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67 Capitolo VI: gli aspetti antropici. IL PAESAGGIO PRIMA DI ROMA Il paesaggio non è soltanto l’insieme di luoghi formati dalla composizione di parti come il rilievo, la vegetazione e l’acqua, che insieme ne costituiscono gli elementi base 1 , ma è soprattutto la testimonianza della presenza umana sul territorio. Quindi i luoghi contengono i segni che l’attività antropica ha impresso sulla natura: tutto il lavoro di modellazione, di trasfor- mazione e di appropriazione effettuato dall’uomo per adattarla ai propri bisogni. L’opera di modifica millenaria, condotta dalle popolazioni che hanno percorso e abitato questa terra, ha avuto bisogno però di una presa di coscienza dell’ambiente e, successivamente, di una forma di rappresentazione visiva e materiale della “cognizione” di natura intesa come precisazione dei luoghi 2 . Fino al momento in cui il luogo non viene codificato, non av- viene un’elaborazione dell’ambiente atta a costituire una trasfor- mazione del paesaggio naturale che conduca alla definizione di 1 Norberg-Schulz C., Genius Loci, paesaggio ambiente architettura. Milano: 1986. 2 Turri E., Il paesaggio come teatro. Venezia: 1998. territorio. E per territorio intendiamo uno spazio all’interno del quale si esplicano i fattori fisici e umani con una loro peculiarità. Il primo operare dell’uomo in uno spazio fisico è quello di ri- conoscere l’ambiente circostante. Il ripetersi poi di gesti primor- diali, come il ritrovare i sentieri, le sorgenti, i luoghi di caccia e i ripari in grotta, andranno man mano a far parte della sua memoria storica. Grazie a questa i gesti diverranno un fatto meccanico e, una volta affrancatosi dai gesti, potrà volgere l’attenzione all’orientamento territoriale, legato peraltro ai miti delle origini 3 , potrà appropriarsi l’ambiente che diverrà territorio e soggetto, po- trà consolidare i riti e le consuetudini, come apportare modifiche al suo paesaggio. LA NATURA, IL POPOLAMENTO E LAGRICOLTURA L’area compresa tra lo spartiacque costituito dai Monti Cimini- Sabatini e la grande ansa del Tevere, nel Pleistocene Inferiore era profondamente diversa dall’attuale, come abbiamo visto nel capi- 3 Guidoni E., Architettura primitiva, Milano: 1979.

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Capitolo VI: gli aspetti antropici.

IL PAESAGGIO PRIMA DI ROMA

Il paesaggio non è soltanto l’insieme di luoghi formati dalla composizione di parti come il rilievo, la vegetazione e l’acqua, che insieme ne costituiscono gli elementi base1, ma è soprattutto la testimonianza della presenza umana sul territorio.

Quindi i luoghi contengono i segni che l’attività antropica ha impresso sulla natura: tutto il lavoro di modellazione, di trasfor-mazione e di appropriazione effettuato dall’uomo per adattarla ai propri bisogni.

L’opera di modifica millenaria, condotta dalle popolazioni che hanno percorso e abitato questa terra, ha avuto bisogno però di una presa di coscienza dell’ambiente e, successivamente, di una forma di rappresentazione visiva e materiale della “cognizione” di natura intesa come precisazione dei luoghi2.

Fino al momento in cui il luogo non viene codificato, non av-viene un’elaborazione dell’ambiente atta a costituire una trasfor-mazione del paesaggio naturale che conduca alla definizione di

1 Norberg-Schulz C., Genius Loci, paesaggio ambiente architettura. Milano: 1986. 2 Turri E., Il paesaggio come teatro. Venezia: 1998.

territorio. E per territorio intendiamo uno spazio all’interno del quale si esplicano i fattori fisici e umani con una loro peculiarità.

Il primo operare dell’uomo in uno spazio fisico è quello di ri-conoscere l’ambiente circostante. Il ripetersi poi di gesti primor-diali, come il ritrovare i sentieri, le sorgenti, i luoghi di caccia e i ripari in grotta, andranno man mano a far parte della sua memoria storica. Grazie a questa i gesti diverranno un fatto meccanico e, una volta affrancatosi dai gesti, potrà volgere l’attenzione all’orientamento territoriale, legato peraltro ai miti delle origini3, potrà appropriarsi l’ambiente che diverrà territorio e soggetto, po-trà consolidare i riti e le consuetudini, come apportare modifiche al suo paesaggio.

LA NATURA, IL POPOLAMENTO E L’AGRICOLTURA

L’area compresa tra lo spartiacque costituito dai Monti Cimini-Sabatini e la grande ansa del Tevere, nel Pleistocene Inferiore era profondamente diversa dall’attuale, come abbiamo visto nel capi-

3 Guidoni E., Architettura primitiva, Milano: 1979.

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tolo II. La definitiva fase di modellazione del territorio per opera dei vulcani era appena iniziata.

Durante la lunga era del Quaternario si sono avuti periodi al-terni di clima freddo (glaciale) e di clima mite (interglaciale) con temperature anche più calde di quelle attuali (postglaciale). Tali variazioni climatiche, associate alle trasformazioni geologiche, hanno condizionato profondamente le caratteristiche naturali della flora e della fauna.

I rinvenimenti di resti fossili annunciati sin dal secolo scorso in alcune zone prossime alla Valle del Tevere, ma anche all’interno della città di Roma, hanno permesso la ricostruzione paleoclima-tica e ambientale della regione4. I resti più antichi indicano, per le caratteristiche della fauna, l’esistenza di un ambiente paleoartico ricco di acque, con la presenza di elefanti (Elephas meridionalis), ippopotami (Hippopotamus major), il rinoceronte etrusco (Dicer-horinus etruscus), cavalli e cervidi.

