usato come testimonial pubblicitario? Ma quel che più conta è che, grazie all’ex magistrato dal papillon, con un solo colpo i damanhuriani si sono ritrovati contatti con l’area politico-culturale a cui l’ex pm fa riferimento. Così, per esempio, nel giugno del 2008 la casa editrice di Toghe rotte, Chiarelettere, presenta a Dh Crea il libro Viaggio nel silenzio di Vania Lucia Gaito (sui «preti pedofili e le colpe della Chiesa»).

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A Damanhur nel 2009 stava per arrivare anche l’autore di punta di Chiarelettere, vicedirettore de «Il Fatto», nonché star indiscussa dell’infotainment italiano: cioè Marco Travaglio, che del libro di Tinti sui mali della giustizia italiana aveva firmato la prefazione. Travaglio avrebbe dovuto partecipare a un convegno sul modello economico damanhuriano,10 e molto si contava sulla visibilità che il suo nome avrebbe portato con sé.11 Ma poi da un giorno all’altro sulla stampa ufficiale damanhuriana si perde traccia dell’appuntamento-evento, e i volantini che ne parlano scompaiono dalle strade. Come se non fosse mai esistito, salvo un timido annuncio sul web dove ci si scusa parlando di un rinvio (sine die) causa «imprevisti motivi organizzativi e logistici». Da allora del nome di Travaglio non si fa più menzione, se non per annunciare l’arrivo dei suoi libri in vendita sugli scaffali alla reception del Dh Crea. Mentre la conferenza cui avrebbe dovuto partecipare il giornalista (dal titolo Economia reale e di carta) viene frettolosamente sostituita da un miniconvegno12 («La crisi finanziaria e il ruolo del sistema bancario») avente come ospite d’onore di rimpiazzo un responsabile locale del Conacreis. Che cos’era successo nel frattempo? Ce lo spiega Chimera, la nostra fonte: «Travaglio non aveva alcuna idea di dove si stesse andando a infilare. Perciò quando fra fuoriusciti e altri abitanti della valle si venne a sapere dell’invito, che era stato strombazzato con tanto di poster e volantini, gli scrivemmo in tanti attraverso il sito di Annozero [la trasmissione Rai di Michele Santoro che lo vede editorialista, NdA]. Solo per consigliargli di informarsi un po’ sul conto di chi l’aveva invitato, prima di spendere il suo nome. Fatto sta che Travaglio si scusò con gli organizzatori, parlando di un impegno dell’ultimo minuto, e l’operazione damanhuriana naufragò». Non avrebbero destato altrettanto scalpore le partecipazioni del magistrato torinese Raffaele Guariniello,13 o di Goffredo Sottile,14 prefetto di Torino, né di altri uomini delle istituzioni locali. Spicca infine fra le storie di politici e magistrati ospiti a Damanhur quella di un altro ex collega di Tinti, l’allora deputato Luciano Violante.15 Che accompagna Andrea Benedino,16 un candidato alle europee a caccia di voti: «Io sono candidato alle elezioni europee e ho il compito di ottenere consensi tra i giovani elettori: è un lavoro di squadra deciso con Mercedes Bresso [...] Nel voto per le europee è possibile indicare fino a tre preferenze e vi chiedo di considerare la possibilità di scrivere il mio nome tra quelle preferenze».17 Per i damanhuriani è un gran successo, perché Violante era un ospite molto ambito, ma anche «un personaggio difficile da avvicinare», su cui avevano messo gli occhi già da tempo: d’altronde era in lista per diventare ministro.18 La visita alla fine si concretizza, e all’uscita dal Tempio dell’Uomo, sul

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registro dei visitatori Violante scrive: «Vorrei capirne di più». Per poi aggiungere con una certa prudenza, ai microfoni della Dh Crea: «Sono molto interessato alla religiosità, e molto freddo nei confronti della liturgia, se questa si traduce in appiattimento della personalità e in gerarchie rigide». Comunque l’onorevole promette di tornare, un intendimento che lascia i damanhuriani piuttosto scettici: «Vedremo presto se manterrà la promessa o se si comporterà come tanti altri politici, che non si sono più fatti vivi dopo le elezioni». Violante però terrà fede a entrambi i propositi. L’anno dopo, nel 2005 ritorna a Damanhur, incontrando Falco, Bisonte e gli altri. E poi più tardi nel 2007, cogliendo l’occasione giusta, si ricorderà anche (a differenza di altri colleghi) della promessa di volerne «capire di più». Durante una seduta pomeridiana19 alla Camera dei deputati della Commissione I Affari costituzionali della Presidenza del Consiglio e Interni, il presidente Luciano Violante ascoltava il parere di Patrizia Santovecchi, presidente dell’Osservatorio nazionale abusi psicologici (Onap), chiedendole quali possano essere le caratteristiche fondamentali delle sette. La Santovecchi rispondeva: «La prima è la possibilità di uscire liberamente, senza nessun ricatto, anche a livello morale, ovvero la possibilità di mantenere, all’interno dell’associazione che si abbandona, i contatti affettivi e di amicizia. Questo non è invece possibile in una setta. L’altro aspetto riguarda la manipolazione attraverso la sindrome dell’assedio, per cui fuori si collocano tutti i nemici, siano essi costituiti dalle energie negative o dai ministri di Satana. Un altro aspetto riguarda la totale obbedienza, quindi l’impossibilità di critica. Mentre all’interno di un’associazione libera si può infatti esprimere la propria opinione, dissentendo anche dai vertici, nel caso di una setta, anche un lieve dissenso comporta gravi conseguenze. Potremmo aggiungere anche l’allontanamento dai familiari, che rientra nella sindrome dell’assedio, la completa spersonalizzazione nell’individuo, privato di ogni capacità decisionale e ormai assuefatto a chiedere al guru cosa debba fare, a cominciare dalle cose più semplici. In alcuni casi più estremi, vige l’idea che all’infuori di questo gruppo non ci sia vita, per cui il suicidio può essere la scelta migliore, se si decide di abbandonare l’organizzazione. È necessario citare anche la sindrome di alienazione psicologica usata nei tribunali per quanto riguarda i minori, rispetto ai genitori affidatari. Si potrebbe pensare a un decalogo di questo tipo». Al che Violante le chiede: «Vi siete mai imbattuti in Damanhur?», e la Santovecchi risponde di sì. «Ha queste caratteristiche?» insiste l’onorevole. Conclude l’esperta: «Sicuramente». 1 Cavalletta Prezzemolo, Vicini alla festa del Ringraziamento, «Qui Damanhur Quotidiano», 30 giugno 2006.

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2 «Titolare di inchieste delicatissime tra cui quella su Telekom Serbia, conclusasi con l’arresto per calunnia e autocalunnia di Igor Marini, il faccendiere che millantava di aver versato tangenti a esponenti del centrosinistra» (Meo Ponte, Getta la toga il pm di Telekom Serbia, «la Repubblica», 13 novembre 2008). 3 «Ora Tinti frequenta i membri di Damanhur» (Pier Mario Fasanotti, Le inchieste passano, i nonni dei fiori restano, «Panorama», 7 maggio 2008). 4 Alberto Gaino, «In questa Italia evadere il fisco diventa legittimo», «La Stampa», 9 marzo 2008. 5 «Questo convegno pone a confronto l’organizzazione etica e giuridica dello Stato italiano con quella della Federazione di Comunità di Damanhur, evidenziando il valore di un sistema normativo quando esso viene scelto dalla stessa cittadinanza chiamata a rispettarlo» (presentazione del convegno). 6 Ma anche di chiedere allo stato il riconoscimento delle Comunità intenzionali, come in quell’occasione fecero Falco e altri relatori (Alberto Gaino, «In questa Italia evadere il fisco diventa legittimo, cit.). 7 Alberto Gaino, Damanhur ci batte in giustizia. Nella comunità esoterica un sistema vincente. Provocazione del pubblico ministero, «La Stampa», 8 marzo 2008. 8 Ma c’era già stato nel settembre 2006 e nel 2005 (Bruno Tinti visits again, Damanhur.org, 8 settembre 2006). 9]Brunto Tinti ospite ad Aval, «Qui Damanhur Quotidiano», 27 ottobre 2008.

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10 Cavalletta Prezzemolo, Modello economico damanhuriano, «Qui Damanhur Quotidiano», 21 gennaio 2009. 11 «Marco Travaglio è un personaggio molto popolare e la sua presenza al convegno si è notato che attira la partecipazione di molte persone» (Cavalletta Prezzemolo, Distribuzione volantini per convegno economia, «Qui Damanhur Quotidiano», 23 gennaio 2009). 12 La partecipazione è riservata a quaranta partecipanti. Il costo è di cento euro a persona. 13 Noto per le sue inchieste sul rogo alla ThyssenKrupp e sul doping alla Juventus. 14 «Alle 15 di oggi è atteso l’arrivo a Damanhur del prefetto di Torino, Goffredo Sottile. La visita si inserisce nell’ambito delle iniziative avviate dalla Federazione per intessere relazioni dirette con le autorità che sovrintendono il territorio» (Oggi il Prefetto di Torino a Damanhur, «Qui Damanhur Quotidiano», 2 febbraio 2007). 15 Cavalletta Prezzemolo, L’onorevole Violante oggi a Damanhur, «Qui Damanhur Quotidiano», 16 maggio 2004. 16 All’epoca assessore all’istruzione del comune di Ivrea. 17 Coboldo Melo, Violante: esperienza interessante, vorrei capirne di più, «Qui Damanhur Quotidiano», 17 maggio 2004.

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18 «Il noto parlamentare è in Canavese per la campagna elettorale di un giovane candidato alle elezioni europee, che lo accompagnerà a Damanhur insieme ad alcuni dirigenti locali del partito. Luciano Violante era stato invitato più volte da Con Te: “Sono alcuni anni che aspettiamo l’occasione propizia” ricorda Bisonte Quercia “e sembra che sia arrivata la volta buona. È un politico molto impegnato per gli incarichi istituzionali che ha avuto nel tempo e per quelli parlamentari che ha attualmente. Diciamo che se l’Ulivo dovesse vincere le elezioni politiche, tra un paio d’anni, Violante è nella lista dei potenziali ministri della Repubblica”. [...] È un piemontese schivo e poco propenso a partecipare agli avvenimenti mondani: una caratteristica che, insieme al carattere forte e rigoroso, ne fa un politico abbastanza anomalo, poco incline agli accomodamenti, fino a essere considerato come un personaggio difficile da avvicinare. Negli anni scorsi aveva manifestato l’intenzione di visitare Damanhur, ma gli impegni sempre pressanti hanno sempre impedito l’organizzazione della visita. [...] Sono invitati tutti i damanhuriani interessati, con particolare riferimento ai candidati alle elezioni amministrative» (Coboldo Melo, Domenica in visita l’onorevole Luciano Violante, «Qui Damanhur Quotidiano», 13 maggio 2004). 19 Era lunedì 16 luglio 2007, nel corso di un’indagine conoscitiva per la legge sulla libertà religiosa.

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PARTE SECONDA

Scientology

«Almeno i vostri defunti riposano in pace, Capitano, al riparo dagli squali.»

«Sì, Monsieur, dagli squali e dagli uomini» rispose serio il Capitano.

Jules Verne, Ventimila leghe sotto i mari 1. Fantascientology Washington D.C., giugno 2007 Fare colazione al Così di Dupont Circle è un rito mattutino. Ci si siede ai tavolini all’aperto, il giornale da una parte, dall’altra il computer portatile. Un cappuccino e un cornetto, tutto molto europeo per essere in America. Dal lato opposto della strada, nel cuore dell’elegante quartiere delle ambasciate, si trova una magnifica villa in sobrio stile georgiano, mattoni rossi, un giardino pieno di alberi e pochi fili d’edera che si arrampicano sulla parete destra dell’edificio. Vista dal tavolo sembra una delle tante sontuose sedi diplomatiche di cui è punteggiato l’Embassy Row. Facendo appena due passi verso sud – siccome politica chiama economia – si può facilmente raggiungere K Street, la celebre strada delle lobby più influenti d’America: se conti, se sposti fondi, e voti, se sei in grado di parlare a (o sussurrare nell’orecchio di) deputati e senatori, allora hai un ufficio lì. Racchiuso in pochi isolati, ecco il centro del potere politico, economico e culturale della capitale statunitense.

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Fuori dal caffè ti accorgi della targa nera a lettere dorate posta all’ingresso della villa: «Founding Church of Scientology». Se non ti sei mai informato sul loro conto, saprai ciò che sanno un po’ tutti: la seduzione di Tom Cruise e John Travolta, e la parodia di South Park sul loro credo quanto meno peculiare – fatto d’imperatori alieni e latenti «superpoteri» dell’uomo. Come la telecinesi e la telepatia: sollevare gli oggetti con la forza del pensiero e leggere nella mente degli altri. Così, incuriosito, ci entri. La prima cosa che ti colpisce, varcandone la soglia, è il flusso costante di personale indaffarato. Più che in una chiesa sembra di stare in un ministero, o un formicaio: uomini e donne vestiti di tutto punto salgono e scendono freneticamente le scale portando faldoni e mucchi di carte. Fra le quali, probabilmente, i cosiddetti test della personalità, cioè i moduli che per molti rappresentano il primo contatto con l’organizzazione. Al primo piano, al centro dell’edificio, c’è una sala che somiglia a un’aula scolastica. Sui banchi delle strane apparecchiature blu: sono gli «e-meter», strumenti coi quali gli scientologi pretendono di misurarti i moti dell’anima.1 A pagamento. È l’inizio dell’auditing, la loro confessione, un percorso «psicoterapeutico» mirato a liberarti dai tuoi traumi e «pulire» la tua mente, per arrivare un giorno al cosiddetto stato di clear. A questo punto l’individuo (e cioè ormai l’adepto) dovrebbe finalmente godere di una mente sgombra. A caro prezzo: per giungere fin qui, in Italia si sborsano circa cinquantamila euro. 2 Ma è solo la prima tappa: da questo livello in su (e ce ne sono parecchi), per diventare uno scientologo rispettabile, cinque gradi più in alto, ne dovrai spendere almeno altrettanti.3 Ossia un centinaio di stipendi di una persona normale. Tutt’intorno, le pareti sono decorate con conchiglie e stelle marine alternate a nastri e coccarde. Lafayette Ronald Hubbard, il fondatore, ha sempre amato il mare, tanto da trasformare il suo yacht Freewinds in una delle chiese-filiali – le cosiddette Org – più importanti. Anche se qualcuno ha malignato che la sua folle passione nautica avesse un risvolto eminentemente utilitaristico: solcare le acque internazionali, tenendosi quanto più possibile al largo, e alla larga dalle autorità americane. La signora che ti viene subito incontro – Susan Taylor, la presidente della chiesa – è estremamente cordiale. Soprattutto con i giornalisti. Ti carica di libri, a partire da What is Scientology?, un ponderoso volume che è un po’ una via di mezzo fra un testo di catechismo e delle pagine gialle, con tutti gli indirizzi delle loro chiese, sedi e associazioni sparse per il mondo. Italia inclusa. E visto che c’è ti rifila pure The Way To Happiness (La Via della Felicità), agile manualetto di gran lunga più tascabile, che racchiude il decalogo del buon scientologo,4 anche se i comandamenti in questione sono

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ventuno. Ma tutto si poteva dire di L. Ron Hubbard tranne che non pensasse in grande. «Bigger than Jesus» dicevano i Beatles. L’idea però ce l’aveva avuta prima lui, e lui era serio. In cima alla pila, infine, un dvd contenente una lunga intervista al fondatore. Qui, con la voce baritonale e impostata di un Orson Welles in piena forma, in mezz’ora Hubbard spiega a un giornalista ossequioso i punti cardine del suo pensiero: dall’odio per gli psichiatri (con quelle loro assurde pretese di capire e curare la psiche umana), al disprezzo per i comunisti (che vorrebbero far pensare tutti allo stesso modo), a come far sì che tua moglie ti resti fedele (uno dei «grandi problemi dell’uomo»). Attraversando le stanze aperte al pubblico, la Taylor ti conduce nella loro biblioteca, raccontandoti che la vita del buon scientologo è fondamentalmente dedita allo studio (e all’acquisto) dei libri di Hubbard e dei suoi infiniti corsi di formazione. Un lavoro (e una spesa) immane anche per il più devoto, perché – come t’illustra con un ampio sorriso indicando le lunghe file di scaffali interamente ricoperte dai suoi testi sacri – il fondatore era, in poche parole, un grafomane. Un bulimico della scrittura. La sua produzione letteraria, infatti, è immensa, a cominciare dai suoi esordi come pulp writer. Erano gli anni Trenta, quelli in cui le riviste stampate a basso costo produssero autori del calibro di Isaac Asimov, l’uomo che soffiò vita nei robot, l’H.G. Wells degli invasori da Marte, Ray Bradbury e il suo distopico futuro senza libri, e H.P. Lovecraft, con le sue raccapriccianti divinità aliene. L’Hubbard romanziere nasce in questo periodo, scrivendo racconti di fantascienza e western con titoli (tipici dell’epoca) come: Le quattro ore di Satana, La pattuglia fantasma, Il tamburo del destino, Ostaggio della morte, Schiavi del sonno, L’uomo che non poteva morire, Legionario dell’Inferno, Il Tenente5 e Ritorno al domani.6 A differenza di un Asimov o di un Lovecraft, però, Hubbard non si accontenterà di rendere verosimile la sua fiction. Lui prima inizia a trasformarla in una dottrina scientifica, la cosiddetta Dianetics – una «scienza moderna della salute mentale» che aspirava addirittura a soppiantare la psichiatria. Poi in un credo vero e proprio. E così – allo stesso modo in cui, in piccolo, il 30 ottobre 1938 Orson Welles alla radio fa credere agli americani che «la guerra dei mondi» sia veramente scoppiata, e che i marziani stiano invadendo gli Stati Uniti – scatenando isterie di massa – Hubbard, in grande, riesce a convincere sempre più gente che il parto della sua immaginazione sia reale. Anzi, che sia la Verità. Verità come la storia dell’imperatore galattico Xenu, che settantacinque milioni di anni fa si era trovato a dover risolvere il gravoso problema della sovrappopolazione del suo regno. Così Xenu pensò bene di narcotizzare qualche miliardo di abitanti dei suoi affollatissimi settantasei pianeti, per poterli stipare sui suoi cargo spaziali e andare a scaricarli sul remoto satellite

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solare di Teegeeack (cioè la Terra). Non contento di essersene liberato, e temendo il rientro dei confinati dal gulag-Terra, li getta nei vulcani, e – per estrema prudenza – li fa saltare in aria con un po’ di bombe all’idrogeno. Le anime (thetans) dei poveracci, in fuga dai corpi polverizzati, vengono quindi raccolte da Xenu, che gli impianta dei falsi ricordi e le intrappola nei corpi degli indigeni. Una presenza scomoda per noi terrestri, che limita il «potenziale umano», ma che Scientology ti aiuta a espellere.7 Il credo hubbardiano è decisamente lontano da quello delle grandi religioni monoteiste. Eppure, sosteneva magnanimamente Hubbard, puoi benissimo essere scientologo ma anche cristiano. Scientologo, ma anche ebreo.8 Scientologo, ma anche musulmano. Qualsiasi fede, insomma, può convivere con Scientology, nessuna incompatibilità. Almeno dal suo punto di vista. Anche la biografia di Hubbard, così come viene narrata nel catechismo di Scientology, diventa una vera e propria agiografia illustrata. Pare di leggere un vangelo apocrifo: ogni passo della sua vita è segnato da imprese «incredibili» che mescolano e condensano accuratamente i più stereotipati capisaldi dell’immaginario eroico americano. Lui, il self-made guru, «da bambino imparò molto sulla sopravvivenza nel selvaggio Far West», dove già a tre anni era in grado di cavalcare, tirare col lazo e domare cavalli «come solo i migliori sanno fare». Dopo l’Hubbard piccolo cowboy, viene il bambino prodigio appassionato di Shakespeare e di filosofia greca. Quindi l’Hubbard che incontra lo sciamano dei Piedi Neri, e a sei anni diventa suo «fratello di sangue». Poi il fanciullo navigatore che a tredici anni compiuti attraversa il canale di Panama. Il giovane studioso di filosofie orientali che si avventura nel profondo dell’Asia per incontrare «gli ultimi discendenti dei maghi cinesi alla corte di Kublai Khan», i monaci buddisti tibetani e i banditi nomadi tartari (cioè il medesimo percorso mistico di tanti classici personaggi dei fumetti pulp, da The Shadow in poi). Si allude persino a un suo incontro con Albert Einstein, dopodiché ce lo ritroviamo a combattere (sempre in mare, ovviamente) nella seconda guerra mondiale. Leggenda vuole che sia stato ferito in battaglia, ma che sia poi tornato miracolosamente illeso. Come si deduce dal lungo racconto per immagini, la guarigione sarebbe dovuta esclusivamente alla forza del pensiero. Ma non è tutto. Secondo la Taylor «ci sono tantissimi nastri registrati da Hubbard che ancora aspettano di essere trascritti». Insomma, ci sarà sempre spazio sui loro scaffali per un nuovo libro di Hubbard da studiare. E da vendere ai fedeli sparsi in tutto il mondo. Certo è che dagli anni Cinquanta in avanti Hubbard non farà altro che lavorare alla sua dottrina, inondando d’inchiostro migliaia e migliaia di pagine in un vortice di prescrizioni sempre più dettagliate su ciò che è bene fare, arrivando

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persino a indicazioni su come stirare i propri pantaloni. La sua dottrina pretende di dettare regole su ogni singolo aspetto della vita, e dell’anima, del fedele: dalle mansioni domestiche alle scelte più importanti, Hubbard ha una ricetta per ogni cosa. Una su tutte, come esprimere il proprio voto nel segreto dell’urna. Perché il potere – lui direbbe «la sopravvivenza» – è l’elemento fondante dell’Hubbard-pensiero: «Uomini malvagi e senza scrupoli sono in grado di usurpare il potere del governo e adoperarlo per i propri fini,» avverte in La Via per la Felicità «mentre un governo benevolo è in grado di spianare la strada: quando è così, merita il nostro sostegno». Quando esci da lì, una cosa ti resta ben chiara. Il palazzotto che hai appena visitato non è una semplice chiesa, ma la sede di una lobby molto potente. Che quando ci si mette è perfino in grado di gettare sabbia negli ingranaggi della potente macchina da soldi di Hollywood. Solo nel 2009, per esempio, il regista Paul Thomas Anderson ha misteriosamente abbandonato il suo nuovo film, The Master, ispirato (se pur non ufficialmente) alla storia di Hubbard. La trama parlava di uno scrittore di fantascienza che negli anni Cinquanta fonda una chiesa chiamata The Cause. Il cast era di tutto rispetto: i premi Oscar Philip Seymour Hoffman e Reese Witherspoon. Ma il set è stato chiuso prima che le riprese potessero cominciare. Senza una spiegazione ufficiale.9 È il potere di una vera e propria religione-azienda, che da una costa all’altra – da Capitol Hill alle colline hollywoodiane – sa bene come far sentire il proprio peso. Politico, economico e culturale. A Washington come a Roma. Roma, ottobre 2009 A Roma è una gran bella giornata, di quelle che nella Capitale chiamano ottobrata. Siamo verso la fine del mese, il 24, e l’aria appena un po’ più fresca fa sventolare orgogliosamente al vento le bandiere portate dai seimila adepti accorsi da tutta Italia. Da quelle sarde coi quattro mori bendati a quelle giallo-blu di Verona. L’occasione è l’inaugurazione della chiesa italiana di Scientology «di Roma e Mediterraneo», appena oltre il Raccordo anulare, in zona Casalotti: il più recente capitolo della globalizzazione fideistica10 sognata da Hubbard sin da quando la sua prima chiesa aprì i battenti a Los Angeles, nel lontano 1954. Di certo il più importante da quando la chiesa di Clearwater11 sbarcò, vent’anni dopo, in Italia, dove oggi conta una dozzina di Org e una trentina di missioni, concentrate soprattutto nell’Italia del Nord. Nel nostro Paese, sempre prendendo per buone le loro cifre, dovrebbe avere intorno agli otto-novemila fedeli. Il giorno dell’inaugurazione la nuova chiesa-ambasciata12 era cinta da un lunghissimo nastro tricolore, legato insieme da una gigantesca coccarda: la

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cerimonia si teneva in Italia, ma la pompa era, come sempre, tutta a stelle e strisce. Così come decisamente americano è l’interno della chiesa, luminoso e ipertecnologico. A metà strada fra un country club, una sala convegni e un centro benessere (con tanto di saune, caffetteria e un ristorante). E ovviamente una libreria fornitissima, con un lungo listino di libri, dvd e materiali vari che lo scientologo è tenuto ad acquistare. I pacchetti «congresso» di Hubbard, per esempio, costano 2444 euro il ciclo, e un solo dvd può arrivare a farti scucire anche 282 euro. Se pensate che i madonnari intorno a San Pietro rappresentino la punta estrema del consumismo religioso, vi sbagliate di grosso: qui i mercanti non sono solo dentro al tempio, ma sono il tempio. A riprova dell’importanza dell’inaugurazione per gli hubbardiani nostrani e d’oltreoceano, a salire sul palco per primo – incorniciato da finte colonne antico-romane – è niente meno che Mr David Miscavige. Presidente del consiglio d’amministrazione del Religious Technology Center (l’Rtc, ossia i custodi del copyright), nonché «leader ecclesiastico» di Scientology.13 In altre parole: l’attuale papa-manager, l’uomo in cima alla piramide che ciascun seguace viene chiamato a (tentare di) scalare. «Thank you!» esclama fra le urla di seguaci in visibilio, abbozzando un mezzo sorriso. «Grazie! Come si potrebbe mai parlare di storia senza un accenno a Roma? Questa città di Dio, questa città dell’uomo, questo centro del mondo occidentale per almeno un migliaio di anni. Se mai c’è stata una località destinata a una chiesa di Scientology ideale, quella è Roma.» Eh già, altro che il Vaticano: per il vicario di Hubbard in terra, Roma è il mercato ideale per il proprio brand di spiritualità. In fondo la sua dottrina vuole che Gesù altro non sia che uno dei tanti precursori di Scientology, un po’ come quasi tutti i grandi pensatori della storia, da Siddarta a Zoroastro, dal Lao-tse che fondò il Taoismo, a Socrate, da Abramo a Maometto, a Leonardo, Galileo, Darwin, Freud e Einstein. E infatti andando a vederla sulla mappa, questa nuova, e aggiornata, versione della basilica di San Pietro – con la cappella che sembra l’interno di un disco volante – si colloca in linea d’aria all’altezza del modello originale... Solo, appena qualche chilometro più a occidente. Nelle potenzialità di Roma-capitale della scientologia ci crede anche Dino De Pasquale, Disaster manager della Protezione civile, che il giorno dell’inaugurazione ha l’onore di salire sul palco14 subito dopo Miscavige. Ma chi è Dino De Pasquale, e che cosa ci faceva lì in quell’occasione, vestito col suo giubbotto blu a spalline gialle, con tanto di logo della Protezione civile nazionale? E come può mai essere tanto importante per gli hubbardiani da venir chiamato a parlare subito dopo il loro Ra’s?

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Per comprenderlo bisogna fare un passo indietro. Innanzitutto degli scientologi c’è da capire un aspetto fondamentale: la dipendenza cronica dalla buona pubblicità. «È sui giornali. Se ne parla alla radio e in tv» recita il claim pubblicitario del loro libro di catechismo. E infatti il marketing del testimonial o dell’opinion leader è la strategia principale della religione-azienda. A volte, però, per contare essere una «celebrità» non basta. Anche in Italia per esempio – come in tanti altri Paesi colonizzati dagli hubbardiani – esiste un «celebrity center» (il cui scopo, come scrive Hubbard, è specificamente «promuovere l’espansione di Scientology e farle acquisire popolarità tramite le arti»). Ma a differenza di quelli statunitensi non è certo graziato dalla presenza di figure di spicco dell’entertainment italiano: nelle sue stanze, a Firenze, ci bazzicano in pochi. Al posto dei Tom Cruise e dei John Travolta, ci trovi Alessandro Capasso, presentatore per le tv locali toscane. All’inaugurazione dell’Org di Casalotti, tuttavia, gli organizzatori non invitano attori o starlette. L’occasione è troppo importante, il momento è di quelli make or break: qui o si conquista l’Italia o si muore. Fra i danni d’immagine subiti Oltralpe da un grosso processo che li vede impegnati a ricorrere in appello in Francia, e la Germania, dove le istituzioni non hanno mai mostrato loro grande accoglienza,15 quello italiano è infatti un passaggio importante della loro partita europea. Così chiamano De Pasquale, un attempato signore torinese pressoché sconosciuto al di fuori dei confini del Piemonte. Ma una ragione c’è: la Protezione civile è stata la migliore macchina di propaganda mai concepita dal governo Berlusconi: «Un sistema che è esempio a livello internazionale» lo definisce il presidente del Consiglio nel maggio 2010. Di fatto la figura di Guido Bertolaso ha riscosso un boom di consensi che forse neanche gli scandali della cricca16 sono ancora riusciti a sgonfiare. Per il telespettatore italiano, il logo della Protezione civile «vuol dire fiducia», e De Pasquale ha tutto il diritto di fregiarsene grazie al titolo ufficiale di Disaster manager (Di.Ma, per gli addetti ai lavori),17 con il quale dirige una propria cellula di Protezione civile, la Croce giallo-azzurra. A ben vedere però, per gli accoliti italiani il laico De Pasquale non è proprio un volto nuovo. Anzi, se fai un giro su Facebook e passi in rassegna le sue foto in bacheca, non ce n’è una dove non spunti qualcuno con la maglietta gialla e il logo di Scientology.18 È l’uniforme dei Ministri volontari, l’unità anticrisi della chiesa: dove c’è un terremoto, uno tsunami, o una qualsiasi altra catastrofe naturale, loro si precipitano. Nell’aprile 2009, quando l’Aquila trema, ce li troviamo mescolati fra le varie associazioni di volontariato coordinate dalla Protezione civile di Torino. Sono quelli di pro.civi.cos (acronimo della loro protezione civile, dove cos sta per Church of Scientology), guidati dal fedelissimo Giuseppe Cicogna, sempre

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spalla a spalla con la Croce giallo-azzurra. E che cosa ci fanno gli scientologi di pro.civi.cos fra le tende dei terremotati della frazione aquilana di San Giacomo? Nutrono i corpi, ma soprattutto le anime, occupandosi del doposcuola per diffondere fra i bambini19 «il metodo educativo del filosofo Ron Hubbard». Per i primi tempi, al cosiddetto Campo Torino si andranno alternando tre-quattro scientologi: lo stretto necessario a farsi vedere, e a spargere un po’ di propaganda.20 Che la loro opera di proselitismo associato al marketing del «farsi belli» tuttavia funzioni, lo dimostra una gita fuoriporta – ricca di photo opportunities – organizzata a metà maggio da Ettore Botter della pro.civi.cos,21 per portare trenta ragazzi di San Giacomo a Montecitorio. Dove vengono accolti prima dall’onorevole Souad Sbai, seguita da Antonio Mazzocchi, e dagli abruzzesi Maurizio Scelli e Paola Pelino. A sorpresa passa a salutarli persino Gianfranco Fini, e durante la seduta in aula che vengono chiamati a seguire, il vicepresidente Maurizio Lupi solleciterà un applauso tutto per loro. Certo, sono ragazzi, vittime del terremoto. Il presidente della Camera e gli altri onorevoli del Pdl avrebbero mai potuto sapere che dietro a questo evento c’era lo zampino di Scientology? Molto probabilmente no. Ma a Scientology ha fatto comodo l’esposizione mediatica che ne è derivata, dato che all’epoca l’iniziativa è stata rilanciata da quasi tutte le agenzie di stampa? Certamente sì: consapevole o no che sia il politico di turno, infatti, per loro è sempre buona pubblicità. Agli occhi della gente, e a quelli dei propri fedeli. A coronamento del grande successo d’immagine dell’operazione, appena pochi giorni dopo l’inaugurazione di Casalotti, a novembre per la pro.civi.cos arriva anche un attestato di benemerenza: «A testimonianza dell’opera prestata nelle operazioni della Colonna Mobile Comunale di Soccorso alla popolazione di Frazione San Giacomo – L’Aquila». Attestato conferito niente meno che dal sindaco torinese Sergio Chiamparino. Che in questo caso, avendoci messo la firma sopra, dovrebbe ben sapere chi ha di fronte. Passano due mesi, e nel gennaio 2010 Haiti viene messa in ginocchio da un sisma di proporzioni bibliche. Gli Stati Uniti mettono in moto la macchina degli aiuti, seguiti a ruota dai Paesi europei, fra cui l’Italia di Bertolaso. Arriva la metà del mese di marzo, e all’ingresso dei voli internazionali dell’aeroporto di Milano Malpensa i viaggiatori assistono alla seguente scena: nove uomini in posa per scattare una foto ricordo, gran parte dei quali indossano i giubbotti gialli d’ordinanza dei ministri volontari. Fra queste, al centro, ritroviamo proprio il Di.Ma De Pasquale, che stavolta veste anche lui di giallo, essendo stato chiamato a capeggiare la squadra finanziata22 dalla chiesa di Scientology e partita dopo aver incassato il ringraziamento ufficiale di Manfredi Palmeri, presidente del Consiglio comunale di Milano.

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Ecco dunque chi è e che cosa rappresenta il pacioso Dino De Pasquale per Scientology: un amico, un alleato, ma soprattutto il garbato e rassicurante testimonial della buona volontà, di quel «tranquilli, potete fidarvi» che agli scientologi serve più del pane. Lo dimostrano le sue parole, pronunciate con solennità dal pulpito dell’Org di Casalotti: È con grande piacere e privilegio che dò il benvenuto a voi e alla vostra nuo va e magnifica chiesa di Scientology in Roma. Così come necessitiamo di volontari di Protezione civile per occuparci con efficacia della sicurezza fisica delle persone, allo stesso modo abbiamo anche bisogno di ministri volontari per occuparci con efficacia dei bisogni spirituali delle persone durante gli eventi catastrofici. Questo è il motivo per cui numerosi ministri volontari [qui intesi evidentemente non nel senso più ampio e generico, ma ristretto alla cerchia delle persone cui si sta rivolgendo: un po’ come un trademark, NdA] sono stati inclusi nelle forze di Protezione civile in tutta Italia. Ho osservato la vostra efficacia, la straordinaria abilità organizzativa e la vostra capacità di ottenere fatto il lavoro, indipendentemente dalla sua gravosità. Ho constatato sia la vostra volontà di aiutare sia la vostra tecnologia nel dare aiuto. La vostra tecnologia [De Pasquale insiste sulla parola, dimostrando una conoscenza non da poco dell’esoterico gergo hubbardiano, secondo il quale i propri modi di agire, codificati fin nei minimi dettagli, vengono chiamati per l’appunto tecnologie, NdA] è effettivamente d’aiuto, è qualcosa di cui si sentiva la mancanza in tutte le precedenti esperienze di soccorso in eventi disastrosi. Inoltre ho sperimentato la scoperta della mia propria natura spirituale [confessa, battendosi il petto mentre adopera ancora un’altra espressione rituale, NdA]. È qualcosa che sempre apprezzerò dal profondo del mio cuore. Di questa nuova chiesa Scientology di Roma io vedo un’opportunità persino più grande di coordinazione e cooperazione fra la comunità di Scientology e la Protezione civile a livello nazionale. Per il bene di tutti. Non sappiamo a che titolo De Pasquale si spinga a fare previsioni di «coordinazione e cooperazione» con la Protezione civile a livello nazionale, anche perché dall’entourage di Bertolaso ci fanno sapere che il suo nome, da loro, non significa nulla. E neanche sappiamo se l’opera svolta dai loro ministri volontari a San Giacomo, ad Haiti – e prima ancora a San Giuliano e nello Sri Lanka del dopo-tsunami –23 abbia saputo assolvere ai «bisogni spirituali» delle persone che hanno avvicinato, o tanto meno al «bene di tutti». Certo è che ha fatto molto bene alla loro immagine.

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1 L’elettrometro, come lo chiamano i fedeli dalle nostre parti, viene impiegato durante la «consulenza pastorale» (il cosiddetto auditing), e servirebbe a individuare – e misurare – i travagli spirituali dell’individuo. Durante l’auditing, il fedele è chiamato a raccontare tutto, ma proprio tutto, di sé. Immaginate un confessionale con annessa rudimentale macchina della verità. Si tratta infatti di un banalissimo galvanometro a pelle: l’intervistato tiene in mano due lattine, una per mano, collegate a un apparecchio che misura la resistenza della pelle al passaggio della corrente elettrica. Ogni parola viene quindi registrata, come vedremo, in modo decisamente orwelliano. 2 Secondo l’ultimo listino disponibile. 3 Dopo lo stato di clear si procede verso lo stadio OT, Operating Thetan. «Per arrivare a OT5 si devono spendere almeno altri cinquantaduemila euro e mancano ancora tre livelli prima della vetta (per ora), vale a dire OT8, in cima al ponte che, secondo Scientology, potrà un giorno arrivare al livello OT15 mai raggiunto ancora» (Stefano Pitrelli, Gianni Del Vecchio e Tommaso Cerno, Fedeli a caro prezzo, «L’espresso», 23 settembre 2009). 4 Loro lo definiscono «codice non religioso» o «guida al buon senso». E dalla sua pubblicazione nel 1981, sostengono, La Via della Felicità avrebbe raggiunto gli 85 milioni di copie nelle 52 nazioni dov’è distribuito. Inclusa l’Italia, dove nel 1996 l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, all’epoca presieduta da Giuliano Amato, giudicò ingannevole una pubblicità comparsa sul settimanale «Oggi» del 30 agosto 1995, che promuoveva la vendita del libro Dianetics, con in omaggio La Via della Felicità. «Quanto ai vantati riconoscimenti da parte di 130 governi e del Congresso degli Stati Uniti, sulla scorta della documentazione prodotta, si evince» al contrario di quanto affermato nel messaggio «che questi sono, in effetti, semplici ringraziamenti di cortesia per l’invio in omaggio del libro La Via della Felicità. Detti ringraziamenti, inoltre, provengono in molti casi da singoli che ringraziano a titolo personale (senatori Usa; membri della Corte Suprema; diplomatici; la signora Hillary Rodham Clinton, moglie del Presidente degli Stati Uniti) e non da governi.»

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5 La trama presenta in nuce i tratti salienti di quella che poi sarà la dottrina salvifica scientologa: «Per la prima volta nel 1939, parla della prossima (per allora) guerra mondiale. [...] In questo paesaggio brullo e terribile si svolge l’odissea di un piccolo reparto di veterani al comando del Tenente: sono uomini sopravvissuti a tutte le battaglie, ai folli massacri ordinati dai generali di Stato maggiore, sono guerrieri spietati e invincibili. Tuttavia le ultime speranze di pace sono nelle loro mani» (dal blog della collana Urania pubblicata da Mondadori). 6 Negli anni Ottanta Hubbard tornò alla sua passione letteraria, pubblicando il romanzo Battaglia per la Terra. Nel 2000 ne fu tratto un film con John Travolta dall’omonimo titolo, che risultò uno dei più grossi insuccessi della storia del cinema. 7 Tony Ortega, Double Crossed, «Phoenix New Times», 23 dicembre 1999. 8È il caso di Neil Gaiman, scrittore inglese di romanzi come American Gods e celebri fumetti come Sandman. Lo si legge sul «New Yorker»: «A volte, Scientology risultava imbarazzante per i giovani fratelli Gaiman. Stando a Lizzy Calcioli, la sorella rimasta in Inghilterra, “gran parte delle nostre attività sociali erano legate a Scientology, o alla nostra famiglia ebrea. Quando ero bambina mi sentivo confusa se la gente chiedeva della mia religione. Allora rispondevo: ‘Sono un’ebrea-scientologa’”. […] Oggi Gaiman tende a evitare domande sulla sua fede, ma dice di non essere uno scientologo. Come l’ebraismo, Scientology è la religione della sua famiglia, e quindi prova un senso di solidarietà nei loro confronti. “Sto dalla parte di un gruppo quando ho la sensazione che sia oggetto di una vera e propria persecuzione”» (Dana Goodyear, Kid Goth. Neil Gaiman’s fantasies, «The New Yorker», 25 gennaio 2010). Se a casa Gaiman non si facevano problemi a festeggiare Hanukkah, non se li dovrebbe fare neanche uno scientologo-cristiano. «Gli scientologist festeggiano il Natale in modi diversi perché la religione di Scientology è praticata in centosessantacinque nazioni e perché gli scientologist provengono da un’ampia varietà di fedi e tradizioni culturali.[…] Il fondatore di Scientology, L. Ron Hubbard […] ha scritto che Scientology condivide “le mete stabilite per l’uomo da Gesù Cristo, che consistono in saggezza, salute ed immortalità”. […] È in questo spirito che gli scientologist celebrano le

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festività natalizie, indipendentemente dal fatto che esse vengano festeggiate nel nome del Natale, Christmas, Hanukkah, Kwanzaa o qualsiasi altra tradizione culturale o religiosa» (comunicato stampa pubblicato da SiciliaInformazioni.com). 9Bloccato il film su Scientology, Rollingstonemagazine.it, 23 settembre 2010. 10 «Il sole non tramonta mai su Scientology» scriveva infatti Hubbard, appropriandosi indebitamente della celebre frase di Carlo V, imperatore del Sacro Romano Impero: «Sono padrone di un Impero su cui il sole non tramonta mai». 11 Clearwater è il quartier generale di Scientology. Si trova in Florida. 12 Distesa su un terreno di seimila metri quadri, viene considerata «sede rappresentativa per dare servizio al nostro governo». Così recita una loro brochure. 13 La decisione di aprire questa ambasciata è stata evidentemente presa dall’alto, in America. Lo si legge anche nel giuramento del donatore: «Prometto solennemente di contribuire all’apertura di tutte le nostre Org Ideali e dell’Organizzazione Avanzata in Italia, come espressamente richiesto dal Management Internazionale». 14 Dopo De Pasquale interverranno sul palco altri amici italiani di Miscavige: il professor Luigi Berzano, ordinario di Sociologia dei processi culturali all’Università di Torino; Laura Guercio, presidente di Legal Aid Worldwide, associazione che si occupa dei diritti dei detenuti; infine Silvio Calzolari, professore a contratto dell’Università di Ravenna nonché fratello massone del Grande Oriente d’Italia.

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15 Nel 2007 il ministro dell’Interno di Berlino Ehrhart Koerting ha definito Scientology «una organizzazione non compatibile con la Costituzione». 16 Sono le inchieste delle procure di Firenze e Perugia sugli appalti pilotati per il G8 a La Maddalena e per la ricostruzione post-terremoto a L’Aquila. 17 Il Disaster manager è un funzionario formato dalla Protezione civile e diplomato per affrontare terremoti, tsunami e disastri del genere. 18 Una croce a otto punte: per immaginarla, basta prendere quella cristiana e aggiungerci quattro spuntoni che partono dagli angoli. 19 Come spiegano senza troppi problemi nel loro comunicato stampa. 20 Già quattro mesi dopo la Protezione civile nazionale – da Roma – laconicamente minimizzerà: «Ormai ne è rimasto solo uno». 21 Ettore Botter è anche portavoce della chiesa padovana di Scientology. 22 Come sottolinea il loro stesso blog. 23 Nel 2002 i ministri volontari italiani si presentarono a San Giuliano di Puglia dopo il terremoto che uccise una trentina di bambini. Come riferisce l’ex scientologo Luca Poma in un suo memoriale, ricevettero però il fermo invito ad andarsene da un altro funzionario della Protezione civile, che si rese conto che non erano autorizzati a operare fuori dai confini della Regione Piemonte. Qualche anno dopo, nel 2005, come scrive il «Corriere della Sera»,

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durante le operazioni di soccorso post-tsunami nello Sri Lanka, gli scientologi italiani si erano vantati con le autorità locali che le tende pagate, trasportate in loco ed erette dalla Protezione civile italiana fossero merito loro. Tanto che Marco Agnoloni, coordinatore capo per l’Italia, contestava: «Una scorrettezza totale, quella di Scientology: tentare di appropriarsi del lavoro di soccorso che il Dipartimento della Presidenza del Consiglio effettua in questa zona». 2. Eyes Wide Shut Guardare una partita allo stadio o in televisione non è mai la stessa cosa. Ti perdi l’atmosfera, i cori dei tifosi, il boato della curva. E a volte ti perdi anche i dettagli più curiosi. Per esempio, durante Roma-Cagliari del 9 maggio 2010, il tifoso che se ne stava a casa o al bar davanti alla tv per seguire la gara, mentre Francesco Totti segnava una doppietta decisiva per la vittoria, a bordo campo intravedeva le pubblicità dei soliti sponsor. Chi invece sedeva all’Olimpico, dalla Tribuna Tevere poteva leggere un annuncio pubblicitario rivolto verso il pubblico, ma non a favore di telecamera: sul cartellone campeggiava la scritta «Leggi Dianetics». E poi, uscito dallo stadio, il libro se lo ritrovava esposto in bella vista in edicola.1 Scientology funziona proprio così, col vedo-non-vedo. Al centro c’è la chiesa, e tutt’intorno una fitta (e appiccicosa) ragnatela di associazioni di facciata – formalmente indipendenti e laiche – che assolvono ciascuna alla propria specifica funzione, lungo l’arco che va dal proselitismo al lobbismo. C’è chi mira a coinvolgere i politici e chi promette affari d’oro agli imprenditori, c’è chi lusinga le celebrità e chi aspira a formare gli insegnanti delle nostre scuole, c’è chi promette di riabilitare i drogati, chi raccoglie siringhe e chi va a «consolare» le vittime dei disastri. Tante maschere, una per ogni occasione. Abbiamo appena incontrato pro.civi.cos, ma ne esistono molte altre, non sempre altrettanto facilmente riconducibili al vero volto che vi si cela dietro. Inoltre sono quasi tutte Onlus o non-profit, perciò si mimetizzano nel mare magnum delle altre sigle e simboli del volontariato di cui è ricco il nostro Paese. Ma se sai dove andare a guardare, individuarle non è difficile, perché i format che adottano sono sempre i medesimi, ovunque: come spiega con estremo candore un filmato pubblicato sul loro sito americano, la rete congegnata dalla religione-azienda americana viene sostanzialmente replicata

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in scala – in modo quasi nanotecnologico – in ciascun Paese dove metta radici. La più importante di queste maschere è sicuramente il Ccdu, ossia il Comitato dei cittadini per i diritti umani (la versione italiana del loro direttivo americano, il Cchr, Citizens’ Commission on Human Rights). Tanto distinto e lontano da Scientology – come vogliono farti credere – che sulle «pagine gialle» americane della chiesa puoi trovare tutti i loro contatti e indirizzi italiani. E in Italia i numeri di telefono dei loro uffici sono perlopiù gli stessi delle loro chiese. Ora, parlare di diritti umani suona sempre bene, ma messa giù così è perlomeno un po’ vaga. Di quali diritti umani si sta parlando, qui? Che cosa fa questo Ccdu? Di sé dicono di essere i difensori delle vittime delle «brutali pratiche psichiatriche, che creano insanità e causano violenza».2 Se poi si legge con attenzione ciò che scrivono sui loro siti, non sfuggirà il fatto che si dicano «orgogliosi di essere stati fondati, a livello internazionale, dalla chiesa di Scientology». Sono loro, quindi, la prima linea nella guerra dichiarata da Hubbard alla psichiatria, ai suoi «crimini contro l’umanità»: secondo lui gli psichiatri sarebbero in realtà creature diaboliche esistenti da migliaia di anni, dedite alla distruzione dell’uomo e dell’universo. Il loro peccato originale sarebbe addirittura l’invenzione del «dolore e del sesso, strumenti di degrado morale»,3 nonché di schiavitù. In più «non ci sarebbero criminali se psicologi e psichiatri non avessero iniziato a opprimere gli esseri, rendendoli vendicativi contro la società».4 In Italia il Ccdu opera sin dal 1979 (e dal 2004 è diventato Onlus): significa che appena cinque anni dopo lo sbarco in Italia di Scientology, già nasceva quello che in realtà è il loro «braccio armato». Evidentemente la chiesa, del Ccdu, non può proprio farne a meno. Ma qual è la ricetta da seguire per ottenere l’agognata vittoria sui maledetti psichiatri? Te la illustrano loro: «Per realizzare questi obiettivi, i membri del Ccdu lavorano con molti individui e gruppi che condividono la stessa opinione, ivi inclusi politici, insegnanti, operatori sanitari [qui nella versione originale americana si parla anche di rappresentanti del governo, ma nella traduzione in italiano prudentemente lo si omette, NdA], forze di polizia e mass media». Una spiegazione da manuale di scienze politiche: come farebbe ogni lobby che si rispetti, il loro compito è andare in cerca di agganci nei centri di potere del Paese. E in questo sono instancabili. Gli indizi sono sotto gli occhi di tutti, basta avere la pazienza di googlare i loro comunicati, scorrere le interminabili paginate dei loro blog e sorbirsi la retorica dei loro siti ufficiali. Solo così ti accorgi come dal piccolo comune al consiglio regionale, fin su in Parlamento, non ci sia assemblea o centro di potere dove i loro omini perennemente incravattati non riescano introdursi,

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trovando qualche politico disposto a prestar loro attenzione. Chi per radicata convinzione, chi solo per ingenuità, superficialità o sfinimento. Uno dei cavalli di battaglia è senza dubbio una mostra, che dal 2006 sta facendo il giro d’Italia. Più e più volte. S’intitola «Psichiatria: un viaggio senza ritorno», e altro non è se non la versione da esportazione del museo «Psichiatria: un’industria di morte» che si trova nella sede del Cchr di Los Angeles. L’esposizione multimediale ruota intorno a quattordici documentari e a grandi pannelli espositivi5 concepiti per denunciare la violazione dei diritti umani e le centinaia di storie della «psichiatria criminale». La mostra tocca il suo apice nella denuncia degli «psichiatri che hanno teorizzato e architettato l’Olocausto nazista, fino ad arrivare all’invasione odierna degli psicofarmaci». Ma la cosa più sorprendente di questo circo itinerante degli «errori e orrori psichiatrici» è che, dovunque metta le tende, trova sempre un’istituzione disposta a ospitarla (o a patrocinarla), così come un politico pronto a presenziare. Col doppio vantaggio di crearsi un aggancio, ma anche di godere della visibilità necessaria a convincere qualche visitatore di una semplice «verità»: che per raggiungere uno stato di benessere psicofisico – o meglio, di clear – debbano esistere senza dubbio metodi migliori di quelli psichiatrici. A mettere la propria faccia sulla mostra, più o meno consapevolmente, troviamo così – di volta in volta – sindaci, assessori e consiglieri. Come nel febbraio 2008 a Brescia, dove viene inaugurata dal sindaco Paolo Corsini (poi eletto deputato nelle fila del Pd) o ad aprile dello stesso anno a Milano (qui al taglio del nastro partecipano Manfredi Palmeri – lo stesso della «benedizione» al team scientologo haitiano – e Paolo Massari, consigliere comunale e presidente della Commissione scuola e educazione del Comune). A fine maggio, a Verona, presenziano l’assessore alle Pari opportunità Vittorio Di Dio, il vicesindaco di Nogara, Paolo Ceolini, e il consigliere comunale Renata Franchini. Nel febbraio 2009, a Como, trovi l’assessore comunale alla Cultura, Sergio Gaddi, e quello provinciale Patrizio Tambini. Nel marzo seguente a Firenze (dove approdano per la terza volta) ricevono l’augurio dell’assessore provinciale al Lavoro Stefania Saccardi. A giugno, a Trento6 per tagliare il nastro si fanno fotografare i consiglieri provinciali Giorgio Leonardi, Renzo Anderle, Franca Penasa e Roberto Bombarda. E ancora, a settembre, a Verona (per la quarta volta), dove ci sono Antonio Pastorello, presidente del consiglio provinciale, il consigliere comunale Andrea Miglioranzi della Fiamma Tricolore e Paola Perobelli, assessore del comune di Isola della Scala. Nel maggio 2010, infine, la mostra di Cagliari ottiene l’entusiasta partecipazione dell’onorevole Amalia Schirru del Pd, che nel suo sito racconta: «Stamane ho partecipato all’inaugurazione della mostra.

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Ho conosciuto il Ccdu proprio in occasione della mostra multimediale che si tenne nel 2006 qui a Cagliari. In quell’occasione mi complimentai col comitato ed espressi i miei ringraziamenti per il coraggio di aver denunciato un fenomeno di cui tanti hanno dubitato ma non avevano la forza per denunciarlo. Per questi motivi ho voluto dare il mio personale benvenuto alla mostra, sperando che questa denuncia, così energicamente presentata, possa essere uno spunto per riflettere su che cosa sia la salute mentale». Tutto questo per fare solo qualche esempio dei luoghi, e dei nomi, toccati dal lunghissimo e proficuo tour d’Italia degli scientologi. Oltre alle mostre, poi, ci sono le marce di protesta. Sempre contro i nazipsichiatri, sempre organizzate dal Ccdu.7 Le cene di gala. Le premiazioni. I convegni.8 Ovunque, in questo modo, stringono legami con politici e amministratori. Ma almeno nella prima fase del corteggiamento, per i lobbisti del Comitato, Scientology è parola tabù: infatti omettono il piccolo dettaglio della loro affiliazione. E in alternativa ricevono esplicito mandato di ribadire finché hanno voce la propria indipendenza dalla chiesa davanti a chiunque sia tanto sfacciatamente curioso da sentire il bisogno di saperne di più sui loro rapporti. Lo si legge a chiare lettere negli opuscoli interni. Tutto sommato un’inutile precauzione. Negare, infatti, sarebbe fiato sprecato di fronte a qualcuno che – prima di una stretta di mano – si desse la briga di informarsi sul conto del proprio interlocutore: Elia Roberto Cestari, lo storico presidente del Ccdu Italia (in carica dal lontano 1987), è infatti egli stesso uno scientologo. E nemmeno uno qualsiasi. Per la casa madre Cestari ha fatto tanto da esser stato insignito della Medaglia per la Libertà, la più alta onorificenza conferita dalla Ias (International Association of scientologists), ossia l’ultraesclusivo club degli scientologi. Il medico milanese, un vero eroe hubbardiano, è stato perciò immortalato sulla rivista della chiesa accanto ai Cruise & Travolta,9 entrando negli annali. Delle sue fatiche si può leggere fra le pagine del voluminoso What is Scientology?, dove si narra come negli anni Novanta siano state le sue incursioni a portare alla chiusura di alcuni vecchi manicomi italiani. Ispezioni che vennero effettuate in collaborazione con alcuni parlamentari, come lo storico verde Edo Ronchi e l’ex onorevole diessino Lorenzo Diana (per il manicomio di Aversa).10 A partire dal 2008 Cestari si è dedicato ad attività ben più amene del tristo pellegrinar per istituti psichiatrici scrivendo fumetti in collaborazione con Guido Silvestri (il famoso fumettista Silver) e Giorgio Faletti, lo scrittore di bestseller. Sono due: PsiCosa, PsiCome, PsiChi?, e Disturb?.11 Alla conferenza di presentazione del primo albetto, a Torino, incontriamo alcuni dei nostri più sensibilizzati rappresentanti: il presidente del Consiglio regionale Davide Gariglio e il collega consigliere Gianluca Vignale. Ma è

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soprattutto grazie alla fama riflessa dei due celebri coautori che i volumi a fumetti finiscono in mano a tanti personaggi di spicco, tutti rigorosamente paparazzati: «Le nostre pubblicazioni debuttano in politica!» si legge sulla pagina web che li pubblicizza. «Ecco fin dove sono arrivati Lupo Alberto e Cattivik!» Ecco, vediamo. Prima di tutto un tris di ministre: il ministro della Gioventù Giorgia Meloni (dopotutto cosa c’è di più giovane di Lupo Alberto?), il ministro delle Pari opportunità Mara Carfagna (che viene avvicinata e fotografata da lontano, ma prudentemente in posa non ci si vuole mettere), e il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, che dal canto suo non disdegna. Poi una sfilza di viceministri, da Carlo Giovanardi, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega alle politiche per la famiglia, al contrasto delle tossicodipendenze e al servizio civile, al sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella, e quello all’istruzione Giuseppe Pizza (della reincarnata Dc). Due senatori: il capogruppo Pdl Maurizio Gasparri e Maria Elisabetta Alberti Casellati. Due deputati, Mario Baccini e Fabio Rampelli (della Commissione cultura, scienza e istruzione), e l’assessore alla Famiglia del Comune di Roma, Laura Marsilio. Ancora, il duo europeo di Marco Scurria, eurodeputato e coordinatore del Ppe alla commissione cultura, e Roberta Angelilli, capo delegazione di An al Parlamento europeo, volto arcinoto della politica romana (in posa sorridente due volte, per entrambi i volumi).12 Infine Barbara Palombelli, moglie di Rutelli, e Liliana De Curtis, figlia di Totò. A produrre questi albetti è la campagna Perché non accada (Pna), di cui Cestari è il dominus, nelle vesti di direttore scientifico-medico. Gli tengono compagnia in formazione altri due nomi dell’establishment filoscientologo, come Thomas Szasz – professore di psichiatria e cofondatore del Cchr, l’organismo da cui è stato clonato il Ccdu – e Giorgio Antonucci, medico e psicanalista dei cui successi professionali si può leggere su «Freedom In LA», la «voce della chiesa di Scientology a Los Angeles».13 Psichiatri e psicanalisti? Sì, perché a dispetto della loro guerra alla psichiatria, i professionisti che sposano le tesi hubbardiane non sono (più) considerati nemici dell’umanità. Chi altro c’è dietro a Perché non accada? L’associazione Scienza della parola di Udine, l’associazione Primum non nocere e l’associazione Genitori separati dai figli (Gesef). Infine tornano i nostri vecchi amici della Croce giallo-azzurra di De Pasquale. Tutti insieme appassionatamente, sempre in chiave antipsichiatrica, per «informare direttamente il pubblico sul tema Adhd» (ossia il «disturbo da deficit di attenzione e iperattività»), che affligge i bambini con problemi dell’apprendimento. Chiedendo che «non vengano effettuati test di screening psicopatologici sui bambini, a meno che non siano i familiari stessi a richiederli espressamente».

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Come ogni campagna, però, non sei nessuno senza il patrocinio di qualcuno. Ma al Pna i patrocinanti dichiarati proprio non mancano: c’è l’associazione di consumatori Codacons, l’assessorato alla Famiglia di Roma, il segretariato sociale della Rai, la Regione Piemonte, le Province di Imperia, Udine, Asti e Torino, e i Comuni di Lucca, Moncalieri, Taggia, Pozzuolo del Friuli, Arluno, Prato, Piossasco, Binasco e Talmassons, l’Ance di Bergamo e di Lecco, nonché la Federazione Italiana Badminton (sic!) e Lucca Comix & Games. A quanto pare, aderiscono alla campagna anche Rai Notte e Rai Trade. In fondo al lungo elenco troviamo un’associazione chiamata Applied Scholastics Italia e Mediterraneo. Italia e Mediterraneo: una formula conosciuta, perché l’abbiamo già incontrata nella definizione della loro chiesa romana. Infatti è un’altra maschera scientologa, di cui diremo più avanti. Ma non è tutto: Pna ottiene l’appoggio di una lunghissima sfilza di personalità dello spettacolo e dello sport (e persino di un paio di medici).14 Sono artisti, sportivi, e spendono i loro nomi per quella che ritengono essere una buona causa, senza troppo interrogarsi sui secondi fini di chi vi si cela dietro. Fortunatamente per Cestari e i suoi, però, di solito neanche i nostri amministratori sono così accorti, o schizzinosi. D’altronde quelli del Ccdu si fanno portatori di alcune tematiche che qualunque profano può ragionevolmente trovare condivisibili. Come dire di no se qualcuno ti propone di non imbottire di pillole un bambino? Intanto però, tra una buona intenzione e un’altra, s’allisciano il politico e lo tirano, come si suol dire, per la giacchetta. Finché, come a volte succede, la chiesa non si sente a suo agio, ed è finalmente pronta a gettare la maschera. Del vero volto di Scientology ne sa qualcosa Alessandro Ciriani, presidente della Provincia di Pordenone e vice coordinatore provinciale del Pdl, eletto testimonial in un video pubblicato sul sito americano della chiesa. Filmato – ora rimosso – in cui recitava in inglese un mantra decisamente hubbardiano: «La campagna di Scientology rappresenta la chiave di volta nella costruzione di una difesa contro la cultura della morte e della droga. E rappresenta anche un passo importante per la cultura della vita». Ciriani in seguito smentirà di avere alcun rapporto con la chiesa. Come, del resto, quasi tutti i politici coinvolti o soltanto avvicinati dagli hubbardiani (quale che sia la maschera indossata per l’occasione) quando vengono chiamati a renderne pubblicamente conto. Succede a Firenze nel settembre 2010, dove è la redazione locale di «Repubblica» a sgamare il retropensiero degli organizzatori della mostra: «In un cartellone c’è addirittura una mappa storica delle “Eminenze grigie della distruzione” (del genere umano, ndr) in cui si susseguono gli scienziati sostenitori dell’eugenetica, dell’olocausto, dell’apartheid, dei genocidi, fino a

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quelli della “moderna eugenetica”, cioè la psichiatria». Ma per «Repubblica» il vero scandalo sta proprio nel fatto che la mostra abbia ricevuto il patrocinio del Comune e della Provincia di Firenze. Il fallout è sempre il medesimo: dalla Regione niente, mentre dalla Provincia «fanno sapere che l’assessore non sapeva del legame con Scientology, e che il patrocinio è stato dato perché l’associazione è una Onlus e aveva fatto richiesta senza dare troppe informazioni sulla mostra. Stesso discorso dall’assessore comunale Stefania Saccardi, che non era presente: “Il patrocinio non vuol dire che ne condividiamo le tesi”». La spiegazione non basta al coordinamento delle associazioni fiorentine per la salute mentale, che esprime «la sua più accesa disapprovazione per la mostra. [...] La salute mentale è un settore assai delicato e va trattato con finezza e scienza e non con l’intenzione di suscitare stupore e scalpore. [...] La natura e le finalità di Scientology non ci sono note; certo è che non è nell’interesse dei malati e delle loro famiglie che simili mostre vengano organizzate. È auspicabile che d’ora in poi si sia più cauti nel concedere sale pubbliche e patrocini da parte dei Comuni e delle Province».15 Puntualmente, invece, la storia si ripete. Due mesi dopo, in un altro luogo. Cioè a Verona, dove Giovanni Miozzi, presidente della Provincia – dopo essersi visto piovere addosso le mail indignate degli psichiatri – sul «Corriere di Verona» sostiene di «essere stato ingannato: il patrocinio c’è, ma non condividiamo il messaggio che la mostra veicola. L’abbiamo concesso in forma totalmente gratuita sulla base di una documentazione ingannevole, che non faceva assolutamente menzione dei rapporti con Scientology».16 Ma è «l’Unità» a dare finalmente voce ai «malvagi» psichiatri: «“Le persone più fragili e sensibili” spiega Michele Tansella, psichiatra e preside della facoltà di Medicina dell’Università di Verona “sono quelle più facili da convincere e sono anche quelle che fanno più fatica a farsi curare”. Il rischio è che immagini di questo genere facciano aumentare la diffidenza nei confronti dei servizi di salute mentale e allontanino le persone che hanno bisogno d’aiuto».17 Non sempre però accade che qualcuno se ne accorga. Alla fine di una serata organizzata agli inizi del millennio in un teatro del centro di Milano, condita da uno spettacolo al quale avevano partecipato la diva del jazz dianetico Elena Roggero, e l’étoile Elisabetta Armiato18 (ex prima ballerina del Teatro alla Scala di Milano, moglie di Cestari e madrina di Pna), «a Guido Manca, allora assessore alla Sicurezza, periferie e protezione civile,19 fu consegnato un assegno del valore di circa diecimila euro, come donazione al Comune di Milano della comunità di Scientology».20 A riferircelo, nell’estate 2010, è Luca Poma, giornalista, ieri importante referente della chiesa, oggi scrittore

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dalla memoria lunga, che incontriamo nella hall di un albergo nel centro di Roma. «La causale? Azioni di protezione civile, a titolo di liberalità.» Niente d’illegale, si capisce, ma l’episodio resta tanto politicamente rilevante, quanto dimenticato. Gli scientologi, invece, ricordano bene quando nell’aprile 2006 lo stesso assessore, insieme alla voce dei Pooh Roby Facchinetti, partecipò all’inaugurazione del nuovo Centro di miglioramento della vita della chiesa milanese.21 In tutta risposta nel maggio di quell’anno si registra un tam tam di apprezzamento, con un appello che girava via e-mail fra gli accoliti meneghini. Appello che si poteva riassumere così: «Vota Antonio, vota Antonio, vota Antonio».22 In fondo, però, altro non era che l’applicazione alla lettera del decimo comandamento hubbardiano: «Sostieni un governo che è stato creato e opera per l’interesse di tutti». Sì, gli scientologi sanno come sdebitarsi. Guido Manca non è l’unico lobbizzato segnalatoci da Poma, che sorseggiando acqua e menta ci offre un altro spaccato di quello che era il suo impegno di allora a supporto della chiesa:23 «Strinsi io contatti iniziali con Gianluca Vignale, deputato regionale piemontese dell’ex An, per iniziative del Ccdu legate agli abusi psichiatrici sul territorio piemontese. Loro poi come chiesa utilizzarono questi contatti, ampliandoli e tessendone ulteriori sempre all’interno di An. Dal senatore Cristano De Eccher all’onorevole Marcello De Angelis, direttore della rivista “Area”, a Roberta Angelilli, e numerosi altri. Nessuno di essi è stato contattato direttamente attraverso Scientology, ma di volta in volta per specifiche azioni sociali. Poi ovviamente loro si sono appropriati del contatto per un uso più esteso». I nomi fatti da Poma li ritroviamo a Torino verso la fine dell’estate 2007. Fra il 12 e il 16 settembre di quell’anno, ai giardini di corso Telesio si tiene la Festa della Destra, un’occasione per convegni e presentazioni di libri dell’area culturale di quella che fu Alleanza nazionale. Il 14 era stato il turno di un convegno dal titolo che ormai dovrebbe suonare familiare: «Perché non accada. Interventi per limitare la somministrazione di psicofarmaci ai bambini». Chiamati a parlarne sono proprio Vignale, De Angelis e Angelilli. Quelli del Ccdu li conosce bene anche Lucia Centillo del Pd, presidente della commissione Pari opportunità del Comune di Torino, che ha lavorato al loro fianco in occasione della Maratona europea dei diritti dell’uomo.24 Un caso a parte, infine, è senza dubbio quello del sindaco di Padova Flavio Zanonato, che nel numero 34 della rivista ufficiale «Scientology News» viene citato come «salito a bordo», espressione che nel pittoresco hubbardiano nautico significa affiliato.25

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Non è vera lobby, però, finché non si traduce in iniziative politiche ben precise, spesso rivendicate apertamente come proprie conquiste «contro l’abuso psichiatrico» dagli organi di informazione della chiesa. Il che è precisamente quanto sta accadendo in Italia negli ultimi anni: fioccano interrogazioni ad hoc, e addirittura si sfornano disegni di legge tagliati su misura per i dogmi antipsichiatrici hubbardiani. Regione per regione, si assiste così a un perfetto gioco di squadra. A partire da De Angelis e De Eccher. Il primo – per ben due legislature – presenta alla Camera un disegno di legge con l’obiettivo di vietare nelle scuole i test psicologici necessari alla diagnosi della sindrome Adhd (all’epoca del governo Prodi si era mosso in compagnia bipartisan dell’ex deputata verde Loredana De Petris).26 Ma De Eccher non è certo da meno,27 né al Senato (il suo ddl attende da due anni l’avvio dell’iter), né a Trento.28 Qui almeno, da consigliere è riuscito a far approvare la legge. Il testimone però gli era stato ceduto dalla coppia di affiatati colleghi Vignale e Gariglio, che da primi firmatari29 erano riusciti a farlo passare in Piemonte.30 Ma in realtà è sempre lo stesso disegno di legge: un testo che prima di rimpallare per mezza Italia era stato originariamente scritto a quattro mani con Cestari. Non sempre si può vincere, però il cuore ce l’avevano messo tutto anche gli altri di An, come l’ex braccio destro di Gianni Alemanno Marcella Amadio,31 allora consigliere in Toscana, Enrico Aimi in Emilia Romagna, Mauro Minniti a Bolzano, e l’assessore veneto all’Istruzione Elena Donazzan. Ci avevano provato anche l’ex forzista Alessandro Colucci in Lombardia, e in Campania Tonino Scala, l’ex consigliere regionale di Sinistra Ecologia e Libertà. Agli inizi del 2009 un bel contributo alla causa scientologa arriva a sorpresa dalla Gelmini: una sua circolare ministeriale invitava a evitare i test nelle scuole, riscuotendo un’ovazione dal sito del Comitato, e da tutti, ma proprio tutti, i blog dei fedeli.32 Che invece si lamentano quando poi, appena un anno dopo, la Regione Lombardia nonostante ciò dà il via all’impiego di unità di neuropsichiatria per individuare i problemi di scrittura, lettura e calcolo dei bambini. «In netto contrasto con le direttive date dal ministero della Pubblica Istruzione» denunciano scandalizzati. A volte bisogna saper incassare una sconfitta. 1 Per dare un’idea di quanto gli scientologi tengano ai loro volumi per le edicole abbiamo parlato con un giornalaio romano, che ci racconta: «Me l’hanno portato e l’ho esposto come faccio per qualsiasi altro prodotto, anche perché non sapevo neanche esattamente cosa fosse. Mo’ è perché me lo dici tu: io pensavo a un romanzo di fantascienza. Se non era incellofanato gli avrei anche dato un’occhiata. Ma qui da me non se lo compra nessuno. Anzi, una cliente mi ha anche chiesto di toglierlo, ché non gli piaceva. Poi l’altro giorno mi hanno telefonato. Non era la distribuzione, erano proprio quelli di

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Scientology. Cosa che mi è sembrata abbastanza strana, perché è sempre il distributore a preoccuparsi delle vendite del materiale che mi arriva, mai le case editrici. Il tizio al telefono mi ha chiesto se e quanto vendesse, al che gli ho detto che non ne avevo venduto neanche una copia, e lui mi ha sbattuto il telefono in faccia». 2 Per la loro propaganda, in nome dell’antipsichiatria non si butta niente. Persino l’aggressione subita da Silvio Berlusconi a Milano da parte di Massimo Tartaglia (in cura psichiatrica da dieci anni al Policlinico di Milano) diventa una buona occasione per parlare di escalation, e sostenere che «è solo la punta dell’iceberg di una sconvolgente situazione di abusi che stanno avvenendo nell’ambito della salute mentale». 3 L. Ron Hubbard, Pain and Sex, «Hco Bulletin», 26 agosto 1982. 4 L. Ron Hubbard, La causa della criminalità, 6 maggio 1982. 5 www.ccdu.org. 6 Ma qui gli organizzatori della mostra fanno un passo falso: dopo aver ottenuto la Sala di rappresentanza della Regione, Scientology presenta l’iniziativa come fosse «patrocinata» dall’ente, utilizzando lo stemma della Regione sui volantini. Al che la Regione si vede costretta a diffondere un comunicato per precisare che «non è stato concesso nessun tipo di patrocinio, né morale né finanziario, all’iniziativa», diffidando «gli organizzatori della mostra dall’utlizzare il simbolo della Regione sul materiale promozionale dell’evento e dall’affermare di aver ricevuto tale patrocinio». 7 Negli ultimi anni sono stati a Cagliari, Verona, Torino, Milano. A Firenze, YouTube mostra quattro gatti tutti dietro a uno striscione: «Psichiatria uguale pseudoscienza», che ballano al ritmo di «chi non salta uno psichiatra è!».

