Francovich, Riccardo - Archeologia E Storia Del Medioevo Italiano (PDF)

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Premessa La raccolta di saggi che andiamo a presentare ha obiettivi limitati e destinazioni ben definite. Si rivolge infatti ad un pubblico vasto che ha interessi archeologici, ma soprattutto a studenti di archeologia medievale e più in generale a chi lavora nell'ambito della storia medievale, rendendo facile l'accesso ad articoli e contributi dispersi nelle più varie sedi e non di rado di difficile reperimento. I contributi, opera sia di storici che di archeologi, di taglio non sempre specialistico, hanno in comune la caratteristica di giungere ad analisi e a considerazioni di carattere generale per la ricostruzione della società medievale e costituiscono nel loro insieme un territorio di interessi definiti ma allo stesso tempo largamente convergente. Gli archeologi medievali, lavorando in un'area di ricerca ancora molto giovane e per la natura stessa del lavoro archeologico—che catalizza forze fisiche ed intellettuali su aspetti talvolta particolari e comunque generalmente estremamente definiti nello spazio -, hanno teso per lo più a produrre nuove evidenze e ad elaborare i propri strumenti di analisi piuttosto che a stendere sintesi o interpretazioni complessive. Quando sono stati in grado di elaborare contributi di interesse più generale, questi, per la limitatezza del raggio di penetrazione dei loro tradizionali mezzi di comunicazione, sono rimasti sepolti in sedi poco note al grande pubblico o, quando lo hanno raggiunto, non sono sempre stati all'altezza del compito. Con questa raccolta, che pure seleziona drasticamente, per ovvi motivi di spazio, si vuole evidenziare, attraverso le parole degli stessi protagonisti della ricerca, il ruolo che può e deve avere l'indagine archeologica per allargare e approfondire i temi di una storiografia che è sempre più attenta e finalizzata a ricostruzioni della società preindustriale non più selezionando attraverso scale di valori precostituiti. Se è vero che ancora oggi molte delle ricerche archeologiche e molti scavi hanno il carattere dell'occasionalità e la loro distribuzione nelle diverse aree della penisola è indipendente da un quadro di programmazione generale, è altrettanto vero che dietro non poche iniziative di ricerca sul campo si nota un'impostazione strategica a cui le domande storiografiche non sono certo assenti. E comunque i dati acquisiti sono ormai tanti e nuovi. Oggi inizia ad essere possibile immaginarsi di "riscrivere" la storia sulla base anche di quanto prodotto dalla ricerca sul campo e sui materiali conservati nei musei in poco più di venti anni, da quando cioè l'indagine nel settore ha iniziato a procedere con una accelerazione notevole. In alcuni settori della ricerca storica o, per meglio dire, per alcuni periodi definiti il contributo della ricerca archeologica ha sempre rappresentato e costituito un punto di riferimento, basti pensare all'archeologia longobarda e più in generale all'archeologia altomedievale; in altri settori e per altre epoche, come anche per la storia urbana, il contributo della ricerca archeologica viceversa si fermava alle fasi classiche e a quelle che comunque potevano presentare aspetti monumentali. La storia dell'insediamento medievale è stato campo di indagine talvolta estremamente incisivo di soli storici; al proposito il richiamo alle opere di Elio Conti sul contado fiorentino e di Pierre Toubert sul Lazio è d'obbligo, come la stessa ricostruzione della maglia degli scambi commerciali era affidata alle sole fonti scritte; rimanevano ignorati non solo aspetti fondamentali della produzione di beni di consumo come la ceramica, il vetro e tutti i processi tecnologici legati a questi come ad altri aspetti, ma la stessa risorsa di messaggio e la valenza documentaria che questi materiali hanno. I singoli saggi che qui si pubblicano affrontano alcuni dei problemi appena accennati facendo in ogni caso un ricorso organico alla fonte archeologica, superando il limite di una sterile polemica, che fortunatamente pare avere poche radici nell'esperienza italiana, almeno per il Medioevo, polemica che ha visto oziose contrapposizioni fra storici ed archeologi. Gli uni e gli altri infatti sono "produttori" di "evidenze", gli uni non possono fare a meno del "documento" prodotto dagli altri come delle rispettive problematiche: esiste in sostanza, il problema della ricostruzione di una

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Premessa

La raccolta di saggi che andiamo a presentare ha obiettivi limitati e destinazioni ben definite. Sirivolge infatti ad un pubblico vasto che ha interessi archeologici, ma soprattutto a studenti diarcheologia medievale e più in generale a chi lavora nell'ambito della storia medievale, rendendofacile l'accesso ad articoli e contributi dispersi nelle più varie sedi e non di rado di difficilereperimento. I contributi, opera sia di storici che di archeologi, di taglio non sempre specialistico,hanno in comune la caratteristica di giungere ad analisi e a considerazioni di carattere generale perla ricostruzione della società medievale e costituiscono nel loro insieme un territorio di interessidefiniti ma allo stesso tempo largamente convergente.Gli archeologi medievali, lavorando in un'area di ricerca ancora molto giovane e per la natura stessadel lavoro archeologico—che catalizza forze fisiche ed intellettuali su aspetti talvolta particolari ecomunque generalmente estremamente definiti nello spazio -, hanno teso per lo più a produrrenuove evidenze e ad elaborare i propri strumenti di analisi piuttosto che a stendere sintesi ointerpretazioni complessive. Quando sono stati in grado di elaborare contributi di interesse piùgenerale, questi, per la limitatezza del raggio di penetrazione dei loro tradizionali mezzi dicomunicazione, sono rimasti sepolti in sedi poco note al grande pubblico o, quando lo hannoraggiunto, non sono sempre stati all'altezza del compito.Con questa raccolta, che pure seleziona drasticamente, per ovvi motivi di spazio, si vuoleevidenziare, attraverso le parole degli stessi protagonisti della ricerca, il ruolo che può e deve averel'indagine archeologica per allargare e approfondire i temi di una storiografia che è sempre piùattenta e finalizzata a ricostruzioni della società preindustriale non più selezionando attraverso scaledi valori precostituiti.Se è vero che ancora oggi molte delle ricerche archeologiche e molti scavi hanno il caratteredell'occasionalità e la loro distribuzione nelle diverse aree della penisola è indipendente da unquadro di programmazione generale, è altrettanto vero che dietro non poche iniziative di ricerca sulcampo si nota un'impostazione strategica a cui le domande storiografiche non sono certo assenti. Ecomunque i dati acquisiti sono ormai tanti e nuovi.Oggi inizia ad essere possibile immaginarsi di "riscrivere" la storia sulla base anche di quantoprodotto dalla ricerca sul campo e sui materiali conservati nei musei in poco più di venti anni, daquando cioè l'indagine nel settore ha iniziato a procedere con una accelerazione notevole.In alcuni settori della ricerca storica o, per meglio dire, per alcuni periodi definiti il contributo dellaricerca archeologica ha sempre rappresentato e costituito un punto di riferimento, basti pensareall'archeologia longobarda e più in generale all'archeologia altomedievale; in altri settori e per altreepoche, come anche per la storia urbana, il contributo della ricerca archeologica viceversa sifermava alle fasi classiche e a quelle che comunque potevano presentare aspetti monumentali. Lastoria dell'insediamento medievale è stato campo di indagine talvolta estremamente incisivo di solistorici; al proposito il richiamo alle opere di Elio Conti sul contado fiorentino e di Pierre Toubertsul Lazio è d'obbligo, come la stessa ricostruzione della maglia degli scambi commerciali eraaffidata alle sole fonti scritte; rimanevano ignorati non solo aspetti fondamentali della produzionedi beni di consumo come la ceramica, il vetro e tutti i processi tecnologici legati a questi come adaltri aspetti, ma la stessa risorsa di messaggio e la valenza documentaria che questi materiali hanno.I singoli saggi che qui si pubblicano affrontano alcuni dei problemi appena accennati facendo inogni caso un ricorso organico alla fonte archeologica, superando il limite di una sterile polemica,che fortunatamente pare avere poche radici nell'esperienza italiana, almeno per il Medioevo,polemica che ha visto oziose contrapposizioni fra storici ed archeologi. Gli uni e gli altri infattisono "produttori" di "evidenze", gli uni non possono fare a meno del "documento" prodotto daglialtri come delle rispettive problematiche: esiste in sostanza, il problema della ricostruzione di una

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società che ha lasciato diversi tipi di testimonianze: si tratta di capire e di cogliere il valore del"campione"documentario - sia esso fonte scritta o materiale - su cui stiamo lavorando, confrontarlo,integrarlo e spiegarlo.Vi sono tendenze oggettive e soggettive alla "riduzione" del lavoro archeologico all'antiquaria ealla mera classificazione descrittivistica, come pub esistere l'attitudine alla semplice "edizione" e"traduzione" del documento scritto: I'interpretazione dei fatti, che costituisce il mezzo per fareavanzare e arricchire le problematiche di ricerca, è impegno degli archeologi in un confrontosistematico con la documentazione scritta e la problematica storica, ma è altrettantoimprescindibile per gli storici non rinunziare alla risorsa costituita dall'evidenza e dallaproblematica archeologica.In questo senso i saggi raccolti in questo volume, seppure diversi fra loro, sono a mio avvisoesemplari perché vi si coglie generalmente il tentativo di elaborare interpretazioni senzaselezionare tipi di informazioni disponibili e d'altra parte gli autori riescono ad indicare prospettivedi ricerca, ponendo nuove domande e nuovi problemi. L'acquisizione di nuove informazioni e lacostruzione di nuovi "documenti" potrà mutare il quadro che in alcuni di essi si è iniziato adelineare, ma rimane sostanzialmente fermo, se non altro, il dato fortemente positivo dell'usointrecciato delle diverse tecniche di ricerca.Il dibattito su queste tematiche, iniziato utilmente un quindicennio fa sulle pagine di "QuaderniStorici" e quindi proseguito e per certi aspetti allargato sulle pagine di "Archeologia Medievale",inizia a dare i suoi primi frutti, anche se fra storici, geografi e archeologi non sono mancati e nonmancano momenti di incomprensione e di confronto anche severo, da cui per altro tutti possonouscire arricchiti.I limiti di una selezione di contributi che affronta prevalentemente i problemi accennati sonoevidenti non solo sul tema in questione del rapporto storia-archeologia, ma soprattutto perché sonosostanzialmente elusi tutti i problemi di quel largo spazio costituito dalla specificità metodologicadell'archeologia medievale, che rappresenta un momento non secondario della ricerca, trovando fral'altro vastissimi territori comuni non solo con tutte le altre archeologie (preistorica, classica epostmedievale), ma anche con le scienze naturali, il restauro dei monumenti e in generale con lediscipline che investono lo studio, la valorizzazione e la tutela della sedimentazione storica.Verso gli autori dei saggi il curatore della raccolta ha un debito di riconoscenza particolare, nonsolo perché hanno gentilmente espresso la disponibilità alla ristampa dei loro lavori, apportando avolte modifiche, correzioni e aggiornamenti o "subendo" alcuni ritocchi, ma per la pienacollaborazione data in fase di composizione del volume, che in alcuni casi, come ad esempio neisaggi di 0. von Hessen, di C. La Rocca e P. Hudson e di R. Hodges, li ha spinti a fornire unatraduzione di testi usciti recentemente in altri paesi, offrendo la possibilità di accedere a contributiinediti in Italia.

È stato più volte ricordato che paragonata alle altre archeologie, I'archeologia medievale appareancora ad uno stato di "infanzia", giacché possiamo far risalire la "fondazione" di questa disciplinacome scienza storica agli inizi degli anni Sessanta. Fu infatti Gian Piero Bognetti che in un articolocomparso nel 1964 su I rapporti pratici tra storia e archeologia pose «con forza il problema delrapporto organico fra le due aree di ricerca sottolineando fin dall'apertura del saggio che «I'operaredell'archeologo presuppone un corredo talvolta assai raffinato di nozioni storiche» e aggiungevache . «è di per sé, un problema "storico" quello che spinge all'indagine archeologica; ed è laconsapevolezza storica che fornisce, nella più parte dei casi, i principali criteri per la valutazione diquanto viene scoperto dall'archeologo». 1 E Bognetti parlava facendo riferimento ad una esperienzache lo aveva visto protagonista: egli infatti, che già fra le due guerre aveva individuato i resti diCastelseprio (Varese), la cui rilevanza per la conoscenza dell'Altomedioevo è divenutaparadigmatica, si era fatto promotore di campagne di scavo nel sito dell'insediamento medievale

1 In Tecnica e diritto nei problemi dell'odierna archeologia, Roma (CNR) 1964, PP. 169-76.

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utilizzando una équipe di archeologi dell'"Istituto di Storia della Cultura Materiale" 2 e avevaintrapreso, con lo stesso gruppo di studiosi, le ricerche sulle origini di Venezia impiantando uncantiere a Torcello 3 Contemporaneamente si diffondeva e si allargava il dibattito sull'archeologianell'ambito del "Centro italiano di studi sull'Alto Medioevo" di Spoleto e, sotto i suoi auspici,vennero intrapresi gli scavi sull'insediamento altomedievale di Invillino 4 (Udine) diretti daJoachim Werner, lo studioso che già da tempo era noto in Italia per essere stato l'editore con ilFuchs5 di materiali prevalentemente longobardi rinvenuti a partire dall'inizio del XIX secolo 6.Sempre alla metà degli anni Sessanta datano la prima istituzione di una cattedra di archeologiamedievale nelle università italiane e la fondazione del "Museo dell'Altomedioevo" a Roma 7, che sicostituiva riunendo i materiali provenienti dagli scavi di fine Ottocento e primi Novecento dellenecropoli longobarde di Nocera Umbra e Castel Trosino e accogliendo viceversa soltanto pochimateriali altomedievali laziali. In sostanza in questi anni si andava legittimando e consolidandol'uso della ricerca archeologica per l'Altomedioevo, seguendo un percorso che saldava in qualchemodo la tradizione archeologica tardo antica e quella della ricerca protostorica mitteleuropea conla storia.Nello stesso tempo, sotto la spinta di una storiografia medievale italiana che si andava rinnovandosoprattutto grazie al ruolo propulsivo della scuola delle "Annales", si impiantavano una serie diindagini sul terreno che travalicavano i confini di una periodizzazione che concludeva il ruolo

2 M. Dabrowska, L. Leciejewicz, E. Tabaczynska, S. Tabaczynski, Castelseprio: scavi diagnostici 1962-63, "Sibrium",XIV (1978-79), PP.1-138, al quale si rinvia per la bibliografia.3 L. Leciejewicz, E. Tabaczynska, S. Tabaczynski, Torcello. Scavi 1961-62 , Roma (Istituto Nazionale dell'Archeologiae Storia dell'Arte, monografie III) 1977.4 Cfr. G. Fingerlin, J. Garbsh, J. Werner, Gli scavi nel castello longobardo di Ibligo lnvillino(Friuli). Relazione preliminare delle campagne del 1962, 1963 e 1965, "Aquileia nostra", XXXIX(1963), PP.85-135, gli scavi ripresi nel 1972 e 1973 sono stati pubblicati preliminarmente sullastessa rivista nel 1973 da V. Brierbauer, mentre l'edizione definitiva è ancora in corso di stampa.5 S. Fuchs, J. Werner, Die longobardische Fibeln aus Italien, Berlin 1950.66 Uno dei maggiori rinvenimenti di materiali fu ottenuto infatti, nel tentativo di individuare l'abitato romano alle portedi Cividale, fra il 1817 e il 1826 quando il religioso Michele della Torre fece emergere una grande necropoli romana frale cui tombe si trovavano anche numerose inumazioni con corredo costituito da oggetti «preziosissimi, in oro, bronzodorato, in gioie benissimo conservate e tutte con appiccicagnolo di imperatori greci, le quali usavano partare al collo»,che l'erudito riteneva appartenere ad un cimitero costituito al momento di una battaglia fra Goti e Bizantini, mentre sisarebbe scoperto soltanto successivamente che si trattava invece delle tombe dei longobardi della prima generazionegiunta in Italia al seguito di Alboino. Dopo la scoperta di tale celebre necropoli - cfr. fra l'altro M. Brozzi, Il sepolcretolongobardo "Cella": una importante scoperta archeologica di Michele della Torre alla luce dei suoi manoscritti,"Forum lulii", I (1977), PP. 22-62 - nel corso dell'Ottocento, e segnatamente nella seconda metà del secolo, siinfittiscono le notizie di rinvenimenti e scavi di necropoli appartenenti all'epoca longobarda. Ma sarà soltanto fra il1893 e 1898 che archeologi professionisti (sebbene non medievalisti) scaveranno le due più note e vaste necropolidell'Italia centrale, quelle di Nocera Umbra e Castel Trosino. Da questo momento i ricchi corredi delle popolazionigermaniche catalizzano l'interesse degli archeologi, un interesse che sarà di tipo antiquariale e/o "ideologico" e soltantopiù recentemente diverrà interesse puramente scientifico in un contesto di rapporto fra "culture" (cfr. Germani eRomani, a cura di V. Brierbrauer e C. G. Mor Bologna 1986). In sostanza con l'edizione delle due necropoli di Nocera eCastel Trosino, rispettivamente nel 1919 e nel 1902, nasce quell'archeologia longobarda, che, all'indomani dellericerche dello svedese Salin (1904), diventeranno ben presto terreno di ricerca privilegiato di studiosi di stirpegermanica quali Aberg, Fuchs, Werner e von Hessen, cui va il merito di una sistemazione complessiva dei materiali chesempre più numerosi, e disordinatamente in molti casi, entreranno nelle collezioni dei musei italiani (ma anchestranieri, per opera dei clandestini, ed il caso di Chiusi è esemplare), dopo essere emersi nel corso di scavi operanti daarcheologi nostrani, i cui studi rimarranno per altro marginali rispetto alla consolidata ed egemone tradizione tedesca:il Galli, editore dei materiali chiusini e vivace operatore nell'ambito fiesolano, ne è un tipico esempio. Ma per una storiadegli studi nel campo dell'archeologia longobarda, ancora da definire analiticamente, si rinvia al primo capitolo delvolume di A. Melucco Vaccaro, I longobardi in Italia, Milano 1982.7Per le problematiche inerenti il museo in questione si rinvia agli ampli contributi di A. MeluccoVaccaro e L. Paroli che aprono il X numero di "Archeologia Medievale".

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dell'archeologia con l'" origine" del romanico8 e l'inizio di una documentazione scrittarelativamente ricca, aprendo la strada per affrontare i temi legati alle vicende dell'insediamento e alrapporto uomo-ambiente, e per studiare i fondamenti materiali delle strutture sociali allargandol'orizzonte della ricerca storica e liberando «in una certa misura la storia sociale dalla suadipendenza dalla storia economica»9.La dilatazione cronologica dell'indagine archeologica ha posto sul tappeto della ricerca oltre che,come abbiamo appena detto, il problema di un confronto più serrato con la documentazione scrittae quindi con problematiche storiografiche più mature e complesse, anche quello del rapporto conuna tradizione antiquaria di radici profonde10 . In particolare si è posto il problema del "recupero"della cultura neogotica, che alla fine del secolo scorso e nei primi decenni di questo aveva avuto ungrandissimo peso nello studio dei monumenti medievali e negli stessi centri abitati,11 con ilcollezionismo di origine ottocentesca che, ad opera soprattutto di anglosassoni e tedeschi, avevafornito materiali ceramici e gli "incunaboli" della maiolica italiana ai musei pubblici e privati dimolti paesi europei12, e più in generale con la tradizione positivistica, le cui acquisizioni, e ci bastipensare alle esperienze di Boni e di Pigorini13 o agli studi storico-archeologici sull'attività estrattivadella seconda metà dell'Ottocento14, potevano essere utilizzate e ricollocate in un quadro diriferimento molto più maturo e in grado di ridefinirle come documenti di maggior significato.Nel quadro di "allargamento" tematico e cronologico della ricerca archeologica postclassicaassumono un ruolo non secondario anche gli scavi e le indagini di superficie promossi in Italia dallaBritish School di Roma, diretta prima da J. Ward Perkins e quindi da D. Whitehouse, che concentra

8 Di questa opinione, poi parzialmente rivista, era M. Cagiano de Azevedo, Lo studiodell'archeologia medievale in Italia, in Atti del 11 Congresso Nazionale di Archeologia Cristiana,Matera 25-31 maggio 1969, Roma 1971, PP. 9-17.9 Si veda quanto scriveva G. Duby ( Le società medievali , Torino 1985, P. 103 S.) a proposito dell'archeologiamedievale agli inizi degli anni Settanta.10Basti fare riferimento al Muratori e ai suoi "continuatori" sparsi in molte delle regioni italiane, e per quanto riguardala Toscana è d'obbligo il riferimento ad opere come i Viaggi del Targioni Tozzetti, dove cultura umanistica eosservazione scientifica sono inestricabilmente congiunte, o come il Dizionario storico e topografico, di EmanueleRepetti che sono i più espliciti esempi di quella cultura, e che a tuttoggi rimangono base documentaria e punto dipartenza di non pochi studi storico topografici ed archeologici.11In questo quadro il gusto "archeologico" ed il desiderio del pittoresco iniziò ad investire i monumenti medievali ed inparticolare quelli gotici, sotto la spinta della cultura transalpina, soprattutto nell'Italia settentrionale ed in Piemonte inparticolare, dove l'ispirazione seottiana faceva porre al centro di non poca produzione di romanzi il paesaggio delrudere e del eastello fino dal primo Ottocento, e dove lavorerà il d'Andrade, il cui operare originalmente sulle orme diViollet le Duc, influenzerà la cultura restaurativa italiana ben oltre Boito. Per un esaustivo quadro del gusto"archeologico" Ottocentesco si vedano le belle pagine introduttive di A. A. Settia, Castelli e villaggi nel’Italia padana,Napoli 1984.12 Manca fino ad ora una storia del collezionismo e dell'erudizione antiquaria relativa al materiale medievale quindi èimpossibile valutare con precisione il ruolo svolto da personaggi quali Fortnum, Wallis, Bode, Langton Douglasaccanto ai nostri Funghini, Argnani, Passeri, Campori, Malagola, Urbani di Gheltof. Numerosi riferimenti a quantoelaborato a cavallo fra Ottocento e Novecento da questa generazione di studiosi, che ha costruito le basi per una storiadella ceramica che generalmente non parte prima della comparsa della maiolica arcaica, sono contenuti nelle più recentiricerche che si vanno pubblicando sempre più numerose a livello regionale e locale. Il disinteresse generalmenteconstatabile fino agli inizi degli anni Sessanta verso quelle classi ceramiche che definiamo acrome, verso cioè laceramica di uso comune non decorata, ha privato però la ricerca di strumenti di grande utilità per i secoli centrali e perl'Altomedioevo, un'area dove la ceramica è ancor oggi difficilmente utilizzabile come "fossile guida".13 Sul problema si veda D. Manacorda, Cento anni di ricerche archeologiche italiane: il dibattito sul metodo ,"Quaderni di Storia", 16 (1982), pp. 85-119.14 Si fa riferimento in particolare ai lavori di L. Simonin sull'attività estrattiva, il lavoro metallurgico e sugli statutiminerari di Massa Marittima e più in generale della Toscana pubblicati negli anni 1858-1859 sulle "Annales desMines", temi che troveranno momenti di approfondimento nei lavori dell'Haupt e del Lotti. Tali indagini minerarie chehanno paralleli cultori in varie parti d'Italia, continueranno ad essere fertile terreno di ricerca per gli archeologi ed inparticolare degli etruscologi che sulla rivista "Studi etruschi", daranno, fra la fine degli anni Venti e i primi anniCinquanta, ampio margine all'argomento grazie soprattutto all'interesse di Minto, il quale, per altro, mostra una chiaratendenza ad appiattire sull'epoca preromana ogni forma di attività estrattiva con caratteristiche preindustriali.

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la sua attenzione sui villaggi abbandonati del meridione e dell'area laziale15, mentre sempre aricercatori anglosassoni si devono le prime sistemazioni dei materiali ceramici provenienti sia daraccolte che da ricerche sul campo, ricerche che trovano spazio nei papers di quella istituzione16.Ma la "British School at Rome", non opera isolata, seppure costituisce il centro di ricerca stranieroche forse più profondamente influenza e coopera con istituti e studiosi italiani, infatti l"'EcoleFrançaise de Rome" svolge anch'essa un'intensa attività su insediamenti rurali siciliani17, mentre1'Università di Salerno, raccogliendo l'eredità di Bognetti, promuove in collaborazione con gliarcheologi dell'"Istituto di storia della cultura materiale" di Varsavia una sistematica indaginesull'area della città abbandonata di Capaccio vecchia in Campania18. In tutti i casi che abbiamoricordato i cantieri di scavo divengono centri di formazione e di dibattito per storici ed archeologi.Non di minor rilievo per altro ha rivestito quanto si andava contestualmente elaborando all'internodi alcuni gruppi di ricerca regionali: il "Gruppo ligure di ricerca sulle sedi abbandonate» chevedeva uniti storici, geografi, archeologi e naturalisti (Massimo Quaini, Diego Moreno, TizianoMannoni)19, affronta il problema della morfologia dell'insediamento con un approcciointerdisciplinare del tutto inedito nel caso italiano ed elabora strumenti di analisi e di datazionenuovi, muovendosi su un'area estesa e per certi versi omogenea. La Liguria è infatti la primaregione che si dota di uno strumento come la tipologia delle ceramiche postclassiche epreindustriali, facendo un uso ottimale anche dell'esperienza che si era andata consumando conl'insegnamento di Nino Lamboglia. Tiziano Mannoni elabora la classificazione delle ceramicheliguri, guardando a questo tipo di manufatto con un'ottica che non si limita all'utilizzazione di un"fossile guida", la cui definizione è comunque tutt'altro che agevole, ma ad uno strumento di analisidi contesti sociali, di funzioni, di tecnologie produttive e spia di contatti economici fra le diversearee mediterranee 20. 15 I risultati del lavoro pluriennale della scuola britannica sono stati pubblicati da T. W. Potter, The ChangingLandscape of South Etruria, London 1979 (trad. it. Storia del paesaggio dell'Etruria meridionale. Archeologia etrasformazioni del territorio, Roma 1985), a cui si rinvia anche per una sintesi storica delle ricerche e delle metodologieutilizzate, che così marcatamente segnano la ricerca sul campo in questo settore, tanto da costituire oggi un modello diriferimento alternativo alla consolidata metodologia che sta alla base dei volumi editi nella collana Forma Italiae.16 Non vi è infatti alcun dubbio che il saggio di D. Whitehouse, The medieval glazed pottery ofLazio, "Papers of the British School at Rome", XXXV (1967), pp. 40-86, che segue di due anni unbreve saggio dedicato all'argomento sulla rivista "Medieval Archaeology" e di un solo anno un altrosaggio dedicato alla ceramica dell'Italia centrale e meridionale edito nella stessa sede, rappresenta ilpunto di partenza di una ceramologia che si pone come strumento essenziale per una ricercaarcheologica che sta muovendo ancora i primi difficili passi, tanto è che, nonostante l'approcciometodologicamente corretto, la datazione imprecisa del cosiddetto "Forum Ware" condizionerànegativamente l'interpretazione dei dati che emergevano dalla ricerca di superficie nell'area laziale,dove il problema dell'incastellamento, diveniva tema di confronto concreto fra storici ed archeologi.17 Sull'impostazione di lavoro dei ricercatori legati a questa istituzione si veda AA.VV., Il gruppo di ricerche inantropologia medievale (Parigi): un approccio interdisciplinare del basso medioevo rurale dell'Europa occidentale,"Archeologia Medievale", III (1976), pp. 337-54 e quanto in più occasioni elaborato da G. Noyé. Mentre l'edizionedello scavo Brucato. Histoire et archéologie d'un habitat médiéval en Sicile, a cura di J. M. Pesez, vol. 2, Roma 1984 èun caso felice di pubblicazione integrale di uno scavo condotto, fra non poche difficoltà, nei primi anni Settanta dove siè coniugato storia ed archeologia sino dall'inizio.18 Si vedano al proposito i due volumi AA.VV., Caputaquis Medievale , I e II, rispettivamenteSalerno 1975 e Napoli 1984.19 Un approccio interdisciplinare allo studio delle sedi abbandonate in Liguria, Genova 1971 che èla più matura risposta italiana, rimasta sostanzialmente isolata, ad una tematica che in Europa avevaprodotto una vasta letteratura ed evidenziato il ruolo dell'archeologia nello studio della dinamicainsediativa.20 T. Mannoni, La ceramica medievale a Genova e nella Liguria, la cui sintesi è riportata tra i saggipubblicati nel presente volume, ha fra l'altro evidenziato l'impossibilità di muoversi su scalediverse, per il Medioevo, da quella regionale se non subregionale.

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In altre regioni il lavoro archeologico si andava catalizzando all'interno di istituti di storiamedievale o intorno a cantieri di scavo dove la correttezza dei direttori permetteva di prestareattenzione ai livelli di vita successivi alle fasi classiche; al proposito si potrebbero indicare gliistituti di storia delle università di Firenze, Palermo, Pisa, Salerno e Roma e lo scavo di Luni21.Sebbene non in forma omogenea, la ricerca archeologica di ambito postclassico agli inizi degli anniSettanta stava prendendo consistenza con l'apporto e il contributo determinante degli storici: daGina Fasoli a Elio Conti, da Carmelo Trasselli a Nicola Cilento e Paolo Delogu, l'unico,quest'ultimo, che abbia anche scelto la pratica dell'archeologia riuscendo a produrre non solo lineeoriginali di ricerca, ma anche critiche ed incisive pagine sulla storia della disciplina, mentre l'unicodocente di archeologia medievale, Cagiano di Azevedo, pressato dalla spinta "spontaneista" deigruppi di ricerca regionali che già operavano sul campo con nuove strategie e generalmente conpunti di riferimento extranazionali, non si stancava di compiere opera di collegamento anche congli storici, orientando temi di dibattito soprattutto nell'ambito del centro di studi spoletino.Datano sempre agli inizi degli anni Settanta alcuni episodi che mar22cano in modo sostanzialel'orientamento prevalente dell'archeologia medievale in Italia: i dibattiti suscitati dal n. 24 del 1973dei "Quaderni Storici", dedicato al tema Archeologia e geografia del popolamento, e dal n. 31 del1976 della stessa rivista incentrato sulla cultura materiale23, la comparsa del primo numero dellarivista "Archeologia Medievale" nel 1974, nata sostanzialmente dall'incontro delle esperienzecondotte in Liguria ed in Toscana24,1'organizzazione del Colloquio Internazionale di ArcheologiaMedievale di Palermo-Erice 25 ed infine la Tavola rotonda sull'archeologia medievale , promossadall"'lstituto nazionale di archeologia e storia dell'arte26 segnano definitivamente la fase di

21 Cfr. Scavi di Luni II . Relazione delle campagne di scavo 1972, 1973, 1974, a cura di A. Frova,Roma 1977, dove compaiono studi sulle indagini relative alle fasi e ai materiali postclassici di B.Ward Perkins, H. Blake e S. Lusuardi Siena.22

23 In entrambi i numeri della rivista in questione i singoli saggi sono introdotti da un contributo, autori rispettivamenteMassimo Quaini e lo stesso Quaini con Diego Moreno che costituiscono ancor oggi un punto di partenza teoricoimportante per la ricerca archeologica postclassica, nonostante che si sia notato già da allora come fossero presentispunti di una tendenza a cercare "scorciatoie" nella costruzione del documento archeologico. Si trattava diun'insofferenza giustificata dal faticoso e lungo processo analitico sui materiali che talvolta esaurisce l'energia di chiopera sul campo. Ma il significato più rilevante dei due contributi sta nell'aver posto le basi per una definizione di unapratica di ricerca, che, nonostante le oggettive specificità archeologiche, si pone come momento di ricomposizione disettorializzazioni disciplinari per una storia delle "culture" postclassiche e preindustriali.24 Al gruppo ligure si deve l'inizio della pubblicazione del "Notiziario di Archeologia Medievale" apartire dal settembre del 1971, che, con il GRAM (Gruppo ricerche archeologia MedievalePalermo) di breve vita (1971-72), ha costituito uno strumento di informazione rapido relativamentea iniziative di scavi, incontri e notizie bibliografiche: un ruolo che continua a svolgere tuttora.Mentre nel gruppo toscano si stava sviluppando proprio in quel periodo un interesse archeologicoverso i problemi dell'insediamento incastellato e si stavano muovendo i primi passi per lacostruzione delle cronologie ceramiche in un rapporto proficuo con la "Soprintendenza all'antichitàd'Etruria" diretta da Guglielmo Maetzke.25 Vol. 2, Palermo 1976.26 Roma 1976, in questa sede si trova un saggio di grande respiro dove Toubert ha affrontato conchiarezza il tema dei rapporti fra documentazione scritta e dati archeologici non senza rivendicareun'assoluta separazione fra storici ed archeologi, portando l'esempio dei castelli che rimangonocampo di azione comune quando si tratta di vita materiale abitato ecc. e, viceversa, dei soli storiciquando si parla in termini di "signoria di castello" (p. 31), una posizione che a distanza di circa undecennio, concludendo il convegno cuneese del 1981 sui castelli, Toubert pare aver notevolmenteattenuato, e, viceversa, il prodotto del lavoro archeologico gli appare sempre più uno strumentointegrato ed essenziale per la ricostruzione storica complessiva (Castelli. Storia e Archeologia, acura di R. Comba e A. A. Settia, Torino 1984, pp. 403-7).

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un'"autonomia" disciplinare che a livello istituzionale si trasforma in un incremento consistente diinsegnamenti universitari e alla messa in moto del meccanismo che porterà all'introduzione, agliinizi degli anni Ottanta, degli ispettori medievisti all'interno degli organi della tutela archeologica,mentre a livello di ricerca sanciscono nel confronto con la storia il terreno privilegiato su cuiimpostare la propria strategia. L'archeologia medievale nasceva e si muoveva quindi libera dalleipoteche che potevano provenire dalla tradizione antiquaria e lontana dalla tradizione storicoartistica e dell'archeologia classica.Ma è stato proprio il rapporto stretto fra la domanda storiografica tesa a risolvere i problemi delledinamiche insediative di epoche caratterizzate anche da strutture precarie, che lasciano poche traccesul terreno, e più in generale delle dinamiche sociali ed economiche a spingere verso elaborazionidi tecniche di indagine che, sul piano del metodo, si sono potute collocare all'avanguardia inparticolare nell'ambito della ricerca sul campo nel contesto delle archeologie, rompendo latradizionale dicotomia fra scienze "umanistiche" e scienze "naturali"27.E in questo senso si è parlatodi una "filiazione" e di una vicinanza fra l'archeologia medievale e la preistoria. Le edizioni, ancoranon numerosissime, degli scavi postclassici infatti presentano solitamente sezioni paleoecologiche,dove si evidenzia l'attenzione posta ai problemi delle trasformazioni ambientali attraverso laregistrazione sistematica delle informazioni di carattere naturalistico: pollini, resti osteologici,materiali organici in generale che non sempre erano valutati come possibili indici di assettipregressi, come pure sistematiche analisi mineralogiche di impasti ceramici per l'individuazionedelle aree di provenienza dei materiali da mensa e da trasporto 28.Gli stessi metodi dell’archeologia estensiva hanno avuto, attraverso le indagini di superficiecondotte in Liguria dal Mannoni, momenti di notevole approfondimento29 e la stessa indaginestratigrafica è stata generalmente e dall'inizio il minimo comun denominatore degli interventiintensivi, dei cantieri di scavo postclassici, con rare e definite eccezioni. In questo senso ha pesatonon poco, in positivo, il ruolo svolto ancora una volta dalle scuole straniere, ed in particolare daquella inglese, il cui impegno, seppure ancor oggi consistente in ambito postclassico, apparefortemente ridimensionato, ancorché estremamente vitale e stimolante.La funzione trainante dell'archeologia medievale nel qualificare i »problemi di metodo nella ricercaha contribuito in modo incisivo ad aprire un fruttuoso dibattito all'interno dell'intera archeologiaitaliana. È stato infatti recentemente notato che «nel lanciare la sua crociata contro la tradizioneaulica dell'archeologia classica italiana, Andrea Carandini si accorgeva di esser stato preceduto,nella parte propositiva, da quei pochi e ancor poco noti archeologi medievisti che pubblicavano unarivista giunta al secondo numero»30. In realtà l'esperienza che era andata maturando all'interno dellaricerca di Carandini e della sua équipe aveva una storia notevolmente simile, almeno per l'aspettodell'indagine sul campo (rapporti da un lato con Nino Lamboglia e dall'altro con la missione inglesea Cartagine), a quella dei gruppi regionali dove la ricerca archeologica postclassica, nonostante ilrapporto che abbiamo visto anche con altre tradizioni, aveva attinto a piene mani soprattutto

27 È indicativo al proposito che uno dei primi ed originali interventi sulle analisi stratigrafiche siastato elaborato da T. Mannoni, Sui metodi dello scavo archeologico nella Liguria montana.(Applicazioni di geopedologia e geomorfologia), "Bollettino linguistico", XXII (1970), pp. 51-64.28 E interessante notare come le tecniche di scavo descritte da A. Carandini, Storie della terra.Manuale dello scavo archeologico, Bari 1981, siano in perfetta assonanza con i metodi di indagineadottati dagli archeologi postclassici, come è verificabile nelle diverse annate di "ArcheologiaMedievale".29 Cfr. Mannoni L. e T., La ceramica dal Medioevo all'età Moderna nell'archeologia di superficiedella Liguria centrale ed orientale, in Atti dell'VIII Convegno Internazionale della ceramica,Albisola 1975, pp. 121-36.30 Cfr. P. Delogu, Archeologia medievale, un bilancio di venti anni, "Archeologia Medievale", XIII(1986) a cui si rinvia per un'esauriente quadro delle vicende della disciplina e per un quadro dellelinee di ricerca attuali.