Le modifiche climatiche, avvenute nel corso del Pleistocene medio, provocarono un innalzamento della temperatura, col risul-tato di una variazione anche delle specie faunistiche. Variazione che avvenne in due fasi: la prima, con clima mite, fu caratterizza-ta dalla presenza di foreste e bacini lacustri abitati da un elevato numero di elefanti (Elephas antiquus e elephas trogontheri), da cervi giganti e da ippopotami; la seconda, dapprima con clima temperato-caldo (60 mila anni fa) e successivamente freddo, ver-so il Pleistocene superiore, si diversificò per un paesaggio di ba-cini lacustri dalle acque profonde e di boschi di caducifoglie con estese radure. Qui, insieme con elefanti e rinoceronti (Dicerhori-nus hemitoechus), convivevano cervi, daini, cani, volpi, leoni, ca-

4 Angelelli F., Le Mammalofaune pleistoceniche dei principali giacimenti della bassa Valle del Tevere, in Il Tevere un’antica via per il Mediterraneo Catalogo della mostra 21 aprile-29 giugno 1986. Roma: 1986.

valli e bovidi (Bos primigenius), come testimonia un giacimento fossile presso Riano Flaminio.

Fu in questa fase, con la cessazione dell’attività vulcanica, che il territorio trovò un proprio equilibrio da un punto di vista geolo-gico. L’abbondanza di selvaggina fu sicuramente sfruttata dai primi abitatori: da quelli insediatisi lungo la costa tirrenica soprat-tutto, ma anche da quelli con sporadici siti lungo il corso del Te-vere.

Il raffreddamento del clima in Italia centrale, intorno a 40 mila anni fa, se da una parte preservò la vita di forme animali come il Mammuthus primigenius, il rinoceronte (Coelodonta antiquitatis) e gli stambecchi, dall’altra fece estinguere animali legati alla fo-resta, o comunque ad ambienti a clima caldo: vedi l’elefante anti-co e l’ippopotamo. La copertura boschiva inoltre si diradò, a tal punto che le aree aperte si ridussero a delle steppe aride e fredde.

Gli animali in cerca di cibo iniziarono migrazioni stagionali lungo percorsi vallivi che dalla pianura tiberina e tirrenica risali-vano verso gli altipiani appenninici. Il nomadismo divenne la ri-sposta dell’uomo alle mutate condizioni ambientali, approntando una serie di basi, lungo i percorsi migratori, che erano delle vere e proprie stazioni di caccia costituite da ripari in grotta5.

L’aumento progressivo della temperatura, intorno ai 12–15 mi-la anni fa, portò alla trasformazione del paesaggio: la prateria si coprì di terreni boscati con specie decidue come querce e noccio-li; la vegetazione prese ad assumere un aspetto del tutto simile a quello odierno.

Con la fine del Tardiglaciale anche la fauna selvatica cambiò fisionomia, diventando simile a quella attuale. Alcune specie,

5 Probabilmente anche le grotte scavate dal Rellini, in prossimità di Civita Ca-stellana e Corchiano, assolvevano a queste funzioni. Incardona A., Le nuove ricerche nelle cavernette e nei ripari dell’Agro Falisco. Atti Soc.Tosc. di Scienze Naturali, 76, (I), 1969.

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d’altronde, sia a causa di leggere modifiche climatiche, sia per la successiva e massiccia azione antropica, modificarono il loro a-reàle di diffusione o si estinsero addirittura.

Nelle zone umide dei laghi, stagni e paludi trovarono un habi-tat ottimale varie specie di uccelli come l’oca grigia, l’oca lom-bardella minore e trampolieri (gru, cicogne, aironi, fenicotteri, cavalieri d’Italia), rapaci come il falco di palude e il falco pesca-tore, mammiferi come la lontra, il castoro e il topolino delle ri-saie.

Nella foresta igrofila con roveri, frassini e olmi potevano nidi-ficare il germano reale e il picchio, e abbondavano cinghiali, cervi e caprioli.

Nelle foreste più fitte e più interne vivevano il gatto selvatico (felis sylvestris) e la lince (lynx lynx); in quelle ad alta quota, oltre al cinghiale e al cervo, erano frequenti i tassi, le martore, le faine, le volpi, i lupi e l’orso bruno (ursus arctos)6.

Nel Neolitico medio le tracce archeologiche confermano la presenza di insediamenti umani lungo la costa Tirrenica e lungo le valli fluviali che in essa sboccano direttamente come quella del Fiora e quella del Mignone7. Tracce di insediamenti sul Tevere sono invece rare8.

Fu una fase questa dove l’economia dei nuclei tribali si mani-festò molto differenziata da località a località. Accanto a gruppi che praticavano ancora ed esclusivamente la caccia (Valle Ottara

6 Caloi L., Palombo M.R., Romei C., La fauna e l’allevamento, in Etruria Me-ridionale conoscenza, conservazione, fruizione. Atti del Convegno di Viterbo 29/30 novembre-1 dicembre 1985. Roma: 1988. 7 Fugazzola Delpino M.A., Le acque interne: appunti di archeologia preistori-ca, in Etruria Meridionale conoscenza, conservazione, fruizione. Atti del Con-vegno di Viterbo 29/30 novembre-1 dicembre 1985. Roma: 1988. 8 Angle M., Guidi A., Petitti P., Zarattini A., La Valle del Tevere in età pre e protostorica, in: Il Tevere un’antica via per il Mediterraneo, catalogo della mostra 21 aprile-29 giugno 1986. Roma: 1986.

nei pressi di Rieti), si trovavano nuclei le cui testimonianze ci in-dicano un precoce sviluppo legato ad attività agricole e di alleva-mento (Pienza)9.

Questa differenziazione si attenuò nel Neolitico medio quando un’economia mista con la compresenza di attività legate all’allevamento, alla pastorizia, all’agricoltura e alla caccia, segnò il primo attestarsi di insediamenti nelle aree interne, in particolare lacustri, come il lago di Bolsena e Monte Venere sul lago di Vico. Qui era più semplice sfruttare tutte le condizioni ambientali di un territorio pianeggiante e ricco di acque10.