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8 Come quello organizzato nel novembre 2008 a Treviglio («Dove sta andando la scuola? Disturbi dell’apprendimento e diagnosi sui bambini»): ospite d’onore Carolina Lussana, vice capogruppo alla camera della Lega Nord (forse l’unica leghista a comparire nei loro cartelloni). Come la conferenza del Comitato cui ha partecipato Gian Piero Clement, consigliere regionale piemontese di Rifondazione comunista (forse l’unico comunista del listone trasversale filo Ccdu). O come il convegno «Bambini all’inferno: uso e abuso di psicofarmaci su minori», organizzato nel gennaio 2010 direttamente dal vicepresidente del Consiglio regionale toscano Angelo Pollina, nonché commenda fiorentino dell’Ordine dei Cavalieri del Tempio di Hierusalem (meglio conosciuti come Templari). 9 L’articolo in questione s’intitolava, per l’appunto, Un tributo agli eroi: «In tutta la storia nessuna corona d’alloro, trofeo, premio o riconoscimento è paragonabile alla Medaglia della Libertà della Ias. Allo stesso modo nessun simbolo d’onore eguaglia ciò che questa medaglia rappresenta in termini di servizio all’umanità ed effettiva libertà per tutti. Ciò che distingue la Medaglia della Libertà della Ias da ogni altra onorificenza è il fatto che non è soltanto un riconoscimento di passati raggiungimenti, ma è anche fiducia e una chiamata a fare di più senza mai tentennare o rallentare nella sfida del salvataggio del pianeta. Tra le migliaia di scientologist in prima linea, che stanno aiutando a vincere la guerra contro la soppressione [chiunque ostacoli la chiesa viene definito “soppressivo”, NdA] e stanno lavorando per liberare l’umanità, sono selezionate le persone che per un eccezionale lavoro meritano il conferimento della Medaglia della Libertà della Ias. Quindi, il più alto riconoscimento che uno scientologist può ricevere per le sue attività, è presentato solo alla Celebrazione dell’Anniversario della Ias». Fra le varie icone sacre a corredo dell’articolo, c’è la fotina di Roberto Cestari, con tanto di medaglione al collo. 10 Questo lo racconta sul suo sito Alessio Coppola, presidente del Telefono viola, associazione nata per fornire informazioni «su come difendersi dalle coercizioni della psichiatria» e sui danni degli psicofarmaci. Cofondatore del Telefono viola è Giorgio Antonucci, nome che ritroveremo più avanti.

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11 «Disturb?» spiega Faletti «è un racconto entusiasmante, ricco di umorismo e saggezza, nato dal desiderio di libertà e da un sogno: dare un contributo autentico alla libertà del bambino in una società che troppo spesso tende a paralizzare e sottoporre a stretta osservazione i ragazzini trasformando la loro vivacità in una patologia da curare.» Ignaro di aver appena sposato una battaglia marchiata Hubbard. (Se la vivacità non è patologia. Oggi Faletti al Palazzo Ducale, «la Repubblica-Firenze», 1° novembre 2009). 12 Il quattro dicembre 2009 Roberta Angelilli era a Roma per una conferenza stampa dal titolo «Psicofarmaci e minori: tra abuso e disinformazione». E proprio questo incontro, riportano i suoi addetti, è stata l’occasione per presentare il libro Disturb?. 13 L’attrice Juliette Lewis di fan ovviamente ne ha parecchi. Ma quanti mortali possono annoverare fra le proprie fan Juliette Lewis? Uno è certamente il dottor Antonucci, che la star scientologa ha definito «eroico». 14 Dalla musica: Claudio Abbado, Giovanni Allevi, Cecilia Chailly, Gustavo Dudamel, Giorgio Gaslini, Flavio Cucchi, Andrea Lucchesini, Ennio Morricone, Fabio Vacchi, Fabio Armialato, Daniela Dessì, Sonia Dorigo, Mirella Freni, Cecilia Gasdia. Dal pop: Angelo Branduardi, Bruno Lauzi, Annalisa Minetti, Milva, Mogol, Anna Oxa, i Pooh, Ennio Rega, Enrico Ruggeri, Simonluca. Da cinema e televisione: Gabriele La Porta (in veste di direttore Rai Notte), Carlo Nardello (direttore Marketing Rai), Lamberto Puggelli, Gabriele Salvatores, Luisa Spinatelli, Lina Wertmüller, Luca Barbareschi (che però è anche un deputato del Pdl), Giorgio Faletti, Virna Lisi, Sofia Loren, Mariangela Melato, Sofia Milos (attrice di Csi Miami), Maurizio Nichetti, Elena Sofia Ricci. Dal mondo dei musical: Michel Altieri e Manuel Frattini. Dalla danza: Raffaele Paganini e Luciana Savignano. Dallo sport: Manuela Di Centa, Yury Chechi, Virginio Ferrari, Umberto Pelizzari, Alberto Tomba, Alex Zanardi. Dalla moda: Diego Dalla Palma e Randi Ingerman. Dal fumetto: Alessandro Bilotta, Fabio Celoni e Giovanni Gualdoni (Dylan Dog), Luca Enoch (Gea), Massimo Bonfatti, Bruno Bozzetto, Osvaldo Cavandoli, Alfredo Castelli (Martin Mystère), Giorgio Cavazzano, Leonardo Cemak, Mario Gomboli (Diabolik), Ferruccio Alessandri, Mariella e Michele Pazienza (PAZ), Guido «Silver» Silvestri, Iginio Straffi (Winx), Silvia Jacovitti (per Benito Jacovitti), Ro Marcenaro. In fondo all’elenco degli aderenti persino due medici: Antonio Dal Monte e Giovanni Bonadonna.

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15Comune e Provincia con Scientology, «la Repubblica-Firenze», 14 settembre 2010; Le famiglie dei malati contro la mostra shock, «la Repubblica-Firenze», 14 settembre 2010. 16 Davide Orsato, Psichiatria come vudù, «Corriere del Veneto-Verona», 21 novembre 2010. 17 Cristiana Pulcinelli, Una mostra curata da Scientology. Insorgono gli psichiatri, «l’Unità», 23 novembre 2010. 18 Elisabetta Armiato in varie occasioni compare felicemente in foto al fianco di Chick Corea, Isaac Hayes, Kirstie Alley (star delle commedie americane anni Novanta), e l’attrice Catherine Bell, tutte note celebrity dello showbiz hubbardiano. 19 Guido Manca nel 2010 è consigliere comunale pidiellino. 20 Che l’amministrazione della città della Madonnina sia terra fertile per i semi dell’Hubbard-pensiero, i milanesi se ne sono resi conto in occasione della Stramilano 2009. Agli aficionados del jogging in quell’occasione era stato consegnato un kit contenente T-shirt, pettorale, dépliant con informazioni varie, saluti di sponsor e istituzioni. Ma insieme ai cerotti per le vesciche, gli iscritti alla corsa si erano trovati fra le mani una copia de La Via della Felicità, il decalogo di Ron Hubbard. Chi sarà mai stato l’Ulisse di questo cavallo di Troia? Di certo non il cattolicissimo sindaco Letizia Moratti. Sta di fatto che il diretto responsabile della farcitura, nonostante le rimostranze di Maurizio Baruffi, consigliere del Pd, non è mai saltato fuori.

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21 Il centro «offre una visione approfondita di Dianetics e Scientology, e fornisce risposte, immediatamente utilizzabili ai quesiti fondamentali della vita», si legge su un blog scientologo. 22 «Dears, Guido Manca, assessore alla Sicurezza del Comune di Milano ha sostenuto e creduto nella nostra missione in tempi non sospetti. Recentemente è intervenuto con un bellissimo discorso all’apertura del nuovo Centro di miglioramento in via Torino della nostra chiesa. Guido Manca ora si presenta per le elezioni del 28-29 maggio. Tutti coloro che sono residenti nel comune di Milano votandolo hanno la certezza di sostenere una persona onesta e abile. Si stanno raccogliendo le adesioni proprie e quelle dei propri amici. È vitale segnalare rispondendo a questa mail nome, cognome, indirizzo di coloro che (amici e parenti inclusi) lo voteranno. Mi scuso con coloro che ricevono questa mail anche se non sono di Milano. Ciao Massimo.» 23 Poma non si è mai dichiarato «nemico della chiesa di Scientology», ma se ne è allontanato amareggiato dopo aver pubblicato una lettera aperta con la quale prendeva le distanze dai suoi metodi (pubblicata sul sito www.dimarzio.it). 24 «Mai avuto brutte esperienze» replica la Centillo. «Anzi, facevano lezione d’italiano agli stranieri» (Stefano Pitrelli, Gianni Del Vecchio e Tommaso Cerno, Ragnatela Scientology, «L’espresso», 23 settembre 2009). 25 «Il sindaco è stato avvicinato da un esponente di Scientology che gli ha regalato un libro» riferisce il portavoce Antonio Martini. «Non conosce quella persona» (Ibidem). 26 «Ho collaborato per la legge 21 del 2007» chiarisce Vignale. «La cosa anomala è che si debba pensare che ci sia una finalità di affiliazione. A me non è capitato» (Ibidem).

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27 «Io sono cattolico, figuriamoci se davo retta a Scientology» si difende De Eccher. «Mi sono confrontato con alcuni esperti del Ccdu per una legge sui test psicologici nelle scuole. Che c’entra?» (Ibidem). 28 Dove ricordiamo anche l’interrogazione datata febbraio 2009 del consigliere provinciale Mauro Delladio, che – rilanciato da un comunicato del Ccdu locale – denuncia «diagnosi sbagliate, assunzione forzata di psicofarmaci, mancanza di vero consenso informato, mancanza di terapie alternative». La pattuglia dei firmatari era composta anche da Walter Viola, Pino Morandini, Rodolfo Borga e Giorgio Leonardi. 29 Insieme al collega consigliere Antonino Boeti. Invitato a parlare, insieme a Vignale, alla conferenza targata Ccdu torinese del febbraio 2009. Dal titolo ormai familiare: «Bambini e adolescenti, iperattività e deficit di attenzione: gli psicofarmaci sono la risposta?». 30 «Per primi in Europa» esultava il Ccdu. 31 «Ho parlato col Ccdu, ma» ammette l’Amadio «non sapevo che ci fosse dietro Scientology.» 32 «Il Comitato dei Cittadini per i Diritti Umani» scrivono in un annuncio speciale «desidera ringraziare e manifestare la propria soddisfazione per questa presa di posizione del ministero che ha deciso di tutelare i nostri bambini, consapevole della pericolosità insita in questi test e, indirettamente, anche dall’uso e abuso di psicofarmaci.» A stretto giro di posta seguirà la mozione di Andrea Mignoranzi (il consigliere comunale veronese che abbiamo già visto simpatizzante delle loro posizioni antipsichiatriche) su «l’uso di psicofarmaci per l’iperattività e all’utilizzo di test nelle scuole».

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3. Una scala per il paradiso Finora abbiamo osservato i nostri fedeli lobbisti gettare i semi per l’accreditamento presso le istituzioni (a livello «federale» e nazionale), e andare a caccia di buona pubblicità. Lavorando alacremente come un sol uomo, ventiquatt’ore su ventiquattro, ciascuno con le proprie specifiche mansioni. Eppur riuscendo quasi sempre – grazie ai vari travestimenti del caso – a tenere un basso profilo, e a non esporsi più dello stretto necessario. Abbiamo anche ascoltato le dichiarazioni d’indipendenza di Ccdu e soci, così come le proteste dei politici chiamati in causa. Ora, se alla fine il loro operato fa politicamente (al Ccdu direbbero «ideologicamente») gioco a Scientology, che il lobbista in questione sia esterno o interno1 alla chiesa, che cosa cambia, per quei cittadini dei cui diritti si fanno portabandiera? E che importa che il lobbizzato sia scientologo, simpatizzante o del tutto ignaro? La risposta a entrambe le domande è: assolutamente niente. Ma, guerra agli psichiatri a parte, a che cosa serve veramente questo sfiancante assedio ai palazzi del potere? Quale sarà mai, alla fine, il gioco di Scientology? Per capirlo è necessario andarsi a rileggere una significativa interrogazione parlamentare rivolta al ministro dell’Interno Roberto Maroni dall’attivissimo senatore del Popolo della Libertà Salvo Fleres. È il 19 maggio del 2010. Quel giorno in Senato è caldo il tema del disegno di legge sull’Università del ministro Gelmini. Fuori da Palazzo Madama migliaia di docenti, ricercatori, precari e studenti tengono un presidio, e solo ventiquattr’ore prima i rettorati di decine di atenei erano stati occupati da chi protestava per il taglio delle risorse alle università pubbliche. Ma proprio mentre una delegazione dei docenti viene ricevuta dalla commissione dove si sta finendo di discutere sul provvedimento – e sotto lo sguardo perplesso di colleghi in tutt’altre faccende affaccendati – Fleres tira fuori dal cappello un argomento chiaramente lontano dai cuori e dalle menti della maggior parte dell’aula. Ecco cosa scrive il Parlamentare: Fin dalla sua fondazione Scientology è stata al centro di molte polemiche, procedimenti giudiziari e contenziosi legali che prendevano l’avvio, secondo il fondatore, da un complotto montato dai suoi nemici [la pericolosissima mafia degli psiconazisti, NdA]. Oggi è ancora argomento di dibattito la qualifica di Scientology, vale a dire se la stessa sia da individuare come una «associazione religiosa», una «filosofia religiosa», un «movimento religioso»

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o come una setta; tuttavia la magistratura italiana, nella sua stragrande maggioranza, ha affermato la legittimità costituzionale della presenza di Scientology in Italia, la natura religiosa delle associazioni di Scientology italiane e il loro diritto all’applicazione della legislazione di favore prevista dall’ordinamento italiano per le associazioni religiose. Questo è solo il preambolo. Ma per iniziare a inquadrare ciò che sta accadendo al Senato in un contesto un po’ più chiaro facciamo un altro passo indietro. Dove si trovava la sera del 16 marzo dello stesso anno (e cioè appena un mese prima) il senatore? Nella nuova fiammante sala convegni dell’Org romana di Casalotti per andare a consegnare alla chiesa di Scientology una targa per il suo «impegno sociale». Lo si può leggere in un comunicato ufficiale. Una cerimonia solenne, durante la quale al senatore era stata donata a mo’ di ringraziamento un’edizione extralusso di Dianetics. Non era neanche il primo scambio di affettuosità fra il parlamentare siciliano e gli hubbardiani: già l’anno precedente, il 20 giugno 2009, notte di musei aperti a Catania, al Castello Ursino si era tenuta un’altra premiazione. Fleres era sempre lì ad applaudire mentre a Itria Leone, pr catanese della branca siciliana di Scientology, veniva consegnata la Chimera d’Argento per l’associazionismo. Con la seguente motivazione: «Per la coordinazione di tutte le associazioni per il miglioramento sociale nell’ambito delle campagne in favore dei diritti umani, della prevenzione contro la droga e per il ripristino dei valori morali». Quindi, quello che a una prima lettura appare un fulmine a ciel sereno, per Fleres è piuttosto la prosecuzione di una splendida amicizia. Dove vorrà mai andare a parare il senatore con la sua interrogazione parlamentare? Scientology ha inviato molte lettere ai ministri dell’Interno che si sono succeduti prima e dopo il 1998, con le quali chiedeva che venisse preso atto della natura confessionale della organizzazione senza ricevere mai alcuna risposta.Scientology, a parere dell’interrogante, avrebbe potuto essere riconosciuta come organizzazione religiosa in virtù del Trattato di amicizia, commercio e navigazione fra la Repubblica italiana e gli Stati Uniti d’America. A parere dell’interrogante, lo Stato italiano starebbe quindi facendo da tempo un torto a Scientology. Ma poi Fleres rincara la dose, elencando tutta una serie di elementi che dimostrerebbero la gravità del torto:

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Nel 1993 Scientology ottiene la piena esenzione fiscale e il riconoscimento dello status di Charity negli Stati Uniti;nel 2001 la Corte di cassazione, con sentenza n. 12871, ha affermato che la natura religiosa di un ente va accertata di volta in volta in base alle indicazioni date dalla Corte costituzionale;nell’aprile 2007 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha sanzionato la Russia per non aver riconosciuto Scientology come religione;ancora nel novembre 2007 in Spagna è stato dato il via libera all’iscrizione di Scientology nel registro unico delle entità religiose del ministero dell’Interno, dandole così personalità giuridica. Insomma, ciò che Fleres vuole da Maroni è che si ripari a quel torto. L’interrogante chiede di sapere:se risultino, allo stato, sufficienti i requisiti posseduti da Scientology per essere già considerata una confessione religiosa;se ritenga di dover intervenire per accertare e indicare, in modo chiaro e definitivo, i requisiti in base ai quali poter procedere ad annoverare Scientology tra le associazioni religiose e per meglio identificare le stesse;se e in quali modi intenda intervenire al fine di continuare a garantire e meglio consentire la professione piena e compiuta del libero culto, così come sancita dalla Costituzione, con particolare riguardo alla organizzazione denominata Scientology. Ecco allora che cos’è ciò che Scientology vuole dalla politica italiana: poter entrare, finalmente a buon diritto, nell’esclusivo Circolo delle Religioni riconosciute. Il patentino del riconoscimento giuridico, però, dovrebbe prima passare attraverso un’intesa siglata col governo, e poi dalla ratifica in Parlamento. Superare questo esame per gli hubbardiani significherebbe dire addio al complesso d’inferiorità nei confronti di cattolici, ebrei, valdesi, avventisti, evangelici e luterani. E pure della cordata dei «colleghi» outsider ortodossi, mormoni, apostolici, buddisti, induisti e testimoni di Geova, che al tempo dei governi D’Alema e Prodi li avevano sorpassati in volata nella corsa all’oro, strappando un’intesa siglata ma ancora non riconfermata dal Parlamento. Abbastanza vicino alla meta da far sognare quelli di Scientology. Ma per un culto-multinazionale che in Italia, dal quartier generale di Vimodrone, gestisce un giro d’affari fra i dieci e i cinquanta milioni2 di euro annui, sarebbe quanto meno ingenuo farne solo una questione di crescita spirituale.

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Più che altro è materia catastale. La chiesa-ambasciata di Casalotti da cui eravamo partiti, infatti, è stata costruita – grazie ai copiosi fondi della Ias –3 con un solo scopo: dotarsi di una sede di rappresentanza nella Capitale che fosse all’altezza delle loro ambizioni politiche. La cornice appropriata per accogliere con solennità (e impressionare con il giusto sfarzo) tutti i parlamentari simpatizzanti della loro causa. E prepararsi al meglio: se domani arrivasse il Giorno del Riconoscimento, è nella Org Ideale di Casalotti che gli scientologi italiani andrebbero a brindare. Erano loro stessi a scriverlo su un dépliant che già nel 2007 annunciava la costruzione della loro scala per il paradiso,4 ultimata a suon di milioni di dollari nel tempo record di due anni. Data la fretta, la mole della chiesa, e l’entità della spesa, sembrerebbe quasi che quel giorno se lo attendano presto, e in vista dell’evento fanno formazione sui propri fedeli con seminari dal titolo tutt’altro che allusivo: «Causare il riconoscimento di Scientology».5 Perché, come sostengono, «“avere una religione” ed “essere religiosi” non sono la stessa cosa». Sarà Fede (nei loro lobbisti)? Sarà Speranza (nei loro lobbizzati)? Certo è che se accadesse quella che chiamano «la svolta decisiva», da quel momento in avanti la loro vita cambierebbe. E in qualche modo anche quella degli italiani. Come? Presto detto. Prima di tutto entrare nel Circolo delle Religioni più che allo spirito fa bene alla cassa. Col bollino blu della politica, a Scientology spetterebbe di diritto un posto da commensale alla tavolata imbandita dell’otto per mille. Un banchetto da quasi un miliardo di euro che vede la Chiesa cattolica fare la parte di Pantagruel, e le briciole alle altre.6 Ma quando parliamo di «briciole», stiamo parlando comunque di una montagna di denaro: mal che vada sono pur sempre un paio di milioni di euro l’anno. Assieme all’otto per mille il fisco offre un altro privilegio per chi è nella rosa delle religioni riconosciute. Le donazioni dei fedeli alle chiese «ufficiali», infatti, costano meno: chi elargisce gode di uno sconto sulle tasse fino a un migliaio d’euro.7 E gli scientologi sono molto generosi.8 Soldi in meno per il fisco. Per lo Stato. E per tutti i suoi cittadini. «Sicuramente se riuscissero a portarsi a casa il riconoscimento, li aiuterebbe anche da altri punti di vista» spiega Poma, che i fili del teatrino ha avuto modo di osservarli da dietro le quinte. «A partire dall’esenzione Ici, visto che stanno conducendo un’aggressiva campagna di acquisizione degli immobili. Incluso l’esteso appezzamento di Casalotti, lo stabile di via Lepontina a Milano, l’ex complesso industriale di via Artigianelli a Rivoli, in provincia di Torino, e un nuovo acquisto nel Padovano. La disponibilità diretta dei luoghi di culto, d’altro canto, agevolerebbe il riconoscimento.»

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Come religione riconosciuta, inoltre, i vantaggi non sarebbero solo di natura materiale. Ogni famiglia scientologa avrebbe il diritto di chiedere alla propria scuola l’insegnamento dell’ora della (propria) religione. Ma non solo. I ministri del (loro) culto potrebbero diventare «cappellani militari», oppure entrare nelle carceri9 e negli ospedali per dare assistenza spirituale a chi soffre. «Poter classificare i propri funzionari come ministri di culto gli permetterebbe di assistere i morenti all’interno delle corsie ospedaliere, cosa che attualmente non possono fare. Una prospettiva interessante» ipotizza Poma «se pensiamo che una delle possibili strategie di raccolta fondi è proprio quella dei lasciti testamentari.» Senza contare il salto di qualità da un punto di vista giudiziario: «Uscendo da questa zona grigia di ambiguità sul fatto che Scientology lo sia o non lo sia, di fronte a ogni causa si potrebbero difendere in mille situazioni dicendo: “Ma noi siamo una religione!”». Prima di vedere i maestri di Scientology aggirarsi regolarmente nelle scuole, o i loro ministri di culto nelle caserme, lungo le corsie dei nostri ospedali o fra le celle dei detenuti, probabilmente ci vorrà ancora un po’ di tempo. Ma la strada maestra certamente passa dall’amicizia coi nostri potenti. L’ex Senatore Alfredo Biondi,10 strenuo garante degli hubbardiani, ha detto: «Nel mondo politico c’è una certa prudenza a dire certe cose. Si tengono tutti a distanza». Ma siccome negli anni i loro lobbisti ci hanno davvero saputo fare, come hanno appena dimostrato, oggi ormai non è più così. 1 «Checché ne dica il mio ex amico Cestari» sostiene Poma «il Ccdu è assolutamente organico alla chiesa. Tutte le sedi regionali e locali del Ccdu sono presso la chiesa, tutti i numeri di telefono del Ccdu sono pagati dalla chiesa, tutto lo staff direzionale del Ccdu è sul libro paga della chiesa. Non si fa nulla come Ccdu che non sia concordato con la chiesa. Esiste una funzionale, organica e continua relazione fra la chiesa e il Ccdu. Quando Cestari sostiene pubblicamente che il Ccdu è entità autonoma sta dicendo cosa non vera. Vero è che Cestari è persona moralmente rispettabile e di straordinaria intelligenza, e che mai Scientology si permetterebbe di fare qualcosa come Ccdu senza avere il suo accordo. Lui peraltro è organico alla chiesa, quindi stiamo ragionando in casa... Ma il vero dominus del Ccdu è un altro, cioè il “responsabile delle riforme sociali” della chiesa, senza il cui assenso il Ccdu non fa nulla. Una volta era Emanuela Gobbini, e anche se non so chi ricopra quell’incarico oggi, chiunque sia sarà come lei: un Sea Org member [membro dell’élite scientologa, con tanto di divisa paramilitare della loro “Marina”, NdA] nonché il dirigente nazionale del Dipartimento 20.» Ma del misterioso e ultrapotente Ufficio affari speciali torneremo a parlare più avanti.

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2 Stefano Pitrelli, Gianni Del Vecchio e Tommaso Cerno, Ragnatela Scientology, cit. 3 Secondo una brochure interna la chiesa è «completamente finanziata dalla Ias». Le indiscrezioni parlano di sedici milioni di dollari, dei quali invece altre Org italiane di minore potenziale impatto diplomatico faticano a ottenere un centesimo. 4 Nel corso della Assemblea nazionale degli scientologist italiani, tenutasi il 29 aprile di quell’anno, si diede «il via al movimento più importante della storia del nostro Paese: rendiamo le nostre chiese delle Organizzazioni Ideali e apriremo le porte al Reame OT in Italia con l’Organizzazione Avanzata», ossia la «Campagna per il Riconoscimento Religioso», verso il quale l’ambasciata di Casalotti è «la pietra miliare» (dal testo del dépliant). 5 Di seguito il testo di una e-mail inviata dagli Affari pubblici della chiesa di Scientology il 23 giugno 2008: «ATTENZIONE: IMPORTANTE. Caro Scientologist, il riconoscimento religioso, insieme alle Org Ideali, è il requisito per poter aprire un’Advance Org in Italia. La prima cosa da ottenere, comunque, è l’accettazione di Scientology in quanto religione da parte dei vari strati sociali e istituzioni. Se qualcuno ti chiedesse di spiegargli “perché” Scientology è una religione, come risponderesti? Sapresti spiegare quali sono gli elementi chiave per i quali Scientology è una religione e per i quali l’auditing, per esempio, è una delle pratiche religiose fondamentali di Scientology? Sapresti fare paragoni appropriati con pratiche di altre religioni cosicché gli sia facile capire? Potresti pensare che quanto sopra non abbia a che fare direttamente con te. Se questo è il caso, sappi allora che tu, insieme a tutti gli altri, puoi essere determinante per l’accettazione di Scientology. Per i motivi suddetti, domenica 29 giugno ci sarà un seminario all’Otl. La tua presenza è gradita. Leggi il file che ti ho allegato e avrai tutte le informazioni. Ti aspetto. Nel frattempo ti saluto con simpatia. Responsabile relazioni pubbliche per l’Italia Luigi Brambani. Ps: Se avessi bisogno di più chiarimenti, puoi rivolgerti al direttore degli Affari speciali (Dsa) della tua chiesa o contattarmi direttamente al [...]». In allegato a questa mail il fedele trovava il volantino per pubblicizzare l’evento.

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6 Il 90 per cento va alla Chiesa cattolica, il 7 allo Stato e alle altre il resto. Lo dicono i dati del 2007 forniti dal governo, gli ultimi a disposizione. 7 Si possono dedurre ai fini fiscali «liberalità» fino a 1032,91 euro. 8 Nella piramide gerarchica della Chiesa di Hubbard persino la generosità dei fedeli viene inquadrata con appositi titoli onorifici. Si va dai miseri 2500 euro del Contributor, ai 10.000 del Fundator, ai 20.000 del Cavaliere, ai 50.000 del Magister. Ma per esser Gran magister plurimus devi triplicare la tua generosità (150.000). Poi si passa ai veri pesi massimi: il Commendator (250.000), il Senator (500.000) e il Senator maximus a un milione tondo tondo. Ma il meglio di tutti è il Senator maximus ad honorem: due milioni e mezzo, e passa la paura. In Italia nel 2008 ci sono: 61 Contributor, 72 Senior Contributor, 141 Fundator, 76 Cavalieri, 27 Cavalieri Imperiali, 48 Magister, 9 Gran Magister, 8 Gran Magister Plurimus, 4 Commendator, un Senior Commendator, e ben due Senator. Per un obolo complessivo di 11.237.500 euro. (Documentazione fornitaci dal sito Allarme Scientology, la più esaustiva fonte di informazioni sul web: xenu.com-it.net.) 9 Hubbard ideò anche un programma di riabilitazione dei detenuti chiamato Criminon. Che si fonda, come si legge sul loro sito, sull’idea di «agire sulle cause scatenanti della criminalità, infondendo l’autostima nel criminale attraverso la disintossicazione dalla droga, l’istruzione e i programmi basati sul buon senso» – il buon senso del fondatore, ovviamente – ma anche «formando il personale penitenziario». Quelli di Criminon sono attivi in trentacinque Paesi del mondo, inclusi Gran Bretagna, Indonesia e Sud Africa, ma da noi non sono (ancora) sbarcati. 10 Lo storico Guardasigilli del primo governo Berlusconi appoggia pubblicamente Scientology. «Se ci sono responsabilità personali rispetto a determinate azioni, queste vanno perseguite» ha dichiarato in un’intervista all’«Espresso». «Altra cosa è il diritto di professare una religione o l’accusare l’intera associazione. Su questo non cambierò mai idea.» Come avvocato, Biondi ha difeso Scientology al processo di Milano, ed è anche salito sul palco durante l’inaugurazione della Org del capoluogo lombardo (una fra le più grandi al mondo). Restando agnostico e senza aderirvi, l’antico liberale si

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dichiara ancora oggi amico della chiesa. L’ex ministro, in particolare, giudica «discutibile, ma sacrosanta» anche la richiesta di denaro per le prestazioni religiose offerte da Scientology agli adepti. «Si spende tanto o poco? Se uno crede che per avere l’indulgenza deve prendersi una messa, fare un pellegrinaggio, piuttosto che spendere soldi per pagarsi dei servizi di qualche tipo è un problema suo. Posso ritenerla solo un’opinione personale, che io magari non condivido o giudico negativamente, ma che resta un diritto del singolo» (Stefano Pitrelli, Gianni Del Vecchio e Tommaso Cerno, Biondi: operano nella legalità e io li difendo, «L’espresso», 23 settembre 2009). 4. Hey, Hubbard, leave them kids alone! Ci sono intere classi di studenti in Italia che, nonostante il sogno del riconoscimento non si sia ancora realizzato, non sono sfuggite a Scientology. Grazie all’ennesima maschera, infatti, schiere di insegnanti con l’imprinting hubbardiano si aggirano per le nostre scuole. Applied Scholastics1 è una società nata per sfruttare e commercializzare le idee dell’eclettico filosofo, che – non contento di dire la sua sulla letteratura, sulla psichiatria, sulla politica e sull’economia – mise a punto un insieme di «tecnologie» nel campo dell’insegnamento. Destinate, secondo i veri credenti, «a cambiare il mondo dell’educazione, un mondo che ha abdicato al suo ruolo e che non insegna agli studenti come studiare». È nel 2005, con Letizia Moratti alla guida del ministero dell’Istruzione, che Applied Scholastics piazza il suo colpo vincente: per ignoranza o collusione di qualche funzionario, riesce a farsi accreditare fra gli enti che formano gli insegnanti. Riconoscimento indispensabile per mettere piede nelle nostre scuole. Le fortune dei maestri scientologi, però, presto si dissolvono. L’accredito dura fino al 2008, quando l’allora ministro Giuseppe Fioroni si accorge di chi tira i fili di Applied, e ordina un’ispezione nei loro uffici. Cui segue la revoca. Una mazzata inaspettata per gli scientologi, che così, in un solo istante, si vedono retrocessi in serie B. Anni di lobbying e di pressioni cancellati con un tratto di penna. Pur di non vedersi rispediti nel limbo dei formatori non

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riconosciuti, decidono di appellarsi al Tar. Ma niente da fare: i giudici amministrativi danno ragione al ministero. Intanto, però, Applied qualcosina l’ha portata a casa: vantando il bollino blu ministeriale, in quei tre anni di accredito ha avuto pieno titolo a offrire corsi ai professori delle scuole pubbliche di tutta Italia, da Milano a Catania. Il che significa che oggi nelle classi italiane, all’insaputa dei genitori e grazie a Letizia Moratti, si aggirano insegnanti con un punto di vista piuttosto hubbardiano sul mondo, sull’uomo e sulla divinità. 1 Come al solito formalmente indipendente, ma informalmente carne viva della chiesa-madre. 5. Dianetics, Drugs and Rock&Roll Schermo del computer. La pagina di Google aperta. Davanti al monitor lo sguardo fisso e disperato di Filippo,1 gli ultimi mesi passati a fumare crack e sbronzarsi di Fernet Branca. Non può andare avanti così. A ventisei anni c’è ancora troppa vita davanti per lasciarsi trascinare nel gorgo dell’autodistruzione chimica. Così Filippo digita le parole «cocaina» e «disintossicazione». I primi risultati rimandano a siti in apparenza tutti uguali: homepage preconfezionate, piene di volti lucidi e sorridenti, sullo sfondo prati verdi, cieli azzurri e cascate incontaminate. In alto una scritta comune: Narconon. Filippo non può saperlo, ma in quel preciso momento sta facendo il suo primo incontro con l’ennesima propaggine di Scientology. Sì, perché il buon Hubbard, fra le tante invenzioni, ha anche messo a punto un percorso facile facile di disintossicazione e recupero dalle droghe. Il fondatore parte – come sempre quando fa «scienza» – da una ricetta tutta sua: le sostanze stupefacenti resterebbero immagazzinate nei tessuti adiposi. Sarebbe perciò necessario sciogliere quei depositi «contaminati» adoperando la niacina (una particolare vitamina dalla reputazione non immacolata),2 per sostituirli con grassi nuovi e puliti. Basta metterli in movimento con una mezz’oretta di corsa, per poi sudarli via con tre-quattro ore di sauna al giorno.

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Tutto molto semplice, dunque. Così un tossico può rinascere e diventare un uomo modello. O più propriamente, come vedremo, uno scientologo modello. Filippo però, quando sceglie di farla finita con i down post-sballo e i bruciori di fegato del giorno dopo, tutto questo non lo sa. E non lo sa neanche quando, nel 2008, lascia Roma per andare al centro Narconon Astore di Pesaro (uno dei sei aperti in Italia) per il semestre standard di trattamento. Prezzo di listino: ventimila euro. Così, ignaro, arriva al casale immerso nella campagna marchigiana, una trentina di posti letto in grosse camerate con letti a castello, da una parte maschi e dall’altra femmine. Comincia a intuire qualcosa quando, qualche giorno dopo il suo arrivo, viene convocato da uno strano manager, l’ufficiale di etica. Si tratta di una carica importante in Scientology: si può paragonare a una specie di guardiano della rivoluzione, visto che solo a lui tocca richiamare quei fedeli un po’ ribelli, dal comportamento non consono alla dottrina hubbardiana. E infatti Filippo l’aveva fatta grossa: aveva osato inveire contro lo scopritore della terapia antidroga, che gli era stato presentato semplicemente come un filantropo americano. «Mi ricordo che mi trovai di fronte a una ragazza giovane [cioè l’ufficiale di etica, NdA], voleva sapere il perché della mia reazione e delle mie urla» ci racconta Filippo davanti a una birra in un pub romano, durante una fresca serata primaverile del 2010. «Nel frattempo però fui sorpreso per quello che vedevo attorno a me: scaffali pieni di libri, grossi tomi con su scritto Dianetics o Scientology. Mi venne spontaneo chiedere a quella ragazza con l’accento siciliano: “Siete di Scientology?”. Lei sulle prime non rispose, anzi, mi disse che ero lì per fare un percorso che mi avrebbe reso libero, che se protestavo lo facevo solo per la droga, e che mi dovevo fidare di loro. Ma io avevo solo una domanda in testa e gliela ripetei: “Siete di Scientology?”. Stavolta lei non riuscì a trattenere l’ira, mi chiese se fossi un giornalista, cominciò a trattarmi male. Allora capii e mi precipitai fuori da quell’ufficio. Purtroppo, però, la cosa non mi fu molto utile perché allora non sapevo ancora niente della setta. Sapevo solo di Tom Cruise e poco altro.» Intanto, inconsapevolmente, Filippo sta già assorbendo i dettami hubbardiani. Le sue prime giornate al centro ruotano essenzialmente attorno alle ore passate in quelle aule apposite che vengono chiamate Accademia. A studiare, assieme agli altri ragazzi, dai sacri tomi dello scrittore di fantascienza. L’Accademia è anche il cuore di ogni Org (la chiesa-filiale) che si rispetti. A Pesaro lo studio è meccanico, ripetitivo e soprattutto controllato. «Potevamo leggere i suoi testi solo nelle ore stabilite, e solo in presenza dello staff. Più volte ho chiesto di portarli in camera, per sfogliarli con calma e da solo, ma

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non me l’hanno mai permesso. Evidentemente temevano potessi contestare ciò che era scritto, temevano si potesse risvegliare il mio spirito critico.» Un sospetto che col passare dei giorni per Filippo diventa realtà. Soprattutto quando comincia a seguire il corso per migliorare l’apprendimento, meglio noto come Tecnologia di studio. «Quello che più mi ha colpito è la “parola mal compresa”. Per Hubbard, infatti, chi durante la lettura di un testo si ferma, o peggio sbadiglia, è perché non ha compreso il senso dell’insegnamento. Quindi tocca a una persona dello staff affiancare lo “studente” e, vocabolario alla mano, analizzare tutte le parole che compongono il testo, una per una, fino a quando non è tutto chiaro. In realtà, fino a quando il tossico, stremato, non si dice d’accordo. Non so quante volte mi è capitato, quante volte ho dovuto far finta di essere d’accordo pur di andare avanti. Spesso mi fermavo a pensare, semplicemente perché mettevo in discussione ciò che leggevo. Oppure sbadigliavo, perché gli insegnamenti erano banali e noiosi. Invece no, non potevo. Lì capii che i corsi servivano soprattutto per azzerare la tua capacità di critica, per renderti passivo nell’apprendimento. In fondo, a preparare il terreno per la “nascita” di uno scientologo.» Del resto, molto di ciò che si studia e si fa in un centro Narconon, comprese le saune, lo si ritrova anche nel comune percorso verso lo stato di clear. Non c’è da stupirsi, quindi, se la maggior parte dei drogati che arrivano al termine del corso finiscono – attraverso un travaso automatico – dritti nello staff di Narconon. Basta andare sul sito dell’Astore3 per averne la conferma. Quasi tutto il personale, se si dà un’occhiata alle loro biografie, è formato da ex tossici «graduati», a cominciare dal direttore Franco Scelsi. Chi invece non ha alle spalle un’esperienza di dipendenza, allora è un fedele spedito alla comunità da qualche Org. Nello stesso catechismo hubbardiano lo si trova scritto chiaro e tondo: «Gli scientologi supportano Narconon. Sono tanti quelli che spendono tempo ed energia per aiutare lo staff, lavorando come volontari part time nelle comunità». C’è chi va e chi viene, quindi. «Nei sei mesi in cui sono stato a Pesaro» prosegue Filippo «ho conosciuto tre persone che hanno finito il corso. Ebbene, tutte e tre sono state cooptate e mandate a studiare in Org, chi a Torino, chi a Milano.» Un percorso preciso, confermato da Enrico Costantini,4 anche lui tossico prima e staff Narconon dopo. «Mi ricordo quel giorno quando mi dissero: “Aspetta che finiscano, e allora spingili sui corsi superiori delle nostre chiese”.» C’è poi chi invece resta dove s’è «diplomato». Filippo lo sa bene, per lui i mesi pesaresi hanno riservato anche qualcos’altro, un’oasi di umanità, e di sogno, in una quotidianità asettica e ripetitiva. «M’ero innamorato. Era una bellissima ragazza emiliana, che aveva fatto il corso prima di me ed era

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rimasta a far parte dello staff. Anche lei era innamorata di me. Non l’ho mai dimenticata. Neanche quando sono scappato dal casale. «Ricordo quella notte dell’agosto 2008 come fosse ieri. Mi calai giù dalla finestra della camerata e corsi verso il primo locale aperto per comprarmi due bottiglie di vino. Avevo ancora in tasca i soldi che ero riuscito a nascondere durante le perquisizioni. Me le scolai una dopo l’altra, tanto da star male. Erano quattro mesi che non mi facevo un goccio. Mi ubriacai perché non ce la facevo più a fingere in quella gabbia di matti, solo per amore di quella ragazza che volevo portare via a tutti i costi. Ci siamo continuati a sentire, ed ero perfino riuscito a tirarla fuori. Mi ero illuso: tutto s’è presto rovinato. Lei non riusciva a essere veramente indipendente, non era capace di trovarsi un lavoro, si affidava a me per ogni cosa, a volte avevo l’impressione che avesse semplicemente sostituito la verità assoluta che ti propina Scientology con me. Hubbard con me. Non poteva durare. E non è durata: ci siamo lasciati dopo qualche mese, lei è tornata a Pesaro. Spero che un giorno possa diventare davvero indipendente. E libera.» Il punto di vista di Filippo sulla sinergia fra Scientology e Narconon è netto: «La lotta alla droga come mezzo, il proselitismo come fine». Gioco tutto sommato facile per i capi di Narconon, visto che stiamo parlando di persone fragili, in difficoltà. Soprattutto plasmabili. È la cosa che più fa male a Filippo. «Quando sono andato via c’erano cinque minorenni, avranno avuto sedici anni o giù di lì. Tossicodipendenti e adolescenti, un mix esplosivo. Non avete idea di come le tecniche hubbardiane attecchissero nelle loro menti. In italiano c’è una parola per definire tutto questo: plagio.» Il rischio, oggi, è che la discussa tecnica hubbardiana per espellere la droga dal corpo, e dallo «spirito», dei tossicodipendenti possa in qualche modo essere finanziata con i soldi dei contribuenti. Ossia dalle nostre tasse. Non è un mistero, infatti, che in Italia ogni centro Narconon abbia un sogno proibito: procurarsi il lasciapassare regionale per poi poter andare a firmare con le singole Asl delle convenzioni per il recupero dei tossicodipendenti. Si tratta, più precisamente, di metter le mani sul contributo giornaliero che la sanità regionale paga alle comunità private, che si fanno carico di un compito che invece spetterebbe allo Stato. Ovviamente per arrivare a tanto serve un avallo medico-scientifico, cosa che i lobbisti hubbardiani non sono ancora riusciti a strappare a nessuno. Solo per fare un esempio, Narconon per il momento è stata tenuta fuori dal Forum of Civil Society, coordinamento di trentacinque associazioni che operano sulle dipendenze, costituito dalla Commissione europea. Così come di solito non partecipa alle riunioni istituzionali fra comunità e amministrazioni pubbliche.

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Almeno fino al luglio 2008. Da poco ci sono state le elezioni anticipate, Silvio Berlusconi è riuscito a riconquistare per la terza volta Palazzo Chigi. A capo del dipartimento della Presidenza del Consiglio contro le tossicodipendenze c’è il cattolicissimo ex Udc Carlo Giovanardi. Uno dei primi compiti che spettano al sottosegretario è apparentemente facile: diramare le convocazioni e gli inviti per il consueto incontro con le comunità terapeutiche italiane. Ma il politico modenese fa subito qualcosa di insolito: inserisce nell’elenco anche quelli di Narconon. Scatenando l’indignazione delle altre comunità, capeggiate dal presidente dell’Onlus Itaca, Maurizio Coletti. Uno sdoganamento in piena regola. Agli scientologi non par vero: essere messi dal governo italiano sullo stesso piano di organizzazioni come il gruppo Abele o San Patrignano è un colpaccio. Tanto che Ugo Ferrando, portavoce di Narconon Sud Europa, non trattiene l’entusiasmo e lo sbandiera con orgoglio: «Dopo venticinque anni di attività, Giovanardi e il suo capo dipartimento, Giovanni Serpelloni, ci hanno ascoltato con interesse». Sfortunatamente per Ferrando, però, il nuovo corso ha vita breve. Il tempo che la notizia arrivi a una deputata del Partito democratico, Donata Lenzi, che nel febbraio 2009 prende carta e penna e firma un’interrogazione a Giovanardi per chiedere spiegazioni. A questo punto all’esponente centrista non resta che fare una mezza marcia indietro. Provando a minimizzare: si sarebbe trattato solo di un invito formale, dovuto al fatto che il centro Narconon Il Gabbiano è iscritto all’albo degli enti ausiliari della Puglia. Il più classico degli scaricabarile, ma così il sottosegretario svela qualcosa che per Scientology sarebbe stato meglio restasse riservato. Non tutti e sei i centri presenti in Italia sono infatti privi dell’accredito. Quello pugliese è riuscito a conquistare la patente regionale, peraltro in un modo che il palazzinaro Stefano Ricucci avrebbe definito da «furbetti del quartierino». L’iscrizione all’albo avviene nel maggio 2005, guarda caso nel periodo d’interregno fra il governatore uscente Raffaele Fitto e quello entrante Nichi Vendola. E si sa, quando la sede è vacante i dirigenti regionali sono più influenzabili che in tempi normali. Nonostante l’accreditamento, però, neanche un euro se n’è andato in saune e bibitoni vitaminici. L’Asl di Lecce, infatti, finora non ha firmato alcuna convenzione con Il Gabbiano. E il sogno scientologo a Torre dell’Orso non s’è ancora realizzato. Intanto sono ormai passati più di due anni da quella notte in cui Filippo è scappato dall’Astore di Pesaro. Adesso non fuma più crack, non legge più Hubbard, ha trovato lavoro, ha una nuova ragazza, ha progetti per il futuro. Insomma, è tornato a una vita normale. Si sente finalmente libero. Come dice lui: «Ora è tutta un’altra aria, tutta un’altra aria». 1 Nome di fantasia.

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2 Assunta in dosi massicce può provocare vampate, eritema, prurito, dolore epigastrico, nausea, mal di testa e diarrea. Si sono anche avuti casi di alterazione delle transaminasi ed epatotossicità. 3 Astore, Gabbiano, Falco: i nomi delle comunità Narconon hanno spesso nomi di volatili. 4 Lo si può leggere nel capitolo a lui dedicato di un libro sui fuoriusciti da Scientology, dove riferisce che a un certo punto della storia di Narconon «accadde una cosa strana, incomprensibile: il programma “terapeutico” che aveva svolto mutò radicalmente. [...] La parola “religione” scomparve, sostituita d’improvviso da nuovi corsi “secolarizzati”, così chiamati perché ne vennero riscritti i testi togliendo, appunto, la parte “religiosa”. Vennero eliminate le fasi del programma in cui si riceveva la “consulenza spirituale” chiamata auditing di Scientology. [...] Mi venne spiegato che dovevano essere “cancellate” tutte le connessioni con la “chiesa madre”, e che non si doveva più parlare a nessuno di religione e del nostro “salvatore” durante il programma» (Alberto Laggia, Il coraggio di parlare, Edizioni Paoline, Milano 2009). 6. C’è chi dice no A Mantova fa caldo, nonostante sia sera inoltrata. Del resto siamo a fine maggio, l’estate è a un passo. Belen Rodriguez arriva alla discoteca Mascara per la serata. Il 2009 è stato l’anno della sua consacrazione nello showbiz italiano, ormai tutti la vogliono, dalle grandi aziende ai locali di provincia. Fra i fan, già lì da ore, ci sono anche dei ragazzi che si fanno notare per le T-shirt con su scritto «Dico no alla droga, dico sì alla vita». Aspettano con diligenza il loro turno e, quando arriva, le chiedono una firma. Non per l’autografo,

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però. Una firma un po’ più impegnativa, ma neanche tanto: contro la droga, per la vita. Belen non ci pensa un attimo – è una buona causa! – così prende la penna e scrive il suo nome. Quello che però non sa è che proprio in quel momento diventa testimonial involontaria di una collaudata campagna a marchio Scientology:1 nessuno le ha spiegato che dietro quelle magliette c’è la chiesa di Clearwater. Dico no alla droga, dico sì alla vita è infatti la campagna gemella di Perché non accada. Anche in questo caso, l’obiettivo è lavorare per diffondere idee tutto sommato condivisibili, ma al tempo stesso utili a farsi pubblicità a buon mercato. Fuori dell’organizzazione, certo, ma anche dentro. Le foto delle due veline di Striscia la Notizia, Costanza Caracciolo e Federica Nargi – con in bella mostra il volantino della campagna – si trova su tutti i siti degli adepti. L’abbordo è stato lo stesso di Belen: le due ragazze sono state invitate dal centro commerciale bresciano Le Porte Franche per attirare un po’ di gente. Una volta arrivate, vengono attorniate da un gruppo di ragazzi con la penna in mano. Del resto, come dire no a chi dice no alla droga? Così come le due starlette, almeno «un centinaio di artisti» – recitano trionfalmente i comunicati stampa della campagna – si sono trovati a prestare il proprio volto senza saperlo, «tra cui cantanti famosi come Claudio Baglioni, I Nomadi, Tiziano Ferro e Nek». Oltre agli usignoli, non si salvano neanche cammelli, tigri, leoni, clown e trapezisti. Fra le adesioni Dico no è lieta di annoverare anche i due più grandi circhi italiani: Togni e Orfei. Ma non è solo il mondo dello spettacolo ad assicurargli notorietà a costo zero. Ce n’è anche un altro, forse ancor più popolare: lo sport (dove ha già «pescato» Perché non accada). Anche qui Dico no vanta adesioni pesanti, raccolte in vent’anni di attività. Nel loro albo d’onore ci trovi squadre di calcio del calibro di Inter e Real Madrid, ma anche minori come l’Hellas Verona. Sport di squadra ma anche individuali. Una foto ritrae sorridente il campione olimpico di ginnastica, Igor Cassina, che stringe fra le mani l’opuscolo della campagna. Così come l’ex plurimedagliata stella del kickboxing, Carlo Barbuto, pure lui annoverato nell’albo dei virtuosi. Ma al cuore della gente ci si arriva anche per altre strade, magari mettendo il logo della campagna su una macchina da corsa. Il pilota rally Pietro Ballerini ha accettato di ospitarlo sul suo bolide, mentre Roberto Baroni, team manager di una piccola scuderia di kart, ha fatto di più: l’ha adottato come sponsor ufficiale. Nel campionato italiano, quindi, tifosi e appassionati possono seguire le sorti del Dico no alla droga Kart Racing Team. Sperando che qualcuno, all’uscita del kartodromo, magari imbocchi la strada per la prima Org. Ma per andare sui giornali non bisogna per forza farsi fotografare con un vip. A volte bastano iniziative più ordinarie, come andare in un parco a raccogliere

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siringhe usate. Se hai la pazienza di passare in rassegna i servizi usciti su stampa e tv locali, noterai come fiocchino i dettagliatissimi resoconti di queste spedizioni «pulitive», sempre sotto il cappello della campagna. Due esempi su tutti: il tg di Antenna Sicilia, un’emittente locale catanese, nel 2010 dedica un servizio alla bonifica di un rudere frequentato dagli eroinomani; così come «La Nuova Sardegna», quotidiano isolano, riserva spesso carta e inchiostro per decantare l’impegno sociale dell’Org sarda. Una pubblicità doppiamente utile a quelli della campagna, perché serve anche per accreditarsi agli occhi delle istituzioni locali. E magari per ricevere un premio all’onor civile, come – ricordiamo – accaduto in occasione di una cerimonia alla presenza del senatore Fleres. 1 La campagna è stata infatti lanciata negli anni Novanta da Fabio Amicarelli, scientologo di vecchia data oggi a capo delle public relation hubbardiane a livello europeo. 7. Money for nothing (Dianetics for free) Siamo nel 1954, a Los Angeles. Sono passati solo quattro anni dalla pubblicazione di Dianetics, la bibbia di ogni seguace, pietra miliare nella storia dell’organizzazione. In città il messaggio è attecchito più che altrove, tanto da far nascere un movimento di «pionieri della fede». Gente che non vuole solo consigli per migliorare la propria vita. Gente che vuole poter dire: «Scientology è il mio credo». E quando leggono sul «Journal of Scientology» che «dopo un’attenta analisi di un sondaggio, si può dire tranquillamente che Scientology ha tutte le carte in regola per essere una religione», non gli par vero. Il segnale che attendevano è arrivato. Così i proto-parrocchiani rompono gli indugi e fondano la prima chiesa, ben un anno prima dell’inaugurazione del tempio di Washington D.C. Con la nascita delle prime chiese, però, Ron Hubbard si trova davanti a un problema non da poco: dover gestire delle organizzazioni complesse, che per funzionare hanno bisogno di principi etici e grandi disegni, certo, ma soprattutto di procedure amministrative. In poche parole, di burocrazia. Così, negli anni seguenti, il fondatore mette a punto quello che lui definisce administrative technology, ossia un insieme di precetti che spiegano in

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dettaglio come dev’essere gestita una Org. Da come istruire un neoassunto nello staff a come vendere i propri servizi, da come riuscire a capire se un dirigente sta lavorando bene a come gli uffici devono comunicare fra loro. Tecniche che danno dei risultati, sì, ma non sono né più né meno di quelle che già si studiano nelle facoltà di Economia, ai corsi di organizzazione aziendale. Di fatti, ben presto al quartier generale di Clearwater a qualcuno viene l’idea del secolo: perché non raccogliere il lavoro di Hubbard in dodici comodi volumi, formato enciclopedia, per venderli all’imprenditore che si scervella su come aumentare il proprio giro d’affari? Perché non organizzare un pacchetto di corsi aziendali, entrando nel mercato della consulenza per le imprese? L’intuizione funziona subito, e i primi a adottare la «tech» del capo carismatico sono gli scientologi che hanno un’azienda, grande o piccola che sia. Nasce così, nel 1979 – sempre in America – la Wise (World Institute of Scientology Enterprises), associazione che raggruppa i businessmen militanti nella chiesa. Successivamente clonata, come le altre, in tutti i Paesi dove prospera il logo hubbardiano. Italia inclusa. Nella Org di Vimodrone – a due passi da Milano, la capitale economica del nostro Paese – si trova la filiale italiana. Nei suoi cassetti è custodita la lista delle imprese e dei liberi professionisti che obbediscono ai dettami manageriali hubbardiani. Non sono pochi. Secondo l’annuario 2006, l’ultimo sfuggito alla segretezza dell’organizzazione e «capitato» nelle nostre mani, se ne contano circa duecentocinquanta. A cui però bisogna aggiungere una decina di imprese che fanno consulenza aziendale. I consulenti, appunto. Per i dirigenti del movimento è questa la vera miniera d’oro: quei dieci in lista «valgono» molto più dei duecentocinquata imprenditori con la tessera a marchio Wise (una leonessa che cinge due cuccioli). Ai consulenti, infatti, tocca il compito di «evangelizzare» le imprese pagane: sono il cavallo di Troia tramite cui Scientology entra in azienda. E lo fa dalla porta principale. Di solito i consulenti sono quasi tutti scientologi, e firmano con Wise un contratto di licenza per poter diffondere la filosofia del fondatore nelle imprese. Una licenza peraltro abbastanza salata, visto che – come al solito – Scientology si fa pagare bene: dal 6 al 15 per cento del fatturato. In Italia le società di consulenza sono tutte riunite in un’associazione, la Professional Consultants Association. Le trovi sparse lungo la penisola: si va dalla veronese goal target alla vicentina Solutions, dalla bolognese S.mart alla romana Domino, fin giù nello stivale alla calabrese Studio Cis. Il primato però va a Modena e alla sua provincia, dove ne sorgono ben tre: la Sokrate Consulting, la Core business e l’Hca. Tutte con l’obiettivo ufficiale di dare

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una mano alle imprese per prosperare e fare profitti. Obiettivo dietro il quale, tuttavia, se ne cela uno ufficioso, non detto, sussurrato, sicuramente più ambizioso. «Non è vero che un consulente Wise voglia solo vendere servizi, metterà sempre al primo posto il proselitismo, un dovere che gli viene imposto dalla chiesa.» A dirlo, senza mezzi termini, è un ex consulente scientologo, forse la più grande perdita per gli hubbardiani di casa nostra. Con la sua azienda, prima di andar via nel 2006, fatturava quindici milioni di euro l’anno, con un migliaio di clienti in portafoglio. «Ho fondato la società nel 1993, allora ero già scientologo. L’anno dopo diventai consulente Wise e, devo dire, all’inizio non fu una scelta sbagliata. Gli affari andavano bene, quelli di Scientology in fondo non erano troppo fastidiosi. In poco tempo riuscii a costruire una piccola macchina da guerra, i soldi giravano. Ma forse è proprio questo che ha fatto cambiare le cose. Dal 2000 in poi ho cominciato a ricevere fortissime pressioni affinché facessi proseliti. Quelli di Wise venivano da me e mi dicevano: “Stai crescendo, hai tanti clienti, li devi portare nell’organizzazione”. Ma io mi sono sempre rifiutato, per me business e religione sono due mondi che devono rimanere staccati. Comunque per un certo periodo sono riuscito a farla franca, usando qualche stratagemma di terz’ordine. Mi ricordo che una volta comprai libri per tremila euro, fingendo che fosse per conto di clienti interessati alle idee di Hubbard.1 Ma sapevo di non poter andare avanti più di tanto.» E infatti nel 2005 arriva ai ferri corti con Wise. L’esito è scontato. «Il casus belli fu la mia proposta di creare una fondazione Wise completamente staccata dalla chiesa, in modo tale da separare finalmente il sacro dal profano. Nel giro di poche ore mi diedero un aut aut: “O la smetti e cominci a fare proseliti, o ti cacciamo”. Mi fecero fuori.» Al consulente non restò che fare le valigie, sapendo comunque che non sarebbe stato facile. «Dal 2006 al 2008 sono stato il loro peggior nemico. Ero la loro azienda migliore, e hanno dovuto mandarmi via. Come se all’improvviso Totti abbandonasse la Roma. Hanno fatto di tutto per rendermi la vita difficile. I miei dipendenti di fede scientologa se ne sono andati il mattino dopo: 30 su 120, un quarto dei miei collaboratori, fra cui alcuni molto importanti. Un colpo che avrebbe stroncato un cavallo. Ma le perdite che ho dovuto sopportare sono state anche emotive. Ho un fratello, ancora in Scientology, che ha interrotto ogni rapporto con me. Mi ha “disconnesso”, come si dice in gergo.»2 Alla fine però, il consulente ce l’ha fatta: è riuscito a salvare se stesso e l’azienda. «Oggi la società è tornata ai suoi livelli. E io sono felice.»

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Ma per entrare nelle aziende, Scientology non si limita a rifornire di armi e munizioni l’esercito dei consulenti esterni. Alla guerra ci va anche in prima persona, man dando sul campo un corpo speciale: gli Hubbard College of Administration. Si tratta di una rete di aziende di consulenza, che bussano direttamente alle imprese per diffondere il verbo del fondatore.3 E fare proseliti. In Italia sono presenti in sette città: a Modena (dove, come abbiamo visto, si concentra il maggior numero di società di consulenza) c’è la sede principale, ma particolarmente attivi sono anche i college di Catania, Brescia, Vicenza e Milano, mentre Mantova e Latiano (nel brindisino) sono solo due distaccamenti. In ogni caso, le aziende che sono finite nella rete non sono poche,4 anche perché quando all’imprenditore si offre la propria consulenza, l’Hca si guarda bene dal palesare l’appartenenza a Scientology. A usufruire dei loro servizi, quindi, figurano la società che gestisce l’aeroporto di Catania (Sac), lo showroom ufficiale per la climatizzazione della Daikin (Abitaria), la Freelife International, importatrice di integratori alimentari dal mercato americano, e tante altre piccole imprese italiane. Ma non solo. All’Hubbard College catanese è riuscito il colpo grosso: farsi accreditare come ente convenzionato dalla Confindustria di Siracusa e dall’Assindustria di Ragusa. In pratica, s’è assicurato la possibilità di vendere i propri corsi (a prezzo di favore) alle imprese siciliane affiliate all’organizzazione guidata da Emma Marcegaglia. Il volantino che pubblicizza uno dei workshop riservati agli imprenditori ragusani fa un certo effetto: l’aquila confindustriale che sposa la tigre hubbardiana. Se a guidare l’assalto alle imprese ci pensano insieme la legione straniera (i consulenti Wise) e il corpo scelto dei Marines (gli Hubbard College), non bisogna dimenticare il grosso dell’esercito: la fanteria, ossia le duecentocinquanta aziende affiliate a Wise. Solo che, a differenza di quanto avviene sotto le armi, invece di essere stipendiate a loro tocca pagare. E ancora una volta non sono bruscolini. La tessera annuale di base costa cinquecento dollari, ma se già hai qualche dipendente il prezzo lievita a millecinquecento. Se poi dai lavoro a più di venti persone, non puoi che acquistare la Corporate membership: seimila dollari, che vanno dal tuo portafoglio direttamente nelle casse di Wise. Tuttavia, se si passa in rassegna l’annuario, la prima cosa che balza agli occhi è l’assenza di Alti ufficiali, ossia di grandi società. Si tratta perlopiù di piccole realtà, o singoli professionisti. Come Il Carrozziere Lampo di Arcore, il rivenditore Peugeot Locauto due di Torino, l’erboristeria Erbavoglio di San Zeno, il parrucchiere I Clementi Stilisti di Milano, gli antennisti M.P. Service di Verona, le pompe funebri Enea di Castelfranco Veneto, la pizzeria Pizza House di Verona o il ristorante Il Tempio Inca di Brescia. Per non parlare di

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una folta schiera di avvocati, commercialisti, consulenti finanziari e agenti immobiliari. È questa la Wise italiana, «la nostra Compagnia delle Opere», come si vanta in un’intervista a «Panorama»5 Marco Natale, direttore degli Affari pubblici della chiesa milanese. Mai paragone però fu così azzardato. Prima di tutto per una semplice questione di proporzioni: la Compagnia delle Opere, il braccio economico di Comunione e Liberazione, conta trentacinquemila affiliati, fra imprese e professionisti.6 Quindi, trentacinquemila versus duecentocinquanta. E poi non si può nascondere la diversa essenza delle due organizzazioni: quella cattolica è un network molto efficace, in cui chi è dentro ha una corsia agevolata nel fare business con i propri «fratelli»; quella scientologa invece ha come fine ultimo la divulgazione (e la vendita) della tecnologia hubbardiana. «Siamo all’opposto della Compagnia delle Opere» afferma il consulente fuoriuscito. «In Scientology non puoi fare promozione alla tua attività perché la chiesa deve rimanere “pura”. Non puoi distribuire neanche un volantino in una Org. Insomma, sei tu che ti devi asservire alla causa e non viceversa. In sostanza, devi fare proseliti. E basta.» Ce lo conferma la storia di Fabrizio Tramonti, manager trentenne, che nel 2005 è entrato in contatto per la prima volta con Wise, su invito di un collega imprenditore. «Mi ricordo ancora la presentazione, col relatore che arrivò in Porsche.» Poi siccome i costi dei loro corsi per lui erano troppo alti, lo rimandarono a quelli più economici. E alla fine, dietro a una porta, salta fuori Scientology. I corsi più abbordabili, infatti, si tenevano direttamente presso la chiesa di via Lepontina a Milano. «Tutti mi salutavano e mi sorridevano. Mi invitarono con massima gentilezza a fare il loro “test della personalità”», cioè il primissimo strumento con cui gli scientologi ti abbordano. «Dopo poco mi fanno avere il risultato: con quel punteggio non avrei mai avuto successo nella vita.» Certo, a meno che non avesse abbracciato il loro metodo. In chiesa Tramonti conosce presto due fedeli coi quali si mette in affari, fondando la sua Tizeta Communication (azienda che ha lavorato anche per Enel, Telecom e Teledue). Ovviamente affiliata Wise. «Mi resi subito conto che attrarre nuovi fedeli era l’obiettivo di ogni impresa legata a Scientology. Wise ha una precisa strategia: reclutare persone che contano per poi scientologizzare la società e fare adepti fra i dipendenti. E io, incosciente, assecondai la loro fame di nuovi “clienti”. Vinsi una medaglia come miglior scientologo europeo per il numero di persone a cui avevo venduto servizi, circa un migliaio. Ero considerato un mito, colui che aveva contribuito alla crescita dell’organizzazione, come non era mai stato fatto in Italia. A dicembre del 2006 sarei dovuto andare a Los Angeles per partecipare alla premiazione dei numeri uno, e lì avrei dovuto perfino conoscere Tom Cruise.» Ma la buona stella di Fabrizio si eclissa prima del gala americano.

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«Nell’azienda scopro una perdita da cinquantamila euro, colpa di uno dei miei due soci, anche lui uno scientologo. Così mi rivolgo a una specie di giudice interno dell’organizzazione, che mi dà ragione e lo costringe a ripianare il buco. Purtroppo però rimango senza liquidità.» E la foto ricordo con Tom Cruise sfuma. «Non potevo permettermi neanche il viaggio. Ero pieno di debiti, con le banche che mi telefonavano quotidianamente. Ero sull’orlo del fallimento.» Ma per lui, dalla sua chiesa nessuna pietà: «A marzo dell’anno seguente finii in “etica” per aver commesso, a detta loro, “atti criminosi” nei confronti dell’organizzazione». Cioè per il fatto che la sua impresa navigava in cattive acque, cosa che per Scientology rappresenta un peccato mortale. «Mi marchiarono con una delle loro tipiche etichette, Pts [cioè Potential Trouble Source, fonte potenziale di guai, NdA]. Rimasi esterrefatto. A pochi minuti dalla pubblicazione le persone mi evitavano, e non mi rivolgevano più la parola, come se avessi la peste.» Così Tramonti si azzarda a tagliare il cordone con Wise e Scientology: «Dopo la mia uscita fui maltrattato, perseguitato e minacciato. Ma non me ne fregava niente. Dovevo rimettere in piedi la mia vita e la mia azienda. E così fu». La giustizia interna è un’altra caratteristica della finanza scientologa. L’imprenditore Wise non va in tribunale per risolvere una disputa con un altro adepto. Per lui ci sono i Comitati Charter, una sorta di corte interna dove un «giudice» (di solito un altro scientologo affiliato a Wise) conduce un similprocesso di rito hubbardiano. «Così si abbreviano i tempi e si riducono i costi rispetto alla giustizia normale» si legge nel catechismo scientologo «per di più con grande soddisfazione di entrambe le parti.» Sul fatto che sia effettivamente così, Giacomo Sotgia ha più di un dubbio, per esperienza diretta. Artigiano goriziano, per nove anni nella chiesa, giura di averci rimesso cinquantamila euro proprio a causa della loro giustizia parallela. Perché «il buon nome di Scientology ha la precedenza sulle sorti dei singoli fedeli». «Nel giugno 2006 prendo in gestione un ristorante a Lignano Sabbiadoro dal padre di una ragazza appena entrata in Scientology» ricorda Sotgia, senza nascondere una vena d’amarezza. «Le cose mi vanno subito bene, il locale è pieno quasi ogni sera, tanto che comincio a investire i soldi che avevo messo da parte per migliorare la struttura. Faccio degli interventi sul tetto, metto a posto la sala interna. Quando d’improvviso, verso fine agosto, vengono fuori delle crepe nei muri. Chiamo subito i pompieri, e il verdetto mi toglie il fiato: “Il ristorante non è agibile”. Costretto a chiudere mi rivolgo subito al proprietario, che però comincia a fare storie, non volendo in alcun modo risarcirmi. A quel punto, con migliaia di euro investiti, penso di rivolgermi a

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un tribunale. Ma vengo bloccato dall’ufficiale di etica della mia chiesa, che mi ordina di rivolgermi al Comitato Charter di Milano.» Intanto i mesi passano, il ristorante è chiuso, e Giacomo è costretto a liquidare i contratti del personale che ci lavorava. Altri soldi in fumo. «A Milano ci vado nel febbraio 2007 assieme alla figlia del proprietario. Un periodo difficile, quello. Anche l’altra mia attività, una piccola impresa artigiana, stenta, così mi ritrovo da un giorno all’altro a corto di liquidità. L’affiliato Wise cui tocca risolvere il litigio mi convince ad accettare un accordo che, se ci ripenso, ancora mi fa rabbia: rinuncio a fare causa in cambio della restituzione delle tre mensilità di caparra. Tempo dopo mi sono fatto due conti: in quell’affare ho bruciato circa cinquantamila euro». Ma sempre in quella maledetta giornata di febbraio, al danno si aggiunge la beffa. «Dopo la chiusura del “processo” mi chiedono pure di prendere la tessera Wise, cosa che io non avevo ancora fatto, nonostante le varie pressioni. In pratica volevano altri denari. Gli ho risposto che se la tenessero. Sono quasi impazzito.» Anche Sotgia oggi ha lasciato la chiesa, s’è rimesso in piedi, e della compagnia delle opere in salsa hubbardiana7 non ne vuole più sapere. Ma la sua lunga storia con Scientology ci riserva altre sorprese. 1 Il proselitismo è uno degli obiettivi fondamentali di ogni componente dello staff scientologo. Lo spiega bene Poma in un’intervista: «Ci sono statistiche settimanali per cui lo staff deve fare più soldi della settimana precedente. E questo si ottiene solo vendendo più servizi e più libri al pubblico che ovviamente viene spremuto sempre di più». (Ecco come funziona la Chiesa, AffariItaliani.it, 24 maggio 2010). 2 Del resto, proprio per non compromettere la possibilità di un riavvicinamento col fratello, l’imprenditore ha scelto l’anonimato. 3 In realtà gli Hca non nascono come aziende di consulenza vere e proprie. La loro missione originaria era formare consulenti da mandare sul mercato. Una specie di università, come il nome sembra indicare. Ed effettivamente, fra i servizi che ancora propongono c’è un «diploma di laurea» biennale in gestione e amministrazione. Per la tutt’altro che modica cifra di trentaduemila dollari (circa ventiseimila euro), malgrado nel nostro Paese il titolo non abbia neanche valore legale.

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4 Almeno stando a quanto strombazzato dal sito www.hubbardcollegeitalia.org. 5 Antonio Rossitto, Scientology Italia Spa, «Panorama», 6 marzo 2008. 6 Secondo i dati pubblicati dal settimanale economico «Il Mondo» nel 2009 e confermati dall’inchiesta di Ferruccio Pinotti l’anno successivo (Ferruccio Pinotti, La lobby di Dio, Chiarelettere, Milano 2010). 7 Un’altra storia che ci fa capire come funzioni la giustizia interna scientologa ce la racconta Luca Poma: «Anni fa, prestai trentamila euro a un adepto della sede di Torino: mi chiamò una notte dalla chiesa vicino a Miami, negli Stati Uniti, domandandomi se potevo prestargli i numeri delle mie carte di credito American Express perché aveva bisogno di soldi per pagare dei servizi di Scientology improrogabili. Acconsentii, mi fidai, ma da lì iniziò un calvario. Doveva rendermeli immediatamente al ritorno, non lo fece, si impegnò per una rateazione, non la rispettò e alla fine mi fece capire tramite il suo avvocato, all’epoca un amico comune, che o accettavo un saldo parziale e “tombale” oppure non avrei più rivisto una lira. Me lo disse chiaramente: “O prendi solo questi, o non ti dò niente. Scegli tu”. Ci persi la metà, un sacco di soldi. Informai per tempo il dipartimento che segue le questioni di giustizia e di etica della sede di Torino, ma mi dissero che non potevano fare nulla, ne tanto meno io potevo fargli causa: io ero già da tempo in polemica con l’organizzazione, mentre questo soggetto era ben visto perché faceva molte donazioni alla chiesa, quindi era intoccabile». 8. La storia di Giacomo

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Abbiamo appena incontrato Giacomo Sotgia alle prese con la finanza scientologa. Ma è altrettanto significativa la sua storia di adepto fuoriuscito. Qui di seguito riportiamo perciò la sintesi1 di un suo memoriale del 10 agosto 2010, allegato alla denuncia presentata il 24 luglio 2008 presso la procura della Repubblica di Pordenone. Nell’estate del 1997 venni ricoverato d’urgenza all’ospedale di Gorizia per forti dolori allo stomaco. [...] Nei mesi seguenti i dolori allo stomaco si ripresentarono con grande frequenza e mi sottoposi a una serie di esami clinici e di visite specialistiche. Le diagnosi furono diverse e discordanti [...], ma nessuna delle terapie prescritte sembrò sortire effetti di rilievo. Questa condizione fisica cominciò a ingenerarmi stress e preoccupazione. Nel 1998 io e mia sorella prendemmo in gestione stagionale un bar a Grado, ma gli affari non andarono come previsto, aggiungendo preoccupazioni e stress alle mie precarie condizioni di salute. In questa situazione di incertezza (economica, lavorativa e di salute) rividi un vecchio conoscente [...] al quale confidai i miei problemi e preoccupazioni. Mi informò allora su una nuova scienza mentale, percorso che lui aveva intrapreso e che gli stava dando grandi risultati sia a livello personale che professionale. Mi disse infatti che tale percorso terapeutico poteva guarire tutte le malattie psicosomatiche e al contempo rendermi più efficace sul lavoro. Fu così che su suo invito mi recai al centro Dianetics di Udine e conobbi [due esperti di auditing]. [...] I due mi assicurarono di avere già risolto efficacemente problemi di salute quali: gastriti, ulcere, emicranie, psoriasi, dermatiti, anche epilessia. [Uno dei due] mi sottopose a una seduta terapeutica di prova, e mi consigliò di sottopormi ad auditing intensivo, a pagamento, per trovare l’episodio doloroso connesso ai miei dolori di stomaco. Ma in quel momento le finanze non me lo permettevano. Nei mesi successivi ricevetti inviti insistenti [...] a tornare al centro e iniziare un ciclo di terapia dianetica professionale. Nello stesso periodo avevo organizzato una manifestazione sportiva internazionale a Gorizia, e gli operatori di Dianetics/Scientology [...] con cui ero intanto entrato in rapporti amichevoli mi chiesero di potervi pubblicizzare [sic] con uno striscione a titolo gratuito la loro campagna Dico no alla droga, richiesta che accettai.

