Friedrich Nietzsche - La Gaia Scienza

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LA GAIA SCIENZA 1882 Io abito in una casa tutta mia mai nessuno in qualcosa ho imitato e — sempre ho burlato ogni maestro che se stesso in burletta non mettesse Sulla mia porta di casa Per il poeta e il saggio, tutte le cose sono amiche e benedette, tutte le esperienze utili, tutti i giorni sacri, tutti gli uomini divini. EMERSON

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La gaia scienza (in tedesco Die fröhliche Wissenschaft) è un libro scritto da Friedrich Nietzsche.È un'opera che occupa una posizione mediana nella produzione filosofica di Nietzsche, fu scritto dopo Aurora e prima di Così parlò Zarathustra. Viene generalmente ritenuto un libro cerniera, quello che segna il passaggio dal cosiddetto Nietzsche positivista (o della fase dello spirito libero) all'ultima fase del suo pensiero.Fu pubblicato per la prima volta nel 1882 e successivamente riproposto con aggiunte in una seconda edizione[1] (con il sottotitolo «la gaya scienza») nel 1887.Ancora nel 1888 Nietzsche indicava i suoi "libri di mezzo", Aurora e La gaia scienza, come le sue opere più personali e quelle che gli erano più "simpatiche".

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LA GAIA SCIENZA 1882

Io abito in una casa tutta mia né mai nessuno in qualcosa ho imitato

e — sempre ho burlato ogni maestro che se stesso in burletta non mettesse

Sulla mia porta di casa

Per il poeta e il saggio, tutte le cose sono amiche e benedette, tutte le esperienze utili,

tutti i giorni sacri, tutti gli uomini divini.

EMERSON

Traduzione condotta sull'originale tedesco «Die fròhliche Wissenschaft» in Nietzsche Werke, Kritische Gesamtausgabe, Herausgegeben von Giorgio Colli und Mazzino Montinari, Walter de Gruyter, Berlin - New York, 1973. Traduzione di Francesca Ricci

L'aporia dell'apparenza e la domanda sulla possibilità

Qui stai tu, inesorabile come la mia curiosità, che mi ha spinto a venire da te: ebbene, Sfinge, io

sono uno che domanda, come te: questo abisso l'abbiamo in comune — forse potremo parlare

con una sola bocca?

F.NIETZSCHE, 1881

1. Un rapido commento al frammento posto in esergo è forse utile preli­minare al sentiero problematico che si vorrebbe tentare nel pensiero di Nietzsche quale è visibile dalla Gaia scienza. La tensione «abissale» dell'a­forisma nietzscheano è qui al massimo: fino al conclusivo ritorcersi in enigmatica domanda, a sboccare nella inquieta identità di domanda ed enigma. Il frammento si configura come un aforisma sulla «sfida divina»1

dell'enigma che con tracotanza, iiber-mutig, si rovescia esso stesso in enig­ma. La freccia della parola aforistica si scaglia qui nell'abisso della do­manda, interrogandola. L'inabissamento della Sfinge è allora lo spalancar­si del problema (l'ostacolo — quanto, gettato, si erge dinanzi) a colui che si presenta domandando («wohlan, Sphinx, ich bin ein Fragender, gleich dir»). Il problema che originariamente appare nella forma dell'enigma2 è quanto getta in «aporia» («mettere in aporia» è termine ricorrente nei Dia­loghi platonici per indicare, da parte dei suoi accusatori, l'opera perniciosa di Socrate), in angoscia dinanzi all' invalicabilità di un ostacolo, all'imper­corribilità di un luogo.

La domanda che qui «risponde» all'enigma non scioglie certo l'aporia — non scorge la via che supera l'angoscia, ma s'inabissa in esso. Sfonda il Grund del problema, quanto rende impenetrabile l'enigma — mantenendo aperta la bocca che lo formula. Lo sfidato dal Dio, l'interrogato, si tra­sforma in ein Fragender che si fa uno con la bocca della Sfinge. È questa attiva identificazione che costringe l'aporia a dischiudersi in Ab-grund, nel comune abisso. Se, dunque, di dialettica si può e si deve parlare quanto al metodo e alla fenomenologia del pensiero nietzscheano*, ciò non può certo avvenire in senso socratico-platonico. La dialettica «per aforismi» di Nietzsche non districa dall'aporia, non risolve l'enigma. È quest'ultimo, anzi, che «apre» ogni possibile dire e contraddire, rimanendo irrisolto dal gioco della contraddizione che anima la dialettica distruttiva del logos. La «mossa» di Nietzsche per non rimanere bloccato nell'aporia è dunque, in questo frammento, di carattere mimetico negativo: riconoscere l'apparte­nenza tf/Z'Ab-grund, cui condanna la Sfinge con il suo enigma, per rivelare l'abisso come bocca che pronunzia domande e con tale bocca identificarsi. Almeno in questo caso, allora, non si tratta di una dialettica puramente «affermativa»* né certo, com 'è ovvio, di una dialettica negativo-sintetica. È proprio infatti di una dialettica puramente affermativa (e quindi opposi-

1 Si veda G. Colli, La nascita delia filosofia, Milano 19803, pp. 49-57. Tanto che, come nota Colli, «il verbo probàllein, che nel V secolo significa "proporre un

enigma", viene usato da Platone alternativamente nel senso enigmatico (...) e nel senso dialet­tico, testimoniando un'unità di fondo tra le due sfere: talora significa ancora "proporre un enigma" e talora invece "proporre una domanda dialettica"». (Colli, op. cit., p. 79.)

3 Cfr. per questo i volumi di F. Masini, Lo scriba del caos, Bologna, 1978 e di S. Natoli, Ermeneutica e genealogia, Milano 1981.

4 Cfr. S. Natoli, op. cit, p. 47.

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tiva, ma nel senso di un contrastarsi di differenze), intesa come compresen­za-affermazione di una «gremita» positività, l'aver cancellato da sé ogni porosità, l'aver espunto, nel suo carattere «saturo», il Nulla. Ovvero l'a­verlo radicalmente relativizzato alla negazione annullante con cui l' «affer­mazione dell'affermazione» di un positivo, nell'«alterco delle differenze»5

in cui unicamente si configura la dialettica, distrugge un altro positivo. Ma perché questo sia possibile è necessario che il Nulla sia tenuto-fermo, «ac­quietato» nella negazione annientante; bisogna cioè postulare la necessità-eternità del gioco-conflitto delle differenze6 come un Che di non ulterior­mente interrogabile. L'unità come «unità delle differenze», pura «relazio­ne delle differenze tra loro», che è all'origine della dialettica del tragico nietzscheana, in tale prospettiva sopporta solo di essere affermata, ma ciò che sopporta l'affermazione necessita pure di essa: non sta in sé fermo. E già da questo «non» si alimenta la domanda che rende inferma l'afferma­zione del postulato. Tutto questo per dire che la domanda sul Nulla è ine­ludibile — in quanto possibile — quando si giunge all'affermazione del Mondo. E giusto in proposito sostenere che l'affermazione è insieme «esposizione al nulla»1. Il problema ulteriore è se tale «esposizione al nul­la» non interroghi la stessa dimensione del tragico e non problematizzi la considerazione della sua dialettica: non la inquieti cioè radicalmente nell'e­nigma che attraversa interrogando quanto origina la sua possibilità: l'eter­nità del gioco delle differenze. E se il presentarsi della domanda sradicante è certo il suo affermarsi, questa però è anche l'affermazione che nega ogni altra affermazione. È la mimesi di una negazione. Allora è inevitabile che tale domanda restituisca porosità, pro-duca il vuoto nello stesso movimen­to conflittuale delle differenze. Abbreviando assai il corso di questi pensie­ri, si può dire che la domanda sul nulla è quanto spalanca abissi, produce scarti nella dialettica delle differenze.

La «porosità» della dialettica «tragica» costituisce così la sua aporia, il «luogo» da cui non può sfuggire. In tal senso la dialettica nietzscheana re­sta immanente all'aporia in cui getta l'enigma del mondo. Quanto può, è solo negare l'estraneità a sé dell'enigma stesso — riconoscere di appartene­re all'Ab-grund che dischiude, rivelandolo come bocca interrogante in cui mimeticamente s'identifica. Tenere aperto l'abisso del domandare è dun­que la «mossa» dialettica con cui il pensiero di Nietzsche risponde al pro­blema posto dell'affermarsi delle differenti volontà di potenza.

Con queste premesse acquistano forse una maggiore pregnanza filosofi­co-concettuale le parole di Gottfried Benn per il cinquantenario della mor­te di Nietzsche: «far scintillare le superici di frattura senza riguardo ai ri­schi e ai risultati — questa era la sua vita»6. Interrogare il testo di Nietz­sche riguardo alle sue aporie può dunque rivelarsi più consono al suo «pen­siero» che svilupparne liberamente le implicite dimensioni teoriche9. E, si intende qui mostrare, luogo aporetico per eccellenza nella mappa dei «con-

5 Ivi, p. 49. 6 Cfr. ivi, p. 52. 7 Ivi, p. 81. 8 G. Benn, Saggi, tr. it. di L. Zagari, Milano 1963, p. 207. 9 L'enucleazione delle aporie del pensiero nietzscheano è stato il metodo di approccio pro­

prio di K. Lowith, la cui strategia interpretativa — dal Nietzsche Philosophie der ewigen Wiederkunft des Gleichen, Berlin, 1935 al saggio «Friedrich Nietzsche, nach sechzig Jahren», in K.L., Gesammelte Abhandlungen, Stuttgart, 1969, pp. 127-151 è stata troppo spesso assi­milata a quella heideggeriana, rispetto alla quale denoterebbe solo una minore coerenza di sviluppi.

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cetti» nietzscheani è lo Schein, la sfera dell'apparenza (sulla dimensione circolare-speculativa dell'apparire torneremo più avanti). Rivelandosi co­me aporetico, lo Schein è quanto interrompe infinitamente la circolarità tra Volontà di Potenza ed Eterno Ritorno dell'Uguale. E in nessuna altra opera nietzscheana è possibile rilevare questo, come nella Gaia scienza, do­ve i maggiori pensieri — e soprattutto il «più abissale» — dell'ultimo Nietzsche (quello che dallo Zarathustra va ai cosiddetti biglietti della follia, che si debbono considerare come i suoi ultima verba10^ possono esser colti nel loro momento sorgivo.

2. Nella Gaia scienza trova «conclusione»11 il processo di Aufklàrung ni­chilistica iniziato con Umano, troppo umano. Al termine di tale processo resta solo «der freie Geist und das Nichts»12. La solitudine dei due termini giunge a forma in quest 'opera. Una «felice» forma: la misura e l'equilibrio «apollinei»13 in cui viene ad esprimersi l'estrema Aufklàrung nietzscheana respingono una lettura di questi aforismi in termini di semplice «passag­gio» ad altro. Solo ad un orecchio non viziato dallo storicismo — sia pur quello sottile, ma sempre perverso, indotto dall'impazienza di giungere alle note finali del pensiero di Nietzsche — è percepibile l'ebbra misura della «convalescenza» che tale testo compone: l'autonoma temporalità che lo in-tenziona. In queste pagine più che in altre è visibile quel «tremblement lé-ger» che per Henri Focillon distingue lo «stile classico»: la forma che in­quietamente si trattiene presso di sé, quell'inquietudine nell'indugio del­l'appagamento che mostra ogni giungere a perfezione, ogni saper «trovare in modo perfetto la fine»14. È la Stimmung testuale che Burckhardt colse con precisione in una lettera a Nietzsche: «...tre giorni fa mi è giunta la Sua Gaia scienza, e può immaginare in quale nuova meraviglia mi ha tra­sportato quel libro. Innanzitutto, gli insoliti, sereni accenti goethiani nelle rime, che da Lei giungono così inattesi: e poi, tutto il libro, e alla fine il "Sanctus Januarius"! Mi sbaglio o quest'ultima parte è un monumento tut­to speciale che Ella ha innalzato ad uno degli ultimi inverni nel sud? Vi si respira appunto una sola atmosfera»15. L'atmosfera di una inattesa sereni­tà, di una «sovrana, lievissima sospensione»16 del pensiero, che nel ritmato respiro dell'aforisma avverte di toccare un punto estremo, di attendere

10 Quello di Nietzsche è, secondo le parole di Klossowski, un pensiero che «ruota attorno al delirio come attorno al proprio asse» (P. Klossowski, Nietzsche e il circolo vizioso, tr. it. di E. Turolla, Milano 1981, p. 12).

" Come Nietzsche scrive a Malwida von Meysenburg, alla fine della stesura del manoscrit­to della Gaia scienza. L'abbozzo di tale lettera è citato nelle Notizie e note al vol. v, 2 delle Opere di Friedrich Nietzsche, a cura di G. Colli e M. Montinari, Milano 1964 ss, pp. 523-24.

12 L'espressione è di K. Schlechta in Id., Nietzsches grosser Mittag, Frankfurt/M., 1954, p. 33. Un importante sviluppo di questo tema si trova nel capitolo «Il Freigeist e la volontà del nulla» di F. Masini, Lo scriba del caos, cit., pp. 141-157.

Almeno fino al iv libro; il v venne aggiunto da Nietzsche nella ii edizione del 1886 (la i edizione invece è dell'agosto '82 e fu scritta tra l'estate '81 e la primavera '82). Sul felice equi­librio di quest'opera hanno insistito sìa G. Colli (in Scritti su Nietzsche, Milano, 1980, pp. 97-108) che G. Vattimo (nell'«Introduzione» all'edizione Einaudi della Gaia scienza, Torino 1979, pp. xni ss.).

14 Si veda Taf. 281, Saper trovare la fine, dove Nietzsche parla della «armonia superba e tranquilla» con cui i monti di Portofino degradano nel mare, «Laggiù, dove il golfo di Geno­va finisce di cantare la sua melodia». Sul significato del «paesaggio» nella filosofia di Nietz­sche di qualche suggestione sono ancora le pagine che Ernst Bertram in Nietzsche. Versuch ei-ner Mythologie, Berlin, 1919, dedica a Venezia e Portofino (cfr. pp. 261-279).

Carteggio Nietzsche-Burckhardt, a cura di M. Montinari, Torino 1961, pp. 28-29. G. Colli, Scritti su Nietzsche, cit., p. 107; ma in proposito si veda anche G. Vattimo,

«Introduzione» a La gaia scienza, cit., p. XXVII.

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una nuova crisi11. È questa la sola dimensione in cui divengono visibili i dissimulati squarci sinistri che occhieggiano nel testo, percepibili gli «ec­cessi» in cui la parola dionisiacamente incontra l'abisso: l'Ab-grund del pensiero, l'Eterno Ritorno dell'Uguale.

La Gaia scienza, dunque, come felice sospensione, epochè irripetibile che trattiene insieme tutti gli elementi del pensiero nietzscheano nel mo­mento che prende definitivo e sereno congedo da Wagner e critica ormai radicalmente la metafisica schopenhaueriana della volontà1*. Ma come «sospensione del pensiero» che non può e non vuole durare; in essa non trova espressione uno statico, marmoreo equilibrio, bensì il «piacere ulti­mo, brevissimo e irripetibile» di un «tardo autunno» (af. 87). L'annuncio della Morte di Dio cui giunge il lavoro di talpa del Freigeist non origina al­lora un «allegro» processo di liberazione (lineare o «plurale» che sia), ma ne segna la fine: non è un caso che l'annuncio, nell'af. 125, sia dato da un inascoltato folle. È in esso che il Freigeist giunge nudo dinanzi al nudo Nulla. Nulla è il Dio smascherato19 — ucciso per smascheramento: svelato come Persona (il cristianesimo come Maschera della Morte di Dio!). In tal senso l'af. 125 è il punto «critico» di tale sospensione, necessaria premessa agli aforismi conclusivi del IV libro (e quindi, stando alla prima edizione, conclusivi di tutta la Gaia scienza,/, dedicati al «Peso più grande» (il pen­siero dell'Eterno Ritorno) e all' «Incipit tragoedia», dove per la prima volta compare Zarathustra.

3. Ma «sospensione» è il gesto stesso che il pensiero di Nietzsche compie e a cui invita. Le parole che concludono la Prefazione alla seconda edizio­nel far-ritorno ai Greci — «adoratori delle forme», presuppongono un tale gesto. La verità come velo steso sulla superficie dell'apparire: lasciando in­deciso — «sospeso» — quanto questa velatura nasconde. «Adorare l'appa­renza» suppone oblio e non-sapere. Non c'è apparenza, allora, senza «vo­lontà d'apparenza»20 e questa include volontà-potere di «dimenticare» e «di non sapere»: dunque la precognizione o il presentimento di un puden-dum (cfr. l'af. 64) — di una pudenda origo della superficie. È il velame gettato su quanto-va-nascosto che in-vera il pudendum. La verità s-velata non è più tale. È quanto vede Derrida, commentando i testi nietzscheani (soprattutto gli af. 60 e 64 della Gaia scienza) intorno all'equazione verità-= donna: «...la vérité comme femme ou comme le mouvement de voile de la pudeur féminine»21. Il velamento femminile del vero, dunque, come «scarto abissale» della verità, abisso della distanza. La verità — interroga­ta, posta in questione come «donna» — si dà come distanza da sé, appare come «non verità della verità». Questa distanza, anzi, è l'apparenza stessa — nella prospettiva (nell'effetto) del velamento. Il velo svela l'apparire co­me distanza. Ma, si è accennato, distanza è insieme distogliersi dal sapere e dal ricordare. L'apparenza sorge dal dis-toglimento: è prodotta per sottra-

17 «Quest'anno — scrive Nietzsche nell'abbozzo di lettera a M. von Meysenburg — che per moke ragioni fondamentali nella mia vita significa una nuova crisi (epoca è la parola adatta, cioè uno stadio intermedio tra due crisi, una dietro di me, l'altra davanti a me)...».

18 Per Wagner si veda Taf. 279 e per Schopenhauer gli aff. 99 e 127. 19 Cfr. E. Fink, La filosofia di Nietzsche, tr. it. di P. Rocco Traverso, Padova 1973,

p. 219. 20 Cfr. F. Nietzsche, «Frammenti postumi 1884», in Opere diF.N, cit., VII, 2, p. 222. Sul

«Wille zum Schein» si veda F. Masini, «Un mondo "fluido''», introduzione ad Al di là del bene e del male, in questo volume.

21 J. Derrida, Éperons. Les styles de Nietzsche, Paris 1978, p. 39.

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zione, per oscuramento. Il dimenticato e il non-saputo sono il fondo scuro su cui può rilucere la forma dell'apparire. Il Grund metafisico è sospinto in un non-visibile sfondo, oscurato-inabissato in buio Hinter-grund attraver­so il processo di smascherante Aufklàrung. Il nichilismo dell'Aufklàrung nietzscheana consiste dunque nel giungere all'oblio del soggetto-fonda­mento, nel sospendere l'apparenza sul senza-fondo dell'Ab-grund. Lo sfondamento del Grund è piuttosto un suo spostamento nel non-visibile. Il soggetto-fondamento del conoscere esprime così, in forma concentrata, la storia della tradizione metafisica11. Storia, che sta inevitabilmente davanti ogni apparire. Non c'è dunque sfondamento di tale Grund senza rimozione di questa storia dallo sguardo del pensiero. Il «ritorno ai Greci» presuppo­ne l'oblio della storia metafisica concentrata nel soggetto; altrimenti, non si dà messa in questione della verità come apparire della distanza. «Messa in questione» che sospende «l'opposition décidable du vrai et du non-vrai»23.

La prospettiva di Derrida, in quest'ultima messa a punto, «giuoca» la li­nea di lettura heideggeriana, ne aggira la costrittiva linearità (Nietzsche co­me compimento della storia della metafisica). Gli stili nietzscheani eccedo­no intimamente la tradizione metafisica — e non semplicemente quanto al­la sua fine, bensì quanto ad ogni sua svolta decisiva. La «sospensione» femminile della verità apre, insieme alla pluralità di «stili» (di pensieri «speronanti» la sostanzialità del Grund) la pluralità di genealogie; perfora il tessuto del subjectum; sbreccia l'immagine lineare (quella che Heidegger sottolinea in Nietzsche) della storia metafisica come rappresentazione del Destino dell'Essere. In tal senso, però, essa apre il già-aperto: la possibilità di una pluralità di strategie interpretativo — genealogiche del Testo Occiden­tale è una possibilità contenuta nei suoi principali «momenti» genetici e oc­cultata nella linearità dell'immagine che esso — agli occhi del Nietzsche di Heidegger — restituisce di sé. La scoperta di Spinoza, proprio nel periodo in cui Nietzsche attende alla scrittura della Gaia scienza, è di questo un sin­tomo significativo24.

In tal modo è certo oltrepassato il problema della costante ambiguità dell'idea di verità di Nietzsche su cui si sofferma Heidegger25, nel senso che il sospendersi della decisione circa il carattere vero/non-vero dell'apparire focalizza tale ambiguità come positivamente costitutiva della verità stessa. Così il problema non fa però che slittare nell'apparenza stessa26 e trasfor-

22 «In ogni azione si trova la storia sommaria di tutto il divenire. Ego.» («Frammenti po­stumi 1881-1882», in Opere di F.N., cit., v, 2, p. 461.)

2J J. Derrida, Éperons, cit., p. 86. 24 Si veda la lettera di Nietzsche a Overbeck del 30 luglio 1881, in F. Nietzsche, Epistolario,

a cura di B. Allason, Torino 1962, p. 158. 25 Cfr. M. Heidegger, Nietzsche, 2 voli., Pfullingen, 1961, i, pp. 616-625. (L'ambiguità,

cioè, tra Wahrheit come «necessario errore» che tradisce il mondo come Caos — come diveni­re — in quanto significa un rendere stabile, un Fest-machen il diveniente e Wahrheit come ac­cordo con il divenire, ómoi'Osis con il reale.)

Questo slittamento è perfettamente intuito, anche se — a mio avviso — non svolto in tut­te le sue implicazioni, da Heidegger nell'analisi del secondo significato della verità in Nietz­sche (cui si è fatto cenno nella precedente nota): in opposizione alla verità come Fest-stellung del diveniente sta l'arte, che, in quanto trasfigurazione del reale, raggiunge VEin-stimmigkeit con il divenire (cfr. p. 621). Nietzsche a proposito dell'opera d'arte parla di apparenza e non di verità: anche il Kunstwerk — in quanto qualcosa di plastico — deve «fest-stellen» e quindi diviene apparenza, ma in tal caso si tratta di <<un' "apparenza" in cui si presentano e appaio­no, cioè splendono (aufscheinen und scheinen, d.h. leuchten) le superiori possibilità della vi­ta». «Così — conclude seccamente Heidegger — anche il concetto di apparenza diviene a sua volta ambiguo.» La successiva e immediata ripresa di questo duplicarsi e incrociarsi di ambi-

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morsi nel problema delle «oscillazioni» semantiche che ne definiscono il concetto. Si traduce, cioè, nella domanda se queste oscillazioni gettino o meno in aporia il pensiero nietzscheano.

4. In quella che Masini ha felicemente definito l'ottica o estasi degli estremi27 propria della filosofia nietzscheana (come modalità strutturale di una «filosofia della maschera»; polarità immanente e originante una dia­lettica tragica) l'apparenza è termine «medio». È il medium del ribaltarsi dell'un estremo nell'altro; e anche qualora si tratti del caso-limite della di­struzione-creazione «artistica» delle apparenze, l'apparenza è l'orizzonte che permane. In quanto luogo «fisico» di visibilità delle differenze e del lo­ro conflitto, apparire è sinonimo di divenire (è il rendersi visibile di quanto diviene) e come tale non conosce una opposta polarità esterna ad esso29, un termine che ne costituisca il fondamento o la speculare negazione. Che ap­parenza sia qualcosa di opposto a sostanza, Nietzsche lo nega assai chiara­mente proprio nella Gaia scienza (cfr. l'af. 54). Ogni polarità è immanente all'apparenza stessa: presentandosi come autogeneratrice di contraddizio­ni, essa riesce comunque a involgerle in sé. Termini come «essere» o come «volontà di potenza» solo apparentemente possono configurarsi in opposi­zione non contingente a ciò che appare. Il primo non sta certo, nella pro­spettiva di Nietzsche, ad indicare un 'ulteriore stabilità sotto la mutevolezza dell'apparire, bensì la fissazione in forma (l'irrigidimento in immagine) di quanto apparendo diviene. Nel secondo si esprime senza dubbio una diffe­renza dall' apparire, ma questa differenza o è contingente ad una confor­mazione data dell'apparire (e quindi è volontà di trans — figurare un factum, scioglierne la rigidezza e «positività») o sta inclusa nell'ottica dell'apparen­za in quanto espressione del divenire, volontà che vuole il gioco-conflitto delle forze: è l'apparenza stessa che si vuole29.

Una volta chiarito (o almeno cercato di chiarire) il carattere «medio» dell'apparenza — il suo essere un necessario punto d'indifferenza tra l'e­stremizzarsi delle differenze in confliggenti opposizioni — occorre fare un passo avanti nel definire, per così dire, la «facciata» del concetto, prima di tentare di delinearne i campi semantici interni. In quanto medium assoluto — dotato di autoreferenzialità perfettamente autonoma — l'apparenza ha il carattere dell'immediatezza. Se essa infatti dovesse esser ridotta a mezzo di una ulteriore realtà — differente ontologicamente da quanto appare — si reintrodurrebbe così la distinzione metafisica tra mondo vero e falso (ap­parente). E il fare di essa il risultato di un processo di mediazione (non im­porta qui specificare se situato sul versante puramente funzionalistico di un soggetto epistemologico che voglia «apprendere» la realtà dell'apparen­za oppure su quello logico-dialettico dell'Idea che esprime t'autotrasparen­za soggettiva della sostanza come essenzialità dell'apparenza) non è che un modo estremamente raffinato di tener fermo il dominio del concetto meta-

guità tra verità e apparenza è però, da Heidegger, troppo velocemente condotta al tema del «fondamentale carattere prospettivistico della vita», come quanto può eliminare l'opposizio­ne tra mondo vero e mondo apparente (e quindi conduce il pensiero di Nietzsche all'estrema opposizione di «Mondo» e «Nulla»), perché possa essere specificato il senso della autonoma ambiguità dell'apparenza.

27 Si veda per questo soprattutto l'introduzione a Lo scriba del caos, cit. e il secondo capi­tolo sulla «Fisiologia del "tragico"».

28 Sulla trama del testo nietzscheano come «sistema di opposizioni» si veda il libro di J.-M. Rey, L'enjeu dessignes, Paris 1971, che sintomaticamente non inseriesce in questo sistema il vero e proprio termine di «apparenza» (cfr. p. 70).

29 Cfr. F. Nietzsche, «Frammenti postumi 1884-1885», in OperediF.N., cit., VII, 3, p. 341.

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fisico sull'apparire. L'identità «sostanziale» di Immediatezza e Mediazio­ne sarebbe pur sempre affermazione dell'Idea come fondamento dell'ap­parire (anche nel caso estremo che si trattasse della semplice idea di Appa­renza e il fondamento fosse totalmente immanente all'apparire, differendo da esso solo logicamente). Tutto questo non sta certo a significare un'iden­tificazione di apparenza immediata e «grezza» empiria. Nietzsche non è così ingenuo da fare un «in sé» dell'apparenza: questo termine include im­plicitamente ed esprime sinteticamente il nesso tra interpretazione30 e im­pulsi-volontà di potenza (come termine plurale), su cui si incentra il pensie­ro genealogico di Nietzsche. L'immediatezza dell'apparenza non è che un altro modo per significare l'innocenza del divenire. Solo che in quest'ulti­mo caso la suggestività dei termini, evocanti le parole eraclitee, esorcizza la problematicità dell'asserto.

Immediatezza dell'apparenza, comunque, non esprime altro che la sua Grund-losigkeit: la sua assenza di fondamento. Ma, come è stato abbon­dantemente notato, al carattere abissale dell'apparenza — al suo sospen­dersi sull'Ab-grund e ri-fletterne la Tiefe, trasfigurandola nel bagliore del­la superficie — si giunge sfondando il Grund metafìsico, spingendolo sullo sfondo, nel «pensiero» che sfonda il Soggetto, avvertito da Nietzsche come ciò che sta dinanzi all'apparenza nella forma ipostatizzata, ad esempio, dello schematismo dell' «io penso» kantiano o del «cogito» cartesiano. L'immediatezza dell'apparenza non si dà quindi immediatamente: all'im­mediatezza, in qualche modo, si giunge. Ed insistere sulle modalità del darsi è qui essenziale, se non si vuol ipotizzare insostenibilmente un 'imme¬diatezza in sé dell'apparenza, che abbia valore ingenuamente ontologico. Nietzsche parla sì della «ingenuità» necessaria ad intuire l'«Olimpo del­l'apparenza», ma si tratta dì una ingenuità «seconda» che sgorga dal «ni­chilismo più profondo», quella cui si arriva al culmine dell'ironia?1, alla fi­ne del lavoro di talpa del Freigeist. La superficie è così l'estasi di quanto il pensiero genealogico scava nella Tiefe. L'innocenza del divenire: nient'al­tro che «forma e anima» (cfr. af. 59) — è visibile solo all'occhio che ha raggiunto una «seconda più pericolosa innocenza». Il pais paizón eracliteo mostra il suo «gioco» ad un pensiero divenuto fanciullo e al tempo stesso «cento volte più raffinato» di quanto mai prima d'ora vi sia stato.

Il carattere innocente del divenire — il suo essere al di là della divisione metafisico-morale — che si manifesta alla teoria tragica delle differenze, sta dunque al termine (inteso come limite essenziale, non empirico) della genealogia dei «fraintendimenti» metafisici del corpo (cfr. la Prefazione alla il ed., 2). La ricerca di provenienza (Herkunft> ed emergenza fEntste-hung^ di concetti e valori che «tradizionalmente» hanno svalutato il corpo inteso come «superficie d'iscrizione degli avvenimenti»31, è, insieme all'a­nalisi degli istinti come termine complesso e fattore già interpretante,

30 Su questo nesso si veda il lavoro di R. Genovese, Dell'ideologia inconsapevole, Napoli, 1979, che tematizza anche il problema dell'apparenza in una prospettiva diversa da quella qui tentata.

Si vedano per questo le importanti osservazioni di B. Allemann in Ironia e Poesia, tr. it. di G. Voghera, Milano 1971, in pan. le pp. 40-50. Allemann riporta qui, tra l'altro, parte di una lettera del 1886 di Nietzsche a Gast, ove egli definisce se stesso e Gast come «animali iro­nici», in quanto ambedue parlano «la "lingua del popolo" con ardimento e con diletto e tro­vano un raffinato piacere a riportare sul piano dell' "ingenuità" il loro modo d'essere estrema­mente moderno e problematico».

32 M. Foucault, «Nietzsche, la genealogia e la storia», in M.F., Microfisica del potere, a cura di A. Fontana e P. Pasquino, Torino 1977, p. 37.

32 LA GAIA SCIENZA

quanto dissipa la radice*: il Grund che sostiene e salva la deperibile feno­menicità corporea — il suo prius ontologico. In tal senso la dissipazione della radice — la dissociazione di ogni identità — distrugge l'idea di origi­ne come fondamento dell'apparire; quanto libera è un'immagine del cor­po, anzi l'interpretazione del corpo, come superficie-luogo del manifestar­si dell'apparenza e insieme sua profondità. Ma — per il motivo che que­st'ultima interpretazione è inscritta nel corpo stesso: è l'immagine che esso restituisce di sé, quando sia valutato come autonoma apparenza — l'ap­parenza come superficie corporea non può non configurarsi come origine: origine di sé. Anche se, per quanto detto in precedenza, non può trattarsi che di un 'origine sospesa.

L'immediatezza dell'apparenza è così l'origine «sospesa» — o meglio: l'origine di sé come sospensione di ogni origine, in quanto non v'è che pu­denda origo — che presuppone il «senso storico» nietzscheano nel suo iro­nico trivellare ogni sostanzialità metafisica. Lo presuppone, ma non ne è il prodotto. L'apparenza come verità da venerare è, come si è visto, oblio del fondamento metafisico e, insieme, velo gettato sul sapere genealogico, un «chiuder gli orecchi» contro ogni fisiologia (cfr. l'af 59, Noi artisti!): ve-lamento della physis. Proprio in questa differenza costitutiva da ogni ope­razione genealogico — smascherante, però, l'apparenza si rivela come costi­tuita da un 'ulteriore operazione. L'immediatezza dell'apparenza (a questo punto la definizione non può più essere evitata) è artificio, è Kunst-werk. Questo è ben esplicitato da Nietzsche: gli aforismi 54, 57, 58 e 59 che tema­tizzano il problema dell'apparenza, lo fanno in relazione evidente a quello della creazione estetica. Non solo, quindi, l'intuizione dell'apparenza co­me verità suppone, per esprimerci con Colli, la lacerazione del «tessuto dell'astrazione» che ci avvolge34, ma anche l'obliosa velatura del trauma di questa lacerazione: il vero immediato che affiora lacerando «violentemen­te il tessuto della rappresentazione»1''. L'immediatezza dell'apparenza, in conclusione, come «finzione» che rimuove l'immediato del dolore della co­noscenza. Perché conoscenza, come Nietzsche scrive nella Prefazione alla seconda edizione, sì dà solo nel «grande dolore»: il maestro del «grande dubbio», «l'ultimo liberatore dello spirito», il vero educatore del Frei-geist. Eppure Nietzsche, avvertendo il rischio di reintrodurre un oltre-l "ap­parenza, tende a dire che l'apparenza non è una «morta maschera» calata su una X sconosciuta e sollevabile a piacimento (cfr. l'af 54). Se già qui la nozione nietzscheana d'apparenza mostra con nettezza il suo carattere ra­dicalmente problematico, solo un ulteriore sforzo di definizione, relativa­mente ai campi semantici che ne delimitano la costitutiva ambiguità, può chiarire come tale problema si traduca in effettiva aporia.

5. Ma quali sono i campi semantici che definiscono il concetto di appa­renza come «sospensione»? Eliminando molte sfumature, possiamo ridurli essenzialmente a due: quello del Sogno-Illusione (diper sé a-intenzionale^ e quello della Maschera-Menzogna (di per sé intenzionale/6. Nonostante

"Cfr. Ivi, p. 51. 34 G. Colli, Dopo Nietzsche, Milano 1978, pp. 46-47. 35 Ivi, p. 130. 36 Per questo si potrebbe dire che il concetto d'apparenza è costituito in Nietzsche dal cir­

colo apollineo — dionisiaco. Al riguardo sarebbe importante confrontare la Gaia scienza con i primi saggi nietzscheani sul tragico e soprattutto con la Nascita della tragedia; per questo si veda l'«Introduzione» di S. Givone a Verità e menzogna e altri scritti giovanili, in F.W. Nietzsche, Opere 1870-1881, Roma, Newton Compton 1993.

L'APORIA DELL'APPARENZA... INTRODUZIONE DI F. DESIDERI 33

qualche incertezza di Nietzsche riscontrabile negli aforismi della Gaia scienza, incertezza che si chiarisce in testi come Al di là del bene e del male, Sogno e Maschera sono termini complementari nel definire il concetto di apparenza im-mediata, sospesa sulla propria Grundlosigkeit. E questo in qualche modo risulta già dall'af. 54 sulla «coscienza» dell'apparenza, cui più volte si è fatto riferimento. La coscienza dell'apparenza è coscienza di un sogno per continuare a sognare. L'orizzonte onirico è intrascendibile: coscienza dell'apparenza come sogno non significa altro che l'«autoscher­no» dell'apparenza stessa. Nell'autoderidersi del sogno, nel suo sapersi e volersi tale è toccato il «niente più» oltre il suo stesso apparire. Cessare di sognare significherebbe perire: il risveglio è solo l'attimo traumatico, ferita nell'immagine onirica. La «volontà di verità» che vuole il risveglio non è che «celata volontà di morte» (cfr. af. 344). È autoderidendosi che l'appa­renza come sogno diviene maschera. Ma maschera di sé, intima a se stessa: non esterna ad un Sé più vero, che possa esser costretto ad apparire da un qualsiasi smascheramento. Il Sé dell'apparenza non può apparire. Non c'è apparenza che — perché tale — non finisca per sostanzializzarsi e rendersi effettiva come sostanza (cfr. af 58). Il rinvio all'origine illusorio-onirica del mondo dell'apparenza, al carattere di maschera in cui si è sostanzializ-zata, non basta ad annientarlo. L'im-media tezza dell'apparenza è dunque il circolo speculare tra Sogno e Menzogna. È l'immagine che si produce nel loro reciproco ri-flesso: nel doppio rifrangersi del Sogno che trascende ogni maschera e della Menzogna che recita la commedia di una possibile configurazione del sogno, di una sua possibile maschera. In questa pro­spettiva il Sogno è l'orizzonte di senso che apre ogni sua possibile significa­zione in maschera. Mentre la revoca della maschera non è che la revoca di uno dei possibili significati del sogno che ci trascende e che pure è, solo in quanto ci appare come immagine (ma, di nuovo, questo ci più che un pun­to di vista al di fuori dell'Illusione, non è a sua volta una maschera attra­verso cui quella ci guarda?).

L'apparenza im-mediata, allora, come effetto della riflessione tra sogno a-intenzionale e maschera intenzionale. Riflessione, però, che dà a vedersi solo nel necessario, automascherarsi del sogno: giacché il denudamento del sogno sospende il sogno stesso facendolo scomparire nello stato di veglia, ma questo — per quanto si è detto in precedenza — sospenderebbe la so­spensione stessa come im-mediatezza dell'apparenza. Se, conclusivamente, si dovesse tentare una definizione di questa rifrazione «speculare» che pro­duce l'apparenza, si potrebbe forse dire che essa è una maschera a-inten­zionale che, sognandosi, si deride. E il riso qui non ha altro senso che quel­lo di dividere le possibili maschere dell'apparire, produrne la differenza ri­velandone la precarietà e relativizzarne, quindi, l'autonoma intenzionalità.

È innegabile che in questo aspro tema nietzscheano agiscano due motivi differenti, colti assai bene da Klossowski. Da un lato, la radicale critica a Schopenhauer e quindi la volontà di oltrepassarne il nichilismo. Cioè, in altri termini, il paventare «l'estendersi della nirvanizzazione in Occidente» e quindi il proposito di «invertire questa nirvanizzazione nella prassi del si­mulacro», giacché «l'attrazione del nulla può essere superata solo con lo sviluppo dei fantasmi che il Buddha si sforza di liquidare»37. Dall'altro, la

37 P. Klossowski, Nietzsche e U circolo vizioso, cit., p. 198. Qui Klossowski cita, tra l'altro, questo passo di Nietzsche: «Il nichilismo (in senso passivo) si manifesta non appena si esauri­sce la forza che inventa nuove finzioni e quella che le interpreta».

34 LA GAIA SCIENZA

constatazione che l'unica «qualità eterna e generale di ogni essere»36 è il rappresentare, ilpro-dursi come immagine. «L'unico essere che conoscia­mo è /'essere che rappresenta»39; la rappresentazione come «certezza fon­damentale dell'essere». È questa certezza — se unica — a negare ogni me­tafisica operando la desostanzializzazione dell'essere, riducendo ogni ente ad apparente. La «fede nell'elemento permanente, nella sostanza (...) si oppone al processo della rappresentazione medesima», in quanto unica «legge» del rappresentare è il continuo mutare dell'immagine prodotta, la negazione radicale di ogni stabile identità del rappresentato, la sua intima relatività all'atto stesso della rappresentazione. La rappresentazione come unica qualità certamente predicabile dell'essere dice, allora, soltanto il di­venire in opposizione ad esso. «Il rappresentare afferma esattamente il contrario dell'essere!»: l'unica affermazione di cui è capace il rappresenta­re come qualità dell'essere consiste dunque nell'infirmare ogni affermazio­ne dell'identità sul mutamento, della permanenza sul divenire, della so­stanza oltre l'apparenza. «Insomma: ciò che il pensare concepisce e deve concepire come reale può essere l'opposto dell'essere!» Ma concepire come unicamente reale l'opposto dell'essere significa pensare la conclusiva in­fondatezza dell'apparenza. E che il senso di quest'ultimo termine sia defi­nito dalla complementarietà dei significati anzidetti (Sogno — Maschera) è Nietzsche stesso ad indicarlo in un frammento del periodo della Gaia scien­za: «la vera essenza delle cose è un 'invenzione dell'essere che ha rappresen­tazioni, senza questa invenzione esso non è capace di avere rappresentazio­ni»40. Quest'invenzione (Erdichtung) è affabulazione: che il «mondo vero» sia finito per diventare una favola — come Nietzsche afferma nel Crepu­scolo degli idoli — in quest'ottica è una frase da intendere in tutto il suo fi­losofico rigore. Con essa si intende certo l'eliminazione del «mondo vero» insieme a quello «apparente», ma per affermare l'«auto-affabulazione» come carattere dell'essere41, per sospendere quindi la verità in una epoche al di sopra (o al di là) di tale distinzione, nell'epoche di una abissale appa­renza.

Non è molto difficile vedere come questa qualificazione dell'essere nella rappresentazione di sé, nel porsi davanti a se stesso, coincida con la più tarda caratterizzazione della volontà di potenza come carattere fondamen­tale dell'essere42. Quello che nei frammenti del periodo della Gaia scienza risulta, è però che la prima «qualificazione» mostrava una maggiore esau­stività rispetto al concetto di volontà, che anzi è talvolta presentata come «derivata» dalla rappresentazione e dall'interpretazione che l'immagine rappresentata implica (cfr. la conclusione dell'af. 127)43. Il motivo della successiva sostituzione della volontà di potenza, che si presenta in qualche modo posteriore alla stessa volontà di apparenza44 e del suo assurgere pre­potentemente (anche se non esclusivamente) a protagonista della scena fi­losofica nietzscheana, è forse da imputare alle minori difficoltà che una ta-

38 E. Nietzsche, «Frammenti postumi 1881-1882», in Opere diF.N., cit., v, 2, p. 290. 39 Ivi, p. 285. 40 Ivi, p. 288. 41 Cfr. P. Klossowski, Nietzsche e il circolo vizioso, cit., p. 207. 42 Cfr. M. Heidegger, Nietzsche, cit., i, pp. 462-472. 43 Cfr. F. Nietzsche, «Frammenti postumi 1881-1882», in Opere di F.N., cit., v, 2, pp. 305

(74) e 347 (204-205). 44 Cfr. F. Nietzsche, «Frammenti postumi 1885-1887», in Opere di F.N., cit., vm, 1, dove

N. elenca, come «conquista di nuove forze e territori», quattro tipi di volontà senza distin­guere gerarchicamente fra loro; e mentre l'ultima è la volontà di potenza la prima è la volontà di falsità.

L'APORIA DELL'APPARENZA... INTRODUZIONE DI F. DESIDERI 35

le sostituzione a prima vista comportava. E qui Nietzsche sembrerebbe ri­petere un errore da lui stesso criticato in Schopenhauer: quello di ricosti­tuire nella nozione di volontà un principio unico del mondo, un «fonda­mento». Che Nietzsche cerchi ripetutamente di mostrare l'essenza plurale e stratificata del concetto di volontà di potenza, non fa che ribadire l'esisten­za di un problema intorno all'affermazione del concetto stesso come, in qualche modo, «fondamentale»45. Il fatto poi che Heidegger abbia mostra­to in maniera inequivocabile la connessione intima tra rappresentazione e volontà di potenza nel comune oblio-oscuramento dell'Esser dell'ente46, non toglie la «necessità» della domanda sul motivo della traduzione det-l'un termine nell'altro. Ma il problema non è solo qui.

«Che l'essere abbia rappresentazioni non è un problema, è il fatto»47; ma: «ciò che esso rappresenta e in che modo deve necessariamente rappre­sentarlo, questo è il problema». Porre tale problema nella sua radicalità, significa interrogare la legittimità della tesi heideggeriana circa la volontà di potenza e /'eterno ritorno come, rispettivamente, il Che e il Come del­l'essente nella sua totalità. L'Essere che si rappresenta, in quanto unica «Tatsache», sospende la differenza ontologica tra Essere ed Essente e getta l'Essere nella inessenziale Apparenza. Volontà di potenza ed eterno ritorno sono così interrogati all'origine dalla formulazione del problema dell'esse­re come rappresentazione ed è in tale interrogazione che tali termini vengo­no «spostati» a significati dell'apparire. Ove sembra che il pensiero nietz­scheano proceda in senso più marcatamente ontologico, siamo dinanzi alla «sospensione» di ogni ontologia. È qui che «la forme onto-herméneutique de l'interrogation montre sa limite»48, ma in un senso leggermente diffe­rente da quello che Derrida49 attribuisce al concetto di onto-ermeneutica.

Da un lato — quello racchiuso nel limite della domanda sull'essere come rap-presentare — il porsi stesso della domanda (la sua formulazione) pro­blematizza ogni tentativo di ingenua «glorificazione del simulacro». Tale tentativo — che si esprime nella sua forma più coerente in Deleuze e in quella forse più «drammatica» e meno conclusa in Klossowski50 —finisce in una «assolutizzazione dell'apparenza51 che fa di quest'ultima un luogo di definitiva conciliazione e appaesamento. In tale assolutizzazione il «gio­co delle differenze» sarebbe ipso facto redento: il suo nichilismo coincide­rebbe con la guarigione da ogni malattia meta-fisica, nessun Ab-grund enigmatico vi si potrebbe spalancare. Il Grund più che obliato-rimosso sa­rebbe semplicemente scomparso. «Assolutizzazione» in tal senso è gesto opposto a «sospensione»: in essa la verità — senza alcuna «femminile» di-

45 A questo proposito rimangono valide, a mio avviso, le critiche di Colli. Cfr. G. Colli, Dopo Nietzsche, cit., pp. 20-22 e 72-73.

Cfr. ad esempio, M. Heidegger, «La sentenza di Nietzsche: "Dio è morto"», in M.H., Sentieri interrotti, tr. it. di P. Chiodi, Firenze 1968, p. 223.

47 F. Nietzsche, «Frammenti postumi 1881-1882», in Opere di F.N., cit., v, 2, p. 290. 48 J. Derrida, Èperons, cit., p. 93. 49 Che non distingue nettamente la differenza fra discorso ontologico ed ermeneutico. Per

questo e in generale sul saggio di Derrida si veda di M. Cacciari e M. Ciampa, «Sul fonda­mento», in II Centauro, 1, gennaio-aprile 1981, pp. 122-133.

50 Di G. Deleuze si veda: Nietzsche e la filosofia, tr. it. di F. Polidori, con una postfazione dello stesso e una prefazione di M. Ferraris, Milano 1992; Differenza e ripetizione, tr. it. di G. Guglielmi, Bologna, 1971. Di P. Klossowski, oltre al libro citato, si veda il precedente Un si funeste désir, Paris, 1963; una parte di esso, «Nietzsche il politeismo e la parodia», è stato tradotto in // Verri, 39-40, 1972, pp. 105-133.

51 Cfr. G. Vattimo, Al di là del soggetto, Milano 1981, pp. 30-32.

36 LA GAIA SCIENZA

stanza — verrebbe perversamente a coincidere in senso forte con l'estrema prossimità dell'apparenza.

Dall'altro lato — quello sul bordo del limite che la domanda mostra — l'interrogare problematicamente il Che e il Come dell'essere che si rap-pre-senta pone molti dubbi circa la possibilità di parlare, in proposito, di «una ontologia ermeneutica»*1. Parlando, infatti, di «natura ermeneutica del­l'essere» si tiene ancora fermo che «l'essere, anche dopo la fine della meta­fisica resta modellato sul soggetto». La caratterizzazione ermeneutica la­scerebbe pur sempre sussistere intatta la forma dell'ontologia come teoria dell'essere; pur se in tale caratterizzazione l'ontologia viene a subire uno slittamento in senso storicizzante: rivelandosi inopinatamente, cioè, «ade­guata a render conto» della condizione problematica «dell'uomo della tar­do-modernità». Nell'abissalità dell'apparenza si nega, invece, ogni «ap-paesante» congiungimento tra essere e interpretare. L'interpretazione ri­mane — e deve rimanere — sempre impigliata nell'apparenza. Non nel ge­nerico senso di un insuperabile prospettivismo dell'interpretare o della infi­nita possibilità di significati, ma nel preciso significato che quanto l'erme­neutica interpreta come già in sé interpretante semplicemente non è se non come apparente53, nella reciproca riflessione e rifrazione tra sogno e ma­schera. Infatti, proprio per il carattere rifrangente dell'apparire di ciò che è raccogliendosi nell'interpretazione, l'essere è solo in quanto differisce abissalmente (eternamente) da quel che si rappresenta nell'interpretazione: è, ma solo nel sottrarsi ad ogni ermeneuein — o nell'offrirvisi divenendo altro: apparenza. Il circolo ermeneutico con l'essere è quindi perennemente in-franto dalla ri-frazione che costituisce l'apparire. Circolarità ermeneuti­ca perfetta vi sarebbe solo nell'apparenza, ma solo a condizione che questa si assolutizzasse, per usare i termini di Klossowski, in una filosofia dei si­mulacri, ove ogni fantasma venisse ridotto a silenzio. Senza la pudenda origo di ogni fantasma che il sapere genealogico libera, non vi sarebbe però nemmeno l'apparenza come velo: il divenir donna-distanza della verità. Il carattere riflessivo-rifrangente dell'apparenza — la sua ineliminabile apo-reticità — interrompe in-finitamente ogni circolo ermeneutico. Tanto più quello «fondamentale», per una ipotetica onto-ermeneutica nietzscheana, tra eterno ritorno e volontà di potenza. Ma per dire qualcosa di questo, bi­sogna, sia pur fuggevolmente, ascoltare l'annuncio dell'uomo folle.

6. Ve sospensione dell'apparenza sul «suo» Ab-grund solo allorquando «non c'è più "terra" alcuna!». Quest'affermazione che chiude l'af. 124, immediatamente precedente quello su L'uomo folle, non è altro che l'an­nuncio: «Gott ist tot». Terribile, avverte Nietzsche, è la nostalgia per la terra, quando la catena che la lega al suo sole è stata sciolta: la «catena» che la fa «terra», saldo sostegno, sprofondando il quale ogni passo si tra­sforma in «eterno precipitare». La «gaia scienza» — pur nel tripudio per l'esser circondata dal solo oceano, talora «mugghiante», talora disteso co­me una tela di seta e oro — non significa superamento di questa nostalgia. Di questo v'è forse un'eco nel grido con cui il folle si presenta al mercato: «Cerco Dio! Cerco Dio!». Questo accento disperato e nostalgico insieme è stato perfettamente colto da Heidegger in conclusione al suo «epocale» saggio sull'argomento: «L'uomo pazzo... — come risulta chiaramente dal-

52 Come fa Vattimo nel saggio citato; in particolare, cfr. pp. 35-37. 53 Cfr. F. Nietzsche, «Frammenti postumi 1885-1887», in Opere di F.N., dì., vin, 1,

pp. 126-127.

L'APORIA DELL'APPARENZA... INTRODUZIONE DI F. DESIDERI 37

la prima parte del passo, e, più chiaramente ancora, per chi ha orecchie per intendere, dall'ultima parte — è colui che cerca Dio invocandolo ad alta voce. Un pensatore ha forse qui realmente invocato de profundis? E hanno udito le orecchie del nostro pensiero? O continuano ancora a non udire il grido?»™. Se ben intendiamo queste parole: gli strati di senso dell'aforisma in questione non sono esauriti dalla connessione Cristianesimo/Metafisi­ca/Nichilismo che, dopo il saggio heideggeriano, è stata dipanata con do­vizia d'argomenti55. È di questa connessione, piuttosto, che c'è gaia scien­za. Secondo quanto precisa il primo aforisma del quinto libro (il n. 343), che Dio sia morto, che la fede cristiana sia divenuta insostenibile non ha — per il Freigeist — significato di ottenebramento, ma di «nuova aurora»: questo «immenso» evento è un 'apertura: «il nostro mare, il mare aperto è di nuovo là, e forse non c'è mai stato un mare così "aperto"». La «morte di Dio» come consumazione-sfondamento — consumazione nel nichilismo intrinseco alla storia della Metafisica come Teo-logia e sfondamento nel pensiero che pensa questo nichilismo come epoca — del Grund metafisico è apertura dell'abissalìtà del Mondo. Lo sguardo del pensiero in quest'a­pertura in-tuisce il mondo come Caos (cfr. af. 109), come lo «spalancarsi» di questa stessa apertura56. La Entmenschung e Entgòttlichung dell'essente nella sua totalità»51 ne riconosce la necessitas. «Caos sive Natura»; la per­fetta necessità di tutto ciò che divenendo av-viene coincide con la sua asso­luta assenza di «ragioni». Il Mondo come Caos significa la necessità di tut­to quanto vi appare: niente in esso allora ac-cade. Dove non c'è che neces­sità, il «caso» non esiste (cfr. l'af. 109). Il «caso» presuppone che del dive­nire del Mondo si possano dire leggi, ordini, regolarità, fini. Vi è «caso» solo se l'evento cade fuori da una relazione fondante tra una qualche es­senza (religiosa, metafisica o puramente concettuale) e la sfera contingente dei fenomeni. L'evento è così pensabile nella forma dell'ac-cadere — come «caso» — solo unitamente all'idea di un subjectum che lo raccolga, di un «fondo» che ne arresti la caduta. Caos sive Necessitas, allora: ogni evento ha nel suo apparire potenza di esistere, di sospendersi sul proprio Ab-grund. Nella rappresentazione del Caos «la totalità del mondo diviene così fondamentalmente l'ingiudicabile e l'indicibile ^Unansprechbaren und Un-sagbaren^ — un arréton»58. Solo se Dio è morto, se di quel Dio: quello del­la connessione Cristianesimo/Metafisica/Nichilismo, il «Dio cosmogonico per eccellenza»59, si può dire che non è più — il Mondo è indicibile. Solo se Dio è divenuto un «caso», può schiudersi il Mondo come Necessità (ma qui, come si vedrà, si nasconde un problema).

Dal riconoscimento dell'aprirsi del Mondo come Caos sive necessitas ha origine /'amor fati nietzscheano. Ma con questo riconoscimento non coin­cide. Illuminante a tal proposito è l'af 276, Per Tanno nuovo, che apre il libro quarto: « Voglio imparare sempre più a vedere la bellezza nella neces­sità delle cose: così diverrò uno di coloro che rendono belle le cose. Amor

54 M. Heidegger, La sentenza di Nietzsche: «Dio è morto», cit., pp. 245-6. 55 Si veda in tal senso P. Klossowski, Nietzsche il politeismo e la parodia, cit.; tutta la parte

seconda (La morte di Dio come experimentum crucis del nichilismo) di F. Masini, Lo scriba del caos, cit.; e il saggio «Die Christenheit oder Europa» di M. Cacciari, in Nuova corrente, 76-77, 1978.

56 Cfr. S. Natoli, Ermeneutica e genealogia, cit., p. 194. M. Heidegger, Nietzsche, cit., i, p. 353.

58 Ibidem. 59 M. Cacciari, «Concetto e simboli dell'eterno ritorno», in Crucialità del tempo (saggi a

cura di M.C.), Napoli 1980, p. 69.

38 LA GAIA SCIENZA

fati: questo sia d'ora innanzi» il mio amore! (...) La mia unica negazione sia distogliere lo sguardo/». Nel necessario, amare il «fato»: questo signifi­ca averne «deciso» (immaginato) la bellezza. Nietzsche adombra in questo passo un sottile gioco di differenza (che in analoghi passi posteriori viene perso) tra necessità e fatum. // «fato» è il dire che come un velo si posa sul­la necessità-caos. Amor fati significa fingere la necessità come «caso feli­ce». Non c'è affermazione del «caso» — «amore» che vuole la necessità — senza un saper «volgere altrove lo sguardo». Amor fati è anche arte dell'o­blio (cfr. af. 367). La necessità infatti può essere amata-voluta solo nella sua «apparenza» (come se...) di bellezza: la ne-cessitas come espressione del Caos non sopporta affermazione, è indicibile. L'unica possibilità di di­re l'indicibilità del Mondo come caos-necessità è nel «fato». L'amor fati è dunque la maschera della necessitas. Per questo la maschera, secondo le parole di Klossowski, è «/'emergere del Caos, nel punto limite in cui la ne­cessità e il fortuito si incontrano, in cui l'arbitrario e il "giusto" coincido­no»60. L'annuncio che «Dio è morto», allora, — in quanto «apertura» del Caos si ve necessitas e quindi «possibilità» dell'amor fati — «corrisponde esattamente all'assorbimento del mondo vero e del mondo apparente da parte della favola»61. La fabulizzazione del mondo, la sospensione dell'ap­parenza sul suo abisso ha dunque radice nell'amor fati come maschera sa­cra della necessità62.

Ma, come si è accennato, questa direzione interpretativa (di cui, certo, s'accentuato solo una possibile torsione semantica) non esaurisce il senso dell'aforisma su L'uomo folle, non basta a spiegare il tono di terribilità nel suo annuncio, tono che Nietzsche negli aforismi successivi (come il primo del quinto libro) cerca di mostrare come inesistente agli orecchi del Frei-geist. Anzi, proprio per l'esser essa la dimensione più significativamente vi­sibile, forse nasconde qualcos'altro ancora. È maschera di qualche residuo senso ab-scondito, che a malapena trapela in qualche sintomatico indizio. E in che senso sia «maschera» è Nietzsche stesso a dircelo in un importante frammento dove l'impulso di simulazione pare venir meno:

C'è un fraintendimento nella giocondità che non si può eliminare; ma chi ne partecipa può alla fine proprio perciò esserne contento. Noi che ci rifugiamo nella felicità; noi che abbiamo bisogno di ogni specie di sud e di indomabile pienezza di sole, e che ci mettiamo in strada ver­so là dove la vita procede come un ebbro corteo mascherato (...): non sembra che possediamo un sapere del quale abbiamo paural Con il quale non vogliamo restar soli? Un sapere il cui contatto ci fa tremare, il cui sussurro ci fa impallidire? Questo ostinato distogliersi dagli spet­tacoli tristi (...) questo epicureismo volontario del cuore (...) che adora la maschera come sua ultima divinità redentrice (...): non è tutto ciò una passione? La nostra giocondità — non è la fuga da qualche insanabile certezza? Sembra che noi sappiamo di essere troppo fragili, forse già infranti e insanabili; sembra che temiamo, da questa mano della vita, che ci debba infran­gere, e ci rifugiamo nella parvenza della vita, nella sua falsità, nella sua superficie e nel suo variopinto inganno; sembra che siamo giocondi perché siamo immensamente tristi. Noi siamo seri, conosciamo l'abisso, e per questo ci difendiamo da ogni serietà a.

È possibile dare un nome a questo sapere? Un nome che possa insieme

60 P. Klossowski, Nietzsche e il circolo vizioso, cit., p. 334. 61 P. Klossowski, Nietzsche, il politeismo e la parodia, cit., p. 128. 62 Comune è — come nota Klossowski — la loro radice linguistica: «Favola, fabula, deriva

dal verbo latino fari, che significa sia predire, che divagare, predire il destino e divagare, per­ché fatum, il destino, è anche il participio passato di fari. / Così, quando si dice che il mondo è divenuto favola, si dice che esso è il fatum, si divaga, ma divagando si vaticina e si predice il destino...» {Nietzsche, il politeismo e la parodia, cit., p. 110). Amor fati, allora, non è altro che «adorare l'apparenza» (con tutte le implicazioni che in precedenza si è cercato di spiega­re).

63 F. Nietzsche, «Frammenti postumi 1885-1887», in Opere di F.N., cit., vili, 1, pp. 68-69.

L'APORIA DELL'APPARENZA... INTRODUZIONE DI F. DESIDERI 39

chiarire di cosa è «maschera» la «Morte di Dio» nel suo aspetto ormai no­to? E perché Nietzsche dice che da questo sapere è necessario difendersi, fuggire? Forse, proprio per il motivo che tale sapere è quanto blocca que­sta «fuga» — impedisce quella incessante ri-fabulizzazione che sottrae il mondo al «tempo storico» per consegnarlo a quello del mito6*. Un sapere il cui contenuto non è de-mitizzante (già Dioniso, in Nietzsche, è assunto in senso demitizzante, cioè come impulso a infrangere miti per crearne di nuovi: Dio del gioco delle maschere), bensì radicalmente anti-mitico, effi­cace antitesi a Dioniso. Questo problema è adombrato da Colli nel notare che mentre per Nietzsche «la vita dionisiaca sarebbe l'affermazione del do­lore», d'altro canto «il dolore è appunto quello che non si può afferma­re»65. Un dolore affermato — «trasfigurato» — non è più tale. L'esperien­za del dolore (come, del resto, quella della gioia) sono di per sé inafferma­bili, in quanto entrambe esperienze di spossessamento dell'ego (e non si ve­de come possa darsi affermazione ove /'ego sia «fuori di sé») di radicale dis-assoggettamento cfe//'in-dividuum; inabissamento del soggetto nell'ai-di-là di ogni «dividua» maschera.

Di questa intoglibile e intrasfigurabile residualità e abissalità del dolore, Nietzsche intuisce forse un simbolo, un simbolo che è anche «evento» (ca­so). «Ironia contro coloro che credono il cristianesimo superato dalle scienze naturali moderne. I giudizi di valore cristiani non sono perciò mini­mamente superati. "Cristo in croce" è il simbolo più sublime — ancora og­gi.»66 Anche questa «morte di Dio» è nell'annuncio del folle. Senz'altro es­so intende pure «la morte del Cristo evangelico, della esperienza di fede che è al cuore della religione che egli annuncia»61, però, credo, nella sua differenza dal «Dio cosmogonico». E poi: è veramente nuova religio l'an­nuncio di questo simbolo? Il Dio cosmogonico, in questa esegesi, muore dinanzi al simbolo-evento della Croce. Ed è intorno al modo di questa morte che Zarathustra interroga il vecchio papa: «Tu l'hai servito fino al­l'ultimo, domandò Zarathustra dopo un profondo silenzio, e sai anche co­me morì? È vero ciò che si dice, che cioè lo strangolò la compassione, — che egli vide come l'uomo era appeso alla croce e non sopportò questa vi­sta, che l'amore per l'uomo divenne il suo inferno e da ultimo la sua mor­te?». // vecchio papa, però, non rispose, bensì evitò timidamente lo sguardo di Zarathustra, con una espressione di tetro dolore sul volto6*. Questo dolore ritorna nell'af. 269 di Al di là del bene e del male; «È proba­bile che dietro la favola sacra che traveste la vita di Gesù si nasconda uno dei casi più dolorosi del martirio della sapienza intorno all'amore: il marti­rio del cuore più innocente e più ardente che non si sarebbe mai acconten­tato di nessun amore umano (...) Chi sente a questo modo, chi conosce a questo modo l'amore — cerca la morte. — Ma perché lasciarsi andare a ta­li cose dolorose? Ammesso che non si debba farlo»69. Dietro la «favola sa­cra» Nietzsche intravede il «Deus nudus», la smentita di ogni mito, l'estre-

64 Cfr. P. Klossowski, Nietzsche, il politeismo e la parodia, cit., p. 110. " Un tale problema è solo accennato da Colli, forse, per l'insufficiente spazio che nei suoi

scritti trova il tema Nietzsche/Cristianesimo. Per questo, tra l'altro, sarebbe necessario quello stu­dio dell'opera di Overbeck, e non solo in relazione al suo rapporto con Nietzsche, cui invitava M. Montinari in Su Nietzsche, Roma 1981. Non è forse un caso, in proposito, che un libro importan-. te come quello di K. Lowith, Da Hegel a Nietzsche, chiuda proprio intorno a questa figura.

F. Nietzsche, «Frammenti postumi 1885-1887», in Opere di F.N., cit., vili, 1, p. 96. 67 M. Cacciari, Concetto e simbolo dell'eterno ritorno, cit., p. 67. 68 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 1978, p. 315 (cfr. in questo voi.

«Così parlò Zarathustra», tr. di A.M. Carpi, p. 373). F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, in questo volume, cit., pp. 549-550.

40 LA GAIA SCIENZA

mo scherno che lacera ogni «divina» maschera. Ma mentre la Croce toglie la maschera di Dio, squarcia il «velo del Tempio», il Cristianesimo ri-ma­schera tale evento facendo di Dio persona70. Questa differenza insormon­tabile tra Gesù evangelico e cristianesimo sarà esplicitata da Nietzsche solo nell'Anticristo. La morte di Cristo, è qui spiegato, non è assimilabile ad un atto sacrificale. Transvalutandola in sacrificio, la Teo-logia cristiana ha neutralizzato l'evento piegando il simbolo al concetto, ha instaurato un nuovo «mito». Solo in quanto gesto non sacrificale — radicalmente in-uti-le —, come Anti-logos7, la Croce è evento-trauma, im-mediatezza che la­cera ogni apparenza. È questa «terribilità»12 inerente in origine al nucleo eventuale73 della fede cristiana, che il cristianesimo va necessariamente per­dendo74, fino a non aver più bisogno della «terribile soluzione di un "Dio in croce"»15.

Solo Bataille, forse, ha interrogato il testo nietzscheano fino al limite di questo simbolo16 —• «il limite della morte, del nulla»: l'unico che apre alla «comunicazione» tra «esseri». Il male al suo «culmine» che l'uomo rag­giunge nella crocefissione, di cui l'«atrocissimo paradosso» della Croce — come lo definisce Nietzsche nell'Anticristo — è simbolo. Se di sacrificio si può ancora parlare a questo proposito, allora l'«agente del sacrificio è il Delitto»: «quanto la vita umana nasconde di orribile (ciò che essa porta di lercio e d'impossibile nei suoi recessi, il male condensato nel suo fetore) (...) Il supplizio del Cristo reca offesa all'assenza di Dio». Nel «necessa­rio» commento di Bataille al testo nietzscheano, la Croce appare dunque come lacerazione di ogni essere, di ogni integrità della creatura. Essa denu­da quanto pudicamente la donna-verità cela. È radicale Non-verità della Verità. «La notte della Crocefissione, Dio, con le carni insanguinate come il buco insozzato di una donna, è l'abisso di cui egli stesso è negazione.» Ma questo Abgrund in cui si spalanca la Non-verità dell'Apparenza «giuo­co» tale negazione: Dio cessa come Assoluto. Comunione con l'uomo si­gnifica qui «comune abisso». «Una notte di morte, in cui il Creatore e le creature insieme sanguinarono, si straziarono a vicenda e si posero in que­stione sotto ogni aspetto — al limite estremo della vergogna — è stata ne­cessaria alla loro comunione. »

Il mostrarsi «al limite estremo della vergogna» in un 'impudica esposizio­ne della «troppo umana» nudità della morte di cui è «simbolo» la Croce, è

70 «Niente è più anticristiano delle ottusità ecclesiastiche di un Dio come persona, di un "regno di Dio" a venire, di un "regno dei cieli" nell'aldilà, di un "figlio di Dio", seconda per­sona della Trinità. Tutto ciò è — mi si perdoni l'espressione — il classico pugno nell'occhio — e in che occhio! — quello del Vangelo; un cinismo storico mondiale nello schermo del sim­bolo...» (F. Nietzsche, L'Anticristo, in questo volume, p. 790.

71 Su questo tema, qui solo accennato, abbiamo cercato di dire qualcosa nel saggio «L'ulti­mo Carnevale di FJorens Christian Rang», in Fl.Ch. Rang, Psicologia storica del Carnevale (con saggi di M. Cacciari e F. Desideri), Venezia, 1982.

72 Cfr. F. Nietzsche, «Frammenti postumi 1881-1882», in Opere dìF.N., cit., v, 2, p. 445. 73 «Già la parola "cristianesimo" è un equivoco —, in realtà è esistito un solo cristiano e

quello morì sulla croce. Il "Vangelo" morì sulla croce. Quello che da quel momento in poi si chiama "Vangelo", era già il contrario di ciò che egli aveva vissuto...» (F. Nietzsche, L'Anti­cristo, cit., p. 793.

741 motivi di questa necessaria perdita sono ben spiegati da Cacciari nell'analisi che fa del rapporto tra fede e teo-logia, Christlichkeit e Christentum, in M.C., Die Christenheit oder Europa, cit.

75 F. Nietzsche, «Frammenti postumi 1885-1887», in Opere di F.N., cit., vm, 1, pp. 124-125.

16 Cfr. G. Bataille, Su Nietzsche, tr. it. di A. Zanzotto, Bologna 1980, p. 63. (Le citazioni seguenti sono tratte da quest'opera.)

L'APORIA DELL'APPARENZA... INTRODUZIONE DI F. DESIDERI 41

certo l'antitesi della «volontà d'apparenza» che Nietzsche cerca nel Greco. La Croce — una volta spogliata dell'istanza esorcizzante della Teo-logia della Storia come economia di salvezza — è, cosi il caso, l'insorgenza del tempo storico nel tempo mitico che il teatro della filosofia nietzscheana mette in scena. In esso l'im-mediato lacera il velo dell'oblio. Come parola anche — ma parola radicalmente anti-egologica, non discorsiva. Giacché la parola di tale simbolo è autentica parola viva dall'abisso: grido11 (invo­cazione). Nella ferita che il grido della croce schiude nell'apparenza, Nietz­sche intuisce forse quel «lago freddo e ripugnante, sui cui nessuna estasi si increspa»1*, di cui enigmaticamente scrive; intuisce l'Anti-Dioniso. Eppure verso questo infigurabile fondo dell'abisso Nietzsche è costretto dalla stes­sa opera di dedivinizzazione e disumanizzazione della natura di cui si parla nell'af. 10919. In essa vi è infatti significata insieme alla «volontà di ma­schera» e di «superficie», l'opposta «volontà di verità» dell'uomo della co­noscenza (cfr. l'af. 230 di Al di là del bene e del ma\e); quella che spinge, cioè, verso il «terribile testo originario homo natura» e che potrebbe essere una «celata volontà di morte» (af. 344)m

1. Questa divaricazione di Mito ed Evento, di «velamento» e «lacerazio­ne» (l'insintetizzabile autonomia dei due termini/1, cui fin qui si è cercato di alludere, è il presupposto problematico del pensiero dell'Eterno Ritorno e del modo in cui esso si annuncia nell'af 341 della Gaia scienza. Ed è tale presupposto quanto legittima a pensare che il problema dell'Eterno Ritor­no qui non si pone «ancora» (e non è detto che perciò si ponga in modo «immaturo») in necessitante connessione al Wille zur Macht, essendo tra l'altro questo termine tuttora biforcato nella contraddittoria polarità tra volontà d'apparenza e volontà di morte (o di verità, ma intesa nel senso circoscritto cui si è fatto riferimento). Anche nella particolare Fragestel-lung dell'Eterno Ritorno — che è piuttosto dissimulata descrizione di un'e­sperienza — quale si presenta nell'af 341, la tensione a connettere due poli estremi che lacerano insanabilmente il suo pensiero è, in Nietzsche, fortis­sima. Solo che in questo frangente problematico si deve inizialmente parla­re di volontà di connessione di Eterno Ritorno del «caso» (come opacità dell'evento) e Apparenza della Rappresentazione (come im-mediato me­dium del circolo tra essere e interpretare.

In altri termini (sulla scorta di quanto si è finora cercato di dire): il pen­siero dell'Eterno Ritorno oltre a nascere dalla Morte di Dio è solcato dal «residuo» opaco di questa morte, dal «simbolismo originario» (tale espres­sione è nell 'Anticristo^ della croce.

77 È in questo grido che trapassa la maschera, che si ri-vela e si mantiene la differenza fra maschera e volto.

78 F. Nietzsche, «Frammenti postumi 1885-1887», in Opere di F.N., cit., viti, 1, p. 39. «Il mio compito: la disumanizzazione della natura e poi la naturalizzazione dell'uomo,

una volta che egli sia giunto al puro concetto di "natura"» («Frammenti postumi 1881-1882», in Opere di F.N., cit., v, 2, p. 379).

80 Che in Aldi là del bene e del male quanto si oppone alla volontà di maschera — il «genio del cuore» che instilla il desiderio di «giacere in silenzio, come uno specchio» — sia Dioniso: il dio che non ha motivo di coprire le sue nudità, è problema che non può essere qui affronta­to. Esso travalica l'orizzonte della Gaia scienza e guarda all'ultima maschera di Nietzsche: «Dioniso, il Crocifisso».

81 Su questo è bene insistere: la lacerazione non è da pensare come «momento» — infrazio­ne di vecchi miti per instaurarne di nuovi —, bensì come emergenza dell'im-mediato, radicale autonomia del negativo. Si tratta qui di pensare l'identità della differenza come tale, di intui­re lo scarto tra le differenze: l'aprirsi di una ferita nell'apparenza, l'emergere dello scarto, Te-vento che frattura la superficie.

42 LA GAIA SCIENZA

Si è accennato prima che la posizione del problema nella strutturazione ipotetica («che avverrebbe se...») in cui si articola l'aforisma sul Peso più grande è dissimulata descrizione di un'esperienza. Quella di cui Nietzsche parlerà in Ecce homo: «...il pensiero dell'Eterno Ritorno, la suprema for­mula dell'affermazione che possa mai essere raggiunta — è dell'agosto 1881; (...) Camminavo in quel giorno lungo il lago di Silvaplana attraverso i boschi; presso una possente roccia che si levava in figura di piramide, vi­cino a Surlei, mi arrestai ed ecco giunse a me quel pensiero». Il pensiero «giunge»: si impossessa di colui che ne fa esperienza. Nel «giungere» del pensiero dell'Eterno Ritorno — nell'esserne colto — il pensare esperisce il massimo di spossessamento dell'ego. Il pensiero dell'Eterno Ritorno desti­tuisce il soggetto: è il caso che infrange la normalizzazione del divenire. La morte di Dio quale idea del fondamento e della finalizzazione dell'accadere è, in questo «caso», davvero compiuta. L'idea del Ritorno è sradicamento del «tempo» del caso, de-motivazione dell'istante, che fa di esso uno scopo in sé. Non c'è infatti sprofondamento del subjectum senza lacerazione del­l'immagine del divenire come tempo-durata della sostanza, senza, quindi, «inabissamento» del Tempo. L'esperienza dell'Eterno Ritorno è dunque, anzitutto, esperienza di un'«apparizione lacerante»*2. In questo il pensiero abissale di Nietzsche è letteralmente pensiero dell'Ab-grund: del Tempo come assenza di fondamento; come senza-fondo, come quanto non ha più base né testa*3. Nel suo carattere di infondatezza il tempo si rivela come forma dell'apparire, del suo radicale differenziarsi-dividersi dall'essere; e quindi, di conseguenza, del suo non-stare. Non si dà «stare», infatti, che nel radicarsi di quanto avviene in un Luogo: l'«è» di ogni cosa che av-viene potrebbe dirsi — in questo contesto — il fondarsi in uno stato dell'appari­re dell'avvenimento. L'essere come stare dell'apparenza, dunque, come ri­manere presso dì sé, dimorare in sé di quanto divenendo appare. Ma tutto questo suppone che l'«è» non vacilli** e che attraverso la forma temporale dell'apparire — nel movimento della differenza-divisione da sé — sì man­tenga integra l'identità dell'Essere.