La pratica di allevamento del bestiame era ancora relativamen-te primitiva, le forme animali domestiche erano, ad eccezione del cavallo e dell’asino, simili alle odierne: ovini, caprini, bovini e suini. Questi venivano utilizzati soprattutto come fonte proteica ad integrazione della caccia11.

Anche il sistema tecnico-produttivo agricolo fu testimone di una condizione primitiva ma già determinante in un processo di modifica delle strutture del paesaggio. Il sistema di coltivazione a campi liberi (prearatorio), fondato sul debbio, presupponeva an-

9 Potter W.T., Storia del paesaggio…, op. cit.. 10 Fugazzola Delpino M.A., Le acque interne... op.cit. 11 Per importanza spiccano le forme ovicaprine che non sembrano state addo-mesticate in loco ma provengono dall’area asiatica sudoccidentale dove, già dal 10°-9° millennio, era presente questa pratica di allevamento. Nel Lazio la dimensione delle pecore è mediamente più piccola rispetto all’Italia settentrio-nale e comunque, in entrambi i casi, non sembra sia stata introdotta la razza “da carne” di taglia maggiore presente già in Europa dal III millennio. Anche per i bovidi, comparsi in cattività in Tessaglia intorno al 7° millennio, si predi-ligono quelli di taglia più piccola fino all’età del Bronzo. La forma animale probabilmente addomesticata in loco, sia per il difficile trasporto sia perché abbondantemente presente, è stata il suino (sus scrofa). Nelle aree dove preva-leva la pastorizia e quindi dove era più facile trovare delle prede era comune il capovaccaio (neophron percnopterus). Caloi L., Palombo M.R., Romei C., La fauna..., op. cit.

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cora uno spostamento delle comunità, anche se molto limitato. Il debbio, basato su piccoli appezzamenti dagli incerti contorni, prodotti casualmente dall’irregolare allargarsi del fuoco e sui qua-li si interveniva con la vanga o la zappa, era destinato produtti-vamente a durare due o tre anni. La comunità era costretta succes-sivamente a spostamenti continui, anche se limitati. I campi ab-bandonati venivano, dopo alcuni anni, riutilizzati con ulteriori passaggi del fuoco, creando così un’alternanza nel disegno del paesaggio che doveva, anche se in limitate e circoscritte aree, mo-strarsi cosparso di macchie informi al centro dei boschi12.

Fig. 1. Il paesaggio del debbio.

12 Sereni E., Città e campagna nell’Italia preromana, in Studi sulla città anti-ca. Atti del convegno di studi sulla città Etrusca e Italica preromana. Bologna: 1970.

Probabilmente fu in questo momento che nelle comunità si in-nescò il meccanismo di riconoscibilità del luogo e di conseguenza il processo di ri-creazione continua del paesaggio. Ciò non solo a fini produttivi ma anche come presa di possesso del territorio at-traverso la codificazione di percorsi lungo i quali, in breve tempo, si attesteranno siti stabili dotati di proprie caratteristiche urbani-stiche. Iniziava il processo di trasformazione della natura in un paesaggio culturale13. I percorsi di transumanza, battuti dagli ar-menti, divenivano i primi segni stabili nel paesaggio: tali itinerari risalivano le valli fluviali verso l’Appennino allo scopo di evitare i guadi14.

Tale sistema comporterà il passaggio da un regime di nomadi-smo o di transumanza più o meno disordinato, a un regime di al-peggio regolato, che si sviluppava e organizzava ancora più sta-bilmente già nella prima età del Bronzo.

Intorno al XV secolo a.C. la vegetazione che si presentava in pianura consisteva in un esteso manto di sugheri, lecci, roverelle, tigli e aceri; integrato da frassini, ornielli, carpini bianchi e cor-nioli. La pianura tiberina era caratterizzata da pioppi (alba, tremu-la, nigra, italica) salici e ontani con radure e prati di erbe igrofile come graminacee (festuca, avena). Un ambiente particolare dove-va essere quello dei monti Cimini e Sabatini in cui erano svilup-pati castagneti e faggeti con la presenza di frassino, orniello, oli-vastro, alaterno, lentisco, erica, corbezzolo, pruni e peri selvatici, agrifoglio, ginestre, alloro, pungitopo e asparago15.

13 Norberg-Schulz C., Genius Loci, ... op. cit. 14 Cataldi G., La viabilità dell’Alto Lazio dalle origini alla crisi dell’Impero Romano, in Quaderni dell’Istituto di Ricerca Urbanologica e Tecnica della Pianificazione, 4. Roma: 1966-1970. 15 Casoria G., La flora e le risorse agricole, in Etruria Meridionale conoscen-za, conservazione, fruizione. Atti del Convegno di Viterbo 29/30 novembre-1 dicembre 1985. Roma: 1988.

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Con l’intensificarsi dell’allevamento si scoprì la funzione rivi-talizzante del letame animale e questo contribuì gradualmente alla scomparsa del sistema del debbio. Per conseguenza le comunità andarono ad attestarsi in siti relativamente stabili, generalmente su promontori in ottima posizione strategica alla confluenza di due valli fluviali. Gli insediamenti dovevano essere collegati al crinale principale, l’antico percorso di transumanza, tramite un crinale di derivazione16.

Fu questa la fase che in Italia è stata definita appenninica in quanto fondata su un’economia di transumanza specializzata: le comunità divenivano più numerose in pianura e i siti erano colle-gati stagionalmente a percorsi verso gli alpeggi. Lungo questi sentieri probabilmente si trovavano delle stazioni notturne di so-sta. Nelle valli fluviali del Tevere, Cremera, Treia e Rio Fratta, sono stati individuati circa 20 dei suddetti siti. I percorsi dal Te-vere per la Valle del Nera giungevano ai pascoli montani nei pressi di Terni.17 In alcuni casi non tutta la comunità affrontava gli spostamenti stagionali: in pianura esistevano dei siti stabili dove l’attività prevalente era quella agricola e della caccia, in at-tesa del ritorno invernale degli armenti18.