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dall'esperienza anglosassone. Ed è proprio da questa nuova prospettiva, che vedeva unificati sulpiano del metodo gli archeologi medievisti e un settore importante dei classici, che si è potutoguardare all'archeologia stratigrafica come ad una scienza di analisi del territorio nella lunga durata,dove le problematiche della cultura materiale e delle scienze etnografiche assumevano unacentralità che fino a quel momento non gli era riconosciuta.Inoltre l'unità delle archeologie è la base su cui stanno maturando le iniziative di archeologiaurbana che, nel nostro paese, hanno iniziato ad essere impiantate soltanto a partire dagli anniOttanta, ma anticipate da un paio di casi, uno dei quali, quello genovese, risale già alla metà deglianni Sessanta ed ha visto protagonista ancora una volta Tiziano Mannoni, mentre il secondo, quellopavese, ha avuto in un altro archeologo medievale, Peter Hudson, il suo riferimento31.L'archeologia urbana si è diffusa come pratica soprattutto nell'Italia centro-settentrionale, vedendoattivi in particolare gli archeologi medievistici (si vedano al proposito i casi di Brescia, Verona,Milano, Pindena ecc.32) e i risultati raggiunti permettono fino ad ora di intravedere un nuovo mododi fare storia della città, dove continuità e fratture possono essere concretamente valutate al di fuoridi schematismi precostituiti e di letture "formali", mettendo in relazione i processi di stratificazionecon le trasformazioni urbanistiche.Per l'Altomedioevo stanno emergendo informazioni preziose non solo relativamente alla riduzionedegli spazi urbani, rilevabile attraverso la lettura dell'andamento delle cinte murarie, ma ancherelativamente al rialzamento consistente delle quote di uso, talvolta anche di diversi metri. Questofenomeno, i cui tempi non sono forse unitari, ma che inizia già in epoca tardo antica e si protrae pertutto l'Altomedioevo, si caratterizza per la presenza di spessi "strati neri" a forte componenteantropica, talvolta riferibili ad usi di ampie aree ortive in altri a depositi di rifiuti o a crolli di casedi terra. Comunque in generale si tratta di accumuli causati da una mancata manutenzione delleinfrastrutture. Le indicazioni che vengono raccolte mostrano come la città tenda generalmente asvilupparsi per isole, alterando zone precedentemente abitate, con vaste aree inedificate e coltivate,e come si sia largamente diffuso l'uso del legno come materiale da costruzione per le case-capanne,che per altro coesistevano con altre tipologie edilizie differenziate, come edifici pubblici in pietrae/o mattone, e con strutture antiche che, quando non erano usate come cave, venivano riutilizzate informa parassitaria. L'evidenza archeologica mostra inoltre che gli edifici in legno non erano unretaggio di culture germaniche, ma appartenevano ad un substrato di conoscenze tecnologicheautoctone.In realtà l'archeologia urbana rappresenta uno dei nodi più rilevanti per la ricerca nei prossimi anni,perché è il terreno dove si potrà più concretamente operare quel disegno di ricomposizione dellearcheologie da un lato e dall'altro dell'archeologia medievale con la storia, con la storiadell'architettura e dell'arte e più in generale con le scienze del sopravvissuto.Insistere sulla rilevanza dell'unità dell'archeologia postclassica con le a tre archeologie e con lostudio del "sopravvissuto", dalla capanna al monumento, che Mannoni definisce «archeologiaglobale», vuol dire indicare chiavi di lettura filologicamente corrette delle fonti materiali nel lorocomplesso le quali permettano di superare le artificiose separazioni disciplinari che impediscono dicogliere nel suo insieme ciò che è stato prodotto da l'uomo nel lungo periodo nelle sue più

31 Gli scavi nell'area centrale di Genova, Castello-San Silvestro furono iniziati nel 1967 e sono statisoltanto parzialmente editi: cfr. D. Andrews, D. Pringle, Lo scavo dell'area sud del Convento di S.Silvestro a Genova, "Archeologia Medievale", IV(1977), pp. 47-207; per il caso pavese si veda P.Hudson, Archeologia urbana e programmazione della ricerca: I'esempio di Pavia, Firenze 198132 Cfr., Archeologia urbana in Lombardia , a cura di G. P. Brogiolo, Modena 1985. Per un quadro generale dei problemidi archeologia urbana si rinvia oltre che ad "Archeologia Medievale", VII(1979), dedicato ad Archeologia epianificazione del territorio, al recente saggio di B. D'Agostino, Le strutture antiche del territorio, in Storia d7talia,Annali 8, Insediamenti e territorio, Torino 1985, pp. 5-52. Mentre per un caso di studio privilegiato, la cuiinterpretazione in parte si differenzia da quanto si va scrivendo di seguito, si veda C. La Rocca, "Dark ages" a Verona:edilizia privata, aree aperte e strutture pubbliche in una città dell'Italia settentrionale, "Archeologia Medievale", XIII(1986).

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diversificate e complesse attività. Soprattutto importante nel caso italiano dove la "storica"divisione nell'ambito della ricerca postclassica fra storia e storia dell'arte e architettura ha creatodelle "separazioni", che sono state accentuate nel quadro del dibattito storiografico che haavvicinato vita materia e, quotidianità con la lunga durata e l'analogia e viceversa l'evento con ilmonumento e l'anomalia, radicalizzando in qualche modo l'incomunicabilità33. La necessità delconfronto con i temi privilegiati della storia dell'arte emergono con grande chiarezza da la maturitàraggiunta dal metodo di analisi stratigrafico, che non ha mancato di dare contributi imprescindibilianche nella lettura di monumenti significativi34: si è in sostanza conclusa la fase in cui l'archeologiapostclassica si interessa di ciò che gli storici e gli storici dell'arte e dell'architettura tralasciavano.A distanza quindi di dieci anni dall'incontro-seminario di San Marino di Bentivoglio (Museo dellaCultura Contadina) da titolo Una rifondazione dell'archeologia postclassica: la storia della culturamateriale35, che ha segnato una tappa importante del dibattito epistemologico relativamenteall'archeologia nel suo rapporto con le a tre scienze storiche, gli interrogativi posti a lora alladiscussione sono ancora terreno di dibattito vivo 35 e i temi aOora impostati sono divenuti oggettodi indagini problematiche e non certo una pratica di ricerca discriminatoria dove la cultura dellecollettività è stata contrapposta a quella dell'individua ità. Inoltre la ricerca di come l'archeologiacontribuisce a la costrazione della storia e soprattutto del documento storico è proceduta ad unlivello assai elevato e sulle cose, i saggi che seguono sono esemplificativi, anche nella loroeterogeneità, di quanto si va elaborando al proposito.

RICCARDO FRANCOVICH

33 Al proposito si rinvia al numero monografico di "Restauro & Città" dedicato ad Archeologiaurbana e restauro ed in particolare al saggio di T. Mannoni, Archeologia globale a Genova pp. 33-47.34 Oltre i casi genovesi di Santa Maria in Passione e dell'ex convento di San Silvestro, cui facontinuamente riferimento Mannoni (Archeologia globale, cit.), si potrebbe ricordare AA.VV., IlPalazzo Corigliano tra archeologia e storia, Napoli 1985, R. Francovich, S. Gelichi, Archeologia estoria di un monumento mediceo, gli scavi nel "cassero" senese della Fortezza di Grosseto, Bari1980 e G. Vannini, L'antico Palazzo dei Vescovi a Pistoia, Firenze 1985.35 Cfr. "Archeologia Medievale", III (1976), pp. 7-24. Per una rassegna critica dell'andamento deldibattito intorno a questi problemi si veda J. M. Poisson, Problemi tendenze e prospettivedell'archeologia medievale in Italia, "Società e Storia", 4 (1979), pp. 129-50. Più difficilmenteutilizzabile il breve saggio di H. Blake, Archeologia e Storia, "Quaderni Medievali" 12 (1981), pp.136-52, mentre recentemente M. S. Mazzi, Civiltà, cultura o vita materiale?, "ArcheologiaMedievale», XII (1985), pp. 573-92, ha riproposto il problema della cultura materiale fra storia edarcheologia in termini estremamente chiari ed incisivi, riprendendo spunti anche da quantoelaborato nella voce Cultura materiale della Enciclopedia Einaudi, da J. M. Pesez e R. Bucaille, eda J. M. Pesez, Storia della cultura Materiale, in La nuova storia, a cura di J. Le Goff, Milano1980. Ma per la definizione degli" spazi" comuni fra storici ed archeologi oltre al citato saggio diSerena Mazzi si veda anche il contributo di J. M. Pesez, Archéologues et Historiens,—in Mélangesd'archéologie et d'histoire médiévales en l'honneur du Doyen Michel de Bodard, Genève-Paris1982, pp. 295-308.

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I Longobardi in Italia: insediamenti e cultura materiale

L'invasione longobarda dell'Italia (568 d.C.), pur non investendo come è noto, I'intera penisola, chein parte restò all'Impero, costituì un fatto molto più traumatico rispetto a quella gotica. Infatti iLongobardi, instaurando una dominazione germanica sulle popolazioni romanze, contrappostaall'Impero romano, che si protrasse in forme diverse per oltre due secoli, segnarono un punto dicesura con il mondo romano anche a livello politico e istituzionale, innescando una serie di processidi trasformazione economico-sociale che determineranno il successivo sviluppo dell'Italiamedievale.Il lungo processo di interrelazioni "culturali" fra Germani ed autoctoni ha assunto nelle diverseparti della penisola connotati talvolta diversi, a seconda della vicinanza cronologica e spaziale dalmomento e dall'area della prima migrazione e dal diverso grado di assimilazione reciproco che siera raggiunto. L'archeologia dell'epoca longobarda ha generalmente privilegiato l'elementogermanico: una grande tradizione di studi dell'Europa centro-settentrionale, a cominciare dall'Äbergper giungere al Werner e al von Hessen, ha creato gli strumenti di lettura cronologici e haricostruito l'evoluzione del costume nazionale longobardo, soprattutto indagando i resti delle aree diinumazione e dando uno spazio più limitato al problema degli insediamenti e quindi del rapportofra l'elemento germanico e le popolazioni autoctone (fra i pochi casi indagati si ricordano quelli diCastelseprio e di Invillino del Friuli); soltanto recentemente si è cominciato a riflettere in mododiverso a questo proposito.In questa sede offriamo due brani, entrambi inediti in Italia, che evidenziano altrettanti diversiapprocci, l'uno di Otto von Hessen, 1 l'altro di Cristina La Rocca Hudson e Peter J. Hudson 2, alquale si rinvia per la bibliografia sull'argomento3.

1 Die Longobarden in Pannonien und in Italien , in Sonderdruck aus der Propyläen Kunstgeschichte , Berlino 1982, pp.164-8; la traduzione dal tedesco è di Nori Zilli.2 Questo contributo è stato presentato alla «Third Italian Conference», Cambridge 1984, e pubblicato con il titoloLombard immigration and its effects on North Italian rural and urban settlement, in Papershin Italian Archacology IV.The Cambridge Conference IV, a cura di C. Malone e S. Stoddart, Oxford 1985, pp. 225-46. Ndl'occasione di questaedizione italiana gli autori hanno rivisto il testo ed aggiornato la bibliografia.3 Per uno sguardo complessivo ed esauriente al problema delle migrazioni germani che in Italia, comprensivo di unaricca bibliografia rinviamo al recente volume Magistra Barbaritas. Barbari in Italia, Milano 1984 ed in particolare alsaggio di V. Bierbrauer, Aspetti archeologici di Goti, Alemanni e Longobardi, pp. 445-508, mentre una ricostruzionestorica che tiene ampio conto delle evidenze archeologiche è in P. Delogu, Storia dei Longobardi, in P. Delogu, A.Guillou, G. Ortalli, Longobardi e Bizantini, in Storia d’Italia, a cura di G. Galasso, I, Torino 1980, pp. 3-216.

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Otto von Hessen

I Longobardi in Pannonia e in Italia

Il nome di Longobardi riferito a una stirpe compare per la prima volta negli anniintorno alla nascita di Cristo; gli storici romani fanno menzione di questo popolocome di una stirpe germanica in lotta con Roma. Il praefectus equitum di Tiberio,Velleio Paterculo, ne parla e osserva che sono particolarmente bellicosi, lo stessoriferisce Tacito circa cento anni più tardi. Come sede di questa stirpe viene indicata lazona del basso corso dell'Elba, i Longobardi da parte loro invece affermano di essereoriginari della Scandinavia, come risulta nell'introduzione all'Editto di Rotari, laOrigo gentis langobardorum, redatta intorno al 643. Queste notizie riportate anchedalla Historia Langobardorum di Paolo Diacono, scritta fra il 770 e il 790 e chevengono ripetute dalle fonti successive, sono state più volte messe in dubbio e nonhanno trovato fino ad oggi conferma certa dal punto di vista archeologico.Nella zona che gli storici romani indicano come sede dei Longobardi, la regione cioèfra le attuali Amburgo e Luneburg, esistono, quali testimonianze archeologiche diquel periodo, delle necropoli talvolta piuttosto grandi con tombe a incinerazione usatesenza interruzione per almeno due o trecento anni che confermerebbero unaprolungata presenza "longobarda". L'insediamento durò fino ai primi secoli dopoCristo, ma verso la metà del IV secolo diminuì di importanza; il fenomeno potrebbeessere spiegato con l'emigrazione almeno parziale della popolazione. Il nome deiLongobardi ricompare nei testi storici di nuovo nel 166-67 durante la guerra deiMarcomanni. In questo caso vengono citati seimila Longobardi che combattevano afianco dei Marcomanni contro i Romani e che si spinsero in quell'occasione fino allaPannonia. Dopo questo accenno le fonti storiche tacciono per almeno due secoli.Anche dal punto di vista archeologico in tale periodo è difficile definire questo popolocome unità a se stante. I Longobardi nelle proprie tradizioni affermano di averabbandonato le antiche sedi per spostarsi prima ad Antahib e poi a Bainhaib. MentreBainhaib viene oggi identificato da parte degli studiosi con la Boemia, non abbiamoper il momento nessuna indicazione valida per identificare Anthaib.La storia vera e propria dei Longobardi ha inizio soltanto nell'anno 487-88. Allora,come risulta dalle fonti storiche, occupavano il territorio dei Rugi, vinti e distrutti daOdoacre, cioè l'attuale Bassa Austria. L'occupazione del paese dei Rugi da parte diun nuovo gruppo etnico in questo periodo è attestata anche dalla ricerca archeologica.Innanzi tutto compaiono le necropoli con tombe a fila (Reihengräber) che fannochiaramente parte del mondo merovingico orientale e documentano l'immigrazione dinuove popolazioni da nord-ovest. I nuovi venuti inumavano i propri morti secondo ilrito dei Reihengräber in tombe orientate. I doni funebri per le donne consistono ingioielli e accessori dell'abbigliamento per gli uomini soprattutto in armi e oggetti diornamento per l'armatura. In ambedue i casi troviamo inoltre pettini e recipienti diterracotta.I1 corredo funebre nelle tombe femminili della prima generazione di immigrati,corrisponde a quello in uso fra le popolazioni di ambiente merovingico. Insieme allecollane di perle troviamo in genere un paio di piccole fibule a "S" o di fibule a disco eun paio di fibule a staffa relativamente piccole. Mentre le fibule a "S" - diversamente

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da quelle appartenenti a altre civiltà dell'ambito merovingico - presentano un grannumero di varianti, per cui vanno considerate come un elemento a se stante, le fibulea staffa e quella a disco, nel periodo pre-pannonico e all'inizio della fase pannonicadelle migrazioni longobarde, si ricollegano direttamente ai modelli occidentali. I1corredo di armi, nelle tombe maschili di questo primo periodo, comprende innanzitutto una spada (spatha), la lancia con la punta a foglia di salice e lo scudo conumbone a cono schiacciato, al cui vertice si trova spesso un ribattino col gambo.Vorrei qui ricordare le tombe di due orafi, quella di Brünn e quella di Poysdorf, cheoltre al corredo di armi contenevano gli arnesi da orafo e nel caso di Poysdorf,addirittura due modani per la fabbricazione delle fibule, una a "S" e una a staffa conpiastra di testa rettangolare. Quanto alla ceramica nelle tombe longobarde diquest'epoca compaiono due forme principali: da un lato le ciotole scanalatecaratteristiche della zona dell'Elba, dall'altro le ciotole a doppio cono con motivi astralucido tipiche del mondo orientale.Nelle necropoli dei primi decenni del VI secolo, periodo in cui i Longobardi sidiffusero oltre il Danubio in Pannonia, si nota la tendenza ad abbandonare gli oggettidi tipo turingio-boemo, mentre compaiono più di frequente offerte che fanno pensarea legami con l'ambiente occidentale merovingico e alemannico. Nelle tombefemminili si trovano spesso coppie di fibule a staffa di provenienza occidentale -come i due esemplari di Hegyko - e inoltre anche fibule a rosetta e a disco ornate acloisonné, che sono certamente di origine franca; in generale in questo periodo l'abitodelle donne longobarde segue in tutti i dettagli la moda occidentale.Se consideriamo le fibule a staffa delle tombe longobarde in Pannonia, basandocisulle pubblicazioni disponibili, possiamo notare che il materiale non è unitario, macomprende una serie di forme molto diverse fra loro.Accanto ai succitati esemplari di "importazione" che sono di provenienza occidentale,in Pannonia gli orefici longobardi sviluppano nuove forme, che non possiamo piùcatalogare genericamente come merovingiche, ma che vanno consideratespecificamente longobarde. Questi nuovi tipi di fibule e la loro ornamentazione sonole prime testimonianze di un'arte autonoma prettamente longobarda.Le forme preferite dai Longobardi sono le fibule a staffa dalla piastra di testasemicircolare e il piede ovale terminante con una testa di animale in rilievo. La piastradi testa è circondata da protuberanze, che negli esemplari più semplici erano fuse inun sol pezzo con la fibula, mentre in quelli più pregiati venivano approntateseparatamente e poi inserite nella piastra. Il loro numero varia a seconda dellagrandezza della fibula. Questa forma classica di fibula longobarda si sviluppa daprototipi occidentali fino ad assumere caratteri propri. Talvolta compare laornamentazione geometrica a Kerbschnitt abituale nelle fibule merovingiche, cheindica la provenienza originaria, ma per lo più le fibule sono decorate conornamentazione zoomorfa in Stile 1.Una variante dello Stile 1, che compare quasi contemporaneamente, è la cosiddettaSchlaufenornamentik; consiste, nella sua forma originaria, di nastri intrecciati edisposti con rigida simmetria, che possono talvolta, ma non sempre, contenere dettaglizoomorfi appena accennati. Questa variante dello stile zoomorfo, nello sviluppo dellaornamentazione longobarda, va posta, secondo H. Roth, fra lo Stile I e lo Stile II.Oltre alle tipiche fibule a staffa con piastra di testa semicircolare compare in Pannoniaun altro tipo, si tratta di fibule con la piastra di testa rettangolare e il piederomboidale, come quelle trovate nella Tomba 18 di Hegykö. Il gruppo, indicato ingenere come tipo Cividale, e che discende dalle Relieffibeln (fibule a rilievo)nordiche, si sviluppò per suo conto sotto l'influsso longobardo. Certi ornamenti che

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già compaiono in queste fibule- come i tralci a spirale, gruppi di linee, maschere eteste di uccelli assai stilizzate lungo il bordo del piede - rivelano un influsso direttodell'arte ostrogota e fanno pensare che queste fibule siano state approntate per iLongobardi da orafi ostrogoti rimasti in Pannonia. Perciò la fibula di tipo Cividaledimostra come nel periodo pannonico della migrazione i Longobardi, sotto l'influssodi elementi provenienti da culture diverse, abbiano creato un nuovo stile, che puòessere considerato veramente longobardo.Qualcosa di analogo si può notare per i reperti provenienti da tombe maschili dellastessa epoca. Accanto a oggetti di alta qualità "importati" da altri ambiti culturali,come la spatha nordica col pomo d'oro di Gyirmod e la placca di cintura franca diSzentendre, si trovano, anche se finora di rado, prodotti di artigiani locali. Vorremmoqui citare le placche delle briglie di Veszkeny, che probabilmente provengono dallatomba distrutta di un principe. Si sono conservati soltanto gli anelli dei filetti conagemina in argento, un pendente di argento dorato e delle falere a forma di croce;queste ultime si possono dividere in due gruppi in base alla loro forma. Il primo èornato da una greca e da un semplice nastro intrecciato, motivi questi che provengonoda forme mediterranee. Nell'altro gruppo le placche emisferiche sono divise da unacroce in rilievo, i cui bracci terminano con teste di animali, in quattro campi nei qualisono rappresentati alternativamente una figura umana accovacciata e due animaliintrecciati fra di loro. Mentre la croce e anche i motivi zoomorfi si rifanno in generaleall'arte pannonico-longobarda, per la figura umana accovacciata ritroviamo dellelontane analogie nell'arte nordica. La decorazione del pendente a mezza luna consistein due animali affrontati in Stile I e una maschera umana fra due teste di uccellirapaci; questi due motivi, che compaiono frequentemente nell'ornamentazionezoomorfa nordica, indicano che il pezzo si rifà a un modello di origine nordica.I reperti, provenienti dalle necropoli dell'epoca della venuta in Italia, indicano che iLongobardi nei primi decenni a partire dal 568 continuano a seguire la tradizionepannonica. Lo si nota chiaramente in esemplari trovati nei cimiteri di Cividale delFriuli, Nocera Umbra e Castel Trosino presso Ascoli Piceno. In questi centri, comepure in altri luoghi di scavo d'Italia, s'incontra lo stesso patrimonio di forme che sonocaratteristiche dell'epoca pannonica, il che costituisce un'indubbia prova dellamigrazione del popolo longobardo. Poco tempo dopo si notano tuttavia delleinnovazioni che vanno ricollegate all'influsso della civiltà bizantino-mediterranea. Ledonne longobarde dapprima rimangono fedeli all'antico costume con le fibule, maaccanto a questo compaiono elementi ripresi dalla moda bizantina, in particolare gliorecchini d'oro e d'argento ornati di sottile filigrana. Vengono anche usati anelli dimetallo nobile e nelle tombe di donne ricche compaiono pendenti d'oro infilati nellecollane di perle.Le piccole fibule vengono abbandonate poco dopo l'insediamento in Italia; al loroposto compare la fibula a disco, che nei primi tempi è ancora ornata a cloisonné. Lefibule a staffa diventano più grandi e al posto della decorazione in Stile I e in"Schlaufenstil" subentra quella in Stile II sviluppatasi dopo la venuta in Italia.Questa nuova decorazione non viene usata soltanto sulle fibule a staffa, ma compareanche sulle guarnizioni di cintura o su altri oggetti simili e in particolare sullecosiddette crocette in lamina d'oro, tipiche del periodo italo-longobardo. Si tratta dicroci, in genere piuttosto piccole, ritagliate in sottile lamina d'oro e per lo più decoratecon tecnica a sbalzo; esse erano cucite su un velo che veniva disteso sul volto deidefunti. Data la varietà dei motivi usati nella decorazione esse rappresentano uno deidocumenti più importanti per le arti minori longobarde. Accanto alla ornamentazione

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a Schlanfenstil, nella fase più sviluppata troviamo varianti in Stile II, ma ancheelementi non longobardi di provenienza bizantma.La massima fioritura delle arti minori longobarde e dell'oreficeria corrisponde ai primidecenni del VII secolo. I reperti di questo periodo, che sono assai importanti enumerosi ci danno un'immagine di quanto ricca fosse la produzione in oggetti d'oro ed'argento. I doni funebri che di norma venivano deposti nelle tombe femminiliconsistono in orecchini d'oro con ametisti e altre pietre preziose. Le fibule a staffavengono sostituite da una grande fibula a disco in cui sono inserite pietre disposte acroce o guarnizioni in filigrana. Spesso in queste tombe si trova del broccato d'oro,che fa pensare a abiti riccamente decorati e che compare anche nelle tombe maschili.Inoltre vengono usate spathe col pomo d'oro o d'argento, in parte filigranato, in partecon ornamentazione zoomorfa in Stile II. La foggia delle cinture si sviluppa in formeparticolarmente ricche; venivano indossate cinture multiple con guarnizioni d'oro ed'argento, secondo il modello orientale bizantino, i cui ornamenti riportano in partemotivi mediterranei come delfini contrapposti o simili. Altri oggetti di lussoprovenienti da tombe maschili di questa epoca e anch'essi influenzati dallo stilemediterraneo sono le preziose selle e le placche delle briglie. Un genere tipicodell'epoca italo-longobarda è rappresentato invece dai cosiddetti scudi da paratalongobardi, ornati con ribattini dorati e, in casi particolarmente preziosi, anche conplacche sagomate a forma di figure. Le scene riprodotte sulla superficie dello scudopossono derivare da modelli tardoantichi, come nel caso dello scudo di Stabio in cui èrappresentata una scena di caccia, o derivare dall'iconografia cristiana come nelloscudo di Lucca in cui compare un calice fra due pavoni e un guerriero che porta unacroce in piedi fra due leoni. Talvolta la decorazione consiste solamente di croci, comeper esempio nello scudo di Gisulfo di Cividale o nello scudo di Borgo d'Ale.Ai primi decenni del VII secolo appartiene anche la placca frontale del cosiddettoelmo di Agilulfo trovato in Val di Nievole. Vi è rappresentata la tradizionale scenadell'atto di sottomissione: il re siede in trono fra due armati a cui si avvicinano dadestra e da sinistra due gruppi di figure condotti ciascuno da una vittoria alata. Anchese la rappresentazione si rifà a modelli antichi, la placca di Agilulfo rappresenta unadelle testimonianze non solo più interessanti, ma anche più importanti dell'artelongobarda, perché, ad eccezione di alcuni anelli a sigillo, non conosciamopraticamente nessuna rappresentazione della figura umana.

I reperti longobardi della metà circa del VII secolo hanno caratteri completamentenuovi; diminuisce anche il numero dei reperti stessi. Nelle poche tombe femminilidell'epoca che si sono conservate si trovano solo oggetti che seguono la modamediterranea, come orecchini e fibule a disco e talvolta anelli di metallo nobile. Seconfrontiamo questi reperti con oggetti appartenuti a donne non longobarde trovati intombe della Sicilia e della Sardegna, notiamo una forte somiglianza sia nelle formeche nello stile; ciò indica che è avvenuta una totale assimilazione degli usi autoctonida parte delle donne longobarde. Di contro, per quanto concerne i doni funebri degliuomini di quest'epoca, si può constatare che permangono caratteristiche particolariche ci permettono di distinguere chiaramente le sepolture dei Longobardi da quelledegli autoctoni. Continua l'usanza di deporre nelle tombe le armi. Tipiche dellaornamentazione longobarda sono le cinture per sospendere le armi e le guarnizionidegli sproni, che si sviluppano in forme analoghe. Ambedue sono sia di bronzo che diferro. Le guarnizioni di bronzo in genere sono ornate solo da ribattini e hanno i bordicentinati; quelle in ferro, invece, sono ornate da una quantità di motivi eseguiti nellatecnica dell'agemina e della placcatura. In questo campo si nota una evoluzione, che è

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presente anche a nord delle Alpi, per cui sembra giusto pensare a dei rapporti fra iLongobardi e i loro vicini del nord.Già all'inizio del VII secolo accanto alle guarnizioni di cintura in metallo nobile,compaiono le cinture quintuple con agemina piuttosto grossolana in Stile II.Contemporaneamente si trovano guarnizioni multiple in ferro la cui ageminaturacerca di imitare il motivo bizantino a punto e virgola (ornamentazione a spirale intutte le sue varianti). In un secondo stadio - che in base alle conoscenze attuali si poneall'inizio del secondo trentennio del VII secolo - I'ornamentazione, sia sulleguarnizioni delle cinture quintuple che su quelle multiple, diventa di qualità superiore.Prendono il sopravvento decorazioni eseguite con cura in Stile II che rivestonol'intera superficie. Infine verso la metà del VII secolo si abbandonano le guarnizionidi cinture quintuple in ferro, mentre si continuano a usare cinture dello stesso tipo inbronzo. A1 medesimo periodo appartengono anche guarnizioni di cinture multiple inferro dalla placcatura raffinata, che talvolta presentano un ornato mediterraneo atralci, talaltra graziosi motivi in Stile II, per lo più nastri a "otto". Agli inizi circadell'ultimo trentennio del VII secolo siamo alla fine di questa evoluzione, compaionoallora delle guarnizioni di cinture molto strette e lunghe, sagomate, in bronzo e inferro; queste ultime sono per lo più ornate di agemina a righe o di placchette in bronzoapplicate e decorate con punzonature. Al momento in cui compaiono tali reperti cessapresso i Longobardi l'uso del corredo funebre e di conseguenza anche la possibilità diricostruire la storia di questo popolo dal punto di vista archeologico.

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Cristina La Rocca Hudson - Peter J. HudsonRiflessi della migrazione longobarda sull'insediamento rurale e urbano in Italia

settentrionale *

1. Problemi dell'insediamento rurale

Gli effetti della migrazione longobarda sull'insediamento sia rurale sia urbano, sono un tradizionaleargomento di dibattito nella storiografia sia politica, sia giuridica1. Il modo in cui le fontiarcheologiche altomedievali sono state utilizzate nel passato non sembra invece aver fornito datisignificativi per comprendere i rapporti che si instaurarono tra i Longobardi e la popolazioneromanza2. Gli studi riguardanti la classificazione e la datazione dei corredi tombali longobardi sisono infatti per lo più limitati ad incasellare questi manufatti in categorie tipologiche, definendogenericamente come "Longobardi" gli oggetti databili dalla fine del VI alla fine del VII secolo3, esoltanto di recente per alcuni reperti, quali le fibule zoomorfe, o le fibbie da cintura di bronzomassiccio, si è iniziato a prospettare la possibilità che si tratti di oggetti relativi alla popolazionelocale4 .Il quadro che si delinea archeologicamente dell'Italia durante l'età longobarda è dunque limitato allasfera della classe dominante, completamente avulsa dal contesto territoriale di insediamento echiusa ad ogni contatto culturale.In questa sede, si vogliono invece illustrare alcuni esempi tratti sia da contesti rurali, sia urbani, perdimostrare non solo che vi furono interferenze reciproche tra Longobardi e popolazione locale, maanche che tali rapporti variarono quantitativamente e qualitativamente a seconda del territorioesaminato e non sono da intendersi soltanto in una direzione, cioè dai più "civili" romani verso i"barbari", ma reciproci, né possono essere limitati ad una rigida divisione tra prodotti bizantini e

*Il presente lavoro, frutto di una comune ricerca, è stato redatto per la parte I da Cristina La Rocca Hudson e per laparte 2 da Peter J. Hudson.Vorremo ringraziare la professoressa Bianca Maria Scarfì, soprintendente ai Beni archeologici per il Veneto, per avercipermesso di pubblicare la ceramica proveniente dal cortile del tribunale di Verona, ed anche l'ispettore per la provinciadi Verona, dottoressa Giuliana Cavalieri Manasse, per averci informato dell'esistenza di oggetti di corredoaltomedievali inediti e per averci sostenuto ed incoraggiato durante la ricerca. Infine siamo grati al professor Aldo A.Settia dell'Università di Torino per le utili discussioni sull'insediamento presso la collina torinese.1 G. Falco, La questione longobarda e la moderna storiografia italiana, in Atti del I Congresso internazionale di studilongobardi, Spoleto 1952, pp. 153-66; E. Sestan, La composizione etnica della società in rapporto allo svolgimentodella civiltà in Italia nel secolo VII in Occidente, in I caratteri del secolo VII in Occidente, Settimana di Studio delCentro Italiano di Studi sull'Alto Medioevo, 23-29 aprile 1957, Spoleto 1958, Il, pp. 64977; G. Fasoli, Aspetti di vitaeconomica e sociale nell'ltalia del secolo VII, in I caratteri del secolo VII in Occidente, cit., I, pp. 103-59; G. Tabacco,Problemi di insediamento e di popolamento nell'altomedioevo, "Rivista Storica Italiana", 76 (1967), pp. 67-110; Id.,Egemonie sociali e strutture del potere nel medioevo italiano, Torino 1979, pp. 94-135; P. Delogu, Il regno longobardo,in P. Delogu, A. Guillou, G. Ortalli, Longobardi e Bizantini in Storia d’Italia a cura di G. Galasso, I, Torino 1980, pp.3-216; C. Wickham, Early Medieval Italy. Central Power and Local Society, London 1981, pp. 64-80 (trad. it. L'Italianel primo Medioevo. Potere centrale e società locale, Milano 1983).2 A. Melucco Vaccaro, I Longobardi in Italia, Milano 1982, p. 7s.3 O. von Hessen, I ritrovamenti barbarici nelle collezioni civiche veronesi del Museo di Castelvecchio, Verona 1968;Id. Die langobardischen Funde aus dem Graberfeld von Testona (Moncalieri-Piedmont), "Memoria dell'Accademiadelle Scienze di Torino. Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche", 4 (1971), pp. IV-120; C. Sturmann CicconeReperti longobardi e del periodo longobardo dalla provincia di Reggio Emilia, Reggio Emilia 1977; S. Cini, M. Ricci, ILongobardi nel territorio vicentino, Vicenza 1979, M. C. Carretta, Reperti autoctoni di età longobarda dal MuseoCivico Archeologico di Bologna ,"Archeologia Medievale", VIII (1981), pp. 646-48.4 O. von Hessen, Il materiale altomedievale dalle collezioni Stibbert di Firenze, Firenze 1983.