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Purtroppo la manifestazione (prevista per il 4 aprile 1999) non ottenne il risultato previsto e mi ritrovai a dover pagare di tasca mia spese organizzative molto ingenti, cosa che mi gettò in uno stato di sconforto e prostrazione che si andava ad aggiungere ai problemi già esistenti, e che per me rappresentavano un grosso fallimento personale. Quella sera, proprio nel momento di maggior sconforto, ricevetti una telefonata dal [vicedirettore esecutivo della chiesa] che cercò di rincuorarmi e mi invitò empaticamente alla sede di Scientology di Pordenone, dove avrei potuto leggere materiale interessante sul perché di certi avvenimenti, compreso il mio stato di salute. La mattina seguente [il mio vecchio conoscente] mi accompagnò alla sede di Scientology di Pordenone dove incontrai [il vicedirettore esecutivo] il quale, con fare amichevole e comprensivo, mi indusse ad acquistare subito un Seminario di Dianetics, comprendente anche dodici ore di terapia dianetica somministrata da un professionista, al prezzo di sessantamila lire [...]. In quella stessa occasione [l’addetto alle pubbliche relazioni della chiesa di Scientology di Pordenone] mi conferì davanti a un folto pubblico una coppa come riconoscimento del contributo da me dato alla campagna Dico no alla droga in occasione della manifestazione sportiva a cui ho accennato. Nei giorni seguenti iniziai la terapia dianetica con [un’altra «terapeuta»]; la seduta consisteva nel ripercorrere a occhi chiusi un incidente accadutomi da adolescente quando mi ero procurato una profonda ferita al braccio destro, per la quale nel 1979 subii un intervento chirurgico d’urgenza all’ospedale di Udine. [La «terapeuta»] mi fece ripercorrere quell’episodio innumerevoli volte, invitandomi a ricordare sempre più particolari. Mentre lo facevo provai improvvisamente una strana sensazione di «galleggiare nell’aria», la mente mi si svuotò lasciandomi soltanto un senso di pacifica beatitudine, di leggerezza euforica; incominciai a ridere in modo liberatorio, senza sapere che cosa mi

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stesse succedendo. [La «terapeuta»], in modo rassicurante, mi chiese se mi piaceva quella sensazione [...]. [Il vicedirettore], che mi stava aspettando fuori, mi chiese come fosse andata la seduta e, dopo avermi visto entusiasta e molto euforico, mi disse che avrei potuto raggiungere in modo stabile e definitivo, chiamato internamente «stato di clear», quel preciso stato mentale sperimentato in seduta, se solo mi fossi sottoposto ad almeno trecento ore di terapia di Scientology, che viene fatta con l’ausilio di un apparecchio elettronico chiamato elettropsicometro o e-meter. [...] Mi mostrò l’apparecchio dicendo che esso facilita la ricerca degli episodi dolorosi che danno origine alle malattie psicosomatiche. In breve, la terapia scientologica mi fu rappresentata come più avanzata e professionale di quella dianetica, appena sperimentata, e che mi aveva dato quelle sensazioni di grande benessere e rilassatezza. Indubbiamente, l’esperienza appena vissuta mi fece convincere dell’assoluta efficacia di quel tipo di terapia. In breve, nei mesi successivi, dopo aver completato alcuni corsi di base sul miglioramento personale, lo staff della chiesa di Scientology di Pordenone mi propose con insistenza di entrare a far parte dell’organizzazione. Mi dissero che lo staff interno poteva avvalersi gratuitamente della terapia e, inoltre, percepiva uno stipendio settimanale di circa quattrocentomila lire. Lavorai come staff della chiesa di Scientology dal luglio 2000 all’ottobre 2001, poi me ne andai per i seguenti motivi: avevo scoperto che il salario era calcolato in base alla gerarchia delle mansioni svolte e all’addestramento ricevuto. Dopo mesi mi ritrovavo ancora a percepire non più di ventimila lire settimanali, insufficienti anche solo alla mera sopravvivenza; la terapia veniva data gratuitamente soltanto agli staff più produttivi e solo se era disponibile un terapeuta, ma essi erano quasi sempre impegnati con il pubblico pagante;

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nonostante le mie cordiali lamentele, venivo costantemente ignorato e assegnato ai lavori più umili all’interno dell’organizzazione. Lasciare lo staff dell’organizzazione comporta qualche difficoltà: scoprii infatti che la dottrina interna definisce «traditore» chi si allontana dal lavoro; sulla bacheca pubblica interna viene affisso un avviso che informa i praticanti dell’obbligo di interrompere ogni rapporto e comunicazione con la persona che se ne è andata, salvo quegli staff autorizzati al tentativo di «recuperarti». Nei mesi successivi ricevetti numerosissime lettere e telefonate dagli staff di Pordenone che continuavano a propormi l’acquisto di ore di terapia, di corsi di miglioramento personale, inviti a partecipare a feste e convegni. A fine estate 2002 persi il lavoro iniziato all’inizio dell’anno; mi ritrovai di nuovo disoccupato e con i soliti problemi di salute. Le insistenze a rientrare in Scientology erano continue e alla fine cedetti alle pressioni, anche perché mi fu assicurato che se avessi aderito come «pubblico» (a pagamento) non avrei avuto problemi. Ma scoprii che per essere riaccolto in seno all’organizzazione avrei dovuto pagare i corsi di addestramento ricevuti gratuitamente quando ero parte dello staff. Accettai di pagare le somme richieste e, su insistenza [di due scientologi] iniziai quello che in Scientology viene chiamato Il Ponte verso la libertà totale, cioè quella serie di corsi e servizi interni che ti portano allo stato di clear [...]. Il primo passo obbligatorio e condizione imprescindibile per potere accedere alla terapia professionale di Scientology è un programma definito «Rundown di Purificazione», che consiste in assunzione di megadosi di vitamine assortite e diverse ore quotidiane di sauna. [I due scientologi] mi assicurarono che facendolo avrei sicuramente risolto i miei problemi di gastrite. Durante il programma, della durata di una ventina di giorni, non fui mai visitato né

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seguito da un medico, ma soltanto dallo staff della chiesa di Scientology [...]. Durante il programma si può raggiungere l’assunzione quotidiana di fino a cinquemila milligrammi di niacina. Successivamente feci il secondo gradino, denominato «TR’s e Oggettivi», durante il quale il soggetto dovrebbe distogliere l’attenzione dai problemi del passato, che si dice siano la causa delle malattie. Mi sottoposi poi ad altri due programmi denominati rispettivamente «Rundown di Scientology per le droghe», il cui scopo dichiarato è la cancellazione delle esperienze avute durante l’assunzione di droghe e farmaci, e «Rundown della Felicità», il cui scopo dichiarato è rafforzare la disciplina per quanto concerne igiene personale, educazione e rispetto del prossimo. [...] Terminati i programmi e non avendo avuto particolari benefici (i dolori allo stomaco continuavano) mi allontanai di nuovo da Scientology, ma continuai a ricevere pressioni insistenti da parte dello staff per terminare il percorso fino allo «stato di clear»; secondo le promesse, quella sarebbe stata infatti l’unica soluzione per risolvere i miei problemi di salute. Nella primavera del 2004, le incessanti insistenze di [due scientologi] mi indussero a riprendere il percorso. Elemento di convincimento usato fu il rassicurarmi di avere scoperto degli errori di procedura nell’auditing dispensatomi in precedenza [...] errori che a loro dire avevano determinato l’inefficacia del trattamento. [...] Tra la primavera del 2004 e l’inizio del 2005 completai [...] un ciclo di cento ore di terapia. Nell’estate del 2005, durante la terapia [...] cominciai a soffrire di tosse secca e bruciore ai polmoni; una notte i dolori diventarono così forti che dovetti recarmi al pronto soccorso di Gorizia, dove fui sottoposto ad accertamenti. Non fu riscontrata alcuna patologia evidente e i medici mi consigliarono ulteriori esami clinici. Comunicai subito la cosa alla [mia «terapeuta» scientologa], la quale mi disse di procedere con la terapia scientologica. Poiché ero ormai prossimo allo «stato di clear», mi disse la [terapeuta], era

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evento normale soffrire di dolori vari (che addirittura sarebbero stati una conferma dell’efficacia terapeutica) –, ma il tutto si sarebbe risolto «a clear». Terminai allora il ciclo di sedute già acquistato, ma mi allontanai di nuovo da Scientology poiché continuavo a soffrire di dolori allo stomaco (aggravati ora da quelli ai polmoni), per i quali non mi stavo curando, in quanto durante la terapia di Scientology è vietato assumere farmaci (considerati delle droghe). Ciononostante, il personale della Chiesa di Scientology (non più solo quella di Pordenone, ma anche di altre sedi nazionali e internazionali) continuò a telefonarmi e a inviarmi lettere a ritmi incessanti, con inviti a proseguire il percorso e con insistenti richieste di donazioni per le varie cause umanitarie finanziate dalla chiesa di Scientology (per esempio i centri disintossicanti Narconon, il Comitato dei Cittadini per i Diritti Umani, i «pro.civi.cos», volontari di protezione civile di Scientology, e così via). [I due soliti scientologi] arrivarono addirittura ad aspettarmi più volte sotto casa per riuscire ad avere un contatto diretto con me, al fine di persuadermi a rientrare. Nella primavera del 2006 cedetti alle loro insistenze e li accolsi in casa mia; in quell’occasione comunicai a entrambi le mie perplessità sulla terapia scientologica e le mie lamentele per il tempo e i soldi sprecati negli ultimi anni. Una settimana dopo questa lunga discussione con i dirigenti della sede pordenonese di Scientology, si presentò a casa mia [l’addetta alle vendite dell’organizzazione, e auditor professionista] la quale, munita di e-meter, mi persuase a sottopormi a un’intervista per individuare gli errori nella terapia ricevuta, che non aveva infatti avuto gli esiti promessi. Qualche giorno dopo [lei] mi telefonò per informarmi che il supervisore [...] aveva programmato per me alcune sedute «riparatrici», gratuite. Dopo tali sedute, cedetti di nuovo alle insistenze del personale affinché riprendessi il percorso verso il clear che, ancora una volta, mi fu assicurato essere l’unica

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soluzione ai problemi di salute che mi affiggevano. Terminai pertanto i gradini del «Ponte» residui [...]. Fu durante le ultime di un alto numero di ore di terapia con [un altro scientologo] che cominciai a sperimentare con frequenza lo stato di beatitudine e rilassatezza già vissuto durante la prima seduta [...]; stato che però si alternava a crolli mentali, momenti di forte depressione e tendenze suicide di cui mai avevo sofferto in precedenza, e dovute al fatto che durante il percorso scientologico avevo subito un dissesto finanziario importante, causato dalle continue pressioni affinché donassi del denaro alle varie iniziative sponsorizzate da Scientology. Prassi interna del gruppo, infatti, è di considerare «nemico» chi non sostiene attivamente e finanziariamente tali iniziative, e che pertanto viene ostracizzato dai membri e dai dirigenti della comunità. La «donazione» diventa in questo modo un obbligo. Le pressioni a donare mi costrinsero a contrarre debiti con banche e fornitori, sia per restare un membro attivo di quella che frattanto era diventata la mia unica comunità di riferimento, sia per sostenere costi e spese delle due aziende che avevo avviato. Inoltre, i disturbi fisici di cui continuavo a soffrire si erano cronicizzati. Comunicai queste mie difficoltà (sia finanziarie che emotive) al supervisore terapeutico [...], il quale mi disse che avendo raggiunto lo «stato di clear», era ora necessario «stabilizzarlo» con ulteriore auditing molto specializzato, disponibile soltanto a Copenhagen, sede europea della Chiesa di Scientology. Il preventivo per l’acquisto delle ore necessarie ammontava a circa tredicimila euro. Nonostante le mie evidenti difficoltà finanziarie ed emotive, subii forti pressioni a contrarre ulteriori debiti da [ben quindici altri scientologi], tutti appartenenti allo staff della chiesa di Scientology di Pordenone. Il mio rifiuto portò a una forte campagna denigratoria nei miei confronti attuata sia nell’ambito della comunità di Scientology, sia nel mio ambito privato e professionale. Tale campagna è consistita:

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nella rivelazione pubblica di miei particolari intimi emersi durante la terapia (che dovrebbero essere assolutamente confidenziali e godere del privilegio paziente-terapeuta); imponendo a mio fratello minore (anch’egli seguace di Scientology) e a tutti i seguaci che avevano rapporti di lavoro o di amicizia con me di interrompere qualsiasi contatto; «investigazioni» sulla mia sfera professionale, attuate mediante pedinamenti, domande a clienti, amici, colleghi e conoscenti e così via; affermazioni denigratorie su di me fatte alla stampa locale. Tali eventi mi prostrarono al punto da aggravare lo stato depressivo e l’esaurimento nervoso di cui già soffrivo, e mi impedirono di lavorare per tutto l’anno 2007 e metà 2008. In questo periodo [tre scientologi] continuavano comunque a esercitare forti pressioni su di me affinché rientrassi nell’associazione. Attualmente continuo a soffrire di disturbi di salute (in particolare della tosse secca e del dolore ai polmoni verificatisi per la prima volta durante le sedute terapeutiche di Scientology), di stati ansiosi-depressivi che mi rendono difficoltoso svolgere regolarmente un’attività professionale e che nel tempo mi hanno fatto isolare da ogni iniziativa di carattere sociale e relazionale, come può essere confermato dalla comunità goriziana [...]. Benché non sia in possesso di tutte le ricevute dei versamenti fatti alle diverse entità afferenti alla chiesa di Scientology negli otto anni di affiliazione, ritengo che le somme versate a vario titolo ammontino a circa novantamila euro.

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Nel gennaio 2008, in base a una direttiva di L. Ron Hubbard (fondatore della chiesa di Scientology) che prevede la restituzione delle somme versate per i servizi ricevuti e di cui non si è rimasti soddisfatti, raggiunsi un accordo con la chiesa di Scientology di Pordenone per la restituzione di quarantacinquemila euro, somma versatami in quattro tranche. Date le mie condizioni finanziarie ed emotive decisi di accettare la cifra proposta, benché fosse di molto inferiore a quanto pagato. 1 Le parti da noi editate sono segnalate con [...]. I nomi sono stati da noi oscurati e sostituiti dalle rispettive qualifiche nell’organizzazione tra parentesi quadre. 9. D20, la spia che mi odiava Alle 8.15 di mattina del 19 maggio 2010 la polizia irrompe nella sede torinese di Scientology. Gli agenti vanno dritti nel seminterrato, perché sanno già dove cercare. Forzano la serratura di una piccola stanza tappezzata di scaffali carichi di faldoni, cartelle e computer. E dopo nove ore riemergono, caricano i bagagliai di due volanti e portano tutto alla procura di Torino. Allontanandosi fra gli sguardi increduli dei parrocchiani di via Bersezio. Che cosa contenevano quei file? Perché questo sequestro-lampo? Perché la chiesa di Scientology di Torino aveva raccolto dossier su fedeli, alleati e nemici. Pieni di dettagli sulle vite, e sui «peccati», di ogni adepto che si sia mai confessato di fronte a un loro ministro. Pieni d’informazioni personali su ogni politico adescato. Pieni di notiziole «interessanti», e magari potenzialmente compromettenti, su giornalisti, magistrati, e chiunque abbia mai osato criticare l’Organizzazione. I poliziotti hanno infatti saccheggiato l’archivio segreto del Dipartimento 20, i servizi segreti voluti da Hubbard per proteggere la sua creatura.1 Non è solo la sede torinese a ospitarne un distaccamento: per ciascuna delle sue chiese ce n’è uno, e ovviamente vale anche per le dodici Org italiane. Per ogni distaccamento del D20 poi c’è un

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dirigente, e ogni dirigente ha un suo staff che va dalle tre alle cinque persone (più o meno numeroso a seconda dell’importanza della sede). Una stima ragionevole ci porta a dire che gli 007 hubbardiani nel nostro Paese oscillino fra i venticinque e i cinquanta. «Il D20, ossia l’Ufficio Affari Speciali, è un’arteria che corre dritta dentro la chiesa, dal più remoto degli uffici periferici fino alla sede centrale di Los Angeles» rivela Poma, l’ex uomo delle istituzioni di Scientology, oggi schedato come nemico. L’Office of Special Affairs è strutturato in maniera strettamente piramidale, e slegato dal management delle filiali: «Gerarchicamente il singolo 007 non rende conto al direttore della chiesa locale, ma solo al proprio diretto superiore. Per fare un esempio, il direttore responsabile della sede di Milano non è tenuto a essere informato su che cosa faccia il proprio Dipartimento 20. Ed è proprio questo senso di libertà e d’indipendenza dalle autorità ecclesiastiche del territorio a far sentire il D20 nel suo insieme autorizzato ad agire in proprio.» Uno Stato nello Stato, come ci conferma anche la fonte anonima Callisto, che ha lavorato fino a ieri a Torino per lo spionaggio industrial-religioso di Hubbard. «In Italia tutti i D20 delle chiese territoriali rispondono alla sede di Osa Italy, a Vimodrone» ci illustra. «Al vertice della struttura italiana c’è il Co Osa Italia, l’Ufficiale Comandante, o Commanding Officer, che a sua volta risponde solo al Co Osa International a Los Angeles. I capi di Torino parlano con l’America: c’è una linea telex che collega tutte le organizzazioni del mondo.» Insomma, un network internazionale che punta al controllo ferreo del territorio locale, con l’unico scopo di assicurare l’ambiente più accogliente possibile «perché Scientology prosperi». E perché la chiesa prosperi bisogna tenersi stretti gli amici, e ancor più stretti i nemici. «Cercano di tenere sotto controllo coloro che si oppongono agli obiettivi del Dipartimento 20, e cioè i nemici di Scientology» prosegue Callisto. «Chiunque abbia espresso pubblicamente delle critiche viene considerato potenzialmente ostile.» Se ne parli male, insomma, finisci sulla lista nera. Ma non solo: «Anche coloro che potrebbero aiutare la chiesa, o che hanno finalità simili, non sfuggono. Il dossieraggio quindi non comprende soltanto i nemici, ma anche i potenziali alleati: ogni incontro con politici e opinion leader viene minuziosamente descritto nei dossier. E tutto viene archiviato per usi futuri». Soprattutto ciò che una persona vorrebbe nascondere. «Non c’è un modus operandi uguale per tutti: a volte si tratta di preferenze politiche, altre volte sessuali, a volte di problemi economico-finanziari.»

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Del resto «attenzionare» qualcuno non è difficile, se hai a disposizione gli uomini e i mezzi. «La raccolta d’informazioni avviene attraverso diversi canali: ricerche sui giornali, in biblioteca per vecchi articoli, ricerche online, partecipazione ai convegni dove la persona attenzionata parla, confidenze dei suoi amici e conoscenti. In Italia il pedinamento viene affidato a investigatori privati al soldo dell’organizzazione, mentre in America sono gli stessi 007 a occuparsene in prima persona.» E se gli agenti della polizia di Torino coi dossier e gli hard disk ci hanno dovuto riempire due volanti, ciò dimostra che – come sostiene lo stesso Callisto – «il dossieraggio va avanti da anni e anni». Già. Un dossier ben fornito è anche una pistola carica puntata contro i propri avversari. Loro lo chiamano Fair Game. Niente a che vedere col fair play: significa che nella loro lotta tutto vale, anche i colpi bassi. «Nasce da una direttiva dello stesso Hubbard» spiega Poma «che autorizza qualsiasi tipo d’iniziativa contro i propri nemici, mettendo al primo posto sempre e comunque l’interesse della chiesa, indipendentemente dalle regole del Paese che la ospita. Iniziative che possono includere anche la denuncia o il ricorso alla calunnia. In teoria questa direttiva era stata ufficialmente soppressa negli anni Settanta. Ma, a quanto mi è stato riferito da alcuni ex del D20, agli inizi del 2000 veniva ancora studiata a Los Angeles, dove gli 007 vengono formati su testi riservati.» Una volta tornati dai loro seminari americani, gli spioni scientologi si attivano in Italia. Come? Callisto ce ne dà testimonianza diretta: «Nell’arco di sei anni ho visto commissionare almeno quindici dossier riservati. Mi ricordo di un magistrato donna in servizio alla procura di Milano, ma originaria del Torinese. Su di lei è stata fatta una ricerca molto approfondita: hanno cercato la sua tesi di laurea, parlato coi suoi nemici, studiato gli incarichi che aveva dato, e scoperto molte cose interessanti. Don Luigi Ciotti,2 invece, è stato attenzionato perché ha criticato pubblicamente i centri di disintossicazione Narconon. Poi c’è il caso dell’onorevole Luciano Violante».3 «So per certo che esistono dossier sui nostri politici» ci conferma Poma. «Sicuramente ce n’è uno aperto a carico di Violante. Già nella seconda metà degli anni Novanta circolavano documenti riservati sul suo conto, sulle sue frequentazioni nel settore antisette, su che cosa era stato detto, a chi, dove, e a che ora. Qualunque informazione raccogliessero veniva sistematicamente usata per screditarlo.» Come rammenta lo stesso deputato del Partito democratico,4 «ho ancora il ricordo, se pur vago, di una finta giornalista che voleva intervistarmi sulla mia campagna contro Scientology. Era l’epoca in cui avevo fatto alcune interrogazioni parlamentari in difesa di alcune vittime di questa forma di fanatismo: persone che avevano dilapidato patrimoni versati a questa

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organizzazione che manipola le coscienze a livello molto elevato». Cosa che agli hubbardiani proprio non era andata giù. «Posso dire per certo di aver avuto e consegnato alla magistratura copie fotostatiche di un’agenda di un conoscente di Violante,» rivela Poma «informazioni presumibilmente sottratte dalla casa del conoscente, e utili a disegnare e comprendere i rapporti che Violante aveva nel settore antisette. Appuntamenti, orari, luoghi, chi vedeva e chi frequentava. Mentre parliamo questi documenti sono nelle mani degli inquirenti.» La campagna del Dipartimento 20 contro Violante il suo acme lo raggiunge nel 2000. «Il caso Tell It All5 è celebre» racconta Callisto. «Fu un sito costruito appositamente dalla chiesa, e ci fu l’ordine diretto dagli Stati Uniti di realizzarlo. È un esempio lampante di hate site, i siti internet che hanno il compito di “sbugiardare” i critici di Scientology. Solitamente vengono allestiti in fretta e furia con lo scopo di far ritirare gli attaccanti. E poi scompaiono nel nulla. Nel caso di Tell It All si montò ad arte una storia che riguardava presunti funzionari del ministero degli Interni e dei Servizi segreti italiani “infiltrati” in Scientology. L’utilità per la chiesa era evidente: smascherare eventuali infiltrati, se ve ne fossero stati, e soprattutto ottenere maggiore protezione dalle istituzioni in nome della “libertà di religione”. Si sollevò un gran pandemonio fino in Parlamento, anche coinvolgendo persone in tutta buona fede che presentarono interrogazioni parlamentari.» Come Teresio Delfino, deputato piemontese dell’Udc, che pur non avendo alcun rapporto con Scientology, allarmato dal dossier messo a punto dal D20 presentò un’interpellanza su un fantomatico complotto ai danni di Scientology, seguito a ruota dall’interrogazione-fotocopia firmata dai suoi allora colleghi forzisti Enrico Nan e Gianni Pilo. Nel segreto del confessionale, il grande fratello hubbardiano ti vede, ti ascolta, e ti registra. «Il grande equivoco è che le persone pensano di essere protette quando raccontano le loro cose. Ma questo è vero, e non sempre, forse solo per i servizi strettamente spirituali, quelli che hanno come scopo cercare di aumentare la potenza dell’individuo e la sua capacità di risolvere turbamenti di tipo spirituale. Ma le confessioni di tipo etico-morale non sono garantite da alcun vincolo di segretezza. Perché mai quindi, ragionano al Dipartimento 20, non dovrebbero accedervi per cercare di tutelare Scientology? Insomma i credenti dovrebbero pensarci bene prima di raccontare tutte le loro storie più intime.» «Una volta veniva registrato tutto su fogli A4 bianchi, che poi venivano custoditi in questi folder con sistemi di sicurezza discutibili che farebbero saltare sulla sedia il garante per la privacy, in sgabuzzini chiusi con un giro di chiave» ricorda Poma. «Ma adesso si sta diffondendo la prassi di videoregistrare. Con la scusa di migliorare la performance del cosiddetto

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auditor. Così tu vai lì col cuore in mano, dopotutto è il tuo confessore, e davanti a una bella telecamera non pensi a quello che accadrebbe se poi un giorno volessi andartene.» Tu non ci pensi, ma ci pensa il Dipartimento 20. Che come un cane da pastore, corre a ricondurre nel gregge le pecorelle smarrite. Che piaccia o no. Non ama ricordarlo, ma ce lo riferisce lo stesso Roberto,6 che rimpiange gli anni della sua giovane vita trascorsi a dar la caccia ai fuoriusciti, e alla fine oggi invece è lui stesso un «soppressivo», in hubbardiano, una minaccia per il benessere della chiesa. «Quando vuoi uscire da Scientology ci sono due possibili modi per andarsene. Puoi seguire l’estenuante trafila predisposta, fatta da ulteriori moduli, test e sedute, subendo le pressioni psicologiche di chi ti vuole far restare.» Spesso un vicolo cieco, per chi vuole andarsene veramente. «Oppure, come spesso accade, scegli di fare blow: di scappare all’improvviso. Magari cercando la protezione dei tuoi genitori o dei tuoi parenti. Il mio compito era proprio quello di andare a recuperare chi faceva blow. Se li becchi subito, si pensa, è più facile riportarli indietro, dicendogli “vedrai che tutto si risolve”. Li convinci, anche perché se ne fai parte abbastanza a lungo è facile che gli unici amici che ti sono rimasti siano dentro la chiesa. Uscendone invece ti ritrovi da solo, perché nessuno ti rivolgerà più la parola. È una specie di hate bombing.» D’altronde come puoi pensare di andartene tanto facilmente da un’organizzazione che prevede contratti con cui ti impegni a restare non solo a vita, ma per un miliardo di anni?7 A volte per convincerli a restare si fa leva sui loro segreti. «Ricordo il caso di una persona che aveva ricevuto i suoi dati a casa, in busta anonima» conferma Callisto.8 «Era molto preoccupato: a lui piaceva travestirsi con abiti femminili. Voleva indietro il suo fascicolo, ma il nostro superiore ha ordinato che fotocopiassimo tutto.» Una vera e propria macchina del fango, insomma, già ben rodata molto prima che l’espressione divenisse di uso comune sulle pagine dei nostri giornali. Lo stesso Poma aveva chiesto – e apparentemente ottenuto – che i suoi fascicoli venissero distrutti. Salvo scoprire, nel corso dell’inchiesta della procura torinese, che non era proprio andata così. «Mi avevano assicurato che l’avevano fatto, e mi ero fidato. Per me era finita lì, nonostante fossi in polemica con certi loro metodi, non ho mai odiato la chiesa di Scientology, né la odio tutt’oggi. Invece nel mio voluminoso dossier è saltata fuori persino la stessa lettera del mio avvocato in cui se ne chiedeva la distruzione» conclude, scuotendo il capo. «Ho avuto modo di dare un’occhiata al mio file sequestrato dalla procura, ed è evidente l’opera di sistematica scrematura alla ricerca dei miei ipotetici punti deboli. Nel mio caso era tutto più facile, visto che avevo seguito i loro corsi di miglioramento. Ma sarebbe molto più interessante

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riuscire a dare un’occhiata ai folder dedicati a quelli che non sono mai stati loro membri. Che se ne fanno?» Se risulterà vera l’ipotesi di Callisto,9 e cioè che nella lista dei dossierati siano finiti anche i nostri stessi nomi (da quando due anni fa firmammo un’inchiesta critica sull’«Espresso»),10 questo piacerebbe tanto saperlo anche a chi vi scrive. 1 Il 1° aprile 2011 il pm torinese chiede l’archiviazione dal punto di vista penale, ma passa la palla al garante per la privacy. 2 Fondatore del Gruppo Abele. 3 Callisto lo dichiara in un’intervista rilasciata a «La Stampa» (Massimo Numa e Niccolò Zancan, Io e l’archivio segreto sui nemici di Scientology, «La Stampa», 19 maggio 2010). 4 Grazia Longo, Violante e don Ciotti: «manipolatori di anime che non ci spaventano», «La Stampa», 20 maggio 2010. 5 «Dilla tutta.» 6 Nome di fantasia. 7 «Io... sottoscrivo qui il mio accordo a essere un membro dell’Organizzazione del Mare e, con mente chiara, realizzo pienamente lo scopo e sono d’accordo a esservi fedele sapendo che quello di mettere l’etica su questo pianeta e l’universo e, pienamente e senza riserve sottoscrivo alla disciplina e alle condizioni di questo gruppo e mi impegno a osservarle. Perciò, impegno me stesso con l’Organizzazione del Mare per il prossimo miliardo di anni.» Contratto standard per diventare membri della Sea Organization, l’élite scientologa.

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8 Massimo Numa e Niccolò Zancan, Io e l’archivio segreto sui nemici di Scientology, cit. 9 Riferita da Poma il 24 maggio 2010 al quotidiano online Affari Italiani. 10 Stefano Pitrelli, Gianni Del Vecchio e Tommaso Cerno, Ragnatela Scientology, «L’espresso», 23 settembre 2009. Articolo tradotto con il titolo Spider Web of Scientology dagli attivisti di Anonymous, che si battono per la democrazia e la trasparenza. Sono famosi per le battaglie contro Scientology e per l’appoggio offerto a Julian Assange, fondatore di Wikileaks.

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PARTE TERZA

Ontopsicologia

Il pensiero non esisterà più, almeno non come lo intendiamo ora. Ortodossia vuol dire non pensare,

non aver bisogno di pensare. Ortodossia e inconsapevolezza sono la stessa cosa.

George Orwell, 1984

1. L’intellettuale di Dell’Utri Montecatini, novembre 2006. Da un paio di giorni va avanti il quarto raduno nazionale dei Circoli giovanili di Marcello Dell’Utri. Solo qualche mese prima le elezioni hanno portato, seppur di un soffio, Romano Prodi e il centrosinistra al governo, e il braccio destro di Silvio Berlusconi ha deciso che non c’è tempo da perdere: bisogna gettare subito le basi per tornare al governo. Il senatore forzista non si accontenta di fare opposizione nel parlamento, vuole che la nuova rivoluzione berlusconiana cominci dal basso. Così decide di accelerare su un progetto messo in piedi già dal lontano 1999: la rete dei Circoli del Buongoverno. Si tratta di una vera e propria fucina per la futura classe dirigente di Forza Italia, che oggi può contare su trecento sezioni sparse in tutta Italia. Il convegno nazionale nella cittadina toscana serve proprio a questo: rompere gli indugi e dare una scossa al laboratorio politico forzista. Da un lato bisogna far conoscere e collaborare i ragazzi sotto i trent’anni che vengono da diverse

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parti d’Italia, dall’altro è necessario fornire una base culturale alternativa al «monopolio culturale della sinistra» (come ama ripetere lo stesso Berlusconi). I giovani che popolano la sala, un centinaio, sono lì proprio per questo. E aspettano rilassati, seppur con evidente curiosità, l’incontro con un personaggio misterioso. Non si sa molto di lui, se non che è una sorta di guru della psicologia, mezzo scienziato e mezzo artista. E poi che è il maestro spirituale di Andrea Pezzi, personaggio televisivo molto noto al pubblico giovanile. Per anni vj simbolo di Mtv, nell’autunno del 2006 ha appena terminato l’ennesima trasmissione per gli under trenta sui canali della Rai, Il Tornasole. Sul palco compare proprio Pezzi che, col suo inconfondibile stile artatamente caotico, presenta l’illustre ospite. Chi è in sala però subito si accorge che al misto di guasconeria e piacionismo il conduttore romagnolo sostituisce una certa deferenza, ai limiti di una vera e propria devozione. «Nel mio percorso ho incontrato un uomo – lo ringrazio per aver accettato l’invito mio e di Dell’Utri – che per vent’anni ha lavorato per mettere a punto una scienza esatta nella prassi, al di là di qualunque clan, salotto di potere o di quei professori universitari attenti a fare la corte a chi siede in prima fila e che vanno avanti a forza di psicofarmaci.» Un uomo che, secondo Pezzi, possiede tutte le qualità di un eroe. «Sto parlando di un grandissimo intellettuale, che spesso è stato osteggiato in Italia, ma che è riuscito a fondare una scuola che amo e studio da dieci anni. Parlo di Antonio Meneghetti.» Il vj passa il microfono a un uomo sulla settantina dall’aspetto solenne, capelli bianchi e lunghi sulla fronte stempiata e barba ben rasata e ordinata. Un’impressionante somiglianza con l’attore croato Rade Šerbedžija, il proprietario del negozio di costumi nel kubrickiano Eyes Wide Shut. Meneghetti è vestito di tutto punto, il suo è uno stile personale un po’ eccentrico, soprattutto nella cravatta e nelle scarpe. Esordisce attirandosi le simpatie dei giovani presenti, grazie a parole che sembrano uscire dalla bocca dello stesso Dell’Utri: «La storia che leggete dal 1943 in poi è tutta costruita. Se volete conoscere la verità dovete cercare i contadini che hanno più di settant’anni. Noi non abbiamo una nostra identità storico-culturale perché la sinistra è fondamentata [sic!] dall’interesse statunitense. Magari fosse stato russo, o meglio sovietico». Poi specifica: «Per anni abbiamo subito il colonialismo economico americano, gli intellettuali di sinistra sono pagati e non possono allontanarsi più di tanto». E ancora meglio: «La sinistra attuale, prezzolata dagli statunitensi, statalizza tutti i beni. Ma una volta statalizzati si depauperano e poi vengono distribuiti ai burocrati». Prima del gran finale: «Il Sessantotto è un grande imbroglio indotto da Washington per bloccare lo sviluppo europeo» e «Tangentopoli è stata voluta dagli Stati Uniti per devastare la capitaneria più valida dell’economia italiana». Applausi.

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Il Professore, così lo chiamano i suoi «amici», galvanizzato va avanti, insistendo su alcuni capisaldi dell’ideologia berlusconiana: individualismo e liderismo. Rivolgendosi a un ragazzo in prima fila, lo esorta: «Tu devi prendere il tuo presente, non devi mai tradire il tuo io, tutto deve essere funzionale alla tua identità, prima di tua madre e tuo padre» perché «oggi tutto è fondato sull’individualismo». E se il virgulto dellutriano non si fosse ancora convinto Meneghetti lo incalza: «L’essere è azione viva, fuoco. [...] Tutto è relativo, tranne te stesso. Non è l’amore esterno o l’avere che ti rende felice ma solo l’essere fedele al tuo essere». Corollario di questo elogio dell’egocentrismo, il culto della leadership. Per Meneghetti il punto più alto che un uomo può raggiungere è diventare un capo. «Il leader è colui che si realizza attraverso il raggiungimento del bene comune. E un leader politico realizza se stesso se ha potuto realizzare anche i miserabili, i portatori d’inferiorità [sic!].» In onore del capo carismatico poi si può chiudere un occhio anche su qualche malefatta. «Stalin è ancora molto amato. Ha ucciso otto milioni di persone, anche se senza di lui forse ne sarebbero morte molto di più. Non lo giustifico, ma non possiamo giudicare un uomo del genere con il metro della nostra storia.» Qui, però la sintonia con l’uditorio si incrina. Anche perché Meneghetti non si ferma al revisionismo staliniano. Il Professore attacca in rapida successione il cristianesimo («le radici d’Europa non sono cristiane, il cristianesimo ha soli duemila anni, la nostra storia è ariana, celtica, ha un fondamento pagano»), il cattolicesimo odierno («Il nostro cattolicesimo è finito con Pio XII, quando Giovanni XXIII ha portato la democrazia nel sistema, e con la democrazia si è entrati in un relativismo religioso»), la psicologia da Freud in poi («Freud è stato il grande corruttore, dopo di lui si è rovinata, ora è solo dei medici e degli psichiatri»). Ma non solo. Lascia intendere che dietro l’esplosione economica cinese ci sia una sua imbeccata: («Ho avuto la possibilità di comunicare con Deng [presumibilmente Deng Xiaoping, segretario del Partito comunista, NdA] attraverso suo nipote, e gli consigliai di insegnare ai suoi connazionali di diventare ricchi; guardate ora la Cina dove è arrivata»). E infine conclude con un panegirico filorusso («Lì i giovani sono al potere, ricchissimi, quando fino a dieci anni fa non avevano niente»), denigrando l’Inghilterra («un Paese difficile da capire, che vuole distruggere l’insopprimibile avanzamento russo»). Non dimenticando però di fare un po’ di pubblicità ai suoi corsi, per chi volesse approfondire le sue teorie: «Facciamo incontri di studio, due o tre giorni, in cui si discute con i giovani in modo da fargli trovare la loro strada». Insomma, quanto basta per irritare più di uno in sala. Tanto che, alla fine del monologo, un ragazzo osa fare critiche e domande «impertinenti» al grande

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intellettuale. Meneghetti, innervosito dalla lesa maestà, gli risponde con un poco sofisticato «C’hai un mostro davanti, ragazzì!». 2. Chi è Antonio Meneghetti Antonio Meneghetti descrive se stesso come un genio assoluto, capace di raggiungere vette inarrivabili in tutto ciò a cui si applica: sintesi perfetta di arte e scienza. Basta dare un’occhiata al suo curriculum, facilmente reperibile su internet.1 Meneghetti si presenta come accademico di gran rilievo, il cui pensiero viene insegnato ufficialmente all’Università statale di San Pietroburgo. Vanta svariati titoli: dottorato in Filosofia e in Scienze sociali all’Università internazionale San Tommaso d’Aquino di Roma, laurea in Filosofia all’Università Cattolica del Sacro Cuore, perfino una laurea honoris causa in Fisica. «Studia, fino a parlare correttamente, latino, greco antico e aramaico» mentre «non ha interesse per le lingue moderne, visto che l’italiano è quella più completa.» Concertista di organo e piano, «è ascoltato da centinaia di persone in silenzio» in esibizioni a Roma, Napoli e San Pietroburgo. È un’artista di successo, produce quadri e sculture che espone in giro per l’Italia ma anche all’estero, dalla Cina al Brasile, passando per la Russia. Architetto raffinato, ristruttura borghi e costruisce villaggi. Come stilista «esce in più sfilate di alta moda» e «coordina la sua boutique romana». Ma Antonio Meneghetti è soprattutto il fondatore dell’Ontopsicologia, che egli stesso definisce «l’ultima nata tra le scienze umanistiche contemporanee». Una disciplina che permette «a ogni soggetto di capire la struttura totale del proprio inconscio e le dinamiche e i determinismi che opera nelle persone che fanno parte del suo ambiente». E se la si applica correttamente, permette di «recuperare buona parte dell’intuizione e dell’intelligenza nativa» che l’uomo ha perso per tanti fattori storici e culturali. Con un risultato sorprendente: «L’analisi ontopsicologica è oggi applicata con dimostrato successo in campo economico, medico, artistico, scientifico e pedagogico, come autentico supporto alla figura del leader».

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Insomma, Meneghetti sembra aver scoperto la formula magica per arrivare alla felicità: seguendo i suoi precetti si arriva a conoscere se stessi, a sapersi relazionare agli altri (a casa come al lavoro), a recuperare l’intelligenza e il talento per poi usarli e avere successo nella vita. Sarà per questo che attorno alla sua figura si sono sempre addensate schiere di persone in cerca di realizzazione, soprattutto giovani. In Italia i seguaci dell’Ontopsicologia sono più o meno cinquecento, e provengono prevalentemente dal Centro (Lazio e Umbria in primis), ma anche in Lombardia c’è una certa rappresentanza. Così descritta, l’Ontopsicologia può sembrare una delle tante scuole di pensiero che cercano di aiutare l’essere umano nel cammino terreno. Infatti, Meneghetti si atteggia a Socrate nel bel mezzo della ricerca filosofica. Tuttavia, se si gratta la patina, appare in superficie una realtà decisamente più inquietante. Antonio Meneghetti è un ex frate francescano (ha lasciato la Chiesa cattolica nel 1972, a trentasei anni) che alle forze dell’ordine è noto per ben altre virtù. Quando il ministero dell’Interno, nel 1998, inserisce l’Associazione italiana di Ontopsicologia fra le sette religiose e i nuovi movimenti magici nel nostro Paese2 fornisce una sintetica ma precisa descrizione del fondatore e della sua dottrina: «Il promotore è un pluripregiudicato, ex frate francescano, coniugato con una ex religiosa, anch’essa pluripregiudicata, soprannominato il Professore perché laureato in Sociologia, Teologia e Filosofia». Il rapporto continua delineando una breve descrizione dell’Ontopsicologia, «una sorta di psicoterapia non riconosciuta dalla scienza ufficiale», e si conclude con una notazione allarmante: «Secondo alcune segnalazioni, nei corsi tenuti dal sodalizio verrebbero attuate metodologie dirette a modificare il carattere e la personalità dell’adepto, al punto di ottenere il totale condizionamento e devozione nei confronti del fondatore». Parole forti, pesanti, forse fin troppo, visto che Meneghetti è poi riuscito a ottenere dal Viminale un risarcimento civile per danni d’immagine di una cinquantina di milioni delle vecchie lire (siamo nel 2000). Tuttavia negli archivi della polizia sono presenti dei precedenti, seppur non grossi: Meneghetti è indicato come «persona nota alle forze dell’ordine» con «precedenti per esercizio arbitrario, simulazione e resistenza».3 Per non parlare di due grandi vicende giudiziarie che l’hanno coinvolto (da una è uscito pulito, dall’altra ha incassato una condanna), e di cui parleremo fra poco. Infine, non è affare di tribunali, per il semplice fatto che non esiste un reato, ma il guru abruzzese si è sempre portato dietro l’ombra della manipolazione mentale. Costante, questa, che accompagna Meneghetti fin dagli albori della sua attività.

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Uno che lo conosce bene è Oreste,4 psicologo di Terni ora in pensione, che incontriamo d’estate in un caffè della cittadina umbra. «Il primo contatto in assoluto è del lontanissimo 1975. Allora sono ancora un acerbo studente, al secondo anno di Psicologia. A cinquecento metri da casa mia c’è il suo studio, dove Meneghetti fa sedute di psicoterapia. Mi incuriosisco, e decido di incontrarlo. Magari, mi dico, con lui potrei cominciare a collaborare, e fare così le prime esperienze formative. Ricordo esattamente il primo scambio di battute, perché sono illuminanti. Gli chiedo: “Lei è uno psicanalista?”. “No, perché la psicanalisi analizza, io guarisco.” Parole che mi fanno capire subito di essere alle prese con una persona esaltata. Infatti rimango interdetto per qualche minuto, prima di salutare e andare via.» Se la prima esperienza è bizzarra, i contatti successivi che Oreste si ritrova ad avere con Meneghetti e il suo mondo rivelano ben presto la natura della terapia onto-psicologica. «Passa qualche anno, mi laureo e apro uno studio a Terni. Nel giro di pochi giorni mi arrivano tanti clienti, e non riesco a spiegarmi perché. Cosa può essere successo? Lo capisco durante le prime sedute: quasi tutti, una decina, sono ex pazienti di Meneghetti, rimasti orfani del suo studio. La magistratura gli ha contestato accuse molto gravi e lui è stato costretto a interrompere la sua attività.» Oreste fa riferimento alla prima grande vicenda giudiziaria che vede coinvolto il Professore. Sulla scia di un’inchiesta giornalistica di «Paese Sera»,5 il sostituto procuratore Giorgio Santacroce lo accusa di violenza carnale, atti di libidine, truffa aggravata, associazione a delinquere e usurpazione di titoli. Per questo Meneghetti passa anche un mese in carcere, ma alla fine l’inchiesta si sgonfia. Il giudice istruttore lo scagiona, perché alcune accuse cadono, mentre altre vengono estinte da un’amnistia. «Mettendo da parte il profilo giudiziario della vicenda, confermo le cose che vennero fuori sui giornali» tiene a sottolineare Oreste. «Tutti quei pazienti presentavano gli stessi problemi. Mi ricordo che tutti avevano una grande dipendenza da Meneghetti. E che incredibilmente gli era stata formulata la stessa diagnosi e la stessa terapia. La diagnosi era semplice: le cose vanno male perché ti circonda una certa negatività, che ti viene trasmessa dai tuoi familiari. La terapia altrettanto: devi allontanarti dalla tua famiglia. Quindi Meneghetti diceva alle mogli di lasciare i mariti, ai figli di andar via da casa e troncare i rapporti con i genitori, o quanto meno di ridurre al minimo i contatti. «Una vera e propria logica del malocchio, quella meneghettiana. Per non parlare dei ricatti psicologici alle persone che volevano abbandonare la terapia. Ricordo di una ragazza a cui Meneghetti disse: “Se lasci la terapia sentirai per tutta la vita dei dolorini al cuore”. E questa ragazza, in una seduta,

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mi confessò di sentirli veramente. Dovetti spiegarle che non erano nient’altro che innocui dolori intercostali.» Dopo il mese di carcere, Meneghetti decide di porre fine alla sua esperienza da psicoterapeuta. Tuttavia si guarda bene dall’accantonare l’Ontopsicologia e i suoi seguaci. Dal 1981 in poi si dedica completamente a sviluppare l’Associazione internazionale di ontopsicologia, cercando di fare più proseliti possibile, in Italia e non solo. Tanto che lo psicologo ternano presto si imbatte ancora in lui, scoprendo che certe pratiche non sono affatto cessate. «Negli anni Ottanta ricevo due incarichi da famiglie diverse per far rientrare i loro figli che non sentivano ormai da anni. C’è sempre Meneghetti di mezzo. Accetto la sfida e mi ci butto dentro con entusiasmo. Raggiungo l’obiettivo al cinquanta per cento: dopo un anno di colloqui riesco a far tornare a casa il ragazzo, mentre con la ragazza non c’è stato nulla da fare.» Passa il tempo, ma nulla cambia. Gli anni Novanta vedono Meneghetti spesso al centro dell’attenzione mediatica. Il 2 ottobre 1991 muore annegata al largo dell’isola di San Pietro, in Sardegna, Marina Furlan, assistente ventottenne di Meneghetti con cui l’uomo aveva avuto una relazione. La giovane psicologa, ex modella, si trova in barca col Professore, prima che alcune onde anomale rovescino l’imbarcazione. Meneghetti riesce a salvarsi: giunge a riva dove si presenta, completamente nudo, nella casa più vicina. Lì chiama i soccorsi. Per la Furlan però è troppo tardi: viene trovata senza vita, anche lei nuda, poco lontano dal luogo del naufragio. È l’inizio della seconda vicenda giudiziaria che coinvolge il guru. Qualche anno dopo si apre il processo e stavolta per Meneghetti arriva la sentenza di colpevolezza, nel 1993: un anno e otto mesi per omicidio colposo. Pena poi ridotta in appello, nel 1996, a dieci mesi di reclusione. Il 6 dicembre 1997 in un bosco della provincia di Rieti la polizia si imbatte in una macchina abbandonata. È una Y10 rossa, al cui interno gli agenti trovano tutto il necessario per vivere: cibo, medicine, effetti personali. Ma soprattutto un bel po’ di libri, fra cui diversi a firma di Antonio Meneghetti. A prima vista, tutto fa pensare a un’auto che per qualche mese è stata usata come casa, prima di essere abbandonata al suo destino. E infatti gli uomini della Digos non sbagliano. Controllando i documenti risalgono al proprietario: Luciano Gianvincenzo, perito informatico di quarantadue anni nato vicino all’Aquila e residente a Nerola, un paesino del Reatino, almeno prima di essere sfrattato a settembre perché non pagava più l’affitto. La questura si attiva e parte l’indagine per ritrovare lo scomparso. Però ben presto gli ispettori capiscono che non sarà una passeggiata: a Nerola l’uomo non ha quasi nessun amico, la gente fa fatica a ricordarlo e addirittura a

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riconoscerlo in foto. L’unica persona che ogni tanto ha la fortuna di incontrarlo è il suo assicuratore, che però non fornisce indizi utili. A complicare ulteriormente il lavoro degli investigatori salta fuori il verbale di una pattuglia che qualche mese prima, il 15 ottobre, aveva incrociato lo scomparso, con l’aria un po’ persa, a notte fonda e in una stradina isolata. Alla domanda su cosa stesse facendo lì e a quell’ora, Gianvincenzo aveva risposto laconico: «Devo riflettere perché sto divorziando da mia moglie». Peccato però che gli ispettori, consultando l’anagrafe, avessero scoperto subito che era una bufala: il perito informatico non era sposato. Una bugia che rivela lo stato di confusione mentale in cui l’uomo probabilmente versava. La storia arriva a una svolta una decina di giorni dopo il ritrovamento dell’auto, grazie all’interesse della popolare trasmissione televisiva Chi l’ha visto?, che gli dedica un servizio nella puntata del 16 dicembre. Il giornalista del programma, assieme alla cronista del «Messaggero» Maria Chiara Aniballi, ricostruisce gli ultimi anni di vita del missing. Gianvincenzo lavora all’American Express di Roma fino al 1992, anno in cui comincia ad avvicinarsi all’Ontopsicologia. Bastano pochi mesi e la sua frequentazione si trasforma in un’adesione totale e coinvolgente, tanto che Luciano abbandona il proprio lavoro per trasferirsi a Nerola. Lì infatti è più vicino al suo guru, che ha una villa a Scandriglia, altro paesino del Reatino, utilizzata per tenere corsi e seminari. Ma Luciano non molla soltanto il suo impiego, taglia anche completamente i ponti con la famiglia. La madre fa sapere all’inviato di Rai Tre che, per lei, il figlio è morto da anni. «Da quando» dice con le lacrime agli occhi «si è legato a quella comunità».6 Ebbene, le telecamere riescono ad arrivare laddove gli investigatori fino ad allora avevano fallito. Il giorno dopo il caso si risolve in un lampo, anche se alla fine neanche uno dei dubbi sulla misteriosa scomparsa viene sciolto. Gianvincenzo infatti, in compagnia del suo avvocato, chiama la cronista del «Messaggero», dicendo frettolosamente di stare bene, senza rispondere a nessuna delle domande della Aniballi sulle ragioni della fuga. A rendere, se possibile, le cose ancora meno chiare, interviene poi il legale, che spiega di non essere autorizzato dal suo cliente a rivelare dove adesso si trovi e dove lavori, né tanto meno a dare una spiegazione plausibile dell’abbandono dell’auto.7 Insomma, una telefonata che chiude le ricerche della Digos ma che lascia aperti tanti interrogativi sulla vera storia del perito informatico. Il velo di mistero finisce per essere la cifra di altre storie come questa anche negli anni successivi. Dalla fine degli anni Novanta al primo decennio del Duemila, la capacità dell’Ontopsicologia di formare adepti che vivano in modo totalizzante il rapporto con Meneghetti non accenna a diminuire. Accanto alla madre che s’è

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vista portar via il figlio o al marito piantato in asso, c’è anche chi nel gruppo ha perso il migliore amico, quello di una vita, quello che ti conosce meglio dei tuoi genitori o di tua moglie. È il caso di Luca,8 giovane professionista romano, che si è visto sfilare pian piano una delle persone a lui più care. Dopo ripetute richieste, accetta di parlare ma solo al telefono, tanta è la paura di esporsi in prima persona contro Meneghetti e la sua organizzazione. «Con Marco9 siamo cresciuti assieme, ci conoscevamo fin dalle medie, c’è sempre stata grandissima sintonia. Avevamo la stessa visione del mondo, abbiamo condiviso tante esperienze. Eravamo inseparabili. Ora sono quattro-cinque anni che non lo vedo.» La storia del reclutamento di Marco nella «squadra» meneghettiana comincia da lontano, a metà degli anni Novanta. E da un episodio per il quale ancora oggi Luca prova un senso di colpa. «È il 1995, frequento un osteopata per dei problemi alla schiena, mi trovo bene e lo consiglio anche a Marco. Andando avanti con le sedute, tutti e due entriamo in confidenza con lui, facciamo lunghe chiacchierate su temi “alti” come il senso della vita o la natura dell’uomo, ma anche quattro risate su quelli più bassi. Così naturalmente ci ritroviamo ad accettare un suo invito a cena. Il dottore è uno che si presenta subito come un vincente, una persona realizzata: bella casa e bella macchina. Ma al tempo stesso è uno alla mano, una persona che è riuscita a superare le incertezze della vita. Incertezze in cui invece io e Marco, due universitari lenti e compassati, ci ritroviamo fino al collo. Lo ammiriamo.» Dopo quella sera però passano i mesi e le cose cambiano, almeno per Luca. Due incontri con l’osteopata lo lasciano di stucco, e gli fanno rovesciare il giudizio tanto favorevole, al punto che decide di troncare ogni rapporto. «Al primo vado con la mia ragazza dell’epoca, e noto che per tutto il tempo non le rivolge neanche la parola. Al secondo, quello successivo, capisco il perché: comincia a farmi tutto un discorso sul fatto che la devo lasciare, non mi devo sposare, devo solamente seguire la mia realizzazione personale e null’altro. Poi si comincia a parlare di Ontopsicologia, di cui avevo già orecchiato qualcosa. A quel punto, sento dentro di me che monta un sentimento di malessere, la sensazione di essere insidiato mentalmente. Decido di andar via.» Questo naturale meccanismo di difesa però non funziona per Marco, che invece comincia a frequentare gli ontopsicologi e Meneghetti. «Da quel momento in poi lo vedo cambiare. Prima in maniera blanda, poi sempre più velocemente. Ricordo, siamo attorno al 2000, un improvviso astio nei confronti dei genitori, in particolare canalizzato contro la madre. Le addossa i suoi fallimenti, la ritiene responsabile delle sue paure, la accusa di tenerlo segregato. Addirittura va a vivere da solo senza neanche dirle dove. E dopo un

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po’ mi confessa di aver iniziato a lavorare per l’organizzazione di Meneghetti a tempo pieno, entrando a far parte della segreteria dell’Associazione internazionale dell’Ontopsicologia (Aio). A quanto pare capita spesso che gli adepti finiscano per lavorare per lui a tempo pieno.» Luca però, nonostante gli strani discorsi e l’azzeramento dei rapporti con i familiari, continua a frequentarlo e stargli vicino. Fino a quando, nel 2004, è lui a entrare nel mirino di Marco. È l’ultimo atto del graduale isolamento dagli affetti più cari. «L’episodio che mi apre gli occhi sulla persona che Marco è diventata è la malattia di mio padre. Durante quei mesi strazianti sparisce, si eclissa. Anche se è al corrente di tutte le mie difficoltà. Lo vedo per l’ultima volta il giorno del funerale.» Col dispiacere nel cuore per un vero amico perso che da allora si porta dietro. 1 Lo si può trovare sul sito www.ontopsicologia.org. 2Sette religiose e nuovi movimenti magici, Rapporto del dipartimento di Pubblica sicurezza, ministero degli Interni, 1998. 3 Tradotto dal gergo poliziesco: esercizio arbitrario delle proprie ragioni, simulazione di reato e resistenza a pubblico ufficiale. 4 Nome di fantasia. 5 Il quotidiano romano pubblica nella primavera del 1981 una serie di articoli in cui i primi «pentiti» cominciano a raccontare cosa succede nelle sedute terapeutiche, ma soprattutto i familiari degli «ontopsicologizzati» denunciano il repentino cambiamento di atteggiamento dei propri cari. Figli che cancellano i propri genitori, sorelle che tagliano i ponti con i propri fratelli, coppie che si isolano dai propri amici: perché, secondo l’ex frate, è in famiglia che nasce la negatività. Sempre secondo l’inchiesta di «Paese Sera», poi, Meneghetti avrebbe indotto alcune pazienti ad avere rapporti sessuali con lui. Esperienze diverse con un tratto in comune: la dipendenza dal verbo meneghettiano.

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6 Maria Chiara Aniballi, «Il Messaggero», 17 dicembre 1997. 7 Maria Chiara Aniballi, «Il Messaggero», 18 dicembre 1997. 8 Nome di fantasia. 9Nome di fantasia. 3. La Roccaforte Oggi il Professore continua a fare convegni, tenere seminari, pubblicizzare dove possibile (soprattutto su internet) la sua «scuola». La disciplina meneghettiana può essere riassunta in tre grosse scoperte: l’In sé ontico, il Monitor di deflessione e il Campo semantico. L’uso di un lessico ad hoc, quasi iniziatico, non sorprende, visto che contribuisce a creare quell’alone di mistero e impenetrabilità di cui si cibano i gruppi e che ormai abbiamo imparato a conoscere. In realtà, dietro i paroloni si cela una teoria fatta in casa, secondo la quale con «In sé ontico» si intende l’essenza di una persona, così come la natura l’ha creata. Nessuno ha un In sé uguale all’altro, ognuno è diverso, unico, originale e irripetibile. Tuttavia il nostro In sé quasi mai riesce a «dispiegarsi» nella vita di tutti i giorni. Perché viene contrastato dal Monitor di deflessione, cioè quel «substrato di memorie culturali» che fin da piccoli ci avrebbero inculcato. Quindi – secondo il meneghettismo spiccio – ci ritroviamo a pensare e agire in un certo modo, illudendoci di decidere autonomamente, ma in realtà staremmo pensando e agendo secondo quanto ci è stato imposto dall’esterno. E per di più, non siamo in grado di decifrare il Campo semantico, una specie di «aura» che si crea quando entriamo in contatto con altre persone, un linguaggio psichico e non

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verbale, che può essere «positivo» o meno (ricordate la «negatività» nelle testimonianze?). In questo contesto, l’Ontopsicologia (e quindi Meneghetti) è necessaria per liberare il proprio essere dai condizionamenti esterni, che purtroppo sono diventati parte di noi, e soprattutto per «decifrare il Campo semantico». È questa, in breve, la teoria salvifica – che di per sé non ha niente di misterioso né di esoterico – usata da Meneghetti per costruire, cementare e blindare il proprio movimento. I seguaci, del resto, sono così legati che hanno un bisogno quasi fisico di star vicini al proprio guru. Ne è la dimostrazione Pissignano sul Clitunno, un borgo sulle colline umbre in cui vivono esclusivamente ontopsicologi. Una sorta di énclave, di roccaforte, pensata apposta da Meneghetti per riunire accanto a sé chi non riesce a star lontano da lui. E chi ci va a vivere è costretto a sborsare un bel po’ di soldi, visto che le case sono tutt’altro che economiche. Ci arriviamo in una calda domenica d’agosto, spacciandoci per turisti. La prima cosa che avvertiamo è la sensazione del netto distacco fra la parte nuova del paese, che si espande ai piedi di una collinetta dove vivono i «pagani», e il vecchio borgo ontopsicologo, a cui si arriva inerpicandosi su una stretta stradina che consente il passaggio solo di un’auto per volta. Lasciamo la macchina nel paese nuovo, davanti una graziosa chiesetta, e ci avventuriamo nella salita, sorprendendoci per una telecamera posta a sorvegliare l’accesso. Dopo tre-quattrocento metri eccoci arrivati a Lizori (così Meneghetti ha autonomamente ribattezzato il paesello). Passiamo sotto un arco, e ci troviamo davanti una serie di case in pietra con le tegole arancio che si sviluppano in altezza, fin sotto il Castello che domina l’intero borgo. Addentrandoci nei vicoletti lastricati da ciottoli, ci imbattiamo quasi a ogni metro in qualche segno meneghettiano. A ogni angolo c’è una scultura del Professore, (alcune ricordano, in scala, gli stabiles dell’artista americano Alexander Calder) o qualche suo dipinto (che vuole richiamare Joan Miró). Così come tanti particolari delle stesse abitazioni sembrano fatti, o sicuramente ispirati, allo stile meneghettiano: dai portoncini di ingresso in ferro battuto ai tavoli da giardino in ceramica (bianchi, con spruzzi di colore blu, rosso, giallo e nero, alla maniera dell’action painting di Jackson Pollock). All’ingresso di ogni dimora, poi, c’è il nome del proprietario, disegnato dallo stesso Meneghetti. Solo il nome però, niente cognome. Il perché ce lo spiega Marcello, la prima persona che incontriamo per i vicoli. Sembra un sosia di Meneghetti, capelli e barba bianchi, camicia azzurra aperta con catenina in vista. «Il nome è solo tuo, mentre il cognome è della tua famiglia» ci risponde, trattandoci con gentilezza. Racconta la storia del posto, non senza un pizzico

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di malumore: «Quando siamo arrivati qui negli anni Ottanta, era tutto abbandonato. Abbiamo comprato le case a caro prezzo da alcuni americani e abbiamo ristrutturato tutto, a nostre spese. Ora però stanno arrivando i russi». Quello che non dice però è che, come vedremo, i russi sono amici del Professore. Marcello ci accompagna al Castello, che tuttavia è chiuso: almeno quello è ancora di proprietà del comune. E vedendoci interessati alle sculture e ai dipinti disseminati per il borgo, non ci pensa due volte a farsi «piazzista»: «Se vi piacciono, perché non andate alla galleria di Ontoarte di Trevi? Ce ne sono esposte tante, si possono acquistare». «Ontoarte?» facciamo noi. «Onto è tutto ciò che collegato all’essenza. Io ho studiato molto dopo aver finito la scuola, dove non ho mai fatto filosofia. Però bisogna conoscere le origini della propria cultura…» ci congeda quasi rimproverandoci. Ci dirigiamo allora verso un piccolo bar, l’unico posto in cui c’è un po’ di gente. E lì subito percepiamo un clima molto diverso. La cordialità di Marcello lascia il posto al sospetto con cui veniamo osservati dai clienti seduti ai due tavolini all’aperto. Entriamo nel piccolo locale e veniamo investiti da un tripudio di immagini meneghettiane. Svariati ritagli di giornale incorniciati, in cui accanto alla foto a tutta pagina c’è sempre un titolo che elogia il genio del grande uomo. E poi, qui e lì foto sparse di Meneghetti; una in particolare assomiglia a un ritratto inglese da gentiluomo del Settecento, seduto a leggere sotto un albero col cappello. Insomma, più che un bar sembra la camera di un adolescente col mito del Professore. Stiamo per ordinare, quando si presenta Daniela, una donna sulla quarantina dall’accento ciociaro, che comincia a farci un mucchio di domande. Chi siamo, da dove veniamo, se facciamo parte del gruppo (un gruppo di ospiti in arrivo), come abbiamo saputo del borgo, dove lavoriamo, che ci facciamo in Umbria e via dicendo. Daniela, ce lo racconta lei stessa, è il gestore del ristorantino Camesena,1 locale a due passi dal bar che offre piatti preparati secondo i dettami della «cucina viva»2 di Tonino Meneghetti. Il punto di forza del ristorante è sicuramente il terrazzo che dà direttamente sullo strapiombo, un belvedere guastato soltanto dalla strada Orte-Perugia che squarcia in due la vallata. In un crescendo inarrestabile di domande, Daniela arriva a raggiungere il suo vero obiettivo, quello che con ogni probabilità aveva in mente fin dall’inizio: ci chiede l’e-mail e il numero di telefono. Così, solo «per tenerci informati sugli eventi che verranno organizzati», si giustifica con una certa nonchalance. Eludiamo la curiosità della ristoratrice con risposte preparate (e finte), svicoliamo con due chiacchiere su argomenti generici e ci avviamo all’uscita, non senza però ritrovarci con addosso gli occhi dei clienti del bar, che abbassano il tono di voce e cambiano discorso non appena passiamo davanti ai loro tavoli. L’atteggiamento è di chi volutamente ti vuole

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far sentire un corpo estraneo, un indesiderato. Riscendiamo, prendiamo la macchina e finalmente facciamo rotta verso casa. Con addosso una strana sensazione che ci accompagnerà per tutto il viaggio, suscitata dall’accoppiata di velato proselitismo e silente ostilità dei meneghettiani. 1 Al Camesena nel 2005 potevi incontrare il popolare conduttore televisivo Marco Columbro, che vi aveva organizzato un evento gastronomico. 2 In cosa consiste ce lo spiega lo stesso Meneghetti, in uno dei vari siti ontopsicologi (lizori.myblog.it): «Nella prima fase decidiamo di mangiare meglio per vivere meglio, nella seconda fase facciamo del tutto per accaparrarci gli alimenti di qualità, nella terza fase impariamo qualche tecnica e segreto per non rovinare il nostro tesoro. Ma a questo punto arriva il bello… arriva la cucina viva, abbiamo tutto quello che ci serve, dobbiamo solo liberare il nostro istinto metterci in ascolto di noi stessi e iniziare a cucinare, non un cibo qualunque ma ciò che il nostro organismo ha bisogno. L’arte del mangiare è arte di vivere, osservando come una persona mangia si possono capire molte cose della sua personalità, chi decide di mangiare bene, sta bene di conseguenza: nelle relazioni, nelle decisioni, nel business, nell’edonismo… Una cucina prodotta con questi criteri introduce a uno stato di grazia, funzionalità e creatività. Io non riesco a immaginare un ricettario di cucina viva e se avete capito queste righe convenite con me, altrimenti sarebbe un controsenso. Credo invece che ognuno può interpretare in maniera soggettiva e realizzare il proprio ricettario. La cucina viva è la cucina di ognuno di noi». 4. I territori d’Oltremare L’Ontopsicologia non è solo questione italiana. Nel corso degli anni Meneghetti è stato bravo a rendere la «formula onto» un made in Italy da esportazione. Se nel nostro Paese gli adepti sono cinquecento, almeno altrettanti risultano sparsi per il mondo, soprattutto dove il pensiero meneghettiano può contare su alcuni centri d’amplificazione non secondari, come in Russia e in Brasile.

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Nella patria di Putin, Meneghetti si fregia del riconoscimento ufficiale dell’Accademia postsovietica. È dal 2006 che all’Ontopsicologia è dedicata una cattedra all’Università statale di San Pietroburgo. Traguardo a lungo atteso dal Professore, che per raggiungerlo ha fatto leva sulla buona volontà dei suoi seguaci russi: «Capitani d’azienda, militari, il figlio di un importante banchiere, e molta gente comune che spera di far carriera nel selvaggio mondo del capitalismo ex sovietico applicando i dettami delle sue dottrine leaderistiche».1 La cattedra a San Pietroburgo è fondamentale per Meneghetti. Per diversi motivi. Certamente perché in questo modo può presentarsi a pieno titolo come accademico, anche in quel circuito scientifico che, come vedremo a breve, lo ha sempre osteggiato. Poi perché può contare su un altro grosso ripetitore della sua dottrina e su una platea potenziale di discepoli molto vasta. Infine, può adesso garantire una laurea con pieno valore legale a quei seguaci che intendono graduarsi in Ontopsicologia. Non è un caso che dal 2006 in poi, molti «onti» si siano laureati nella vecchia Leningrado: Andrea Pezzi, ovviamente, ma anche l’ex dirigente Rai Lorena Fiorini, mentre molti altri risultano iscritti. Ma chi preferisce al clima freddo e rigido della grande madre Russia il caldo umido sudamericano può essere contento. Meneghetti ha un certo seguito anche in Brasile, dove può contare su un avamposto delle sue teorie molto efficiente. Si tratta del Centro internazionale di arte e cultura di Recanto Maestro. Nel bel mezzo dello stato Rio Grande do Sul, la provincia più a sud del Brasile, al confine con l’Uruguay e l’Argentina, sorge un complesso residenziale dove si vive seguendo i principi e i ritmi ontopsicologi. E per gli ospiti niente paura: c’è l’Hotel Capo Zorial, con annesso ristorante, centro estetico e sala conferenze. Un progetto che Meneghetti ha portato avanti per circa venti anni, potendo contare sull’aiuto di uomini d’affari e imprenditori brasiliani. E che a fine 2007 riscuote un inatteso successo: il distratto governo brasiliano, per mano del ministro dell’Educazione Fernando Haddad, concede l’autorizzazione statale alla Faculdade Antonio Meneghetti. L’ateneo sorge all’interno del complesso di Recanto Maestro e offre agli studenti la possibilità di laurearsi in Amministrazione aziendale. Ovviamente studiando dai testi del «fondatore». Così, dopo San Pietroburgo, Meneghetti può ora contare su un altro riconoscimento accademico internazionale. Tuttavia, anche dall’altra parte dell’oceano e dell’emisfero, il nostro s’è fatto riconoscere. Nel 2002 il telegiornale di Rede Globo, la più importante tv brasiliana, gli dedica un servizio per mettere in guardia i propri connazionali dal rischio Ontopsicologia. Sullo schermo compare una donna col volto oscurato che racconta la sua storia: madre di tre figli, è stata lasciata su due piedi quando gli ontopsicologi sono riusciti a convincere il marito ad

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abbandonare lavoro e famiglia. «Gli dicevano: Tu sei un leader o un mediocre? Mediocre è la persona che ha amore, figli, lavoro. Una persona convenzionale.» E ancora: «Nessuna emozione. Questo è l’insegnamento di Meneghetti. Se sei emotivo, sei un perdente». 1 Peter Gomez, Il signore dell’Ontopsicologia, «L’espresso», 29 agosto 2008. 5. La sconfessione dell’Ordine Le denunce dei familiari degli adepti, i racconti dei fuoriusciti, le segnalazioni dei tanti psicologi cui è toccato assistere gli ex ontopsicologizzati non potevano passare inosservati. O quanto meno: non per oltre trent’anni. Non sorprende quindi che sia l’Ordine degli psicologi laziale che quello nazionale portino avanti da anni una dura battaglia contro l’Ontopsicologia. In via ufficiale da almeno dieci. È infatti del settembre 2000 la delibera del Consiglio nazionale degli psicologi che di fatto nega il diritto di cittadinanza all’Ontopsicologia, rifiutando alla creatura dell’ex frate ogni patente di legittimità scientifica. Tutto nasce dalla richiesta dell’Associazione internazionale di Ontopsicologia di vedersi riconosciuta la formazione professionale degli psicoterapeuti di scuola meneghettiana. Una buona occasione, questa, per mettere la parola fine alla disputa sulla scientificità che va avanti da una vita. Il responso dell’Ordine è tranchant: «Per quanto si evince dalla lettura delle restanti parti degli scritti del dottor Tonino Meneghetti e di quelli contenuti nella rivista “Ontopsicologia”, si afferma che la letteratura teorico-pratica prodotta in seno al movimento ontopsicologico non può considerarsi in alcun modo espressione di un pensiero psicologico o psicoterapeutico, almeno nel senso che correntemente si assume per tali denominazioni nella nostra comunità professionale». Quindi, conclude il Consiglio, «la formazione professionale di psicoterapeuta promossa e attuata dall’Aio è da ritenere non qualificata». Insomma, una bocciatura in piena regola. Accolta con evidente sollievo anche dall’Ordine laziale: a novembre, non più tardi di due mesi e alla prima riunione disponibile, il Consiglio regionale recepisce tale e quale l’indicazione arrivata dall’alto. Anche perché gli

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psicologi laziali – ci spiega la presidente Marialori Zaccaria – avevano già da prima un conto aperto con Meneghetti. Il guru era stato radiato dall’albo a un mese dal recepimento della delibera nazionale, nell’ottobre del 2000. Ma con estrema furbizia il Professore era riuscito a invalidare il provvedimento, cancellandosi un mese prima della radiazione, a settembre. In modo tale da poter fare ricorso in tribunale e vincerlo a mani basse, perché ovviamente un Ordine non può espellere chi non è iscritto. Formalmente quindi Meneghetti può dire di non essere mai stato radiato, ma di essersi cancellato per sua decisione. Sostanzialmente però cambia poco: non essendo più iscritto, non può esercitare, altrimenti rischia di essere indagato per abuso di professione. Da ricordare un particolare gustoso di tutta la vicenda, di quelli che all’Ordine ancora se la ridono: Meneghetti, prima della radiazione, si presenta davanti alla commissione deontologica che lo deve giudicare con dei documenti in cirillico, documenti necessari per attestare i suoi titoli. Inaspettatamente una dei commissari, che sa leggere il russo, in un attimo lo sbugiarda: quelle carte sono solamente certificati di partecipazione a un convegno. La vittoria contro Meneghetti non fa però abbassare la guardia agli psicologi laziali, che comunque spesso si trovano a dover condannare i comportamenti di quei propri iscritti che tuttora praticano tranquillamente l’Ontopsicologia (e non sono pochi). La delibera del 2000, infatti, sebbene privi di scientificità l’Ontopsicologia da parte degli organismi di categoria, nati col preciso obiettivo di tutelare i cittadini, non è una peculiarità italiana. Meneghetti infatti non può sostenere di essere perseguitato solo dai suoi connazionali: anche in Brasile, Paese dove le sue teorie hanno preso piede, gli Ordini si sono attivat non può metterla al bando da un punto di vista legale. Ma all’Ordine laziale sono lo stesso intransigenti, come dimostra il caso della dottoressa ontopsicologa Matilde Pastura, che si è beccata una «censura» ufficiale dal Consiglio regionale nell’ottobre del 2009. La presa di distanza dall’Ontopsicologia da parte degli organismi di categoria, nati col preciso obiettivo di tutelare i cittadini, non è una peculiarità italiana. Meneghetti infatti non può sostenere di essere perseguitato solo dai suoi connazionali: anche in Brasile, Paese dove le sue teorie hanno preso piede, gli Ordini si sono attivati per mettere in guardia iscritti e clienti dai dettami «ontici». Il più attivo è sicuramente l’Ordine regionale di San Paolo, che sul suo giornale lo condanna senza mezzi termini: «La pratica ontopsicologica non è una tecnica scientifica riconosciuta dalla psicologia. Quindi il suo uso infrange l’etica professionale, e deve essere denunciato al Consiglio regionale degli psicologi di San Paolo». Ancora più chiara, se si vuole, l’ex presidentessa Ana Bock: «Essere seguiti da uno psicologo che lavora con

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l’Ontopiscologia? Non può accadere. Perché la scienza non si affida a una conoscenza magica». 6. La grande occasione Il rifiuto di includere la sua Ontopsicologia a pieno titolo fra le scuole terapeutiche e di pensiero della psicologia moderna per Meneghetti è una ferita che non si è mai rimarginata. Del resto, come può uno che si considera al tempo stesso sommo scienziato e grande artista, che sostiene di essere andato oltre Freud, Adler e Jung, che assicura di aver dato una risposta agli interrogativi posti dall’esistenzialismo francese, accettare l’espulsione dalla comunità scientifica? Non è solo l’ostracismo degli ordini professionali a crucciarlo. Meneghetti soffre anche per il suo isolamento dal mondo della cultura «ufficiale». Un intellettuale del suo calibro non accetta di contare poco o nulla nel dibattito culturale, non può rimanere lontano dalle discussioni su dove va l’uomo e la società nel nuovo millennio, e soprattutto non può non avere un universo politico di riferimento sul quale fare pesare la sua visione. Ma che si può fare – è il ragionamento di Meneghetti – se i salotti culturali italiani sono monopolizzati dalla sinistra? Una sinistra che, secondo lui, ha tradito se stessa accettando di «mettersi a libro paga degli americani e del loro anelito colonialista». Insomma, il Professore si sente escluso dall’intellighenzia italiana. Una prospettiva davvero frustrante. Ecco perché nel 2005 a Meneghetti non par vero quello che succede a destra, dove Forza Italia è in pieno fermento. Il governo di Silvio Berlusconi è in caduta libera, le elezioni regionali sono uno schiaffo di quelli che non si dimenticano: 12 a 2 per il centrosinistra. Come se non bastasse, per l’anno successivo sono in programma le elezioni politiche, con lo sfidante Romano Prodi che vola nei sondaggi. Bisogna fare qualcosa. Magari cominciando dal basso: rompere l’egemonia culturale che la sinistra ha nel Paese. È questa la formula magica su cui punta il Cavaliere per riguadagnare simpatia e voti, tanto che la ripeterà a più riprese in tv e nei comizi nella lunga campagna elettorale: «Gramsci disse che per conquistare l’Italia bisognava

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passare per la conquista delle casematte del potere. Lo hanno fatto. Ora loro [la sinistra, NdA] controllano i patronati, la cultura, il cinema, il teatro, le grandi banche». Il progetto è ambizioso, ma l’uomo, si sa, non è di quelli che si scoraggiano di fronte alle difficoltà. Berlusconi ne affida la realizzazione al suo braccio destro, Marcello Dell’Utri, che si mette subito all’opera. Prima di tutto, decide di investire sulla diffusione territoriale dei suoi Circoli del Buongoverno, poi mette in cantiere la creazione di una Università del pensiero liberale. Per questi due canali dovrà passare la futura classe dirigente del centrodestra. Manca ancora una cosa, però. Una pattuglia di quelli che in gergo politico si chiamano «intellettuali di riferimento». È qui che il sogno di Meneghetti si avvera. Del resto, come abbiamo visto, il nocciolo della sua dottrina si attaglia perfettamente alla rivoluzione culturale berlusconiana: individualismo spinto, un certo fastidio per le regole sociali che ostacolano l’azione del singolo, il culto assoluto del leader, un amore smodato per San Pietroburgo (città natale di Vladimir Putin) e tutto il mondo russo. Fatale quindi l’incontro: Dell’Utri e Meneghetti gettano le basi per una stretta collaborazione. Chi si esporrà in prima persona però non sarà Meneghetti, troppo discusso e chiacchierato (e con un passato giudiziario travagliato) ma un terzo uomo. Stiamo parlando di Andrea Pezzi. 7. Il mondo Ovo Pezzi è uno di quei personaggi televisivi a cui per anni è stata affibbiata l’etichetta del giovane che sa parlare ai giovani di roba per giovani. Classe 1973, professione vj, ha riscosso presto un grande successo, diventando a soli venticinque anni il volto italiano di Mtv. In tanti ancora ricordano la sua trasmissione Kitchen, in cui intervistava un personaggio famoso, filosofeggiando sui massimi sistemi, mentre quest’ultimo preparava ai fornelli la propria ricetta preferita. Dopo Mtv, la sua carriera non s’è fermata, ha condotto altri programmi sia su Mediaset che sulla Rai, sempre con un’unica costante: il target giovanile. Riuscendo a raggiungere un certo livello di credibilità e ammirazione fra i trentenni, grazie anche alla sua posa da intellettuale anticonformista e alle sue rivendicazioni da outsider.