A questa identità il pensiero del Ritorno Eterno vuol giungere imprimen­do i caratteri dell'Essere sul Divenire, ma è proprio il carattere im-pressivo (e dunque im-positivo) di una tale «scrittura» del pensiero a non poter pre­supporre tale identità. La divisione-differenza (lo stacco) che si determina nella forma temporale dell'apparire in cui l'essere necessariamente si rap­presenta — lo scarto e il vuoto che il movimento della differenza produce — inficiano ogni presupposizione di identità, sospendono il suo «essere», lo consegnano all'originario vacillare dell'apparenza della rappresentazio­ne. La prima «mossa» del pensiero nell'esperienza dell'Eterno Ritorno è così l'apertura della «scena del tempo»*5 come scena senza-fondo, in cui il tempo si rivela come svelamento della scena stessa. Scena che manifesta come quanto vi appare, cioè vi si dà come presenza, non possa darsi se non ri-petendosi come rap-presentazione, se non recando «in sé il suo doppio come sua morte», «accogliendo la propria differenza interna»**. L'origina­rietà della rappresentazione alla forma temporale dell'apparire, il carattere

82 G. Bataille, «L'obelisco», in G.B., Critica dell'occhio, a cura di S. Finzi, Firenze 1972, p. 271.

83 hi, p. 274. 84 Sul senso di questo «vacillare» è da vedere il terzo capitolo di E. Severino, Destino della

necessità, Milano 1980, pp. 65-94. 85 Cfr. G. Derrida, La scrittura e la differenza, tr. it. di G. Pozzi, Torino 1971, p. 320. 86 Ibidem.

L'APORIA DELL'APPARENZA... INTRODUZIONE DI F. DESIDERI 43

necessariamente ri-petitivo dell'evento, la differenza intima al suo presen­tarsi che intimamente sdoppia la forma stessa dell'apparire: tutto ciò sta a significare «l'origine della tragedia come assenza di origine semplice»61. Ed è per questa «assenza» di valore ontologico che la teoria nietzscheana della tragedia tende a coincidere con la «sospensione» dell'apparenza, come luo­go aporetico della (originaria?) dialettica tra essere e interpretazione.

Il primo «movimento» che il pensiero dell'Eterno Ritorno traccia è, in altri termini, l'apertura-liberazione dell'evento come caso. L'evento, nella originaria necessità della rappresentazione, cade. E niente pare poterlo so­stenere. Sta allora anche in ciò, forse, quello che Bataille chiama il caratte­re tossico dell'idea del Ritorno, senza il quale il contenuto formale di esso risulterebbe «vuoto»™. Il «sentimento supremo» — come Nietzsche chia­ma l'esperienza dell'Eterno Ritorno — insieme al sentimento di «uno stato di gloria» è legato anche «ad un sentimento di caduta senza fondo»*9. Al­l'apertura del «caso» corrisponde per forza anche la sua chiusura nella «morte» della rappresentazione. «Pensare la chiusura della rappresenta­zione significa pensare il tragico: non come rappresentazione del destino ma come destino della rappresentazione. La sua necessità gratuita e senza fondo.»™ Ma se «è fatale che, nella sua chiusura, la rappresentazione con­tinui», è altrettanto «fatale» che tale chiusura si rappresenti perfetta nella morte della rappresentazione come rappresentazione della morte, che, tra­sformandosi nel simbolo dell'infigurabile, chiude l'apertura della scena del tempo nell'immagine del vertiginoso sprofondare e nell'idea del «vuoto stesso».

A questo vuoto, evidentemente, l'idea dell'Eterno Ritorno non si può fermare — altrimenti vi sarebbe soltanto l'Eterno Nulla che inghiotte ogni evento o il ritorno del singolo caso chiuso in se stesso, nella mortale rap­presentazione della sua inerte finitezza. In questo «vuoto», nel Tempo co­me Ab-grund, bisogna saltare, «sfondando» la stessa struttura del caso, perforando la definitività dell'immagine dell'essere come accadere. Il mas­simo sforzo teorico di Nietzsche sta proprio nel tentativo di saldare, nel

87 Ibidem. 88 Cfr. G. Bataille, «L'obelisco», in Critica dell'occhio, cit., p. 271. Qualche rischio in

quest'ultimo senso ci pare comporti la tesi di Natoli circa la qualità tautologica dell'idea di Eterno Ritorno, intesa come quanto «dice l'essere come accadere» (op. cit., p. 82); come «apertura di senso» che rende dicibile l'ente; e quindi come «trascendentale» seppur «anoma­lo» (p. 87). In tale prospettiva non solo l'Eterno Ritorno — come «figura eminentemente tau­tologica» che «enuncia la coincidenza di essere e accadere qualunque sia l'accadimento» (p. 192) — si pone come «condizione formale di ogni accadimento», ma rischia pure di ridur­si a connotato puramente formale dell'identità di senso di ogni evento, che ne libera il gioco dei differenti significati. E come tale si trasforma in asserto immediatamente ontologico o in «posizione» logica: ma in entrambi i casi resta ininterpretato il problema stesso dell'essere co­me accadere, che a mio avviso esso implica, e diviene così un'idea sostanzialmente anaporeti-ca. Tanto più che, credo, solo con qualche difficoltà si può affermare che in Nietzsche «non si dà mai alcun ritorno di cose, ma ciò che in ogni accadimento ritorna è l'identità di essere e accadere, ossia l'evento» (p. 67). Per dire formalmente «l'eventualità del mondo», infatti, non v'è bisogno dell'idea di Eterno Ritorno. In Nietzsche il Ritorno è sempre ritorno (eterno, certamente: ma questo è da interpretare) di quell'evento («quel ragno», etc): altrimenti dove starebbe il «peso più grande» da sostenere? Il Ritorno dell'evento significa certo l'eternità dell'evento, il destino del coincidere con sé, però non nell'analiticità della «assoluta tautolo­gia», bensì nel massimo di implicazioni sintetiche. L'eterno ritorno dell'evento, in quest'ulti­mo senso, non si identifica nemmeno con la sua sola eternità; il suo ritornare implica la totali­tà dell'accadere, riflette l'eterno come tutto-del-tempo. Sul carattere sintetico dell'idea di Eterno Ritorno ha insistito soprattutto G. Deleuze in Nietzsche e la filosofia, cit., pp. 96-100.

89 G. Bataille, «L'obelisco» in G.B., Critica dell'occhio, cit., p. 271. J. Derrida, La scrittura e la differenza, cit., p. 323.

44 LA GAIA SCIENZA

pensiero dell'Eterno Ritorno, l'idea di Caso e quella dì Necessità. L'espe­rienza del Ritorno ha infatti ecceduto l'immagine del Mondo come Caos sive necessitas: dove «tutto non è che necessità» e ha quindi in sé potenza di esistere, niente ha bisogno di tornare (non lo può), in quanto non cade mai. D'altra parte quanto ritornando si ri-presenta non può essere che un «caso»: un evento accaduto. Si dà ripetizione del presentarsi di qualcosa che appare, infatti, solo se la sua presenza si è inabissata nel Bodenlose in cui quanto si manifesta sulla scena del tempo è gettato di continuo. (Per di più poi, come si è visto, la necessità della ripetizione nella rappresentazione è intima al presente stesso.)

È così nell'immagine del mondo come «totalità dei casi» che l'esperienza dell'Eterno Ritorno si configura essenzialmente come esperienza di un'im­magine, di un'immagine irripetibile. In questa, che è la seconda virtuale «mossa» del pensiero nell'esperienza del Ritorno, il movimento è un indu­gio. In tale «indugio» l'Eterno Ritorno significa, goethianamente, volontà di rendere sublime l'attimo; godere la felicità del caso come fosse eterno.

Senti che devi congedarti, presto forse — e il crepuscolo di questo sentimento tinge segreta­mente di rosso la tua felicità. Fa' attenzione a questa testimonianza: essa significa che tu ami la vita e te stesso, e anzi la vita così come ti ha colpito e plasmato finora — e che aspiri a eter­narla. Non alia sed haec vita sempiterna!

Ma sappi — anche! — che la caducità canta sempre di nuovo la sua breve canzone, e che, nell'udire la prima strofe, quasi si muore di nostalgia, all'idea che potrebbe essere finita per sempre91.

L'eternità, in questo particolare timbro nostalgico dell'esperienza del Ritorno, è riflessa nell'evento di cui è avvertita la radicale precarietà e ca­sualità. È proprio il sentimento del nulla che lo abita intimamente a scio­gliere il factum dell'evento, a smuovere il suo essere stato, a volerne il ri­torno. Intuendo la cavità di ogni accadimento, il «sentimento supremo» trasforma il nulla intimo ad ogni caso — originario al suo differire da sé — in specchio che riflette l'immagine dell'eternità, e quindi anche l'identità dell'evento, la sua in-dividualità92. E sono tutti questi motivi a determinare — nel pensiero che pensa il nulla interno alla struttura del caso — la volon­tà che sia questo caso a ritornare, non solo la sua forma trascendentale.

Questa che abbiamo detto la seconda «mossa» del pensiero dell'Eterno Ritorno è certo il tentativo estremo di conciliare l'idea dell'Eterno Ritorno con la sospensione «femminile» della verità nell'apparenza. Quanto però appare nella rappresentazione dell'Eterno Ritorno dell'Uguale, come ripe­tizione infinita dell'unicità dell'immagine di un evento in cui si riflette l'e­terno, è a sua volta un'immagine (o un'esperienza) irripetìbile. La riflessio­ne tra immagine dell'eternità e immagine dell'evento che produce l'espe­rienza dell'Eterno Ritorno, ha un carattere eventuale. L'unicità dell'appa­renza dell'Eterno Ritorno è, quindi, quanto infrange continuamente il cir­colo tra Volontà di Potenza ed Eterno Ritorno. L'impulso ad imprimere i caratteri dell'essere sul divenire è costantemente interrotto e dissipato nel tempo dal carattere eventuale delle rifrazione in cui il divenire può appari­re come «caso felice».

Questo è quanto Nietzsche coglie nell'af. 339: Vita femina sintomotica-

91 F. Nietzsche, «Frammenti postumi 1881-1882», in Opere di F.N., cit., v, p. 441. 92 «Imprimiamo il riflesso dell'eternità sulla nostra vita! Questo pensiero ha più contenuto

di tutte le religioni che hanno disprezzato questa vita come fugace, e hanno insegnato a guar­dare verso un'altra vita indeterminata.» (Ivi, p. 367.)

L'APORIA DELL'APPARENZA... INTRODUZIONE DI F. DESIDERI 45

mente vicino a quello sul Peso più grande. È l'aforisma dove la modernità di Nietzsche e quindi la differenza dal Greco — la storica, «profonda estraneità» che, in quanto Europeo, lo divide da esso — è più visibile e lo è proprio nel massimo sforzo di mostrarvisi affine. I «casi fortunati» capaci di dissipare le nubi che velano l'estrema bellezza di un'opera, di una cosa e lasciano che una solare necessità riluca nel suo apparire — sono rari nel tempo:

...quel che (...) ci si disvela, però, ci si disvela una volta sola! I Greci potevano anche prega­re: «Che il bello sia anche una seconda e una terza volta!» Ah, essi avevano un buon motivo per invocare gli dèi, perché la non divina realtà non ce lo concede neppure una volta, il bello! lo voglio dire che il mondo è sovraccarico di cose belle ma, nonostante ciò, è povero, poveris­simo di momenti belli e di disvelamenti di queste cose. Eppure è forse proprio questo il più grande fascino della vita: su di lei aleggia un velo trapunto d'oro di belle possibilità, promet­tente, ritroso, pudico, beffardo, compassionevole, seducente. Sì, la vita è una donna!93

È intorno alla «possibilità», allora, che si compie una terza «mossa» (non certo l'ultima) del pensiero dell'Eterno Ritorno, nella volontà di con­giungere l'immagine del mondo come «totalità dei casi» e quella del Caos ove «tutto non è che necessità». «Mossa» che sarà portata a termine da Nietzsche solo nello Zarathustra, nella teoria dell'attimo quale congiunzio­ne di tempo ed eternità94. Tutto l'af 341 corre infatti lungo il filo del possi­bile: dall'apertura ipotetica («che avverrebbe se...», alla struttura per di­sgiunzioni alternative (Non... ? Oppure... Oppure...) che connota i possibi­li modi di rispondere all'esperienza dell'Eterno Ritorno. Anzitutto il pen­siero dell'Eterno Ritorno si presenta, così, come «pensiero di una possibili­tà»95, di una possibilità «interrogata e da interrogare sino in fondo». E la domanda che schiude tale possibilità — quella cioè di essere raggiunti dalle parole del «demone» del Ritorno — rivela insieme questo stesso «possibi­le» come origine di altre opposte possibilità.

Nel suo primo annuncio, dunque, il «pensiero dei pensieri» si mostra nella forma di una «domanda e una possibilità»96 — come oscillante tra due volti delleterno Ritorno. // volto della maledizione della Necessità del ritorno — l'Eterno Ritorno, cioè, come la «forma più estrema del Nichili­smo: il Niente (('"assurdo") eterno!» — e il volto della sua benedizione, /'amor fati: la volontà di oltrepassamento del Nichilismo. Tra i due volti si decide nell'attimo. Ma se i due volti sono «egualmente» possibili per la de­cisione (che può essere pure quella di non decidere), non rimanda questo ad un originario, «strutturale» differire dei due volti come poli che defini­scono lo stigma temporale dell'Essere come accadere? E non significa que­sto, con Bataille, che: «il tempo racchiude l'essere nell'accadere della chan­ce individualmente. Le possibilità si dividono e si oppongono. Senza indi­vidui, cioè senza la ripartizione dei possibili, non potrebbe esserci tem­po» . Così, se la decisione deve cadere su uno dei due volti, quanto sta tra essi, quanto nella decisione non cade è /I-stante: l'individuo attimo fa-to-mos/ Se l'Eterno Ritorno è «crisi del Nichilismo», punto «critico» tra Ni­chilismo e sua possibile Uberwindung, l'attimo è quanto tornando eterna­mente decide l'Idea di Necessità, è il crinale che la taglia in due possibili

93 Sulla rareté come stigma della Modernità, cfr. F. Rella, Miti e figure del moderno, Par­ma, 1981.

Questa dimensione dell'Eterno Ritorno, che qui non analizziamo direttamente, è quella focalizzata nei saggi di M. Cacciari e G. Franck contenuti in Cruciai ita del tempo, cit.

ac Cfr. M. Heidegger, Nietzsche, cit., i, pp. 392-393. 96 Cfr. Ivi, p. 275. 97 G. Bataille, Su Nietzsche, cit., p. 154.

46 LA GAIA SCIENZA

volti. Se l'attimo ha come destino la decisione — il dividersi in essa —, questo destino d'altronde è possibile perché nell'istante può stare solo /'in­di viduum. Z/in-dividuum è il problema che l'Eterno Ritorno destituendo il subjectum (costituendolo come necessaria scissione) restituisce, problema­tizzandosi nelle decidibili possibilità dell'istante. Va da sé, poi, che /'indivi­duimi qui non restaura nessuna «sovrana» identità del soggetto. L'idea dell'Eterno Ritorno mostra proprio, anzi, come ogni inattingibile Sé con­tenga una pluralità di possibili individui. Semmai l'inattingibilità del sé ri­manda alla voce che invoca dall'abisso: al carattere abissale della responsa­bilità98.

Ma se l'Eterno Ritorno si configura in questa lettura come ritorno del medesimo Ab-grund e del differente in-dividuum nell'attimo che decide l'aspetto della Necessità — tutto ciò non induce a dare un nome ali 'Ab-grund? Esso, forse, è la possibilità che originariamente sussiste nell'oscilla­zione tra il volto notturno e quello solare della Necessità, tra l'«Olimpo dell'apparenza» del Meriggio e l'opaco cadere del Tempo «in quel punto della notte dove non esiste il tempo»99. E a nominare «possibilità» /'Ab-grund non è la domanda che parla dalla sua stessa bocca? Non è il doman­dare che ha spalancato l'Enigma? Infine: non v'è in questa interrogante parola — come nel grido che invoca de profundis o nello sguardo che intui­sce la solare bellezza e necessità del caso — memoria (e, per un effimero istante, intuizione) del volto che ogni maschera necessariamente nasconde?

FABRIZIO DESIDERI

98 Qui il Nietzsche più problematico si incontrerebbe — al di là di ogni «facile» critica alla morale platonico-cristiana — con il Kant più segreto, quello che ha pensato il rapporto tra la fine del tempo e l'abisso del cuore. Per quest'ultimo aspetto in Kant rimando al mio recente Quartetto per la fine del tempo. Una costellazione kantiana, Genova, 1991, in particolare alla iv parte.

99 Si veda per questo il frammento di Nietzsche, in «Frammenti postumi 1885-1887» (Ope­re di F.N., cit., viu, 1), p. 166.

Prefazione alla seconda edizione

1.

Questo libro, forse, non ha bisogno soltanto di una prefazione: e co­munque è tutto da dimostrare che chi non abbia esperito alcunché di simile possa avvicinarsi all'esperienza di questo libro con una semplice prefazio­ne. Sembra scritto nella lingua del vento del disgelo; vi sono spavalderia, inquietudine, contraddizioni, tempo d'aprile, cosicché ci rammenta di con­tinuo l'avvicinarsi dell'inverno ma anche la vittoria sull'inverno, che viene, deve venire, forse è già venuto... ne fluisce gratitudine perpetua, come se fosse già avvenuto quanto c'era di più inatteso, la gratitudine di chi è gua­rito: perché proprio questa guarigione era tutto fuorché attesa. «Gaia scienza»: cioè i saturnali di uno spirito che ha resistito pazientemente a una pressione orribilmente lunga — pazientemente, rigorosamente, fredda­mente, senza sottomettersi ma anche senza speranza — e che adesso tutto d'un tratto è colto dalla speranza, dalla speranza della salute, dall'ebbrez­za della guarigione. Non c'è da meravigliarsi che vengano alla luce molti elementi irragionevoli e bizzarri, molta intenzionale tenerezza, sperperata persino per problemi spinosi, non proprio adatti a essere accarezzati e coc­colati. Ma tutto il libro non è altro che un divertimento, dopo lunghe ri­nunzie e impotenza, il lieto trionfo di una forza che ritorna, il ridestarsi della fede in un domani e in un dopodomani, l'improvviso sentimento e presentimento di un futuro, di avventure vicine, di mari nuovamente aper­ti, di mete nuovamente concesse, nuovamente credute. E cosa c'era dietro di me! Questo tratto di deserto, esaurimento, incredulità, glaciazione nel bel mezzo della giovinezza, questa vecchiaia instauratasi al posto sbaglia­to, questa tirannia del dolore superata soltanto dalla tirannia dell'orgoglio, che rifiutava le conclusioni del dolore — e le conclusioni sono un conforto —, questa solitudine radicale come difesa da un disprezzo dell'uomo dive­nuto morbosamente chiaroveggente, questa fondamentale riduzione della conoscenza ai suoi elementi amari, acri, dolorosi, come prescriveva la nau­sea gradualmente insorta da un'incauta dieta e depravazione spirituale — lo chiamano romanticismo — oh, se qualcuno potesse provare tutto que­sto! Chi lo potesse, però, mi darebbe certo per buono qualcosa di più che un po' di pazzia, di sfrenatezza, di «gaia scienza»: ad esempio la manciata di canti che in questa edizione sono aggiunti al testo: canti in cui un poeta si prende gioco, in modo difficilmente perdonabile, di tutti i poeti. Ah, non sono solo i poeti e i loro bei «sentimenti lirici» sui quali questo risorto deve sfogare la sua cattiveria: chissà che vittima va cercando, che mostro di materiale parodico lo ispirerà entro breve? «Incipit tragoedia», si legge alla fine di questo libro riflessivo — irriflessivo: che si stia all'erta! Si prean­nunzia un qualcosa di straordinariamente cattivo e malvagio: incipit paro­dia, non c'è dubbio...

48 LA GAIA SCIENZA

2.

Ma lasciamo stare il signor Nietzsche: che ce ne importa che sia guari­to?... Uno psicologo conosce pochi problemi avvincenti come quello del rapporto tra salute e filosofia; nel caso in cui sia lui ad ammalarsi, coinvol­ge nella sua malattia tutta la sua curiosità scientifica. Infatti, posto che si sia persone, si ha necessariamente anche una filosofia della propria perso­na; eppure la differenza è rilevante. Per l'uno a filosofare sono le sue man­canze, per l'altro le sue ricchezze e le sue forze. Il primo ha bisogno della sua filosofia come sostegno, elemento tranquillizzante, medicamento, re­denzione, elevazione, autoestraniamento; per l'altro è soltanto un bel lus­so, nel migliore dei casi la voluttà di una gratitudine trionfante che, in ulti­ma analisi, deve essere scritta in maiuscole cosmiche nel cielo dei concetti. Nell'altro caso tuttavia, quello più consueto, in cui la filosofia è il prodot­to della necessità, come accade a tutti i pensatori malati (e forse i pensatori malati sono la maggioranza, nella storia della filosofia): che ne sarà del pensiero nato sotto la pressione della malattia? Questo è il problema che interessa gli psicologi, e a questo proposito è possibile condurre esperimen­ti; non diversamente da quanto fa un viaggiatore che si proponga di sve­gliarsi a una determinata ora e poi si abbandona tranquillamente al sonno: così noi filosofi, posto che ci ammaliamo, ci abbandoniamo corpo e ani­ma, per un certo tempo, alla malattia, chiudendo per così dire gli occhi a quanto ci sta davanti. E come quegli sa che qualcosa non dorme, che qual­cosa conta le ore e lo sveglierà, così anche noi sappiamo che il momento decisivo ci troverà svegli, che qualcosa scatterà e coglierà lo spirito intento all'azione, intendendo con azione la debolezza o il ripensamento o la dedi­zione o l'indurimento o l'incupimento e tutti gli stati morbosi dello spirito, che nei giorni sani hanno contro di sé l'orgoglio dello spirito (come vuole quel vecchio detto per cui «lo spirito superbo, il pavone e il cavallo sono i tre animali più orgogliosi della terra». Dopo un simile autointerrogatorio, una simile autoinchiesta, ci si avvicina con occhio più raffinato a tutto quello su cui finora si è filosofato: si indovinano meglio di prima deviazio­ni involontarie, vicoli laterali, punti tranquilli e punti solari del pensiero, dove i pensatori sofferenti vengono condotti e sedotti proprio in quanto sofferenti, solo che adesso si sa in quale direzione il corpo malato e le sue esigenze spingono, urtano, attirano lo spirito: verso sole, silenzio, mitezza, pazienza, arte medica, conforto, in un modo o nell'altro. Ogni filosofia che ponga la pace più in alto rispetto alla guerra, ogni etica con una conce­zione negativa del concetto di felicità, ogni metafisica e fisica che conosca­no un finale, un qualsivoglia stato definitivo, ogni aspirazione prevalente­mente estetica o religiosa a quanto è lontano, aldilà, al di sopra, rende leci­ta la domanda se non sia stata la malattia a ispirare i filosofi. L'inconscio travestimento di necessità fisiologiche sotto la maschera dell'oggettività, dell'idealità, della spiritualità pura si spinge sino a limiti orripilanti, e spes­so mi sono domandato se, detto grossolanamente, la filosofia fino ad ora non sia stata altro che un'interpretazione del corpo e un fraintendimento del corpo. Dietro i più alti giudizi di valore dai quali fino ad ora è stata guidata la storia del pensiero sono nascosti fraintendimenti della costitu­zione fisica, sia del singolo, sia dei ceti o addirittura delle razze. Tutte le ardite follie della metafisica, in particolare le sue risposte alla domanda sul valore dell'esistenza, si possono sempre considerare sintomi di determinati corpi; e se globalmente a tali affermazioni o negazioni del corpo non si può

PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE 49

attribuire nemmeno un briciolo di significato, esse pur tuttavia forniscono allo storico e allo psicologo tanti preziosi suggerimenti in quanto sono, co­me abbiamo detto, sintomi del corpo, del suo riuscire e fallire, della sua pienezza, potenza, autodominio nella storia, ma anche dei suoi impedi­menti, stanchezze, impoverimenti, del suo presentimento della fine, della sua volontà di finire. Io continuo ad aspettarmi che un medico filosofico nel senso non comune del termine — ovvero che si dedichi al problema del­la salute globale di popolo, tempo, razza, umanità — abbia finalmente il coraggio di portare alle sue estreme conseguenze il mio dubbio e di osare questa affermazione: fino ad oggi, tutto il filosofare non è stato «verità», ma qualcos'altro, diciamo salute, futuro, crescita, potenza, vita...

3. S'intende che non vorrei congedarmi con atteggiamento ingrato da quel

periodo di grave malessere i cui proventi non sono ancora esauriti, come del resto so bene in che cosa, con la mia alternante salute, sono superiore a tutti gli spiriti quadrati. Un filosofo che abbia attraversato e continui ad attraversare molti stati di salute avrà abbracciato altrettante filosofie: non può fare a meno, infatti, di trasformare ogni volta la sua condizione nella sua forma e distanza spirituale, — perché la filosofia è propriamente l'arte della trasfigurazione. Noi filosofi non siamo liberi di distinguere tra corpo e anima come fa il popolo; siamo ancora meno liberi di distinguere tra ani­ma e spirito. Non siamo rane pensanti, non siamo strumenti di oggettiva­zione e registrazione con viscere freddamente regolate, — dobbiamo co­stantemente generare i nostri pensieri col nostro dolore e conferire loro, maternamente, tutto il nostro sangue, fuoco, piacere, passione, tormento, coscienza, destino, sciagura. Vivere — per noi significa tutto quello che siamo, trasformare costantemente in luce e fiamma anche tutto quello che ci riguarda, non possiamo farne a meno. E per quanto concerne la malat­tia: non avremmo quasi la tentazione di domandarci se non sia proprio in­dispensabile? Soltanto il grande dolore è l'ultimo liberatore dello spirito, in quanto maestro di quel grande dubbio che fa di ogni U una X, una X completamente autentica, cioè la penultima lettera dell'alfabeto... Soltan­to il grande dolore, quel dolore grande e lento che si prende tempo e nel quale bruciamo come legna verde, costringe noi filosofi a scendere nei no­stri abissi più profondi e a disfarci di tutta la fiducia, di tutto ciò che è bo­nario, dissimulante, mite, medio, in cui forse un tempo avevamo riposto la nostra umanità. Io dubito che un tale dolore possa «migliorare»; so però che ci rende più profondi. Sia che impariamo a contrapporgli il nostro or­goglio, il nostro scherno e la nostra forza di volontà, come quell'indiano che, per quanto violentemente maltrattato, oppone al suo aguzzino la vio­lenza della sua lingua; sia che di fronte al dolore ci ritraiamo in quel niente orientale — lo chiamano Nirvana — che altro non è se non un muto, rigi­do, sordo arrendersi, dimenticarsi, spegnersi; in ogni caso da tali lunghi e pericolosi esercizi di autodominio si esce diversi, con alcuni punti interro­gativi in più, ma soprattutto con la volontà di porre più interrogativi, più profondi, più rigorosi, più duri, più cattivi, più taciti di quanto non si fos­se fatto fino a quel momento. La fiducia nella vita se n'è andata: la vita stessa è divenuta un problema. Non si creda, con ciò, di essere necessaria­mente divenuti dei tipi cupi! Persino l'amore per la vita è ancora possibile: soltanto che si ama diversamente. È l'amore per una donna di cui dubitia­mo... Il fascino di tutto ciò che è problematico, la gioia per la X è però

50 LA GAIA SCIENZA

troppo grande, per tali uomini più spirituali e più spiritualizzati, perché non appaia sempre come una luce che arde sopra 1'incertezza del proble­matico, sui pericoli dell'insicurezza, persino sulla gelosia dell'amante. Co­nosciamo una nuova gioia...

4.

Infine, per non tacere l'essenziale: da tali abissi, da tali gravi malattie, dal morbo del dubbio radicale, si esce come rinati, con una nuova pelle, più critici, più cattivi, con un gusto più raffinato per la gioia, con una lin­gua più tenera per tutte le cose buone, con sensi più vogliosi, con una se­conda, pericolosa innocenza nella gioia, più infantili e allo stesso tempo più raffinati di quanto non si sia mai stati. E come ci ripugna il piacere, il piacere grossolano e ottuso, come Io intendono i goderecci, le persone «istruite», i nostri ricchi e i nostri governanti! Con quanta malvagità ascol­tiamo il fracasso della fiera, col quale gli «uomini istruiti» e i cittadini si fanno violentare da arte, libri e musica al fine di provare «piaceri spiritua­li», con l'aiuto di bevande anch'esse «spirituali»! Come ferisce le nostre orecchie il grido teatrale della passione, come sono divenuti estranei al no­stro gusto lo scompiglio romantico e la confusione dei sensi tanto amati dalla plebe, con le sue aspirazioni a ciò che è sublime, elevato, stravagante! No, se noi guariti abbiamo bisogno di un'arte, si tratta di un'arte diversa — un'arte beffarda, fugace, divinamente indisturbata, che divampi come una fiamma chiara in un cielo senza nubi! Soprattutto: un'arte per gli arti­sti, soltanto per gli artisti! Dopo ci capiremo meglio su quanto è estrema­mente necessario, l'allegria, ogni allegria, amici miei, anche come artista: vorrei dimostrarcelo. Adesso sappiamo alcune cose troppo bene, noi sa­pienti: oh come impariamo anche a dimenticare, a non sapere, in quanto artisti! E per quanto concerne il nostro futuro: sarà difficile che ci ritrovi­no sulle tracce di quei giovani egiziani che di notte rendono insicuri i tem­pli, abbracciano le statue e vogliono svelare, scoprire, portare alla luce tut­to ciò che a ragione è tenuto celato. No, questo cattivo gusto, questa vo­lontà di verità, questa «verità a ogni costo», questa follia giovanile dell'a­more per la verità, tutto ciò ci disgusta: siamo troppo esperti, troppo seri, troppo vogliosi, troppo bruciati, troppo profondi... Non crediamo più che la verità rimanga tale anche quando le si toglie il suo velo; abbiamo vissuto abbastanza per poter credere a queste cose. Oggi ci sembra una questione di eleganza non vedere tutto nudo, non essere sempre pronti, non volere capire e «sapere» tutto. «È vero che il buon Dio è dappertutto?», doman­dò una volta una bimbetta alla sua mamma, aggiungendo: «Mi sembra in­decoroso». Che suggerimento per i filosofi! Sarebbe meglio ricondurre questa vergogna nei limiti del decoro, come la natura si è nascosta dietro enigmi e una variopinta insipienza. Forse che la verità è una donna, e ha i suoi motivi, per non far vedere il fondo? Forse che il suo nome, tanto per parlare greco, è Baubo? Oh, questi Greci: loro sì che sapevano vivere! Per far ciò, occorre rimanere saldamente ancorati alla superficie, alla ruga, al­la pelle; adorare l'apparenza; credere alle forme, ai suoni, alle parole, a tutto l'Olimpo dell'apparenza! Questi Greci erano superficiali per profon­dità! E non vogliamo tornare proprio là, noi scavezzacollo dello spirito, che abbiamo scalato la punta più alta e pericolosa del pensiero contempo­raneo e da là ci siamo guardati dintorno e in basso, sotto di noi? Non sia­mo proprio per questo — Greci? Adoratori delle forme, dei suoni, delle parole? Proprio per questo — artisti?

«Scherzo, perfidia e vendetta» Preludio in rime tedesche

1.

Invito Forza col mio cibo, mangiatori! Domani vi piacerà di più e anche il giorno dopo! Se ne vorrete ancora, — le mie vecchie sette cose mi daranno il coraggio per sette cose nuove.

2.

La mia felicità Da quando fui stanco di cercare imparai a trovare. Da quando un vento si levò a me contrario veleggio con tutti i venti.

3.

Intrepido Dovunque ti trovi, scava in profondità! Là sotto è la sorgente! Che gli uomini scuri gridino pure: «Là sotto c'è sempre — l'inferno!».

4.

Dialogo A. Ero malato? Sono guarito?

E chi è stato il mio dottore? Come ho dimenticato tutto!

B. Solo adesso ti credo guarito: perché è sano chi dimenticò.

5.

Ai virtuosi

Anche le nostre virtù debbono avere passi leggeri: come i versi di Omero, debbono andare e venire!

52 LA GAIA SCIENZA

6.

Saggezza del mondo Non rimanere in piano! Non salire troppo in alto! Il mondo è più bello se visto da mezza altezza.

7.

Vademecum - Vadetecum Ti affascinano i miei modi e la favella, me tu segui, a me vieni dietro? Solo te stesso fedelmente segui: così mi seguirai — adagio, adagio!

8.

Alla terza desquamazione Già mi si inarca e si spacca la pelle, già con rinnovato anelito per quanta terra abbia già digerito in me brama la terra il serpente.

Già striscio fra sasso ed erba affamato, su vie tortuose, per mangiare quanto sempre mangiai, te, cibo da serpenti, te, terra!

9.

Le mie rose Sì! La mia felicità — vuol rendere felici — ogni felicità vuol sempre rendere felici! Volete cogliere le mie rose?

Dovete piegarvi e nascondervi tra rocce e siepi spinose; dovrete spesso leccarvi i ditini!

Perché la mia felicità — ama punzecchiare! Perché la mia felicità — ama la perfidia! — Volete cogliere le mie rose?

10.

Il dispregiatore Molto lascio cadere e rotolare, per questo mi dite il dispregiatore. Chi beve da calici troppo pieni

«SCHERZO, PERFIDIA E VENDETTA.» PRELUDIO IN RIME TEDESCHE

molto lascia cadere e rotolare — non vogliatene per questo al vino.

11. Parla il proverbio

Aguzzo e soave, rozzo e fine, fidato e strano, sudicio e puro, un convegno di folli e saggi: Io sono tutto questo e voglio esserlo, colomba e, insieme, porco e serpente!

12.

A un amico della luce Se non vuoi che l'occhio e i sensi tuoi si intorpidiscano corri pure dietro al sole, ma stando all'ombra!

13.

Per danzatori Ghiaccio liscio un paradiso per chi sa danzare bene.

14.

Il coraggioso Meglio un'inimicizia a tutto tondo che un'amicizia tenuta insieme con la colla!

15.

Ruggine Ci vuole anche la ruggine: essere affilati non basta! Altrimenti di te diranno sempre: «È troppo giovane!».

16.

Verso l'alto Qual è il modo migliore per guadagnare la vetta? Tu sali, e non pensarci!

17.

Massima del violento Non supplicare mai! Via questi piagnistei! Prendi, ti supplico, prendi sempre!

54 LA GAIA SCIENZA

18.

Anime grame Le anime grame mi sono odiose non c'è niente di buono, e quasi niente di cattivo.

19.

L'involontario seduttore Per passare il tempo, sparò una parola vuota nell'azzurro — e per questo cadde una donna.

20.

Da meditare Un dolore doppio si sopporta più facilmente che uno solo: vuoi tentare?

21.

Contro l'alterigia Non ti gonfiare: altrimenti basta una lieve puntura a farti scoppiare.

22.

Uomo e donna «Rapisci la donna per cui batte il tuo cuore!» — Così pensa l'uomo: la donna non rapisce, ruba.

23.

Interpretazione Se io mi interpreto, coinvolgo anche me: non posso essere il mio interprete. Ma chi s'arrampica per la sua strada porterà anche la mia immagine in una luce più chiara.

24.

Medicina per pessimisti Ti lamenti che niente ti piace? I soliti vecchi grilli? Ti sento bestemmiare, vociare, sputare — mi si spezzano cuore e pazienza. Seguimi, amico mio! Decidi liberamente di ingoiare un rospetto grasso Alla svelta, e senza guardare! — Ti protegge dalla dispepsia!

«SCHERZO, PERFIDIA E VENDETTA.» PRELUDIO IN RIME TEDESCHE

25.

Richiesta Conosco di molti uomini l'animo e non so chi sono io! Il mio occhio mi è troppo vicino — non sono quel che vedo e vedevo. Mi sarei ben più utile se potessi starmi più lontano. Non lontano come il mio nemico, è chiaro! E anche l'amico più vicino è troppo distante — almeno a metà strada tra me e lui! Indovinate che cosa vi chiedo?

26.

La mia durezza Debbo passare su cento gradini debbo salire e vi sento gridare: «Sei proprio duro, siamo forse di pietra?». Debbo passare su cento gradini e nessuno vuol essere gradino.

27.

Il viandante «Smarrito è il sentiero! Abisso dintorno, e silenzio di morte!» — L'hai voluto tu! Fu la tua volontà a lasciare il sentiero! Orbene, viandante, è così! Che il tuo sguardo sia freddo e chiaro! Sei perduto, se credi — al pericolo.

28.

Conforto per i principianti Vedete il bambino tra il grugnire dei porci inerme e coi piedi torti! Sa piangere, nient'altro che piangere — imparerà mai a stare in piedi e camminare? Via lo sconforto! Presto, a mio parere, vedrete il bambino danzare! Non appena starà in piedi su due gambe, starà anche sulla testa.

29.

Egoismo delle stelle Se io, botte rotonda, non rotolassi intorno a me stessa senza posa come potrei senza prender fuoco rincorrere il sole ardente?

56 LA GAIA SCIENZA

30.

Il prossimo Non mi piace avere il prossimo vicino: che se ne vada in alto e lontano! Come potrebbe, altrimenti, essere la mia stella? —

31.

Il santo camuffato Affinché non ci opprima la tua felicità ti circondi di cose diaboliche, diabolica astuzia e abbigliamento. Ma inutilmente! Dal tuo sguardo ci guarda la santità!

32.

Il non libero A.: È in piedi, e tende l'orecchio: che cosa potè turbarlo?

Che cosa gli frulla intorno alle orecchie? Che cosa fu ad abbatterlo?

B.: Come tutti coloro che sono stati in catene ode dappertutto — cigolar di catene.

33.

77 solo Odioso mi è il seguire e anche il condurre. Obbedire? no! Ma neppure... governare! Chi non fa paura a se stesso, non fa paura a nessuno: e solo chi fa paura può guidare gli altri. A me è odioso già il guidare me stesso! Io amo, come gli animali del bosco e del mare, smarrirmi per un bel po', accovacciarmi almanaccando in un soave garbuglio e infine, da lontano, adescarmi a casa mia, essere il seduttore di me stesso.

34.

Seneca et hoc genus omne Scrive di continuo sciocchezze insopportabilmente sagge come se dovesse primum scribere deinde philosophari.

«SCHERZO, PERFIDIA E VENDETTA.» PRELUDIO IN RIME TEDESCHE 57

35. Ghiaccio

Sì! Nel frattempo preparo del ghiaccio: il ghiaccio è utile per digerire! Se aveste molto da digerire oh, come amereste il mio ghiaccio!

36. Scritti giovanili

L'alfa e l'omega della mia saggezza mi risuonava qui: quanto li udivo! Così non risuona più; odo soltanto, della mia giovinezza, il perpetuo ah! e oh!

37.

Cautela

In quella regione non si viaggia più bene, e se hai dello spirito, sta' doppiamente in guardia! Ti adescano e ti amano, ma poi ti fanno a brandelli: sono fanatici, cui lo spirito manca da sempre!

38.

Parla il saggio Dio ci ama perché ci ha creato! «È stato l'uomo a creare Dio», ribattete voi, perspicaci. E non dovrebbe amare quel che ha creato? Dovrebbe anzi, poiché l'ha creato, negarlo? Ciò zoppica, ha lo zoccolo del diavolo.

39.

D'estate

Nel sudore del nostro volto dobbiamo mangiare il nostro pane? Nel sudore meglio non mangiar niente come consigliano i medici saggi. Fa un cenno la costellazione del cane: che manca? Che vuole il suo cenno di fuoco? Nel sudore del nostro volto dobbiamo bere il nostro vino!

58 LA GAIA SCIENZA

40.

Senza invidia Sì, egli guarda senza invidia: e voi per questo gli rendete onore? Il suo sguardo non cerca i vostri onori; ha occhi d'aquila, per la lontananza; manco vi vede! — Vede solo stelle, stelle.

41.

Eraclitismo Ogni felicità sulla terra. O amici, la dà la battaglia! Sì, per diventare amici, ci vuole il fumo delle polveri! In tre cose gli amici son tutt'uno: fratelli davanti al bisogno, uguali davanti al nemico, liberi — davanti alla morte!

42.

Principio dei troppo raffinati Meglio ancora sui piedi che a quattro zampe! Meglio dal buco della serratura che dalle porte aperte!

43.

Incoraggiamento Il tuo animo tende alla gloria? Allora rispetta questo insegnamento: rinunzia subito, liberamente, all'onore!

44.

Chi va a fondo Io un ricercatore? Oh, risparmiatevi questa parola! — Il fatto è che peso — qualche chiletto! Cado, continuo a cadere e finisco così sul fondo!

45.

Per sempre «Vengo oggi perché mi torna bene.» Pensa chiunque venga per sempre.

«SCHERZO, PERFIDIA E VENDETTA.» PRELUDIO IN RIME TEDESCHE 59

Che gliene importa dei discorsi del mondo: «Sei venuto troppo presto! Sei venuto troppo tardi!».

46. Giudizi degli stanchi Tutti gli spossati maledicono il sole; quel che vale di un albero è per loro — la sua ombra!

47.

Discesa «Si abbassa, sta per cadere», così schernite a più riprese; la verità è che scende verso di voi!

La sua troppa gioia gli divenne fastidio; la sua troppa luce segue il vostro buio.

48.

Contro le leggi Da oggi è appeso a un cordoncino di crine intorno al mio collo l'orologio delle ore; da oggi cessano il corso delle stelle, sole, canto del gallo e ombra, e quanto fino ad oggi m'ha annunziato il tempo, adesso è muto e sordo e cieco: tace per me ogni natura al tictac di legge e ora.

49.

Parla il saggio Estraneo al popolo e pure ad esso utile vado per la mia strada, ora sole, ora nuvola — e sempre sopra questo popolo!

50.

Testa perduta Adesso ha dello spirito — come è giunta a trovarlo? Di recente un uomo ha perduto la testa per lei, una testa era ricca di questo passatempo: è andata al diavolo, forse? — No! No! Alla donna!

51.

Pii desideri «Che tutte le chiavi possano andare perdute in un baleno

60 LA GAIA SCIENZA

E in ogni buco di serratura si rigiri il grimaldello!» Così pensa, in ogni tempo chiunque sia — un grimaldello.

52.

Scrivere col piede I0 non scrivo soltanto con la mano: anche il mio piede vuol essere scrivano. Saldo, libero e prode esso mi corre sui campi e attraverso il foglio.

53.

«Umano, troppo umano.» Un libro Malinconicamente pauroso, finché guardi all' indietro; fiducioso nel futuro, quando hai fiducia in te stesso: oh uccello, debbo annoverarti fra le aquile? Sei la civetta cara a Minerva?

54.

Al mio lettore Denti buoni e stomaco buono — questo ti auguro! Una volta che hai retto il mio libro, reggerai certamente anche me!

55.

Il pittore realista «Fedele alla natura, in tutto!» E da che cosa parte: quando mai la natura si risolve in un quadro? Infinito è il più piccolo frammento di mondo! Talvolta dipinge quel che gli piace. E che cosa gli piace? Quel che sa dipingere.

56.

Vanità di poeta Datemi solo un pò di colla: chè per incollare sono capace di trovarmi il legno! Conferire a quattro assurde rime un senso: non è orgoglio da poco!

57.

Gusti difficili Se mi dessero libertà di scegliere, mi piacerebbe scegliermi un posticino

<SCHERZO, PERFIDIA E VENDETTA.» PRELUDIO IN RIME TEDESCHE 61

nel bel mezzo del Paradiso o, meglio ancora — davanti alla sua porta!

58. Il naso storto Il naso guarda il paese, già sulla difensiva; la narice si gonfia — per questo cadi, rinoceronte senza corno, ometto mio orgoglioso, sempre in avanti! E le due cose vanno sempre insieme: orgoglio diritto e naso storto.

59. La penna gratta La penna gratta: all'inferno! Sono condannato a dover grattare? Afferro ardito il calamaio e scrivo con densi fiumi d'inchiostro. Come scorre, ampio e pieno! Mi riesce tutto ciò cui metto mano! Certo, la scrittura manca di chiarezza — che importa? Tanto chi legge quel che scrivo?

60.

Persone superiori Questo va in alto — lo si deve lodare! Quello invece viene sempre dall'alto! Egli vive al di là di ogni lode, è di lassù!

61.

Parla lo scettico Doppiata è la metà della tua vita; vanno avanti le lancette, un brivido ti sfiora l'anima! A lungo ha vagato cercando senza trovare — e qui rabbrividisce? Doppiata è la metà della tua vita: dolore ed errore, un'ora dopo l'altra, fin quaggiù! Che cerchi ancora? Perché? è ben questo che cerco — il motivo, e il motivo del motivo!

62.

Ecce homo Sì! So donde vengo! Mai sazio, come la fiamma

62 LA GAIA SCIENZA

mi ardo e mi consumo. Luce diviene tutto ciò che afferro, carbone ciò che lascio: sono sicuramente fiamma.

63.

Morale siderale Predestinata a un'orbita stellare che t'importa, o stella, del buio?

Rotea beata attraverso questo tempo! La sua miseria ti sia estranea e distante!

Del mondo più distante è il tuo bagliore: la compassione sia per te un peccato!

Per te vale un comandamento solo: sii pura!

Libro primo

1.

I maestri della finalità dell'esistenza. Che io guardi gli altri con òcchi buoni o cattivi, li trovo sempre impegnati in qualcosa, tutti e ogni singolo in particolare: nel fare qualcosa che giovi alla conservazione del genere umano. E questo, a dire il vero, non per un senso di amore nei confronti di questo genere, ma semplicemente perché niente in loro è più antico, più forte, più inesorabile, più insuperabile di quell'istinto, perché quest'istinto costituisce appunto l'essenza della nostra specie e del nostro gregge. Se già con la consueta miopia da cinque passi di distanza si è capaci di distinguere nitidamente il prossimo in persone utili e inutili, buone e cattive, nel caso di calcoli di più ampio respiro e riflettendo più a lungo su tutta la faccenda si diviene diffidenti nei confronti di questa nitida distinzione e si finisce per lasciare tutto com'è. Anche l'uomo più dannoso può forse essere sempre il più utile, con riferimento alla conservazione della specie; infatti egli man­tiene vivi in sé o anche, tramite il suo effetto, negli altri, istinti senza i quali l'umanità sarebbe da tempo afflosciata o impigrita. L'odio, la gioia per il male altrui, la rapacità e la sete di potere e tutto ciò che viene definito catti­vo fanno parte della sorprendente economia della conservazione della spe­cie, certo di un'economia costosa, sperperatrice e nel complesso estrema­mente malvagia — che comunque, com'è dimostrabile, ha sinora contri­buito a conservare la nostra razza. Io non so più se tu, mio caro prossimo, sappia vivere a svantaggio della specie, cioè «irrazionalmente» e «male»; quel che avrebbe potuto danneggiare la specie è probabilmente defunto già da secoli e fa probabilmente parte di quelle cose che sono ormai possibili soltanto a Dio. Abbandonati ai tuoi desideri migliori o peggiori e soprat­tutto: va' in malora! In entrambi i casi resti sempre, probabilmente, una specie di promotore e benefattore dell'umanità, e puoi così conservarti sia chi ti loda che chi ti schernisce! Ma non troverai mai chi sappia dileggiarti, singolarmente, anche nelle cose migliori, che possa raccomandarti calda­mente, come verità vorrebbe, la tua sconfinata abiezione di mosca e di ra­na. Ridere di se stessi come si dovrebbe ridere per ridere a partire dalla ve­rità tutta — per far questo, fino ad oggi, i migliori non hanno avuto abba­stanza senso della verità e i più dotati troppo poco genio! Forse anche per il riso c'è ancora un futuro, quando l'umanità avrà incorporato il principio secondo il quale «la specie è tutto, uno è sempre nessuno» e a ciascuno sa­rà aperto in ogni momento l'accesso a questa ultima liberazione e irrespon­sabilità. Forse allora il riso si sarà legato alla saggezza, forse allora ci sarà soltanto una «gaia scienza». Per il momento le cose stanno diversamente, per il momento la commedia dell'esistenza non ha ancora «preso coscien­za» di se stessa, per il momento è ancora il tempo della tragedia, il tempo delle morali e delle religioni. Che cosa significa questa continua comparsa di fondatori di morali e religioni, che suscitano battaglie e valutazioni eti-

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che, maestri di rimorsi di coscienza e guerre di religione? Che cosa signifi­cano questi eroi su questo palcoscenico? Finora, infatti, ne sono stati loro gli eroi, e tutto il resto, che per il momento era soltanto visibile e vicino, è servito sempre e soltanto a preparare questi eroi, vuoi come macchine di scena o quinte, vuoi nel ruolo di confidenti e servi. (I poeti, ad esempio, sono sempre stati servi di una qualche morale.) Si capisce che anche queste tragedie lavorano nell'interesse della specie, per quanto possano credere di lavorare nell'interesse di Dio e come inviati di Dio. Anch'esse promuovono la vita della specie, in quanto promuovono la fede nella vita. «La vita vale la pena di essere vissuta», grida ognuno di loro, «c'è qualcosa in questa vi­ta, la vita ha qualcosa dietro di sé, sotto di sé, fate attenzione!» Quell'istin­to che domina indifferentemente le persone più elevate e più banali, l'istin­to della conservazione della specie, emerge di tanto in tanto come ragione e passione dello spirito; ha allora intorno a sé una brillante successione di motivi e vuol far dimenticare, con grande violenza, che non è altro che im­pulso, istinto, follia, infondatezza. La vita deve essere amata, allora! L'uomo deve tendere al miglioramento di se stesso e dei suoi simili, allora! E come potranno mai chiamarsi in futuro tutti questi «deve» e «allora»! Affinché ciò che è necessario e accade sempre di per sé e senza scopo alcu­no appaia, d'ora in avanti, finalizzato a uno scopo e si manifesti all'uomo quale ragione e comandamento ultimo, ecco che si fa avanti il maestro eti­co, in quanto maestro della finalità dell'esistenza; a tal fine egli scopre una seconda, un'altra esistenza, e per mezzo della sua nuova meccanica eleva questa vecchia, volgare esistenza sulle sue vecchie, volgari trappole. Già! Egli non vuole assolutamente che si rida dell'esistenza, e neppure di noi — o di lui — per lui uno è sempre uno, un qualcosa di primo e di ultimo e di enorme; per lui non si danno genere, somme, zeri. Per quanto folli ed esal­tate possano essere le sue scoperte e le sue valutazioni, per quanto misco­nosca l'andamento della natura e neghi le sue condizioni — e tutte le etiche sono state, fino ad oggi, tanto folli e contro natura che ciascuna di loro avrebbe rovinato l'umanità, nel caso in cui dell'umanità si fosse imposses­sata — e comunque! Ogni volta che l'eroe entra in scena si raggiunge qual­cosa di nuovo, l'orripilante pendant del riso, quel profondo brivido che molti avvertono al pensiero «Sì, vale la pena di vivere! Sì, vale la pena che io viva!» — la vita e io e te e noi tutti acquisiamo per qualche tempo un certo interesse reciproco. È innegabile che a lungo andare il riso e la ragio­ne e la natura sono divenuti padroni di ciascuno di questi grandi maestri della finalità: la breve tragedia è sempre rientrata nell'alveo dell'eterna commedia dell'esistenza, e le «onde di innumerevoli risa», tanto per dirla con Eschilo, debbono in ultima analisi abbattersi anche sulla più grande di queste tragedie. Ma anche con questo riso correttivo, nel complesso la na­tura umana è stata modificata da questa eterna ricomparsa dei maestri del­la finalità dell'esistenza: essa adesso ha un'esigenza in più, ovvero l'esigen­za della continua ricomparsa di tali maestri e delle loro dottrine della «fi­nalità». L'uomo è gradualmente divenuto un animale fantastico, il quale deve adempiere a una funzione esistenziale in più rispetto agli altri animali: ogni tanto l'uomo deve credere di sapere perché esiste, il suo genere non può prosperare senza una periodica fiducia nella vita! Senza fede nella ra­gione insita nella vita! E ogni volta la stirpe umana decreterà: «C'è qualco­sa su cui non è assolutamente lecito ridere!». E il più cauto amico dell'uo­mo aggiungerà: «Non soltanto il riso e l'allegra saggezza, ma anche il tra­gico, con tutta la sua sublime irragionevolezza, è uno dei mezzi e dei truc­chi per conservare la specie!». E quindi! Quindi! Quindi! Mi ca-

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pite, fratelli miei? Capite questa nuova legge della marea e dei flutti? C'è un tempo anche per noi!

2.

La coscienza intellettuale. Io faccio ripetutamente la stessa esperienza e, ogni volta, ad essa mi oppongo con tutte le mie forze, non ci credo se non tocco con mano: alla maggioranza degli uomini manca la coscienza intel­lettuale; anzi mi è spesso parso che chi ne senta l'esigenza si trovi, anche nelle città più popolose, solo come nel deserto. Ti guardano tutti con occhi estranei e continuano a usare la loro bilancia, definendo questo buono e quello cattivo; nessuno arrossisce minimamente quando fai loro notare che questi pesi non sono assoluti, né se la prendono con te: forse ridono dei tuoi dubbi. Voglio dire: la maggioranza degli uomini non trova niente da ridire nel credere a questo o a quello e nel vivere di conseguenza, senza pri­ma aver preso coscienza dei motivi ultimi e più sicuri pro e contro, e senza essersi neppure dati pena di cercarli, questi motivi: anche gli uomini più dotati e le donne più nobili appartengono sempre a questa «maggioranza». Ma cosa sono buon cuore, finezza e genio se l'uomo dotato di queste virtù tollera accanto a sé, nel credere e giudicare, sentimenti pigri, se il desiderio di certezza non è per lui la brama più intima e la necessità più profonda, in quanto elemento di separazione tra gli uomini più elevati e quelli più bassi! Ho rivenuto in alcuni uomini pii un certo odio nei confronti della ragione, e questo mi ha bendisposto nei loro confronti: tradiva infatti, quanto me­no, il permanere di una malvagia coscienza intellettuale! Ma stare nel bel mezzo di questa rerum concordia discors e di tutta la meravigliosa insipien­za e molteplicità dell'esistenza, senza domandare, senza tremare per la bra­ma e il piacere del domandare, senza neppure odiare chi domanda, for-s'anche trovandolo appena divertente: è questo che io trovo riprovevole, ed è questa percezione che io cerco per prima cosa in chiunque incontri; una specie di follia mi convince sempre che ogni uomo ha questa percezio­ne. È la mia personale ingiustizia.

3.

Nobile e volgare. Alle nature volgari tutti i sentimenti nobili e magnani­mi appaiono inadeguati e quindi estremamente inattendibili; ammiccano, quando ne sentono parlare, e sembrano voler dire: «Ci sarà pure un van­taggio, ma non si può vedere cosa c'è dietro la parete»; sono diffidenti nei confronti dei nobili, come se costoro si cercassero tali vantaggi su sentieri segreti. Se sono chiaramente convinti dell'assenza di intenzioni e utili egoi­stici, allora il nobile sembra loro una specie di folle: lo disprezzano per la sua gioia e lo deridono perché gli brillano gli occhi. «Come si può gioire se non si hanno vantaggi, come ci si può precipitare ad occhi aperti in qualco­sa che arreca svantaggi! Alla nobiltà deve essere legata una malattia della ragione», essi pensano, guardandolo con un certo disprezzo, proprio come disprezzano la gioia che il folle ricava dalla sua idea fissa. La natura volga­re è contraddistinta dal fatto che tiene incrollabilmente davanti agli occhi il suo vantaggio e che questo pensare al fine e al vantaggio è di per sé più for­te di tutti i suoi istinti più forti: la sua saggezza e la sua percezione di sé stanno proprio nel non farsi traviare da quegli istinti verso azioni non fina­lizzate. In confronto, la natura più elevata è davvero più irragionevole: in­fatti chi è nobile, magnanimo, pronto al sacrificio soggiace di fatto ai suoi

66 LA GAIA SCIENZA

istinti, e nei suoi migliori momenti la ragione è disinserita. La bestia che protegge il suo piccolo in pericolo di vita o, nel periodo della fregola, segue la femmina anche fino alla morte, non pensa al pericolo della morte, anche la sua ragione è disinserita, perché è completamente dominata dal piacere che gli procura il suo piccolo o la sua femmina e dal timore di esserne pri­vato; diviene più stupida di quel che è normalmente, proprio come il nobile e il magnanimo. Per costui, le sensazioni di piacere e dispiacere sono così intense che di fronte ad esse l'intelletto deve tacere o mettersi al loro servi­zio: il cuore entra loro in testa e si parla allora di «passione» (ogni tanto si instaura anche il suo contrario, la cosiddetta «inversione della passione», ad esempio in Fontanelle, a cui qualcuno una volta mise la mano sul cuore dicendo: «Lei qui, carissimo, ha anche il cervello»). Nel nobile la persona volgare disprezza Irragioncvolezza o ragionevolezza stravagante della passione, soprattutto quando è indirizzata su oggetti il cui valore gli pare totalmente fantastico e arbitrario. È irritato da colui che soggiace alla pas­sione delle viscere, ma comprende il fascino che Io rende un tiranno; non comprende però come, ad esempio, si possa mettere in gioco la propria sa­lute e il proprio onore per la passione della conoscenza. Il gusto della natu­ra più elevata si orienta verso eccezioni, verso cose che normalmente la­sciano freddi e non sembrano avere dolcezza alcuna; la natura più elevata pare avere una singolare scala di valori. In realtà essa è per lo più delPidea di non avere, nella sua idiosincrasia del gusto, una scala di valori singolare; essa considera semmai i suoi valori e disvalori come valori e disvalori asso­lutamente validi, incappando così in quanto è incomprensibile e privo di praticità. È molto raro che a una tale natura più elevata rimanga tanta ra­gione da capire e trattare le persone quotidiane come tali: generalmente es­sa considera la propria passione come passione di tutti, per quanto tenuta nascosta, e proprio in questa convinzione essa è traboccante di ardore e re­torica. Se però tali persone eccezionali non si percepiscono quali eccezioni, come potranno mai capire la natura volgare e disprezzare la regola! — E così parlano anch'essi di follia, di inadeguatezza allo scopo e di fantasti­cherie dell'umanità, colmi di meraviglia per le stranezze del mondo e sul perché esso non voglia convertirsi a ciò «di cui ha bisogno». Questa è l'e-terna ingiustizia dei nobili.

4.

Ciò che serve alla conservazione della specie. Sino ad oggi sono stati gli spiriti più forti e più cattivi a portare più avanti l'umanità: hanno ripetuta­mente acceso le passioni addormentate (in tutte le società ordinate la pas­sione dorme), hanno ripetutamente risvegliato il senso del paragone, della contraddizione, del piacere per quanto è nuovo, osato, inesplorato, hanno costretto gli uomini a contrapporre opinioni a opinioni, modelli a modelli. Per lo più con le armi, abbattendo i confini e ferendo le pietà: ma anche con nuove religioni e morali! In ogni maestro e predicatore del nuovo c'è la stessa cattiveria che rende malfamato ogni conquistatore, per quanto possa sembrare più raffinata, non metta subito in moto i muscoli e così, proprio per questo, non li rende altrettanto malfamati! II nuovo è comunque in ogni caso cattivo, in quanto intende conquistare qualcosa, rovesciare i vec­chi confini e le vecchie pietà; soltanto il vecchio è buono! I buoni di ogni tempo sono coloro che seppelliscono in profondità i vecchi pensieri e li fanno fruttare, i coltivatori dello spirito. Ma ogni terreno alla fin fine si esaurisce, e deve tornare il vomere della cattiveria. Si sta diffondendo, ai

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nostri giorni, una scrupolosa eresia morale, particolarmente celebrata so­prattutto in Inghilterra: essa sostiene che i giudizi di «buono» e «cattivo» sono il frutto dell'accumularsi di esperienze su quanto è «adeguato» e «inadeguato»; secondo tale dottrina buono è quanto serve alla conserva­zione della specie e cattivo quanto danneggia la specie. In verità, però, gli istinti cattivi sono adeguati, utili alla conservazione della specie e indispen­sabili nella stessa misura di quelli buoni: hanno soltanto una diversa fun­zione.

5. Doveri incondizionati. Tutti gli uomini i quali, per poter agire, sentono

di aver bisogno di parole e suoni molti forti, gesti e posizioni molto elo­quenti: politici della rivoluzione, socialisti, predicatori penitenziali con o senza cristianesimo, per i quali non può darsi neppure un mezzo successo; tutti costoro parlano di «doveri», e più precisamente di doveri di tipo in­condizionato, — senza i quali non avrebbero diritto al loro grande pathos, lo sanno bene! Fanno così ricorso alle filosofie della morale, che predicano un qualche imperativo categorico, o introiettano un bel po' di religione, come ad esempio ha fatto Mazzini. Poiché vogliono che in loro si abbia una fiducia incondizionata, hanno prima bisogno di avere una fiducia in­condizionata in se stessi, sulla base di un qualche comandamento ultimo, indiscutibile e di per sé sublime, di cui si sentano servi e strumenti, tanto da potersi spacciare per tali. Qui abbiamo gli avversari più naturali e in genere anche più influenti dell'illuminismo e dello scetticismo morale: ma sono rari. Per contro un'ampia classe di questi avversari esiste dappertutto lad­dove l'interesse insegna la sottomissione, mentre fama e onore sembrano proibirla. Chi si sente disonorato al pensiero di essere strumento di un principe o di un partito o di una setta o addirittura di una potenza finan­ziaria, ad esempio in quanto rampollo di una superba famiglia di antico li­gnaggio, eppure vuole o deve essere un tale strumento, davanti a sé e alla pubblica opinione, costui ha bisogno di princìpi patetici, che gli si possono trovare in bocca in ogni momento: princìpi di un dovere incondizionato, cui ci si possa sottomettere e mostrare sottomessi senza vergogna alcuna. Il servilismo più raffinato si attiene sempre all'imperativo categorico ed è ne­mico mortale di coloro che vogliano togliere al dovere il suo carattere di in-condizionatezza: glielo impone la decenza, e non soltanto la decenza.

6.

Perdita di dignità. La meditazione ha perduto tutta la sua dignità forma­le; il cerimoniale e i gesti solenni della meditazione sono stati fatti oggetto di scherno, e non si sopporterebbe più un uomo saggio alla vecchia manie­ra. Pensiamo troppo rapidamente, anche per strada, mentre camminiamo, immersi in affari d'ogni genere, persino quando pensiamo alle cose più se­rie; abbiamo bisogno di poca preparazione, persino di poco silenzio: è co­me se ci portassimo in testa una macchina che gira inesorabilmente, la qua­le lavora persino nelle circostanze più sfavorevoli. Una volta si leggeva nel volto di chi voleva pensare — era infatti un'eccezione! — che volesse di­ventare più saggio e cercasse di concentrarsi su un pensiero: contraeva il suo volto in una smorfia come se pregasse e tratteneva il passo; c'era chi ri­maneva fermo ore per strada quando gli «veniva» — un pensiero, su due gambe o su una. Perché era «degno della cosa»!

68 LA GAIA SCIENZA

7.

Qualcosa per gli operosi. A chi voglia approfondire lo studio delle que­stioni morali si apre un immenso campo di lavoro. Ogni specie di passione deve essere ripensata singolarmente, deve essere seguita singolarmente at­traverso epoche, popoli, singoli piccoli e grandi; per ciascuna, deve venire alla luce tutta la sua ragione e tutte le sue valutazioni e illuminazioni delle cose! Finora ciò che ha dato colore all'esistenza non ha ancora storia: dove sarebbe altrimenti una storia dell'amore, dell'avidità, dell'invidia, della coscienza, della pietà, della crudeltà? A tutt'oggi manca completamente anche una storia comparativa del diritto, o anche soltanto della pena. For­se che le diverse suddivisioni del giorno, le conseguenze di una disposizione regolare di lavoro, festa e riposo sono state fatte oggetto di qualche ricer­ca? Si conoscono gli effetti morali del cibo? Esiste una filosofia della nutri­zione? (Il chiasso che ogni tanto si riaccende intorno alla dieta vegetariana dimostra che tale filosofia non esiste ancora!) Sono già state raccolte espe­rienze sulla vita comunitaria, ad esempio quella dei monasteri? È già stata presentata la dialettica del matrimonio e dell'amicizia? I costumi di dotti, commercianti, artisti, artigiani, hanno forse già trovato i loro pensatori? Ci sarebbe tanto da pensare? Tutto ciò che gli uomini hanno sinora consi­derato quali precondizioni essenziali alla loro esistenza, e tutta la ragione, la passione e la superstizione legate a questa considerazione, sono stati in­dagati fino in fondo? Soltanto l'osservazione della diversa crescita che gli istinti morali hanno avuto e potrebbero ancora avere a seconda del diverso clima morale dà già molto filo da torcere ai più operosi; occorrono molte generazioni e generazioni di dotti, che collaborino a un progetto ben defi­nito, per rastrellare i punti di vista e il materiale necessario. Lo stesso dica­si a proposito della dimostrazione dei motivi che hanno provocato la diffe­renza del clima morale {«perché qui splende questo sole di giudizio morale e scala di valori, — e là quell'altro?»). E si tratta di un altro lavoro, che identifica l'erroneità di tutte queste motivazioni e la vera essenza di quello che finora è stato definito giudizio morale. Se questi lavori fossero svolti, emergerebbe la più nauseabonda di tutte queste domande, ovvero se la scienza sia in grado di stabilire gli scopi dell'agire umano, dopo aver dimo­strato di poterli prendere e annientare: si giungerebbe così a una sperimen­tazione che potrebbe soddisfare qualsiasi eroismo, una sperimentazione se­colare, che potrebbe mettere in ombra tutti i grandi lavori e i grandi sacrifi­ci della storia. La scienza, finora, non ha ancora costruito i suoi edifici ci­clopici; a suo tempo accadrà anche questo.

8.

Virtù inconsapevoli. Tutte le caratteristiche di cui un uomo è consapevo­le — ovvero quelle la cui visibilità ed evidenza egli presuppone anche per il suo ambiente — sono sottoposte a leggi di sviluppo completamente diverse rispetto a quelle caratteristiche che gli sono ignote o poco note e che per la loro finezza sono celate anche agli occhi dell'osservatore più raffinato e sanno nascondersi come dietro il niente. Qualcosa di simile accade per le raffinate sculture sulle scaglie dei rettili: sarebbe un errore presumervi un ornamento o un'arma — perché lei si vede soltanto al microscopio, cioè con un occhio così artificiosamente potenziato che i loro simili, cioè quegli animali per i quali ornamento o arma potrebbero significare qualcosa, non

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lo possiedono davvero! Le nostre qualità morali visibili, e nella fattispecie quelle che sono credute visibili, seguono il loro corso — e anche quelle in­visibili, che non sono né ornamento né arma rispetto agli altri, seguono il loro corso: completamente diverso, con ogni probabilità, da quelle linee e finezze e sculture che forse compiacerebbero un Dio munito di microsco­pio divino. Abbiamo ad esempio il nostro zelo, la nostra ambizione, il no­stro acume — tutto il mondo lo sa — e inoltre abbiamo probabilmente an­cora il nostro zelo, la nostra ambizione, il nostro acume; ma non è ancora stato inventato il microscopio per le nostre scaglie! E qui gli amici della moralità istintiva mi diranno: «Bravo! Ritiene possibili quanto meno le virtù inconsapevoli! — Ci accontentiamo!». — Oh, voi che sapete accon­tentarvi!

9. Le nostre eruzioni. Innumerevoli elementi di cui l'umanità si è imposses­

sata a livelli precedenti, ma così debolmente ed embrionicamente che nes­suno percepiva di essersene impossessato, vengono alla luce all'improvvi­so, molto tempo dopo, forse dopo secoli: nel frattempo sono infatti dive­nuti forti e maturi. Ad alcune epoche, come ad alcuni uomini, sembra mancare completamente questo o quel talento, questa o quella virtù: ma basta aspettare i loro nipoti o bisnipoti, se si ha il tempo di aspettare — in loro viene alla luce quanto esisteva già nei loro nonni ma di cui i loro stessi nonni non sapevano niente. Spesso è già il figlio a rivelare il padre: questi si capisce meglio da quando ha un figlio. Noi tutti abbiamo, nascosti den­tro di noi, giardini e piantagioni nascoste; oppure, per fare un altro esem­pio, siamo tutti vulcani in fase di crescita, che al momento dovuto avranno le loro eruzioni; quanto tempo manchi a quel momento, però, questo non lo sa nessuno, neppure il buon Dio.

10.

Una specie di atavismo. Mi piace intendere le persone rare di un'epoca come virgulti postumi, spuntati all'improvviso, di culture passate e delle loro energie, come la manifestazione, per così dire, dell'atavismo di un po­polo e delia sua buona creanza: così davvero si può ancora capirne qualco­sa! Adesso sembrano estranei, rari, fuori dall'ordinario; e chi senta in sé queste forze, deve coltivarle, difenderle, onorarle e farle crescere contro un mondo diverso e avverso, diventando o un grand'uomo oppure un uomo pazzo e singolare, nella misura in cui, com'è più comune in certe epoche, non va in malora. Un tempo queste stesse caratteristiche erano consuete ed erano quindi considerate banali: non contraddistinguevano nessuno. Forse erano richieste, presupposte; era impossibile diventare grandi grazie a loro, e questo già perché non c'era pericolo di diventare, con loro, anche folli e solitari. È soprattutto nelle famiglie e nelle caste più conservatrici di un po­polo che emergono questi virgulti postumi di vecchi istinti, mentre tale ata­vismo è improbabile laddove razze, abitudini, scale di valori si alternano con rapidità. Il ritmo infatti, tra le forze che governano lo sviluppo dei po­poli, è importante quanto la musica; nel nostro caso è assolutamente ne­cessario un Andante dello sviluppo, in quanto ritmo di uno spirito appas­sionato e lento: e di questo genere è infatti lo spirito delle stirpi conserva­trici,

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11. La coscienza. La coscienza è l'ultimo e più tardo gradino di sviluppo

dell'organico e quindi anche il meno finito e vigoroso. Dalla coscienza de­rivano innumerevoli errori che fanno sì che un animale, un uomo vadano in malora prima di quanto non sarebbe necessario, «al di là del destino», come dice Omero. Se non fosse tanto più potente, il vincolo conservatore degli istinti non potrebbe fungere da regolatore: i loro giudizi rovesciati, il loro fantasticare ad occhi aperti, la loro superficialità e creduloneria, in breve proprio la loro coscienza manderebbe l'umanità in malora: o meglio, senza tutto ciò essa non esisterebbe più da tempo! Prima di formarsi e giungere a maturazione, una funzione costituisce un pericolo per l'organi­smo: è un bene che sia tiranneggiata così a lungo e abilmente! Così la co­scienza subisce un'abile tirannia — e nemmeno un po' per orgoglio! Si pensa che sia questo il nucleo dell'uomo, quanto in lui c'è di duraturo, eterno, ultimo, originario? Si ritiene la coscienza una grandezza assoluta­mente data! Le negate ogni possibilità di crescita, di intermittenza! La con­siderate una «unità dell'organismo»! — Questa ridicola sopravvalutazione e disconoscimento della coscienza si rivela però estremamente utile, perché ha impedito una formazione troppo veloce della stessa. Poiché credevano di avere già una coscienza, gli uomini si sono dati poca pena di acquisirla: e anche adesso le cose non stanno diversamente! Per gli occhi umani, in­corporare la sapienza e renderla istintiva continua ad essere un compito sempre nuovo e appena affiorante, un compito visto soltanto da coloro che hanno compreso che finora abbiamo incorporato soltanto i nostri erro­ri e che tutta la nostra coscienza si riferisce a errori!

12.

Sul fine della scienza. Come? Il fine ultimo della scienza sarebbe quello di procurare all'uomo tanto più piacere e quanto meno dispiacere possibi­le? E se piacere e dispiacere fossero legati con uno spago, cosicché chi vuo­le avere il più possibile dell'uno debba necessariamente avere anche il più possibile dell'altro, cosicché chi voglia conoscere il giubilo che si leva nel­l'alto dei cieli debba anche tenersi pronto a un'angoscia mortale? E forse le cose stanno proprio così! Gli stoici almeno credevano che le cose stessero così, e coerentemente cercavano di trarre dalla vita il meno piacere possibi­le, per averne anche il meno dispiacere possibile (la massima «L'uomo più virtuoso è il più felice» fungeva sia da insegna per la scuola che da finezza per le persone raffinate). Anche oggi siete di fronte a una scelta: o quanto meno dispiacere possibile, in breve assenza di dolore — e in fondo i sociali­sti e i politici di tutti i partiti non potrebbero sinceramente promettere ai loro sostenitori niente di meglio — o quanto più dispiacere possibile come prezzo per la crescita di una pienezza di piaceri e gioie raffinati e, finora, raramente assaggiati! Se vi decidete per la prima soluzione, se volete cioè reprimere e diminuire il carattere doloroso della vita, dovete allora repri­mere e diminuire anche la vostra capacità di provare gioia. In realtà con la scienza si può perseguire sia l'uno che l'altro obiettivo! Forse ancora oggi essa è più nota per la sua capacità di togliere all'uomo le sue gioie e render­lo più freddo, statuario, storico. Ma si potrebbe scoprire in essa anche una grande apportatrice di dolore! E forse, in questo modo, si scoprirebbe an-

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che l'altra faccia della medaglia, ovvero la sua incredibile capacità di far brillare nuovi mondi siderali di gioia!