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longobardi, secondo la proposta di Äberg5. È stato d'altronde già notato che nelle fonti scrittealtomedievali la maggioranza dei nomi propri - anche di schiavi - sono germanici, dimostrandochiaramente la diffusione di questo costume anche tra la popolazione di origine locale6.Per il contesto rurale sono state prese in esame tre aree campione: la collina ad est di Torino, ovenel secolo scorso venne alla luce la necropoli altomedievale di Testona7 e le moderne province diBrescia e Verona, poste sulle sponde opposte del lago di Garda. Mentre per la prima zona, diestensione più limitata, sono stati presi in esame accanto ai siti tuttora esistenti, anche quelliabbandonati nel corso del Medioevo8, per le altre due aree si sono considerati soltanti gli abitantiattuali, il che costituisce un'indubbia limitazione, ma può in ogni caso permettere delleconsiderazioni indicative9. La distribuzione dei dati archeologici - in prevalenza sepolture - è statarapportata ai dati toponomastici, includendo quegli abitati, attestati nelle fonti scritte altomedievali,con toponimi derivanti sia da nomi personali latini sia germanici. È infatti ragionevole ritenere chetoponimi aventi radice in un nome personale germanico e documentati nell'Altomedioevo sianoriconducibili, se non senz'altro alla classe dominante germanica, senza dubbio ad insediamenti sortiex novo presso quelli già esistenti in età tardoantica. I toponimi derivanti invece da nomi comuninon sono stati considerati, perché la loro adozione nella lingua corrente anche in epoche di moltosuccessive li rende inutilizzabili ai nostri scopi10.In primo luogo occorre chiarire che la presenza di una necropoli longobarda estesa enumericamente consistente non significa necessariamente una presenza germanica più rilevanterispetto ad altre zone, e neppure cambiamenti nella struttura territoriale tardo romana11. Alcontrario, i siti delle necropoli più a lungo frequentate, sembrano indicare l'usanza di seppelliresoltanto in cimiteri ufficialmente "autorizzati", che venivano perciò usati da più villaggicirconvincini12. Questo sembra essere il caso delle necropoli maggiori qui esaminate: Testona(Torino) circa 450 tombe, e Calvisano (Brescia), 500 tombe, mentre, ed è significativo notarlo,nessuna delle necropoli rinvenute in provincia di Verona supera le 50 sepolture, tranne la distrutta

5 N. Äberg, Die Goten und Longobarden in Italien, Uppsala 1923.6 G. Tabacco, Dai possessori dell'età carolingia agli esercitali dell'età longobarda, "StudiMedievali, X (1969), pp. 228-34; Wickham, Early Medieval Italy, cit., p. 68 s.7 C. Calandra, Di una necropoli barbarica scoperta a Testona, "Atti della Società di Archeologia eBelle Arti per la provincia di Torino", IV (1883), pp. 17-52; von Hessen, Die LangobardischenFunde, cit.; M. Negro Ponzi, Testona: la necropoli di età longobarda, in Testona. Per una storiadella comunità, Torino 1980, pp. 1-12.8 A. A. Settia, «Villam circa castrum restringere». Migrazioni e accentramento di abitati sulla collina torinese nel bassomedioevo, "Quaderni storici", 24 (1973), pp. 905-44; Id., Insediamenti abbandonati sulla collina torinese, "ArcheologiaMedievale", 11 (1974) pp. 237-328; M. C. La Rocca Hudson, Le vicende del popolamento in un territorio collinare:Testona e Moncalieri dalla preistoria all'altomedioevo, "Bollettino storico bibliografico subalpino", LXXXII (1984),pp. 1-86.9 D. Oliveri, Dizionario di toponomastica veneta, Venezia 1960, Id., Dizionario di toponomasticalombarda, Milano 1961; Id., Dizionario di toponomastica piemontese, Brescia 1965; E.Gamillscheg, Romania Germanica, 11 Berlin-Leipzig 1936, G. B. Pellegrini Osservazioni sullatoponomastica "barbarica- veronese, in Verona in età gotica e longobarda, Verona 1982, pp. 1-5210 G. Petracco Siccardi, «Vico Sahiloni» e «Silva Arimannorum», ~Archivio Storico per le ProvinceParmensi", XXVI (1977), pp. 133 e 135; Id., Typologie des toponymes Romans d'originegermanique dans l'ltalie du Nord, "Onoma", XXII (1978), pp. 172-86; Pellegrini, Osservazioni sullatoponomastica, cit., pp. 4-6 e 18-22.11 A. Castagnetti, L'organizzazione del territorio rurale nel Medioevo, Torino 1979, pp. 255-61.12 A. A. Settia, Pievi e cappelle nella dinamica del popolamento rurale, in Cristianizzazione ed organizzazioneecclesiastica delle campagne nell'alto medioevo: espansione e resistenze, Settimana di Studio del Centro Italiano diStudi sull'Alto Medioevo, 10-16 aprile 1980, Spoleto 1982, I, pp. 445-89, a pp. 458-60; B. Chapman, Death, cultureand Society, in Anglo-Saxon Cemeterie 1979, a cura di P. Rathz, T. Dickinson,L. Watts Oxford (British ArchaeologicalReporis, British Series 82) 1980, pp. 59-79.

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necropoli presso Buttapietra-su cui però nulla si può ormai dire - che si aggirava sulle 100 tombe13.La sovrapposizione delle sepolture, indice di un'area precisamente definita e limitata in cui erapermesso seppellire14, che si accompagna all'assenza, nelle immediate vicinanze, di altri siticimiteriali oppure di tombe isolate sembrerebbe indicare l'esistenza di un'area cimiteriale "ufficiale"(fig. 2 e fig. 4). Inoltre a Testona i catasti del XIV secolo seppur tarda attestazione - menzionano lapresenza di un muracium nell'area ove si rinvenne la necropoli longobarda15, che potrebbe suggerirel'esistenza di un edificio romano in rovina, riutilizzato dai Longobardi16. In ogni caso, l'esistenza diaree autorizzate e delimitate per le sepolture non implica necessariamente che i Longobardiriorganizzarono radicalmente l'assetto territoriale. Sia Testona, sia Calvisano si trovano infatti inzone caratterizzate da toponimi prediali latini, conservatisi fino al XIII secolo (fig. 1 e fig. 3)17.Questo dimostra chiaramente che i Longobardi si sovrapposero semplicemente accanto allapopolazione esistente, ereditando l'organizzazione insediativa romana. Il tipo di alcuni oggetti dicorredo ed i dati antropologici, fornito dallo studio delle ossa umane, provano inoltre che nei pressidi tali nuclei cimiteriali vi furono insediamenti della popolazione locale che si rapportarono inqualche modo con quelli germanici. I manufatti comprendono ceramica di tradizione locale- comegli "otto orciolini ed anfore di terra rossastra" e la pilgrimflask ricoperta da un'invetriatura verde18

provenienti da Testona, mentre a Calvisano furono rinvenuti due olpi invetriate19; inoltre i restiantropologici femminili di Testona sono per la maggior parte relativi al tipo alpino-mediterraneo equindi presumibilmente riferibili alla popolazione locale20.

13 O. von Hessen, La necropoli longobarda delle tombe in fila della zona di Ciringhelli Povigliano,provincia di Verona, "Memorie Storiche Forogiuliensi", XLIX (1969), PP. 93-9.14 Calandra, Di una necropoli barbarica scoperta a Testona, cit., p. 18s; P. Rizzini, Gli oggettibarbarici raccolti nei Civici Musei di Brescia, "Commentari dell'Ateneo di Brescia", 1894, pp. 3-51, a p. 22s.15 Archivio Comunale di Moncalieri, Serie A, Catasti, n° 25, anno 1351, cc. 1v-2r.16 A. A. Settia, La toponomastica come fonte per la storia del popolamento rurale, in Medioevorurale. Sulle tracce della civiltà contadina, a cura di V. Fumagalli e G. Rossetti, Bologna 1980, pp.35-56, a p. 43; altri esempi in O. von Hessen, Primo contributo all'archeologia longobarda inToscana. La necropoli, Firenze 1971.17 La Rocca Hudson, Le vicende del popolamento in un territorio collinare, cit., tav.VII.18 Calandra, Di una necropoli barbarica scoperta a Testona, cit., tavv. 3 e 29, H. Blake, Ceramicapaleo-italiana, "Faenza", 68 (1980), pp. 20-54, tav. IV: L. Pejrani Baricco, La collezione Calandra,in Testona. Per una storia della comunità, cit., pp.12-39, a p. 39, n.46.19 Blake Ceramica paleo-italiana, cit., tav. 3c; G. Panazza, Note sul materiale barbarico trovato nelbresciano, in Problemi della civiltà e dell'economia longobarda. Scritti in onore di G. P. Bognetti,Milano 1964, pp. 137-70, a p. 142.20 L Kiszely, The Anthropology of the Lombards, Oxford (British Arcaeological Reports,International Series 61) 1979, 1, pp. 143-7.

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FIGURA 1Provincia di Torino: territorio medievale dei comuni di Chieri e di Moncalieri. Distribuzionedei toponimi romani (�) e germanici (�) e delle necropoli longobarde (�).

Come è noto, l'abitudine di seppellire in cimiteri "ufficiali" coesistette accanto a quella di creare exnovo delle piccole aree cimiteriali, isolate. Nonostante questo, la seconda possibilità non ènecessariamente indicatrice di una presenza longobarda più labile o più sporadica. Se quest'ultimopuò essere il caso della Valpolicella, a nord di Verona, e dell'area nei pressi di Cellore d'Illasi, adest della città (fig. 5), in cui ad una fitta distribuzione di toponimi latini si accompagna un numeroassai modesto sia di tombe isolate, sia di piccole necropoli21, in altre zone la situazione è assaidiversa.

21 Per Valpolicella cfr. M. C. La Rocca Hudson, S. Anna d'Alfaeo. Armilla bronzea, in A.Castagnetti, La Valpolicella dall'altomedioevo all'età comunale, Verona 1984, p. 25; per Cellored'lllasi cfr. C. Cipolla, Zevio. Tombe barbariche, "Notizie degli Scavi di Antichità", 1880, p. 341s;von Hessen, I ritrovamenti barbarici, cit., pp. 12s e 27s.

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FIGURA 2Provincia di Torino: territorio medievale dei comui di Chieri e di Moncalieri. Distribuzionedelle necropoli longobarde: sepolture isolate (�); gruppi da 2 a dieci tombe (�); necropli conpiù di 100 sepolture(�).

Infatti, in prossimità dei moderni centri di Chieri (Torino) (fig. 1), Povegliano, Zevio e ColognaVeneta, nella pianura veronese (fig. 5), e di Brandico, nella pianura bresciana, nonostante il numerolimitato di ritrovamenti archeologici - per il torinese ed il bresciano, poiché nel veronese essi sonoin numero maggiore - i Longobardi sembrano aver avuto un'influenza decisiva nella strutturazionedel territorio medievale.In queste località, a cavaliere di aree in cui si concentrano fittamente toponimi latini, documentatinell'Altomedioevo come locus et fundus -vale a dire insediamenti con un proprio territorio - sitrovano toponimi contraddistinti dall'unione di un nome quale Mons o Vicus, unito al genitivo dinomi di persona germanici, come Maco, Bemo, Falco22.

22 E. Gamillscheg, Romania Germanica, Il, Berlin-Leipzig 1913, ad vocem.

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FIGURA 3Provincia di Brescia:toponimi e necropoli. Distribuzione dei toponimi romani (�) e germanici(�) e delle necropoli longobarde(�).

Sembra pertanto di trovarsi di fronte a situazioni simili a quella documentata a Cologno Monzese(Milano)23: la creazione ex novo di insediamenti con un proprio territorio, formato attraversol'acquisizione di parte della terra degli insediamenti confinanti. In questo caso, il gruppo germanicosembrerebbe aver imposto la propria autorità, organizzandosi indipendentemente dalla popolazionelocale e creando nuovi centri abitati.Una terza possibilità è la formazione di insediamenti longobardi in aree del tutto incolte e disabitatedurante il periodo romano. Se ciò non sembra essersi verificato nella provincia di Brescia, tranneforse per le odierne Gambara e Gottolengo24, poste nella pianura lungo il corso del Mella, ricorre 23 G. Rossetti, Società e istituzioni del contado Lombardo durante il Medioevo. Cologno Monzese,Milano 1968.24 Olivieri, Dizionario di toponomastica piemontese, cit., pp. 244 e 265.

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invece più frequentemente nella provincia di Verona, nelle colline sopra Caprino, nell'altaValpolicella25, e nella pianura presso il corso dell'Adige, nei territori delle odierne Bovolone 26,Valeggio27; e Mozzecane 28(fig. 6). Anche nella parte occidentale della collina torinese, zonaformata da ripide vallate e caratterizzata, tra XII e XIII secolo da toponimi che indicano la presenzadi aree incolte, quali Padisium (pagus) forse con significato di pascolo comune29, Arsitie (ardo),area incolta, bruciata e disboscata per permettere la coltivazione, ai reperti archeologici di etàlongobarda30 Si affiancano toponimi germanici quali Saxias 31. In questo caso sembra pertanto chegruppi di Longobardi preferirono fondare nuovi insediamenti in zone prima disabitate e incolte, chein un buon numero di casi si trovano in località occupate nella tarda età del Ferro e poiabbandonate. Quest'ultima, forse casuale, coincidenza si verifica specialmente nella provincia diVerona (Molina, Caprino Rivoli, Tragnago, Peschiera, Colognola ai Colli, Povegliano, Baldaria,Legnano, Gazzo)32. Questo dato è del resto provato anche da altre fonti, dato che le analisipedologiche condotte per la pianura romagnola hanno dimostrato che questo territorio venne messoa coltura solo durante l'Altomedioevo mentre durante l'età romana la zona era paludosa33.Esiste, infine, un'ulteriore possibilità, che è più complessa da interpretare e per cui è più difficilescandire cronologicamente le tappe di uso e di abbandono del suolo: si tratta di insediamentioccupati sotto diverse forme durante l'età romana, ed in seguito da una necropoli altomedievale, eche sembrano definitivamente abbandonati fino all'età dei dissodamenti estensivi del XII secolo.Questo processo è ipotizzabile in base alla presenza di reperti archeologici romani ed altomedievali,che si accompagnano a toponimi genericamente romanzi. È questo il caso della val Trompia a norddi Brescia, in cui gli attuali abitati sono tutti contraddistinti da toponimi indicanti caratteristiche delsuolo, come Villa Carcina, Villa Cogozzo, Concesio34 e dove sono stati rinvenuti piccoli nucleicimiteriali altomedievali. Essi sono formati da una cinquantina di tombe, costruite con lastre dicalcare locale, disposte a file, secondo il costume germanico35; contengono in genere esigui

25 Breonio e Molina: cfr. La Rocca Hudson, Le vicende del popolamento in un territorio collinare,cit., pp. 23, 31 e 35; Museo di Storia Naturale di Verona s.n.26 Soprintendenza Archeologica di Verona, I.G. 27996.27 von Hessen, I ritrovamenti barbarici, cit., p. 32; R. Zoni, Tomba longobarda scoperta a Nogrardi Valpolicella, "Memorie Storiche Forogiuliensi", XXXIX (1952), p. 112s.28 Cipolla, Zevio. Tombe barbariche, cit.29 Settia, Insediamenti abbandonati sulla collina torinese, cit., p. 263s.30 P. Barocelli, Tracce di necropoli barbarica presso la strada nazionale Torino-Mocalieri,"Notizie degli Scavi di Antichità", 1915, p. 159, A. Angelucci, Catalogo dell'Armeria reale diTorino, Torino 1890, p. 588.31 F. Cognasso, Cartario dell'abbazia di san Solutore di Torino, Pinerolo (Biblioteca della SocietàStoria Subalpina 44) 1908, doc. 18, armo 1089, p. 37s.32 A. Aspes et alii, 3000 anni fa a Verona. Dalla fine dell'età del bronzo all'arrivo dei Romani nelterritorio veronese, Verona 1976, tav., IV, p. 76.33 M. Cremaschi, A. Marchesini, Evoluzione di un tratto di Pianara Padana (prov. Reggio eParma) in rapporto agli insediamenti ed alla struttura geologica tra il XV sec. a.C ed il sec. Xl d.C,"Archeologia Medievale", V (19801, pp. 542-70, in particolare pp. 542-5.34 Olivieri, Dizionario di toponomastica lombarda, cit., pp. 143, 184 e 191.35 Villa Carcina: cfr. P. J. Hudson, M. C. La Rocca Hudson, Villa Carcina (BS). Cimiteroaltomedievale, in Soprintendenza Archeologica della Lombardia, Notiziario 1981, Milano 1982, p.142s.; Sarezzo: cfr. A. Breda, Sarezzo (Brescia). Loc. Brede, necropoli altomedievale, inSoprintendenza Archeologica della Lombardia, Notiziario 1982, Milano 1983, p. 103s. Gussago:cfr. P. Rizzini, Supplemento agli oggetti barbarici raccolti nei Civici Musei di Brescia,"Commentari dell'Ateneo di Brescia", 1914, pp. 33-49, a p. 42; Panazza, Note sul materialebarbarico trovato nel bresciano, cit., p. 163; Villa Cogozzo: cfr. Rizzini, Supplemento agli oggetti

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elementi di corredo,prevalentemente armille dalle estremità ingrossate e pettini d'osso, mentremancano del tutto i tradizionali attributi militari longobardi, quali la spada e le armi in genere.

FIGURA 4Provincia di Brescia: distribuzione delle necropoli longobarde; Sepolture isolate(�); gruppida 2 a 10 tombe(�); gruppi da 11 a 50 tombe (�); necropoli con più di 50 sepolture

barbarici raccolti nei Civici Musei di Brescia, cit., p. 43; Panazza, Note sul materiale barbaricotrovato nel bresciano, cit., p. 165.

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FIGURA 5Provincia di Verona: toponimi e necropoli. Distribuzione dei toponimi romani (�) e germanici(�); necropoli longobarde(�); tesoro di Isola Rizza (�).

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FIGURA 6Provincia di Verona: Distribuzione delle necropoli longobarde. Sepolture isolate (�); gruppida 2 a 10 sepolture (�); gruppi con più di 10 sepolture (�); tesoro di Isola Rizza(�).

Sebbene gli oggetti presenti in queste sepolture appartengano a tipi che compaiono anche in tombelongobarde - come le armille ad estremità ingrossate e decorate da più file di perle a rilievo, che sirinvennero, ad esempio, nella tomba del cavaliere di via Monte Suello 4 a Verona36 - 1'assenza diarmi e di ceramica tipicamente longobarda, potrebbe indicare sia che ci troviamo di fronte asepolcreti della popolazione locale - come sembrano indicare anche le analisi antropologiche37 -oppure ad un avanzato stadio della coabitazione tra indigeni e Longobardi. La composizione delcorredo è varia, va infatti dagli status symbols indicanti l'appartenenza all'esercito ai semplicioggetti personali. Se la presenza di questi oggetti indichi un periodo cronologico più avanzatooppure una diversa matrice etnica è difficile stabilirlo, poiché le due possibilità non sononecessariamente contrapposte. Ad esempio a Pettinara-Casale Lozzi38 (Ascoli Piceno), gli oggettidei corredi, attribuiti alla popolazione locale, sono databili alla fine del VII secolo o all'inizio dell'

36 M. L. Rinaldi, Tombe longobarde di Valdonega , "Bollettino d'Arte", XLIX (1964), p. 402s; Archivio SoprintendenzaArcheologica del Veneto, Padova, ad vocem "via Monte Suello".37 Kiszely, The Antrhopology of the Lombards, cit. p. 157s.38 0, von Hessen, Il cimitero altomedievale di Pettinara - Casale Lozzi (Nocera Umbra), Firenze1978, p. 100s.

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VIII, mentre le analisi osteologiche indicano un'origine germanica dei sepolti39, mentre a Sovizzo(Vicenza) la stessa necropoli, circoscrivibile nell'ambito del VII secolo, accanto ad un indubbio epurtroppo imprecisato numero di tombe con armi40, presenta circa 120 tombe con i soli pettine ecoltello, recentemente scavate dalla Soprintendenza Archeologica del Veneto. Comunque ilproblema dell'identificazione della razza del sepolto in base al suo corredo funebre sta assumendoconnotati sempre più problematici, poiché è via via più chiaro che non sempre le tombe con armiappartengono a Longobardi41, ne viceversa quelle con misero corredo sono sicuramente indiziodella popolazione locale.

2. Le città

Il comportamento flessibile dei Longobardi nei confronti della struttura insediativa tardoantica èevidente anche nel contesto urbano, sebbene i cambiamenti provocati dalla popolazione germanicasiano di altra natura.Vi sono ancora assai pochi dati che possono essere sfruttati per delineare lo sviluppo urbano inItalia settentrionale dalla tarda antichità sino alla fine del periodo longobardo. Le fonti scritte, nellaloro esiguità, forniscono soprattutto elementi sugli edifici ecclesiastici ed in misura assai più ridottasulle residenze pubbliche del potere regio o ducale42. I dati archeologici si limitano invece, nellamaggioranza delle città, a sepolture che dimostrano sia la continuità di uso dei cimiteri romani nelsuburbio, sia la presenza di sepolture isolate all'interno della cerchia muraria43. I soli scavi urbaniche abbiano scoperto resti di case altomedievali sono stati intrapresi in siti abbandonati durante ilTardomedioevo, come Luni44 e Castelseprio45.

39 H. Blake, Sepolture "Archeologia Medievale", X (1983), pp. 175-98, a p. 176.40 Cini, Ricci, I Longobardi nel territorio vicentino, cit.41 Kiszely, The Anthropology of the Lomabrds cit. p. 196.42 D. A. Bullough, Urban change in early Medieval Italy: the example of Pavia, "Papers of theBritish School at Rome", 34, (1966), pp. 82-130, a p. 92.43 Per Verona cfr. von Hessen, I ritrovamenti barbarici, cit., p. 7s; P.1 Hudson, M. C. La RoccaHudson, Verona: Cortile del Tribunale and Via Dante, in Lancaster in Italy, University ofLancaster 1983, pp. 9-21, a p. 17s.44 B. Ward-Perkins, Ricerche su Luni medievale, in Scavi di Luni II. Relazione delle campagne discavo 1972, 1973, 1974, a cura di A. Frova Roma 1977, pp. 633-38; Id. Two byzantine houses atLuni, "Papers of the British School at Rome", 49 (1981), pp. 91-8.45 M. Dabrowska, L. Leciejewicz, E. Tabaczynska, S. Tabaczynski, Castelseprio: scavi diagnostici1962-63, "Sibrium", XIV (1978-79), pp. 1-138.

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FIGURA 7:Ricostruzione della viabilità roma di Verona: sepolture longobarde (�); case di periodolongobardo(�); area non edificata ( a tratteggio).

Fino ad epoca recente non vi erano dati relativi alle città, tuttora esistenti, che potessero chiarire inquale misura i risultati ottenuti a Luni e Calstelseprio erano estendibili agli insediamenti urbani checontinuarono a sopravvivere oltre l'età romana. Infatti, malgrado l'intensificazione dal 1980 in poidelle ricerche archeologiche urbane nel nord Italia, specialmente nella regione lombarda46, mancanoancora quasi completamente resti di case civili altomedievali (VII-X secolo). L'unica eccezione èrappresentata da Milano, dove qualche elemento strutturale fu rinvenuto durante gli scavi per la"linea 3" della metropolitana in piazza del Duomo47 accanto ai dati più consistenti di Verona, chequi si presentano.

46 Archeologia urbana in Lombardia, a cura di G. P. Brogiolo, Modena 1984.47 D. Andrews, D. Perring, Gli scavi in piazza del Duomo, in Soprintendenza Archeologica dellaLombardia, Notiziario 1982, cit., pp. 63-5, a p. 64, Id. Piazza Duomo lotto due, SoprintendenzaArcheologica della Lombardia, Notiziario 1983, Milano 1984, p. 91s.

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FIGURA 8Verona, Via Dante: fronte stradale tardoromano e altomedievale (fine V- fine XII secolo). Lacampitura grigia indica la seconda fase edilizia ( inizio VII secolo), mentre quelle chiare al disopra e al di sotto indicano la prima e la terza fase edilizia (rispettivamente fine V secolo efine XI secolo).

In questo lavoro, si considerano alcuni aspetti della topografia urbana, utilizzando i risultati degliscavi intrapresi dal 1981 a Verona48, integrando tali osservazioni con i dati di altre città, in primoluogo Pavia, basati però essenzialmente su fonti scritte e topografiche.È stato più volte notato che la parziale conservazione del reticolo stradale romano nelle cittàmoderne dell'Italia settentrionale e centrale e Verona e Pavia sono due degli esempi più noti diquesto fenomeno deve significare una certa continuità dell'intensità di insediamento urbano anchedurante l'Altomedioevo49. La natura di tale continuità è stata recentemente chiarita nei recenti scavidi tre siti urbani a Verona, aventi caratteristiche diverse: il cortile del tribunale (circa 900 m2

all'interno di un'insula romana), via Dante (una strada urbana romana) e palazzo Maffei, collocatosul lato settentrionale di piazza delle Erbe, sul sito del Foro romano50 (fig. 7).Lungo il lato occidentale di via Dante, è stata messa in luce una struttura muraria (lunga 22 metried alta circa 2 metri) (fig. 8), che rappresenta la fronte stradale altomedievale, e che è collocata 4,5metri ad est della fronte stradale romana51. Si tratta di case costruite durante il V secolo,periodicamente restaurate durante l'Altomedioevo ed abbandonate soltanto alla fine del XII secolo,quando l'intera zona venne acquisita dal Comune di Verona, e vi si edificò il palazzo comunale52. Il 48 Hudson, La Rocca Hudson, Verona: Cortile del Tribunale and Via Dante cit.49 B. Ward-Perkins, From Classical Antiquity to the Middle Ages. Urban pubiic building in Northenand Central Italy, Oxford 1984, p. 179s.250 G. Cavalieri Manasse, Verona Palazzo Maffei: resti di edificio pubblico, "Quaderni diarcheologia del Veneto", I (1985), p. 47s.51 P. J. Hudson, M. C. La Rocca Hudson, Verona: Cortile del Tribunale and Cortile del MercatoVecchio, in Lancaster in Italy, University of Lancaster 1984 pp. 22-5.52 P. J. Hudson, La dinamica dell'insediamento urbano nell'area dei Cortile del Tribunale diVerona. L'età medievale, "Archeologia Medievale", XII (1985), pp. 281-302.

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fronte stradale altomedievale occupava la metà occidentale della strada romana ed era connesso alretro degli edifici monumentali posti lungo il lato orientale del Foro. A palazzo Maffei si èriscontrata una situazione del tutto simile. Alla fine del V o al massimo all'inizio del VI secolo,furono costruite delle case di abitazione nella estremità settentrionale del Foro, con la facciata postacirca 9 metri più a sud rispetto all'edificio monumentale romano sottostante. Questi dati fornisconodunque l'immagine di una città fittamente abitata durante il periodo tardoantico ed altomedievale.La situazione riscontrata all'interno dell'insula romana, modifica ed attenua quest'impressione.L'area dell'odierno cortile del tribunale fu intensamente riedificata durante la fine del IV secolo.Tale sviluppo include la costruzione di nuovi ambienti con pavimenti a mosaico, semplicementebianchi bordati con una fascia nera, ed un'aula absidata53, ma segni di crisi urbana compaiono giàcon la fine del V secolo. Alcuni ambienti sono completamente abbandonati, mentre in altri imosaici sono semplicemente sostituiti da pavimenti di terra battuta. L'abbandono definitivo diqueste strutture si verificò tra la fine del VI e l'inizio del VII secolo54, quando un incendio provocòla loro totale scomparsa. Nessuna nuova struttura fu ricostruita in quest'area, fino all'inizio del IXsecolo. Il deposito di terra scura che sigilla le macerie del crollo degli edifici tardoantichisuggerisce che la zona del cortile del tribunale fosse stata adibita a zona coltivata. Pertanto, mentrelungo la strada romana vi era ancora un fitto insediamento, le zone all'interno delle insulaesembrano invece sgombre di edifici. Altri dati per Verona sembrano confermare quest'ipotesi. Lapresenza di sepolture isolate e non associate ad edifici ecclesiastici è presumibilmente anch'essaindice di aree aperte. A Verona vi sono tre episodi di questo genere: una tomba inserita nell'aulaabsidata al cortile del tribunale55, una sepoltura sul lato settentrionale del Foro 56, ed infıne la riccatomba femminile rinvenuta nel secolo scorso presso palazzo Miniscalchi, al centro di un isolatoromano57.I risultati dell'esame del cavo veronese sembrano trovare sostanziale conferma per Pavia. Quidiverse sepolture altomedievali sono state rinvenute all'interno delle insulae della città romana58, e1'unico scavo stratigrafico eseguito all'interno di un isolato non ha identificato resti strutturali diquesto periodo59. Inoltre, la costruzione in età longobarda e carolingia di chiese al centro di isolatiromani potrebbe essere un'ulteriore indicazione di aree rimaste inedificate dall'età tardo romana (ades. S. Pietro in Vincoli). Il ruolo avuto dai Longobardi nel ridimensionamento dell'intensità ediliziaurbana è comunque difficile da isolare. Si è già osservato che segni di decadenza urbana eranomanifesti a Verona fıno dalla fine del V secolo, e questa crisi potrebbe essere attribuitaalI'abbandono della città da parte dei maggiori latifondisti, che provocò la decisa diminuzione dellacommittenza per nuovi edifici60 e 1'abbandono dei ceti dominanti della città era intimamenteconnesso con la diminuzione del volume degli scambi economici che si verifıcò tra V e VI secolo.In questo quadro generale, già compromesso, I'arrivo della nuova classe dirigente longobardasembra aver soltanto peggiorato tendenze già in atto.

53 Hudson, La Rocca Hudson, Verona: Cortile del Tribunale and Via Dante, cit., p. 19s.54 Hudson, La dinamica dell'insediamento urbano nell'area del Cortile del Tribunale di Verona.L'età medievale, cit.55 Hudson, La Rocca Hudson, Verona: Cortile del Tribunale and Via Dante, cit., p. 17s.56 Cavalieri Manasse, Verona Palazzo Maffei: resti di edificio pubblico, cit.57 C. Cipolla, Una tomba barbarica scoperta nel Palazzo Miniscalchi a Verona, "Madonna-Verona", I (1906), pp. 1-7 (ora in Scritti di Carlo Cipolla, a cura di G. C. Mor Verona 1978, 1, pp.151-7); von Hessen, I ritrovamenti barbarici, cit., p. 7s.58P. J. Hudson, Archeologia urbana e programmazione della ricerca: l'esempio di Pavia, Firenze1981, p. 255.59 H. Blake, Pavia, in Lancaster in Italy: archaeological research undertoken in Italy by the Dept. ofClassix & Archacology in 1979, University of Lancaster 1980, pp. 5-12, a p. 5s.60 L. Ruggini, Economia e società nell'"ltalia Annonaria", Milano 1961, pp. 29-35 81-90, 93-102.

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Vi fu inoltre una sostanziale continuità nell'insediamento suburbano. A Verona, questo dato ètestimoniato dalle tombe longobarde scoperte in Valdonega nel 196461, a nord del fiume Adige, inuna zona occupata nell'età romana da suntuose ville suburbane62 e presso la chiesa di S. Fermo,nella zona chiamata nell'813 villa prope portam Sancti Firmi, cioè presso la porta repubblicana,chiamata porta dei Leoni63. Anche a Lucca sono menzionate case di abitazione nel suburbio sin daiprimi documenti dell'VIII secolo64, ed infine a Pavia, I'unico dato per l'esistenza di suburbialtomedievali è il toponimo germanico Mons Falconis, nella zona sud occidentale della città, maqui non vi è alcuna prova archeologica di un insediamento romano extra moenia65.Se vi fu una sostanziale continuità nell'estensione delle aree urbane e soltanto una diminuzionedelle aree edificate, nelle tecniche costruttive vi fu invece un considerevole ridimesionamentoqualitativo. I muri delle case scoperti negli scavi veronesi sono formati pressoché integralmente damateriale romano reimpiegato. In via Dante la striscia di lastricato romano su cui si costruìl'edificio altomedievale venne totalmente asportata e le sue lastre vennero usate come soglie (fig.8). A palazzo Maffei il lastricato del Foro venne asportato per lo stesso scopo e le fondazioni di unedificio pubblico vennero demolite per soddisfare la domanda di mattoni. A Pavia, sembra chel'anfiteatro ed altri edifici monumentali collocati nelle zone di insediamento longobardo, potrebberoaver sofferto la stessa sorta66.

61 Von Hessen, I ritrovamenti barbarici, cit., pp. 9-11.62 G. Tosi, La casa romana di Valdonega e il problema degli «oeci colonnati», "Venetia", 3(1971), pp. 5-69.63 V, Fainelli, Codice diplomatico veronese, I, Venezia 1940, pp. 120-27.64 I. Belli Barsali, La topografia di Lucca nei secoli VIII-XI, in Atti del V Congresso internazionaledi studi sull'alto medioevo - Lucca 1971, Spoleto 1973, pp. 461-554, a p.492.65 P. Hudson, Pavia, in Archeologica urbana in Lombardia, cit., pp. 140-50, a p.66 Hudson, Archeologia urbana e programmazione della ricerca, cit., p. 25.

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FIGURA 9Verona, ceramica longobarda proveniente dal cortile del Tribunale.Legenda: 1) ceramica acroma con beccuccio applicato; 2) ceramica invetriata con beccuccio applicato; 3) base diciotola con invetriatura interna e decorazione a stampo longobarda; 4) ceramica longobarda con decorazione astampo.

A Verona il materiale reimpiegato era semplicemente legato da argilla, come le strutture scavate aLuni67 e Castelseprio 68. La facciata delle case altomedievali in via Dante era interamente costruitacon materiali di reimpiego, mentre i muri interni divisori erano soltanto basse fondazioni forse perelevati di legno. Quindi, anche in questo campo l'arrivo dei Longobardi fu caratterizzato dallaprosecuzione di tendenze già presenti tra la fine del V e l'inizio del VI secolo.La più volte notata commistione di abitudini e tradizioni si riflette anche in materiali di usoquotidiano, per esempio la ceramica. In qualche caso si crearono dei tipi ibridi con caratteristiche

67 Ward-Perkins, Ricerche su Luni medievale, cit. p. 636.68 Dabrowska, Leciejewicz, Tabaczynska, Tabaczynski, Castelseprio, cit., pp. 38 e 78s.

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che accomunano caratteri della produzione locale romana, come l'invetriatura verde o marrone69 edella produzione tipicamente germanica, a stralucido e stampiglia70. Si presentano qui quattroesempi particolarmente significativi dal cortile del tribunale (fig. 9). I primi due mostrano ladiffusione di una forma tipicamente longobarda: la fiasca monoansata con beccuccio applicato71. Ilprimo ha impasto grezzo ed è decorato da una linea incisa, di tradizione locale, mentre il secondo èrivestito da vetrina giallo-marrone e decorato a rotella. La terza è la base di una ciotola invetriata,decorata con stampigliature circolari con una croce centrale: la stessa stampigliatura è presente suun bicchiere, con impasto grigio e decorato a stralucido, e quindi tipico della produzionelongobarda. Quindi la fiasca da pellegrino di Testona e le borraccia invetriata con stampigliature daBiella72, non sono più da considerarsi eccezioni.I1 fluido panorama che si è presentato dimostra come non sia più attuale parlare dei Longobardi intermini di specifici tipi di insediamento oppure di manufatti. È sembrato infatti fruttuoso, oltre chedi estremo interesse, esaminare in modo più approfondito alcuni aspetti del sistema di relazioni che,di volta in volta, si vennero a creare con le popolazioni locali, ed è forse in questa direzione chefuture ricerche potranno contribuire a meglio conoscere questo periodo della storia italiana ancheattraverso l'archeologia.

69 Blake, Ceramica paleo-italiana, cit.70 O. von Hessen, Die Langobardiischen Keramik aus Italien, Wiesbaden 1968, p. 2371 Ibid.72 Blake, Ceramica paleo-italiana, cit., p. 31s e tav. 4.