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Ma Andrea Pezzi è soprattutto un convinto seguace dell’Ontopsicologia, sicuramente la più famosa celebrity nella scuderia meneghettiana. E lo è da tanto, nonostante la sua giovane età. Da quando nel 1996, ventitreenne, si accosta per la prima volta agli insegnamenti del guru abruzzese. Ce lo racconta lui stesso, nell’ultimo libro autobiografico.1 Andrea viene indirizzato da un amico allo studio di Loretta Lorenzini, ex suora e moglie di Meneghetti, un personaggio che abbiamo già incontrato nel report del Viminale e che fa psicoterapia seguendo i dettami del marito. Le prime sedute sono interessanti, Andrea è affascinato dall’interpretazione dei sogni come messaggi che la nostra coscienza ci manda durante il sonno. Ma l’entusiasmo pian piano scema, perché «le analisi dei sogni si fanno sempre più fumose e incoerenti rispetto ai primi incontri».2 E poi Andrea ormai è incuriosito dal fondatore dell’Ontopsicologia. Vuole sapere tutto sia di quell’uomo (di cui la moglie parla «con una strana nota d’astio, un rancore nel fondo delle sue parole»)3 sia di quel «nuovo metodo che la donna maneggiava in modo decisamente maldestro e contraddittorio». L’astio di cui parla Pezzi si spiega facilmente: siamo nel 1996, anno in cui Loretta Lorenzini si separa dal marito. Una separazione che è anche professionale, visto che la donna fonda a Terni un’associazione concorrente all’Aio, Il Cenacolo. Pezzi però ormai ha deciso di mollare la fotocopia e passare all’originale. «Più leggevo della operosità internazionale e dell’incredibile percorso accademico di Meneghetti, più cresceva in me il desiderio di un incontro diretto. Le poche foto di lui che circolavano in quel periodo ritraevano un uomo di sessant’anni dall’aspetto ieratico, bello e con occhi vivi e profondi come solo nell’iconografia filosofica dell’antichità classica è possibile ritrovare.» Il contatto non tarda ad arrivare: nell’aprile del 1996 Pezzi si fa invitare a una conferenza del Professore a Pissignano. Lì però nota subito qualcosa di strano. Entrai nella sala gremita e mi guardai intorno. Fui colpito dalle espressioni che si potevano leggere sui volti di quelle persone: concentrazione, silenzio ed estatica attesa del «Professore». Da quella gente si levava un’onda di ammirazione famelica; niente amore né serenità, ma l’emotività contratta, gelosa e possessiva che già avevo potuto percepire nell’atteggiamento della moglie. Non ho mai amato granché i raduni né i gruppi numerosi che si accalcano osannanti attorno a un leader. Ho sempre visto qualcosa di distorto nell’atteggiamento di chi vive ai margini del carisma altrui. Cos’altro è il carisma se non la condizione di quelle persone che raggiungono uno stato eccezionale di conoscenza e autoconsapevolezza? […] Pensavo a tutte queste cose, mentre aspettavo che Antonio Meneghetti facesse il suo ingresso nella

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sala. Possibile che le persone lì presenti non si accorgessero di essere semplicemente dipendenti da qualcosa che a loro mancava?4 Pezzi quindi si accorge subito del clima che si respira a Lizori, una sensazione a pelle che le esperienze degli anni successivi confermano invece che smentire. Ovviamente, secondo lui, di tutto questo Meneghetti non ha colpa: Ora so che la maggior parte di quelle persone erano pazienti cui l’Ontopsicologia aveva in qualche modo salvato la vita. Del resto ogni grande psicoterapeuta per vocazione cos’altro fa se non entrare nella fogna della criminalità approvata dal sistema sociale, per ricercare la funzionalità dell’individuo? E lui è quello che paga le conseguenze del suo amore e del suo coraggio. Sono sguardi apparentemente devoti, odio vestito d’amore. La maggior parte delle donne e degli uomini in quella sala si era limitata a godere degli effetti terapeutici delle sue scoperte, adagiandosi sulla comoda idealizzazione di un guru o di un sacerdote piuttosto che studiare seriamente l’Ontopsicologia e assumersi le proprie responsabilità di crescita.5 La fascinazione di Meneghetti è quindi tale da far giustificare a Pezzi quanto visto a Pissignano. Da quel momento infatti Andrea non lascia più la «scuola» e anzi diventa un ontopsicologo modello. Leggendo il suo libro, infatti, si ritrovano concetti ormai familiari come l’In sé ontico e il Monitor di deflessione; t’imbatti nella consueta antipatia per Freud;6 riscopri il culto dell’Io, la sfrenata corsa all’egoismo vitale, e l’elogio del leader; tutto condito da una celata sfiducia nelle donne7 e, per finire, dalla condanna della madre.8 Tornando al 2005 e a Dell’Utri e Meneghetti, lo sposalizio fra le tesi dell’ex frate e gli obiettivi politici dell’uomo di Berlusconi cominciano subito a prendere forma. Starring, ovviamente, Andrea Pezzi. Al vj viene subito affidata la conduzione di una trasmissione settimanale su RaiDue, grazie alla sponsorizzazione di Deborah Bergamini, ex assistente personale del Cavaliere nonché direttore del Marketing della Rai9. Il Tornasole va in onda in seconda serata, in cerca di un pubblico giovane, e tenta di coniugare argomenti impegnativi con un po’ di buona musica italiana. Ma basta dare un’occhiata ai titoli delle puntate per trovarci lo zampino dell’accoppiata Meneghetti-Dell’Utri: «Leadership: Saper comandare o saper servire?», «Scuola: fabbrica di cretini?», «Famiglia: un’ancora o una zavorra?», «Italiani: liberati o colonizzati?», «Mamma Natale o mamma fa male?», «Donne: casalinghe disperate o lavoratrici indurite?» e, dulcis in fundo, «Che lavoro fanno gli intellettuali? Lobby o faro?». In quest’ultima poi, il 12 aprile 2006, Pezzi

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compie il grande passo e invita Meneghetti in persona. Prima che il Professore entri in studio, parte una clip dal sapore agiografico, in cui la rettrice dell’Università di San Pietroburgo, Ludmilla Verbitskaja, rende omaggio al «collega»: «È un incredibile artista, eccellente compositore musicale, filosofo eccezionale, un uomo che ha competenze profonde in economia e politica. Ma il suo talento più grande è nella psicologia: lui è il fondatore dell’Ontopsicologia». Dopo le parole mirabolanti della rettrice, il guru abruzzese entra in studio con i suoi capelli bianchi raccolti in un codino, l’immancabile barba e l’aria da predicatore. Si siede e comincia a dispensare le sue perle, con Pezzi che fra una domanda e l’altra lo guarda adorante, citando i suoi titoli e i suoi libri e decantando l’efficacia dell’Ontopsicologia. Ecco qualche esempio: Meneghetti prima di tutto ridicolizza l’esistenzialismo francese («Sartre era brutto e basso, dalla coscienza rozza e infantile, se avesse carpito l’amore di Juliette avrebbe prodotto un’altra filosofia»), e attacca Freud («Dipendeva mentalmente dalla madre e dalla sorella»). Poi passa a fare un po’ di autopromozione («Ho curato centinaia di persone senza medicine») e diffondere il suo verbo («La società non ha interesse a favorire l’individualità, ognuno deve trovare il suo In sé ontico con una ricerca lunga e faticosa»). Senza dimenticare però un omaggio al berlusconismo («Bisogna recuperare un pensiero forte, solo così noi italiani riscopriremo la nostra identità»). In totale ventitré minuti di spot sulla seconda rete italiana. Tanto da far indignare il critico televisivo del «Corriere della Sera», Aldo Grasso, che firma una stroncatura dal titolo inequivocabile: E bravo Pezzi. Ci mancava l’intervista al tuo guru.10 Se la critica lo affonda, il pubblico non lo salva. Il Tornasole non ha grossa fortuna in termine di ascolti e termina lì la sua avventura. Andrea però non molla, né lo fa il suo maestro spirituale. Così riparte subito alla carica e, verso la fine del 2006, propone al côté berlusconiano un progetto ancora più grande: creare Ovopedia, la prima enciclopedia in videoclip del mondo. Un progetto colossale, migliaia e migliaia di voci, da mandare in onda sul satellite, sul digitale terrestre (quando ci sarà) e su internet. Un modo per adeguare la vecchia e polverosa Treccani ai nuovi media, tv e web, e al consumo giovanile. Dietro l’intuizione c’è ancora una volta l’imbeccata di Meneghetti, come Pezzi racconta nel suo libro.11 La cosa piace subito a Dell’Utri, che intuisce tutte le potenzialità del progetto, soprattutto la possibilità di formare direttamente giovani e non solo con un videoclip lungo tre minuti. La Fininvest si muove subito. Attraverso la sua controllata lussemburghese Trefinance acquista prima l’8 per cento e poi il 47 di Ovo srl, la cui restante parte (il 53 per cento) resta nelle mani di Pezzi tramite la holding Nova Fronda. A comandare sono entrambi: secondo i patti stretti fra soci, per le

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decisioni strategiche i due azionisti devono essere d’accordo. Così, all’inizio del 2007, parte il progetto, che comincerà a dare i suoi frutti (le prime voci dell’enciclopedia) l’anno successivo. E qui che il sogno dellutriano di riscrivere la storia12 si concretizza per la prima volta. Il giornalista dell’«Espresso», Peter Gomez, riesce a visionare alcuni videoclip, e quando guarda le bio di Hitler e Stalin gli si gela il sangue nelle vene. Nella clip dedicata «all’ascesa del nazismo, accanto a un montaggio incalzante tipico dei video musicali, accompagnato da una colonna sonora decisamente furba e coivolgente, la storia della presa del potere da parte delle croci uncinate è presentata senza indugiare in alcun tipo di giudizio storico, etico o morale. Hitler diventa così solo un leader dal fortissimo “carisma personale e dalle straordinarie virtù di oratore”, mentre la questione del Mein Kampf, ovvero della bibbia del nazismo, viene liquidata senza far cenno al razzismo e limitandosi a dire che nella sua opera il Führer “afferma che l’attuale declino della Germania dipende da un complotto dei comunisti e degli ebrei volto a seminare discordia e indebolire l’economia del Paese”.»13 Non va meglio la voce che parla di Iosif Stalin. «Anche in questo caso viene messa in evidenza “la forza d’animo” del dittatore comunista e dopo un passaggio sui milioni di morti da lui causati “per mantenere l’ordine”, la clip si conclude con queste parole: “Figura controversa del Novecento, l’uomo d’acciaio lascia dietro di sé un impero”.»14 Dopo le prime clip però, il progetto comincia ad annaspare. Siamo a metà del 2008 e nella società di Pezzi non girano tanti soldi, nonostante la Fininvest. Ce lo racconta una persona che per alcuni mesi ci ha lavorato, ricoprendo anche posizioni di vertice nella schiera di creativi al servizio di Ovo. «Faccio il primo mese di prova, dopodiché Pezzi e il suo braccio destro Andrea Andreini mi fanno un contratto a progetto, con uno stipendio molto basso rispetto al lavoro che mi chiedono. Tuttavia la cosa non mi stupisce, in Italia purtroppo funziona così. Il problema arriva quando mi chiedono di portar dentro un po’ di persone. Io mi attivo e ne faccio venire una marea. Non l’avessi mai fatto: diverse persone non sono state pagate, alcune pagate malissimo, due ragazzi hanno addirittura lasciato il lavoro precedente per poi non essere assunti. Riesco a resistere solo quattro mesi, poi mollo tutto.» Anche perché Pezzi ai suoi dipendenti propone anche altro. «Spesso Pezzi ci chiedeva di partecipare a delle conferenze a pagamento nel week end. Dovevamo andare a Roma a seguire dei corsi per diventare leader. Non ci sono mai stato, ma conosco persone che ci sono cascate.» Si tratta dei cosiddetti residence leaderistici, corsi che gli ontopsicologi tengono per chi vuole avere successo nel mondo degli affari (con un prezzo che va dai centocinquanta ai duemilacinquecento euro), e che sono anche una buona occasione per fare proselitismo.

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Le difficoltà finanziarie sono confermate anche da un altro giovane professionista romano che nel 2008 lavora per Ovo, anche se da esterno: «Alla mia piccola società di audiovisivi quelli di Ovo commissionano una clip di prova, ovviamente gratis, facendoci però capire che se fosse andata bene avremmo avuto tanto lavoro e tanti soldi per gli anni successivi. Lavoriamo duro, consegniamo la clip ma la risposta è negativa. Dopo un po’ di tempo però ci accorgiamo che s’erano comportati allo stesso modo con mezza Roma». E di fatto il progetto fallisce. Il 2009 è l’anno nero per Pezzi: il 12 febbraio Ovo viene posta in liquidazione dall’assemblea, che prende atto della perdita di quasi cinque milioni nel 2008, da affiancare a quella di due milioni dell’anno precedente. Un rosso di sette milioni in due anni che spinge la Fininvest ad abbandonare il progetto. Del resto, a Berlusconi e Dell’Utri ormai interessa molto meno cambiare la storia con Ovopedia. Perché, dopo il ritorno della destra al governo, buttare soldi in un’azienda che perde quando si può arrivare allo stesso obiettivo dagli uffici del ministero dell’Istruzione? Andrea Pezzi però non demorde. E, coerente col detto «morto un Papa se ne fa un altro», invece di piangere per l’abbandono di Berlusconi comincia a tessere rapporti con l’altra parte: il Partito democratico. L’anno politico-televisivo 2008-2009 è quello della sfida fra Veltroni e D’Alema come editori. Il primo, da segretario del Pd, lancia la tv satellitare YouDem, il secondo, da presidente della Fondazione Red, risponde con l’omonimo canale. Ebbene, Pezzi che fa? Si schiera con i dalemiani di Red. Prima disegna e regala il logo del canale, poi promette di entrare nel team della televisione allora diretta da Claudio Caprara. Una promessa che rimarrà tale ma solo per colpa dell’emittente: la tv doveva aprire uno studio a Milano, dove Pezzi vive e lavora, ma poi non se ne fa più niente. Sta di fatto però, che ancora oggi del legame Pezzi-Onto-RedTv si trovano tracce. Nella libreria del Caffè Letterario – locale radical chic romano da dove la tv di D’Alema ha trasmesso eventi importanti come le presidenziali americane del 2008 e le primarie democratiche del 2009 – c’è addirittura uno scaffale tutto dedicato ai libri del Professore. Cosa abbastanza insolita: le opere di Meneghetti non godono di una distribuzione così capillare. Nonostante la non esaltante avventura con RedTv, l’ex vj rimane volentieri nel giro democratico, anche stavolta cambiando cavallo e rivolgendosi ai veltroniani: nel giugno 2010 è presente al convegno organizzato da Paolo Gentiloni sulla banda larga, dove lo si vede parlottare fitto con più di un dirigente del partito di Bersani. Stringe una buona amicizia con Luigi Coldagelli, uno degli addetti stampa del Pd, con il quale lo si vede spesso pranzare a piazza San Lorenzo in Lucina, a due passi da Montecitorio. Anche dietro questa virata a sinistra c’è Meneghetti? Non è dato saperlo. Certo è che

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chi conosce bene il mondo meneghettiano ama ripetere: «Pezzi sta all’Ontopsicologia come Tom Cruise sta a Scientology». Nel frattempo Pezzi un risultato è riuscito a portarlo a casa. Il progetto Ovo infatti è ripartito, seppur in tono minore e molto ridimensionato. A metà dicembre è andato online il sito,15 una specie di vetrina che contiene una parte delle clip tanto contestate. Memore delle polemiche scatenate dall’articolo di Gomez, stavolta Pezzi s’è fatto furbo: le voci su Hitler e Stalin sono state depurate dall’osanna leaderistico e validate dalla Treccani. Un atto obbligato, visto che il futuro di Ovo è appeso alla possibilità che qualche finanziatore s’innamori del progetto. 1 Andrea Pezzi, Fuori programma, Bompiani, Milano 2009. 2Ibidem. 3Ibidem. 4Ibidem. 5Ibidem. 6 «La mia antipatia per Freud è soprattutto dovuta al massiccio apporto di droghe e farmaci cui faceva ricorso il suo modello terapeutico. Con i suoi pazienti, Freud si comportava come un domatore munito di frusta, sgabello e soprattutto sedativi per annichilire chi aveva di fronte. A distanza di pochi decenni, peraltro, quei farmaci sarebbero diventati il perno di un mercato e di un’industria colossali, e tutto questo a discapito, credo, della sanità mentale delle persone» (Ibidem). 7 Per capire la considerazione che Pezzi ha per le donne, bisogna leggere una sua intervista concessa nel 2007 al sito www.innovatorieuropei.com, un think

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tank giovanile vicino al Partito democratico. Alla domanda «Condividi il fatto che le donne e i giovani siano i veri innovatori delle nostre società?», Pezzi risponde: «Credo che essere pionieri oggi non sia più un atto eroico ma una necessità. I giovani sono sempre interessanti nella misura in cui la loro coscienza è ancora flessibile e quindi potenzialmente sono un ottimo serbatoio di novità e crescita per tutta la società. Le donne invece, fatte alcune eccezioni, sono incapaci di prendersi la responsabilità della loro vita. Dovrebbero smettere di dare il primato ai valori biologici della coppia e della maternità per diventare davvero un faro per la società del futuro». 8 «Il rapporto madre/figlio finisce spesso per diventare il luogo in cui gli adulti trovano compensazione alle proprie frustrazioni personali. Amano il bambino per come serve a loro, come una cosa loro, non per ciò che quella creatura è. Sono nato come un estraneo a me stesso, ero occupato in modo totale, radicale da mia madre. Respiravo la sua necessità in un sottocodice: “Io ti amo se tu sei come io ti voglio, io ti voglio se tu sei come piace a me”. Come tutti, sono stato costruito sulla base di un ricatto che ho deciso di subire: “Io sono buono, sono strano, sono bello, sono come mamma mi vuole e questo è sufficiente!”. È così che inizia l’esodo da se stessi, dalle proprie responsabilità; in conseguenza a questo si finisce col diventare dipendenti dagli accreditamenti che ci arrivano dall’esterno» (Ibidem). 9 Lo ricorda, mai smentita, la giornalista della «Stampa», Stefania Miretti, in un ritratto della Bergamini del novembre 2007: «Si prende a cuore il vj Andrea Pezzi, uno di quei ragazzi che fanno tanta tenerezza alle donne, e gli affida un programma, un flop costosissimo del quale, almeno sul piano dell’immagine, le toccherà poi rispondere, malignità comprese». 10 Sul «Magazine del Corriere», il 4 maggio 2006, Grasso scrive: «Tempo fa, nel corso della trasmissione Il Tornasole di Andrea Pezzi, è andata in onda una delle più strampalate, balzane, sconclusionate interviste che la Rai abbia mai mandato in onda. Al centro della scena, davanti a un estatico intervistatore, c’era un certo Antonio Meneghetti, l’accademico professor Meneghetti, da molti definito il guru di Pezzi. Accidenti, non è cosa di tutti i giorni sentire un ontopsicologo, specie se la sua tesi più forte è che alcuni grandi pensatori del passato, da Nietzsche a Freud, hanno detto sciocchezze solo perché erano uomini infelici (uno aveva problemi irrisolti con l’amante,

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l’altro con la mamma e così via)». Segue una biografia di Meneghetti, prima del caustico finale: «Ecco, in Rai ci mancavano solo i guru». 11 Nel capitolo «La nascita di Ovo», Pezzi descrive come Meneghetti gli diede l’idea una sera a cena: «Si parlava di lavoro, e d’un tratto mi chiese cosa ne pensassi della televisione italiana. Manco a dirlo, inizio a vomitare tutto il mio disappunto. Lui sorride, mangia tranquillo e mi lascia parlare per venti minuti buoni. Dopodiché mi dice: “Perché non apri una tua televisione e fai l’editore allora, così finalmente fai qualcosa che ti piace e magari provi a migliorare anche la tv del tuo Paese?”». 12 «I libri di storia, ancora oggi condizionati dalla retorica della resistenza, saranno revisionati, se dovessimo vincere le elezioni. Questo è un tema del quale ci occuperemo con particolare attenzione» confida il senatore siciliano nell’aprile 2008. 13 Peter Gomez, Silvio riscrive la Storia, «L’espresso», 29 agosto 2008. 14]Ibidem. 15 www.ovo.com. 8. La Sapienza di Meneghetti L’atrio dell’edificio che ospita le aule di Scienze della comunicazione è pieno di ragazzi che si godono il primo sole primaverile. C’è chi sta spaparanzato

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sugli scalini che portano all’ingresso e chi invece con un pallone di fortuna, fatto di fogli di giornale arrotolati, tira due calci in compagnia. Siamo nel marzo 2008, a Roma, e dopo la sessione invernale di esami, alla Sapienza cominciano i corsi del secondo semestre. In un angolo, a fare caciara c’è un gruppo di ragazzi del corso di laurea in Arti e scienze dello spettacolo, o meglio, come goliardicamente si chiamano fra loro, di «dassisti», dall’acronimo del dipartimento dove studiano.1 Si avvicina una ragazza, carina e gentile, che lascia un volantino. È la descrizione di un nuovo corso sul cinema: «La Cinelogia, cinema e inconscio. Antonio Meneghetti». Cosa abbastanza strana, visto che di solito il posto deputato alla presentazione di nuove discipline è la bacheca del dipartimento oppure il sito internet della facoltà. Sotto l’intestazione, poche sparute notizie sulla data d’inizio delle lezioni, sulle aule e sui temi che saranno trattati. Un numero di telefono cellulare e una mail abbastanza anonima ([email protected]) per chi volesse qualche informazione in più. Ben evidenziata in stampatello la dicitura «IL CORSO VALE 4 CFU». Quanto basta per scatenare l’interesse dei ragazzi. Un laboratorio normale (così si chiamano i corsi «pratici») ti regala in genere non più di due crediti formativi, invece questo il doppio. La ragazza dei volantini nota lo stupore dei presenti e, prima di andar via, chiede a una dassista: «Puoi pubblicizzare questo corso sul vostro foro? Grazie mille». Il foro non è nient’altro che un forum su internet dove tutti gli iscritti al Dass si trovano per scambiarsi dritte sugli esami, consigli su quali corsi seguire, vendere libri usati e così via. La ragazza accetta, e nel pomeriggio ricopia su internet il contenuto del volantino. Da quel momento però si scatena un putiferio. Uno studente, incuriosito da tanta grazia in tema di crediti, «posta» i primi particolari inquietanti su Meneghetti, la sua scienza e la Cinelogia che si trovano sul sito critico www.onto.provocation.net.2 Verità scomode, come le inchieste di «Paese Sera» e le vicende giudiziarie, che non a caso i seguaci del guru cercano di nascondere con una singolare strategia: hanno aperto decine di siti e blog a nome dell’Ontopsicologia e del suo capo carismatico, in modo da confondere i motori di ricerca e il navigatore che cerca notizie sul conto del gruppo. Una specie di mimetismo virtuale. Che però non riesce a depistare i ragazzi, che grazie al sito capiscono in cosa si stanno imbattendo. Vai a vedere, e la Cinelogia non è altro che una delle applicazioni del metodo ontopsicologico, in questo caso riferito al cinema. Sgrossata dai paroloni e dall’ostico lessico meneghettiano,3 questa disciplina si presenta come uno dei tanti modi in cui gli ontopsicologi si dicono capaci di individuare e stimolare l’In sé ontico di una persona. Il meccanismo è questo: un ontoperatore introduce brevemente il film che si sta per vedere; parte la proiezione e il pubblico assiste in silenzio; alla fine ognuno commenta a caldo il «suo» film, quali scene lo hanno

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emozionato o turbato; a questo punto interviene l’ontopsicologo che spiega il perché di quelle emozioni nonché i meccanismi dell’inconscio e i condizionamenti sociali che sono alla radice, dando una sorta di interpretazione del film e indicando la via affinché ognuno possa prendere coscienza del proprio mondo interiore. Le serate di Cinelogia sono un classico da non perdere per i seguaci di Meneghetti (al pari solo di quelle dove si studia la Melolistica, disciplina sorella della Cinelogia, in cui si balla e si canta).4 Però il fatto che in un’università statale venga insegnata la dottrina di un personaggio che sul web viene presentato come un «santone» è una cosa che agli studenti del Dass non va giù. Il foro viene inondato da commenti, fra l’incredulo, l’indignato e l’arrabbiato, che riempiono in pochi giorni ben tredici pagine di discussione. Fino a quando un dassista esasperato, d’accordo con gli altri, invia una e-mail ufficiale a uno dei suoi professori, un pezzo grosso del dipartimento, per saperne di più. La risposta arriva dopo qualche giorno, e viene subito pubblicata sul foro.5 Nata con l’intento di tranquillizzare gli animi, la comunicazione del professore rivela in realtà altri particolari inquietanti. La ringrazio per questa comunicazione. La questione che Lei solleva è già stata sollevata due anni fa (alla Direttrice del dipartimento che mi ha preceduto). E già in quell’occasione abbiamo dovuto provvedere a spegnere certe voci da caccia alle streghe. Il laboratorio [...] è organizzato dalla facoltà di Sociologia e in particolare dal prof. Paolo De Nardis, ex preside di Sociologia, ordinario di chiara fama di Sociologia generale, conosciuto non solo nel mondo accademico ma come una delle voci più importanti nel dibattito culturale e politico italiano. Se non vi fidate di me (il che mi dispiace), dovreste almeno fidarvi di lui. Gli studenti che hanno frequentato il laboratorio negli anni passati ne sono usciti molto soddisfatti. Sono addirittura stati invitati il 12 e 19 novembre 2007 a Zapping, nota trasmissione della Radio-Rai Uno (va in onda alle 19.30), in cui si discutono problemi di attualità, e hanno fatto una gran bella figura. Io ho parlato con studenti che hanno seguito il corso, i quali hanno riconosciuto del tutto infondata la montatura sulla cosiddetta setta. Chi sta seguendo mi ha detto di aver assistito a normali lezioni del prof. Meneghetti. Per altro Meneghetti è stato invitato a tenere la lezione conclusiva nella sala Congressi, nella sala più importante, della facoltà di Scienze della comunicazione. In ogni caso, se non vi fidate di me o del prof. De Nardis (a cui potete tranquillamente scrivere), potete tranquillamente verificare di persona. [...]

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La (Vi) ringrazio di nuovo per la comunicazione, a presto. Nella lettera quindi il professore dimostra di ignorare la sconfessione dell’Ordine degli psicologi e rivela che il corso va già avanti da due anni, che è avallato da un pezzo grosso della Sapienza, che Meneghetti vi tiene tranquillamente delle lezioni e che è stato invitato con tutti gli onori per la lezione conclusiva dell’anno accademico. Tutte queste cose, invece di spegnerla, rinfocolano l’indignazione degli studenti. E i ragazzi fanno bene a preoccuparsi, perché, dando un’occhiata alle dispense da cui i loro colleghi dell’anno prima hanno studiato, vien fuori il secondo scopo del corso: insegnare l’Onto-psicologia alla Sapienza. Nei dieci fogli distribuiti ai frequentanti, accanto alla definizione di Cinelogia ritroviamo i tre punti cardine del credo meneghettiano: L’In sé ontico, il Monitor di deflessione e il Campo semantico. Ma non solo. L’ontopsicologo che s’è occupato delle dispense presenta Meneghetti come un grande luminare, il cui obiettivo della ricerca scientifica «è l’autenticazione dell’umano».6 Già solo questo basterebbe per giustificare le paure degli studenti. Ma se si fanno due chiacchiere con chi l’anno prima, nel 2007, ha seguito il laboratorio, c’è quanto basta per far accapponare la pelle. Laura7 è oggi una ex dassista (si è laureata) che ha accettato sotto garanzia dell’anonimato di raccontare la propria esperienza. «Mi ricordo tante stranezze in questo corso. A cominciare dall’organizzazione. Normalmente i laboratori si fanno per corso di laurea, invece questo copre quattro facoltà: la mia, Scienze umanistiche, Lettere, Scienze della formazione. Poi ricordo la prima lezione, in cui vengono invitate a parlare diverse ragazze che avevano frequentato l’anno precedente. Tutte si dicono entusiaste, assicurano di aver fatto un’esperienza fantastica, di aver scoperto una cultura diversa. Di solito» nota «i professori universitari non fanno promozione dei loro corsi. Inoltre, altra cosa strana, durante il corso di cinema se ne parla davvero poco. Guardiamo qualche film ma niente di che. Invece si parla tanto di Ontopsicologia, di In sé ontico e di cose così. La docente tesse sempre le lodi del fondatore di questa scuola, lo cita in continuazione. Con in bella evidenza sulla cattedra, i libri di Meneghetti.» Il guru abruzzese non si limita a essere presente per mezzo dei propri scritti. Lui in facoltà ci vuole insegnare. «Prima della fine del corso organizzano un incontro col professore Meneghetti presso la facoltà di Scienze della formazione. Ma lo fissano dalle otto di sera in poi, senza indicare un orario di chiusura. La cosa mi insospettisce a tal punto – le lezioni non si tengono a

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quell’ora – che decido di non andarci. Invece vado alla lezione tenuta da Andrea Pezzi, in cui lui ci parla dell’Ontopsicologia, anche se in maniera scombinata e un po’ sconclusionata.» Bizzarrie che portano Laura a provare una strana sensazione: «Il clima è quello dell’indottrinamento, anche se non in maniera esplicita. Più volte la professoressa8 si dice pronta a seguire chi voglia approfondire la materia anche dopo l’esame». L’episodio più singolare però arriva alla fine. «All’esame la professoressa si trasforma: da gentile si fa pignola e aggressiva. Non le va giù quello che le dico, si agita, mi fa ripetere ossessivamente, tre-quattro volte, la definizione di Cinelogia. In pratica vuole che la impari a memoria, altrimenti – minaccia innervosita – non mi dà i crediti. Alla fine la accontento e supero l’esame. Tuttavia mi cresce dentro una sensazione strana, mi sembra di essere stata condizionata. Va a finire che mi sento male tutta la giornata.» La protesta degli studenti però si conclude in un nulla di fatto. E l’anno successivo, nel 2009, la Cinelogia (o meglio, l’Ontopsicologia) torna a essere insegnata nelle aule della prima università europea per numero di iscritti. Come abbiamo visto, grazie soprattutto all’appoggio «politico» dell’amico Paolo De Nardis: è lui la quinta colonna di Meneghetti nell’ateneo romano. Lo conferma anche la presentazione che nel dicembre 2008 l’ex preside di Sociologia fa del libro Cinelogia ontopsicologica, all’interno della Fiera della piccola e media editoria di Roma. Davanti a un centinaio di partecipanti, De Nardis tesse le lodi del laboratorio che lui stesso ha avallato: «Mi auguro di proporre a lungo questo corso, che risulta sempre più frequentato, molto più delle altre lezioni universitarie dove, invece, si contano sempre pochi studenti». Magari, un giorno, riuscendo pure a istituzionalizzarlo, ossia a farlo uscire dal ghetto del semianonimato: «In Italia quando il ritardo nell’istituzionalizzazione si fa eccessivo è buon segno, vuol dire che si è sulla strada giusta».9 Ma la «pistola fumante», la prova regina che mostra senza alcun dubbio il legame fra i due è l’ultimo regalo che De Nardis ha fatto a Meneghetti. Dal 2010, la facoltà di Sociologia della Sapienza promuove il corso di alta formazione in Creatività e impresa, un master post laurea gestito in house dagli ontopsicologi, che tratta di materie che ormai conosciamo benissimo: Ontopsicologia, Cinelogia, Comunicazione e Leadership, e via dicendo. Ciclo di lezioni a pagamento (al modico prezzo di milleottocento euro per un anno di lezioni), riservato a quaranta laureati, che si tiene nelle aule di Sociologia e la cui supervisione è nelle mani di De Nardis. In questo modo, Meneghetti realizza il suo sogno: poter insegnare alla Sapienza, la sua «scuola», senza doversi nascondere dietro laboratori

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interdisciplinari. E, in prospettiva, poter finalmente ottenere in Italia quello che ha già raccolto in Brasile e in Russia. 1 È il Dass, dipartimento di Arti e scienze dello spettacolo. 2 Sul sito in questione ci sono notizie e documenti «critici» sull’Ontopsicologia e Meneghetti. 3]La Cinelogia è la strumentalizzazione dell’analisi filmica a funzione di autoevidenza del rimosso personale, dispensa confidenziale a uso interno del corso di Cinelogia, maggio 2007. 4 La Melolistica è un altro strumento dell’Ontopsicologia che utilizza la musica, suonata da un «onto» formato all’interno della scuola di formazione, e la danza, che viene invece effettuata dai partecipanti, per ripristinare e potenziare la propria salute nonché per autoindurre un certo benessere psicofisico e psicoemotivo. 5 www.nuovoforodass.forumattivo.it. 6]Corso di Cinelogia, dispensa confidenziale a uso interno, maggio 2007. 7 Nome di fantasia. 8 Sull’identità della professoressa non abbiamo l’assoluta certezza, visto che sui documenti ufficiali, come per esempio le dispense distribuite ai corsisti o gli avvisi in bacheca, non ce n’è traccia. La studentessa ci ha indicato un nome, ma preferiamo non rivelarlo visto l’impossibilità di una controverifica.

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9 Il resoconto completo della presentazione lo si trova nei diversi siti collegati all’Aio. 9. Uno status molto speciale All’ingresso del borgo di Lizori c’è una targa di bronzo su cui è impresso il logo dell’Aio, con la dicitura: «Associazione internazionale di Ontopsicologia. Ngo con special status consultivo presso l’Ecosoc dell’Onu». Un’indicazione gemella si trova dall’altra parte dell’Oceano, a Recanto Maestro. Basta fare un controllo sui registri delle organizzazioni non governative per scoprire che è tutto vero: l’organizzazione di Meneghetti è riconosciuta fin dal 1999 dal Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite. Insomma, Meneghetti ha il bollino blu dell’Onu. Come è possibile? Sicuramente conta il fatto che ottenere lo special status è una cosa molto più semplice di quanto non lo sia immatricolare la propria auto al Pra. Prima di tutto, la procedura si conclude tutta online. Si va sul sito, ci si registra, si risponde a un questionario, si riassume l’attività dell’associazione e si allegano documenti banali come lo statuto, l’ultimo bilancio, un attestato che garantisca l’esistenza dell’organizzazione e una copia delle pubblicazioni più recenti. Tutto qui. Dopo bisogna attendere che la commissione dell’Ecosoc si riunisca e che deliberi la concessione dello status. Cosa che succede quasi sempre, a meno che non si sia fatto un errore madornale nella procedura appena descritta. Non è un caso che attualmente le Ngo che hanno lo status consultivo sono una marea: erano 41 nel 1948, sono diventate 3287 nel 2010. E di queste 141 hanno lo status consultivo «generale», 2167 lo status consultivo «speciale» e 979 sono nella categoria «Roster». Insomma, todos caballeros, a conferma delle critiche di chi vede nell’eccessiva burocratizzazione uno dei mali maggiori delle Nazioni Unite. Rispetto alla relativa facilità con cui ci si guadagna il distintivo Onu, fa impressione l’uso propagandistico che ne fa l’Aio. Ogni qual volta c’è un convegno ufficiale, un incontro con qualche autorità o semplicemente un’occasione in cui bisogna far bella figura, lo staff di Meneghetti si vanta di far parte del sistema delle Nazioni Unite. Addirittura sul sito ufficiale

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dell’associazione si legge: «L’attività svolta fino a ora dall’Aio è stata ritenuta talmente significativa per lo sviluppo sociale dell’uomo che è stata direttamente inserita nel livello Speciale di consultazione». E per chi non ha voglia di leggere, ecco le foto: su diversi siti legati al mondo ontopsicologico campeggiano in bella mostra le immagini di due rappresentanti dell’Aio che stringono la mano sorridenti al segretario generale Ban Ki-moon. Così come si può trovare il resoconto di una giornata per loro memorabile: il 24 maggio 2007 gli «onto» presentano a Ginevra il loro contributo per sradicare la povertà e combattere la fame nei Paesi più poveri. Si tratta di due progetti che, secondo loro, sono riusciti a far progredire economicamente e socialmente delle zone depresse. Il primo non è altro che il racconto della costruzione del complesso di Recanto Maestro. Il secondo invece è più interessante, perché dimostra come il marchio Onu abbia fruttato da un punto di vista pecuniario. Pamela Bernabei, l’ontopsicologa che rappresenta l’Aio all’Onu, descrive come in pochi anni, dal 2002 al 2007, si sia riusciti a trasformare una zona rurale e desolata a sessanta chilometri da Riga, in Lettonia, in un agriturismo con hotel, ristorante e hall per conferenze. Un complesso (rinominato Lizari) abbellito dalla presenza di un paio di vecchi pozzi e soprattutto da una piramide di vetro (una struttura che ricorda quella del Louvre, per capirci), definito «un luogo metafisico che conduce l’essere umano a incontrare la parte spirituale di sé». Durante l’esposizione, la Bernabei affronta anche il tema dei finanziamenti. E lì si scopre che l’intero progetto è costato ottocentosessantamila lat (ovvero un milione e duecentomila euro), di cui centocinquantacinquemila (quasi duecentocinquantamila euro) provenienti dai fondi strutturali europei e la restante parte da non meglio precisati «investitori istituzionali». Quindi, anche grazie al distintivo Onu, Meneghetti s’è fatto pagare una parte del suo Lizari coi soldi dell’Unione europea. 10. Pecunia non olet Dopo aver lasciato la psicoterapia e il suo studio, a seguito dell’inchiesta giudiziaria, Meneghetti intuisce che la vera potenzialità della sua Ontopsicologia sta nell’applicazione all’economia e al mondo imprenditoriale. Del resto, è lì che girano i soldi, quelli veri. È lo stesso guru ad ammetterlo al giornalista di «Repubblica» che va a intervistarlo nella sua casa di

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Pissignano:1 «I malati? Non me ne occupo più da tanti anni. Portano solo guai. Ora lavoro unicamente per le élite politiche e imprenditoriali, insegnando loro la psicologia del leader. Costo minimo di ogni conferenza, diecimila dollari. Con continue richieste che vengono soprattutto da Brasile, Cina e Russia». La risposta stupisce non poco il cronista, che invece si aspettava «un incontro simile all’ingresso nella capanna del colonnello Kurtz di Apocalypse Now». Qualcosa però l’aveva già intuito: «Meneghetti sembra un texano miliardario: giubbetto in daino generosamente aperto sul petto villoso, anellone al mignolo sinistro, vodka e sigaro gigante».2 Il «fondatore» quindi adatta la sua Ontopsicologia al mondo degli affari. Anzi, come si legge sul suo sito: «Dalla ricerca e riuscita scientifica, con sperimentazione e risultati confermati, Antonio Meneghetti individua e isola il processo e la fenomenologia dell’intuizione, l’informazione chiave di accesso alla soluzione nei vari campi applicati, in particolare nel settore dell’economia e della competenza impresariale». Così organizza i residence leaderistici, corsi che dovrebbero insegnare a imprenditori e manager come avere successo. Ma il vero salto di qualità lo fa nel 2000, quando acquista un vecchio casale nel lodigiano, a Marudo, lo fa ristrutturare dai suoi seguaci (Pezzi compreso) e l’anno successivo lo battezza sede della Foil (Formazione ontopsicologica interdisciplinare leaderistica). La Foil, attiva ancora oggi, non è nient’altro che una società di formazione e consulenza per le imprese. Organizza corsi – tutti rigorosamente basati sul metodo ontopsicologico – che hanno come scopo principale l’esaltazione della personalità del leader. «Il leader non è il risultato di una carriera, ma è una predisposizione di natura che viene perfezionata attraverso l’esperienza. Per questo il focus della leadership su cui Foil lavora è il senso razionale dell’intuizione del leader nei confronti del suo operato, delle persone che collaborano con lui e del sociale in cui si trova a far parte» si trova scritto in una loro brochure. Oltre ai corsi, la Foil offre anche una vera e propria consulenza alle imprese, basata sulla up stream analysis, che consiste nell’applicare le tre scoperte ontopsicologiche (In sé ontico, Monitor di deflessione e Campo semantico) all’impresa in difficoltà. A completare l’offerta, libri e dvd che racchiudono lezioni e conferenze – anche queste si fanno pagare – dai trenta ai cinquanta euro. Del resto di editoria Meneghetti ne capisce, visto che è proprietario di una casa editrice, la Psicologica editrice, che pubblica le sue opere e quelle dei suoi collaboratori. A prezzi tutt’altro che popolari, visto che i quarantasei libri in catalogo costano dai venticinque ai cento euro. Con la rivista semestrale «Nuova Ontopsicologia», un must per i suoi seguaci, venduta a cinquanta euro a copia.

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Meneghetti sa far fruttare anche le proprie doti artistiche, soprattutto con i fedeli, che sono i primi (e spesso gli unici) compratori. Le sue opere – quadri, sculture e cristalli – si possono acquistare a un prezzo che oscilla fra i diecimila e i cinquantamila euro. Chi in Italia ne volesse comprare una, dovrebbe fare un salto a Trevi, cittadina umbra a due passi da Pissignano. Lì si trova la galleria di Ontoarte di Torre Matigge. Sempre però che non si abbia la «fortuna» di incappare in un’esposizione temporanea. Fortuna che hanno avuto i milanesi dal 15 febbraio al 15 luglio 2010, potendo dare un’occhiata alle opere del Professore nella centrale via Manzoni, a due passi da via Montenapoleone. Ma la dimensione dell’arte meneghettiana non si ferma ai confini italiani. Le sue tele e le sue sculture possono essere facilmente acquistate anche da chi vive a Mosca, Pechino, San Paolo o Berlino: nelle quattro città Meneghetti ha piccole gallerie che gestisce in proprio. Meneghetti è poliedrico, e non disdegna di disegnare abiti di alta moda per le donne. Lui, che ama definirsi stilista e si vanta di essersi esibito con il grande Brioni, ha organizzato in passato vere e proprie sfilate nella sua Lizori ed è riuscito a piazzare i suoi abiti ad attrici e soubrette che li hanno mostrati nelle loro apparizioni in tv. Ci sono foto che ritraggono nella riconoscibilissima mise meneghettiana Claudia Pandolfi (ai tempi della sua storia d’amore con Pezzi), l’ex miss Italia Denny Mendez e la showgirl lanciata dal Bagaglino Milena Miconi. Per gli uomini invece niente alta moda, si devono accontentare del prêt-à-porter. Possono acquistare abiti, scarpe e accessori disegnati dal Professore al negozio Antonio Meneghetti, nella centralissima via delle Carrozze, a Roma, una delle viuzze che partono da piazza di Spagna. Qui i prezzi sono più accessibili, sebbene studiati per la fascia medio-alta della borghesia romana. Si va dalle cinture e dalle cravatte (che costano fra i cento e i duecento euro) alle scarpe di cuoio (fra i quattrocento e i cinquecento) fino agli abiti veri e propri, che sfondano agevolmente il tetto dei mille euro. Così, il povero adepto, che per far contento il guru vuole vestire da capo a piedi con le sue creazioni, si trova a spendere più di uno stipendio medio in un solo colpo. Insomma, dall’economia all’arte, passando dalla moda, il marchio Meneghetti fattura alla grande. Grazie soprattutto alla «generosità» dei suoi seguaci. È il business dell’Ontopsicologia, bellezza! 1 Franco Marcoaldi, Là dove vive l’incantatore d’anime perse, «la Repubblica», 19 agosto 1997.

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2 Effettivamente chi conosce Meneghetti lo descrive come una persona molto attenta ai piaceri dell’esistenza: ama il buon mangiare, il buon bere e ha un debole per i sigari. Lo stesso Pezzi nel suo libro racconta di una cena in cui «si porta alle labbra il suo calice pieno di Brunello del 1972, anno in cui io ancora non ero nato e lui stava lasciando il Vaticano. La sua bocca e i suoi occhi sorridono allegri».

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PARTE QUARTA

Soka Gakkai

L’unica cosa che lui sa è che non deve tentare di sapere. Non può basarsi su nulla di concreto, può solo desiderare, quindi trascorre la

sua vita esprimendo desideri, supplicando i suoi demoni di esaudirli secondo l’arbitrario potere della loro volontà, dando loro credito quando glieli concedono, e attribuendosene la

colpa quando non lo fanno.

Ayn Rand, La rivolta di Atlante 1. «Hidari koto? Migi koto?» «Era il 15 agosto del 2002. Sentii squillare il mio telefono alle 9 di mattina. Dall’altra parte della cornetta c’era il mio responsabile dello staff trasporti1 della Soka Gakkai. Mi fa: “Arriva a Fiumicino il signor H, bisogna portarlo al kaikan2 e non c’è nessuno disponibile. Io sto portando Kaneda, puoi farci tu una scappata?”. Gli rispondo che sono appena tornato dalla Grecia, che ho guidato tutta la notte per tornare da Brindisi a Roma, e che sono ancora a letto. Però lui insiste, e allora gli rispondo che, sì, ci vado. Nonostante il sonno mi vesto, salto di nuovo in macchina e vado fino all’aeroporto, dove prelevo l’illustre ospite e poi raggiungo il kaikan. Lì si tiene una riunione molto lunga durante la quale i responsabili nazionali italiani si confrontano con l’alto responsabile venuto dal Giappone. Io non c’ero, non so che cosa si siano detti in quella sede, ma a riunione conclusa prendo a bordo il signor Mitsuhiro Kaneda, allora direttore generale nazionale della Soka Gakkai italiana, e il signor Tamotsu Nakajima, allora vicedirettore generale. I due decidono di recarsi immediatamente a casa di Carlo Cardia, un loro consulente romano,

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che li aspetta per lavorare nonostante sia Ferragosto. Durante il tragitto Kaneda e Nakajima discutono animatamente in giapponese, sicuri di non essere capiti, su come uscire da una situazione di stallo. Lanciando e rilanciando ipotesi su quale sia il partito politico giusto a cui rivolgersi per ottenere il sostegno necessario. “Hidari koto? Migi koto?” si chiedono, non sapendo che il sottoscritto il giapponese lo capiva. “Sinistra o destra?”.» A parlare è Fedele – nome di fantasia – un ex adepto che con la setta giapponese non vuole avere più niente a che fare. E il dubbio amletico dei due capi che era stato chiamato a scarrozzare a Ferragosto altro non è che il riflesso di un «buddismo» piuttosto singolare, che pensa molto agli affari terreni, e davvero poco al Nirvana.3 È il culto della So¯ ka Gakkai (letteralmente società per la creazione di valori), organizzazione guidata dal sensei – cioè maestro –4 Daisaku Ikeda, l’uomo che nei suoi oltre quarant’anni al timone l’ha esportata, quindi globalizzata come Soka Gakkai International, in più di centonovanta Paesi, convertendo circa dodici milioni di persone sparse per il mondo. In Italia arriva negli anni Settanta,5 e mette le sue radici più forti in Toscana, tanto che è a Firenze che fonda il suo quartier generale. In quegli anni in tutto il nostro Paese si stimavano intorno ai trentamila ikediani. Oggi invece il sito ufficiale dell’Istituto buddista italiano Soka Gakkai6 (Ibisg) ne conta ormai «oltre cinquantamila». E siccome cinquantamila fedeli sono anche cinquantamila elettori, è evidente che fra gli asset della filiale italiana di questa società giapponese c’è un bel gruzzolo di voti con cui fare lobby sui nostri politici. Del resto la Soka Gakkai per tradizione sa bene come orientare il voto dei propri fedeli: in Giappone ha addirittura un suo partito politico di riferimento, il New Komeito,7 cioè una specie di Udc giapponese, coi valori ikediani al posto di quelli cattolici cristiani (e in dotazione un pacchetto di sei milioni di fedelissimi). Si chiama «New» perché ha preso il posto del «vecchio» Komeito, che era stato effettivamente fondato dalla Soka Gakkai nel 1964,8 per separarsene formalmente nel 1970.9 Nonostante ciò il loro rapporto è tutt’ora così intenso – e talmente spesso oggetto di polemiche in patria – che viene ufficialmente «giustificato» da un’apposita pagina web del partito, intitolata Su politica e religione: «La Soka Gakkai è una importante base elettorale che, a livello locale e nazionale, ha sostenuto il New Komeito e i suoi princìpi e obiettivi politici». Come a dire: sì, loro votano per noi, ma badate che siamo due cose diverse. Dopo esser stato a lungo partner di coalizione al governo insieme all’Ldp, cioè i conservatori del partito liberaldemocratico,10 il New Komeito oggi si ritrova all’opposizione. Ma come ci confermano fonti giapponesi, non è mai

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per troppo tempo lontano dal potere: i seggi guadagnati al Senato nelle ultime elezioni, infatti, lo rendono appetibile per un appoggio esterno alla maggioranza progressista del Dpj, il partito democratico giapponese. Lo scrive anche l’autorevole quotidiano di centro-sinistra «Asahi Shimbun»:11 «Il primo ministro Naoto Kan sta corteggiando l’ex nemico New Komeito [...] un partito relativamente piccolo con 19 seggi sui 242 del Senato [che però] aiuterebbero il Dpj, che ha 106 seggi, a riconquistare la maggioranza in aula. [...] In queste circostanze il Dpj ha iniziato le procedure di corteggiamento [...]. Il 26 settembre infatti Kan è apparso a sorpresa [a una mostra di Rembrandt] al Tokyo Fuji Art Museum, fondato dal presidente onorario della Soka Gakkai, Daisaku Ikeda». Evidentemente per ricucire i rapporti con il New Komeito era necessario un “pellegrinaggio” in territorio ikediano. «In passato Kan e il New Komeito si erano scambiati colpi che avevano lasciato cicatrici politiche. Il conflitto era iniziato durante la campagna per le elezioni della Camera nel 2000, quando il New Komeito era entrato in coalizione con l’Ldp: Kan aveva duramente attaccato sia il partito che la Soka Gakkai.» In Italia ci mette trent’anni, ma alla fine il motore a tre tempi del culto-lobby-partito inizia a ingranare anche da noi. Con notevolissimi risultati: agli albori del nuovo millennio12 le viene riconosciuto lo status di «ente religioso», con decreto dell’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Da questo trampolino, grazie alla ben remunerata13 consulenza dell’insider Carlo Cardia – giurista noto per aver partecipato ai lavori per la revisione del Concordato tra Italia e Santa Sede – gli ikediani sono ormai arrivati vicinissimi a un’Intesa con lo stato italiano, ossia al bollino blu che permetterebbe loro di essere riconosciuti come religione per la prima volta in Europa. E quindi di mettere le mani sull’8 per mille. Cardia, sensei dell’8 per mille, merita qualche parola in più. Un suo ritratto ce lo fornisce Curzio Maltese: «Il professor Cardia, insigne giurista di formazione comunista, consigliere di Enrico Berlinguer e Pietro Ingrao, ha esordito da fiero “difensore del diritto negato in Italia all’ateismo” [...] Nel 2001 è Cardia a invocare una riduzione dell’8 per mille [ma] nel tempo il professor Cardia è diventato illustre collaboratore di “Avvenire”, il giornale dei vescovi. I suoi temi sono cambiati: l’apologia del rapporto fra i giovani e Benedetto XVI, la lotta ai Dico, l’esaltazione del Family Day».14 Che sia lui l’uomo giusto per parlare di 8 per mille – e far da tramite con le istituzioni – lo conferma il suo curriculum ufficiale.15 Docente di Diritto ecclesiastico all’Università di Roma Tre dal settembre 1976 al giugno 1979, è consulente giuridico-istituzionale del Presidente della

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Camera dei Deputati. Dal 1976 ha partecipato ai lavori per la revisione del Concordato tra Italia e Santa Sede, prima in sede parlamentare, poi nelle ultime fasi della trattativa nel 1984. Nel febbraio 1984, all’atto della firma del nuovo Concordato, è nominato membro della Commissione paritetica italo-vaticana per la riforma della legislazione concordataria sugli enti e beni ecclesiastici e sugli impegni finanziari dello Stato verso la Chiesa. Dal 1984 in poi è consulente dei governi succedutisi sino a oggi, e coautore della legislazione ecclesiastica italiana in qualità di membro delle seguenti Commissioni: 1. Commissione per la predisposizione del regolamento di attuazione della legge sugli enti e beni ecclesiastici; 2. Commissione incaricata di condurre le trattative con le confessioni religiose non cattoliche per la stipulazione delle Intese di cui all’articolo 8, III comma, della Costituzione. La Commissione, tra il 1985 e il 1987, conclude le trattative per le Intese con le Chiese cristiane avventiste del 7° giorno, con le Assemblee di Dio in Italia (Adi-Pentecostali), con l’Unione delle Comunità Ebraiche. E ci fermiamo qui, perché il résumé prosegue ancora a lungo. Uno spaccato interessante sui suoi rapporti con la Soka Gakkai ce lo presenta, infine, la loro stampa interna: Carlo Cardia, ordinario di Diritto ecclesiastico presso l’Università Roma Tre, ha illustrato ai partecipanti alcuni degli importanti cambiamenti che hanno visto recentemente protagonista l’Istituto buddista italiano Soka Gakkai. In particolare Cardia si è soffermato sulla rapida e consistente crescita numerica degli aderenti all’Istituto, facendo collocare la nostra confessione fra quelle più rappresentative, inserendosi così a pieno titolo nel pluralismo confessionale nel nostro Paese. Ripercorrendo brevemente le tappe, Cardia ha inoltre sottolineato che l’Istituto buddista, ormai costituito più di tre anni fa, ha ottenuto il riconoscimento dallo Stato come ente religioso in tempi record, precisamente in un anno e tre mesi. E questo importante risultato – ha sottolineato – è dovuto alla circostanza che esistessero tutte le condizioni reali, strutturali e di pulizia morale da parte della nostra confessione.16 Il dubbio dei due dirigenti della filiale italiana – Hidari koto? Migi koto? – evidentemente non era peregrino, ma solo la logica scelta del cavallo su cui puntare nella corsa al riconoscimento. Fino a quel momento, infatti, le simpatie dei vertici sokiani erano inclinate verso destra. Per esempio Fedele ricorda che l’allora ministro per i Rapporti con il parlamento del secondo governo Berlusconi, Carlo Giovanardi, andò a trovarli al tempo dell’incontro al kaikan romano con Karel Dobbelaere, noto studioso di religioni.

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«Giovanardi me lo trovai davanti, e gli strinsi pure la mano.» D’altra parte, come confermano più fonti, Giovanni Littera, uomo forte della dirigenza e braccio destro del signor Kaneda, era stato uno dei fondatori del club livornese di Forza Italia, nonché vecchio amico dell’attuale ministro delle Infrastrutture e trasporti, il cecinese Altero Matteoli. Il clima politico nell’organizzazione lo racconta bene Annamaria Rivera, docente di Etnologia e di Antropologia sociale all’Università di Bari, nel suo articolo sui «forzabuddisti»: Una delle ragioni del disagio attualmente vissuto dalla Soka Gakkai e dell’ampio disaccordo rispetto alla sua leadership espresso da una fetta consistente di adepti risiede nello stile autoritario e verticistico e nelle simpatie berlusconiane di alcuni suoi dirigenti, che cercherebbero di imporre al movimento stile e principi del tutto estranei al buddismo: il principio dell’obbedienza, la stigmatizzazione del dissenso e della critica, la regola dell’ipse dixit. [...] la Soka Gakkai è [...] una realtà a due facce, l’una paternalistica, l’altra autoritaria, entrambe incarnate da Ikeda, il leader che dalla casa madre in Giappone dirige l’intero movimento mondiale: una specie di patriarca circondato da un’aura di sacro rispetto e di adorazione, se non di timore.17 Ma destra o sinistra, in Giappone come da noi, per la Soka Gakkai non sono altro che un «veicolo». E infatti nella loro filiale italiana, all’epilogo dell’era «forzabuddista» corrisponde anche – non senza un certa disinvoltura – l’inizio di quella «democratica». Ai dirigenti giapponesi della Soka italiana scommettere su Walter Veltroni sembrava la mossa vincente: il veltronismo prometteva grandi cambiamenti nel panorama politico del Paese. Il principale cavallo di Troia della Soka Gakkai in campo veltroniano è Enzo Cursio, nel 2006 candidato senza successo18 con la lista civica Roma per Veltroni. Ma prima di dichiararsi veltroniano, Cursio era e rimane soprattutto un ikediano di lungo corso: cioè dal lontano 1991.19 Quella di Cursio è senza dubbio una carriera eclettica: responsabile delle relazioni istituzionali della Fondazione Gorbaciov, ha collezionato amicizie illustri20 e ha ricoperto incarichi istituzionali alla Camera dei Deputati e al ministero per l’Ambiente e le aree urbane, con l’allora ministro Valdo Spini. È stato socialista, diessino e militante di Cittadinanza attiva. Il corteggiamento, però, avviene anche grazie agli abilissimi pr della Soka Gakkai, che sono sempre riusciti a mostrare la faccia pulita e liberal

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dell’organizzazione, senza lasciar mai trapelare il suo lato più oscuro. Nel 2006, infatti, ospitano Veltroni, in veste di sindaco, al kaikan della Soka Gakkai. La sua presenza suscita il giubilo dei presenti: il sindaco promette di invitare Daisaku Ikeda21 e si offre di ospitare la mostra sokiana «I semi del cambiamento» al Casale Torlonia. Ma ad andare ben oltre la semplice cortesia istituzionale è Giovanna Melandri. Sempre nel 2006, l’allora ministro per le Politiche giovanili istituisce, insieme al ministero dell’Interno di Giuliano Amato, la Consulta giovanile per le questioni inerenti al pluralismo religioso e culturale, un organismo con «il compito di elaborare studi e formulare proposte per migliorare la conoscenza delle problematiche di integrazione delle diverse componenti religiose e culturali presenti in Italia».22 I quindici membri della consulta vengono chiamati a rappresentare cattolici, protestanti, musulmani, ebrei, ortodossi e buddisti. Ma al posto dell’Unione buddista italiana – Ubi – che riunisce la stragrande maggioranza delle tradizioni canoniche presenti nel Paese (ed è oggi vicina al raggiungimento di un’intesa),23 a parlare per il buddismo italiano troviamo invece dei membri della Soka Gakkai.24 Che rappresentano soltanto se stessi. I buddisti italiani, quelli veri, non battono ciglio. Del resto, come scrive Angelo Del Boca, «la Soka Gakkai si dedica ovunque, e in qualsiasi circostanza, a un’intensa propaganda. Poiché le altre sette buddiste sono di una tolleranza che rasenta l’indifferenza, i conflitti confessionali sono rari – a vantaggio della Soka Gakkai. La fedeltà alla Soka Gakkai è più sentimentale che razionale. Urta i buddisti delle vecchie scuole ed è perfino rinnegata dai monaci della Nichiren-Shoshu [da cui la Soka deriva, NdA], il cui numero diminuisce in proporzione inversa al favoloso espandersi della nuova dottrina che non è tanto una fede quanto un condizionamento, come sono sempre stati, sono e saranno i diversi movimenti totalitari. D’altra parte (e la cosa non deve sorprendere), c’è nella Soka Gakkai un disprezzo dell’intellettualità pura, un rifiuto di qualsiasi discussione».25 È così che – con buona pace di tutti – nella consulta ci finiscono due fedelissimi ikediani: Marta Arkerdar, che «dal 2004 è responsabile nazionale delle giovani donne dell’Istituto buddista italiano Soka Gakkai», e Francesco Santangelo, «dal 2004 responsabile nazionale degli studenti dell’Istituto buddista italiano Soka Gakkai».26 Qui bisogna notare che due posti nella consulta significa tanti quanti quelli assegnati agli ebrei e ai musulmani (le cui comunità di fedeli in Italia sono però numericamente imparagonabili). Il favoritismo della Melandri viene premiato nel giugno dell’anno dopo, durante un incontro al centro di Roma della Soka Gakkai. Quando Nakajima, leader delle «colombe» dell’organizzazione, assurto al rango di direttore

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generale, conferisce al ministro il Premio Nuovo Rinascimento. Onorificenza che – lo si legge sulla stampa ufficiale – fino a quel momento era stata conferita solo a Veltroni e all’allora sindaco di Venezia, il filosofo Massimo Cacciari.27 Memorabili le parole della Melandri, «commossa» dopo aver assistito alla proiezione di un video sulla storia di Ikeda: «Una delle cose che mi ha colpito di più è stato l’incontro e la grande collaborazione che il presidente Ikeda ha avuto per tanti anni con Aurelio Peccei28 [membro della Resistenza, e in seguito manager Fiat. Fondatore del Club di Roma, NdA] che ho considerato tra i miei più autorevoli maestri. Quando abbiamo istituito la consulta, io e il ministro Amato abbiamo chiesto ai ragazzi di portare in dote i libri che ritenessero più rappresentativi del proprio credo religioso. C’è un capitolo della Saggezza del Sutra del Loto dove Ikeda parla della diversità e della cura di essa attraverso il dialogo, e credo che racchiuda in sintesi lo spirito di base di questo organismo».29 Anche nel Partito democratico della capitale l’ikedismo trova terreno fertile. A maggio del 2009, infatti, nella Roma di Alemanno si scatena un putiferio intorno alla scuola elementare Carlo Pisacane, famosa per essere una punta di diamante dell’integrazione culturale dei figli degli stranieri. La preside aveva proposto di cambiarne il nome, intitolandola proprio al fondatore della Soka Gakkai: il pedagogo Tsunesaburo Makiguchi. Immediata la reazione dell’assessore alla scuola Laura Marsilio, che – spinta da un appello del comitato delle mamme della scuola – scrive al direttore dell’ufficio scolastico regionale, augurandosi che la modifica non venga accolta. Dal Pd romano gli scudi si alzano di scatto. In difesa del dirigente scolastico, ma anche della memoria di Makiguchi: «Ritengo molto grave la pressione esercitata dall’assessor Marsilio» commenta il consigliere del VI municipio Massimo Lucà, «poiché si lede l’autonomia scolastica e quella del Consiglio di Circolo che ha democraticamente deciso di intitolare la scuola elementare Pisacane all’illustre pedagogista Tsunesaburo Makiguchi, dopo un cammino fatto di mostre e percorsi didattici all’insegna dello sviluppo sostenibile».30 Il consigliere si riferisce alla mostra «I semi del cambiamento», cioè uno dei cavalli di battaglia della propaganda ikediana, che aveva già coinvolto altre scuole del VI municipio (il liceo Benedetto da Norcia e l’istituto professionale Piaget).31 La polemica divampa quando poi l’assessore, intervistata dal canale T9, ipotizza l’allontanamento della preside. Il Pd romano a quel punto insorge: dal segretario Riccardo Milana, al capogruppo in Campidoglio Marroni, da Gianluca Santilli, dell’esecutivo romano del partito, all’assessore regionale all’Istruzione Silvia Costa.32 L’ultima parola, però, ce la mette il sindaco Gianni Alemanno, che dà man forte alla Marsilio e conclude: «Mi attiverò anch’io presso le istituzioni competenti per chiedere che il cambiamento non venga autorizzato».33

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L’ikedismo, ovviamente, è altrettanto sentito dal Pd della Toscana, il loro avamposto nel nostro Paese. Sia Claudio Martini, l’ex governatore, che Leonardo Domenici,34 eurodeputato ed ex sindaco fiorentino, con la setta buddista sono sempre stati in ottimi rapporti, presenziando spesso a mostre e incontri. Andrea Pugliese, attuale consigliere comunale di Matteo Renzi a Firenze, è addirittura un «responsabile di territorio» sokiano, mentre Alessandro Lo Presti, ex consigliere comunale ed ex presidente della Firenze Parcheggi, è oggi capo segreteria del consigliere regionale Daniela Lastri (ma non trascura il suo incarico di «vice di territorio» della Soka). Allo stato dei fatti, però, il Partito democratico è in crisi d’identità, mentre le urne si fanno sempre più vicine. E siccome cinquantamila fedeli-elettori sono un piatto troppo ghiotto perché i politici lo lascino andare sprecato, la Soka Gakkai sta già tornando a strizzare l’occhio alla destra (stavolta quella «futurista»). Prova ne sia l’invito esteso nel febbraio 2011 al presidente della Camera – e leader di Futuro e libertà – Gianfranco Fini per una delle loro iniziative.35 Con qualche primo, promettente risultato: fonti governative confermano che nell’autunno del Berlusconi IV le trattative della Soka per l’Intesa sono riprese – ben sette anni dopo lo stallo del 2002-2003 – e sarebbero ormai a buon punto, in attesa di una delibera del Consiglio dei ministri e della firma del presidente. «Io penso che siano molto vicini a ottenere l’intesa» rivela la fonte nel novembre 2010 «sono buddisti, la pazienza non gli è mancata.» 1 Per «staff trasporti» s’intendono i fedeli che fanno volontariato fungendo – gratuitamente – da autisti. [2]Kaikan è «Il santuario o luogo di culto del vero buddismo» (definizione tratta da un dizionarietto interno compilato da alcuni fedeli sokiani nel maggio 1986 sulla base della lettura della testata ufficiale sokiana «Il Nuovo Rinascimento»). 3 «Nel buddhismo moderno della Sgi, il desiderio è ancora una volta il punto di partenza del percorso liberatorio. Ma lo è in modo completamente diverso, che si pone addirittura agli antipodi della dottrina classica. Nel buddismo del monaco Nichiren (XIII secolo), le tecniche devozionali non hanno come obiettivo il distacco della mente dalle forze desideranti e assetate dell’ego, ma al contrario la pratica della recitazione del mantra utilizza il desiderio come mezzo potente di ascesi e realizzazione. [...] Si tratta di un vero e proprio

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ribaltamento dei princìpi buddisti, in cui la negazione e la rinuncia cedono il passo all’esaltazione della volontà desiderante dell’uomo» (Enrica Tedeschi, Leggendo «Il Nuovo Rinascimento», «La critica sociologica», 1995). 4 In giapponese è un titolo onorifico che si usa per indicare docenti, importanti personalità del mondo dell’arte, ma anche più in generale «maestri di vita». Risale al medioevo: così venivano chiamati gli insegnanti d’arti marziali. 5 All’epoca si chiamava «Nichiren Shoshu Italiana» (Ins). Nel 1987 diventa «ente morale» con il nome di «Associazione Italiana Nichiren Shoshu» (Ains). E solo nel 1990 si trasforma in «Associazione Italiana Soka Gakkai», dopo lo «scisma» dalla setta giapponese Nichiren Sho¯ shu¯ di cui avevano fatto parte fino ad allora (Sgi-Italia.org). 6www.sgi-Italia.org. 7 www.komei.or.jp/en/. 8 «Che cos’è il Komeito? Un partito politico nuovo, nato dalla Soka Gakkai. In teoria, la setta e il partito politico difendono obiettivi diversi: sottigliezza che non inganna nessuno. In realtà, ogni membro della Soka Gakkai è iscritto al Komeito. Non soltanto gli dà il voto, ma ne fa propaganda. [...] Prima di tutto una parola d’ordine: “Scacciate i corrotti!”, frase che ricorda curiosamente (non è vero?) gli slogan del qualunquismo e del poujadismo. [...] Il programma è talmente semplice che sembra ingenuo, ma ricordiamoci delle formule che, ai loro tempi, portarono Hitler e Mussolini al potere. [...] La Soka Gakkai non era soltanto una setta buddista, un partito politico, ma una società segreta organizzata a meraviglia, la più “efficace” di tutta l’Asia». (Angelo del Boca e Mario Giovana, I figli del sole. Mezzo secolo di nazifascismo nel mondo, Feltrinelli, Milano 1965).