13. Sulla dottrina della sensazione di potenza. Facendo agli altri del bene o

del male, si esercita semplicemente il nostro potere su di loro; non si vuole nient'altro! Facendo del male a coloro ai quali vogliamo far sentire per pri­mi il nostro potere, perché a tal fine il dolore è un mezzo assai più sensibile che il piacere: il dolore si interroga sempre sulla sua causa, mentre il piace­re è incline a rimanere in se stesso e a non guardare all'indietro. Facendo del bene e volendo bene a coloro che in qualche modo dipendono già da noi (cioè sono già inclini a vedere in noi la loro causa), noi vogliamo accre­scere il loro potere — perché così accresciamo il nostro, oppure vogliamo mostrare loro il vantaggio insito nell'essere in nostro potere: così saranno più contenti della loro condizione e ostili ai nemici del nostro potere, per cui anche pronti a combatterli. Che il fare del bene o del male comporti per noi dei sacrifici, non modifica il valore ultimo delle nostre azioni: persino se mettiamo in gioco la nostra vita, come il martire per la sua chiesa, è un sacrificio offerto alla nostra brama di potere o al fine di conservare la no­stra sensazione di potenza. Chi sente di «essere in possesso della verità» a quanti altri possedimenti rinunzierà pur di salvare questa sensazione! Quante mai cose non getterà a mare per mantenersi «a galla» — cioè sopra gli altri, che mancano della «verità»! Certamente la situazione in cui noi facciamo del male è raramente così gradevole, così puramente gradevole come quella in cui facciamo del bene — è un segno che manchiamo ancora di potenza, oppure tradisce il fastidio per questa mancanza, comporta nuovi pericoli e insicurezze per il nostro presente patrimonio di potenza e annuvola il nostro orizzonte con la prospettiva di vendetta, scherno, puni­zione, fallimento. Soltanto gli uomini più eccitabili e più bramosi di poten­za possono trovare più gradevole imporre su colui che ricalcitra il sigillo di tale potenza; coloro cioè per i quali la vista di coloro che sono già sotto­messi (perché tali sono i destinatari della benevolenza) è gravosa e noiosa. Dipende da come si è soliti condire la propria vita; è una questione di gu­sto, se si preferisce che il proprio potere cresca lentamente o all'improvvi­so, in modo sicuro oppure pericoloso e temerario — a seconda del proprio temperamento, si cercano spezie dell'uno o dell'altro genere. Un bottino leggero è ripugnante per le nature superbe, esse avvertono un certo benes­sere soltanto alla vista di uomini indomiti che avrebbero potuto trasfor­marsi in un nemico, e lo stesso alla vista di ogni possedimento difficilmente accessibile; contro i sofferenti sono spesso duri, perché non sono degni dei loro sforzi e del loro orgoglio, — ma ancora più compiacenti si mostrano verso i loro pari, con cui sarebbe altrettanto onorevole ingaggiare una lot­ta, se solo se ne presentasse l'occasione. La sensazione di benessere suscita­ta da questa prospettiva nei membri delle caste cavalleresche li ha portati a usarsi reciprocamente una cortesia davvero ricercata. La compassione è il sentimento più gradevole in coloro che sono poco orgogliosi e non hanno la prospettiva di grandi conquiste: per loro un bottino leggero — e tale è ogni sofferente — è un qualcosa di affascinante. La compassione è famosa per essere la virtù delle donne di piacere.

72 LA GAIA SCIENZA

14.

Che cosa è detto amore. Avidità e amore: come ci sembrano diverse que­ste due parole! — Eppure potrebbe essere lo stesso istinto cui sono stati at­tribuiti due nomi diversi, una volta insultato dal punto di vista di chi già ha, in cui l'istinto si è in qualche modo placato e teme adesso per i propri «averi»; un'altra dal punto di vista di chi è insoddisfatto e assetato, e quin­di magnificato come «buono». Il nostro amore per il prossimo — non è forse un impulso verso una nuova proprietà? E così il nostro amore per la sapienza, per la verità e comunque ogni impulso verso ciò che è nuovo? A poco a poco ci stanchiamo delle cose vecchie, del cui possesso siamo certi, e tendiamo nuovamente le mani; persino il più bel paesaggio, dopo averci vissuto tre mesi, non è più sicuro del nostro amore, e una certa costa lonta­na suscita la nostra avidità: il bene posseduto è solitamente impoverito dal fatto di possederlo. Vogliamo continuare a piacerci, e quindi dobbiamo continuare a trasformare qualcosa dentro noi stessi — cioè possedere qual­cosa di nuovo. Stancarci di ciò che possediamo significa appunto stancarci di noi stessi. (Si può anche soffrire perché si ha troppo — anche il deside­rio di gettare via, di condividere, può meritarsi il nobile nome di «amore».) Se vediamo soffrire qualcuno, sfruttiamo volentieri l'opportunità che ci è offerta di impossessarci di lui; è questo che fa ad esempio il compassione­vole benefattore, che per l'appunto chiama «amore» il desiderio che l'altro ha suscitato in lui e ne prova piacere come per una conquista che gli am­micchi da lontano. È però nell'amore fra i due sessi che l'amore si tradisce al meglio come impulso verso la proprietà: chi ama vuole il possesso esclu­sivo e incondizionato della persona da lui desiderata, vuole avere un potere altrettanto incondizionato sulla sua anima come sul suo corpo, vuole esse­re l'unica persona che l'altro ama e dimorare e dominare nell'anima del­l'altro come quanto vi è di più alto e di più degno di essere desiderato. Se si pensa al fatto che questo non è altro che escludere tutto il mondo da un be­ne, una felicità e un piacere preziosi; se si pensa al fatto che chi ama proce­de a impoverire e privare di qualcosa tutti i suoi concorrenti e vorrebbe di­ventare il drago del suo aureo tesoro, il più spietato e il più egoista di tutti i «conquistatori» e di tutti gli sfruttatori; se si pensa infine che a colui che ama il resto del mondo sembra indifferente, pallido, privo di valore ed egli è pronto a fare qualsiasi sacrificio per distruggere ogni ordine e ogni inte­resse per lo stesso; allora ci si meraviglia davvero che questa selvaggia avi­dità e ingiustizia dell'amore fra i due sessi sia stata tanto magnificata e di­vinizzata, come invece è accaduto in tutte le epoche, che proprio da questo amore sia stato tratto il concetto di amore contrapposto a quello di egoi­smo, quanto invece di questo egoismo esso è proprio l'espressione più spregiudicata. Sono stati probabilmente coloro che non possedevano nien­te e gli avidi — sempre troppi — a introdurre questo uso della parola. Co­loro invece che in questo campo hanno sempre posseduto molto e riscosso molte soddisfazioni, hanno occasionalmente lasciato cadere qualche paro­la a proposito del «demone delirante», come il più amabile e amato di tutti gli Ateniesi, Sofocle: ma di questi viziosi, che sono pur sempre stati i suoi beniamini, Eros si è preso gioco in ogni epoca. Ogni tanto si dà, sulla ter­ra, una specie di prosecuzione dell'amore, nella quale quell'avido desiderio che due persone nutrivano l'una per l'altra si trasforma in una nuova bra­ma e avidità, una sete comune e più elevata verso un ideale che le sovrasta

LIBRO PRIMO 73

entrambe. Ma chi conosce questo amore? Chi lo ha vissuto? Il suo vero no­me è amicizia.

15.

Da lontano. Questo monte rende affascinante e significativa tutta la re­gione che sovrasta: dopo che l'abbiamo detto cento volte, gli siamo così ir­ragionevolmente grati che riteniamo che esso, la fonte di questo fascino, debba essere di per sé la cosa più affascinante della regione — così vi salia­mo, e siamo delusi. All'improvviso esso stesso e il paesaggio tutt'intorno sono come liberati dall'incantesimo; avevamo dimenticato come talune co­se grandi e buone debbono essere osservate da una certa distanza, e assolu­tamente dal basso, non dall'alto —funzionano solo così. Forse accanto a te ci sono alcune persone che si debbono osservare da una certa distanza per trovarsi sopportabili o attraenti o vigorose; ogni autoconoscenza è loro sconsigliabile.

16.

Al di là del ponticello. Nei rapporti con quelle persone che si vergognano dei propri sentimenti, occorre saper simulare: esse provano un odio im­provviso contro chi le coglie in un momento di particolare tenerezza o ge­nerosità, come se avessimo scoperto un segreto. Se in tali momenti si vuole far loro del bene, basta farle ridere o dire loro una cattiveria fredda e scherzosa: i loro sentimenti si raffreddano ed esse sono nuovamente padro­ne di sé. Ma vi sto dando la morale prima della storia. Una volta, nella no­stra vita, siamo stati così vicini che niente pareva poter turbare la nostra amicizia, la nostra fratellanza, come se tra noi ci fosse soltanto un breve ponticello. Una volta volevi salirci, e io ti domandai: «Vuoi venire da me, al di là del ponticello?». Ma non volesti più, e la seconda volta che te lo chiesi tacesti. Da allora tra noi si sono frapposte montagne e fiumi impe­tuosi e tutto ciò che può separare e rendere estraneo; se anche volessimo avvicinarci, non lo potremmo più. Se però ripensi a quel ponticello, non hai più parole — soltanto singhiozzi e meraviglia.

17.

Motivare la sua povertà. Non c'è arte che ci permetta di rendere ricca e sovrabbondante una virtù povera; ma possiamo bene trasformare la sua povertà in una necessità, cosicché la sua vista non ci ferisca più e possiamo smettere di prendercela con il destino. Così fa il saggio giardiniere che fa scorrere dalle braccia di una ninfa acquatica la povera acqua del suo giar­dino, motivandone così la povertà: — e chi non avrebbe bisogno, come lui, di una qualche ninfa!

18.

Antico orgoglio. Ci manca l'antico colore della distinzione, perché al nostro sentimento manca l'antico schiavo. Un greco di nobili origini trova­va tra la sua altezza e quell'ultimo livello tanti gradini intermedi e una tale distanza che non riusciva neppure più a vederlo chiaramente, lo schiavo: persino Platone non lo vedeva più. Le cose stanno diversamente per noi, abituati come siamo alla dottrina dell'uguaglianza tra gli uomini, se non

74 LA GAIA SCIENZA

proprio alla loro uguaglianza. Un essere che non possa disporre di se stesso e a cui manchi ogni ozio — non ci pare assolutamente un qualcosa da di­sprezzare; questo tipo di schiavitù, anzi, ha messo radici in ciascuno di noi, conformemente alle condizioni del nostro ordine sociale e della nostra atti­vità, fondamentalmente diverse da quelle degli antichi. Il filosofo greco vi­veva con la segreta sensazione che ci fossero molti più schiavi di quanti si supponga, ovvero che fossero schiavi tutti coloro che non sono filosofi; si gonfiava però di orgoglio quando pensava che anche i potenti della terra, da questo punto di vista, erano schiavi. Anche questo orgoglio ci è estra­neo e impossibile: neppure in una parabola la parola «schiavo» riesce a di­spiegare per noi tutta la sua forza.

19.

Il male. Esaminate la vita degli uomini e dei popoli migliori e più fecon­di e domandatevi se un albero che cresca superbo verso l'alto possa fare a meno del brutto tempo e dei temporali: se circostanze sfavorevoli e opposi­zione dall'esterno, se qualche specie di odio, gelosia, caparbietà, sfiducia, durezza, avidità e violenza non siano tra le circostanze più favorevoli senza le quali non è possibile neppure una crescita nella virtù? Il veleno che fa andare in malora le nature più deboli corrobora quelle più forti — non lo chiamate veleno.

20.

Dignità della follia. Alcuni millenni ancora sul binario dell'ultimo seco­lo! In tutte le azioni umane si individua un'intelligenza eccelsa: ma proprio così l'intelligenza avrà perduto tutta la sua dignità. Essere intelligenti è ne­cessario, certo, come lo è essere così consueti e banali che un gusto più schizzinoso possa avvertire questa necessità come una volgarità. E proprio come la tirannia della verità e della scienza sarebbero in grado di far cre­scere il prezzo delle menzogne, così una tirannia dell'intelligenza potrebbe provocare un nuovo genere di nobiltà. Essere nobili potrebbe allora forse significare avere qualche follia in testa.

Ai maestri del disinteresse. Le virtù di una persona sono dette buone non soltanto in riferimento all'effetto che esercitano su di lei ma anche in riferi­mento all'effetto che ci aspettiamo da loro per noi e per la società: da sem­pre, nel lodare le virtù, si è stati poco «disinteressati», poco «altruisti»! Al­trimenti si sarebbe dovuto vedere che le virtù (come zelo, obbedienza, ca­stità, pietà, giustizia) sono perlopiù dannose per colui che le possiede, in quanto istinti che lo dominano troppo veementemente e avidamente e che non permettono assolutamente alla ragione di bilanciarli con altri istinti. Quando hai una virtù, una virtù vera, intera (e non soltanto un istintuccio verso una virtù!) — allora sei una sua vittimai Ma è proprio per questo che il tuo vicino loda la tua virtù! Si lodano le persone operose, sebbene pro­prio con questa operosità esse danneggino la capacità visiva dei loro occhi e l'originarietà e la freschezza del loro spirito; si loda e si compiange il gio­vane che si è «ammazzato col lavoro», perché si ritiene: «Per la società nel suo complesso anche la perdita del migliore singolo è soltanto un piccolo sacrificio! Peccato che ci sia bisogno di sacrifici! Sarebbe molto peggio,

LIBRO PRIMO 75

però, se il singolo la pensasse diversamente e dovesse ritenere la propria conservazione e il proprio sviluppo più importanti del suo lavoro al servi­zio della società!». E così si ha compassione di questo giovane, non per amor suo, ma perché con la sua morte la società ha perduto uno strumento ad essa dedito e privo di riguardi nei confronti di se stesso. Forse ci si do­manda anche se nell'interesse della società non sarebbe stato più utile se avesse avuto un po' più di riguardi nei confronti di se stesso e si fosse con­servato più a lungo: si ammette cioè che sarebbe stato vantaggioso, ma si ritiene più elevato e durevole il vantaggio derivato dal fatto che si è offerto un sacrificio e che sono stati confermati ancora una volta, con la massima evidenza, i princìpi della vittima sacrificale. Ad essere lodata, quindi, è la natura strumentale delle virtù, e con essa quel cieco istinto che domina ogni virtù e che non può essere limitato al vantaggio complessivo dell'indi­viduo, in breve: l'Iirragionevolezza della virtù, per cui il singolo essere si trasforma in funzione del tutto. La lode della virtù è là lode di un qualcosa di privatamente dannoso, la lode di istinti che privano l'uomo del suo più nobile egoismo e dell'energia di cui ha bisogno per proteggersi. Certo, per educare e incorporare abitudini virtuose, si tirano fuori una serie di effetti delle virtù che farebbero sembrare affratellati virtù e vantaggio privato, e di fatto una tale fratellanza esiste! La cieca operosità per esempio, la virtù tipica di uno strumento, è presentate come la via per la ricchezza e per l'o­nore, come l'antidoto più efficace contro la noia e le passioni: ma se ne ta­ce il pericolo, la sua estrema pericolosità. È così che l'educazione tende a fuorviare: essa cerca, con una serie di stimoli e vantaggi, di indirizzare il singolo verso un modo di pensare e di agire che una volta divenuto abitudi­ne, istinto e passione, domina in lui e sopra di lui, contro il suo ultimo van­taggio, ma per il «bene comune». Quanto spesso vedo che la cieca operosi­tà, pur procurando ricchezze e onori, pregiudica tuttavia gli organi della fi­nezza, in virtù dei quali quella ricchezza e quegli onori potrebbero procu­rare piacere; inoltre questo strumento principe contro la noia e le passioni presenta l'effetto collaterale di ottenebrare i sensi, e di rendere lo spirito ri­luttante nei confronti di nuovi stimoli. (La più operosa di tutte le epoche — la nostra — non sa che farsene di tutto il suo zelo e di tutti i suoi soldi: ci vuole più genio a spendere che a guadagnare! Ebbene, anche noi avremo i nostri «nipoti»!) Se l'educazione riesce, ogni virtù del singolo risulta di pubblica utilità e di svantaggio privato, nel senso dei più elevato tra i fini privati; ma probabilmente darà luogo anche a un'atomizzazione spirituale¬ sensuale o addirittura a un prematuro tramonto; basti menzionare, da que­sto punto di vista, le virtù dell'obbedienza, della castità, della pietà, della giustizia. La lode dell'altruista virtuoso, pronto a sacrificarsi — cioè di co­lui che non impiega tutte le sue forze e la sua ragione per la propria conser­vazione, sviluppo, elevamento, promozione, ampliamento di potere, ma vive modestamente e senza pensare a se stesso, forse addirittura in modo indifferente o ironico: questa lode non è comunque nata dallo spirito del­l'altruismo! Il «prossimo» loda l'altruismo perché ne ricava dei vantaggi! Se lo stesso prossimo pensasse in modo «disinteressato», rifiuterebbe ogni smantellamento di energia, ogni danno che l'altro arrecasse a se stesso in suo favore; si opporrebbe alla nascita di tali inclinazioni e, soprattutto, manifesterebbe il suo altruismo non definendolo buono! Ecco qua la con­traddizione di fondo di quella morale che proprio adesso riscuote tante simpatie: le motivazioni di questa morale sono in contrasto con i suoi prin­cìpi] Questa morale, col suo criterio di moralità, confuta esattamente ciò a cui fa ricorso per dimostrare se stessa! Il principio «devi rinunziare a te

76 LA GAIA SCIENZA

stesso e offrirti in sacrificio» potrebbe essere decretato, per non contraddi­re la proprio morale, soltanto da un essere che abbia rinunziato egli stesso al proprio vantaggio e che nell'auspicato sacrificio del singolo abbia trova­to il proprio declino. Non appena però il prossimo (o la società) raccoman­dano l'altruismo per motivi di utilitàt si mette in pratica proprio il princi­pio opposto, «devi cercare il vantaggio anche a spese di tutti gli altri», cioè si predica allo stesso tempo un «tu devi» e un «tu non devi!».

22.

L'ordre du jour pour le roi. Inizia il giorno: diamo inizio per questo giorno agli affari e alle feste per il nostro graziosissimo signore, che si com­piace di riposare ancora. Sua Maestà ha oggi tempo cattivo; noi ci guarde­remo bene dal chiamarlo cattivo; semplicemente non si parlerà del tempo ma celebreremo gli affari, quest'oggi, in modo ancora più solenne e pren­deremo la festa ancora più festosamente di quanto non sarebbe necessario. Sua Maestà sarà forse malata: le presenteremo, per colazione, l'ultima buona novità della sera, l'arrivo del signore di Montaigne, che sa scherzare tanto amabilmente sulla sua malattia — soffre di calcoli. Saranno ricevute alcune persone (persone! — che cosa direbbe quel vecchio pallone gonfiato che si troverà tra di loro se udisse questa parola! «Non sono una persona, direbbe, ma sempre la cosa in sé») e il ricevimento durerà più di quanto al­cuni gradiscano: ce n'è abbastanza per parlare di quel poeta che scrisse sul­la sua porta «Chi entra mi fa onore; chi non entra, un piacere». Questo si chiama, perbacco, dire una scortesia in maniera cortese! E forse quel poeta da parte sua ha completamente ragione a essere scortese: si dice che i suoi versi siano migliori del fabbro che li ha prodotti. E ora ne faccia quanti meglio crede e, possibilmente, si sottragga alla mondanità: perché questo è il senso della sua cortese scortesia! Per contro un principe è sempre miglio­re del suo «verso», anche quando — ma che stiamo facendo? Chiacchieria­mo, e tutta la corte crede che siamo già al lavoro, scervellandoci: nessuna luce arde prima di quella della nostra finestra. Senti! Non era la campana? Al diavolo! Hanno inizio la giornata e le danze, e noi non conosciamo i suoi percorsi! Siamo così costretti a improvvisare: tutto il mondo improv­visa il suo giorno. Per una volta, facciamo come il resto del mondo! E così si dissolse il mio straordinario sogno mattutino, probabilmente prima che i gravi rintocchi del campanile, con tutta l'importanza che è loro propria, annunziassero la quinta ora. Mi pare che stavolta il dio dei sogni si volesse prendere gioco delle mie abitudini, — è mia abitudine infatti iniziare la mia giornata disponendomela davanti e cercando di rendermela sopportabile, e può darsi che, spesse svolte, io l'abbia fatto in modo troppo formale e principesco.

23.

I segni della corruzione. Di tanto in tanto si osservano, in quelle condi­zioni necessarie alla società solitamente definite dalla parola corruzione, i seguenti sintomi. Non appena la corruzione si fa strada da qualche parte, prende piede anche una variopinta superstizione, rispetto alla quale quella che fino a quel momento era stata la fede di tutto un popolo diviene palli­da e impotente: la superstizione è infatti un libertinaggio di seconda cate­goria e chi le si abbandona seleziona determinate forme e formule che tro­va più adatte a sé, concedendosi così il diritto di scegliere. Il superstizioso,

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rispetto al religioso, è sempre più «persona», e in una società superstiziosa ci saranno sicuramente molti più individui e gusto dell'individuale. Da questo punto di vista, la superstizione appare sempre un progresso nei con­fronti della fede e un segno che l'intelletto diviene più indipendente ed esi­ge i suoi diritti. La corruzione è naturalmente lamentata dai veneratori del­la vecchia religione e della vecchia religiosità — essi hanno sinora influen­zato anche l'uso linguistico e creato alla superstizione una cattiva fama persino tra i suddetti spiriti liberi. Impariamo invece che è un simbolo del-Villuminismo. Una società in cui si faccia strada la corruzióne è accusata anche di infiacchimento: e visibilmente diminuisce, in essa, l'appezzamento della guerra e il piacere della guerra, e si aspira alle comodità della vita co­me un tempo si faceva con gli onori bellici e ginnastici. Ma si trascura il fatto che le antiche energie e passioni del popolo, magnificamente visibili in guerra e nei giochi ginnici, si sono adesso trasformate in innumerevoli passioni private e sono divenute soltanto meno visibili; anzi, probabilmen­te in fase di «corruzione» la potenza e la violenza dell'energia complessiva­mente impiegata da un popolo sono più grandi che mai e l'individuo ne spreca a profusione, come un tempo non avrebbe potuto fare — non era infatti abbastanza ricco! Ed è proprio durante i tempi dell'«infiacchimen-to» che la tragedia percorre case e vicoli, che nascono grandi amori e gran­di odi, che la fiamma della conoscenza divampa fino al cielo. In terzo luo­go, come per indennizzare il disonore della superstizione e dell'infiacchi­mento, si è soliti affermare che i tempi di corruzione sarebbero più miti e che in essi diminuirebbe la crudeltà che contraddistingueva quelli più fedeli e forti. Ma anche a questa lode non posso associarmi, come non mi associo al biasimo: ammetto soltanto che la crudeltà si è raffinata e che le sue for­me più antiche sono divenute contrarie al gusto; ma l'arte di ferire e tortu­rare con le parole e con lo sguardo raggiunge, in periodo di corruzione, la sua massima raffinatezza: soltanto adesso nasce la cattiveria e il gusto del­la cattiveria. Gli uomini della corruzione sono arguti e calunniosi; sanno che ci sono altri mezzi per uccidere oltre al pugnale e all'aggressione; sanno anche che si presta fede a tutto ciò che è definito ben detto. — Quarto: quando «i costumi decadono» emergono quegli esseri detti tiranni: sono i precursori e al contempo i primi esemplari degli individui. Ancora un po-chettino: e questo frutto dei frutti penderà giallo e maturo all'albero di un popolo, — un albero che esisteva soltanto perché potessero nascere questi frutti! Se la decadenza ha raggiunto il culmine, e così la lotta di ogni specie di tiranni, giunge immancabilmente il Cesare, il tiranno conclusivo, che pone termine alla lotta ormai stanca per il dominio assoluto facendo lavo­rare quella stanchezza in suo favore. In questo momento, di solito, l'indi­viduo ha raggiunto il massimo della sua maturità e quindi anche la «cultu­ra» ha raggiunto il suo punto più elevato e fecondo, ma non per lui o per mezzo suo: per quanto i vertici dell'intellettualità amino lusingare in tal senso il loro Cesare, spacciandosi per opera sua. La verità è però che essi hanno bisogno di quiete all'esterno, perché hanno la loro inquietudine e il loro lavoro dentro di sé. In questi periodi, la corruttibilità e il tradimento sono massimi: infatti l'amore per l'ego appena scoperto è troppo più po­tente dell'amore per la vecchia, consunta e moribonda «patria», e l'esigen­za di mettersi in qualche modo al sicuro contro le terribili oscillazioni della fortuna apre anche le mani più nobili, non appena un ricco o un potente si mostra disposto a versarvi dell'oro. Il futuro è così poco sicuro che si vive per l'oggi: uno stato d'animo che consente a tutti i seduttori un facile gio­co; ci si lascia infatti sedurre e corrompere soltanto per l'oggi, preservan-

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dosi il futuro e le virtù! È noto che gli individui, questi veri In-sé e Per-sé, si preoccupano dell'istante molto più dei loro contrari, gli uomini del greg­ge, perché costoro ritengono se stessi inattendibili quanto il futuro: è per questo che si legano volentieri a persone violente, perché hanno fiducia in azioni e informazioni che nella massa non possono trovare né comprensio­ne né grazia. Il tiranno o il Cesare, però, capisce il diritto dell'individuo anche nei suoi eccessi, e ha tutto l'interesse a dare la parola a una morale privata più ardita, cui offre egli stesso la mano. Infatti egli pensa di sé, e vuole che gli altri persino di lui, quel che Napoleone espresse una volta nel modo che gli era tipico: «Io ho il diritto di rispondere a tutto ciò di cui mi si accusa con un eterno "io-sono-così". Io sono al di là di ogni mondo, io non accetto condizioni da nessuno. Voglio che ci si sottometta anche alle mie fantasie e che si trovi naturalissimo che io mi dedichi a questa o a quel­la dissipazione». Così disse una volta Napoleone alla sua consorte, che aveva tutti i motivi per mettere in dubbio la fedeltà coniugale del marito. È durante i periodi di corruzione che cadono le mele dagli alberi: intendo di­re gli individui, i portatori del seme del futuro, gli autori della colonizza­zione spirituale e della ricostruzione dei legami statuali e sociali. La parola corruzione costituisce un'ingiuria soltanto durante l'autunno di un popo­lo.

24.

Diversa insoddisfazione. Gli insoddisfatti deboli e per così dire femminei sono i più inventivi quanto all'abbellimento e all'approfondimento della vita; gli insoddisfatti forti — coloro in cui prevale la componente maschile, tanto per restare nel paragone, lo sono invece per quel che riguarda il mi­glioramento e il consolidamento della vita. I primi mostrano la loro debo­lezza e femminilità facendosi ingannare, ogni tanto, e provando nel far ciò una qualche ebbrezza ed entusiasmo, ma in fondo non sono mai soddisfat­ti e soffrono per l'inguaribilità della loro insoddisfazione; inoltre sono loro a incoraggiare tutti coloro che realizzano conforti oppiacei e narcotici, prendendosela con chi stima il medico più del prete — e così permettono il permanere delle vere emergenze! Se fin dal Medioevo in Europa non ci fos­se stata sovrabbondanza di insoddisfatti di questo genere, probabilmente la tanto celebrata facoltà degli Europei di trasformarsi in continuazione non sarebbe neppure nata: perché le esigenze dei fortemente insoddisfatti sono troppo rozze e in fondo troppo poco modeste per non potere essere in fondo placate. La Cina è ad esempio un paese dove l'insoddisfazione di larga portata e la capacità di trasformarsi è estinta da molti secoli; e i so­cialisti e i pagani adoratori dello Stato, in Europa, potrebbero con i loro criteri relativi al miglioramento e alla sicurezza della vita portare anche l'Europa in una situazione cinese e alla «felicità» cinese, posto che qui rie­scano prima ad estirpare quell'insoddisfazione e quel romanticismo mor­bosi, teneri e femminei che hanno ancora la prevalenza. L'Europa è un malato debitore di immensi ringraziamenti alla propria inguaribilità e alla perpetua trasformazione della sua sofferenza; queste situazioni costante­mente nuove, questi pericoli, dolori e mezzi di informazioni costantemente nuovi hanno prodotto, in ultima analisi, una sensibilità intellettuale che è molto vicina al genio ed è comunque madre di ogni genio.

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25.

Non predestinato alla conoscenza. Esiste un'umiltà disdicevole e niente affatto rara per cui chi la possiede non sarà mai capace di diventare un se­guace della conoscenza. Ovvero: nel preciso istante in cui una persona di questo tipo percepisce qualcosa di sorprendente, volta le spalle e si dice: «Ti sei ingannato! Dov'erano mai i tuoi sensi! Questa non può essere la ve­rità!» e quindi, invece di guardare e ascoltare più attentamente, corre via da quella cosa sorprendente più alla svelta che può, cercando di cacciarsela di testa. Il suo canone interiore recita, infatti: «Non voglio vedere niente che contraddica l'opinione comune sulle cose! Sono forse fatto per scopri­re nuove verità? Quelle vecchie sono anche troppe».

26.

Che cosa significa vìvere? Vivere — significa: scrollarsi continuamente di dosso qualcosa che vuole morire; vivere — significa: essere crudeli e ine­sorabili contro tutto ciò che invecchia, in noi e non solo in noi. Vivere — significa anche: essere spietati contro moribondi, miseri e vecchi? Essere assassini? Eppure il vecchio Mosè aveva detto: «Non uccidere!».

27.

Il rinunziatario. Che cosa fa il rinunziatario? Aspira a un mondo più ele­vato, vuole volare più avanti e più lontano e più in alto di tutti gli uomini dell'affermazione — getta via molte cose che impaccerebbero il suo volo e, con esse, anche alcune cose che né giudica di poco conto né gli sono sgradi­te: le sacrifica al suo desiderio di elevazione. Questo sacrificarsi, questo gettar via sono per l'appunto le uniche cose che si notano in lui: ecco per­ché gli si attribuisce il nome di rinunziatario, e in questa veste ci si presen­ta, avvolto nel suo cappuccio, come l'anima di una camicia di crine. Ma egli è soddisfattissimo dell'effetto che ci fa: vuole tenerci nascosti la sua brama, il suo orgoglio, la sua intenzione di volare sopra di noi. Sì! È più astuto di quanto pensassimo, e così cortese nei nostri confronti — questo affermatore! Perché è come noi, anche rinunziando.

28.

Nuocere con il proprio meglio. Le nostre forze, nel frattempo, ci spingo­no tanto avanti che non sopportiamo, più le nostre debolezze, le quali ci mandano in rovina; prevediamo benissimo anche questo esito, ma non ne vogliamo un altro. Allora diventiamo duri nei confronti di quanto, dentro di noi, vuole essere risparmiato, e la nostra grandezza è anche la nostra mancanza di misericordia. Una tale esperienza, che dovremo in fondo pa­gare con la vita, è una parabola di tutta l'influenza degli uomini grandi su­gli altri e sul loro tempo: — proprio con quanto hanno di meglio, con l'u­nica cosa che sanno fare, mandano in rovina molti deboli, insicuri, ventu­ri, volitivi, risultando così dannosi. Sì, può anche capitare che essi, com­plessivamente, arrechino danni soltanto perché quanto hanno di meglio è accolto e per così dire tracannato soltanto da coloro che vi perdono il loro intelletto e il loro egoismo, come con una bevanda troppo forte: sono così

80 LA GAIA SCIENZA

ebbri che debbono rompersi tutti gli arti sulle vie dove li conduce l'ebbrez­za.

29.

7 mentitori «per giunta». Quando in Francia ci si è voluti opporre alle unità aristoteliche e quindi qualcuno ha cominciato anche a difenderle, si è visto nuovamente quanto si vede spesso ma così malvolentieri: ci si inven­tavano motivi in virtù dei quali insistere su quelle leggi pur di non ammet­tere che ci si era abituati al loro predominio e non se ne volevano altre. E così si fa, da sempre, all'interno di ogni morale e religione dominante: sui motivi e sulle intenzioni che stanno dietro a un'abitudine si comincia a mentire, in aggiunta a quella abitudine, sempre e soltanto quando alcuni cominciano a metterla in discussione e a indagare sui suoi motivi e sulle sue intenzioni. Qui sta la grande disonestà dei conservatori di tutte le epoche: essi sono mentitori «per giunta».

30.

Commedia dei famosi. Gli uomini famosi, che hanno bisogno della loro fama, come ad esempio tutti i politici, scelgono i loro amici e alleati non senza secondi fini: da questo vogliono un riflesso della sua virtù, da quello quel che c'è di spaventevole in determinate caratteristiche che tutti gli rico­noscono, a quell'altro ancora rubano la fama del suo ozio, del suo starsene al sole, perché ogni tanto sembrare pigri e distratti può giovare ai loro sco­pi; ora hanno bisogno di un tipo fantasioso, ora di un conoscitore, ora di uno che sta sempre ad almanaccare, ora del pedante: questi corrispondono al suo io presente, ma presto non gli occorreranno più! E così i loro am­bienti e i loro lati esteriori continuano a morire, mentre tutto in questo am­biente sembra serrarsi e diventare il loro «carattere»: in questo sono simili alle grandi città. La loro fama cambia costantemente, proprio come il loro carattere, perché l'alternarsi dei loro mezzi esige questa alternanza, e met­tono in evidenza e in scena ora questa, ora quella caratteristica, reale o fit­tizia: i loro amici e alleati sono infatti caratterizzati, come abbiamo detto, da queste qualità teatrali. Per contro quello che voglio davvero deve rima­nere tanto più fermo e ferreo e brillante: e anche questo ha bisogno, talvol­ta, della sua commedia e delle sue quinte.

31.

Commercio e nobiltà. Acquistare e vendere è considerata oggigiorno una cosa banale, come l'arte del leggere e scrivere; chiunque vi è esercitato, anche se non si tratta di un commerciante, e perdi più si esercita ogni gior­no, in questa tecnica: proprio come un tempo, quando l'umanità era anco­ra selvaggia, tutti erano cacciatori e si esercitavano, giorno dopo giorno, nell'arte della caccia. Allora era la caccia ad essere banale: ma come essa divenne un privilegio di nobili e potenti, come perdette il suo carattere di cosa quotidiana e banale e smise di essere una necessità per trasformarsi in una questione di umore e di lusso, così potrebbe capitare prima o poi an­che alle operazioni di compravendita. Sono pensabili situazioni sociali in cui né si compra né si acquista e dove gradualmente la necessità di questa tecnica vada gradualmente perduta: forse perché allora i singoli, meno sog­getti alla legge delle condizioni generali, potranno permettersi la compra-

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vendita come un lusso della percezione. Allora forse il commercio acquisi­rebbe una certa distinzione e i nobili se ne occuperebbero volentieri, come hanno fatto fino ad ora con la guerra e la politica: per contro, la valutazio­ne della politica potrebbe modificarsi completamente. Già adesso sta ces­sando di essere l'artigianato dei nobili: ed è forse possibile che un giorno la si trovi così volgare che, come tutta la letteratura politica e la cronaca, la si possa schedare alla voce «prostituzione dello spirito».

32.

Discepoli indesiderati. «Che cosa me ne faccio di questi due discepoli!» gridò indignato un filosofo che «rovinava» la gioventù come un tempo aveva fatto Socrate: «non mi sono graditi. Questo non sa dire di no e que­st'altro dice a tutti: "mezzo e mezzo". Posto che afferrino la mia dottrina, il primo soffrirebbe troppo, perché il mio pensiero richiede un animo belli­coso, la volontà di fare del male, il piacere di dire di no, una pelle coriacea: sarebbe afflitto da ferite aperte e interne. E l'altro sceglierebbe la via di mezzo in ogni tesi da lui sostenuta, conferendole una tale mediocrità da es­sere proprio il discepolo che augurerei al mio peggior nemico».

33.

Fuori dall'uditorio. «Per dimostrare Loro che l'uomo, in fondo, è un animale mansueto, mi limiterò a ricordare quanto a lungo è stato credulo­ne. Soltanto adesso, molto in ritardo e dopo indicibili sforzi per superare se stesso, è divenuto un animale diffidente, — sì! Adesso l'uomo è più cat­tivo che mai.» Non capisco: perché mai l'uomo adesso dovrebbe essere più diffidente e cattivo? «Perché adesso ha una scienza, e ne ha bisogno!»

34.

Historia abscondita. Tutti i grandi possiedono una forza retroattiva; fanno rimettere tutta la storia sul piatto della bilancia, e dai suoi angoli più reconditi emergono migliaia di segreti del passato, ed escono al sole. Non si può determinare che cosa tornerà ancora ad essere storia. Forse il passa­to è ancora, sostanzialmente, tutto da scoprire! Necessita ancora di tante forze retroattive!

35.

Eresia e stregoneria. Pensarla diversamente dal costume vigente — da tempo questo non si deve più all'opera di un intelletto migliore quanto al­l'influenza di tendenze forti e cattive, tendenze liberatorie, isolanti, ostina­te, ipocrite, che godono del male altrui. L'eresia è il rovescio della meda­glia della stregoneria e, come questa, non è affatto innocua e men che mai degna di venerazione. Gli eretici e le streghe sono due generi di persone malvage: in comune hanno il fatto che si sentono cattivi e che provano un piacere incoercibile nell'arrecare danni a ciò che è predominante (persone e cose). La Riforma, una specie di doppione dello spirito medioevale in un periodo in cui ad esso non era già più associata una buona coscienza, ne ha prodotte in abbondanza di entrambi i generi.

82 LA GAIA SCIENZA

36. Le ultime parole. Si ricorderà che l'imperatore Augusto, quell'uomo ter­

ribile che era padrone di sé anche nella violenza e sapeva tacere come un saggio Socrate, con le sue ultime parole fu indiscreto nei confronti di se stesso: fece cadere, per la prima volta, la sua maschera, dando ad intende­re che aveva portato una maschera e recitato una commedia; aveva recita­to, sul trono, la parte del padre della patria e della saggezza, ingannando chiunque: Plaudite, amici, comoedia finita est\ Il pensiero di Nerone mori­bondo, qualis artifexpereOy ricorre anche nelle ultime ore di Augusto: va­nità da istrioni! Chiacchiere da istrioni! Il vero contrario della morte di So­crate! Ma Tiberio, il più silenzioso di tutti i masochisti, morì silenziosa­mente: lui sì che era sincero, e non recitava! Chissà che cosa gli passava per la testa! Forse questo: «La vita è una lunga morte. Che pazzo sono stato, ad accorciare la vita a tanta gente! Avevo forse la vocazione del benefatto­re? Avrei dovuto dare loro la vita eterna: così avrei potuto vederli morire in eterno. Avevo occhi ottimi: qualisspectatorpereol». Quando, dopo che ebbe lottato a lungo con la morte, lo si vide riprendere forza, si ritenne saggio soffocarlo tra i guanciali — morì così due volte.

37.

Da tre errori. Negli ultimi secoli si è cercato di promuovere la scienza, in parte perché per mezzo suo si sperava di comprendere al meglio la bontà e la saggezza di Dio — e questo fu il motivo più importante per i grandi in­glesi (come Newton); in parte perché si credeva nell'utilità assoluta della conoscenza, ovvero nell'intimo legame di morale, scienza e felicità, e que­sto fu il motivo più importante per i grandi francesi (come Voltaire); in parte perché si pensava di avere e di amare, nella scienza, un qualcosa di altruista, innocuo, autosufficiente, davvero innocente, di cui non poteva­no essere partecipi gli istinti malvagi dell'uomo, e questo fu il motivo più importante per Spinoza, che in quanto soggetto conoscente si sentiva divi­no: dunque a partire da tre errori.

38.

Gli esplosivi. Se si pensa a quanta energia in procinto di esplodere esiste nei giovani, non ci si meraviglia al vederli decidere così rozzamente e poco selettivamente per questa o quest'altra cosa: a eccitarli è la vista del fervore che circonda una cosa e, per così dire, la vista della miccia accesa, non la cosa in sé. I seduttori più raffinati sono quindi bravissimi a prospettare lo­ro questa esplosione prescindendo completamente dalle sue motivazioni: questi barili di polvere da sparo non si conquistano certo con i motivi!

39.

Cambiamenti di gusto. I cambiamenti del gusto comune sono più impor­tanti di quelli delle opinioni; le opinioni, con tutte le loro dimostrazioni e le loro confutazioni e la loro mascherata intellettuale, sono soltanto sintomi del cambiamento del gusto, e quindi non le sue cause, per quanto tanto spesso siano ancora indicate come tali. Come cambia il gusto comune? Quando alcuni singoli, potenti e influenti esprimono e impongono tiranni-

LIBRO PRIMO 83

camente il loro hoc est ridiculum, hoc est absurdum, quindi il giudizio del loro gusto: lo impongono a molti tramite coercizione, da cui gradualmente si sviluppa un'abitudine per una cerchia ancora più vasta di persone, abitu­dine che diventa infine un'esigenza collettiva. Il fatto che questi singoli ab­biano una percezione e un gusto diversi dipende, solitamente, dalla parti­colarità del loro modo di vivere, mangiare, digerire, forse dalla minore o maggiore quantità di sali inorganici presenti nel loro sangue e nel loro cer­vello — in breve nella physis: essi hanno però il coraggio di riconoscersi nella loro physis e di prestare ascolto alle sue esigenze anche se appena sus­surrate: i loro giudizi estetici e morali non sono altro che le «esigenze appe­na sussurrate» della loro physis.

40.

Sulla mancanza di distinzione. Soldati e condottieri hanno sempre una condotta reciproca più elevata di quella che contraddistingue lavoratori e datori di lavoro. Per il momento, almeno, tutta la cultura militarmente fondata si trova ancora al di sopra della cosiddetta cultura industriale: quest'ultima, nella sua forma attuale, è assolutamente la forma di esisten­za più volgare che ci sia mai stata. Qui governa semplicemente la legge del­la necessità: si vuole vivere e ci si deve vendere, ma si disprezza colui che sfrutta questa necessità e sì compra il lavoratore. È raro che la sottomissio­ne a persone potenti, che incutono timore e sono magari anche orribili, a tiranni e comandanti, risulti così penosa come la sottomissione a persone ignote e poco interessanti, come sono tutti i grandi dell'industria: nel dato­re di lavoro, infatti, il lavoratore vede soltanto un cane d'uomo, astuto, sfruttatore, che specula su ogni necessità, i cui nomi, figura, costumi e fa­ma gli sono del tutto indifferenti. Probabilmente ai fabbricanti e ai grandi imprenditori del commercio sono mancati, sino ad oggi, tutti quei segni e quelle forme della razza superiore che sole possono rendere interessanti le persone; se avessero avuto nello sguardo e nei gesti la distinzione della no­bilità di sangue, forse tra le masse non sarebbe nato il socialismo. Infatti esse sono pronte, in fondo, a ogni tipo di schiavitù, purché il superiore sia costantemente legittimato come tale, come nato per comandare — dalla di­stinzione! L'uomo più volgare sente che la distinzione non si può improv­visare e che in essa egli deve venerare il frutto di lunghe epoche; ma l'as­senza di superiorità e la nota volgarità dei fabbricanti, con le loro mani rosse e grasse, gli fanno pensare che soltanto il caso e la fortuna abbiano sollevato l'uno sull'altro: ebbene — questa è la conclusione — tentiamo anche noi il caso e la fortuna! Tiriamo i dadi! — Ed ecco comincia il socia­lismo.

41.

Contro il pentimento. Il pensatore vede nelle sue azioni interrogativi e tentativi di trarre conclusioni su qualcosa: successo e insuccesso sono le sue prime risposte. Tuttavia, irritarsi o addirittura provare pentimento perché qualcosa è fallito... lascia che lo facciano coloro che agiscono perché è sta­to loro imposto, e che debbono aspettarsi di essere presi a botte se il loro benevolo signore non è soddisfatto del loro risultato.

84 LA GAIA SCIENZA

42.

Lavoro e noia. Cercarsi un lavoro per il salario — nei paesi civilizzati, è un fenomeno comune a quasi tutti gli uomini; per tutti costoro il lavoro è un mezzo, e non fine a se stesso. Ecco perché sono poco raffinati nella scelta, purché tale lavoro sia sufficientemente redditizio. Ci sono però casi rari di persone che preferiscono andare in malora piuttosto che lavorare senza provare piacere per quello che fanno: si tratta di quelle persone selet­tive e difficili da accontentare alle quali un reddito alto non dice niente se il lavoro stesso non è il più alto di tutti i redditi. A questa rara categoria di persone appartengono i contemplativi di ogni genere, ma anche quegli oziosi che trascorrono la vita a caccia, viaggiando o dedicandosi ad avven­ture amorose o no. Tutti costoro amano il lavoro e le ristrettezze, purché vi sia associato il piacere, anche il lavoro più gravoso e più duro, se così deve essere. Altrimenti sono decisamente pigri, sia soltanto perché a questa pi­grizia sono invece associati impoverimento, disonore, pericoli per la salute e per la vita. Non temono tanto la noia quanto il lavoro senza piacere; han­no anzi bisogno di tanta noia, se il loro lavoro deve riuscire. Per il pensato­re e per tutti gli spiriti inventivi la noia è quella sgradevole «bonaccia» del­l'anima che precede una navigazione felice e i venti favorevoli; la deve sop­portare, deve attendere che cessino i suoi effetti: è esattamente quanto le nature inferiori non sono assolutamente in grado di pretendere da se stes­se! Aborrire la noia è normale, come è normale lavorare senza provare pia­cere per quello che si fa. Probabilmente gli Asiatici si distinguono dagli Europei per il fatto che sono capaci di una quiete più lunga e più profon­da: i loro stessi narcotici hanno un effetto più lento e richiedono pazienza, a differenza della ripugnante immediatezza del veleno europeo, l'alcool.

43.

Che cosa tradiscono le leggi. Ci si sbaglia alla grande se si studiano le leggi di un popolo come se fossero l'espressione del suo carattere: le leggi non tradiscono quello che un popolo è, ma quello che gli appare estraneo, insolito, mostruoso, esotico. Le leggi si riferiscono alle eccezioni della eti­cità dei costumi, e le pene più severe colpiscono quanto è conforme alla morale del popolo vicino. I Vaabiti, ad esempio, conoscono due soli pecca­ti reali: avere un dio diverso dal dio dei Vaabiti e... fumare (lo definiscono «una modalità vergognosa del bere»). «E come la mettiamo con l'assassi­nio e l'adulterio?» domandò stupito l'inglese che venne a sapere queste co­se: «Ebbene, Dio è benigno e misericordioso!», rispose il vecchio capo. Anche gli antichi Romani ritenessero che due sole fossero le colpe per le quali una donna meritava la morte: l'adulterio e il bere vino. Il vecchio Ca­tone sosteneva che l'usanza dei baci tra parenti si era sviluppata proprio per tenere sotto controllo le donne da questo punto di vista; un bacio, in­fatti, avrebbe significato: so di vino? E davvero le donne colte nell'atto di bere vino erano punite con la morte: e certo non soltanto perché le donne sotto l'effetto del vino disimparavano a dire di no; i Romani temevano so­prattutto lo spirito orgiastico e dionisiaco da cui le donne del sud dell'Eu­ropa erano allora perseguitate, perché il vino era relativamente nuovo: si trattava per loro di un qualcosa di sconvolgentemente insolito, che rove­sciava le fondamenta stesse della percezione romana; significava per loro tradire Roma e incorporare tutto ciò che era esotico.

LIBRO PRIMO 85

44.

I motivi creduti. Per quanto possa essere importante conoscere i motivi in base ai quali l'umanità ha sinora agito, forse per chi si dedichi alla cono­scenza è ancora più essenziale la fede in questi o quei motivi, cioè quello che l'umanità ha sinora considerato la vera leva del suo agire. La fortuna e la miseria interiori degli uomini sono infatti divenuti, a seconda della loro fede, parte di questi o di quei motivi: ma assolutamente non in virtù del lo­ro vero motivo, che presenta quindi un interesse secondario.

45. Epicuro. Sì, io sono orgoglioso di percepire il carattere di Epicuro diver­

samente da tutti gli altri e di godere in tutto quello che leggo e sento di lui la felicità del pomeriggio dell'antichità: vedo il suo occhio vagare su un mare ampio e bianchiccio, oltre scogliere rocciose su cui indugia il sole, mentre nella sua luce giocano bestie grandi e piccine, sicure e tranquille co­me questa luce e il suo stesso occhio. Soltanto chi abbia sofferto in conti­nuazione poteva trovare una tale felicità, la felicità di un occhio di fronte al quale il mare dell'esistenza si è placato e che adesso non è mai sazio di guardare la sua superficie, questa pelle di mare variopinta, tenera, spumeg­giante: non si è mai data, in precedenza, una tale modestia della voluttà.

46.

Il nostro stupore. Siamo profondamente e fondamentalmente felici che la scienza ci avvicini a cose che resistono nel tempo e forniscono il fonda­mento per comunicazioni sempre nuove: né le cose potrebbero andare di­versamente! Sì, siamo tanto convinti dell'insicurezza e delle fantasticherie insite nei nostri giudizi e dell'eterno mutare di tutti i concetti e le leggi umane che ci stupisce davvero quanto resistano i risultati della scienza! Un tempo non si sapeva niente della mutevolezza di tutto quanto è umano; il costume della moralità salvaguardava quella fede in base alla quale tutta la vita interiore dell'uomo era incollata con fermagli eterni a una necessità ferrea: forse un tempo si provavano voluttà e stupore analoghi quando si ascoltavano fiabe e storie di fate. Il meraviglioso era così benefico che tal­volta gli uomini potevano ben staccarsi delle regole e dell'eternità. Per una volta, non tenere i piedi per terra! Librarsi! Vagare! Folleggiare! Ecco il paradiso e gli stravizi dei tempi antichi: mentre la nostra beatitudine è simi­le a quella del naufrago che è sceso a terra e tiene tutti e due i piedi ben sal­di sulla nostra vecchia terra — sorpreso del fatto che non oscilli.

47.

Sulla repressione delle passioni. Se ci si impedisce costantemente l'e­spressione delle passioni, che sarebbero qualcosa da lasciare alle nature «comuni», quelle più rozze, borghesi, contadine, e quindi in realtà non so­no le passioni che si intende reprimere, ma la loro lingua e i loro gesti, si ottiene ciò nondimeno proprio ciò che non si voleva, cioè la repressione delle passioni stesse e, quanto meno, il loro indebolimento e la loro altera­zione; l'esempio più istruttivo in questo senso è dato dalla corte di Lui­gi xiv, con tutto il suo seguito. L'epoca successiva, allevata nella repressione

86 LA GAIA SCIENZA

dell'espressione, non aveva più passioni, e al loro posto subentrò un modo di comportarsi grazioso, superficiale, giocoso, — un'epoca contraddistinta dall'incapacità di essere smodata, tant'è vero che persino un'offesa non poteva essere recepita e restituita se non con parole amabili. Forse il nostro presente ne costituisce l'estremo opposto: io vedo dappertutto, nella vita e in teatro, e anche in quanto si scrive, un certo compiacimento per tutti i ge­sti e le espressioni più violente della passione: quel che si pretende adesso è una certa convenzione nella passionalità, non la passione in sé! Eppure la si raggiungerà, prima o poi, e i nostri poteri saranno caratterizzati da una selvatichezza autentica, non soltanto dalla selvatichezza e dall'inurbanità delle forme.

48.

Conoscenza della pena. Forse nient'altro separa uomini e tempi quanto il loro diverso grado di conoscenza della pena; pena dell'anima come del corpo. Con riferimento a quest'ultima, noi contemporanei siamo forse, nonostante tutti i nostri crimini e criminalità, pasticcioni e sognatori al tempo stesso, per mancanza di un'adeguata esperienza personale: in con­fronto a un'epoca di terrore, la più lunga di tutte le epoche, in cui il singo­lo doveva proteggersi contro la violenza e, in virtù di questo scopo, doveva essere violento egli stesso. In questo modo ciascuno frequentava la sua buona scuola di tormenti e privazioni fisiche e arrivava persino a una certa atrocità nei confronti di se stesso, in un volontario esercizio del dolore, mezzo di conservazione a lui necessario; allora si educava il proprio am­biente alla sopportazione del dolore, allora infliggere dolore era attività gradita e si osservavano gli altri in preda ai dolori più atroci senza nessun altro pensiero se non quello della propria sicurezza. Per quanto riguarda, tuttavia, la pena dell'anima, io sono giunto a osservare ogni persona do­mandandomi se la conosca, per esperienza o per descrizione; se ritenga ne­cessario simularla, questa conoscenza, quasi fosse segno di un alto livello di istruzione, o se in fondo non creda alla possibilità di grandi sofferenze dell'anima e quindi, nel descriverle, sia costretta a rifarsi a quelle fisiche, ragion per cui gli vengono in mente il mal di pancia e il mal di stomaco. Eppure mi sembra che per la maggior parte delle persone le cose stiano proprio in questi termini. L'inesperienza del dolore che caratterizza figure di ambo i sessi e il fatto che è piuttosto raro vedere qualcuno sofferente hanno però un'importante conseguenza: oggigiorno, il dolore è molto più odiato di quanto non Io odiassero gli uomini di un tempo e se ne parla mol­to peggio di quanto non se ne parlasse un tempo: persino il pensiero della presenza del dolore ci risulta difficilmente tollerabile e se ne fa un caso di coscienza, un rimprovero per l'esistenza tutta. Lo spuntare di filosofie pes­simiste non indica assolutamente l'incombere di grandi e terribili emergen­ze: anzi, queste domande sul valore della vita tutta sono poste in momenti in cui l'esistenza ha raggiunto un tale livello di raffinatezza e alleggerimen­to che trova già troppo cruente e malvage le inevitabili punture di zanzara dell'anima e del corpo e, in mancanza di vere esperienze di dolore, vorreb­be far sembrare una pena di altissimo livello già l'idea stessa dello strazio. Ci sarebbe un rimedio contro quelle filosofie pessimiste e quell'eccessiva sensibilità che mi sembrano la vera «pena del presente»: ma forse questo rimedio suona troppo crudele e potrebbe essere valutato a partire da quegli stessi indizi sulla base dei quali adesso si afferma che «L'esistenza è malva­gia». Ebbene: il rimedio contro la pena è questo: pena.

LIBRO PRIMO 87

49. Magnanimità e affini. Quei fenomeni paradossali, come un'improvvisa

freddezza nel comportamento delle persone di buon cuore, l'umorismo dei malinconici e soprattutto la magnanimità di chi improvvisamente rinunzia alla vendetta o smette di provare invidia — si manifestano in persone ca­ratterizzate da una potente forza centrifuga interiore, in persone che rag­giungono all'improvviso la sazietà e la nausea. Le loro soddisfazioni sono così rapide e così forti, che sono immediatamente seguite da tedio e avver­sione, da una fuga nel gusto opposto, su due piedi: lo spasmo della sensibi­lità si dissolve in questa contrapposizione, assumendo in uno la forma dì una freddezza improvvisa, in un altro di una risata e, in un terzo ancora, di lacrime e sacrificio di sé. Mi pare che il magnanimo — quanto meno quel genere di magnanimi che hanno sempre fatto più impressione — sia carat­terizzato da un'estrema sete di vendetta e, non appena si trova vicino a una possibilità di soddisfazione, ne beva abbondantemente, sino all'ultima goccia, già immaginando che a questa veloce dissolutezza seguirà una nau­sea veloce e immane: allora si eleva «sopra di sé»; come si usa dire, e per­dona il suo nemico, anzi lo benedice e lo venera. Con questa violenza eser­citata su se stesso, con questo scherno ai danni del suo istinto di vendetta, ancorché forte, egli cede tuttavia al nuovo istinto che proprio adesso sta prendendo in lui il sopravvento (la nausea) e lo fa in modo altrettanto im­paziente e dissoluto come, poco innanzi, ha prevenuto con la fantasia e per così dire esaurito la gioia per la vendetta. Nella magnanimità c'è lo stesso livello di egoismo presente nella vendetta, solo che è di una qualità diffe­rente.

50.

L'argomento dell'isolamento. Il rimprovero della coscienza contro il sentimento è sempre lo stesso, anche in coloro che hanno la coscienza più a posto: «Questo e quest'altro vanno contro la morale della tua società». Uno sguardo freddo, una smorfia sulla bocca di coloro tra i quali e per i quali si è allevati sono temutissimi anche dai più forti. Che cosa si teme, in realtà? L'isolamento, cioè l'argomento che riesce a sconfiggere anche i mi­gliori argomenti in favore di una persona o di una cosa. Ecco come parla, dentro di noi, l'istinto del gregge.

51.

Il senso della verità. Lodo in me ciascuno di quei momenti di scepsi che mi permettono di rispondere: «Proviamo!». Ma non vorrei più sentir par­lare di tutte quelle cose e domande che non permettono la sperimentazio­ne. Ecco il limite del mio «senso di verità»: perché là il valore ha perso ogni diritto.

52.

Che cosa gli altri sanno di noi. Il fatto che noi sappiamo e abbiamo me­moria di noi stessi non è decisivo per la fortuna della nostra vita come tal­volta si crede. Un giorno si abbatte su di noi quanto gli altri sanno (o cre­dono di sapere) su di noi, e così ci accorgiamo che si tratta di qualcosa di

88 LA GAIA SCIENZA

più potente. È più facile sbarazzarsi della propria cattiva coscienza che del­la propria cattiva reputazione.

53.

Dove comincia il bene. Dove la misera forza visiva dell'occhio non riesce più a vedere come tale l'istinto malvagio perché troppo raffinato, e la per­cezione, dopo essere passata nel regno del bene, agita tutti gli istinti che erano stati minacciati e limitati da quelli malvagi, come la sensazione di si­curezza, di agio, di benevolenza. Quindi: più offuscato è l'occhio, più grande il bene! Da qui l'eterna serenità del popolo e dei bimbi! Da qui l'a­spetto bieco e i crucci dei grandi pensatori, affini alla cattiva coscienza!

54.

La coscienza dell'apparenza. Come mi sento pieno di meraviglia e nuovo e, al tempo stesso, raccapricciante e ironico, con la mia conoscenza, di fronte a tutta l'esistenza! Ho scoperto, per me, che l'antica umanità e ani­malità, anzi tutto il tempo primigenio e il passato di ogni essere percipiente continua a poetare, amare, odiare, chiudersi in me: mi sono svegliato al­l'improvviso in mezzo a questo sogno, ma solo alla coscienza che per l'ap­punto sogno e debbo continuare a sognare, per non andare in malora: co­me il sonnambulo deve continuare a sognare per non cadere. Che cos'è adesso per me l'«apparenza»! Certo non l'opposto di una qualche sostanza — cosa posso affermare di una qualche sostanza, se non per l'appunto sol­tanto i predicati della sua apparenza! Certo non una maschera morta che si possa affiggere e poi anche togliere a un X ignoto! Apparenza è per me quanto agisce e vive, che nel suo autoscherno arriva a farmi sentire che qui sono apparenza e fuoco fatuo e danza degli spiriti e niente più, che tra tutti questi sognatori anch'io, «colui che conosce», danzo la mia danza, che co­lui che conosce è un mezzo per tirare per le lunghe la danza terrena e, in quanto tale, fa parte di coloro che sovraintendono alla danza dell'esisten­za, e che la sublime coerenza e associazione di tutte le conoscenze forse è e sarà il mezzo più elevato per mantenere la generalità dei sogni e la totale comprensibilità reciproca di tutti questi sognatori fra di loro.

55.

L'ultima nobiltà. Che cos'è che rende «nobili»? Certamente non il fatto di compiere sacrifici; anche chi è in preda alla voluttà più folle compie sa­crifici. Certo non il fatto che si segua una passione: esistono anche passioni spregevoli. Certo non il fatto che si faccia qualcosa per gli altri, non egoi­sticamente: forse proprio nei più nobili l'egoismo è più coerente. Soltanto che la passione che colpisce il nobile è di tipo particolare, senza che egli si renda conto di questa particolarità: l'uso di un'unità di misura rara e sin­golare e quasi una pazzia, la sensazione di calore per cose che ad altri sem­brano fredde, un indovinare valori che la bilancia non è in grado di regi­strare, un offrire sacrifici su altari dedicati a un dio sconosciuto, l'essere prodi senza ambire onori, un'autosufficienza che trabocca e si comunica a uomini e cose. Finora sono stati gli elementi strani e ignoti di questa stra­nezza a rendere nobili. Occorre però ricordare che con questo metro si è giudicato iniquamente, calunniandolo, tutto ciò che è consueto, prossimo e irrinunciabile, in breve la regola stessa dell'umanità, quanto maggior-

LIBRO PRIMO 89

mente ha contribuito alla conservazione della specie, in favore delle ecce­zioni. Diventare avvocati della regola:, forse questa potrebbe essere l'ulti­ma forma e finezza in cui si rivelerà la nobiltà sulla terra.

56. Il desiderio di soffrire. Se penso al desiderio di darsi da fare che solletica

e pungola milioni di giovani europei, i quali non riescono a sopportare la noia e se stessi, comprendo che in loro deve essere presente un desiderio di soffrire, di trarre dalle loro sofferenze un probabile motivo per fare e per agire. Pensare è necessario! Da qui il grido dei politici, da qui le molte «si­tuazioni penose» false, fittizie, esagerate, tutte le classi possibili e la cieca disponibilità a credere in esse. Questo giovane mondo desidera che non la felicità, ma l'infelicità provengano e risultino visibili doll 'esterno; e la sua fantasia si mette all'opera in precedenza per plasmare un mostro, onde es­sere poi in grado di lottare contro un mostro. Se questi malati avidi di pena avvertissero in sé, dall'interno, la forza di fare del bene a se stessi, di fare qualcosa per sé, saprebbero anche come crearsi dall'interno una pena pro­pria ed esclusiva. Le loro scoperte potrebbero poi essere più raffinate e le loro soddisfazioni potrebbero somigliare a una bella musica, mentre ades­so riempiono il mondo con le loro grida di pena e quindi, troppo spesso, soltanto con il loro senso di pena! Così non sanno che farsene di se stessi, e così dipingono alla parete l'infelicità degli altri: hanno sempre bisogno de­gli altri! E sempre altri ancora! Perdono, amici miei, io ho osato dipingere alla parete la mia felicità.

Libro secondo

57.

Ai realisti. Voi persone sobrie, che vi sentite corazzate contro passioni e fantasticherie e gradireste trarre dal vostro vuoto un motivo di orgoglio e ornamento, voi vi definite realisti e affermate che il mondo sarebbe davve­ro fatto come appare: soltanto a voi si svelerebbe la verità, e voi stessi ne sareste forse la parte migliore — oh, voi care immagini di Sais! Ma non sie­te anche voi, nel vostro stato di svelamento, esseri estremamente passionali e oscuri, rispetto ai pesci, e sempre troppo simili a un artista innamorato? E che cos'è la «realtà» per un artista innamorato! Continuate a portarvi in giro valutazioni delle cose la cui origine risiede nelle passioni e negli inna­moramenti dei decenni precedenti! Nella vostra sobrietà è sempre incorpo­rata un'ebbrezza misteriosa e indelebile! Il vostro amore per la «verità», ad esempio... esso sì che è un «amore» antichissimo! In ogni sensazione, in ogni percezione sensoriale c'è un frammento di questo antico amore, come vi hanno lavorato intessendovi loro filamenti anche fantasticherie, pregiu­dizi, irragionevolezza, ignoranza, timore e chissà cos'altro! Quella monta­gna! Quella nuvola! Che cosa c'è di vero? Toglietene, per una buona volta, i fantasmi e tutti gli ingredienti umani, voi esseri sobri! Sì, se solo poteste farlo! Se poteste dimenticare la vostra origine, il vostro passato, la vostra prescuola: tutta la vostra umanità e animalità! Per noi non c'è «realtà» — e neppure per voi, voi esseri sobri —; da tempo non siamo più estranei co­me credete, e forse la nostra buona volontà di superare l'ebbrezza è rispet­tabile quanto la vostra fede di essere assolutamente incapaci di ebbrezza.

58.

Soltanto in guanto creatori! Questo mi dà una gran pena e, da sempre, la pena più grande: rendermi conto che il nome delle cose sia indicibilmen­te più importante della loro essenza. Reputazione, nome e apparenza, la validità, il peso e la misura comunemente attribuiti a una cosa, originaria­mente frutto di errore e arbitrarietà, gettati sulle cose come un abito pur essendo completamente estranei al loro essere e alla loro stessa pelle: la fe­de in tutto ciò, rafforzatasi di generazione in generazione, ha fatto sì che il nome attecchisse alle cose, diventandone addirittura il corpo: l'apparenza iniziale diventa, in ultima analisi, essenza, e agisce da essenza! Che folle sarebbe mai colui che ritenesse sufficiente indicare questa origine e l'illuso¬ rietà dell'involucro per annientare il presunto mondo delle essenze, la co­siddetta «realtà»! Soltanto in quanto creatori possiamo annientare! Ma non dimentichiamo neppure questo: è sufficiente creare nuovi nomi e valu­tazioni e verosimiglianze per creare, alla lunga, nuove cose.

LIBRO SECONDO 91

59. Noi artisti! Quando amiamo una donna, proviamo un lieve odio per la

natura, pensando a tutte le ripugnanti naturalezze cui ogni donna è espo­sta: preferiremmo pensare ad altro, ma ogni volta che la nostra anima è sfiorata da questo pensiero, essa sussulta impaziente e, come abbiamo det­to, getta alla natura sguardi di disprezzo: siamo offesi, pare che la natura si immischi in quanto è di nostra proprietà, e con le mani meno sacre che si possano pensare. Allora chiudiamo le orecchie a ogni fisiologia e decidia­mo in gran segreto che «non vogliamo più sentire che gli esseri umani non sono soltanto forma e animai». «La persona sotto la pelle» è per tutti gli amanti un cruccio, un pensiero insolente, un'offesa a Dio e all'amore. Or­bene, quel che prova oggi l'amante rispetto alla natura e alla naturalezza l'ha provato da sempre ogni veneratore di Dio e della sua «sacra onnipo­tènza»: in tutto ciò che si diceva della natura, da parte di astronomi, geolo­gi, fisiologi, medici, egli vedeva un'intromissione nella sua più preziosa proprietà e, di conseguenza, un attacco e inoltre la svergognatezza dell'at­taccante! Già la parola «legge di natura» gli pareva infamante per Dio: in fondo gli sarebbe piaciuto vedere tutta la meccanica ricondotta ad atti mo­rali, di volontà e di arbitrarietà: ma poiché nessuno gli poteva rendere que­sto servigio, egli celava alla propria vista natura e meccanica come meglio poteva, e viveva in sogno. Oh, gli uomini sanno sognare da sempre, senza aver bisogno di addormentarsi! — E anche noi sappiamo farlo anche trop­po bene, con tutta la nostra buona volontà, quando siamo svegli e alla luce del giorno! Basta amare, odiare, desiderare, soprattutto percepire — e su­bito su di noi scendono lo spirito e la forza del sogno, e noi saliamo fred­damente e a occhi aperti, incuranti di ogni pericolo, su per le vie più peri­gliose, fin sui tetti e sulle torri delle fantasticherie, e senza vertigine alcuna, noi nati per arrampicarci, noi sonnambuli del giorno! Noi artisti! Noi dis­simulatori della naturalità! Noi bramosi della luna e di Dio! Noi instanca­bili viandanti immersi in un silenzio di morte, su vette che non vediamo co­me vette ma come le nostre pianure, le nostre sicurezze!

60.

Le donne e la loro influenza da lontano. Ho ancora orecchie? Non sono altro che orecchie? Mi trovo sempre in mezzo all'incendio dei marosi, con lingue di fiamme bianche che salgono ai miei piedi: da ogni dove ululati, minacce, grida, stridore, mentre nei più profondi abissi l'antico squassato-re della terra canta la sua aria, cupo come un toro che mugge: nel far ciò batte coi piedi un tale tempo da squassatore della terra che persino a questi demoni rocciosi rovinati dalle intemperie trema il cuore in corpo. Allora, all'improvviso, come dal niente, appare davanti alla porta di questo labi­rinto infernale, a poche braccia di distanza — un grande veliero, che scivo­la via tacito come uno spettro. Oh, questa bellezza spettrale! Con quale malia mi avvince! Come? Tutta la quiete e il silenzio del mondo vi si sono imbarcati? Forse che la mia stessa felicità si trova in questo luogo silenzio­so, il mio io più felice, il mio secondo io, eternizzato? Non essere morto e tuttavìa neppure vivo? Un essere intermedio, spettrale, muto, osservatore, che scivola via librandosi? Come la nave che, con le sue vele bianche, corre sul mare scuro come una farfalla straordinaria! Sì! Correre sull'esistenza!. Così è! Così sarebbe! — Possibile che questo chiasso mi abbia indotto a

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fantasticare? Il chiasso ci induce sempre a collocare la felicità lontano, nel silenzio. In mezzo al suo chiasso, in mezzo ai suoi marosi di sortite e pro­getti, un uomo vede sempre scivolare accanto a sé anche taciti esseri incan­tati, alla cui felicità e ritrosia egli anela — sono le donne. Crede quasi che là, presso le donne, abiti il suo io migliore: in quei luoghi silenziosi anche i marosi più reboanti divengono silenzio mortale e la vita stessa un sogno sulla vita. Eppure! Eppure! Mio nobile sognatore, anche sui più bei velieri ci sono rumore e chiasso, e purtroppo poco sopportabili! L'incantesimo e l'influenza più potente delle donne è, per esprimersi con la lingua dei filo­sofi, un'azione a distanza, un'odio in distans: ma perché si possa esplicare è necessaria, in primissimo luogo e soprattutto — distanza!

61.

In onore dell'amicizia. Il fatto che il sentimento dell'amicizia fosse tenu­to in altissima considerazione dagli antichi, addirittura più importante del più rinomato orgoglio dell'uomo più autosufficiente e saggio, risulta ma­gnificamente dalla storia di quel re macedone che donò un talento a un fi­losofo ateniese che teneva in dispregio il mondo e lo riebbe indietro tal quale. «Come», disse il re, «ma non ha nemmeno un amico?» E con que­sto voleva dire: «Io rispetto l'orgoglio di questo uomo saggio e indipen­dente, ma rispetterei ancora di più la sua umanità se, in lui, l'amico avesse avuto la meglio sul suo orgoglio. Questo filosofo si è umiliato davanti a me, perché mi ha dimostrato che non conosce uno dei due sentimenti più elevati che esistano — e proprio quello superiore!».

62.

Amore. L'amore perdona alla persona amata persino il desiderio.

63.

La donna nella musica. Come può essere che i venti caldi e forieri di pioggia portino con sé anche un'atmosfera musicale e il piacere di inventa­re melodie? Non sono gli stessi venti che riempiono le chiese e suscitano nelle donne pensieri d'amore?

64.

Scettiche. Temo che le donne anziane, negli ascessi reconditi del loro cuore, siano più scettiche di ogni uomo: esse credono che la superficie del­l'esistenza ne costituisce l'essenza, e ogni virtù e profondità è per loro uni­camente un mascheramento di questa «verità», l'auspicabilissimo masche­ramento di un pudendum, quindi questione di decenza e pudicizia, e niente più!

65.

Dedizione. Esistono donne nobili con una certa povertà di spirito che, per esprimere la loro più profonda dedizione, non sanno far altro che of­frire la loro virtù e pudicizia: quello che credono di avere di meglio. Spesso questo dono è accolto senza un impegno profondo come quello supposto dalle donatrici — una storia assai malinconica!

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66. La forza dei deboli. Tutte le donne sono brave a esagerare la loro debo­

lezza; sono anzi ingegnose nell'arte della debolezza, dell'apparire soltanto ornamenti fragilissimi a cui anche un granellino di polvere può far male: la loro esistenza ha lo scopo di mettere in evidenza l'indelicatezza dell'uomo, rendendolo cosciente della cosa. È così che si difendono dai forti e dalla legge del più forte.

67.

Simulare se stessi. Ella lo ama, e da quel momento lo guarda con quieta fiducia, come una bestia mansueta, ma bada! Proprio questo lo incantava, il fatto che ella sembrasse indomita e irraggiungibile! Non farebbe bene, lei, a simulare il suo vecchio carattere? A simulare incapacità di amare? Non glielo consiglia — l'amore? Vivat comoedia!

68.

Volontà e docilità. Una volta un giovinetto fu portato da un saggio, del quale gli avevano detto: «Si tratta di uno che è stato rovinato dalle don­ne!». Il saggio scosse la testa, e disse: «Sono gli uomini a rovinare le don­ne; è negli uomini che si deve espiare e migliorare quanto manca alle don­ne, perché l'uomo si fa un'immagine della donna e la donna costruisce se stessa a partire da questa immagine». «Tu sei troppo benevolo nei con­fronti delle donne», disse uno degli astanti, «non le conosci!» Il saggio ri­spose: «L'uomo è caratterizzato dalla volontà, la donna dalla docilità: questa è la legge dei sessi, davvero! Una legge dura per la donna! Tutti gli esseri umani sono innocenti per la loro esistenza, ma le donne sono inno­centi alla seconda potenza: chi potrebbe mai avere balsamo e mitezza suffi­cienti per loro?». «Ma che balsamo! Che mitezza!», esclamò un altro, tra la folla: «Le donne debbono essere educate meglio». «Sono gli uomini che debbono essere educati meglio», disse il saggio, facendo cenno al giovinet­to di seguirlo. Ma il giovinetto non lo seguì.

69.

Capacità di vendetta. Il fatto che uno non sappia e quindi non voglia neppure difendersi non è ancora motivo di vergogna, ai nostri occhi; sti­miamo però poco colui che non abbia né la possibilità né la buona volontà di difendersi, che sia uomo o donna. Ci potrebbe tenere accanto a sé (o, come si suol dire, avvincere), una donna della quale non siamo convinti che, nel caso, sarebbe capacissima di maneggiare contro di noi un pugnale (di qualsiasi genere)? O contro di sé: la qual cosa, in un certo caso, sarebbe la più sensibile delle vendette (la vendetta cinese).

70.

Le padrone dei padroni. Una voce di contralto profonda e possente, di quelle che ogni tanto risuonano nei teatri, apre all'improvviso di fronte a noi la tenda delle possibilità alle quali abitualmente non crediamo: e tutto d'un tratto crediamo che da qualche parte, nel mondo, esistano donne con

94 LA GAIA SCIENZA

anime elevate, eroiche, regali, prontamente capaci di grandiosi incontri, decisioni e sacrifici, prontamente capaci di dominare sugli uomini, perché in loro si è fatto vivido ideale, al di là del sesso, il meglio dell'uomo. È ve­ro che queste voci, nell'intenzione del teatro, non dovrebbero trasmettere questo concetto di donna: abitualmente impersonano l'ideale dell'amante maschio, poniamo un Romeo; ma a giudicare dalla mia esperienza il teatro e il musicista che si attendano questo effetto da una tale voce si ingannano regolarmente. Non si crede a questo amante: queste voci mantengono sem­pre un colore materno e casalingo, soprattutto quando nel loro timbro ri­suona l'amore.

71.

Sulla castità femminile. C'è qualcosa di davvero stupefacente e mostruo­so nell'educazione delle donne distinte; forse non esiste niente di più para­dossale. Tutto il mondo è d'accordo nell'allevarle in modo che siano il più ignoranti possibile in fatto di erotismo, infondendo nella loro anima una profonda vergogna dello stesso e un'estrema impazienza e desiderio di fu­ga non appena vi si accenna. In fondo, soltanto qui è in gioco tutto «l'ono­re» delle donne: per il resto, si perdonerebbe loro ogni cosa! Ma in questo campo debbono rimanere profondissimamente ignoranti: non debbono avere né occhi, né orecchie, né parole né pensieri per questo loro «male»; anzi già il saperne è male. Orbene! Col matrimonio, sono fulmineamente catapultate nella verità e nel sapere, oltretutto da parte di colui che amano e rispettano più di ogni altra cosa: e sono costrette a cogliere una contrad­dizione tra amore e pudore, e addirittura provare in una volta sola rapi­mento, abbandono, dovere, compassione e orrore per l'inaspettata prossi­mità di Dio e animale, e chissà cos'altro ancora! Qui l'umanità si è anno­data, con le sue stesse mani, un nodo così difficile da sciogliere che è raro trovarne uno pari! Persino la compassionevole curiosità del più saggio co­noscitore dell'umanità non basta per indovinare come questa e quella don­na sappiano raccapezzarsi nella soluzione di questo enigma e in questo enigma di soluzioni, quali sospetti orribili e pervasivi debbano agitarsi in queste povere anime smarrite, e come anche l'ultima filosofia e l'ultima scepsi delle donne gettino l'ancora in questo punto! — Dietro, lo stesso profondo silenzio di prima: e spesso un silenzio davanti a se stesse, un chiudere gli occhi davanti a se stesse. — Ecco perché le giovani donne si sforzano di sembrare superficiali e spensierate; le più raffinate tra loro ar­rivano a simulare una specie di sfacciataggine. Le donne avvertono spesso i loro mariti come un punto interrogativo sul loro onore e i loro figli come apologia o penitenza — hanno bisogno dei loro figli e li desiderano in mo­do completamente diverso da come un uomo può desiderare un figlio. In breve, non si sarà mai abbastanza miti nei confronti delle donne!