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Maometto, Carlo Magno e altri

Gli Autori, Richard Hodges e David Whithouse, sintetizzano brillantemente in quest'articolopubblicato nel 19831 quanto più estesamente scritto nel loro volume Mohammed, Charlemagne andthe originis of Europe2. L'interesse dell'intervento sta non tanto negli apporti critici alla tesi diPirenne, che viene ampiamente discussa e corretta, giungendo a conclusioni che un quarantennio didibattito storiografico aveva in qualche modo già definito, quanto piuttosto nel fatto che questo è ilprimo studio che affronta tale tema utilizzando sistematicamente le fonti archeologiche su largascala: in sostanza, se appare scontato il superamento del dibattito sulla tesi di Pirenne, è viceversa digrande efficacia la ripresa in positivo della ricerca sulla "crisi" del Tardoimpero e l'inizio delMedioevo. In questa direzione le diverse forme che assume "la decadenza" urbana, i radicalimutamenti degli assetti nell'insediamento rurale, come appaiono in un quadro geograficoestremamente ampio e comparato sulla base dell'informazione archeologica, l'analisi dei tesori delMare del Nord alla fine del secolo VIII-inizi IX e lo sfruttamento di una grande rete di contatticommerciali con l'area islamizzata, sono le linee originalmente tracciate dagli autori di questosaggio che pone prospettive rinnovate alla ricerca archeologica.Si tratta in sostanza di un tentativo di sintesi delle informazioni archeologiche che vengonorapportate in un bilancio storico complessivo, soggetto ad "aggiustamenti" e a ricalibrature, tantofrequente nella tradizione anglosassone quanto desueto nella tradizione storiografica italiana.

1 "Opus", II (1983), fasc. 1, pp. 253-66.2 London, 1983.

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Richard Hodges - David Whitehouse

Il Mediterraneo e l'Europa nell'Altomedioevo*

Tra gli sviluppi più positivi dell'archeologia in Italia negli ultimi 20 anni sono la diffusione delloscavo stratigrafico e lo studio quantitativo della cultura materiale nell'archeologia classica el'affermarsi della archeologia medievale. Praticamente ignorata agl'inizi degli anni Sessanta, oggiall'archeologia del Medioevo è riconosciuta piena legittimità per quanto riguarda la tutela, lavalorizzazione e la ricerca. Ci sono professori che insegnano questa materia nelle università,ispettori specialisti nelle soprintendenze, una rivista annuale (Archeologia Medievale) a diffusioneinternazionale. Sebbene rimanga molto da fare, senza dubbio molto è stato già realizzato e in paesivicini, come la Francia e la Grecia, sono stati fatti simili progressi nello stesso campo.Un analogo sviluppo si sta verificando anche in alcuni paesi islamici dove nel passato la culturamateriale degli ultimi 1300 anni era stata trascurata (a parte i monumenti più famosi e le maggioriopere d'arte) a favore di civiltà più antiche: di solito quelle classiche nel Mediterraneo quellepreistoriche e protostoriche nell'Asia Occidentale. Oggi, una maggiore valutazione del patrimonioculturale più recente, spesso sostenuta dalla ricchezza derivata dal petrolio, porta ad applicare airesti del primo periodo islamico le tecniche archeologiche più avanzate e cioè: lo scavostratigrafico, la ricognizione in superficie programmata, l'uso di modelli mutuati dagli antropologi edai geografi, le analisi scientifiche e le statistiche dei manufatti e dei reperti biologici.Il bacino del Mediterraneo e l'Asia occidentale, quindi, hanno iniziato a darci abbondanti datiarcheologici riguardanti il periodo che noi (ma non i nostri colleghi islamici) chiamiamoAltomedioevo, come da molto tempo ha fatto l'Europa settentrionale. Di conseguenza lo storico sitrova di fronte ad una nuova, ricchissima fonte d'informazioni.Vorremmo illustrare l'importanza dell'archeologia per lo storico attraverso l'esame di una dellepietre miliari della storiografia moderna - la tesi di Pirenne - alla luce di questi nuovi datiarcheologici. Lo facciamo senza intenzioni polemiche. Sicuramente non crediamo che l'archeologiapossa sostituirsi alla storia tradizionale. Siamo tuttavia certi che è il solo mezzo a nostradisposizione per aumentare notevolmente la banca dei dati per lo studio del Medioevo e che,quindi, ha molto da dirci adesso, e ancora di più ne avrà in futuro.Nel 1935, quando il grande storico belga Henri Pirenne morì, aveva già completato la prima stesuradel suo capolavoro Maometto e Carlo Magno. Sebbene non riveduta, quest'opera è la trattazionepiù ampia e matura di argomentazioni esposte dapprima in un articolo pubblicato nel 1922,elaborato poi nei primi capitoli de Le città medievali del 1925 e presentate in molte sedi: a Roma,ad esempio, all'Institut Historique Belge (l'Accademia Belgica) nel 1933. La tesi centrale, prestodivenuta famosa come "la tesi di Pirenne", riguarda le origini del primo impero europeo delMedioevo, quello di Carlo Magno, sviluppatosi nel vuoto lasciato nell'Europa occidentale dallacaduta dell'Impero romano. Essa è basata quasi esclusivamente su fonti letterarie. È usata ladocumentazione numismatica, è vero, ma questo è praticamente l'unico aspetto della culturamateriale preso in considerazione.Ecco testualmente la quintessensa della tesi di Pirenne contenuta nella parte conclusiva diMaometto e Carlo Magno1 :

*Testo riveduto di una conferenza tenuta alla British School at Rome il 20 maggio 1982.1 H. Pirenne, Mohammed and Charlemagne , Londra 1958, pp. 284-5 (trad. it., Maometto e Carlomagno , Bari 1939).Tutte le citazioni di Maometto e Carlo Magno si riferiscono alla terza edizione della versione inglese.

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1. Le invasioni germaniche non distrussero né l'unità mediterranea del mondo antico, né ciò chepotrebbe essere considerato essenziale nella cultura romana, così come si conservava ancora nel Vsecolo, in un periodo cioè in cui in Occidente non vi era più un imperatore.Malgrado il conseguente disordine, non apparve nessun nuovo principio né in campo sociale edeconomico, né nella situazione linguistica, né nelle istituzioni esistenti. La civiltà che sopravvisseera mediterranea. Fu nelle regioni attorno a questo mare che la civiltà fu conservata, e da queste sioriginarono le innovazioni del tempo: il monachesimo, la conversione degli anglo-sassoni, la arsbarbarica ecc.L'Oriente era l'elemento fecondatore; Costantinopoli il centro del mondo. Nell'anno 600 lafisionomia del mondo non era diversa da quella che aveva nel 400.2. La causa della cesura con la tradizione antica fu il rapido ed inatteso avanzamento dell'Islam. Ilrisultato di tale avanzamento fu la separazione finale dell'est dall'ovest, e la fine dell'unitàmediterranea. Paesi come l'Africa e la Spagna, che erano sempre stati parte della comunitàoccidentale, gravitarono d'ora in avanti nell'orbita di Baghdad. In questi paesi apparve un'altrareligione ed una cultura completamente diversa. Il Mediterraneo occidentale, diventato un lagomusulmano, non era più l'arteria principale del commercio e del pensiero come era sempre stato.L'Occidente fu preso d'assedio e costretto a vivere delle sue proprie risorse. Per la prima volta nellastoria, l'asse vitale fu spostato a nord del Mediterraneo. La decadenza in cui cadde la monarchiamerovingia in seguito a questo cambiamento, dette vita a una nuova dinastia, la carolingia, la cuiorigine era nel Nord germanico.Il papa si alleò con questa nuova dinastia rompendo con l'imperatore, il quale, assorbito nella suabattaglia contro i musulmani, non poteva più proteggerlo. Così la chiesa cambiò bandiera. A Roma,e nell'Impero che essa fondò, la chiesa non ebbe rivali. E il suo potere era tanto maggiore in quantoche lo Stato, essendo incapace di mantenere una sua amministrazione, si lasciò assorbire dalfeudalesimo, inevitabile risultato della regressione economica. Tutte le conseguenze di questocambiamento divennero lampanti dopo Carlomagno. L'Europa, dominata dalla Chiesa e dalfeudalesimo, assunse una nuova fisionomia, differenziandosi leggermente nelle varie regioni. IlMedioevo - per mantenere l'espressione tradizionale - stava iniziando. La fase transizionale fulunga. Si può dire che durò l'intero secolo, dal 650 al 750. Fu durante questo periodo di anarchiache la tradizione dell'antichità scomparve, mentre affioravano nuovi elementi.Tale sviluppo si completò nell'800 con la costituzione di un nuovo impero che consacrò la rotturatra l'Occidente e l'Oriente dando un nuovo impero romano all'occidente: la prova evidente che si eraseparato dal vecchio impero che continuava ad esistere a Costantinopoli.

Fin dal suo apparire, quest'ampia ricostruzione di Pirenne provocò un dibattito che ha continuato ariaccendersi in maniera intermittente per quasi mezzo secolo. I documenti sono stati setacciati allaricerca di nuovi dati che appoggiassero o screditassero le conclusioni, e i dati numismatici sonostati riconsiderati più di una volta2.Anche all'epoca in cui Pirenne era ancora in vita, l'archeologia aveva iniziato ad illuminare alcuniaspetti del problema dell'Europa nord occidentale. Basti ricordare che i primi risultati dello scavodell'insediamento commerciale di Dorestad in Olanda furono pubblicati nel 19303. Poco dopo, scavifurono iniziati in un altro emporio, Haithabu, nella Germania settentrionale4. Dopo la morte diPirenne, nel 1937, venne pubblicata la tesi di Holgar Arbman intitolata Schweden und dasKarolingische Reich, che esaminava attentamente i rapporti tra il mondo scandinavo e quellocarolingio. Nel 1940 e 1943 lo stesso studioso pubblicava i vecchi scavi di Birka in Svezia chefornivano abbondanti informazioni sulle relazioni commerciali dei Vichinghi5. Negli anni 2A. Riising, The fate of Henri Pirenne's thesis on the consequences of Islamic expansion, "Classica et Mediaevalia", 13(1952), pp. 87-130; B. Lyon, Henri Pirenne: a biographical and intellactual study, Gand 1974.3 H. Holwerda, Opgravingen von Dorestad, "Oudheidkundige Mededeelingen", 9 (1930), pp. 32-93.4 H. Jankuhn, Haithabu: ein Handelsplatz der Vikingecrzeit, 6a ed., Neumunster 1976.5 H. Arbman, Birka, Sveriges aldsta handelstad, Stoccolma 1939.

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Cinquanta Joachim Werner, Donald Harden e altri esaminavano gli scambi internazionali tramite ladiffusione di determinati tipi di manufatti come oggetti di metallo e di vetro6. La ricercaarcheologica ha continuato con un buon ritmo e oggi la nostra conoscenza dell'Europa carolingiadeve molto allo scavo e allo studio della cultura materiale, e la nostra conoscenza dei Vichinghi glideve ancora di più.Proprio come è impossibile ora ignorare i dati archeologici nello studio dell'Altomedioevonell'Europa nord-occidentale, allo stesso modo sta diventando rapidamente impossibile ignorarli nelMediterraneo e nell'Asia occidentale. Per quanto riguarda la tesi di Pirenne, quindi, comincia adesistere un discreto numero di informazioni archeologiche per tutte le zone interessate. Cosa cidicono?Sarebbe assurdo tentare di offrire in questa sede un commento archeologico su tutti gli aspetti di unproblema così ampio e complesso. Cercheremo invece di trattare tre importanti elementi della Tesidi Pirenne: le condizioni economiche nel bacino mediterraneo al momento in cui arrivano gli Arabi,le radici locali dell'economia carolingia e la riforma monetaria dello stesso Carlomagno.Primo, il Mediterraneo. Pirenne propose due conclusioni, tanto fondamentali quanto semplici:

1.la civiltà mediterranea era ancora essenzialmente unitaria alla vigilia dell'invasione Islamica, cioècome era all'inizio del V secolo2.la "cesura", quindi, se vogliamo considerare il problema in termini di una "cesura" - fral'Antichità e il Medioevo - fu creata dagli Arabi, i quali effettivamente abolirono le relazionicommerciali tra il Mediterraneo e l'Europa continentale, isolando i Franchi e lasciando che essistabilissero le loro nuove strutture politiche ed economiche. Senza gli Arabi (rappresentatisimbolicamente da Maometto), scrisse Pirenne, la nuova Francia (rappresentata da Carlo Magno)sarebbe stata inconcepibile7.

L'archeologia ci offre una prospettiva diversa. Invece che ad un unico episodio catastrofico nel VIIsecolo, ci troviamo di fronte ad un processo lungo e discontinuo di smembramento politico,decadenza urbana e diminuzione degli scambi commerciali.Il declino urbano inizia ad essere documentato dappertutto. A Roma i pochi e controversi dati dellefonti scritte riguardanti le quantità di pane e altre vivande distribuite gratuitamente implicano unapopolazione di non meno di un milione di abitanti al tempo di Augusto, ma di non più di 500.000nel V secolo8. Dopo la "rinascita" edilizia del secondo quarto del V secolo, che vide la costruzionesia di S. Maria Maggiore che di S. Sabina, ci fu una pausa fino alle grandi opere del tardo VIII e IXsecolo9. Intorno al 525, Cassiodoro sottolineò il declino demografico dell'Urbe quando contrapposela situazione attuale con quella del passato «[. . .] la grande estensione delle mura - scrisse - lacapienza dei luoghi di spettacolo, di notevole grandezza delle terme, il numero di mulini [. . .]testimoniano le multitudini di cittadini» (che, si capisce, non esistevano più)10.Roma naturalmente era sempre un caso a parte, ma il suo destino negli ultimi secoli dell'Imperonon era affatto unico. Troviamo la stessa decadenza urbana altrove in Italia, ad esempio nel porto diLuni, che fino a circa il 400 doveva 1a sua vita all'esportazione del marmo delle vicinissime cave diCarrara. Luni aveva già iniziato la sua decadenza nel periodo imperiale, ma nel V secolo la

6 J. Werner, Fernhandel und Naturalwirtschaft in östlichen Merowingerreich nach archalogischen-numismatischenZeugnissen, "Bericht der Römisch-Germanisch Kimmission" 42 (1961), pp. 307-46, D. B. Harden, Glass vessels inBritain and Ireland, A.D. 400-1000, in D. B. Harden, Dark Age Britain, Londra, 1956, pp. 132-67.7 Pirenne, Mohammed and Charlemagne, cit., p. 234.8S. Mazzarino, Aspetti sociali del IV secolo , Roma 1951, pp. 230-8; R. P. Duncan-Jones, The Economy of the RomanEmpire, Cambridge 1974, p. 264, n. 4; G. Hermansen, The population of Imperial Rome: the Regionaries, "Historia",27 (1978), pp. 129-68.9 R. Krautheimer, Rome: Profile of a City, 312-1308 , Princeton 1980, pp. 46-108 (trad. it. Roma. Profilo di una città.312-1308, Roma 1981).10 Cassiod. Var. XI.39

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situazione precipitò, ed invece di una architettura domestica i mattoni in recenti scavi hannorivelato - perfino nel vecchio foro - modestissime costruzioni in legno11.Sebbene i particolari cambiamenti e la cronologia siano differenti lo stesso processo si osserva aCartagine. Il mattone crudo sostituì materiali da costruzione più durevoli. Parte della rete stradalefinì per essere bloccata da rifiuti. La zona urbana è piena di inumazioni riferibili, secondo uno degliscavatori, «a uno stadio avanzato del declino economico e demografico, quando zone della cittànon erano più occupate e le leggi tradizionali, secondo le quali la necropoli doveva stare fuori lemura, furono abbandonate». Tutto questo si verificò prima e non dopo l'invasione islamica12

Una storia analoga sta venendo alla luce altrove nel Mediterraneo centro-occidentale, e non vi èdubbio che il declino urbano fosse quasi universale13.Meno scontato, forse, è il fatto che una trasformazione simile si verificò anche nel cuoredell'Impero bizantino. Recentemente, Clive Foss, ha pubblicato uno studio delle "venti cittàdell'Asia" nominate da Costantino Porfirigeneto nel X secolo. La lista include Efeso, Mileto,Pergamo, Sardi e Smirne: tutti centri ampiamente scavati nell'ultimo secolo. Anche se gli scavatoripossono non aver trovato modeste strutture di legno come quelle scoperte a Luni, sicuramenteavrebbero trovato tutte, o quasi, le costruzioni in mattone o pietra. Per quanto riguarda il VIIsecolo, queste mancano. Guardiamo Efeso, ad esempio. Nel V secolo, parte della città furicostruita, poi sotto Giustiniano venne eretta la magnifica chiesa di S. Giovanni; la zona intornol'Embolo, uno dei viali principali, era piena di case di cittadini ricchi. Ma all'inizio del VII secolotutto cambiò. Questo è il periodo dell'invasione persiana, dopo la quale la vita urbana di Efesodeclinò rapidamente. Infatti, in tutte le città, con la possibile eccezione di Smirne, troviamo lostesso fenomeno: una rapida decadenza prima dell'arrivo degli Arabi )14. Anche nel Mediterraneoorientale, quindi, le armate islamiche stavano attaccando un sistema già decisamente indebolito.Nella maggior parte dei casi non mancava che un colpo di grazia.Non ci sorprende che nella misura in cui le città declinavano, anche il commercio diminuiva. Nel Vsecolo, una città come Roma consumava materie prime, manufatti e vettovaglie provenienti da ogniangolo del Mediterraneo e oltre. Uno scavo come quello della Schola Praeconum mostra ceramicheda tavola dall'Africa settentrionale e anfore dalla Tunisia, dall'Egeo, dalla Turchia e anche da Gazain Palestina15. La stessa situazione si verifica a Cartagine, dove anfore importate dal Mediterraneoorientale erano comuni fıno alla fine del VI secolo, data a partire dalla quale le relazionicommerciali sembrano essere declinate molto rapidamente16. Il commercio mediterraneo ancoraesisteva: lo scavo a Luni lo dimostra, come anche la scoperta di frammenti di anfore provenienti daGaza in strati sicuramente posteriori al 550 ad Anguillara nella Campagna Romana, o ceramica datavola africana dello stesso periodo a Farfa nella Sabina. Ma il numero delle imbarcazioni ed ilvolume dei prodotti trasportati erano esigui a paragone agli scambi commerciali di qualche secoloprima17. Proprio come il declino delle città, sebbene quasi universale, si verifıcò in maniera diversa 11 B. Ward-Perkins, Luni: the Decline of a Roman town , in M. Blake, T. Potter e D. Whitehouse Papers in ItalianArchaeology, I, Oxford 1978, pp. 2, 313-21; Id., Not so different from England? A Byzantine House in Italy, "PopularArchaeology", Agosto 1981, p. 17s; Id., Two Byzantines houses at Luni, "Papers of the British School at Rome" , 49(1981), pp. 91-8.12 H. Hurst, Excavations at Carthage, 1977-8. Fourth Interim Report, "Antiquaries Journal", 59 (1979), pp. 19-49.13 P. A. Fevrier, Quelques observations sur villes et campagnes au Maghreb à la fin de l'Antiquité ; Id., Observationssur l'habitat urbuin et rural dans la Gaule méridionale (dattiloscritto inedito presentato all'Istituto Gramsci, Napoli1982).14 C. Foss, Archaeology and the 'Twenty Cities' of Byzantine Asia , "American Journal of Archaeology", 81 (1977), pp.469-86; Id., Ephesus after Antiquity: a Late Antique, Byzantine and Turkish City, Cambridge 1979.15 D. Whitehouse, G. Barker, R. Reece, D. Reese, The Schola Praeconum I. the coins, pottery, lamps and fauna ,"Papers of the British School at Rome", 50 (1982).16 M. Fulford, Carthage: overseas trade and the political economy, c. A D. 400-700 , "Reading Medieval Studies", 6(1980), pp. 68-80.17 C. Panella, Produzioni anforiche presenti nella Cartagine di età romana: nuovi elementi per la ricostruzione deiflussi commerciali del Mediterraneo tra il V e a VII secolo (dattiloscritto inedito presentato all'Istituto Gramsci, Napoli1982).

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da una regione all'altra, anche il declino nel volume del commercio era lungi dall'essere uniforme.Il punto essenziale, tuttavia, è che contrariamente alla ipotesi sostenuta da Pirenne, il crollo delloscambio su vasta scala ebbe luogo prima dell'arrivo degli arabi e non fu causato dagli stessi arabi.La decadenza della vita urbana e la recessione economica possono essersi accompagnate acambiamenti radicali nell'insediamento rurale. I dati, tuttavia, sono attualmente difficili dainterpretare. Sicuramente, il numero di siti rurali del VI secolo scoperti dagli archeologi in una zonacome l'Etruria meridionale o nell'ager Cosanus è di gran lunga inferiore al numero dei siti del IIsecolo18. Comunque, dato che noi identifichiamo tali siti soprattutto in base alla presenza di certetipiche ceramiche d'importazione (in particolare, terra sigillata africana) non sappiamo fino a chepunto la scarsità di siti identificati sia dovuta semplicemente alla scarsità di ceramiche importate sulmercato locale, in seguito alla recessione commerciale. In futuro, quando saremo in grado diriconoscere non solo la terra sigillata africana, ma anche le ceramiche di uso comune, saremo ingrado di valutare molto più accuratamente la densità dell’insediamento rurale nel periodotardoromano, cosa che attualmente purtroppo non è possibile19.Tuttavia, sebbene i dati archeologici siano difficili da interpretare, abbiamo indicazione di quantopuò essere accaduto dal fenomeno geologico conosciuto come the Younger Fill (il riempimentorecente). Questo riempimento è uno strato di alluvium trovato nelle valli in molte zone del bacinoMediterraneo, creatosi secondo alcune datazioni radiocarboniche nel periodo 400-900 d.C.20.L'alluvium veniva depositato dai fiumi, a volte in maniera drammatica: la città di Olimpia nelPeloponneso venne letteralmente seppellita dal fango e dalla ghiaia portata dal fiume Cladeo.Esistono due ipotesi principali sull'origine dell'alluvium. La prima, elaborata dal geologo ClaudioVita-Finzi nel suo studio classico The Mediterranean Valleys, lo attribuisce ad un cambiamentometereologico. Un aumento nella pioggia produrrebbe un maggior volume d'acqua nei fiumi checauserebbe una più rapida erosione ed una maggiore capacità di trasportare l'alluvium. I sostenitoridi questa ipotesi, tuttavia, devono ammettere non solo che non c'è alcuna prova a favore di unaumento di precipitazioni, ma anche che le recentissime ricerche della missione dell'UNESCO neiuidian della Libia danno prove sicure contro l'ipotetico aumento21.Resta l'altra ipotesi, secondo la quale l'alluvium fu una conseguenza del declino del sistemaagricolo romano. Nel momento in cui diminuivano i grandi mercati urbani per il grano, l'olio ed ilvino, la mancata riparazione delle terrazze avrebbe portato il suolo all'erosione, e la stessa cosa sisarebbe verificata se i canali di scolo non fossero più stati mantenuti22.Qualunque sia la spiegazione corretta per l'alluvium23, esso ha importanti implicazioni per ilperiodo che c'interessa. I cambiamenti geomorfologici nelle vallate e negli estuari avrebberointaccato non soltanto l'agricoltura, ma anche le reti stradali, i porti (come quello di Roma) eperfino le stesse città. Il destino di Olimpia fu un esempio estremo di un fenomeno piuttostocomune, e disastrose alluvioni vennero registrate a Roma nel 589 e in seguito tra il 715 e il 73124.In questo miscuglio di città morenti, crisi economiche e vallate soffocate dall'alluvium, dove èandato a finire Pirenne? Proprio qui. Per Pirenne, gli Arabi chiusero il Mediterraneo ed in seguito i

18 T. W. Potter, The Changing Landscape of Southern Etruria , Londra 1979, pp. 13944 (trad. it.: Storia del paesaggiodell'Etruria medirionale, Roma 1985); M. Celuzza, E. Regoli, La Valle d'Oro nel territorio di Cosa, in "Dialoghi diArcheologia", n.s., 4 (1982), pp. 31-62.19 Per quanto riguarda l'Etruria meridionale, un contributo alla comprensione della ceramica d'uso comune ci vienedagli scavi ad Anguillara: D. Whitehouse, Le Mura di S. Stefano, Anguillara Sabazia (Roma): Ultima relazioneprovvisoria, in "Archeologia Medievale" 9 (1982), pp. 319-22; vedi anche P. Arthur, D. Whitehouse, Le ceramicadell'Italia Meridionale: produzione e mercato tra V e X secolo, "Archeologia Medievale", IX (1982), pp. 39-46.20 C Vita-Finzi, The Mediterranean Valleys, Cambridge 1969.21 G. Barker, G. D. B. Jones, The UNESCO/Libyan Valleys Survey: Report on Three years of Fildwork , 1979-1981, p.56.22 Vita-Finzi, The Mediterranean Valleys, cit., p. 105.23 J. M. Wagstaffe, Buried assumptions: some problems in the interpretation of the 'Younger Fill' raised by recent datafrom Greece, "Journal of Archaeological Science", 8 (1981), pp. 247-64.24 L. Duchesne, Le Liber Pontifcalis, Parigi 1886, I, pp. 399 e 411.

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Franchi, isolati nell'Europa occidentale, non ebbero altra scelta che quella di creare la loro stessaidentità politica. Per l'archeologo, che sia d'accordo o meno con tutte le nostre ipotesi, il distaccodell'Europa dal Mediterraneo fu un processo più lungo, complesso e discontinuo. Questo processoera già maturo quando arrivarono gli Arabi - infatti era iniziato in Europa con la finedell'amministrazione provinciale di Roma se non prima - ed in questo senso sembrerebbe cheMaometto abbia ben poco a che fare con Carlo Magno.Due aspetti dello stato carolingio che l'archeologo può contribuire a chiarire sono quelli cheriguardano le città e il commercio: specialmente in che misura esistevano sia prima di Carlo Magnoche dopo. Sebbene i dati archeologici siano più abbondanti in Inghilterra che in Francia,cominciamo ad avere un'idea circa le condizioni delle città tardoromane del continente neicosiddetti "secoli scuri", tra il V e il VII secolo. Come nella maggior parte del Mediterraneo, lacostruzione di prestigiosi monumenti pubblici e sontuose residenze private terminarono. Dove sihanno tracce di occupazione continua, si tratta di edifici di legno, come a Luni25.Diminuirono anche la produzione su scala più o meno industriale e il commercio regolare su lungadistanza, mentre le monete non furono più di uso comune. Negli insediamenti rurali della Franciatroviamo una gamma di manufatti molto più ristretta di quella che era una volta esistita nelle cittàromane, e per la maggior parte fatti localmente da non professionisti o al massimo da semi-professionisti26. Il periodo tra il V e il VII secolo quindi vide lo sviluppo di una società agraria incui la maggior parte della popolazione era sparsa in modesti insediamenti rurali. L'economia dimercato era crollata, l'artigianato e l'imprenditoria erano praticamente scomparsi e i datiarcheologici convergono su una quasi totale dipendenza dalla produzione locale. Sebbene gli Arabinon c'entrino, il giudizio di Pirenne sulla società ed economia della Francia merovingia è confortatodai dati di scavo: città e commercio, così come concepiti nel periodo romano, non esistevano più27.Vi erano, naturalmente, centri di potere sia civile che ecclesiastico. Alcuni di questi erano nellevecchie città: piccoli nuclei circondati da quartieri praticamente abbandonati. Aethelberht, re diKent, per esempio, viveva nella città romana di Canterbury al tempo della missione di Agostinonell'anno 597 e più tardi la più famosa residenza reale, ad Aquisgrana, sorse al centro di un'altracittà romana28. Si potrebbero citare molti esempi: il palazzo del vescovo recentemente scoperto aTours, i complessi monastici nelle città della Provenza, e così via. È la storia di Luni e di dozzine dialtre città sia continentali che mediterranee29.Anche il paesaggio merovingio conteneva centri di potere, come i monasteri (che in seguitogodranno grande prosperità sotto Carlo Magno e i suoi successori) e le ville reali, di cui Ingelheime il recentemente scavato Schloss Broich furono i discendenti caloringi30. Tuttavia, non dobbiamofarci influenzare dalla fama di questi siti e sopravvalutare il loro carattere monumentale, anchesotto i carolingi. Il palazzo imperiale ad Aquisgrana, il centro amministrativo più importantedell'Europa occidentale, occupava solo due ettari (la maggior parte era vuoto) mentre il grandemonastero ideale di S. Gallo fu progettato per solo 240-260 persone tra monaci e laici31.Il commercio crollò, ma ogni tanto prodotti stranieri raggiungevano anche le parti più distantidell'Europa: il vasellame di bronzo fuso arrivava dall'Egitto, il vino dalla Palestina, la ceramica datavola dalla Tunisia32. Paradosso? Pensiamo di no, preferendo interpretare queste rare e costose

25 M. Biddle, Towns, in The Archaeology of Anglo-Saxon England, a cura di D. Wilson, Londra 1976, pp. 99-150.26 Cfr. R. Koch, Absatzgebiete merowingerreitlicher Topferewen des nordlichen Nechagelsieter , "Jarbuch furSchwabisch Frankische Geschichte", 27 (1973), pp. 31-43.27 Pirenne, Mohammed and Charlemagne, cit., pp. 164-74.28W. Horn, The Plan of St Gall, Berkeley, Los Angeles e Londra 1979, I, pp. 106-7.29 H. Galinié, Archéologie et topographie historique de Tours-IVème-Xléme siècles , "Zeitschrift für Archäologie desMittelalters", 6 (1978), pp. 33-56.30 G. Binding, Die spatkarolingische Burg Broich in Mulheim and der Ruhr, Dusseldorf 1968.31 Horn, The Plan of St Gall, cit., I, p. 342.32 Per le ceramiche mediterranee nell'Europa occidentale, vedi C. Thomas, A provisional list of improted pottery inpost-Roman Western Britain and Ireland, Redruth 1981. Per il vasellame di bronzo egiziano in Italia, vedi la recentelista di M. C. Carretta, Il Catalogo del vasellame bronzeo italiano alto medievale, Firenze 1982.

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importazioni come oggetti di scambio di carattere non commerciale. Sappiamo dall'antropologiache lo scambio di doni è un mezzo preferito per rendere omaggio e rinforzare relazioni politiche esociali. L'idea non è nuova; fu esaminata anni fa da Malinowski e da Marcel Mauss33. Anche ilgrande tesoro di Sutton Hoo può essere facilmente interpretato come frutto di una serie di scambi didoni piuttosto che di rapporti commerciali.È un passo piccolo, abbondantemente documentato nella letteratura antropologica, quello che, dagliscambi di doni porta alla creazione di specializzate partnerships semi-commerciali, che permettonolo scambio di oggetti di prestigio e di lusso tra i capi o, nel caso europeo, tra reucci locali. Unelemento essenziale in questo sistema è la creazione di posti di frontiera, dove gli scambi possonoessere controllati - le cosiddette gateway communities dei geografi e degli antropologi34. Non èaffatto assurdo pensare all'Europa occidentale in questi termini, è sufficiente ricordare le letterescambiate tra Carlo Magno e Offa, re di Mercia, le quali descrivono esattamente questofenomeno35. Infatti analoghi posti di frontiera stanno iniziando a venire alla luce. Ad alcunichilometri da Sutton Hoo, si trova il porto di Ipswich, che emerge come uno dei maggioriinsediamenti di questo periodo. Il re di Wessex aveva Hamwih, precursore del gorto diSouthampton. Nel continente, si hanno Quentovic e Dorestad 36.Alla fine dell'VIII secolo, tutti e quattro questi posti fissi subirono un drammatico cambiamento.Divennero molto più grandi (alla fine Dorestad si estendeva per 250 ettari) e testimoniano nonsoltanto dell'esistenza di commercianti ma anche di artigiani. Aumentò la quantità e la varietà dellacultura materiale. Le monete, prima molto scarse, divennero più comuni. Grazie all'applicazionedella dendrocronologia ai legnami conservati negli strati più umidi a Dorestad, sappiamo congrande precisione quando lo sviluppo prese il via: nell'ultima decade dell'VII secolo37.L'emergenza di un vero sistema commerciale (sarebbe difficile spiegare il fenomeno in altritermini) coincideva con una svolta nello sviluppo della moneta medievale in Europa: la riformamonetaria di Carlo Magno dell'anno 793 o 79438. Il peso del denaro d'argento aumentò di un terzo eCarlo Magno fece l'impossibile per allargare la diffusione e l'uso della moneta. Gli obiettivievidentemente erano di stimolare l'economia e di facilitare l'esazione delle tasse. Il successo dellariforma, se non altro dal punto di vista commerciale, è chiaramente dimostrato dalla crescitaesplosiva di Dorestad, e non è un caso che le stesse misure furono subito adottate da Offa e daLeone III39.Il Mare del Nord non è la sola zona in cui si svilupparono i porti commerciali negli anni intornoall'800. Subito fuori della frontiera carolingia, i Danesi fondarono un insediamento che aveva unsolo scopo, il commercio. L'insediamento era Haithabu, creato dopo una raid che vide ladistruzione del vicino porto carolingio e la deportazione dei mercanti. La dendrocronologiadimostra che la costruzione di Haithabu era già in corso nell'anno 810 circa40.Quale motivazione spinse i Danesi ad imbarcarsi in questa impresa? Dato il carattere commercialedi Haithabu, la risposta sembra sia che essi volevano controllare le nuove relazioni commerciali trala Francia e il Mar Baltico, dove i dati archeologici mostrano lo sviluppo di un'attività economicanon meno intensa di quella del Mare del Nord. Gli scavi nei cimiteri di Birka, un centrocommerciale svedese, già dallo scorso secolo documentarono la ricchezza degli abitanti dal IXsecolo in poi. La scoperta a Helgo di una statuetta di Budda, fusa nel Kashmir, dimostra come gli

33 B. Malinowski, Argonauts of the Western Pacific, Londra 1922; M. Mauss, Essai sur le Don, Parigi 1925.34 R. Hodges, Dark Age Economics, Londra 1982.35 Ivi p. 124.36 1vi, pp. 66-86.37 W. W. van Ess, W. J. H. Werwers, Excavations at Dorestad 1: the harbour; Hoogstrnat 1, Amersfoort 1980.38P. Grierson, Money and coinage under Charlemagne, in Karl der Grosse 1, Dusseldorf 1965 pp. 501-36.39 Ibid.40 Jankuhn, Haithabu, cit.; K. Randsborg, The Viking Age in Denmark , London 1980, pp. 85-92 e 171s.; K. Shietzel,Stand der siedlungsarchäologischen Forschung in Haithabu. Ergebnisse und Probleme, "Berichte uber dieAusgrabungen in Haithabu", 16 (1981).