Per quanto nei sistemi di coltivazione fosse ancora presente la tecnica prearatoria (debbio, sistema a campi ed erba), iniziava la sua comparsa, con l’impiego di aratri più o meno rudimentali,

16 Cataldi G., La viabilità dell’Alto Lazio ... op. cit. 17Potter W.T., Storia del paesaggio... op. cit. 18 Gli scavi effettuati a Narce, nei pressi di Calcata, sulla Valle del Treia, po-trebbero confermare questa tesi. Il sito era di carattere permanente dove veniva praticata l’agricoltura (cereali), in minor parte la caccia e la pesca e soprattutto l’allevamento del bestiame: bovini, suini e ovicaprini, di queste forme soltanto i suini erano allevati prevalentemente per la carne mentre i bovini venivano utilizzati per l’aratura e per il letame. La parte maggiore dei resti è attribuita agli ovicaprini, utilizzati, quasi esclusivamente, per la produzione di formaggi e di lana. Ibidem.

l’agricoltura aratoria. Questo sistema però, per tutta la durata del Bronzo, rimase ancora precario, e così i campi il più delle volte venivano abbandonati o sfruttati a pascolo19.

Le caratteristiche del popolamento nel Bronzo medio e finale cambiarono radicalmente. La pressione demografica determinò un più accentuato sfruttamento di tutte le risorse ambientali. Vi fu una diminuzione generale degli ovicaprini, probabilmente a causa dello spostamento definitivo di comunità di pastori verso le zone montane e più interne a seguito della riduzione di aree di pascolo a favore di coltivi. Si registrò invece un incremento nell’allevamento di bovini e suini, come la riduzione (in alcuni casi l’assenza) della pratica della caccia. Un forte sviluppo lo eb-be anche l’agricoltura con un incremento qualitativo e quantitati-vo di graminacee e leguminose20.

Tra la metà del XII e la fine del X secolo a.C., la distribuzione degli insediamenti passava da una localizzazione generalmente in luoghi aperti e in prossimità dei fiumi, a delle posizioni natural-mente fortificate e meglio difese21: i tavolati tufacei, le alture col-linari dei monti Cimini e Sabatini (Monte Sant’Angelo) e le aree pianeggianti in prossimità della costa tirrenica e delle rive lacustri (Bracciano, Martignano e Baccano)22.

La distribuzione territoriale si sviluppava in modo vario, a se-conda dei tipi di paesaggio agrario e delle condizioni ambientali: pianoro tufaceo, collina vulcanica, pianura marina e lacustre, altu-re sul Fiume Tevere. Anche se il modello insediativo non poteva evidentemente essere unico, è possibile trovare delle analogie comuni. In primo luogo gli insediamenti erano frazionati in picco-li abitati, ma soltanto quelli situati sui pianori più grandi, per mo-

19 Sereni E., Città e campagna ... op. cit. 20 Caloi L., Palombo M.R., Romei C., La fauna... op. cit. 21 De Lucia Brolli A.M., L’Agro Falisco. Roma: 1991. 22 Fugazzola Delpino M.A., Le acque interne... op.cit.

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tivi di maggior difesa e controllo strategico del territorio, poteva-no costituire una sorta di centro tribale23, ma senza vere e proprie caratteristiche di egemonia politica.

La caratteristica comune di tutti i centri di questo periodo fu la scelta e la definizione di uno spazio unitario, conchiuso e protetto da recinzioni o difese naturali: tipologia questa segno di una con-dizione sociale diversa che si riflette soprattutto sulla costruzione collettiva dell’opera di difesa.

Ma è al passaggio del I millennio a.C. che si determinava un’ulteriore sconvolgimento nel sistema insediativo e negli equi-libri territoriali dell’Etruria Meridionale. Tale modifica derivava da un aumento consistente della popolazione con una conseguente e diversa utilizzazione del suolo: si adottava il sistema del magge-se biennale (o sistema dei due campi), che iniziava ad allargarsi su territori sempre più vasti, permettendo una produzione control-lata e stabile tramite il riposo annuale di una parte del terreno a-gricolo. Attorno ai siti maggiori si creavano nelle campagne nu-merose aziende rurali in diretta comunicazione con il centro prin-cipale. Da un sistema insediativo polinucleare, dove i siti erano distribuiti senza particolari gerarchie lungo le principali vie di comunicazione naturali, si passava a una concentrazione degli in-sediamenti e a un modello mononucleare verso il quale conver-gono tutte le attività. Tale modello si diffondeva anche oltre il Tevere, in Sabina e nell’area laziale propriamente detta, dove la maggioranza dei siti aveva un’estensione di quattro o cinque etta-ri, più di cento abitanti e il controllo del territorio per una qualche decina di kmq. Tra questi troviamo Torre dell’Isola di due ettari e

23 Di Gennaro F., Il popolamento dell’Etruria Meridionale e le caratteristiche degli insediamenti tra l’età del Bronzo e l’età del Ferro, in Etruria Meridiona-le conoscenza, conservazione, fruizione, Atti del Convegno di Viterbo 29/30 novembre-1 dicembre 1985. Roma: 1988.

Vignale, che con i suoi 13 ettari, è il più vasto sito protovillano-viano tra quelli individuati in Etruria Meridionale24.