72.

Le madri. Gli animali la pensano diversamente dagli uomini, a proposito delle donne; per loro la femmina è l'essere deputato alla riproduzione. Non conoscono l'amore paterno, ma qualcosa di simile all'amore per i figli di qualcuno che amano e una certa abitudine a loro. Con i figli, le femmine soddisfano il proprio desiderio di dominio, di possesso, di avere un'occu­pazione; il desiderio di avere qualcosa che conoscono bene e con cui posso­no chiacchierare — è questo l'amore materno, in parte paragonabile all'a-

LIBRO SECONDO 95

more dell'artista per la sua opera. La gravidanza ha reso le femmine più miti, disponibili all'attesa, timorose, pronte a sottomettersi; allo stesso modo la gravidanza spirituale genera quel carattere contemplativo per tan­ti versi affine a quello femminile: sono le madri maschili. Negli animali il bel sesso è quello maschile.

73.

Santa crudeltà. Da un santo si recò un uomo che teneva fra le braccia un bimbo appena nato. «Che devo farne, di questo bimbo? È miserello, mal­formato e non ha abbastanza vita per poter morire.» «Uccidilo», esclamò il santo con voce alterata, «uccidilo e poi tienilo fra le braccia tre giorni e tre notti, in modo da poterlo imprimere nella tua memoria: in questo mo­do non potrai mai generare un figlio se per te non fosse giunto il tempo di generare.» L'uomo, udite queste parole, se ne andò deluso; e molti biasi­marono il santo perché aveva consigliato una crudeltà, aveva consigliato di uccidere il bambino. «Ma non era più crudele lasciarlo in vita?», disse il santo.

74.

Quelle che non hanno successo. Non avranno mai successo quelle povere donne che, in presenza di colui che amano, diventano inquiete e insicure, e cominciano a parlare troppo: perché gli uomini sono sicurissimamente più sedotti da una certa tenerezza misteriosa e flegmatica.

75.

Il terzo sesso. «Un uomo piccolo è paradossale, ma pur sempre un uo­mo, mentre una donnina mi sembra, in confronto alle donne alte, di un al­tro sesso», disse una volta vecchio maestro di danza. Una donna piccola non è mai bella, diceva il vecchio Aristotele.

76.

Il pericolo più grande. Se non ci fosse stata, in ogni tempo, una gran maggioranza di uomini i quali identificavano nella disciplina della loro te­sta — la loro «ragionevolezza» — il loro orgoglio, i loro obblighi, le loro virtù, e che ogni fantasticheria ed esuberanza di pensiero offendeva o sver­gognava in quanto amici del «sano intelletto umano», l'umanità sarebbe andata in malora già da tempo! Il pericolo più grande che aleggiava e con­tinua ad aleggiare su di loro era lo scoppio della pazzia: cioè lo scoppio della discrezionalità nel percepire, vedere e udire, il piacere della mancanza di disciplina in testa, la gioia per il non-intelletto umano. Non la verità e la certezza sono il contrario del mondo dei folli, ma la generalità e la obbliga­torietà nei confronti di tutti imposte da una fede, ovvero la mancanza di discrezionalità nel giudizio. E il lavoro più grande sinora compiuto dagli uomini è proprio quello di trovare un accordo su tante cose e imporsi una legge di conformità, che esse siano vere o false. Questa è la disciplina della testa mantenuta dall'umanità; ma gli istinti contrari sono sempre così po­tenti che in fondo del futuro dell'umanità si può parlare soltanto con poca fiducia. L'immagine delle cose continua a spingersi e a spostarsi, e forse da adesso di più e più rapidamente che mai; proprio gli spiriti eletti continua-

96 LA GAIA SCIENZA

no a ricalcitrare contro questa obbligatorietà nei confronti di tutti: avanti i ricercatori della verità! Quella fede che si pone come fede mondiale conti­nua a generare una nausea e una nuova cupidigia nelle teste più raffinate; e già il ritmo lento che essa richiede per tutti i processi spirituali, quella imi­tazione delle tartarughe che qui è considerata la norma, rendono artisti e poeti dei transfughi: — sono questi spiriti impazienti in cui scoppia una ve­ra e propria voglia di follia, perché la follia ha un ritmo così allegro! Oc­corrono quindi intelletti virtuosi, — ahimè! adopererò la parola meno equivoca — occorre stupidaggine virtuosa perché i fedeli della grande fede comune rimangano insieme e continuino a danzare la loro danza: a coman­dare e spingere, in questo caso, è un bisogno di prima categoria. Noialtri siamo l'eccezione e il pericolo, — abbiamo eternamente bisogno di difesa! — Orbene, si possono davvero dire molte cose in favore dell'eccezione, purché non voglia mai diventare regola.

77.

La bestia con la buona coscienza. La volgarità presente in tutto ciò che piace nell'Europa meridionale — si tratti dell'opera italiana (ad esempio quelle di Rossini e Bellini) o del romanzo d'avventura spagnolo (accessibile al meglio per noi tedeschi nel travestimento francese di Gil Blas) — non mi è oscuro, ma non mi offende, come non mi offende la volgarità che si in­contra passeggiando per Pompei e, in fondo, anche leggendo qualsiasi li­bro antico: donde tutto ciò? Si tratta forse del fatto che qui manca ogni pudore e che tutto ciò che è volgare si presenta sicuro di sé come lo sono, nello stesso genere di musica o di romanzo, gli elementi nobili, gradevoli e passionali. «La bestia ha i suoi diritti, come l'uomo: così può andarsene in giro tranquillamente e anche tu, mio caro prossimo, sei questa bestia, no­nostante tutto!»: questa mi sembra essere la morale della cosa e la partico­larità dell'umanità meridionale. Il cattivo gusto ha i suoi diritti, come il buon gusto, e addirittura un diritto di precedenza, nel caso in cui costitui­sca un'esigenza, una soddisfazione sicura e, per così dire, una lingua co­mune, una maschera e una mimica assolutamente comprensibili; il buon gusto, il gusto ricercato ha invece sempre un elemento indagatore, un qual­cosa di tentato, che non è mai completamente certo della sua comprensio­ne, — esso non è e non è mai stato popolare! Popolare è e rimane la ma­schera. Ben vengano, dunque, questi elementi di maschera nelle melodie e nelle cadenze, nei guizzi divertiti e nel ritmo di queste opere! Proprio la vi­ta antica! Che cosa si comprende di tutto ciò se non si comprende il piacere per la maschera, la buona coscienza della maschera? Questo è il lavoro e il ristoro dello spirito antico e forse, nel mondo antico, questo lavacro era ancora più necessario per le nature rare e sublimi che per quelle comuni. Per contro mi offende indicibilmente un atteggiamento comune presente nelle opere nordiche. In esse c'è vergogna; l'artista si è umiliato di fronte a se stesso e non si è neppure guardato dall'arrossire; noi ci vergogniamo di lui e siamo così offesi perché presagiamo che egli ha creduto di doversi umiliare a causa nostra.

78.

Per che cosa dobbiamo essere grati. Soltanto gli artisti, e in particolare quelli del teatro, hanno conferito agli esseri umani occhi e orecchie per udi­re e vedere con un certo piacere quello che ciascuno è, vive, vuole; soltanto

LIBRO SECONDO 97

essi ci hanno insegnato ad apprezzare l'eroe che è nascosto in ciascuno di questi uomini quotidiani e l'arte di considerarsi eroi, da lontano, per così dire semplificati e trasfigurati — l'arte di «mettersi in scena» davanti a se stessi. Soltanto così possiamo trascurare alcuni dettagli sgradevoli che so­no in noi! Senza quell'arte diventiamo un niente in primo piano e viviamo completamente schiavi di quell'ottica che ci fa sembrare quel che è più vici­no e comune come immensamente grande, come la realtà in sé. Forse esiste un merito simile in quella religione che imponeva di vedere la peccaminosi­tà di ogni singolo con la lente di ingradimento e faceva di ogni peccatore un criminale grande e immortale: descrivendo intorno a lui prospettive eterne, insegnava all'uomo a vedersi da lontano e come qualcosa di passa­to, come un tutto.

79. Fascino dell'imperfezione. Vedo qui un poeta che, come alcuni uomini,

esercita più fascino con la sua incompiutezza che con tutto quello che pren­de forma sotto la sua mano: sì, i suoi vantaggi e la sua fama gli derivano molto di più dalla sua incapacità che dalla sua forza. La sua opera non esprime mai completamente quello che egli vorrebbe esprimere e avervi vi­sto: sembra che si sia pregustato una visione, senza averla mai davvero contemplata — ma nella sua anima è rimasta un'immane cupidigia di quel­la visione, da cui nasce l'immane eloquenza del suo desiderio e della sua fa­me. Così egli solleva colui che lo ascolta al di sopra della sua opera e di tut­te le «opere», e gli dà ali per volare, per salire così in alto dove altrimenti gli ascoltatori non salgono: e così, divenuti essi stessi poeti e visionari, tri­butano all'artefice della loro felicità una grande ammirazione, come se li avesse condotti direttamente alla contemplazione del suo ultimo sancta sanctorum, come se avesse raggiunto il suo scopo e avesse davvero contem­plato e comunicato la sua visione. È un bene, per la sua fama, che egli non abbia raggiunto il suo scopo.

80.

Arte e natura. I Greci (o almeno gli Ateniesi) amavano sentir parlare be­ne: avevano in tal senso una particolare inclinazione, che più di ogni altra cosa li distingue dai non Greci. E così pretendevano che la passione, sulle scene, parlasse bene, e accoglievano con voluttà gli elementi innaturali del verso drammatico: nella natura infatti la passione è così laconica! così mu­ta e imbarazzata! Oppure, quando trova le parole, così confusa e irragio­nevole, una vergogna per se stessa! Ora noi tutti, grazie ai Greci, ci siamo abituati a questa innaturalità del palcoscenico, proprio come, grazie agli Italiani, sopportiamo e volentieri quell'altra innaturalità, la passione in canto. Sentir parlare bene e con dovizia di particolari persone che si trova­no nelle situazioni più difficili è divenuta per noi un'esigenza, che non pos­siamo soddisfare a partire dalla realtà: ci rapisce il fatto che l'eroe tragico trovi ancora parole, motivi, gesti eloquenti e, nel complesso, una chiara spiritualità, proprio laddove la vita si avvicina agli abissi e l'uomo reale perlopiù perde la testa nonché, sicuramente, la sua bella lingua. Questo ge­nere di scollamento dalla natura è forse il pasto più gradevole per l'orgo­glio dell'uomo; è per questo che egli ama l'arte, come espressione di inna­turalezza, di una convenzione eroica e innaturale. Giustamente si rimpro­vera al poeta drammatico il fatto di non trasformare tutto in ragione e pa-

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role, ma di tenersi sempre in mano un resto di silenzio: così come non si è soddisfatti quando il musicista dell'opera non sa trovare per il più elevato moto dell'animo una melodia, ma soltanto un commovente e «naturale» balbettio o strepito. Qui occorre invece contraddirla, la natura! Qui il vol­gare fascino dell'illusione deve cedere a un fascino più elevato! I Greci vanno molto avanti per questa strada — quasi da far spavento! Come co­struiscono il palcoscenico in modo che sia il più sottile possibile e si impe­discono ogni effetto di profondità, come rendono impossibili all'attore ogni mimica e lieve movimento trasformandolo in uno spaventapasseri so­lenne, rigido, simile a una maschera, allo stesso modo hanno sottratto ogni profondità anche alla passione, e le hanno imposto la legge del bell'elo­quio; hanno anzi fatto di tutto per contrastare l'effetto elementare di quel­le immagini che suscitano compassione e timore, perché non volevano ti­more e compassione, — in onore e ossequio di Aristotele! Ma sicuramente egli non ha spaccato in due il capello, nelle sue osservazioni a proposito della tragedia greca! Si osservino comunque i poeti tragici greci facendo at­tenzione a quanto suscitava il loro zelo, la loro inventiva, la loro competiti­vità: non certo l'intenzione di sopraffare lo spettatore inondandolo di emozioni! L'ateniese andava a teatro per ascoltare un bell'eloquio! Ed era di bell'eloquio che si occupava Sofocle, mi si perdoni quest'eresia! Le cose stanno assai diversamente per le opere serie: tutti i loro maestri cercano di evitare che i loro personaggi siano compresi. Occasionalmente in aiuto del­lo spettatore poco attento può venire una parola scandita meglio, ma nel complesso tutti i loro sono convinti che la situazione debba spiegarsi da so­la — l'eloquio è ininfluente! — e così hanno tutti giocato, con le parole, ti­ri birboni. Forse è mancato loro il coraggio di esprimere appieno il loro di­sprezzo delle parole: un po' più di sfacciataggine e Rossini avrebbe fatto cantare la-la-la-la, — e sarebbe stato ragionevole! I personaggi dell'opera, infatti, non debbono essere creduti «sulla parola!», ma sulla nota! Ecco la differenza, ecco la bella innaturalezza in virtù della quale si va all'opera! Persino il recitativo secco, in realtà, non deve essere ascoltato come parole e testo: questa specie di semimusica deve semmai dare all'orecchio musica­le una piccola quiete (la quiete dalla melodia, il più sublime e quindi anche il più faticoso piacere di quest'arte) —, ma assai presto, anche qualcos'al­tro: una crescente impazienza, una crescente opposizione, una nuova bra­ma di musica completa, di melodia. Come la mettiamo, da questo punto di vista, con l'arte di Richard Wagner? In altro modo? Spesso ho pensato che i suoi esecutori abbiano imparato a memoria le parole e la musica delle sue creazioni immediatamente prima dell'esecuzione: mi pare infatti che senza esecuzione non si possano udire né parole né musica.

81.

Gusto greco. «Che cos'ha di bello?», disse quel geometra dopo un'ese­cuzione dell'Ifigenia: «Non si giunge a nessuna dimostrazione!». I Greci erano davvero così lontani da questo gusto? In Sofocle, perlomeno, «tutto è dimostrato».

82.

L '«esprit» non greco. Tutto il pensiero greco è indicibilmente logico ed elegante; essi non se ne sono stancati, almeno per tutto il loro lungo perio­do d'oro, come invece hanno ripetutamente fatto i Francesi, i quali amano

LIBRO SECONDO 99

anche troppo compiere un piccolo balzo verso il suo contrario e in realtà riescono a sopportare lo spirito della logica soltanto se esso tradisce la sua garbatezza e la sua abnegazione sociale con una serie di balzelli nel suo contrario. La logica appare loro necessaria, come il pane e l'acqua, ma an­che, come questi, una specie di vitto da galera, se deve essere gustata da so­la e allo stato puro. Nella buona società non si deve mai voler essere com­pletamente e soltanto dalla parte della ragione, come vuole tutta la logica pura: ecco perché quella piccola dose di irragionevolezza in tutto l'esprit francese. Il senso sociale dei Greci era di gran lunga meno sviluppato di quanto non fosse e sia tuttora quello dei Francesi: ecco perché tanto poco esprit persino nei loro uomini più ricchi di spirito, ecco perché tanta poca arguzia persino nei loro burloni, ecco perché — ah! Queste mie afferma­zioni non saranno credute, e quante ne avrei ancora sul cuore! Est res ma­gna tacere, dice Marziale con tutti i chiacchieroni.

83.

Traduzioni. Si può dedurre il livello di senso storico posseduto da un'e­poca dal modo in cui tale epoca traduce e cerca di fare propri libri e tempi passati. I Francesi di Corneille e anche quelli della rivoluzione si imposses­sarono dell'antichità romana in un modo che noi non avremmo il coraggio di imitare, — grazie al nostro superiore senso storico. E la stessa antichità romana: con quanta violenza e ingenuità al tempo stesso pose le mani su tutto quel che c'era di buono e di elevato nella precedente antichità greca! Come l'ha tradotta nel presente romano! Con quanta intenzionalità e tran­quillità ha fatto sparire la polvere dalle ali della farfalla attimo! Cosi Ora­zio traduce, qua e là, da Alceo o da Archiloco, Properzio da Callimaco e Fileta (poeti dello stesso rango d'un Teocrito, se ci è lecito esprimere un giudizio); che cosa importava loro che il vero creatore avesse fatto questa e quest'altra esperienza e ne avesse trascritto i segni nella sua poesia! — In quanto poeti, erano poco inclini a quello spirito antiquario che precede lo spirito storico; in quanto poeti, tralasciavano i particolari strettamente personali, i nomi e tutto ciò che caratterizzava una città, una costa, un se­colo, costituendo il suo costume e la sua maschera: al loro posto metteva­no sempre il presente romano. Sembrano così chiederci: «Non dobbiamo rinnovare ciò che è antico a nostro uso e consumo, e collocare noi stessi al suo interno? Non dobbiamo infondere in questo corpo morto la nostra anima? Perché è morto, una volta per tutte, e tutto ciò che è morto è brut­to!». Essi non conoscevano il piacere del senso storico; quel che era passa­to ed estraneo era loro penoso e, in quanto Romani, li spronava a una con­quista romana. Di fatto ogni traduzione, allora, era una conquista, — e non soltanto perché si trascurava ogni elemento storico: perché vi si ag­giungevano allusioni al presente e, soprattutto, si cancellava il nome del poeta e si metteva al suo posto il proprio; — questo senza sentirsi ladri, ma con la migliore coscienza dell'imperium Romanum.

84.

Sull'origine della poesìa. Quegli amanti del fantastico nell'uomo che so­stengono al contempo anche la dottrina della moralità istintiva giungono a questa conclusione: «Posto che in ogni epoca l'uomo abbia venerato nel­l'utile la somma divinità, donde è nata, in tutto il mondo, la poesia, cioè questa ritmicizzazione del discorso che agisce in direzione opposta rispetto

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all'esigenza della chiarezza della comunicazione, e che pure è sbocciata e continua a sbocciare su tutta la terra, in barba a ogni utile finalità! L'irra-gionevolezza bella e selvaggia della poesia vi contraddice, signori utilitari­sti! Proprio il volersi svincolare dall'utile: è stato questo a elevare l'uomo e ad ispirargli moralità e arte!». Ora, per una volta, devo dire due parole in favore degli utilitaristi: hanno ragione così di rado che ispirano proprio pietà! In quelle epoche antiche che videro la nascita della poesia, l'uomo teneva sempre presente l'utile, e si trattava, in questo caso, anche di un uti­le non indifferente: allora, quando penetrò nel discorso il ritmo, quella po­tenza che riordina tutti gli atomi di una frase, impone di scegliere le parole e infonde un nuovo colore ai pensieri, rendendoli più cupi, estranei, lonta­ni, si trattava certo di un'utilità superstiziosal Si voleva infatti, in virtù del ritmo, far capire meglio agli dèi i desideri umani, perché si era notato che gli uomini ricordano meglio un verso che un discorso in prosa e, parimenti, si pensava che il tic-tac ritmico si potesse udire meglio da lontano e che una preghiera ritmica, di conseguenza, giungesse più vicina alle orecchie degli dèi. Soprattutto, però, si voleva sfruttare l'utilità di quella elementare so­praffazione che l'uomo sperimenta su di sé quando ascolta la musica; il rit­mo è coercizione, genera un desiderio irrefrenabile di cedere, di partecipa­re; non soltanto i piedi, ma anche l'anima lo segue e probabilmente, con­clusero gli antichi, anche l'anima degli dèi! Si cercò così, tramite il ritmo, di esercitare su di loro coercizione e violenza, gettando loro la poesia come una specie di cappio magico. Ci fu un'idea ancora più stravagante, e pare che proprio questa abbia contribuito in modo preponderante a far nascere la poesia. Per i pitagorici essa è una dottrina filosofica e lo strumento prin­cipe dell'educazione, ma ben prima che esistessero i primi filosofi, si attri­buiva alla musica la capacità di scaricare le emozioni, di purificare le ani­me, di mitigare la ferocia animae: proprio in virtù del suo elemento ritmi­co. Quando si erano perdute la giusta tensione e armonia dell'anima, si do­veva danzare al ritmo del cantore: era questa la ricetta di tale arte medica. Con essa Terpandro placò una rivolta, Empedocle indusse un pazzo a miti consigli, Damone purificò un giovane malato d'amore; con essa si riuscì a curare anche dèi follemente desiderosi di vendetta. In primo luogo spin­gendo al massimo lo stordimento e la sfrenatezza delle loro emozioni, quindi facendo del furibondo un folle e del vendicativo una persona ebbra di vendetta: tutti i culti orgiastici volevano scaricare tutto d'un tratto la fe­rocia di una divinità, affinché questa potesse sentirsi più libera e tranquilla e lasciare l'uomo in pace. Melos significa, etimologicamente, tranquilliz­zante, non perché sia esso stesso tranquillo, ma perché rendono tranquilli i suoi effetti. E non soltanto nel canto cultuale, ma anche nel canto secolare delle epoche antiche si riscontra il presupposto che l'elemento ritmico eser­citi un'azione magica, ad esempio mentre si attinge l'acqua o si rema: il canto serve ad ammaliare i demoni che si pensano attivi nelle singole circo­stanze, a renderli condiscendenti, vincolati, uno strumento nelle mani del­l'uomo. E ogni volta che si agisce si ha un'occasione per cantare, — perché a ogni azione è associato il contributo degli spiriti: canti magici e scongiuri sembrano essere la forma primigenia della poesia. Se anche l'oracolo si esprimeva in versi — i Greci affermavano che l'esametro era nato a Delfi — ciò significa che si era ben consci della coercizione esercitata dal ritmo. Farsi profetizzare il futuro significava un tempo (in base all'etimologia più probabile della parola greca) farselo determinare: si credeva cioè di potere influenzare il corso del futuro, se così voleva quell'Apollo che, secondo le concezioni più antiche, era qualcosa di più che un dio veggente. La formu-

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la profetica vincola il futuro proprio in virtù del modo in cui è pronunzia­ta, con la massima esattezza letterale e ritmica: essa è però un'invenzione di Apollo, il quale in quanto dio dei ritmi può vincolare anche le dee del destino. Complessivamente, quindi, si può dire che per quelle genti-antiche e superstiziose ci fosse qualcosa di più utile del ritmo? Col ritmo si poteva tutto: favorire magicamente un lavoro; costringere un dio ad apparire, es­sere vicino, ascoltare; prepararsi il futuro secondo la propria volontà; sca­ricare la propria anima da qualsiasi eccesso (di paura, di mania, di com­passione, di desiderio di vendetta), e non soltanto la propria, ma anche quella del più malvagio dei demoni: senza il verso non si era niente, col verso si era quasi un dio. Una tale sensazione di fondo non può più scom­parire, — e ancora adesso, dopo millenni di lotta a queste superstizioni, anche il più saggio fra noi perde ogni tanto la testa per il ritmo, magari sol­tanto perché un pensiero gli pare più vero quando ha una forma metrica, che gli giunge simile a una cadenza divina. Non è davvero divertente che siano sempre i filosofi più seri, per quanto rigorosi nei confronti di ogni sa­pienza, a richiamarsi ai versi dei poeti per conferire forza e credibilità al lo­ro pensiero? Eppure una verità corre più pericoli quando il poeta la sotto­scrive che quando la contraddice perché, come dice Omero, «molto mento­no i cantori!».

85. // bello e il buono. Gli artisti non fanno altro che magnificare quelle

condizioni e quelle cose che hanno la fama di rendere l'uomo buono, o grande, o ebbro, o allegro, o benevolo o saggio. Oggetto dell'interesse de­gli artisti sono proprio quelle cose e condizioni elette il cui valore per la fe­licità umana si considera attestato con certezza: se ne stanno sempre appo­stati nella speranza di scoprirle e trascinarle nel campo dell'arte. Voglio di­re: non sono essi stessi i legislatori della felicità e del felice, ma si spingono sempre nei pressi di questi legislatori, con grande curiosità e brama di sfruttare immediatamente le loro valutazioni. Così, giacché oltre all'impa­zienza hanno anche polmoni da araldo e piedi da corridore, saranno sem­pre tra i primi a magnificare il nuovo bene, e spesso sembrerà anche che siano stati loro i primi a definirlo e valutarlo buono. Ma questo è un erro­re, come abbiamo detto: sono solo più veloci e più chiassosi dei veri legisla­tori. Ma chi sono questi? Sono i ricchi e i potenti.

86.

Sul teatro. Questa giornata mi ha ridato sensazioni forti ed elevate, e se a sera potessi avere musica e arte, so bene quale musica e arte non vorrei avere, cioè quelle che inebriano i loro ascoltatori e li spingono veemente­mente verso un istante di sensazioni forti ed elevate — quegli uomini del quotidiano dell'anima che, a sera, non sembrano vincitori sul carro di trionfo ma muli stanchi sui quali la vita ha usato troppo spesso la sua for­za. Che cosa ne saprebbero, quegli uomini, di «atmosfere più elevate», se non esistessero strumenti che producono ebbrezza e frustate ideali! — E così, come hanno il vino, hanno anche chi li entusiasma. Ma che me ne im­porta delle loro bevande e delle loro ebbrezze! Che se ne fa l'entusiasta del vino! Guarda semmai alquanto nauseato a mezzi e mediatori che debbono qui generare un certo effetto senza avere una causa sufficiente, una scim­miottatura dei flutti dell'animo elevato! — Come? Si fa dono alla talpa di

102 LA GAIA SCIENZA

ali e idee superbe — prima che vada a dormire, che strisci nella sua caver­na? La si spedisce a teatro mettendole davanti agli occhi ciechi e stanchi lenti grandiose? Persone la cui vita non è «azione», ma un affare, si siedo­no davanti al palcoscenico e osservano strani esseri la cui vita è qualcosa di più che un affare. «È decoroso», dite voi; «è intrattenimento; così vuole l'educazione!» Ebbene! Manco spesso di educazione, evidentemente, per­ché questa vista mi dà proprio la nausea. Chi vive abbastanza tragedie e commedie, preferisce rimanere lontano dal teatro; oppure, eccezionalmen­te, per lui si trasforma in un vero spettacolo tragico e comico tutto il proce­dimento — ivi inclusi teatro, pubblico e poeta — tanto che la pièce rappre­sentata finisce col significargli ben poco. A chi somiglia a Faust e a Man-fred, cosa mai potrà importargliene di tutti i Faust e di tutti i Manfred tea­trali? Mentre invece gli darà senz'altro da pensare il fatto che sulle scene si portino figure di quel genere. I pensieri e le passioni più urgenti di fronte a coloro che non sono capaci di pensiero e di passione, — ma solo di ebbrez­za] E si usano quelli come mezzi per ottenere questa! E gli Europei si ine­briano di teatro e musica come altrove si fuma hascish o si mastica betell Oh, chi ci racconterà mai tutta la storia dei narcotici! È praticamente la storia dell'educazione, della cosiddetta educazione superiore!

87.

Della vanità degli artisti. Io credo che spesso gli artisti ignorino le loro migliori possibilità perché sono troppo vani e hanno orientato la loro sen­sibilità verso qualcosa di più superbo che apparire simili a quelle pianticelle che riescono a crescere sul loro terreno in uno stato di vera perfezione, nuove, strane e belle. Quel che c'è davvero di buono nel loro giardino e nella loro vigna, essi in genere lo guardano dall'alto in basso, e il loro amo­re e il loro discernimento non sono dello stesso livello. C'è un musicista che più di ogni altro musicista è maestro nel trovare le note nel regno delle ani­me sofferenti, oppresse e martirizzate; nel dare voce anche agli animali muti. Nessuno gli è pari nei colori del tardo autunno, nella felicità indescri­vibilmente commovente di un piacere ultimo, brevissimo e irripetibile; egli conosce il vibrare di quelle mezzanotti dell'anima, misteriose e inquietanti, in cui causa ed effetto sembrano usciti dai binari e in ogni istante può na­scere qualcosa «dal nulla»; attinge in modo felicissimo dal fondale più bas­so della gioia umana e, per così dire, dal suo calice già vuotato, dove le gocce più amare e ripugnanti si sono confuse con quelle più dolci; conosce quello stanco trascinarsi dell'anima che non sa più né saltare, né volare, e neppure camminare; ha lo sguardo ritroso del dolore celato, della com­prensione senza conforto, dell'addio senza ammissione; sì, in quanto Or­feo di ogni miseria nascosta è più grande di chiunque, e sicuramente per mezzo suo all'arte è stato aggiunto qualcosa che sinora era inesprimibile e dell'arte pareva persino indegno, perché le parole l'avrebbero soltanto contaminato e non comunicato, alcuni accenti piccolissimi e microscopici dell'anima: sì, è il maestro del piccolissimo. Ma non vuole esserlo! II suo carattere preferisce le grandi pareti e le audaci pitture murali! Gli sfugge il fatto che il suo spirito ha un gusto e una tendenza diversi, e preferisce star­sene nei cantucci di case decrepite: è là, nascosto, nascosto a se stesso, che dipinge i suoi veri capolavori, tutti molto brevi, lunghi spesso soltanto una battuta; allora diviene bravissimo, grande e perfetto, forse soltanto allora. Ma egli non lo sa! È troppo vanitoso per saperlo.

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88. Serietà rispetto alla verità. Serietà rispetto alla verità! Quante cose diver­

se si possono intendere con queste parole! Persino le opinioni e le modalità di dimostrazione e di prova che un pensatore ritiene una leggerezza e alle quali, in questa o in quella ora, è con sua grande vergogna soggetto: orbe­ne, queste stesse opinioni possono dare a un artista che in loro si imbatta, e con loro temporaneamente viva, la coscienza di aver trovato la più profon­da serietà rispetto alla verità, e ci sarebbe da meravigliarsi se egli, per quanto artista, mostrasse al contempo il più serio anelito verso quanto è in antitesi con l'apparenza. Così è possibile che, proprio col suo pathos per la serietà, uno tradisca le superficialità con le quali il suo spirito si è aggirato, sino a quel momento, nel regno della conoscenza? E forse a tradirci non è proprio tutto quel che riteniamo importante! Esso dimostra dove sono si­tuati i nostri pesi e ciò per cui non possediamo pesi.

89.

Ora e allora. Che importa tutta la nostra arte, quella che produce le ope­re d'arte, se abbiamo perduto quell'arte più elevata, l'arte di far festa! Un tempo tutte le opere d'arte erano collocate sulla grande strada della festa dell'umanità, quali monumenti eretti in memoria di momenti elevati e bea­ti. Adesso invece con le opere d'arte si vogliono allettare, tirandole da una parte, le povere creature esaurite e malate sulla grande strada della soffe­renza dell'umanità, per un istante di piacere: si offre loro un po' di ebbrez­za e di follia.

90.

Luci e ombre. I libri e le loro stesure variano al variare dei pensatori: uno ha raccolto nel suo libro le luci che ha saputo rapidamente carpire e se­gretamente far sue dai raggi di una conoscenza che gli si era accesa all'im­provviso; un altro rende soltanto le ombre, le imitazioni in bianco e nero di quanto si è costituito il giorno prima, nella sua anima.

91.

Cautela. È noto che Alfieri mentì molto nel narrare ai suoi stupefatti contemporanei la storia della sua vita. Mentì a partire da quel dispotismo nei confronti di se stesso che emerge ad esempio anche dal modo in cui si creò la sua lingua e si tiranneggiò sino a fare di sé un poeta, trovando infi­ne una rigorosa forma di sublimità, in cui compresse la sua vita e la sua memoria, presumibilmente con grande strazio. Non riterrei attendibile, scritta da lui, neppure la biografia di Platone: come del resto quella di Rousseau, o la Vita nuova di Dante.

92.

Prosa e poesia. Si osservi che i maggiori prosatori sono stati quasi sem­pre anche poeti, vuoi pubblicamente, vuoi anche soltanto in segreto, tra le loro mura domestiche; e invero una buona prosa può nascere solo in vista della poesia] Perché essa è una guerra ininterrotta e garbata con la poesia:

104 LA GAIA SCIENZA

tutto il suo fascino consiste nel fatto che la poesia vi è costantemente evita­ta e contraddetta; ogni astrattezza vi è presentata come atto di furbizia nei suoi confronti, quasi con voce beffarda; ogni aridità e freddezza deve in­durre l'amabile dea a un'amabile disperazione; spesso si danno avvicina­menti, riconciliazioni momentanee e poi un improvviso e canzonatorio bal­zo indietro; spesso si tira una tenda e penetra una luce abbagliante proprio mentre la dea assapora i suoi crepuscoli e i suoi colori cupi; spesso le paro­le le vengono tolte di bocca e cantate su una melodia che la induce a coprir­si con le sue mani delicate le sue delicate orecchie: sono migliaia i piaceri della guerra, che annovera sconfitte di cui gli impoetici, i cosiddetti uomini prosaici, non sanno niente — e infatti essi scrivono e parlano soltanto una cattiva prosa! La guerra è la madre di tutte le cose; la guerra è anche la ma­dre della buona prosa! In questo secolo ci sono stati quattro uomini strani e veramente poetici che hanno raggiunto le vette della prosa, per la quale questo secolo non è fatto — perché gli manca la poesia, come abbiamo ac­cennato. Prescindendo da Goethe, che riguarda principalmente il secolo in cui è nato, a me pare che soltanto Giacomo Leopardi, Prosper Mérimée, Ralph Waldo Emerson e Walter Savage Landor, l'autore delle Imaginary Conversations, siano degni di essere definiti maestri della prosa.

93.

Ma perché scrivi, allora? A.: «Io non sono uno di quelli che pensano te­nendo in mano la penna già intinta nell'inchiostro, e ancor meno uno di quelli che si abbandonano alle loro passioni con davanti a sé la boccetta aperta, seduti sulla sedia e intenti a fissare la carta. Lo scrivere suscita in me un senso di collera o di vergogna; scrivere è per me una necessità — tro­vo ripugnante perfino parlarne metaforicamente!». B.: «Ma perché scrivi, allora?». A.: «Si, caro mio, detto in confidenza: finora non ho trovato al­tro mezzo per liberarmi dei miei pensieri». B.: «E perché vuoi liberarte­ne?». A.: «Perché voglio? Come se lo volessi!». Devo farlo! B.: «Basta co­sì! Basta così!».

94.

Crescita dopo la morte. Quelle poche parole audaci su argomenti morali pronunziate da Fontenelle nei suoi immortali Discorsi sulla morte furono considerate, all'epoca, paradossi e giochi di un'arguzia non irriflessiva; neppure i più eccelsi giudici del gusto e dello spirito vi vedevano niente di più, forse neppure lo stesso Fontenelle. Orbene, si verifica qualcosa di in­credibile: questi pensieri divengono verità! Sono dimostrati dalla scienza! Il gioco si fa serio! E noi leggiamo quei dialoghi con un'altra sensibilità ri­spetto a quella con cui li leggevano Voltaire e Helvetius e non reputiamo arbitrario innalzare il loro creatore a un livello ben più alto di quanto non fecero costoro, — a ragione? a torto?

95.

Chamfort. Il fatto che un conoscitore degli uomini e della massa quale fu Chamfort sia corso in aiuto della massa e non sia rimasto da una parte, con un atteggiamento filosofico di rinunzia e di difesa, io so spiegarmelo soltanto così: in lui c'era un istinto, più forte della sua saggezza, che non aveva mai trovato soddisfazione, ovvero l'odio contro tutta la noblesse del

LIBRO SECONDO 105

sangue; era forse il vecchio odio di sua madre, anche troppo comprensibi­le, che in lui era stato santificato proprio dal suo stesso amore per la madre — un istinto di vendetta che risaliva agli anni della sua infanzia e che atten­deva l'ora di vendicare la madre. Orbene, la vita e il suo genio e, ahimè, anche il sangue paterno che scorreva nelle sue vene Pavevano indotto a in­serirsi proprio tra questa noblesse, e ad equipararsi ad essa, — per molti lunghi anni! Giunse però infine a non tollerare più la sua propria vista, la vista dei «vecchi uomini» del vecchio regime; cadde preda di un fervido de­siderio di espiazione e, in questo contesto, indossò abiti plebei, il suo per­sonale cilicio di peli! Aveva la coscienza sporca per aver ritardato tanto la vendetta. Posto che Chamfort fosse rimasto, allora, un tantinello più filo­sofo, la rivoluzione non avrebbe assunto quei connotati di tragica e spino­sissima arguzia: sarebbe stata considerata un evento molto più stupido e non avrebbe esercitato sugli spiriti una tale seduzione. Ma l'odio e la ven­detta di Chamfort educarono tutta una generazione: e alla sua scuola si formarono le persone più illustri. Basti citare che Mirabeau guardava a Chamfort come a un se stesso più elevato e anziano, da cui attendeva e tol­lerava incitazioni, ammonimenti e giudizi: quel Mirabeau la cui persona appartiene a tutt'altra categoria di grandi, quella dei primi fra i grandi sta­tisti di ieri e di oggi. È strano che nonostante un tale amico e intercessore — possediamo le lettere di Mirabeau a Chamfort — il più arguto di tutti i moralisti sia rimasto estraneo ai Francesi, non diversamente da quanto è accaduto a Stendhal, che forse possedeva gli occhi e le orecchie più pensie­rose di tutti i Francesi di questo secolo. Forse che quest'ultimo in fondo era troppo tedesco e inglese per risultare ancora sopportabile ai parigini? — Mentre Chamfort, la cui anima era ricca di ombre e di abissi, dalla per­sonalità cupa, sofferente, ardente; un pensatore che considerava il riso un medicamento necessario contro la vita e si riteneva spacciato ogni singolo giorno in cui non aveva riso, ci sembra molto più italiano, consanguineo di Dante e di Leopardi, che francese! Sono note le ultime parole di Cham­fort: «Ah! mon ami», disse a Sieyès, «jem'en vais enfin de ce monde, où il faut que le coeur se brise ou se bronze...». Queste non sono certo le parole di un francese che muore.

96.

Due oratori. Di questi due oratori, l'uno espone le sue tesi in modo com­pletamente razionale soltanto quando si abbandona alla passione: soltanto questa gli pompa nel cervello sangue e calore sufficienti a costringere la sua alta spiritualità a manifestarsi. Certo, anche l'altro cerca ogni tanto lo stes­so risultato: sottolinea le sue tesi facendo ricorso alla passione, le espone con irruenza, in modo trascinante — ma di solito con scarso successo. I suoi discorsi si fanno infatti subito cupi e confusi: esagera, compie omis­sioni e suscita sfiducia nei confronti della razionalità delle sue tesi; è lui stesso a nutrire questa sfiducia, il che giustifica il suo improvviso passare a toni più freddi e ripugnanti, tali da suscitare nell'ascoltatore dubbi sull'au­tenticità di tutta quella passione. Il suo spirito è sempre inondato dalla sua passione, perché è più forte che nel primo. Ma egli raggiunge il massimo delle sue possibilità quando oppone resistenza all'imperversare delle sue percezioni e, per così dire, le mette in burletta: allora esce dal suo nascondi­glio il suo spirito, uno spirito logico, beffardo, giocoso e tuttavia terribile.

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97. Della loquacità degli scrittori. Esiste una loquacità dell'ira, — frequente

in Lutero e anche in Schopenhauer. Una loquacità che nasce da un'eccessi­va provvista di formule concettuali, come in Kant. Una loquacità che na­sce dal piacere di mettere la medesima cosa in forme sempre diverse: la si trova in Montaigne. Una loquacità tipica delle nature maliziose: a chi legge le opere del nostro tempo verranno subito in mente due autori. Una loqua­cità che nasce dal piacere delle parole e forme linguistiche belle, non rara nella prosa di Goethe. Una loquacità che nasce da un intimo compiacimen­to per il chiasso e il guazzabuglio delle percezioni: ad esempio in Carlyle.

98.

Sulla fama di Shakespeare. La cosa più bella che io riesca a dire a propo­sito della fama dell'uomo Shakespeare è questa: egli ha creduto in Bruto, né ha gettato un granellino di sfiducia su questo genere di virtù! A lui ha dedicato la sua migliore tragedia — continuano a chiamarla con un nome sbagliato —, a lui e alla più terribile quintessenza di un'elevata moralità. Indipendenza dell'anima, ecco di che cosa si tratta! Nessun sacrificio può essere troppo grande; si deve saper sacrificare anche il proprio miglior ami­co, foss'anche l'uomo più magnifico, il vanto del mondo, un genio senza pari: questo se si ama la libertà in quanto libertà delle anime grandi e co­stui minaccia tale libertà — qualcosa del genere deve aver provato Shake­speare! La vetta sulla quale pone Cesare è il maggiore onore che potesse tributare a Bruto: soltanto così conferisce al suo problema interiore pro­porzioni immani e anche la forza d'animo con cui poter fare a pezzi questo nodol Ed era veramente la libertà politica a spingere questo poeta a prova­re gli stessi sentimenti di Bruto, a farsi colpevole con lui? O la libertà poli­tica era soltanto il simbolo di un qualcosa di inesprimibile? Ci troviamo forse di fronte a un qualche evento, a una qualche avventura oscura verifi­catasi nell'anima dell'artista e rimasta ignota? Che cosa è mai tutta la ma­linconia di Amleto contro la malinconia di Bruto! E forse anche Shake­speare, come lui, la conosceva per esperienza! Ma per quante analogie e ri­ferimenti segreti possano esservi stati, di fronte al personaggio e alla virtù di Bruto Shakespeare si gettava a terra e si sentiva indegno e lontano: ne ha dato testimonianza nella sua tragedia. In questa due volte compare un poe­ta, e due volte su di lui si abbatte un disprezzo talmente impaziente e defi­nitivo che sembra un urlo: un urlo di autodisprezzo. Bruto, anche Bruto perde la pazienza quando entra in scena il poeta, presuntuoso, patetico, in­sistente, come amano esserlo i poeti, questo essere che sembra rigurgitare di possibilità di grandezza, anche morale, e che tuttavia raramente la mette in atto nella filosofia dell'azione e della vita. «Lui conoscerà i tempi, ma io conosco le sue fisime, — via da me quel pagliaccio coi sonagli!», esclama Bruto. Si riporti questo nell'animo del poeta che lo scrisse.

99.

/ seguaci di Schopenhauer. Che cosa risulta dal contatto tra popoli civi­lizzati e barbari: di solito la prima cosa che la cultura più arretrata mutua da quella più avanzata sono vizi, debolezze e dissolutezze; poi avverte uno stimolo e infine, per mezzo dei vizi e delle debolezze di cui si è appropriata,

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lascia profondere su di sé qualcosa di quell'energia carica di valori che è ti­pica della cultura più avanzata: lo si può notare anche vicino a noi, senza arrivare alle popolazioni barbariche, anche se avviene secondo modalità più raffinate e spiritualizzate e non si coglie tanto facilmente. I seguaci te­deschi di Schopenhauer, infatti, che cosa mutuano per prima cosa dal loro maestro? (In confronto alla sua cultura superiore debbono sentirsi abba­stanza barbari da esserne affascinati e sedotti alla maniera dei barbari.) È forse il suo rigoroso senso dei fatti, la sua buona volontà di giungere alla chiarezza e alla ragione che, tanto spesso, lo fa apparire così inglese e poco tedesco? Oppure la forza della sua coscienza intellettuale, che ha resistito per una vita alla contraddizione tra essere e volere e lo ha costantemente costretto a contraddirsi, anche nelle sue opere e quasi su ogni punto? O la sua purezza nelle questioni relative alla chiesa e al dio cristiano? Perché, a questo proposito, nessun filosofo tedesco era stato come lui, né altri aveva vissuto o era morto così «voltairianamente». Oppure le sue dottrine im­mortali sull'intellettualità dell'intuizione, sulla apriorità delle legge di cau­salità, sulla natura strumentale dell'intelletto e sulla illibertà della volontà? No, tutto ciò non affascina né è avvertito come affascinante: ma gli imba­razzi e le fughe mìstiche di Schopenhauer, in quei passi in cui il pensatore dei fatti si lascia sedurre e corrompere dal vano desiderio di essere colui che svela l'enigma del mondo; la dottrina indimostrabile di un'unica volontà («tutte le cause sono soltanto cause occasionali del manifestarsi della vo­lontà in un certo tempo e in un certo luogo», «la volontà di vivere è presen­te, intera e indivisa, in ogni essere, anche nel più piccolo, con la stessa completezza che si ottiene mettendo insieme tutti quelli che sono stati, so­no e saranno»), la negazione dell'individuo («tutti i leoni sono in fondo un solo leone», «la molteplicità degli individui è apparenza»; come anche Ve-voluzione è soltanto apparenza: egli definisce i pensieri di Lamarck «un er­rore geniale e assurdo»); l'entusiasmo del genio («nell'intuizione estetica l'individuo non è più individuo, ma soggetto puro della conoscenza, privo di volontà, incapace di provare dolore, atemporale»; «il soggetto dissol­vendosi nell'oggetto intuito, è divenuto questo stesso oggetto»); l'insensa­tezza della compassione, fonte dì ogni moralità, che permette di infrangere il princìpium individuationis, oltre a quelle affermazioni per cui «la morte è il vero scopo dell'esistenza», «a priori non si può negare la possibilità che un effetto magico possa essere esercitato anche da una persona già morta»: sono sempre questi vizi e dissolutezze del filosofo, con altri analoghi, ad essere assorbiti per primi e ad essere resi materia di fede, perché è più facile imitare vizi e dissolutezze, né occorre alcun esercizio preliminare. Ma par­liamo del più celebre degli schopenhaueriani viventi, di Richard Wagner. Gli è accaduto quanto è già accaduto ad alcuni artisti: egli si è ingannato nella spiegazione dei personaggi da lui creati e ha misconosciuto l'inespres­sa filosofia della sua arte più personale. Fino a metà della sua vita, Richard Wagner si è lasciato fuorviare da Hegel; e lo stesso ha fatto in seguito con Schopenhauer, quando ha cercato di estrapolare dai propri personaggi la sua dottrina, cominciando a formularseli in termini di «volontà», «genio» e «compassione». Eppure la verità è questa: niente è tanto contrario allo spirito di Schopenhauer quanto ciò che di più propriamente wagneriano esiste negli eroi di Wagner; mi riferisco all'innocenza dell'egoismo più ele­vato, alla fede che la grande passione sia il bene in sé, in una parola, a quanto c'è di Sigfrido nel volto dei suoi eroi. «Tutto ciò sa più di Spinoza che di me», direbbe forse Schopenhauer. Per quanti buoni motivi avesse Wagner di guardarsi intorno alla ricerca di altri filosofi che non fossero

108 LA GAIA SCIENZA

Schopenhauer, il fascino cui soggiace davanti a questo pensatore lo ha reso cieco non solo nei confronti di tutti gli altri filosofi, ma anche della scienza stessa; tende sempre di più a spacciare tutta la sua arte come pendant e complemento della filosofia di Schopenhauer e sempre più espressamente rinunzia a quell'ambizione più elevata che consiste nel divenire pendant e complemento della conoscenza e della scienza umana. E non ve lo induce soltanto il misterioso sfarzo di questa filosofia, che avrebbe affascinato anche un Cagliostro: anche i singoli gesti e le emozioni dei filosofi sono sempre stati strumenti di seduzione! Schopenhaueriana, ad esempio, è l'a­gitazione di Wagner per il deterioramento della lingua tedesca; e per quan­to nel caso specifico l'imitazione vada accolta positivamente, non si può negare che anche lo stile di Wagner sia affetto, e non poco, da tutte le ulce­re e i bubboni la cui vista faceva tanto infuriare Schopenhauer, e che, con riferimento ai wagneriani che scrivono in tedesco, il wagnerismo inizi a di­mostrarsi pericoloso come, sinora, lo era stato soltanto l'hegelismo. Scho-penhaueriano è l'odio di Wagner contro gli Ebrei, dei quali non sa emulare la più grande azione: infatti sono stati gli Ebrei a inventare il cristianesimo. Schopenhaueriano è il tentativo di Wagner di concepire il cristianesimo co­me un granellino di buddhismo portato in Europa dal vento e di preparare per questo continente, previo un temporaneo avvicinamento a formule e percezione cattolico-cristiane, un'epoca buddhista. Schopenhaueriana è la predicazione di Wagner in favore della misericordia verso le bestie; come si sa, Schopenhauer in questo campo fu preceduto da Voltaire il quale, come i suoi successori, spacciava per misericordia verso gli animali il suo odio per determinate cose e persone. Quanto meno l'odio di Wagner per la scienza che emerge dalla sua predicazione non è improntato a uno spirito di misericordia e di bontà — e nemmeno, come si capisce facilmente, allo spìrito tout court. In ultima analisi, comunque, la filosofia di un artista importa ben poco, purché sia posteriore alla sua arte e a questa stessa arte non arrechi danni. Non ci si impedirà mai abbastanza di prendersela con un artista perché occasionalmente si maschera, magari in modo davvero infelice e inadeguato; ma non dimentichiamo che i buoni artisti sono e deb­bono essere sempre anche un po' attori e, senza recitare, difficilmente resi­sterebbero a lungo. Rimaniamo fedeli a Wagner in quello che Wagner ha di vero e originario; in questo modo noi, suoi discepoli, rimarremo fedeli a noi stessi in quello che noi stessi abbiamo di vero e originario. Lasciamogli i suoi umori e i suoi crampi intellettuali e consideriamo invece con equità di quale strano nutrimento possa abbisognare, per poter vivere e crescere, un'arte come la sua! Non importa che, come pensatore, abbia tanto spesso torto; giustizia e pazienza non sono affar suo. Basta che la sua vita sia giu­sta e si mantenga tale di fronte a se stessa, questa vita che a ciascuno di noi grida: «Sii un uomo e segui te stesso, non me!». Anche la nostra vita deve mantenersi giusta di fronte a noi stessi. Anche noi dobbiamo crescere e fio­rire liberi e impavidi, in innocente autonomia! E così, oggi come allora, nell'osservare un simile uomo mi risuonano all'orecchie queste frasi: «Che la passione è miglior cosa dello stoicismo e dell'ipocrisia; che essere schiet­ti, sia pure nel male, è miglior cosa del perdere se stessi nella moralità della tradizione; che l'uomo libero può essere tanto buono che malvagio, ma l'uomo non libero è un obbrobrio della natura e non partecipa a nessun confronto né celeste né terreno: e infine che chiunque voglia diventare libe­ro deve diventarlo attraverso se stesso, e che a nessuno la libertà cade in grembo come un dono miracoloso» {Richard Wagner a Bayreuth, i).

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100. Imparare a ossequiare. Gli uomini debbono imparare anche a ossequia­

re, come a disprezzare. Chiunque si metta su nuove strade e abbia condot­to molti altri su nuove strade scopre, con suo stupore, come questi molti siano incapaci di esprimere la loro gratitudine e, addirittura, come sia raro che la gratitudine possa essere esternata. È come se, ogniqualvolta desideri parlare, le venga qualcosa alla gola, cosicché si limita a schiarirsi la voce e, fatto questo, tace di nuovo. Il modo in cui un pensatore inizia ad avvertire l'effetto dei suoi pensieri e la loro violenza che tutto scuote e trasforma è quasi da commedia: sembra quasi che coloro sui quali è stata esercitata se ne sentano in fondo offesi e sappiano esprimere quell'autonomia che te­mono minacciata soltanto con scortesie d'ogni genere. Ci vogliono genera­zioni intere per stabilire un modo convenzionale di ringraziare, che sia an­che solo cortese: e solo molto più tardi giunge il momento in cui anche la gratitudine è permeata da un certo spirito e genialità; vuol dire che c'è qualcuno che prova una grande gratitudine non soltanto per quel che ha fatto di buono ma soprattutto per quanto i suoi predecessori hanno gra­dualmente accumulato, il tesoro delle loro esperienze più elevate e migliori.

101.

Voltaire. Dovunque ci sia stata una corte è esistita una legge del parlare bene e, con essa, anche una legge dello scrivere, che chiunque scriveva era tenuto a osservare. La lingua cortese è però la lingua del cortigiano che non ha competenze e che, persino parlando di argomenti scientifici, si proibisce ogni comoda espressione tecnica, perché troppo specifica: di con­seguenza nei paesi in cui predomina una cultura cortese le espressioni tec­niche e tutto ciò che tradisce lo specialista sono considerate un difetto stili­stico. Oggi, che le corti non sono altro che caricature, ci si stupisce di tro­vare lo stesso Voltaire, da questo punto di vista, indicibilmente fragile e penoso (ad esempio nei suoi giudizi su stilisti come Fontenelle e Monte­squieu): noi siamo infatti tutti emancipati dal gusto cortese, mentre Voltai­re era colui che l'aveva portato a compimento!

102.

Una parola ai filologi. Il fatto che ci siano libri così preziosi e regali che l'opera di intere generazioni di dotti non è sprecata se dedita a preservarne l'integrità e a trasmetterli in modo che siano comprensibili — la filologìa esiste proprio per consolidare sempre più questa fede. Essa presuppone che non manchino quelle persone rare (anche se non le si vede subito) che san­no davvero utilizzare libri così preziosi: — saranno sicuramente coloro che li fanno essi stessi o li saprebbero fare, questi libri. Vorrei dire che la filologia presuppone una nobile fede: che in favore di quei pochi che sempre «verran­no» e non ci sono ancora si debba precedentemente sbrigare una gran quanti­tà di lavoro penoso e persino sporco: è tutto lavoro in usum Delphinorum.

103.

Sulla musica tedesca. La musica tedesca è, più di ogni altra musica, eu­ropea, anche perché soltanto in essa ha trovato espressione il cambiamento avvenuto in Europa ad opera della rivoluzione: soltanto i musicisti tedeschi

no LA GAIA SCIENZA

sanno esprimere i moti delle masse popolari, quell'immane chiasso artifi­cioso che non deve neppure essere troppo forte, mentre ad esempio l'opera italiana conosce soltanto cori di servi o di soldati, ma non il «popolo». Si aggiunga che da tutta la musica tedesca emerge una profonda gelosia bor­ghese per la noblesse, cioè per tutto ciò che è esprit ed élégance, in quanto espressione di una società cortese, cavalleresca, antica, sicura di sé. Non è una musica che, come quella del cantore goethiano davanti alla porta, pos­sa piacere anche «nel salone» e davanti al re; non vi si dice: «i cavalieri drizzavano ardito lo sguardo e le belle chinavano gli occhi in grembo». Nella musica tedesca persino la grazia non è risparmiata dai rimorsi di co­scienza; soltanto in presenza della leggiadria, la sorella agreste della grazia, il tedesco comincia a sentirsi morale, e da allora sempre di più, fino alla sua «sublimità» entusiasta, dotta, spesso burbera: la sublimità beethove-niana. Chi vuole immaginare l'uomo per questa musica immagini proprio Beethoven accanto a Goethe, ad esempio nel corso dell'incontro di Teplitz: la semibarbarie accanto alla cultura, il popolo accanto alla nobiltà, l'uomo mansueto accanto a quello buono e più che «buono», il sognatore accanto all'artista, il bisognoso di conforto accanto a colui che è confortato, l'esa­gerato e diffidente accanto al ragionevole, il malinconico e masochista, il folle-estasiato, il candido-smodato, arrogante e goffo e, — in tutto e per tutto, l'«uomo indomito»: così lo percepì e lo descrisse lo stesso Goethe, Goethe, quel tedesco eccezionale alla cui altezza nessuna musica è ancora giunta! Si rifletta ancora se quel disprezzo della melodia sempre ricorrente presso i Tedeschi, con la relativa atrofia del senso melodico, non sia da in­tendere come una scortesia democratica, un effetto della rivoluzione. La melodia è infatti così apertamente incline alla legalità e così contraria a tut­to ciò che è in divenire, privo di forma, arbitrario, che sembra un eco del vecchio ordine dell'Europa, uno strumento di seduzione per tornare a tale ordine.

104.

Sul suono della lingua tedesca. È noto donde derivi il tedesco che, da un paio di secoli, costituisce la lingua scritta comune a tutti i Tedeschi. Costo­ro, col loro timore reverenziale per tutto ciò che veniva da corte, hanno co­scienziosamente scelto quale loro modello le cancellerie, con tutto ciò che in esse si scriveva, e cioè lettere, documenti, testamenti eccetera. Scrivere come nelle cancellerie significava scrivere come a corte e nel governo — era un segno di distinzione, in contrapposizione al tedesco della città in cui ci si trovava a vivere. Gradualmente se ne trassero le debite conclusioni e si pre­se anche a parlare come si scriveva — e così si divenne ancora più distinti, nelle forme lessicali, nella scelta delle parole e degli idiomi e, infine, anche nel suono: si affettava una pronunzia cortese, nel parlare, e quest'affetta­zione divenne poi naturale. Forse da nessuna altra parte si è verificato al­cunché di simile: la prevalenza dello stile scritto su quello parlato e le smancerie e la mania di distinzione di tutto un popolo come fondamento di una lingua comune che non fosse più in insieme di dialetti. Io credo che il suono della lingua tedesca, nel Medioevo e dopo il Medioevo, fosse pro­fondamente contadino e volgare: negli ultimi secoli si è alquanto modifica­to, soprattutto perché ci si è trovati costretti a imitare tanti suoni francesi, italiani e spagnoli, soprattutto da parte di quella nobiltà tedesca (e austria­ca) che non poteva assolutamente accontentarsi della sua lingua madre. Ma per Montaigne o addirittura Racine, nonostante questo esercizio, il te-

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desco doveva mantenere un suono insopportabilmente volgare: e tuttora esso suona, in bocca ai viaggiatori, tra cui certa plebaglia italiana, sempre assai rozzo, boschivo, roco, quasi venisse fuori da stanze fumose e lande inospitali. — Orbene, io mi accorgo che di nuovo, tra coloro che un tempo tanto ammiravano le cancellerie, si sta diffondendo un'analoga tendenza alla purezza del suono, e che i Tedeschi cominciano a soggiacere a un sin­golarissimo «fascino del suono» il quale, alla lunga, potrebbe costituire un vero pericolo per la lingua tedesca, — perché invano si cercherebbero in Europa suoni più ripugnanti. Un qualcosa di beffardo, freddo, indifferen­te, trascurato nella voce: questo sembra «distinto» ai tedeschi di oggi; — e io odo la buona volontà di adeguarsi a questa distinzione nelle voci di gio­vani impiegati, insegnanti, donne, commercianti; persino le bambine imi­tano già questo tedesco da ufficiali. Perché è l'ufficiale, quello prussiano, l'inventore di questi suoni: quello stesso ufficiale che in quanto militare e uomo dei mestiere possiede quell'ammirevole modestia da cui tutti i tede­schi avrebbero da imparare (ivi compresi professori e musicisti!). Ma non appena parla e si muove, diviene la figura più immodesta e disgustosa di tutta Europa, — indubbiamente senza esserne cosciente! E anche senza che i Tedeschi ne siano coscienti: essi ammirano in lui l'uomo della società più distinta e sono ben contenti che sia lui a «dare loro il la». Ed egli lo fa! — I primi a imitare e ingigantire la sua pronunzia sono i marescialli e i sottuffi­ciali. Si presti attenzioni ai comandi, veri e propri muggiti che pongono sotto assedio le città tedesche, adesso che si svolgono esercitazioni per ogni dove: quale arroganza, quale furibondo senso di autorità, quale freddezza beffarda risuona da questo brulicare di grida! Sarà vero che i Tedeschi so­no un popolo musicale? — È certo che i Tedeschi stiano militarizzando il suono della loro lingua: probabilmente, una volta che si siano abituati a parlare militarmente, finiranno con lo scrivere in modo altrettanto milita­re. Perché l'abitudine a determinati suoni penetra profondamente nel ca­rattere: si fa presto ad appropriarsi delle parole, degli idiomi e infine anche dei pensieri che più si adattano a questo suono! Forse si sta già scrivendo in modo militare; forse io leggo troppo poco di quanto oggigiorno si scrive in Germania. Ma una cosa so per certo: le manifestazioni tedesche ufficia­li, le cui eco giungono anche all'estero, non sono ispirate dalla musica te­desca, ma proprio da questi nuovi suoni di disgustosa arroganza. Quasi in ogni discorso del primo statista tedesco, persino quando proviene dal suo imperiale portavoce, c'è un accento che ripugna all'orecchio dello stranie­ro: ma i Tedeschi lo sopportano, — perché così sopportano se stessi.

105.

/ Tedeschi come artisti. Se il tedesco si imbatte davvero nella passione (e non, come gli accade di solito, nella buona volontà di provare passione!), egli si comporta di conseguenza, e non pensa più al suo comportamento. La verità è però che si comporta in modo maldestro e odioso, come senza ritmo e melodia, tanto che chi lo osserva può provare pena o commozione, e niente più: a meno che non si sia sollevato a quella sublimità e a quel ra­pimento di cui talune passioni sono capaci. Allora persino il tedesco divie­ne belloì II sentore della vetta dalla quale soltanto la bellezza effonde il suo fascino anche sui Tedeschi spinge gli artisti tedeschi sempre più in alto, ver­so le dissolutezze della passione, e provoca in loro un desiderio veramente profondo di superare quel loro essere odiosi e maldestri e, quanto meno, di guardare al di là: in un mondo migliore, più lieve, più meridionale, più so-

112 LA GAIA SCIENZA

leggiato. E cosi i loro crampi sono spesso soltanto un sintomo del fatto che essi desiderano danzare: poveri orsi, in cui vivono nascoste ninfe e divinità silvestri — e talvolta anche più eccelse!

106.

La musica come mediatrice. «Ho sete di un maestro di musica», disse un innovatore ai suoi discepoli, «che desuma i miei pensieri e li esprima poi nella sua lingua: così penetrerò meglio nelle orecchie e nei cuori degli uo­mini. Con la seduzione della musica si possono convincere gli uomini di ogni errore e di ogni verità: chi saprebbe mai confutare un suono?» «Allo­ra tu vorresti essere ritenuto inconfutabile?», gli disse il suo discepolo. L'innovatore ribatté: «Io vorrei che il seme diventasse albero. Perché una dottrina possa diventare un albero, deve essere creduta per un po' di tem­po; per essere creduta, deve essere ritenuta inconfutabile. L'albero ha biso­gno di bufere, dubbi, vermi, cattiveria, perché si rivelino l'energia e le qua­lità del suo seme: può rompersi, se non è abbastanza forte! Ma un seme può essere soltanto distrutto, — non confutato!». Quando ebbe terminato il suo discorso, il suo discepolo esclamò impetuosamente: «Ma io credo al­le tue parole e le ritengo così forti che dirò tutto, tutto quello che ancora il mio cuore nutre contro di loro». L'innovatore rise tra sé e sé e lo minacciò col dito: «I discepoli come te sono i migliori», disse, «ma sono anche peri­colosi, e non tutte le dottrine li sopportano».

107.

La nostra ultima gratitudine nei confronti dell'arte. Se non avessimo de­finito buone le arti e non avessimo inventato questo genere di culto della non-verità non potremmo oggi sopportare l'idea della falsità e della men­zogna generale oggi impostaci dalla scienza: — l'idea della follia e dell'er­rore come condizione dell'esistenza cognitiva e percettiva. Conseguenza della rettitudine sarebbero la nausea e il suicidio. Orbene, la nostra rettitu­dine ha però un contropotere, che ci aiuta a evitare conseguenze di questo genere: l'arte, cioè la buona volontà dell'apparenza. Non sempre impedia­mo ai nostri occhi di arrotondare l'esistente e di poetare fino in fondo; e poi non è più l'eterna imperfezione che solleviamo sul flusso del divenire: pensiamo infatti di portare una dea e, nello svolgere il nostro servizio, sia­mo orgogliosi e infantili. L'esistenza ci è ancora sopportabile come feno­meno estetico, e l'arte ci fornisce l'occhio e la mano per poter fare di noi stessi un simile fenomeno, con l'importantissimo risultato di far tacere la nostra coscienza. Talvolta dobbiamo riposarci da noi stessi, guardando in profondità dentro di noi, da una distanza artistica; dobbiamo saper ridere e piangere di noi; dobbiamo scoprire Veroe e anche il buffone che si na­sconde nella nostra passione di conoscenza; dobbiamo ogni tanto essere contenti della nostra pazzia, se vogliamo poter essere ancora contenti della nostra saggezza! E proprio perché in ultima analisi siamo persone gravi e serie, più pesi che persone, in realtà niente ci è più propizio di un berretto dapicaro: ne abbiamo bisogno davanti a noi stessi, — abbiamo bisogno di quell'arte spavalda, fluttuante, ballerina, beffarda, infantile e beata che permette di non perdere quella libertà sulle cose che il nostro ideale preten­de da noi. Sarebbe per noi una ricaduta l'imbatterci, con tutta la nostra su­scettibile rettitudine, proprio nella morale, e diventare così noi stessi, prò-

LIBRO SECONDO 113

prio a causa del rigore che ci imponiamo, mostri e spaventapasseri virtuo­si. Dobbiamo poter stare anche al di sopra della morale: e non soltanto sta­re, con la pavidità rigidità di colui che in ogni momento tema di scivolare e di cadere, ma anche librarci e giocare sopra di essa! E finché vi vergognate ancora un pochettino di voi stessi, non fate ancora parte di noi!

Libro terzo

108.

Nuove battaglie. Dopo la morte di Buddha, per molti secoli si continuò a indicare in una caverna la sua ombra, un'ombra immane e raccapriccian­te. Dio è morto: ma visto com'è fatto il genere umano, dureranno forse an­cora per millenni le caverne in cui si indica la sua ombra. E noi — noi dob­biamo sconfiggere anche la sua ombra!

109.

Guardiamocene benel Guardiamoci bene dal pensare che il mondo sia un essere vivente. Dove dovrebbe estendersi? Di che cosa dovrebbe nutrir­si? Come potrebbe crescere e moltiplicarsi? Eppure sappiamo, approssi­mativamente, che cos'è l'organico: e noi dovremmo interpretare diversa­mente tutto ciò che di indicibilmente derivato, tardo, raro, casuale perce­piamo sulla superficie terrestre, come fanno coloro che definiscono l'uni­verso un organismo? La cosa mi dà nausea. Dobbiamo guardarci già dal credere che l'universo sia una macchina; esso non è certo predisposta per un unico fine e, definendolo macchina, gli facciamo troppo onore. Guar­diamoci anche dal presupporre sempre e dappertutto una caratteristica così formale come i movimenti ciclici delle stelle a noi vicine: già un'occhiata alla via lattea fa sorgere il dubbio che, lassù, si verifichino movimenti mol­to più rozzi e contraddittori, che vi siano astri le cui traiettorie di caduta sono perpetuamente rettilinee, o qualcosa di simile. L'ordinamento astrale in cui noi viviamo è un'eccezione; questo ordinamento e la durata appros­simativa che esso determina ha a sua volta permesso l'eccezione delle ecce­zioni: la costituzione dell'organico. La caratteristica globale del mondo è invece, per l'eternità, il caos, non nel senso che manchi la necessità, ma nel senso che mancano ordine, struttura, forma, bellezza, saggezza, ovvero le nostre umanità estetiche. A giudicare dalla nostra ragione, i tiri mancati sono di gran lunga la regola, le eccezioni non sono lo scopo segreto e tutto il meccanismo ripete in eterno il suo motivo, che non può essere definito melodia e infine la stessa definizione di «tiri mancati» è già un'umanizza­zione biasimevole. Ma come possiamo biasimare o lodare l'universo! Guardiamoci dall'attribuirgli mancanza di cuore o irragionevolezza o i lo­ro contrari: non è né perfetto né bello né nobile; non vuole diventare niente di tutto ciò; non mira assolutamente a imitare l'umano! Nessuno dei nostri giudizi estetici o morali può coglierlo! Non possiede neppure l'istinto di conservazione, né altri istinti; non conosce legge alcuna. Guardiamoci be­ne dal dire che in natura esistono leggi. Ci sono solo necessità: non c'è nes­suno che dà ordini, nessuno che obbedisce, nessuno che oltrepassa un limi­te. Sapendo che non ci sono fini, sapete anche che non c'è un caso: solo in un mondo di fini, infatti, la parola «caso» ha un senso. Guardiamoci bene

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dal dire che la morte sarebbe contrapposta alla vita. Il vivente è soltanto una modalità del morto, e una modalità assai rara. Guardiamoci bene dal pensare che il mondo crei costantemente qualcosa di nuovo. Non esistono sostanze eternamente durature; la materia è un errore pari al dio degli Eleati. Ma quando mai la smetteremo con la nostra cautela e la nostra cir­cospezione? Quando non saremo più oscurati da tutte queste ombre di Dio? Quando avremo completamente dedivinizzato la natura? Quando po­tremo cominciare a naturalizzare noi uomini, con la natura pura, ri-trova­ta, ri-redenta?

110. Orìgine della conoscenza. Per immensi periodi di tempo, l'intelletto non

ha prodotto niente altro che errori; alcuni si sono rivelati utili e funzionali al mantenimento della specie; chi vi si imbatte o li eredita combatte con maggiore fortuna la sua battaglia per sé e per la sua prole. Tra i dogmi er­ronei che abbiamo continuato a ereditare e che sono quasi divenuti patri­monio basilare del genere umano ricordiamo ad esempio questi: che esista­no cose durature, che esistano cose uguali, che esistano cose, materiali, corpi, che una cosa sìa ciò che appare, che la nostra volontà sia libera, che quanto è buono per me sia buono anche di per sé. Solo molto tardi sono apparsi i primi che hanno negato e messo in dubbio questi dogmi, — solo molto tardi è apparsa la verità, come la forma meno vigorosa della cono­scenza. Sembrava che nessuno riuscisse a vivere con lei, il nostro organi­smo era orientato sul suo contrario: tutte le sue funzioni più elevate, le per­cezioni sensoriali e comunque le sensazioni tutte, continuavano a lavorare con quegli errori fondamentali incorporati in epoca primordiale. Di più: quei dogmi divennero, all'interno della stessa conoscenza, le norme in base alle quali si decideva che cosa fosse «vero» e cosa «falso», fino alle più re­mote lande della logica pura. Quindi: la forza della conoscenza non sta nel suo grado di verità, ma nella sua antichità, nella misura in cui è incorpora­ta, nel suo carattere di condizione vitale. Dove vita e conoscenza sembrano cadere in contraddizione, non si è mai combattuto seriamente: là menzo­gna e dubbio erano considerati assurdi. Quei pensatori d'eccezione, come gli Eleati, che nondimeno enunciarono e segnalarono gli opposti degli erro­ri naturali, credevano che fosse anche possibile viverlo, quest'opposto: in­ventarono il saggio, l'uomo dell'immutabilità, dell'impersonalità, della universalità della contemplazione, uno e tutto al tempo stesso, con una sua capacità di accedere a quella conoscenza rovesciata; essi credevano che la loro conoscenza fosse al contempo anche il principio della vita. Per poter affermare questo tutto, nondimeno, dovevano ingannarsi sulle loro condi­zioni; dovevano attribuirsi impersonalità e durata immutabile, miscono­scere l'essenza di colui che conosce, negare la violenza esercitata dagli istinti nella conoscenza stessa e, soprattutto, concepire la ragione come at­tività completamente libera e insorta autonomamente; chiudevano gli oc­chi anche davanti al fatto che erano giunti alle loro formulazioni contrad­dicendo quanto è valido oppure nel loro anelito alla quiete, alla proprietà esclusiva o al predominio. Una più raffinata evoluzione della rettitudine e della scepsi rese infihe impossibile anche questo genere di persone; anche la loro vita e i loro giudizi si rivelarono influenzati dagli istinti e dagli errori basilari di tutta l'esistenza percipiente. Quella rettitudine e quella scepsi più raffinate erano nate laddove paressero applicabili, alla vita, due princì­pi contrapposti, perché entrambi erano compatibili con gli errori basilari:

116 LA GAIA SCIENZA

laddove, quindi, si potesse disputare sul grado più o meno elevato della lo­ro utilità per la vita; parimenti laddove nuovi princìpi, pur non rivelandosi utili alla vita, almeno non sembravano nuocerle, in quanto espressione di un istinto intellettuale verso il gioco e, come tutti i giochi, innocente e feli­ce. Gradualmente il cervello umano si empì di questi giudizi e convinzioni e così nacquero, in questo groviglio, fermento, lotta e. brama di potere. Non soltanto utilità e piacere, ma anche istinti di ogni genere prendevano parte alla battaglia per le «verità»; la lotta intellettuale divenne occupazione, ec­citazione, vocazione, dovere, dignità; la conoscenza e l'anelito al vero tro­varono finalmente una loro collocazione come bisogno tra gli altri bisogni. Da allora fede e convinzione non furono più le uniche potenze, essendo su­bentrati anche esame, negazione, sfiducia, contraddizione; tutti gli istinti «cattivi» furono subordinati alla conoscenza e circondati dall'alone di quanto è permesso, venerato, utile: in ultima analisi, dall'occhio e dall'in­nocenza della bontà. La conoscenza divenne quindi essa stessa parte della vita, e la vita una potenza sempre in crescita: finché le conoscenze e quei primordiali errori di base non si trovarono in contrasto, insieme come vita, insieme come potenza, insieme anche nella stessa persona. Il pensatore: è in lui che l'istinto alla verità e quegli errori atti a preservare la vita hanno combattuto la loro prima battaglia, dopo di che anche l'istinto alla verità si era rivelato capace di preservare la vita. Rispetto all'importanza di questa battaglia tutto il resto è indifferente: si pone qui la domanda sulle condi­zioni vitali e si compie il primo tentativo di rispondere sperimentalmente a questa domanda. In che misura la verità sopporta di essere incorporata? È questa la domanda, è questo l'esperimento.

111.

Origine del logico. Donde è nata la logica, nella testa umana? Certamen­te dall'illogicità, il cui regno in origine doveva essere immenso. Ma innu­merevoli esseri giunti a conclusioni diverse da quelle cui giungiamo oggi noi sono andati in malora: ciò potrebbe esser stato ancora più vero! Chi ad esempio non riusciva a scoprire abbastanza spesso quanto era uguale, con riferimento al cibo o agli animali che gli erano ostili, chi cioè sussumeva troppo lentamente ed era troppo cauto nel processo di sussunzione, aveva soltanto meno probabilità di sopravvivere rispetto a chi tra le cose simili indovinava immediatamente quelle identiche. Tuttavia soltanto la tenden­za prevalente a trattare tutto ciò che è simile come uguale, una tendenza il­logica — perché di per sé niente è uguale, — ha gettato tutte le fondamenta della logica. Parimenti, affinché nascesse quel concetto di sostanza che è indispensabile alla logica, per quanto nel senso più rigoroso del termine, non si dovette né vedere né percepire la mutevolezza delle cose; gli esseri che non vedevano bene ebbero così un vantaggio rispetto a coloro che ve­devano tutto «in divenire». Di per sé già quell'alto grado di cautela nel giungere a conclusioni e ogni tendenza scettica costituiscono un grande pe­ricolo per la vita. Non sarebbero sopravvissuti esseri viventi se non fosse stata coltivata, in modo straordinariamente forte, la tendenza contraria, ad affermare piuttosto che a sospendere il giudizio, a errare e fantasticare piuttosto che ad attendere, ad acconsentire piuttosto che a negare, a giudi­care piuttosto che a essere giusto; e noi, di solito, sperimentiamo soltanto il risultato della battaglia, tanto rapidamente e di nascosto si svolge dentro di noi questo antichissimo meccanismo.