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oggetti possano essere importati da paesi sorprendentemente lontani41. Recentemente, gli scavi aStaraya Ladoga, vicino Leningrado, ci hanno dimostrato che anche qui cominciò ad espandersi unricco centro commerciale intorno all'800 circa42.In poche parole, la nuova informazione archeologica ha mutato completamente le nostre idee circale origini dei rapporti commerciali nell'Europa nord-occidentale, provando lo sviluppo dei porti nelMare del Nord e nel Baltico entro un brevissimo periodo compreso tra il 790 e 1'810 circa.Questo elogio dell'archeologia può forse sembrare troppo simile ad un annuncio pubblicitario edobbiamo ammettere che, come qualsiasi inserzione per detersivi, propone un ingrediente speciale.Pirenne quasi lo scoprì quando scrisse di «una grande via commerciale che conduceva (dall'Oriente,s'intende) al Baltico, percorrendo il Volga»43. Esitò, tuttavia, e abbandonò l'argomento.Riproponiamolo noi.Abbiamo insistito sullo sviluppo dei centri commerciali lungo le coste del Mare del Nord e ilbaltico, e sulle relazioni tra il mondo carolingio e i Vichinghi. Sappiamo tutti che gli stessiVichinghi sfruttarono una vasta rete di contatti commerciali con la Russia e l'Oriente islamico, ed èquesto l'ingrediente speciale44.Nell'anno 750 l'ultimo califfo della dinastia omniade fu spodestato. I nuovi califfi della dinastiadegli Abbasidi decisero di trasferire la corte e il governo dalla vecchia capitale, Damasco, verso lebasi del loro stesso potere, in oriente. Dodici anni più tardi, dopo molte indecisioni, il califfo al-Mansur decise di fondare una nuova città sul Tigri, nel punto in cui i grandi fiumi, il Tigri el'Eufrate, distano meno di 40 km. e erano già collegati da canali. La scelta fu brillante e gli scrittoriarabi del IX e X secolo sono unanimi nelle loro lodi. Secondo al-Muqaddasi, venne detto al califfo:«sarai sempre circondato da palme e sarai vicino all'acqua [. . .] se una regione soffre siccità [. . .] visarà sollievo da un'altra [. . .]. Il nemico non può avanzare salvo che per nave o sopra un ponte».Ya'qubi scrisse: «Il Tigri ad oriente e l'Eufrate ad occidente sono gli approdi del mondo». Tabari faesclamare il califfo: «Questo è il Tigri: qui non c'è distanza tra noi e la Cina. Tutto ciò che è sulmare può venire a noi»45.Baghdad non solo era ben situata per esercitare il commercio marittimo, ma era anche un puntod'incontro per alcune delle maggiori carovaniere dell'Asia. La "via di Khorasan" arrivava dall'Iran eAsia centrale, portando tra le molte altre cose, argento dalle miniere di Afghanistan e Uzbekistan.Altre strade portavano verso ovest in Siria e a sud-ovest fino in Arabia ed Egitto. L'Iraq, quindi,divenne il centro di un vasto impero politico e commerciale.Non esiste illustrazione più sconvolgente della ricchezza a disposizione degli Abbasidi cheSamarra, un'altra nuova capitale a 129 chilometri a nord di Baghdad, creata ex novo nel 836, eabbandonata dai califfi nel 882. In un arco di tempo di appena 46 anni, gli Abbasidi riuscirono acostruire una città che si estendeva lungo il Tigri per 35 km - più della distanza tra Roma e Ostia46.Fu un'impresa incredibile, forse la città più grande mai esistita prima di questo secolo. Esaminiamosolo quattro dei principali edifici. I1 palazzo del fondatore di Samarra, al-Mu'tasim aveva un'areaquattro volte maggiore dei Vaticano. Questo fu sostituito da un nuovo palazzo, costruito pochi annidopo dal suo successore, alMutawakkil, e grande tre volte più del Vaticano. Lo stesso califfocostruì anche una moschea grande più di due volte S. Pietro. Più tardi, ne costruì un'altra, lamoschea di Abu Dhulaf, anche questa due volte più grande di S. Pietro. È vero, i materiali dacostruzione (per la maggior parte mattone crudo) e la mano d'opera costavano poco. Ma i palazzi e 41 La statuetta è stata illustrata in numerose occasioni; vedere, ad esempio, D. Wilson, The Wikings and their origins ,London 1970, fig. 33.42 Hodges, Dark Age Economics , cit.; D. Ellmers, Frühmittelalterliche Handelsschiffart in Mittel - und Nordeuropa ,Neumuster 1972.43 Pirenne, Mohammed and Charlemagne, pp. 183s.44 H. Arbman, Svear i Osterviking, Stoccolma 1955; A. Stender-Petersen, Varangica, Arhus 1953.45 K. A. C. Creswell, Early Muslim Architecture, 2a ed., Londra 1968, 2, pp. 1-5.46 Stranamente, nessuna dettagliata descrizione del sito è mai stata pubblicata. Per una serie di fotografie aeree, vedereE. Herzfeld, Ausgrabunden von Samarra VI. Geschichte der Stadt Samarra, Berlino 1948. Per la descrizione deiprincipali monumenti, vedere Creswell, Early Muslim Architecture, cit..

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le moschee erano rifiniti in marmo, mosaici e stucchi, e in ogni caso, quali ehe fossero i materialiusati, la costruzione di una città per l'estensione di 35 km, realizzata in soli 46 anni, deve averconsumato una parte del bilancio nazionale, pari o forse maggiore di quella destinata oggi alprogramma di difesa di una o l'altra delle superpotenze.Un importante elemento nella ricchezza degli Abbasidi fu il commercio marittimo, e anche quil'archeologia si aggiunge alla storia come un'indispensabile fonte d'informazione. Già sapevamodalle fonti scritte che i rapporti commerciali ebbero una lunga storia nell'Oceano Indiano. Ancheall'inizio del primo millennio dopo Cristo, il Periplo del Mar Rosso dimostra una conoscenza nonsolo dello Sri Lanka, ma vagamente anche della costa orientale dell'India. Alla fine dello stessomillennio, mercanti viaggiavano regolarmente dal Golfo Persico alla Cina e dall'Africa Orientale,fino a Sofala in Mozambico e all'isola di Madagascar47. Ora, l'archeologia ci dice con precisioneimpressionante quando questi lunghissimi viaggi iniziarono.L'informazione ci viene da Siraf, il grande porto medievale del Golfo48. Malgrado un ambientearido ed improduttivo, Siraf fiorì per più di due secoli grazie alla sua funzione di porto di scalo peruna flotta mercantile che trafficava lungo tutto l'Oceano Indiano. La chiave di lettura della storia diSiraf è la moschea principale, costruita, ricostruita, quindi riparata in più di un'occasione. La primacostruzione sembra abbia avuto luogo contemporaneamente alla costruzione del bazar, il cuorecommerciale della città. Ciò rappresenta un considerevole investimento e già denuncia un momentoeccezionale di sviluppo economico. Questo coincide inoltre con un notevole cambiamento nellaceramica d'uso. Prima della costruzione della moschea, le ceramiche cinesi erano presenti, ma raree in forma di giare per l'importazione di sostanze deperibili. Gli strati contemporanei e successivialla costruzione, d'altra parte, contengono una maggiore quantità di materiale cinese, e non solocontenitori: sono presenti anche pregevoli ceramiche da tavola. Crediamo non si tratti di altro chedel momento in cui iniziò il contatto diretto con la Cina, in sostituzione di quello indiretto.E la data? Gli storici ci dicono che non può essere prima del 792, quando il governo cinese riaprì ilCantone ai mercanti stranieri49. L'archeologia ci dice che non può essere dopo gli anni 815-25, datadella costruzione della moschea indicata dalle monete.Ricapitolando, la fondazione di Baghdad nel 762 provocò un boom economico nell'Asiaoccidentale, e l'inizio di un commercio diretto con la Cina negli anni intorno all'800 è sintomaticodell'enorme forza dell'economia abbasida, all'epoca governata dal califfo Harun al-Rashid.Naturalmente, il simultaneo sviluppo dell'economia carolingia, del commercio baltico e del boomnell'Asia occidentale non può colpirci. E per finire, vorremmo aggiungere un ulteriore elementointeressante. Torniamo alla riforma monetaria di Carlo Magno, che aumentò di un terzol'ammontare dell'argento nei suoi denari. Come? La risposta venne data poco dopo la pubblicazionedi Maometto e Carlo Magno da un giovane numismatico, Store Bolin. L'argento, egli diceva,proveniva dal commercio con le città del Baltico ed esse lo ottennero tramite il commercio conl'Oriente. Il Baltico, egli precisava, è pieno di tesori di monete - quasi tutte islamiche - e il peso delnuovo denaro pesante di Carlo Magno era simile a quello del dirham di Harun al-Rashid50.Siamo convinti che Bolin aveva ragione. Una recente analisi di 71 tesori scoperti nelle repubblicheoccidentali dell'Unione Sovietica rivela che il volume di monete d'argento islamiche esportate versoil Baltico raggiunse una proporzione senza precedenti negli anni 790-820 circa: il periodo in cui

47 È sufficiente confrontare il Periplo con le notizie date dai geografi arabi, come riassunto, ad esempio, da G. Hourani,Arab Seafaring, Beirut 1964. Per l'Africa orientale, vedere J. S. Trimingham, The Arab geographers and the EastAfrican Coast, in H. N. Chittick, R. I. Rotberg, East Africa and the Orient, New York e Londra 1975, pp. 115-46.48 D. Whitehouse, Siraf: a medieval city on the Persian Gulf , "Storia della Città", 1 (1976), pp. 40-55; Id. Siraf III: TheCongregational Mosque, Londra (s.d.).49 Hourani, Arab Seafaring, cit., p. 66.50 S, Bolin, Mohammed, Charlemagne and Ruric , "Scandinavian History Review", I (1953), pp. 5-39; Grierson, Moneyand coinage, cit.

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l'economia abbasside raggiunse il suo apice e il nascente sistema carolingio era in grado di ricevere,e cambiare per uso interno, grandi quantità d'argento51.Dove ci ha portato questa discussione? Riassumiamo: Carlo Magno tentò di sviluppare un piùcoerente sistema economico nell'Europa occidentale, incoraggiando il commercio e senza dubbiofacilitando l'esazione dalle tasse tramite la riforma monetaria. Noi crediamo, che per quest’impresaegli ottenne la maggior parte dell'argento dai commercianti del Baltico, i quali a loro volta loottennero dal Medio Oriente. Harun al-Rashid governò un impero dieci volte più vasto di quellocarolingio e dall'enorme capacità economica. In questo preciso momento, i capitani di Sirafiniziarono regolari contatti marittimi con un altro grande impero, la Cina e sfruttarono le ricchezzenaturali dell'Africa orientale. Altrove i mercanti islamici rinforzavano i rapporti con il baltico cheserviva da legame tra la rete commerciale dei Carolingi e degli Abbasidi fornendo le zecchedell'Occidente con l'argento dell'Afghanistan e di altre regioni asiatiche. È una domanda senzarisposta, ma che merita lo stesso di essere fatta: Carlo Magno e Harun al-Rashid, l'imperatore e ilcaliffo, conoscevano questa ragnatela di relazioni commerciali (un vero world system) a cuiappartenevano entrambi, o no?

51 T. S. Noonan, Ninth-century dirhem hoards from European Russia: a preliminary analysis , in M. A. S. Blackburn,D. M. Metcalf, Viking-age Coinage in the Northern Lands, Oxford 1981, pp. 47-118.

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La città altomedievale

Uno dei temi su cui si è concentrata l'attenzione della storiografia sulla città è quello dellacontinuità fra Antichità e Medioevo: un problema destinato ad essere ancora ampiamente dibattutoe probabilmente rimanere irrisolto perché può essere evinto soltanto nelle grandi diversificazionitemporali e nelle diversità geografiche. Una situazione determinata oggettivamente dallescarsissime conoscenze relative alle strutture fisiche della città altomedievale. Non vi è dubbio chese affrontiamo il problema urbano in Italia dal punto di vista politico ed istituzionale il problemadella continuità sarebbe generalmente risolto positivamente, ma se andiamo a leggere le strutturemateriali ci accorgiamo di profondi e incisivi mutamenti sia nell'organizzazione degli spazi sia neimodelli dell'edilizia privata. Il largo lasso di tempo di oltre sei secoli che separa gli impianti romanidelle città italiane dagli impianti romanici è generalmente simmetrico ad un altrettanto vastodislivello fra le quote di partenza dei rispettivi edifici, dislivello caratterizzato da un accumulo distrati neri: sono questi contenitori delle informazioni relative alle strutture abitative eall'organizzazione degli spazi della città altomedievale, che soltanto in questi ultimi anni, e nonsempre, cominciano ad essere indagati sistematicamente per capire gli assetti che hannocaratterizzato questa fase. In Lombardia, dove l'archeologia urbana comincia a dare i primi risultati,le città altomedievali, pur conservando la presenza delle sedi delle autorità civile ed ecclesiastica,appaiono più che un agglomerato omogeneo, disseminate di insediamenti talvolta concentratiintorno ad una chiesa con annessa area cimiteriale e circondate da aree ortive, riproducendo unmodello rurale sulla continuità delle rovine di una cultura urbana (naturalmente non mancanoeccezioni). In altre aree della penisola il quadro non è diverso, ci basti al proposito richiamare lalabilità delle strutture urbane altomedievali a Firenze recentemente evidenziate da uno scavo nellapiazza della Signoria, dove i livelli di vita altomedievali, costituiti prevalentemente dai resti distrutture precarie, si appoggiavano ai monumentali crolli delle terme romane. Il caso di Firenze èesemplificativo per molte situazioni, ma certo non esaustivo della varietà della casistica che vedevacontemporaneamente in alcune aree metropolitane bizantine svilupparsi impianti religiosi di vasteproporzioni, nati in una tradizione di padronaggio che non si era ancora spenta. Ma ancora moltiaspetti del problema devono essere chiariti mentre è assodata la fragilità dello spessore dellacultura cittadina in Firenze, rimane ancora tutta da definire quella lucchese, di cui ladocumentazione scritta tenderebbe a dare un'immagine diversa, comunque tutta da verificare.E in questo contesto di una storia urbana che non si basa su una consolidata conoscenza dei restimateriali della città che Ward Perkins, nel saggio di seguito pubblicato1, sintetizza il ruolo chel'archeologia deve svolgere e il complesso delle problematiche intorno a cui devono ruotare lericerche.

1 La città altomedievale, " Archeologia Medievale", X (1983), pp. 111-24.

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Bryan Ward-Perkins

L'archeologia della città *

1. Introduzione

È mio compito in questo articolo trattare della città altomedievale italiana, in relazione particolarecon l'archeologia. Come limiti cronologici ho preso, più o meno, il periodo dal 400 al 1000, e, comelimiti geografici, l'Italia a nord della Toscana: cioè la Liguria e tutta la Val Padana.Bisogna anche che mi fermi un attimo a definire la parola "città". Due sono i tipi di definizione piùcomuni: uno che considera la città in termini politici e come il centro amministrativo del territoriocircostante, spesso anche con privilegi e diritti specificamente "urbani"1; l'altro che la considera intermini economici e demografici, come un concentramento di persone, di solito con una baseeconomica non soltanto agricola, ma anche artigianale e commerciale. Infatti risulta che per lamaggior parte delle città europee tutte e due le definizioni sono accettabili; perché nuovi centri disviluppo economico e demografico diventano normalmente anche centri amministrativi e zoneinvestite di privilegi speciali; mentre i vecchi centri, in fasi di decadenza economica e demografica,perdono alla fine la loro posizione legale e amministrativa.Perciò in genere potere economico-demografico e potere amministrativo finiscono nello stessoposto, cioè nella stessa città. Però può anche darsi che il conservatorismo amministrativo ritardiquesta congiunzione, mantenendo per secoli i privilegi di una città in un insediamento già decaduto,in termini economici e demografici, al livello di un villaggio, ed ignorando l'esistenza di un vicinocentro economico molto fiorente, che perciò non acquista per molto tempo privilegi urbani. Peresempio, nel X secolo Luni nella Liguria era ancora la città capitale della Lunigiana ed il centro delpotere ecclesiastico e secolare: però a livello demografico ed economico era sicuramente incondizioni molto ridotte e forse già superata in ricchezza e popolazione dalla vicina Sarzana, doveperò la cattedrale fu spostata soltanto agli inizi del secolo XIII2.Per l'archeologia medievale è necessario senz'altro concentrare gli sforzi e le ricerche sulladefinizione e sull'identificazione della città come centro demografico ed economico, piuttosto cheamministrativo. In primo luogo perché ovviamente in un periodo senza iscrizioni che fornisconodati amministrativi, l'archeologia ci può dire pochissimo sulla posizione politica e legale di uninsediamento, e per questo aspetto dobbiamo basarci sulle fonti scritte. In secondo luogo perchél'archeologia può invece fornire preziosissimi dati sull'economia e sulla densità della popolazione,che sono, come vedremo, proprio gli aspetti della vita urbana spesso trascurati dai documenti.Quindi della «città», in questa relazione, parlerò soprattutto in termini demografici ed economici,intendendo cioè insediamenti con una popolazione notevole (anche se lascio del tutto vago ilsignificato di «notevole»), e insediamenti con funzione economica specializzata che li differenzi dalmondo rurale. La definizione è necessariamente vaga e ampia, però può servire.

*Vorrei ringraziare le molte persone che mi hanno fornito idee ed informazioni per questa relazione, anche se nonsaranno ovviamente sempre d'accordo con le mie interpretazioni dei dati dei loro scavi e delle loro ricerche. Soprattutto,per aver fornito informazioni ancora inedite, vorrei ringraziare Gian Pietro Brogiolo, Peter Hudson, Silvia LusuardiSiena, Sergio Nepoti, Maria Pia Rossignani, Guido Vannini e David Whitehouse. A richiesta della redazione ho ridottole illustrazioni a due, poco conosciute ed essenziali alla comprensione del testo.1 Vedi per esempio G. Mengozzi, La città italiana nell'alto Medio Evo, Roma 1914.2B. Ward-Perkins, Luni: the prosperity of the town and its territory , inArchaeology and Italian Society, a cura di G. Barker e R. Hodges, Oxford 1981,pp. 179-90.

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2. Le fonti scritte

Dopo queste osservazioni su problemi di definizione e di indirizzo generale, è mio compito, scriveredella natura delle prove esistenti che illustrano il mio tema. Per la città altomedievale non è uncompito difficile, perché in pratica l'informazione a nostra disposizione è scarsissima. Per lamaggior parte delle città italiane le fonti scritte prima del 1000 documentano soltanto la loroesistenza o no, e la presenza o assenza al loro interno della gerarchia ecclesiastica e secolare. Perciòle fonti scritte generalmente parlano degli insediamenti soltanto in termini amministrativi, e non cipermettono di sapere se queste cosiddette «città» fossero anche centri economici e demograficifiorenti, o se invece fossero piuttosto villaggi con un palazzo ducale o comitale ed una cattedrale.In alcuni casi, come per esempio quelli di Pavia e di Milano disponiamo di una documentazionescritta un po' migliore, adeguata per fornirci ulteriori dettagli: soprattutto per quanto riguardal'ubicazione e la fondazione delle chiese3. Quasi unico è il caso di Lucca, dove per fortuna è rimastauna buona documentazione, che va dal secolo VIII in poi, di carte private, di donazione o di venditadi proprietà dentro e fuori della città4. Queste carte ci permettono di disegnare, attraverso idocumenti, un quadro della vita urbana e della topografia di case, strade, palazzi ecc.; come si puòfare in base alle fonti scritte per molte città del Bassomedioevo. Però, anche nel caso eccezionale diLucca, le lacune sono molto grandi e molte delle informazioni sono discutibili e poco dettagliate.Per esempio, per informazioni sulla vita economica, dipendiamo dai rarissimi casi di persone citatenei documenti con il nome del loro mestiere, e, quanto alle case, abbiamo solo descrizioni brevi emolte vaghe per quanto riguarda la loro forma ed i materiali costruttivi5.

3. Potenzialità e problemi di scavo

Quindi l'archeologia è fondamentale, o meglio, per essere più preciso, sarà fondamentale per lanostra conoscenza della città altomedievale italiana. Però, in contrasto col Bassomedioevo, non èl'archeologia duplice, lo studio delle strutture sopra terra, e quello dei resti di scavo. Perl'Altomedioevo rarissime sono le strutture ancora evidenti sopra terra, con l'unica e importanteeccezione delle chiese. Esistono ancora, è vero, alcune strutture non religiose, per esempio lunghitratti delle mura leoniane intorno alla Città Vaticana6, e ulteriori studi potranno forse moltiplicaretali esempi; però saranno sempre rari. Per quanto io sappia, non è stata conservata in elevatonessuna casa domestica attendibilmente databile prima del 1000, mentre del Bassomedioevo neesistono migliaia.Saranno, invece, gli scavi a chiarire il problema della città altomedievale, e vorrei dedicare un po' dispazio ai problemi generali dello scavo in questo campo.Il fatto è che la fase altomedievale di un insediamento urbano risulta spesso difficile da trovare, e,una volta trovata, difficile da capire. I motivi di queste difficoltà sono tre, dei quali due sonoinevitabili, mentre è appunto nostro compito eliminare il terzo.

3 D. A. Bullough, Urban change in early Medieval Italy : the example of Pavia , "Papers of the British School at Rome",34 (1966), pp. 82-130, P.J. Hudson, Archeologia urbana e programmazione della ricerca: l'esempio di Pavia, Firenze1981, Fondazione Treccani degli Alfieri per la Storia di Milano, Storia di Milano, Milano 1954, II, pp. 500-608.Milano.4 I. Belli Barsali, La topografia di Lucca nei secoli VIII-XI , in Atti del V Congresso internazionale di studi sull'altomedioevo - Lucca 1971, Spoleto 1973, pp. 461-554. Altra città relativamente ben documentata, ma, in questo caso, nonancora molto studiata è Ravenna. Per un'idea della potenzialità della documentazione ravennate cfr. M. Cagiano deAzevedo, Le case descritte dal Codex Traditionum Ecclesiae Ravennatis, "Accademia Nazionale dei Lincei, Rendicontidella classe di scienze morali, storiche e filologiche'', serie VIII, XXVII (1972), pp. 159-81.5 Belli Barsali, La topografia di Lucca , cit., pp. 487 99; C. Wickham, Early Medieval Italy. Central Power and LocalSociety, London 1981, p. 85 (trad. it. L'Italia nel primo Medioevo. Potere centrale e società locale, Milano 1983).6 S, Gibson, B. Ward-Perkins, The surviving remains of teh Leonine wall , "Papers of the British School at Rome", 47(1979), pp. 30-57.

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Quest'ultimo motivo che non consente di trovare o di capire gli insediamenti altomedievali èl'incapacità tecnica dell'archeologo. Fino a dieci anni fa questo dato di fatto era senz'altro il peggiornemico dell'Altomedioevo. Più si scava, più diventa chiaro che i resti di case altomedievali nonconsistono generalmente in bei muri e pavimenti resistenti al piccone o anche alla ruspa, maconsistono in fragilissime tracce di terra battuta, muretti a secco per pali: quali possiamo distruggeretutti, senza neanche accorgercene, in pochi secondi con la ruspa ed in pochi minuti con il piccone.Oggi questo rischio di distruzione irresponsabile del materiale archeologico da parte degliarcheologi stessi è minore di quello che era anche poco tempo fa; però, come penso sappiamo tutti,è un rischio non ancora del tutto eliminato.Gli altri due motivi che non consentono di trovare o di capire l'Altomedioevo urbano sonopurtroppo legati alla realtà delle cose, e non possiamo che accettare la situazione di fatto. Primo:soprattutto in una situazione di continuità di insediamento attraverso il Bassomedioevo fino ad oggi,succede spesso che i fragili resti della città altomedievale siano stati molto mal ridotti, o anche deltutto distrutti da vari interventi tardo e post-medievali: cantine, sepolture, fogne, buche per rifiuti,cisterne, fondazioni, pozzi neri ecc. La fase romana, essendo più profonda ed anche spesso moltosolida, in genere resiste meglio a questi tardi interventi; però il disgraziato Altomedioevo risultabucato, tagliato, e schiacciato fra le massicce strutture romane e basso post-medievali 7.Se documentato bene, il secondo motivo che non consente di trovare l'altomedievale è moltointeressante. In certi casi si può dimostrare che fasi di vita altomedievali mancavano del tutto (p.e.nello scavo dell'abside di S. Giorgio a Bologna, di prossima pubblicazione). Anche se c'è stata unacontinuità notevole di vita urbana in Italia8, è pure chiaro che, in confronto col periodo romano e colperiodo bassomedievale, le città altomedievali erano più rare e più piccole. Perciò, cercandol'Altomedioevo sopra le città romane o sotto le città tardomedievali, troveremo alcuni punti di«vuoto» altomedievali. Questi punti sono in un certo senso deludenti per l'archeologo interessato aquesto periodo, ma sono fondamentali per capire la storia di una città e delle sue varie espansioni econtrazioni. La cosa essenziale, però, per poter documentare con certezza questo vuoto, è che scavosia abbastanza rigoroso, ovviamente, se lo scavo non è buono, non si saprà mai se il vuoto è vero,dovuto all'assenza di resti altomedievali, o falso, dovuto soltanto all'incapacità dell'archeologo diriconoscere un buco per palo o un battuto di terra.

4. Città abbandonate e città attuali

Finora, lasciando da parte le chiese, le scoperte più frequenti e clamorose del periodo altomedievalesono state fatte in città abbandonate Torcello nel Veneto, Castelseprio in Lombardia, e Luni inLiguria9. La ragione è semplice: l'abbandono nel periodo medievale facilita enormemente il lavorodell'archeologo. Per scavare basta pagare i danni per il pascolo o per i cereali, mentre in cittàbisogna affrontare tanti problemi (spostare un parcheggio, bloccare per mesi la costruzione di unanuova scuola, deviare una fogna ecc.). Ed inoltre questi siti abbandonati non hanno tuttoquell'accumulo spaventoso e disturbante di strutture solide e di interventi profondi tipici del periodopost-medievale; interventi e strutture che rendono lento il lavoro e frammentaria e difficile da capirela stratigrafia orizzontale altomedievale. 7 Situazioni del genere sono state documentate in diverse zone di scavo a Genova Pavia, Bologna e Pistoia. Cfr. ancheHudson, Archeologia urbana e programmazione della ricerca, cit., pp. 45-50.8 Wickham, Early Medieval Italy, cit., p. 80 s.9 Per Torcello cfr. L. Leciejewicz, E. Tabaczynska, S. Tabaczynski, Torcello. Scavi 1961-62 , Roma (Istituto Nazionaled'Archeologia e Storia dell'Arte, monografie III) 1977; per Castelseprio cfr. M. Dabrowska, L. Leciejewicz, E.Tabaczynska, S. Tabaczynski, Calstelseprio: scavi diagnostici 1962-63, "Sibrium", XIV (1978-79), pp. 1-138 e G. P.Brogiolo, S. Lusuardi Siena, Nuove indagini archeologiche a Castelseprio, Atti del VI Congresso internazionale distudi sull'alto medioevo - Milano 1978, Spoleto 1980, pp. 475-99; per Luni cfr. Scavi di Luni II. Relazione dellecampagne di scavo 1972, 1973, 1974 a cura di A. Frova, Roma 1977, pp. 631-71; S. Lusuardi Siena, Archeologiaaltomedievale a Luni: nuove scoperte nella basilica, "Centro Studi Lunensi, Quaderni" 1 (1976), pp. 35-48 e B. Ward-Perkins, Una casa bizantina a Luni. Notizia preliminare, "Centro Studi Lunensi, Quaderni", 4-5 (1979), pp. 33-6.

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Perciò si potrebbe anche chiedere: «Allora perché non scavare soltanto nei siti abbandonati, dove siincontrano minori fastidi e dove c'è maggior possibilità di ricavare piante complete di edifici edepositi intatti?». Almeno due sono le risposte valide a questa domanda. Innanzitutto per capire ilfenomeno dell'urbanesimo altomedievale non basta certo vedere le città che poi sono decadute esono state abbandonate; se ci limitiamo a studiare queste, ci limitiamo a pochi siti e corriamo ilrischio di esaminare soltanto insediamenti meglio definiti «proto-urbani» (come Torcello eCastelseprio) o «post-urbani» (come Luni). La storia della città in Italia è prevalentemente unastoria di continuità e di sviluppo, e perciò dobbiamo senz'altro affrontare l'archeologia delle cittànella loro continuità fino ai nostri giorni.La seconda ragione per scavare ancora abitati è forse anche più importante. Se scaviamo soltanto, oprevalentemente, le città morte, l'archeologia rimane in un certo senso anch'essa morta e ristretta apredelimitate «zone archeologiche» di ruderi. Invece, se lavoriamo anche nei centri attuali,possiamo mostrare che l'archeologia è un'attività molto larga che fa vivere la storia sepoltadappertutto, sotto ogni casa e sotto i piedi di ogni cittadino. Riuscire in questo campo richiede moltisforzi a livello didattico e divulgativo, per demolire le concezioni dell'archeologia come ladisciplina dei monumenti e delle necropoli. Però già in città come Genova e Pavia abbiamo vistorealizzarsi felicemente questi sforzi10. L'interesse per la storia della propria città esiste, ed è forte;noi archeologi dobbiamo soltanto mostrare che l'archeologia è fondamentale per illuminare questastoria.Sicuramente l'archeologia urbana dei centri storici attuali non sarà mai facile, sia per ragionitecniche, su scavi necessariamente multistratigrafici e molto turbati, sia a causa dei tanti interessi,legittimi ed anche speculativi, che si intrecciano su ogni piccolo lembo di terra in una cittàmoderna. Però, se vogliamo veramente sapere qualche cosa della città altomedievale l'archeologo elo scavo devono assolutamente inserirsi in quest’intreccio soprattutto con lo scavo preventivosistematico, che salva i dati possibili in una zona destinata alla ricostruzione, la quale comportanecessariamente la totale, o quasi totale distruzione dei resti archeologici. L'unico modo valido perinserirci è convincere il mondo non-archeologico che l'archeologia urbana ha un contributoimportante da offrire, e non è soltanto un pretesto accademico per bloccare per diversi mesi i lavoriedilizi.

5. Programmi generali di ricerca

Per quanto riguarda lo scopo dei lavori intrapresi e da fare, è ovvio che, per l'archeologia urbana, gliscavi più significativi ed interessanti sono quelli fatti nell'ambito di un programma di diversi scaviin diversi punti dello stesso insediamento. Soltanto con una serie di scavi si può cominciare aparlare della storia generale di una città attraverso i secoli: delle sue contrazioni ed espansioni, delladiversità sociale ed economica documentabile in zone diverse dell'abitato, delle differenze nellacultura materiale dei vari ceti sociali, degli edifici pubblici, delle zone artigianali ecc.Programmi generali di questo tipo richiedono ovviamente anni di lavoro, soprattutto in città ancoraabitate (dove l'archeologo deve necessariamente aspettare la possibile occasione di fare scavipreventivi), e richiederebbero anche idealmente una struttura specializzata di scavatori e ricercatoriprofessionali, come ci sono negli Units dei centri storici inglesi di Londra, Canterbury, York,Oxford, Exeter ed altrove. Perciò, in Italia per quanto riguarda i grandi programmi di scavo in città,gli anni trascorsi dalla nascita dell'archeologia medievale sono ancora pochi e le somme di denarofinora disponibili lo sono ancora meno: così anche i risultati non sono stati eccezionali in confrontoa quelli nordeuropei. Però in almeno due città attuali, Genova e Pavia, ed in due abbandonate, Lunie Castelseprio, si può già parlare degli inizi di un'archeologia programmata, diretta a chiarire, in una

10 Si veda ad esempio Archeologia a Genova , catalogo della mostra didattica a Palazzo Rosso, Genova 1976 e Hudson,Archeologia urbana e programmazione della ricerca, cit., p. 58.

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prospettiva di decenni di lavoro, il massimo possibile dell'insieme complesso e variabile di unacittà.Sia a Genova sia a Pavia i risultati degli scavi hanno avuto più importanza finora per il Basso cheper l'Altomedioevo. Però già a Genova (dove i controlli e la salvaguardia archeologica da partedell'ISCUM sono unici in Italia) si è documentata la rifortificazione nell'epoca altomedievale delvecchio castrum preromano, e, in un piccolo scavo nel centro della città, si è verificata anche latrasformazione di una casa romana in un'altra più umile dell'Altomedioevo11. Per Pavia, basta fareriferimento al lavoro di Hugo Blake ed alla nuova pubblicazione di Peter J. Hudson12.A Castelseprio e a Luni diversi aspetti delle città altomedievali sono stati indagati negli ultimi anni.A Castelseprio, le fortificazioni, le chiese e tre zone dell'abitato entro il castrum13. A Luni, lacattedrale, una zona di case del VI-VII secolo sul foro romano abbandonato, ed un ambienteapparentemente rimasto in uso fino al VI-VII secolo annesso a terme tardoromane probabilmenteprivate14. Inoltre, in tutta la città è stato affrontato il problema della datazione dell'abbandono degliedifici pubblici romani15. Perciò a Luni, che è la città che conoscono meglio delle quattro finoracitate, si può cominciare a comporre in un quadro generale i dati provenienti da diversi scavieseguiti da diverse persone, per esempio, il cambiamento di mecenatismo edilizio è documentabilesia dallo scavo delle fasi d'abbandono dei monumenti tradizionali romani, sia dagli scavi dellagrande cattedrale paleocristiana e dell'edificio termale privato, entrambi costruiti proprio nelmomento di quest'abbandono. Anche le diversità sociali nell'ambito del VI secolo sonodocumentate, con la scoperta, in una zona della città, di case molto povere in legno (una con traccedi attività artigianale), e, in un'altra, di probabili tracce di continuità di uso in un vanoapparentemente annesso ad una ricca casa aristocratica.Genova, Pavia, Castelseprio e Luni sono forse le uniche città dove si può parlare finora diun'archeologia programmata diretta a fornire la storia generale della città. Anche in altre località,però, scavi isolati sono stati fatti con risultati importanti per quanto riguarda l'Altomedioevo. Vorreiillustrare questi scavi, insieme a quelli delle città già citate, considerando vari temi e problemi nellastoria della città altomedievale che possono essere chiariti dall'archeologia. Devo sottolineare peròil fatto che di problemi da risolvere con lo scavo ce ne sono tanti e che nello spazio a disposizioneposso soltanto accennare a ben pochi di questi.Un problema fondamentale riguarda la carta geografica urbana, cioè la documentazione dellacontinuità di vita di molte città romane, l'abbandono di altre, ed anche la rara formazione di nuovicentri.

6. Sopravvivenza, abbandono e formazione di città

Risulta molto chiaramente che l'abitudine di vivere in città ha avuto una continuità molto forte inItalia, però, nell'assenza di documenti scritti e di scavi archeologici, le prove di questa continuitàsono spesso ancora molto indirette16. Per esempio, una prova è costituita dal fatto che la cartageografica delle città esistenti nel Bassomedioevo (ed anche oggi) in molte regioni èsostanzialmente ancora quella romana: perciò si può presupporre una continuità d'insediamento in

11 Soprintendenza Archeologica della Liguria, Archeologia in Liguria. Scavi e scoperte 1967-75, Genova 1976, pp. 93-112.12 Hudson, Archeologia urbana e programmazione della ricerca ,cit. pp. 45-50.13 Dabrowska, Leciejewicz, Tabaczynska, Tabaczynski, Castelseprio, cit.; Brogiolo, Lusuardi Siena, Nuove indaginiarcheologiche a Castelseprio, cit..14 Lusuardi Siena, Archeologia altomedievale a Luni : nuove scoperte nella basilica , cit. e Ward-Perkins, Una casabizantina a Luni, cit.; informazioni da Maria Pia Rossignani.15 Ward-Perkins, L'abbandono degli edifici pubblici a Luni, "Centro Studi Lunensi, Quaderni", 3 (1978), pp. 33-46.16 Wickham, Early Medieval Italy, cit., pp. 80-92.