A questa fioritura economica corrispondeva anche una suddi-visione etnica di popolazioni che, già dall’età del Ferro, si presen-tavano distinte attorno al Fiume Tevere: Etruschi, Falisci e Cape-nati sulla sponda destra; Latini, Sabini e Umbri più a nord sulla sponda sinistra. Il fiume assunse importanza come via di comuni-cazione per il commercio attraverso l’Italia centrale, con possibi-lità di diramazioni laterali, grazie ai suoi affluenti, sia verso l’entroterra che verso il nord25. Anche il sistema di insediamento lungo la grande ansa fluviale tiberina testimonia un’occupazione più complessa con siti distribuiti in modo regolare e che rispetta-vano una “gerarchia” tra centri protourbani, villaggi medi e abitati modesti.26 A differenza del periodo precedente, dove i siti si tro-vavano sul fondovalle e sulle prime colline prospicienti il fiume in posizione avanzata, traendo da esso tutti i vantaggi, in questa fase la concentrazione protourbana degli insediamenti costrinse a un arretramento delle postazioni fluviali: l’esplosione demografi-ca e agricola richiedeva terre estese e bene asciutte. Sul fiume re-stavano le posizioni di controllo agli approdi e ai guadi, in comu-nicazione diretta con il centro principale27. Il fiume, a seguito del

24 Ibidem. 25 De Lucia Brolli A.M., Il territorio sulla sponda destra del Tevere dall’età del ferro all’epoca romana, in: Il Tevere un’antica via per il Mediterraneo. Catalogo della mostra 21 aprile-29 giugno 1986. Roma: 1986. 26 Angle M., Guidi A., Petitti P., Zarattini A., La Valle del Tevere... op. cit. 27 Non a caso le maggiori città della regione tiberina (Veio, Capena, Falerii, Ferento, Orvieto) sorgono ad una certa distanza dal fiume, in posizioni baricen-triche di estesi territori e che guardano al Tevere come confine. Colonna G., Il Tevere e gli Etruschi, in Quaderni del Centro di Studio per l’Archeologia E-trusco-Italica, 12, 1986. Quilici Gigli S., Scali e traghetti sul Tevere in epoca arcaica, in Quaderni del Centro di Studio per l’Archeologia Etrusco-Italica, 12, 1986.

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processo di appropriazione territoriale, diventava quindi un segno naturale riconosciuto come limite, ma anche come delimitazione di uno spazio paesaggistico, dove termina un luogo e inizia un percorso.

Nella regione il periodo villanoviano vide la nascita dei grandi insediamenti urbani che occupavano superfici anche superiori ai cento ettari e controllavano territori di mille-duemila kmq.28. Nell’area falisca si individuavano due tipologie territoriali distin-te: una tipicamente villanoviana facente capo a Veio, l’altra se-guiva invece una continuità insediativa individuata nell’area di Falerii.

Veio controllava un territorio dove gli abitati, esclusivamente agricoli (circa 100 identificati), erano distribuiti in modo radio-centrico verso il nucleo principale e non presentavano traccia di fortificazioni. Si suppone quindi un sistema dove la popolazione viveva in insediamenti unifamiliari sparsi sui propri campi, mo-dello questo ripreso, come vedremo, dai romani.

Questo fenomeno, tipico dei centri etruschi, non sembrò verifi-carsi per l’area falisca, laddove si assistette a un continuum di frequentazione dei siti fortificati del Bronzo finale anche nel vil-lanoviano. Pur essendo Falerii la capitale riconosciuta, il territorio era comunque occupato da numerose città e villaggi: Nepi, Sutri, Corchiano, Gallese e altre comunità minori come Grotta Porciosa (nei pressi di Borghetto), Ponte del Ponte (a nord-ovest di Cor-chiano) e Torre dell’Isola (a nord di Nepi). Tutti insediamenti si-tuati in posizioni strategiche e rinserrati all’interno di fortificazio-ni29.

28 Di Gennaro F., Il popolamento dell’Etruria Meridionale ... op. cit. 29 Ward-Perkins J.B., Città e pagus: considerazioni sull’organizzazione primi-tiva della città nell’Italia centrale, in Studi sulla città antica. Atti del convegno di studi sulla città Etrusca e Italica preromana. Bologna: 1970.

L’espansione demografica e l’allargamento delle superfici col-tivate furono rese possibili dalla diffusione ormai in tutta l’Etruria del sistema dei due campi, testimoniato dal prevalere dei cereali superiori (frumento) su quelli inferiori (farro e miglio utilizzati nel sistema del debbio).

La trasformazione del paesaggio tramite la modifica delle strutture territoriali e tecnico-produttive sarebbe divenuta inarre-stabile già dall’VIII secolo a.C. a seguito dei progressi del mag-gese biennale. Il disegno del paesaggio agrario, dapprima una tes-situra a chiazze non nettamente delimitate da pascoli, radure e ce-spuglieti secondo il sistema a campi liberi, veniva ridelineato dal lavoro dell’aratro e dal maggese biennale (Fig. 2). Aratro e mag-gese impressero una tessitura ortogonale determinata dai percorsi rettilinei del vomere e sottolineata, più tardi, dalle prime piantate (vite nel VII-VI secolo e olivo nel VI). Queste forme, associate alle opere di irrigazione e drenaggio e con la viabilità interpodera-le, avrebbero in seguito costituito le fondamentali unità metriche di delimitazione del terreno connesse anche a scelte urbanistiche e codificate dai romani30.

Lo sviluppo dell’agricoltura introdusse l’uso di sistemi di dre-naggio delle acque meteoriche. Nell’Agro Falisco il sistema era costituito di cunicoli, veri e propri condotti orizzontali scavati nel tufo con fondo piatto e tetto concavo, dalle dimensioni sufficienti per accogliere un uomo per lo scavo e per la manutenzione. I cu-

30 “È così, ad esempio, che l’heredium è unità paesaggistica (e proprietaria) a struttura ortogonale (più particolarmente, anzi quadrata), risultante dalla giu-stapposizione di due campi (destinati, alternativamente, alla coltura e al ripo-so), ciascuno dei quali ha le dimensioni di un jugerum: di un rettangolo, cioè, due volte più lungo che largo (1 x 2 actus), la cui metrica è pertanto sempre riferibile alla lunghezza del solco, che un paio di buoi è capace di tracciare d’un sol tratto. Un quadrato di 20 x 20 actus, del pari, è quello che esprime la struttura e la metrica della centuria, l’unità di colonizzazione romana...” Sereni E., Città e campagna ... op. cit.