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112. Causa ed effetto. «Spiegazione», diciamo noi; ma in realtà è la «descri­

zione» a distinguerci dai precedenti livelli di conoscenza e di scienza. Noi descrìviamo meglio ma spieghiamo tanto poco quanto tutti i nostri prede­cessori. Abbiamo scoperto un molteplice succedersi laddove l'uomo e il ri­cercatore ingenuo delle culture più antiche vedevano soltanto due cose, la «causa» e l'«effetto», come si soleva dire; abbiamo perfezionato il quadro del divenire, ma non siamo giunti dietro il quadro, al di là del quadro. La serie delle cause ci è comunque davanti in modo molto più completo, pos­siamo concludere che deve prima verificarsi questo e quest'altro perché ne consegua quello, — ma con questo non abbiamo capito niente. La qualità, ad esempio in ogni trasformazione chimica, continua a sembrarci un mira­colo, e così ogni avanzamento: nessuno ha «spiegato» l'urto. E come po­tremmo spiegarlo! Non operiamo infatti con cose che non esistono, linee, superfici, corpi, atomi, tempi divisibili, spazi divisibili — come potrebbe essere possibile una spiegazione se per prima cosa trasformiamo tutto in immagine, a nostra immagine! È sufficiente considerare la scienza la più fedele umanizzazione possibile delie cose: descrivendo le cose e il loro suc­cedersi impariamo a descrivere noi stessi con sempre maggiore precisione. Causa ed effetto: probabilmente un tale dualismo non sussiste; — invero davanti a noi c'è un continuum, di cui noi isoliamo due elementi, allo stes­so modo in cui di un movimento percepiamo soltanto punti isolati e quin­di, in realtà, non vediamo, ma traiamo conclusioni. Siamo tratti in confu­sione dalla subitaneità con cui si delineano molti effetti; ma essi sono subi­tanei soltanto per noi. In questo secondo della subitaneità si verificano una quantità infinita di procedimenti che a noi sfuggono. Un intelletto che ve­desse causa ed effetto come continuum, senza dividerlo e smembrarlo con i modi arbitrari che ci sono tipici, che vedesse il fluire di quanto accade — questo intelletto rifiuterebbe il concetto di causa ed effetto e negherebbe ogni condizionamento.

113.

Sulla teoria dei veleni. Ci vogliono così tante cose perché nasca un pen­siero scientifico: e tutte queste energie necessarie debbono essere inventate, esercitate e curate una per una! Singolarmente, hanno avuto spessissimo un effetto completamente diverso da quello di oggi, che si limitano e disci­plinano reciprocamente all'interno del pensiero scientifico: hanno agito come veleni, ad esempio l'istinto del dubbio, l'istinto della negazione, l'i­stinto dell'attesa, l'istinto di raccolta, l'istinto di dissoluzione. Molte e-catombi di uomini sono state offerte in sacrificio prima che questi istinti imparassero a comprendere la loro contiguità e a sentirsi, insieme, funzioni di una violenza organizzatrice all'interno di uno stesso uomo! E quanto siamo ancora lontani dallo scoprire che, oltre al pensiero scientifico e al­la saggezza pratica della vita, si costituisce anche un più alto sistema or­ganico, in riferimento al quale l'erudito, il medico, l'artista e il legislato­re, come li conosciamo adesso, apparirebbero miserevoli avanzi da robi­vecchi!

118 LA GAIA SCIENZA

114. Ambito del morale. Costruiamo un nuovo quadro che vediamo subito,

con l'aiuto di tutte le esperienze che abbiamo fatto, a seconda del nostro grado di rettitudine e di giustizia. Le esperienze sono tutte morali, persino nell'ambito della percezione sensoriale.

115.

/quattro errori. L'uomo è stato allevato dai suoi errori; in primo luogo si è visto sempre e soltanto imperfetto; in secondo luogo si è attribuito qua­lità immaginarie; in terzo luogo gli è parso di avere un falso rapporto ge­rarchico con animali e natura; in quarto luogo ha inventato tavole di valori sempre nuove, considerandole per un certo tempo eterne e incondizionate, ogniqualvolta un dato istinto o condizione umana giungevano al primo po­sto ed erano nobilitati in conseguenza di questa valutazione. Se non si cal­colano questi quattro errori, non si calcolano neppure l'umanità e la «di­gnità umana».

116.

L'istinto del gregge. Laddove incontriamo una morale troviamo sempre una valutazione e un ordinamento gerarchico degli istinti e delle azioni umane. Queste valutazioni e ordinamenti gerarchici sono sempre espressio­ne dei bisogni di una comunità e di un gregge: ciò che giova in primo luogo — ma anche in secondo e in terzo — alla comunità, diventa anche la supre­ma scala di valori di ogni singolo. Con la morale il singolo è addestrato ad essere funzione del gregge e ad attribuirsi valore soltanto in quanto funzio­ne. Poiché le condizioni della conservazione di una comunità sono assai di­verse da quelle di un'altra comunità, ci sono state morali assai diverse e, in riferimento alle sostanziali trasformazioni che ancora ci aspettano di greg­gi e comunità, Stati e società, si può profetizzare che ci saranno ancora morali molto differenti. La moralità è l'istinto del gregge nel singolo.

117.

// rimorso di coscienza nel gregge. Nelle epoche più lunghe e remote del­l'umanità il rimorso di coscienza era ben diverso da quello odierno. Oggi ci si sente responsabili soltanto per quello che si vuole e si fa, e si trova il pro­prio orgoglio in se stessi: tutti i nostri maestri di diritto prendono le mosse da questo senso di sé e da questa sensazione di piacere del singolo, come se fossero questi, da sempre, ia sorgente da cui è sgorgato ogni diritto. Ma per tutta l'epoca più lunga dell'umanità non c'è stato niente di più temibile che sentirsi singolo. Essere soli, avere una sensibilità individuale, né ubbi­dire né dominare, significare un individuo, — questo allora non era un pia­cere, ma una punizione, essere «individuo» era una condanna. La libertà di pensiero era il disagio per antonomasia. Mentre noi avvertiamo legge e inserimento come danno e coercizione, allora era l'egoismo una cosa dolo­rosa, una vera pena. Essere se stessi, valutarsi secondo criteri e pesi propri: questo era allora contrario al giusto. Un'inclinazione in tal senso era consi­derata follia, perché all'essere soli erano associati ogni miseria e terrore. Allora la «libera volontà» aveva la sua cattiva coscienza in quanto gli era

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più prossimo: e quanto meno liberamente si agiva, tanto più dall'azione parlava l'istinto del gregge e non la sensibilità personale, tanto più ci si ri­teneva morali. Tutto ciò che nuoceva al gregge, che il singolo lo avesse vo­luto o meno, faceva provare al singolo rimorsi di coscienza — e anche al suo vicino, anzi a tutto il gregge! Soprattutto a questo proposito abbiamo modificato completamente le nostre convinzioni.

118. Benevolenza. È virtuoso che una cellula si trasformi in funzione di una

cellula più forte? Deve farlo. Ed è malvagio che la più forte assimili l'al­tra? Ancora una volta, deve farlo; per lei è necessario, perché anela a una compensazione sovrabbondante e vuole rigenerarsi. A questo proposito occorre distinguere, nella benevolenza, tra l'istinto di appropriamene e quello di sottomissione, a seconda che a provare benevolenza sia il più for­te o il più debole. Gioia e bramosia vanno assieme nel più forte che intende trasformare qualcosa in funzione propria; gioia e volontà di essere brama­to nel più debole, che vorrebbe divenire funzione. La compassione è so­stanzialmente il primissimo, gradevole stimolo dell'istinto di appropriazio­ne, che insorge alla vista del più debole; ma occorre riflettere sul fatto che «forte» e «debole» sono concetti relativi.

119.

Nessun altruìsmo! Vedo in molte persone un desiderio e un'energia ri­dondanti di essere funzione: essi fanno pressione in tal senso e hanno una delicatissima sensibilità per tutti quei luoghi dove potrebbero essere fun­zione. Tra costoro quelle donne che si trasformano in funzione di un uo­mo, funzione che in lui è per l'appunto debolmente sviluppata, e divengo­no così il suo portafoglio o la sua politica o la sua socievolezza. Tali esseri si conservano al meglio quando si introducono in un organismo estraneo; quando non ci riescono, divengono iracondi ed eccitabili, finendo con l'ec­citare se stessi.

120.

Salute dell'anima. La formula prediletta della medicina morale (il cui in­ventore è Aristone di Chio), per cui «la virtù è la salute dell'anima», do­vrebbe quanto meno, per poter essere utilizzabile, essere modificata come segue: «la tua virtù è la salute della tua anima». Perché non esiste una salu­te in sé, e tutti i tentativi di definire una cosa del genere sono miserabil­mente falliti. Che cosa significhi salute, anche per il tuo corpo, dipende dalla tua meta, dal tuo orizzonte, dalle tue forze, dai tuoi impulsi, dai tuoi errori e, infine, dagli ideali e dai fantasmi della tua anima. Si danno così innumerevoli saluti dell'anima e, quanto più si permette al singolo e in­comparabile di alzare la testa, tanto più si disimpara il dogma dell'«ugua­glianza degli uomini» e, quindi, vengono meno i concetti, tanto cari ai no­stri medici, di salute normale, dieta normale, decorso normale. Soltanto allora potrebbe essere venuto il momento di riflettere sulla salute e sulla malattia de\V anima e di identificare la particolare virtù di ciascuno nella sua salute, che però in uno potrebbe avere lo stesso aspetto che in un altro assume il contrario della salute. Rimarrebbe comunque sempre aperta una domanda importante, se cioè possiamo fare a meno della malattia, persino

120 LA GAIA SCIENZA

ai fini dello sviluppo della nostra virtù, e se la nostra sete di conoscenza e autocoscienza non abbiano bisogno tanto dell'anima malata come di quel­la sana: in breve, se l'univoca volontà di salute non sia un pregiudizio, una vigliaccheria e, forse, un resto di raffinatissima barbarie e arretratezza.

121.

La vita non è un argomento. Ci siamo organizzati un mondo in cui pos­siamo vivere — ammettendo corpi, linee, superfici, cause ed effetti, movi­mento e quiete, forma e contenuto: senza questi articoli di fede nessuno riuscirebbe a vivere! Ma con questo non sono certo dimostrati. La vita non è un argomento; tra le condizioni della vita potrebbe esserci l'errore.

122.

La scepsi morale nel cristianesimo. Anche il cristianesimo ha dato un grande contributo all'illuminismo, perché ha insegnato la scepsi morale in modo assai penetrante ed efficiente — accusando e amareggiando, ma con pazienza e delicatezza instancabili: ha annientato in ogni singolo uomo la fede nelle sue «virtù», ha fatto scomparire dalla faccia della terra quei grandi virtuosi che non erano rari nell'antichità, quelle persone popolari che, nella fede nella propria perfezione, se ne andavano in giro con la di­gnità di un eroe da corrida. Se noi, educati alla scuola della scepsi cristia­na, leggiamo adesso i libri morali degli antichi, ad esempio di Seneca ed Epitteto, proviamo un gradevole senso di superiorità e ci sentiamo colmi di misteriosa perspicacia e lungimiranza; ci pare quasi di sentire un bimbo che discorre di un uomo anziano o una giovane donna, bella ed entusiasta, davanti a La Rochefoucauld: noi sappiamo meglio che cos'è la virtù! Infi­ne abbiamo applicato questa stessa scepsi anche a ogni condizione e proce­dimento religioso, come peccato, pentimento, grazia, santificazione, e per­messo al verme di scavare così bene che adesso, anche leggendo ogni libro cristiano, proviamo quella stessa sensazione di raffinata superiorità e per­spicacia: conosciamo meglio anche i sentimenti religiosi! Ed è l'ora di co­noscerli e descriverli bene, perché anche i devoti dell'antica fede si estin­guono: salviamo la loro immagine e il loro tipo, quanto meno per la cono­scenza!

123.

La conoscenza è più che un mezzo. Anche senza questa nuova passione — mi riferisco alla passione della conoscenza — la scienza sarebbe progre­dita: e la scienza è infatti cresciuta e divenuta adulta anche senza di lei. La buona fede nella scienza, il pregiudizio a lei favorevole da cui i nostri Stati sono dominati (un tempo lo era persino la chiesa), si basano in fondo sul fatto che quell'inclinazione, quell'impulso così incondizionati si sono ma­nifestati in essa tanto raramente e che la scienza, per l'appunto, non è con­siderata passione, ma condizione e «ethos». Sì, spesso basta già Vamour-plaisir della conoscenza (curiosità), basta Vamour-vanite, l'abitudine ad essa, con l'intenzione nascosta di conseguire onori e pane; a molti basta persino, in presenza di una sovrabbondanza di ozio, di non saper fare altro che leggere, raccogliere, ordinare, osservare, riraccontare: il loro «impulso scientifico» è la loro noia. Papa Leone x una volta (nel breve a Beroaldo) cantò le lodi della scienza: la definì il più bell'ornamento e il massimo or-

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goglio della nostra vita, occupazione nobile nella felicità come nell'infelici­tà; «senza di lei», scrisse infine, «ogni impresa umana sarebbe senza soste­gno, — e anche con lei sono tutte già abbastanza mutevoli e insicure!». Ma questo papa passabilmente scettico tace, come tutti gli altri ecclesiastici che si siano profusi in lodi della scienza, il suo ultimo giudizio su di essa. Si può tuttavia dedurre dalle sue parole, cosa singolare per un simile amante delle arti, che egli poneva la scienza al di sopra dell'arte; è in fin dei conti questione di creanza, da parte sua, se non parla di quello che pone al di so­pra della scienza stessa, la «verità rivelata» e la «salvezza eterna dell'ani­ma» — di fronte ad esse cosa saranno mai l'ornamento, l'orgoglio, l'in­trattenimento, la sicurezza della vita! «La scienza è un qualcosa di secon-d'ordine, non è un oggetto della passione»: è questo il giudizio che rimane nell'anima di Leone, il vero giudizio cristiano sulla scienza! Nell'antichità la sua dignità e il suo riconoscimento erano sminuiti dal fatto che persino tra i suoi seguaci più zelanti era prevalente l'anelito alla virtù e che si crede­va di aver già tributato alla conoscenza la sua lode più alta quando la si ce­lebrava come il mezzo migliore per pervenire alla virtù. È una novità, nella storia, che la conoscenza voglia essere qualcosa di più che un mezzo.

124.

Nell'orizzonte dell'infinito. Abbiamo lasciato terra, e siamo saliti sulla nave! Abbiamo i ponti dietro di noi; — di più, abbiamo reciso ogni legame con la terra alle nostre spalle! E adesso, navicella, guarda avanti! Accanto a te c'è l'oceano, è vero, non sempre muggisce, e ogni tanto se ne sta là co­me seta e oro e fantasticherie di bontà. Ma verranno ore in cui ti accorgerai che è infinito e che non c'è niente di più terribile dell'infinità. Oh, quel po­vero uccello che si sentiva libero e adesso si scontra contro le pareti della sua gabbia! Guai a te se ti coglierà questa nostalgia della terraferma, come se là ci fosse stata più libertà, — ma adesso non c'è più «terra» alcuna!

125.

L'uomo folle. Non avete sentito parlare di quell'uomo folle che, nel chiarore del mattino, accendeva una lampada, andava al mercato e gridava incessantemente: «Cerco Dio! Cerco Dio!». Poiché molti di coloro che si trovavano là non credevano in Dio, suscitò una gran risata. «Si è forse per­duto?», disse uno. «Ha smarrito la strada, come un bimbo?», disse un al­tro. «O forse si è nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?» E così gridavano e ridevano insieme. Il folle balzò in mezzo a loro e li tra­fisse con lo sguardo. «Dov'è andato Dio?», gridò. «Ve lo dico io. L'abbia­mo ucciso noi, — voi e io! Noi tutti siamo i suoi assassini. Ma come abbia­mo fatto? Come siamo riusciti a bere tutto il mare, fino all'ultima goccia? Chi ci ha dato la spugna per cancellare tutto l'orizzonte? Che cosa abbia­mo fatto, quando abbiamo svincolato questa terra dal suo sole? Ma in che direzione si muove, adesso? In che direzione ci muoviamo noi? Lontano da ogni sole? Non precipitiamo sempre più? E all'indietro, di lato, in avan­ti, da ogni parte? Esistono ancora un sotto e un sopra? Non vaghiamo at­traverso un nulla infinito? Non avvertiamo l'alito dello spazio vuoto? Non fa più freddo? Non scende di continuo la notte, sempre più notte? Non oc­corre accendere la lampada anche al mattino? Non sentiamo il frastuono dei becchini che stanno seppellendo Dio? Non sentiamo ancora l'odore della putrefazione divina — anche gli dèi si putrefanno? Non è troppo

122 LA GAIA SCIENZA

grande per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo divenire dèi noi stessi, per essere degni di lei? Non c'è mai stata azione più grande — e chi nasce dopo di noi appartiene, in virtù di questa azione, a una storia più elevata di quanto non sia stata la storia fino ad oggi!» A questo punto il folle tacque e riprese a osservare i suoi ascoltatori: anch'essi tacevano, guardandolo estraniati. Infine egli gettò per terra la sua lampada, che andò in mille pezzi e si spense. «Sono venuto troppo presto», disse poi, «non è ancora l'ora. Questo evento enorme è ancora per strada, in cammino, — non è ancora giunto alle orecchie degli uomini. Lampo e tuono hanno bi­sogno di tempo, la luce degli astri ha bisogno di tempo, le azioni hanno bi­sogno di tempo, anche dopo essere state compiute, per essere viste e udite. Questa azione è ancora più lontana degli astri più lontani, — eppure sono stati loro a compierla!» Si dice anche che il folle, quello stesso giorno, sia penetrato in diverse chiese e vi abbia intonato il suo Requiem aeternam deo. A chi lo conduceva fuori e cercava di farlo parlare, rispondeva sem­pre: «Che cosa sono ormai queste chiese, se non le tombe e i monumenti funebri di Dio?».

126.

Spiegazioni mistiche. Le spiegazioni mistiche sono considerate profon­de; la verità è che non sono neppure superficiali.

127.

Effetti postumi della più antica religiosità. Le persone spensierate credo­no che ad agire sia soltanto la volontà; volere sarebbe cosa semplicissima, data, inderivabile, comprensibile di per sé. Costoro sono convinti che quando fanno qualcosa, ad esempio assestano un colpo, sono loro a colpi­re, e hanno colpito proprio perché volevano colpire. Non se ne fanno un problema: la sensazione della volontà è loro sufficiente non soltanto per presupporre causa ed effetto, ma anche per essere convinti di comprendere il rapporto intercorrente tra le due cose. Del meccanismo dell'evento e del lavoro immane e delicato che deve essere svolto per giungere a quel colpo, nonché del fatto che la volontà, di per sé, è incapace di svolgere anche la benché minima parte di tale lavoro, essi non sanno niente. La volontà è per loro una forza che agisce magicamente: la fede nella volontà come causa di effetti è la fede in forze che agiscono magicamente. Orbene, in origine l'uomo credeva, ovunque vedesse un evento, che sullo sfondo ci fossero sempre, in quanto causa dello stesso, una volontà agente e un essere perso­nale capace di volontà: il concetto di meccanicità gli era ben lontano. Poi­ché gli uomini, per un periodo immensamente lungo, hanno creduto sol­tanto alle persone (e non a materiali, forze, cose eccetera), la fede nella causa e nell'effetto è divenuta per loro basilare, e la impiegano dovunque accada qualcosa, ancora istintivamente, quale residuo di un atavismo di antichissima origine. I princìpi «nessun effetto senza causa», «ogni effetto è a sua volta causa», sembrano generalizzazioni di princìpi molto più ri­stretti: «laddove c'è un'azione, c'è stata una volontà»; «si può agire sol­tanto su esseri capaci di volontà»; «non si dà mai un mero patire un'azio­ne, privo di conseguenze, ma ogni patimento è un eccitamento della volon­tà» (verso azione, difesa, vendetta, rivalsa); ma originariamente questi e quei princìpi erano identici, né i primi erano generalizzazioni dei secondi, ma i secondi spiegazioni dei primi. Schopenhauer, con la sua supposizione

LIBRO TERZO 123

che tutto ciò che è soltanto volontà, ha innalzato sul trono una mitologia antichissima; non sembra che abbia mai tentato un'analisi della volontà, perché come tutti credeva alla semplicità e all'immediatezza di ogni volere, mentre la volizione è un meccanismo così complicato che quasi sfugge al­l'occhio che l'osserva. Per contro, io stabilisco questi princìpi: in primo luogo, affinché nasca la volontà, è necessaria una rappresentazione di pia­cere e dispiacere. Secondariamente, il fatto che uno stimolo vigoroso sia avvertito come piacevole o spiacevole, dipende dall'intelletto che lo inter­preta, che però lavora perlopiù a livello inconscio, e il medesimo stimolo può essere interpretato nel senso di un piacere o di un dispiacere. Terzo: soltanto gli esseri dotati di intelletto conoscono piacere, dispiacere e volon­tà: la stragrande maggioranza degli organismi non ne sanno niente.

128.

// valore della preghiera. La preghiera è stata inventata per coloro che da soli non riescono a pensare e ai quali l'elevazione dell'anima è ignota o passa inosservata: che cosa dovrebbero fare costoro nei luoghi santi e in tutte le situazioni importanti della vita, che richiedono calma e una qual­che dignità? Affinché quanto meno non disturbassero, la saggezza dei fon­datori di tutte le religioni, piccoli o grandi che fossero, ha imposto loro le formule della preghiera, un lungo lavoro meccanico delle labbra associato a uno sforzo della memoria e a un contegno egualmente obbligato di mani e piedi — e occhi! Che, come i tibetani, mastichino innumerevoli volte il loro om mane padme hum oppure, come nel Benares, contino sulle dita il nome di Dio Ram-Ram-Ram (e così via, con o senza grazia), oppure vene­rino Visnù coi suoi mille nomi o Allah coi suoi novantanove, che si servano di mulini di preghiere o di rosari — il fatto più importante è che, con que­sto lavoro, rimangono composti per un certo tempo e offrono una vista tollerabile; il loro tipo di preghiera è stata inventata per salvaguardare quei devoti che sono autonomamente capaci di pensieri ed elevazioni. E persino costoro hanno le loro ore di stanchezza, in cui trovano benefiche una serie di parole e suoni venerandi e una meccanica devota. Ma presupponiamo che queste persone rare — all'interno di ogni religione le persone religiose sono un'eccezione — sappiano far da sé: i poveri di spirito non sanno far da sé, e proibire loro il borbottio della preghiera significa privarli della lo­ro religione, come fa ogni giorno di più il protestantesimo. Da costoro, in­fatti, la religione vuole soltanto che mantengano la calma, con occhi, ma­ni, gambe e organi di ogni genere: così per un po' diventano più belli e — più simili agli uomini!

129.

Le condizioni di Dio. «Dio stesso non può sussistere, senza uomini sag­gi», ha detto Lutero, e a ragione; ma «Dio può sussistere ancora meno, senza uomini stolti» — questo il buon Lutero non l'ha detto!

130.

Una decisione pericolosa. La decisione cristiana di ritenere il mondo brutto e cattivo ha reso il mondo brutto e cattivo.

124 LA GAIA SCIENZA

131.

Cristianesimo e suicidio. Il cristianesimo ha fatto della tendenza al suici­dio, frequentissima all'epoca della sua nascita, una leva del suo potere: ha infatti lasciato in vita soltanto due forme di suicidio, rivestendole di altissi­ma dignità e altissime speranze, e ha proibito nel modo più spietato tutte le altre. Furono però permessi il martirio e il lento suicidio dell'asceta.

132.

Contro il cristianesimo. Adesso è il nostro gusto a decidere contro il cri­stianesimo, non più le nostre motivazioni.

133.

Tesi fondamentale. Un'ipotesi inevitabile sulla quale l'umanità torna sempre a cadere è, alla lunga, più potente di ogni fede credutissima in qual­cosa di non vero (come la fede cristiana). Alla lunga: qui si parla di cento­mila anni.

134.

/ pessimisti come vittime. Quando prende il sopravvento un profondo disagio esistenziale, vengono alla luce gli effetti dei grandi errori dietetici di cui un popolo si è macchiato a lungo. Così la diffusione del buddhismo {non la sua nascita) dipese in buona parte dal fatto che il riso costituiva praticamente l'unico nutrimento degli Indiani i quali, di conseguenza, si erano notevolmente indeboliti. Forse l'insoddisfazione che in epoca recen­te serpeggia in Europa può essere ricondotta al fatto che i nostri antenati e il Medioevo tutto, in virtù dell'influenza esercitata sull'Europa dalle ten­denze germaniche, erano dediti al bere: Medioevo, cioè l'avvelenamento dell'Europa da parte dell'alcool. II disagio esistenziale tedesco è sostanzial­mente un'infermità invernale, ivi compresi gli effetti provocati nelle abita­zioni tedesche dall'aria delle cantine e dal veleno delle stufe.

135.

Origine del peccato. Il peccato, come Io si avverte comunemente laddove predomini o abbia predominato il cristianesimo: il peccato è un sentimento ebraico e un'invenzione ebraica per cui, vedendo la moralità cristiana in quest'ottica, tutto il cristianesimo tendeva alI'«ebraizzazione» del mondo intero. In che misura vi sia riuscito, in Europa, lo si avverte nel modo più sottile dal grado di estraneità che l'antichità greca — un mondo senza sensi di colpa — continua ad avere per la nostra percezione, nonostante tutta la buona volontà di accostarlo e incorporarlo nutrita da intere generazioni e individui eccelsi. «Dio è misericordioso soltanto se ti penti»: questa propo­sizione sarebbe per un greco motivo di riso e d'indignazione; egli direbbe che si tratta di una «sensibilità da schiavi». Vi si presuppone infatti un es­sere potente, superpotente e tuttavia bramoso di vendetta: il suo potere è così grande che non può essere danneggiato, se non nell'onore. Ogni pec­cato è un venir meno al rispetto, un crimen lesa majestatis divinae, e nien-t'altro! Contrirsi, umiliarsi, rotolarsi nella polvere: è questa la prima e ulti-

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ma condizione da cui dipende la sua grazia, ovvero il ripristino del suo onore divino! Che il peccato produca altri danni, che sia seme di una scia­gura grave e crescente, che colpisca e soffochi un uomo dopo l'altro, come una malattia, tutto ciò non tocca minimamente questo orientale avido di onori assiso nel suo cielo: il peccato è un crimine contro di lui, non contro l'umanità! Colui cui ha donato la sua grazia risulta anche intangibile dalle conseguenze naturali del peccato. Dio e l'umanità sono qui pensati in mo­do così separato e contrapposto che contro quest'ultima, in fondo, non si può peccare, e ogni azione deve essere considerata soltanto in riferimento alle sue conseguenze sovrannaturali, non a quelle naturali: così vuole la sensibilità ebraica, per la quale tutto ciò che è naturale è di per sé indegno. I Greci erano invece più inclini all'idea che anche il crimine potesse avere una sua dignità, persino il furto, come nel caso di Prometeo, persino la strage di bestiame come espressione di una vendetta folle, come nel caso di Aiace: nel loro bisogno di immaginare una dignità per il crimine e di incor-porarvela essi hanno inventato la tragedia, un'arte e un piacere cui gli Ebrei, nonostante tutto il loro talento poetico e la loro inclinazione al su­blime sono sempre rimasti, nel più profondo del loro essere, completamen­te estranei.

136.

Il popolo eletto. Gli Ebrei, che si sentivano il popolo eletto tra i popoli, certo perché sono, tra i popoli, il genio morale (in virtù della capacità di di­sprezzare l'uomo più profondamente di ogni altro popolo) — gli Ebrei traggono dal loro monarca e santo divino un piacere simile a quello che la nobiltà francese traeva da Luigi xiv. Questa nobiltà si era lasciata privare di tutto il suo potere e di tutta la sua autocrazia, divenendo spregevole: per non sentirlo, per poterlo dimenticare, aveva bisogno di una magnificenza regale, di un'autorità regale e di una pienezza senza pari di potenza, cui soltanto la nobiltà avesse accesso. Innalzandosi, in virtù di questo privile­gio, al livello della corte, e poiché da quell'altezza tutto le pareva spregevo­le, riuscì a superare ogni suscettibilità di coscienza. Così, intenzionalmen­te, contribuì a innalzare fino alle nuvole la torre della potenza reale, in cui pose gli ultimi mattoni della propria potenza.

137.

Parlando per parabole. Un Gesù Cristo era possibile soltanto in un pae­saggio ebraico — voglio dire in un paesaggio sul quale incombesse perma­nentemente la nube cupa e sublime di un Geova adirato. Soltanto qui egli poteva essere avvertito come un miracolo di «amore», come un raggio di «grazia» immeritata, un raggio di sole che raro e improvviso penetrò quel­l'orribile giorno-notte universale e continuo. Soltanto qui Cristo poteva sognare il suo arcobaleno e la sua scala celeste, sulla quale Dio scendeva verso gli uomini: in ogni altro luogo, invece, il clima sereno e il sole erano considerati la regola, il quotidiano.

138.

L'errore di Cristo. Il fondatore del cristianesimo credeva che niente fa­cesse soffrire gli uomini quanto i loro peccati: fu questo il suo errore, l'er­rore di colui che si sentiva senza peccato, cui mancava un'esperienza in

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questo senso! Così la sua anima si sentiva ricolma di quella misericordia prodigiosa e fantastica per una miseria che persino nel suo popolo, il quale del peccato era l'inventore, raramente era considerata una gran miseria! Ma in seguito i cristiani sono riusciti a dare ragione al loro maestro, consa­crando il suo errore e innalzandolo al rango di verità.

139.

Colori della passione. Le nature come quella dell'apostolo Paolo hanno per le passioni uno sguardo malvagio; di esse percepiscono soltanto gli ele­menti sudici, deformanti e strazianti, — per cui il loro slancio ideale tende all'annientamento delle passioni: ne vedono la completa purezza nel divi­no. Ben diversamente da Paolo e dagli Ebrei, i Greci indirizzavano il loro slancio ideale proprio verso le passioni, che amarono, innalzarono, rico­prirono d'oro e divinizzarono; evidentemente nella passione si sentivano non solo più felici, ma anche più puri e più divini che mai. E i cristiani? Vogliono forse diventare Ebrei? Lo sono già diventati?

140.

Troppo ebreo. Se Dio avesse voluto diventare oggetto d'amore, avrebbe dovuto per prima cosa rinunziare al giudicare e alla giustizia: un giudice, persino se benevolo, non è un oggetto d'amore. Il fondatore del cristianesi­mo, — essendo ebreo, non ebbe abbastanza sensibilità per capirlo.

141.

Troppo orientale. Come? Un Dio che ama gli uomini posto che essi cre­dano in lui, e che scaglia sguardi e minacce terribili contro chi non crede in questo amore? Come? Un amore soggetto a clausole sarebbe il sentimento di un Dio onnipotente? Un amore che non è neppure padrone del senti­mento dell'onore e della brama di vendetta? Com'è orientale tutto ciò! «Che t'importa se io ti amo o no?» Questa è già una critica sufficiente di tutto il cristianesimo.

142.

Incenso. Buddha dice: «Non adulare il tuo benefattore». Si ripeta questa massima in una chiesa cristiana: purifica istantaneamente l'aria da tutto quel che c'è di cristiano.

143.

// più grande vantaggio del politeismo. II fatto che il singolo si eriga il suo ideale e ne derivi la sua legge, le sue gioie e i suoi diritti — questo è sta­to considerato, sino ad oggi, la più mostruosa di tutte le aberrazioni uma­ne, l'idolatria per antonomasia; e quei pochi che hanno osato farlo hanno sempre avuto bisogno di un'apologia davanti a se stessi, in questi termini: «Non io! Non io! Ma un Dio per mezzo mio!». Fu nell'arte prodigiosa, nella forza di creare dèi — il politeismo — che potè scaricarsi questo istin­to, in cui esso si purificò, perfezionò, nobilitò: perché originariamente era un istinto comune e miserabile, affine al puntiglio, alla disobbedienza e al­l'invidia. Essere ostili a questo istinto verso un ideale proprio: era questa

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un tempo la legge di ogni morale. C'era un'unica norma: «l'uomo», — e ogni popolo credeva di possedere quest'unica e ultima norma. Ma sopra di sé e al di fuori di sé, in un oltremondo remoto, si potevano vedere una molteplicità di norme: l'un Dio non era la negazione o la bestemmia del­l'altro Dio! Qui furono permessi, per la prima volta, individui; qui fu ono­rato per la prima volta il diritto degli individui. L'invenzione di dèi, eroi e superuomìni di ogni genere, oltre che di parauomini e subuomini, di nani, fate, centauri, satiri, demoni e diavoli, fu l'inestimabile propedeutica alla giustificazione dell'egoismo e dell'autocrazia del singolo: si concedeva an­che a se stessi, nei confronti delle leggi e dei costumi e dei vicini, la libertà che si garantiva al dio nei confronti degli altri dèi. Il monoteismo per con­tro, questa rigida conseguenza della teoria dell'univocità dell'uomo nor­mativo — cioè la fede in un dio normativo, accanto al quale esistono sol­tanto dèi falsi e menzogneri —, è stato forse il più grande pericolo che l'u­manità ha corso sino ad oggi: in esso la minacciava infatti quell'arresto prematuro che, nella misura in cui possiamo rendercene conto, le altre spe­cie animali hanno raggiunto già da tempo, in quanto tutti gli animali cre­dono nell'univocità dell'animale normativo per la loro specie e hanno defi­nitivamente tradotto in carne e sangue l'eticità del costume. Nel politeismo erano preformate la libertà e la molteplicità spirituale dell'uomo: la forza di crearsi occhi nuovi e propri e sempre di nuovi e ancora più propri, cosic­ché soltanto per l'uomo, fra tutti gli animali, non ci sono orizzonti e pro­spettive eterne.

144.

Guerre di religione. Il più grande progresso esperito dalle masse è stato, fino ad oggi, quello delle guerre di religione: esso infatti dimostra che la massa ha iniziato a trattare i concetti con timore reverenziale. Le guerre di religione nascono soltanto quando la ragione comune si è raffinata grazie al raffinarsi delle liti fra le sette, cosicché persino la plebe diventa più sofi­sticata e comincia a dare importanza alle piccolezze, ritenendo addirittura possibile che la «salvezza eterna dell'anima» dipenda da piccole differenze concettuali.

145.

Il pericolo dei vegetariani. Un'alimentazione prevalentemente a base di riso spinge all'uso di oppio e sostanze narcotiche allo stesso modo in cui un'alimentazione prevalentemente a base di patate spinge all'uso di acqua­vite: tuttavia essa spinge anche, con effetti più sottili, a modi di pensare e di sentire che agiscono come un narcotico. Torna quindi che i promotori di modi di pensare e di sentire narcotici, come i maestri indiani, lodino e vo­gliano imporre alle masse una dieta puramente vegetariana: intendono su­scitare e moltiplicare quei bisogni che essi sono in grado di soddisfare.

146.

Speranze tedesche. Non dimentichiamo che i nomi dei popoli sono di so­lito imprecazioni. I Tartari sono ad esempio, stando al loro nome, «cani»; furono i cinesi a battezzarli così. «Tedeschi» significava originariamente «pagani»: così i Goti definirono, dopo la loro conversione, la grande mas­sa delle tribù a loro affini che non avevano ricevuto il battesimo, nell'in-

128 LA GAIA SCIENZA

troduzione alla loro traduzione della Bibbia dei Settanta, in cui ai pagani si faceva riferimento con la parola che in greco significava «i popoli»: si veda Vulfila. Certo, i Tedeschi avrebbero ancora la possibilità di trasformare il loro vecchio appellativo ingiurioso in un appellativo onorifico, diventando il primo popolo non cristiano d'Europa: uno dei maggiori pregi che Scho­penhauer trovava in loro era proprio quello di essere tagliati in tal senso. Così giungerebbe a compimento l'opera di Lutero, che insegnò loro a esse­re e a parlare in modo non romano: «Io sto qui! Io non posso fare diversa­mente!».

147.

Domanda e risposta. Che cosa mutuano oggi per prima cosa i selvaggi dagli Europei? Acquavite e cristianesimo, i narcotici europei. E che cosa li manda più rapidamente in malora? I narcotici europei.

148.

Dove nascono le riforme. All'epoca della grande corruzione della chiesa, la chiesa tedesca era la meno corrotta: è per questo che la Riforma nacque in Germania, perché già gli inizi della corruzione erano avvertiti come in­sopportabili. Relativamente parlando, infatti, nessun popolo è mai stato più cristiano dei Tedeschi all'epoca di Lutero: la loro cultura cristiana era infatti pronta a sbocciare in una fioritura centuplice e magnifica; — le mancava soltanto una notte, ma questa portò la bufera che pose fine al tut­to.

149.

Fallimento delle riforme. Il fatto che i tentativi di fondare nuove religio­ni greche siano falliti diverse volte parla in favore della superiorità della cultura greca; parla in favore del fatto che già in epoca assai arcaica in Grecia debbano esservi stati una gran quantità di individui differenti le cui pene differenti non potevano essere risolte con un'unica ricetta di fede e speranza. Pitagora e Platone, forse anche Empedocle, e già molto prima i fanatici dell'orfismo, furono sul punto di fondare nuove religioni; e i primi due che abbiamo nominato avevano anche l'anima e il talento autentico del fondatore di religioni, tanto che non ci si potrà mai meravigliare abba­stanza del loro fallimento: non produssero però altro che sette. Ogni volta che fallisce la riforma di tutto un popolo e a levare il capo sono soltanto sette, si può concludere che il popolo è già assai molteplice di per sé e co­mincia a svincolarsi dal rozzo istinto del gregge e dall'eticità dei costumi: quel significativo stato di sospensione cui si è soliti attribuire gli ingiuriosi appellativi di decadenza morale e corruzione, mentre esso annunzia invece che l'uovo sta maturando e il guscio è vicino a rompersi. Il fatto che la Ri­forma di Lutero sia riuscita al Nord è segno che il Nord era rimasto arre­trato rispetto al Sud dell'Europa e conosceva ancora bisogni piuttosto uni­voci e monocolori; e non si sarebbe data cristianizzazione dell'Europa se la cultura del vecchio mondo del Sud non si fosse gradualmente barbarizzata in virtù di una massiccia infusione di barbaro sangue germanico e non fos­se andato così perduto il suo predominio culturale. Quanto più il singoio o i pensieri di un singolo agiscono in modo generale e incondizionato, tanto più uniforme e degradata deve essere la massa sulla quale si agisce; mentre

LIBRO TERZO 129

eventuali tendenze contrarie tradiscono la presenza di bisogni interiori di segno contrario che vogliono anch'essi liberarsi e affermarsi. Per contro quando nature potenti e avide di potere ottengono soltanto un effetto ri­dotto e settario, si può concludere in favore di una vera altezza della civil­tà: questo vale anche per le singole arti e terreni della conoscenza. Dove c'è un dominio, esistono masse; laddove esistono masse, c'è anche un bisogno di schiavitù. Laddove esiste la schiavitù, rimangono soltanto pochi indivi­dui, e costoro hanno contro di sé l'istinto del gregge e la coscienza.

150.

Per una critica dei santi. Si deve dunque, per avere una virtù, volerla proprio nella sua forma più brutale? — Questo volevano e di questo aveva­no bisogno i santi cristiani, in quanto riuscivano a tollerare la vita soltanto pensando che, alla vista della loro virtù, ciascuno fosse colto dal disprezzo di se stesso. Una virtù che abbia tale effetto, però, io la definisco brutale.

151, Sull'origine della religione. Il bisogno metafisico non costituisce l'origi­

ne delle religioni, come vuole Schopenhauer, ma una conseguenza delle stesse. Sotto il predominio del pensiero religioso, ci si è abituati all'idea di un «altro mondo (posteriore, inferiore, superiore)» e si avverte, all'annien­tamento della illusione religiosa, una sgradevole sensazione di vuoto e di privazione — orbene, da questa sensazione rinasce un «altro mondo», che però è soltanto metafisico e non più religioso. Per contro quello che, in epoca primordiale, portò a presupporre un «altro mondo», non fu un istinto o un bisogno, ma un errore nell'interpretazione di determinati pro­cedimenti naturali, una perplessità dell'intelletto.

152.

// maggiore cambiamento. L'illuminazione e i colori di tutte le cose sono cambiati! Non capiamo più completamente come gli uomini dell'antichità percepissero quanto era più vicino e frequente, — come ad esempio il gior­no e la notte: il fatto che essi credessero ai sogni conferiva alla vita vigile un'altra luminosità. E così la vita tutta, con il riverbero della morte e del suo significato: la nostra «morte» è una morte completamente diversa. Tutte le esperienze avevano un'altra luce, perché da loro sfolgorava un dio; lo stesso dicasi di tutte le decisioni e prospettive di un futuro lontano, perché si avevano oracoli e cenni segreti e si credeva alle profezie. La «veri­tà» era percepita diversamente, perché anche il folle poteva essere conside­rato il suo portavoce, -*- la qual cosa ci fa rabbrividire o ridere. Ogni ingiu­stizia aveva sui sentimenti un effetto diverso: si temeva infatti una rivalsa divina, e non una pena e un disonore borghesi. Che cos'era mai la gioia, in un periodo in cui si credeva ai diavoli e ai tentatoril Che cosa la passione, quando si vedevano demoni appostati nei pressi! Che cosa la filosofia, quando il dubbio era avvertito come uno tra i peccati più pericolosi, ovve­ro come un crimine contro l'amore eterno, come sfiducia contro tutto ciò che di buono, alto, puro e misericordioso esiste! Abbiamo* dato alle cose un colore nuovo e continuiamo a dipingerle, ma che cosa riusciremo mai a fare in confronto alla magnificenza cromatica di quell'antica artista — mi riferisco all'umanità dei tempi antichi.

130 LA GAIA SCIENZA

153. Homo poeta. «Io stesso che di mia mano ho portato a compimento que­

sta tragedia delle tragedie; che ho intrecciato nell'esistenza il nodo della morale stringendolo tanto che solo un Dio può scioglierlo — questo pre­tendeva Orazio! — io stesso, nel quinto atto, ho ucciso tutti gli dèi — per moralità! Che succederà adesso nel quinto! Donde trarre la soluzione tra­gica? Debbo forse cominciare a pensare a una soluzione comica?»

154.

Pericoli diversi della vita. Voi non sapete che cosa state vivendo, correte attraverso la vita come ebbri e, ogni tanto, cadete giù da una scala. Eppu­re, grazie alla vostra ebbrezza, non vi rompete le ossa: i vostri muscoli so­no troppo fiacchi e la vostra testa troppo ottenebrata perché possiate tro­vare troppo dure le pietre di questa scala, come noialtri! Per noi la vita co­stituisce un perìcolo maggiore: siamo fatti di vetro e, se cadiamo, guai a noi! E quando cadiamo, tutto è perduto!

155. Che cosa ci manca. Amiamo la grande natura e l'abbiamo scoperta:

questo perché nella nostra testa manca il grande uomo. Viceversa per i Greci: il loro sentimento della natura è diverso dal nostro.

156.

// più influente. Il fatto che un uomo opponga resistenza a tutta la sua epoca, si trattenga sulla porta e le chieda ragione, deve avere la sua in­fluenza! Che Io voglia è indifferente: il fatto è che \opuò.

157. Mentiri. Attenzione! — Sta riflettendo: presto avrà pronta una menzo­

gna. È un gradino della civiltà dal quale sono passati tutti i popoli. Si pensi a quel che i romani esprimevano con mentirli

158.

Caratteristica scomoda. Trovare profonde tutte le cose — questa è una caratteristica scomoda; fa sì che ci si sforzino costantemente gli occhi e, al­la fin fine, si trovi sempre di-più di quanto non si desiderasse.

159.

Ogni virtù ha la sua epoca. Chi adesso è inflessibile proverà spesso, in virtù della sua rettitudine, rimorsi; perché la virtù dell'inflessibilità appar­tiene a un'epoca diversa rispetto alla rettitudine.

160. Nella frequentazione delle virtù. Nei confronti di una virtù si può essere

anche indegni e adulatori.

LIBRO TERZO 131

161.

Agli amanti del tempo. Il prete spretato e il detenuto rilasciato continua­no a comporsi un volto: quel che vogliono è infatti un volto senza passato. Ma avete mai visto persone che sanno che sul loro volto si riflette un futu­ro e che sono così gentili verso di voi, voi amanti del «tempo», da compor­si un volto senza futuro?...

162.

Egoismo. L'egoismo è la legge prospettica della percezione, in base alla quale il prossimo appare grande e pesante: mentre da lontano tutte le cose perdono grandezza e peso.

163.

Dopo una grande vittoria. La cosa migliore, in una grande vittoria, è il fatto che toglie al vincitore il terrore di una sconfitta. «Perché non perdere neppure una volta?», si dice: «Ormai sono ricco a sufficienza».

164.

/ cercatori di quiete. Conosco spiriti che cercano la quiete nei molti og­getti oscuri che si dispongono intorno: chi vuole dormire oscura la sua ca­mera o si insinua in una caverna. Un avvertimento per coloro che non san­no che cosa stanno cercando e vorrebbero saperlo!

165.

Sulla felicità dei rinunziatari. Chi ha rinunziato a qualcosa completa­mente e ormai da lungo tempo crederà quasi, nel caso in cui lo debba ca­sualmente riincontrare, di averlo scoperto, — e che felicità prova ogni sco­pritore! Cerchiamo di essere più furbi dei serpenti, che rimangono troppo a lungo sotto lo stesso sole.

166.

Sempre in nostra compagnia. Tutto ciò che nella mia specie, nella natura e nella storia, mi parla, mi loda, mi spinge in avanti, mi conforta: tutto il resto non lo ascolto o lo dimentico subito. Siamo costantemente soltanto in nostra compagnia.

167.

Misantropia e amore. Si parla del fatto che non se ne può più degli uo­mini soltanto quando non li si può più digerire e se ne ha lo stomaco pieno. La misantropia è la conseguenza di un amore troppo avido per gli uomini, di una «antropofagia» — ma chi ti ordinò di ingollare uomini come ostri­che, caro principe Amleto?

132 LA GAIA SCIENZA

168. Di un malato. «Sta male!» — «Che cosa gli manca?» — «Soffre di bra­

mosia di essere lodato, e non trova nutrimento per questa bramosia.» — Inconcepibile! Tutto il mondo lo celebra, e lo portano non solo sulle mani, ma anche sulle labbra! — «Sì, ma il suo udito ha difficoltà a percepire le lodi. Se lo loda un amico, gli pare che costui lodi se stesso; se lo loda un nemico, gli pare che costui voglia in cambio essere lodato; se infine lo loda uno degli altri — e non ne rimangono molti, data la sua celebrità — lo of­fende il fatto che costui non voglia essergli né amico né nemico; ama dire: "Che m'importa di uno che anche nei miei confronti riesce a recitare la parte del giusto!".»

169.

Nemici aperti. II valore di fronte al nemico è una cosa a sé: con tutto ciò si può essere sempre vigliacchi, irresoluti e sbandati. Così la pensava Na­poleone a proposito delP«uomo più valoroso» che conoscesse, Murat: dal che si deduce che per alcune persone è indispensabile avere nemici aperti, nel caso in cui debbano elevarsi alla loro virtù, virilità e serenità.

170.

Con la folla. Per ora cammina con la folla, e ne tesse le lodi; ma un gior­no ne sarà l'avversario! La segue infatti nella convinzione che la sua pigri­zia trovi in essa la sua giustificazione: non ha ancora scoperto che la folla non è abbastanza pigra per lui! Che spinge sempre in avanti! Che non per­mette a nessuno di fermarsi! Ed egli ama tanto fermarsi!

171.

Fama. Quando la gratitudine di molti verso qualcuno abbandona ogni pudore nasce la fama.

172.

// corruttore del gusto. A.: «Sei un corruttore del gusto — lo dicono tut­ti!». B.: «Ma certo! Corrompo in ognuno il gusto del suo partito, — e nes­sun partito me lo perdona».

173.

Essere profondi e sembrare profondi. Chi si sa profondo, si sforza di es­sere chiaro; chi vorrebbe sembrare profondo alla massa, si sforza di essere oscuro. Perché la folla ritiene profondo tutto ciò di cui non riesce a vedere il fondo: essa è pavida, e non ama entrare in acqua.

174.

In disparte. Il parlamentarismo, ovvero la pubblica licenza di poter sce­gliere tra cinque opinioni politiche fondamentali, lusinga quei molti che vorrebbero apparire autonomi e individuali e desiderano lottare per le loro

LIBRO TERZO 133

opinioni. In fin dei conti, però, è indifferente se al gregge sia imposta una opinione o se gliene siano concesse cinque. Chi si discosta da una delle cin­que opinioni pubbliche e si mette in disparte, si ritrova sempre tutto il greg­ge contro di sé.

175. Sull'eloquenza: Chi possiede l'eloquenza più convincente? Il rullo del

tamburo: finché saranno i re a disporne, essi rimarranno sempre i migliori oratori e agitatori di folle.

176. Compassione*. Quei poveri principi regnanti! Tutti i loro diritti si vanno

trasformando, inavvertitamente, in rivendicazioni, e tutte queste rivendi­cazioni saranno presto considerate usurpazioni! E se dicono anche soltanto «noi» o «il mio popolo» tutta la vecchia e malvagia Europa ride. A dire il vero un maestro di cerimonie del mondo moderno farebbe, con loro, po­che cerimonie; forse decreterebbe che les souverains rangent auxparvenus.

177.

Sulla «pedagogia». In Germania alle persone più insigni manca un gran­de strumento pedagogico: il rìso delle persone insigni; esse in Germania non ridono.

178. Sull'illuminismo morale. Occorre sconsigliare ai Tedeschi il loro Mefi-

stofele, e anche il loro Faust. Sono due pregiudizi morali contro il valore della conoscenza.

179.

Pensieri. I pensieri sono le ombre delle nostre percezioni — sempre più scuri, più vuoti, più semplici di queste.

180.

// buon tempo degli spiriti liberi. Gli spiriti liberi si prendono ancora le loro libertà anche davanti alla scienza — per il momento è loro ancora con­cesso — finché esiste la chiesa! In questo senso il nostro è per loro un buon tempo.

181.

Seguire e precedere. A.: «Di quei due, l'uno seguirà e l'altro precederà sempre, dovunque li conduca il destino. Eppure il primo è sempre superio­re all'altro, nella virtù e nello spirito!». B.: «E allora? E allora? Questo va­le per gli altri, non per me, non per noi! Fit secundum regulam».

134 LA GAIA SCIENZA

182. In solitudine. Se si vive soli, non si parla troppo forte né si scrive troppo

forte, perché si teme la vuota eco — la critica della ninfa Eco. E tutte le vo­ci hanno un suono diverso, in solitudine!

183.

La musica del migliore futuro. II primo musicista sarà, per me, colui che conosceva soltanto la tristezza della più profonda felicità, e nessun'altra tristezza: ma finora un musicista simile non c'è stato.

184.

Giustizia. Meglio farsi derubare che avere intorno a sé degli spaventa­passeri — a gusto mio. E comunque, in ogni caso, è una questione di gusto — e niente più!

185.

Povero. Oggi egli è povero, non perché gli sia stato tolto tutto, ma per­ché ha gettato tutto via: che gliene importa? Egli è abituato a trovare. So­no i poveri a fraintendere la sua volontaria povertà.

186.

Cattiva coscienza. Si sta comportando bene, secondo tutte le regole, ep­pure ha una cattiva coscienza. Infatti il suo compito è quello di essere fuori dall'ordinario.

187.

Quanto c'è di offensivo nell'esposizione. Questo artista mi offende col modo in cui espone le sue idee, le sue buone idee: in modo così diffuso e insistente, e con artifici così rozzamente atti soltanto a persuadere che sem­bra stia parlando al popolino. Dopo aver donato qualche tempo alla sua arte ci sentiamo-sempre «in cattiva compagnia».

188.

Lavoro. Quanto sono vicini, anche al più ozioso di noi, il lavoro e i lavo­ratori! La cortesia regale nelle parole «siamo tutti lavoratori» sarebbe sta­ta, ancora ai tempi di Luigi xiv, un cinismo e un'indecenza.

189.

Il pensatore. È un pensatore : ciò significa che è capace di vedere le cose più semplici di quanto in realtà non siano.

190.

Contro chi tesse lodi. A: «Si è lodati soltanto dai propri pari!». B.: «E chi ti loda, ti sta dicendo: tu sei pari a me!».

LIBRO TERZO 135

191. Contro alcune difese. Il modo più perfido per danneggiare una cosa è

quello di difenderla intenzionalmente adducendo motivi falsi.

192.

/ bonari. Che cosa distingue dagli altri uomini quei bonari dal cui volto si irradia benevolenza? In presenza di una persona nuova, essi si sentono bene e se ne innamorano subito; le vogliono bene, il loro primo giudizio è «mi piace». Seguono poi, nell'ordine: desiderio di appropriazione (si fan­no pochi scrupoli sul valore dell'altro), rapida appropriazione, gioia del possesso e attività in favore del posseduto.

193.

L'arguzia di Kant. Kant voleva dimostrare, in modo offensivo per tutto il mondo, che «tutto il mondo» aveva ragione: questa era l'arguzia segreta della sua anima. Scrisse contro gli eruditi in favore del pregiudizio popola­re, ma per gli eruditi, e non per il popolo.

194.

L'«uomo dal cuore in mano». Ogni uomo agisce, probabilmente, sem­pre secondo motivazioni taciute: infatti ha sempre sulla lingua, potremmo quasi dire in mano, motivazioni pronte ad essere sfornate.

195.

C'è da riderei Guardate! Guardate! Egli rifugge gli uomini, ma costoro lo seguono, perché egli corre davanti a loro — ecco fino a che punto sono un gregge!

196.

Limiti del nostro udito. Si odono soltanto le domande a cui siamo in grado di rispondere.

197.

Cautelai Non c'è niente che ci piaccia comunicare agli altri quanto il si­gillo del silenzio, — compreso quello che c'è sotto.

198.

Fastidio dell'orgoglioso. L'orgoglioso è infastidito persino da coloro che lo portano avanti: guarda infatti con occhi storti anche i cavalli della sua carrozza.

199.

Magnanimità. Nei ricchi la magnanimità è spesso soltanto una modalità della timidezza.

136 LA GAIA SCIENZA

200.

Riso. Ridere significa essere contenti del male altrui ma con la coscienza tranquilla.

201.

Nell'applauso. Nell'applauso c'è sempre una specie di chiasso: anche nell'applauso che tributiamo a noi stessi.

202.

Uno scialacquatore. Non ho bisogno neppure della povertà del ricco che abbia già ricontato una volta tutto il suo tesoro, — egli scialacqua il suo spirito con l'irragionevolezza della scialacquatrice natura.

203.

Hic niger est. Abitualmente non ha pensieri — ma, eccezionalmente, gli vengono pensieri cattivi.

204.

// mendicante e la cortesia. «Non si è scortesi al bussare con una pietra alle porte cui manca il campanello», pensano mendicanti e sofferenti d'o­gni genere; ma nessuno dà loro ragione.

205.

Bisogno. Il bisogno è considerato la causa della nascita: in realtà è spes­so soltanto l'effetto di quello che è nato.

206.

Durante la pioggia. Piove, e io penso alla povera gente che si sta accal­cando, con le sue molte preoccupazioni e la sua poca esperienza nel na­sconderle: ciascuno è cioè prontamente animato dalla buona volontà di fa­re del male all'altro e di procurarsi, anche col cattivo tempo, una miserabi­le specie di benessere. Ebbene, è questa la povertà dei poveri!

207.

L'invidioso. A un invidioso non si può augurare di avere figli: sarebbe invidioso anche di loro, perché non può più essere bimbo.

208.

Grand*uomo\ Dal fatto che uno è un «grand'uomo» non si può dedurre neppure che sia un uomo; forse è soltanto un ragazzo, o un camaleonte di qualsiasi età, o una femminuccia stregata.

LIBRO TERZO 137

209. Un modo di interrogare sui motivi. C'è un modo di interrogarci sui no­

stri motivi che ci porta non solo a dimenticare i nostri migliori motivi ma anche a nutrire disprezzo e ripugnanza crescenti per i motivi in generale: un modo di interrogare che crea istupidimento, un artificio tipico degli uo­mini tirannici!

210. Misura nello zelo. Non si deve voler superare lo zelo del proprio padre

— fa ammalare.

211.

Motivi segreti. Potersi tenere un nemico segreto — è un lusso per cui la stessa moralità degli spiriti più dotati non sembra essere sufficiente.

212.

Non farsi ingannare. Il suo spirito ha cattive maniere; è frettoloso e con­tinua a balbettare per la sua impazienza, cosicché non si riesce neppure a presagire in quale anima di profondo respiro e dall'ampio petto esso ripo­si.

213.

La via verso la felicità. Un saggio domandò a un pazzo quale fosse la via che portava alla felicità. Questi rispose senza indugio, come se gli fosse sta­to domandato quale fosse la via che portava alla città vicina: «Ammira te stesso e vivi per strada!». «Alto là», disse il saggio, «tu pretendi troppo, è già sufficiente ammirare se stessi!» Il pazzo replicò: «Già, ma com'è possi­bile ammirare costantemente senza disprezzare costantemente?».

214.

La fede rende beati. La virtù dà la felicità e una specie di beatitudine sol­tanto a coloro che hanno fede nella loro virtù: non però a quelle anime più raffinate la cui virtù consiste in una profonda sfiducia contro se stessi e contro ogni virtù. In ultima analisi anche qui è la fede a rendere beati — nota bene, non la virtù!

215.

Ideale e materia. Hai davanti agli occhi un ideale eccelso; ma tu sei fatto di una pietra così preziosa che sia possibile plasmarne un simile idolo? E senza questo — il tuo lavoro non si riduce a una scultura barbarica? A una bestemmia del tuo ideale?

216.

Pericolo nella voce. Con una voce molto forte in gola, uno non è quasi più in grado di pensare a cose delicate.

138 LA GAIA SCIENZA

217.

Causa ed effetto. Prima dell'effetto si crede a cause diverse da quelle a cui si crede dopo l'effetto.

218.

La mia antipatia. Non amo le persone che, per sortire un effetto, debbo­no scoppiare come bombe, e vicino alle quali si corre sempre il pericolo di perdere l'udito — o qualcosa di più.

219.

Scopo della punizione. La punizione ha lo scopo di migliorare colui che punisce: è questa l'ultima via di scampo per i difensori della punizione.

220.

Sacrificio. Sui sacrifici e sullo spirito di sacrificio, le vittime sacrificali la pensano diversamente dagli spettatori: ma da sempre non le si fa parlare.

221.

Riguardi. Padri e figli si usano sempre più riguardi di quanto non faccia­no madri e figlie.

222.

Poeti e bugiardi. Il poeta vede nel bugiardo un fratello di latte al quale ritiene di aver trafugato il latte; così costui è rimasto misero e non è riusci­to neppure ad arrivare alla buona coscienza.

223.

Vicariato dei sensi. «Per ascoltare abbiamo anche gli occhi», disse un vecchio confessore ormai sordo; «e il re dei ciechi è chi ha le orecchie più lunghe.»

224.

Critica degli animali. Temo che gli animali vedano nell'uomo un loro pari che abbia perduto in modo estremamente pericoloso il sano intelletto animale, — è infatti un animale folle, un animale che ride, un animale che piange, un animale infelice.

225.

I naturali. «Per sé il male ha sempre sortito grandi effetti! E la natura è malvagia! Siamo dunque naturali!» Così conclusero in segreto i grandi ri­cercatori d'effetto dell'umanità, che anche troppo spesso si annoverano tra gli uomini grandi.

LIBRO TERZO 139

226. / diffidenti e lo stile. Diciamo le cose più forti con semplicità purché in­

torno a noi ci siano persone che credono alla nostra grandezza: un tale am­biente educa alla «semplicità dello stile». I diffidenti parlano enfaticamen­te; i diffidenti rendono enfatici.

227.

Deduzione errata, colpo mancato. Egli non riesce a dominarsi e quella donna, concludendo che sarà facile dominarlo, gli getta la sua rete: pove­ra, entro breve sarà la sua schiava.

228. Contro i mediatori. Chi vuole mediare fra due pensatori risoluti si con­

traddistingue per la sua mediocrità; non ha occhi neppure per vedere quan­to è unico; similitudine e uguaglianza sono il marchio di occhi schiavi.

229.

Caparbietà e fedeltà. Insiste per caparbietà, su una cosa che gli è divenu­ta indifferente, — egli però la chiama «fedeltà».

230.

Mancanza di riservatezza. Tutto il suo essere non convince: ciò dipende dal fatto che non ha mai taciuto le buone azioni da lui compiute.

231.

«Coloro che vanno fino infondo.» Chi è lento nella conoscenza è con­vinto che la lentezza sia necessaria alla conoscenza.

232.

Sogni. O non si sogna, o si fanno sogni interessanti. Si deve imparare anche a star svegli: o se ne fa a meno, oppure la veglia è interessante.

233.

Il più pericoloso di tutti i punti di vista. Quel che faccio o tralascio ades­so è, per quanto verrà, importante quanto il più grande evento del passato: in questa immensa prospettiva dell'effetto tutte le azioni sono al contempo grandi e piccine.

234.

Discorso di conforto di un musicista. «La tua vita non risuona nelle orecchie degli uomini: per loro, tu vivi una vita muta, e tutte le finezze del­la melodia, ogni tenera risoluzione nel seguire o nel precedere rimane loro celata. È vero: tu non scendi sui viali con musica da banda, — ma ciò non

140 LA GAIA SCIENZA

significa che questa buona gente abbia il diritto di dire che alla tua vita manchi la musica. Chi ha orecchie per intendere intenda.»

235.

Spirito e carattere. Alcuni raggiungono la sommità come carattere, ma il loro spirito non è adeguato a questa altezza — per alcuni è l'opposto.

236.

Per muovere la folla. Colui che vuol muovere la folla, non deve forse es­sere l'attore di se stesso? Non deve dapprima tradursi in un qualcosa di grottescamente chiaro e presentare tutta la sua persona e le sue tesi in que­sta rozza semplificazione?

237.

// cortese. — «Egli è così cortese!» — «Sì, ha sempre con sé un dolcino per Cerbero ed è così pavido che tutti gli sembrano Cerbero, anche tu e io: ecco la sua "cortesia".»

238.

Senza invidia. Egli è completamente privo d'invidia, ma non ne ha meri­to: vuole infatti conquistare una terra che nessuno ha mai né posseduto né veduto.

239.

L'infelice. Un unico uomo infelice basta già a fare di tutta una casa un cielo cupo, permanentemente dominato dal malumore: ed è un vero mira­colo se quest'unico uomo manca! La felicità è ormai da tempo una malat­tia non più contagiosa, — donde tutto ciò?

240.

Sul mare. Io non mi costruirei nessuna casa (e non possedere una casa fa parte della mia felicità!). Se però dovessi farei come quei Romani che se la costruivano fin dentro il mare; — mi piacerebbe avere qualche segreto in comune con questo bel mostro.

241.

Opera e artista. Questo artista è ambizioso e niente più: la sua opera, in ultima analisi, è solo una lente d'ingrandimento che egli offre a chiunque guardi verso di lui.

242.

Suum cuique. Per quanto grande possa essere l'avidità della mia cono­scenza non riesco a trarre, dalle cose, se non quanto mi appartiene già, — quanto appartiene agli altri rimane invece nelle cose. Come è possibile che un uomo sia un ladro o un brigante!

LIBRO TERZO 141

243.

Origine di «bene» e «male». Un miglioramento può essere escogitato soltanto da colui che è in grado di sentire: «Questo non è buono».

244.

Pensieri e parole. Non si possono mettere compiutamente sotto forma di parole neppure i propri pensieri.

245.

Lode nella scelta. L'artista seleziona i suoi soggetti: è il suo modo di lo­dare.

246. Matematica. Vogliamo introdurre in tutte le scienze la finezza e il rigore

della matematica, nella misura in cui ciò è possibile, non perché crediamo che in questo modo conosceremo le cose, ma per individuare i nostri rap­porti umani con le cose. La matematica è soltanto il mezzo dell'universale e ultima conoscenza umana.

247.

Abitudine. Ogni abitudine rende la nostra mano più arguta e la nostra arguzia meno agile.

248.

Libri. Che cosa può importarcene di un libro che non ci porta al di là di tutti i libri?

249.

Il sospiro di chi anela alla conoscenza. «Oh, questa mia bramosia! Nella mia anima non c'è disinteresse, — ma un io che vorrebbe avere tutto, che vorrebbe vedere e afferrare per mezzo di molti individui come fa con i suoi occhi e le sue mani, — anche un io che va a riprendersi tutto il passato, che non vuol perdere niente di quanto potrebbe accadergli! Oh, questa fiamma della mia bramosia! Oh, se potessi rinascere in cento esseri!» — Chi non conosce questo sospiro per esperienza personale, non conosce neppure la passione di chi anela alla conoscenza.

250.

Colpa. Anche se i più sagaci giudici dei processi di stregoneria e persino le streghe stesse fossero stati convinti della colpa della stregoneria, quella colpa non sarebbe comunque esistita. Le cose stanno in questi termini per tutte le colpe.

142 LA GAIA SCIENZA

251. Sofferenti misconosciuti. Le nature grandiose soffrono diversamente da

come possano immaginare coloro che le venerano: le loro sofferenze più atroci sono dovute agli ignobili, miserevoli bollori di alcuni istanti malva­gi, in breve, ai dubbi che nutrono sulla loro grandezza, — ma non ai sacri­fici e ai martini che i loro compiti impongono loro. Finché prova compas­sione per gli uomini e si sacrifica per loro, Prometeo è felice e si sente gran­de; ma quando comincia a invidiare Zeus e gli ossequi che i mortali gli por­gono, — allora sì che soffre!

252.

Meglio debitori. «Meglio rimanere debitori che pagare con una moneta che non porta la nostra effige!» Così vuole la nostra sovranità.

253.

Sempre a casa. Un giorno raggiungiamo la nostra meta — e indicheremo orgogliosi il lungo viaggio che abbiamo compiuto per raggiungerla. In real­tà non ci eravamo accorti di viaggiare. Ma eravamo giunti così lontano da illuderci, in ogni luogo, di essere a casa.

254.

Contro l'imbarazzo- Chi è sempre profondamente impegnato è al di là di ogni imbarazzo.

255.

Imitatori. A.: «Come? Tu non vuoi imitatori?». B.: «Io non voglio che mi si imiti in qualche cosa: voglio che ciascuno si proponga qualcosa, ciò che faccio io». A.: «E allora?».

256.

Epidermicità. Tutti gli uomini, in fondo, sono profondamente felici di somigliare, per una volta, ai pesci volanti, e di giocare sulle estreme punte delle onde; reputano che il meglio, in tutte le cose, sia avere una superficie: la loro epidermicità: sii venia verbo.

257.

Per esperienza. Alcuni non sanno quanto sono ricchi finché non scopro­no quanti ricchi diverranno ladri a spese loro.

258.

/ negatori del caso. Nessun vincitore crede al caso.

259.

Dal paradiso. «Bene e male sono i pregiudizi di Dio», disse il serpente.

LIBRO TERZO 143

260. Uno per uno. Uno ha sempre torto: ma con due ha inizio la verità. Uno

non può dimostrarsi: ma già due non possono più essere confutati.

261.

Originalità. Che cos'è l'originalità? Vedere qualcosa che non ha ancora nome, che non può essere nominato per quanto sia davanti agli occhi di tutti. Le abitudini degli uomini vogliono che sia il nome a rendere loro visi­bile una cosa. Gli originali sono perlopiù coloro che hanno dato un nome alle cose.

262.

Sub specie aeterni. A.: «Ti allontani sempre più rapidamente dai viventi; presto ti cancelleranno dai loro elenchi!». B.: «È l'unico modo per aver parte al privilegio dei morti». A.: «Quale privilegio?». B.: «Quello di non morire più».

263.

Senza vanità. Quando amiamo, vogliamo che le nostre mancanze riman­gano nascoste — non per vanità, ma per non far soffrire l'essere amato. Sì, chi ama vorrebbe sembrare un dio, — e anche questo non per vanità.

264.

Che cosa facciamo. Quel che facciamo noi non è mai compreso, ma sempre e soltanto lodato e biasimato.

265.

L'ultima scepsi. Che cosa sono, in fondo, le verità degli uomini? Sono gli errori inconfutabili degli uomini.

266.

Dove c'è bisogno di crudeltà. Chi è grande, è crudele contro le sue virtù e le sue riflessioni di second'ordine.

267.

Con una grande meta. Con una grande meta si è superiori persino alla giustizia, non soltanto alle proprie azioni e ai propri giudici.

268.

Che cosa rende eroici! Opporsi al tempo stesso alla propria suprema. sofferenza e alla propria suprema speranza.

144 LA GAIA SCIENZA

269. A che cosa credit Al fatto che i pesi di tutte le cose debbano essere ride-

terminati.

270.

Che cosa dice la tua coscienza? «Tu devi diventare colui che sei.»

271.

Dove stanno i maggiori pencolìi Nella sofferenza.

272.

Che cosa ami negli altri! Le mie speranze.

273.

Chi definisci cattivo! Colui che vuole sempre e soltanto svergognare.

274.

Che cosa c'è per te di più umano! Risparmiare a qualcuno una vergo­gna.

275.

Che cos'è il sigillo della raggiunta libertà! Non vergognarsi più di se stessi.

Libro quarto Sanctus Januarius

Tu che con lancia di fuoco infrangi il gelo dell'anima mia sicché muggendo verso il mare

della sua estrema speranza si precipita: sempre più chiara e sempre più sana

libera in ozio colmo d'amore... lei dunque loda il tuo prodigio

bellissimo Januarius! Genova, gennaio 1882

276.

Per l'anno nuovo. Vivo ancora e penso ancora: debbo vivere ancora, perché debbo pensare. Sum, ergo cogito: cogito, ergo sum. Oggi chiunque si permette di esprimere il suo desiderio e il suo pensiero più caro: orbene, anch'io voglio dire ciò che oggi desidero da me stesso e qual è stato il pri­mo pensiero che, quest'anno, mi ha sfiorato il cuore; quale pensiero sarà motivo, pegno e dolcezza della mia vita a venire! Voglio imparare sempre più a vedere la bellezza nella necessità delle cose: così diverrò uno di coloro che rendono belle le cose. Amor fati: questo sia, d'ora innanzi, il mio amo­re! Non voglio condurre nessuna guerra contro il brutto. Non voglio accu­sare, non voglio accusare neppure gli accusatori. La mia unica negazione sia distogliere lo sguardo* E, complessivamente e grossolanamente: voglio arrivare ad essere uno che dice soltanto di sì!

277,

Provvidenza personale. Esiste un certo acme nella vita: quando l'abbia­mo raggiunto ci troviamo, con tutta la nostra libertà e per quanto abbiamo contestato al bel caos dell'esistenza ogni ragione e bontà provvide, nel massimo pericolo di illibertà spirituale, e dobbiamo superare la nostra pro­va più difficile. Soltanto adesso, infatti, ci si presenta con la massima vio­lenza l'idea di una provvidenza personale, e dispone del migliore interces­sore, l'apparenza, proprio laddove andiamo toccando con mano che tutte, tutte le cose che ci riguardano si risolvono costantemente in quanto può es­serci di meglio per noi. La vita di ogni giorno e di ogni ora sembra non vo­lere essere nient'altro se non una dimostrazione continuamente nuova di questo principio; di qualunque cosa si tratti, tempo cattivo o buono, la perdita di un amico, una malattia, una calunnia, il mancato arrivo di una lettera, la slogatura di un piede, un'occhiata in un negozio, una lite, l'apri­re un libro, un sogno, un imbroglio: si rivela, subito o comunque prestissi­mo, una cosa che «non poteva mancare», — carica di significato e di utili­tà specificatamente per noi! Esiste una seduzione più pericolosa che dichia­rare finita la fede negli dèi di Epicuro, quegli sconosciuti spensierati, e cre­dere in una qualche divinità preoccupata e meschina, che conosce perso­nalmente ogni capello del nostro capo e non prova disgusto neppure a pre­stare i servigi più miserevoli? Orbene — nonostante tutto — lasciamo in pace gli dèi e i geni pronti a servire e accontentiamoci di supporre che la nostra abilità pratica e teorica nell'interpretare e riassettare gli avvenimenti abbia raggiunto il suo acme. Non pensiamo neppure in termini troppo ele­vati alla destrezza della nostra saggezza, se nel frattempo ci sorprende troppo la mirabile armonia che nasce quando suoniamo il nostro strumen­to: un'armonia il cui suono è più bello di quello che osavamo attribuirci.

146 LA GAIA SCIENZA

Di fatto, ogni tanto con noi suona qualcun altro: il buon caso che, all'occa­sione, guida la nostra mano, e la provvidenza più saggia non potrebbero esco­gitare una musica più bella di quella che riesce a questa nostra folle mano.

278.

// pensiero della morte. Mi dà una felicità malinconica il pensiero di vi­vere nel mezzo di questo groviglio di vicoletti, di bisogni, di voci: quanti piaceri, impazienza, bramosie, quanta vita assetata ed ebbra di vita vi ven­gono alla luce in ogni istante! E tuttavia presto scenderà tanto silenzio su tutti questi esseri chiassosi, vivi, assetati di vita! Dietro ad ognuno c'è la sua ombra, il suo cupo compagno di strada! È sempre come all'ultimo mo­mento prima della partenza di una nave di emigranti: ci sono più cose da dirsi che mai, l'ora incalza, dietro tutto quel chiasso attendono impazienti l'oceano e il suo desolato silenzio — così avidi, così sicuri del loro bottino. E tutti, tutti sono convinti che finora non ci sia stato niente o poco e che il futuro sia tutto: donde questa fretta, queste grida, questo assordarsi e cir­convenirsi! Ciascuno vuole essere il primo di questo futuro, e tuttavia l'u­nica cosa sicura e comune a tutti di questo futuro sono la morte e il silenzio di morte! Strano che questa unica sicurezza, questo unico elemento comu­ne non possa pressoché niente sulla folla, e che essa sia lontanissima dal ri­tenersi la confraternita della morte! Mi rende felice vedere che gli uomini non vogliono assolutamente pensare il pensiero della morte! Mi piacerebbe fare qualcosa per rendere loro il pensiero della vita cento volte più degno di essere pensato.