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queste città romane anche attraverso i secoli oscuri dell'Altomedioevo17 . Anche all'interno dellesingole città la situazione topografica tardomedievale e quella attuale fanno spesso pensare ad unacontinuità di vita abbastanza intensa. In molte città italiane, soprattutto nella Val Padana, troviamoconservato, più o meno bene, il reticolato di strade della città romana sottostante18. Questasopravvivenza della topografia urbana romana è probabilmente dovuta ad una continuità diinsediamento relativamente denso, in netto contrasto con l'Inghilterra, dove la continuità della vitaurbana è stata molto minore: soltanto le strade colleganti le porte nei muri di fortificazione si sonoconservate sulle loro linee originali19. Però finora queste supposizioni, in base alla topografiatardomedievale ed odierna, hanno avuto soltanto rarissimi controlli archeologici. Per esempio,nell'Italia settentrionale non è mai stata fatta una sezione attraverso una strada di città chedocumenti, non soltanto il basolato romano, ma anche tutti i riferimenti alto e bassomedievali, epost-medievali fino all'asfalto moderno20. Rarissimi sono anche gli scavi di isolati di case, chedocumentano tutte le loro trasformazioni, dall'Età moderna all'impianto romano. Un tale lavoro èstato fatto di recente, con risultati molto interessanti, attraverso sondaggi sotto il monastero di SantaGiulia a Brescia, e sta per essere fatto su una zona ampia negli scavi attualmente in corso nel cortiledel palazzo del tribunale di Verona, scavi che nel settembre 1981 avevano già raggiunto il Xsecolo21. Lavori di questo genere saranno ovviamente fondamentali per capire la continuità (ol'assenza di continuità), e, nello stesso tempo, la trasformazione della città romana in quella alto epoi bassomedievale.Accanto allo studio e alla documentazione archeologica delle città sopravvissute, c'è il problemadelle città in fase di abbandono e delle città in fase di formazione durante l'Altomedioevo. Perquanto riguarda le città abbandonate ho già fatto riferimento a Luni e Castelseprio, ma bisognacitare anche Torcello22. In questi casi si devono ovviamente documentare la restrizione e l'eventualeabbandono dell'abitato, e vanno anche cercate spiegazioni specifiche di quello che è un fenomenoinsolito in Italia. Ovviamente, molte possibili ragioni di abbandono non lasciano traccearcheologiche (per esempio, decisioni amministrative o sconfitte militari), però molti cambiamentinella fortuna di una città, e soprattutto quelli economici ed ambientali, sono documentabili permezzo dell'archeologia. A Luni, per esempio, è stato possibile evidenziare la degradazione el'impoverimento del territorio e della città stessa dal periodo romano a quello altomedievaleattraverso cambiamenti commerciali e geomorfologici23. Ma in molte città abbandonate (ad esempioquelle dell'alto Adriatico) studi archeologici indirizzati specificamente a documentare e capire lafase di abbandono non sono stati ancora fatti.Per le città di fondazione altomedievale, dobbiamo invece chiarire quando si sono formate e come equando si sono allargate: problemi già illuminati in parte a Castelseprio ed in un unico scavo aTorcello, e che si spera anche di chiarire con scavi iniziati nel 1981 nella città fluviale di Ferrara. Inquesti casi bisogna cercare anche indicazioni archeologiche per spiegare il fatto insolito di unafondazione urbana o proto-urbana, e per fortuna, indicazioni di questo tipo sono rintracciabili nelladocumentazione archeologica. A Castelseprio, per esempio, una fondazione sostanzialmentemilitare ed amministrativa sembra forse indicata dalle massicce fortificazioni e dalla relativascarsità- a tutt'oggi - di materiali importati e di resti di lavorazione: fatti che potrebbero indicareun'economia prevalentemente agraria e locale, anche se bisogna subito dire che ulteriori lavori (ad 17 C. Schmiedt, Città scomparse e città di nuova formazione in Italia in relazione al sistema di comunicazione, inTopograpa Urbana e vita cittadina nell'Alto Medioevo in Occidente, Settimana di Studio del Centro Italiano di Studisull'Alto Medioevo, 26 aprile-1° maggio 1973, Spoleto 1974, pp. 603-617, a p. 505.18 Per esempio a Pavia, Piacenza, Verona, Brescia, Albenga e Lucca; cfr. J. WardPerkins, Cities of ancient Greece andItaly: planning in classical antiquity, New York 1974 figg. 39, 53-6, 58 e 61.19 M. Biddle, Towns, in The archaeology of Anglo-Saxon England , a cura di D. Wilson, London 1976, pp. 99-150, a pp.107-9.20 Per una sezione stradale parziale cfr. Scavi di Luni II, cit., tav. 320.21 Informazioni da Gian Pietro Brogiolo e da Peter J. Hudson.22 Leciejevvicz, Tabaczynska, Tabaczynski, Torcello. Scavi 1961-62, cit.23 Ward-Perkins, Luni: the prosperity of the town and its territory, cit.

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esempio nel «borgo») potrebbero benissimo cambiare completamente quest'impressione. Mentre aTorcello, invece, il materiale ceramico è più esotico, ed è stata scoperta anche una vetreriaaltomedievale. Questa ceramica più esotica e questa vetreria forniscono un'impressione della baseeconomica artigianale e commerciale, con contatti a largo raggio (ad esempio, con le zone alpineper i crogiuoli in pietra ollare), che ha permesso la formazione di insediamenti anche ricchi edensamente abitati nella laguna veneta già nell'Altomedioevo.

7. Le basi economiche delle città

Le scoperte a Castelseprio ed a Torcello ci portano ad un problema la cui soluzione è fondamentaleper capire le città altomedievali, e che può benissimo essere chiarito almeno in partedall'archeologia: cioè la base economica di quei centri. In particolare dobbiamo indagare se la cittàaltomedievale era, come alcuni suppongono nel caso della città romana, prevalentemente un centrodi consumo aristocratico e, in minor senso, anche un centro di produzione agraria24. Cioè se la cittàera soltanto un posto dove venivano raccolti e consumati dalla classe dominante e dai loro servitori iprofitti dell'economia rurale circostante, e dove abitava anche un piccolo numero di contadini. O se,invece, la città era anche un centro economico specializzato e produttivo, che otteneva cibo dallacampagna, non soltanto dal lavoro dei cittadini agricoltori e da varie forme di imposte, di affitti, didecime ecc., ma anche in cambio di prodotti artigianali, fatti nella città da lavoratori specializzati, edi prodotti esotici, importati attraverso i porti e i mercati urbani.Sarebbe oggi prematuro parlare in Italia di soluzioni definitive a questi problemi; però già sipossono vedere gli inizi di un quadro generale, e nuove possibilità di ricerca. Per esempio, nei casidi Castelseprio e Torcello abbiamo l'impressione, finora molto sommaria e forse anche sbagliata, didue città con basi economiche apparentemente diverse: a Castelseprio forse prevalentemente agrariae di consumo, a Torcello artigianale e commerciale.

8. Produzioni e scambi

Per quanto riguarda la vita commerciale devo far riferimento anche agli importanti scavi in corso aClasse, il porto di Ravenna, dove la scoperta di una fornace di ceramica illustra anche la vitaartigianale 25. La ceramica infatti, essendo un manufatto che si conserva molto bene nel terreno eche si può spesso attribuire con precisione a specifiche zone e a precise epoche di produzione, saràper l'Altomedioevo, come per tutti i periodi, molto utile per l'informazione di natura economica chepuò fornire. Al livello della ceramica da cucina può darci un'idea dell'artigianato e del commercioprevalentemente locale di un manufatto comune adoperato da tutti, al livello delle anfore, ci puòfornire notizia degli scambi di certi prodotti agricoli pregiati, e, a livello della ceramica fine datavola, del commercio in articoli di lusso: negli ultimi due casi ci dà informazioni non soltanto sulcommercio entro l'Italia, ma anche sugli scambi internazionali.Nell'Italia settentrionale sappiamo ancora pochissimo della ceramica altomedievale, ma senz'altro,prima o poi, arriveremo su tale base a disporre di preziose indicazioni sul ruolo della città nella vitacommerciale ed artigianale. Prendo come esempio della potenzialità di questi studi uno dei pochitipi di ceramica finora conosciuti nell'Italia centrale, la Forum Ware databile senz'altro fra il V e ilX secolo, anche se non siamo ancora in grado di darne con sicurezza una collocazione cronologicaprecisa26. Grazie alla scoperta di scarti di fornace nel luogo di ritrovamento originale, il LacusIuturnae, nel Foro, sappiamo che questa ceramica era un prodotto urbano romano, grazie poi allascoperta di frammenti di Forum Ware nei lavori di superficie nell'Etruria meridionale e grazie ascoperte occasionali in altri scavi in Italia, abbiamo un importante dato sulle relazioni commerciali

24 M. Finley, The ancient economy, London 1975 pp. 123-49.25 Schede di M. G. Maioli in "Archeologia Medievale", VI (1979), p. 323 e VII (1980), p. 478s.26 D. Whitehouse, Forum Ware again, "Medieval Ceramics", 3 (1980), pp. 13-6.

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altomedievali di Roma, non soltanto con il territorio limitrofo, ma anche con luoghi molto piùdistanti (fig. 1).

FIGURA 1Ritrovamenti sicuri e probabili di Forum WareDa: D. Withehouse, T. Potter, The Byzantin frontier in South Etruria, “Antiquity”, LV (1981), pp. 206-10.

L'esempio della Forum Ware e della carta della sua distribuzione illumina un altro problemafondamentale: cioè le relazioni fra città e territorio. È chiaro che la città non può essere studiataisolatamente, ma deve assolutamente essere considerata accanto al mondo agrario circostante. Peresempio, tracce archeologiche di scambi, o dell'assenza di scambi fra città e campagna ed un'idea diquali lavorazioni erano presenti in città e quali in campagna, sono dati fondamentali per capirel'urbanesimo e la sua base economica.L'archeologia fornirà senz'altro, nei prossimi anni, molte informazioni sulla vita produttiva,commerciali ed artigianale della città altomedievale, ed è qui forse che avrà la sua massimaimportanza, perché questo aspetto della storia economica urbana è quasi del tutto trascurato dalladocumentazione scritta del periodo27.

9. Centri di consumo

Però l'archeologia potrà anche fornire ulteriori dati sull'altro aspetto della storia economica esociale, meglio conosciuto dai documenti: cioè sulla città intesa come centro di vita e consumodell'aristocrazia e dell'amministrazione ecclesiastica e secolare. Qui, con lo scavo di molte chiese

27 Considerando l'archeologia dell'artigianato, bisogna ovviamente sempre tener conto del fatto che molti prodotti nonlasciano quasi nessuna traccia nel documento archeologico della loro lavorazione e diffusione (ad esempio tessuti, cuoioe legni lavorati).

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paleocristiane ed anche altomedievali, parecchio lavoro è già stato fatto anche se bisogna dire che ingenere il livello tecnico degli scavi è stato pessimo e che perciò dipendiamo, per le datazioni, nonda stratigrafie precise con ceramiche e monete datanti, ma soprattutto da argomenti stilistici, chepossono spesso risultare opinabili. Le chiese, o tuttora esistenti o messe in luce dallo scavo, cidanno però una buona documentazione della continuità di vita religiosa urbana e della continuità delmecenatismo aristocratico, sia ecclesiastico che laico, in contesti urbani28.Però, anche se sappiamo molto delle chiese costruite dall'aristocrazia, sappiamo pochissimo di altriaspetti della vita urbana della classe dominate. Per esempio, fra i tantissimi senodochi, monasteri, ecomplessi episcopali costruiti nel periodo tardoantico ed altomedievale abbiamo conoscenzearcheologiche soltanto di una parte del convento di S. Giulia di Brescia, e, di recente, del bagnoclerico a Ravenna costruito nel V secolo ed ancora in uso nel IX29.Per quanto riguarda l'amministrazione e l'aristocrazia secolare non sappiamo quasi niente. Nessunpalazzo ducale, comitale o reale è stato scavato, ad eccezione di vecchi scavi a Ravenna30, e nessunacasa sicuramente attribuibile ad un membro dell'aristocrazia urbana è stata documentata attraversol'archeologia. Inoltre la nostra conoscenza di uno dei più significativi edifici pubblici, la cui curaspettava all'amministrazione secolare, le mura di città, è scarsissima. In nessuna città d'Italia sonostati fatti scavi stratigrafici per chiarire come siano state mantenute, o eventualmente ricostruite osostituite, le mura romane originali31.

28 L'archeologia medievale monumentale, ed anche sepolcrale (delle necropoli con corredi), è ancora molto privilegiatain Italia in confronto all'archeologia domestica ed artigianale. In questa relazione faccio riferimento quasiesclusivamente a quest'ultima, perché la sua enorme potenzialità è meno conosciuta. Anche volendo, sarebbeimpossibile in questa sede fare riferimento alla vasta bibliografia esistente su scavi e studi di chiese paleocristiane edaltomedievali.29 Su Brescia informazioni da Gian Paolo Brogiolo, su Ravenna scheda di M. G. Maioli in "Archeologia Medievale"VIII (1981).30 G. Ghirardini, Gli scavi del palazzo di Teodorico a Ravenna , "Monumenti antichi pubblicati per cura della realeAccademia dei Lincei", 1918, pp. 738-841.31 Per la potenzialità di questo tipo di lavoro cfr. ad esempio Royal Commission on Historical Monuments, An inventaryof the historical monuments in the city of York, II (The Defences), London 1972, pp. 111-4.

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Figura 2Una delle case del VI secolo sul foro di Luni

10. L'effetto delle invasioni germaniche

L'ultimo problema a cui vorrei fare riferimento è quello dell'effetto delle invasioni e degliinsediamenti barbarici sulle città italiane. Il problema è sapere se le invasioni, e soprattutto quellalongobarda nel tardo VI secolo, abbiano avuto un influsso notevole sulla continuità e sulla qualitàdella vita urbana. Bisogna dire che questi problemi sono ancora da chiarire; però, già in base aipochissimi reperti fatti, si può cominciare a discutere ed ipotizzare. Per esempio, in un primomomento i muretti a secco delle case e la grezza ceramica di Castelseprio sembravano tipicamentebarbariche e germaniche: e perciò il risultato culturale delle invasioni longobarde32. Però adesso, 32 S, Kurnatowski, E. Tabaczynska, S. Tabaczynski, Gli scavi a Castelseprio nel 1963 , "Rassegna Gallaratese di Storia ed'Arte", XXVII (1968), pp. 61-92, ripubblicato con leggere modifiche in Dabrowska, Leciejewicz, Tabaczynska,Tabaczynski, Castelseprio, cit.; M. Cagiano de Azevedo, Esistono una architettura e una urbanistica longobarda?, inAtti del convegno internazionale sul tema: La civiltà dei Longobardi in Europa - Roma e Cividale del Friuli 1971,Accademia Nazionale dei Lincei, quaderno 189, Roma 1974, pp. 1-41, a pp. 7-10.

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con altri lavori a Castelseprio ed altrove, il quadro sta per cambiare, e quelle documentazionisembrano ora piuttosto tipicamente tardoantiche ed altomedievali. Due case di legno scavate direcente a Luni appartengono sicuramente al periodo bizantino della città, cioè al tardo VI secolo,mentre, con la loro forma di «casa lunga» (Langhaus, longhouse) ed i loro buchi per pali,sembrerebbe a prima vista ancora più germaniche delle case con muretti a secco di Castelseprio(fig. 2). Perciò, è almeno ipotizzabile che certi cambiamenti nell'architettura domestica (uso dellegno, abbandono della malta, adozione a Luni della pianta a casa lunga) siano dovuti non adinflussi etnici ma a cambiamenti sociali ed economici. Si tratta forse non di nuove forme di casaintrodotte da barbari, ma di forme locali molto antiche che hanno avuto una nuova importanza inepoca post-romana33. Direi che sia ancora da chiarire se i nuovi abitanti germanici abbianoveramente avuto un notevole influsso sulle città, a parte quanto resta limitato ai loro particolaricostumi di sepoltura.

1 1. Programmi per il futuro

Per finire dovrei trattare anche di programmi per i prossimi dieci anni. Spero, però, che da quelloche ho scritto sia già chiaro cosa si debba fare. Dobbiamo assolutamente accumulare molti dati inpiù, da più scavi in più città. È anche indispensabile che scaviamo e pubblichiamo bene (perché perl'Altomedioevo, come per ogni altro periodo, lo scavo poco rigoroso non serve a niente, anzi servesoltanto a confondere). Ed in tutte e due queste attività, lo scavo e la pubblicazione, dobbiamoaffrontare rigorosamente i vari problemi storici da risolvere: problemi di continuità urbana (edanche di abbandono e formazione), di trasformazione, di base economica (artigianale, commercialee di consumo), e di diversità ed influssi sociali, religiosi ed etnici. C'è da fare non per un decennio,ma per almeno cento anni.

33 Cfr. anche G. P. Brogiolo, La campagna dalla tarda antichità al 900 ca. d.C, "Archeologia Medievale", X (1983), pp.73-88.

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Incastellamento e strutture abitative

Un uso non strumentale dell'informazione archeologica traspare dalle pagine di due storici, che allefonti materiali dedicano ampio spazio per analizzare aspetti fondamentali della storiadell'insediamento medievale, e cioè l'incastellamento e la struttura della casa rurale altomedievale.L'insediamento accentrato e fortificato (generalmente d'altura), costituisce uno dei caratteridominanti il paesaggio rurale italiano, le sue origini, i1 suo sviluppo e le sue trasformazioni sonostati oggetto di riflessioni da parte di geografi e storici: aspetti istituzionali e politici, sociali edeconomici trasformazioni e distruzioni sono stati illustrati in ricostruzioni di grande incisività ecapacità da Conti a Toubert, da Laicht a Vismara, da Cusin a Cammarosano, da Settia a Comba.Ma pochi hanno usato con sistematicità la documentazione materiale.Se per il Bassomedioevo, quando le fonti scritte sono abbondanti e largamente descrittive,l'informazione archeologica offre materiali per allargare la "qualità" della ricostruzione storica, perle fasi originarie e per cogliere i processi di trasformazione profonda che avvengono fraTardoantico ed Altomedioevo nell'ambito delle forme di organizzazione del territorio l'archeologiaè strumento essenziale senza il quale una ricostruzione storica rischia di essere persino forviante.Spesso, ad esempio, le fonti scritte non ricordano le fasi a buche di palo, cioè presenza di capanne ecase di legno su quei siti che a livello documentario risulteranno incastellati a partire soltanto dal X-XI secolo.Gli autori dei due contributi che seguono, senza "piegare" i diversi tipi di fonti, usano gli "indizi"provenienti dagli uni e dagli altri con esemplare metodologia: la presenza di fasi più antiche diquelle attestate a livello documentario nei siti poi incastellati può essere una spia per cogliere unfenomeno di riconquista delle "sommità" generalizzata prima del fenomeno noto come"incastellamento"? e la diffusione dell'edilizia in legno è un fatto legato a modelli importati daipopoli germanici o non piuttosto un retaggio "culturale" autoctono e profondamente ancorato allasocietà e ai modi di vivere altomedievali?Le fonti scritte, che pure rimangono campo privilegiato degli autori lasciano margine a riletturesulla base dell'evidenza archeologica, che suggerisce utili indicazioni e producono dati oggettivi perriflessioni nuove1.

1Il primo C. Wickham, Castelli e incastellamento nell'Italia centrale : la problematica storica , in Castelli. Storia earcheologia, a cura di R. Comba e A. A. Settia, Torino 1984, pp. 137-48; in questa relazione, tenuta dall'autore alconvegno svoltosi a Cuneo nel 1981, è condensato gran parte di quanto poi pubblicato nel volume C. Wickham, Ilproblema dell'incastellamento nell'Italia centrale:l'esempio di San Vincenzo al Volturno, Firenze 1985. Il secondo di P.Galetti, La casa contadina nell'Italia padana dei secoli VIII-X, "Quaderni Medievali", 16 (1983), pp. 6-28.

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Chris Wickham

Castelli e incastellamento nell'Italia centrale: la problematica storica

Tratterò due aspetti distinti della problematica dell'incastellamento, legati a due zone diversedell'Italia centrale. Per primo, sulla base dell'esperienza condotta nell'alta valle del Volturno nelMolise (il territorio del monastero di San Vincenzo al Volturno), tratterò il problema della relazionetra storici e archeologi quando studiano la stessa zona. Vale la pena notare subito quanto rara siaancora questa esperienza, specialmente per gli storici; e (fatto più istruttivo), come rarissima sia lascelta degli archeologi in Italia di zone di studio che hanno documentazione storica adeguata: unaimportante causa contingente, questa, a mio parere, della spaccatura che esiste ancora fra le duediscipline: perché, ad esempio, non c'è alcuna ricerca sul campo in Lucchesia, in Sabina o nelMilanese? La documentazione storica importante nella valle del Volturno è in gran misura di untipo specifico, le carte di incastellamento, e queste sono naturalmente di rilevanza diretta per laricerca archeologica; almeno per una volta, le due discipline dovrebbero poter convergere.Il secondo problema che voglio discutere è quello, certamente non minore, delle causedell'incastellamento in Italia centrale. Questo però nel contesto dell'Abruzzo e in una zona che hostudiato di recente, il circondario e la diocesi di Sulmona, il territorio e la diocesi altomedievale diValva; essa è interessante per la ragione classica che le teorie tradizionali sull'incastellamento nonvi funzionano, e si deve scoprirne il perché. Questo mi porta a riconsiderare, ovviamente in breve,l'intera problematica sulle cause dell'incastellamento, e introdurvi alcuni nuovi elementi.Vorrei mettere in chiaro all'inizio che propongo di concentrarmi su un solo aspetto del processo diincastellamento, quello sull'accentramento dell'insediamento. A mio giudizio, «incastellamento» simostra sempre più un concetto «macedonia» un po' sfortunato, in cui si uniscono almeno treprocessi storici separati:

1. incastellamento vero e proprio, la fortificazione di insediamenti preesistenti, o il costruite dellefortificazioni ad essi più o meno vicine;2. la creazione dei territori e della localizzazione giuridica associate ai castelli (cioè la problematicatradizionale del Vaccari)1;3. la concentrazione, l'accentramento, dell'insediamento, tramite la creazione di nuovi insediamentio il convergere di quelli vecchi: normalmente dentro i castelli (cioè fortificazioni) come nelle analisiclassiche del Toubert2, ma non sempre. È quest'ultimo il caso del quale parlerò, se non dicoaltrimenti. Qualche volta lo chiamerò, genericamente, «incastellamento», ma di solito tenterò diridisegnarlo «accentramento», riservando «incastellamento» per i primi due processi.

Il rapporto tra gli storici e gli archeologi è stato sempre delicato. Gli storici tendono a pensare agliarcheologi come a degli studiosi di supporto, per se stessi o per gli storici dell'arte, e li limitano alruolo di fornitori di nuovi fatti per gli storici politici, o di nuovi begli oggetti per illustrare i libri seridegli storici dell'arte. Gli archeologi da parte loro sono stati spesso poco più sofisticati nel costruirele loro tipologie, per le tipologie, datate arbitrariamente da legami con gli avvenimenti politici.Almeno ora storici e archeologi hanno iniziato ad interessarsi dello stesso campo, quellosocioeconomico. Dovrebbe essere possibile pensare a questo campo come a una disciplina unificata,ma con apporti diversi basati su diversi tipi di materiale. Ma in pratica, io almeno ho trovato che le 1 P. Vaccari, Le territorialità come base dell'ordinamento giuridico del contado nell'Italiamedioevale, 2 ed., Milano 1963.2P.. Toubert, Les structures du Latium médieval, Rome 1973.

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cose non si risolvono tanto facilmente, perché i diversi tipi di materiale tendono ad essere associaticon diverse basi di inchiesta, e con interessi separati dall'insieme: in altre parole, con problematichediverse. Così avviene a San Vincenzo, con implicazioni istruttive. Ho lavorato qui con una équipedi scavo e ricerche sul campo, guidate da Richard Hodges3, dell'Università di Sheffield; il materialestorico che presento è il mio (usando anche le analisi fatte da Mario del Treppo negli anniCinquanta), il materiale archeologico è di Richard Hodges e della sua équipe, specialmente deldirettore delle indagini sul campo, Peter Hayes.La prima esperienza interessante a San Vincenzo è che la sua storia insediativa sembra largamentedivergente, a seconda che si privilegi la documentazione storica o quella archeologica. Il materialestorico è abbastanza chiaro: una ventina di documenti del X secolo, quasi tutte carte per lafondazione di insediamenti sulla «terra di San Vincenzo», una zona totalmente posseduta dalmonastero e donata da vari duchi di Benevento nell'VIII secolo. Gli insediamenti con questidocumenti sono segnati sulla prima carta (fig. 1). La documentazione manca di profondità storica,quasi nulla di specifico per la storia dell'habitat prima del 940 o dopo il 1000; ma è ricchissima didocumenti più utili ed espliciti per la storia degli insediamenti (cioè i livelli per la fondazione epopolamento di castelli), e include, se non sbaglio, più della metà di tutte le carte di tale generesopravvissute per l'Italia centrale dei secoli X-XI.Secondo l'interpretazione classica questi documenti rappresenterebbero il ripopolamento di unavalle deserta, dopo il sacco dato dai Saraceni a San Vincenzo nell'881, tramite la fondazione di unaschiera di abitati accentrati o castelli (castra nei testi). Tale tesi sarebbe sostenuta dalle numerosevivaci constatazioni che si trovano nella nostra fonte del XII secolo per tutti questi documenti, ilChronicon Vulturnense. Non è difficile però mostrare differenze fra le carte stesse, e fra le carte e ilcommento del cronista, che sollevano alcuni dubbi. Alcuni dei commenti più retorici (ad esempioadhuc autem locus bestiis et avibus latibula prebens, hominibus omnino vacabat, per San Salvatorein Alife nel 950 circa) sono chiose a livelli per una terra che è ovviamente già occupata e coltivata.Alcune delle terre di San Vincenzo erano certo state abbandonate o ancora mai occupate, ma granparte della zona era abitata continuamente.

3 R. Hodges, Excavations and survey at San Vincenzo al Volturno. Molise 1981 , "ArcheologiaMedievale", VIII (1981), pp. 483-92; Id., Excavations and survey at San Vincenzo al Volturno.Molise 1982, "Archeologia Medievale", IX (1982), pp. 299-310.

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FIGURA 1La terra di San Vincenzo al Volturno

Non è discutibile, però, che San Vincenzo raccolse la popolazione sopravvissuta, insieme conimmigrati da tutta l'Italia centrale, in abitati accentrati, i quali furono anche, in molti casi,esplicitamente centri per il dissodamento della terra. Molti dei livelli non richiedono un reddito per iprimi 3 o 5 anni, ciò per permettere il ristabilimento di campi e vigneti. Così, l'accentramentoinsediativo e il dissodamento, cioè l'espansione agraria, vanno insieme, costituendo, per dirla con leparole di Del Treppo, «centri di raccordo ove si annodino le maglie vieppiù fitte della vita dellecampagne»4. L'impressione prima facie è che la maggior parte degli insediamenti siano nuovi: i lorotoponimi sono spesso termini geografici con ad-: ad ipsa Causa (un fiume), ad Ficus, ad ipsaOlivella e così via.

4 M. Del Treppo, La vita economica e sociale in una grande abbazia del Mezzogiorno: S. Vincenzoal Voltumo nell'alto medioevo, "Archivio Storico per le Province Napoletane", LXXXIV (1955), pp.31-110.

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Due altri punti vanno però aggiunti, anche in uno sguardo sommario come questo. Il primo è che,mentre l'accentramento e il dissodamento vanno insieme in senso globale (una relazione sulla qualeritornerò), non sempre appaiono nello stesso contesto. Parecchi livelli, come quello per Scapoli, uncastrum dall'inizio, contengono doveri onerosi di dissodamento. Altri livelli però, come quelli perColle, Fornelli e Valle Porcina, posti nella pianura e sui ricchi pendii della confluenza Volturno-Vandra, non fanno alcun riferimento a tali doveri. Un'area almeno di probabile vecchioinsediamento, quella di Olivella-Santa Maria Oliveto ai confini della terra del monastero e dellapiana di Venafro, è con tutta evidenza ancora una zona di habitat sparso del X secolo, come purealcune altre zone fra Venafro e Alife, fuori della terra di S. Vincenzo. Ma anche una delle carte peril dissodamento, quella per Ficus, è cospicua per l’assenza di ogni riferimento a un castello, esembra essere un insediamento aperto, alla sua fondazione nel 995, quando finalmente ottenne dellefortificazioni, probabilmente nel tardo XI secolo, fu ribattezzato, con una certa mancanza diimmaginazione, castro Pesclu. Dunque non c'è un perfetto accoppiamento fra accentramento edissodamento. L'accentramento di questa zona nel X secolo è certamente rapido. Ma San Vincenzosembra aver scelto se stabilire un abitato accentrato, incastellato o non, caso per caso.Il secondo punto è l'assenza di ogni contesto militare in questi livelli. Nessuno fa riferimento allemura (benché alcuni o tutti ne abbiano avute) o a servizio militare di sorta. Le parti della terra piùesposte a pericolo, nell'estremo sud, intorno a Olivella e a Santa Maria Oliveto, sono quelle che,dall'evidenza dei documenti, sono le ultime che formano insediamenti accentrati. Il contrasto con icastelli di Montecassino è impressionante: il solo livello per Cassino del X secolo, per Sant'Angeloin Theodice, pone in gran rilievo la costruzione delle mura, e le milizie locali dei castelli della terradi Cassino hanno un'importanza evidente nella sua storia durante l'XI secolo. Non così per SanVincenzo, ove infatti manca ogni accenno all'attività militare locale, e anche alla difesa controattacchi che divengono sempre più di ordinaria amministrazione. Vorrei che ci sbarazzassimodell'aspetto militare dell'incastellamento a questo punto, perché sta tornando di moda comespiegazione: qualunque sia la sua importanza per la fortificazione dei siti (e quest'ultima variaenormemente da luogo a luogo, come, evidentemente, da San Vincenzo a Cassino), il fattorepericolo non ha effetto duraturo sulle forme di insediamento nell'Italia centrale e non formerà partedelle mie analisi. Anche in altre regioni dove invece tale effetto esiste, è naturalmente semprenecessario spiegare perché, siccome gli insediamenti fortificati non sono la sola risposta possibile alpericolo. Ma a San Vincenzo il pericolo sembra avere anche meno effetto sull'insediamento chealtrove.Il materiale archeologico, dopo due stagioni di lavoro sul campo, ci dà un quadro istruttivamentediverso: anzi in conflitto su alcuni punti. La documentazione storica ci dice poco sul periodo primadel secolo X ma si pensa generalmente che tutta la terra di San Vincenzo fosse incolta sino allafondazione dell'abbazia, nel 700 circa, che provocò un po' di dissodamento. L'archeologia escludesenz'altro tale ipotesi: la vallata appare infatti disseminata di piccoli siti di età repubblicana ealtoimperiale, non sparsi regolarmente, ma legati a tutta la buona terra della valle. Questi sono poisostituiti da un numero alquanto minore di siti bassoimperiali più grandi, secondo uno sviluppo cheè anche tipico di altre regioni d'Italia. Un sito - il complesso abbaziale stesso - mostra persino unacerta continuità nel periodo altomedievale. Il nostro scavo ha mostrato che esso fu fondato, in tuttaapparenza, direttamente sopra una villa tardoromana, e così sparisce l'immagine della fondazionedel monastero in una foresta vergine, già presente in una vita dei fondatori scritta nel tardo VIIIsecolo. La valle non fu fittamente abitata - non lo è ancora, né potrebbe esserlo - ma c'è comunqueuna certa consistenza di materiale, e non possiamo dubitare su una qualche continuità generale dioccupazione. La scoperta più interessante, però, è la storia della ceramica negli insediamenti sullecolline (tutti medievali, come accade di solito). Sette di questi insediamenti sono stati finorainvestigati un processo possibile perché in ogni caso l'habitat si è spostato a un'altra sede, e qualchevolta in tempi abbastanza recenti. Di questi sette, solo uno mostra un orizzonte della ceramica checomincia addirittura nei secoli X-XI. Due hanno ceramica che comincia nei secoli VIII-IX; quattrohanno mostrato sinora solamente la Proto maiolica, cioè ceramica dai secoli, XIII-XIV circa,

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benché alcuni di questi ultimi abbiano bisogno di ulteriore studio. Devo sottolineare che per questidati mi fido degli archeologi di Sheffield; ma, nel caso che ci siano difficoltà fra noi al riguardoposso aggiungere che la ceramica fina nell'Italia centro-meridionale di questo periodo ènormalmente ceramica dipinta in bande rosse, senza vernice, che è più comune della ceramicaverniciata nel nord e cambia le sue forme in modo visibile; è perciò più strettamente affidabile perla datazione. Essa è stata datata normalmente dai livelli nello scavo al monastero stesso, che stadivenendo un sito straordinariamente ricco, quest'anno sono state ritrovate intere camere piene diaffreschi del IX secolo. Non è stata trovata ceramica medievale al di fuori di questi siti appollaiatisulla collina; i siti romani non sembrano avere sbocchi negli stessi luoghi, cioè nella terra più bassa.Uno dei siti che hanno la ceramica dei secoli VIII-IX; Vacchereccia, è un castello documentato nelX secolo come fondazione apparentemente nuova; un altro, sopra Filignano, si trova in una zonache - devo ammettere - ritenevo, in base alla documentazione storica, fosse sempre stata di habitatsparso. Il sito con ceramica dei secoli X-XI circa del Colle Castellano, è in una zona che dalladocumentazione storica, fino al tardo XI secolo, sarebbe stata ad habitat sparso, poi accentrato. Tredei quattro siti con la maiolica sono documentati già nel X secolo: due come castelli, e uno (Ficus)come centro aperto. Ci sono qui certamente punti di convergenza, ma l'apparenza del materialearcheologico è prima facie un po' imbarazzante per lo storico puro, poiché dà un quadro alquantodiverso da un incastellamento del X secolo.I risultati fınali dipendono naturalmente dalla quantità del materiale archeologico scoperto, con unlavoro più fitto sul terreno. I dettagli qui non importano, specialmente in questa che è una relazionemetodologica; interessa invece l'approccio. Un archeologo, a cui si presentino alcuni siti inerpicatiche cominciano nei secoli VIII-IX (e con un vuoto tipologico nel VII secolo), sapendo che laceramica altomedievale è molto meno comune, e perciò meno reperibile della maiolica, potrebbefacilmente concludere che molti dei siti della vallata abbiano avuto origine prima del 900. Senzaalcuna documentazione storica, cioè in un contesto simile all'archeologia preistorica, potrebbecongetturare (e sarebbe totalmente giustificato nella congettura) che i siti romani del fondo valleavessero una tendenza ad essere sostituiti da siti in collina, intorno al IX secolo o forse prima. Ora,è certamente possibile, e ovviamente necessario, conciliare questa congettura con la datazionestorica dei centri dal X secolo in poi. Il modo più convincente e probabile è dire che i ricercatori sulcampo hanno sottovalutato i siti sparsi dell'Altomedioevo, perché sono notoriamente difficili datrovare, specialmente sui pendii delle colline, dove, con tutta probabilità, era collocata la maggiorparte. Lo sviluppo del X secolo, che si verifica a diverse velocità e in diverse zone della vallata,consisterebbe perciò nell'accentramento conscio e diretto di un insediamento sparso entro siti vicinied inerpicati, che già esistevano come piccoli nuclei; in caso contrario non ci sarebbe stato bisognoche l'abbazia di San Vincenzo creasse i nuovi centri del X secolo con le note carte di livello. Questoè quanto credo, ma ciò si oppone al peso naturale e ai presupposti di ambedue i materiali, quellostorico e quello archeologico. Per l'Altomedioevo tendiamo ad affidarci alla fortuna: non possiamoperò permetterci di basarci su premesse scorrette e non riconosciute. Ma qui ambedue le partidevono ammetterlo: gli storici che vedono la fondazione, nel X secolo, di nuovi insediamenti sunuovi siti, perché così dicono i documenti, più o meno esplicitamente; e gli archeologi che vedonosolo questi siti, già esistenti da alcuni secoli, e concludono che essi siano stati a lungo i solielementi insediativi della valle.Un'altra differenza metodologica interessante consiste nella spiegazione. Gli archeologidell'insediamento, come gli storici, stanno andando oltre le necessità difensive come spiegazioneautomatica dei siti inerpicati accentrati, e ora tendono a dare rilievo alle loro funzioni nellaconcentrazione delle risorse, in relazione al paesaggio. Tale tendenza ha una chiara logica: sipossono scavare più facilmente gli elementi che riguardano le risorse. Ma il lavoro dell'archeologoora si pone altri problemi: ad esempio qual'è la grandezza ottimale di un insediamento, in questicontesti, secondo le limitazioni imposte dalla geografia e dall'antropologia? Dobbiamo considerarequanto grande esso dovrebbe essere prima che la convenienza di disporre, nelle vicinanze, di servizinon agricoli (fabbri, vasai ecc.) sia superata dallo svantaggio, per un contadino, di dover camminare