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nicoli, collegati con l’esterno da un sistema di pozzi verticali di-stanti tra loro 30 metri circa, venivano tracciati in modo da con-vogliare dagli avvallamenti sui pianori verso le forre le acque me-teoriche31 (Fig. 3).

Fig. 2. Il pasaggio dell’aratro e del maggese biennale.

In età orientalizzante e arcaica, attraverso pratiche selettive e

più orientate, si introdussero nell’allevamento animali da cortile quali i columbidi, i fasanidi, gli anatidi (mancavano i leporidi), come animali importati dall’oriente quali il cavallo, il gallo e il gatto).32 I bovini avevano una mole notevole e grandi corna, a det-

31 Casoria G., La flora e le risorse ... op. cit. Cascianelli M., Gli Etruschi e le acque. Roma: 1991. 32 Azzaroli A., Il cavallo domestico in Italia dall’Età del Bronzo agli Etruschi, in Studi Etruschi, vol.XV, (serie II). Firenze: 1972.

ta anche di fonti latine laddove vengono menzionate le bianche giovenche della regione falisca33, indizio questo dell’uso di una pratica selettiva. Sempre nello stesso periodo ebbero un sensibile incremento i suini, mentre l’allevamento degli ovicaprini subì un calo, ciò anche se l’attività casearia non smise di essere conside-revole34.

Fig. 3. I cunicoli di drenaggio delle acque.

Un elemento particolare del paesaggio agrario dell’Etruria fu

la diffusione della coltivazione della vite, allevata su lunghi tralci che si appoggiavano a dei sostegni vivi. Si trattava di un sistema diverso da quello ad alberello basso o a palo secco utilizzato nella Magna Grecia. Il primo sistema di coltivazione evitava il contatto dei tralci con i terreni umidi e permetteva una coltura promiscua con i cereali. Esso altresì, con la vite maritata a sostegni vivi quali olmi, aceri, querce e pioppi, introdusse ulteriori segni lineari nel paesaggio35 (Fig. 4).

33 “... Ducuntur niveae, populo plaudente, iuvencae, quas aluit campis herba falisca suis ...” , Ovidio, Amores III 13, 13. 34 Caloi L., Palombo M.R., Romei C., La fauna... op. cit. 35 Sereni E., Storia del paesaggio agrario italiano, Bari: 1979.

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Fig. 4. Vite maritata a sostegno vivo nei pressi di Orte. Fig. 5. “Le bianche giovenche”.

Poco si conosce dell’organizzazione agricola praticata dalle popolazioni su questi territori. È plausibile un parallelo con le no-tizie che ci provengono sull’organizzazione Etrusca tramite gli autori latini. La terra doveva essere coltivata sia da lavoratori se-miliberi che da piccoli proprietari e contadini liberi. Grazie a que-ste forme di conduzione le coltivazioni furono incrementate, ma l’avvento della grande proprietà terriera e l’istituto della schiavi-tù, spinto alle estreme conseguenze, ne decretarono una forte fles-sione.

Lo sviluppo e la selezione delle varietà vegetali portò a una di-screta molteplicità di produzioni. La coltivazione dei cereali era abbastanza sviluppata, anche se non raggiungeva i nove quintali per ettaro. Le specie e le varietà erano il farro, la spelta, il grano tenero, l’orzo, l’avena, il panico, il miglio e la segale. A Falerii e a Tarquinia era fiorente la coltivazione del lino. Per la frutta tro-viamo il melo, il pero, il fico e il melograno; tra gli ortaggi le fa-ve, i piselli, la veccia, le lenticchie, i ceci, i lupini, la cicerchia, le cipolle, l’aglio, le carote, le rape, i cavoli e i finocchi36.

Fin verso il IV secolo a.C. continuò l’aumento demografico, come l’espansione delle terre coltivabili e la formazione di nume-rosi altri siti dispersi nella campagna. A tutto ciò si sarebbe asso-ciata un’imponente espansione commerciale con la creazione di porti e guadi sul Tevere e con la fioritura culturale ed economica sia di Falerii che di altri centri più settentrionali come Corchiano e Vignanello37. A questo processo si accompagnò la contempora-nea fortificazione dei centri maggiori in conseguenza dell’espansionismo di Roma. Questa già nel 435-416 a.C. aveva

36 Casoria G., La flora e le risorse ... op. cit.. 37 Secondo il Potter i siti dal VI secolo al IV passano, nell’Agro Falisco, da 72 a 104 anche se vi è una tendenza all’agglomerarsi nei dintorni dei centri prin-cipali e l’abbandono di quelli più marginali e più vulnerabili. Potter W.T., Sto-ria del paesaggio ... op. cit.

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conquistato Fidene. Ciò avrebbe favorito tra il 402 e il 395 l’alleanza tra falisci, capenati e veienti in funzione antiromana. Dopo alterne vicende e una serie di guerre, Roma nel 241 a.C. a-vrebbe conquistato definitivamente il territorio falisco.

LA CITTÀ

Tra la metà del XII secolo a.C. e la fine del X, si consolidò la tendenza già in atto di formazione dei nuclei urbani con lo sfrut-tamento delle eccezionali condizioni morfologiche del territorio.

I siti prescelti si collocavano sulla sommità di pianori tufacei, alla confluenza di due corsi d’acqua, generalmente perenni, dove le pareti dell’altura erano più ripide e inaccessibili.

È stupefacente come gli insediamenti si adattavano armonio-samente alle caratteristiche geomorfologiche. L’arroccarsi in cima agli speroni tufacei, protesi verso le valli sottostanti, significava aver raggiunto una profonda coscienza dell’ambiente circostante, tanto da riprodurre anche negli insediamenti le caratteristiche del paesaggio (la forma a fuso/pianoro, il vallum/forra, le fortifica-zioni/parete, le sepolture rupestri/grotte).