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9www.cesnur.org. 10 Periodo durante il quale aveva dato il proprio sostegno (con spirito men-che-buddista) alla guerra di George W. Bush all’Iraq. 11 Takashi Funakoshi e Akihiro Yamada, Dpj courting reluctant New Komeito as partner, «Asahi Shimbun», 4 ottobre 2010. 12 Nel novembre 2000. 13 Diverse fonti ben informate parlano di seicento milioni di lire. 14 Curzio Maltese, Chiesa, c’è un 8 per mille segreto, «la Repubblica», 25 ottobre 2007. 15Disponibile online su www.uniroma3.it. 16]Siate orgogliosi dei valori che abbracciate, «Nuovo Rinascimento», settembre 2001. 17 Annamaria Rivera, I forzabuddisti, «il manifesto», 8 dicembre 2002. 18 Per la sua collega di lista, Patrizia Ortolani, gli ikediani di Roma organizzano anche un cocktail elettorale (Nadia Casari, Ulteriori conferme sull’uso dell’Ibisg per fini personali e politici, www.sokarinnovamento.it). Ma nonostante gli stimati cinquemila sokiani in città (Fiona Garrick Di Pinto, On

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the quest for inner peace, WantedInRome.com, 16 marzo 2004), Cursio ottiene appena 944 preferenze (www.elezioni.comune.roma.it). 19 www.enzocursio.it. 20 Addirittura con il futuro presidente degli Stati Uniti Barack Obama (Goffredo De Marchis, La mail di Obama all’amico italiano. «Gran momento ma ora low profile», «la Repubblica», 5 giugno 2008). 21 Sgi-Italia.org. 22www.interno.it. 23 Gianni Del Vecchio e Stefano Pitrelli, 8 per mille religioni, «L’espresso», 18 agosto 2010. 24 «Nonostante i diversi membri incontrati si sentissero “buddhisti”, nonostante si ritrovi qualche similitudine nelle rispettive traiettorie dei membri della Soka Gakkai e quelle delle altre correnti buddhiste “riconosciute”, le diversità di strategie istituzionali, dei reclutamenti e delle motivazioni degli adepti, delle pratiche individuali e comunitarie, negli scopi ricercati, nei confronti della società globale sono così importanti che in conclusione mi è sembrato impossibile includerle nel quadro di questo studio sociologico sui francesi coinvolti dal buddhismo. [...] Non è senza motivo che l’Unione buddhista francese [Ubf, della quale l’Ubi fa parte, NdA], dalla sua fondazione nel 1986, consideri non rispettate tutte le condizioni di ammissione della Soka Gakkai. Gli insegnanti occidentali del dharma (rappresentanti di numerose correnti del Theravada e del Mahayana) che si riuniscono ogni anno per fare il punto sulla diffusione del buddhismo in Occidente condividono questo sentimento. Alla fine di una riunione ho potuto incontrare il responsabile allora in carica del dossier che motivava questa riserva, il quale giustamente mi faceva presente una differenza troppo netta di

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comprensione e di pratica tra questo gruppo e le altre correnti presenti in Francia. Egli faceva accenno anche al carattere intollerante del movimento che considera il buddhismo del monaco giapponese Nichiren, “reincarnazione del Buddha originario”, come “il solo buddhismo ortodosso”, e tutte le altre tradizioni come “degenerate” o “sorpassate”. Egli sottolineava inoltre il proselitismo aggressivo della Soka Gakkai che rompe sullo spirito non proselitista delle altre correnti buddhiste, e utilizzò un’analogia: “La Soka Gakkai sta al buddhismo come i Testimoni di Geova o la setta Moon stanno al cristianesimo”» (Frédéric Lenoir, Le Bouddhisme en France, Fayard, Parigi 1999). 25 Angelo del Boca e Mario Giovana, I figli del sole cit. 26www.interno.it. 27 Che è stato anche chiamato dalla Soka Gakkai a parlare all’inaugurazione della mostra fotografica «I diritti umani nel mondo contemporaneo», da loro organizzata a Venezia presso la Stazione marittima di San Basilio. 28 Nel luglio 2008 la Soka Gakkai organizza un convegno per ricordare Peccei, «in virtù del legame creato con la pubblicazione dei dialoghi di Daisaku Ikeda» (Sgi-Italia.org). 29]La ministra Melandri al Centro culturale di Roma, Sgi-Italia.org, 29 giugno 2007. 30 A.M., La scuola Pisacane potrebbe cambiare nome, AbitareaRoma.net, 19 maggio 2009.

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31 Simonetta Salacone (lettera di), La Dirigente scolastica della scuola Iqbal Masih sulla vicenda della Pisacane, AbitareaRoma.net, 20 maggio 2009. 32]L’assessore Marsilio interviene a T9 sulla preside della Pisacane, AbitareaRoma.net, 20 maggio 2009. 33]Caso Pisacane: il Pd chiama in causa Alemanno, il Sindaco risponde, AbitareaRoma.net, 20 maggio 2009. 34 Leonardo Domenici nel 2007 consegna il «sigillo della pace» a Ikeda, ma a ritirarlo c’è il figlio Hiromasa Ikeda (Sgi-Italia.org.). 35 www.agenparl.it. 2. Daisaku Ikeda Superstar C’è almeno una fedele della Soka Gakkai italiana per cui è evidente che, nel segreto dell’urna come nella sacralità della preghiera, il punto di vista sul mondo non cambia. Stiamo parlando di Sabina Guzzanti, pasionaria della satira di sinistra e, nel suo volto meno noto, devota ikediana. Qualche anno fa, durante uno dei raduni di preghiera organizzati a casa sua, espresse pubblicamente un suo intimo desiderio: «la morte di Silvio Berlusconi», cosa per cui «praticava [cioè pregava, NdA] col cuore ogni santo giorno».1 Era presente la giornalista e fuoriuscita Anna Mazzone, che in un suo articolo riferisce quelle parole, pronunciate a volto serio. Anche se «la condivisione del desiderio da parte di Sabina (come fanno tutti, mettendosi allo scoperto di fronte a una folla di perfetti sconosciuti) scatenò l’ilarità dei fedeli raccolti».

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Sabina, sorella di quel Corrado Guzzanti che sul rapporto fra guru e adepto aveva imbastito uno dei suoi personaggi comici più riusciti (il santone Quèlo),2 è sicuramente uno dei testimonial più noti della Soka Gakkai in Italia. Basti ricordare il lungo e appassionato discorso tenuto al convegno fiorentino dell’Ibisg nel marzo 2007, che vedeva fra gli ospiti d’onore l’allora sindaco Leonardo Domenici.3 La Guzzanti esordì così: È difficile dire cosa mi ha insegnato il presidente Ikeda. Io pratico il buddismo da vent’anni e tutto quello che c’è di bello e di importante nella mia vita è legato al buddismo. Da vent’anni leggo i discorsi del presidente Ikeda e mi domando se sto mettendo in pratica i suoi insegnamenti. Mi confronto con il suo pensiero, mi commuovo e mi rafforzo grazie al suo esempio e in cuor mio prometto di utilizzare tutto il mio talento, le mie capacità, la mia umanità, il mio tempo per realizzare la pace così come il buddismo insegna. È un grande onore per me potergli rendere pubblicamente omaggio in questa occasione, potere ricambiare in piccola parte il debito di gratitudine che ho nei suoi confronti, e una grande responsabilità dare voce a una parte dei pensieri così appassionati che tanti presenti a questa riunione condividono. Il merito del presidente Ikeda è di avere spiegato il buddismo nella lingua dei nostri tempi.4 Infatti la principale caratteristica dell’ikedismo è proprio una dottrina ridotta all’osso, «stilizzata» e soprattutto improntata a un’efficienza aziendale, che poi si riflette, come vedremo, in una rigorosa struttura gerarchica, così come in uno sfrenato marketing a caccia di conversioni. Il tutto sfrondato dalle complessità che invece sono proprie del pensiero buddista.5 Tant’è che, per esempio, nel suo discorso la Guzzanti non cita nemmeno le parole del Budda: gli insegnamenti da seguire sono quelli del sensei Ikeda. Questo ovviamente non vale solo per lei. Il «buddismo light» targato Soka Gakkai è di fatto un culto facilissimo da divulgare – e quindi da esportare – la cui promessa più seducente si può sintetizzare con: «Prega e otterrai». Formula che ricorda da vicino le richieste che una volta si facevano ai santi:6 trovare casa, incontrare la persona giusta, avere un figlio, conservare o ritrovare la propria salute, guadagnare abbastanza soldi, magari per comprarsi la macchina desiderata, ottenere bei voti e passare un esame. Fare carriera, o – oggi più comunemente – trovare un lavoro. Magari vincere la lotteria.7 O persino far segnare la squadra del cuore. Nell’insieme, la reinterpretazione di un «classico» che in Italia ha storicamente fatto presa, e che ci ha quindi resi il Paese in Europa dove l’ikedismo trova il maggior numero di convertiti (seguiti a ruota dalla Gran Bretagna).

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Siccome l’italiano è altresì religiosamente devoto al calcio, una bella pubblicità alla Soka Gakkai è arrivata dalla conversione del campione Roberto Baggio. Che davanti alle telecamere ha raccontato il suo primo incontro con la Soka: «La prima volta che sono stato a un meeting sono uscito fuori e ho detto: “Mah, sono tutti matti, da ricoverare”. Giuro. È successo così perché mi sembrava una cosa talmente strana. E ho detto: “Provo per sei mesi e fra sei mesi se non ho cambiato sensazione lascio perdere”. Da allora non ho più smesso».8 La formula «Prega e otterrai», evidentemente, gli è parsa miracolosa: «Mi diagnosticarono l’impossibilità di continuare a giocare. E allora ho iniziato a recitare Nam myoho renge kyo», cioè la principale forma di preghiera sokiana. «Grazie alla pratica quotidiana buddista sono riuscito a ribaltare di 180 gradi una situazione che non lasciava speranza. Da allora il mio è un allenamento quotidiano anche con la fede.»9 (Tranne, forse, quando asseconda la sua nota passione venatoria, attività ben poco buddista.)10 Ikediane sono anche artiste come Vladimir Luxuria, l’ex parlamentare di Rifondazione comunista,11 che il Nam myoho renge kyo lo recitava persino all’Isola dei Famosi.12 E Ornella Muti, con la figlia Naike Rivelli (attrice anche lei).13 Nel 1987 Alan Sorrenti, il cantautore di Figli delle stelle (convertito all’ikedismo),14 incise un album dal titolo Bonno soku bodai, che si traduce pressappoco così: «I desideri terreni sono illuminazione». Della verità del motto è convinto Antonello Dose, autore satirico come la Guzzanti, e conduttore insieme a Marco Presta del programma Il ruggito del coniglio su Rai Radio Due: «La meditazione mi ha dato grandi benefici, tangibili e intangibili».15 Ma di uomini e donne di spettacolo devoti al culto – e alle sue promesse di effetti tangibili – ne troviamo molti altri negli Stati Uniti, dove a chiamare Ikeda «maestro» c’è la regina del rock Tina Turner, che al Larry King Show ha intonato la tipica preghiera sokiana. Come pure la star del Signore degli Anelli e della saga dei Pirati dei Caraibi, Orlando Bloom. Che del suo credo dice: «La filosofia che ho abbracciato non consiste nello stare seduti sotto un albero e studiare il mio ombelico, ma consiste nell’osservare quello che mi capita ogni giorno e utilizzarlo come carburante per una vita alla grande».16 Certo, «una vita alla grande», se pronunciato da un divo hollywoodiano, è uno slogan decisamente più accattivante di qualsiasi prospettiva d’illuminazione spirituale. E secondo la Soka Gakkai, a veder realizzati i propri sogni e desideri ci si arriva attraverso una formula da ripetere all’infinito: Nam myoho renge kyo. Ce lo spiega meglio il noto pianista jazz Herbie Hancock,17 che è andato ben oltre l’atto di fede, e per propagandare il suo culto ha scritto la prefazione di un importante libro-spot:18 «Applicando le lezioni dei suoi [cioè di Ikeda, NdA] numerosissimi scritti e discorsi su come sfruttare il potere di Nam myoho renge kyo – il principio mistico che muove l’universo – ho

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abbattuto uno dopo l’altro muri di ostacoli nella mia vita, e sono riuscito a realizzare tantissimi obiettivi e a concretizzare i miei sogni». Una dichiarazione che il resto del libro provvede a spiegare: La domanda che sorge immediatamente è: come può la recitazione di una frase di cui non si capisce il significato avere un qualunque effetto, positivo o negativo sulla propria vita? Il paragone è quello [con il] latte. Un bambino è nutrito all’inizio dal latte materno e quando cresce dal latte di mucca, molto prima che possa capire il significato di latte. [...] Per usare un altro esempio, non abbiamo bisogno di sapere come funziona un’automobile per poterla utilizzare. [...] È importante capire che la recitazione funziona che voi la capiate o no, che crediate che funzioni oppure no. [...] Nam myoho renge kyo funziona per tutti, giovani e vecchi, ricchi e poveri, scettici e creduloni, ignoranti e scaltri, africani e asiatici, conservatori e progressisti. Con un «target» così ampio anche il culto – come il latte, o un’automobile – ha bisogno di pubblicità. Pubblicità come quella offerta da Syusy Blady in una puntata del 1999 della famosa trasmissione di Rai Tre, Turisti per caso, condotta insieme a Patrizio Roversi. Quando conduce il telespettatore a una riunione di preghiera di un gruppo di adepti della Soka Gakkai di Tokyo, mettendosi anche lei a recitare il Nam myoho renge kyo. O come un articolo dai toni fortemente propagandistici apparso su «D di Repubblica», che iniziava proprio come uno spot: «All’inizio lo si fa per gioco, per curiosità, perché lo fanno in tanti, magari un amico o un’amica di cui ti fidi. [...] Passano i giorni, i mesi e fatalmente ci si sente meglio. Non saprei dire perché e forse non ha neanche senso trovarne la ragione. [...]» È la cronaca di una conversione senza perché di Cristiana. [...] È spiazzante per chi cerca una spiegazione razionale, ma poi parlando con qualcun altro ti accorgi che c’è poco da capire e scopri che la meditazione è l’arte di lasciarsi andare.19 1 Anna Mazzone, Confessioni di una buddhista pentita, «Il Riformista», 24 febbraio 2010.

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2 Personaggio lanciato nella prima puntata del Pippo Chennedy Show, trasmessa nel 1997 su Rai 2. 3 A cui la Guzzanti si rivolge per dire: «Fa bene il sindaco di Firenze a incoraggiare questo movimento, c’è più gusto credo a fare il sindaco di cittadini pieni di dignità» (Sabina Guzzanti, Saluto, «Buddismo e Società», maggio-giugno 2007). 4]Ibidem. 5 «Come scriveva Giovanni Filoramo in un libro del 1986 (I nuovi movimenti religiosi), [...] si aggiunga il carattere notevolmente semplificato della teologia di questo movimento, ben lontana “dalle sottigliezze logiche e teologiche delle scuole buddiste” [...], carattere che agevola l’uso razionale e alquanto spregiudicato delle tecniche di comunicazione e della pubblicità, e ci si renderà conto di come sia possibile la torsione in senso verticistico e autoritario» (Annamaria Rivera, I forzabuddisti, «il manifesto», 8 dicembre 2002). 6 «Il Nichiren-Shoshu, nella sua forma moderna di Soka Gakkai, si adatta perfettamente alla folla di coloro che praticano un culto per chiedere e per ottenere. Nella Soka Gakkai non esiste né metafisica, né teologia, né mistica. In linguaggio psicologico occidentale, la si può schematizzare nella relazione “causa-effetto immediato”. Se fai una data cosa, ottieni una data cosa [...] Non si implora un dio o un santo: si fa funzionare un ordinatore spirituale» (Angelo del Boca e Mario Giovana, I figli del sole. Mezzo secolo di nazifascismo nel mondo, Feltrinelli, Milano 1965). 7 «Di fatto – secondo l’osservazione di sociologi come Bryan Wilson (1926-2004) e Karel Dobbelaere – molti si accostano inizialmente alla Soka Gakkai spinti dal desiderio di risolvere problemi concreti e difficoltà relative alla salute, alla vita familiare e affettiva, al lavoro, alla carriera» (www.cesnur.org).

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8]Sfide, Rai Tre, 25 febbraio 2010. 9 Sandro Magister, Buddisti Soka Gakkai. Una Sabina vi convertirà, «L’espresso», 4 settembre 1997. 10 Michele Lupi e Piero Negri, Sogno un calcio con Leo Guardiola e Zanetti, «GQ», gennaio 2011. 11 Frank, Il gruppo Arcobalena, www.hottest.it, 26 settembre 2006: «Interessante attività quella svolta dal gruppo Arcobalena. Nasce all’interno dell’organizzazione laica buddhista Soka Gakkai. Si tratta di una “emanazione” che si aggiunge alle altre varie divisioni dell’organizzazione. Arcobalena è rivolto ai gay, alle lesbiche e tutta la realtà Glbt italiana. Vale la pena di menzionare, tra gli aderenti ad Arcobalena, Vladimir Luxuria, il deputato e parlamentare di Rifondazione comunista, che è anche un praticante buddhista». Vedi anche: Vladimir Luxuria, Nam-mioho-renghe-chio... Gli omosex si danno al buddismo, «Liberazione», 5 maggio 2006. 12 Il reality show di Rai Due. 13 «Da bambina è una cattolica praticante ma a ventitré anni – spinta dalla ricerca di un maggiore equilibrio – per superare un momento difficile cerca conforto nel buddhismo, in particolar modo seguendo la dottrina di Soka Gakkai, come la madre» (www.rai.it). 14 Recitò il Nam myoho renge kyo anche durante una puntata del Maurizio Costanzo Show.

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15 Chiara Dino, Buddha superstar, «D di Repubblica», febbraio 2004. 16 Anna Mazzone, Confessioni di una buddhista pentita, cit. [17 Hancock è famoso per esser stato allievo del gigante del jazz Miles Davis, ma della Soka Gakkai fanno parte anche due suoi colleghi jazzisti: Karl Potter e Marvin Smith. [18 Woody Hochswneder, Greg Martin e Ted Morino, Il Budda nello specchio. Alla ricerca dell’energia vitale interiore, Esperia Edizioni, Milano 2010. Se ci fossero dubbi sulla funzione del libro, basta leggere la fascetta arancione che lo avvolge: «Il Budda nello specchio rende facilmente accessibile a tutti il profondo pensiero del buddismo di Nichiren. Vi invito a mettere alla prova seriamente i consigli pratici che offre». 19 Chiara Dino, Buddha superstar, cit. 3. Il mistero della piramide di kosen-rufu Sarà anche secondario capirlo, ma il mantra giapponese un significato ce l’ha, e neanche troppo misterioso. Myoho Renge Kyo è semplicemente il titolo (o daimoku)1 del testo sacro buddista Il Sutra del Loto, che per gli ikediani è anche l’unico testo sacro di riferimento. E con quel «nam» all’inizio (che indica venerazione), i fedeli ikediani non fanno altro che ribadire all’infinito, consapevolmente o meno, la loro devozione a esso: cioè un po’ come limitarsi a ripetere, di continuo, «credo nella Bibbia», o nel Corano o nel Vangelo. Questo nella convinzione, come abbiamo visto, che il rito porterà loro ciò che vogliono dalla vita.2

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L’ultima parte del libro con la prefazione di Hancock, intitolata «Come praticare», fornisce un pratico libretto d’istruzioni: Può essere recitato dovunque e in qualunque momento – possibilmente senza disturbare gli altri –3 ma gli effetti della pratica si vedono meglio quando viene svolta regolarmente. Vi suggeriamo di riservare un po’ di tempo alla recitazione ogni mattina e ogni sera, diciamo almeno cinque minuti alla volta.4 Sedetevi comodi ma con la schiena dritta, preferibilmente di fronte a una parte spoglia della parete [...] Unite le palme delle mani all’altezza del petto, con le dita inclinate in avanti e rivolte verso l’alto, così che la punta delle dita si trovi più o meno al livello del mento. [...] La frase va ripetuta di seguito ininterrottamente, senza pause tra un Nam myoho renge kyo e il successivo. Ovviamente siete liberi di fermarvi per prendere il respiro tutte le volte che è necessario [...] Presto vedrete qualche risultato tangibile. Risultati che però di magico hanno poco. Scrive lo psicologo Franco Nanni, che della Soka Gakkai ha avuto esperienza dall’interno, essendone stato membro: La ripetizione continua di una frase ritmica è spesso utilizzata da numerose pratiche religiose come strumento che induce uno stato di coscienza alterato, sia pur senza necessariamente arrivare a veri e propri stati di trance. Si tratta di uno stato di norma considerato non pericoloso [...]; sono però possibili sviluppi imprevedibili o effetti avversi nel caso di personalità con turbe psicopatologiche anche ben compensate, o in caso di personalità ancora in fase di formazione come i bambini, tanto è vero che persino le dichiarazioni ufficiali dei responsabili SG raccomandano di non far recitare a lungo bambini e persone psichicamente deboli o disturbate.5 Facile, quindi, ma soprattutto suggestivo: promette risultati «tangibili» immediati, non richiede particolare impegno e, almeno in apparenza, nemmeno un atto di fede. Solo un po’ di pazienza, un pizzico di autoconvincimento, e magari un piccolo aiuto da parte della tecnologia. Nell’App Store, infatti, con un euro e cinquantanove puoi scaricarti persino un apposito programma per l’iPhone, My Daimoku, che serve proprio a non perdere mai di vista i desideri per cui si prega, portandoli sempre in tasca. La sua presentazione è suggestiva:

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Questa app è fatta per quei membri e amici della Soka Gakkai International che vorrebbero tenere sempre sotto controllo quanto si prega. Aiuta a fissarsi degli obiettivi concreti per la preghiera, e verificare quanto progresso si è fatto [esiste addirittura una percentuale di completamento, con una barra che va riempiendosi in vista dell’obiettivo, sic!, NdA]. My Daimoku è una grande app per quelli che vedono come ripetere Nam myoho renge kyo aiuti a superare tutte le sfide della vita. È semplice da usare quanto potente, uno strumento per tenere il conto di ogni daimoku che reciti, appuntarti il tuo umore [esaltato, felice, triste, stanco, e via dicendo, NdA] e registrare i tuoi progressi. Per documentare nel corso del tempo le tue vittorie nella vita. Poniti un obiettivo: dai un nome al tuo obiettivo; fissa la quantità di daimoku che vorresti recitare; fai una breve descrizione del tuo obiettivo; scegli dalla tua galleria fotografica una foto per dare un tocco personale al tuo obiettivo. Registra i tuoi progressi: seleziona l’obiettivo per il quale vuoi recitare; premi il pulsante «Log daimoku»; seleziona una data; indica per quanto tempo hai pregato; scegli lo stato d’animo della tua preghiera; prendi delle brevi note durante le tue preghiere. Controlla/edita i tuoi registri del daimoku: scegli un obiettivo dalla lista; premi il pulsante «controlla i registri»; scegli la sessione che vorresti editare, o controlla le note inserite. Fissa le tue preferenze: premi l’icona «Preferenze»; segui il tasso di recitazione (quante volte lo ripeti in media al minuto, il livello di partenza è 55 daimoku al minuto); premi il pulsante «Salva le tue preferenze». Gli obiettivi-tipo che il fedele può porsi sono senza dubbio variegati: «Trova una nuova casa (trova una casa con una bella stanza per pregare e fare gli incontri di preghiera)»; «Migliora la tua salute (trova un modo per fare più esercizio)»; «Migliora i tuoi rapporti (crea una famiglia più armoniosa)»; «Nuovo lavoro (trova un lavoro più soddisfacente)»; e infine «Pace nel mondo (lavora con più entusiasmo per il kosen-rufu [vale a dire l’età dell’oro che verrà, NdA]». A rendere l’ingresso nella Soka Gakkai ancor più soft – a differenza di altri e ben più invasivi culti da noi osservati – c’è il tradizionale incontro di preghiera, lo zadankai. Ogni giovedì ci si riunisce a casa di un fedele, in gruppi dalle dieci alle venti persone, a seconda della grandezza dell’abitazione. Invitare un amico o un conoscente a uno di questi incontri, o regalargli uno dei loro libri di catechismo, come Felicità in questo mondo,6 è la forma più spontanea e innocente con la quale il culto ikediano si propaga. Il proselitismo si sviluppa in due forme diverse – senza troppo addentrarci in sottigliezze teologiche – lo shakubuku e lo shoju. Possiamo dire grosso modo che il primo approccio, molto più intenso, prevale nei Paesi buddisti; il secondo, quello «soft», in quelli occidentali. In Italia, però, si tende comunque

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ad adoperare la prima espressione. Lo shakubuku, missione richiesta all’adepto, serve ad arrivare all’obiettivo ultimo della Soka, il kosen-rufu,7 cioè la propagazione più ampia possibile della propria dottrina. Una parte importante della riunione consiste nel racconto delle proprie esperienze. Ma come ci spiega Nanni «ai meeting si raccontano le “esperienze”, ma si sconsiglia ogni riferimento agli insuccessi, perché gli obiettivi mancati sono solo “non ancora raggiunti”, e poi perché c’è il rischio di scoraggiare i nuovi arrivati».8 Prosegue Nanni: A differenza di altre organizzazioni il proselitismo non viene effettuato in modo organizzato e pubblico, ma rigorosamente nel contatto personale tra il membro e il potenziale adepto. Quest’ultimo tipicamente appartiene alla sfera delle conoscenze dell’adepto – per parentela, amicizia, ambiente di lavoro, sportivo e così via – e per lo più, al momento dello shakubuku si trova in uno stato di bisogno per qualche aspetto della propria vita: problemi personali, di lavoro, di coppia, fasi depressive, malattia, lutti... Il nuovo arrivato viene invitato a partecipare a uno zadankai e a recitare daimoku. La promessa di benefici provenienti dalla pratica è l’argomento principale per indurre il neofita a sperimentarla, assieme alla raccomandazione di porsi un obiettivo preciso il cui conseguimento confermerà la validità quasi magica della pratica. Nel frattempo viene fatto oggetto del tipico love bombing [cioè dell’overdose di affetto e attenzioni tipica delle organizzazioni settarie, NdA].9 Ma il cuore dello zadankai è ritrovarsi, fedeli e «curiosi», di fronte al mobiletto che custodisce il Gohonzon (ossia la pergamena sacra che si riceve, a mo’ di battesimo, quando si entra nella setta).10 E pregare. Dietro a tutta questa apparente spontaneità, però, si nasconde un accuratissimo sistema di contabilizzazione delle anime (e dei nomi e cognomi) dall’efficienza tutta nipponica. Siamo riusciti a mettere le mani su un documento del 1995 della Soka Gakkai – precedente quindi all’entrata in vigore della legge sulla privacy – chiamato «Manuale di statistica», che disperde l’alone mistico della propaganda interna e inizia a gettare un po’ di luce su quella che è in realtà una struttura fortemente autoritaria e verticistica. L’attività della statistica ha una lunga storia: già all’epoca in cui il signor [Josei] Toda,11 uscito dal carcere alla fine della guerra, cercava di ricostruire la Soka Gakkai, c’era l’esigenza di sapere quante fossero le persone che si avvicinavano all’organizzazione. Da allora anche il Presidente Ikeda ha continuato a prendere in considerazione gli elaborati statistici che gli arrivano

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da tutto il mondo e in questo modo, pur non potendo essere presente personalmente, egli può farsi un’idea di come procede il nostro movimento di kosen-rufu. L’attività della statistica può essere considerata, quindi, come un canale attraverso il quale ci si mantiene in continuo contatto con il nostro maestro. Ikeda e i vertici della Soka, insomma, devono sapere sempre con precisione quali e quante persone partecipano a questi incontri. Il che significa un diluvio di moduli da riempire, come se a un prete spettasse stilare censimento dei parrocchiani presenti a ogni singola messa: i presenti alle riunioni dovranno essere tutti accuratamente registrati con nome e cognome. E poi categorizzati, leggiamo nei regolamenti interni, a seconda del loro status: persone nuove (ex Ospiti): sono coloro che partecipano per la prima volta in assoluto a una riunione. Questa informazione vuole rilevare la diffusione del buddismo nella società, misurando il numero di persone che vengono in contatto con l’Associazione [...]. simpatizzanti (ex Shinrai): si definiscono così le persone che partecipano per la seconda volta a una riunione; tali rimangono fino a che la loro pratica non è costante da un mese. [...] Un individuo si trova a essere inserito tra i Simpatizzanti dalla seconda riunione a cui partecipa, anche se questo si verifica a distanza di anni. [...] Questa categoria raccoglie essenzialmente le persone la cui pratica è incostante [...]. principianti (ex Naitoku): sono coloro che alla data della riunione stanno praticando correttamente da almeno un mese [mattina e sera: si chiama Gongyo, NdA] e non sono ancora membri della Ibisg. [...] membri: sono coloro che fanno parte dell’associazione con questo titolo. [...] responsabili: coloro che alla data della riunione hanno una responsabilità istituzionale (anche come vice) esclusi i responsabili di gruppo [...].

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Tutti dati che poi il «responsabile di statistica di gruppo» dovrà compilare e comunicare al proprio diretto superiore «entro le ore 22». E così via, a cascata lungo la scala gerarchica, secondo una serie di ulteriori scadenze ben precise. Non basta. Alla Soka Gakkai non vogliono sapere solo quanta gente partecipa alle riunioni, e quanti nuovi potenziali membri entrano nella loro sfera d’influenza. Vogliono sapere esattamente quanto prega l’adepto (con tanto di ulteriori tabelline da compilare). Il manuale di statistica non lascia niente al caso: Mentre con le Presenze alle Riunioni si vuole misurare il grado di partecipazione dei membri all’attività per kosen-rufu e il ritmo di propagazione del nostro buddismo nella società (Simpatizzanti e Persone Nuove), con il Quadro Praticanti si vuole avere un dato su coloro che «effettivamente praticano», operando così una «lettura interna» alla nostra associazione: per questo i Simpatizzanti e le Persone Nuove non vengono conteggiate. Si presenta allora il problema di definire chi pratica. Per far questo abbiamo individuato un «metro di classificazione» che [...] ci permette di attuare una indagine statistica. Come indicatore della pratica abbiamo considerato il Gongyo: una persona pratica se, di norma, fa Gongyo12 mattina e sera.13 [...] Con la definizione di «norma» si intende la situazione in cui la pratica di Gongyo è parte integrante del modo di vivere di una persona, come mangiare e dormire. Si può saltare un pasto o non dormire una notte ma, di norma, si mangia e si dorme: così per la pratica di Gongyo. Ma come si fa a misurare qualcosa di così intimo come una preghiera? Questa rilevazione necessita di informazioni precise: è di importanza fondamentale la collaborazione discreta con il corrispondente responsabile istituzionale, dal momento che non sempre è possibile avere la situazione aggiornata della pratica di ogni membro e principiante. Si sollecita così, indirettamente, una maggiore attenzione dei responsabili istituzionali nei confronti delle persone appartenenti al loro gruppo e la collaborazione dei responsabili di settore [...] è assolutamente indispensabile verificare, con il responsabile istituzionale, la pratica di ognuno di questi prima di inserirlo nel Quadro Praticanti.

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Anche per questo, evidentemente, il manuale di statistica offre la sua infallibile soluzione: tenere sotto strettissimo controllo i fedeli attraverso una struttura gerarchica dove tutti hanno sempre sopra di sé qualcuno che li controlla. A spiegarcelo meglio è Mario – nome di fantasia –, un fuoriuscito con una profonda conoscenza dei meccanismi interni della Soka Gakkai. Lo incontriamo alla fine dell’estate nel caffè di un’affollata stazione ferroviaria italiana, e ci mettiamo seduti un po’ in disparte, lontani dalla gente, per parlare con maggiore tranquillità. Per l’intero pomeriggio Mario è un fiume in piena, e risponde a ogni domanda che gli poniamo con assoluta precisione. «Esiste un vero e proprio format Soka Gakkai, uguale per tutti i Paesi in cui viene esportato: è una piramide che non lascia alcun infedele non inquadrato, a partire dalle quattro tipologie principali: Uomo, Donna, Giovane Uomo e Giovane Donna.» (D’ora in poi per brevità li chiameremo come fanno loro, cioè U, D, GU, GD.) Vediamo allora come si struttura questa piramide, dalla base alla punta, secondo uno schema tracciato da Mario: – la cellula di base è il gruppo, che riunisce minimo una decina di fedeli, massimo venti. Il gruppo avrà uno/due responsabili, di solito un U e una D; – due o più gruppi costituiscono un settore, con due/tre responsabili: un U, una D e un G, uomo o donna che sia; – più settori formano un capitolo, che avrà quattro responsabili: un U, una D, un GU, una GD. Il numero dei responsabili può raddoppiare quando il capitolo è molto grande, con l’aggiunta dei rispettivi «vice». Da questo livello in avanti la ripartizione dei responsabili si ripete in questa stessa formula; – i capitoli formano gli hombu; – gli hombu formano un territorio;

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– i territori formano l’area geografica; – le aree formano le macroaree (nome a uso interno). Sono tre: Nord, Centro, Sud. Di fatto i centri sokiani si trovano un po’ dappertutto nel nostro Paese: Palermo, Bari, Salerno, Roma, Firenze (cioè la sede principale), Cecina, Livorno, Grosseto, Falconara Marittima (Ancona), Bologna, Genova, Scarpizzolo (Brescia), Thiene (Vicenza), Milano, Torino e Cagliari; – le aree vengono quindi tenute insieme dal vertice della struttura nazionale. Parallelamente a questa piramide si dipana la struttura dei cosiddetti «staff», ciascuno con una propria divisa. Qualche esempio? «Ce ne sono davvero tanti, non li ricordo neanche tutti.» La ricostruzione che segue, infatti, è frutto di un confronto fra diverse fonti: innanzitutto ci sono i fedeli chiamati a gestire la struttura e le attività dei kaikan, e a star dietro ai membri durante i corsi. È un po’ come una folta schiera di perpetue e chierichetti.14 Loro lavorano in turni di quattro persone, una per ogni genere: gli uomini sono raccolti nel gruppo Prometeo, e vestono pantaloni blu, camicia azzurra, maglioncino amaranto con collo a V e cravatta blu a righe gialle; le donne, riunite nel gruppo Corallo, indossano camicia bianca con coccarda rossa, gonna o pantaloni blu, e golf blu; Soka-Han e il Byakuren, invece, sono rispettivamente «giovani uomini» e «giovani donne»: le ragazze indossano camicie a righe sottili bianche-blu con pantaloni o gonna blu e giacca verde, i ragazzi l’equivalente maschile col giaccone blu. Poi esiste lo staff keibi, formato solo da uomini, «diaconi» cui viene affidata la custodia e la cura degli oggetti di culto, e della sala dove si prega. C’è uno staff tecnico per le manutenzioni. E lo staff Diamante, incaricato delle pulizie, che – spiega Mario – fino a qualche anno fa impegnava complessivamente circa duecento persone. Alcuni di questi, invece, si attivano prevalentemente in determinate occasioni: lo staff autisti (come quello cui apparteneva Fedele) si mobilita in vista dei convegni. Così come il gruppo Vittoria, quello che «riunisce tutti gli adepti che appartengono o appartenevano alle forze dell’ordine e alle forze armate», e sostanzialmente fa da servizio di sicurezza durante gli eventi, ma come vedremo funge anche da servizio segreto interno alla setta.

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Ancora, una folta schiera di adepti dagli incarichi impiegatizi: c’è lo staff abbonamenti che si occupa di curare gli indirizzari per le riviste dell’organizzazione, e deve essere sempre informato se cambi residenza, e lo staff spedizione riviste. Lo staff statistico (come abbiamo appena visto) serve a contabilizzare ogni presenza. Infine c’è lo staff che si occupa delle pubbliche relazioni, «che include, ovviamente, le funzioni di ufficio stampa per presentare ai giornalisti il volto migliore dell’organizzazione. E come dimenticare lo staff dedito alla raccolta degli oboli e delle donazioni?». «Ora,» conclude Mario «se prendi in considerazione tutti i “responsabili” della piramide – a ogni livello: quelli di gruppo, settore, capitolo e così via – vedrai che sono tanti, tantissimi. E ti renderai facilmente conto che oltre il cinquanta per cento degli adepti ricadono, in un modo o nell’altro, in questa categoria. Come a dire todos caballeros, alla fine si sentono tutti “capi” di qualcun altro. Si sentono tutti “importanti”. Anzi: proprio il miraggio di una “carriera” interna all’organizzazione non solo è una molla che spinge i più ambiziosi, ma viene anche usata strategicamente come uno zuccherino, accontentando con una “promozione” alcuni fedeli più “problematici” per farli rientrare nei ranghi. Ma se poi agli incarichi di responsabilità aggiungi le mansioni svolte nei vari staff, allora si può tranquillamente arrivare a dire che l’ottanta-novanta per cento dei fedeli ha un qualche compito da svolgere tutti i giorni. Oltretutto la misura degli impegni cresce proporzionalmente al livello raggiunto nella gerarchia. In poche parole si verifica una vera e propria cannibalizzazione del tempo extra lavorativo dell’adepto, irregimentato15 attraverso una miriade di attività che ti impediscono di pensare, e che ti privano del tempo necessario a curare le tue relazioni sociali. Che importa del resto, se la Soka come dicono16 diventa la tua famiglia, e il kaikan la tua casa? A che serve, se trovi già “tutto” lì dentro? E poi è un’occasione per fare kosen-rufu: se ci credi, come rifiutarla?» Del resto, interviene Fedele, lo si fa nella convinzione che tutta questo darsi da fare «attivi la buona fortuna». Anche sposarsi fra membri fa parte del «pacchetto»: si formano così le cosiddette «famiglie del kosen-rufu», i cui figli (su richiesta) prendono il nome che gli viene suggerito direttamente da Ikeda. Anche loro saranno «figli del kosen-rufu». Insomma, la famiglia allargata Soka Gakkai è strutturata in maniera tale che quasi nessuno dei fedeli resti mai con le mani in mano nel proprio tempo libero. O, perlomeno, senza un incarico che lo faccia sentire in qualche modo «importante». Così prima ti assorbe, e poi finisce col diventare tutto il tuo mondo. Un rischio che Mario e tutti gli altri fuoriusciti da noi ascoltati hanno scontato sulla loro pelle: «Se esci non solo vieni stigmatizzato e mobbizzato dagli amici, ossia le uniche persone che hai avuto il tempo di frequentare... quelli che, come te, stavano dentro la Soka Gakkai... Ma poi non sai davvero più che fare del tuo tempo libero, che fino a quel momento era stato

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monopolizzato dagli impegni della setta... Ti crolla addosso il mondo. Davvero io non so come sia riuscito a non impazzire. Non lo so». 1 Fare daimoku – che vuol dire «grande invocazione» – è sinonimo del recitare il Nam myoho renge kyo. 2 Il fiore del loto, infatti, «simboleggia, secondo la Soka Gakkai, la dottrina secondo cui il desiderio non deve essere negato, ma coltivato come forza per la “rivoluzione umana”» (www.cesnur.org). 3 Ricorda Roberto Baggio: «Credo di essere una delle persone che ha passato più tempo nei bagni che altro. Perché comunque per non disturbare il compagno [Salvatore Schillaci, NdA] mi chiudevo in bagno e praticavo in bagno». 4 In realtà, «di norma viene consigliato di recitarla almeno un’ora al giorno. Se pare probabile che molti adepti recitino per tempi più brevi, non sono pochi quelli che arrivano anche a due, tre ore al giorno» (Franco Nanni, La Soka Gakkai. Come diventare felici senza praticare, 2010). 5]Ibidem. 6 Ibisg (a cura di), Felicità in questo mondo. Un percorso alla scoperta del Buddismo e della Soka Gakkai, Ibisg Editore, Firenze 2001. 7 Letteralmente «proclamare e diffondere ampiamente (il buddismo)». 8 «Nelle situazioni di gruppo è (più o meno implicitamente) vietata ogni espressione di sentimenti negativi, di scoraggiamento, nemmeno di condivisione di esperienze dolorose, a meno che non vi sia un “lieto fine”

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dovuto alla pratica. La gestione degli interventi e delle “esperienze” è all’insegna di un moderato ma sostanziale trionfalismo, grazie al quale ciò che è degno di essere raccontato è il successo, il positivo, il realizzato, il tutto secondo una ottimistica buona fede assai diffusa e sentita anche dalla “base”. Quando e se escono sentimenti e fatti divergenti, essi vengono appena possibile ripresi in mano da qualcuno con il polso necessario; quindi questi cerca di isolare e circoscrivere l’accaduto, “incoraggia” il membro in crisi e lo convince a non raccontare più in pubblico i suoi patemi, perché membri “più giovani nella fede” potrebbero scoraggiarsi...» (Ibidem). 9 «Chiunque passi da una condizione di (anche relativa) solitudine e di isolamento non può che giovarsi degli effetti benefici di avere intorno un gruppo che sostiene, stima, consola, riconosce e individua. In particolare le persone con aspetti depressivi possono migliorare moltissimo il loro umore in tempi anche brevi» (Ibidem). 10 «Quando ho cominciato io» ci racconta Fedele «la pergamena veniva consegnata solo dopo un anno e mezzo circa di pratica. Oggi invece distribuiscono i Gohonzon con estrema facilità, pur di fare massa. Le persone lo ricevono dopo un mese di pratica, anche senza sapere bene come recitare il Sutra.» 11 Josei Toda è cofondatore, col pedagogo Makiguchi, della «Soka Kyoiku Gakkai» (società educativa per la creazione di valore), antesignana dell’attuale Soka Gakkai. Ne fu poi il successore alla presidenza. 12 Cioè la lettura dei capitoli 2 e 16 del Sutra del Loto: Hoben e Juryo. Non in italiano, ma in giapponese medievale. Quindi – a eccezione dei più raffinati conoscitori della cultura nipponica – sostanzialmente senza alcuna idea di che cosa si stia dicendo. 13 «A seconda del ritmo, la recitazione può richiedere quantità di tempo diverse, in media non meno di trenta minuti giornalieri» (Franco Nanni, La Soka Gakkai, cit.).

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14 Attività di portineria, segretariato, pulizie, riordino e accoglienza. 15 «Il nuovo praticante viene ben presto disciplinato nell’uso del tempo, gli viene fornita una struttura d’azione abbastanza precisa entro la quale muoversi. La vita in un certo senso acquista un ritmo, gli eventi si dispongono in sequenze dotate di sviluppo diretto a un fine, e ciò indubbiamente modifica la percezione di sé, del tempo, degli altri. Questa disciplina può non far piacere ad alcuni, ma tutti coloro che provengono da una condizione di relativa anomia e disorganizzazione ne ricavano certamente sensazioni gradevoli con sensibili miglioramenti nel senso di autoefficacia percepita: il soggetto si sente maggiormente in grado di far fronte alle situazioni che vive, e questa sensazione è di per sé un fattore facilitante, specie per persone con bassa autostima. [...] Ma i benefici del principiante Soka, inizialmente goduti pressoché da tutti, tendono poi a diminuire nel tempo, e per alcuni scompaiono completamente» (Franco Nanni, La Soka Gakkai, cit.). 16 «Se consideriamo la Soka Gakkai un po’ come la nostra famiglia e i Centri culturali come la nostra casa, saremo portati a fare attenzione anche alle piccole cose» (Il privilegio di offrire, «Il Nuovo Rinascimento», 15 settembre 2006). 4. Holy Men, Holy Money Nella Soka Gakkai il tempo, il lavoro e il denaro che il fedele dedica alla causa assumono un rigoroso valore dottrinario. «A proposito dell’offerta, Kaneda ha ricordato come un’atteggiamento sincero sia alla base dell’impegno nell’attività buddista (offerta della propria casa, del tempo, ecc.). Anche nel caso dell’offerta di denaro, la sincerità in questa

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azione è la più importante. È un mezzo per creare valore». Un ragionamento che trova la sua ratio nell’impianto dottrinario sokiano: «Kisha [...] significa gettare via con gioia [...] non sono i “soldi” da gettare via ma gli attaccamenti dentro di noi. Anche offrire il proprio tempo, le spese della macchina per partecipare alle attività o fare zaimu richiede questo atteggiamento [...]. Kendon in giapponese significa avidità [...]. Come si può sciogliere l’avidità? Facendo l’azione di gettare via con gioia. È l’unica soluzione per superare con facilità gli attaccamenti.»1 Questo è lo zaimu: «Zai significa tesoro, mentre mu indica il diritto-dovere di sostenere l’organizzazione».2 Quindi è «doveroso» che l’adepto dedichi al proprio culto oltre a gran parte della propria vita, anche una buona parte del suo stipendio. Doveroso, anzi, «naturale». Naturalmente desidererò dare il mio sostegno in tutti i modi possibili [...] Questo sostegno è la recitazione del daimoku, lo shakubuku, il tempo che si dedica all’attività buddista, l’offerta della casa per le riunioni, spesso della propria macchina, della propria benzina, del telefono... e il sostegno alle attività dell’Istituto tramite lo zaimu. In una parola, è l’offerta della propria vita. L’offerta come la intendiamo noi non è un semplice finanziamento [...]. Il suo spirito è chiarito molto bene da una storia che racconta Nagarjuna nel «Daichido ron»: nell’Ultimo giorno della Legge del Budda Sentara, Shariputra stava conducendo la pratica della donazione da sessanta eoni (ne mancavano «soltanto» quaranta per completare cento eoni) quando un brahmano gli chiede di donargli un occhio; Shariputra glielo dà, ma questo lo annusa e poi, disgustato, lo getta a terra e lo calpesta. La storia non ci racconta cosa accede poi al brahmano, ma ci dice invece che Shariputra iniziò a dubitare, abbandonò la pratica e cadde nell’inferno per innumerevoli eoni.3 Nessuna costrizione,4 ma un forte incoraggiamento gli arriva dal principio religioso. Stimolato da occasioni come gli Zaimu Day, che si organizzano a mo’ di festa le domeniche ai kaikan – con tanto di banchetti per chiedere ai fedeli di contribuire. Donare ti farà stare meglio per due buone ragioni: la prima è che «gli attaccamenti fanno soffrire. [...] Anche l’attaccamento al denaro si può trasformare tramite la recitazione del daimoku [cioè del loro mantra, NdA]. Lo spirito dell’offerta è un aspetto essenziale della nostra pratica buddista. Non è un obbligo, la libertà è totale, ma non è neanche un dettaglio tecnico».5 La seconda è che, facendo zaimu, l’adepto in realtà «sta facendo offerte a se stesso».6 Tradotto: anche donare alla Soka, alla fin fine, implica un tornaconto personale. Lo dice chiaramente Flavia Zini, del Comitato direttivo finanziario

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(cioè la cassaforte dell’Ibisg): «Una volta [...] una persona mi ha chiesto: “Quando uno ha zero, che cosa può offrire?”. Io non ho saputo rispondere e lei ha proseguito: “Si offre la metà di zero?”. Le ho risposto di sì. Poi le ho firmato una ricevuta di cinquantasei centesimi che all’apparenza sono niente, ma nella sostanza per questa persona rappresentavano il massimo sforzo possibile. Ho saputo che in seguito le cose hanno cominciato ad andarle molto meglio, anche sotto il profilo economico».7 Concorda Francesco Geracitano, oggi direttore del Cdf: «Chi agisce così sta certamente creando delle cause estremamente positive per la sua vita»8. Ma se proprio ci tieni a fare zaimu, il consiglio è quello di venire incontro ai commercialisti dell’organizzazione. Lo spiega ancora Geracitano: «Per chi è chiamato a gestire il denaro che proviene dallo zaimu il compito è più facile se entro i primi mesi dell’anno sa anche approssimativamente “quanto” deve gestire. Si può avere una migliore programmazione. Ma non può essere considerata una regola: che offerta “spontanea” sarebbe, altrimenti?». A ogni buon conto, il vicedirettore generale aggiunge che «a me piace fare zaimu il primo gennaio. Mi sembra in accordo con quanto scritto [...] nel Gosho di Capodanno [...]: “Il tuo cuore che desidera fare offerte al Sutra del Loto ora, all’inizio del nuovo anno”.».9 «Ogni livello dell’organizzazione ha i suoi obiettivi da raggiungere» spiega Mario. «Questi riguardano non solo i fedeli attivi,10 ma anche la quantità di offerte versate. Alla fine dell’anno questi obiettivi vengono verificati. Il fedele, cioè colui che ha firmato la scheda di adesione alla Soka, riceve regolarmente sei bollettini di conto corrente dall’addetto alla loro distribuzione. Poi va alla posta e paga. Non c’è una cifra prefissata, ma è chiaro che ogni responsabile di gruppo conosce bene la vita dei membri: i gruppi di base sono abbastanza piccoli, quindi ha modo di conoscerli tutti. Nei membri, inoltre, si crea un rapporto di dipendenza: è il responsabile che ti consiglia nella fede, quindi anche nella vita. Quindi anche negli affari. Lui ti conosce abbastanza bene da sapere anche quanto guadagni: e più guadagni, più potrai permetterti di donare». Quando era ancora l’uomo forte dell’organizzazione, Littera lo diceva papale papale: «Mettetevi scopi grandi. Per esempio se recitate per il vostro stipendio non mettete lo scopo di due milioni al mese, ma di cento milioni, non mettete limiti altrimenti raccattate poco. Anche per il lavoro se mettete lo scopo di diventare direttori di banca, recitate e studiate, male che vada diventate dirigenti, ma se mettete lo scopo di fare il portiere, se fallite sarete disoccupati.»11 Oggi i toni si sono solo fatti più soft. Anche dopo lo zaimu di Capodanno le spese dell’adepto sokiano non si esauriscono: l’Ibisg edita ben tre testate: «Il Nuovo Rinascimento» (un mensile, al costo per gli abbonati di 34 euro l’anno), «Buddismo e Società»

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(ex «DuemilaUno», bimestrale, 15,50 euro l’anno), e «Il Volo Continuo» (un settimanale rivolto ai giovani adepti). Abbonarsi – attraverso altri appositi bollettini – per il fedele, è doveroso: «“Leggete, amate e proteggete il giornale” scrisse sensei [cioè Ikeda, NdA] nel messaggio inviato alla nascita del “Nuovo Rinascimento”. Leggere i giornali buddisti [...] – ha detto Mitsuhiro Kaneda, direttore generale onorario dell’Istituto [...] è necessario anche per l’Illuminazione e la felicità individuale. [...] “Parlate ai nuovi membri dell’importanza di abbonarsi alle riviste dell’Istituto”».12 Per non parlare dei libri di catechismo e di approfondimento, scritti da Ikeda e da altri autori sokiani, e pubblicati da Esperia, la casa editrice dell’Ibisg (a cominciare dal loro best-seller Il Budda nello specchio).13 Adamo, un altro fuoriuscito da noi intervistato per cui ancora una volta usiamo un nome di fantasia, ci presenta la compilation indispensabile alla libreria del fedele sokiano: il Sutra del Loto, il libretto del Gongyo, ovviamente, e i vari Gosho. Poi La Rivoluzione Umana, dieci volumi scritti da Toda (costo 75 euro), e La Nuova Rivoluzione Umana, sedici volumi scritti da Ikeda (85 euro). Ma per un devoto ikediano l’esborso non finisce neanche qui. Quando hai fatto la tua offerta alla Soka, ti sei abbonato alle sue riviste e hai sistemato sugli scaffali la biblioteca minima pubblicata dalla sua casa editrice, la lunga lista della spesa-di-rito prosegue. Anche online. Basta sfogliare il catalogo dei prodotti offerti dalla «Creacommercio Srl»14 (cioè il negozio di proprietà dell’Ibisg). Per esporre e conservare la pergamena del Gohonzon è necessario un apposito mobiletto con le antine chiamato butsudan: 60 euro per il modello economy rovere, 295 per l’extralusso «zaffiro con luce e pomelli» (in tre stili: ciliegio, naturale e noce). Se poi hai spazio, e soldi da spendere, per ospitarlo puoi comprarti un intero armadio. L’«elegant» costa 936 euro, ma se scegli il «butsudan special chiave» il prezzo sale a 1156. Alla base del Gohonzon si mettono dei fregi chiamati «guardiani», oggetti in metallo con in cima il logo della Soka (dai 26 ai 55,60 euro a seconda delle dimensioni), mentre davanti a esso devi collocare l’ampollina porta acqua (in plastica 4,60, ma se scegli quella dorata sono 33,50) e la ciotola portafrutta (10,50), che servono a fare le tue offerte rituali al mattino. Per accompagnare la preghiera ci vuole una campana. I prezzi partono dai 17,50, ma ce ne sono di ogni costo e misura, per arrivare a quelle più grandi da 1150 euro (che di solito si usano nei kaikan). La campana necessita di una base in legno o in plastica su cui appoggiarla (dai 3,60 ai 63,50) o di un

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cuscino, che va dai 6 ai 93 euro per quelle molto grandi. E ovviamente di un batacchio, perché in quelle buddiste non è agganciato alla campana, e quindi si compra a parte: da 1,50 fino a 123 euro (e si ripone sul portabatacchio, dagli 8,90 ai 25). Ma servono anche incenso e candele. Per l’incenso la scelta è vasta: può essere una spesa da niente se scegli la carta aromatica d’Eritrea, appena 4 euro, mentre con 21 puoi trattarti bene e optare per l’incenso «Taiyo-Ciliegio». Ma se cerchi l’alta qualità arrivi a sborsare 80 euro per il tipo «Kyara Taikan». Adoperare l’incenso richiede ulteriori strumenti: bruciaincenso (vai dagli 8 ai 19,40), portaincenso (fra i 6 e gli 8,40), e scopino per la cenere (7 euro). Per le candele invece puoi spendere sei euro per dodici pezzi del tipo Tealights Fiore, 2,50 per due candele profumate, e 15 euro per venti candele Libra Avorio. Ovviamente avrai bisogno dei candelabri (4,70-7 euro) e degli spegni-candele (1,60-4 euro). Lo juzu è una specie di rosario, costa 9 euro se in plastica, ma può benissimo lievitare fino a 112,60 se scegli quello grande in legno di sandalo (poi lo conservi nel sacchetto apposito, dai 6 ai 13,50 euro). Esiste perfino un timer per la preghiera, il «contaminuti piccolo quadrato» (13 euro, ora superato dalla fantastica app My Daimoku), nonché uno «sgabello abete», per recitare davanti al Gohonzon standotene seduto (8,40). E quando sei in viaggio, il tuo omamori (una specie di mini Gohonzon da viaggio) te lo puoi portar dietro con un astuccio: 8,30 per quello economico, 19,40 per quello in legno. Oltre agli oggetti del culto, però, il negozio online offre anche una vasta gamma di gadgettistica a cavallo fra il sacro e il profano: bracciali, ciondoli in acciaio, argento e «similoro», ventagli, borse di cotone, calamite, fermacarte, bandiere e bandierine da ufficio, cappelli da baseball, segnalibri magnetici, quaderni con in copertina la scritta Nam myoho renge kyo, bloc-notes, penne, raccoglitori per documenti, adesivi, spille da uomo, da donna, e da «giovani» (in vari colori), bigliettini, portachiavi, porta-badge-cellulare, calendari da tavolo, nonché un’appariscente matita Swarovski. Tutto merchandising con – ben impresso – il logo della Soka Gakkai. Tutte le entrate della Soka (che includono le offerte periodiche dei giapponesi in visita al kaikan fiorentino) sono quindi oculatamente amministrate dai sette membri di un apposito Comitato direttivo finanziario, spiega Mario, il quale ha un’importanza di fatto superiore a quella del Consiglio dei ministri di culto, semplicemente perché ha in mano i cordoni della borsa. Il Cdf impiega queste risorse per la gestione dell’Istituto, il pagamento dei dipendenti, gli investimenti finanziari, nonché per i suoi obiettivi di lungo periodo, fra i quali «l’apertura di nuove sedi e il mantenimento di quelle attuali»,15 ergo terreni e immobili. Ma siccome lo zaimu ha un significato religioso talmente forte da riflettere in qualche modo gli slanci emotivi degli

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adepti, è chiaro come – anche solo tenendo d’occhio le oscillazioni delle donazioni – i membri del Cdf, e quindi i vertici dell’organizzazione, abbiano a disposizione un ottimo termometro degli umori dei fedeli. Racconta Geracitano: «In Italia, per un lungo periodo molti membri partecipavano con entusiasmo allo zaimu, spinti dalla fiducia nei confronti dell’organizzazione. Un problema come quello [che le offerte possano essere usate male, NdA] era impensabile. A un certo punto, in particolare in un periodo in cui abbiamo affrontato una situazione molto difficile, abbiamo subìto una caduta verticale di fiducia nei confronti dell’istituto. Le conseguenze si avvertono ancora oggi nella partecipazione alle riunioni, come nello zaimu, negli abbonamenti alle riviste e in tanti aspetti della vita associativa. È importante ricostruire la fiducia». Lo conferma Flavia Zini16 del Cdf: «Avevamo notato che [...] la partecipazione allo zaimu era in diminuzione. Sicuramente su questi due fattori influivano i problemi che aveva attraversato la Soka Gakkai negli anni scorsi». Geracitano individua il «picco negativo» dell’offerta nel 2003, annus horribilis della Soka Gakkai. Ma i problemi, spirituali e quindi finanziari, erano iniziati qualche anno prima. È ancora una volta Mario – che ha rivestito un ruolo tale nei ranghi sokiani da sapere bene quel che dice – ad aiutarci a quantificare i danni subiti dalle finanze dell’organizzazione: «Fino al novembre-dicembre 2000 le offerte raggiungevano i 7,2 miliardi di lire l’anno. Poi l’offerta crollò a picco, fino al 70-80 per cento in meno. È in quel periodo che nella Soka scoppia il casino». Che cosa era successo? 1]Lo spirito dell’offerta e i Centri culturali, «Il Nuovo Rinascimento», 1° ottobre 2005. 2]Il privilegio di offrire, «Il Nuovo Rinascimento», 15 settembre 2006. 3 Lo dice Francesco Geracitano, vicedirettore generale italiano della Soka in un’intervista (Ibidem). 4 «A differenza di altre sette che sottopongono gli adepti a programmi standardizzati e prefissati di condizionamento, la SG predispone un contesto

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comunicativo denso di stimoli motivanti, lasciando però al singolo la modulazione dei propri comportamenti all’interno dell’organizzazione, certi che la densità, della rete di stimoli porterà gran parte degli adepti a svolgere la maggior parte delle azioni proposte, in vista degli attesi benefici» (Franco Nanni, La Soka Gakkai, 2010). 5]Il privilegio di offrire, cit. 6Ibidem. 7 «Spiega Nichiren nel Gosho La Torre preziosa: “Potresti pensare di aver fatto offerte alla Torre Preziosa del Budda Taho, ma non è così. Le hai offerte a te stesso”» (Flavia Zini, Le giornate dell’accoglienza, «Il Nuovo Rinascimento», 15 settembre 2006). 8]Il privilegio di offrire, cit. 9]Ibidem. [10 «[Tamotsu Nakajima ha detto che] il modo migliore di ripagare il debito di gratitudine nei confronti del maestro [...] è fare shakubuku. Lo scorso anno avevamo deciso di realizzare lo scopo di accogliere due persone nuove per ogni gruppo, ma visto che si è realizzato solo in parte, per la fine dell’anno in corso, rideterminiamo lo stesso scopo più quello che non abbiamo raggiunto lo scorso anno» (Non basta «sapere» occorre «fare», «Il Nuovo Rinascimento», 1° ottobre 2006). 11 Estratto dal discorso tenuto da Giovanni Littera alla riunione per la commemorazione del 71° anniversario della fondazione della Soka Gakkai presso l’Hombu Etruria di Firenze, 22 novembre 2001.

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12]Lo spirito dell’offerta e i Centri culturali, cit. 13 Tesi di laurea di Chiara Ciaramella, «La Stampa dei “Costruttori di pace”: il caso di Daisaku Ikeda», Facoltà di Scienze politiche dell’Università degli studi di Milano, relatore Ada Gigli Marchetti, anno accademico 2006-2007. 14www.creacommercio.it. 15]Lo spirito dell’offerta e i Centri culturali, cit. 16 Flavia Zini, Le giornate dell’accoglienza, cit. 5. Nessuno si aspetta l’inquisizione sokiana Il 1° agosto 2002 l’ufficio stampa dell’Istituto buddista italiano Soka Gakkai diffonde la seguente «nota informativa»: «A seguito dell’articolo a firma di Maria Immacolata Macioti lesivo dell’immagine dell’Istituto è stato sospeso l’iter dell’intesa con lo Stato Italiano». Maria Immacolata Macioti è ordinario di Sociologia alla Sapienza di Roma, e solo pochi anni prima, nel 1996, sulla Soka Gakkai aveva scritto un libro dai toni tutt’altro che critici: Il Buddha che è in noi. Germogli del Sutra del Loto.1 Che c’entrava un’accademica col «patentino statale» di religione della Soka? Ben poco. Eppure segue di pochi giorni un altro comunicato dai toni ancor più aggressivi: «La sospensione a tempo indeterminato dell’intesa è stata la

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conseguenza dell’articolo a firma di Maria Immacolata Macioti che ha descritto l’Ibisg come una setta pericolosa e ha diffamato i suoi dirigenti. Ma anche a causa di membri dell’Istituto che hanno scritto contro l’intesa, lettere inviate anche ad alte cariche dello Stato Italiano, tra cui lo stesso presidente della Repubblica». Insomma i firmatari della nota, cioè il presidente Mitsuhiro Kaneda e il suo braccio destro, Giovanni Littera, gridano al complotto. L’intesa però, come confermano tutte le fonti intervistate, non saltò affatto a causa della Macioti, capro espiatorio di una situazione interna esplosiva. La docente si era limitata a dar voce a un profondo malcontento covato da tempo fra molti fedeli sokiani «inquisiti», e mai prima di allora trapelato al di fuori delle mura dei kaikan. La sociologa aveva soltanto scoperchiato il vaso, con un suo articolo:2 Ho scoperto recentemente che la SG ha attraversato un periodo di grandi difficoltà interne. [...] In sintesi, alcuni dirigenti e in particolare un vicedirettore generale nominato tale dall’alto, dal direttore generale italiano Kaneda, un certo G. Littera, si sarebbero fatti spazio all’interno del movimento instaurando un regime di intimidazioni e minacce. [...] Vengo a conoscere una SG che mentre miete pubblici plausi [...] è in profonda crisi al proprio interno. [...] Leggo di membri «infamati e sottoposti a sommari processi», di «comportamenti autoritari e gravemente lesivi della dignità umana». Di «lesione delle libertà individuali». Di direttive che escludono espressioni di disaccordo, che esortano chi non è d’accordo ad andarsene. Altrimenti, seguirà l’espulsione. Leggo di riunioni «diffamatorie e aberranti». Di una realtà che «all’esterno si presenta come dedita alla difesa dei diritti umani, ma che poi al suo interno viola quegli stessi diritti». Di una associazione i cui anziani responsabili sono stati esonerati senza preavviso dalle loro funzioni, sostituiti con giovani più vicini a questo nuovo, improvvisato dirigente. Il quale nei suoi scritti (editoriali firmati sulla rivista rivolta ai membri, «Il Nuovo Rinascimento»), [...] privilegia [...] decisamente l’obbedienza. I membri dovranno seguire le direttive (aprile 2000, editoriale); altrimenti, occorrerà intervenire con severità (luglio 2000). [...] Nel settembre dello stesso anno si annuncia che si può togliere la responsabilità «a chi è fermo», a chi «intralcia il progresso di kosen-rufu»: e sembra che circa 1500 responsabili siano stati, in effetti, allontanati in modo traumatico. [...] Restano, viene chiarito, quelli disposti a obbedire senza

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discutere. Secondo la denuncia di molti che a queste direttive non intendono sottostare, si va verso un clima da caccia alle streghe [...] una ingiustificabile intromissione nella vita privata di responsabili e membri. Si incoraggiano da parte di alcuni dirigenti paura e delazione. I «dissidenti» [invece] respingono l’insegnamento della severità da applicare a chi non cambia (insegnamento presente nei numeri di aprile, maggio e luglio 2001), l’insistenza sulla necessità dell’obbedienza. Si comincia a parlare di «lavaggio del cervello». [...] Monta la rabbia nei confronti di un nuovo Regolamento distribuito durante un corso estivo.3 Intanto da parte di alcuni dirigenti – sempre gli stessi – si parla della presenza di «traditori», di gente che complotterebbe per eliminare i direttori generali (settembre 2001, «Il Nuovo Rinascimento», n. 242, a firma di Andrea Bottai). Alla fine del 2001, a quanto posso capire dai materiali che ho tra le mani, la situazione è ormai molto grave. [...] Con Kaneda, il responsabile per l’Italia, il rapporto di fiducia è ormai per alcuni membri incrinato, compromesso. [...] Littera nel frattempo ha pubblicamente pronunciato una frase, che farà il giro dell’intero Istituto Buddista Soka Gakkai: «Da oggi è abolita dalla nostra organizzazione l’espressione “Non sono d’accordo”». Frase che diverrà, in breve, notissima e famigerata. [...] Tra le addolorate richieste di aiuto ve ne sono alcune che mettono in luce la scarsa attenzione e sensibilità [...] da parte della nuova dirigenza nei confronti di portatori di handicap e di omosessuali,4 su cui ci si è espressi con parole come minimo disdicevoli, in pubbliche assemblee. [...]. Occorre il coraggio di interrogarsi in profondità [...]: non è credibile che una sola persona con pochi sostenitori abbia potuto imporsi a un vasto movimento, senza inizialmente trovare un freno. Vuol dire che già vi erano, a mio parere, modalità autoritarie, o quantomeno spazi di questo genere. Le denuncia della Macioti è forte, ma corredata da numerose testimonianze. Perciò viene ribadita e approfondita nel novembre dello stesso anno:5 A forme di gestione più o meno democratica se ne sono sostituite altre decisamente autoritarie, rafforzate da un dogmatismo duramente dichiarato e applicato [...] In questa ottica le frange «deboli» del movimento [...] sembrano essere divenute non già superflue ma decisamente controproducenti. [...] [tant’è che] si è verificato un forte degrado in termini di associazionismo, con l’espulsione o l’emarginazione di handicappati, di omosessuali, di persone con problemi di droga,6 ecc. [...] Vi sono, all’interno dell’Ibisg, dei traditori: vanno allontanati. [...] Uno di loro viene accusato in una seduta pubblica di far

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parte di un complotto contro presidente e direttore, e si insisterà a lungo, con minacce verbali e modi intimidatori, per far emergere gli inesistenti nomi degli aderenti al supposto complotto, con comportamenti più vicini all’operato di una squadraccia fascista [...] che non di un gruppo religioso. [...] Si arriva a minacce personali: vi è chi viene pedinato, chi ha la casa sorvegliata. A qualcuno vengono letti i file presenti nel suo computer. [...] Non solo: c’è chi utilizza notizie apprese in una relazione privata e privilegiata, quella occorsa perché si è «chiesto guida», per gettare fango sul supposto nemico. Ne sa qualcosa Mario, che di processi e pedinamenti ce ne parla per esperienza personale: «Le regole imposte dalla dirigenza di Kaneda e Littera diventano sempre più rigide a partire dal 2000, subito dopo il riconoscimento della Soka Gakkai come “ente religioso”, e la nomina di Littera a vicedirettore generale. Ogni forma di dissenso viene negata a priori. I vertici arrivano a dire che c’è “una generazione di responsabili da rottamare”. Per cui tutti quelli che “remano contro” in quel periodo vengono sistematicamente isolati e diffamati. Furono oltre seicento in un anno. I loro nomi fatti in pubblico. E processati in privato: dal gennaio del 2001 si scatena una vera e propria inquisizione interna, alla quale non partecipavo, e per questo venivo guardato male. Come funziona l’inquisizione? Si va in due o tre persone a casa del responsabile e gli si fa un vero e proprio processo, con gli altri due che servono da testimoni. Si processava, e nel caso dei personaggi più scomodi, si spiava». Del resto le risorse umane da utilizzare anche a questo fine non erano mai mancate: «La Soka Gakkai faceva già da prima una specie di spionaggio industriale. I fedeli venivano mandati a lezione dai membri del gruppo Vittoria, cioè uomini che avevano avuto esperienza nelle forze dell’ordine, per imparare come si pedina la gente. Questo perché la Soka aveva paura che i preti rivali rubassero loro i fedeli». Si riferisce a quelli della Nichiren Shoshu, cioè il culto da cui la setta ikediana si era separata. Fu a causa di questa «santa inquisizione» che un po’ ovunque in Italia si sollevarono delle fronde interne: Milano, Torino, Genova, Firenze, Pisa. Eccezion fatta per Roma, i cui fedeli erano rimasti al riparo grazie all’opposizione interna delle colombe di Nakajima, che ha il suo «feudo» nella Capitale. «Quello di Roma lo chiamavano il “muro di gomma”. Ma nel resto del Paese si diffondeva il malcontento. Si raccoglievano le testimonianze delle persone offese, e si inviavano in Giappone, nella speranza che a Ikeda e ai suoi gliene potesse importare qualcosa. Il traduttore dall’italiano al giapponese fu beccato e processato anche lui.»