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15 km per recarsi nei suoi campi - perché, ovviamente, più grandi sono gli insediamenti, piùdistanziati essi sono - e dallo svantaggio di avere troppi vicini che sono altrettanti potenziali nemici,circostanza abbastanza comune. Quando tali insediamenti divengono troppo grandi, nel terzomondo di oggi, essi si spaccano e un nuovo centro viene costituito, con una parte della terra.Sospetto che tale esigenza sia alla base del raddoppiamento di insediamenti documentato in molteparti d'Italia. Nell'Italia del X-XI secolo (forse qualche volta nell'VIII, e abbastanza spesso neisecoli più tardi, pure) la concentrazione dei servizi, in un periodo di crescita economica, diverrebbeabbastanza importante per assicurare una veloce nucleazione dell'habitat. La creazione di castelliinerpicati è allora razionale nel senso economico, per questa concentrazione di servizi e, anche,generalmente per la loro collocazione, a metà strada fra l'incolto sopra e il colto sotto. I campiparcellizzati, così tipici dell'Italia contadina, come risultato secolare dell'eredità divisibile, dannoanche più razionalità a tali centri, perché se ogni contadino ha una ventina di campi sparsi, è logicoche tutti abitino un singolo centro, equidistante dalle loro terre.Questi tipi di analisi funzionali sono caratteristici di geografi e archeologi; questi ultimi, anzi, hannooggi raggiunto in esse un livello molto avanzato per l'acutezza delle conclusioni. Molte di questeanalisi sono anche, naturalmente, ben conosciute dagli storici, poiché anch'essi sono capaci diimparare dai geografi: il lavoro del Toubert sul Lazio, per esempio, per l'importanza che dàall'«urbanisme villageois», mostra di conoscere bene tali argomenti; e il geografo Gribaudi scrissecose simili in Italia già nel 1951, con risultati scientifici rilevanti5. Ma gli storici vedono il problemada un altro punto di vista. Gli archeologi tendono a concentrarsi sulla funzione, gli storici sullacausa. Noi storici non possiamo sempre vedere che cosa si fece dentro un insediamento accentrato.possiamo però vedere chi lo costruì o lo possedette più tardi, e quali redditi estrasse dai suoiabitanti; questo ha effetto sull'intera direzione de nostri interessi. Tornerò infatti all'analisi dellarazionalità economica dei castelli fra poco, nella seconda parte della relazione, precisamente perquesta ragione: l'analisi funzionale è validissima ma non può agire come spiegazione delle cause.Devo, naturalmente, chiedere scusa a tutti coloro, che si sentiranno, con tutta ragione, limitati da talicategorizzazioni arbitrarie. Ovviamente, la gran parte degli archeologi si interessa alle cause, emolti storici alle funzioni; né si possono separare i due concetti, nella vera analisi. Ma qui mioccupo dei tipi ideali, per fare delle distinzioni generalizzate. Gli archeologi che si interessano allecause trovano molte difficoltà nello stabilire, dall'evidenza archeologica, che cosa esse sono, nellarealtà. Gli storici lo trovano più facilmente.Possiamo studiare la terra di San Vincenzo e mettere in evidenza che tutta la terra fu possesso di unsingolo monastero, senza interruzione, dal 700 al 1050, accertare che è sicuramente il monastero,almeno durante questo periodo, a dirigere i cambiamenti insediativi, dobbiamo perciò cercare deiprincipî direttivi nelle fonti sopravvissute; possiamo subito trovare il dissodamento (cosa difficile ascoprire archeologicamente se fatta da siti preesistenti) come una risposta almeno parziale (nontotale, certo, come vedremo). Il Toubert, quando studiò la Campagna Romana e la Sabina, dominatema non totalmente possedute da istituzioni ecclesiastiche, individuò la potenzialità dell'«urbanismevillageois», come qualsiasi archeologo avrebbe dovuto riconoscere, se alcuni dei siti fossero statiallora scavati, ma poté anche riconoscere come non avrebbe potuto un archeologo, lariorganizzazione territoriale che accompagnò l'incastellamento nel Lazio, e lo stabilirsi del controllosopra la popolazione contadina, che fu uno dei motivi per i quali essa fu raccolta in siti accentratipiù o meno pianificati. Ma per sapere come furono organizzati strutturalmente questi castelli, comefunzionarono, quali tipi di attività e di relazioni economiche ci furono, non abbiamo ladocumentazione, e perciò nel grande libro di Toubert questi problemi tesero ad apparire a pié dipagina, nelle note. Per gli archeologi la situazione andrebbe capovolta. Qualche volta io trovo lepreoccupazioni degli archeologi per quella che potrebbe essere chiamata la «castellanistica» un po'fuori luogo, come essi trovano fuori luogo la mia preoccupazione con il possesso e con il potere

5 D. Gribaudi, Sulle origini dei centri rurali di sommità , "Rivista Geografica Italiana", LVIII(1951), pp. 19-33.

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politico ed economico. Qui ritengo vi sia un vuoto incolmabile che sta nella specifica stessa delladisciplina. Neppure penso che sia cosa inutile: il solo modo in cui le due discipline possonoconvergere, o anche essere utili fra di loro, è di cominciare da basi veramente indipendenti.Ho già fatto riferimento al problema delle cause nell'analisi dell'insediamento, ed è su questo chevoglio intrattenermi nella seconda metà della relazione. Non tornerò, dunque, all'archeologia; inparticolare perché il materiale documentario che citerò è dell'alto Abruzzo, una zona più o menoarcheologicamente intoccata. Nelle mie ultime discussioni, ho idealizzato un po' l'analisidell'habitat. Come sappiamo tutti, scoprire quali forme di insediamento siano esistite in diversiluoghi del passato, cambiando ogni pochi chilometri, è infatti così difficile che spesso ciaccontentiamo semplicemente di presentare i risultati empirici: l'insediamento fu qui accentrato, quisparso, qui steso intorno ad un piccolo nucleo o fortificazione disabitata (il cosiddetto habitatcentré); qui più fitto, qui più raro ecc. Dobbiamo considerare, però, perché forme diversedell'habitat sono importanti storicamente. Perché importa se la gente viveva in forme sparse oaccentrate? L'analisi dell'insediamento è interessante solo nella misura in cui sia veramente unaguida all'organizzazione socio-politica e socio-economica. E necessario esplorare quali elementi inquesta sede hanno un valore veramente causativo.

FIGURA 2Italia Centrale

Le forme dell'insediamento dopo il X secolo in Italia centrale non rassomigliano a quelle dell'Italiacentrosettentrionale. In quest'ultima, i castelli furono di solito una addizione a quadri insediativipreesistenti; qualche volta essi divennero centri temporanei nei secoli X-XI, poi talvolta si ritiraronoancora. Nel centro, i castelli divennero la nuova struttura insediativa di quasi tutta la regione daGrosseto alla Puglia, da Ascoli Piceno a Caserta (per non parlare, naturalmente delle zone

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meridionali, di cui tratta Martin6), e in molte zone rimangono tuttora, quasi senza cambiamenti.Occasionalmente arrivarono prima del X secolo; qualche volta, non vennero mai; ma in generale ilperiodo, diciamo, dal 950 al 1100, è il grande periodo dell'accentramento. Per questa ragione, lespiegazioni tendono ad essere generalizzate. Troppo generalizzate, a mio parere, perchépresuppongono una gamma troppo omogenea di strutture socio-politiche o anche socio-economicheper essere probabile nel senso storico, e non concordano con i cambiamenti che veramente vifurono.Proporrei, sia pure un po' rozzamente, due tipi di spiegazioni per l'accentramento in Italia centrale: iprocessi strutturali, cioè socio-economici, e i processi congiunturali, cioè socio-politici. Ciascuno diquesti ha i suoi sostenitori. Il Toubert ha messo potentemente in evidenza l'analisi strutturale; dallato congiunturale il suo antagonista più notevole è probabilmente Hartmut Hoffmann7. Io pensoche i due modi di analizzare siano inestricabili (proprio come nella vita reale, si potrebbe dire). Leanalisi strutturali tendono a mettere in rilievo la «croissance» economica del X secolo,dissodamento, razionalizzazione agraria il lento aumento del commercio, i castelli come nodi ditutto. I castelli sono i fuochi razionali di tale crescita, come abbiamo visto; nei secoli X-XI, i signoridell'Italia centrale - Farfa, Subiaco, Velletri, Cassino, San Vincenzo, San Clemente di Casauria fragli ecclesiastici (anche i signori laici fecero lo stesso, ma in maniera meno documentata) - deciserodi metter i loro livellari dentro tali castelli, per reagire alla crescita e organizzarla. Ho detto altrove8

che questo modello richiede conoscenze economiche straordinarie, che non posso immaginare sulserio che la maggior parte dei signori dell'Altomedioevo avesse istintivamente; penso piuttosto chepotesse ottenere organicamente tali conoscenze solo tramite l'esperienza dell'organizzare deldissodamento, nel presente o nel passato. Penso che ci sia qui un punto empiricamente verificabile,che non è stato considerato finora: in certe zone lungamente abitate, come alcune parti dellaCampagna Romana, o del piano di Capua, l'accentramento è notevolmente meno completo, comenel Nord; non c'è l'esperienza dell'«aménagement territorial» che dà ai signori l'esercizio necessario.Ma c'è anche un altro punto, che rende difficile l'uso semplice di argomenti strutturali: se esiste unorientamento inesorabile verso l'accentramento insediativo per opera dei signori, a causadell'evidente razionalità economica dell'habitat accentrato, perché non tutti lo fanno, almeno in zonedi nuovo dissodamento? Ho notato che San Vincenzo non accentra il suo insediamento dappertutto.Delogu e Travaini hanno mostrato che non lo fa neanche Subiaco nel cuore delle sue terre9. Anchenelle vicinanze immediate di Farfa, non tutti gli insediamenti sono accentrati: un esempio èPomonte, uno dei castelli falliti dell'analisi toubertiana che, attraverso la sua ampiadocumentazione, mostra con chiara evidenza l'insediamento sparso sopravvissuto nel suo territorio.Qui, penso, sono rilevanti gli argomenti socio-politici che determinano la scelta.I tipi di scelte socio-politiche fatte dagli abitanti dell'Italia centrale sono simili a quelle fattenell'Italia centro-settentrionale dello stesso periodo, perché, ovunque, eccetto nel Sud bizantino, il Xsecolo fu un periodo di indebolimento dello stato e di cristallizzazione dei poteri politici locali: icastelli sono nello stesso tempo centri militari, luoghi giuridici e simboli politici per tutto questoprocesso (benché nel Centro, diversamente dal Nord, l'aspetto giuridico sia secondarionell'incastellamento, e venga più spesso più tardi o anche mai). Ma, naturalmente, tutto ciò èpossibile anche senza l'accentramento. Quando un signore accentra l'insediamento, la dimensionepolitica più importante è quella del controllo: sopra i contadini stessi, liberati di recente dalla puradipendenza socio-economica dalla fine del sistema curtense e della schiavitù; e sopra la terra, contro 6 J M. Martin, Modalités de l'«incastellamento» et typologie castrale en Italie méridionale (X e-XIIe siècles), in Castelli.Storia e archeologia, a cura di R. Comba e A. A. Settia, Torino 1984, pp.89-104.7 H. Hofman, recensione a P. Toubert, Les structures du Latium médiéval , "Quellen undForschungen", LVIII (1977), pp. 1-45.8 C. Wickham, Studi sulla società degli Appennini nell'alto medioevo, Bologna 1981.9 P. Delogu, L. Travaini, Aspetti degli abitati medievali nella regione sublacense , "Archivio dellaSocietà Romana di Storia Patria", CI (1978), pp. 17-34; L. Travaini, Rocche, castelli e viabilità fraSubiaco e Tivoli, "Atti e Memorie della Società Tiburtina di Storia e d'Arte", LII (1979), pp. 65-97.

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le rivendicazioni di rivali. Così molto spesso l'accentramento diviene un gesto politico, un elementosintagmatico nella retorica delle rivendicazioni per il potere politico. Subiaco non accentròl'insediamento nella sua terra, zona abbastanza isolata, ma lo fece nei possessi occidentali, versoTivoli, dove la sua autorità fu geograficamente meno completa e più contestata. Come ha descrittobene il Delogu10, Castel Sant'Angelo (ora Castel Madama) ne è un esempio particolarmente chiaro:incastellato da Subiaco e dai Crescenzi nel 1038 (benché l'insediamento stesso sia anteriore), conuna schiera impressionante di riorganizzazione territoriale esso si trova precisamente in una dellezone più contestate con il vescovo e la città di Tivoli. Questo tipo di processo fu normale in larghitratti dell'Italia centrale. Anche la politica consistente dell'incastellamento/accentramento, praticatada Farfa, va posta nello stesso contesto: Farfa dominò la Sabina, fondiariamente e politicamente, manon possedette tutta la terra. Dovette, dunque, sostenere il suo potere, e il rimaneggiamentodell'insediamento fu un'iniziativa particolarmente evidente rivolta a tale scopo. Si potrebbe ancheproporre che il processo sia stato imprenditoriale in senso politico: la fondazione da parte di Farfa diun castello fu spesso un pretesto per imporre la propria autorità in un territorio ove essa eracontestata, ad esempio dagli abitanti locali ancora proprietari. Se questi abitanti venivano persuasi astabilirsi dentro il castello, entravano così anche nella clientela del monastero. L'iniziativa, ingenerale, ebbe successo; a Pomonte, però, essi non accettarono, ciò che portò, a mio parere, alfallimento del castello. Viceversa, in alcune zone, come nel cuore della terra di Subiaco, o nellamaggior parte della terra di San Vincenzo, l'accentramento non fu politicamente necessario, perchéun signore possedette tutta la terra di una zona relativamente vasta; l'accentramento, allora, nonavvenne, malgrado la crescita economica.Come ho detto, io penso che si debbano sempre usare le spiegazioni socio-economiche e socio-politiche insieme, senza contrapporle. Le ragioni socio-politiche, prese isolatamente, non spieganoabbastanza: non è necessario che tale relazione fra accentramento e controllo esista ovunque, e nonesiste affatto in molte parti dell'Europa. Da parte loro le spiegazioni socio-economiche sono troppogeneriche e danno poco spazio alla possibile scelta dei singoli proprietari, poiché un signore nondeve necessariamente accentrare tutti i suoi insediamenti. Ma l'esistenza di una tendenzaeconomica, che mostra l'accentramento dell'habitat come un processo razionale più o menoevidente, dà un peso al contesto socio-politico della scelta, probabilmente molto più apparente allivello conscio, cioè a livello ideologico. Non è puro caso che Castel Sant'Angelo, il castellosublacense più esposto politicamente, sia anche l'esempio meglio documentato dellariorganizzazione territoriale sistematica. Ambedue gli elementi, quello strutturale e quellocongiunturale, sono qui presenti e dobbiamo metterli insieme di continuo, privilegiando ora ilprimo, ora il secondo, ma ciascuno nel contesto dell'altro.Tutto questo funzionerà, penso, per gran parte dell'Italia centrale. Tutto viene così proposto nelcontesto del controllo signorile, tutto è fatto dai signori, per ragioni varie, ma ragioni che finoradipendono dal fatto che è organizzato da loro. È spesso vero anche il contrario: in zone conpossesso frammentato, l’accentramento è spesso assente o incompleto. Ma non sempre. E che cosaaccade o può accadere in quelle zone del Centro dove si verifica l'accentramento senza che vi sia ilpredominio di singoli signori? Prenderò l'esempio di Valva-Sulmona, necessariamente in breve,come illustrazione del problema.Valva non è stata certo un grande punto di riferimento storiografico nel passato, e dubito che gliascoltatori conoscano molto al riguardo. Si tratta di una serie di vallate con sbocco nel piano diSulmona, la Conca Peligna, rinchiusa da ogni parte dalle montagne più alte dell'Appennino, il GranSasso a nord, la Maiella a est. Adesso Sulmona è il suo centro, essa fu anche una città romana, manon è rintracciabile nel Medioevo come vero centro urbano fino al pieno XII secolo. Prima del1100, Valva non ebbe neanche un centro diocesano di città, poiché la cattedrale, san Pelino, fu unachiesa isolata, fuori della città romana abbandonata di Corfinium. Oggi Valva è una zona di

10 P. Delogu, Territorio e cultura tra Tivoli e Subiaco nell'altro medioevo , "Atti e Memorie dellasocietà Tiburtina di Storia e d'Arte", LII (1979), pp. 25-54.

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insediamento altamente accentrato, vicino al 100 per cento; tutto 1'alto Appennino anzi, è una delleparti d'Italia in cui l'insediamento è più accentrato, benché i centri siano più piccoli di quelli dellaPuglia o della Sicilia.Una gran parte degli insediamenti attuali di Valva esistevano già nel 1112, quando sono elencati inuna bolla papale. Solo una minoranza fu fondata come castello. Nella Conca Peligna i centrimoderni stanno cominciando, nei secoli tardo X e primo XI, a cristallizzarsi, uscendo da unastruttura vaga e disgregata, caratterizzata da curtes e da loci, che quasi ovunque nella Conca devonorappresentare una forma di insediamento sparso. Questi nuovi centri non sono castelli, però, quasitutti sono chiamati villae. Che cosa fosse esattamente una villa in questo momento non è certo: tuttisappiamo quanto vaghi e vari siano i sensi di tale vocabolo. La rappresentazione, anche seimprecisa, che possiamo avere di queste ville (l'esempio meglio documentato è Introdacqua, alconfine meridionale del piano) è però quella di un abitato accentrato su un pendio o su unpromontorio, con le abitazioni che si estendono un pochino nella pianura, in modo più aperto diquello che troviamo adesso. C'è segno chiaro di un processo di accentramento, allora, che ha luogoattraverso il periodo 950-1050, ma non di incastellamento: i castelli come tali non sono comuninelle nostre fonti fino al tardo XI secolo, quando arrivano i Normanni. Ciò che sembra di trovare,allora, è incastellamento nel senso di accentramento, esattamente come nel Lazio di Toubert, e nellostesso periodo, ma senza l'armamentario politico, militare, o giuridico che normalmente complica ilproblema. Ciò avviene dentro un contesto politico ben diverso da quelli che abbiamo finora visto,perché la Conca Peligna non fu una zona dove dominarono grandi signori. Ce n'erano in Valva,nelle vallate tributarie a nord e a sud, più vicine a basi ferme di potere signorile in Marsica e inChieti. Ma quasi tutta la nostra documentazione per la Conca riguarda piccoli nobili e contadini divari livelli di importanza: in un paese ben documentato, Pacentro, con in apparenza una formainsediativa simile a quella di Introdacqua, c'era una preponderanza enorme di proprietari contadinifino a tutto l'XI secolo. In breve, la Conca non fu una zona dove qualsiasi tipo di cambiamentoinsediativo controllato dall'alto sarebbe potuto accadere; l'accentramento quindi deve essere statopiù o meno spontaneo. Manchiamo pure di qualsiasi contesto socio-politico normale; c'era per laverità una sorta di vuoto nel potere politico in Valva dei secoli X-XI, e certamente mancava nellaConca ogni tipo di minaccia o politica o militare prima dell'avvento dei Normanni. Dobbiamoperciò ricorrere a spiegazioni strutturali, ipotizzando cambiamenti socio-economici (noncommercio, perché non c'è tanta possibilità di scambi in Valva altomedievale), come avanzamentiagrari, dissodamento e un riordinamento della popolazione rurale in questo contesto.

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Paola Galetti

La casa contadina nell'Italia padana dei secoli VIII-X *

La maggioranza dei rustici durante l'Altomedioevo generalmente costruiva da sé la propriaabitazione. La costruzione delle case era infatti compresa tra i vari tipi di attività checaratterizzavano il lavoro dei contadini, le cosiddette opera ruralia. Così Carlo Magno, in uncapitolare ecclesiastico del 789, riprendendo alcune disposizioni di suo padre, nel descrivere leattività proibite nelle domeniche stabilisce: «nec viri ruralia opera exerceant, nec in vinea colenda,nec in campis arando, metendo vel foenum secando vel sepem ponendo nec in silvis stirpare, velarbores caedere, vel in petris laborare, nec domos construere, nec in horto laborare»1 Così un testoagiografico padano del secolo XI, la Vita Theobaldi, nel testimoniarci il progressivo mutarsi delpaesaggio delle campagne anche per l'intervento degli eremiti, definisce le attività legate all'edilizia«vilissima ac laboriosa rusticorum opera»2,La casa era inserita in un complesso che raggruppava elementi insediativi diversi, organizzati,strutturati e costruiti dal contadino. Per l'Altomedioevo d'altronde più che di abitazione in sensostretto è corretto parlare di «nucleo abitativo», comprendente, oltre all'abitazione (cioè allaresidenza vera e propria), i «servizi» e i rustici, stalle, granai, fienili, tettoie, configurati quasisempre come edifici separati dalla casa ma ad essa collegati in quanto raccolti attorno ad un cortilecentrale, la curtis, all'aia, l'area, con un puteo che fornisce l'acqua, un orto, spesso una piccolavigna e alberi pomiferas; il tutto separato, per mezzo di recinzioni, siepi, fossati, dalle terre deforis3. Questo complesso di elementi insediativi diversi era sentito come un tutto unico, tanto che losi indicava nei documenti con termini precisi: per lo più sedimen, molto più raramente cispideoppure casalivo, terra casaliva, casalina, o genericamente area e areale4 .

*Dalla presente ricerca è esclusa la zona padana di tradizione bizantina, che riscontra una situazione profondamentediversa da quella dell'area di lungo dominio longobardo, sia per il nostro specifico problema che per la struttura stessadell'economia e della società.1 Capitularia Regum Francorum , in Monumenta Germaniae Historica , 1, ed. A. Boretius, Hannover 1883, Admonitiogeneralis, n. 22, a. 789, p. 61.2 Vita Theobaldi, in Bibliotheca Hagiographica Latina , Bruxelles 1898-1899, 8031 ; Acta Sanctorum,Jun . 3 (1701), IV,p. 593. Cfr. P. Golinelli, Elementi per la storia delle campagne padane nelle fonti agiografiche del secolo XI,"Bullettino dell'Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano", 87 (1978), pp. 6, 8s, 24.3 Ad esempio: L. Schiaparelli, Codice Diplomatico Longobardo , Roma 1929-1933 [F.S.I. 62-63], I, n. 78, a. 742, p.230; n. 83, a. 745, p. 246; II, n. 231, a. 769, p. 291; A. Gloria, Codice Diplomatico Padovano. Dal secolo sesto a tuttol'undicesimo, I, Venezia 1877, n. 17, a. 895, p. 33; n. 56, a. 970, p. 83; V. Fainelli, Codice Diplomatico Veronese. Dallacaduta dell'Impero Romano alla fine del periodo carolingio, I, Venezia 1940, n. 134, a. 832, p. 183; n. 189, a. 853, p.286. Id., Codice Diplomatico Veronese del periodo dei re d'Italia, II, Venezia 1963, n. 21, a. 891, p. 26; n. 114, a. 912,p. 148. E. P. Vicini, Regesto della Chiesa cattedrale di Modena, I, Roma 1913 [Regesta Chartarum Italiae, 16], n. 16, a.843, p. 24; n. 54, a. 968, p. 77. G. Tiraboschi, Storia della augusta badia di San Silvestro di Nonantola, Modena 1785,II, n. XLI, a. 861, p. 56. U. Benassi, Codice Diplomatico Parmense, I, Parma 1910, n. VIIII, a. 854, p. 24; n. XXVIIII,a. 898, p. 80. P. Torelli, Le carte degli Archivi Reggiani fino al 1050, Reggio Emilia 1921, n. VIII, a. 806, p. 25, n.LXXXVI, a. 998, p. 223. P. Galetti, Le carte private della Cattedrale di Piacenza (784-848), I, Parma 1978, n. 3, a.791, p. 33; n. 17, a. 821, p. 57. F. Gabotto, Le più antiche carte dell'Archivio Capitale di Asti, Pinerolo 1904, n.LXXXV, a. 961, p. 164; n. CXIII, a. 990, p. 219. Codex Diplomaticus Langobardiae, Torino 1873 [MonumentaHistoriae Patriae, XIII], n. CCXLVI, a. 870, c. 416; n. CCCXIII, a. 882, c. 527; n. DLXXX, a. 947, c. 991; n.DCCLXXXIX, a. 978, c. 1386. Cfr. G. Fasoli, Aspetti di vita economica e sociale nell'Italia del secolo VII, in Icaratteri del secolo VII in Occidente, Settimana di Studio del Centro Italiano di Studi sull'Alto Medioevo, 23-29 aprile1957, Spoleto 1958,1, pp. 128-31; G. Barni, G. Fasoli, L'Italia nell'alto Medioevo, Torino 1971, pp. 162-4, 618; P.Riché, La vie quotidienne dans l'empire carolingien, Paris 1973, pp. 128s.4 Schiaparelli, Codice Diplomatico, cit., II, n. 231, a. 769, p. 291. Codex Diplomaticus Langobardiae , cit., n. CCLXVI,a. 876, c. 446; n. CCCCXXXV, a. 910, c. 750. G. Drei, Le carte degli Archivi Parmensi dei secoli X-XI (dall'anno 901

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È da notare inoltre che questo stesso schema organizzativo era proprio sia delle «case» deicoltivatori dipendenti o dei liberi piccoli proprietari, sia dei centri domocoltili di grandi e medieaziende. Significativa è al riguardo la descrizione di due curtes donate al monastero di San Zaccariadi Venezia dal conte Ingelfredo nel 914 e poste «in Petriolo et Cona» nel Padovano: si distingue il«domo et cultile et sediminas earum cum curte, ortos et viridarios suos cum olivetas et pomiferas»dai «casalis massariciis cum casis, ortis, areis et sediminas earum»5. Lo stesso avviene, nel 910,nella descrizione di una corte situata nel Veronese, «locus ubi vocabulum est Duas Robores»,lasciata in donazione testamentaria dal conte di Verona Anselmo al monastero di San Silvestro diNonantola nel Modenese: il nucleo centrale della curtis con «terris casalivis et sediminas earumcum curtis, ortis et viridario suo et cum arboribus et pomiferis» è distinto dai «casalibus massariciiscum curtis, ortis, areis»6.Le case erano costruite per la maggior parte di legno, o anche di canniccio, paglia, argilla seccata,materiali «poveri» cioè, con il tetto di scandolae di legno o per lo più di paglia; di legno eranoanche le recinzioni artificiali costruite per proteggere e separare il nucleo abitativo dai campi o daaltre abitazioni vicine7.Queste abitazioni potevano essere «smontate» e i materiali da costruzione, soprattutto il legno,potevano essere trasportati in altro luogo per servire all'edificazione di una nuova casa. È quantosembrano saggerire le indicazioni relative al conquestum, cioè alla porzione di beni mobili allaquale l'affittuario aveva diritto allo scadere del termine contrattuale8, che ritroviamo in alcunicontratti di locazione stipulati nei secoli IX e X. Così nel maggio 887 si stabilisce che il colono allafine del periodo di locazione possa andarsene via dal «podere» portanto con sé tutti i beni mobili,ad eccezione delle strutture edilizie: «anteposito edificiis, casis»9; lo stesso awiene nel 947-955 peruna «colonica in Valle Paltenate in vico Fosado»10.Significative sono le vicende di un gruppo diuomini liberi che nel 920 chiedono all'abate di Nonantola di concedere loro a livello per ventinoveanni case dentro le mura del castello di Nogara, con la possibilità, alla scadenza del contratto, diportare via quanto avevano accumulato, con un'unica riserva: «post expletos annos tollemus nos velnostris heredibus omnes mobilias nostras absque calumnia foris de ipso castello, anteposito edificiis all'anno 1000), I Parma 1930, n. XV, a. 917, p. 66. Torelli, Le carte degli Archivi Reggiani, cit., n. LXXIII, a. 985, p.191. Gloria, Codice Diplomatico I, cit., n. 40, a. 950, p. 59. C. Cipolla, Antichi documenti del monastero trevigiano deisanti Pietro e Teonisto, "Bullettino dell'Istituto Storico Italiano per il Medio Evo", 22 (1901), n. X, a. 790, p. 52. Cfr. P.Galetti, Per una storia dell'abitazione rurale nell'alto Medioevo: le dimensioni della casa nell'Italia Padana in basealle fonti documentarie, "Bullettino dell'Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano", 90(1982/83), pp. 147-76.5 Gloria, Codice Diplomatico I, cit., n. 29, p. 46.6 Fainelli, Codice Diplomatico II, cit., n. 98, p. 127.7 Schiaparelli, Codice Diplomatico , cit., II, n. 188, a. 765, p. 173. Codex Diplomaticus Langobardiae , cit., n. CLII, a.843, c. 262; n. CCIX, a. 859, c. 346; n. CCCLXXIV, a. 897, c. 620; n. DLVI, a. 940, c. 948. Vicini, Regesto dellaChiesa, cit., n. 22, a. 869, p. 38; n. 27, a. 886, p. 44; n. 54, a. 968, p. 77. Benassi, Codice Diplomatico, cit., n. VIIII, a.854 p. 24, n. XIX bis, a. 888, p. 61. Drei, Le carte, cit., n. XIV, a. 917, p. 63. Galetti, Le carte, cit., n. 34, a. 843, p. 90.Torelli, Le carte degli Archivi, cit., n. IX, a. 822, p. 27. Gabotto, Le più antiche carte, cit., n. XXXIX, a. 909, p. 64.Fainelli, Codice Diplomatico I, cit., n. 292, a. 884, p. 443. Gloria, Codice Diplomatico I, cit., n. 64, a. 980, p. 91.L'Editto di Rotari rivolge particolare attenzione a danni di vario tipo fatti a siepi e recinzioni costruite, per racchiuderelo spazio abitativo, con assi e pertiche di legno: Edictus ceteraeque Langobardorum Leges, in Monumenta GermaniaeHistorica, Fontes iuris germanici antiqui in usum scholarum, ed. F. Bluhme, Hannover 1869, rr. 282, 283, p. 57; rr.300, 303, 304, p. 58. Cfr. Fasoli, Aspetti, cit., p. 130 s. Sulle case contadine e sui materiali da costruzione: Barni-Fasoli,L'Italia nell’alto Medioevo, cit., pp. 162s, 617s; G. Duby, L'economia rurale nell'Europa medievale, Bari 1972 (I ed.Paris 1962), 1, pp. 7-11; Riché, La vie, cit., pp. 128s.; G. Fourquin, Le premier Moyen Age, Le temps de la croissance,in Histoire de la France rurale des origines à 1340, a cura di G. Duby, A. Wallon, 1, Paris 1975, pp. 296s., 303s., 515s.Cfr. inoltre M. De Bouard, Manuel d'archéologie médiévale. De la fouille à l'histoire, Paris 1975, pp. 48-63, 67-76; S.Roux, La maison dans l'histoire, Paris 1976, pp. 116, 120-4; J. Chapelot, R. Fossier, Le village et la maison au MoyenAge, Paris 1980, pp. 255-327; J. Le Goff, La civiltà dell'Occidente medievale, Torino 1981, pp. 222-8.8Sul «conquestum»: B. Andreolli , Ad conquestum faciendum. Un contributo per lo studio dei contratti agrarialtomedievali, "Rivista di Storia dell'Agricoltura", XVIII (1978), 1, pp. 109-36.9 Fainelli, Codice Diplomatico 1, cit., n. 295, a, 887, p. 447.10 Id., Codice Diplomatico II, cit., n. 239, a. 947-955, p. 363.