La particolarità fondamentale nella città fu la concentrazione-recinzione e il collegamento interno-esterno tramite la porta prin-cipale attraverso la quale si materializzava l’asse longitudinale del crinale. E fu sul rapporto centro-asse che si articolarono tutti gli insediamenti del territorio38.

L’asse longitudinale era generatore di tutta l’area urbana e su di esso, in perpendicolare, dovevano attestarsi gli isolati. Il peri-metro, già difeso naturalmente, veniva rafforzato con muri in ope-ra quadrata, mentre nel lato meno protetto (in corrispondenza del passaggio interno-esterno) veniva collegato con il pianoro. Veni- 38 Norberg-Schulz C., Genius Loci, ... op. cit.

vano inoltre scavati profondi fossati artificiali anch’essi rafforzati da mura. L’acropoli, dove erano presenti le più antiche tracce di insediamento, appariva di solito isolata e collegata con ponti o i-stmi. Le necropoli, di varia fattura, erano disposte ad anello intor-no alla città39.

Falerii costituiva un ottimo esempio di questa tipologia inse-diativa. Il nucleo più antico appariva quello collegato con una via istmica sul pianoro di Vignale (le prime tracce risalgono al Bron-zo finale40) dove si sarebbe costituita l’acropoli. In seguito l’abitato si sarebbe spostato sull’altopiano di Civita Castellana (VIII-VII secolo a.C.).

L’abitato di Falerii, con una superficie di circa 30 ettari, era posizionato strategicamente sul territorio e collegato al pianoro verso occidente. Tale collegamento era interrotto dal fossato arti-ficiale che ancora oggi si può notare sotto la rocca Borgiana41. Al-tre strutture di difesa, realizzate intorno al V secolo a.C., proba-bilmente con l’inizio delle ostilità nei confronti di Roma, erano i tratti di mura in opera quadrata in tufo42 creati a rafforzare il pe-rimetro urbano nei punti più deboli o comunque meno livellati. Le necropoli erano disposte tutte intorno all’abitato al quale erano collegate tramite strade e tagliate viarie (Fig.6).

39 Schmiedt G., Il contributo della fotografia aerea alla ricostruzione dell’urbanistica della città italica ed Etrusca preromana, in Studi sulla città antica. Atti del convegno di studi sulla città Etrusca e Italica preromana. Bolo-gna: 1970. 40 Di Gennaro F., Il popolamento dell’Etruria Meridionale ... op. cit. 41 Moscati P., Nuove ricerche su Falerii Veteres, in La Civiltà del Falisci. Atti del XV Convegno di Studi Etruschi e Italici, Civita Castellana 28-31 maggio 1987. Firenze: 1990. 42 De Lucia Brolli A.M., L’Agro... op. cit.

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Fig. 6. L’abitato di Falerii Veteres

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LA VIABILITÀ PREROMANA COME ESPERIENZA PAESAGGISTICA

I primi percorsi sul territorio erano delineati dalla necessità dei cacciatori di seguire stagionalmente i branchi di animali selvatici nei loro spostamenti dalla pianura pliocenica verso le alture dell’Appennino. Tali movimenti, non ancora codificati e quindi non derivanti da tracciati permanenti nel paesaggio, dovevano es-sere orientati da punti di riferimento territoriali che costituivano una delle categorie di segni principali nella percezione dell’ambiente.

Gli elementi primari d’orientamento erano (ma lo sono tuttora) costituiti dai rilievi orografici come il monte Soratte, la catena appenninica e le alture vulcaniche dei Cimini e dei Sabatini. Le loro presenze determinavano stati attenzionali sia visivi che psi-cologici, ciò in quanto confini visivi del plateau vulcanico e, spesso, mete dei percorsi. E furono proprio gli elementi percettivi tutt’intorno che consentirono ai primi abitanti di stabilire una po-sizione e una direzione in un’area dove i segni naturali (torrenti, boschi, forre) non avevano ancora assunto una propria differen-ziazione visiva nel tessuto del paesaggio. Gli elementi naturali di-vennero a loro volta punti di riferimento, e non più sfondo soltan-to, nel momento in cui, grazie a un processo di modifica del terri-torio, presero a emergere come figure. In tal modo assunsero un valore simbolico comune a una cultura e a una popolazione.

Fu proprio con la pratica della transumanza che la migrazione stagionale si perfezionò. Piste che percorrevano le valli fluviali del Treia e del Rio Fratta, risalendo il Tevere fino alla confluenza del Nera, permettevano di raggiungere i pascoli estivi dei monti Sibillini, del Velino e del Gran Sasso43. Con molta probabilità i

43 Potter W.T., Storia del paesaggio... op. cit.

sentieri sfruttavano le condizioni orografiche adattandosi ai crina-li. Ciò per evitare, ove possibile, i guadi fluviali (Fig.7).

Con l’aumento demografico e lo stabilizzarsi degli insedia-menti, fu organizzata una fitta rete di percorsi, anche se limitati, per congiungere gli abitati con le fertili campagne circostanti. I percorsi più lunghi che collegavano i siti principali seguivano prevalentemente i fondovalle. Quello della Valle del Treia con-giungeva al Tevere i maggiori centri falisci di Narce e di Falerii. C’è da dire che gli itinerari di allora erano facilitati da un clima più asciutto dell’attuale. La scarsità di alluvioni fluviali rendeva la percorrenza più sicura per quasi tutto l’anno44.

Fig. 7. Le piste di transumanza (da Potter) 44 Fugazzola Delpino M.A., Le acque interne... op.cit.