279.

Amicizia stellare. Eravamo amici e siamo divenuti estranei. Ma è giusto così, e non vogliamo né dissimularcelo né tenercelo oscuro, come se doves­simo vergognarcene. Siamo due navi, ciascuna delle quali ha la sua meta e la sua traiettoria; potremmo certo incrociarci e celebrare una festa insieme, come abbiamo fatto, — e poi le due brave navi potrebbero starsene tran­quillamente in uno stesso porto e sotto uno stesso sole, cosicché si potreb­be pensare che siano giunte alla meta e che avessero una meta comune. Ma poi l'onnipotente violenza dei nostri compiti ci separerebbe ancora, spin­gendoci in mari e sotto soli diversi, e forse non ci rivedremmo mai più: op­pure ci rivedremmo, — ma senza riconoscerci, perché mari e soli diversi ci avrebbero cambiato! Il fatto che dobbiamo divenire estranei è la legge so­pra di noi: ma proprio per questo dobbiamo divenire anche più degni di noi! Proprio per questo il pensiero della nostra amicizia di un tempo si fa più sacro! Esiste, probabilmente, una curva, una traiettoria stellare im­mensa e invisibile di cui le nostre strade e mete tanto diverse possono costi­tuire piccoli tratti: eleviamoci a questo pensiero! Ma la nostra vita è troppo breve e la nostra vista troppo scarsa perché possiamo essere più che amici nel senso di quella sublime possibilità.Crediamo dunque nella nostra ami­cizia stellare anche se sulla terra, dovessimo essere nemici.

280. Architettura degli uomini della conoscenza. Occorrerà, una volta e pro­

babilmente ben presto, un'idea di che cosa manchi alle nostre grandi città: luoghi ampi e silenziosi, molto estesi, per riflettere, luoghi con portici lun-

LIBRO QUARTO. SANCTUS JANUARIUS 147

ghi e spaziosi per i giorni di maltempo o di troppo sole, dove non penetri il rumore dei carri e dei venditori ambulanti e dove una decenza più raffinata impedisca agli stessi preti di pregare a voce alta: edifici e giardini il cui complesso esprima la sublimità della meditazione e di un incedere solitario. Sono finiti i tempi in cui la chiesa possedeva il monopolio della riflessione, in cui la vita contemplativa doveva essere in primo luogo sempre vita reli­giosa: e tutto ciò che la chiesa ha costruito esprime questa idea. Io non sa­prei come potremmo accontentarci delle sue costruzioni, persino se fossero spogliate della loro destinazione ecclesiastica: tali costruzioni parlano una lingua troppo patetica e parziale, in quanto case di Dio e sedi sfarzose di un traffico oltremondano, perché noi Senza-Dio possiamo pensarvi i nostri pensieri. Quando vaghiamo per portici e giardini, noi vogliamo aver tra­dotto noi stessi in pietra e pianta, vogliamo camminare attraverso noi stes­si.

281. Saper trovare la fine. I maestri del primo ordine si riconoscono dal fatto

che, nel grande come nel piccolo, sanno trovare perfettamente la fine, sia la fine di una melodia o di un pensiero, sia il quinto atto di una tragedia o un'azione di Stato. I primi del secondo ordine si riconoscono dal fatto che, verso la fine, divengono sempre inquieti, e non cadono in mare con quel­l'armonia superba e tranquilla che si rinviene, ad esempio, nel monte di Portofino — laddove il golfo di Genova finisce di cantare la sua melodia.

282.

L'andatura. Ci sono modi dello spirito che tradiscono, anche negli spiri­ti più grandi, la loro origine plebea o semiplebea: — a tradirli sono l'anda­tura e l'incedere dei loro pensieri, che non sanno camminare. Così lo stesso Napoleone, con suo profondo fastidio, non sapeva camminare in modo principesco e «legittimo», laddove occorre proprio saperlo fare, come nelle grandi cerimonie di incoronazione e simili: anche allora egli era sempre e soltanto il condottiero di una schiera — superbo e precipitoso al tempo stesso e molto cosciente di esserlo. Viene da ridere a vedere questi scrittori che fanno frusciare intorno a sé le increspate vesti dell'epoca: lo fanno per nascondere i loro piedi.

283.

Precursori. Saluto ogni sintomo da cui aliti un'epoca più virile e bellico­sa, che torni a onorare soprattutto la prodezza! Essa infatti preparerà la strada a un'epoca ancora più eccelsa e raccoglierà le energie di cui ciascuno allora avrà bisogno; — quell'epoca che porta l'egoismo nella conoscenza e muove guerre per amore dei pensieri e delle loro conseguenze. A tal fine occorrono, per adesso, molto prodi precursori, che pure non possono sgor­gare dal niente, — e tanto meno dalla sabbia e dal muco della civiltà odier­na e dell'educazione metropolitana: persone che sappiano essere silenziose, solitarie, risolute, contente della loro invisibile attività e perseveranti; per­sone che con la loro inclinazione interiore cerchino quanto in loro stessi de­ve essere superato; persone che possiedano sia serenità, pazienza, semplici­tà e disprezzo delle grandi vanità, sia magnanimità nella vittoria e condi­scendenza per le piccole vanità di tutti gli sconfitti; persone che sappiano

148 LA GAIA SCIENZA

giudicare in modo acuto e libero tutti i vincitori e la parte avuta dal caso in ogni vittoria e fama; persone con feste proprie, propri giorni feriali, propri tempi di lutto, abituati a comandare e sicuri nel farlo ma al tempo stesso, laddove meriti, pronti a obbedire, egualmente orgogliosi nell'una come nell'altra cosa, sempre dediti alla propria causa; persone più esposte al ri­schio, persone più feconde, persone più felici! Perché, credimi! — Per mietere dall'esistenza la maggiore fertilità e il maggiore piacere, il segreto si chiama: viverepericolosamentel Costruite le vostre città sul Vesuvio! In­viate le vostre navi su mari inesplorati! Vivete in guerra con i vostri pari e con voi stessi! Siate masnadieri e conquistatori, fintantoché non potete es­sere dominatori e possidenti, voi che vi dedicate alla conoscenza! Finirà presto il tempo in cui bastava vivere nascosti nei boschi come cervi ritrosi! Finalmente la conoscenza tenderà la mano verso quanto le spetta: vorrà dominare e possedere e voi con lei!

284.

La fede in sé. Sono pochissimi coloro che hanno fede in sé: e di questi, gli uni se la ritrovano addosso, come utile cecità o parziale oscuramento del loro spirito (che cosa scorgerebbero se potessero vedere se stessi fino in fondoì), gli altri invece se la debbono conquistare; tutto ciò che di buono, valoroso, grande essi compiono è così un argomento contro lo scettico che dimora in loro: occorre convincerlo o persuaderlo, e a tal fine ci vuole qua­si un genio. Sono i grandi insoddisfatti di sé.

285.

Excelsior! «Non pregherai mai, non adorerai mai più, non riposerai mai più in una fiducia senza fine — ti impedisci di fermarti di fronte a un'ulti­ma saggezza, a un ultimo bene, a un'ultima potenza e di levare i finimenti ai tuoi pensieri — non hai un guardiano e un amico duraturo per le tue set­te solitudini — vivi senza la vista di una montagna dalle vette coperte di ne­vi e dal cuore ardente — non c'è nessuno che ti ricompensa, che ti corregge in ultimo appello — non c'è più una razionalità in quanto accade, né un amore in quello che ti accadrà: al tuo cuore non si apre più nessun ricovero dove ci sia soltanto da trovare e non più da cercare, ti difendi da qualsivo­glia ultima pace, tu vuoi l'eterno ritorno di guerra e pace: uomo della ri­nunzia, vuoi rinunziare in ogni cosa? Chi te ne darà la forza? Nessuno l'ha mai avuta!» C'era un lago che un giorno si rifiutò di far defluire le sue ac­que e costruì una diga all'inizio del suo emissario: da allora il suo livello si alzò sempre più. Forse sarà proprio quella rinunzia a darci anche la forza con cui sopportare la rinunzia stessa; forse anche l'uomo, non trovando più sbocco in un Dio, si innalzerà sempre più.

286.

Digressione. Ecco alcune speranze: ma che cosa potrete udirne e veder­ne, se non avete sperimentato nella vostra anima splendore e ardore e au­rore? Io so solo ricordare — nient'altro! Spostare pietre, trasformare ani­mali in uomini — volete questo da me? Ah, se siete ancora pietre e anima­li, cercatevi il vostro Orfeo!

LIBRO QUARTO. SANCTUS JANUARIUS 149

287. // piacere della cecità. «I miei pensieri», disse il viandante alla sua om­

bra, «mi debbono indicare dove io mi trovi: ma non mi debbono rivelare dove sto andando. Mi piace l'incertezza del futuro e non voglio morire di impazienza nel pregustarmi le cose promesse.»

288.

Stati d'animo elevati. Mi sembra che la maggior parte degli uomini non credano proprio negli stati d'animo elevati, tranne che per pochi istanti, al massimo qualche quarto d'ora, — con l'eccezione di quei pochi che hanno sperimentato personalmente sentimenti elevati di durata più lunga. Ma es­sere l'uomo di un unico sentimento elevato, l'incarnazione di un unico grande stato d'animo — questo è stato finora soltanto un sogno e una pos­sibilità incantevole, ma la storia non ce ne ha fornito nessun esempio certo. Eppure, prima o poi, essa potrebbe generare anche uomini siffatti, purché siano state create e stabilite una serie di condizioni preliminari favorevoli che, per ora, neppure il più felice dei casi riuscirebbe a mettere insieme. Forse lo stato abituale di queste anime future sarebbe proprio quello che sinora si è fatto strada nelle nostre anime soltanto con un brivido, eccezio­nalmente e di rado: un continuo altalenare tra alto e profondo e la sensa­zione di altezza e profondità, una costante impressione di salire le scale e, al contempo, di riposare sulle nuvole.

289.

A bordo! Se si pensa al modo in cui su ogni singolo agisce una giustifica­zione filosofica complessiva del suo modo di vivere e di pensare — quasi un sole che scalda, benedice, feconda, risplende soltanto per lui, — ren­dendolo indipendente da lodi e biasimo, autosufficiente, ricco, pronto a donare felicità e benevolenza, trasformando incessantemente il male in be­ne, portando a fioritura e maturazione tutte le sue forze e impedendo che allignino la piccola e grande malerba dell'afflizione e del tedio, allora si esclama, in preda al desiderio: che possano essere creati molti altri di que­sti soli! Anche il malvagio, anche l'infelice, anche l'uomo dell'eccezione deve avere la sua filosofia, il suo buon diritto, il suo sole! Non di compas­sione c'è bisogno, nei loro confronti! — Questo atteggiamento altezzoso va disimparato, per quanto l'umanità l'abbia imparato e vi si eserciti da tempi immemorabili — per costoro non dobbiamo escogitare confessori, esorcisti e rimettitori di peccati! È di una nuova giustizia che c'è bisogno! E di una nuova formula! E di nuovi filosofi! Anche la terra morale è ton­da! Anche la terra morale ha i suoi antipodi! Anche gli antipodi hanno di­ritto di esistere! C'è un altro mondo da scoprire, e più di uno! A bordo, voi filosofi!

290.

Una sola cosa è necessaria. «Conferire uno stile» al suo carattere — che arte grande e rara! La esercita colui che domina con lo sguardo tutte le for­ze e le debolezze offerte dalla sua natura e le inserisce poi in un piano arti­stico finché ciascuna di esse non appare come arte e ragione e anche la de-

150 LA GAIA SCIENZA

bolezza rapisce gli occhi. Qui è stata aggiunta una gran quantità di natura secondaria, là è stato tolto un pezzetto di natura primaria — entrambe le operazioni hanno richiesto un lungo esercizio e lavoro quotidiano. Qui il brutto che non si può togliere resta nascosto; là è stato trasformato in su­blime. Molto del vago che si opponeva all'essere plasmato è stato rispar­miato e sfruttato per le vedute prospettiche: dovrà accennare a qualcosa di lontano e incommensurabile. Infine, quando l'opera è compiuta, si rivela che è stata la coercizione del medesimo gusto a dominare e a plasmare, nel grande come nel piccolo: che il gusto fosse buono o cattivo significa meno di quanto non si pensi — basta che fosse un gusto! Saranno le nature forti e avide di dominio a godere in una tale coercizione, in una tale disciplina e compiutezza sotto la propria legge la loro gioia più raffinata; la passione della loro violenta volontà si sente sollevata alla vista di ogni natura stiliz­zata, di ogni natura sconfitta e servitrice; anche quando debbono costruire palazzi e disegnare giardini, trovano ripugnante liberare la natura. Al con­trario sono i deboli, i caratteri non padroni di se stessi, a odiare la discipli­na dello stile: essi sentono che, se fossero soggetti a questa coercizione amaramente malvagia, diverrebbero persone volgari; essi divengono schia­vi non appena servono e, per questo, odiano servire. Tali spiriti — possono essere anche spiriti di prim'ordine — tendono sempre a plasmare o inter­pretare se stessi e quanto li circonda come natura libera — selvaggia, arbi­traria, fantastica, straordinaria, sorprendente: e fanno bene, perché sol­tanto così giovano a se stessi! Perché una sola cosa è necessaria: che l'uo­mo sia soddisfatto di se stesso — foss'anche soltanto per questa o quella poesia e opera d'arte; soltanto così, infatti, risulta sopportabile da vedersi. Chi è insoddisfatto di se stesso è sempre pronto a vendicarsene: noialtri dobbiamo essere le sue vittime, foss'anche soltanto perché dobbiamo sop­portare la sua orribile vista. Perché vedere le cose brutte rende cattivi e cu­pi.

291.

Genova. Io mi sono guardato questa città, con le sue ville, i suoi parchi e l'ampio circondario delle sue colline e dei suoi declivi, tutti abitati, per un bel po'; debbo infine dire che vedo volti di stirpi passate, che questa regio­ne è disseminata di immagini di uomini arditi e sicuri di sé. Hanno vissuto e voluto continuare a vivere: me lo dicono con le loro case, costruite e ab­bellite per i secoli, e non per l'ora fugace; amavano la vita, per quanto spesso potessero essere malvagi con se stessi. Mi pare di vedere l'uomo che costruisce, che posa il suo sguardo su tutti gli edifici intorno a lui, vicini e lontani, e anche sulla città, sul mare e sulle creste montane, esercitando con questo sguardo violenza e conquista: vuole inserire tutto ciò nei suoi progetti, ridurlo in sua proprietà, dimodoché divenga un frammento della stessa. Tutta la regione trabocca di questo magnifico, insaziabile egoismo, di voglia di possedere e di conquistare; e come questi uomini non conosce­vano limiti nella lontananza, e nella loro sete di cose nuove stabilirono un nuovo mondo accanto a quello vecchio, così anche in patria ce n'era sem­pre uno che si ribellava all'altro ed escogitava un nuovo modo per esprime­re la sua superiorità e interporre tra sé e il suo vicino la propria personale infinitezza. Ciascuno riconquistava per sé la sua patria sopraffacendola con le sue concezioni architettoniche e trasformandola, per così dire, nella delizia della sua casa. Nel Nord a chi osservi l'architettura delle città si im­pongono la legge e un desiderio generalizzato di legalità e di obbedienza: vi

LIBRO QUARTO. SANCTUS JANUARIUS 151

si indovina quella interiore tendenza a conformarsi e a equipararsi che do­veva prevalere nell'anima di tutti i costruttori. Qui invece, dietro ogni an­golo, trovi una persona a sé, che conosce il mare, l'avventura e l'Oriente, un uomo poco incline alla legge e al vicino, che gli giungono noiosi, e mi­sura con sguardo invidioso tutto ciò che è antico e già fondato: egli vorreb­be, con uno scaltro prodigio della sua fantasia, rifondare tutto ciò almeno nel pensiero, mettervi la sua mano e la sua sensibilità — fosse anche per un istante di un soleggiato pomeriggio in cui la sua anima malinconica e insa­ziabile avverte, per una volta, sazietà, e al suo occhio possono presentarsi soltanto cose proprie e non più estranee.

292. Ai predicatori morali. Io non voglio fare della morale, ma a coloro che

lo fanno do questo consiglio: se volete privare di ogni onore e valore le co­se e gli stati migliori, continuate ad averli sempre in bocca, come finora! Poneteli al vertice della vostra morale e parlate da mane a sera della felicità della virtù, della quiete dell'anima, della giustizia e della ricompensa im­manente: il modo in cui le promuovete conferisce a queste buone cose la popolarità e il chiassoso plauso delle piazze, che però le spogleranno di tutto il loro oro, peggio ancora, trasformeranno tutto il loro oro in piom­bo. Siete davvero esperti nell'arte inversa all'alchimia, nella svalutazione delle cose più preziose! Tentate per una volta di ricorrere a un'altra ricetta, per non ottenere il contrario di quanto cercate: negate quelle buone cose, sottraetele al plauso delle plebe e al loro facile corso, fate sì che tornino ad essere celati pudori di anime solitarie, dite che la morale è un qualcosa di proibito] Forse attirerete così verso queste cose l'unico genere di uomini ai quali possono interessare, intendo dire quelli eroici. Ma allora deve esserci qualcosa di temibile e non, come sinora, di nauseabondo! Non si potrebbe dire oggi, a proposito della morale, come Meister Eckhart: «Prego Dio che mi liberi di Dio!».

293.

La nostra aria. Lo sappiamo bene: chi adesso, come passeggiando, getta uno sguardo in direzione della scienza, alla maniera delle donne e, pur­troppo, anche di molti artisti: per costoro il rigore del servizio, questa ine­sorabilità nelle cose grandi e piccine, questa rapidità nel ponderare, giudi­care, condannare sono qualcosa che dà le vertigini e incute timore. A spa­ventarli è il fatto che siano richieste le cose più pesanti e fatte quelle miglio­ri senza che si ottengano in cambio lodi e distinzioni; succede invece come per i soldati, che conoscono soltanto biasimo e aspri rimproveri: perché far bene è la regola e sbagliare l'eccezione, ma la regola pare che tenga sempre la bocca chiusa. Orbene, il «rigore della scienza» somiglia alla forma e alla cortesia della migliore società: esse atterriscono i non iniziati. Chi però vi è abituato, non riesce a vivere da nessun'altra parte se non in quest'aria chiara, trasparente, vigorosa, fortemente elettrica, in quest'aria virile. Nessun altro luogo gli pare abbastanza puro e arioso: egli sospetta che al­trove la sua migliore arte non sarebbe utile a nessuno e di nessuna gioia per lui, che i fraintendimenti gli farebbero sgusciare fra le dita metà dell'esi­stenza, che ci sarebbe costantemente bisogno di molta cautela, di nascon­dersi e trattenersi, — grandi e inutili sprechi d'energia! In questo elemento rigoroso e chiaro, invece, egli ha tutta la sua energia: qui può volare! Per-

152 LA GAIA SCIENZA

che dovrebbe riscendere in quelle acque torbide dove occorre nuotare e passare a guado, sciupando il colore delle proprie ali! No! Là per noi è troppo difficile vivere: che cosa possiamo farci se siamo nati per l'aria, l'a­ria pura, noi emuli del raggio di luce, e se, come lui, ameremmo cavalcare sul pulviscolo di etere, verso il soleì Questo però non lo possiamo: faccia­mo allora l'unica cosa che possiamo, cioè portare luce alla terra, essere «la luce della terra»! Per questo ci bastano le nostre ali e la nostra rapidità e il nostro rigore, per questo siamo virili e anche spaventosi, come il fuoco. Che ci temano coloro che accanto a noi non sanno scaldarsi e rasserenarsi!

294.

Contro i calunniatori della natura. Mi sono sgradevoli quegli uomini per i quali ogni inclinazione diventa subito una malattia, qualcosa di defor­mante o addirittura di vergognoso, — ci hanno indotto a pensare che le in­clinazioni e gli istinti siano malvagi, provocando la nostra grande ingiusti­zia contro la nostra natura, contro ogni natura! Ci sono abbastanza uomi­ni che possono abbandonarsi alle loro inclinazioni con grazia e spensiera­tezza: ma non lo fanno, per paura di quell'immaginaria «essenza malva­gia» della natura! Ecco perché tra gli uomini si trova così poca distinzione: perché il suo marchio sarà sempre non avere paura di sé, non aspettarsi niente di ignominioso, volare senza esitazione laddove ci sentiamo spinti, noi uccelli nati liberi! Dovunque possiamo giungere, sarà sempre un luogo libero e assolato.

295.

Abitudini brevi. Io amo le abitudini brevi e le ritengo uno strumento ine­stimabile per conoscere molte cose e circostanze, fino al fondo delle loro dolcezze e amarezze; la mia natura è completamente orientata verso le abi­tudini brevi, persino nei bisogni della sua salute fisica e comunque, per quanto mi è dato di vedere, dalle cose più infime a quelle più elevate. Cre­do sempre che la tal cosa mi soddisferà in modo duraturo — anche la breve abitudine conosce quella fede della passione, la fede nell'eternità — e che mi si possa invidiare per averla trovata e riconosciuta: così essa mi nutre i meriggi e le sere e diffonde intorno a sé e in me un profondo appagamento, cosicché non desidero altro da confrontare o disprezzare od odiare. E un giorno il suo tempo finisce: quella buona cosa si allontana da me, non per­ché mi dia nausea, ma serenamente, sazia di me come io lo sono di lei, e come se dovessimo esserci reciprocamente grati e, nel prendere commiato, stringerci la mano. E già sulla soglia aspetta qualcosa di nuovo e così la mia fede — questa indistruttibile follia e saggezza — che questa novità sarà quella giusta, giusta e definitiva. Mi succede così con vivande, pensieri, uo­mini, musiche, teorie, ordini del giorno, modi di vita. Per contro odio le abitudini durature e, qualora gli eventi prendano una forma tale da sem­brare destinati a favorire l'allignamento di abitudini durature, ho l'impres­sione che mi si avvicini un tiranno e che l'aria della mia vita si faccia più pesante; ad esempio per via di un incarico, della compagnia costante di una certa persona, di una residenza fissa, di un unico stato di salute. Sì, nel più profondo della mia anima provo un sentimento di riconoscenza per tutte le mie miserie e malattie, per tutto quello che in me è imperfetto, per­ché mi lasciano cento porte posteriori per sfuggire alle abitudini durature. La cosa più intollerabile, tuttavia, di cui avrei davvero terrore, sarebbe una

LIBRO QUARTO. SANCTUS JANUARIUS 153

vita completamente senza abitudini, una vita che richieda continue im­provvisazioni: sarebbe il mio esìlio e la mia Siberia.

296. Una salda reputazione. Una salda reputazione era un tempo una cosa

estremamente utile; e laddove la società è ancora dominata dall'istinto del gregge ciascun individuo trova ancora la massima convenienza nello spac­ciare il suo carattere e la sua occupazione per immodificabili, — persino quando in fondo non lo sono. «Di lui ci si può fidare, rimane uguale a se stesso»: in tutte le situazioni di pericolo sociale questa è la lode più rilevan­te. La società avverte con soddisfazione di avere, nella virtù di questo, nel­l'ambizione di quello, nella riflessione e nella passione di un terzo, uno strumento fidato e sempre pronto: e a questa natura strumentale, questo rimanere fedeli a se stessi, questa immutabilità di opinioni, tendenze, degli stessi difetti, essa riserva i più alti onori. Una tale valutazione, che con l'e­ticità dei costumi è fiorita sempre e dappertutto, educa «caratteri» e getta discredito su ogni cambiamento, apprendimento, trasformazione. Orbene, per quanto questo modo di pensare possa presentare ancora notevoli van­taggi, esso costituisce quanto nel giudizio comune c'è di più pericoloso per la conoscenza: perché qui è condannata e gettata in discredito proprio la buona volontà, da parte di colui che si dedica alla conoscenza, di dichia­rarsi intrepidamente e in ogni momento contro l'opinione che aveva nutri­to sino a quel momento, e di nutrire sfiducia in particolare nei confronti di ciò che vuole consolidarsi dentro di noi.

I sentimenti dell'uomo della conoscenza, essendo in contraddizione con questa «fama consolidata», sono considerati disonorevoli, mentre la pie­trificazione delle opinioni è insignita di ogni onore: — dobbiamo ancora vivere in balia d'una simile considerazione! Com'è gravoso vivere quando ci si sente contro e dintorno il giudizio di molti millenni! È probabile che per molti millenni sulla conoscenza abbia gravato la cattiva coscienza e che nella storia dei grandi spiriti ci siano stati molto disprezzo di sé e una mise­ria segreta.

297.

Saper contraddire. Ciascuno sa, oggigiorno, che saper tollerare le con­traddizioni è un alto segno di cultura. Alcuni sanno persino che le persone più elevate si augurano e si provocano contraddizioni, per avere un cenno sulla propria ingiustizia, che fino a quel momento era loro ignota. Ma sa­per contraddire, l'aver acquisito una buona coscienza dell'ostilità contro quanto è consueto, tramandato, sacro, — questo è qualcosa di più, rispet­to alle due posizioni precedenti, è quel che c'è di veramente grande, nuovo, stupefacente nella nostra cultura, il passo di tutti i passi dello spirito libera­to: chi lo sa?

298.

Sospiro. Ho colto questa impressione di sfuggita e, per fissarla, ho af­ferrato alla svelta le prime brutte parole, affinché non se ne volasse via. E adesso queste parole aride l'hanno fatta morire, ed essa se ne sta là tutta cadente e penzoloni, — quasi non so più, al guardarla, come possa aver provato una tale felicità a catturare un simile uccello.

154 LA GAIA SCIENZA

299. Che cosa si deve imparare dagli artisti. Quali mezzi abbiamo per render­

ci le cose belle, attraenti, degne di essere desiderate, qualora non lo siano? — e a mio parere non lo sono mai! Qui abbiamo qualcosa da imparare dai medici, quando ad esempio diluiscono l'amaro oppure mescolano assieme vino e zucchero: ma ancora di più dagli artisti, che a dire il vero si occupa-no continuamente di tali invenzioni e artifici. Allontanarsi dalle cose fin­ché di esse non si vede più tanto e, per poterle vedere, si deve immaginare molto — oppure vedere le cose dietro l'angolo, o un particolare soltanto — oppure disporle in modo tale che parzialmente si deformino e permettano soltanto vedute prospettiche — oppure osservarle attraverso un vetro colo­rato o nella luce dell'aurora — oppure dare loro una superficie e una pelle che non siano completamente trasparenti: tutto questo dobbiamo imparar­lo dagli artisti e, per il resto, essere più saggi di loro. Perché in loro questa raffinata capacita cessa, solitamente, dove cessa l'arte e inizia la vita; noi invece vogliamo essere i poeti della nostra vita, a cominciare dalle cose più piccole e quotidiane.

300.

Preludi della scienza. Credete orbene che le scienze sarebbero nate e di­venute adulte se non fossero state precedute da maghi, alchimisti, astrolo­ghi e streghe, cioè da coloro che con le loro promesse e i loro preludi dovet­tero creare per primi la fame, la sete e il gusto delle potenze occulte e proi­bite! Sì, che si dovette promettere infinitamente di più di quanto non po­tesse essere realizzato, affinché nel reame della conoscenza potesse realiz­zarsi qualcosa? Forse, come quando a noi si presentano preludi ed esercizi preliminari della scienza che non erano assolutamente stati esercitati e av­vertiti come tali, in un'epoca lontana anche tutta la religione ci sembrerà un esercizio e un preludio: forse essa potrebbe essere stata lo strano mezzo tramite il quale i singoli individui sono giunti ad apprezzare tutta l'auto­sufficienza di un dio e tutta la sua forza di autoredenzione; ci si potrebbe addirittura domandare se l'uomo, senza una scuola e una preistoria religio­sa, avrebbe mai imparato ad avvertire sete e fame di sé e a trarre da se stes­so pienezza e sazietà. Non dovette Prometeo in un primo momento credere erroneamente di aver trafugato la luce ed espiare la sua presunta colpa, — per poi scoprire che era stato lui a creare la luce, proprio perché la deside­rava, e non solo l'uomo, ma anche il dio era stato opera delle sue mani e argilla nelle sue mani? Tutte soltanto immagini di colui che le aveva pla­smate?... proprio come l'illusione, il furto, il Caucaso, l'avvoltoio e tutta la tragica Prometheia di ogni conoscenza?

301.

Illusione dei contemplativi. Le persone elevate si distinguono da quelle di livello inferiore per il fatto che vedono e odono indicibilmente di più, e vedono e odono pensando — e proprio questo distingue l'uomo dagli ani­mali e gli animali superiori da quelli inferiori. Il mondo si fa sempre più pieno per colui che sale nella scala dell'umanità, perché gli vengono gettati sempre più ami di interesse; la quantità dei suoi stimoli è costantemente in crescita e così la quantità dei suoi modi di provare piacere e dispiacere:

LIBRO QUARTO. SANCTUS JANUARIUS 155

l'uomo più elevato diviene sempre più felice e più infelice al tempo stesso. Sua perpetua compagna è però sempre un'illusione; egli pensa di trovarsi davanti al grande spettacolo visivo e sonoro che è la vita in veste di spetta­tore e ascoltatore; egli definisce la sua natura contemplativa e, nel far ciò, trascura il fatto che egli stesso è poeta e continua a poetare la vita, — che egli differisce molto dall'attore di questo dramma, il cosiddetto uomo d'a­zione, ma ancora di più da un mero osservatore e ospite d'onore davanti al palcoscenico. Lui, in quanto poeta, possiede certamente vis contemplativa e la capacità di guardare retroattivamente la sua opera, ma al contempo e in primo luogo quella vis creativa che manca all'uomo d'azione, nonostan­te quel che possono affermare l'apparenza e l'opinione comune. Siamo noi, che percepiamo pensando, a fare davvero e continuamente qualcosa che non c'è ancora: tutto un mondo eternamente in crescita di valutazioni, colori, pesi, prospettive, scale graduate, affermazioni e negazioni. Questa poesia da noi inventata è costantemente assimilata, esercitata, tradotta in carne e realtà, anzi in quotidianità, dai cosiddetti uomini pratici (i nostri attori, come abbiamo detto). Quel che ha valore nel mondo attuale non lo ha di per sé, secondo la sua natura — la natura è sempre senza valore — ma questo valore gli è stato dato, donato, e siamo stati noi a darglielo e do­narglielo! Siamo stati noi a creare per primi il mondo che interessa agli uo-minil Ci manca però proprio questa consapevolezza e, se pure ci sfiora per un attimo, quello successivo l'abbiamo già dimenticata: noi misconoscia­mo la nostra migliore energia e ci riteniamo, noi contemplativi, di grado inferiore, — non siamo né orgogliosi né felici come potremmo essere.

302.

Pericolo del felice. Avere sensi sottili e un gusto sottile; essere abituati alle migliori ricercatezze dello spirito come al cibo conveniente e più a por­tata di mano; godere di un'anima forte, ardita, audace; camminare per la vita con occhi sereni e passo sicuro, sempre pronti alle cose estreme come a una festa e animati dalla bramosia di mondi e mari, uomini e dèi inesplora­ti; tendere l'orecchio verso ogni musica serena quasi che là uomini, soldati, naviganti più valorosi si prendano una breve sosta e si divertano, pur so­praffatti, nel più profondo godimento dell'attimo, dalle lacrime e da tutta la purpurea malinconia del felice: chi non vorrebbe che tutto ciò gli appar­tenesse, fosse la sua condizione! Era questa la felicità di Omero! La condi­zione di colui che inventò per i Greci i loro dèi, — ma no, li inventò per se stesso, i suoi dèi! Ma non nascondiamocelo: con questa felicità di Omero nell'anima, si è anche le creature più capaci di soffrire che ci siano sotto il sole! E soltanto a questo prezzo si acquista la più preziosa conchiglia che le onde dell'esistenza abbiano sinora portato su questa riva! Possedendola, si diviene sempre più sottili nel dolore e, in ultima analisi, troppo sottili: un lieve malumore, una breve nausea bastarono, alla fine, perché Omero per­desse il gusto della vita. Non era riuscito a risolvere uno sciocco indovinel­lo propostogli da alcuni giovani pescatori. Sì, i piccoli enigmi sono un peri­colo per i più felici!

303.

Due persone felici. Invero quest'uomo, nonostante la sua gioventù, sa che cos'è Vimprovvisazione, nella vita, e lascia stupito anche l'osservatore più raffinato: sembra infatti non mancare un colpo, per quanto giochi

156 LA GAIA SCIENZA

sempre al gioco più rischioso. Si ricorderanno quei maestri dell'improwi. sazione nell'arte musicale ai quali anche l'ascoltatore vorrebbe attribuire una divina infallibilità della mano, per quanto essi qua e là, si sbaglino, co­me sbaglia ogni mortale. Ma essi sono abili e pieni d'inventiva, istantanea­mente pronti a inserire nella struttura tematica la nota più casuale, nata da un movimento del dito, da un capriccio, cosicché ne alitino una sensibilità e un'anima. Ecco invece un uomo completamente diverso; fallisce pratica­mente in tutto ciò che vuole e progetta. Quello che gli sta davvero a cuore lo ha condotto già diverse volte sull'orlo dell'abisso, vicinissimo alla rovi­na; e se ne è scampato, non ne ha ricavato certo soltanto «un occhio pe­sto». Credete che ne sia infelice? Ha da tempo deciso di non dare tanta im­portanza ai suoi desideri e ai suoi progetti. «Se questa cosa non mi riesce», si dice, «forse mi riuscirà quell'altra; e nel complesso non so se debbo esse­re grato ai miei fallimenti più che ai miei successi. Sono forse fatto per es­sere caparbio e portare le corna del toro? Il valore, il risultato della vita so­no per me altrove; il mio orgoglio e persino la mia miseria sono altrove. Io conosco meglio la vita, perché tanto spesso sono stato sul punto di perder­la: e proprio per questo dalla vita ricavo di più di voi tutti!»

304.

Agendo, lasciamo andare. In fondo trovo ripugnanti tutte quelle morali che dicono: «Non farlo! Rinunzia! Supera te stesso!». — Sono contrario a morali che mi spingono ad agire e agire ancora, dal mattino presto fino al­la sera, e la notte a sognarne, e a non pensare a nient'altro se non ad agire bene, come appunto a me soltanto è possibile! A chi vive così vengono a cadere, l'una dopo l'altra, tutte le cose che non si addicono a una vita sif­fatta: senza odio o contrarietà, egli vede accomiatarsi oggi questo e doma­ni quello, come foglie ingiallite che ogni alito di vento sottrae all'albero; oppure non si accorge neppure della loro dipartita, tant'è il rigore con cui il suo occhio guarda verso la sua meta, sempre in avanti, non di lato, al-l'indietro, in disparte. «Deve essere il nostro agire a determinare che cosa lasciamo andare: agendo, lasciamo andare»: così piace a me, così suona il mio placitum. Ma io non voglio tendere ad occhi aperti verso il mio impo­verimento, io non amo le virtù negative, — virtù la cui essenza sono la ne­gazione e la rinunzia a se stessi.

305.

Autodominio. Quei maestri morali che ordinano all'uomo, quale precet­to primo e supremo, di mantenere il dominio su se stesso, gli cagionano una particolare malattia, ovvero una costante irritabilità in tutte le sue emozioni e tendenze naturali e, per così dire, una specie di prurito. Que­st'uomo irritabile ha sempre l'impressione che quanto in futuro può colpir­lo, attirarlo, affascinarlo, incitarlo, dall'interno o dall'esterno — metta sempre in pericolo il suo autodominio: non può affidarsi più a nessun istinto, a nessun libero colpo d'ali, ma è sempre in atteggiamento difensi­vo, armato contro se stesso, con occhi acuti e diffidenti, l'eterno guardia­no della fortezza che egli stesso si è costruito. Sì, così può essere grandel Ma quanto è divenuto insopportabile per gli altri, quanto gravoso a se stes­so, quanto impoverito e tagliato fuori dalle più belle eventualità dell'ani­ma! Sì, anche da ogni altro insegnamento! Perché, ogni tanto, occorre sa-

LIBRO QUARTO. SANCTUS JANUARIUS 157

persi perdere, se si vuole imparare qualcosa dalle cose che non siamo noi stessi.

306. Stoici ed epicurei. L'epicureo seleziona le persone, le cose e persino gli

eventi più adatti all'estrema sensibilità della sua complessione intellettuale; rinunzia a tutto il resto, ovvero al più, perché costituirebbe per lui un cibo troppo forte e pesante. Lo stoico al contrario si esercita a deglutire sassi e vermi, schegge di vetro e scorpioni, senza provarne nausea; il suo stomaco deve farsi indifferente a tutto ciò che il caso dell'esistenza vi riversa; ricor­da quella setta araba degli Assaua, nota in Algeria: come costoro, ama of­frire a un pubblico di invitati lo spettacolo della sua insensibilità, pubblico cui l'epicureo rinunzia volentieri: egli ha infatti il suo «giardino»! Per co­loro con i quali il destino ama improvvisare, per coloro che vivono in epo­che violente e dipendono da uomini bruschi e mutevoli, lo stoicismo può essere davvero consigliabile. Chi però intuisce che il destino gli permette di tessere un lungo filo fa bene a seguire le dottrine epicuree, come hanno fat­to sino ad oggi tutti gli uomini dediti al lavoro spirituale! Per costoro, in­fatti, dover rinunziare alla loro delicata sensibilità e ricevere in cambio la pelle coriacea degli stoici, con i loro aculei da riccio, sarebbe davvero la perdita delle perdite.

307.

In favore della critica. Adesso ti sembra un errore quanto allora amasti come verità o verosimiglianza: lo allontani da te e ti illudi che la tua ragio­ne abbia riportato una vittoria. Ma forse quell'errore, allorché tu eri diver­so — e tu sei sempre diverso — ti era necessario come lo sono ora le tue at­tuali «verità»: come una pelle che ti dissimulava e celava tante cose che an­cora non potevi vedere. La tua nuova vita ha ucciso quell'opinione, non la tua ragione: tu non ne hai più bisognoy essa tracolla, e la sua irragionevo­lezza ne striscia fuori come un verme, venendo alla luce. Quando esercitia­mo una critica, non è qualcosa di arbitrario e impersonale, — essa è, quan­to meno nella maggior parte dei casi, una prova che in noi esistono energie vive e trascinanti, che infrangono una corteccia. Noi neghiamo e dobbia­mo negare proprio perché in noi vive e vuole affermarsi qualcosa che forse non conosciamo né vediamo ancora! Questo in favore della critica.

308.

La storia di ogni giorno. Che effetto ti fa la storia di ogni giorno? Guar­da le tue abitudini, di cui essa consiste: esse sono il prodotto di innumere­voli, piccole vigliaccherie e pigrizie o della tua prodezza, della tua ingegno­sa ragione? Per quanto si tratti di due casi tanto diversi, sarebbe sempre possibile che gli uomini ti tributassero la stessa lode e che tu fossi loro ugualmente di vantaggio. Anche lode e vantaggio e rispettabilità potrebbe­ro bastare a colui che voglia avere soltanto una buona coscienza, — non però per chi, come te che scruti nelle viscere, abbia consapevolezza della sua coscienzal

158 LA GAIA SCIENZA

309. Dalla settima solitudine. Un giorno il viandante chiuse di scatto una por­

ta dietro di sé, si fermò e pianse. Poi disse: «Questa tendenza, questo im­pulso verso il vero, reale, non apparente, certo! Non li sopporto più! Per­ché questo pungolo cupo e passionale perseguita proprio me! Io vorrei ri­posare, ma esso non me lo permette. Eppure tante cose mi invitano a indu­giare! Dappertutto ci sono, per me, giardini di Armida, e quindi lacerazio­ni sempre nuove, sempre nuove amarezze del cuore. Debbo sollevare dac­capo il mio piede, questo piede stanco e ferito: e poiché debbo farlo, lancio sempre uno sguardo imbronciato alle cose bellissime che non seppero trat­tenermi — proprio perché non seppero farlo!».

310.

Volontà e onda. Come giunge avida quest'onda, come se potesse giunge­re a qualcosa! Come si insinua con spaventevole precipitazione nel più inti­mo recesso dell'anfratto roccioso! Pare che voglia presentarsi a qualcuno; pare che vi sia nascosto qualcosa di valore, di grande valore. E adesso tor­na indietro, un po' più lentamente, sempre bianchissima per l'eccitazione — è delusa? Ha trovato quel che cercava? Si finge delusa? Ma già si avvici­na un'altra onda, più avida e più selvaggia ancora della prima; anche la sua anima sembra colma di misteri e della bramosia di scavare tesori. Così vivono le onde — così viviamo noi, animati dalla volontà! — di più non di­co. Come? Non avete fiducia in me? Siete adirati con me, bei mostri? Te­mete che io tradisca i vostri segreti? Orbene! Siate pure adirati con me, sol­levate i vostri corpi verdi e perigliosi quanto più in alto potete, innalzate una muraglia tra me e il sole — come adesso! Davvero, del mondo non è rimasto niente se non crepuscolo verde e lampi verdi. Fate come volete, voi tracotanti, muggite di piacere e malvagità: o affondate di nuovo, gettate i vostri smeraldi negli abissi più profondi, scuotetevi di dosso il vostro fini­to, bianco scompiglio di spuma e schiuma — io conosco voi e i vostri se­greti, io conosco la vostra razza! Voi e io siamo della stessa razza! Voi e io abbiamo un segreto in comune!

311.

Luce infranta. Non sempre si è valorosi e, quando ci si stanca, qualcuno di noi ogni tanto piange così: «È così difficile fare del male agli uomini — perché deve essere necessario? A che serve vivere nascosti, se non vogliamo tenere per noi quello che suscita risentimento? Non sarebbe più consiglia­bile, allora, vivere nella mischia e riparare con ogni singolo quei peccati che debbono necessariamente essere commessi nei confronti di tutti? Folli con i folli, vani con i vani, sognatori con i sognatori? Non sarebbe equo, in presenza di un livello così tracotante di deviazione? Quando sento della cattiveria degli altri nei miei confronti, — il mio primo sentimento non è forse di soddisfazione? Così va bene, — mi pare di dire loro — sono così poco d'accordo con voi e ho tanta verità dalla mia parte; passatevi una bel­la giornata a spese mie, ogniqualvolta potete! Queste sono le mie mancan­ze, le mie mosse false; questa la mia illusione, la mia mancanza di gusto, la mia confusione, le mie lacrime, la mia vanità, il mio nascondiglio di civet­ta, le mie contraddizioni. Qui ne avete da ridere! Allora ridete, e rallegrate-

LIBRO QUARTO. SANCTUS JANUARIUS 159

vi! Non ce l'ho con la legge e con la natura delle cose, che vogliono che mancanze e mosse false procurino gioia! Certo, ci sono stati tempi "più belli". "Guarda! Il regno dei cieli sta per venire!" Non mi mancherei, se non ci fossi più. Nessuno di noi è indispensabile]». Tuttavia, lo ripeto, quando siamo valorosi non la pensiamo così: non ci pensiamo proprio.

312.

// mio cane. Ho dato un nome al mio dolore, e lo chiamo «cane»: è al­trettanto fedele, insistente e spudorato, altrettanto di compagnia, altret­tanto astuto come ogni altro cane: e io posso apostrofarlo e sfogarmi con lui quando sono di cattivo umore, come gli altri fanno con i loro cani, i lo­ro domestici e le loro donne.

313.

Nessun quadro di martirio. Voglio fare come Raffaello, e non dipingere nessun quadro di martirio. Esistono abbastanza cose sublimi per doversi andare a cercare la sublimità laddove è sorella dell'atrocità; e la mia ambi­zione non proverebbe piacere alcuno se io volessi fare di me un sublime torturatore.

314.

Nuovi animali domestici. Voglio avere intorno a me i miei leoni e le mie aquile, onde poter avere in ogni momento segni e premonizioni e sapere quanto è grande o meno la mia forza. Forse che oggi devo abbassare lo sguardo su di loro e averne timore? E tornerà l'ora in cui essi alzeranno verso di me il loro sguardo tremebondo?

315.

Sull'ultima oretta. Le tempeste sono i miei pericoli: avrò anch'io la tem­pesta che mi farà perire, come Oliver Cromwell perì per la sua? O mi con­sumerò come un lumino che non è il vento a spegnere, ma che è ormai stanco, sazio di sé — un lumino che ha finito di ardere? O infine: sarò io a spegnermi per non finire di ardere?

316.

Uomini profetici. Voi non avete la sensazione che gli uomini profetici siano uomini molto sofferenti; pensate soltanto che sia loro concessa una bella «dote» e, certo, vorreste averla anche voi, — ma mi esprimerò con una parabola. Quanto debbono soffrire gli animali per l'elettricità dell'aria e delle nubi! Noi vediamo che alcuni di essi sono dotati di capacità profeti­che rispetto al clima, ad esempio le scimmie (la qual cosa si può osservare anche in Europa, e non soltanto nei serragli: si veda il caso di Gibilterra). Ma non pensiamo che ad essere profetici, per loro, siano i loro doloril Se una forte elettricità positiva si trasforma all'improvviso in elettricità nega­tiva per l'influenza di una nube che si sta avvicinando ma che non sarà an­cora visibile per lungo tempo e si prepara un cambiamento del tempo, que­sti animali si comportano come se si stesse avvicinando un nemico, e si di­spongono alla difesa o alla fuga: perlopiù si rimpiattano, — perché inten-

160 LA GAIA SCIENZA

dono il brutto tempo non come tempo, ma come un nemico di cui avverto­no già la mano!

317.

Sguardo retrospettivo. Raramente siamo coscienti del vero pathos che caratterizza ogni periodo della nostra vita, almeno finché ci restiamo, ma pensiamo sempre che esso costituisca l'unico stato possibile e ragionevole e che si tratti comunque di un ethos, non di un pathos — per parlare come i Greci e operare le loro stesse distinzioni. Alcune note musicali mi richia­mano adesso alla memoria una casa e un periodo estremamente eremitico della mia vita, insieme alla sensazione in cui allora vivevo, — di poter cioè vivere eternamente così. Ma adesso comprendo che era in tutto e per tutto pathos e passione, una cosa paragonabile a questa musica doloroso-corag-giosa e confortevole-sicura, che non si può avere per anni o addirittura per l'eternità: altrimenti si diverrebbe troppo «ultraterreni» per questo piane­ta.

318.

Saggezza nel dolore. Nel dolore c'è tanta saggezza come nel piacere, per­ché entrambi fanno parte delle energie di prim'ordine che attendono alla conservazione della specie. Se non lo fosse, sarebbe da lungo tempo scom­parso; il fatto che fa male non è un argomento contro di lui, perché è la sua essenza. Odo, nel dolore, il grido di comando del capitano della nave: «Ammainate le vele!». L'ardito navigante uomo deve aver imparato a di­sporre le vele in mille modi, altrimenti finirebbe anche troppo presto, e l'o­ceano Io inghiottirebbe in un baleno. Dobbiamo saper vivere anche con energie ridotte: non appena il dolore invia il segnale di sicurezza, è giunta l'ora di ridurle, e faremmo bene a «consumarne» il meno possibile. È vero che ci sono uomini che, all'avvicinarsi di un grande dolore, gridano esatta­mente il comando opposto e che non lanciano mai sguardi più superbi, bel­licosi e felici di quando si avvicina la tempesta; sì, è lo stesso dolore a pro­curare loro i momenti più grandi! Sono gli uomini eroici, i grandi portatori di dolore dell'umanità: quei pochi o quei rari per cui è necessaria la stessa apologia come per il dolore — e, davvero, non gliela si può negare! Sono energie di prim'ordine, quelle che conservano e promuovono la specie, fos-s'anche soltanto perché si oppongono agli agi e non nascondono la loro nausea per questo genere di felicità.

319.

Come interpreti delle nostre esperienze. Un tipo di rettitudine è rimasta estranea a tutti i fondatori di religione e ai loro simili: non hanno mai fatto delle loro esperienze vissute una questione di coscienza della conoscenza. «Che cosa ho vissuto, in realtà? Che cosa è accaduto in realtà in me e in­torno a me? La mia ragione era abbastanza chiara? La mia volontà era ri­volta contro tutti gli inganni dei sensi e valorosa nel difendersi dalla fanta­sia?» — nessuno di loro si è posto queste domande, e tutti i cari religiosi non se le pongono neppure ora: hanno semmai sete di quelle cose che sono contrarie alla ragione e non vogliono rendersi troppo difficile il dissetarsi, — ecco perché sperimentano «miracoli» e «rinascite» e odono le voci degli angioletti! Ma noi, noialtri, assetati di ragione, vogliamo vedere le nostre

LIBRO QUARTO. SANCTUS JANUAR1US 161

esperienze negli occhi con lo stesso rigore che dedicheremmo a un esperi­mento scientifico, ora dopo ora, giorno dopo giorno! Vogliamo essere noi stessi i nostri esperimenti e le nostre cavie.

320.

Rivedendosi. A.: «Ti capisco ancora? Tu cerchi? Dove sono il tuo ango­lo e la tua stella, in mezzo al mondo attuale? Dove puoi sdraiarti al sole, perché ti raggiunga una sovrabbondanza di benessere e la tua esistenza ri­sulti giustificata? Che ciascuno possa fare questo per se stesso — pare che tu mi stia dicendo — e togliersi di mente i discorsi generalizzati e le preoc­cupazioni per se stessi e per la società!». B.: «Io voglio di più, non sono uno che cerca. Io voglio crearmi il mio sole».

321.

Nuova cautela. Non pensiamo più tanto a punire, biasimare e migliora­re! Sarà difficile che riusciamo a cambiare un individuo e, qualora ci riu­scisse, forse inavvertitamente avremmo conseguito anche qualcos'altro, ovvero che anche noi siamo stati cambiati da lui! Cerchiamo piuttosto che la nostra personale influenza su quanto è ancora da venire controbilanci la sua e su di essa prevalga! Non ingaggiamo una lotta diretta, — come è im­plicito nei voler biasimare, punire e correggere. Innalziamoci invece tanto più in alto! Diamo al nostro modello colori sempre più accesi! Oscuriamo l'altro con la nostra luce! No! Non vogliamo, a causa sua, diventare noi stessi sempre più cupiy come tutti coloro che puniscono e sono insoddisfat­ti! Facciamoci da parte! Distogliamo lo sguardo!

322.

Parabola. Quei pensatori in cui tutte le stelle si muovono secondo orbite cicliche non sono i più profondi; chi guarda in se stesso come in un immen­so universo e porta in sé le sue vie lattee, sa anche quanto irregolari siano tutte le vie lattee; esse conducono fino nel caos e nel labirinto dell'esisten­za.

323.

Felicità nel destino. Il destino ci riserva la massima distinzione quando ci abbia lasciato combattere per un po' a fianco del nostro avversario. Con ciò siamo predestinati a una grande vittoria.

324.

In media vita. No! La vita non mi ha deluso! Di anno in anno la trovo semmai più vera, più desiderabile e più misteriosa: — dal giorno in cui ven­ne su di me il grande liberatore, il pensiero che la vita potesse essere un esperimento di chi è dedito alla conoscenza — e non un dovere, non una fatalità, non un inganno! E la conoscenza stessa: per altri può essere anche qualcosa di diverso, ad esempio un letto su cui riposare e la strada verso un letto, o un divertimento o un ozio, — per me essa è sempre un mondo di pericoli e vittorie, in cui anche i sentimenti eroici hanno un posto ove dan­zare e abbandonarsi all'ebbrezza. «La vita è uno strumento di conoscen-

162 LA GAIA SCIENZA

za»: con questo principio nel cuore, si può vivere non soltanto valorosa­mente, ma persino, allegramente, e ridere allegramentel E come si potreb­be ridere e vivere se non si sono conosciute guerra e vittoria?

325.

Che cosa pertiene alla grandezza. Chi raggiungerà qualcosa di grande se non sente in sé la forza e la volontà di infliggere grandi dolori? Saper sof­frire è il minimo: i maestri del genere sono spesso le donne deboli e gli schiavi. Ma non perire per la pena e l'insicurezza interiore quando si è in­flitta una grande sofferenza e si ode l'urlo di tale sofferenza: questo sì che è grande, questo pertiene alla grandezza.

326.

/ medici dell'anima e il dolore. Tutti i predicatori morali, come anche tutti i teologi, hanno in comune una mancanza di garbo: cercano di con­vincere i loro interlocutori che starebbero molto male e avrebbero bisogno di una cura dura e radicale. E poiché gli uomini, nel loro complesso, hanno teso l'orecchio a questi maestri con troppo zelo e per secoli e secoli, a lun­go andare parte della superstizione sul loro star male ha finito per trapas­sare davvero in loro: cosicché adesso sono anche troppo pronti a sospirare e a non trovare più niente nella vita e a metter su una faccia così afflitta da dare quasi l'impressione che la loro vita sia davvero intollerabile. In verità essi sono indomitamente sicuri della loro vita, innamorati della stessa e pieni di ineffabili astuzie e finezze per infrangerne gli elementi sgradevoli e togliere al dolore e all'infelicità le loro spine. Mi sembra che del dolore e dell'infelicità si parli sempre in modo esagerato, come se esagerare in que­sto campo fosse buona creanza: si tace invece coscienziosamente del fatto che esistono innumerevoli mezzi per alleviare il dolore, come i narcotici, o il febbrile susseguirsi dei pensieri, o una situazione tranquilla, o ricordi belli e brutti, intenzioni, speranze, e molti tipi di orgoglio o di simpatia, che hanno quasi l'effetto di un anestetico; mentre ai livelli più alti di dolore insorge autonomamente la perdita della coscienza. Sappiamo benissimo stillare dolcezze sulle nostre amarezze, soprattutto sulle amarezze dell'ani­ma; abbiamo un rimedio nella nostra prodezza e sublimità, nonché nei no­bili deliri della sottomissione e della rassegnazione. Una perdita rimane una perdita sì e no per un'ora: con essa, ci è come caduto dal cielo — an­che un dono, ad esempio una nuova forza, foss'anche soltanto l'opportu­nità di una nuova forza! Quanto hanno fantasticato, i predicatori morali, della «miseria» interiore degli uomini malvagi! Quanto ci hanno mentito sull'infelicità degli uomini passionali! Sì, mentire è proprio la parola giu­sta: perché erano perfettamente a conoscenza della ricchissima felicità di questo genere di uomini, ma l'hanno taciuta fino alla morte, essendo una confutazione della loro teoria, secondo la quale la felicità può nascere sol­tanto quando si annulla la passione e si mette a tacere la volontà! Infine, per quel che riguarda la ricetta di tutti questi medici di anime e la loro lo­de di una cura dura e radicale, ci sia permesso domandare: questa nostra vita è davvero tanto dolorosa e gravosa da poter essere vantaggiósamen­te scambiata con una maniera di vita e una pietrificazione stoica? Non ci sentiamo abbastanza male per doverci sentire male alla maniera degli stoici!

LIBRO QUARTO. SANCTUS JANUARIUS 163

327.

prendere sul serio. Nei più, l'intelletto è una macchina lenta, tenebrosa e cigolante, difficile da mettere in moto: essi dicono di «prendere la cosa sul serio» quando vogliono lavorare e pensare bene con questa macchina... oh, come deve essere loro gravoso il pensare bene! L'amabile bestia uomo pare perdere ogni volta il suo buonumore quando pensa bene; diventa «se­rio»! E «laddove sono riso e allegria, il pensiero non vale niente»: così suo­na il pregiudizio di questa bestia seria nei confronti di tutta la «gaia scien­za». Ebbene! Dimostriamo loro che si tratta di un pregiudizio.

328.

Danneggiare la stoltezza. Certo la fede nella riprovevolezza dell'egoi­smo, predicata con tanta ostinazione e convinzione, ha nel suo complesso danneggiato l'egoismo (a favore, come non mi stancherò mai di ripetere, dell'istinto del greggel), soprattutto perché gli ha tolto la sua buona co­scienza e ha cercato di vedere in lui la vera fonte di ogni infelicità. «Il tuo egoismo è la sventura della tua vita»; questa è stata per secoli la predica, che ha danneggiato notevolmente l'egoismo, togliendogli molto spirito, molta serenità, molta ingegnosità, molta bellezza: essa ha istupidito, im­bruttito e avvelenato l'egoismo! I filosofi dell'antichità, invece, additava­no altrove la fonte della sventura; da Socrate in poi i pensatori non si stan­carono mai di predicare: «La vostra incapacità di pensare e la vostra stol­tezza, il vostro continuare a vivere secondo le regole, la vostra subordina­zione all'opinione del vicino è il motivo per cui tanto di rado siete felici, — i più felici siamo noi pensatori, in quanto pensatori». Non vogliamo qui decidere se questa predica contro la stoltezza fosse più fondata di quella contro l'egoismo, ma certamente essa ha tolto alla stoltezza la sua buona coscienza: questi filosofi hanno danneggiato la stoltezza.

329.

Agi e ozio. C'è una selvatichezza indiana, propria del sangue indiano, nel modo in cui gli Americani aspirano all'oro: e il loro modo di lavorare, precipitoso e senza respiro — il vero vizio del nuovo mondo —, comincia già a contagiare e a inselvatichire la vecchia Europa, diffondendovi una sorprendentissima mancanza di spiritualità. Ci si vergogna già di riposarsi; riflettere a lungo provoca quasi rimorsi. Si pensa con l'orologio in mano, si mangia a mezzogiorno con gli occhi fissi sul bollettino di borsa, — si vi­ve di continuo come se ci «potesse sfuggire» qualcosa. «Meglio fare qual­cosa che niente»: anche questo principio è uno strumento per dare il colpo di grazia a ogni educazione, a ogni gusto elevato. Come del resto questa precipitazione nel lavoro sta visibilmente distruggendo tutte le forme: e co­sì perisce anche il senso stesso della forma, l'orecchio e l'occhio per la me­lodia dei movimenti. Lo dimostra la volgare chiarezza ormai richiesta ovunque, in tutte le situazioni in cui l'uomo vuol essere onesto con gli altri uomini, nei rapporti con gli amici, le donne, i parenti, i figli, gli insegnanti, i condottieri e i principi: non si ha più tempo né forza per le cerimonie, per quella cortesia che si serviva di giri viziosi, per tutto Vesprit della conversa­zione e, soprattutto, per tutto quello che è otium. Perché vivere alla caccia del profitto costringe costantemente a spendere il proprio spirito fino all'è-

164 LA GAIA SCIENZA

saurimento, in un costante fingere, ingannare o prevenire: la vera virtù sta nel fare qualcosa in meno tempo di un altro. E così ci sono soltanto poche ore di onestà consentita: in queste ore però si è stanchi, e si vorrebbe non soltanto «lasciarsi andare», ma anche distendersi pesantemente, in lungo e in largo. È seguendo questa inclinazione che si scrivono oggi le lettere, il cui stile e il cui spirito sarà sempre il vero «segno dei tempi». Se c'è ancora un piacere nella società e nelle arti, è un piacere quale possono prepararse­lo schiavi estenuati dalla fatica. Oh, questo lesinarsi la «gioia» da parte dei nostri uomini colti e incolti! Oh, questa crescente diffidenza nei confronti di ogni gioia! Tutta la buona coscienza è sempre più dalla parte del lavoro: l'inclinazione alla gioia si chiama già «bisogno di riposo» e comincia a ver­gognarsi di se stessa. «Ognuno è responsabile della sua salute», si dice quando si è sorpresi durante una gita in campagna. Davvero, si potrebbe presto giungere al punto in cui non sarà più possibile abbandonarsi alla vi­ta contemplativa (cioè all'andare a passeggio con pensieri e amici) senza un po' di disprezzo per se stessi e una cattiva coscienza. Ebbene! Un tempo accadeva il contrario: un uomo di buona famiglia nascondeva il fatto di la­vorare, quando proprio la necessità ve lo costringeva. Lo schiavo, nel lavo­rare, era costantemente in preda alla sensazione di fare qualcosa di sprege­vole: era lo stesso «fare» ad essere spregevole. «Distinzione e onore si ac­compagnano soltanto a otium e bellum»: questo diceva la voce dell'antico pregiudizio!

330.

Consenso. Il pensatore non necessita di consenso e applausi, a condizio­ne che sia certo del suo personale consenso: di questo però non può fare a meno. Ci sono uomini che possono fare a meno anche di questo, e comun­que di ogni genere di consenso? Ne dubito: e persino a proposito dei più saggi Tacito, che non è affatto un calunniatore dei saggi, dice che quando etiam sapientibus gloriae cupido novissima exuitur: il che per lui significa mai.

331.

Meglio sordo che assordato. Una volta si aspirava a far parlare di sé: og­gi questa non basta più, perché il mercato si è allargato troppo, — e si aspi­ra a far urlare. Ne consegue che anche le buone gole gridano troppo e le merci migliori sono offerte da voci roche: senza schiamazzi da mercato e raucedine non si dà più genio alcuno. Questa è davvero un'epoca malvagia per il pensatore: egli deve imparare a trovare ancora il suo silenzio tra due chiassi e a fingersi sordo finché non lo diventa. Finché non Io ha imparato, però, corre sicuramente il pericolo di morire di impazienza e di mal di te­sta.

332.

L'ora malvagia. È venuta certo per ogni filosofo quell'ora malvagia in cui ha pensato: che me ne importa se non credono neppure ai miei cattivi argomenti! E poi un qualche uccellino perfido gli è volato davanti cinguet­tando: «Che te ne importa? Che te ne importa?».

LIBRO QUARTO. SANCTUS JANUAR1US 165

333.

Che cosa significa conoscere. «Non ridere, non lugere, neque detestati, sed intelligere!», — dice Spinoza, nel modo semplice e sublime che gli è ti­pico. Nel frattempo: in che cosa differisce, in ultima analisi, questo intelli­gere dalla forma in cui appunto cominciamo a percepire questi tre fatti? Un risultato di questi istinti diversi e tra loro contrapposti, di voler scherni­re, deplorare, maledire! Perché sia possibile conoscere, occorre che ciascu­no di questi istinti abbia esposto la sua visione unilaterale della cosa o del­l'evento; nasce poi, fra queste unilateralità, un conflitto, e da questo a sua volta una mediazione, una pacificazione, un salvare la ragione di tutte e tre le parti, una specie di giustizia e di contratto; infatti in virtù della giustizia e del contratto tutti questi istinti possono affermarsi nell'esistenza e avere ragione tutti insieme. Di questo processo, alla nostra coscienza giungono soltanto le ultime scene di riconciliazione e gli accordi conclusivi, per cui pensiamo che intelligere sia qualcosa di riconciliante, di giusto, di buono, qualcosa di sostanzialmente opposto agli istinti; mentre in realtà si tratta semplicemente di un certo atteggiamento reciproco di quegli stessi istinti. Per lunghissimo tempo si è ritenuto che il pensiero consapevole fosse il pensiero per antonomasia; soltanto adesso ci balugina la verità, ovvero che la maggior parte della nostra vicenda spirituale si svolga inconsapevolmen­te, senza che noi lo percepiamo: io credo però che questi istinti conflittuali sappiano bene, tra loro, farsi percepire e anche farsi male: quello sfinimen­to violento e improvviso da cui sono afflitti tutti i pensatori potrebbe avere qui la sua origine (è Io sfinimento sul campo di battaglia). Sì, forse la lotta che si svolge nel nostro intimo comprende un po' d'eroismo, ma sicura­mente niente di divino o che riposi eternamente in se stesso, come intende­va Spinoza. Il pensiero consapevole, e soprattutto quello filosofico, è il meno vigoroso e quindi, in proporzione, anche il più mite e tranquillo: così proprio il filosofo è il più facile da trarre in inganno sulla natura della co­noscenza.

334.

Si deve imparare ad amare. Ecco che cosa ci accade nella musica: per prima cosa occorre imparare a udire una figura e una melodia, ad ascoltar­la, a distinguere, quasi si stesse isolando e delimitando una vita a sé; poi ci vogliono la pazienza e la buona volontà di sopportarla, nonostante la sua estraneità, di usare pazienza nei confronti del suo sguardo e della sua espressione e mitezza nei confronti dei suoi elementi insoliti; giunge infine il momento in cui ci abituiamo a lei, la attendiamo, presagiamo che, se ve­nisse a mancare, ne sentiremmo la mancanza; e così essa continua a eserci­tare la sua coercizione e il suo fascino, e non smette prima che siamo dive­nuti i suoi umili ed estasiati amanti, che dal mondo non vogliono nient'al-tro che lei, e ancora lei. Questo però non ci accade soltanto con la musica: proprio così abbiamo imparato ad amare tutte le cose che adesso amiamo. Veniamo sempre ricompensati, alla fin fine, per la nostra buona volontà, la nostra pazienza, equità, mitezza nei confronti di quanto ci è estraneo; l'estraneo infatti depone lentamente il suo velo e ci si rivela come nuova, ineffabile bellezza; è il suo ringraziamento per la nostra ospitalità. Anche chi ama se stesso avrà imparato a farlo in questo modo: non c'è altra stra­da. Anche l'amore va imparato.

166 LA GAIA SCIENZA

335.

Viva la fisica! Quanti sono gli uomini che sanno osservare? E tra quei pochi che lo sanno fare, — quanti osservano se stessi? «Ciascuno è lonta­nissimo da se stesso» — lo sanno, con loro grande disagio, tutti coloro che scrutano le viscere; e la massima «Conosci te stesso!» è quasi, rivolta al­l'uomo da un dio, una malvagità. Che l'introspezione sia una faccenda di­sperata, tuttavia, è testimoniato soltanto dal modo in cui quasi tutti parla­no dell'essenza di un'azione morale; questo modo affrettato, volenteroso, convinto, verboso, col suo sguardo, il suo sorriso, il suo zelo servizievole! Sembra che ti si voglia dire: «Caro mio, questo riguarda mei Stai rivolgen­do la tua domanda proprio a colui che può risponderti: si dà il caso che non ci sia campo in cui io sia più saggio. Allora: quando l'uomo giudica "questo è giusto" e ne conclude "perciò deve accadere", facendo quindi quanto ha riconosciuto giusto e definito necessario, — l'essenza della sua azione è moralel». Però, amico mio, tu mi vai parlando di tre azioni invece che di una: anche il tuo giudicare «questo è giusto», tanto per fare un esempio, è un'azione; non potrebbe anche il giudicare, a sua volta, essere morale o immorale? Perché ritieni che questo sia giusto o questo no? «Per­ché me lo dice la mia coscienza: la coscienza non parla mai in modo immo­rale, ed è la prima a determinare che cosa debba essere morale!» Ma per­ché ascolti la voce della tua coscienza? E in che misura hai diritto di consi­derare vero e infallibile un tale giudizio? Di questa fede — non c'è più co­scienza? Non sai niente di una coscienza intellettuale? Una coscienza dietro la tua «coscienza»? Il tuo giudizio «così è giusto» ha una preistoria nei tuoi istinti, nelle tue inclinazioni, avversioni, esperienze e non-esperienze; ti de­vi domandare «come è nato?», e poi ancora «che cos'è che mi spinge a dargli ascolto?». Tu puoi dare ascolto ai suoi ordini come un bravo solda­to che esegue gli ordini del suo ufficiale. O come una donna che ama colui che le impartisce gli ordini. O come un adulatore vigliacco che teme colui che impartisce gli ordini. O come uno stupido che esegue perché non ha niente in contrario. In breve, tu puoi dare ascolto alla tua coscienza in cen­tinaia di modi. Che tu percepisca questo o quel giudizio come lingua della coscienza, che tu senta qualcosa come giusto, può tuttavia dipendere dal fatto che non hai mai riflettuto su te stesso e hai sempre accettato cieca­mente quanto ti è stato indicato sin dall'infanzia come giusto; oppure dal fatto che sinora insieme a quelli che chiami i tuoi doveri — ti sonò sempre pervenuti pane e onori: ti sembra cioè «giusto» perché ti pare la tua «con­dizione esistenziale» (il tuo diritto all'esistenza ti risulta assolutamente in­confutabile!) La solidità del tuo giudizio morale potrebbe pur sempre esse­re una prova della tua miserabile situazione personale, della tua mancanza di personalità; la tua «forza morale» potrebbe essere originata dalla tua caparbietà — o dalla tua incapacità di guardare a nuovi ideali! E, per farla breve: se tu avessi pensato con maggiore finezza, osservato meglio e impa­rato di più, non chiameresti in nessun caso «dovere» e «coscienza», questo tuo «dovere» e questa tua «coscienza», perché la consapevolezza del modo in cui sono nati i giudizi morali ti farebbe passare la voglia di usare queste parole patetiche, come già non usi più altre parole patetiche, ad esempio «peccato», «salvezza dell'anima», «redenzione». E adesso non venirmi a parlare dell'imperativo categorico, amico mio!... Questa parola mi fa il solletico all'orecchio, e io debbo ridere, nonostante la serietà delle circo­stanze: il pensiero corre al vecchio Kant, il quale, a titolo di punizione per

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essersi carpito «la cosa in sé» — (anche questa espressione assai ridicola), — fu a sua volta carpito dall'«imperativo categorico» col quale, nel suo cuore, si smarrì nuovamente fino a giungere a «Dio», «anima», «libertà» e «immortalità», come una volpe che, smarrendosi, ritorna nella gabbia — ed erano state proprio la sua forza e la sua astuzia a permettergli di infran­gere quella gabbia! — Come? Tu ammiri l'imperativo categorico in te? Questa «solidità» del cosiddetto giudizio morale? Questo sentire «incondi­zionatamente» che «tutti debbono giudicare come giudico io?». In questo puoi semmai ammirare il tuo egoismo! E la cecità, la piccineria e la man­canza di pretese del tuo egoismo! È infatti egoismo percepire il proprio giudizio come legge universale; a maggior ragione un egoismo cieco, picci­no e senza pretese perché tradisce il fatto che tu non hai ancora scoperto te stesso né ti sei ancora creato un ideale tuo proprio: questo infatti non po­trebbe mai essere quello di un altro, figuriamoci poi di tutti, tutti! Chi giu­dica ancora che «in questo caso tutti dovrebbero agire così» non ha com­piuto neppure cinque passi sulla via della conoscenza di sé: altrimenti sa­prebbe che non ci sono né possono esserci azioni uguali; che ogni azione compiuta è stata compiuta in modo unico e irripetibile, e lo stesso dicasi di ogni azione ventura; che le norme dell'agire si riferiscono soltanto al vol­gare aspetto esteriore dell'agire stesso (e lo stesso vale per i precetti più ìnti­mi e raffinati di tutte le morali che si sono succedute sinora); che le azioni possono sì mostrare una parvenza di uguaglianza, ma niente di più che una parvenza', che ogni azione, che la si consideri in anticipo o retrospettiva­mente, è e rimane una cosa impenetrabile; che la nostra opinione di «buo­no», «nobile», «grande» non può mai essere dimostrata dalle nostre azio­ni, perché ogni azione è inconoscibile; che sicuramente le nostri opinioni, i nostri giudizi di valore e le nostre tavole di valori sono tra le leve più poten­ti nell'ingranaggio delle nostre azioni e purtuttavia la legge della loro mec­canica è, nel singolo caso, indimostrabile. Limitiamoci allora alla pulizia delle nostre opinioni e dei nostri giudizi di valore e alla creazione di tavole di valori che siano nuove e propriamente nostre, senza stare più a rimugi­nare sul «valore morale delle nostre azioni»! Sì, amici miei! È giunta l'ora di provare nausea per tutte le chiacchiere morali degli uni sugli altri! Isti­tuire tribunali morali ci deve sembrare contrario a ogni gusto! Lasciamo stare queste chiacchiere e questo cattivo gusto a coloro che non hanno nient'altro da fare se non trascinare il passato per un altro po' e che non sono mai presente — cioè ai molti, ai più! Noi però vogliamo divenire co­loro che siamo; — nuovi, unici, incomparabili, legislatori di noi stessi, creatori di noi stessi! E allora dobbiamo divenire i migliori nello scoprire quello che in questo mondo è regolato da leggi e necessario: dobbiamo es­sere fisici per poter essere, in quel senso, creatori; mentre sinora tutte le va­lutazioni e gli ideali erano costruiti sulla non conoscenza della fisica o in contraddizione con essa. E quindi: viva la fisica! E ancora di più quello che ci spinge verso di lei, — la nostra rettitudine!

336.

Avarizia della natura. Perché la natura è stata così avara verso l'uomo, perché non lo ha fatto risplendere, questo di più, quello di meno, a secon­da della sua luminosità interiore? Perché i grandi uomini non hanno, nel loro sorgere e tramontare, una bella visibilità come quella del sole? Vivere tra gli uomini sarebbe davvero meno equivoco!

168 LA GAIA SCIENZA

337.

L '«umanità» futura. Se guardo la nostra epoca con gli occhi di un'epoca lontana, non riesco a trovare nell'uomo di oggi niente di più straordinario di quella sua peculiare virtù e malattia denominata «senso storico». Con esso prende le mosse un qualcosa di totalmente nuovo e sconosciuto alla storia: se a questo seme si concedessero alcuni secoli e più, se ne potrebbe ricavare, alla fine, una pianta meravigliosa, con un profumo altrettanto meraviglioso, grazie alla quale la nostra vecchia terra diverrebbe più piace­vole da abitare di quanto non lo sia adesso. Noi del presente cominciamo per l'appunto a costituire la catena di un sentimento che in futuro sarà molto potente, un anello dopo l'altro, — sappiamo appena quel che stia­mo facendo. Ci sembra quasi che non si tratti di un nuovo sentimento, ma della rimozione di tutti i vecchi sentimenti: il senso storico è ancora qualco­sa di così povero e freddo, e molti ne sono aggrediti come dal gelo, diven­tando così ancora più poveri e freddi. Altri lo avvertono invece come il se­gno di un'età che si avvicina, e il nostro pianeta sembra loro un malato malinconico che, per dimenticare il suo presente, mette per iscritto la storia della sua gioventù. In effetti questo è un colore di questo nuovo sentimen­to: chi sa percepire tutta la storia dell'uomo come storia personale avverte anche, in virtù d'una generalizzazione enorme, tutto il cruccio del malato che pensa alla salute, del vecchio che pensa ai suoi sogni di gioventù, del­l'amante che è derubato dell'amato, del martire che vede affondare i suoi ideali, dell'eroe la sera della battaglia che non ha deciso niente e tuttavia gli ha inflitto ferite e la perdita dell'amico; ma sopportare, saper sopportare questa enorme somma di crucci d'ogni genere e tuttavia essere ancora l'e­roe che, allo spuntare di un secondo giorno di battaglia, saluta l'aurora e la propria felicità, in quanto uomo con davanti a sé e dietro a sé un orizzonte di millenni, in quanto erede di tutta la distinzione di tutto lo spirito passa­to, erede con i suoi obblighi, in quanto il più nobile di tutti i nobili dell'an­tichità e al contempo il primo di una nuova nobiltà, i cui pari nessuna epo­ca ha ancora veduto e sognato; e infine caricarsi tutto ciò in una sola ani­ma e condensarlo in un unico sentimento: questo dovrebbe procurare una felicità che l'uomo non ha ancora conosciuto, la felicità di un dio colmo di potenza e di amore, colmo di lacrime e di riso, una felicità che, come il sole a sera, continua a effondere nel mare doni tratti dalia sua inesauribile ric­chezza e che, come lui, si sente ricchissima soltanto quando anche il più povero dei pescatori rema con un remo d'oro! Questo sentimento divino si chiamerebbe allora — umanità!