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Una voce importante, all’epoca, fu quella di Nichiren 22, l’autore di una lettera aperta7 in cui faceva le pulci agli editoriali sokiani che davano «la linea». Lettera che lasciò il segno nelle coscienze di molti adepti, e diede inizio alle fronde interne. «Nel mondo della fede si deve rispondere: sì. [...] Dal momento che il maestro significa più esperienza, più compassione, più conoscenza, discepolo significa poca esperienza, poca compassione, poca conoscenza, e allora prima occorre “fare” ciò che indica il maestro, eventualmente se ne può discutere in seguito». [...] Banalmente il maestro è il responsabile che sta sopra di te, come si evince da quanto scritto nel paragrafo precedente: «Se si prova gratitudine verso i nuovi responsabili che si stanno sforzando per la nostra crescita, si sente gioia; se invece si comincia a pensare allora nasce una grande sofferenza». (Ibid.) In pratica il responsabile ha sempre ragione [...] e se anche sbaglia [...] bisogna comunque masochisticamente ringraziarlo. In cambio della sottomissione viene promessa la gioia; altrimenti per il dissidente si aprono le porte della sofferenza oltre che del disprezzo: «chi si ribella è un codardo». [...] Infine il testo afferma che «occorre fare e poi eventualmente discutere», frase che ricorda il motto dei dittatori di ogni epoca [...] In altre parole le decisioni prese da altri devono essere interiorizzate e considerate decisioni proprie. Quindi non si chiede solo l’ubbidienza esterna, ma addirittura la rinuncia ad avere idee personali. [...] Lasciamoci andare (noi bambini incapaci di affrontare i demoni che imperversano nel mondo) al maestro, alieniamo totalmente la nostra volontà [...]. Solo così possiamo sperare nella felicità. Ma questa non è l’etica della virtù né del dovere; è semplicemente l’etica dell’autoritarismo di una piccola setta incapace di radicarsi in modo profondo e duraturo nella realtà italiana. [...] Il buddismo è stato ridotto alla mera ubbidienza. [...] Siamo in presenza di un’organizzazione autoritaria, gerarchica, con un unico scopo ben chiaro: controllare la vita delle persone impedendo loro di crescere e mantenendole in uno stato di perenne e infantile soggezione. Alla casa madre giapponese la situazione iniziava effettivamente a risultare scomoda, non foss’altro che per il rischio di un ingente danno d’immagine. Così a gennaio del 2001 il Consiglio nazionale (cioè il direttivo italiano) viene convocato a Tokyo. E qui i capi della filiale vengono convinti dai superiori della casa madre a sottoscrivere un mea culpa, per non creare «preoccupazioni al nostro Maestro». La lettera in questione, meglio nota fra i fedeli col nome di «risoluzione di Tokyo», diceva questo: Si è creata in Italia una situazione di grave disagio tra i membri [...] Nel corso delle riunioni che si sono tenute presso il quartier generale della Sgi si sono

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affrontati questi problemi. [...] Si è giunti alla conclusione comune che [...] il sistema autoritario che si è venuto a creare ha provocato la sofferenza di un gran numero di persone. Non vogliamo in alcun modo trascurare questa sofferenza. In questi due anni si è creata in Italia anche una divisione all’interno dell’Istituto tra chi sosteneva la linea ufficiale e chi manifestava il proprio dissenso. [...] I direttori generali si sono assunti la responsabilità piena di tutti i problemi che si sono creati e si sono sinceramente scusati. Lettera che avrebbe dovuto comparire sul numero di agosto 2002 de «Il Nuovo Rinascimento», accompagnata da un editoriale intitolato Un nuovo punto di partenza: Noi, membri del Consiglio nazionale, con questa lettera intendiamo pubblicamente ammettere che, nella nostra organizzazione, dei responsabili hanno commesso azioni deplorevoli a causa dell’immaturità di fede e dell’incomprensione dello spirito del buddismo e del cuore del maestro nei confronti di persone sincere che sono state ferite con parole e azioni. [...] La confusione del passato nasce dall’aver deviato dalla strada [...]. Il Consiglio nazionale ha iniziato a impegnarsi per risolvere questo problema; ammettendo per prima cosa i fatti accaduti, sforzandosi quindi [...] per far tornare serenamente all’attività le persone che sono state ferite. I membri del Consiglio nazionale sono fermamente decisi a risolvere questo problema, [...] ascoltando umilmente la voce di ogni singolo membro tramite un dialogo paziente. [Per] cambiare l’attuale situazione da veleno in medicina. Peccato che né l’editoriale, né il testo della risoluzione verranno mai ufficialmente pubblicati (ma verranno comunque ampiamente diffusi grazie alla mailing list Tracce 2, il principale strumento di comunicazione tra i ribelli). È del 16 luglio del 2002 una lettera firmata da centoquarantatré «ultrà» a cui le cose invece andavano bene così com’erano, e che si opponevano alla pubblicazione del testo della risoluzione in nome dei panni sporchi da lavare in casa: Forse questi Ministri di Culto non sono neanche a conoscenza che «Il Nuovo Rinascimento» è un periodico che viene letto anche al di fuori del nostro Istituto. Forse questi Ministri di Culto non si rendono conto che pubblicare un articolo (peraltro già noto) che parli esplicitamente di autoritarismo all’interno dell’organizzazione su un giornale che viene per legge consegnato anche alla

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Polizia di Stato e alla magistratura può mettere in serio pericolo la stessa Intesa. [...] Ci dichiariamo assolutamente contrari alla pubblicazione della «Risoluzione di Tokyo» e della suddetta prefazione. [...] Invitiamo la Redazione de «Il Nuovo Rinascimento» a riflettere e a decidere di proteggere l’Istituto [...] Le persone sono fondamentali, la felicità delle persone è fondamentale, per cui l’Intesa è fondamentale. La politica interna della Soka italiana, e la furia censoria che scatena l’inquisizione, quindi, hanno una radice comune: l’ansia d’Intesa. Il perché lo scopriamo in un documento8 interno dell’Ibisg: «Essa rappresenta un riconoscimento di status e di valore in quanto religione. Questo eliminerebbe ogni possibile fraintendimento rispetto al nostro movimento. Avrebbe anche grande rilevanza per le altre organizzazioni della Sgi dei vari paesi europei, alcune delle quali hanno difficoltà di rapporti con i rispettivi governi.9 Di fronte a una Intesa della Soka Gakkai italiana con lo Stato anch’esse otterrebbero maggiore rispetto e credibilità». Insomma, una questione d’immagine in Italia e all’estero, per lavar via ogni «fraintendimento»: cioè scrollarsi di dosso l’etichetta settaria. Senza contare, ovviamente, gli altri vantaggi dell’8 per mille: «Quando abbiamo preparato la bozza di Intesa abbiamo pensato di non porre limitazioni a quanto previsto dalla legge. Per questo motivo la nostra Intesa prevede di accedere all’8 per mille sia per quanto riguarda le preferenze espresse che le proporzionali. [...] Anche se è difficile prevedere l’entità del gettito finanziario proveniente dall’8 per mille, basta osservare l’esempio di altre confessioni per rendersi conto che si tratta di cifre importanti con le quali possono essere realizzate tante opere coerenti con i nostri obiettivi». E a scanso di ogni equivoco dottrinario: «Non esiste incompatibilità. Alcuni interpretano questo contributo come un’offerta dei contribuenti e quindi sostengono che non sia corretto accettare offerte da chi non pratica. In questo c’è un errore di base: non sono offerte. Questo contributo nasce dalla volontà dello Stato di sostenere le confessioni religiose [...] e non dalla scelta dei singoli cittadini. Infatti ai contribuenti viene comunque prelevato l’8 per mille sia che esprimano una preferenza sia che non la esprimano. La preferenza serve allo stato per definire la proporzione con cui ripartire il suo contributo tra le varie confessioni. [...] Questo non è assolutamente in contrasto con la dottrina buddista». Il contrasto, infatti, più che nella dottrina, fu tutto a livello della politica interna della setta. Sotto lo sguardo impassibile dei commissari sokiani giapponesi, inviati a monitorare da vicino la situazione della loro filiale per riportare le cose sotto controllo, e nella più assoluta indifferenza delle

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istituzioni italiane,10 l’Intesa si arenerà nel 2003, e per i successivi sette anni. «Per questioni tecniche, ma soprattutto per poter rimpiazzare il falco Kaneda, cioè il responsabile del clima inquisitorio, con la colomba Nakajima. Quindi alla fine fu il braccio di ferro a far ribaltare il tavolo, nient’altro» racconta Mario. «Ma nessuno dei vertici fu allontanato, o tanto meno si dimise dall’organizzazione. Si mise tutto a tacere, e poi non se ne parlò più. Dopo il regolamento dei conti interno, tutto finì in gloria.»11 Tant’è che oggi Kaneda e i suoi falchi stanno ancora lì, che convivono pacificamente con le colombe. E si adoperano per l’ennesimo ribaltone. 1 Maria Immacolata Macioti, Il Buddha che è in noi. Germogli del Sutra del Loto, Seam, Formello 1996. 2 Maria Immacolata Macioti, L’Istituto buddista italiano Soka Gakkai a un bivio, «La critica sociologica», 1° agosto 2002. 3 Regolamento che in effetti appare più simile a un testo appositamente concepito per rassicurare il ministero dell’Interno che a un vero e proprio decalogo di natura etico-religiosa. Infatti della sua adozione è Cardia – profondo conoscitore della terminologia ministeriale – a parlare (Siate orgogliosi dei valori che abbracciate, «Nuovo Rinascimento», settembre 2001). Ma diamo un’occhiata al regolamento in questione: «Art. 1. L’Organismo competente a irrogare sanzioni disciplinari nei confronti di fedeli appartenenti all’Istituto buddista italiano Soka Gakkai è il Consiglio dei Ministri di Culto, riunito sotto la presidenza del Presidente dell’Istituto, e integrato dalla partecipazione del Diretto. Art. 2. Qualora un appartenente all’Istituto tenga un comportamento gravemente contrastante con i principi etici che sono a fondamento dell’Istituto e, in quanto conosciuto a livello associativo, suscettibile di provocare turbamento nella comunità dei fedeli, può essere sospeso da ogni attività dell’Istituto stesso per un periodo di tempo tra i sei mesi e i cinque anni. Analoga sanzione può essere deliberata nei confronti di fedeli che esplicitamente e continuativamente neghino o contrastino i principi dottrinali fondamentali della religione di Nichiren Daishonin, come recepiti dall’Istituto». In parole povere se ti azzardi a comportarti da «pagano», o a coltivare un pensiero «eretico» rispetto alla dottrina sokiana, ti spetta l’immediata «scomunica».

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4 Da un’anonima lettera aperta del 15 giugno 2002 intitolata Sui finocchi cinesi: «Devo [...] affermare che la discriminazione contro i gay nella SG italiana non è un’invenzione di L. (che ha però l’innegabile merito di avere cercato di applicarla con ottuso zelo). Da quando ero responsabile di settore (anni 1984-1985) ho iniziato a partecipare, da “auditore”, alle riunioni nazionali della dirigenza. In una di queste riunioni K. spiegò che i responsabili “centrali” (leggi “uomini”) di capitolo e hombu [...] possibilmente dovevano essere sposati e con lavoro fisso, altrimenti la società non si sarebbe fidata di noi. Per lo stesso motivo i gay potevano avere al massimo una responsabilità di settore. [...] La mia “carriera” fu bloccata [...] con giustificazioni più o meno pretestuose basate sul fatto che non avevo un lavoro fisso ed ero psicologicamente “instabile” (cose verissime – a intervalli soffrivo di forti depressioni – ma che non mi impedivano di svolgere bene e costantemente il mio ruolo di responsabile e di far crescere il movimento). [...] In una riunione del consiglio di area a Roma scopro: [...] che a una riunione del Consiglio Nazionale si è stabilito come “riordinare” e “classificare” tutti i vari gruppi esistenti in Italia (Gabbiano, Corallo, Educatori, Artistiti, ecc., ecc.) e il gruppo Glbt è stato considerato virtualmente inesistente (non è stato neanche nominato). [...] Per esperienza personale [...] posso dire che i gay [...] nella SG italiana sono sempre stati discriminati in maniera più o meno strisciante. [...] Come gay mi sentivo sempre considerato un po’ immaturo, uno che non è riuscito a diventare un “vero” uomo. [...] Io ho avuto una sgradevolissima esperienza a una cena in cui avrei dovuto festeggiare, insieme [...] agli altri responsabili sardi, l’inaugurazione ufficiale del primo kaikan sardo (febbraio 1999). Alla cena, K. [...] tira fuori la storia dei finocchi cinesi [...] Ha spiegato che siccome i finocchi cinesi non avevano la soddisfazione di fare l’amore, si dedicavano a trame e intrighi. [...] Unico gay in una tavolata di trenta persone (uno dei temi principali: il matrimonio) [...] mi sono sentito profondamente umiliato, sono dovuto correre in bagno per fare alcuni minuti di respirazione, e ritrovando la calma ho pensato “in questa organizzazione non c’è posto per me, sarò sempre un emarginato, prima o poi sarò costretto ad andarmene”». 5 Maria Immacolata Macioti, «Tentazioni di potere all’interno di un nuovo movimento religioso. Il caso Soka Gakkai in Italia», 30 novembre 2002. Relazione al Convegno Ais «Religioni d’Italia. Fedi e forme di spiritualità in un’epoca di pluralismo», tenutosi presso il Dipartimento di Scienza della politica e sociologia dell’Università di Firenze. [6 Dal testo della storica lettera di Nichiren 22, della quale parleremo tra poco: «Che comportamento deve avere un genitore che scopre il figlio spacciatore e

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consumatore di droghe? Se finisce in carcere, “cercare il migliore avvocato per farlo rilasciare subito, equivale a essere suo complice ed eliminare la sofferenza superficiale; bisognerebbe invece avere il coraggio di denunciarlo per proteggere lui e tante altre persone” (NR 223, p.3) [...] L’unica cosa che interessa alla Soka Gakkai italiana è che i tossici vengano sbattuti in carcere e che ci restino il più a lungo possibile. Il minimo che si possa dire è che tale Dharma non si può certo fregiare dell’appellativo di buddista». 7 Diffusa il 16 luglio 2001. 8 Ibisg, «Informazioni sull’Intesa». 9 «In Francia una commissione parlamentare, nel 1995 e nel 1999 (Rapporto Guyard), e in Belgio un’analoga commissione d’inchiesta della Camera dei Rappresentanti, nel 1997, hanno incluso la Soka Gakkai in una lista di organizzazioni religiose le quali, secondo le commissioni, devono essere ritenute delle “sette” a tutti gli effetti» (Franco Nanni, La Soka Gakkai, 2010). 10 In risposta a una mail di un’adepta sokiana inviata il 26 agosto 2002, da Palazzo Chigi rendono noto che «il Presidente dell’Istituto buddista italiano Soka Gakkai ha chiesto di rinviare a data da destinarsi l’incontro relativo alla conclusione delle trattative in vista dell’intesa ai sensi dell’art. 8 della Costituzione». Insomma, non era la Macioti ad aver interrotto le trattative per l’Intesa, dopo tutto... 11 È del novembre 2002 un’intervista a Roberto Minganti, correntonista di Nakajima e direttore di «Buddismo e Società», nella quale già si avverte il cambio al vertice: «C’è stata all’interno della nostra comunità religiosa una tendenza autoritaria che ha portato alla sofferenza di tantissimi membri [...] Non era solo un modo per mettere a tacere il dissenso, c’è stato anche un certo uso del linguaggio [...]. Si è verificato uno schiacciamento delle differenze [...] Sono stati pian piano allontanati tutti quelli che non corrispondevano a questo modello. [...] Forse abbiamo manifestato in quel periodo una sorta di fondamentalismo buddhista». Ma quando gli si chiede cosa succederà ai

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responsabili, Minganti dimostra che poco è cambiato: «Non credo che sia proprio giusto mandare via qualcuno e ho una grande fiducia che le persone possano cambiare». Anzi: «Forse nei confronti di queste persone che hanno esercitato una funzione negativa, da un certo punto di vista, uno dovrebbe sentire gratitudine, perché hanno messo il dito nella piaga di quello che è il nostro punto debole, come italiani, di estrema adesione al potere» (Lucia Cuocci, Ma la responsabilità è di tutti, «Confronti», novembre 2002). 6. «Una vuota carcassa di rovina e fallimento» La guerra fredda consumatasi fra le mura dei kaikan spinse molti adepti a uscire dalla setta. Ma andarsene non era facile. «La mia unica fortuna è che quando sono venuto via io, con me c’era altra gente» ricorda Mario. Infatti nel 2003 i fuoriusciti furono parecchi. Anche se, ci fa notare Sara, un’altra fuoriuscita che vuole restare anonima, la Soka tende a calcolare gli accoliti in entrata più che i «traditori» che la abbandonano: «Per quanto li riguarda, se entri sei membro a vita, a meno che non ti dia un gran daffare per chiedere la rimozione del tuo nome dai loro elenchi interni. Loro non contabilizzano le “crisi di fede”» ci spiega. «Avevo creato una struttura proprio per fornire, a chi li richiedesse, moduli da inviare alla Soka, al prefetto e all’ufficio rapporti con le confessioni religiose della Presidenza del Consiglio dei ministri: per pretendere la rimozione dei propri nomi da qualunque statistica, in nome della legge sulla privacy. Da allora però la situazione è peggiorata... Adesso oltre alla modulistica è necessario restituire la pergamena sacra che ti era stata consegnata in comodato. Un muro psicologico per i tanti che non sono disposti a separarsene per motivi sentimentali.1 Di conseguenza molti, pur scomparendo dalle attività del culto, ne restano formalmente membri.» Uscire davvero dalla Soka Gakkai è difficile, e non solo per la burocrazia interna. «Quando ero dentro» racconta Fedele «mi dissero che se mai me ne fossi andato, di me non sarebbe rimasta che “una vuota carcassa di rovina e fallimento”. Non avevo amici fuori dalla Soka, fu tremendamente pesante per me ritrovarmi solo». È chiaro, d’altronde il sensei Ikeda non mostra grande misericordia per quelli che chiama i «traditori»: «Cosa è successo ai traditori

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della Soka Gakkai, hanno forse realizzato qualcosa di veramente grande? Hanno suscitato l’approvazione di qualcuno? Alla fine queste persone perdono il sostegno degli altri e restano deluse e amareggiate. Coloro che a torto credono di aver ottenuto dei risultati solo grazie al proprio impegno finiscono per deragliare dai binari della loro esistenza: gli ingrati non avranno mai successo in quello che fanno».2 E ancora: «Il funzionamento causale della Legge mistica è severo e infallibile, tutti quelli che hanno perseguitato e tradito la Soka Gakkai hanno subito e sicuramente subiranno ancora retribuzioni3 molto severe, se così non fosse l’insegnamento buddista sarebbe falso». Se esci quindi, non sei soltanto un traditore, non ti ritrovi soltanto a perdere quella che una volta era stata la tua famiglia adottiva. Ma vai incontro a un «rischio-karma»: se molli, sei destinato a pagarne lo scotto. Per tutti i fuoriusciti e presunti «traditori» che abbiamo intervistato, però, la vera sofferenza era quella all’interno dell’organizzazione: pregare, magari per la propria salute,4 e nonostante ciò non ottenere niente. Per poi sentirsi dire che è colpa sua: «Se non sei esaudito, vuol dire che hai chiesto male, o che hai chiesto una cosa che sarebbe stata contraria alla tua stessa felicità».5 Una spiegazione ineffabile, e valida per tutte le stagioni. La dinamica ce la chiarisce Franco Nanni: Gli adepti e l’agiografia sostengono elegantemente che il Gohonzon esaudisce tutti (cioè il 100 per cento) i desideri dei fedeli, e possono farlo perché, per i casi in cui ciò non accade, si può dire che: 1) il desiderio era mal formulato: non era chiaro, era ambiguo, troppo grande, troppo piccolo, irraggiungibile... etc. etc; 2) riguardano persone che praticano male, o poco, o da troppo poco; 3) riguardano persone di lunga fede, che proprio per questo sono duramente attaccate dal demone;6

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4) rappresentano l’ultima uscita del cattivo karma prima che il karma positivo creato dalla pratica si manifesti; 5) manifestano la «protezione» del Gohonzon verso l’adepto, il quale «non sa» che, se fosse soddisfatto ora il suo desiderio, ciò sarebbe in qualche modo nocivo per lui; 6) il praticante «non è pronto» per sostenere l’esaudimento del desiderio (vedi sopra); 7) il praticante non era «profondamente determinato», non «desiderava sinceramente»; 8) il praticante «non ha agito», ossia non ha compiuto tutte le azioni necessarie per giungere al soddisfacimento [secondo dottrina, NdA]. In pratica: se ti va bene, è merito del Gohonzon. Se ti va male, è solo colpa tua. Si innesta così un circolo vizioso le cui conseguenze negative si riscontrano chiaramente nella storia di una ragazza che voleva un figlio, come la riferisce, mai smentita, Anna Mazzone nel suo articolo: Una volta ci si dedicò tutti a una notte di pratica per sostenere una ragazza cui era stato detto che non poteva avere figli. Miracolo! Allo zadankai successivo la ragazza dette il lieto annuncio: «Sono incinta». Chi scrive ricorda l’emozione dei baci e degli abbracci di quella piccola comunità e che il giorno successivo, gasata dal miracolo, si sparò ben cinque ore di Nam myoho renge kyo senza soluzione di continuità. Ma, oltre a sentirsi stordita come dopo una serie di giri sulle montagne russe, nulla. Il desiderio era ancora lì, impietosamente irrealizzato. Peccato che dopo un paio di mesi la ragazza «miracolata» scoprì di essere rimasta vittima di una gravidanza isterica e, caduta nella depressione, tentò il suicidio (fortunatamente non le riuscì). Una storia terribile, che stride con i mega spot dei buddhisti (sempre minuscoli) prêt-à-porter.

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Ma anche in quella di un uomo che chiameremo Valerio, che ci racconta: «Nella Soka ci sono rimasto per cinque anni, e ci avevo creduto veramente tanto. La mia esperienza l’ho riversata tutta in una lettera aperta che ho diffuso nel dicembre 2009». Leggiamone qualche passaggio: Con Nam myoho renge kyo realizzi tutto, anche la morte di chi detesti. Se invece hai bisogno del frigorifero pratica che te lo portino prima del previsto. E stasera, mi raccomando praticate con me perché vinca la Roma, se no mio marito si arrabbia. E il responsabile di capitolo, che sentiva queste cose, stava zitto. Ho visto persone con gravi problemi di salute uscirsene a pezzi dallo zadankai. La Responsabile aveva spiegato che era un problema di karma, che evidentemente aveva fatto cose sbagliate nelle altre vite e che quindi la colpa – badate bene, non la responsabilità, la colpa della malattia – era di quella persona. Non ditemi che sono casi isolati, non solo perché ho assistito ad altri, ma perché basterebbe questo unico caso a dimostrare che la qualifica di responsabile – considerata particolarmente appetibile da persone di problematico livello intellettuale – viene assegnata in base a criteri che nulla hanno a che fare con un minimo di buon senso e di conoscenza della dottrina. Si nominano responsabili i fedelissimi, quelli che non vedono, non sentono e non parlano se non di quello che vede, sente e dice Daisaku Ikeda. Quelli che in altre occasioni chiamo «I Bambini di Ikeda»: persone che non guardano oltre il loro naso, che non fanno domande, che pur di dormire tranquille, si rifiutano di vedere come stanno le cose. Sono i portatori ideali del messaggio Soka Gakkai […]. Un responsabile di capitolo e una di settore hanno avuto l’arroganza di piombarmi a casa, come gendarmi, perché mi ero permesso di osservare, in una riunione ristretta di membri anziani, che trovavo enfatiche alcune espressioni di Daisaku Ikeda sulle donne. Allora ero ancora un membro più che convinto e non avevo voluto assolutamente criticare Daisaku Ikeda ma esprimere la mia opinione. Sono stato richiamato. La Soka Gakkai non riconosce e non rispetta le opinioni degli altri. Vogliamo parlare della consegna abbreviata del Gohonzon? In uno due mesi è tuo, basta che diventi membro. Gonghyo e il resto lo impari dopo. La deriva autoritaria che ha sconvolto la Soka Gakkai nei primi anni del 2000 ha comportato una fuoriuscita massiccia di membri e, soprattutto, dei relativi abbonamenti. Bisognava correre ai ripari. È molto importante, anzi è

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fondamentale, per la Soka Gakkai, ampliare il portafoglio membri: aumenta il suo peso politico di rappresentatività e ne rafforza il ruolo di controparte, come è successo nelle trattative con lo Stato italiano per l’ottenimento dell’8 per mille. Capito perché il Gohonzon è assegnato subito? Poi non dimentichiamo che il buddismo è fede, pratica e studio. Ogni membro, per studiare, deve abbonarsi alle riviste e comprare i libri Esperia che, non si sa come, sono sistematicamente i più cari. Andiamo avanti. Mi piacerebbe parlare delle famose TESTIMONIANZE, soprattutto di quelle rese negli incontri al kaikan, elaborate, costruite, dove necessario modificate in eccesso, per il glorioso cammino di kosen-rufu, ma ho già scritto molto. Provo a concludere. Io non sto usando energia contro chi pratica. Rispetto le persone, ancora di più quelle che affrontano un cammino di crescita spirituale. Non è che io non capisca o non abbia provato l’emozione derivante dalla recitazione e la sensazione di serenità e di pace in un contesto culturale così diverso da quello occidentale. Valori immensi, nei quali tuffarsi, per vivere meglio, insieme, noi e gli altri. Ero grato alla Soka Gakkai. Mi sembrava di essere in Paradiso. Ma si trattava, e si tratta, di un paradiso artificiale. L’effetto del mantra c’è, ed è un effetto chimico. Il grande bluff della Soka Gakkai consiste nello spacciare questo effetto per mistico. Si possono abbracciare i grandi valori universali professati da Shakyiamuni senza per questo essere membri della Soka Gakkai, perché questi valori sono patrimonio dell’umanità, non monopolio di una setta. Finalmente, dopo tanta sofferenza, sono felice. Se solo riuscissi ad aprire gli occhi a una persona sarebbe perfetto. Magari non ci riuscirò, e resterò il vostro peggior nemico. Ma, come i membri Soka sanno, il buddismo insegna che i peggiori nemici sono i migliori amici. Addolorata è anche la testimonianza di un ragazzo, chiamiamolo Enrico, che ci racconta: «Erano tre anni che un collega di lavoro cercava di convincermi dell’efficenza di questa pratica, il Nam myoho renge kyo. Voleva che entrassi nella Soka, ma per quanto mi elencasse tutti i presunti benefici avuti da lui e da tutti gli altri praticanti, non riuscì subito nell’intento. Mi disse pure che c’era Roberto Baggio, che in quel periodo era un grande jolly per fare shakubuku. Ma poi la mia situazione personale divenne insostenibile: ero rimasto senza lavoro, e così anche mia moglie, avevamo un figlio piccolo e vivevamo a casa dei miei. Così, disperato, decisi di entrare nella setta che

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prometteva di risolvere qualsiasi problema con la sola recitazione di quella formula magica. «Il primo consiglio che ti viene dato è quello di fare proseliti, e fu ciò che feci. Ma ci riuscii solo, e lo dico con rammarico, con quella che è oggi la mia ex moglie. Il problema, per così dire, furono i miei genitori, dato che abitavamo con loro, e oltre a non volerne minimamente sentir parlare, non volevano che neanch’io ne entrassi a far parte. Non diedi ascolto ai loro consigli. Anzi. Alcuni responsabili mi chiesero se potevano venire a casa mia a parlare coi miei, mi dissero che per consegnarmi il Gohonzon dovevano essere sicuri che non avrebbe corso alcun rischio, visto che offendere la pergamena sarebbe stata un’azione gravissima, che mi avrebbe fatto cadere in un inferno di incessante sofferenza... Accettai di fare venire in casa dei responsabili a parlare, con mia madre in particolare. Quando arrivarono, mia madre non li buttò fuori di casa, solo per rispetto nei miei confronti, ma non li degnò della minima considerazione. Io ne rimasi molto dispiaciuto, ma ripensandoci, è stata grande. Mia moglie, invece, non solo accettò la mia conversione, ma anche se all’inizio non voleva saperne, dopo circa un paio d’anni ci entrò anche lei. «Quando iniziai il percorso mi spiegarono che tutti i miei desideri si sarebbero realizzati. Mi aggrappai a questa idea, e devo dire che mi impegnai veramente. Poi il collega che mi aveva “convertito” mi fece trovare un posto di lavoro in un’impresa dove si guadagnava bene, di proprietà di un membro Soka. Ma i miei dubbi restavano, cosa che dava parecchio noia ai miei responsabili. E le risposte non mi convincevano. Una volta, armato di buona volontà, mi ricordo che cercai consiglio da una donna con tanti anni di pratica. Che mi rispose: “Ah, vedi Enrico, quando un terzo della popolazione mondiale invocherà Nam myoho renge kyo, raggiungeremo la pace”. Rimasi basito, non capivo se scherzava o faceva sul serio, era una cosa impossibile da raggiungere. Ma poi, come se mi leggesse nel pensiero, mi disse: “Noi pratichiamo per realizzare l’impossibile. Quindi vedrai, se non in questa vita, lo realizzeremo nelle vite future. L’importante è avere fede nel Gohonzon, e tutto si realizzerà”. «Questa era una delle idee preconfezionate che venivano divulgate. Insieme a quella di proteggere la setta di cui facevi parte. Ti veniva innocentemente consigliato di metterlo fra i tuoi scopi, quelli per cui preghi. Ti viene instillato sapientemente un senso di protezione per il centro che frequenti, per l’organizzazione, e per quella casa madre che si trova in Giappone, con a capo l’imperatore Daisaku Ikeda. In più in quel periodo ci fu un bel casino, ma a noi comuni mortali non doveva essere spiegato ciò che stava succedendo. Vigeva il dogma che non dovevamo avere alcun dubbio, dicevano che bisognava credere nel nostro maestro prima di tutto. Ma una parte di me non

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si accontentava della propaganda. La mia curiosità, la mia voglia di capire le cose, mi condannò a subire un vero e proprio mobbing sul posto di lavoro da parte dei colleghi sokiani. «Per decidere se lasciarmi o no mia moglie recitò daimoku per due ore. Alla fine decise di lasciarmi. Ma almeno, la depressione in cui caddi fece sì che smisero di assillarmi sul lavoro, anche perché in quel momento non pensavo certo all’organizzazione, ma solo al fatto che mi stavo separando. E al fatto che la responsabile che aveva consigliato mia moglie le diceva che aveva avuto coraggio a fare un’azione del genere. Come se fossi stato il peggiore dei mariti. Quando mollai la Soka fui licenziato. Il Gohonzon, invece, è ancora in mio possesso: nessuno si è mai fatto vivo per chiederne la restituzione.» 1 E perché magari resta la convinzione che il Gohonzon sia, come ci spiega Nanni, «una “macchina-che-produce-benefici”, espressione adoperata alla lettera dall’ex presidente Josei Toda». 2 Daisaku Ikeda, citato da Franco Nanni nel saggio dal titolo «Un Discorso del Presidente». 3 Retribuzioni è probabilmente una cattiva traduzione di un testo in inglese, lingua nella quale la parola «retribution» sta per «giusta punizione». 4 «La medicina più efficace è l’Illuminazione, o la Buddità, perché grazie alle sue virtù facciamo emergere la saggezza innata e la forza vitale necessarie per curare le nostre malattie fisiche e mentali. [...] Il buddismo ci indica la fonte della saggezza e della forza vitale necessarie per sconfiggere la malattia. [...] Un giovane [...] grazie alla sua forte pratica buddista e alle eccellenti cure mediche era riuscito a guarire dal cancro non una, ma ben due volte. [...] Nichiren spiega che la cosa migliore che possiamo fare per purificare il nostro stato di vita è recitare Nam myoho renge kyo [...]: “È come il ruggito di un leone. Quale malattia può quindi essere un ostacolo?”. [...] Recitare Nam myoho renge kyo è la fonte della saggezza che ci permette di trovare il medico giusto, e della forza vitale che renderà efficaci le medicine. La recitazione [...] è di per sé un’energia guaritrice. [...] Se il nostro atteggiamento è di sconfitta, sarà la malattia a vincere sulla nostra volontà di guarire» (Woody

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Hochswneder, Greg Martin e Ted Morino, Il Budda nello specchio. Alla ricerca dell’energia vitale interiore, Esperia Edizioni, Milano 2010). 5 Angelo del Boca e Mario Giovana, I figli del sole. Mezzo secolo di nazifascismo nel mondo, Feltrinelli, Milano 1965. 6 Il demone nella concezione buddista è una figura a cavallo fra la metafora dei mali dell’uomo e le antiche superstizioni. 7. Il collezionista d’onorificenze Non è strano che un culto che si definisce «buddista», quindi presumibilmente lontano dall’attaccamento ai beni materiali, abbia tanto a cuore la politica e gli affari? No, se si considera che una decina d’anni fa Daisaku Ikeda, il cui stile è decisamente lontano dall’austerità del Dalai Lama, è finito al diciannovesimo posto nella classifica dei «cinquanta personaggi più potenti» del continente asiatico.1 E che aveva abbastanza soldi per permettersi un Renoir da sessanta miliardi di lire, vinto a un’asta londinese.2 Ma come fa il signor Ikeda a riscuotere tanto successo a livello internazionale, nonostante la nuvola nera di polemiche che la sua organizzazione si porta dietro in patria e all’estero? Il fatto è che la Soka Gakkai manifesta meno scopertamente di altri culti la sua natura settaria: del resto, tutto si muove intorno alla promessa di benefici, un approccio soft che rende virtualmente superfluo ogni aspetto coercitivo, e la mette quindi al riparo da qualsiasi accusa. A questo si aggiunge il fatto che Ikeda e i suoi tengono molto all’immagine. Cioè al volto buono dell’organizzazione a livello globale, che infatti – grazie a un corteggiamento sfrenato – gode di ottimi rapporti con le Nazioni Unite: dal 1983 l’Sgi è registrata come Ong presso Unesco, Acnur, Undpi, e gode di potere consultivo presso l’Ecosoc.3

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Ma Ikeda tiene anche e soprattutto alla propria, di immagine. Anzi, si può tranquillamente dire che – oltre al kosen-rufu – i sokiani aspirino alla glorificazione della figura del sensei. Ce ne dà conferma Fedele, raccontando un altro dei suoi interessanti viaggi da autista: «Una volta stavo trasportando il signor Kaneda e un altro membro, un grafico che si occupava delle pubblicazioni editoriali, dalla stazione Termini al kaikan. Si parlava dell’adattamento di un volume uscito in Giappone sulla vita di Ikeda. E Kaneda se la prendeva col grafico perché la resa delle foto nella versione italiana era diversa da quella giapponese, e non metteva in risalto il sensei “come un Buddha in mezzo alla gente”». Al di là dei trucchi fotografici, uno dei principali mezzi di esaltazione della figura di Ikeda è senza dubbio la gloria riflessa. Lo si accosta, cioè, a personaggi storici importanti, accomunandolo a essi grazie a un fenomeno che i pubblicitari conoscono bene: l’effetto alone. I suoi discorsi, per esempio, sono farciti di citazioni di figure importanti, variegate ma non necessariamente coerenti tra loro, tanto che in uno dei suoi editoriali riesce a inanellare contemporaneamente riferimenti non solo al predecessore Toda, ma a Kennedy, al Mahatma Gandhi, al premier cinese Zhou Enlai, ad Albert Einstein, a Hegel e allo svizzero Hilty, a Goethe, Rodin, Ibsen, Charlie Chaplin e al poeta Ralph Waldo Emerson, per finire con Senofonte e Socrate. Un vero e proprio album di figurine. In nessun caso però questo processo di buddificazione da vivo risulta più evidente quanto nelle mostre organizzate dalla Soka Gakkai. A partire da «Costruttori di pace tra XX e XXI secolo», che presenta al visitatore una vera e propria «trinità laica» sokiana, quella formata dai «tre maestri di pace», Gandhi, Martin Luther King e Daisaku Ikeda (cui poi si aggiungono Mikhail Gorbaciov, Nelson Mandela, Madre Teresa di Calcutta, Florence Nightingale, Rosa Parks e Rigoberta Menchú Tum).4 Per la Soka Gakkai le mostre sono uno strumento importante, perché assumono la doppia funzione di aggancio con le istituzioni e i personaggi del mondo della cultura (per esempio ce ne fu una inaugurata dal presidente Carlo Azeglio Ciampi,5 e un’altra di Oliviero Toscani6 nel loro quartier generale di Firenze), ma anche – più semplicemente – di marketing mirato al proselitismo. Ce n’è per tutti i gusti. Storico-artistiche, come quella del 1994 a Firenze su «Il mondo dei Samurai»; d’ispirazione ecologica, come «I semi del cambiamento»; pacifiste, come «Senzatomica». Infine il loro cavallo di battaglia, i diritti umani: la «Città dei diritti umani», e «I diritti umani nel mondo contemporaneo». Di quest’ultima, in particolare, si legge che avrebbe avuto oltre cinquantamila visitatori. Il settanta per cento dei quali in età scolare.

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A dimostrazione di questa influenza due esempi di testi prodotti da altrettante scuole in concomitanza con le iniziative dell’organizzazione. Innanzitutto il progetto «Una scuola per la pace», realizzato dai bambini dell’istituto comprensivo Martano Marcacci di Collesalvetti (in provincia di Livorno) e dalla scuola elementare Gianni Rodari di Stagno (frazione di Collesalvetti), nell’anno scolastico 2001-2002. Un progetto sponsorizzato dal comitato organizzatore della mostra «Tre maestri di pace». Infatti si apre con le citazioni della trinità Gandhi-King-Ikeda. E nella pagina dedicata al «cosa posso fare per la pace», i bambini leggono: «Io potrei fare come Gandhi, M.L. King e D. Ikeda». Inoltre su internet si trova il power point realizzato dal liceo classico Vincenzo Gioberti di Torino nell’anno scolastico 2004-2005, dal titolo «La città dei diritti umani», che si apre con una citazione di Makiguchi (il fondatore della Soka) e una di Norberto Bobbio, l’uno sopra l’altro. E si conclude con una carrellata di pensatori che include, ovviamente, Daisaku Ikeda. Le iniziative sokiane di stampo pubblicitario non si fermano qui: ci sono reading di testi di Ikeda, convegni, presentazioni, tavole rotonde, inaugurazioni di parchi giochi per bambini e giardini dedicati a Toda, notti bianche per la pace. E tante raccolte di firme, come quella contro la pena di morte, fatta insieme alla Comunità di Sant’Egidio. O quella svolta in Campania tra il 1999 e il 2000, «a sostegno della proposta di legge regionale di iniziativa popolare per la promozione e diffusione di una cultura dell’educazione alla pace e ai diritti umani, effettivamente diventata poi legge regionale il 29 febbraio 2000 (legge del 7 aprile 2000 n.12). Con questa è stato anche istituito il premio Campania per la pace e i diritti umani, e il 10 dicembre è stato proclamato Giornata per la pace.7 Lungo (e lungi dall’esser completo) è l’elenco dei comuni italiani coinvolti dall’attivismo sokiano: almeno un centinaio.8 Molte delle loro iniziative vengono spesso coronate da cittadinanze onorarie o altri riconoscimenti municipali (chiavi della città, targhe e sigilli vari) assegnati al sensei: Ikeda ne va ghiotto. In alcuni casi, però, c’è qualcuno che si ribella alle manie di collezionismo di questo «cittadino onorario seriale». Come Giovanni Migliore, consigliere comunale pidiellino di Modica, in provincia di Ragusa, che – ci annuncia nel novembre 2010 – sta preparando una mozione per chiedere l’annullamento della cittadinanza assegnata dal sindaco Antonello Buscema al maestro sokiano (e ritirata da Kaneda). Alle cittadinanze si sommano le lauree. Il 23 marzo 2007 l’Università di Palermo ha conferito a Ikeda la laurea magistrale honoris causa in Scienze della comunicazione, «per la sua attività di comunicatore per la pace, e per la sua opera spirituale e morale». Alla consegna era presente il rettore Giuseppe

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Silvestri, il presidente del corso di laurea Antonio La Spina e il preside di facoltà Patrizia Lendinara. Nel comunicato ufficiale diffuso dall’Ibisg scopriamo che non è stata proprio un’eccezione: il titolo appena conferito, infatti, porta a «duecentouno9 il numero di onorificenze accademiche ricevute da Daisaku Ikeda […] La prima onorificenza accademica risale al 1975, dall’Università statale di Mosca. Da allora ha poi ricevuto analoghi riconoscimenti da università e istituzioni accademiche di quarantadue Paesi, tra cui l’Università di Pechino, quella di Glasgow, di Denver, di Ankara, l’Università federale di Rio de Janeiro, l’Università di Delhi, di Sydney e del Ghana. In Italia ha ricevuto una laurea honoris causa dall’Università di Bologna Alma Mater nel giugno 1994».10 Cittadinanze e lauree come fossero francobolli. Per quanto famoso, però, non è sempre detto che tutti conoscano Ikeda. Ci pensa la Soka Gakkai, che mette a disposizione dei propri lobbisti un apposito libro su cui siamo riusciti a mettere le mani. Concepito per rendere chiaro a qualunque interlocutore la grandezza della figura del sensei: si intitola Daisaku Ikeda. Profilo, è stampato su carta patinatissima, ed è fondamentalmente un book fotografico. Delle apposite linguette guidano il responsabile che deve piazzare Ikeda attraverso i vari capitoli, per andare veloce e dritto al punto.11 Ce lo troviamo insieme a diversi premi Nobel, come Nelson Mandela, e a una pletora di presidenti, primi ministri, segretari Onu12, reali e segretari di partiti comunisti cinesi13 (tralasciando gli incontri con Nicolae Ceau¸sescu, il dittatore rumeno, e Manuel Noriega, il collega panamense, e curiosamente ricordando solo quello col dittatore cubano Fidel Castro). Scopriamo i concerti promossi dalla sua associazione musicale, come quello diretto da Claudio Abbado a Tokyo nel 1981, i capolavori esposti al suo museo, i suoi centri studi, le mostre, le sedi della Soka University (Tokyo e Los Angeles), delle elementari a Tokyo e delle materne. Le infinite proposte per la pace alle Nazioni Unite, i premi e le lauree, le conferenze. Gli scritti, le fotografie artistiche. E infine, il capitolo dedicato alle «Iniziative per la pace e i diritti umani promosse dall’Istituto buddista Italiano Soka Gakkai», che si apre con tre immagini panoramiche del kaikan fiorentino (una splendida villa medicea) e due foto di Ikeda insieme a Roberto Baggio, evidentemente l’unico volto noto italiano degno di comparire di fianco al maestro. Quale sia la funzione di questo libro bianco dell’ikedismo ce lo spiega, in breve, Adamo: «Di fronte a cotante amicizie e cotanti premi, chi sono io, umile amministratore locale, per negare un riconoscimento a un personaggio tanto importante?».

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Adamo aggiunge un aneddoto personale: «Nel triennio 2001-2003 la mostra dei Tre Maestri veniva presentata in diversi comuni italiani. Al tempo abitavo nel comune di Lari in provincia di Pisa, dov’era attivo un numeroso gruppo di praticanti buddisti della Soka Gakkai. La stragrande maggioranza di essi era su posizioni critiche rispetto a una gestione autoritaria, sorda a ogni proposta di innovazione e povera dottrinalmente. Infatti avevamo anche sottoscritto lettere di protesta al Consiglio nazionale e agli organi locali dell’Istituto. Ciononostante eravamo ancora convinti che fosse possibile arrivare a un cambiamento di rotta. È in questo spirito costruttivo che nel 2002 proponiamo all’Ibisg di effettuare la mostra a Lari. «Il comune di Lari, storicamente di sinistra, dall’aprile del 2002 aveva come sindaco Ivan Mencacci, un giovane, allora trentenne, sensibile ai temi quali l’ambientalismo e la nonviolenza. Dalla sua elezione Mencacci dedica il mese di novembre alla pace. Il 30 novembre si festeggia in tutti i comuni della regione la Festa della Toscana. Durante quel mese verranno organizzate dal comune tutta una serie di iniziative – conferenze, dibattiti, mostre – che coinvolgeranno varie organizzazioni: Amnesty ed Emergency tra le altrre. Ci pareva quindi che la mostra dei Tre Maestri ben si inserisse in quelle iniziative. I miei rapporti con il sindaco erano tali che mi faccio carico di proporgli l’iniziativa, spiegandogli cosa è la Soka Gakkai e quali sono le sue finalità. Ovviamente accetta con entusiasmo la proposta, anche perché una nostra cara amica buddista propone, a latere della mostra, il coinvolgimento delle scuole elementari in un progetto ludico di risoluzione dei conflitti. Dal punto di vista economico, l’onere del comune è per la sola stampa dei dépliant. Noi mettiamo in campo i volontari per l’allestimento, per le guide e l’accoglienza. Quasi tutti questi volontari saranno della zona, pochissimi gli “esterni” che verranno da Pisa e Livorno. La durata della mostra sarà di una settimana. Anche l’Ibisg ovviamente accetta, anche perché al termine della mostra, questa si trasferirà dopo due giorni in un altro comune della provincia di Pisa, Vecchiano. È pratica nella Soka Gakkai di fare riunioni e recitare insieme quando si sta allestendo una qualsiasi iniziativa che coinvolga l’Istituto. Quindi in quel periodo si sono avuti incontri dello staff “guide”, di quello “accoglienza”, di quello “protezione” (non nel senso di servizio di sicurezza). «Siamo alla fine del settembre 2002. Ormai l’organizzazione della mostra è in fase avanzata. Si tiene un incontro a Pisa del nuovo responsabile del Territorio tirreno, che veniva dal fiorentino: Marco Palamidessi. Persona sconosciuta ai più e nominata solo pochi giorni prima. La riunione verte sullo stato dei lavori delle mostre, da noi a Lari e nel comune di Vecchiano. Siamo presenti in tre per il mio comune e altrettanti per l’altro.

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«A un certo punto Palamidessi dice testualmente: “E ricordatevi che i due comuni debbono dare un’onorificenza a Daisaku Ikeda. Un riconoscimento pubblico. Niente onorificenza, niente mostra”. I rappresentanti del comune di Vecchiano dicono che hanno già provveduto a sensibilizzare il sindaco. Io prendo la parola, per fortuna spalleggiato anche dagli altri “larigiani”, dicendo che non sono affatto d’accordo su questa imposizione, che nulla ha a che vedere con lo spirito buddista, con quello della mostra, con le iniziative a latere, e con tutte le altre inserite nel mese della pace. Palamidessi ribatte che questa è la “procedura”. Gli rispondo dicendo che niente mi era stato detto in precedenza e che altrimenti non avrei assolutamente preso iniziative, né ci avrei messo la faccia con il sindaco Mencacci. Palamidessi insiste dicendo che debbo fare come indicato, che lui è il responsabile del territorio e che nel “suo” territorio si fa così. E che quindi il comune di Lari deve dare un riconoscimento pubblico a Ikeda. A quel punto dico, più o meno testualmente: “Allora visto che sono l’unico interlocutore con l’amministrazione comunale, visti i rapporti di amicizia e stima reciproca che mi legano al sindaco, domani vado da lui e gli racconto tutta questa faccenda. Gli dico che l’Ibisg fa la mostra solo in funzione di un do ut des e che in fin dei conti essere presente a Lari non gliene può fregar di meno se non c’è riconoscimento pubblico a Ikeda. Gli dico, inoltre, che non approvando questa linea bottegaia, e affatto buddista, mi dissocio e ritiro la mia disponibilità a organizzarla. E se, come prevedo, il sindaco annullerà la manifestazione, voglio vedere come l’Ibisg giustificherà la sua presenza sui manifesti già stampati e in via di affissione di una mostra che non si terrà. Va da sé che qualcuno dovrà rifondere al comune le spese tipografiche per i dépliant. E che quel qualcuno non sarò certo io. Va da sé che la notizia della mancata mostra – e dei motivi che ne hanno determinata la causa – si parlerà sulle cronache locali del ‘Tirreno’ e della ‘Nazione’. Va da sé che qualcunodovrà giustificare all’assessore alla scuola e al direttore didattico perché non si terrà più il progetto ludico della risoluzione dei conflitti per il quale erano già state coinvolte le insegnanti”. Questa riunione avviene nel pomeriggio. La sera ricevo la telefonata del mio superiore dell’Hombu di Pisa, presente all’incontro, che dapprima mi redarguisce sul mio comportamento, a suo dire “poco buddista”, ma poi mi conferma che la mostra, comunque, si terrà.» La testimonianza di Adamo ci svela la natura del gioco: piazzare il prodotto-Ikeda, col doppio beneficio di un ritorno d’immagine per l’organizzazione. E maggior gloria per lui, il maestro, che aspira – neanche tanto segretamente – al Nobel per la pace.14 «Ikeda non vuole altro. I sokiani ci passano le ore per strappare una cittadinanza onoraria. Come si fa a ottenere un Nobel? Intanto facciamogli dare onorificenze,» sorride Fedele «poi le segnaleremo alla commissione in Svezia, e gli diremo: “Lo avete dato a Obama... A uno così non glielo date il Nobel per la pace?”.»

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1 «Punti di forza: “L’organizzazione buddista laica Soka Gakkai ha circa 12 milioni di membri in Giappone e quasi 1,4 milioni oltremare. [...] Ikeda esercita una vasta influenza al centro del potere politico giapponese. A volte viene presentato dai critici come nemico della libertà religiosa”». La classifica, compilata nel 2001 dal magazine «AsiaWeek», vede Ikeda attestarsi prima del presidente della Sony Corporation, al 29°, del presidente della Toyota, al 35°, del primo ministro dell’India, al 40°, e pure del premier australiano, al 46°. 2 Sandro Magister, Buddisti Soka Gakkai. Una Sabina vi convertirà, «L’espresso», 4 settembre 1997. 3 Organizzazione educativa, culturale e scientifica nelle Nazioni Unite, giugno 1989; Alto commissariato Onu per i rifugiati, dall’aprile 1981; Dipartimento di Pubblica informazione delle Nazioni Unite, dal dicembre 1989; Consiglio economico e sociale dell’Onu, dal maggio 1983. 4 In più (ma solo quando la mostra è studiata per il pubblico italiano) don Lorenzo Milani e Norberto Bobbio. 5 Maria Immacolata Macioti, Tentazioni di potere all’interno di un nuovo movimento religioso. Il caso Soka Gakkai in Italia, 30 novembre 2002. 6 La mostra intitolata «Noi nel braccio della morte» («Corriere Fiorentino», 21 ottobre 2008; sgi-Italia.org). 7]Tante firme contro il pregiudizio, «Il Nuovo Rinascimento», 1° marzo 2003. 8 Abruzzo (Lucoli e Torninparte in provincia dell’Aquila; Guardiagrele in provincia di Chieti); Basilicata (Matera); Calabria (Corigliano Calabro in

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provincia di Cosenza, e Cosenza ); Campania (Centola ed Eboli in provincia di Salerno, Lacco Ameno sull’Isola d’Ischia e Marano in provincia di Napoli, e Santa Maria Capua Vetere in provincia di Caserta); Emilia Romagna (Forlì, e in provincia di Bologna: San Lazzaro di Savena, Monterenzio, Pieve di Cento, Savigno e Zola Predosa); Lazio (Allumiere, Artena, Bracciano, Cerveteri, Fiumicino, Ladispoli, Civitavecchia, Olevano Romano e Santa Marinella in provincia di Roma, nonché Roma, e Fiuggi, in provincia di Frosinone, Sabaudia e Terracina in provincia di Latina); Liguria (Imperia e nella sua provincia Ospedaletti, poi Castelnuovo Magra in provincia di La Spezia, Genova); Lombardia (Pavia, Sondrio, Corsico in provincia di Milano, Baveno in provincia di Verbania, Pisogne in provincia di Brescia, Crema in provincia di Cremona, poi in provincia di Varese: Besnate, Castellanza, Fagnano Olona, Venegono Superiore, e in provincia di Como, Appiano Gentile, Lanzo d’Intelvi, Lomazzo); Marche (Ancona e San Benedetto del Tronto); Molise (Campobasso e Nereto in provincia di Teramo); Toscana (Firenze, e in provincia Barberino di Mugello, Campi Bisenzio, Certaldo, Dicomano, Rufina, Scandicci, Figline Valdarno, San Godenzo, Vicchio e Vinci, poi Siena e nella provincia Casole d’Elsa e Chianciano, in provincia di Livorno, Cecina, Portoferraio, Collesalvetti e Marciana Marina, in provincia di Pisa, Lari, Vecchiano e Volterra, Montecatini Terme in provincia di Pistoia, Arezzo e, in provincia, Stia, Castelnuovo di Garfagnana in provincia di Lucca e Carrara in provincia di Massa-Carrara, Grosseto e in provincia Follonica, e Prato); Piemonte (Givoletto, Grugliasco e Racconigi in provincia di Torino, nonché Torino, Asti e Varallo Sesia in provincia di Vercelli, e Demonte in provincia di Cuneo); Puglia (Manfredonia e Squinzano in provincia di Lecce); Sardegna (Cagliari e Gavoi in provincia di Nuoro); Sicilia (Comiso e Modica in provincia di Ragusa, Floridia in provincia di Siracusa, Palermo e nella sua provincia Castelbuono); Umbria (Perugia); Veneto (Occhiobello in provincia di Rovigo, e Vicenza). 9 Ma sfogliando la lista completa (al settembre 2009) erano già divenute duecentosessanta. 10 Il legame della Soka con l’Università di Bologna inizia con l’incontro a Tokyo del rettore Fabio Robersi Monaco con Ikeda (Daisaku Ikeda. Profilo). Rapporto che prosegue negli anni, visto che nel marzo 2009 gli studenti sokiani incontrano l’allora rettore Pier Ugo Calzolari nell’ambito degli scambi con l’Alma Mater (Sgi-Italia.org).

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11 «Biografia»; «Le Attività per la Pace»; «Le Attività per la Cultura»; «Incontri: Il Mondo Politico»; «Incontri: Il Mondo Accademico»; «Proposte di Pace»; «Premi Riconoscimenti Conferenze»; «Gli scritti: I Dialoghi»; «Gli Scritti: I saggi»; «Poesia Fotografia Bibliografia»; «Le Attività in Italia». 12 Boutros Boutros-Ghali (1994) e Javier Pérez De Cuéllar (1990). 13 Un vero e proprio giro del mondo in leader mondiali. A partire dal premier olandese Rudolph Lubbers (1983), François Mitterand e Jacques Chirac (1987), Margaret Thatcher e John Major (nel 1989 e nel 1991), Re Carlo XVI Gustavo di Svezia (1989), i reali di Spagna Juan Carlos e Sofia (1998), Franz Vranitzky (cancelliere austriaco, 1989), Javier Solana, all’epoca ministro spagnolo della Cultura (1983), Henry Kissinger, ex segretario di Stato americano (1996), Sonia Gandhi (1992), il premier svedese Ingvar Carlsson (1989), Richard von Weizsächer, presidente della Repubblica Democratica Tedesca (1991), Vàclav Havel, presidente della Repubblica Ceca (1992), Lech Walesa, presidente polacco (1994), Zhelyu Zhelev, presidente bulgaro (1990), Turgut Özal, presidente turco (1990), Hosni Mubarak, presidente egiziano, Deng Xiaoping (1975), una schiera di primi ministri cinesi (Zhou Enlai, 1974; Hua Guofeng, 1980; Li Peng, 1997) e un paio di segretari generali del Partito comunista cinese (Hu Yaobang, 1984, e Jiang Zemin, 1992), Michail Gorbaciov, ex presidente Urss (nel 1993) e numerosi primi ministri sovietici (Aleksei Kosygin, 1975; Nikolai A. Tikhonov, 1981; Nikolai I. Ryzhkov, 1987), i primi ministri indiani Rajiv Gandhi (1985) e Inder Kumar Gujral (1997), Re Birenda Bir Bikram, Shah Dev del Nepal (1995), i presidenti delle Filippine Corazon Aquino (1991) e Fidel V. Ramos (1993), il presidente dell’Indonesia Suharto (1992), il primo ministro di Singapore Lee Kuan Yew (1998), il sultano Azlan Shah, re di Malesia (1993), il re di Thailandia Bhumibol Adulyadej (1994), il presidente del Kenya Daniel T. Arap Moi (1989), il principe di Cambogia Norodom Sihanouk (1975), il presidente dello Zambia Kenneth David Kaunda (1990), i presidenti sudafricani Nelson Mandela (1995, allora già ex), Frederick Willem de Klerk (1992) e Thabo Mbeki (1998), il presidente della Nigeria Olusegun Obasanjo (1999), Hassan Gouled Aptidon, presidente della Repubblica di Gibuti (1995), il dittatore cubano Fidel Castro (1996), il presidente della Repubblica del Ghana Jerry Rawlings (1997), il presidente del Paraguay Andrés Rodriguez (1993), i presidenti del Cile Patricio Aylwin (1993) e Eduardo Frei Ruiz-Tagle (1994), i presidenti del Messico José Lopez-Portillo (1981) e Miguel de la Madrid Hurtado (1986), il primo ministro del Belize Manuel Esquivel (1996), il

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presidente del Brasile João Baptista de Oliveira Figueiredo (1984), il presidente della Repubblica Dominicana Joaquin Balaguer (1987), il presidente di Panama Eric Arturo Delvalle (1987), il presidente dell’Uruguay Julio Maria Sanguinetti (1989), il presidente del Venezuela Jaime Lusinchi (1988), i presidenti dell’Argentina Raul Alfonsin Foulkes (1986) e Carlos Saul Menem (1993), il presidente della Colombia Virgilio Barco (1989) e César Gaviria Trujillo (1994), il presidente dell’Ecuador Sixto Duran Ballen (1994), i presidenti del Costarica Oscar Arias Sanchez (1996), e José Maria Figueres Olsen (1996), e il presidente del Salvador Alfred Cristiani Burkard (1993). 14 Lo riferisce Sandro Magister (Buddisti Soka Gakkai cit.).

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PARTE QUINTA

Il Movimento Umanista

Le grosse società sono cose grandiose e terribili. Ti prendono e ti plasmano appiattendoti

in men che non si dica, ti girano e ti rigirano come vogliono. E lo fanno senza ricorrere alla persuasione aperta, lo fanno con sorrisi e cenni del capo, con

un’inflessione collettiva della voce. Sei all’inizio di un corridoio e quando arrivi

in fondo hai già adottato la filosofia globale della società.

Don DeLillo, Underworld 1. Il monolite umanista Attigliano, poco meno di duemila anime, si trova al confine fra l’Alto Lazio e l’Umbria, in provincia di Terni. Lì si intersecano due grosse arterie di comunicazione del Paese: la linea ferroviaria Roma-Firenze e l’autostrada del Sole, Milano-Napoli. Al casello di Attigliano si esce, per esempio, per visitare il Parco dei Mostri di Bomarzo, un complesso suggestivo di statue gigantesche e creature fantastiche come orchi, draghi, elefanti e animali mitologici, voluto dal Principe Orsini nel sedicesimo secolo. Ma anche per raggiungere un altro parco, anch’esso dal sapore esoterico, che sorge appena fuori l’abitato. È lì che siamo diretti. Parcheggiamo la macchina in una stradina che porta alla stazione, e dopo un chilometro a piedi arriviamo a destinazione. Il posto a prima vista fa un effetto stranissimo, l’eccentricità delle costruzioni che si ergono sugli ottomila metri

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quadrati che abbiamo davanti stride con le case simmetriche e ordinarie che ci siamo appena lasciati alle spalle. Come se qualcuno avesse preso una babele di icone sacre da un altro tempo e da un’altra dimensione e l’avesse scaraventata a caso in uno degli ottomila comuni dell’Italia anno domini 2010. All’ingresso si trova un portale formato da due montanti bianchi attraversati in alto da un tubo e da una sottile struttura curvilinea, entrambi perpendicolari e dello stesso colore. Sembra la stilizzazione di un ideogramma giapponese. E infatti è un tributo alle forme Shinto, la religione nata e prosperata nel Paese nipponico i cui fedeli adorano i kami, divinità naturali (come il sole) e umane (come gli antenati). Una volta superato l’ingresso, l’attenzione viene rubata dalla costruzione principale, in cima a una collinetta, sfalsata rispetto al resto del parco. Sembra un tempio indiano: le mura, fatte di mattoncini, sostengono una cupola di un bianco abbagliante che finisce in uno spuntone di metallo, cui sono appesi tre drappi arancioni di lunghezze diverse, dal più alto e lungo al più basso e corto. La cupola è quella che gli architetti chiamano «rialzata», tipica dell’arte musulmana e indiana. Accanto al tempio si staglia un grosso tubo d’acciaio inox, con incisa la data di costruzione, il 2006. Una costruzione simbolica, evidentemente, che ricorda il monolite kubrickiano di 2001: Odissea nello spazio. Lontano dal tempio, poi, una fonte da cui sgorga l’acqua, ispirata alle forme Yoni-Lingam1 della tradizione indù, e una stele trapezoidale in mattoni con delle placche in acciaio dove sono incisi i nomi dei fedeli che hanno finanziato il tempio, sullo stile di quelle ritrovate in Egitto e in Mesopotamia. Insomma, un turbine di riferimenti religiosi, che il fedele inconsciamente riconosce ed elabora, trasformandoli in una carica suggestiva persistente. Una formula ben collaudata che si ritrova, praticamente uguale, in giro per il mondo. Oggi si contano circa ventidue parchi umanisti, la maggior parte dei quali in Sudamerica, quasi tutti strutturati con lo stesso format: portale shintoista, sala di meditazione, monolite, fonte d’acqua e stele. E tutti costruiti con i soldi dei fedeli. Il parco non è disabitato. Anzi. Appena arrivati, ci imbattiamo in diversi gruppetti di persone che escono alla spicciolata dal tempio. Se non fosse per la tipologia umana molto diversa, potrebbe sembrare domenica, quando i fedeli cattolici lasciano la chiesa. Qui ad Attigliano incontri soprattutto giovani, di quelli che trovi a San Lorenzo, se vivi a Roma, o alle Colonne, se vivi a Milano. Ragazzi e ragazze con dread, piercing, capelli arancioni, fasce colorate, gonne larghe, barbe incolte e capelli arruffati. Non sono tutti giovanissimi, ci sono anche quarantenni e cinquantenni, di

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quelli che non amano portare giacca né cravatta. Vengono dall’Italia e dal resto dell’Europa. Non sono gli ultimi giapponesi della cultura hippie ma adepti del Movimento umanista e qui sorge il loro tempio, il Parco europeo del messaggio di Silo. Il Movimento umanista è un’organizzazione internazionale presente in quasi cento Paesi e, stando alle cifre ufficiali, può contare su di un milione e settecentomila partecipanti. È diffuso soprattutto in Sudamerica e nei Paesi latini dell’Europa, fra cui ovviamente l’Italia, dove fonti affidabili stimano circa tremilacinquecento umanisti, localizzati soprattutto nelle città metropolitane del Centro-Nord, Milano capitale. Ma nuclei attivi si trovano anche a Torino, Genova, Trieste, Firenze, Pistoia, Roma, Napoli e Palermo. Lo scopo del Movimento è ambizioso quanto comune fra le organizzazioni analizzate finora: cambiare il mondo, per salvarlo, «umanizzarlo». Povertà, fame, malattie, guerre, terrorismo, sfruttamento, scontro tra culture, discriminazione, sconvolgimenti ambientali, ma anche solitudine, disperazione, insicurezza. Tutto ciò è, per gli umanisti, il mondo di oggi, frutto avvelenato del «sistema», disumano e violento, in cui viviamo. Un sistema che non è né migliorabile né perfezionabile, e che va semplicemente «rovesciato». «Questo sistema ha diviso la società in vincenti e perdenti. Pratica e fomenta l’eliminazione dei più deboli. Disprezza i poveri e gli esclusi. Allora proprio questi falliti saranno quelli che insorgeranno. E questo è il destino del Movimento. Arriverà il giorno in cui si parlerà con orgoglio di questi falliti.» È il messaggio «rivoluzionario» che si può ascoltare all’inizio di un video di propaganda facilmente reperibile su internet. Lo status quo va sostituito da una Nazione umana universale, che si basi su valori abbastanza semplici: l’individuo è l’interesse centrale, niente è al di sopra di esso e nessun essere è al di sopra di un altro; bisogna riconoscere le diversità di ogni gruppo umano e condannare le discriminazioni, causate da differenze economiche, razziali, etniche o culturali; occorre affermare la libertà di idee e credenze; e serve ripudiare la violenza in tutte le sue forme. Per poter perseguire un cambiamento sociale di tale portata, però, ogni umanista ha un «piccolo» compito preliminare da portare a termine. Non può cambiar il mondo se non riesce prima a liberare se stesso, seguendo un cammino di purificazione interiore. Deve cioè riuscire a immunizzarsi dalla sofferenza in tutte le sue forme.2 1 Il Lingam, secondo la tradizione shivaita, è la rappresentazione dell’energia creativa maschile (ha forma fallica), così come la Yoni simboleggia l’energia

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creativa femminile (ricorda una vagina stilizzata). L’unione di Lingam e Yoni sintetizza l’indivisibilità e l’unicità del binomio maschio-femmina. 2 «La sofferenza deve essere distinta dal dolore, che ha una dimensione semplicemente fisica e potrà essere alleviato dai progressi della scienza e dalla giustizia sociale» si legge alla voce «Umanisti» dell’Enciclopedia delle religioni del Cesnur. «Ma questi rimedi non potranno nulla contro la sofferenza interna, che è della mente, e le sue tre “vie”: la via del ricordo, la via della percezione, la via dell’immaginazione. Si soffre cioè per le delusioni del passato e per la paura del futuro. Alla base di ogni sofferenza, sta però la “violenza interna”, che nasce dal desiderio interiore e diventa esterna, estendendosi agli altri e causando ulteriore sofferenza. Per superare la violenza occorre quindi estirpare la radice del desiderio, e il cammino inizia purificando il desiderio e ripudiando tutte le forme di violenza (politica, sociale, religiosa).» La si trova online all’indirizzo www.cesnur.org. 2. Dalle Ande alle Alpi Le tappe di questo viaggio interno sono il frutto della ricerca spirituale di Mario Rodriguez Cobos, detto Silo, capo carismatico e indiscusso del Movimento, scomparso il 16 settembre 2010 all’età di settantadue anni. Fonda il gruppo nel 1969 con il suo primo discorso «La guarigione dalla sofferenza», tenuto in un paesino della cordigliera andina alla frontiera fra Argentina e Cile. In quel di Punta de Vacas scrive anche il suo primo libro, Lo sguardo interno, che sarà pubblicato tre anni dopo. Attorno a questo e agli scritti successivi si formano i primi gruppi di seguaci, che pian piano travalicano i confini dell’America Latina per espandersi in altri continenti, a partire dall’Europa e dall’Africa. Si riconoscono a prima vista per una particolare predilezione cromatica: l’arancione, colore «ufficiale» del movimento siloista, la cui «dottrina» è oggi racchiusa ne Il messaggio di Silo, una specie di bibbia, in cui si indica il cammino da percorrere per la liberazione dalla sofferenza. Libro che, assieme a tutte le sue opere, chiunque può scaricare liberamente da internet.

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Per raggiungere il loro nirvana i seguaci di Silo devono abbandonare la razionalità e affidarsi completamente a lui. Lui insegnerà loro come raggiungere gli anfratti più profondi del proprio essere, quelle porte dell’anima che mettono in comunicazione l’uomo con una nuova realtà trascendente. Lì ci si arriva solo raggiungendo condizioni particolari del corpo e dello spirito: i cosiddetti «stati alterati di coscienza». È come sfondare il muro del suono della propria anima: «Il soggetto non è consapevole dell’ambiente circostante oppure ha un controllo parziale o nullo dei suoi sensi a tal punto da percepire in modo distorto le sue sensazioni e tutto ciò che vede o gli accade».1 Insomma, nulla di più di quel che capita a chi si prende una sbronza o si fuma una canna: l’alcool o gli stupefacenti alterano la velocità con cui il nostro cervello elabora le informazioni e questo può dare una sensazione di agitazione euforica ed esaltazione (se la velocità è alta) oppure di estremo rilassamento e sedazione (se è troppo bassa). Ma esistono delle tecniche che possono indurre artificialmente, senza assumere sostanze, questa condizione tutta fisiologica, che ben poco ha di metafisico. Silo promette ai suoi devoti che per questa via arriveranno alla «sospensione dell’io».2 E quando l’io è sospeso non può che inabissarsi. È in quel momento che la «coscienza è in grado di internalizzarsi verso “il profondo” dello spazio di rappresentazione». «Il profondo non è esattamente un contenuto della coscienza. La coscienza può raggiungere “il profondo” grazie a un lavoro particolare di internalizzazione. In questa internalizzazione irrompe ciò che sempre è nascosto, coperto dal “rumore” della coscienza. È nel “profondo” che s’incontrano le esperienze degli spazi e dei tempi sacri. In altre parole, è nel “profondo” che s’incontra la radice di tutta la mistica e di ogni sentimento religioso.»3 E per vedere con i nostri occhi la difficoltà di questa ricerca mistica dobbiamo tornare ad Attigliano. 1 Definizione tratta dall’Enciclopedia del Cicap, il Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sul paranormale. 2 Silo, Appunti di Psicologia, 2006, liberamente scaricabile da internet. 3Ibidem.

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3. Profondo arancio Gli umanisti che incontriamo ad Attigliano in gergo sono definiti «postulanti», siloisti che vogliono entrare nella Scuola per apprendere le «discipline», ovvero quelle tecniche che permettono di comunicare con il «profondo». Prima però devono essere opportunamente preparati, devono studiare e completare i lavori di «livellamento». Si tratta di tre riunioni tenute nel Parco a distanza di tempo, con i postulanti che negli intervalli fra un incontro e l’altro devono studiare i libri di Silo e stilare riassunti e sintesi. Un percorso obbligato, altrimenti niente Scuola. Le discipline si tengono in giorni prestabiliti sempre ad Attigliano. Il postulante che passa l’esame e diventa «discepolo» può sceglierne una tra le quattro disponibili. C’è la disciplina Energetica, per esempio, che consiste nel rimanere immobili in una certa posizione, astrarsi dal contesto esterno e concentrarsi «per spostare e trasformare l’energia psicofisica interna», come dicono loro. Una pratica, questa, che si ispira dichiaratamente alle attività tantra induiste e ai riti orfici e dionisiaci della Grecia del sesto secolo avanti Cristo. Il discepolo siloista saprà ora come prendere l’energia concentrata nella zona pubica e diffonderla come crede su tutto il corpo. Con l’obiettivo finale della «rottura del livello abituale di funzionamento della coscienza».1 Chi non vuole maneggiare l’energia può scegliere la disciplina Mentale, una forma di meditazione spinta similbuddista. Anche in questo caso, isolandosi dal proprio corpo e dagli stimoli esterni, l’obiettivo è arrivare «a sottrarsi ai determinismi e ai condizionamenti della propria coscienza, trascendendo verso strutture universali».2 Lo stesso meccanismo si attiva nella terza disciplina, quella Morfologica. Stai seduto in un luogo tranquillo e silenzioso, in una posizione rilassata e con gli occhi chiusi, «in modo che il corpo dia meno segnali possibile».3 Una volta concentrato, cominci a immaginare forme geometriche: una sfera, che si trasforma in cilindro, che muta in cono, che diventa cubo per ritornare ancora una volta sfera. A questo punto puoi entrare nella sfera e fonderti con essa. E il viaggio continua. La ragione finale di queste astrazioni, che attingono a piene mani dai riti e dai misteri della scuola pitagorica, è sempre la stessa: entrare in contatto con il Profondo. Per tutte e tre le discipline, è il Cicap che ci fornisce una spiegazione scientifica di questa ascesi. «Rimanere immobili nella stessa

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posizione per diverso tempo fa sì che tutti i recettori del corpo si abituino e il cervello non riceva più da essi le sensazioni tattili e di movimento, in questo modo non si ha più l’esatta coscienza del corpo; questo rappresenta un esempio di stato alterato. Allo stesso modo, impedire a tutti gli organi di senso di ricevere ogni informazione proveniente dal mondo esterno non dà la possibilità al cervello di elaborare precisi punti di riferimento e questo determina la perdita della coscienza del tempo e dello spazio: è un altro esempio di stato alterato.» Per i più coraggiosi, infine, c’è la disciplina Materiale. Qui ci vuole un luogo attrezzato, ci vogliono ampolle, fiamme, acidi, e tutto l’armamentario di un laboratorio chimico. Si mescolano e si fondono sostanze come lo zolfo e il mercurio, si usano l’antimonio, il rame e il ferro, traffica con l’acido solforico e quello cloridrico. Una confusa scopiazzatura da riti alchemici di matrice orientale (cinese, babilonese e bizantina) ma anche occidentale (medievale e rinascimentale). In questo caso, le trasformazioni continue della materia dovrebbero provocare altrettanti cambiamenti nell’animo di chi le fa. «Il “corpo” [il miscuglio a cui lavori, NdA] che subisce un continuo processo di trasformazione è la rappresentazione dell’operatore. Per questo è necessario che l’operatore “risuoni con essi”.»4 A differenza delle altre discipline, quella Materiale presenta un certo grado di pericolo per l’incolumità del discepolo. Nelle stesse dispense interne della Scuola si avverte che il laboratorio «deve avere una buona aerazione e ventilazione poiché si lavora con acidi e vapori tossici». E ancora: «Si deve fare attenzione ai pericoli di incendi e scottature per la manipolazione di bruciatori, cannelli, acidi bollenti e per l’esplosione della strumentazione in vetro. Bisogna anche badare al contatto della pelle con sostanze velenose come il mercurio».5 Un rischio che un umanista è felice di correre, però, perché anche questa scienza esoterica, al pari delle altre, porta «l’operatore nella direzione degli spazi profondi».6 Tuttavia, anche fra gli stessi umanisti si è ingenerato il dubbio che in realtà l’influenza sulla mente e sulla coscienza dell’aspirante «alchimista» sia dovuta a fattori molto più biologici e molto meno «magici». Tanto che fra i materiali di studio della Scuola si trova anche un breve saggio di un umanista, tal Bruno P., che cerca di provare come le alterazioni mentali degli alchimisti siano in realtà dovute agli effetti dell’inalazione di vapore di mercurio, sostanza inodore e altamente tossica che arriva direttamente al sistema nervoso. Ebbene, il saggio termina con l’autore che ritiene «molto probabile» l’ipotesi. Andando così inconsapevolmente (e incredibilmente) a smontare il fascino esoterico della disciplina Materiale. In questo Bruno P. è quasi più efficace del Cicap. Al di là dei dubbi, le quattro discipline per Silo sono sacre e fondamentali: «Le discipline muovono meccanismi mentali complessi. E si suppone che

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producano alterazioni, speriamo favorevoli. Alterano, alterano la visione della gente, la visione del mondo, la visione di se stessi».7 Un’alterazione orientata verso un unico fine. Come abbiamo visto e come si legge nei materiali di studio, la promessa fatta ai discepoli è di quelle impegnative: «Concluso il processo disciplinare si è in condizione di organizzare un’ascesi». Un’ascesi che cambia completamente la vita dell’adepto: secondo Silo da quel momento in poi non si è più gli stessi. 1]Le quattro discipline, materiale a uso interno dei discepoli. 2Ibidem. 3Ibidem. 4Ibidem. 5Ibidem. 6 I riti alchemici umanisti si possono vedere sul loro sito www.silo.net. 7 Silo, «Dove siamo?», discorso tenuto ai suoi collaboratori a Punta de Vacas, 30 gennaio 2010. 4. La luce! Ho visto la luce!