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Seguire un percorso di fondovalle significava stare al di sotto del mondo circostante: la percezione tutt’intorno era fortemente condizionata dal limitato campo di visibilità, chiuso su ogni lato dalle pareti tufacee erose dal meandro fluviale. Il cambio di livel-lo, tra la sommità dei pianori e il fondo della forra, suscitava una sensazione di intimità e di protezione. Si creava una sorta di per-corso protetto in stretto rapporto con gli elementi naturali: acqua, luce e vegetazione. Il verso di scorrimento del fiume assumeva valore di direzione in un luogo che, per le sue caratteristiche (as-senza di orizzonte e di riferimenti territoriali), poteva indurre a un senso di disorientamento (Fig.8).

Le modifiche del clima, in senso più umido, verificatesi dal XVII fino all’VIII-VII sec. a.C., portarono all’innalzamento del livello delle acque45 e quindi alla necessaria realizzazione di stra-de alternative ai fondovalle.

Fig. 8. Percorso di fondovalle.

45 Ibidem.

La costituzione di sistemi territoriali basati sui crinali, con le città situate alle testate dei promontori e collegate direttamente con i guadi fluviali, portava all’utilizzo sia di quei percorsi che stavano alla sommità degli altopiani tufacei, sia del grande per-corso di crinale della Via Flaminia. Quest’ultimo costituiva il col-legamento con il guado fluviale di Fidene. L’utilizzo dei percorsi di crinale consentiva di congiungere i crateri vulcanici con la Val-le del Tevere per via delle strette lingue tufacee delimitate dai fiumi e perciò senza bisogno di guado. Il tutto creava una nuova direzionalità antipeninsulare46. Tali direzioni, adeguate al sistema orografico, sarebbero state funzionali ai nuovi contatti tra il Tir-reno e il centro della penisola, basandosi sulla grande via di co-municazione naturale costituita dalla Valle Tiberina.

L’uso dei percorsi di crinale rappresentò anche il raggiungi-mento di un completo controllo del territorio: percorrere il crinale voleva dire essere al di sopra, il cambio di livello dava una sensa-zione di superiorità e dominio anche se non di protezione. Percet-tivamente la linea dell’orizzonte era più bassa dell’osservatore e il campo visivo lungo permetteva di avere la sicurezza dei riferi-menti territoriali (Fig. 9).

A partire dal VII secolo a.C. l’enorme sviluppo dei commerci e l’aumento proporzionale dei trasporti su ruote condussero a una modifica radicale del sistema delle comunicazioni. Ciò consentì il collegamento tra centri di testata con i rispettivi antipolari dei versanti opposti.

L’esigenza di percorsi più veloci e agevoli, richiesta dagli im-mensi mercati che coinvolgevano i centri sulla costa tirrenica con quelli tiberini, sviluppò nuove capacità ingegneristiche applicate alla costruzione delle strade.

La necessità di contatti commerciali e politici fra i maggiori centri dell’Etruria pose il problema dell’attraversamento di un ter- 46 Cataldi G., La viabilità dell’Alto Lazio... op. cit.

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ritorio “difficile” dal punto di vista morfologico, quale era quello falisco. I lunghi percorsi di scavalcamento si servirono perciò si-stematicamente di tagliate viarie (vie cave) e di ponti, per realiz-zare l’opera di saldatura tra i percorsi di crinale e di fondovalle. Fig. 9. Percorso di crinale.

La tagliata era il sistema più economico per mantenere un per-corso viario a una quota costante quando si trovava ad affrontare una depressione del suolo. Nei pressi del percorso romano della Via Amerina se ne trovano vari esempi: l’area denominata i Ca-voni a sud di Nepi, la Via Cava di Fantibassi a circa tre km ad o-vest di Civita Castellana, le vie cave di sant’Egidio e della Canna-ra nei pressi di Corchiano47.

47 Per una descrizione esauriente e dettagliata del sistema costruttivo delle vie cave nel territorio falisco: Quilici L., La cava buia di Fantibassi e le vie cave

La caratteristica delle strade cave era quella di avere un anda-mento più o meno curvilineo, al fine di mantenere durante il per-corso pendenze costanti che oscillavano a seconda delle vie dal-l'11 al 18%. Un andamento rettilineo, infatti, avrebbe comportato un’eccessiva inclinazione della sede stradale Tale sistema, nel ca-so della Fantibassi, permetteva di affrontare un dislivello del ter-reno dai 30 ai 40 metri circa, tra la sommità del pianoro e il fon-dovalle, con una lunghezza in trincea di 190 metri. Le tagliate viarie generalmente avevano una sezione a bottiglia che consenti-va di riparare la sede stradale anche per mezzo di canali di scolo delle acque ricavati sulle pareti. La larghezza variava da due a tre metri e mezzo e la pavimentazione presentava solitamente dei si-stemi di smaltimento dalle acque piovane (canalette laterali o cen-trali, marciapiedi).

Le vie cave sono testimoni ancora oggi della coscienza territo-riale raggiunta dalle popolazioni preromane attraverso il concetto di ri-creazione del paesaggio, le cui necessarie trasformazioni comportavano il dover fare i conti dapprima con le sfavorevoli condizioni del territorio. Tra le tipologie stradali preromane la ta-gliata era quella che in maggior misura suscitava delle sensazioni legate al cinetismo dell’osservatore. Avendo in primo luogo la funzione di tramite fra due livelli (altipiano-forra), la tagliata co-stituiva il passaggio tra l’ombra della forra e la luce del pianoro. Chi percorreva la tagliata viaria stava "al di dentro" del masso tu-faceo e gli aspetti percettivi erano condizionati da un campo visi-vo corto e poco illuminato. Le sensazioni di mistero lungo il per-corso e di sorpresa alla fine dello stesso, costituivano una delle più interessanti esperienze psico-percettive che il territorio pre-romano poteva offrire (Fig.10).

del territorio falisco, in: La Civiltà dei Falisci, atti del XV convegno di Studi Etruschi e Italici, Civita Castellana 28-31 maggio 1987. Firenze: 1990.

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Fig. 10. La tagliata

Fig. 11. Percorso di fondovalle sul Rio Maggiore. Fig. 12. Schema dei percorsi.