338. La volontà di soffrire e coloro che compatiscono. Riuscite a tollerare il

fatto di essere soprattutto persone che compatiscono? E i sofferenti tolle­rano che voi lo siate? Ma tralasciamo per un attimo la risposta alla prima domanda. La fonte delle nostre sofferenze più personali e profonde è in­comprensibile e inaccessibile a quasi tutti gli altri: noi rimaniamo celati al prossimo, anche se mangiasse dal nostro stesso piatto. Laddove è notata, la nostra sofferenza è sempre interpretata in modo superficiale: l'affezione compassionevole vuole infatti che si spogli la sofferenza altrui di quegli elementi che le sono propriamente personali; sono i nostri «benefattori», più dei nostri nemici, a sminuire il nostro valore e la nostra volontà. La

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maggior parte delle buone azioni a favore degli infelici rivelano qualcosa di ributtante nella leggerezza intellettuale con la quale colui che compatisce recita la parte del destino: egli non sa niente dell'intimo intreccio e sequela che significano infelicità per me o per te! Tutta l'economia della mia anima e il suo pareggio ad opera dell'«infelicità», lo sgorgare di nuove sorgenti e bisogni, l'aprirsi di antiche ferite, lo scontro di interi passati — tutto ciò che può essere legato all'infelicità non preoccupa il caro compassionevole; egli intende aiutare e non pensa al fatto che l'infelicità può essere una ne­cessità personale; che io e te abbiamo tanto bisogno di orrori, privazioni, impoverimenti, mezzanotti, avventure, rischi, occasioni mancate quanto del loro contrario e che anzi, per esprimermi alla maniera dei mistici, il sentiero che porta al proprio paradiso passa sempre per la voluttà del pro­prio inferno. No, di tutto questo egli non sa niente: la «religione» della compassione (o «il cuore») ordina di aiutare, e si crede che aiutare meglio significhi aiutare il più rapidamente possibile! Se voi seguaci di questa reli­gione avete anche nei confronti di voi stessi lo stesso atteggiamento che mostrate nei confronti del prossimo, se non vi lasciate le vostre sofferenze neppure per un'ora e continuate a deviare ogni possibile infelicità già da lontano, se percepite ogni sofferenza e dispiacere come assolutamente cat­tivi, odiosi, degni di essere annientati, come una pecca dell'esistenza: allo­ra avete nel cuore, oltre alla vostra religione della compassione, anche un'altra religione, che forse di quella è madre: la religione della comodità. Ah, quanto poco sapete della felicità dell'uomo, voi che amate starvene comodi e in pace! Perché felicità e infelicità sono sorelle gemelle che o cre­scono insieme o, come nel vostro caso, rimangono piccolel Ma torniamo adesso alla prima domanda! Come è possibile rimanere sulla propria stra­da? C'è sempre un qualche grido che ci trascina da una parte; è raro che il nostro occhio non veda qualcosa per cui non sia necessario lasciare per un istante i nostri affari e accorrere. Io lo so bene: ci sono cento modi onore­voli e famosi per perdere la mia strada, modi altamente «morali»! Sì, le opinioni degli attuali predicatori morali della compassione arrivano addi­rittura ad affermare che per l'appunto questo e soltanto questo sia morale: smarrire la propria strada e accorrere a fianco del prossimo. So questo al­trettanto per certo: basta che io mi esponga soltanto alla vista di una vera necessità e sono anch'io perduto! E se un amico sofferente mi dice: «Vedi, io morirò presto; promettimi di morire con me» — glielo prometterei, allo stesso modo in cui la vista di quella piccola popolazione di montagna che combatte per la sua libertà mi indurrebbe a offrirle la mia mano e la mia vita, tanto per scegliere cattivi esempi di buone ragioni. Sì, esiste una mi­steriosa seduzione persino in tutto questo suscitare compassione e invocare aiuto: ma la «via che ci è propria» è troppo dura ed esigente e troppo lon­tana dall'amore e dalla gratitudine degli altri, — e noi non le sfuggiamo a malincuore, a lei e alla nostra coscienza, per rifugiarci nella coscienza degli altri, addentrandoci nel buon tempio della «religione della pietà». Non ap­pena scoppia una qualche guerra, anche nei più nobili di un popolo erom­pe sempre un desiderio, naturalmente tenuto nascosto: essi si gettano entu­siasti verso il nuovo pericolo di morte perché nel sacrificio per la patria cre­dono di poter finalmente trovare quel permesso tanto a lungo cercato, il permesso di evitare la propria meta: la guerra è per loro un circolo vizioso per il suicidio, ma un circolo vizioso compiuto con buona coscienza. E, seppure taccio qualcosa, non voglio qui tacere la mia morale, che mi dice: vivi nascosto, per poter vivere! Vivi ignorando quanto alla tua epoca pare essenziale! Poni fra te e l'oggi una corazza di almeno tre secoli! E il grido

170 LA GAIA SCIENZA

dell'oggi, il frastuono di guerre e rivoluzioni, ti giunga come un mormo­rio! Puoi anche voler aiutare, ma soltanto coloro di cui tu comprenda ap­pieno le necessità perché vi unisce una sola sofferenza e una sola speranza — i tuoi amici — e soltanto nel modo in cui aiuti anche te stesso: io voglio renderli più coraggiosi, più resistenti, più semplici, più lieti! Voglio inse­gnare loro quel che adesso soltanto pochi capiscono, e men che meno quei predicatori della compassione: la congioial

339.

Vita femina. Per vedere le ultime bellezze di un lavoro non basta tutto il sapere e tutta la buona volontà: occorrono rarissimi casi fortunati perché il velo di nubi che oscura queste vette possa dissiparsi e su di esse risplenda il sole. Per vederle, non solo dobbiamo trovarci nel posto giusto al momento giusto; occorre che sia stata la nostra anima a squarciare il velo su quelle vette, perché per trovare un sostegno e rimanere padrona di se stessa aveva bisogno di un'espressione e di un simbolo esteriore. È però così raro che tutto questo si verifichi simultaneamente, che potrei credere che le più alte vette di ogni bene, sia esso opera, azione, uomo, natura, siano finora rima­ste occultate e velate anche per i più: quello che ci si disvela, però, ci si di­svela una volta solai I Greci potevano anche pregare: «Che il bello sia an­che una seconda e una terza volta!». Ah, essi avevano un buon motivo per invocare gli dèi, perché la non divina realtà non ce lo concede neppure una volta, il bello! Io voglio dire che il mondo è sovraccarico di cose belle ma, nonostante ciò, è povero, poverissimo di momenti belli e di disvelamenti di queste cose. Eppure è forse proprio questo il più grande fascino della vita: su di lei aleggia un velo trapunto d'oro di belle possibilità, promettente, ri­troso, pudico, beffardo, compassionevole, seducente. Sì, la vita è una don­na!

340.

Socrate morente. Io ammiro la prodezza e la saggezza di Socrate in tutto quello che fece, disse — e non disse. Questo spirito maligno e ammaliatore di Atene, che faceva tremare e singhiozzare i giovani più tracotanti, non fu soltanto l'oratore più saggio che vi sia mai stato: fu altrettanto grande nel tacere. Vorrei che avesse taciuto anche nell'ultimo istante della sua vita; forse apparterrebbe allora a una categoria di spiriti ancora più elevata. Che fosse la morte o il veleno o la pietà o la malvagità: qualcosa gli sciolse in quell'istante la lingua, ed egli disse: «Critone, sono in debito d'un gallo ad Asclepio». Queste «ultime parole» ridicole e terribili significano, per chi ha orecchie: «Critone, la vita è una malattial». È mai possibile! Un uo­mo come lui, che aveva vissuto serenamente e sotto gli occhi di tutti, come un soldato, — era un pessimista! Aveva fatto soltanto buon viso alla vita e tenuto celato, per tutta la sua esistenza, il suo ultimo giudizio, il suo senti­mento più intimo! Socrate, Socrate aveva sofferto della vital E se ne era pure vendicato, con quelle parole occulte, atroci, devote e blasfeme! Possi­bile che Socrate dovesse anche vendicarsi? Nella sovrabbondanza della sua virtù, non c'era un granello di magnanimità in meno? Ah, amici miei! Dobbiamo superare anche i Greci!

LIBRO QUARTO. SANCTUS JANUARIUS 171

341.

// peso più grande. Che cosa accadrebbe se un giorno o una notte nella più solitaria delle tue solitudini si insinuasse un demone e ti dicesse: «Que­sta vita che vivi adesso e che hai vissuto, dovrai viverla ancora innumere­voli volte; e non ci sarà niente di nuovo, in essa, ma ogni dolore e ogni pia­cere e ogni pensiero e sospiro e tutto quello che in essa c'è di indicibilmente piccolo e grande deve tornare, e tutto nella stessa sequenza e successione — persino questo ragno e questo chiaro di luna tra gli alberi, e persino questo istante e io stesso. L'eterna clessidra dell'esistenza viene girata di continuo —, e tu con essa, infimo granello di polvere!». Non ti getteresti a terra e di­grigneresti i denti e malediresti il demone che parla così? O hai già vissuto un attimo di immensità in cui gli risponderesti: «Tu sei un dio, e mai ho udito parole più divine!». Se quel pensiero si impadronisse di te, come sei adesso, ti trasformerebbe, forse stritolandoti; la domanda «vuoi che tutto ciò accada ancora una volta, innumerevoli volte?» sarebbe il più grande peso mai gravato sul tuo agire! Oppure, quanto dovresti essere ben dispo­sto nei confronti di te stesso e della vita, per non desiderare nient'altro che quest'ultima, eterna conferma, questo sigillo?

342.

Incipit tragoedia. Quando Zarathustra ebbe trent'anni, abbandonò la sua patria e il lago di Urmi per recarsi sulle montagne. Qui godette del suo spirito e della sua solitudine, senza stancarsene per dieci anni. Infine però il suo cuore si trasformò, — e una mattina si levò all'aurora, si portò da­vanti al sole e gli disse: «Tu grande astro! Che cosa sarebbe la tua felicità se tu non avessi coloro che illumini! Per dieci anni sei venuto alla mia ca­verna; ne avresti a sufficienza della tua luce e di questo percorso, senza di me, la mia aquila e il mio serpente: ma noi ti attendevamo ogni mattina, prendevamo quel che ti era sovrabbondante e per questo ti benedicevamo. Vedi! Io ne ho abbastanza della mia saggezza, come un'ape che abbia rac­colto troppo miele; ho bisogno di mani che si protendano, vorrei donare e distribuire finché i saggi tra gli uomini non siano di nuovo lieti della loro follia e i poveri della loro ricchezza. Per far ciò devo guadagnare l'abisso, come fai tu la sera quando scendi dietro il mare e porti luce nel mondo sot­terraneo, tu astro ricchissimo! — Io debbo, come te, tramontare^ come di­cono gli uomini tra i quali voglio scendere. Benedicimi quindi, occhio pla­cido che riesce a guardare senza invidia e anche una felicità immensa! Be­nedici il calice che vuole traboccare affinché da lui fluisca acqua d'oro che porti per ogni dove il riflesso della tua gioia! Questo calice deve essere vuo­tato, e Zarathustra deve tornare uomo». Così ebbe inizio il tramonto di Zarathustra.

Libro quinto Noi senza paura

Carcasse, tu trembles? Tu trembleraìs bien davantage, si

tu savais, oùje te méne,

TURENNE

343.

Che cosa comporta per la nostra serenità. Il più grande evento recente — il fatto che Dio è morto, che la fede nel Dio cristiano è divenuta inattendi­bile — inizia già a gettare le sue prime ombre sull'Europa. Almeno per quei pochi i cui occhi, e la differenza che essi albergano, sono abbastanza forti e raffinati per questo spettacolo, sembra che per l'appunto sia tra­montato un qualche sole e che una qualche fiducia profonda e antica si sia trasformata in dubbio: a loro il nostro vecchio mondo giunge ogni giorno più vespertino, più sfiduciato, più estraneo, «più vecchio». Nel complesso però si può dire che quest'evento è di per sé troppo grande, troppo lonta­no, troppo in disparte dalle capacità di comprensione di molti perché si possa affermare che anche solo la sua notizia sia pervenuta; figuriamoci poi se molti potrebbero sapere che cosa esso comporti — e come debba crollare, una volta che sia stata seppellita questa fede, tutto ciò che su di essa era costruito, appoggiato, cresciuto: ad esempio tutta la nostra morale europea. Questa lunga pienezza e sequenza di demolizioni, distruzioni, tra­monti, crolli ormai imminenti: chi già oggi potrebbe indovinare tutto que­sto, recitando la parte del maestro e profeta di questa mostruosa logica dell'orrore e preannunziando un oscuramento e un'eclissi di sole di cui probabilmente sulla terra non si è mai visto l'uguale?... Persino noi, nati per sciogliere enigmi, che per così dire attendevamo sulle montagne, collo­cati fra l'oggi e il domani e partecipi della tensione, della contraddizione fra l'oggi e il domani, noi primogeniti e prematuri del secolo venturo, che dovremmo già scorgere le ombre che presto avvilupperanno l'Europa: da che cosa dipende che persino noi assistiamo a questo offuscamento senza una vera partecipazione e, soprattutto, senza preoccupazione e paura? Sia­mo forse ancora troppo soggetti alle conseguenze più immediate di questo evento — e queste immediate conseguenze, le sue conseguenze per noi, non sono assolutamente, a differenza di quanto ci si potrebbe aspettare, tristi e rabbuiami, ma costituiscono un nuovo genere, difficile da descrivere, di luce, felicità, sollievo, rasserenamento, incoraggiamento, aurora... In ef­fetti, noi filosofi e «spiriti liberi» ci sentiamo, alla notizia che il «vecchio Dio è morto», come sfiorati da una nuova aurora; il nostro cuore trabocca di gratitudine, stupore, presagi, attesa, — finalmente l'orizzonte ci sembra di nuovo libero, posto che non sia chiaro, finalmente le nostre navi posso­no riprendere il largo, verso ogni pericolo, agli uomini della conoscenza è di nuovo concesso ogni ardimento, il nostro mare, il mare aperto è di nuo­vo là, e forse non c'è mai stato un mare così «aperto».

LIBRO QUINTO. NOI SENZA PAURA 173

344.

ìn che misura siamo ancora devoti. Si dice, e a ragione, che nella scienza le convinzioni non hanno alcun diritto di cittadinanza: soltanto quando de­cidono di abbassarsi alla modestia di un'ipotesi, di un punto di vista speri­mentale e provvisorio, di una finzione normativa, si può loro concedere Paccesso e persino un certo valore all'interno del regno della conoscenza; ma sempre con la limitazione di essere sottoposte a un controllo di polizia, al controllo della sfiducia. A guardare le cose con maggiore attenzione, pe­rò, questo non significa forse che la convinzione può accedere alla scienza soltanto quando smette di essere convinzione? La disciplina dello spirito scientifico, non comincia forse col non permettersi più convinzioni?... Le cose stanno probabilmente così: rimane soltanto da domandarsi se, affin­ché questa disciplina possa avere inizio, non debba già essere presente una convinzione, così imperiosa e incondizionata da sacrificare tutte le altre convinzioni. Si sa che anche la scienza si basa su una fede, perché non esi­ste una scienza «priva di promesse». La domanda se la verità sia necessaria deve aver ricevuto in anticipo una risposta non soltanto affermativa, ma affermativa a tal punto da esprimere questo principio, questa fede, questa convinzione: «niente è più necessario della verità e, rispetto ad essa, tutto passa in secondo ordine». Questa incondizionata volontà di verità: che co­s'è? È la volontà di non lasciarsi ingannare'} È la volontà di non inganno-rei La volontà di verità potrebbe essere interpretata proprio in quest'ulti­mo modo: purché la generalizzazione «non voglio ingannare» comprenda anche il caso particolare «non mi voglio ingannare». Ma perché non ingan­nare? Perché non lasciarsi ingannare? Si noti che le motivazioni della pri­ma domanda rientrano in un ambito completamente diverso da quelle della prima: non ci si vuole lasciare ingannare perché si suppone che essere in­gannati sia dannoso, pericoloso, nefasto; in questo senso la scienza sareb­be una lunga astuzia, una cautela, un'utilità, alla quale si potrebbe però opporre un giusto rilievo: come? È vero che non lasciarsi ingannare sia me­no dannoso, meno pericoloso, meno nefasto: che ne sapete, a priori, sul carattere dell'esistenza, per poter decidere se i vantaggi maggiori siano dal­la parte di chi è incondizionatamente sfiduciato o di chi è incondizionata­mente fiducioso? Nel caso però in cui siano entrambe necessarie, molta fi­ducia e molta sfiducia: donde potrebbe allora trarre la scienza la sua fede incondizionata, la sua convinzione, che è anche il suo fondamento, che la verità sia più importante di qualsiasi altra cosa, anche di qualsiasi altra convinzione? Proprio questa convinzione non potrebbe essere nata se veri­tà e non-verità si fossero dimostrate costantemente come entrambe neces­sarie: e le cose stanno proprio così. Ma allora la fede nella scienza, che è decisamente incontestabile, non può essere stata originata da un simile cal­colo di utilità, ma semmai dal fatto che la «volontà di verità», di «verità a qualsiasi costo», si è dimostrata sempre più inutile e pericolosa. «A qual­siasi costo»: lo comprendiamo bene, se abbiamo offerto e sacrificato su questo altare una fede dopo l'altra! Di conseguenza «volontà di verità» non significa «io mi voglio lasciar ingannare» ma — non c'è altra scelta — «non voglio ingannare, neppure me stesso»: — e perveniamo così sul terre­no della morale. Basti infatti porsi questa domanda di fondo: «perché non vuoi ingannare?», soprattutto quando dovrebbe esservi la parvenza — e c'è questa parvenza! — che la vita sia costruita sulla parvenza stessa, vo­glio dire su errore, imbroglio, contraffazione, accecamento, autoacceca-

174 LA GAIA SCIENZA

mento, e che d'altro canto proprio la grande forma della vita si sia sempre mostrata dalla parte dei più irriflessivi notfipoizoi. Un tale proposito po­trebbe forse essere, interpretato benevolmente, un donchisciottismo, una piccola, esaltata pazzia; potrebbe però essere anche qualcosa di peggio, ov­vero un principio distruttivo ostile alla vita... «Volontà di verità»: potreb­be essere una celata volontà di morte. Così la domanda «perché la scien­za?» ci riconduce al problema morale: perché mai una morale, se vita, na­tura, storia sono «immorali»? Non c'è dubbio che il vero, nel senso teme­rario e ultimo della parola presupposto dalla fede nella scienza, affermi un mondo diverso da quello della vita, della natura e della storia; e nella misu­ra in cui esso afferma questo «altro mondo», come? Non deve di conse­guenza negare il suo contrario, questo mondo, il nostro mondo?... Eppure si sarà capito dove voglio spingermi, cioè ad affermare che anche la nostra fede nella scienza si basa sempre su una fede metafisica; che anche noi uo­mini della conoscenza di oggi, noi senza dio e antimetafisici, traiamo sem­pre il nostro fuoco dall'incendio appiccato da un millennio di fede antica, quella fede cristiana che era anche la fede di Platone per cui Dio è la verità e la verità è divina... Ma come, se questo diventa sempre più incredibile, se niente più si rivela divino tranne l'errore, la cecità, la menzogna, — se Dio stesso si rivela come la nostra menzogna più lunga?

345.

Morale come problema. La mancanza di individualità si vendica ovun­que: una personalità fiacca, sottile, spenta, che nega e rinnega se stessa non è buona a niente, — figuriamoci se è buona per la filosofia, ^«altrui­smo» non ha valore né in cielo né in terra; i grandi problemi esigono tutti il grande amore, e di questo sono capaci soltanto gli spiriti forti, pieni, sicu­ri, che poggiano saldamente su se stessi. C'è una sensibile differenza tra un pensatore che si pone in modo personale rispetto ai suoi problemi, tanto da avere in essi il suo destino, la sua necessità e anche la sua migliore felicità, e uno che li affronti «impersonalmente», cercando cioè di toccarli e affer­rarli con le antenne del pensiero freddo e curioso. In quest'ultimo caso, per quanto promettente, non si viene a capo di niente: i grandi problemi infat­ti, posto che si lascino afferrare, non si lasciano trattenere da uomini inver­tebrati e debolucci, perché questo è ab aeterno il loro gusto, — che per in­ciso coincide con quello di tutte le donne valenti. Come può essere dunque che io non abbia ancora incontrato nessuno, neppure nei libri, che si sia posto di fronte alla morale come persona, che abbia riconosciuto nella mo­rale un problema e in questo problema la sua necessità, angoscia, voluttà, passione personale? Evidentemente la morale finora non è stata un proble­ma; era anzi proprio il punto in cui, dopo tutta la sfiducia, i dissidi, le con­traddizioni, si giungeva a un accordo, il luogo sacro della pace, dove i pen­satori riposavano anche da se stessi, tiravano un respiro di sollievo, ripren­devano a vivere. Non vedo nessuno che abbia osato una critica dei giudizi morali di valore; sento che mancano, in tal senso, persino i tentativi dettati dalla curiosità scientifica, dalla viziata fantasia sperimentale dello psicolo­go e dello storico, che spesso prevengono un problema e lo afferrano in vo­lo senza sapere con esattezza che cosa abbiano afferrato. A malapena ho rinvenuto alcuni sparuti accenni per iniziare una storia della nascita di que­sti sentimenti e giudizi di valore (cosa ben diversa da una critica degli stessi e ancora diversa da una storia dei sistemi etici); in un determinato caso ho fatto di tutto per incoraggiare una tendenza e un'attitudine verso questo ti-

LIBRO QUINTO. NOI SENZA PAURA 175

po di storia — invano, mi pare di capire. Questi storici della morale (so­prattutto inglesi) hanno poca importanza: sono anch'essi soggetti, inno­centemente, a una certa morale e, senza saperlo, ne costituiscono gli scu­dieri e il seguito; con quella superstizione popolare sempre così fedelmente ripetuta dell'Europa cristiana per cui caratteristici dell'azione morale sono l'altruismo, la negazione di sé, il sacrificio di sé, oppure la pietà e la com­passione. Essi commettono solitamente l'errore di presupporre un certo consenso dei popoli, quanto meno dei popoli mansueti, su certi princìpi della morale, e nel dedurne una obbligatorietà incondizionata, anche per te e me; oppure, viceversa, di dedurre la non obbligatorietà di ogni morale dopo essersi imbattuti nella verità, che cioè le valutazioni morali sono ne­cessariamente diverse nei diversi popoli: e sono entrambi ragionamenti in­fantili. L'errore dei più raffinati tra loro è quello di scoprire e criticare le opinioni forse folli di un popolo sulla sua morale o degli uomini su tutta la morale umana, quindi sulla sua origine, sulla sanzione religiosa, sulla su­perstizione del libero arbitrio e via discorrendo, credendo così di aver criti­cato la morale stessa. Ma il valore di un precetto «tu devi» è ancora fonda­mentalmente diverso e indipendente da siffatte opinioni che lo riguardano e dalla malerba dell'errore che forse lo soffoca: allo stesso modo in cui ai fini dell'efficacia di un certo medicamento è perfettamente irrilevante che il malato abbia opinioni scientifiche sulla medicina o la pensi come una vecchia megera. Una morale potrebbe essere persino nata da un errore: ma anche questo punto di vista non arriverebbe neppure a sfiorare il problema del suo valore. — Così finora nessuno ha ancora saggiato il valore della più celebre di tutte le medicine, detta morale: e a tal fine è necessario, in primissimo luogo, — metterlo in discussione. Orbene! È questo il nostro lavoro.

346.

Il nostro punto interrogativo. Ma non lo capite? In effetti può essere dif­ficile capirci. Noi siamo alla ricerca di parole; siamo forse anche alla ricer­ca di orecchie? Chi siamo, tuttavia? Se volessimo definirci semplicemente con le espressioni un po' vecchiotte di senza dio o infedeli o anche immora­listi, saremmo ancora lontani dal crederci identificati: ci troviamo infatti, rispetto a tutte e tre, in uno stadio troppo avanzato perché si possa credere, perché voi possiate credere, signori curiosi, come uno si senta. No! Basta con l'amarezza e la sofferenza di chi è lacerato, di chi deve escogitare a partire dalla sua mancanza di fede un'altra fede, un'altra meta, persino un martirio! Noi siamo strabollitì nell'idea, e in essa divenuti freddi e duri, che le cose nel mondo non vadano assolutamente in maniera divina, ma neppure in maniera umanamente ragionevole, misericordiosa o giusta: sappiamo che il mondo in cui viviamo è non-divino, immorale, «disuma­no»; — l'abbiamo interpretato troppo a lungo in modo falso e menzogne­ro, ma secondo il desiderio e la volontà della nostra venerazione, cioè se­condo un bisogno. Perché l'uomo è un animale venerante! Ma anche diffi­dente: e il fatto che il mondo non abbia quel valore che avevamo creduto è approssimativamente la cosa più sicura di cui la nostra sfiducia si sia final­mente impossessata. Tanta sfiducia, tanta filosofia. Ci guardiamo bene dal dire che ha meno valore: ci sembra ridicolo che l'uomo pretenda di trovare valori che possano superare il valore del mondo reale, giacché proprio da questo ci siamo ritratti, considerandolo un aberrante smarrimento della vanità e dell'irragionevolezza umana a lungo non riconosciuto come tale.

176 LA GAIA SCIENZA

Ha avuto la sua ultima espressione nel pessimismo moderno e una più ami-ca e più forte nella dottrina del Buddha; lo contiene anche il cristianesimo, certamente in modo più dubbioso e ambiguo, ma non per questo meno se­ducente. L'attitudine «uomo contro mondo», l'uomo come principio «rin­negante il mondo», l'uomo come misura di tutte le cose, come giudice dei mondi che mette sulla bilancia l'esistenza stessa e la trova troppo leggera: abbiamo preso coscienza della mostruosa mancanza di gusto di questa atti­tudine, che ci pare ripugnante; già ridiamo quando troviamo «uomo e mondo» collocati l'uno accanto all'altro, separati dalla sublime arroganza della congiunzione «e»! Ma come! Non è proprio così che noi uomini del riso abbiamo fatto solo un passo avanti nel disprezzo dell'uomo? E anche nel pessimismo, nel disprezzo dell'esistenza a noi conoscibile? Non è pro­prio così che è sorto in noi il sospetto che esistesse un contrasto, un contra­sto fra il mondo in cui sinora eravamo di casa, con le nostre venerazioni, e un altro mondo, costituito da noi stessi: un sospetto inesorabile, sostanzia­le, estremo su noi stessi, che sempre di più e sempre più duramente si impa­dronisce di noi Europei e potrebbe facilmente porre le generazioni a venire di fronte a questo terribile aut-aut: «demolite le vostre generazioni oppure — voi stessil». Quest'ultimo sarebbe nichilismo, ma non sarebbe nichili­smo anche il primo? È questo il nostro punto interrogativo.

347.

/ credenti e il loro bisogno di fede. Quanto una persona, per prosperare, abbia bisogno di una fede, quanto di «solidità», che non vuole subisca scosse, perché vi si regge: questo è l'indicatore della sua forza (o, per parla­re più chiaramente, della sua debolezza). Mi pare che del cristianesimo, nella vecchia Europa, i più abbiano ancora bisogno: ecco perché esso con­tinua a trovare chi gli presta fede. Perché l'uomo è fatto così: un principio di fede potrebbe essergli confutato anche mille volte, ma se ne avesse biso­gno, continuerebbe a ritenerlo vero, conformemente a quella famosa «pro­va di forza» di cui parla la Bibbia. Alcuni hanno ancora bisogno di metafi­sica; ma anche quell'impetuoso desiderio di certezza che oggigiorno ampie masse scaricano in modo scientifico-positivistico, il desiderio di voler asso­lutamente avere qualcosa di solido (mentre l'ardore di questo anelito fa sì che se la prendano comoda per quel che riguarda la fondazione di questa sicurezza): è pur sempre il desiderio di un sostegno, di un puntello, che in realtà non crea religioni, metafisiche, convincimenti d'ogni genere, — ma li conserva. Di fatto intorno a tutti questi sistemi positivisti aleggia la cali­gine di un certo incupimento pessimistico, un non so che di stanchezza, fa­talismo, delusione, timore di nuove delusioni — oppure collera manifesta, cattivo umore, anarchismo dello sdegno e tutti gli altri sintomi o maschere esistenti per la debolezza. Lo stesso zelo con il quale i nostri contempora­nei più assennati si perdono in cantucci miserabili e angusti, ad esempio le fanfaronate patriottiche (come io definisco quel che in Francia è detto chauvinisme e in Germania deutsch), oppure le ristrette professioni di fede estetica alla maniera del naturalisme parigino (che della natura preleva e mette a nudo soltanto ciò che provoca nausea e stupore al tempo stesso, componente che oggi si ama definire la verité vraie...), oppure nel nichili­smo di stampo pietroburghese (ovvero fa fede nella mancanza di fede\ fino al martirio per la stessa), testimonia sempre il primissimo luogo l'esigenza di fede, sostegno, spina dorsale, punto d'appoggio... La fede è sempre massimamente desiderata e urgentissimamente necessaria laddove sussiste

LIBRO QUINTO. NOI SENZA PAURA 177

una mancanza di volontà: perché è la volontà, in quanto stato d'animo del comando, il segno distintivo dell'autodominio e della forza. Ciò significa che quanto meno uno sa comandare, tanto più desidererà qualcuno che co­mandi, comandi severamente: Dio, principe, ceto sociale, medico, padre confessore, dogma, coscienza di partito; dalla qual cosa si potrebbe forse dedurre che le due religioni mondiali, il buddhismo e il cristianesimo, po­trebbero essere nate e aver conosciuto una diffusione così improvvisa pro­prio a causa di una mostruosa malattia della volontà. E le cose sono andate davvero così: entrambe le religioni trovarono un desiderio di «tu devi» che una malattia della volontà aveva innalzato sino all'assurdo e portato alla disperazione; entrambe le religioni furono maestre di fanatismo all'epoca dell'infiacchimento della volontà, offrendo così a innumerevoli persone un sostegno, una nuova possibilità di volere, un gusto del volere. Il fanatismo è infatti l'unica «forza di volontà» a cui possano essere condotti anche i deboli e gli insicuri, in quanto giunge quasi a ipnotizzare tutto il sistema in­tellettuale sensoriale in favore di un nutrimento sovrabbondante (ipertro­fia) di un determinato modo di vedere e di sentire dominante: il cristiano lo chiama la sua fede. Laddove un uomo giunge alla convinzione fondamen­tale di dover ricevere ordini, diviene credente: in caso contrario sarebbe pensabile una voglia e una forza di autodeterminazione, una libertà della volontà in presenza delle quali uno spirito prende commiato da ogni fede e da ogni desiderio di certezza, abituato com'è a tenersi a funi e possibilità lievi, continuando a danzare anche sull'orlo dell'abisso. Un tale spìrito sa­rebbe lo spirito libero par excellence.

348.

Sull'origine degli eruditi. In Europa l'erudito nasce da ceti e condizioni sociali d'ogni genere, come una pianta che non abbia bisogno di nessun terriccio specìfico: ecco perché fa parte, costituzionalmente e involontaria­mente, degli alfieri del pensiero democratico. Ma questa origine si indovi­na. Se si è esercitato lo sguardo a riconoscere, in un libro erudito o in un trattato scientifico, Vidiosincrasia intellettuale dell'erudito — ogni erudito ne possiede — e a coglierla sul fatto, si scorgeranno quasi sempre, dietro di essa, la preistoria dell'erudito, la sua famiglia e in particolare le professio­ni e i mestieri che vi erano svolti. Quando trova espressione la sensazione che «questo è ormai dimostrato, con questa cosa sono a posto», ci si trova quasi sempre davanti a un antenato del sangue e degli istinti dell'erudito che benedice, dal suo punto di vista, il «lavoro fatto» (la fede nella dimo­strazione è soltanto un sintomo di quello che fin dall'antichità, in una ge­nerazione laboriosa, è stato considerato un «buon lavoro». Un esempio: i figli di archivisti e scrivani d'ogni genere, il cui compito principale è sem­pre stato quello di mettere ordine in una gran quantità di materiale, distri­buirlo nei vari cassetti e soprattutto schematizzarlo, dimostreranno, qualo­ra divengano eruditi, una predisposizione a considerare i problemi quasi ri­solti una volta che li abbiano schematizzati. Ci sono filosofi i quali, in fon­do, sono soltanto teste schematiche — in loro l'elemento formale del lavo­ro paterno si è fatto contenuto. Il talento a classificare e a ideare tavole di categorie tradisce qualcosa: non si può essere impunemente figli dei propri genitori. Il figlio di un avvocato dovrà essere avvocato anche da ricercato­re; egli vorrà in primo luogo vincere le cause e forse, in secondo luogo, an­che avere ragione. I figli di ecclesiastici protestanti e insegnanti si ricono­scono dall'ingenua sicurezza con cui, da eruditi, danno per dimostrate le

178 LA GAIA SCIENZA

loro opinioni purché siano state esposte calorosamente: essi sono inoltre abituati ad essere creduti, perché ciò faceva parte del «mestiere» dei loro padri! Viceversa un ebreo, data la sua sfera di attività e le vicissitudini del suo popolo, è pochissimo abituato ad essere creduto: lo si nota subito negli eruditi ebrei, che attribuiscono tutti grande importanza alla logica, cioè al-l'estorsione del consenso mediante ragioni; essi sanno che debbono vince­re, persino dove esiste una ripugnanza razziale e di classe contro di loro, dove quindi si preferirebbe non prestare loro fede. Non esiste infatti niente di più democratico della logica: essa non conosce il riguardo personale e prende per diritti anche i nasi più ricurvi. (Sia detto per inciso: proprio in riferimento alla logicizzazione, alla maggior purezza delle abitudini menta­li, l'Europa è debitrice di non pochi ringraziamenti agli Ebrei; e in primis i Tedeschi, razza deplorevolmente deraisonnable, che continua a necessitare di grandi «lavate di capo». Dovunque sia pervenuta la loro influenza, gli Ebrei hanno insegnato a distinguere più da lontano, a tirare conclusioni più acute, a scrivere in modo più chiaro e pulito: si sono sempre posti il compito di portare un popolo «alla raison».)

349.

Ancora sull'origine degli eruditi. Voler conservare se stessi è l'espressio­ne di una situazione di emergenza, una limitazione del vero istinto fonda­mentale della vita, il quale tende all'ampliamento del potere e, in questa sua volontà, mette abbastanza spesso in discussione, sacrificandola, l'au-toconservazione. È per esempio sintomatico che alcuni filosofi, ad esempio il tisico Spinoza, vedessero, dovessero vedere proprio nell'istinto di auto­conservazione l'elemento decisivo: erano uomini in una situazione di emer­genza. Il fatto che le moderne scienze naturali si siano impigliate a tal pun­to nel dogma di Spinoza (l'ultimo caso, e il più grossolano, è quello del darwinismo, con la sua teoria inconcepibilmente unilaterale della «lotta per l'esistenza») dipende probabilmente dalle origini della maggior parte degli scienziati: essi appartengono, da questo punto di vista, al «popolo»; i loro antenati erano gente povera e meschina, che conosceva anche troppo da vicino la difficoltà di tirare avanti. Da tutto il darwinismo inglese alita l'aria soffocante della sovrappopolazione inglese, l'odore di necessità e ri­strettezza della gente meschina. Eppure, in quanto scienziati, si dovrebbe abbandonare il proprio cantuccio umano: e in natura non predomina la necessità, ma la sovrabbondanza, lo spreco, fino all'assurdo. La lotta per l'esistenza è soltanto un'eccezione, una temporanea restrizione della vo­lontà di vivere; la lotta grande e piccina ruota ovunque intorno al sovrap­peso, alla crescita e alla diffusione: cioè intorno alla potenza, conforme­mente a quella volontà di potenza che costituisce la stessa volontà di vive­re.

350.

A onore degli homines religiosi. La lotta contro la chiesa è fra l'altro — perché essa ha molteplici significati — anche la lotta delle nature più co­muni, soddisfatte, fiduciose e superficiali contro il predominio di uomini più gravi, profondi e contemplativi, cioè più cattivi e diffidenti, i quali coi loro lunghi sospetti sul valore dell'esistenza avevano messo in dubbio an­che il proprio valore: l'istinto comune del popolo, la sua capacità di trarre piacere dai sensi, il suo «buon cuore» si ribellò contro di loro. Tutta la

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chiesa romana poggia su una diffidenza di stampo meridionale nei con­fronti della natura dell'uomo, sempre fraintesa dal settentrione: in tale dif­fidenza il Sud europeo ha fatto sua l'eredità del lontano Oriente, dell'anti­chissima Asia misteriosa e della sua contemplazione. Già il protestantesi­mo costituisce una sollevazione popolare in favore degli elementi onesti, fedeli, superficiali (il Nord è sempre stato più bonario e piatto del Sud); ma soltanto la rivoluzione francese ha messo definitivamente e solennemente lo scettro in mano al «buon uomo» (la pecora, l'asino, l'oca e tutto ciò che è inguaribilmente piatto e schiamazzante e maturo per il manicomio delle «idee moderne»).

351. A onore delle nature sacerdotali. Io penso che proprio i filosofi si siano

sempre sentiti lontanissimi da quanto il popolo intende per saggezza (e chi non è «popolo», al giorno d'oggi?), quella tranquillità astuta e bovina, quella devozione e quella mitezza da curato di campagna che se ne sta cori­cata sul prato e osserva la vita con gravità, continuando a ruminare; — probabilmente perché non erano abbastanza «popolo», non erano abba­stanza curati di campagna. Forse saranno anche gli ultimi a credere che il popolo potrebbe capire qualcosa di quanto gli è lontanissimo, la grande passione dell'uomo della conoscenza, che deve vivere costantemente nella nube temporalesca dei problemi più elevati e delle responsabilità più gravo­se (quindi non certo osservando dal di fuori, in modo indifferente, sicuro, obiettivo...). Al contrario il popolo, quando pensa a un «saggio» ideale, venera un uomo completamente differente, e ha mille volte ragione a riser­vare i suoi migliori onori e le sue migliori parole proprio a questo genere di uomo: si tratta di quelle nature sacerdotali miti, candide, serie e caste, e di quanto è loro affine: a costoro il timore reverenziale che il popolo riserva alla saggezza tributerà sempre ogni lode. A chi altri il popolo avrebbe ra­gione di mostrare gratitudine se non a costoro, che gli appartengono e so­no figli suoi, ma come consacrati, eletti, sacrificati per il suo stesso bene — essi stessi infatti si credono offerti in sacrificio a Dio —, davanti ai quali esso può impunemente scuotere il suo cuore, liberandosi così dei suo segre­ti, delle sue preoccupazioni e dei suoi elementi peggiori (infatti l'uomo che «si apre» si libera di se stesso e chi ha «confessato» dimentica). Qui domi­na una grande necessità: anche per la sporcizia dell'anima c'è bisogno di canali di scolo e di acqua pura che la ripulisca; c'è bisogno di impetuose correnti d'amore e di cuori forti, umili e puri, che si rendano disponibili e si sacrifichino per un tale servizio sanitario non pubblico: perché è un sa­crificio, un sacerdote è e rimane una vittima dell'uomo... Il popolo perce­pisce questi uomini gravi, resi silenziosi e sacrificati come saggi, cioè dive­nuti sapienti, «sicuri» con riferimento alla propria insicurezza: chi potreb­be togliergli la parola e questa venerazione? Ma, come d'altro canto è giu­sto, per i filosofi un sacerdote è sempre «popolo» e non un sapiente, so­prattutto perché essi stessi non credono ai sapienti e proprio in questa fede e superstizione fiutano il «popolo». Fu proprio la modestia a inventare, in Grecia, la parola «filosofo» e a lasciare agli attori dello spirito la magnifi­ca tracotanza di definirsi saggi, la modestia di colossi di orgoglio e autodo­minio del calibro di Pitagora e Platone.

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352. In che misura la morale è pressoché indispensabile. L'uomo nudo è ge­

neralmente, per gli Europei, una vista scandalosa (e non parlo neppure del­le Europee!). Supponiamo che la più gaia tavolata si vedesse improvvisa­mente, per la perfidia di un mago, disvelata e spogliata: io credo che non soltanto il buonumore se ne andrebbe, ma si sarebbe anche scoraggiato il più robusto appetito, — perché pare che noi Europei non riusciamo asso­lutamente a fare a meno di quella maschera che si chiama abbigliamento. Ma non dovrebbe avere motivi altrettanto buoni il travestimento degli «uo­mini morali», il loro rivestirsi di formule morali e concetti di decenza, tut­to questo benevolo nascondere le nostre azioni dietro i concetti di dovere, virtù, senso comune, onorabilità, abnegazione? Non che io supponga che si debbano mascherare l'umana malvagità e infamia, in breve l'animale selvaggio e cattivo dentro di noi; penso al contrario che offriamo una vista scandalosa e abbiamo bisogno di un travestimento morale proprio in quan­to animali mansueti; che l'«uomo interiore», in Europa, è lungi dall'essere abbastanza cattivo per potere «farsi vedere in giro» con questa cattiveria (ed essere bello). L'Europeo adotta un travestimento morale perché è dive­nuto un animale malato, morboso, storpio, che ha buoni motivi per essere «mansueto», essendo quasi un aborto, una via di mezzo, debole, sgrazia­to... Non è la spaventosità dell'animale feroce ad aver bisogno di un trave­stimento morale, ma l'animale che vive nel gregge, con la sua profonda mediocrità, la sua paura e la sua noia di se stesso. La morale ripulisce l'Eu­ropeo — ammettiamolo! — facendo di lui un qualcosa di più distinto, si­gnificativo, rispettabile, «divino».

353.

Sull'origine delle religioni. La vera invenzione dei fondatori di religioni è quella di avviare un determinato modo di vita e di costumi quotidiani che agisce come disciplina voluntatis e, al contempo, bandisce la noia; inoltre quella di dare, di questa stessa vita, un'interpretazione in virtù della quale essa appare circonfusa del valore supremo, che diviene così un bene per il quale si lotta e per il quale, a seconda delle circostanze, si dà la vita. A dire il vero di queste due invenzioni quella essenziale è la seconda: generalmen­te la prima, il modo di vita, esisteva già, ma accanto ad altri, e senza co­scienza del valore in esso insito. Il significato, l'originalità del fondatore di religioni emergono generalmente dal fatto che egli lo vede, Io seleziona, in­dovina per primo a che fine usarlo e come interpretarlo. Gesù (o Paolo) si trovò davanti alla vita della povera gente della provincia romana: la inter­pretò, vi infuse il più alto senso e valore, — e con essi il coraggio di di­sprezzare ogni altro modo di vivere, il tranquillo fanatismo dei custodi del Signore, la misteriosa e sotterranea fiducia in se stessi, che cresce sempre di più fino ad essere pronta a «conquistare il mondo» (cioè Roma e i ceti più elevati di tutto l'impero). Buddha, a sua volta, si trovò davanti, sparpa­gliati in tutti i ceti e le classi sociali del suo popolo, quel genere di uomini che per pigrizia sono buoni e bonari (soprattutto inoffensivi) e che, sempre per pigrizia, vivono facendo astinenza, quasi senza bisogni; capì come que­sti uomini dovessero inevitabilmente, con tutta la loro vis inertiae, rotolare in una fede che promettesse di prevenire il ritorno delle pene terrene (cioè soprattutto del lavoro e dell'azione), — il suo genio sta tutto in questa

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comprensione. I fondatori di religioni sono caratterizzati dall'infallibilità psicologica nel capire un determinato tipo di anime, che costituiscono la media e che pure non si sono ancora riconosciute come affini. È lui a met­terle insieme: la fondazione di una religione si trasforma così sempre in una lunga festa di riconoscimento.

354. Sul «genio della specie». Il problema della coscienza (più esattamente

del prendere coscienza di sé) ci si presenta soltanto quando cominciamo a comprendere quanto possiamo farne a meno: a questo inizio di compren­sione ci conducono oggi la fisiologia e la storia degli animali (che hanno avuto bisogno di due secoli per riafferrare il sospetto che già era balenato a Leibnitz). Potremmo infatti pensare, sentire, volere, ricordare, potremmo persino «agire», in ogni senso della parola: eppure non c'è bisogno che tut­to ciò «affiori alla coscienza», come si dice figurativamente. Tutta la vita sarebbe possibile anche se non ci si guardasse, per così dire, allo specchio: e certamente anche la nostra vita pensante, senziente, volente, per quanto ciò possa suonare offensivo per un filosofo di epoche precedenti. A che serve, orbene, la coscienza, se per la cosa principale si rivela superflua! A me sembra, se si vuol prestare ascolto alla mia risposta a questa domanda e alla sua supposizione forse bizzarra, che la finezza e la forza della coscien­za siano sempre in rapporto con l'abilità comunicativa di un uomo (o ani­male) e che l'abilità comunicativa a sua volta sia in rapporto col bisogno di comunicare: senza intendere quest'ultima cosa come se l'uomo, che è un maestro nel comunicare e nel rendere comprensibili i suoi bisogni, dovesse anche per i suoi bisogni fare perlopiù assegnamento sugli altri. Eppure mi pare che le cose stiano proprio così, per intere razze e catene di generazio­ni: laddove il bisogno e la necessità abbiano lungamente costretto gli uomi­ni ad aprirsi, a esercitare una rapida e raffinata comprensione reciproca, l'energia e l'arte di comunicare si sono poi rivelate sovrabbondanti, come un patrimonio che sia stato accumulato gradualmente e non aspetti altro se non un erede che lo dissipi (questi eredi sono i cosiddetti artisti, e con loro gli oratori, i predicatori, gli scrittori, tutti uomini che giungono sempre al­la fine di una lunga catena, ogni volta «nati in ritardo», nel senso migliore della parola, e, come abbiamo detto, dissipatori di natura). Posto che que­st'osservazione sia giusta, posso procedere alla supposizione che la co­scienza si sia sviluppata soltanto sotto la pressione del bisogno di comuni­cazione, — che inizialmente la sua utilità fosse limitata ai rapporti tra uo­mo e uomo (in particolare tra chi comandava e chi ubbidiva) e che si sia sviluppata anche in rapporto al grado di questa utilità. La coscienza è in realtà soltanto una rete di comunicazione tra uomo e uomo, e si è dovuta sviluppare soltanto in quanto tale: se fosse stato un eremita o un animale da preda, l'uomo non ne avrebbe avuto bisogno. Il fatto che le nostre azio­ni, pensieri, sentimenti, movimenti — o quanto meno parte di essi — per­vengano alla nostra coscienza, è la conseguenza di una terribile «necessità» che ha lungamente governato l'uomo: egli aveva bisogno, essendo l'anima­le più esposto ai pericoli, di aiuto e protezione; aveva bisogno dei suoi pari; doveva esprimere la sua necessità e farsi capire: per tutto questo aveva in primo luogo bisogno della «coscienza», cioè di «sapere» egli stesso che co­sa gli manca, qua! è il suo stato d'animo, di «sapere» che cosa pensa. Lo ripetiamo ancora una volta: l'uomo, come ogni creatura vivente, pensa di continuo, ma non lo sa: il pensiero che diviene cosciente è soltanto una mi-

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nima parte, la più superficiale, la peggiore: perché soltanto questo pensiero cosciente si realizza in parole, cioè in segni comunicativi che rivelano l'ori­gine della stessa comunicazione. In breve, l'evoluzione della lingua e l'evo­luzione della coscienza {non la ragione, ma soltanto il suo prendere co­scienza di sé) vanno di pari passo. Si aggiunga che a fungere da ponte fra uomo e uomo non c'è soltanto la lingua, ma anche lo sguardo, la pressio­ne, i gesti: il prendere coscienza delle nostre impressioni sensoriali, la forza di poterle fissare e di collocarle, per così dire, fuori di noi, sono aumentate proporzionalmente alla necessità di trasmetterle ad altri per mezzo di se­gni. Il mio pensiero è quindi evidentemente questo: che la coscienza non appartiene tanto all'esistenza individuale dell'uomo quanto agli elementi di comunità e di gregge presenti nella sua natura; che, come ne consegue, essa si è sviluppata soltanto in riferimento all'utilità della comunità e del gregge e che quindi ciascuno di noi, pur con la migliore buona volontà di capirsi il più individualmente possibile, di «conoscere se stesso», porterà sempre alla propria coscienza soltanto i suoi elementi non individuali, quello che in lui c'è di «medio»; che il nostro stesso pensiero è costante­mente adeguato alla maggioranza dal carattere stesso della coscienza — da quel genio della specie che in essa opera — e ritradotto nella prospettiva del gregge. Le nostre azioni sono in fondo tutte incomparabilmente perso­nali, uniche, illimitatamente individuali, non c'è dubbio; ma non appena le traduciamo nella coscienza, non lo sembrano più... Questo è il vero feno­menalismo e prospettivismo, come lo intendo io: la natura della coscienza animale comporta che il mondo di cui dobbiamo prendere coscienza sia soltanto un mondo superficiale, di segni, un mondo generalizzato e volga­rizzato; — che tutto ciò di cui prendiamo coscienza divenga proprio per questo altrettanto piatto, privo di spessore, relativamente stupido, genera­le, segno, segno distintivo del gregge; che a ogni coscienza sia legata una grande, fondamentale corruzione, falsificazione, superficializzazione e ge­neralizzazione. Il progredire della coscienza è inoltre un pericolo; chi viva tra gli Europei più coscienti sa persino che è una malattia. Come si può in­dovinare, non è la contrapposizione di soggetto e oggetto a interessarmi: questa differenziazione la lascio ai teorici della conoscenza che sono rima­sti impigliati nelle maglie della grammatica (la metafisica del popolo). Non è neppure la contrapposizione di «cosa in sé» e fenomeno: poiché siamo ben lungi dal «conoscere» abbastanza per poter eseguire anche differenzia­zioni così semplici. Non abbiamo neppure un organo per la conoscenza, per la «verità»: noi «sappiamo» (o crediamo o immaginiamo) esattamente quel tanto che può essere utile nell'interesse del gregge degli uomini, della specie; e persino quel che andiamo definendo «utilità» è in ultima analisi soltanto un atto di fede, di immaginazione e forse proprio quella funestis­sima stoltezza che un giorno ci manderà in malora.

355.

L'origine del nostro concetto di «conoscenza». Traggo questa spiegazio­ne dalla strada; ho udito un uomo del popolo dire «non mi ha riconosciu­to» e mi sono domandato: che cosa intende in realtà il popolo quando si parla di conoscenza? Che cosa quando dice di voler «conoscere»? Nient'al-tro che questo: ricondurre ogni elemento estraneo a qualcosa di noto. E noi filosofi — abbiamo mai inteso, parlando di conoscenza, qualcosa di più! II noto, cioè qualcosa a cui siamo abituati, cosicché non ce ne meravi­gliamo più, il nostro quotidiano, una specie di regola in cui ci nascondia-

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mo, ogni cosa e tutto ciò in cui ci sentiamo di casa: — come? Anche il no­stro bisogno di conoscenza, non è proprio questo un bisogno di noto, la volontà di scoprire, sotto tutti gli aspetti estranei, insoliti, dubbi, qualcosa che ci tranquillizzi? Non sarà questo istinto di paura a spingerci alla cono­scenza? L'esultanza di chi conosce non sarà proprio l'esultanza del ritrova­to senso di sicurezza?... Questo filosofo immaginava di aver «conosciuto» il mondo, quando lo ebbe ricondotto alla «idea»: ah, non lo era proprio perché l'«idea» gli era così nota e abituale? Perché l'«idea» gli faceva tan­to meno paura? Oh, come si accontentano facilmente gli uomini della co­noscenza! Lo si vede del resto dai loro princìpi e dalle loro soluzioni agli enigmi del mondo! Se nelle cose, tra le cose, dietro le cose ritrovano qual­cosa che purtroppo ci è molto noto, ad esempio la tavola pitagorica o la nostra logica o la nostra volontà e il nostro desiderio, quanto ciò li rende subito felici! Perché «ciò che è noto è conosciuto»: su questo sono tutti d'accordo. Anche i più cauti tra loro sono dell'idea che il noto sia quanto meno più facile da conoscere dell'ignoto; ad esempio sarebbe metodologi­camente proibito prendere le mosse dal «mondo interiore», dai «fatti della coscienza», perché essi costituiscono il mondo a noi più noto\ Errore degli errori! 11 noto è l'abituale, e l'abituale è difficilissimo da «conoscere», cioè da vedere come problema da considerare estraneo, lontano, «fuori di noi»... La grande sicurezza delle scienze naturali in rapporto alla psicolo­gia e alla critica degli elementi della coscienza — scienze innaturali, si do­vrebbe quasi dire — è fondata proprio sul fatto che scelgono quale loro og­getto l'estraneo: mentre volere scegliere quale oggetto il non-estraneo è quasi contraddittorio e assurdo...

356.

In quale misura l'Europa diverrà sempre più «artistica». La previdenza della vita impone ancora adesso — in questo periodo di transizione, in cui tante cose cessano di essere coercitive — a molti Europei di sesso maschile un ruolo ben preciso, la loro cosiddetta professione; ad alcuni rimane la li­bertà, una libertà apparente, di scegliere questo ruolo; ai più accade invece che qualcun altro scelga per loro. Il risultato è abbastanza strano; quasi tutti gli Europei si confondono, a una certa età, col loro ruolo; divengono essi stessi vittime del loro «buon gioco»; hanno dimenticato quanto il caso, l'umore, l'arbitrarietà disposero di loro quando fu decisa la loro «profes­sione» e quanti altri ruoli avrebbero forse potuto recitare: ormai è troppo tardi! Andando più in profondità, si potrebbe dire che il ruolo è divenuto carattere e l'arte natura. Ci sono state epoche in cui si credeva con profon­da fiducia e addirittura con devozione nella propria predestinazione a que­sto determinato mestiere, a questo determinato modo di guadagnarsi il pa­ne, e ci si rifiutava ostinatamente di individuarvi ogni caso, ruolo, arbitra­rietà: con l'aiuto di questa fede ceti, corporazioni, privilegi ereditari relati­vi al mestiere sono riusciti a innalzare quei mostri di torri sociali che carat­terizzano il Medioevo e, delle quali, una resta comunque degna di lode: la capacità di durare (e sulla terra la durata è un valore di prim'ordine!). Ma ci sono epoche di carattere contrario, quelle davvero democratiche, in cui questa fede si affievolisce sempre più e si fa avanti una fede ardita, il punto di vista opposto, quella fede degli Ateniesi che fu notata per la prima volta durante l'epoca di Pericle, quella fede degli Americani di oggi che vuol di­venire sempre più anche la fede degli Europei: dove il singolo è convinto di saper fare quasi tutto, di essere dXY altezza di quasi ogni ruolo; dove ognu-

184 LA GAIA SCIENZA

no tenta con se stesso, improvvisa, tenta di nuovo, tenta con piacere; dove ogni natura cessa e diventa arte... È noto che i Greci, — non appena entra­ti in questa fede dei ruoli, — subirono, passo dopo passo, una metamorfo­si straordinaria e non sotto ogni punto di vista degna di essere imitata: di­vennero davvero attori e, in quanto tali, esercitarono un tale fascino da conquistare tutto il mondo e, infine, la stessa «conquistatrice del mondo» (perché è stato il Graeculus histrio a conquistare il mondo e non, come amano dire gli innocenti, la cultura greca...). Ma quel che io temo, quel che ancora oggi si può toccare con mano, nel caso si avesse voglia di allun­gare le mani in quella direzione, è il fatto che noi uomini moderni siamo già in tutto e per tutto sulla medesima strada; e ogni volta che l'uomo co­mincia a scoprire in che misura egli recita un ruolo e in che misura egli può essere un attore, diviene attore... Insorge così una nuova flora e fauna umana, che non potrebbe crescere in epoche più solide e limitate — se non costrette a rimanere «sotto», messe al bando e sospettate di infamia —: giungono così ogni volta le epoche più interessanti e pazze della storia, i cui veri signori sono gli «attori», gli attori di ogni genere. Tutto ciò con pre­giudizio sempre più profondo di un altro genere di uomini, per i quali la vi­ta si fa impossibile, soprattutto i grandi «costruttori»: la forza costruttiva è infatti paralizzata, come viene meno ogni coraggio di fare piani a lunga scadenza e cominciano a mancare i geni organizzativi; chi osa ormai intra­prendere opere al cui completamento sarebbero necessari millenni? Muore proprio quella fede fondamentale sulla base della quale soltanto si può cal­colare, promettere, anticipare programmandolo il futuro e sacrificandolo ai propri piani a tal punto che l'uomo risulta aver valore soltanto nella mi­sura in cui deve essere, in primo luogo, solido, deve essere «pietra»... So­prattutto non — attore! In breve — ah, si tacerà ancora abbastanza a lun­go! — quel che da adesso non si costruisce più uè può più essere costruito è una società nel senso pieno della parola: per erigere questo edificio manca tutto, in primo luogo il materiale. Noi tutti non siamo più materiale per una società: è giunto il momento di riconoscere questa verità! Mi sembra indifferente che, intanto, gli uomini più miopi, fors'anche più onorevoli ma comunque più chiassosi che esistano oggi, i nostri signori socialisti, cre­dano, sperino, sognino e soprattutto gridino e scrivano il contrario: la pa­rola chiave del loro futuro, «società libera», si legge già su tutti i tavoli e su tutti i muri. Società libera? Sì! Sì! Ma sapete, signori miei, con che cosa si costruisce? Con ferro di legno! Col famoso ferro di legno! E neppure poi di legno...

357.

Sull'annoso problema: «che cos'è tedesco»! Si rifletta sulle tante con­quiste del pensiero filosofico dovute a teste tedesche: possono essere ascrit­te, in un qualche senso che sia lecito, anche a credito di tutta la razza? Pos­siamo dire che sono al contempo opera delP«anima tedesca», quanto me­no un suo sintomo, nel senso in cui siamo abituati a intendere, ad esempio, l'ideomania di Platone, il suo quasi religioso delirio delle forme come pro­dotto e testimonianza dell'anima greca? O sarà vero il contrario? Non sa­ranno invece individuali, l'eccezione rispetto allo spirito della razza, come ad esempio il paganesimo di Goethe vissuto con la coscienza tranquilla? Oppure il machiavellismo bismarkiano dei Tedeschi, la cosiddetta Realpo­litik, anch'esso vissuto con la coscienza tranquilla? I nostri filosofi non contraddiranno invece proprio i bisogni più autentici dell'anima tedesca?

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In breve, i filosofi tedeschi erano davvero filosofi tedeschi! Ricordo tre ca­si. In primo luogo l'incomparabile impostazione di Leibnitz che gli dette ragione non solo contro Descartes ma contro tutti coloro che avevano filo­sofato prima di lui: il fatto cioè che la coscienza è soltanto un accidens del­la rappresentazione, non il suo attributo necessario ed essenziale, e che quindi ciò che noi definiamo coscienza è soltanto uno stato dei mondo del nostro spirito e della nostra anima (forse uno stato morboso) ed è ben lun­gi dal coincidere con esso. Orbene, in questo pensiero, la cui profondità non è ancora stata esaurita, c'è forse qualcosa di tedesco? C'è un motivo per presupporre che un latino non si sarebbe facilmente imbattuto in que­sto rovesciamento dell'apparenza? — Perché di un rovesciamento si tratta. Ricordiamo, in secondo luogo, l'enorme segno interrogativo che Kant scrisse accanto al concetto di «causalità»; non che, come Hume, ne avesse messo in dubbio i diritti, ma cominciò comunque a delimitare il regno al­l'interno del quale questo concetto può avere senso (e a tutt'oggi non si è ancora finito di tracciare questo confine). Prendiamo poi, in terzo luogo, il piglio stupefacente con cui Hegel aggredì tutte le consuetudini e i vizi della logica, osando insegnare che i concetti di specie si sviluppano l'uno dall'al­tro: con questo principio gli spiriti d'Europa furono preparati all'ultimo grande movimento scientifico del continente, il darwinismo, perché senza Hegel niente Darwin. Orbene, in questo rinnovamento hegeliano, che ha introdotto per primo nella scienza il concetto decisivo di «evoluzione», c'è forse qualcosa di tedesco? Sì, senza alcun dubbio: in tutti e tre i casi, sen­tiamo «scoperto» e indovinato qualcosa di noi stessi, e siamo grati e al contempo sorpresi di riconoscere in ciascuno di questi tre princìpi un note­vole frammento di autocoscienza, autoesperienza, autoconcezione tedesca. «Il nostro mondo interiore è molto più ricco, vasto, nascosto»: così sentia­mo, con Leibnitz; in quanto tedeschi dubitiamo, con Kant, della validità ultima della conoscenza cui approdano le scienze naturali e comunque di ogni cosa che sia conoscibile causaliter: il conoscibile ci sembra, in quanto tale, un valore già più esiguo. Noi Tedeschi saremmo hegeliani anche se non ci fosse mai stato un Hegel, nella misura in cui (a differenza di tutti i latini) attribuiamo istintivamente al divenire, all'evoluzione un significato più profondo e un valore più ricco di quanto non facciamo con ciò che «è» — quasi non crediamo che il concetto di «essere» sia giustificato — ; anche perché non siamo inclini a concedere che la nostra logica umana sia la logi­ca in sé, l'unico tipo di logica (vorremmo semmai convincerci che ne sia soltanto un caso particolare, e forse uno dei più straordinari e stupidi). Ci sarebbe una quarta domanda, ovvero se anche Schopenhauer col suo pessi­mismo, vale a dire il problema del valore dell'esistenza, dovesse essere ne­cessariamente tedesco, lo non credo. L'evento dopo il quale c'era da aspet­tarsi con sicurezza che sopravvenisse questo problema, tanto che un astro­nomo dell'anima avrebbe potuto calcolarne giorno e ora, ovvero il tra­monto della fede nel dio cristiano, la vittoria dell'ateismo scientifico, è un evento comune a tutta l'Europa, per il quale tutte le razze possono vantare la loro quota di meriti e onori. Viceversa ai Tedeschi — quei Tedeschi di cui Schopenhauer fu contemporaneo — andrebbe imputato proprio il fatto di aver ritardato nel modo più lungo e pericoloso possibile questa vittoria dell'ateismo; il suo ritardatore par excellence fu proprio Hegel, conforme­mente al grandioso tentativo da lui compiuto di convincerci della divinità dell'esistenza, non ultimo con l'aiuto del nostro sesto senso, il «senso stori­co». Schopenhauer, come filosofo, è stato il primo ateo dichiarato e infles­sibile che noi tedeschi abbiamo avuto: ecco il perché della sua ostilità nei

186 LA GAIA SCIENZA

confronti di Hegel. La non divinità dell'esistenza gli pare qualcosa di dato, palpabile, indiscutibile; perdeva immancabilmente la sua assennatezza di filosofo e cadeva in preda all'ira quando vedeva qualcuno indugiare e fare giri di parole a questo proposito. Qui sta tutta la sua rettitudine: un atei­smo incondizionatamente onesto è precondizione essenziale del suo modo di affrontare il problema, in quanto vittoria definitiva e assai sofferta della coscienza europea, in quanto l'atto più ricco di conseguenze di un'educa­zione di duemila anni alla verità la quale, alla fine, si proibisce la menzo­gna della fede in Dio... Come si vede, a sconfiggere davvero il Dio cristia­no è stata, in ultima analisi, la stessa morale cristiana, il concetto di veridi­cità inteso in modo sempre più rigoroso, la finezza da padri confessori del­la coscienza cristiana, tradotta e sublimata in coscienza scientifica, in puli­zia intellettuale ad ogni costo. Vedere la natura come se fosse una prova della bontà e della protezione di Dio; interpretare la storia in onore di una ragione divina, come costante testimonianza di un ordine morale del mon­do e di finali intenzioni morali; spiegare le proprie esperienze come le han­no a lungo spiegate i devoti, come se tutto fosse disposizione, tutto cenno, tutto pensato e predeterminato per amore della salvezza dell'anima: tutto ciò è ormai finito y ha contro di sé ogni coscienza, perché ogni coscienza più raffinata lo trova indecoroso, disonorevole, una menzogna, roba da don­nicciole, debolezza, vigliaccheria — con questo rigore, se non altro, siamo buoni Europei ed eredi del più lungo e valoroso autosuperamento che si sia mai dato in Europa. Non appena respingiamo in tal guisa l'interpretazione cristiana e giudichiamo il suo «senso» una falsificazione, ci imbattiamo su­bito, spaventosamente, nella domanda di Schopenhauer: ma l'esistenza ha un senso! — E ci vorranno almeno un paio di secoli per poter anche solo percepire completamente questa domanda, in tutta la sua profondità. La risposta data dallo stesso Schopenhauer alla sua domanda è — chiedo ve­nia — alquanto affrettata e giovanile, un semplice accomodamento, un ri­manere fermi e bloccati in quella stessa prospettiva morale ascetico-cristia-na idi fede nella quale era stata congedata insieme con la fede in Dio... È stato comunque lui a. porre questa domanda, in quanto buon Europeo, co­me abbiamo detto, e non in quanto tedesco. O forse i Tedeschi hanno di­mostrato, perlomeno con il modo in cui si sono impossessati della doman­da di Schopenhauer, la loro intima adesione e affinità, la loro preparazio­ne, il loro bisogno del suo problema? Il fatto che dopo Schopenhauer an­che in Germania — peraltro abbastanza tardi! — si sia pensato e stampato sul problema da lui sollevato, non basta certamente a decidere in favore di questa adesione; si potrebbe invece ritenere una prova contraria la stessa inettitudine che caratterizza questo pessimismo post-schopenhaueriano, dove è evidente che i Tedeschi non si sentissero proprio nel loro elemento. E non mi riferisco assolutamente a Eduard von Hartmann; al contrario, nessuno ha ancora dissipato ii mio dubbio di vecchia data secondo il quale egli sarebbe troppo abile per noi, un furbo matricolato che non solo si è preso gioco sin dall'inizio del pessimismo tedesco, — ma che alla fine avrebbe potuto persino «lasciare in eredità» ai Tedeschi la sua capacità di canzonarli proprio nell'epoca della fondazione del Reich. Ma mi doman­do: si deve forse ascrivere a onore dei Tedeschi quella vecchia trottola di Bahnsen, che con grande voluttà si è rigirato per tutta la vita intorno alla sua miseria dialettico-reale e alla sua «sfortuna personale», — sarà proprio questo ad essere tedesco? (Raccomando peraltro di usare i suoi scritti come ho fatto io stesso, in senso antipessimistico, soprattutto in virtù delle sue elegantiae psychologicae, con le quali mi pare si possano convincere anche

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i corpi e le anime più otturati.) O forse si dovrebbero annoverare tra i veri Tedeschi dilettanti e vecchie zitelle come Mainlànder, il dolciastro apostolo della verginità? Alla fin fine sarà stato un ebreo (tutti gli Ebrei diventano dolciastri, quando fanno del moralismo). Né Bahnsen, né Mainlànder, né Eduard von Harmann contribuiscono a rispondere con certezza alla do­manda se il pessimismo di Schopenhauer, il suo sguardo atterrito in un mondo divenuto privo di Dio, stupido, cieco, pazzo e dubbio, il suo since­ro terrore... non costituisca, lungi da essere un'eccezione rispetto ai Tede­schi, un evento tedesco: mentre tutto quello che per il resto si trova in pri­mo piano, la nostra prode politica, il nostro allegro amor di patria, che de­cisamente osservano tutte le cose basandosi su un principio poco filosofico {«Deutschland, Deutschland ùber alles»), cioè sub specie speciei, soprat­tutto ì&species tedesca, testimonia con grande chiarezza il contrario. No! I Tedeschi di oggi non sono pessimisti! E Schopenhauer, vogliamo ripeterlo ancora una volta, era un pessimista in quanto buon Europeo e non in quanto tedesco.

358.

La rivolta contadina dello spirito. Noi Europei ci troviamo davanti a un immenso mondo di macerie, in cui alcune cose svettano ancora, molte ri­mangono in piedi, fatiscenti e inquietanti, ma la maggior parte sono già a terra, in modo abbastanza pittoresco — dove si sono mai date rovine più belle? — e ricoperte di erbacce grandi e piccine. Questa città del tramonto è la chiesa: vediamo la società religiosa del cristianesimo scossa fino al punto più basso delle sue fondamenta; la fede in Dio è precipitata, la fede nell'ideale ascetico-cristiano sta ancora combattendo la sua ultima batta­glia. Un'opera come il cristianesimo, la cui costruzione fu lunga e accurata — si tratta dell'ultimo edificio romano! — non poteva andare distrutta tutta in una volta; doveva essere scossa da terremoti d'ogni genere; doveva contribuirvi ogni genere di spirito, che trivella, scava, inchioda, inonda. Ma la cosa più sorprendete è questa: i suoi distruttori sono divenuti pro­prio coloro che si sono maggiormente impegnati per sorreggere e mantene­re il cristianesimo, i Tedeschi. Sembra che i Tedeschi non capiscano l'es­senza di una chiesa. Non sono abbastanza spirituali? La costruzione di una chiesa si basa comunque su una libertà e una liberalità di spirito tutte meri­dionali, e parimenti su una diffidenza meridionale nei confronti degli uo­mini e un'esperienza degli uomini completamente diverse da quelle avute al Nord. La Riforma luterana fu, in tutta la sua estensione, l'indignazione della semplicità contro qualcosa di «molteplice»; per parlare con cautela, fu un'ingenua, grossolana incomprensione, in gran parte da perdonare: non si comprendeva l'espressione di una chiesa vittoriosa e si vedeva sol­tanto corruzione, si fraintendeva la nobile scepsi, quel lusso di scepsi e tol­leranza che ogni potenza vincitrice e sicura di sé può concedersi... Oggi si ha una visione abbastanza ampia del fatto che Lutero, in tutte le questioni cardinali del potere, ebbe un'impostazione fatalmente concisa, superficia­le, incauta, soprattutto in quanto uomo del popolo al quale mancavano l'eredità di una casta dominante e ogni istinto di potere: cosicché la sua opera, la sua volontà di ripristinare quell'edificio romano divenne, senza che egli lo volesse e lo sapesse, soltanto l'inizio di un'opera di distruzione. Egli disfece e lacerò, con ira sincera, laddove il vecchio ragno aveva tessuto con la massima cautela e lentezza. Consegnò a tutti le Sacre Scritture — es­se finirono così nelle mani dei filologi, cioè dei distruttori di ogni fede che

188 LA GAIA SCIENZA

si fondi sui libri. Gettando alle ortiche ogni fede nell'ispirazione dei conci­li, egli distrusse il concetto di chiesa: questo concetto infatti mantiene la sua forza soltanto partendo dal presupposto che lo spirito ispiratore che l'ha fondata continui a vivere. Restituì al sacerdote il rapporto sessuale con la donna: ma tre quarti del timore reverenziale di cui il popolo e so­prattutto la donna del popolo è capace si fonda sulla fede che un uomo ec­cezionale a questo riguardo sarà un'eccezione anche sotto altri punti di vi­sta: è questo l'avvocato più fine e capzioso della fede popolare per cui nel­l'uomo ci sarebbe qualcosa di sovrannaturale, il miracolo del Dio redento­re. Lutero dovette togliere al sacerdote, dopo avergli ridato la donna, la confessione auricolare, cosa questa psicologicamente giusta: così facendo smantellò però lo stesso sacerdote cristiano, la cui più profonda utilità ri­siedeva da sempre nel fatto di essere un orecchio santo, una fontana discre­ta, una tomba per i segreti. «Ciascuno sia sacerdote di se stesso» — dietro queste formule e la loro scaltrezza contadina, si nasconde in Lutero l'odio radicale per l'«uomo superiore» e il predominio dell'«uomo superiore» co­me l'aveva concepito la chiesa: egli distrusse un ideale che non sapeva rag­giungere, anche se l'oggetto della sua lotta e del suo disprezzo sembrava in­vece la degenerazione di questo ideale. Di fatto questo monaco impossibile allontanò da sé il predominio degli homines religiosi, facendo così all'in­terno dell'ordinamento sociale ecclesiastico esattamente quello che com­batteva così tenacemente all'interno dell'ordinamento civile, — una «rivol­ta contadina». Quanto ai risultati emersi dalla sua riforma, buoni e cattivi, e che oggi possono essere calcolati con una certa approssimazione: chi sa­rebbe tanto ingenuo da lodare o biasimare Lutero soltanto in virtù di que­sti? Egli è innocente di tutto, non sapeva quello che faceva. L'appiattimen­to dello spirito europeo, soprattutto al Nord, il suo divenire mansueto, se preferiamo esprimerci in termini morali, ha fatto con la Riforma luterana un considerevole passo in avanti, non c'è dubbio; al contempo da essa so­no nati la mobilità e l'inquietudine dello spirito, la sua sete di indipenden­za, la sua fede nel diritto alla libertà, la sua «naturalezza». Se vogliamo in ultima analisi attribuire alla Riforma il merito di aver preparato e favorito quanto oggi veneriamo col nome di «scienza moderna», occorre però ag­giungere che essa è in parte colpevole anche della degenerazione dell'erudi­to moderno, della sua mancanza di timore reverenziale, pudore e profondi­tà, di tutta l'ingenua cordialità e semplicità nelle cose della conoscenza, in breve di quel plebeismo dello spirito che è tipico degli ultimi due secoli e di cui neppure l'ultimo pessimismo è ancora riuscito a liberarci: anche le «idee moderne» fanno parte di questa rivolta contadina del Nord contro lo spirito più freddo, ambiguo, diffidente del Sud, che nella chiesa cristiana si era costruito il suo maggiore monumento. Non dimentichiamo infine che cos'è una Chiesa, soprattutto in contrapposizione a ogni «Stato»: una Chiesa è soprattutto una struttura di dominio che assicura ai religiosi il rango supremo e crede tanto al potere della spiritualità da proibirsi ogni strumento di potere più rozzo: questo basta a fare della Chiesa, comunque sia, un'istituzione più nobile dello Stato.

359.