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Lo studio delle discipline non è l’unico cuneo grazie al quale Silo entra nelle menti dei propri seguaci. Chi è dentro al Movimento partecipa a tutta una serie di attività che in un modo o nell’altro tendono a irreggimentare il pensiero critico, fino ad annullarlo, per sostituire alla logica razionale il messaggio del Fondatore. Un meccanismo ben calibrato, capace di creare una classe di adepti che mette il Movimento prima di tutto, sacrificando affetti e lavoro, e si adopera da mattina a sera per farlo crescere. Ossia per fare più proseliti possibili. Antonio1 è un giovane del Nord Italia che ha frequentato per quattro anni il Movimento, uscendone nel 2008. «Nel 2004 mi avvicino all’organizzazione in occasione delle manifestazioni contro la guerra in Iraq durante la presidenza Bush, attirato dalle loro iniziative per la pace e la nonviolenza. Considero quella guerra ingiusta e ho bisogno di urlare al mondo il mio sdegno. Comincio a frequentare il centro della mia città e mi trovo subito bene. All’inizio le persone ti accolgono con calore e sono molto premurose nei tuoi confronti. A me viene data l’occasione che cercavo: scrivere nel giornalino interno sulle problematiche dell’immigrazione, dell’integrazione culturale e argomenti simili. Mi sembra così di poter dare il mio contributo per rendere migliore il mondo in cui viviamo. Mi ricordo ancora oggi di un bel servizio fatto su come vivono i Sinti nei loro campi.» La luna di miele di Antonio però finisce presto, il tempo di rendersi conto di come lo stavano indottrinando. Tutto avviene durante le riunioni settimanali, incontri periodici a cui ogni buon umanista non può mancare. «La cosa che più mi dà fastidio in quegli incontri sono le cosiddette “ore positive”. Ognuno porta le sue esperienze personali su grandi temi, come per esempio l’amicizia e l’amore, e da lì si comincia a discutere, assieme agli altri e al coordinatore del gruppo. Il suo ruolo è fondamentale: pian piano e senza farsi accorgere, orienta il dibattito verso la soluzione che Silo dà del problema di cui si sta parlando. Quindi, dopo un certo numero di sedute, sei portato a pensare che il capo del Movimento abbia una risposta giusta per tutto. E naturalmente ti viene naturale affidarti a lui totalmente. Solo dopo ho capito che questo è uno dei metodi tramite il quale indottrinano gli aderenti.» Nonostante il fastidio provato nelle riunioni, Antonio comunque decide di andare avanti e impegnarsi nel Movimento, anche perché lavorare al giornale lo soddisfa. Partecipa agli eventi organizzati nella sua città per celebrare la giornata mondiale della nonviolenza, che cade ogni anno il 2 ottobre. Ma anche in questo caso si accorge che non tutto fila liscio come dovrebbe. Il disagio cresce. «Mi accorgo che tutte le decisioni, per esempio su quali campagne o iniziative lanciare, vengono prese esclusivamente dall’alto. I militanti infatti devono solamente portare avanti le strategie e non fare domande. Io invece, che avanzo le mie idee e non lesino critiche ai

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coordinatori, vengo presto messo in quarantena e passo per un rompiscatole all’interno del gruppo.» Ma il giorno in cui Antonio apre definitivamente gli occhi sul Movimento arriva nel 2007, quando si reca a Milano per una full immersion, dalle 8 di mattina alle 8 di sera, nel messaggio di Silo. «Siamo in tanti, la sala è affollata. La giornata si apre con un videomessaggio del leader, salutato da un lungo applauso finale di tutti noi. Poi si inizia con le attività in programma. Rimango subito un po’ interdetto. Seduti in cerchio, ognuno di noi deve raccontare le cose che lo turbano, gli episodi più intimi della propria vita. È una specie di confessione, simile a quella che faresti davanti a un prete ma con la differenza che ci sono un bel po’ di persone a sentirla. «Ma la cosa più strana arriva dopo, nel pomeriggio, quando ci insegnano dei particolari esercizi di meditazione. Ti fanno immaginare una sfera di luce che entra nel corpo e rilascia la sua energia, dal cuore fino alle estremità. Un’energia che poi viene moltiplicata all’ennesima potenza, fino a quando poi la sfera si contrae ed esce dal tuo corpo. Alla fine di questa pratica mi guardo attorno e vedo le persone che ho a fianco in uno stato di rilassamento estremo, quasi di trance. E anche io mi sento piuttosto strano, mi manca la lucidità. Tanto che a fine giornata arrivo veramente stordito. Sono spossato, come mai mi è accaduto.» Antonio ha appena partecipato a una delle «giornate di lavoro personale», vero e proprio must per ogni umanista che si rispetti. Ce ne sono di diversi tipi, ma questa, chiamata La Forza, è forse la più importante perché «l’esperienza della Forza può andare molto oltre, fino ad arrivare ad aprire una nuova prospettiva al senso della vita», si legge in un documento a uso interno dei coordinatori del Movimento. Del resto gli esercizi di meditazione in cui ci si vanta di poter maneggiare l’energia corporea, con annessa sfera di luce che entra ed esce dal corpo, sono il punto cardine degli insegnamenti di Silo in Umanizzare la terra, uno dei suoi libri più importanti. Tornato a casa, Antonio inizia a razionalizzare quello che è successo a Milano. E i dubbi sul Movimento invece che diminuire aumentano vertiginosamente. «Alla fine mi allontano gradualmente dall’organizzazione. A distanza di tempo posso dire che la giornata milanese non è stata l’unica molla a spingermi a uscirne, ma certo quell’esperienza mi ha fatto toccare con mano le tecniche che usano per azzerare la tua razionalità. Penso che servano proprio a questo: non pensi più criticamente e ti affidi completamente al Movimento, che ti indica la strada per essere felice.» Adesso che è fuori, Antonio rilegge con occhio diverso tante situazioni che gli sono capitate. E finisce per evidenziare altri aspetti critici degli umanisti.

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«Prima di tutto, ora mi rendo conto della loro chiusura verso il mondo esterno. Una volta che sei dentro, sei spinto a creare rapporti di amicizia e di amore tutti interni al gruppo. Le persone, di solito, si fidanzano e si sposano solo fra di loro. E chi invece ha un partner fuori dal Movimento spesso non è visto di buon occhio. Mi ricordo di una mia amica: la facevano sentire in colpa perché il suo fidanzato partecipava poco o niente alle attività interne, per esempio non veniva mai alle cene di autofinanziamento.» Altra pressione psicologica costante, racconta Antonio, è poi la spinta ossessiva al proselitismo. «I vertici ci chiedevano di portare quanta più gente possibile dentro, a partire dai nostri familiari, dal nostro partner e dai nostri amici. Ciò valeva per me, certo, ma anche per gli altri. Così come pretendevano sempre più impegno per le attività decise dai vertici, tanto che spesso mi ritrovavo a dedicare loro tutto il mio tempo libero. Sempre gratis, e anzi rimettendoci le spese per le telefonate o per gli spostamenti o per raccogliere piccola pubblicità per il giornalino.» Insomma, quanto basta per farsi forza e abbandonare un gruppo nei cui ideali aveva davvero creduto. 1 Nome di fantasia. 5. La vita è Movimento Non sempre però chi diventa seguace di Silo riesce poi a uscirne, nonostante provi a tagliare i ponti col Movimento per rifarsi una vita. È il caso di Chiara,1 una ragazza milanese di buona famiglia, che ancora oggi milita nell’organizzazione. A raccontare la sua storia è la mamma, Michela,2 che assieme al marito gestisce un albergo nella città meneghina. Michela è una di quelle donne caparbie e tenaci, capaci di tutto per il bene dei propri figli. Come per esempio iscriversi, non più giovane, all’università nonostante un lavoro totalizzante da portare avanti tutti giorni. All’accademia Michela studia Storia delle religioni, per capire meglio le dinamiche di gruppi settari come quello umanista, in cui è caduta la sua Chiara. «Tutto comincia nel 1995. Allora mia figlia è in crisi con la parrocchia che frequenta perché non riesce a instaurare un buon rapporto col nuovo parroco.

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Chiara è sempre stata molto attiva nella comunità: fino a quel momento faceva da animatrice per i ragazzini che frequentavano la chiesa. Il cambio però la delude non poco, tanto che abbandona tutto. Caso vuole che nello stesso periodo viene contattata all’università, dove studia Ingegneria dei materiali, da un gruppo di umanisti e, incuriosita, comincia a frequentarli.» Il modo in cui Chiara viene avvicinata è abbastanza comune perché gli umanisti possono contare in tutto il mondo su un’organizzazione di studenti universitari che si fa chiamare I Corvi. In Italia ne troviamo delle tracce soprattutto negli atenei di Roma e di Firenze. «Sono sicura che lei sia rimasta affascinata dai grandi ideali che propaganda il Movimento. Chiara infatti è molto sensibile, altruista e incline ad ascoltare e aiutare il prossimo, e, venuto meno il suo riferimento in parrocchia, s’è fatta sedurre dal messaggio di Silo.» All’inizio Michela non si preoccupa più di tanto, in fondo Chiara sembra contenta. «Nei primi sei-sette mesi non dò molta importanza alla sua scelta. I suoi racconti sono entusiasti, mi dice di aver trovato un gruppo dove gli amici sono veri e di trovarsi bene con loro. Ovviamente ne sono felice. Le cose però cambiano presto. Pian piano, Chiara diventa silenziosa, da estroversa che era. Addirittura ci sono giornate intere in cui non spiccica una parola, le faccio domande ma non mi risponde. Sembra diventata completamente muta. Solo dopo anni mi confida che queste sono le cosiddette “giornate del silenzio”, momenti in cui gli umanisti non comunicano con nessuno e si isolano dal mondo esterno. Poi, vedo che ha sempre qualcosa da fare per il Movimento, non c’è tempo per altro, non mangia neanche più assieme a noi. Diventa anno dopo anno sempre più introversa.» Una situazione che Michela, suo marito e l’altro figlio Giovanni patiscono tanto, ma che sembra impossibile da sovvertire. Il muro di Chiara diventa inespugnabile. Quanto più Michela cerca di convincerla a lasciare il Movimento tanto più sua figlia si allontana. Finché nel 2000 succede qualcosa che ridà un po’ di speranza a tutta la famiglia. Chiara, che nel frattempo ha ventiquattro anni, va per sei mesi a Parigi, in Erasmus. «Nella capitale francese vive in un appartamento con altre tre ragazze, conosce gente nuova, si fidanza con un ragazzo straniero. I suoi orizzonti si allargano. E infatti quando torna a Milano la trovo positivamente cambiata. Tanto che mi dice di voler lasciare il Movimento. Ricordo quella giornata, quando esce di casa per andare a comunicare la decisione al capo della struttura lombarda.» Purtroppo però le cose non vanno nel verso auspicato da Michela. «Quando torna a casa, mi dice di non avercela fatta: l’hanno convinta a restare nel gruppo. Ancora mi rimprovero di non esserle stata vicina in un momento così

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importante, di non averle dato la forza necessaria.» Chiara quindi torna a impegnarsi al cento per cento nel gruppo, potendo contare sulla sicurezza economica garantita dalla famiglia. «Fino al 2005, anno in cui va via di casa, i soldi glieli abbiamo sempre dati noi. Anche se a un certo punto ci siamo accorti che finivano un po’ troppo presto. Sono sicura che una buona parte li ha dati al Movimento.» Parecchio denaro serve a Chiara per i tanti viaggi in Africa, soprattutto in Burkina Faso. Gli umanisti infatti hanno una diffusa rete di organizzazioni di volontariato su tutto il territorio nazionale. Quella più attiva è Ritmi africani, che ha sedi a Milano, Torino e Sassari, ma ci sono anche Reciprocità e Atlantide a Roma nonché Storia futura a Napoli. Tutte hanno come obiettivo formale quello di aiutare il popolo africano con progetti e aiuti di vario genere, ma in realtà servono per reclutare nuovi adepti, come viene confermato dalle numerose testimonianze di fuoriusciti che si possono leggere sul sito del Cesap.3 Michela però ci svela come i viaggi siano anche il mezzo per fare proseliti. «Quando Chiara torna da una delle sue missioni me lo dice chiaramente: “Andiamo lì per insegnare loro a pensare e a muoversi”. Nessun progetto concreto, al massimo portano vestiti o farmaci. È quindi chiaro che il loro obiettivo è quello di fare più adepti possibile.» Nel frattempo arriviamo al 2005, un anno che Michela fa fatica a dimenticare perché di colpo le cose peggiorano. È l’inizio di un piano inclinato che porta sua figlia sempre più lontano da lei e dalla famiglia. «Nell’estate di quell’anno Chiara va in un campeggio frequentato da altri umanisti, dove si innamora di uno dei capi del Movimento, che ha vissuto per anni a Punta de Vacas assieme a Silo. Un vero e proprio colpo di fulmine: Chiara lascia tutto, casa e lavoro da ricercatrice all’università, per andare a convivere con lui a Viterbo. Da quel momento comincia ad andare tutto a rotoli: taglia completamente i ponti, come se noi non esistessimo più. Si dedica esclusivamente al Movimento, che per lei ormai viene prima di tutto, prima anche di se stessa. Tutte le volte che la chiamo mi dice che sta lavorando per diffondere le idee di Silo e riattacca subito. Io e mio marito siamo disperati, non sappiamo a che santo votarci. Ci hanno portato via nostra figlia.» Iniziano due anni terribili, in cui la sua ragazza rifiuta ogni contatto. Michela però non demorde, non si rassegna: si informa meglio sul Movimento, studia dai libri di Silo, si rivolge a delle associazioni antisette. Con determinazione prepara il terreno per riconquistare un rapporto con Chiara. Nel 2007 parte l’offensiva: «La chiamo e le dico che l’avrei raggiunta a Viterbo. Sulle prime cerca di fermarmi, ma insisto tanto, accettando qualsiasi compromesso. Mi accontento anche di dormire in albergo e non da lei. Alla

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fine la mia determinazione paga: mi consente di andarla a trovare. Faccio le valigie e parto subito». Michela però non sa ancora cosa la aspetta. Una scena che ancora oggi le mette i brividi. «Sono a cena a casa sua, assieme al suo compagno. Mentre mangiamo lui dice una parola incomprensibile e Chiara si blocca completamente, occhi sbarrati nel vuoto. Noi continuiamo a cenare in un’atmosfera surreale, mentre lei è completamente assente. Le rivolgo la parola ma non mi risponde. Fino a quando l’uomo non pronuncia un’altra parola. Allora lei si sblocca di colpo. Lì per lì non capisco. Solo qualche giorno dopo lui mi confessa di aver praticato l’ipnosi durante gli anni trascorsi a Punta de Vacas. Allarmata e impaurita, vado dalla polizia per denunciare quanto accaduto, ma alla fine mi ritrovo ancora più sola: gli agenti mi dicono che hanno le mani legate, mia figlia è maggiorenne e non c’è alcun reato collegato alla manipolazione mentale. In ogni caso, anche dopo questo episodio, mi accorgo di come ormai Chiara sia diventata svampita, come una farfalla che vola senza senso e senza scopo. Una sensazione bruttissima che provo anche al suo matrimonio, qualche mese dopo quella terribile cena.» Chiara si sposa civilmente, ma anche secondo il rito umanista. Gli umanisti hanno una serie di cerimonie che ricordano i sacramenti cattolici:una specie di battesimo, un surrogato del matrimonio, un succedaneo dell’estrema unzione. E hanno persino una loro versione del funerale. Sono riti semplici e brevi. Il matrimonio, per esempio, si risolve in poche battute. C’è un «aiutante» che fa un cappello introduttivo sul valore del vincolo nuziale e un «ufficiante» che chiede a entrambi «Che cos’è per te questo matrimonio?». Gli sposi rispondono e l’ufficiante suggella il tutto con «Questo matrimonio sarà secondo i desideri espressi e le intenzioni più profonde».4 Una cerimonia scarna, che lascia a Michela tanta amarezza. Non poter gioire neanche nel giorno in cui sua figlia si sposa è però troppo anche per una tosta come Michela. Dopo la cerimonia, il contegno che ha tenuto davanti a Chiara e suo marito si squaglia e i nervi le saltano: «Ricordo che sulla strada del ritorno verso Milano, piango per tutto il viaggio». 1 Nome di fantasia. 2 Nome di fantasia.

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3 Si trovano sul sito www.cesap.net/forum. Interessanti quelle di Anna, Stefy, May e Stero. 4 La descrizione di tutti i riti si trova in Il messaggio di Silo, liberamente scaricabile da internet. 6. Il culto della piramide Come abbiamo visto nei racconti di Antonio e Michela, una caratteristica che accomuna il Movimento a tutti gli altri gruppi che abbiamo trattato finora è la spinta ossessiva a veicolare il messaggio in famiglia, fra gli amici, fra i colleghi di lavoro, e a portare quindi più gente possibile alle riunioni settimanali. Del resto, l’attenzione maniacale all’attività di proselitismo è l’unica via per raggiungere l’obiettivo caro a ogni organizzazione settaria: in questo caso «umanizzare la terra». Tuttavia c’è qualcosa che differenza gli umanisti da tutti gli altri. Qualcosa che è insito proprio nel modello organizzativo scelto per strutturare il movimento: lo schema piramidale. Ebbene sì, il movimento nato e cresciuto con l’intento dichiarato di sovvertire «il sistema», di soppiantare il darwinismo capitalista con la solidarietà sociale, di boicottare la finanza a vantaggio della produzione, utilizza come propulsione proprio uno dei meccanismi più discussi e contrastati del marketing aziendale. Lo stesso, tra l’altro, che ha permesso al truffatore americano Bernard Madoff di bruciare cinquanta miliardi di dollari affidati dai suoi clienti. Lo schema a piramide o multilevel marketing, per capirci, è quello adottato da multinazionali come Herbalife o Amway per piazzare i propri prodotti. Il venditore multilevel, infatti, a differenza di uno normale, ha una doppia remunerazione: riceve provvigioni sia sul prodotto direttamente venduto, sia sui prodotti venduti dai promotori che egli stesso ha arruolato, quindi, da tutto il ramo di venditori che ha creato nel tempo, la cosiddetta downline. In questo modo, chi è al vertice è fortemente motivato a reclutare quanta più gente possibile alla base. Ma anche chi sta alla base sente la stessa

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esigenza, per poter mettere quante più persone possibile sotto di sé e guadagnare percentuali sulle vendite altrui. La struttura del Movimento umanista – come si apprende dai loro materiali interni – è ispirata alla medesima filosofia, sebbene lo scopo non sia vendere prodotti ma reclutare anime. Quando un nuovo seguace entra nel movimento gli viene appuntato il grado di Delegato di gruppo e assieme agli altri neofiti forma il Consiglio dei Delegati di gruppo. Se decide di voler far carriera, ha solo una strada davanti a sé: portare dentro almeno altre dieci persone. Solo quando riuscirà a farlo, potrà avanzare di livello e diventare Delegato d’équipe, entrando a far parte del più esclusivo club del Consiglio dei Delegati d’équipe. A questo punto, per continuare la scalata, c’è bisogno che almeno dieci dei suoi Delegati di gruppo diventino a loro volta Delegati d’équipe. Quindi solo quando sotto di lui avrà almeno cento persone, potrà fregiarsi del grado di Delegato generale e far parte del Consiglio omonimo. Qui però viene il difficile. Perché per salire ancora nella piramide e conquistare il titolo di Coordinatore (entrando nel Consiglio dei coordinatori) deve «orientare», come si dice in gergo umanista, almeno mille persone. Fino a raggiungere il grado massimo, quello di Coordinatore generale, che fa da guida addirittura a diecimila seguaci. Se lo disegnassimo, l’organigramma si comporrebbe in una piramide straordinariamente schiacciata: la base molto larga e il vertice molto stretto. Adesso, quindi, è più chiaro perché la preoccupazione di «fare struttura» è uno dei pensieri fissi per chi è dentro l’organizzazione umanista. Una missione che viene prima dei buoni sentimenti. Ma non è solo l’aspirazione a fare carriera che spinge gli umanisti a mettere quanta più gente possibile sotto di sé. Stare quanto più vicino possibile ai vertici regala anche un altro privilegio non da poco: si possono gestire più soldi. Ed è qui che la piramide «arancione» finisce per confondersi pericolosamente con una struttura multilevel classica. Gli umanisti si finanziano con la colletta. Ogni siloista deve metter mano al portafogli almeno due volte all’anno, al solstizio d’estate e a quello d’inverno, il 21 giugno e il 21 dicembre. La quota varia da Paese a Paese e di solito dovrebbe aggirarsi intorno a un ottavo di uno stipendio medio. In Italia si pagano sessanta euro, quindi centoventi euro all’anno. Apparentemente, la colletta viene ridistribuita equamente nella struttura: un quarto resta al Consiglio dei Delegati di gruppo, un quarto al Consiglio dei Delegati d’équipe, un quarto al Consiglio dei Delegati generali e il restante quarto al Fondo mondiale. Nella sostanza, invece, questo meccanismo di ripartizione è profondamente squilibrato. I quattro livelli ricevono la stessa somma, è vero, ma la maggior parte delle persone si accalca alla base, fra il primo e il secondo

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livello. Così chi gestisce il Fondo mondiale si trova a maneggiare cifre importanti. E non se la passano male neanche i Delegati generali, che spesso utilizzano i soldi dell’autofinanziamento per i propri viaggi in giro per il mondo. Il denaro viene impiegato anche per costruire i parchi di studio e riflessione, come è avvenuto per quello di Attigliano. Che questa costruzione sia stata finanziata quasi esclusivamente dai soldi delle collette lo dimostra il fatto che la Onlus Pangea, a cui è stato dato il compito di raccogliere il 5 per mille da dirottare al «tempio», in tre anni, dal 2006 al 2008, è riuscita a racimolare solamente qualche spicciolo: poco più di settemila euro. Se ne deduce che per poter acquistare gli ottomila metri quadrati del Parco, Pangea abbia attinto alle tasche dei devoti. Infatti, facendo due conti, in Italia il giro d’affari umanista è di almeno quattrocentoventimila euro all’anno, visto che a tanto ammonta la colletta.1 Questa cifra però non tiene conto di tutta una serie di altre entrate: bisogna aggiungere i soldi che arrivano al Movimento dalle periodiche cene di autofinanziamento e dalle svariate donazioni dei fedeli. 1 A questa cifra si arriva moltiplicando il numero di seguaci (tremila e cinquecento circa) per la quota annuale di finanziamento (centoventi euro). 7. Il partito di Silo Per cambiare la società, abbattere il sistema e diffondere il verbo umanista in ogni dove, un movimento non basta. Come direbbe un matematico, è condizione necessaria ma non sufficiente. Silo lo sapeva bene. L’altra gamba di una rivoluzione non può che essere un partito politico: un partito che si presenti a tutte le elezioni, da quelle di quartiere fino a quelle nazionali, che prenda i voti sul territorio, che elegga i propri rappresentanti nelle istituzioni e che, una volta dentro la stanza dei bottoni, azioni le leve giuste pro domo sua. Infatti, quando struttura il suo movimento, Silo progetta anche un organo politico: dovunque ci siano degli umanisti, ci dovrà essere pure un Partito umanista. Un’organizzazione facilmente identificabile, dal simbolo comune in tutti Paesi: un nastro di Möbius bianco su sfondo arancione. A ricordare il simbolo dell’infinito, piazzato sul colore ufficiale del Movimento.

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Trasformare però un gruppo organizzato che si basa sul «miglioramento» personale (tramite tecniche e pratiche ai confini con la magia e l’esoterismo) in una formazione politica non è la cosa più semplice di questo mondo. Serve prima di tutto un manifesto, la visione chiara e semplice della società che si vuole costruire, in modo da persuadere anche chi umanista non è. Così, nel 1993 Silo decide di formulare una piattaforma politica su cui il partito possa mettere le proprie radici e crescere: il Documento umanista.1 «Ecco la grande verità universale: il denaro è tutto. Il denaro è governo, è legge, è potere. È, nel fondo, sopravvivenza. Ma è anche l’Arte,la Filosofia, la Religione. Niente si fa senza denaro; niente si può senza denaro. Non ci sono rapporti personali senza denaro. Non c’è intimità senza denaro, e perfino una serena solitudine dipende dal denaro.» L’inizio della cornice programmatica di Silo è abbastanza eloquente, individua subito il nemico da combattere e con esso tutti i suoi sommi sacerdoti, ossia banchieri e finanzieri.2 Concetti non particolarmente originali, che rilanciano vecchi stereotipi del movimentismo sessantottino. Ma succubi del «sistema» per Silo sarebbero anche i politici, che non si ribellano allo strapotere della tecnofinanza. Anzi, spesso i rappresentanti del popolo tradiscono i propri elettori, vendendosi alla tirannia del denaro. «Con il passare del tempo, si è visto chiaramente che oltre a questo primo atto con il quale i molti scelgono i pochi [le elezioni, NdA], ne esiste un secondo con il quale questi pochi tradiscono i molti, facendosi portatori di interessi estranei al mandato ricevuto. E questo male si trova ormai in incubazione nei partiti politici che sono ridotti a dei puri vertici separati dalle necessità del popolo. Ormai, all’interno della macchina dei partiti, i grandi interessi finanziano i candidati e dettano la politica che questi dovranno portare avanti.» Il leader carismatico degli umanisti non solo soffia sul fuoco anti-casta ma stila anche una lista di nemici da contrastare. Al primo posto ci sono le Destre «intese come strumenti politici dell’anti-umanesimo», mentre al secondo si piazza «l’astuta banda clericale che ha preteso di elaborare non si sa quali teorie a partire da un ridicolo umanesimo teocentrico; si tratta della stessa gente che ha inventato le guerre di religione e l’inquisizione, che ha fatto da boia ai padri storici dell’umanesimo occidentale». Qualche avversario c’è però pure nel proprio campo d’elezione, a sinistra, e viene censurato da un furore ideologico senza eguali: Alla base di queste forme di neofascismo c’è una profonda negazione dei valori umani. Anche in certe correnti ecologiste devianti succede qualcosa d’analogo, visto che privilegiano la natura rispetto all’uomo. Esse non sostengono più che il disastro ecologico è propriamente tale perché mette in

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pericolo l’umanità: lo è perché l’essere umano ha attentato contro la Natura. Secondo alcune di queste correnti, l’essere umano è un essere infetto che in quanto tale infetta la Natura. Per loro sarebbe stato meglio che la medicina non avesse avuto alcun successo nella lotta contro le malattie e per prolungare la vita. «Prima la terra!» urlano in modo isterico, richiamandoci alla memoria i proclami del nazismo. Dopo le critiche al sistema e la lista dei «cattivi», arrivano però anche le proposte. Per mettere in ginocchio il grande capitale finanziario, gli umanisti puntano a riportare al centro il lavoro, magari facendo entrare direttamente i dipendenti nelle scelte aziendali. Mentre per fare un po’ di pulizia nel corrotto mondo politico consigliano un uso più intenso degli strumenti di democrazia diretta (referendum ed elezione diretta dei candidati) ma soprattutto l’emanazione di leggi sulla responsabilità politica, secondo cui chi non mantiene le promesse fatte agli elettori rischia l’interdizione o la destituzione dal suo incarico. La visione politica umanista si può quindi riassumere in un’ideologia di fondo simile a quella degli attuali partiti della sinistra postcomunista, permeata però da una spiccata antipolitica, un po’ qualunquista, cara al movimento dipietrista. Oggi il Partito umanista è forte in Sudamerica, in particolare in Argentina e soprattutto in Cile, dove già all’inizio degli anni Novanta era riuscito a far eleggere la prima deputata nazionale della sua storia (Laura Rodriguez). Nel 2005 ha partecipato alle presidenziali con un proprio candidato, Tomas Hirsch. A capo di una coalizione di estrema sinistra, Juntos Podemos Mas, Hirsch è riuscito a portare a casa il 5,5 per cento dei consensi. In Argentina invece il partito è più presente a livello locale, dove può contare su diversi rappresentanti nei parlamenti regionali e comunali. La più nota è Lia Mendez, che dal 2000 al 2003 è stata consigliere comunale di Buenos Aires. In Italia il partito ha avuto alti e bassi, fra difficoltà organizzative e mancanza di visibilità mediatica, inseguendo la chimera di un posto in Parlamento, da quello europeo alle assemblee comunali delle metropoli. Le prime apparizioni elettorali sono tutt’altro che incoraggianti. Alle politiche del 1996 gli umanisti racimolano quattordicimila voti, lo 0,04 per cento, una goccia nell’oceano. Risultato bissato tre anni dopo alle europee: sedicimila voti per lo 0,05 per cento. Il segretario di allora, Giorgio Schultze, si rende conto che per un partito come il suo l’unica strada per avere un futuro è andare in televisione e farsi conoscere dagli italiani. Mostrando così di aver ben appreso uno degli insegnamenti berlusconiani: la share of voice (la quota di visibilità in tv) tende ad ampliare la share of market (la percentuale dei voti). Bene, ma come fare? Semplice: il Partito umanista sfrutta un cavillo della legge sulla par condicio3

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che gli permette di presentarsi alle regionali del 2000 in qualità di quarto incomodo, accanto al Polo, all’Ulivo e ai Radicali. Così, nei trenta giorni che precedono le elezioni, per i candidati umanisti è un vero e proprio bagno di notorietà: tribune elettorali, faccia a faccia, dichiarazioni nei telegiornali. Ora tutta Italia, almeno quella più attenta alla politica, conosce quel simbolo dell’infinito su sfondo arancione. E, molti, incuriositi, si avvicinano anche al movimento. Tanto che a pochi giorni dal voto compare sui giornali la notizia di un Berlusconi infastidito per la loro presenza nei dibattiti.4 Sta di fatto che la formula «presenza in tv-voti nelle urne» funziona. Gli umanisti incassano ottantamila voti in sole cinque regioni, piazzandosi fra lo 0,5 e l’1 per cento. Un bel balzo rispetto a quanto portato a casa solo un anno prima. Tuttavia, quello che potrebbe essere l’inizio di un crescendo e di un radicamento territoriale diventa presto l’apice di una parabola discendente. Il partito non riesce a fare il definitivo salto di qualità e buca clamorosamente i successivi appuntamenti elettorali. Non si presenta alle politiche del 2001 e 2006, manca le regionali del 2005. In questo periodo riesce a occupare uno spazio sulle schede elettorali solamente alle comunali delle città più grandi, ma anche in questo caso si tratta perlopiù di una battaglia di testimonianza, null’altro.5 Dopo sette anni di buio profondo, all’improvviso compare un bagliore. Una luce che pulsa nel profondo sud dell’Italia. In Sicilia. Nel 2007 a Palermo viene eletto il primo consigliere comunale umanista. Fabrizio Ferrandelli è il segretario del Pu siciliano e alle elezioni corre come candidato indipendente all’interno della lista civica di Leoluca Orlando, sfidante del forzista Diego Cammarata che poi diventerà sindaco. Fabrizio è giovane, classe 1980, noto nei quartieri popolari di Ballarò e della Kalsa per il suo impegno sociale. È lui il primo a capire che candidarsi all’interno di una lista di sinistra è l’unico modo per superare la diffidenza degli elettori nei confronti dello sconosciuto Partito umanista. In soldoni, l’unica strada per conquistare il Palazzo. Il risultato va oltre le attese: con più di milletrecento voti viene eletto al consiglio comunale. Successo ribadito l’anno dopo alle regionali: con 4160 preferenze, di cui 3350 conquistate a Palermo. Fabrizio si conferma così astro nascente della sinistra siciliana, anche se stavolta per un soffio il seggio non scatta.

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Tuttavia l’analisi del voto conferma che per essere eletti bisogna mimetizzarsi in una lista più forte e credibile: Ferrandelli infatti ha corso con la lista Borsellino-Sinistra arcobaleno. Il caso palermitano fa ancora più scalpore nel mondo umanista perché scoppia mentre il partito, a livello nazionale, subisce l’ennesima débâcle: non si presenta alle politiche del 2008 e fa confluire i voti nel fallimentare progetto della lista Per il bene comune, fondata dal senatore Fernando Rossi e da altri fuoriusciti dei Comunisti Italiani. La strada è segnata, e Ferrandelli la vuole percorrere fino in fondo. Attorno alla sua figura si aggrega una pattuglia di giovani umanisti stanchi di partecipare alle competizioni elettorali solo per sventolare il vessillo arancione. Tutti assieme preparano una mozione dal titolo esplicativo «Oltre il Partito umanista... pu no limits», la presentano al congresso di dicembre 2008 e vincono. Il nuovo partito, stando a quanto scritto nella mozione, sarà finalmente molto più aggressivo e soprattutto più ambizioso. L’obiettivo è chiaro: Far arrivare il Partito umanista nel posto che, da sempre, gli compete, e cioè all’interno delle Istituzioni. [...] Aspiriamo al più presto a ottenere eletti e ad avere lo spazio che ci compete nel panorama pubblico, politico e sociale. Aspiriamo ad avere una «voce» per orientare la storia verso la costruzione della Nazione umana universale. Abbiamo bisogno di una «voce» per ottenere più facilmente spazi mediatici e per rivitalizzare il panorama degli attivisti disillusi e disorientati. [...] Conquistare gli spazi nelle assemblee elettive (Parlamento, Consigli regionali, provinciali e comunali) è, sicuramente, il primo passo e la via più semplice per ottenere spazi sulla stampa e in televisione. Quindi bisogna conquistare poltrone, non si fanno scrupolo a confessarlo. Perché solo in questo modo si può raggiungere un obiettivo apparentemente secondario, ma in fondo primario per importanza: aiutare il Movimento umanista a espandersi e fare proseliti. Il Partito, attraverso la presenza di eletti nelle istituzioni, può essere un amplificatore di risonanza delle azioni dei fronti umanisti verso i media e verso le istituzioni stesse, dando aiuto e appoggio alle loro attività [...] dalle cose più semplici (avere permessi e locali) a cose più grandi (mettere in relazione i fronti con le altre organizzazioni, ampliandone lo spazio di relazioni).

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Tutto ciò lo si può fare solo seguendo una strada precisa: candidarsi all’interno di altre forze della sinistra, sfruttandone la credibilità e la reputazione.6 Nella mozione tuttavia non si fa riferimento a quale partito votarsi, se non a una generica collocazione alla sinistra del Pd.7 Non bisogna aspettare molto, però, per scoprire i dettagli della strategia del nuovo gruppo dirigente. Nel giugno 2009 ci sono le politiche e il partito è costretto a sciogliere le riserve: i voti umanisti andranno all’Italia dei Valori. L’ex segretario Giorgio Schultze si candida con Antonio Di Pietro nella circoscrizione Nord-Ovest, fallendo l’elezione ma raccogliendo più di quattromila preferenze. Contemporaneamente anche Ferrandelli fa il grande salto: abbandona il suo gruppo consiliare per entrare da capogruppo in quello dell’Idv. Niente male per un trentenne. Quindi, dopo tanto penare e peregrinare, il Partito umanista oggi si trova alla corte dell’ex pm di Mani pulite. E da lì conta di «entrare nelle istituzioni e scardinare il sistema», come scrive su Facebook il dirigente trapanese Natale Salvo.8 La mutazione genetica è compiuta: da rivoluzionari no global di sinistra a giustizialisti destrorsi. Chissà che cosa ne penserebbe Silo. 1 Silo, Documento umanista, 1993. 2 «Oggi non abbiamo a che fare né con economie feudali né con industrie nazionali e neppure con gli interessi di gruppi regionali. Oggi, queste strutture sopravvissute al passo della storia devono piegarsi ai dettami del capitale finanziario internazionale per assicurarsi la propria quota di profitto. Un capitale speculativo il cui processo di concentrazione su scala mondiale si fa sempre più spinto. In una situazione come questa persino lo Stato nazionale, per sopravvivere, ha bisogno di crediti e prestiti. Tutti mendicano gli investimenti e, per averli, forniscono alla banca la garanzia che sarà essa ad avere l’ultima parola sulle decisioni fondamentali. Sta arrivando il momento in cui anche le aziende, proprio come le città e le campagne, diverranno proprietà indiscussa della banca. Sta arrivando il momento dello Stato Parallelo, un tempo, questo, in cui il vecchio ordine dovrà essere azzerato.» 3 La legge prevede che sono ammessi alle tribune politiche quei partiti che possono essere votati da almeno un quarto degli elettori totali. Il Partito umanista riesce a oltrepassare tale soglia perché presenta candidati nelle regioni più popolose: Lombardia, Piemonte, Liguria, Toscana e Lazio.

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4 «Dicono che il Cavaliere abbia cominciato a preoccuparsi per questi misteriosi umanisti che gli sono entrati ormai nei sondaggi e appaiono quasi tutti i giorni in tv» (Filippo Ceccarelli, Partito umanista quarto incomodo, «La Stampa», 12 aprile 2000). 5 A Milano oscilla fra lo 0,1 e lo 0,3, a Torino fra lo 0,2 e 0,3, a Trieste fra lo 0,1 e lo 0,2, a Firenze fra lo 0,3 e lo 0,4, a Roma addirittura fra lo 0,05 e lo 0,06. 6 «L’obiettivo è quello di cercare di non essere mai fuori dal gioco e di produrre un processo di adattamento crescente che a lungo andare possa realmente far emergere il profilo umanista nel panorama politico. In alcuni momenti di questo processo, questo vorrà dire scegliere di inserire candidati indipendenti nelle liste di altre forze, meglio se fossero coalizioni.» 7 Alcuni vorrebbero gli umanisti a pieno titolo nel Partito democratico. È l’opinione dell’ex Verde ed ex diessino Luigi Manconi nel suo ultimo libro, Un’anima per il Pd. La sinistra e le passioni tristi, Nutrimenti, Roma 2009. 8 Natale Salvo percorre lo stesso cammino politico di Ferrandelli. Nel 2007 si candida a sindaco di Trapani per il Partito umanista, raccogliendo però la miseria di duecento voti. Un paio di anni dopo si butta con Di Pietro, dichiarando di voler «rappresentare gli ideali pacifisti e sociali del Partito umanista dentro Italia dei Valori». 8. «Avanti, marsch!»

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Il rinnovato entusiasmo che negli ultimi anni ha scosso dal torpore il Partito umanista non è un fenomeno isolato, ma fa parte di una nuova stagione di fermento e iniziative in cui sono stati coinvolti tutti i militanti. Il progetto più ambizioso, che ha tenuto occupato il Movimento per tutto il 2009 e una parte del 2010, è la Marcia mondiale per la pace e la nonviolenza. Si tratta di una serie di manifestazioni, sparse nelle città di tutti e cinque i continenti, nelle quali gli umanisti hanno camminato per le strade dei propri Paesi, per un totale di centosessantamila chilometri. A partire dal primo passo, il 2 ottobre 2009, a Wellington in Nuova Zelanda, per finire con l’ultimo il 2 gennaio 2010 a Punta de Vacas in Argentina. Un luogo, questo, che per il Movimento ha un valore sacro: lì, il 4 maggio 1969, Silo diffonde per la prima volta il suo «messaggio». Lo scopo ufficiale della Marcia è di quelli a cui è impossibile dire di no: il disarmo nucleare e convenzionale, il ritiro delle truppe dai territori occupati e il rifiuto della guerra e della violenza in tutti i Paesi dove ancora si combatte. Non è un caso che agli umanisti venga abbastanza facile organizzare le singole tappe, coinvolgendo le istituzioni, i politici locali, le scuole e un buon numero di testimonial fra cantanti, attori e sportivi, riuscendo così ad avere una eco mediatica impressionante, dalla carta stampata ai tg regionali. Un vero e proprio «spottone» per un Movimento che ha sempre sudato mille camicie per farsi conoscere.1 Quale occasione migliore, quindi, per unire l’utile (la pubblicità) all’ancora più utile (il proselitismo)? Le foto e i video che raccontano le tappe italiane mostrano come accanto alle bandiere della pace e alle magliette col simbolo della Marcia, non manchino mai i vessilli arancioni né gli striscioni delle tante associazioni che diffondono il messaggio di Silo. Così come non mancano ragazzi sorridenti e festosi che guardano alle telecamere facendo il saluto degli umanisti. È il loro segno di riconoscimento: «Pace, forza e allegria», gridato con pollice, indice e medio alzati. Sembra proprio una strategia precisa: difficile che chi partecipa a uno di questi cortei non si incuriosisca di questo gioioso popolo arancione. E poi da cosa nasce cosa. Se l’ignaro manifestante si fa un giro su Facebook – visitando la pagina del social network dedicata alla Marcia – trova un angolo dedicato a chi vuole approfondire la conoscenza del mondo umanista. «Per permettervi di ritrovarci per continuare a fare cose concrete insieme anche dopo il 2 gennaio 2010!» si legge.

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Proselitismo che ovviamente è agevolato dal «marchio di garanzia» apposto sull’iniziativa dalle istituzioni e dalla politica, peraltro quasi sempre all’oscuro di chi realmente ci sia dietro a un evento dalle sembianze molto «pacifiche». Le tappe italiane, da questo punto di vista, sono un esempio di quanto sia efficace l’organizzazione. A cominciare da Roma. L’11 e il 12 novembre 2009 i marciatori sono nella Capitale per un tour de force nei Palazzi romani. Prima però decidono di fare un salto Oltretevere: una delegazione si reca in Vaticano per incontrare papa Benedetto XVI all’udienza generale. Riuscendo addirittura nell’insperato colpaccio: gli umanisti donano a Ratzinger, oltre alla bandiera della Marcia, un libro contenente le opere complete di Silo. Il giorno successivo la giornata comincia presto: prima una conferenza stampa con l’ex parlamentare comunista Armando Cossutta e il consigliere comunale del Pd, Paolo Masini; poi la visita al presidente della provincia, il democratico Nicola Zingaretti; e in ultimo il gran finale, tutti assieme a Montecitorio per illustrare le meraviglie della Marcia al presidente della Camera, Gianfranco Fini. Il capo delegazione in questo caso è Giorgio Schultze, portavoce europeo dell’evento e qualche mese prima, come abbiamo visto, candidato all’Europarlamento nell’Idv. La due giorni (compreso l’incontro col Santo Padre) è ampiamente documentata con foto, video su YouTube e lanci stampa dell’agenzia umanista Pressenza. Nelle altre città a essere contattati sono gli amministratori locali, che quasi mai fanno mancare il loro appoggio. A Milano, per esempio, il 10 novembre la giornata si chiude nella sala della Provincia. Due giorni prima, a Vicenza, il sindaco Achille Variati li accoglie nella sala del Comune, in una giornata piovosa chiusa con una manifestazione di protesta davanti alla base militare americana Dal Molin. E a Firenze l’11 novembre è il consiglio comunale a riceverli con tutti gli onori a Palazzo Vecchio. La Marcia è poi lo strumento giusto per coinvolgere le scuole, dalle elementari alle superiori. A Genova, gli studenti dai quattordici anni in su hanno dato vita a uno spettacolo nel teatro Politeama, fatto di poesie, canzoni e recitazione. Allo stesso modo, a Milano più di tremila studenti delle scuole medie milanesi partecipano al concorso «Ci siamo innamorati della parola pace» e sfilano assieme al corteo fino a piazza Duomo. A Trieste e provincia centinaia di bambini italiani e sloveni delle scuole di tutto l’altipiano carsico organizzano un benvenuto ai marciatori accogliendoli con canti, poesie e discorsi. E a Roma i bambini delle scuole primarie di San Lorenzo, Piazza Vittorio e Tor Pignattara si rendono protagonisti di un simbolo della pace vivente. Infine non poteva certo mancare il coinvolgimento di sportivi e artisti, vantaggiosi testimonial a costo zero. Gli sportivi innanzitutto. Il 18 aprile

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2009 gli organizzatori vanno allo stadio Olimpico di Torino, dove c’è il derby d’Italia, Juventus-Inter. Dopo l’incontro, vanno negli spogliatoi e ingaggiano per il loro progetto il team manager juventino Gianluca Pessotto e il difensore colombiano dell’Inter Ivan Ramiro Cordoba. Una stretta di mano davanti agli obiettivi suggella il loro appoggio. Entrambi poi li ritroveremo quando la Marcia passerà dalle parti di casa loro, rispettivamente a Torino e Milano. Qualche giorno dopo il derby, gli organizzatori riescono a incassare l’adesione del ciclista spagnolo Carlos Sastre, che nel 2008 ha vinto il Tour de France. Nel campo dell’arte, sono cantanti e attori a farla da padrone. Testimonial ufficiali della Marcia sono Francesco Sarcina, il frontman del gruppo pop Le Vibrazioni, Emma Re, cantante italiana più nota all’estero che nel nostro Paese, e Barbara Cupisti, regista di Madri, documentario che nel 2007 vince il David di Donatello. La lista delle semplici adesioni all’iniziativa però è lunghissima. Solo per fare qualche nome tra i più conosciuti: Dario Fo, Ascanio Celestini, Dario Vergassola, Claudio Baglioni, David Riondino, Ficarra e Picone, Ale e Franz, Giobbe Covatta, Luciana Littizzetto, Niccolò Fabi e Piero Pelù. Tutti personaggi che gli umanisti utilizzano senza remora per pubblicizzare la propria iniziativa. E fra gli artisti vicino al Movimento c’è da ricordare la giovane cantante L’Aura, che a Sanremo 2008 presenta il brano Basta!, ispirato agli ideali umanisti. È lei stessa a confessarlo a «Vanity Fair»:2 «La filosofia di Silo mi ha aiutata, ho letto i suoi discorsi più famosi e mi sono ispirata a lui per la mia canzone». Nel ritornello del resto è facilmente riconoscibile il riferimento al guru argentino: C’è qualcuno là Che ci aiuterà A dire «Basta!»? C’è qualcuno là Che fermare potrà

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La violenza? L’Aura non ha disdegnato di partecipare attivamente alle iniziative umaniste, come rivela nella stessa intervista: «Ho distribuito palloncini della pace e, di tanto in tanto, aiuto a informare la gente ai banchetti».3 La Marcia si chiude il 2 gennaio 2010, quando al Parco di studio e riflessione di Punta de Vacas, sulle Ande, si radunano ventimila umanisti in arrivo da tutto il mondo in un tripudio di bandiere arancioni. È l’atto conclusivo ed è una giornata a uso e consumo esclusivo del Movimento. L’ultimo a prendere la parola è Tomas Hirsch, che spiega il significato dell’enorme sforzo fatto dai seguaci di Silo. «È vero, la Marcia non ha fatto chiudere nessuna fabbrica di armi. Le bombe continuano a minacciare le nostre vite e questo sistema inumano e crudele va avanti indifferente. Siamo chiari: la situazione attuale ci inorridisce, ma non abbiamo organizzato la Marcia per cambiare subito lo stato attuale delle cose... e tuttavia qualcosa è cambiato. Si è dato un segnale.» Un segnale nei confronti del mondo violento, lì fuori, ma anche nei confronti dello stesso Movimento. Hirsch è diretto e conferma lo scopo primario della Marcia: basta incertezze, da questo momento in poi bisogna fare proseliti, far crescere la «struttura». «Abbiamo dato un segnale. Ora è il momento di dare continuità. E ciò richiede organizzazione. Una parolina antipatica, che non ci piace molto, però abbiamo bisogno di crescere, e se vogliamo crescere abbiamo bisogno di organizzarci. Organizzarci, altrimenti tutto questo si dissolve in nulla.» Se Hirsch avrà ragione, allora la Marcia sarà ricordata come il primo passo dell’espansione del Movimento umanista. 1 Basta ricordare il silenzio mediatico su un’altra campagna lanciata dagli umanisti nel 2007, Nessuno tocchi Pierino, contro l’utilizzo dei farmaci nei confronti dei bambini iperattivi. Si tratta di un’iniziativa clone di Perché non accada di Scientology ma dai risultati comunicativi molto deludenti. 2]E con L’Aura arrivano all’Ariston gli Umanisti, «Vanity Fair», 27 febbraio 2008.

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3]Ibidem. 9. Guna, l’azienda dal volto umanista Sicuramente la Marcia ha già dato una bella spinta al Movimento italiano, perché ha portato in dote ai vertici dell’organizzazione una quinta colonna nel mondo delle aziende. Questo cuneo si chiama Guna. Guna è un’impresa italiana che produce e distribuisce farmaci omeopatici dal 1983. Nei quasi trent’anni di attività è riuscita a conquistare il venticinque per cento del mercato omeopatico nazionale, arrivando a centrare l’obiettivo di circa cinquanta milioni di euro all’anno di fatturato. La sede principale è a Milano, in via Palmanova, dove sorge lo scoppiettante stabilimento (la facciata è un vero e proprio tripudio di colori). Lì lavorano duecento dipendenti agli ordini di Alessandro Pizzoccaro, ex imprenditore di import-export verso i Paesi arabi, che assieme alla moglie ha dato vita all’azienda e l’ha fatta crescere. Proprio Pizzoccaro è colui che nel 2009 si fa convincere da Giorgio Schultze a sponsorizzare la Marcia mondiale, «adottando» a suon di euro i tremila chilometri percorsi sul territorio italiano. Quella che però nasce come una semplice sponsorizzazione ben presto si trasforma in qualcosa di diverso. L’azienda e il Movimento cominciano a collaborare in maniera sempre più strutturale. Guna mette subito i soldi per organizzare un concorso sui temi della pace e della nonviolenza, Facciamo la pace, indirizzato agli studenti delle scuole medie di tutta Italia. Indispensabile si rivela la collaborazione del ministero della Pubblica istruzione che fa circolare il bando nelle scuole, tanto che Pizzoccaro si sente di ringraziare pubblicamente Mariastella Gelmini. Alla fine partecipano centocinquanta istituti, di cui tre classi si piazzano ai primi posti: la terza B dell’istituto Pietro Conti di Cilavegna, la terza C del Beltrami di Omegna e la terza B del Bernardino Luini di Luino. I ragazzi vincono un viaggio premio di tre giorni a Torino, al campus delle Nazioni Unite, dove passano il tempo a vedere film, ascoltare conferenze e girare per mostre. Ma gli tocca anche guardare i filmati della Marcia mondiale commentati da Schultze, compreso il video dell’ultimo giorno a Punta de Vacas, quando tutti gli umanisti si sono stretti attorno al monolite del parco a loro più sacro.

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Ma i piani che gli umanisti e Guna hanno per i cento ragazzini vincitori non finiscono qui. Leggendo i documenti interni del progetto, si apprende che il Movimento e l’azienda non li molleranno al loro destino: «Tutti i ragazzi protagonisti, cui è stato consegnato il passaporto dell’Onu e pertanto riconosciuti “Ambasciatori di pace e nonviolenza”, dovranno predisporre un breve progetto individuale (con o senza l’aiuto degli attuali insegnanti e compagni di scuola) in cui spiegano come intendono proseguire la loro attività di ambasciatori nel successivo anno scolastico nei propri ambiti di scuola e di vita. Ogni 2 ottobre, a cominciare dal 2010, invieranno al sito del Centro studi umanisti nel Mediterraneo la sintesi delle attività compiute e i propositi per l’anno successivo». Un impegno costante, che nelle intenzioni degli organizzatori dovrebbe continuare per tutti e cinque gli anni delle superiori. Per le due organizzazioni, però, seguire cento ragazzi per ben cinque anni non è sufficiente. Vogliono di più: coinvolgere il corpo insegnanti. Un altro progetto in fase di elaborazione garantirà ai docenti delle scuole che hanno partecipato a Facciamo la pace «il tutoraggio e l’assistenza per i percorsi di pace che loro elaboreranno per coinvolgere i futuri studenti di terza media», si legge nei documenti a doppia firma, Guna e Movimento. L’obiettivo è chiaro: tirare dentro il progetto i professori. Se Pizzoccaro aiuta gli umanisti a entrare nelle scuole, figuriamoci cosa può accadere nella sua azienda. Dalla Marcia in poi, il patron comincia a spingere sempre più i propri dipendenti a partecipare a incontri e feste organizzate dal Movimento. A giugno del 2010, per esempio, li invita a partecipare al Fjestival delle Diversità, nel parco di Villa Scheibler a Milano. Apparentemente il festival non è altro che una serie di concerti, spettacoli teatrali, installazioni e stand d’artigianato. In realtà se si va a spulciare fra le associazioni promotrici, si scopre che sono quasi tutte legate al Movimento, dal Centro umanista Sanpapié alla Onlus I cammini aperti. L’invito di Pizzoccaro è tuttavia poca cosa rispetto a quello che organizza qualche mese dopo direttamente in azienda. Il 1° ottobre concede una mezza giornata di riposo a quei lavoratori che partecipano alla mattinata di riflessione e sensibilizzazione sul tema della nonviolenza. Ovviamente ad animare le quattro ore c’è lo staff italiano della Marcia, ossia un drappello scelto di umanisti guidato da Schultze, accompagnato però da Antonella Zaghini, peace manager di Guna (la dirigente ha il compito di educare alla nonviolenza i dipendenti nell’ottica di migliorare il clima e l’efficienza nell’azienda).1 E da quello che si legge nei documenti interni, i dipendenti di Guna dovranno mettersi l’anima in pace: la mezza giornata di riflessione ci sarà tutti gli anni, per loro e per le loro famiglie. Anzi il progetto è ancora più ambizioso: «Allargare di anno in anno la manifestazione a tutti gli altri

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stakeholder dell’azienda». Tradotto dal gergo aziendalistico: a tutti quelli che avranno a che fare con Guna nei prossimi anni. E se ci fosse ancora qualche dubbio sulla commistione fra Pizzoccaro e gli umanisti, per scioglierlo basta leggere l’accorato messaggio di condoglianze che il presidente, a nome di tutto il personale, ha inviato al Movimento in occasione della morte di Silo: Fate in modo che Mario Rodriguez Cobos non muoia mai: trasferite il Suo messaggio ad altri, e altri, e altri, e altri ancora, così un pezzo di Lui viaggerà attraverso il tempo e lo spazio, e questo è l’unico significato che può avere la vita di un uomo. Noi, dal canto nostro, siamo qui, pronti ad ascoltare... Ma anche ad agire, e molto efficacemente, per portare tanta buona pubblicità agli umanisti. Aiutandoli così nel proselitismo. Nel nome di Silo. 1 Anna Marino, In azienda arriva il peace manager, job24.ilsole24ore.com, 6 ottobre 2010.

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PARTE SESTA

Guru, angeli e alieni

Io ne ho viste di cose che voi umani non potreste immaginarvi... Navi da combattimento

in fiamme al largo dei bastioni di Orione... E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser... E tutti quei momenti andranno perduti

nel tempo... Come lacrime nella pioggia...

Ridley Scott, Blade Runner Quella che segue è una carrellata su altri gruppi minori. Si tratta di cinque culti molto diversi tra loro, la cui descrizione è utile a inquadrare con maggiore completezza il fenomeno settario in Italia. Alcuni riescono a infiltrarsi nelle istituzioni, nella politica o perfino nelle altre religioni, altri invece sono meno pervasivi, ma spesso finiscono lo stesso per entrare nel mirino delle forze dell’ordine e della magistratura. Troviamo ancora una volta un culto che tenta di farsi partito (Sai Baba) e due esempi di come anche le più grandi fedi monoteiste, quella cattolica e quella musulmana, non siano del tutto immuni (vedi R.E. Maya e Arkeon). Ancora, un caso che dimostra come la credulità possa essere sfruttata a tutto vantaggio materiale di sedicenti santoni (Associazione Graal). E infine lo strano caso di un piccolo gruppo che convive con regole democratiche pur professando teorie particolarmente bizzarre (i Raeliani).

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1. Sai Baba, un santone per Di Pietro A Puttaparthi, città dell’India meridionale, da anni due volte al giorno, mattina e pomeriggio, si ripete la stessa scena. Un uomo dai capelli ricci e corvini, con un’acconciatura afro da discodance anni Settanta, vestito con una lunga tunica arancione, esce dal suo ashram (una specie di monastero) per andare incontro a una folla di persone adoranti, provenienti dal mondo intero. Ci sono donne, indiane e occidentali, vestite con il tradizionale sari che gli porgono delle lettere in cui chiedono la «grazia», ci sono uomini in cerca della verità assoluta, ma soprattutto ci sono malati e disabili che supplicano la guarigione. Quell’uomo non è un personaggio qualsiasi. È Sathya Sai Baba, guru ottantenne che si dichiara purnavatar, e cioè una «incarnazione completa di Dio» in quanto dotato di tutte le caratteristiche della divinità: onnipotenza, onniscienza e onnipresenza. Si ritiene in possesso di un amore totale che poi dona all’intera umanità. Ha anche profetizzato la data della sua morte, il 2022 (la stessa della sua prossima incarnazione divina). Il messaggio che Sai Baba trasmette ai propri devoti è abbastanza semplice: Dio non è un’entità esterna all’uomo ma si trova al suo interno, raggiungibile attraverso le preghiere, i canti devozionali, lo studio dei testi sacri indiani, ma prima di tutto attraverso un retto vivere. I valori da seguire a tale scopo sono: la verità, l’amore, la pace, la rettitudine e la nonviolenza. Precetti accessibilissimi, alla base della grande diffusione del suo culto in tutto il mondo: secondo le ultime cifre, la Sathya Sai Organization può contare su trentamila centri, sparsi in centotrentasette nazioni. Il santone indiano però, più che per il proprio messaggio, è noto per i presunti miracoli che compie davanti agli occhi dei suoi fedeli. Durante il darshan (il doppio incontro giornaliero), Sai Baba «materializza» una cenere sacra, la vibhuti, e la dona a chi gli è vicino, consigliando di mandarla giù in mezzo bicchiere d’acqua. Quella sottile polvere aiuterebbe a combattere le malattie. Allo stesso modo, le sue mani creerebbero dal nulla anelli, braccialetti e medaglie d’oro, che vengono poi regalati alle persone estasiate. Oltre alla straordinaria capacità di materializzare oggetti, al guru sono attribuite anche tante altre doti miracolose: dalla facoltà di guarire i malati, anche gravi, alla chiaroveggenza. E poi Sai Baba ha il dono dell’ubiquità: compare nello stesso istante a migliaia di chilometri di distanza.

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Il guru ovviamente non ha mai concesso agli scienziati la possibilità di controllare i suoi poteri paranormali, tuttavia il Cicap è riuscito lo stesso a smascherare i suoi trucchi. Come spiega Silvano Fuso sul sito dell’associazione, «per quanto riguarda la materializzazione della vibhuti [analizzata non è altro che sabbia, NdA], il trucco consiste nel tenere nascosta nella piega del pollice una pallina di polvere compressa. Un abile gioco di prestidigitazione sembra far apparire la magica cenere dal nulla». Il fatto è che la vibhuti, contestano i devoti, apparirebbe spontaneamente anche sui ritratti del guru indiano. Tanti seguaci raccontano di aver comprato le foto incorniciate del loro maestro, accuratamente incartate dal negoziante, e una volta a casa, aprendo il pacchetto, avrebbero trovato l’immagine ricoperta di una polvere impalpabile. Ma anche questa volta la scienza ci viene in aiuto. È il turno della chimica: «La cornice dei ritratti è di alluminio e i negozianti, evidentemente in combutta con Sai Baba, prima di incartare il quadretto fingono di spolverarlo con uno straccio. In realtà, la pezza è imbevuta di una soluzione di cloruro di mercurio che reagisce lentamente con l’alluminio producendo una polvere grigiastra, scambiata per vibhuti». Infine, il Cicap fornisce una spiegazione sull’altra strabiliante dote del santone: l’ubiquità. «I celebri episodi di bilocazione sono facilmente interpretabili senza ricorrere a ipotesi sovrannaturali. Esiste, infatti, un altro santone, di nome Neelankantha Baba, il cui aspetto assomiglia fortemente a quello di Sai Baba. È quindi probabile che in alcune occasioni sia stato scambiato per lui.» Se non bastassero i discutibili miracoli, a incrinare l’immagine del purnavatar si sono messi poi i tanti fuoriusciti del movimento, che hanno raccontato ai giornalisti o scritto su internet le proprie testimonianze di vita nell’ashram di Puttaparthi. Partendo dai racconti più innocui, come quelli che narrano la «scoperta» delle doti da prestigiatore di Baba, per finire con accuse decisamente più pesanti, come quelle di abusi sessuali da parte di alcuni giovani adepti.1 Accuse che i seguaci respingono sdegnati, sostenendo che le zone genitali vengono toccate sì, ma solo per stimolare la potente Kundalini, l’energia spirituale che, per gli induisti, si risveglia dal luogo dove giace arrotolata (in sanscrito kundalini significa «serpente»), nella zona del coccige, per diffondersi in tutti i chakra. Nonostante le confutazioni del Cicap e le testimonianze dei fuoriusciti, il movimento è tuttavia molto diffuso in Italia. Oggi si possono contare circa sessanta centri sparsi in tutta la penisola, in cui circa quattromila persone si riuniscono periodicamente per adorare grandi foto di Sai Baba. Il primo centro nasce nel 1977 a Torino. Sempre in Piemonte, in provincia di Novara, si trova la sede nazionale. Fra i quattromila fedeli, c’è un drappello di vip che non ti aspetti. Antonio Craxi, fratello di Bettino, vanta un’adesione decennale assieme alla moglie e le figlie, e nel 1986 riesce a convincere

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l’allora presidente del Consiglio a recarsi in visita ufficiale a Puttaparthi; fedeli non da meno sono l’ex cantante dei Matia Bazar, Antonella Ruggiero,2 e l’ex calciatore di Milan e Juventus, Pietro Paolo Virdis.3 Fra i simpatizzanti, c’è l’attore di fiction Enzo De Caro, che considera Sai Baba un maestro spirituale, e l’attore di fotoromanzi Luciano Calò, noto soprattutto per essere il proprietario del Bar Taruga, locale trendy romano in pieno ghetto, dove chi entra per un rum o un whisky si ritrova osservato da una gigantografia a grandezza naturale del guru indiano. E anche Edoardo Agnelli, il figlio suicida dell’Avvocato, ha seguito il santone durante i suoi anni passati in India. Al di là di una significativa presenza fra i vip, comune ad altri Paesi europei, il movimento da noi conta più che altrove, perché può annoverare un partito di riferimento, nato tre anni fa su diretta indicazione di Sai Baba: Il Loto. La sua nascita risale alla primavera del 2007, quando il produttore cinematografico Luigi Ferrante, seguace del santone di Puttaparthi, decide di rompere gli indugi e fondare una nuova formazione con un programma dai grandiosi obiettivi: cambiare la società, diffondendo i valori umani di pace, amore, rettitudine, verità e nonviolenza (cioè quelli propugnati dal guru). Una decisione che, come lui stesso racconta all’«Espresso»,4 ha un padre spirituale preciso: «In India, oltre un anno fa, Sai Baba, mentre parlavamo delle difficoltà nelle quali si trova l’Italia, mi ha suggerito di creare un nuovo partito. Ho accettato la sfida, consapevole di aver scelto una strada lunga e piena di ostacoli». Effettivamente, dopo neanche un anno, arriva il battesimo delle urne. L’imprenditore cesenate fa fiasco: raccoglie la miseria di milleottocento voti, ossia lo 0,004 per cento a livello nazionale. Motivo per il quale un anno dopo, nel 2009, cambia strategia. Meglio candidarsi all’interno di una grande forza nazionale che duellare con le liste sconosciute, perché così i propri voti «pesano» di più e magari c’è la possibilità di essere eletti. A chi affidarsi però da destra a sinistra? La scelta ricade sull’Italia dei Valori, «un partito che manda un forte segnale di coraggio»,5 secondo Ferrante.6 Alle Europee, inserito curiosamente nella stessa circoscrizione dell’umanista Schultze, il seguace di Sai Baba non fa tanto meglio dell’anno precedente: per lui solo 1534 voti, anche se corre solo nel Nord-Ovest e non in tutta Italia. Tuttavia la sua candidatura sembra dimostrare ancora una volta come l’Italia dei Valori guardi con vivo interesse a un certo mondo. E ai voti che porta in dote. [1 Una rassegna esauriente delle storie degli ex adepti la si trova nella tesi di magistero in Scienze religiose di Gianni Vergot – «Sri Sathya Sai Baba: nuovo Cristo o Anticristo?» (Istituto di Scienze religiose in Trento, anno accademico 2001-2002) – che ha passato al setaccio riviste italiane e straniere,

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selezionando quei racconti in cui il fuoriuscito si è assunto la responsabilità di quanto detto, firmandosi con nome e cognome. 2 Giacomo Pellicciotti, La musica è cambiata per la nuova Antonella, «la Repubblica», 14 maggio 1998. 3 Luigi Bolognini, Il palato fino di Massinissa, «la Repubblica», 11 dicembre 2003. 4] Loto continuo, «L’espresso», luglio 2007. 5]Luigi Ferrante candidato alle Europee con Di Pietro, «Il Resto del Carlino», 28 marzo 2009. 6 Anche se le scelte di Ferrante non sembrano convincere più di tanto il presidente mondiale del movimento, che ci tiene a precisare: «Sai Baba non ha mai dato e non darà mai appoggio pubblico a nessun candidato né ad alcun partito politico». 2. Il «R.E.» di Roma Sono le prime ore della mattina del 16 marzo 2010, a Roma. La polizia entra in un appartamento di Montesacro, quartiere residenziale della Capitale, e arresta un uomo sulla sessantina, in quel momento in compagnia della sua segretaria. «Sto male, devo prendere dei farmaci» sono le prime parole impaurite che rivolge agli uomini in divisa.

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L’uomo che gli agenti stanno portando in prigione è Danilo Speranza, capo indiscusso dell’associazione R.E. Maya (acronimo di Recupero Educazione Meditazione Alimentazione Yoga Arti), da lui fondata negli anni Ottanta. Si tratta di un gruppo New Age che pratica yoga, arti marziali e riti esoterici. Un migliaio di adepti fra Roma e provincia, che hanno in comune soprattutto una cosa: l’adorazione per il loro guru, che si fa chiamare indifferentemente Il Settimo Saggio o L’Illuminato. Il motivo per cui i poliziotti lo prelevano lo si legge nell’ordinanza di custodia cautelare del gip Cecilia Angrisano, dopo un anno e mezzo di indagini svolte dalla procura di Tivoli. Per i pm, Speranza avrebbe abusato sessualmente di due minorenni e avrebbe truffato i propri seguaci. Le vittime sarebbero due ragazze, entrambe orfane di padre, cresciute nella sua comunità-associazione nell’idea che Il Settimo Saggio fosse un maestro di vita e un’autorità indiscussa. Il racconto delle due – che nel 2006, quando tutto comincia, avevano tredici e dodici anni – mette i brividi. «Mi toccava il seno» racconta la prima, descrivendo una gita a Mazzano Romano, una delle sedi dell’associazione. «Io restavo paralizzata, non capendo cosa stava accadendo. Lui mi diceva di stare tranquilla perché era il mio padrone e non mi avrebbe fatto del male, anzi mi avrebbe fatto stare bene.» E ancora: «Tentavo di sottrarmi, ma ero bloccata dal suo peso e non riuscivo a proferire parola. Dopo ho pianto nella mia stanza». L’amichetta, figlia di un’immigrata, invece veniva ricattata: «Se non vieni da me stanotte, tua madre, che è impazzita, ti riporta in Africa». «La seconda volta che sono entrata nella sua stanza» racconta agli investigatori «una sera di fine agosto del 2006, ero spaventata e irrigidita e lui si è arrabbiato perché diceva che dovevo stare tranquilla, dicendomi che lo stava facendo per me». Effettivamente, Speranza era convinto di fare un gesto d’altruismo, come il gip scrive nell’ordinanza: «La violenza viene giustificata con la necessità di modificare il karma delle bambine e trasmettere loro a tale scopo il suo Dna sano e curativo». Ad aiutare le minorenni a confessare tutto sono le madri, entrambe iscritte all’associazione, che nelle loro testimonianze al giornale «Repubblica» forniscono altri inquietanti particolari su come si vive in R.E. Maya: «Il nostro guru ha avuto relazioni anche con molte donne adulte, tutte soggiogate dalla sua personalità» racconta la prima. «All’inizio Danilo sembrava un vero saggio: con lui si praticava yoga, meditazione e arti marziali. Poi è diventato un despota. Decideva tutto, ci diceva quale partito votare, [...] ci chiedeva soldi in continuazione.»1

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Dello stesso tenore le parole della seconda, una signora marocchina: «Quando sono arrivata alla comunità, mia figlia aveva cinque anni e io ero senza lavoro, disperata, è difficile descrivere lo stato di sudditanza psicologica a cui si poteva arrivare. Chi usciva dal gruppo veniva subito emarginato, cancellato, diventava un nemico. Un ragazzo che se n’è andato ha avuto un incidente in motorino. Danilo ha detto semplicemente: “Vedete cosa gli è successo?”. Non ha dovuto aggiungere altro. Mia figlia adesso sta meglio, recupera a poco a poco. Anch’io mi domando come sia potuto succedere, praticamente sotto i miei occhi, ma eravamo tutti completamente soggiogati».2 Ma Speranza, che ha fondato la setta negli anni Ottanta, sfrutta il suo potere «magnetico» anche per migliorare lo stato delle sue finanze. Per i magistrati, è capace di scucire soldi agli adepti per i motivi più svariati. Dalle donazioni per delle presunte ricerche sul Dna fino al finanziamento di una macchina miracolosa. Il guru sostiene infatti di aver inventato un «disintegratore molecolare», un attrezzo capace di risolvere nientemeno che il problema della fame nel mondo trasformando la spazzatura in cibo. Sta di fatto che, abbagliati da queste mirabolanti invenzioni, in tanti gli «passano» migliaia di euro. Ovviamente Speranza si difende da tutte le accuse: i soldi sarebbero frutto di donazioni spontanee e sono stati utilizzati per progetti concreti; le violenze invece sarebbero fisicamente impossibili, in quanto il guru si dichiara impotente. E poi, secondo i suoi avvocati, i test del Dna non sarebbero riusciti a dimostrare che le tracce del liquido seminale sul pigiama di una delle ragazze siano riconducibili a lui. In ogni caso, toccherà ai legali di Speranza smontare le accuse dei magistrati, nel processo partito a gennaio 2011. Accantonando le vicende giudiziarie, c’è da considerare come «il guru di San Lorenzo» si sia fatto notare anche per altro. E cioè la spiccata capacità di tessere legami con la pubblica amministrazione. Come si poteva leggere sul sito dell’Associazione (prima che fosse chiuso), i R.E. Maya hanno svolto corsi gratuiti di yoga nel carcere di Rebibbia dal 1994 e a Regina Coeli dal 2003. E lo stesso servizio è stato offerto alle scuole elementari dell’Eur. Senza dimenticare la vantata collaborazione con il Coni, attraverso l’associazione ad hoc R.E. Maya per lo sport. O i riconoscimenti di cui si fregiavano, da quello dell’Associazione italiana persone down a quello dell’Università La Sapienza per «i corsi di tirocinio per psicologi laureati presso la casa famiglia R.E. Maya». Ma la storia più ambigua e oscura di tutte risale al 2003, quando Speranza riesce ad accreditarsi con tutti gli onori presso la comunità islamica italiana. O

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quanto meno presso una parte di essa. Nell’agosto di quell’anno infatti, il guru romano si fa nominare presidente dell’Associazione musulmani italiani (Ami), una delle organizzazioni minoritarie di rappresentanza della galassia islamica in Italia (forse l’unica addirittura filoisraeliana). Basti dire che il segretario generale, Massimo Palazzi, è l’anima di un’associazione per l’amicizia arabo-israeliana (l’Associazione di amicizia Islam-Israele). Appena nominato, Speranza fa aderire in massa i suoi adepti («ci ha iscritti in blocco all’Associazione musulmani, anche se nessuno di noi s’era convertito all’Islam» racconta la madre di una delle due ragazzine),3 e decide di cambiare linea politica all’associazione, sposando un atteggiamento completamente diverso nei confronti dell’Occidente e scegliendo di avvicinarsi al governo iraniano. Tanto che l’anno successivo, nel 2004, l’Ami vive una scissione: Palazzi e altri scelgono di costituire una nuova associazione, l’Assemblea musulmana d’Italia, desiderosi di continuare con una linea filooccidentale. Mentre Speranza, dal canto suo, continua nella sua inspiegabile simpatia verso il regime di Ahmadinejad. Almeno fino a quando, nel 2009, decide misteriosamente di abbandonare l’Ami al suo destino. Forse per dedicarsi completamente alla sua comunità. O forse perché incalzato dalle indagini che l’anno successivo lo porteranno in prigione. 1]Mia figlia stuprata e io non volevo credere, «la Repubblica», 18 marzo 2010. 2]Ibidem. 3]Ibidem. 3. L’Arkeon dei miracoli

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Tutte le mattine di Maurizio Costanzo, Mi manda RaiTre di Andrea Vianello e Striscia la notizia di Antonio Ricci. È grazie a queste tre trasmissioni televisive (e all’opera di associazioni di supporto psicologico come il Cesap) che il caso Arkeon, dal 2006 a oggi, è diventato di dominio pubblico e la magistratura ha cominciato a indagare su cosa succedesse nei seminari organizzati in tutta Italia dall’associazione Sacred Path (il sentiero sacro). Fondata nel 1999 dal barese di Noicattaro Vito Moccia, si espande rapidamente nel primo lustro del Duemila, dopo l’invenzione di un metodo, il metodo Arkeon per l’appunto, che promette veri e propri miracoli. Si tratta di tecniche ispirate – come sempre – alle religioni e filosofie orientali, prima fra tutte il Reiki,1 che avrebbero la portentosa capacità di risolvere qualsiasi problema, dalle malattie alla depressione. Ovviamente i corsi sono tutt’altro che gratuiti: si va da quelli base, più economici, che costano duecentosessanta euro a quelli per pochi eletti, che valgono una fortuna: dodicimila euro per chi decide di diventare a sua volta «maestro». Se si considera che nel momento più florido, prima che tutto finisca in tv, Sacred Path arriva ad avere più o meno diecimila partecipanti, si intuisce facilmente il robusto giro d’affari gestito da Moccia e collaboratori, stimato per difetto in almeno due milioni e mezzo di euro. Non stupisce, quindi, che nel giugno 2006 la procura barese parta con le indagini. Ci vogliono due anni interi per ricostruire tutto il sistema Arkeon. Un sistema che, secondo il sostituto procuratore Francesco Bretone, si basa su un’abilità particolare, e cioè «far credere a persone che attraversavano momenti difficili o affette da problemi psichici o di natura fisica (tumori, Aids, infertilità) di poter risolvere i loro problemi attraverso i corsi». Con un unico fine: «Acquisire il maggior numero di partecipanti al fine di ottenere il maggior guadagno economico». Basta una rapida carrellata sulle storie degli ex adepti per alzare il velo sull’Arkeon dei miracoli. Una coppia del Nord Italia racconta agli agenti della Digos di aver pagato centomila euro perché il gruppo di Moccia riuscisse a far superare la loro crisi matrimoniale. A un giovane, Sacred Path fa credere di essere il responsabile, assieme alla madre, dell’omicidio del padre ma anche di poter guarire da una lesione al ginocchio grazie ai seminari. Una donna viene convinta di poter completamente guarire se stessa e gli altri con la sola imposizione delle mani. Per non parlare di un altro caposaldo delle strambe teorie di Moccia e compagni: la teoria del pedofilo. Secondo loro, il più delle volte alla radice dei problemi di una persona c’è un abuso sessuale subìto da piccoli. Tanti finiscono per crederci: sono numerose le vittime che raccontano al giudice di esserne state convinte, prima di rendersi conto di quanto fosse posticcio il ricordo. Chi decide di abbandonare i corsi, invece, dubbioso della loro effettiva utilità, viene piegato da una insistente pressione psicologica. Dice

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una donna al pm: «Trovai una scusa banale per non andarci più. In un colloquio telefonico mi dissero che se non fossi andata al seminario non sarei potuta diventare madre. Questa cosa mi turbò moltissimo anche perché io ci tenevo tantissimo ad avere dei figli, in quanto avevo avuto gravi disturbi che non mi avevano permesso il concepimento». Altri invece confessano di aver continuato per anni a seguire i costosi corsi solamente per il timore di essere lasciati dal proprio partner, in quel momento ancora saldamente dentro al gruppo. A settembre del 2009 il gup del Tribunale di Bari, Marco Guida, accoglie il lavoro del pm e rinvia a giudizio gli undici imputati, Moccia e tutti i suoi collaboratori, contestandogli un bel nugolo di reati: associazione per delinquere, truffa, esercizio abusivo della professione medica, violenza privata e maltrattamento sui minori. Il processo oggi è ancora in corso, si vedrà se la difesa riuscirà a provare l’innocenza degli imputati. Moccia è comunque uno che ha saputo infiltrarsi dove meno te l’aspetti. Anche perché, come ha rivelato un’inchiesta dell’«Unità»,2 ha potuto contare per anni sulla simpatia e sul sostegno di un uomo che nel Vaticano è molto ascoltato: padre Raniero Cantalamessa. Il nome in prima battuta non dice niente, il volto però è di quelli stranoti: capelli e barba bianca, Cantalamessa è il frate che per una decina di anni ha condotto su Raiuno, il sabato pomeriggio, la trasmissione A sua immagine, in cui spiegava il Vangelo della domenica. Un compito che svolge tuttora ufficialmente anche Oltretevere, visto che è «predicatore della Casa Pontificia»: aiuta il pontefice, i cardinali e i superiori degli ordini religiosi a meditare sul Vangelo, sollecitando e stimolando la riflessione personale. Ebbene, Cantalamessa più di una volta ha «sponsorizzato» la bontà del metodo Arkeon, lodando l’impegno sociale di Moccia. La prima volta risale all’11 settembre del 2004, quando utilizza la sua trasmissione per parlare positivamente del metodo e per intervistare il guru barese sul rapporto fra padre e figlio. Siamo nel 2004, si dirà, e non si sa ancora nulla di Sacred Path e dei suoi seminari, quindi tranquillamente il padre potrebbe essere all’oscuro di tutto. Giusto. Il fatto è che, come ha documentato Giovanni Maria Bellu, un paio d’anni dopo al frate arrivano diverse lettere sia di fedeli sia di psicologi che lo mettono in guardia sulle strane attività portate avanti da Moccia e gli altri «maestri». Nonostante questo e nonostante nel 2006 vadano in onda le prime trasmissioni di denuncia, il frate non demorde: il 30 dicembre 2006 manda in onda nella sua rubrica settimanale la registrazione di un’intervista che fa scalpore. Sullo schermo appare una giovane coppia con un bambino in

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braccio. Il padre dice di chiamarsi Luca e di essere stato omosessuale prima di guarire grazie ad Arkeon. La voce fuori campo che fa le domande è quella di Moccia. La puntata fa rumore anche a distanza di tempo.3 Soprattutto perché sembra dimostrare come neanche le accuse a Moccia facciano desistere Cantalamessa dal suo proposito di pubblicizzare il metodo Arkeon. Il giorno successivo all’inchiesta dell’«Unità», nell’aprile 2010, il frate invia una lettera al giornale in cui cerca di minimizzare il proprio coinvolgimento, però ammettendo che tutte le notizie pubblicate sono vere. Giustificandosi col fatto di aver pensato che quelle accuse fossero dovute esclusivamente all’errore di qualche singolo e sottolineando di aver avvertito Moccia delle segnalazioni a lui arrivate. E in ogni caso, scrive, concludendo la missiva, «da allora il mio rapporto, tra l’altro saltuario, con Vito Moccia si è interrotto, in attesa che si pronunci la magistratura».4 Una ricusazione, quella di Moccia, che per il frate, impossibile nasconderlo, sa anche di tardiva ammissione di colpa. Aver dato credito all’Arkeon dei miracoli. 1 Il Reiki è un metodo di guarigione nato in Giappone che consiste nell’usare «l’energia vitale universale», con la promessa di curare malanni fisici e mentali. Chi lo pratica di solito viene «attivato» da un maestro, il cui compito è mettere in contatto il praticante con l’energia di guarigione. Dopo l’iniziazione, chiunque sarebbe in grado di canalizzare quel flusso energetico per dare sollievo a se stesso e alle persone vicine con la sola imposizione delle mani. 2 Giovanni Maria Bellu, Il Codice Arkeon, «l’Unità», 9 aprile 2010. 3 Nel 2009 Striscia la notizia sostiene (non satiricamente) che quella storia abbia ispirato la canzone Luca era gay che Povia presenta al Festival di Sanremo di quell’anno. 4]Moccia? Lo conosco ma l’ho frequentato solo saltuariamente, lettera di padre Raniero Cantalamessa, «l’Unità», 10 aprile 2010.

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4. Il profano Graal Ha scelto il quieto Trentino e il primo lustro del ventunesimo secolo, Nithael, per apparire agli esseri umani e alleviare le loro travagliate esistenze. Lui, un «angelo custode», per la precisione il numero 54 secondo la «scienza degli angeli» (in grado di donare lunga vita e buona salute), ha trovato solo all’ombra delle Alpi il modo di palesarsi ai limitati sensi umani. Perché solo lì c’è il «tramite» giusto. Nithael è Antonio Bruno, cinquantenne appassionato di esoterismo e film horror, che fin dal 1998 è presidente dell’associazione Santo Graal. L’angelo decide di materializzarsi nel corpo di Bruno durante le riunioni con i membri dell’organizzazione, circa una trentina, che si incontrano due volte a settimana al Maso Singerhof, un rustico ristrutturato sulle montagne della Valsugana, a una quindicina di chilometri da Trento. Quando entra nel corpo di Bruno (lo si capisce perché il «messaggero» cambia tono di voce), l’angelo comincia a dare consigli alle persone riunite, tutte in cerca di un conforto per superare situazioni difficili come la malattia di un parente o un trauma infantile. Nithael, prima di tutto, sollecita ognuno a pregare contro il male e poi passa a dare suggerimenti specifici su come allontanare il maligno dalle proprie vite. Peccato però che, durante le riunioni, la creatura celeste si prodighi soprattutto per risolvere incombenze di natura terrestre. Perché ogni volta Nithael-Bruno, per un motivo o per un altro, si ritrova a chieder soldi. Una volta invita gli associati a pagare una bolletta del gas scaduta di settecentottanta euro, un’altra chiede di regalare al presidente dell’associazione – cioè lui – un’auto nuova, un’altra ancora sollecita una colletta da migliaia di euro per ristrutturare il Maso Singerhof (che oltre a essere la sede del Santo Graal, è anche casa di Bruno). Nithael non disdegna neanche di dare qualche consiglio per gli acquisti. I più disparati, da un proiettore per i film a una stufa a olle per lo studio. Il denaro viene messo dagli adepti in un calice, in un elmo o in una casetta russa, prima di «smaterializzarsi magicamente» per volere dell’angelo. Insomma, compra oggi e dona domani, in sette-otto anni di apparizioni, Nithael finisce per «fatturare» circa due-trecentomila euro.1 Ma per allontanare il maligno, l’angelo numero 54 ha in serbo anche un’altra tecnica, quest’ultima però riservata alle sole donne. Attraverso dei riti sessuali, dalla masturbazione fino al rapporto completo, le associate di sesso

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femminile possono canalizzare la negatività accumulata nella vita di tutti i giorni e scaricarla col raggiungimento dell’orgasmo. Ovviamente Nithael-Bruno è solo uno strumento nelle loro mani per potersi purificare. Nel Maso è allestita una stanza apposita: completamente vuota, c’è solo una poltrona in pelle rossa con davanti una telecamera. Sì, perché il rito di purificazione prevede la videoregistrazione. Bruno agisce indisturbato fino ad aprile 2006, quando la mobile di Trento lo arresta, accusandolo di truffa aggravata e violenza sessuale. Scoperchiando così un vaso tenuto sempre chiuso: i giornali locali si fiondano sulla storia e sciorinano paginate e paginate sulle attività del Santo Graal, intervistando le donne dell’angelo e pubblicando i verbali delle indagini con dovizia di particolari. Consigliato dai propri avvocati per uscire al più presto dal carcere, Bruno ammette i pagamenti ma si difende dalle accuse di violenza sessuale giurando che le donne erano tutte maggiorenni e consenzienti. Alla fine patteggia una pena di un anno e otto mesi per truffa mentre riesce a spuntarla per quanto riguarda l’accusa più grave (in assenza di un reato più specifico come quello di manipolazione mentale). Nella sentenza del Tribunale di Trento dell’aprile 2008, il gup lo assolve perché «è pacificamente da escludere che tali rapporti intimi si siano consumati con violenza, con minaccia o con abuso di autorità». Salvato, quindi, non tanto dalla bontà del suo «angelo custode» ma dal fatto che le donne confermano di essere state consenzienti. Oggi, quindi, Bruno-Nithael è un angelo libero. Non solo. Si sta già muovendo per il ritorno sulla scena dell’esoterismo e del mistero made in Trentino. Come riporta il quotidiano «L’Adige»,2 nell’estate del 2010 Bruno organizza una conferenza sugli ufo, invitando Paolo Bolognesi, esponente del gruppo ufologico Sentinel Italia. Del resto lo stesso Bruno racconta di aver visto con i suoi occhi un oggetto volante non identificato: «Ero con la mia compagna, nel lontano 1983: vedemmo un enorme triangolo oscuro, sospeso... eravamo perfettamente sobri». Ma gli extraterrestri non sono che il primo passo verso l’obiettivo finale: fare di Maso Singerhof un luogo d’incontro per appassionati e studiosi di «scienze di confine». Categoria della quale Bruno si reputa fra i massimi esperti. E chissà che l’angelo Nithael prima o poi non torni sulla Terra, stavolta a bordo di un’astronave. 1 Basti pensare che una delle sue adepte lo accusa di avergli consegnato circa duecentomila euro negli anni in cui ha frequentato il Maso Singerhof. 2]Antonio Bruno, dal Graal all’ufologia, «L’Adige», 22 luglio 2010.

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5. Figli di un dio alieno C’è un gruppo che a partire dal 2002 si guadagna un po’ di spazio su giornali e televisione per i ciclici annunci di qualche clonazione perfettamente riuscita: i raeliani. Tutto comincia il 27 dicembre del 2002, quando la biologa francese, nonché «vescovo» raeliano, Brigitte Boisselier annuncia in pompa magna la nascita di Eva, copia geneticamente perfetta della madre, che le avrebbe prima fornito il corredo genetico e poi data alla luce. La notizia fa il giro del mondo, anche perché la Boisselier assicura che da lì a poco la sua società, Clonaid, metterà a disposizione della comunità scientifica il Dna della bambina e della madre. Le promesse della biologa però non vengono mantenute, e da allora gli scienziati non sono mai riusciti a verificare la consistenza degli annunci trionfalistici. Che, peraltro, dal 2002 in poi si succedono a ritmo costante: oggi girerebbero tranquillamente per il mondo almeno una decina di bimbi clonati, dall’Europa all’Australia passando per il Giappone. Ma la Clonaid punta ancora più in alto. Quello della clonazione mediante nascita di un neonato gemello è solo il primo passo. Presto si potrà far nascere un clone di età adulta, senza passare da pappine e pannolini. Per arrivare alla fase finale del percorso: trasferire personalità, memoria e ricordi dall’individuo originale alla sua fotocopia, ovviamente più giovane. In poche parole, Clonaid e i raeliani presto sarebbero in grado di svelare il segreto dell’immortalità. Il culto raeliano nasce ufficialmente il 13 dicembre 1973, quando il giornalista sportivo transalpino Claude Vorilhon racconta di esser stato contattato da un extraterrestre nel cratere di un vulcano spento vicino a Clermont-Ferrand, nella Francia centrale. L’alieno gli consegna un messaggio che Vorilhon (rinominandosi Rael) si impegna a diffondere sulla Terra. Da allora l’ex giornalista gira il mondo per compiere la sua missione, facendosi riconoscere per un look alquanto eccentrico. Completo monocromatico, rigorosamente bianco, in cui spicca la giacca avvitata con spalline oversize, molto anni Ottanta. Sotto la giacca un candido lupetto e immacolati pantaloni con le

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pince. A rompere la monotonia è ammesso solamente un grosso medaglione col simbolo del movimento. Rael è stempiato ma porta i capelli lunghi, raccolti in un nodo alla maniera orientale, mentre la barba – bianca – è perfettamente curata. Insomma, una mise decisamente «marziana». A oggi il movimento dichiara sessantamila seguaci, concentrati soprattutto nelle regioni francofone. Il credo si basa su una reinterpretazione in chiave ufologica della Bibbia e di altri testi sacri. La vita sulla Terra sarebbe stata creata venticinquemila anni fa da extraterrestri tecnologicamente avanzati (gli Elohim), i quali plasmarono gli esseri umani a loro immagine e somiglianza e gli misero a disposizione un ecosistema compatibile per una graduale evoluzione. Secondo Rael, non è un caso che nelle antiche versioni della Bibbia ebraica il creatore venga indicato proprio col nome Elohim, che non si dovrebbe tradurre con «Dio» bensì con «Coloro che vennero dal cielo». Allo stesso modo, tanti fatti narrati nell’Antico e Nuovo Testamento dimostrerebbero l’origine aliena: l’arca di Noè sarebbe un’astronave, il tempio di Salomone un luogo destinato alla residenza degli extraterrestri, e via dicendo. I profeti di diverse religioni – come Mosè, Elia, Ezechiele, Gesù, Giovanni Battista, Maometto, Budda, Joseph Smith e tanti altri – non sarebbero altro che messaggeri contattati dagli Elohim in tempi passati. Ultimo in ordine di tempo è Rael, al quale i nostri creatori hanno annunciato la prossima venuta: nel 2035. Motivo per il quale uno degli scopi principali del Movimento è costruire un’ambasciata dove gli alieni possano atterrare e farsi conoscere da tutti. Nell’attesa dell’incontro ravvicinato, i raeliani cercano di convincere quante più persone della bontà dei loro dogmi. E per farlo non mancano di appoggiare quei politici che portano avanti le loro battaglie. Per esempio, nel giugno 2010, plaudono all’iniziativa dell’europarlamentare leghista, Mario Borghezio, che ha chiesto vengano resi pubblici tutti i documenti che proverebbero l’esistenza di vita intelligente extraterrestre. Chissà, però, se Borghezio sa che il fondatore del movimento propone un sistema politico molto simile al comunismo. È il «paradismo», dove «i robot, i nanobot e i computer sostituiranno gli esseri umani nel loro lavoro. Tutti i prodotti e i servizi saranno gratuiti e il denaro diverrà obsoleto» assicura Vorilhon. Da un punto di vista politico, l’organizzazione raeliana è molto discussa per l’utilizzo di un simbolo inquietante: due triangoli intrecciati con l’aggiunta di una svastica all’interno. «Ma la svastica è un simbolo di pace, buon auspicio e armonia, portato sulla Terra dai nostri creatori, e purtroppo macchiata dal criminale uso che ne hanno fatto i nazisti» precisa il responsabile italiano Marco Franceschini.

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La dottrina raeliana ha infine una declinazione etica, basata sulla piena libertà sessuale dei seguaci. L’adulterio non è visto come un atteggiamento riprovevole ma come un comportamento del tutto normale, così come tutte le inclinazioni diverse dalla eterosessualità standard. Tanto che quando il golfista Tiger Woods viene scoperto dalla moglie per i suoi plurimi tradimenti, Rael gli invia subito una lettera di solidarietà in cui lo invita a «divorziare e gioire del poliamore». Una pattuglia di raeliani, poi, è sempre presente dovunque si tenga un Gay Pride, e anche uno scrittore di successo come Michel Houellebecq non ha mai fatto mistero di simpatizzare per il gruppo, pur precisando di non farne parte. «Trovo il loro culto adatto ai tempi moderni e alla civiltà dello svago. Poi non impone alcuna costrizione morale e soprattutto promette l’immortalità. È questa idea ad avermi attratto verso i raeliani» ha dichiarato qualche anno fa il romanziere francese.1 Il Movimento è presente anche nel nostro Paese, dove può contare su cinquecento adepti localizzati soprattutto nelle grandi città. A Roma, per esempio, sono una trentina, ma ben organizzati. Nel dicembre del 2004 riescono a far entrare Rael e la Boisselier all’Università La Sapienza per una conferenza, tenuta ai ragazzi del corso di Psicologia sociale della facoltà di Scienze della comunicazione. Chi c’è stato la ricorda soprattutto per il commiato a fine lezione della biondissima e procace dottoressa: «Ragazzi, suvvia, godiamoci i piaceri della vita». Accolto con un tripudio dai giovani universitari.2 1 Giampiero Martinotti, Houellebecq ora è anche un prete, «la Repubblica», 13 ottobre 2005. 2 Fabrizio Caccia, Tra gli studenti sbarca Rael. «Ahò, sembra Power Ranger», «Corriere della Sera», 8 dicembre 2004.

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PARTE SETTIMA

Plagio

Monarca di Dei e Demoni, e degli Spiriti tutti, tranne Uno [...] osserva questa Terra,

gremita dai tuoi schiavi, cui richiedi adorazione in ginocchio, preghiera, e lode, e fatica, e sacrificio

di cuori infranti, con paura, e disprezzo di sé, e vuota speranza.

Percy Bysshe Shelley, Prometeo Liberato 1. Storia di un vuoto da colmare È il 1964. Aldo Braibanti è un intellettuale di sinistra, laureato in Filosofia teoretica, che scrive libri e poesie. Iscritto al Partito comunista italiano, ha alle spalle una lunga militanza antifascista: durante il Ventennio trascorre due anni in carcere, e nella Seconda guerra mondiale viene torturato dalle SS italiane di Firenze. Aldo conosce in quell’anno due diciannovenni, Piercarlo Toscani e Giovanni Sanfratello, con i quali inizia una relazione sentimentale. Siamo nell’Italia tumultuosa degli anni Sessanta, squassata dal conflitto generazionale fra gli adulti «bacchettoni», portatori di valori conservatori e di una visione rigida della società, e i giovani «libertini», influenzati dalle idee rivoluzionarie e antisistema della primavera francese. Nonostante l’omosessualità sia ancora tabù tutto fila liscio, almeno fino a quando Giovanni non decide di abbandonare la famiglia, ultracattolica, per andare a vivere con lo scrittore.

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È l’innesco di una bomba: il padre di Giovanni porta il figlio in manicomio e denuncia Braibanti per plagio. All’epoca il codice penale, di derivazione fascista, prevedeva espressamente il reato. Secondo l’articolo 603, chi sottopone «una persona al proprio potere in modo da ridurla in totale stato di soggezione» si becca una pena che varia dai cinque ai quindici anni di reclusione. In quell’Italia, e con quella formulazione, il plagio dunque diventa presto una pistola puntata contro chi ha voglia di ribellarsi alla morale dominante. Il processo si apre tre anni dopo, nel 1967. Giovanni giura davanti alla Corte di non essere mai stato soggiogato, ma non fa altrettanto Piercarlo, che invece denuncia il tentativo di Braibanti di «introdursi nella sua mente». La seconda testimonianza è sufficiente ai magistrati per stangare l’intellettuale comunista: nove anni di reclusione. Pena che viene ridotta a sei in appello, di cui due condonati per l’attività partigiana, e due per la condizionale. Nel dicembre 1969, dopo due anni a Rebibbia, Braibanti torna in libertà. Passando però alla storia, suo malgrado, per essere stata la prima persona (e anche l’ultima, come vedremo in seguito) a essere condannata per plagio in Italia. La vicenda comunque, negli anni della rivoluzione sessuale, diventa emblematica della battaglia di un mondo in declino, che non vuole cedere le armi. Tanto che in favore di Braibanti si mobilitano intellettuali del calibro di Pier Paolo Pasolini, Umberto Eco, Alberto Moravia, Elsa Morante, Mario Gozzano, nonché i radicali di Marco Pannella. L’uso improprio del reato di plagio, oltre a provocare una certa indignazione nell’opinione pubblica – che lo marchia come «reato d’opinione» – ne sancisce anche la morte giuridica, che arriverà una decina d’anni dopo. Alla fine degli anni Settanta, infatti, alcuni genitori accusano il sacerdote Emilio Grasso di aver plagiato i propri figli minorenni. Il magistrato, memore del caso Braibanti, si rivolge alla Corte costituzionale per chiedere se quel reato sia o no in contrasto con i principi sanciti nella nostra Carta. Dopo aver studiato il caso, la Consulta si pronuncia l’8 giugno del 1981: il plagio è incostituzionale. L’articolo 603 ha il difetto di essere formulato in maniera generica, dando così al giudice un potere d’interpretazione troppo discrezionale. «L’esame dettagliato delle varie e contrastanti interpretazioni date all’articolo 603» scrivono i giudici costituzionali nella sentenza «mostra chiaramente l’imprecisione e l’indeterminatezza della norma, l’impossibilità di attribuire a essa un contenuto oggettivo, coerente e razionale, e pertanto l’assoluta arbitrarietà della sua concreta applicazione. Giustamente essa è stata paragonata a una mina vagante nel nostro ordinamento, potendo essere

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applicata a qualsiasi fatto che implichi dipendenza psichica di un essere umano da un altro essere umano, e mancando qualsiasi sicuro parametro per accertarne l’intensità.» Con più di un buon motivo, quindi, la Consulta cancella un reato che nasce per tutelare i più deboli, ma che diventa pericoloso per le libertà personali di ognuno di noi. Tuttavia, allo stesso tempo la sentenza apre una falla nel nostro ordinamento: non c’è più nessuna norma a tutela di chi rimane irretito da una setta e dal suo guru. Dal 1981 a oggi, informati dalle associazioni dei familiari delle vittime, alcuni politici hanno provato a reintrodurre il reato di manipolazione mentale. Con scarsa fortuna. La pressione lobbistica delle sette, nonché il riflesso pavloviano di chi associa automaticamente quello del plagio a un reato d’opinione, hanno fatto naufragare ogni tentativo. Nel 1988 è l’allora ministro degli Interni, la democristiana Rosa Russo Jervolino, a presentare un disegno di legge che punta a reintrodurre il plagio almeno per quanto riguarda i minori, punendo «chiunque mediante violenza, minacce o suggestione pone il minore in stato di soggezione tale da escludere o limitare grandemente le libertà personali e la capacità di sottrarsi alle imposizioni altrui». La legge però non troverà sponde in Parlamento, e perciò non vedrà mai la luce. È del 2005 invece il tentativo che va più vicino alla meta, purtuttavia mancandola. Il 4 marzo la Commissione Giustizia del Senato, dopo un lungo e articolato esame, approva un disegno di legge che punta finalmente a istituire il reato di manipolazione mentale, superando tutti quei limiti che avevano portato all’incostituzionalità del «vecchio» plagio.1 Il testo è frutto della fusione di due proposte diverse, la prima presentata dalla senatrice di Forza Italia Maria Elisabetta Alberti Casellati, la seconda che porta la firma del collega di Alleanza Nazionale Renato Meduri. Il passaggio positivo in Commissione – e il fatto che i promotori siano due parlamentari dell’allora maggioranza – accendono le speranze dei fuoriusciti e dei familiari delle vittime, che da anni premono per avere una legge. Come ricorda ai suoi colleghi d’aula il relatore Guido Ziccone, «non appena s’è conosciuta la possibilità dell’approvazione sono pervenute decine di messaggi di associazioni e centinaia, se non migliaia, di altri messaggi di persone e di famiglie che, incappate in questa situazione che sconvolge le comunità e le famiglie per la gravità di ciò che si è verificato e continua a verificarsi, invocavano un rapido esame da parte del Senato».

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L’entusiasmo però non dura che qualche mese. Il tempo necessario per far arrivare il disegno di legge a Palazzo Madama, dove ben presto si capisce che non tira aria buona. Il testo viene subito impallinato dagli interventi dell’opposizione di centrosinistra, compatta nel dire «no» al plagio. In prima linea troviamo i Verdi e i Democratici di Sinistra. Entrambi i partiti sostengono che la nuova norma è praticamente uguale a quella vecchia, e quindi incostituzionale. Addirittura il diessino Massimo Brutti evoca scenari da Stato di polizia: «Questa legge nasce con una pesante ipoteca: è la restaurazione di un potere di ingerenza dello Stato nei rapporti di comunicazione, di fiducia, di affetto, di devozione, di dedizione che si formano liberamente fra persone maggiori di età». E ancora: «Con la norma sulla manipolazione mentale, lo Stato pretende di controllare e interdire le forme più spiccate di influenza psicologica nei rapporti interpersonali».2 Un’opposizione così netta e pregiudiziale che purtroppo a tratti scade nel ridicolo: sempre Brutti tira in ballo la sentenza a morte nei confronti di Socrate, costretto a bere la cicuta perché corruttore di giovani allievi. «Ciò in quanto nel dialogo, nella persuasione, il potere politico vedeva in quel momento non solo una suggestione, una coazione psicologica, ma anche una corruzione».3 Ancora più in là si spinge il Verde Giampaolo Zancan, che arriva a giustificare la libertà di farsi plagiare o fregare: «Fra noi qualcuno ha certamente conosciuto parenti di malati terminali che hanno avuto desiderio di aiutarli con cure basate sulla superstizione. Ebbene, questo rientra nella libertà della persona».4 Ma il capolavoro retorico è quello del Verde Boco: «Un esempio solo: Francesco. Quando, in quel d’Assisi, egli partì, per una sua convinzione folle, e contaminò le menti di ragazzi che lasciarono tutto e con i sandali ai piedi si ritirarono a costruire una delle parti del monachesimo dell’anno Mille, o giù di lì, i genitori di costoro cosa avrebbero detto? Mi hanno plagiato il figlio. Dove c’è, se vogliamo essere onesti, null’altro che la capacità di convinzione, il dire che quei ragazzi avevano il diritto di non portare con sé le loro cose, i loro averi, costruendo la storia dei francescani. Non lo dico provocatoriamente per sostenere che, allora, niente può essere colpito. Però, i parenti di quelle persone avrebbero detto: quel ragazzo pazzo di Assisi ha plagiato mio figlio».5 Sta di fatto che assieme all’intransigenza dell’opposizione, Meduri e Alberti Casellati si accorgono presto che – anche all’interno della stessa maggioranza di governo – il fronte non è così poi compatto. Con la parte più garantista e liberale di Forza Italia che progressivamente si sfila. Non sorprende quindi che il progetto di legge venga prima congelato, per poi finir cassato dall’ordine del giorno a settembre, quasi a formalizzare lo sbriciolamento della maggioranza sul tema. Da allora né Senato né Camera dei Deputati hanno messo più in calendario l’argomento.

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1 L’articolo 613-bis disciplina in maniera più dettagliata cosa s’intende per plagio: «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque mediante tecniche di condizionamento della personalità o di suggestione praticate con mezzi materiali o psicologici, pone taluno in uno stato di soggezione continuativa tale da escludere o da limitare grandemente la libertà di autodeterminazione è punito con la reclusione da due a sei anni. Se il fatto è commesso nell’ambito di un gruppo che promuove o pratica attività finalizzate a creare o sfruttare la dipendenza psicologica o fisica delle persone che vi partecipano, ovvero se il colpevole ha agito al fine di commettere un reato, le pene di cui al primo comma sono aumentate da un terzo alla metà». 2 Resoconto stenografico della seduta numero 828 del 28 giugno 2005, Senato della Repubblica. 3 Resoconto stenografico della seduta numero 820 del 16 giugno 2005, Senato della Repubblica. 4 Resoconto stenografico della seduta numero 828 del 28 giugno 2005, Senato della Repubblica. 5]Ibidem. 2. La coalizione dei volenterosi Nonostante gli insuccessi del passato, oggi in Parlamento siede una schiera di «coraggiosi» che ancora credono nell’urgenza di tutelare il cittadino dalla

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manipolazione mentale. Il padre nobile di questa buona causa, invece, siede al Quirinale. Giorgio Napolitano è da sempre un oppositore dell’irregimentazione settaria. Già da quando nel 1998, da ministro dell’Interno, ordina alla Polizia di Stato di indagare sulla pericolosità sociale di queste organizzazioni. E a indagine conclusa, nella consapevolezza che l’informazione è il migliore antidoto di questo particolare veleno, autorizza la diffusione dei risultati dell’inchiesta. Ancora nel 2006, da Presidente della Repubblica, ricevendo una delegazione di familiari delle vittime di sette, si mostra concorde con il fatto che esse rappresentino un pericolo per le famiglie e la società, e con l’idea che sia necessario colmare il vuoto normativo. E infine nel 2009, quando, come abbiamo visto, rispondendo all’appello di un padre che gli racconta di aver perso ogni contatto con la figlia a causa dei damanhuriani, sollecita i magistrati di Ivrea a prendere in esame il caso. A Montecitorio, però, il vessillo lo raccoglie solo Pino Pisicchio, deputato dell’Api di Francesco Rutelli. È lui ad aver presentato una proposta di legge che suggerisce una nuova formula1 per aggirare i rischi del plagio come reato d’opinione (memore del rischio Braibanti) e contrastare questa «schiavitù senza costrizione fisica». «Bisogna immaginare una fattispecie nuova, come è successo per lo stalking, cioè la sintesi di una serie di reati che permetterebbe di punire chi prima l’avrebbe fatta franca» sostiene Pisicchio, «perché quello della manipolazione mentale è un crimine sfuggente, dalle mille facce, con una capacità mimetica straordinaria.» Ma non si tratta di una legge pregiudizialmente rivolta contro le sette, infatti «una volta definita la fattispecie, poco importa che il reato venga commesso da un santone, o da un sacerdote». Cofirmatario bipartisan di questa proposta è l’onorevole Enzo Raisi, neo deputato di Futuro e libertà. Coerente con la linea tracciata dal suo leader, Gianfranco Fini, che della necessità di punire la manipolazione mentale si è sempre detto convinto. Fin dal 2001, quando era vicepresidente del Consiglio, e ancora oggi che – da presidente della Camera – ha sollecitato la Commissione affari sociali a prendere a cuore la questione. Infatti Raisi è solo il primo della pattuglia finiana che a Palazzo Madama (l’altro ramo del Parlamento) si è mobilitata per perorare la causa. Prima del divorzio Fini-Berlusconi, i senatori «futuristi» Mario Baldassarri, Francesco Pontone e Giuseppe Menardi si erano trovati di comune accordo con gli ex compagni di banco pidiellini (Antonino Caruso, Franco Mugnai, Laura Allegrini, Domenico Gramazio, Mariano Delogu, Andrea Augello, Achille Totaro, Gennaro Coronella, Andrea Fluttero e Pierfrancesco Gamba) nel presentare un’analoga proposta di legge.2

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Ma per loro non è una battaglia ideologica, ci spiega Caruso: «Mi sono convinto a battermi per questa causa nel 2005, quando partecipai a un convegno dei familiari delle vittime, che mi raccontavano le angherie subite. Mi ricordo che alla fine del mio intervento risalii in macchina assieme agli agenti della scorta per rientrare a Roma. Mi colpì il loro silenzio, rotto soltanto dal più giovane, che sbottò chiedendomi, incredulo: “Ma è possibile che sia vero tutto ciò che le hanno riferito?”. A dimostrazione di come l’indifferenza che la gente prova nei confronti di questo tema regge solo fin quando non si squarcia il velo del silenzio». Che la sensibilità a questo problema non sia questione di partito lo dimostrano anche le parole di Antonio Di Pietro, dominus dell’Italia dei Valori, che agli inizi del 2000 scrive: «In questo vuoto le persone più deboli ci sono cascate dentro con tutte le scarpe. E io credo che lo Stato debba sentirsi corresponsabile di tutto ciò che ai nostri giorni vediamo accadere a migliaia di persone, raggirate, truffate, prese in giro dal primo ciarlatano di turno, influenzate e terrorizzate psicologicamente». Coerentemente, nel settembre 2010, l’ex pm dà mandato al suo deputato siciliano Domenico Scilipoti di dar vita al primo Forum nazionale antiplagio e al cosiddetto Osservatorio nazionale sulle sette abusanti, composto da alcune associazioni di settore. Peccato però che l’idea fosse quella giusta, ma l’uomo quello sbagliato. Come abbiamo visto, infatti, solo una settimana più tardi Scilipoti darà vita al cosiddetto Movimento Olistico, nel quale accoglie a braccia aperte un damanhuriano doc come consulente. Così il doppio gioco di Scilipoti fa naufragare le buone intenzioni di Di Pietro. La schizofrenia politica dell’Italia dei Valori non ha niente da invidiare a quella del Pdl. Dove il certosino lavoro di Caruso è stato boicottato dai suoi stessi compagni di partito. Quando l’8 giugno 2010 il suo progetto di legge arriva in Commissione Giustizia del Senato per la discussione generale, due senatori prendono parola appositamente per affondarlo. Il primo è l’avvocato di Berlusconi, Piero Longo, il secondo è Domenico Benedetto Valentini. Per entrambi il Ddl è illiberale, e allo stesso tempo ridondante: «Le condotte che si intendono disciplinare con l’introduzione del nuovo reato appaiono già adeguatamente sanzionate dalle norme vigenti» sentenzia Longo. «A Longo e Valentini direi: c’è proprio bisogno che si commettano dei crimini per poterli punire, o invece si può fare prevenzione?» polemizza Caruso. «Purtroppo la manipolazione mentale, anche e soprattutto all’interno del Pdl, viene ancora considerata da molti garantisti un reato d’opinione. Il nostro è un Paese in cui tutto sono garantisti, finché non vengono toccati dal problema.» Motivo per il quale, si dispiace Caruso, il progetto di legge non ha avuto e non avrà vita facile.

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Non solo al Senato. «Pur avendo ricevuto la disponibilità della presidente della Commissione Giustizia, Giulia Bongiorno, sono piuttosto pessimista sulla possibilità che la mia proposta possa mai entrare nel dibattito parlamentare» ammette sconsolato il deputato Pisicchio. Anche perché, per tanti partiti, il problema semplicemente non esiste. Né la Lega Nord, né i cattolici dell’Udc, né il Partito democratico hanno detto o fatto qualcosa a questo proposito. «Credo che quelli del Pd abbiano un qualche tipo di pregiudizio culturale, legato a una falsa rappresentazione della tolleranza e del pensiero liberale. Si rapportano a questo problema come fossimo ancora ai tempi di Braibanti. Il che è piuttosto in contraddizione con la linea legalitaria della sinistra di oggi» nota Pisicchio. Non è solo una questione d’indifferenza, inerzia (o ignoranza del problema) da parte della stragrande maggioranza della nostra classe politica. C’è dell’altro. «Qualche spiritello maligno potrebbe pensare a una sorta di lobby che preferisce si vada avanti senza regole» conclude Pisicchio. Una specie di insabbiamento? Il dubbio è condiviso dal senatore Caruso, che rammenta un aneddoto illuminante: «Già nel 2005, da presidente della Commissione Giustizia, misi all’ordine del giorno la discussione sulla manipolazione mentale. Nel giro di qualche giorno arrivò fra le mani di tutti i senatori della Commissione un elegante e costoso libro di Scientology, che magnificava le opere dell’organizzazione fondata da Hubbard. Se non è lobbying questo...». 1 «Art. 613-bis (Manipolazione mentale). Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, con violenza o minacce ovvero mediante tecniche di condizionamento della personalità o di suggestione, pone taluno in uno stato di soggezione tale da escludere la capacità di giudizio e la capacità di sottrarsi alle imposizioni altrui, escludendo la libertà di autodeterminazione, è punito con la reclusione da quattro a otto anni. Se il fatto è commesso nell’ambito di un gruppo che promuove o pratica attività finalizzate a creare o a sfruttare la dipendenza psicologica o fisica delle persone che vi partecipano, ovvero se il colpevole ha agito al fine di commettere un reato, le pene di cui al primo comma sono aumentate da un terzo alla metà». 2 «Art. 613-bis (Manipolazione mentale). Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, mediante tecniche di condizionamento della personalità o di suggestione praticate con mezzi materiali o psicologici, pone taluno in uno stato di soggezione continuativa tale da escludere o da limitare grandemente la libertà di autodeterminazione è punito con la reclusione da due a sei anni. Se il fatto è commesso nell’ambito di un gruppo che promuove o pratica attività finalizzate a creare o sfruttare la dipendenza psicologica o

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fisica delle persone che vi partecipano, ovvero se il colpevole ha agito al fine di commettere un reato, le pene di cui al primo comma sono aumentate da un terzo alla metà. Se i fatti previsti nei commi 1 e 2 sono commessi in danno di persona minore di anni diciotto la pena non può essere inferiore a sei anni di reclusione.» 3. La mise en état de sujétion Questo libro non contiene notizie di reato. Per il semplice fatto che il reato che servirebbe a punire la manipolazione mentale non esiste. E mentre i nostri politici ancora ignorano la necessità di tutelare l’individuo e la famiglia contro di essa, in altri due Paesi europei il problema è stato affrontato. E si è giunti a una soluzione. In Spagna il reato è stato introdotto più di quindici anni fa, già nel 1994, sull’onda di polemiche suscitate dalle inchieste giudiziarie su Scientology. L’approvazione della legge ha probabilmente sortito effetto di prevenzione, perché da allora sulle prime pagine dei giornali non si è più versato inchiostro per casi altrettanto significativi (e le condanne sono state rarissime).1 In Francia invece la legge sul cosiddetto «assoggettamento» nasce nel giugno 2001 per iniziativa bipartisan dell’ex deputata socialista Catherine Picard e del senatore centrista Nicolas About. Noi siamo andati a parlare con la Picard, oggi presidente dell’Unadfi –2 associazione per la difesa delle vittime delle sette – per farci raccontare l’esperienza francese. Che potrebbe rappresentare una roadmap per l’Italia. Madame Picard, a dieci anni di distanza, ritiene che la sua legge si sia rivelata efficace? A oggi, sono sotto istruttoria una ventina di dossier. Un guru nel Sud della Francia è stato condannato in primo appello – ma ha già fatto ricorso – a quindici anni di reclusione per abuso fraudolento di debolezza psicologica. Inoltre il ministero della Giustizia e la Scuola nazionale di magistratura organizzano ogni anno corsi di formazione sul rischio settario, per informare i giudici su questo fenomeno sociale. Quindi nell’insieme la risposta è sì. Ma

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soprattutto, aver legiferato su questo tema è stato salutare perché un grande numero di persone abusate dalle sette si sono sentite finalmente autorizzate a testimoniare, e hanno avuto ragione di pensare che lo Stato permetterà loro di ottenere giustizia per tutto ciò che hanno subìto. Quando uno stato di diritto arricchisce il proprio arsenale legislativo, preventivo e repressivo, la vittima si sente sostenuta, e prende coscienza del fatto di non essere più sola. Che cosa ha convinto deputati e senatori francesi della necessità di una legge contro il plagio? La scelta è maturata in seguito ai lavori della prima commissione parlamentare, che aveva tracciato il panorama delle sette e dei loro misfatti. Ma anche grazie alle sempre più numerose testimonianze delle vittime di questi movimenti. Ecco perché rappresentanti di tutte le correnti politiche si sono accordati su un testo che ne garantisse la protezione, inserendo il reato di assoggettamento nel codice penale, fra gli attentati alla dignità dell’uomo. Com’è stato possibile conciliare le posizioni dei partiti su un tema tanto delicato? Nel 1995, sotto il governo di destra di Alain Juppé, e con il suo pieno appoggio, era stato stilato il primo rapporto della commissione parlamentare sulle sette, che subito diede vita ad alcune proposte di legge. Anche dopo il cambio di governo, con l’arrivo del socialista Lionel Jospin, si ribadì una comune volontà politica di proseguire lungo quella strada, per cui il gruppo di lavoro parlamentare fu riconfermato. Nicolas About ha portato avanti e difeso il nostro testo al Senato, mentre io facevo lo stesso nell’Assemblea nazionale [cioè la Camera francese, NdA], e alla fine è stato votato all’unanimità da tutti i partiti rappresentati: per questo sulle sette parliamo di «consenso repubblicano». Un consenso vivo tutt’oggi, tant’è che la Commissione interministeriale per la lotta contro le derive settarie3 è ancora attiva. Come avete fatto a evitare il rischio, in Italia particolarmente sentito, che l’assoggettamento diventasse un reato d’opinione? Il testo della legge About-Picard non riguarda affatto la libertà di pensiero o di culto, né il loro rispettivo esercizio. Non è quello il problema, quando si parla di sette. Piuttosto, la legge riguarda «l’abuso fraudolento della condizione di debolezza psicologica; l’assoggettamento attraverso mezzi di pressione gravi e reiterati». E quindi individua un reato, non le caratteristiche personali di chi lo commette. C’è qualcuno che ha provato a fermare il vostro testo prima che diventasse legge?

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Sì. Sono stati soprattutto i grandi movimenti settari internazionali quelli che hanno tentato di ostacolarne il cammino. Ma l’operazione di lobby è fallita clamorosamente, perché i nostri parlamentari erano compatti contro di loro. Dopodiché, a livello internazionale, sono gli Stati Uniti ad aver maggiormente manifestato il proprio dissenso, giocando sul confine sfumato fra setta e religione. Hanno pure inviato degli osservatori, e personalmente ho ricevuto ben due senatori americani, membri dell’Osce, venuti con grande ipocrisia a chiedermi di ritirare il testo. Un’ingerenza tanto sfacciata si vede di rado da parte di parlamentari stranieri. Il fatto è che gli Usa fanno finta di credere che in Francia stiamo attentando alla libertà di culto. Ma a oggi, nessuno è mai stato condannato per un reato d’opinione, e il diritto alla libertà di coscienza non è mai stato violato di fronte a nessun tribunale. Non è la dottrina a portare le sette in tribunale, ma i crimini commessi, come lo stupro, la truffa, l’esercizio illegale della medicina e il lavoro nero. Ciò detto, non si può che ammirare la bravura dei loro avvocati e consulenti legali. La nostra inchiesta porta alla luce in Italia una fitta rete di lobby settarie celate dietro scopi umanitari. E in Francia? Come l’Italia, la Francia non sfugge a infiltrazioni di ogni tipo come quelle che lei descrive, e questo accade in ambiti professionali, politici e associativi. Ma il fatto che un primo ministro abbia creato uno strumento di lotta contro le derive settarie; che i poteri pubblici abbiano cercato di fare formazione sull’argomento; e che nei ministeri che si occupano di questioni cui le sette sono particolarmente interessate, come Sanità, Istruzione e Lavoro, esistano commissioni apposite... tutto questo permette di tenere alta la guardia, e di dotarsi dei necessari strumenti di prevenzione. Sono questi i bastioni necessari per proteggerci dall’infiltrazione. Malgrado ciò è noto che esistono associazioni e Ong appartenenti al giro delle sette, che riescono a legittimare il proprio operato sia agli occhi del cittadino che di personaggi pubblici. E anche loro sono un nemico da combattere. 1]FAQ sul lavaggio del cervello e la manipolazione mentale, www.cesnur.org. 2 Union nationale des associations de défense des familles et de l’individu victimes de sectes (www.unadfi.org). 3 Che si chiama Miviludes.

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4. Il pifferaio di Hamelin Ci sono almeno due miti che abbiamo voluto sfatare con questo libro. Il primo è quello per cui le sette sarebbero un fenomeno periferico, che coinvolge soltanto una piccola parte della società. Invece le trovi in Municipio, in Regione o in Parlamento, le trovi nell’azienda o nel negozio sotto casa, le trovi a scuola o all’università – con lezioni e corsi che anche tuo figlio potrebbe seguire senza che tu te ne renda neanche conto – e perfino quando vai al museo o a una mostra. Le trovi al tuo fianco quando ti batti per la pace, per l’ambiente, per i diritti umani e le libertà individuali, per la tutela dei bambini, o contro la droga e il razzismo. Le trovi lodate e strombazzate sulle pagine dei giornali, pubblicizzate sul piccolo schermo come sugli spalti di uno stadio. Le trovi che si aggirano per i corridoi degli organi di governo internazionali, al Palazzo di Vetro dell’Onu o all’Emiciclo del Parlamento europeo a Bruxelles. Le ritrovi che ronzano intorno al tuo attore, musicista, cantante o sportivo preferito. Insomma, le trovi ovunque. Il secondo mito è quello per cui nella ragnatela tessuta dalle sette ci finirebbero solo i pazzerelli, i poveracci, i diseredati, i senz’arte né parte, gli ingenuotti, i creduloni e i superstiziosi. Non è vero. Dentro ci restano impigliati avvocati, medici, giornalisti, imprenditori, manager, personalità del mondo della cultura, politici – anche i più avveduti – e perfino psicologi e militari. Nel corso della nostra inchiesta ne abbiamo conosciuti parecchi, di fuoriusciti che rientrano in queste categorie. Li abbiamo incontrati, ci siamo andati a cena, ci siamo fatti una birra al pub, abbiamo parlato della loro vita passata, ma anche di quella presente, abbiamo conosciuto le loro idee, abbiamo riso e scherzato insieme, li abbiamo guardati negli occhi. Erano per la maggior parte persone intelligenti e spiritose, colte e argute. Dimenticate dalle istituzioni (perché i loro racconti, a chi non sa niente di sette, paiono fastidiosamente fuori dal mondo). Ma oggi di nuovo in piedi, nel mondo. E allora ci siamo chiesti, più di una volta: com’è possibile che persone così ci siano cascate? «Ho conosciuto le personalità più diverse, gente plurilaureata che aveva dedicato venticinque anni della propria vita a una setta» ci racconta Lorita Tinelli, psicologa e fondatrice del Cesap. (Centro studi abusi psicologici), associazione che aiuta a traghettare chi vuole uscirne. «C’è

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qualcosa di più dell’incapacità d’intendere o di volere, o della scarsa cultura. Ci sono delle fasi della nostra vita in cui semplicemente perdiamo la lucidità, e reagiamo agli stimoli esterni senza pensarci, senza filtrarli attraverso la nostra razionalità. Soprattutto senza sentire il bisogno di informarsi su chi ci promette la via per la felicità in questo mondo.» La Tinelli parla per esperienza professionale, ma anche personale. «Anni fa, agli inizi dell’università, un mio amico entra in un gruppo di questi. Allora non avevo particolari pregiudizi sulle sette, perché non le conoscevo. Così mi chiedevo: come ha fatto questo bel ragazzo, che faceva il modello ed era diventato ufficiale dell’esercito, a imboccare un vicolo cieco? Non era affatto uno stupido. Da quel momento ho iniziato a chiedermi: perché si cambia così radicalmente? Come può una persona libera a rinunciare a tutti i sogni, alle aspirazioni, alle convinzioni? È così che mi sono dedicata ad aiutare i fuoriusciti.» Fuoriusciti molto diversi fra loro, che in comune però hanno una cosa: sono stati abbordati in un momento di vulnerabilità. Perché le sette hanno la capacità di farti la radiografia, e di individuare il tuo cosiddetto punto di rovina. «Quando mi raccontano i motivi per cui sono entrati, le spiegazioni hanno in comune la sofferenza. C’è chi si è separato, e chi ha avuto un lutto, chi ha perso il lavoro o la salute. Qualche tempo fa una donna mi ha detto che a spingerla fra le braccia del guru era stata proprio l’abilità di questi nell’usare contro di lei i dettagli più intimi della sua vita personale, cioè quelli che lei stessa gli aveva confidato, come aver perso la madre da piccola e il cattivo rapporto con il padre. Il santone di turno, infatti, è in grado di setacciare e di farsi rivelare gli elementi più delicati della tua storia, le ferite ancora aperte, i conflitti irrisolti, ma anche le angosce quotidiane. Altro esempio. A un fuoriuscito che ho incontrato il guru aveva voluto far credere che la sua omosessualità derivasse da una violenza in tenera età da parte di un familiare. In realtà mai subita.» Anche chi riesce a sfuggire alle trappole psicologiche ne rimane comunque scottato: «Dieci anni fa ho conosciuto una signora dal carattere molto forte, che non avrei mai immaginato potesse cascarci. Eppure, mi diceva, la perdita del fratello morto suicida l’aveva sconvolta a tal punto da accettare l’invito di un’amica a una serata di adescamento. Mi disse: “Io per la prima volta ho pianto in pubblico davanti a un gruppo di persone che non avevo mai visto prima. E solo perché il maestro era stato bravo nell’andare a toccare il nervo scoperto. Questa cosa, però, quando sono tornata a casa mi ha fatto paura, e non ci sono più voluta tornare”. Purtroppo non va sempre così». La seduzione può avere il volto fraterno di un amico che ti fa conoscere degli «amici». Ma anche il volto suadente di un testimonial pubblicitario. È la

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strategia del marketing settario, che ti piazza il «prodotto» grazie alla notorietà dei propri uomini-immagine, e magari a un profluvio di titoli accademici pomposi quanto indecifrabili: a volte patacche, a volte millantati, o peggio ancora honoris causa. «I guru italiani vantano comunemente lauree prese in università straniere, diplomi il cui valore reale l’uomo comune difficilmente riesce a comprendere.» E poi c’è il fascino del logo: «Sono di solito marchi registrati. Ispirano un senso di potenza e di accreditamento istituzionale, vero o ipotetico che sia. Perché l’alone di potere genera credibilità». Quella di «successo uguale credibilità» sarà forse anche un’equazione figlia dell’era berlusconiana. Ma le sette non hanno colore politico. Anzi, navigano una volta a destra, una a sinistra, e un’altra ancora a destra e a sinistra, a seconda della convenienza del momento. 5. Anatomia di una setta Il primo contatto fra la setta e il potenziale adepto è fondamentale. Se in quel momento non si alza il ponte levatoio della ragione, l’anima viene presto espugnata. Grazie a una precisa e implacabile strategia che accomuna tutti i gruppi settari. Il primo passo è ingenerare la speranza. Al fedele viene promesso l’Eldorado, la garanzia che la sua vita cambierà. Grazie alla setta migliorerà le sue capacità mentali e quelle relazionali: al lavoro sarà brillante e intelligente, in un batter d’occhio diventerà un vincente, un uomo di successo; in amore supererà le difficoltà col partner, oppure ne troverà uno nuovo; la salute si ristabilirà presto e tutti i disturbi di colpo spariranno; e, come se non bastasse, troverà tanti amici, simpatici e affettuosi. Diventerà così un uomo nuovo, pieno di energia, pronto a battersi per il fine ultimo di ogni gruppo settario che si rispetti: la salvezza del pianeta. Che però, in realtà, finisce per coincidere con nient’altro che la conversione del pianeta alle idee del guru. Obiettivo, questo, ostacolato da una schiera di nemici che il fedele è chiamato a combattere senza esclusioni di colpi. Gli avversari sono ovviamente quelli che mettono in discussione la Verità. Per Hubbard e Meneghetti sono quei «ciarlatani» degli psicologi, e per Silo quegli «avidi» dei capitalisti.

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Il secondo passo è creare un muro verso l’esterno. Il neo adepto viene letteralmente investito da un tir carico di affetto e attenzioni da parte degli altri fedeli. È il love bombing, che punta ad avvolgere il neofita in una specie di caldo e confortevole liquido amniotico, da cui diventa sempre più difficile riemergere. Anche perché, al pari di un bambino nel pancione, chi entra in una setta viene subito deresponsabilizzato. Sarà il santone o la dottrina a scegliere cosa è meglio per te, non dovrai più angustiarti. E se ne rispetterai il volere, sarai premiato. Altrimenti, ecco che arrivano le punizioni. Ma per beneficiare a pieno del promesso paradiso in terra, al fedele viene chiesto di separarsi da tutte quelle persone che potrebbero fargli aprire gli occhi sull’abile illusione creata ad arte per fagocitarlo. Prima di tutto i familiari, a meno che non siano anch’essi nel gruppo. Scientology invita i suoi seguaci a «disconnettersi» da fratelli e sorelle troppo «impiccioni». Meneghetti li allontana dai genitori, dalle mogli o dai mariti. Damanhur dalla vita precedente. Allo stesso tempo, l’amore romantico nella setta è guardato con un certo sospetto. Se la persona che ami non fa parte del gruppo, allora costituisce una seria minaccia, visto che ti può allontanare dalla missione cui sei chiamato. Se l’amato è invece un altro fedele, i rischi sono minori, purché sia ben chiara una cosa: la vera dedizione deve essere indirizzata esclusivamente verso il guru o la sua dottrina. Lo stesso vale per l’amicizia: meglio che i tuoi migliori amici siano dentro la setta. Gli altri, quelli fuori, o sono un pericolo oppure sono potenziali fedeli da portare dentro e convincere. L’ossessiva spinta al proselitismo è il filo rosso che accomuna i gruppi che abbiamo preso in esame. Insomma, tutto è finalizzato a creare la massima compattezza all’interno e la massima coesione contro l’esterno. Con muri che sono psicologici, ma che spesso sono anche di mattoni, come visto nel caso delle roccaforti di Pissignano o della Valchiusella. O addirittura di parole: ogni setta ha un proprio lessico, chiaro per chi è dentro, oscuro per chi è fuori. Il terzo passo è l’indottrinamento. In ogni setta è evidente il culto della personalità nei confronti del fondatore, che si chiami Hubbard, Airaudi, Ikeda, Meneghetti o Silo. Un guru a cui si attribuiscono qualità fuori dal comune, la capacità di raggiungere la vetta in qualsiasi campo in cui si applichi, dall’arte alla filosofia, dall’economia alla psicologia, passando ovviamente per la teologia. E non a caso spesso si accosta o viene accostato a grandi pensatori (religiosi e non), così da creare nel cuore adorante del seguace un ulteriore moto d’ammirazione, e nella percezione dell’uomo comune quell’«effetto alone» che ormai conosciamo bene. Corollario del culto della personalità è certamente la chirurgica asportazione dello spirito critico. Chi avanza dubbi sulla dottrina è un cattivo adepto, nella migliore delle ipotesi, oppure un

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piantagrane da mettere all’indice, nella peggiore. Allo stesso modo, dall’infallibilità del guru dipende anche la struttura gerarchica delle organizzazioni settarie. Siccome tutto discende da una sola persona, gli adepti più vicini (ovvero i più ciechi) sono quelli a cui viene delegato più potere. Potere che si frammenta verso il basso, a formare una piramide. In cui alla base è concesso solo obbedire. E nulla più. Il quarto passo è l’asservimento alla causa. Il fedele, ormai isolato e indottrinato, deve dare tutto se stesso per la setta. A partire dai propri averi. Ogni gruppo incoraggia le donazioni, sia in contanti che in beni immobili e mobili. Tutto ciò che l’adepto può dare è ben accetto. E se la setta vende servizi, come Scientology, oppure vestiti e quadri, come l’Ontopsicologia, o ancora gioielli magici, come Damanhur, un buon fedele non può sottrarsi e dovrà dimostrarsi anche un buon cliente. Un aspetto poco spirituale e molto materiale, che tuttavia spesso fa la differenza: chi dona o spende tanto ha più probabilità di «far carriera» di un poveraccio. Il poveraccio però può riscattarsi in un altro modo: dedicando le sue braccia o il suo tempo (o entrambi) all’organizzazione. Tutte queste sette utilizzano i propri seguaci per prosperare. Sono gli ontopsicologi, Pezzi incluso, ad aver ristrutturato la sede di Foil nel Lodigiano. Sono gli scientologi a far parte dello staff che tiene in piedi le chiese o i centri Narconon. Sono i damanhuriani ad aver costruito con le loro mani il Tempio. Tanto lavoro, quindi, che si traduce inevitabilmente nell’annichilimento del tempo libero dell’adepto, come vien fuori anche dalle testimonianze dei fuoriusciti umanisti e sokiani. I quattro passi descritti trasformano una persona in un adepto. Spesso però capita che un libro, un incontro con un vecchio amico o un qualsiasi altro evento fortuito riescano a riaccendere nell’animo del fedele una scintilla di spirito critico. E se il dubbio riesce a bucare la tela in cui il guru lo ha pazientemente avvolto, allora l’indottrinato può anche decidere di andarsene. Qui però cominciano i guai. Perché non c’è niente di più difficile al mondo che uscire da una setta. Prima di tutto, perché ti accorgi che non hai più una vita al di fuori del gruppo: niente più affetti, niente amici, niente famiglia. E poi perché gli altri fedeli faranno di tutto per riportarti «alla ragione»: con le buone, ma anche con le cattive. Tuttavia, se anche l’adepto riesce nell’ardua impresa, si trova solo al punto di partenza di un percorso. Una strada accidentata e in salita: bisogna ricostruirsi una vita, e allo stesso tempo far piazza pulita delle scorie del passato. Non a caso i fuoriusciti che hanno accettato di parlare con noi (solo dopo tanto tempo e mille rassicurazioni) ci hanno messo anni per tornare alla normalità. Mentre tanti altri che abbiamo incontrato sono ancora nel bel mezzo della via del ritorno, motivo per cui non se la sono sentita di confidare

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a dei giornalisti un dolore ancora vivo. Un silenzio che non può che essere compreso. 6 La P4 La struttura verticistica e autoritaria di una setta è il sogno inconfessato di ogni leader di partito: una macchina in grado di canalizzare infallibilmente la volontà dei propri accoliti verso gli obiettivi designati. Ecco cos’è che rende il voto settario particolarmente appetibile da parte di un politico a caccia di consensi: la fidelizzazione dell’elettorato è implicita, altro che tesseramento e «truppe cammellate». Si assiste così a un vero e proprio «Risiko delle anime», con le sette che – in nome dell’equazione «più adepti uguale più elettori» – sparano cifre sempre maggiori rispetto al vero. Metodici nel tenere sotto controllo l’afflusso di simpatizzanti e neoconvertiti, trascurano però di fare la tara, cioè «dimenticano» di contare i fedeli in uscita. È in questo modo che la «casta settaria», spesso celata dietro l’innocua maschera di una buona causa, sta dando la scalata alle nostre istituzioni. Arrivando in alcuni casi anche molto vicino all’obiettivo più importante: l’intesa con lo Stato italiano. Cioè un Santo Graal pieno di benedizioni. Dal prestigio istituzionale derivato dall’essere ufficialmente riconosciuti come «religione», aureola protettiva che li terrebbe maggiormente al riparo dall’occhio indagatore di magistrati e forze dell’ordine, all’innegabile vantaggio economico di sedere alla tavola imbandita dell’8 per mille, dove anche l’ultimo arrivato fra i commensali si vede serviti fior di soldi con un ricco contorno di vantaggi fiscali. A scapito, ovviamente, dei contribuenti. Anche senza aspirare a tanto, corteggiare la politica porta comunque i leader settari a estendere la tela della propria influenza in Parlamento. Anche qui i vantaggi strategici non son di poco conto: in un’epoca di leggi ad personam non sono mancate leggi «ad templum», come quella con cui i damanhuriani hanno salvato il proprio tempio sotterraneo abusivo; interrogazioni e interpellanze mirate a perorare la causa della setta di turno; feroci campagne lobbistiche mirate a prevenire o impedire l’inserimento del reato di manipolazione mentale nel codice penale; e nemmeno mancano – ancora oggi – tentativi di regolamentare (leggi legalizzare) il regime settario del lavoro

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nero e delle donazioni «volontarie», con la proposta di legge sulle «comunità intenzionali». Obiettivi che, almeno negli ultimi due casi, lasciano trapelare gli indizi di un vero e proprio patto di solidarietà fra organizzazioni settarie. Se le loro lobby approdano alla Camera o al Senato, trovando nei nostri rappresentanti sponsor o addirittura difensori a spada tratta, non potrebbero mai essere da meno negli enti locali, dove a volte agiscono anche attraverso i propri partiti in house.1 Quando non si arriva a casi estremi (come l’assedio o addirittura la conquista d’interi comuni italiani) è la mostra, come abbiamo visto, lo strumento più diffuso di seduzione a livello dei singoli campanili. Il patrocinio dell’amministrazione, e quindi la simpatia del sindaco, dell’assessore o del consigliere portano in dote non soltanto una legittimazione sociale agli occhi del cittadino – ottimo viatico per il proselitismo – ma soprattutto arrivano in alcuni casi a fargli ottenere leggi regionali ad hoc. Nonché un afflusso di fondi, parallelo a quello che proviene direttamente dalle casse dello Stato italiano quando attingono al 5 per mille (dove le loro sigle si mimetizzano, indistinguibili nel mucchio delle settecento pagine di Onlus presenti nelle liste del fisco).2 L’infiltrazione non si ferma alla sfera pubblica. L’imprenditore, spesso non più informato o cauto del politico, alla fine viene comunque agganciato, anche se cambiano le esche adoperate. Perché gli si promettono grandi guadagni, o semplicemente perché un dipendente «fidelizzato» è un dipendente produttivo. A volte le aziende nascono direttamente nell’ambito della setta, fondate dai seguaci. Altre è la stessa organizzazione a creare imprese, o cooperative, per alimentare le proprie finanze (senza le quali, per altro, la spiritualità settaria di solito va in panne). E così come le aziende, anche le sette sanno bene come fare marketing. Con un vantaggio competitivo che sfida le regole della concorrenza: il testimonial che porta lustro e visibilità al gruppo è sempre a costo zero. Può essere l’adepto di successo, che lo farà per ubbidienza, o il vip ignaro, che lo farà gratuitamente in nome della buona causa per la quale è stato avvicinato. Una tale ignoranza – o connivenza – che già disturba quando viene manifestata dal politico e dell’imprenditore, non può essere giustificata quando a fare il gioco della setta sono gli accademici. Rettori e professori italiani aprono frequentemente le porte delle loro prestigiose università a corsi e seminari tenuti dal maestro di turno, o da messaggeri delle sue idee (quando poi non si spingono a legittimare lo stesso, magari con una laurea honoris causa). Si aprono le porte dell’istituzione universitaria, e soprattutto si aprono le menti degli studenti a idee che di scientifico non hanno un bel niente, ma che di certo gettano pericolosissimi semi d’indottrinamento nei ragazzi. O addirittura nei bambini: per i guru i più giovani sono sempre un importante progetto di proselitismo a lungo termine. E in Italia abbiamo maestri formati

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dalle sette, scuole create dalle sette, propaganda settaria diffusa nelle classi col beneplacito dei maestri, e più in generale bambini avvicinati in tenera età con messaggi che farebbero venire i capelli dritti in testa a qualunque genitore. Senza contare che il bambino può diventare a sua volta un’ottima esca pubblicitaria fra i coetanei. Se ritieni che tutto questo sia grave, allora ti verrà spontaneo chiederti come mai sui giornali sia difficile trovare traccia di questo scandalo occulto. Il fatto è che in Italia, quando si parla di sette, si pensa solo a quelle sataniche: storie di sangue che (per mera pigrizia) fanno più facilmente notizia. Ma il fatto è, anche, che le lobby settarie – particolarmente preparate nella cura della propria immagine, e quasi sempre dotate di abilissimi e agguerritissimi uffici stampa – sanno giocare sugli aspetti più colorati, patinati, folkloristici e apparentemente innocui del proprio culto. Questo specchietto per le allodole (fatte le dovute eccezioni) funziona, ottenendo nella migliore delle ipotesi articoli e servizi televisivi superficiali, concentrati sulle «curiosità» e guadagnando, nella peggiore, inchieste addomesticate, se non spudoratamente pubblicitarie. Verrebbe così da chiedersi se i nostri mezzi d’informazione non siano pieni di adepti-giornalisti. Invece – ancora, fatte le dovute eccezioni – le sette non sentono neanche più di tanto il bisogno di infiltrarsi nei quotidiani e nelle televisioni. Basta, come appena visto, fare affidamento sulla cronica assenza di cronaca e approfondimento. In alternativa, puntare sulla silenziosa opera di dissuasione per carta bollata dei loro altrettanto agguerriti uffici legali (a volte composti da preparatissimi avvocati-fedeli). Immediatamente pronti a denunciare – come abbiamo verificato, parlandone con colleghi di diverse testate – qualsiasi cronista che si azzardi a mettere in cattiva luce l’organizzazione. O, semplicemente a dire la verità. Dove non arrivano gli avvocati, servono a questo i loro immancabili servizi segreti interni, più o meno strutturati a seconda del livello di sofisticatezza dell’organizzazione. Cioè a tenersi stretti i nemici, e ancor più stretti gli amici. Fin qui abbiamo parlato dell’Italia. Ma la capacità d’infiltrazione delle sette non è limitata entro i confini del nostro Paese, anche se vero è che da noi può godere del più assoluto disinteresse disinformato del politico e del giornalista (e quindi inevitabilmente del lettore). Non è però la disinformazione, quanto il fitto sottobosco burocratico, ciò che permette alle sette di strappare accrediti (e crediti) altisonanti da parte delle organizzazioni internazionali, come Nazioni Unite e Unione Europea. Ci provano tutte, a passare dai corridoi del potere sovranazionale. E spesso ci riescono: d’altra parte in alcuni casi basta aver la pazienza di compilare un modulo online per potersi fregiare del loro logo rassicurante. Per capire veramente come funzioni il gioco della lobby settaria, però, è necessario un quadro d’insieme. Prese singolarmente, infatti, ciascuna di esse

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sembra avere la propria identità, il proprio culto, con le proprie inconfondibili peculiarità. Ma poi, viste l’una accanto all’altra, emerge un’anatomia comune, un minimo comun denominatore. Un’affinità elettiva intravista nei convegni organizzati dall’una, cui partecipano rappresentanti dell’altra, e rivelatasi nelle battaglie politiche condivise. Ragion per cui, se impari a capire dove andare a cercare, puoi trovare tracce d’incontri fra scientologi e damanhuriani,3 fra damanhuriani e umanisti, e fra umanisti e sokiani.4 E individuare così una fitta rete di relazioni diplomatiche fra «piramidi diverse», ma legate evidentemente da un interesse comune. Radicarsi nel nostro Paese, e nella nostra mente. 1 Come gli umanisti dall’omonimo partito, il movimento politico filo-Sai Baba (Il Loto), e il simbolo elettorale damanhuriano Con te per il Paese. Ricordiamo come invece, nel Sol Levante, la Soka Gakkai trovi una precisa sponda politica direttamente in Parlamento, grazie al New Komeito. 2 «Sia [...] Damanhur Firenze, che l’Associazione di protezione civile Damanhur trovano spazio nelle liste. Insieme ad altri volontari di protezione civile, quelli del Nuovo Rinascimento di Scientology. Gli appassionati lettori di Ron Hubbard ce li ritroviamo in fila per il 5 per mille anche con i quattro centri Narconon per la disintossicazione, e col Comitato dei cittadini per i diritti umani. Pure il Movimento umanista, che segue il verbo dell’argentino Silo, può vantare una nutrita presenza: l’associazione di volontariato La svolta umanista, la Dimensione umanista onlus, e Pangea per una nazione umana universale. Senza contare quelli del Movimento raeliano italiano, che si fanno portatori del messaggio di angeli alieni e nel frattempo predicano la clonazione dell’uomo. Né basta a tranquillizzare, di fronte a tutto questo, la consapevolezza di avere destinato il proprio 5 per mille a una organizzazione di (vera) utilità sociale. Non tutti i milioni vanno a finire direttamente nelle casse degli enti prescelti: il meccanismo infatti prevede una parte proporzionale da distribuire a pioggia a tutti quelli in elenco. E non si tratta di bruscolini» (Gianni Del Vecchio e Stefano Pitrelli, I parassiti del 5 per mille, «L’espresso», 9 dicembre 2010). 3 Questi ci sono stati confermati da un fuoriuscito.

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4 Emblematico il caso di Tiziana Guidi, attivista grillina, che alle ultime regionali campane del 2010 s’è candidata col Movimento 5 Stelle. In campagna elettorale non ha fatto mistero del suo «doppio passaporto»: si dichiara umanista e sokiana allo stesso tempo. «Ho avuto la fortuna di incontrare due grandi Maestri: Silo, fondatore del Movimento umanista, Ikeda, leader della Soka Gakkai. Da entrambi ho ereditato la capacità di credere in grandi e sogni e grandi progetti, e soprattutto di credere nelle infinite potenzialità dell’essere umano» si legge nella breve presentazione sul sito di Beppe Grillo. La doppia cittadinanza però non è servita granché, visto che nella sua circoscrizione (Avellino) è riuscita a racimolare solo 378 voti. Occulto Italia Geografia delle lobby settarie nel nostro Paese Bibliografia AAVV, Damanhur alla rovescia. Testimonianze, testo inedito, Torino 2009. AAVV, Daisaku Ikeda. Profilo, testo interno della Soka Gakkai, 2001. Airaudi, Oberto, La Via Horusiana – Principi, Concetti e Tradizioni della Scuola di Pensiero di Damanhur, Edizioni della Scuola di Meditazione di Damanhur, Torino, anno XXVII damanhuriano.

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Berzano, Luigi, Damanhur popolo e comunità, Editrici ElleDiCi, Torino 1998. Buonaiuto, Aldo, Le mani occulte. Viaggio nel mondo del satanismo, Città Nuova, Roma 2005. Del Boca, Angelo e Giovana, Mario, I figli del sole. Mezzo secolo di nazi-fascismo nel mondo, Feltrinelli, Milano 1965. Di Marzio, Raffaella, Nuove religioni e sette. La psicologia di fronte alle nuove forme di culto, Magi, Roma 2010. Esperide Ananas, I Templi dell’Umanità, Val Ra Damanhur, Torino 2006. Hochswender, Woody, Martin, Greg e Morino, Ted, Il Budda nello specchio. Alla ricerca dell’energia vitale interiore, Esperia Edizioni, Milano 2005. Hubbard, L. Ron, An Introduction to Scientology (dvd), Golden Era Productions, 1966. Hubbard, L. Ron, The Way to Happiness. A common sense guide to better living, Bridge Publications Inc, Los Angeles 1989. Hubbard, L. Ron (basato sulle opere di), What is Scientology?, Bridge Publications Inc, Los Angeles 1998.

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Hubbard, L. Ron (basato sulle opere di), Bambini. Tratto dal Manuale di Scientology, New Era Publications International ApS, Copenhagen 2001. Ibisg (a cura di), Felicità in questo mondo. Un percorso alla scoperta del Buddismo e della Soka Gakkai, Ed. Ibisg, Firenze 2001. Laggia, Alberto (a cura di Gradini, Maria Pia), Il coraggio di parlare, Edizioni Paoline, Milano 2009. Lenoir, Frédéric, Le Bouddhisme en France, Fayard, Parigi 1999. Manconi, Luigi, Un’anima per il Pd. La sinistra e le passioni tristi, Nutrimenti, Roma 2009. Meneghetti, Antonio, L’In sé dell’uomo, Psicologica Editrice, Roma 1981. Meneghetti, Antonio, Campo Semantico, Psicologica Editrice, Roma 1998. Meneghetti, Antonio, Il monitor di deflessione nella psiche umana, Psicologica Editrice, Roma 2003. Meneghetti, Antonio, Cinelogia Ontopsicologica, Psicologica Editrice, Roma 2007. Pezzi, Andrea, Fuori Programma, Bompiani, Milano 2009.

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Pinotti, Ferruccio (in collaborazione con Provera, Emanuela e Mazzali, Amina), Opus Dei segreta – Frusta, cilicio e alta finanza. Per la prima volta parlano i testimoni, Bur Rizzoli, Milano 2008. Pinotti, Ferruccio, La lobby di Dio, Chiarelettere, Milano 2010. Silo, Appunti di Psicologia, humanistmovement.net 2006. Silo, Il messaggio di Silo, Macro Edizioni, Cesena 2008. Soli, Nora, Cronache da una setta. Una storia vera, Giraldi Editore, Bologna 2010. Ringraziamenti Un grazie va a Gianluca Di Feo, per aver creduto in noi. A Lucia Annunziata, per aver creduto in questo libro. Agli esperti e agli psicologi che abbiamo consultato: Maurizio Alessandrini, don Aldo Buonaiuto, Raffaella Di Marzio, Franco Nanni, Luigi Nicolai, Catherine Picard, Simonetta Po, Silvana Radoani, Patrizia Santovecchi, Lorita Tinelli. Ai colleghi che ci hanno dato una mano nella ricerca d’informazioni: Tetsuro Akanegacubo, Tommaso Cerno, Rita Cola, Fabrizio Gatti, Anna Mazzone, Piero Messina, Miguel Mora, Flavio Pelliconi, Luca Poma e tutti gli altri. Agli uomini delle forze dell’ordine: dei Carabinieri del Nas, della Guardia di Finanza e della Polizia, che hanno contribuito a documentare la nostra inchiesta.

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Un grazie, ultimo ma non per importanza, va a tutti i fuoriusciti e i familiari degli adepti che hanno avuto il coraggio di parlare.