La vendetta sullo spirito e altri retroscena della morale. La morale... do­ve credete che abbia i suoi avvocati più pericolosi e capaci? Ecco un uomo fallito, che non possiede abbastanza spirito per potersene compiacere, né abbastanza cultura per saperlo: annoiato, tediato, uno che disprezza se

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stesso; un patrimonio in qualche modo ereditato lo ha privato anche del­l'ultimo conforto, la «benedizione del lavoro», l'oblio di sé nelP«opera quotidiana»; un uomo così, che in fondo si vergogna della sua esistenza — forse nasconde anche qualche vizietto — e d'altro canto non può fare a meno di assuefarsi sempre più, diventando vanitoso ed eccitabile, a libri ai quali non ha diritto o a una compagnia più spirituale di quella che è in gra­do di digerire; un uomo così, sempre più avvelenato, perché nei falliti co­me lui lo spirito si fa veleno, la cultura si fa veleno, il patrimonio si fa vele­no, la solitudine si fa veleno, finisce col trovarsi abitualmente in uno stato di vendetta, di volontà di vendetta... Di che cosa credete che abbia biso­gno, assolutamente bisogno, per crearsi quella parvenza di superiorità su­gli uomini più spirituali, quel piacere della vendetta portata a compimento, almeno nella sua immaginazione? Sempre della moralità, c'è da scommet­tere: sempre quelle grandi parole morali, sempre il tam-tam di giustizia, saggezza, santità, virtù, sempre lo stoicismo dei gesti (come nasconde be­ne, lo stoicismo, quel che non si ha!...), sempre il mantello dell'astuto si­lenzio, della socievolezza, della mitezza e come altro si chiamano i mantelli idealistici sotto i quali si aggirano coloro che inguaribilmente sì disprezza­no o che sono inguaribilmente vanitosi. Non mi si fraintenda: da tali nemi­ci congeniti dello spirito nasce ogni tanto quel raro frammento di umanità che il popolo venera col nome di santo, di saggio; da tali uomini emergono quei mostri della morale che fanno rumore, che fanno storia: sant'Agosti­no fu uno di questi. Il timore dello spirito, la vendetta sullo spirito: quanto spesso questi vizi vigorosi e istintivi divennero fonte di virtùl E, detto fra noi, persino quell'esigenza di saggezza che caratterizza i filosofi e che ogni tanto è comparsa qua e là sulla terra, la più pazza e immodesta di tutte le esistenze, — non è stata sempre, sinora, in India come in Grecia, soprat­tutto un nascondiglio! Talvolta forse dal punto di vista dell'educazione, che santifica tante menzogne, in quanto tenero riguardo per personalità in crescita e in divenire, per discepoli che spesso (erroneamente) debbono es­sere difesi contro se stessi tramite la fede nella persona... Nei casi più fre­quenti, però, un nascondiglio del filosofo, dietro il quale egli si mette in salvo da stanchezza, vecchiaia, raffreddamento, indurimento, quasi la sen­sazione della fine vicina, l'astuzia di quest'istinto degli animali davanti alla morte — essi si mettono in disparte, si fanno silenziosi, scelgono la solitu­dine, strisciano dentro le loro tane, divengono saggi... Come? La saggezza un nascondiglio del filosofo davanti — allo spirito? —

360.

Due specie di cause che vengono confuse. Questo mi pare uno dei miei passi e progressi più importanti: ho imparato a distinguere la causa dell'a­gire dalla causa dell'agire così e così, dell'agire in questa direzione, verso questa meta. La prima specie di cause è un quantum di energia immagazzi­nata, che attende di essere utilizzata in qualche modo e per qualche fine; la seconda specie invece, in rapporto a questa energia, è qualcosa di assoluta­mente insignificante, perlopiù un minimo caso fortuito sulla base del quale questo quantum si «libera» in un determinato modo: il fiammifero rispetto al barile di polvere da sparo. Tra questi casi fortuiti e fiammiferi io anno­vero tutti i cosiddetti «scopi» e anche tutte le cosiddette «vocazioni di vi­ta»: essi sono relativamente casuali, arbitrari, quasi indifferenti rispetto al­l'enorme quantum di energia che spinge, come abbiamo detto, per essere impiegata in un modo o nell'altro. Generalmente le cose si vedono in modo

190 LA GAIA SCIENZA

diverso: si è soliti individuare la forza motrice proprio nella meta (scopi, vocazioni, etc), secondo un errore antichissimo, mentre quest'ultima indi-ca soltanto la direzione: si è confuso il pilota con la nave. E talvolta neppu­re il pilota, la forza che indica la direzione... La «meta», lo «scopo», non sono spesso soltanto un pretesto per abbellire, un ulteriore autoaccecamen­to della vanità, la quale non vuole ammettere che la nave segue una corren­te in cui si è imbattuta per caso? Che «vuole» andare là perché — deve! Che ha una direzione ma — nessun pilota —? Manca ancora una critica del concetto di «scopo».

361.

Sul problema dell'attore. Il problema dell'attore mi ha inquietato a lun­go; ero incerto (e talvolta lo sono ancora) se soltanto a partire da esso si potesse raggiungere il pericoloso concetto di «artista». La falsità con buo­na coscienza; il piacere della simulazione che si rivela potere, spingendo da parte, inondando e talvolta spegnendo il cosiddetto «carattere»; il fervido anelito a un ruolo, una maschera, un'apparenza; una sovrabbondanza di capacità d'adattamento d'ogni genere che non si accontentano più di gio­vare alla prossima, ristrettissima utilità: l'attore, in sé, non è tutto questo? Probabilmente tale istinto si sarà sviluppato soprattutto nelle famiglie del popolo, i cui membri hanno sempre dovuto campare tra l'alternarsi di pressioni e coercizioni, in uno stato di profonda dipendenza, hanno sem­pre dovuto fare il passo a seconda della gamba, adeguarsi a nuove circo­stanze, porsi continuamente in modo nuovo, imparando gradualmente ad appendere il mantello a seconda del vento e a divenire quasi essi stessi man­tello, maestri di quell'arte innata e incorporata dell'eterno giocare a na­scondino che negli animali è detta mimicry: finché in conclusione questa capacità, accumulatasi di generazione in generazione, si fa dispotica, irra­gionevole e irrefrenabile, impara a comandare da istinto gli altri istinti e genera l'attore, 1'«artista» (soprattutto il buffone, il mentitore, il pagliac­cio, il folle, il clown, ma anche il servitore classico, il Gii Blas: è in tali tipi che si trova la preistoria dell'artista e, abbastanza spesso, anche del «ge­nio»). Anche in condizioni sociali più elevate nasce, sotto una pressione si­mile, un uomo simile: soltanto che in tal caso l'istinto a recitare è tenuto a bada da un altro istinto, ad esempio nel caso del «diplomatico»: del resto io crederei che a un buon diplomatico sarebbe possibile essere anche un buon attore di teatro, posto appunto gli «fosse possibile». Per quanto in­vece riguarda gli Ebrei, il popolo che più ha eccelso nell'arte dell'adatta­mento, in loro si potrebbe vedere sin dall'inizio, seguendo questo ragiona­mento, un'organizzazione storico-mondiale per l'allevamento di attori, una vera e propria incubatrice di attori, e oggigiorno è di grande attualità questa domanda: quale grande attore non è al contempo anche... ebreo? Ebreo? Anche l'ebreo come letterato congenito, il vero dominatore della stampa europea, esercita questo suo potere sulla base delle sue doti di atto­re: infatti il letterato è sostanzialmente un attore che recita la parte dell'e­sperto, del competente. Infine le donne. Riflettiamo su tutta la storia delle donne: non debbono essere in primissimo luogo e soprattutto attrici? Ascoltiamo i medici che le hanno ipnotizzate e, anche, amiamole, cioè la­sciamoci ipnotizzare da loro! Che cosa ne risulta? Che esse «si danno» an­che quando... si lasciano andare. La donna è così artistica...

LIBRO QUINTO. NOI SENZA PAURA 191

362. La nostra fede in una virilizzazione dell'Europa. Si deve a Napoleone (e

assolutamente non alla rivoluzione francese, il cui obiettivo erano la «fra­tellanza» tra i popoli e scambi di cuori universali e floreali) se potranno adesso susseguirsi un paio di secoli guerrieri senza pari nella storia, in bre­ve se siamo entrati nell'epoca classica della guerra, della guerra erudita e popolare al tempo stesso, in scala eccezionale (quanto a mezzi, doti, disci­plina), un'epoca alla quale tutti i millenni a venire guarderanno con invidia e timore reverenziale, come si guarda a un reperto perfetto: il movimento nazionale da cui nasce questa gloria guerriera, infatti, è soltanto una rea­zione a Napoleone e, senza Napoleone, non sarebbe stato possibile. A lui si attribuirà anche il merito di aver fatto tornare l'uomo, in Europa, signore del mercante e del filisteo; forse anche della donna, tanto coccolata dal cri­stianesimo, dallo spirito stravagante del diciottesimo secolo e ancora di più dalle «idee moderne». Napoleone, che vedeva nelle idee moderne e precisa­mente nella civilizzazione una specie di nemico personale, si è rivelato, con questa sua ostilità, uno dei più grandi persecutori del Rinascimento: ha ri­portato infatti alla luce un intero frammento dell'antica sostanza, forse quello decisivo, il frammento di granito. E chissà se anche questo fram­mento di antica sostanza non tornerà un giorno signore del movimento na­zionale e non debba farsi l'erede e il prosecutore, in senso affermativo, di Napoleone: il quale voleva un'Europa unita, come si sa, e che questa fosse la signora della terra.

363.

Come ogni sesso ha i suoi pregiudizi sull'amore. Con tutte le concessioni che sono pronto a fare al pregiudizio monogamico, non arriverò mai a concedere che nell'amore si parli di uguali diritti per l'uomo e per la don­na, perché non esistono. L'uomo e la donna intendono per amore una cosa diversa, — per entrambi i sessi fa parte delle condizioni dell'amore che l'u­no non presupponga nell'altro lo stesso sentimento, lo stesso concetto di «amore». Quel che la donna intende per amore è abbastanza chiaro: un abbandono totale (non soltanto dedizione) di corpo e anima, senza alcun riguardo, senza alcun ritegno, con vergogna e terrore semmai di un abban­dono legato a clausole e condizioni. Proprio nell'assenza di condizioni sta il suo amore, la sua fede: la donna non ne ha altri. L'uomo, se ama una donna, vuole da lei proprio questo amore, mentre per la sua persona è di conseguenza lontanissimo dai presupposti di questo amore; posto comun­que che ci siano uomini cui non è estraneo il desiderio di abbandono asso­luto, proprio per questo costoro non sono più-uomini. Un uomo che ami come una donna diventa uno schiavo; una donna che ami come una donna diventa invece così una donna più perfetta... La passione della donna, nel­la sua incondizionata rinunzia a ogni diritto, ha proprio come suo presup­posto che dall'altra parte non esistano un pathos uguale, un'uguale volon­tà di rinunzia: perché se entrambi rinunziassero ad amare se stessi, ne risul­terebbe — orbene, che ne so io, — forse uno spazio vuoto? La donna vuo­le essere presa, acquisita come un possesso, dissolversi nel concetto di «possesso» e «posseduta»; vuole quindi uno che prenda, che non si dia né si doni, che sia invece arricchito da quell'incremento di energia, felicità, fe­de che gli procura la donna donando se stessa. La donna si dona, l'uomo

192 LA GAIA SCIENZA

prende — io credo che questo contrasto naturale non potrà essere rimosso da nessun contratto sociale né dalla migliore volontà di giustizia, per quan­to possa essere auspicabile non trovarsi sempre davanti agli occhi quanto di duro, terribile, enigmatico, immorale sussiste in questo antagonismo. Perché l'amore, pensato in tutta la sua grandezza e pienezza, è natura e, in quanto natura, qualcosa di «immorale», per l'eternità. La fedeltà è quindi implicita nell'amore della donna, è una conseguenza della sua definizione; nell'amore dell'uomo è facile che essa nasca, come gratitudine o idiosin­crasia del gusto o quel che si dice affinità elettiva, ma non appartiene al-Vessenza del suo amore — tanto che si potrebbe parlare con qualche diritto di una naturale opposizione, nell'uomo, tra amore e fedeltà: il quale amo­re è appunto un voler avere e non un rinunziare e donare; con l'avere, pe­rò, il voler avere si estingue sempre... Di fatto la sete di possesso dell'uo­mo, piuttosto raffinata e diffidente, ammette questo «avere» soltanto di rado e in ritardo, cosa questa che tiene vivo il suo amore; in tal senso è ad­dirittura possibile che esso cresca ancora dopo l'abbandono della donna, perché egli non ammette facilmente che una donna non abbia più niente da «dare».

364.

Paria l'eremita. L'arte di trattare con gli uomini consiste soprattutto nel­l'abilità (che presuppone un lungo esercizio) di accettare e assumere un pa­sto preparato da una cucina in cui non si ha fiducia alcuna. Posto che si giunga a tavola con una fame da lupi, tutto va per il meglio («la pessima compagnia si fa sentire», come dice Mefistofele); ma non c'è mai, questa fame da lupi, quando se ne avrebbe bisogno! Oh, quant'è difficile digerire il prossimo! Regola prima: farsi coraggio come in una disgrazia, interveni­re valorosamente, provare ammirazione per se stessi, tenere fra i denti la propria ripugnanza e ingoiare la nausea. Regola seconda: «migliorare» il prossimo, ad esempio con una lode, dimodoché egli cominci a trasudare felicità, oppure afferrare un lembo delle sue qualità buone o «interessanti» e tirarlo finché tutta la virtù non ne è venuta fuori e si può nascondere il prossimo sotto le sue pieghe. Regola terza: autoipnotizzazione. Fissare l'oggetto del rapporto come se fosse una sfera di cristallo finché non si ces­sa di provare qualsiasi sensazione di piacere o dispiacere e, inavvertitamen­te, ci si addormenta, ci si irrigidisce, si acquisisce un contegno: un rimedio casalingo tratto dal matrimonio e dall'amicizia, abbondantemente speri­mentato, lodato come indispensabile ma non ancora formulato scientifica­mente. Il suo nome popolare è — pazienza.

365.

Parla di nuovo l'eremita. Anche noi trattiamo con gli «uomini», anche noi indossiamo modestamente l'abito nel quale (per il quale) gli altri ci co­noscono, rispettano, cercano, e con esso ci rechiamo in società, cioè fra travestiti che non vogliono chiamarsi così; anche noi ci comportiamo alla maniera di tutte le maschere astute e mettiamo cortesemente alla porta ogni curiosità che non riguardi il nostro «abito». Esistono anche altri modi ed espedienti per «aggirarsi» tra gli uomini e con essi trattare, ad esempio quello del fantasma, — assai consigliabile se ci si vuol liberare di loro alla svelta e farli spaventare. La prova: tendono la mano verso di noi e non rie­scono ad afferrarci. Questo spaventa. Oppure: passiamo attraverso una

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porta chiusa. Oppure: quando tutte le luci sono spente. Oppure: dopo la nostra morte. Quest'ultimo è il gioco di prestigio degli uomini postumi par excellence. («Che ne pensate?», disse una volta impazientemente uno di costoro, «Riusciremmo a sopportare questa estraneità, freddezza, silenzio di morte intorno a noi, tutta questa solitudine sotterranea, nascosta, muta e inesplorata che da noi si chiama vita e potrebbe benissimo chiamarsi an­che morte, se non sapessimo che cosa sarà di noi, — e che soltanto dopo la morte avremo la vita e saremo vivi, ah! Molto vivi! Noi uomini postumi!»)

366. Di fronte a un libro erudito. Non siamo tra coloro cui le idee vengono in

mente solo tra i libri, quando si imbattono nei libri — è nostra abitudine pensare all'aria aperta, mentre camminiamo, saltiamo, saliamo, danzia­mo, preferibilmente su monti solinghi o sulla riva del mare, dove anche i sentieri si fanno pensosi. Ecco le nostre prime questioni di valore, relativa­mente a libri, uomini e musica: «È in grado di camminare? Ancora di più, è in grado di danzare?»... Leggiamo raramente ma non per questo leggia­mo peggio: facciamo prestissimo a indovinare se a qualcuno determinate idee sono venute in mente mentre era seduto, davanti alla boccetta dell'in­chiostro, con l'addome piegato in due e la testa china sulla carta; e come facciamo presto a sbarazzarci del suo libro! Le budella compresse in una morsa si tradiscono, c'è da scommetterci, come si tradiscono l'aria chiusa di una stanza, il soffitto di una stanza, la ristrettezza di una stanza. Questo provavo nel chiudere un libro onesto ed erudito, gratitudine, molta gratitu­dine, ma anche una sensazione di sollievo... Nel libro di un erudito c'è quasi sempre anche qualcosa di opprimente e di oppresso: in qualche sua parte emerge lo «specialista», il suo zelo, la sua gravità, la sua rabbia, la sua sopravvalutazione del cantuccio in cui se ne sta seduto a tessere la sua tela, la sua gobba, — ogni specialista ha la sua gobba. Un libro erudito ri­flette sempre anche un'anima curva: ogni artigianato rende curvi. Si rive­dano gli amici con i quali si è stati giovani dopo che hanno preso possesso della loro scienza: ah, come è sempre accaduto il contrario! Come dalla scienza sono ormai per sempre posseduti e invasati! Profondamente radi­cati nel loro cantuccio, ammaccati fino ad essere irriconoscibili, non liberi, privati del loro equilibrio, smagriti e spigolosissimi, solo in un punto straordinariamente rotondi — quando li si ritrova così, si è commossi e si tace. Ogni mestiere, anche ammesso che abbia un terreno d'oro, ha sopra di sé un soffitto di piombo, che opprime l'anima finché essa non diviene bizzarra e curva. Non c'è niente da fare. Non si creda che sia possibile ag­girare questa deformazione con l'aiuto di qualche arte pedagogica. Ogni ti­po di maestria si paga a caro prezzo sulla terra, dove forse tutto si paga troppo caro; sj è padroni della propria materia a prezzo di esserne anche vittime. Ma voi volete che le cose vadano diversamente — che siano «più economiche» e soprattutto più comode — non è vero, miei cari contempo­ranei? Ebbene, avanti! Ma allora troverete subito qualcosa di diverso, ov­vero, invece del mestiere e del maestro, il letterato, il letterato abile e «mol­teplicemente versato», cui però manca la gobba; a prescindere da quella che fa davanti a voi in qualità di commesso dello spirito e di «facchino» della cultura, — un letterato che in realtà non è niente ma «rappresenta» quasi tutto, che recita la parte dell'esperto, lo sostituisce e, in tutta mode­stia, si accolla anche l'onere di farsi pagare, onorare e celebrare al suo po­sto. No, miei dotti amici! Io vi benedico, anche in virtù della vostra gobba!

194 LA GAIA SCIENZA

E perché voi, come me, disprezzate i letterati e i parassiti della cultura! E perché non sapete fare dello spirito un commercio! E avete opinioni degne di questo nome, che non possono essere espresse in valore monetario. E non sostituite nessuno se non voi stessi! La vostra unica volontà è quella di diventare maestri del vostro mestiere, nel timore reverenziale d'ogni genere di maestria e capacità, rifiutando senza riguardo tutto ciò che è apparente, semigenuino, tirato a lucido, virtuosistico, demagogico, istrionico in lette-ris et artibus — vi pare infatti che tutto ciò non possa vantare probità in­condizionata di disciplina e studio preliminare! (Persino il genio non aiuta a evitare una tale lacuna, per quanto possa illudere di farlo: lo si compren­de dopo aver osservato da vicino i nostri pittori e musicisti più famosi, i quali sanno tutti, quasi senza eccezione, appropriarsi artificiosamente e a posteriori, tramite un'astuta ingegnosità di maniere, di espedienti, persino di princìpi, della parvenza di quella probità, di quella solidità di studio e cultura, senza con questo ingannare se stessi o mettere a tacere per sempre la loro cattiva coscienza. Lo sapete, allora? Tutti i grandi artisti moderni soffrono di cattiva coscienza...)

367.

Come distinguere le opere d'arte. Tutto quello che è pensato, poetato, dipinto, composto, persino costruito e plasmato, appartiene o all'arte mo­nologica o all'arte dei testimoni. In quest'ultima va inclusa anche quell'ar­te apparentemente monologica che va di pari passo con la fede in Dio, tut­ta la lirica della preghiera: perché il devoto non conosce la solitudine, sia­mo stati noi senza dio a fare questa scoperta. Non conosco, nell'ottica complessiva di un artista, differenza più profonda di questa: se guarda alla sua opera d'arte in divenire (a «se stesso») con l'occhio del testimone o se invece «ha dimenticato il mondo», com'è essenziale per ogni arte monolo­gica — essa si fonda sull'oblio, è la musica dell'oblio.

368.

Parla il cinico. Le mie obiezioni rispetto alla musica di Wagner sono obiezioni fisiologiche: perché mascherarle ancora con formule estetiche? Il mio «fatto» è che respiro a fatica, quando sono sotto l'effetto di questa musica; che il mio piede se la prende immediatamente con questa, ribellan­dosi: esso necessita di ritmo, danza, marcia, dalla musica pretende in pri­mo luogo quelle estasi che nascono dal camminare, dall'incedere, dal bal­zare, dal danzare. Ma non protesta anche il mio stomaco? Il mio cuore? La mia circolazione? Il mio intestino? Non sono colto da un'impercettibile raucedine? E così mi domando: che cosa vuole il mio corpo dalla musica? Sollievot io credo: come se tutte le sue funzioni animali dovessero essere accelerate da ritmi lievi, arditi, sfrenati e presuntuosi; come se la vita fer­rea e plumbea dovesse essere indorata da armonie dorate, buone e carezze­voli. La mia malinconia vuole trovare quiete nei recessi e negli abissi della perfezione: a questo mi serve la musica. Che me ne importa del dramma! Che cosa dei crampi delle sue estasi morali in cui il «popolo» trova tanta soddisfazione! Che cosa di tutto l'abracadabra mimico dell'attore!... La mia indole è essenzialmente antiteatrale, si capisce, — ma Wagner era es­senzialmente, per contro, un uomo di teatro e un commediante, il mitoma-ne più esaltato che sia mai esistito, anche come musicista!... E inoltre, sia detto per inciso: se la teoria di Wagner affermava che «il dramma è il fine e

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la musica sempre e soltanto il suo mezzo», — la sua prassi è invece sempre stata, dall'inizio alla fine, la seguente: «il fine è il contegno, il dramma e anche la musica sono sempre e soltanto il suo mezzo». La musica come mezzo per chiarire, intensificare, interiorizzare il gesto drammatico e l'evi­denza dell'attore; e il dramma wagneriano soltanto un'occasione per molti contegni drammatici! Accanto a tutti gli altri istinti egli aveva, in tutto e per tutto, gli istinti autoritari di un grande attore; e questo, come abbiamo detto, anche come musicista. Una volta lo spiegai, non senza fatica, a un onesto wagneriano, ed ebbi motivo di aggiungere: «Sia un pochettino più sincero nei confronti di se stesso: non siamo mica a teatro! A teatro si è sinceri soltanto in quanto massa; in quanto singoli si mente e ci si inganna. Si lascia il proprio sé a casa, quando si va a teatro; si rinunzia al diritto di avere una lingua e una scelta proprie, gusto e persino prodezza, tutte cose che invece abbiamo ed esercitiamo, tra le quattro pareti di casa nostra, nei confronti di Dio e dell'uomo. A teatro nessuno porta i sensi più raffinati della sua arte, neppure l'artista che lavora per il teatro: a teatro si è popo­lo, pubblico, gregge, donna, fariseo, mandria elettorale, democratico, prossimo; a teatro anche la coscienza più personale soggiace al fascino li­vellatore del "maggior numero"; a teatro la stupidità agisce come concupi­scenza e contagio; a teatro regna il "vicino" e si diventa il vicino...». (Di­menticavo di raccontare che cosa aveva risposto alle obiezioni fisiologiche il wagneriano illuminato: «Lei allora non è abbastanza sano per la nostra musica?».)

369.

La nostra convivenza. Non dobbiamo ammettere, noi artisti, che in noi esiste una misteriosa differenza per cui il nostro gusto e d'altra parte la no­stra energia creativa sono stranamente a sé stanti, rimangono a sé stanti e conoscono una crescita propria, — con gradi e tempi completamente diver­si quanto a vecchiaia, a giovinezza, maturità, docilità, pigrizia? Così un musicista, ad esempio, potrebbe creare per tutta la vita cose che contraddi­cono quanto il suo viziato orecchio di ascoltatore apprezza, gradisce, pre­dilige; può anche darsi che non se ne renda conto, di questa contraddizio­ne! È possibile, come insegna un'esperienza quasi penosamente regolare, che il proprio gusto conosca un'evoluzione che supera quella della propria energia, senza che essa ne risulti paralizzata e ostacolata nel procedere; può però verificarsi anche il contrario, — ed è proprio su questo che vorrei attirare l'attenzione dell'artista. Una persona che crei di continuo, una «madre» di uomo nel senso pieno della parola, uno che non sappia né sen­ta più niente delle gravidanze e delle culle del suo spirito, che non abbia il tempo di riflettere su se stesso e sulla sua opera, di operare confronti, che non voglia più neppure esercitare il suo gusto e si limiti a dimenticarlo, cioè a lasciarlo stare in piedi o per terra o cadere: forse costui produrrà alla fine opere tali che da tempo il suo giudizio non è più alla loro altezza e si trove­rà quindi a dire su di sé e su di loro delle grandi sciocchezze, — a dirle e a pensarle. Mi sembra che questo sia un comportamento quasi normale negli artisti fecondi — nessuno conosce un figlio peggio dei suoi genitori —• e sia confermato addirittura, tanto per rifarsi a un esempio imponente, da tutto il mondo poetico e artistico dei Greci: esso non ha mai «saputo» che cosa ha fatto...

196 LA GAIA SCIENZA

370.

Che cos'è il romanticismo'} Si ricorderà forse, quanto meno tra i miei amici, che all'inizio mi sono scagliato contro questo mondo moderno, compiendo alcuni grossi errori e sopravvalutazioni ma, comunque, come uno che spera. Capivo — sulla base di chissà quali esperienze personali — che il pessimismo filosofico del diciannovesimo secolo era il sintomo di una più elevata energia intellettuale, di una prodezza più audace, di una pienezza più vittoriosa di vita, rispetto a quello del diciottesimo secolo, l'e­tà di Hume, Kant, Condillac e dei sensualisti: cosicché la conoscenza tragi­ca mi pareva il vero lusso della nostra cultura, costituendone la dissipazio­ne più preziosa, nobile, pericolosa ma pur sempre, sulla base della sua so­vrabbondanza, il suo lusso consentito. Allo stesso modo interpretavo la musica tedesca come espressione di una potenza dionisiaca dell'anima te­desca: in essa credevo di udire il terremoto con cui riesce finalmente a sfo­garsi una forza primigenia accumulata dall'antichità, incurante delle scos­se impresse a tutto ciò che normalmente si definisce cultura. Misconoscevo allora sia nel pessimismo filosofico che nella musica tedesca, è evidente, il vero elemento costitutivo del suo carattere — il suo romanticismo. Che co­s'è il romanticismo? Ogni arte, ogni filosofia possono essere considerate uno strumento di cura e di aiuto al servizio della vita che cresce e lotta: esse presuppongono sempre sofferenze e sofferenti. Ma ci sono due specie di sofferenti, quelli che soffrono per la sovrabbondanza della vita, che vo­gliono un'arte dionisiaca e quindi una visione e una percezione tragica del­ia vita, e quelli che soffrono per Vimpoverimento della vita, che con l'arte e la conoscenza cercano la tranquillità, il silenzio, il mare in bonaccia, la li­berazione da se stessi, o anche l'ebbrezza, lo spasimo, Io stordimento, la follia. Alla doppia esigenza di questi ultimi corrisponde tutto il romantici­smo nelle arti e nelle conoscenze, a costoro corrispondevano (e corrispon­dono) tanto Schopenhauer quanto Richard Wagner, per nominare i più ce­lebri e significativi tra i romantici che allora io non riconobbi — peraltro non a loro pregiudizio, come mi si può concedere in tutta onestà. Il più ric­co di pienezza vitale, il dio e uomo dionisiaco, può concedersi non solo la vista di quanto incute terrore e dubbi, ma la stessa azione terribile e ogni lusso di distruzione, dissolvimento, annientamento; sembra che il male, l'insensato e il brutto gli siano per così dire permessi, in virtù di una so­vrabbondanza di energie creative e feconde in grado di ricavare da ogni de­serto una terra fertile. Per contro la persona più sofferente e più povera di vita avrà massimamente bisogno di mitezza, soavità, bontà, nel pensiero e nell'azione, e se possibile di un Dio, che sarebbe davvero un Dio per mala­ti, un «salvatore»; lo stesso dicasi della logica, la comprensione concettua­le dell'esistenza — perché la logica tranquillizza, infonde fiducia —, in breve di una certa ristrettezza calda e rassicurante, di un rinchiudersi entro orizzonti ottimistici. Ho così gradualmente imparato a comprendere Epi­curo, il contrario di un pessimista dionisiaco, e il «cristiano», che di fatto è soltanto un particolare tipo di epicureo e, come quello, è costituzionalmen­te romantico; e il mio sguardo si è fatto sempre più capace di percepire quella forma difficilissima e insidiosissima di deduzione che porta a com­piere la maggior parte degli errori — il dedurre dall'opera il suo creatore, dall'azione colui che l'ha compiuta, dall'ideale colui che ne ha bisogno, da ogni modo di pensare e di valutare la necessità che dietro di esso si impone. Con riferimento a tutti i valori estetici, mi servo adesso di questa distinzio-

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ne fondamentale: mi domando, in ogni singolo caso, «chi è stato qui a creare, la fame o la sovrabbondanza?». In un primo momento potrebbe sembrare più raccomandabile un'altra distinzione — che è di gran lunga più immediata — ovvero se la causa del creare vada rinvenuta nell'anelito a conferire una forma immutabile, eternare, essere, o nell'anelito alla di­struzione, al cambiamento, al nuovo, al futuro, al divenire. Ma questi due tipi di anelito si rivelano, se osservati più in profondità, ancora ambigui, e comunque interpretabili sulla base dallo schema già proposto e che io pre­ferisco, a mio parere giustamente. L'anelito alla distruzione, al cambia­mento, al divenire può essere espressione di una forza sovrabbondante e gravida di futuro (il mio terminus per definirla è, come si sa, la parola «dionisiaco»; ma a distruggere, dover distruggere, può essere anche l'odio del fallito, bisognoso, malriuscito, perché l'esistente e anzi, ogni esistere, ogni essere lo empiono di collera e sdegno — per comprendere questo mo­do di sentire basta osservare da vicino i nostri anarchici. Anche la volontà di eternare necessita di una interpretazione duplice. Essa può nascere dalla gratitudine e dall'amore: un'arte con questa origine sarà sempre un'arte di apoteosi, forse ditirambica con Rubens, beatamente beffarda con Hafis, luminosa e benevola con Goethe, e diffonderà su tutte le cose un alone omerico di luce e di gloria. Può essere però anche la volontà tirannica di chi soffre atrocemente, lotta, è torturato a voler imprimere il sigillo di una legge, di un obbligo vincolante a quanto ha di più personale, individuale e intimo, alla vera idiosincrasia del suo dolore, e per così dire vendicarsi di tutte le cose marchiandole a fuoco con la sua immagine, l'immagine della sua tortura. Quest'ultimo è il pessimismo romantico nella sua forma più espressiva, si tratti della filosofia schopenhaueriana della volontà o della musica wagneriana: il pessimismo romantico, l'ultimo grande evento nelle sorti della nostra cultura. (Che possa esistere un pessimismo completamen­te diverso, un pessimismo classico: questo presentimento e questa visione fanno parte di me e, in quanto il mio proprium e ipsissimum, sono da me indissolubili. Lo chiamo, quel pessimismo del futuro: soltanto che la paro­la «classico» ripugna alle mie orecchie, è di gran lunga troppo logora. Per­ché viene! Lo vedo venire! È il pessimismo dionisiaco.)

371.

Noi incomprensibili. Ci siamo mai lamentati di essere incompresi, mi­sconosciuti, scambiati con altri, calunniati, trascurati e inascoltati? Eppure è questa la nostra sorte, e lo sarà ancora a lungo! Diciamo, per essere mo­desti, fino al 1901 — è anche il nostro segno distintivo.—; non ci terremmo abbastanza in onore, se ci augurassimo qualcosa di diverso. Ci scambiano con altri: ciò significa che noi cresciamo, ci trasformiamo di continuo, ci scrolliamo di dosso le vecchie scorze, cambiamo pelle a ogni primavera, di­ventiamo sempre più giovani, futuri, alti, forti, spingiamo le nostre radici in profondità — nel male — con sempre maggiore potenza, mentre al con­tempo abbracciamo il cielo con amore sempre più grande, sempre più va­sto, suggendo sempre più assetati la sua luce, con tutti i nostri rami e le no­stre foglie. Cresciamo come alberi — è difficile da comprendere, come ogni vita! — non in un punto, ma dappertutto, non in una direzione, ma verso l'alto, verso l'interno e verso il basso; la nostra forza spinge allo stes­so tempo nel tronco, nei rami e nelle radici, non abbiamo più la libertà di fare qualcosa d'individuale, di essere qualcosa d'individuale... È questa la nostra sorte, come abbiamo detto; noi cresciamo in altezza; e posto che ciò

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ci divenga fatale — abitiamo sempre più vicini ai fulmini — ebbene, non per questo Io teniamo meno in onore, rimane quello che non vogliamo condividere né comunicare, la fatalità dell'altezza, la nostra fatalità...

372.

Perché non siamo idealisti. Un tempo i filosofi avevano paura dei sensi — forse che noi abbiamo disimparato troppo questa paura? Oggi siamo tutti sensualisti, noi uomini presenti e futuri della filosofia, non in teoria, ma nella prassi, in pratica... Quelli sostenevano invece che i sensi li avreb­bero rapiti dal loro mondo, il freddo regno delle «idee», portandoli in una pericolosa isola del Sud, dove temevano che le loro virtù da filosofi si sa­rebbero liquefatte come neve al sole. All'epoca la «cera nelle orecchie» era praticamente una condizione del filosofare: un filosofo genuino non udiva più la vita nella misura in cui essa è musica, negava la musica della vita; una vecchia superstizione dei filosofi vuole infatti che tutta la musica sia musica di sirene. Oggi noi vorremmo essere inclini a esprimere il giudizio opposto (che di per sé potrebbe essere altrettanto sbagliato), ovvero che le idee seducano più dei sensi, con tutto il loro aspetto freddo e anemico e neppure malgrado questo aspetto, — esse hanno sempre vissuto del «san­gue» del filosofo, gli hanno lacerato i sensi e, se ci vorranno credere, anche il «cuore». Questi vecchi filosofi erano senza cuore: filosofare è sempre stato una specie di vampirismo. Davanti a queste figure, come ancora da­vanti a Spinoza, non provate un qualcosa di profondamente enigmatico e inquietante? Non vedete lo spettacolo che si dipana davanti ai vostri occhi, questo continuo impallidire, — questa desensualizzazione interpretata sempre più idealisticamente? Non presagite, celata sullo sfondo, una qual­che succhiatrice di sangue, che inizia dai sensi e alla quale in fondo non avanzano altro che ossa e scricchiolii, — né lascia altro? Mi riferisco a ca­tegorie, formule, parole (perché, mi si perdoni, quanto è rimasto di Spino­za, amor intellectualis dei, è uno scricchiolio, e niente più! Che cos'è amor e che cosa deus se manca loro ogni goccia di sangue?...) In summa: tutto l'idealismo filosofico è stato, sinora, una specie di malattia, dove non sono presenti, come nel caso di Platone, l'accortezza di una salute sovrabbon­dante e pericolosa, il timore dello strapotere dei sensi, la saggezza di un saggio socratico. Forse noi moderni non siamo abbastanza sani per aver bisogno dell'idealismo di Platone? E non temiamo i sensi perché

373.

«Scienza» come pregiudizio. Le leggi della gerarchia prevedono che i dotti, appartenendo al ceto, medio intellettuale, non possano trovarsi di fronte a problemi e interrogativi davvero grossi: inoltre il loro coraggio e persino il loro sguardo non sono in grado di arrivare fin là, e quella situa­zione di bisogno che fa di loro dei ricercatori, il loro intimo anticipare e augurarsi che le cose possano essere fatte così e così, i loro timori e le loro speranze trovano troppo presto quiete e appagamento. Quel che per esem­pio rende tanto entusiasta, a modo suo, il pedante inglese Herbert Spencer e gli fa tracciare un trattino di speranza, una linea dell'orizzonte dell'au­spicabilità, quella riconciliazione finale di «egoismo e altruismo» di cui fa­voleggia, dà quasi la nausea ai nostri pari: un'umanità le cui ultime pro­spettive sono le prospettive spenceriane ci sembrerebbe meritevole di di­sprezzo e annientamento! Ma già il fatto che egli dovesse percepire come

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estrema speranza quanto agli altri sembra semplicemente una possibilità obbrobriosa, già questo è un problema che non era in grado di prevedere... Lo stesso dicasi di quella fede che oggi soddisfa tanti studiosi di scienze na­turali, la fede in un mondo che deve avere il suo equivalente e la sua misura nel pensiero umano, in un «mondo di verità» a cui si potrebbe accedere de­finitivamente con l'aiuto della nostra piccola e quadrata ragione umana... Come? Vogliamo davvero sminuire l'esistenza sino a farne un esercizio da contabili, una sedentaria attività da matematici? Soprattutto non si deve volerla spogliare del suo carattere molteplice', lo richiede il buon gusto, si­gnori miei, soprattutto il gusto del rispetto per tutto quello che va al di là del vostro orizzonte! La concezione per cui esisterebbe una sola interpreta­zione giusta del mondo, quella che dà ragione a voi e vi permette di conti­nuare le vostre ricerche e il vostro lavoro scientificamente, nel senso che voi attribuite a questa parola (intendete forse meccanicisticamente?), tale da ammettere numeri, calcoli, pesi, vista e tatto e niente altro, è goffa e in­genua, posto che non sia una malattia dello spirito, un idiotismo. Non sa­rebbe invece estremamente probabile che i primi a farsi afferrare siano proprio gli elementi più superficiali ed esteriori dell'esistenza — quelli più apparenti, la sua pelle, il suo farsi senso? Una interpretazione «scientifica» del mondo, come lo intendete voi, potrebbe quindi essere sempre una delle più stupide, cioè più povere di senso, di tutte le possibili interpretazioni del mondo: e questo sia detto per le orecchie e per la coscienza dei signori mec­canici che oggi amano aggirarsi tra i filosofi e sono assolutamente convinti che la meccanica sia la dottrina delle leggi prime e ultime, sulle quali deve essere costruita, quali fossero il suo nucleo base, tutta l'esistenza. Ma un mondo essenzialmente meccanico sarebbe un mondo essenzialmente privo di sensoì Poniamo che il valore di una musica sia stimato a partire da quanto di essa può essere trasformato in numeri, computi, formule: come sarebbe assurda una tale valutazione «scientifica» della musica! Che cosa si sarebbe compreso, capito, conosciuto della musica! Niente, proprio niente di quello che in essa è davvero musica!...

374.

// nostro nuovo «infinito». Dove giunga il carattere prospettico dell'esi­stenza e se essa mantenga un qualche altro carattere, se un'esistenza senza spiegazione, senza «senso» non divenga necessariamente un'«assurdità», se, d'altro canto, tutta l'esistenza non sia essenzialmente un'esistenza che spiega — per quanto oneste, a queste domande non si può rispondere nep­pure con la più puntigliosa e penosamente coscienziosa analisi e autoesame dell'intelletto; perché in questa analisi l'intelletto umano non può fare a meno di vedere se stesso entro forme prospettiche, e soltanto in esse. Non possiamo vedere al di là del nostro angolo; voler sapere se potrebbero esi­stere altri tipi di intelletto e di prospettiva, ad esempio se alcuni esseri pos­sano percepire il tempo a ritroso, oppure alternativamente in avanti e al-l'indietro (il che darebbe un'altra direzione alla vita e un altro concetto di causa ed effetto) è una curiosità priva di speranza. Ma io penso che oggi siamo quanto meno lontani dalla ridicola immodestia di voler decretare, dal nostro angolo, che solo da questo angolo si possono avere prospettive. Il mondo è semmai tornato ad essere «infinito», nella misura in cui non possiamo ricusare la possibilità che esso racchiuda interpretazioni infinite. Ci avvolge di nuovo il grande brivido — ma chi avrebbe voglia di diviniz­zare subito, un'altra volta, alla vecchia maniera, questo mostruoso mondo

200 LA GAIA SCIENZA

ignoto? E, da questo momento, di adorare l'ignoto come «l'ignoto»? Ah, in questo ignoto sono comprese troppe possibilità di interpretazione non divine, troppe diavolerie, sciocchezze, follie interpretative, — tra cui quel­la nostra, umana, anche troppo umana, che conosciamo bene...

375.

Perché sembriamo epicurei. Siamo cauti, noi uomini moderni, nei con­fronti delle convinzioni ultime; la nostra sfiducia è appostata contro gli in­cantesimi e i raggiri delle coscienze insiti in ogni forte fede, in ogni sì e no incondizionato: come si spiega la cosa? Forse vi si potrebbe vedere, per un verso, la cautela del «bimbo scottato», dell'idealista deluso; per un altro verso, però, e migliore, anche la gioiosa curiosità di chi un tempo se ne sta­va in un cantuccio, che per via di quel cantuccio è giunto alla disperazione e adesso se ne sta beato ed entusiasta nel contrario di quel cantuccio, l'illi­mitato, il «libero in sé». Si creano così un'inclinazione alla conoscenza di stampo quasi epicureo, che non vuole lasciar andare a buon mercato il ca­rattere problematico delle cose e, al contempo, una certa ripugnanza nei confronti dei paroloni e dei gesti morali, un gusto che rifiuta ogni contra­sto goffo e massiccio ed è orgogliosamente cosciente del suo esercizio al ri­serbo. Perché è questo a costituire il nostro orgoglio, questo lieve tirare le briglie al nostro anelito di certezza che si scaglia in avanti, questo autodo­minio del cavaliere sul suo destriero più selvaggio: dopo come prima, in­fatti, abbiamo sotto di noi animali focosi e imbizzarriti e, se indugiamo, l'ultima cosa che ci fa indugiare è proprio il pericolo...

376.

/ nostri tempi lenti. Così tutti gli artisti e gli uomini delle «opere» perce­piscono gli uomini di tipo materno: essi credono sempre, in ogni epoca del­la loro vita — cui corrisponde ogni volta un'opera — di essere arrivati alla meta, per cui accoglierebbero pazientemente la morte, con questo senti­mento: «siamo maturi». Non si tratta di un'espressione di stanchezza, semmai di una certa solarità e mitezza autunnale, e ogni volta è l'opera stessa, il fatto che un'opera è giunta a maturazione, a lasciare queste tracce nel suo creatore. Allora il ritmo della vita rallenta e si fa denso e stillante come il miele — fino a conoscere lunghe pause, e la fede nella lunga pau­sa...

377.

Noi senza patria. Tra gli Europei di oggi non mancano coloro che hanno diritto di chiamarsi, in senso distintivo e onorifico, senza patria: proprio a loro sia posta nel cuore la mia saggezza segreta, la mia gaiascienzal Perché la loro sorte è dura, la loro speranza incerta e trovar loro conforto sarebbe un gioco di prestigio — ma a che serve! Noi figli del futuro, come possia­mo sentirci a nostro agio in quest'oggi! Noi siamo sfavorevoli a tutti gli ideali ai quali si possa ancora segretamente aderire in questa fase di transi­zione fragile e infranta; per quanto poi concerne le loro «realtà», non cre­diamo che esse abbiano una durata. Il ghiaccio che oggi regge ancora è di­venuto sottilissimo: soffia il vento del disgelo e noi stessi, noi senza patria, siamo un qualcosa che infrange il ghiaccio e altre «realtà» ormai troppo sottili... Noi non «conserviamo» niènte né vogliamo tornare a un passato;

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non siamo assolutamente liberali né lavoriamo per il «progresso», non ab­biamo bisogno di tapparci le orecchie davanti alle sirene futuristiche del mercato — quel che cantano, «uguaglianza dei diritti», «società libera», «né padroni né schiavi», non ci alletta! Peraltro non ci pare auspicabile che si fondi sulla terra il regno della giustizia e dell'armonia (perché diven­terebbe in ogni caso il regno della più profonda mediocrità e cineseria), ci rallegrano tutti coloro che amano come noi il pericolo, la guerra, l'avven­tura, che non si lasciano tacitare, acchiappare, riconciliare e castrare, ci annoveriamo tra gli esploratori, riflettiamo sulla necessità di nuovi ordina­menti, anche di una nuova schiavitù — perché a ogni rafforzamento ed ele­vazione del tipo «uomo» si associa necessariamente anche un nuovo genere di schiavismo — non è vero? Con tutto ciò, come non possiamo trovarci male in un'epoca che rivendica a suo onore il fatto di essere la più umana, la più mite, la più giusta che ci sia mai stata sotto il sole? È abbastanza gra­ve che proprio dietro queste belle parole si nascondano pensieri reconditi così brutti! Che vi si veda soltanto l'espressione — anche il travestimento — di una profonda debolezza, di stanchezza, di vecchiaia, di una forza in declino! Che cosa può importarcene delle cianfrusaglie con cui un malato tira a lucido la sua debolezza! Che la metta in mostra come una virtù: non c'è dubbio infatti che la debolezza renda miti, tanto miti, giusti, inoffensi­vi, «umani»! La «religione della compassione», alla quale ci vorrebbero convincere — oh, li conosciamo abbastanza, le donnicciole e gli ometti isterici che oggi hanno bisogno proprio di questa religione per nascondersi e ripulirsi! Noi non siamo filantropi; non ci permetteremmo mai di parlare del nostro «amore per l'umanità» — non siamo abbastanza attori per far­lo. O non abbastanza sansimonisti, o non abbastanza Francesi. Occorre es­sere afflitti da un eccesso gallico di eccitabilità erotica e impazienza inna­morata per avvicinarsi onestamente all'umanità con la propria fregola... All'umanità! C'è mai stata, fra tutte le vecchie, una vecchia più ripugnan­te? (dovrebbe forse essere «la verità»: è un problema da filosofi). No, noi non amiamo l'umanità; d'altra parte ormai da tempo non siamo neppure abbastanza «Tedeschi», nel senso comune che oggi si attribuisce a questa parola, per metterci dalla parte del nazionalismo e dell'odio razziale, per poter gioire della rogna che avvelena i cuori e il sangue delle nazioni e che fa sì che i popoli d'Europa si rinchiudano dentro i loro confini, come in quarantena l'uno contro l'altro. Siamo troppo spregiudicati, troppo mal­vagi, troppo viziati, anche troppo colti, troppo «giramondo»; preferiamo di gran lunga vivere in montagna, in disparte, «da inattuali», in secoli pas­sati o venturi, purché ci sia risparmiato il muto furore cui ci sapremmo condannati come testimoni oculari di una politica che rende squallido lo spirito tedesco, poiché lo rende vano, e inoltre è una politica piccina: non ha forse bisogno, affinché la sua creazione non crolli immediatamente, di radicarla tra due odi mortali? Non deve volere l'eternazione di questa divi­sione dell'Europa in Staterelli? Noi senza patria siamo, quanto alla razza e alla provenienza, troppo molteplici e misti, come «uomini moderni», e quindi poco tentati a partecipare a quella menzognera autoammirazione e libidine razziale che si osserva oggi in Germania quale segno distintivo dei sentimenti tedeschi e che pare doppiamente falsa e indecorosa al popolo del «senso storico». Noi siamo, in una parola — che sia la nostra parola d'onore! —, buoni Europei, gli eredi dell'Europa, gli eredi straordinaria­mente ricchi ma anche straordinariamente carichi di doveri di millenni di spirito europeo: in quanto tali, siamo cresciuti troppo rispetto al cristiane­simo e gli siamo avversi, proprio perché da esso veniamo, perché i nostri

202 LA GAIA SCIENZA

antenati erano cristiani di assoluta rettitudine cristiana, che di buon grado sacrificarono alla loro fede averi e sangue, ceto sociale e patria. Noi — fac­ciamo lo stesso? Ma per che cosa? Per le nostre incredulità? Per ogni gene­re di incredulità? No, voi lo sapete bene, amici miei! Il sì nascosto dentro di voi è più forte di tutti i no e i forse di cui, col vostro tempo, siete malati; e se dovete prendere il mare, voi emigranti, vi costringe a farlo — una/e-de\...

378.

«E torniamo ad essere limpidi.» Noi generosi e ricchi dello spirito, che stiamo sulla strada come fontane aperte e non impediamo a nessuno di at­tingere dalle nostre acque: purtroppo non sappiamo difenderci, anche se Io volessimo, non possiamo impedire a nessuno di renderci torbidi e cupi; — non possiamo impedire che il tempo in cui viviamo getti in noi la sua «ulti­ma attualità», i suoi sudici uccelli la loro immondizia, i fanciulli i loro pa­sticci e i viandanti miseri ed esausti che accanto a noi riposano le loro mise­rie grandi e piccine. Ma faremo come abbiamo sempre fatto: lasciamo che quanto ci gettano giunga in profondità — perché noi siamo profondi, non dimentichiamo niente — e torniamo ad essere limpidi...

379.

Interrompendo il buffone. Chi ha scritto questo libro non è un misan­tropo: al giorno d'oggi l'odio per l'uomo si paga troppo caro. Per odiare come si odiava un tempo, alla maniera di Timone, totalmente, senza cedi­menti, con tutto il cuore, con tutto Vamore dell'odio — occorre rinunziare al disprezzo: e quante gioie raffinate, quanta pazienza, quanta benevolen­za dobbiamo al nostro disprezzo! Con ciò siamo inoltre gli «eletti» di Dio: questo raffinato disprezzo è il nostro gusto e il nostro privilegio, la nostra arte, fors'anche la nostra virtù, giacché siamo i più moderni tra i moderni! L'odio invece mette sullo stesso piano, gli uni di fronte agli altri: l'odio è un onore e, infine, nell'odio c'è paura, una buona parte di paura. Ma noi impavidi, che siamo gli uomini più spirituali di questa epoca, conosciamo abbastanza bene i nostri vantaggi per vivere senza paura, essendo gli uomi­ni più spirituali, rispetto a questa epoca. Sarà difficile che ci decapitino, arrestino, esilino; né proibiranno e bruceranno sul rogo i nostri libri. Que­sta epoca ama lo spirito, lo ama e ha bisogno di noi, anche se dovessimo darle ad intendere che siamo artisti nel disprezzo; che ogni approccio con gli uomini ci procura un leggero brivido; che con tutta la nostra mitezza, pazienza, socievolezza, cortesia non possiamo persuadere il nostro naso a desistere dal pregiudizio che. prova quando vicino a lui c'è un uomo; che amiamo tanto più la natura quanto meno è umana, e amiamo l'arte quan­do è fuga dell'artista davanti all'uomo o beffarda ironia dell'artista sul­l'uomo e su se stesso...

380.

Parla «il viandante». Per osservare ancora una volta da lontano la no­stra moralità europea, per commisurarla ad altre moralità, precedenti o venture, occorre fare come un viandante che voglia sapere quanto sono al­te le torri di una città: deve abbandonare la città. I «pensieri sui pregiudizi morali», per non essere pregiudizi su pregiudizi, presuppongono una collo-

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cazione al di fuori della morale, un punto al di là del bene e del male verso il quale occorre salire, arrampicarsi, volare — e, in certi casi, un punto an­che al di là del nostro bene e male, una libertà da «tutta l'Europa», que­st'ultima intesa come una somma di tutti i pregiudizi prevalenti che ci sono passati nella carne e nel sangue. Il fatto che si voglia arrivare fuori e sopra è forse una piccola follia, un «tu devi» — stravagante e irragionevole, per­ché anche noi uomini della conoscenza abbiamo le nostre idiosincrasie del­la «volontà non libera»: il problema è se sia davvero possibile arrivare là sopra. Può dipendere da molte condizioni ma, principalmente, da quanto siamo leggeri o pesanti: il problema è cioè il nostro «peso specifico». Si de­ve essere molto leggeri per spingere la propria volontà di conoscenza a tale distanza e, per così dire, sopra il proprio tempo, per crearsi occhi con cui abbracciare i millenni e anche un cielo puro in questi occhi! Ci si deve esse­re svincolati da molto di quello che per l'appunto opprime, impedisce, trattiene, appesantisce noi Europei di oggi. L'uomo di un tale aldilà, che vuole vedere con i suoi occhi le supreme misure di valore del suo tempo, ha bisogno in primo luogo di «superare» questo tempo in se stesso — è una prova della sua forza — e, quindi, non solo il suo tempo, ma anche la ripu­gnanza e la contraddizione che ha avvertito sinora contro questo tempo, il suo patire per questo tempo, la sua inadeguatezza ad esso, il suo romanti­cismo...

381.

Sulla questione della comprensibilità. Non si vuole soltanto essere capiti, quando si scrive: certamente si vuole anche non essere capiti. Non è certo un difetto, per un libro, che qualcuno lo trovi incomprensibile: forse era proprio questa l'intenzione del suo estensore, — non voleva essere capito da «uno qualsiasi». Ogni spirito e gusto più distinto si sceglie, quando vuo­le comunicare, anche il suo uditorio: e mentre sceglie traccia dei limiti nei confronti degli «altri». È questa l'origine di tutte le leggi più raffinate dello stile: esse tengono lontani, creano distanza, proibiscono «l'accesso», la comprensione, come abbiamo detto, — mentre spalancano le orecchie di coloro che ci sono affini. E, sia detto Inter nos: per quanto mi riguarda — non voglio che né la mia ignoranza né la vivacità del mio temperamento mi impediscano di essere comprensibile per voi, amici miei; certo non la viva­cità, per quanto essa mi costringa ad avvicinarmi a una cosa in gran fretta, per potermici avvicinare. Io infatti mi accosto ai problemi più profondi co­me a un bagno freddo — subito dentro, subito fuori. Che così non si giun­ga negli abissi, non si scenda abbastanza in profondità, è la superstizione di chi ha paura dell'acqua, dei nemici dell'acqua fredda; essi parlano senza esperienza. Oh, il gran freddo rende veloci! E, sia detto per inciso: una co­sa rimane davvero non capita e non conosciuta per il fatto di essere sfiora­ta, scorta, folgorata con lo sguardo soltanto in volo? Occorre davvero at­tendere di essersi installati sopra di lei? Di averla covata come un uovo? Diu noctuque incubando, come Newton diceva di sé? Quanto meno esisto­no verità di particolare ritrosia e suscettibilità che non si possono afferrare se non tutto d'un tratto, -— che occorre sorprendere o lasciare... La mia brevità, inoltre, ha anche un altro valore: all'interno dei problemi che mi tengono occupato debbo dire molte cose brevemente affinché siano udite ancora più brevemente. In quanto immoralisti, infatti, ci si deve guardare dal guastare l'innocenza, intendo dire gli asini e le vecchie zitelle di ambo i sessi, che della vita non hanno altro se non la loro innocenza; dirò di più:

204 LA GAIA SCIENZA

le mie opere debbono entusiasmarli, elevarli, incoraggiarli alla virtù. Non mi pare ci possa essere niente di più divertente, sulla terra, che vedere vec­chi asini e zitelle eccitati dai dolci sentimenti della virtù, e «io l'ho visto» — così parlò Zarathustra. Questo con riferimento alla brevità; le cose non sono così semplici per quel che riguarda l'ignoranza, che non dissimulo neppure davanti a me stesso. Ci sono ore in cui me ne vergogno; ma natu­ralmente ci sono anche ore in cui mi vergogno di questa mia vergogna. Forse noi filosofi di oggi siamo tutti messi male nei confronti del sapere: la scienza progredisce e i più eruditi fra noi sono vicini a scoprire che sanno troppo poco. Ma sarebbe ancora peggio se le cose andassero diversamente, — cioè se sapessimo troppo: il nostro compito è e rimane in primo luogo quello di non scambiare noi stessi. Noi siamo diversi dagli eruditi, per quanto sia innegabile che siamo, fra l'altro, anche eruditi. Abbiamo altre necessità, un'altra crescita, un'altra digestione: ci occorre di più, ci occorre anche meno. Non ci sono formule che quantifichino ciò che occorre al nu­trimento di uno spirito; ma se il suo gusto è orientato verso l'indipendenza, a un rapido andirivieni, al vagabondaggio, ad avventure di cui forse solo i più veloci sono all'altezza, allora preferisce vivere liberamente, mangiando poco, piuttosto che non liberamente e ingozzato. Non grasso, ma la massi­ma scioltezza e forza sono ciò che un buon ballerino chiede al suo nutri­mento, — e io non saprei che cosa potrebbe augurarsi di meglio lo spirito di un filosofo se non di essere un buon ballerino. La danza è infatti il suo ideale, anche la sua arte e, in ultima analisi, anche la sua unica devozione, il suo «servizio divino»...

382.

La grande salute. Noi nuovi, senza nome, difficilmente comprensibili, noi prematuri di un futuro ancora non dimostrato — abbiamo bisogno, per un nuovo fine, anche di un nuovo mezzo, ovvero di una nuova salute, più forte, più scaltra, più tenace, più ardita, più impavida di quanto non lo siano state sinora tutte le saluti. Colui la cui anima anela ad aver conosciu­to l'intero orizzonte dei valori e di quanto è stato desiderato sin ad oggi, ad aver circumnavigato tutte le coste di questo «mar mediterraneo» ideale, chi vuole sapere dalle avventure della propria esperienza come si senta un con­quistatore, uno scopritore dell'ideale, e così pure un artista, un santo, un legislatore, un saggio, un erudito, un devoto, un profeta, un divino solita­rio alla maniera antica, ha bisogno in primissimo luogo di una cosa, una grande salute — tale che non solo la si ha, ma la si conquista e la si deve conquistare di continuo, perché di continuo la si sacrifica, la si deve sacri­ficare!... E adesso, dopo che siamo stati per strada, noi argonauti dell'i­deale, forse più coraggiosi di quanto sia saggio e spesso abbastanza nau­fraghi e sciagurati, pericolosamente sani ma pur sempre sani, — ci sembre­rà forse, quale ricompensa, di trovarci di fronte a una terra inesplorata i cui confini nessuno ha mai visto, al di là di tutte le lande e i cantucci del­l'ideale dati sino ad oggi, un mondo stracolmo di cose belle, ignote, enig­matiche, terribili e divine, tanto da far uscire di sé sia la nostra curiosità che la nostra sete di possesso — ah, non c'è ormai più niente che ci possa saziare! Come potremmo, dopo aver scorto tali cose e con una tale voraci­tà di conoscere e sapere, accontentarci degli uomini presentii Non è bello, ma è inevitabile che guardiamo alle loro mete e alle loro speranze più degne rimanendo seri soltanto a fatica, e forse non le guardiamo neppure. Da­vanti a noi corre un altro ideale, un ideale straordinario, tentatore, ricco di

LIBRO QUINTO. NOI SENZA PAURA 205

pericoli, al quale non vorremmo convincere nessuno perché a nessuno con­cediamo con tanta facilità il diritto di accostarsi ad esso: l'ideale di uno spirito che gioca ingenuamente, cioè senza volerlo e perché da lui trabocca­no pienezza e potenza, con tutto ciò che sinora era creduto santo, buono, intoccabile, divino; per il quale il termine supremo nel quale il popolo ha giustamente la sua misura di valore significherebbe già pericolo, decaden­za, abiezione o quanto meno distrazione, cecità, temporaneo oblio di sé; l'ideale di un benessere e di una benevolenza umani-sovrumani che sembre­ranno spesso disumani, ad esempio quando li si colloca accanto a tutta la serietà che sinora ha regnato sulla terra, a ogni solennità di gesti, parole, suoni, sguardi, morale e compiti, dì cui costituisce la più vivace e involon­taria parodia; un ideale con il quale soltanto, malgrado tutto, comincia forse la grande serietà e si pone il vero punto interrogativo, un ideale con il quale il destino dell'anima ha la sua svolta, la lancetta si muove, ha inizio la tragedia...

383.

Epilogo. Mentre tuttavia, in conclusione, dipingo con la massima lentez­za questo cupo punto interrogativo e sono ancora disposto a richiamare al­la memoria dei miei lettori le virtù della retta lettura — oh, che virtù oblia­te e ignote! — mi sovviene che intorno a me si fa sentire il riso più malva­gio, vivace e demoniaco: sono gli stessi spiriti del mio libro ad investirmi, a tirarmi le orecchie e a richiamarmi all'ordine. «Non ce la facciamo più», esclamano, «Basta, basta con questa musica nera come i corvi. Non ci cir­conda un chiaro mattino? E terreni e prati verdi e morbidi, il regno della danza? C'è mai stata ora migliore per essere gai? Chi ci canta un canto, un canto mattutino, così solare, lieve, aereo che neppure i grilli ne hanno pau­ra, e anzi si sentono invitati a cantare e danzare anch'essi? Meglio una semplice, rustica cornamusa di questi suoni misteriosi, queste grida sini­stre, voci funeree e fischi di marmotta di cui ci ha fatto dono sino ad oggi, caro signor eremita e musicante del futuro, nelle sue lande selvagge! No! Non queste note! Intoniamone di più gradevoli e gioiose!» Va bene così, miei impazienti amici? Orsù! Chi non si metterebbe volentieri a vostra di­sposizione? La mia cornamusa attende già, e anche la mia voce — può dar­si che sia un po' rauca, non vogliatemene male. In compenso siamo in montagna. Quel che vi capita di udire, però, è quanto meno nuovo; e se non lo capite, se fraintendete il cantore, che ve ne importa! È ormai questa la «maledizione del cantore». Quanto più chiaramente udirete la sua musi­ca e la sua melodia, tanto meglio potrete, al suono del suo strumento — danzare. Volete farlo?

APPENDICE

Canti del Principe Vogelfrei

A Goethe

L'intramontabile È la tua immagine! Dio, tessitore di trame È un inganno da poeti...

Ruota del mondo, che sempre rotea, Sfiora una meta dopo l'altra: Necessità, — la chiama l'astioso Il folle invece — la chiama gioco.

Gioco del mondo, sempre imperioso, Confonde essere e parvenza: L'eternamente stravagante Confonde anche noi — tirandoci dentro!

La vocazione del poeta

Di recente, per ristorarmi, Me ne stavo seduto sotto alberi ombrosi; E sentii ticchettare, ticchettare pian piano, Leggiadramente, con ritmo e armonia. Mi inalberai, feci smorfie su smorfie — Infine però cedetti anch'io Finché, proprio come un poeta, Presi a parlare facendo tictac.

Mentre così verseggiavo, Dintorno mi saltellavano le sillabe, oplà; Tanto che scoppiai a ridere, e risi Per un buon quarto d'ora. Tu un poeta? Tu un poeta? Non sarai fuori di testa? «Sissignore, lei è un poeta», Scrollar di spalle dell'uccello picchio.

Chi attendo con ansia nella macchia? Per chi sono appostato, come un brigante? È un detto? Un'immagine? D'un tratto La mia rima è dietro di lui. Quel che sguscia e saltella, subito

APPENDICE. CANTI DEL PRINCIPE VOGELFREI

Il poeta trasforma in verso. «Sissignore, lei è un poeta», Scrollar di spalle dell'uccello picchio.

Forse che le rime sono frecce? Come si dimena, trema e saltella Quando la freccia penetra Nelle parti nobili del suo corpicino di lucertola! Ah, voi ne morite, poveracci 0 barcollate come avvinazzati. «Sissignore, lei è un poeta», Scrollar di spalle dell'uccello picchio.

Battutine sghembe in tutta fretta Paroline ebbre, quanto incalzano! Finché tutti voi, una riga dopo l'altra, Non restate appesi alla catena del tictac. Ed esiste gentaglia crudele Che questo — gradisce? Son forse i poeti — cattivi? «Sissignore, lei è un poeta», Scrollar di spalle dell'uccello picchio.

Mi schernisci, uccello? Vuoi scherzare? Se la mia testa è già messa male, Non andrà ancora peggio al mio cuore? Temi, temi la mia collera! — Ma il poeta — intreccia rime Anche se in collera, bene o male. «Sissignore, lei è un poeta», Scrollar di spalle dell'uccello picchio.

Al Sud

Me ne sto appeso a un ramo ricurvo E dondolo la mia stanchezza; Fu un uccello a invitarmi qui, In un nido d'uccello io riposo. Ma dove sono? Lontano! Lontano!

Il mare bianco è addormentato, Purpurea lo solca una vela. Rocce, fichi, faro e porto, Idilli tutt'intorno, greggi di pecore, — Innocenza del Sud, accoglimi!

Un passo dopo l'altro — non è vita; L'aver sempre una gamba avanti rende tedeschi, e gravi. Io chiesi al vento di sollevarmi, Imparai a librarmi con gli uccelli, — Volai verso Sud, sul mare.

Ragione! Affare tedioso!

208 LA GAIA SCIENZA

Troppo presto ci porta alla meta! Volando appresi che cosa mi beffava, — Sentivo già coraggio e sangue e linfa Per una vita nuova, un nuovo gioco...

Pensare da soli io lo chiamo saggio, Ma cantare da soli — sarebbe sciocco! Udite un canto in vostra lode E fermatevi in cerchio intorno a me, Voi malvagi uccelletti, per un po'!

Così giovani, falsi e irrequieti Non sembrate proprio fatti per l'amore E ogni bel passatempo? Al Nord — lo ammetto con un brivido — Amavo una donnina, vecchia da far paura: «Verità» si chiamava la vecchina...

La pia Beppa

Finché grazioso ho il corpicino Varrà la pena di esser pia. Si sa che Dio ama le femminucce, Quelle graziose in specie. Certamente il fraticello Egli vorrà perdonare II quale, come altri fraticelli, Con me volentieri si trattiene.

Non grigi padri della chiesa! No, ancora giovani e spesso rubicondi E spesso, a dispetto del gatto più bigio, Traboccanti di brama e gelosia. Io non amo i vecchi, Lui non ama le vecchie: Con quanta mirabile saggezza Dio ha sistemato ogni cosa!

La Chiesa sa come vivere, Mette alla prova il volto e il cuore. Mi perdonerà sempre, — E chi non mi perdona! Si bisbiglia con la boccuccia, Ci si inginocchia e si vien fuori, E col nuovo peccatuccio Si cancella quello vecchio.

Sia lodato Iddio sulla terra Che ama le fanciulle graziose E simili pene del cuore A se stesso perdona volentieri. Finché grazioso ho il corpicino

APPENDICE. CANTI DEL PRINCIPE VOGELFREI 209

Varrà la pena di esser pia; Quando sarò una vecchina traballante Che mi chieda in sposa il diavolo!

La navicella misteriosa

Ieri notte, quando tutto dormiva, E solo il vento con incerti Sospiri pei vicoli correva, Non mi davano riposo né il guanciale, Né il papavero, né quanto di solito d'un sonno profondo Fa dormire, — la buona coscienza.

Infine mi strappai il sonno Dai sensi e corsi in spiaggia. C'era un dolce chiaro di luna; incontrai Uomo e barca sulla sabbia calda, Sonnolenti entrambi, pastore e pecora; E sonnolenta la barca salpò da terra.

Un'ora, fors'anche due, 0 fu un anno? — all'improvviso Mi sprofondarono sensi e pensieri In un'eterna monotonia, E un abisso sconfinato Si spalancò: era tutto passato!

Venne il mattino: su abissi neri Riposa, immota, una barca... Che accadde? Gridarono, presto Gridarono in cento: c'è stato del sangue? Niente accadde! Dormimmo, dormimmo Tutti — ah, così bene! così bene!

Dichiarazione d'amore (durante la quale il poeta cadde in un fosso)

Che prodigio! Vola ancora? Salen, e sono immote le sue ali?

Che cos'è allora a portarlo e sollevarlo? Cos'è per lui meta, e salto e freno?

Come le stelle e l'eternità Vive adesso in dileggi che la vita fugge,

Ha compassione persino dell'invidia: E volò in alto chi lo vede anche solo librarsi!

Oh, uccello albatro! Verso l'alto mi spinge un eterno impulso.

Pensai a te, e lacrime Su lacrime solcarono il mio viso, — sì, io ti amo!

210

Canto di un capraio teocriteo

Sto coricato, malati gli intestini, — Mi divorano le cimici. E là c'è ancora luce e chiasso! Li odo danzare...

Lei voleva, in quest'ora, Sgaiattolare da me. L'attendo come un cane, — Ma non dà segno di vita.

E la croce, quando promise? Come poteva mentire?

— O corre dietro a tutti Come le mie capre?

Donde la sua serica veste? Ah, la mia orgogliosa! Ci sono altri caproni In questo bosco?

— Come confonde e invelenisce L'attesa d'amore! Crescon nelle notti grevi Funghi velenosi nel giardino.

L'amore mi lacera Come sette mali, — Quasi non ho voglia di mangiare. Addio, cipolle!

La luna è già nel mare, Stanche sono le stelle Grigio spunta il giorno, — E io vorrei morire.

«Queste anime incerte»

Con queste anime incerte Sono penosamente adirato. Tutti i loro onori son tormenti, Tutta la loro lode, tedio di sé e vergogna.

Poiché non con la loro corda Passo attraverso il tempo Mi saluta dal loro sguardo Un'invidia disperata, dolce-velenosa.

Che mi maledicano di cuore E storcano il naso!

LA GAIA SCIENZA

APPENDICE. CANTI DEL PRINCIPE VOGELFREI

Di questi occhi l'inerme ricerca Su di me si ingannerà in eterno.

Giullare disperato

Ah! Che scrivo su tavolo e muro Con cuore e mano di giullare Per abbellire tavolo e muro?...

Ma voi dite: «Mani di giullare scarabocchiano; — Occorre purgare tavolo e muro Finché non scompaia anche l'ultima traccia!». Con permesso! Ci metto mano — Imparai a usare spugna e granata Come critico, come acquaiolo.

Eppure, concluso il lavoro, Vorrei vedervi, voi tanto saggi, Tavolo e muro coprir di verg...

Rimus remedium (ovvero: come si consolano i poeti malati)

Dalla tua bocca, o tempo, Tu bavosa strega che non sei altro, Stilla lentamente ora su ora. Invano grido tutta la mia nausea:

«Maledetta, maledetta sia la gola Dell'eternità!».

Il mondo — è di bronzo, Un toro infuocato, non ode un grido. Con un pugnale alato scrive il dolore Nelle mie ossa:

«Il mondo non ha cuore, E sarebbe stolto volergliene per questo!».

Versa tutti i papaveri, Versa, febbre! Avvelenami il cervello! Troppo a lungo mi metti alla prova mano e fronte. Che domandi? Cosa? «A che — prezzo?»

Ah, ah! Maledetta sgualdrina, Col tuo scherno!

No! Torna indietro! Fuori fa freddo, sento che piove — Debbo trattarti più gentilmente? — Prendi! Qua c'è dell'oro, guarda come brilla! —

Chiamarti «felicità», Te, o febbre, benedire? —

Si spalanca la porta!

212 LA GAIA SCIENZA

La pioggia schizza sul mio letto! Il vento spegne la luce — sventure a più non posso! — Chi non avesse centinaia di rime,

scommetto, scommetto che creperebbe!

«Mia felicità»

Rivedo le colombe di San Marco; Silente è la piazza, vi riposa il mattino. Nel fresco soave invio pigro i miei canti — Come frotte di colombi nell'azzurro

E li richiamo Per appendere alle piume un altro verso — mia felicità, mia felicità!

Tu muto tetto celeste, tu azzurro-luce, di seta Come ti libri a custodire il variopinto edificio Che io — che dico — amo, temo, invidio... Mi piacerebbe suggergli tutta l'anima!

Gliela restituirei! — No, non parlare, miracoloso pascolo degli occhi — mia felicità, mia felicità!

Tu torre severa, con balzo da leone Ti ergi vittoriosa e mai stanca! Inondi la piazza di profonde risonanze: Saresti tu il suo francese accent aiqul

Se rimanessi come te qua indietro Saprei, con violenza liscia come seta — mia felicità, mia felicità!

Via, via, musica! Lascia che scuriscano le ombre E diventino una notte tiepida e bruna! È troppo presto per le note, i fregi dorati Non scintillano ancora nel rosato bagliore.

È rimasto ancora tanto giorno, Tanto giorno per poetare, insinuarsi furtivi, mormorare solinghi — mia felicità, mia felicità!

Verso nuovi mari

Là — voglio andare; e confido In me, d'ora in poi, e nei mio timone. Aperto è il mare, verso l'azzurro Mi spinge la mia nave genovese.

Tutto riluce sempre più nuovo Su spazio e tempo dorme il meriggio Solo il tuo occhio —, immenso, Mi guarda, o infinito!

APPENDICE. CANTI DEL PRINCIPE VOGELFREI

Sils-Maria

Qua ero seduto, in attesa, in attesa — di niente, Al di là del bene e del male, ora la luce Godendo, ora l'ombra, tutto solo gioco, Tutto mare, tutto merìggio, tempo senza meta.

Ma all'improvviso, o amica! Di Uno furono Due — — e mi passò davanti Zarathustra...

Al maestrale (Canzone da ballo)

Vento di maestrale, tu cacciator di nubi, Che uccidi la malinconia e spazzi il cielo Mugghiando, quanto ti amo! Non siamo noi due di un unico grembo I primogeniti, a un'unica sorte Predestinati per l'eternità?

Qui su lisci sentieri rocciosi Ti corro incontro danzando, Danzando mentre tu fischi e canti: Tu che senza nave e senza remo, Fratello più libero della libertà, Balzi su mari selvaggi.

Appena desto ti udii chiamare Mi precipitai sui gradini di roccia, Questa gialla parete sul mare. Salute! Già giungevi, come chiare Rapide adamantine Dai monti, vittorioso.

Sulle pianeggianti aie del cielo Vidi cavalcare il tuo destiero, Vidi il carro che ti porta, Vidi guizzare la tua mano Che veloce come il fulmine la schiena Dei cavalli colpiva con la frusta, —

Ti vidi balzare dal carro, Scagliarti veloce in basso, Ti vidi accorciare come un dardo Che verticale penetra l'abisso, — E come un raggio dorato trafigge Le rose della prima aurora.

Danza adesso su mille dorsi, Dorsi di onde, malizie di onde, Salute a chi crea nuove danze! Danziamo in mille modi,

LA GAIA SCIENZA

Libera — sia detta la nostra arte, Gaia — la nostra scienza!

Ghermiamo da ogni pianta Un fiore a nostra gloria E due foglie a far da corona! Danziamo come trovatori Tra santi e puttane Tra Dio e il mondo della danza!

Chi non danza coi venti, Chi si deve avviluppare in fasce Accigliato come un vecchio storpio, Chi somiglia agli ipocriti, A onorevoli babbei e oche virtuose, Se ne vada dal nostro paradiso!

Facciamo mulinare la polvere delle strade Nel naso a tutti i malati, Terrorizziamo questa covata d'infermi! Liberiamo tutta la costa Dall'alito di petti scarni, Da occhi senza coraggio!

Cacciamo chi intorbida il cielo, Fa nero il mondo e addensa le nubi, Rischiammo il regno dei cieli! Fremiamo... oh, spirito di tutti Gli spiriti liberi, in coppia con te Come tempesta freme la mia felicità.

— Perché sia eterna la memoria Di tale felicità, accogline il legato, Prendi in consegna la sua ghirlanda! Gettala più in alto, distante, lontano, Precipitati lassù, sulla scala del cielo, Appendila — alle stelle!