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castri et edificiis casis»11. Nel 936 le stesse persone, assieme ad altre, chiedono che vengaconfermata dal monastero modenese la concessione del 920, ma la clausola relativa al conquestumnon compare più nella nuova peticio, e soprattutto, per la costruzione delle case, non si indica più illegno, che era l'unico materiale edilizio menzionato nel precedente livello, ma muras et petras12.Allorché quindi si vuol rendere l'insediamento di questi uomini all'interno del castello menoprovvisorio, più stabile, i capifamiglia si orientano nella scelta di materiali da costruzione piùresistenti e meno precari.Che la pratica di «smontare» le case per reimpiegarne i materiali in nuove costruzioni non siacaratteristica di una zona determinata, legata a particolari usi locali (i documenti sopra citati sonoinfatti tutti relativi al Veronese), ma sia diffusa un po' dappertutto, ce lo testimonia il fatto che lamedesima clausola relativa al conquestum la ritroviamo in un'area lontana, nel Piacentino. Nelgiugno dell'847 infatti un uomo libero di nome Martino ottiene a livello per ventinove anni dalvescovo di Piacenza Seofredo dei beni in «Tressedenti», pertinenti all'oratorio di San Fiorenzo diFiorenzuola, con la clausola che «ad expleti libelli cum omni suo foris exeat suprascripto petitor velsuos heredes, anteposito edificio»13 Il legno era il materiale maggiormente utilizzato nell'edilizia (enon solo!14); poteva costituire il materiale esclusivo di una costruzione o poteva comunque entrarciin parte, come ad esempio nell'armatura dei tetti o nei pali di sostegno dei muri altrimentiedificati15. L'Altomedioevo è stato infatti giustamente definito «il mondo del legno» 16.Particolarmente significative sono due rubriche dell'Editto di Rotari che indicano il legname comeelemento base per le costruzioni: r. 282: «Si quis de casa erecta lignum quodlibet aut scandolasfuraverit, conponat solidos sex»; r. 283: «Si quis de lignamen adunatum in curte aut in platea adcasam faciendam furaverit, conponat solidos sex»17.Gli uomini dei primi secoli del Medioevo avevano d'altronde a disposizione nell'Italia padanavastissime foreste, da cui potevano trarre con facilità il materiale da costruzione, tendevano anzi aprendere e utilizzare ciò che era a portata di mano, comprensibile scelta in un'età in cui i trasportierano divenuti difficili. Così, ad esempio, i carpentieri che lavorano alla copertura del tetto dellachiesa di Santa Maria di Castelseprio scelgono per le travature il legno di castagno dei boschilocali, invece del legno di quercia, migliore del primo, di cui sicuramente v'era disponibilità nonlontano, sulle prealpi varesine18. A questo si deve aggiungere il bagaglio di cognizioni edesperienze nella tecnica costruttiva proprio del popolo longobardo, portato, come gli altri popolinordici e germanici, «ad identificare ogni architettura con le costruzioni in legno» e a far risalirel'arte del costruire ad origini e impieghi campestri19. La costruzione di un edificio in legno era 11 Ivi, n. 168, a. 920, p. 219.12Ivi, n. 218, a. 936, p. 31613 Galetti, Le carte, cit., n. 41, a. 847, p. 103.14 Era di legno la stragrande maggioranza degli oggetti, da lavoro o utili alla casa. Il metallo era infatti scarsamentepresente nel settore della strumentazione agricola. Cfr. V. Fumagalli, Precarietà dell'economia contadina eaffermazione della grande azienda fondiaria nell'Italia Settentrionale dall'VIII all'XI secolo, "Rivista di Storiadell'Agricoltura", XV (1975), 3, pp. 4-6; Id., Il Regno Italico, in Storia d'Italia, a cura di G. Galasso, II, Torino 1978, p.150s; M. Baruzzi, I reperti in ferro dello scavo di Villa Clelia. Note sull'attrezzatura agricola nell'alto Medioevo,"Studi Romagnoli", XXIX (1978), pp. 423-46.15 Cfr. soprattutto J. Decaens, Recherches recents concernant la maison paysanne en bois au Moyen Age en Europe duNord-Ouest, in La construction au Moyen Age. Histoire et archéologie, Actes du Congrés de la Société des HistoriensMédiévistes de l'Ensegneiment Supérieur Public, Besan,con, 2-4 Juin 1972, Paris 1973, pp. 125-36; De Bouard, Manueld'archéologie, cit., pp. 48-53, 67-74; Le Goff, La civiltà cit., pp. 222-4.16 Ivi, p. 222.17 Edictus, cit., rr. 282, 283, p. 57.18 G. P. Bognetti, S. Maria Foris Portas di Castelseprio e la storia religiosa dei Longobardi , in G. P. Bognetti, G.Chierici, A. De Capitani D'Arzago, Santa Maria di Castelseprio, Milano 1948, pp. 11-511, ora in L'età longobarda, II,pp. 11-673 alle pp. 3-24.19 G. De Angelis d'Ossat, Tecniche edilizie in pietra e laterizio , in Artigianato e tecnica nella società dell'AltoMedioevo occidentale, Settimana di Studio del Centro Italiano di Studi sull'Alto Medioevo, 2-8 aprile 1970, Spoleto1971, Il, p. 547. Cfr. anche U. Monneret De Villard, L'organizzazione industriale nell'ltalia longobarda durante l'AltoMedioevo, "Archivio Storico Lombardo", s. V, XLVI (1919), pp. 10-2; M. Cagiano de Azevedo, Esistono una

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inoltre più «economica», perché poteva essere portata a termine utilizzando i materiali stessi sulluogo e senza l'intervento di artigiani specializzati da fuori, di magistri, sfruttando le conoscenzetecniche e le esperienze costruttive dei contadini nella carpenteria. Se consideriamo i dati, nonmolto numerosi, che i documenti ci forniscono sulla strumentazione agricola, negli elenchi diattrezzi sono spesso compresi anche strumenti da taglio e da carpenteria (che, nel caso di alcuniattrezzi, sono indispensabili ovviamente anche per lavori di potatura degli alberi e raccolta dilegname leggero).Sull'equipaggiamento dei «poderi» contadini si sa ben poco; maggiori informazioni le abbiamo peri centri dominici di curtes facenti capo a grandi proprietà20, Comunque sappiamo tra l'altro chenell'812 in Toscana un certo Altiperto, uomo libero, al momento di prendere a livello un «podere»,riceve in dotazione dal proprietario oggetti di vario tipo, tra cui una scure e roncole per sfrondaregli alberi21, che nella corte di «Griliano» (forse nel Bresciano) di proprietà del monastero di SantaGiulia di Brescia, nel massaricio ventotto manentes devono corrispondere come canone anche ferroe attrezzi già lavorati, tra cui «secures III, mannaria I»22.Due polittici altomedievali di area padana, il breve recordacionis del monastero di San Tommasodi Reggio Emilia, attribuito al X secolo, e l'inventario della corte di Migliarina, presso Carpi,sempre del secolo X, ci forniscono elenchi di attrezzi agricoli per vari centri aziendali23. Così, inbase al polittico reggiano, sul domocoltile dello stesso monastero troviamo registrate, tra l'altro,«materia I, secure II, secias [seghe] III»; su quello della «curte de Inciola», Enzola nella bassapianura reggiana, «securis II, mannaria I»; a «Zeola», Sciola di Tizzano nel Parmense, «mannariasII»; nella «curte de Citonio», Cedogno nel Parmense, «mannaria I»; e a «Curciliano» sempre«mannaria I». Nella corte di Migliarina sono elencati invece «dolatoria una, secure una, secies VI,[. . .] asia una, assione uno, rasoria una, falce potatoria una, tappolis dui, secio uno»: asce, accette,scuri, seghe, pialle, un vero e proprio corredo per lavorare il legno.Più in generale, quella guida per la gestione dei posssessi regi che è il Capitulare de villis alcapitolo 42 elenca, tra la suppellettile e la strumentazione che dovevano essere presenti in ognicentro aziendale, soprattutto attrezzi, non tanto destinati al lavoro dei campi, ma a quello del legno,alla carpenteria o alla falegnameria24.D'altronde si presupponeva che i liberi proprietari, presenti capillarmente nel territorio primadominato dai Longobardi e poi dai Franchi possedessero particolari e precise capacità tecnichecostruttive, se tra i servizi pubblici che erano dovuti appunto dai liberi homines, exercitalesarimanni in epoca carolingia, come già in età longobarda, oltre a quello militare, alla custodiaarmata dei placiti, alla manutenzione delle vie di comunicazione era compresa anche lamanutenzione ma soprattutto la costruzione dei ponti25. Alcuni di questi, ormai decaduti però alruolo di dipendenti di una curtis di proprietà del monastero di San Colombano di Bobbio,

architettura e una urbanistica longobarda? in La civiltà dei Longobardi in Europa, Roma-Cividale del Friuli, 24-28maggio 1971, Roma 1974, pp. 294-8.20 Fumagalli, Precarietà, cit., pp. 4-6, Baruzzi, I reperti, cit. pp. 430-4.21 W, Kurze, Codex Diplomaticus Amiatinus, Tübingen 1971, n. 73, a. 812, p. 144.22 Inventari altomedievali di terre, coloni e redditi , a cura di A. Castagnetti, M. Luzzati, G. Pasquali, A. Vasina, Roma1979 [F.S.I., 104], S. Giulia, a cura di G. Pasquali, p. 54. Per i problemi di identificazione della località: G. Pasquali, Ladistribuzione geografica delle cappelle e delle aziende rurali descritte nell'inventario altomedievale del monastero di S.Giulia di Brescia, in San Salvatore di Brescia. Materiali per un museo. I, II, Brescia 1978, p. 148.23 Inventari, cit., S. Tommaso di Reggio , a cura di A. Castagnetti, pp. 196-8; Corte di Migliarina , a cura di A.Castagnetti, p. 204. Per l'identificazione dei centri domocoltili di S. Tommaso: V. Fumagalli, La resa della terra e ipatti colonici, in Id., Coloni e signori nell'Italia settentrionale. Secoli VI-XI, Bologna 1978, p. 72.24 Capitularia I, cit., Capitulare de villis , n. 32, p. 87; Capitulare de villis . Cod Guelf. 254 Helmst. der Herzog AugustBibliothek Wolfenbüttel, ed. C. Bruhl, Stuttgart 1971, p. 59. Cfr. W. Metz, Zur Erforschung des KarolingischenReichsgutes, Darmstadt 1971, pp. 8-21; Duby, L'economia rurale, cit., pp. 30s, B. Fois Ennas, Il «Capitulare de villis»,Milano 1981, pp. 140-2.25 Capitularia Regum Francorum, in Monumenta Germaniae Historica, II, edd. A.Boretius, V. Krause, Hannover 1897,Capitulare Papiense, a 850 ex., n. 213, p. 87s; Edictum Pistense, a. 864, n. 273, p. 322. Sui «liberi del re» e lacostruzione dei ponti: G. Tabacco, I liberi del re nell'Italia carolingia e postcarolingia, Spoleto 1966, pp. 102-5.

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continuano ad esercitare nella seconda metà del IX secolo tali diritti/doveri propri della condizionedi uomo libero, anche se come prestazioni di lavoro dovute alla grande proprietà monastica nellaquale sono stati attirati. Le due Adbreviationes de rebus omnibus Ebobiensi Monasteriopertinentibus dell'862 e dell'883 ci elencano infatti per il centro di «Virdi, oratorium sancti Hilarii»,Valverde (Pavia): «XXX arimanni, XX ex his secant pratum in Caulo [Coli, Piacenza], et faciuntpontem de parte monasterii in Papia, et unusquisque illorum facit opera ad monasterium ebdomadasV»26.E comunque soprattutto la contrattualistica che ci fornisce chiare indicazioni sull'attivitàedificatrice dei rustici. Tra gli obblighi del concessionario nei confronti del concedente spessoinfatti è richiesta la costruzione della casa di abitazione e degli edifici secondari del sedimen aspese o, più probabilmente ad opera del colono27.Nell'837 in un livello per beni in Ostiglia il locatario promette di «lavorare et excollere etsuperabitare [. . .] ibi et super ipsa terra casa et canalibus faciendo, curte et orto claudere»28 enell'843 Orsone, uomo libero, per beni ottenuti in locazione nel Piacentino, si obbliga «superresedendum et casa palia tecta inibi levandum»29; più avanti, nel settembre 869, il colono siimpegna «ad laborandom, colendum, tegia palliaticia continendum, canales edificandom [...]edifıcias faciendum ut [...] rebus et tegia palliaticia meliorentur» su terre nel Modenese, aCollegara30. Nel marzo 917 Orso ottiene a livello degli appezzamenti di terreno, su uno dei qualiaveva edifıcato «tria paliatecta»31, e nell'ottobre del 940 a Novate, nel Milanese, un livellario siimpegna «in casina residere et ens continere, conciare, coperire, claudere»32; nell'agosto 910 a chiprende in locazione «ariale uno una cum aquimolo suo influvio Tartaris in porto de Rovescello» si fa obbligo addirittura di provvedere a «super ipso arialemolinum edifıcare [...] cum tecto super se abente et rodas et cum universis municionibus et fabricasua» (ma in questo caso si trattava di persone «del mestiere», di mugnai)33.Il colono doveva occuparsi anche dei lavori di manutenzione, miglioria, riparazione delle abitazionisui fondi che otteneva in conduzione, oltre che delle opere di recinzione e riparo del nucleoabitativo. In una charta promissionis rogata nel febbraio del 773, questa volta però di ambitotoscano (territorio di Lucca), si richiede espressamente «ticta recopiriendum, et ipsa casarecludendum cum petra et tabula, et [...] sepi recuciandum et ipsa porta cludendum etdefindendum»34; o più genericamente si raccomanda, nell'845, per beni in Ostiglia, di «casa seo etcanalibus [. . .] staurando, curte, ortum, aream faciendo»35; e nel 907, per beni a Borgo Panigale nelBolognese, di «metato, curte, orto et kanale restaurandum»36.Esistevano però degli addetti alle costruzioni, specialisti, sui quali conviene soffermarci perevidenziare la particolare qualificazione della loro attività costruttiva, rivolta a soddisfaresoprattutto i gusti di una committenza ristretta e di un certo livello sociale. La documentazione èavara di notizie a loro riguardo: questo silenzio delle fonti è, crediamo, un’ ulteriore conferma delfatto che la maggior parte delle abitazioni era opera degli uomini che in esse vivevano, non di 26 Inventari, cit., S. Colombano di Bobbio 1-4, a cura di A. Castagnetti, I, a. 862, p. 135; 2, a. 883, p. 156. Sugliarimanni dipendenti dal monastero di Bobbio cfr. Tabacco, I liberi, cit., pp. 100-6. Sulla decadenza dei liberi homines esulla diffusione della curtis: B. Andreolli, M. Montanari, L'azienda curtense in Italia. Proprietà della terra e lavorocontadino nei secoli VIII-XI, Bologna 1983 pp. 69-84.27 Ad esempio, Vicini, Regesto, cit., n. 5, a. 813, p. 7; n. 27, a. 886, p. 44. Cipolla, Antichi documenti, cit., n. XVII, a.829, p. 69. Benassi, Codice Diplomatico, cit., n. XVIIII bis, a. 888, p. 61.28 Tiraboschi, Storia della augusta badia, cit., n. XXXIII, a. 837, p. 50.29 Galetti, Le carte, cit., n. 34, a. 843, p. 90.30 Vicini, Regesto, cit., n. 22, a. 869, p. 38.31 Drei, Le carte, cit., n. XIV, a. 917, p. 63.32 Codex Diplomaticus Langobardiae, cit., n. DLVI, a. 940, c. 948.33 Fainelli, Codice Diplomatico II, cit., n. 95, a. 910, pp. 122s. Lo stesso avviene per un altro «molendino in valleFontense»: Ivi, n. 164, a. 920, p. 214.34 Schiaparelli, Codice Diplomatico, cit., II, n. 281, a. 773, p. 402.35 Tiraboschi, Storia, cit., n. XXXVI, a. 845, p. 52.36 Drei, Le carte, cit. n. VI, a. 907, p. 43.

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personale specializzato, la cui attività era rivolta per lo più alla costruzione di edifici pubblici civili,religiosi, o privati di una certa importanza, non certo di case di impianto semplice ed elementare,fatte di materiali «poveri», che non abbisognavano di tecniche particolarmente complesse eraffinate.Questa è appunto l'immagine che, come si è visto, la documentazione scritta ci fornisce dell'ediliziacontadina, che trova riscontro però nei dati che ci sono forniti dagli scavi archeologici. Questiultimi, per l'Italia settentrionale, come del resto per tutta la penisola, sono pochi relativamente agliinsediamenti rurali minori e all'edilizia privata altomedievali, mentre sono più numerosi per i secolidel pieno e soprattutto del Bassomedioevo. Basta sfogliare le pagine della rivista "ArcheologiaMedievale", che riporta notizie degli scavi svolti nel corso di ogni anno, per rendersene conto. Delresto, la stessa disciplina dell'archeologia medievale è di recente sviluppo nel nostro paese37,rispetto al resto dell'Europa occidentale che già da tempo ha avviato ricerche sulle costruzioni civilie, nello specifico, sulla dimora rurale, anche se i secoli dell'Altomedioevo sono anche in questocaso poco coperti38. Comunque, gli scarni dati forniti dagli scavi effettuati a Castelseprio39, pressola pieve di Santa Maria di Val Tenesi sul lago di Garda40, a «Refondou» presso Savignone inLiguria, e a Luscignano in Lunigiana41, a Luni42, a Bagnoregio in Toscana43. Ci confermano quantosi è detto sulle abitazioni rurali. 37 P. Delogu, Archeologia medievale, in Atti del Convegno dell'Associazione dei Medioevalisti Italiani, Roma, 31maggio-2 giugno 1975, pp. 1-17.38 Dei bilanci degli scavi sulla casa contadina per la Francia, la Gran Bretagna, i Paesi Bassi, il Belgio, la Germania, cisono forniti da: Decaens, Recherches, cit.; De Bouard, Manuel, cit., pp. 67-74, Chapelot, Fossier, Le village, cit., pp.79-134. In Francia per l'Altomedioevo sono da ricordare, tra l'altro, gli scavi a Isle-Aumont nell'Aube (De Bouard,Manuel, cit., p. 67 e nota 233 con la bibliogr.) a Mandeure (Ivi, p. 67 e nota 234 con la bibliogr.), a Bourcheuil, nel Pas-de-Calais (Fourquin, Le premier, cit., p. 296), ma soprattutto gli scavi fatti a Brebières, a sud di Douai (P. Demolon, Levillage mérovingien de Brebières (Vle-Vlle siècles), Arras 1972; De Bouard, Manuel, cit., pp. 67-9 e fig. I a p. 68;Fourquin, Le premier, cit., pp. 303, 304, 311). In Gran Bretagna, su impulso di M. Beresford (Lost villages in England,London 1954) e del «Deserted Medieval Village Research Group», sono stati effettuati numerosi scavi di villaggiabbandonati, le cui notizie appaiono nella rivista "Medieval Archeology", ma per lo più per il pieno e basso Medioevo.Cfr. M. Beresford, Villages désertés: bilan de la recherche anglaise, in Villages désertés et histoire économique XIe-XVIIIe siècles, Paris 1965, pp. 533-80, con la bibliogr. e la notizia degli scavi alle pp. 573-80. Per i secolidell'Altomedioevo sono da ricordare, tra l'altro, gli scavi a Catholme nello Staffordshire, V/VI secolo - X (Chapelot,Fossier, Le village, cit., pp. 95-97), a Chalton nell'Hampshire, VI-VII secolo (Ivi, pp. 103-6), a West Stow, V-VI secolo(Ivi, p. 119), a Mucking, V/VI-VIII secolo (Ivi, p. 123). Per i Paesi Bassi sono stati effettuati scavi di case che datanodal VII all'XI secolo a Leens (De Bouard, Manuel, cit., p. 70 e nota 244 con la bibliogr.), a Kootwijk nel Gelderland(Chapelot, Fossier, Le village, cit., pp. 88-95) e a Odoorn (Ivi, p. 123). In Germania sono stati studiati, tra l'altro, gliinsediamenti di Warendorf, in Westfalia, il centro più importante (W. Winkelmann, Die Ausgrabungen in derfrahmittelalterlichen Siedlung bei Warendorf, in Neue Ausgrabungen in Deutschland, Berlin 1958, pp. 492-517;Chapelot, Fossier, Le village, cit., pp. 79-88), risalente al VII-VIII secolo, quello di Gladbach (Riché, La vie, cit., p.128s; De Bouard, Manuel, cit., p. 70 e nota 248; Chapelot, Fossier, Le village, cit., pp. 97 e 117) in Renania come ilcentro di Haldern (Decaens, Recherches, cit., p. 126) e le due località di Kirchheim in Baviera e di Hedeby (De Bouard,Manuel, cit., p. 70 e note 248 e 249 con la bibliogr.). Ricordiamo anche gli scavi a Wülfingen-am-Kocher, VI-XIIsecolo, e a Burgheim, VII-IX secolo (Chapelot, Fossier, Le village, cit., p. 97s), a Morken (Ivi, p. 128) e a FeddersenWierde, centro risalente al I-V secolo (Ivi, pp. 106-10).39 Cagiano de Azevedo, Esistono, cit., p. 296; "Archeologia Medievale" VI (1979), Notizie degli scavi, schede 1978, p.321; G. P. Brogiolo, S. Lusuardi Siena, Nuove indagini archeologiche a Castelseprio, in Atti del VI CongressoInternazionale di Studi sull'Alto Medioevo, Milano, 21-25 ottobre 1978, Il, Spoleto 1980, pp. 475-500.40 Sui risultati degli scavi presso questa pieve ed anche di altri nel Canton Ticino e ad Albenga, con le relativeindicazioni bibliografiche, cfr. G. P. Brogiolo, Lettura archeologica di un territorio pievano: l'esempio Gardesano, inCristianizzazione ed organizzazione ecclesiastica delle campagne nell'alto Medioevo: espansione e resistenze, in Attidella XXVIII Settimana di Studio del Centro Italiano di Studi sull'Alto Medioevo, 10-16 aprile 1980, I, Spoleto 1982,pp. 281-300.41 Per Savignone e Luscignano, T. Mannoni, Il castello di Molassana e l'archeologia medievale in Liguria,"Archeologia Medievale" I (1974), p. 12; Ivi, Notizie degli scavi, schede 1971-'73, p. 270; "Archeologia Medievale",III(1976), pp. 309-25.42 W, Ward Perkins, Lo scavo nella zona Nord del foro, in Scavi di Luni, II, a cura di A. Frova, Roma 1977, pp. 633-8;"Archeologia Medievale", Notizie degli scavi, I (1974), schede 1971-'73, p. 270, III (1976), schede 1975, p. 330; IV(1977), schede 1976, p. 251; V (1978), schede 1977, p. 485; VI (1979), schede 1978, p. 322; VII (1980), p. 476.

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Le maestranze specializzate nell'attività costruttiva dedite esclusivamente a tale lavoro, a cuidobbiamo, come si è detto, non tanto l'edificazione delle minori costruzioni quanto quelle degliedifici di carattere pubblico e delle fondazioni ecclesiastiche (pubbliche e private), sonorappresentate da quei magistri della cui opera abbiamo scarse testimonianze nelle cartealtomedievali (tenendo conto anche dell'abbondante documentazione toscana), proprio a causaprobabilmente dell'eccezionalità e alta qualificazione della loro attività.Negli anni 728-729, «Trasualdus vir devotus», nel dotare di alcuni beni la chiesa di San Terenzio«in vico Colonia» nel territorio di Lucca da lui fondata, fa esplicito riferimento al fatto che questaera stata costruita «per manum artificum a fundamentis»44; sempre a Lucca, nel 737 troviamo, tra itestimoni che sottoscrivono una charta adfiliationis, «Tendoaldus magister»45; e come testimone aduna vendita, nel novembre 815, «Pauloni magestro filio quondam Domnigoni», questa voltanell'Italia settentrionale, nel Piacentino46. A questi professionisti va attribuita, a vari livelli, secondopreparazione e provenienza, una certa attitudine artistica, che ci è testimoniata da opere scultorie ocostruttive firmate dall'artefice, dal magister. Sappiamo così che «Ursus magester cum discepolissuis Iuvintino et Iuviano» ha lavorato nella prima metà dell'VIII secolo al ciborio della chiesa diSan Giorgio di Valpolicella; che a «Iohannes magister» dobbiamo l'opera, dell'anno 736, per loscoto Cumiano, a Bobbio; che «Paganus» lavora (negli anni 751-754 o subito dopo 1'800)all'oratorio di Santa Maria in Valle a Cividale; che «Gennarius magester marmorarius» lavora aSavigliano nel 755, e che «Pacificus», morto nell'anno 844, è un artista molto versatile (ma si trattadi un personaggio singolare, un arcidiacono, tra l'altro, del cui livello di capacità professionale nonconosciamo per ora altri casi, almeno per quanto riguarda uomini di Chiesa), se l'iscrizione che loriguarda recita: «quicquid auro vel argento et metallis ceteris, quicquid lignis ex diversis etmarmore candido, nullus unquam sic peritus in tantis operibus»47. Le carte private ci documentanoinvece, in un atto rogato a Lucca nel luglio 754, 1'attività di un certo «Auripert pictor», ricordatoanche in una charta firmitatis del febbraio 763; e di un altro pictor, di nome «Eribertus», in undocumento veronese dell'aprile 86548.Artigiani qualificati, specializzati più propriamente nella costruzione di edifici, sono da ritenersi il«Godefrit viri honesti magistro murarum» che presenzia in qualità di testimone il 19 dicembre 737a Vianino (Parma) ad un atto di vendita di terra alla chiesa di San Pietro di Varsi e che dovevaprobabilmente occuparsi della parte muraria di una costruzione, e quel «Natalis homo transpadanusmagister casarius» che nei primi anni del IX secolo erige (con probabilità partecipando attivamenteall'opera di costruzione) e dota la chiesa di San Pietro e Santa Maria a Lucca49.

43 M. Cagiano de Azevedo, Due «casae» longobarde in Tuscia, in Atti del Convegno internazionale di archeologiamedievale, Palermo-Erice, 20-22 settembre 1974, Palermo 1976, pp. 101-3.44 Schiaparelli, Codice Diplomatico, cit., I, n. 42, a. 728-729, p. 144.45 Ivi, n. 62, a. 737, p. 196.46 Galetti, Le carte, cit., n. 13, a. 815, p. 51.47 Sulle iscrizioni apposte dai vari magistri sulle loro opere e sulla bibliogr. ad esse relativa: Monneret de Villard,L'organizzazione, cit., p. 36 nota 1, p. 64 nota 2. Cfr. anche P. L. Zovatto, L'arte altomedievale, in Verona e il suoterritorio, II, Verona 1964 pp. 51523; C. G. Mor, L'autore della decorazione dell'Oratorio di S. Maria in Valle aCividale e le possibili epoche in cui poté operare, "Memorie Storiche Forogiuliesi", XLVI (1965), pp. 20-36; Cagianode Azevedo, Esistono, cit., pp. 325, 327. Sull'arcidiacono Pacifico: C. G. Mor, Dalla caduta dell'impero al Comune, inVerona e il suo territorio, cit., pp. 70, 76-82 86. Ricordiamo anche due iscrizioni che riguardano due magistri attivinell'Italia centrale rispettivamente nella chiesa di S. Maria in Fianello di Sabina (VIII secolo) e all'altare della chiesa diS. Pietro di Ferentillo (739): Monneret de Villard, L'organizzazione, cit., p. 36, nota 1.48 Schiaparelli, Codice Diplomatico, cit., I, n. 113, a. 754, p. 329; II, n. 170, a. 763, p. 127. Fainelli, CodiceDiplomatico, I, cit., n. 231, a. 865, p. 353.49 Schiaparelli, Codice Diplomatico, cit., 1, n. 64, a. 737, p. 203. Memorie e documenti per servire all'istoria delDucato di Lucca, a cura di D. Barsocchini, V, p. II, Lucca 1837, n. CCCXXII, a. 800, p. 192 (il regesto del Barsocchinifa riferimento al t. IV, p. 11 n. 6: qui con la data 805). Per l'individuazione delle competenze dei magistri murarum el'identificazione del magister casarius del documento toscano con un artigiano addetto alle costruzioni: Bognetti, S.Maria, cit., rispettivamente alle pp. 490 e 493, nota 228 (in polemica con Monneret de Villard, L'organizzazione, cit., p.50, nota 5).

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Si trattava comunque di uomini liberi, che certamente si valevano dei diritti/doveri propri dellacondizione dell'uomo libero (quasi sempre li troviamo presenziare in qualità di testi alla rogazionedi vari negozi giuridici); potevano avere anche una certa qual rilevanza sociale («Auripert pictor»delle carte degli anni 754 e 763 possedeva numerosi beni e il «magister Pacificus» veronese, di cuici resta l'iscrizione, era un arcidiacono, personaggio di spicco a Verona50) e certamente spessosvolgevano la loro attività spostandosi all'interno del «Regnum» ed anche fuori51. Troviamo infattinumerosi magistri qualificati come «transpadini» nelle carte del monastero di Farfa, tra i testimonialla stesura di varie contrattazioni giuridiche52.«Professionisti dell'edilizia, al confronto di chi, servo dipendente di un privato, non andava più in làdella rudimentale capacità di tirare in piedi una rozza baracca o di obbedir materialmente alleminute prescrizioni di un tecnico»53 dovevano essere quelle maestranze indicate nelladocumentazione come magistri commacini, come quel «Rodpertu magistrum Cummacinum» chenel 739 aliena, con un atto di vendita rogato a Toscanella, «casa cum vinea, clausura, citina, terra»di sua proprietà54.Non ci interessa in questa sede stabilire se il termine «Commacini» indica che si trattava di artigianiprovenienti dal territorio di Como oppure uomini operanti «cum machinis» (considerando leimpalcature, gli argani e i verricelli di cui probabilmente erano provvisti) o espletanti il lorocompito «cum maciones» (etimologia significante artigiani associati), o di maestranze specializzateprovenienti dalla Commagene (ve ne erano due, una danubiana e una asiatica) al seguito deiLongobardi al tempo dell'invasione55, ma di segnalare e di precisare la loro attività sia comecostruttori, sia come imprenditori, organizzatori tecnici dei lavori56. È soprattutto la legislazionelongobarda che ci permette di avere un'idea delle opere che ad essi venivano commissionate e dellaloro organizzazione del lavoro.Le due rubriche 144 e 145 delle leggi di Rotari ci mostrano come un «magister commacinus»potesse avere con sé nell'opera di restauro o di fabbrica «ex novo» di un edificio dei «collegantes»,dei «consortes», cioè persone legate a lui dalla compartecipazione all'impresa [144], che potevanoessere anche altri «magistri commacini» [145]. Siamo quindi di fronte a rudimentali «imprese dicostruzioni» che assumevano in appalto un lavoro. Oppure accettavano anche di dirigere l'opera deiservi di un padrone57. I1 Memoratorio de mercedes comacinorum58, un vero e proprio tariffario perle prestazioni che ad essi si richiedevano, dei tempi di Grimoaldo o di Liutprando, in cui il Bognettivede la testimonianza di una decadenza di questi artigiani qualificati da liberi imprenditori adipendenti regi59, specifica con estrema precisione le opere che erano in grado di effettuare. 50 Per «Auripert pictor» cfr. nota 48. Per Pacifico cfr. nota 47.51 La legislazione longobarda prevede che i magistri, che sono in questo caso assimilati ai negotiatores, possano «intraprovincia vel extra provincia ambulare» liberamente durante il regno di Liutprando; possono farlo con una «epistolaregis.. aut voluntate iudicis sui» durante il regno di Astolfo: Edictus, cit., Liutprandi Leges, a. VIII, cap. 18 III, p. 93,Ahistulfi Leges, a. I, p. Chr. 750, cap. 6, p. 163.52I. Giorgi, U. Balzani, Il Regesto di Farfa di Gregorio di Catino, Roma 1879-1914, II, n. 61, a. 765, p. 62; n. 240, a.819, p. 197; n. 274, a. 824, p. 227; n. 259, a. 825, p. 214.53 G. P. Bognetti, I capitoli 144 e 145 di Rotari ed il rapporto tra Como ed i «Magistri Commacini», in L'etàLongobarda, IV, Milano 1968 (I ed. in Scritti di Storia dell'Arte in onore di M. Salmi, Roma 1961, pp. 155-71), p. 452.54 Schiaparelli, Codice Diplomatico, cit., I, n. 71, a. 739, p. 216.55 Monneret de Villard, L'organizzazione, cit., pp. 37-51; Bognetti, S. Maria cit., pp. 484-504; Id., I capitoli, cit.;Cagiano de Azevedo, Esistono, cit., pp. 325s. Una sintesi delle varie posizioni in M. Salmi, Maestri comacini ocommacini?, in Artigianato e tecnica, cit., I, pp. 409-24.56 Sulla loro attività di costruttori insiste Bognetti nelle due opere cit. alla nota 55 mentre Monneret de Villard, nellostudio ivi citato (p. 46) insiste soprattutto sulla loro funzione di capomastri impresari, distinguendoli dai vari magistrimurarum, di cui coordinavano l'attività.57Edictus, cit., Edictus Rothari, r. 144 «De magistros commacinos», pp. 29s; r. 145. «De rogatos aut conductosmagistros», p. 30. Cfr. Monneret de Villard, L'organizzazione cit., p. 46s.; Bognetti, S. Maria cit., pp. 492s; Id., Icapitoli cit., pp. 434s; C. G. Mor, Gli artigiani nell'alto Medioevo, in Artigianato e tecnica, cit., I, p. 205s.58 Edictus, cit., Capitula extra Edictum vagantia, Memoratorio de mercedes comacinorum, pp. 147-9. Vedi anche F.Beyerle, Die Gesetze der Langobarden, Weimar 1947, pp. 324-7.59 Bognetti, S. Maria, cit., pp. 493-5, 503s.

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Conviene soffermarci su di esse, in quanto testimoniano la sopravvivenza, per una ristrettacommittenza, di tecniche edilizie che richiedevano capacità professionali particolari.Inizialmente viene fissato il prezzo di base di un edificio con il solo piano terreno (sala) coperto ditegole e quello di un edificio con un piano superiore (solario) sempre coperto di tegole; si passa poial prezzo del muro secondo il suo diverso spessore, delle costruzioni che avevano richiesto unsecondo ordine di impalcature, della decorazione e struttura delle pareti secondo due diversetecniche (opus gallica e opus romanense) e della costruzione degli archi. Viene poi indicato ilprezzo dell'armatura lignea del tetto e dei rinforzi delle travature principali, del tetto, che potevaessere o in «scandolae» lignee o in tegole, delle fondazioni e di alcuni lavori di rifinitura, comel'esecuzione di una stanza con «camino», di chiusure per le finestre in legno o di telai per vetri digesso, di lastre e colonne di marmo. Da ultimo si fissano i compensi per la costruzione di forni contubi fittili al modo romano e di pozzi di diversa profondità60. Come si vede, si tratta di capacitàtecniche che niente hanno a che vedere con la costruzione delle semplici ed elementari abitazionicontadine, mentre a loro dobbiamo probabilmente quanto di rilevante dell'arte architettonica delperiodo longobardo ancora oggi ci resta.Nel corso del IX secolo le testimonianze dell'attività di questi liberi artigiani/costruttori diventanosempre più rare (scarse lo erano già prima, come si è detto), mentre cominciamo a trovaredocumentati artigiani specializzati nella attività di costruzione dipendenti dei grandi proprietariterrieri, concentrati nei centri domocoltili delle aziende curtensi. Ci ricordano i «servi ministerialesdocti aut probati» che l'Editto di Rotari elenca tra il personale che un grande proprietario tenevapresso di sé, che utilizzava per le attività artigiane e le industrie domestiche e ai quali attribuiva unnotevole valore. Se confrontiamo infatti tra loro le composizioni pecuniarie previste per l'uccisionedei servi, possiamo notare come i 50 soldi previsti per la morte di un servo ministerialecostituiscano una pena piuttosto elevata, indice dell'alto valore che si attribuiva a questa categoriadi servi, pari solo a quella stabilita per l'uccisione di un «magister porcarius», che nell'ambito diun'economia di tipo prevalentemente silvo-pastorale in qualità di addetto alla custodia del brancodei maiali, l'animale da carne allora per eccellenza, aveva una notevole importanza61: per1'uccisione di un servo ministeriale [r. 130], 50 soldi d'oro; per l'uccisione del suo aiutante [r. 131],25 soldi d'oro per l'uccisione di un servo massaro [r. 132], 20 soldi d'oro; per l'uccisione di un servobifolco [r. 133], 20 soldi d'oro; per 1'uccisione di un servo rusticano [r. 134], 16 soldi d'oro; per1'uccisione di un maestro porcaro [r. 135], 50 soldi d'oro; per 1'uccisione del suo aiutante [r. 135],25 soldi d'oro; per 1'uccisione di un maestro pecoraio, capraio e armentario [r. 136], 20 soldi d'oro;per 1'uccisione di un loro aiutante [r. 136], 16 soldi d'oro.Ad essi si doveva tra l'altro anche la manutenzione, riparazione e costruzione degli edifici,all'interno probabilmente della grande proprietà, come ci è suggerito dalla rubrica 145 dell'Editto diRotari: «Si quis magistrum commacinum unum aut plures rogaverit aut conduxerit ad operadictandam aut solatium diurnum prestandam inter servos suos, domum aut casa sibi facienda»62. Il«magister commacinus» poteva venire ingaggiato quindi da un proprietario per dirigere o aiutare isuoi operai servi nelle costruzioni.Sullo scorcio del primo trentennio del IX secolo (833-835) l'abate di Bobbio Wala, nel compilareun breve memorationis dei beni del monastero di San Colombano, elaborò uno schema dipianificazione delle risorse del cenobio, con indicazioni per la loro gestione. Per quel che riguardal'attività artigianale, Wala aveva organizzato una serie di ministeria (officine centrali), controllatitutti dal prepositus, che doveva occuparsi di «omnis laboratio agrorum et vinearum et edifitiorum,figulorumque», ma affidati ciascuno ad un responsabile, che doveva al tempo stesso controllare illavoro dei servi e provvedere probabilmente all'approvvigionamento del materiale necessario per 60 Edictus, cit., nota 58. Per l'analisi del testo del «Memoratorio»: U. Monneret de Villard, Note sul memoratorio deimaestri commacini, "Archivio Storico Lombardo", XLVIII (1920), pp. 1-16; Bognetti, S. Maria, cit., pp. 493-500.61 Edictus, cit. Rothari, rr. 76, p. 23; rr. 130-136, p. 27s. Cfr. P. Delogu, Il Regno Longobardo, in P. Delogu, A. Guillou,G. Ortalli, Longobardi e Bizantini, in Storia d'Italia, a cura di G. Galasso, I, Torino 1980, pp. 3-216, a p. 73.62 Edictus, cit., Rothari, r. 145 p 30.

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farli funzionare. Così, per il settore che a noi interessa, Wala suggerisce che il «magistercarpentarius provideat omnes magistros de ligno et lapide, preter eos qui ad cetera officina deputatisint, id est qui butes et bariles seu scrinia vel molendina, casas atque muros faciunt» 63. Questimagistri non dovevano limitare la loro attività al solo centro dominicale del monastero eutilizzavano sia il legno che la pietra; ma, se consideriamo i loro compiti principali e il fatto checomunque erano soggetti alla sovrintendenza di un carpentarius, la lavorazione prevalente ciappare essere stata quella del legno, che d'altronde, come si è già visto, era il materiale più diffusonell'edilizia. Con il termine carpentarius inoltre si indicava allora proprio l'addetto alla lavorazionedel legno64. Questa organizzazione che Wala vuole dare al monastero piacentino si inscrive nellalinea suggerita dal Capitulare de villis, degli inizi del IX secolo, che, nel fissare le regole per unabuona organizzazione e gestione dei possessi regi, stabiliva che in ogni centro curtense ci dovesseroessere iudices che avessero sotto il loro controllo «bonos [...] artifices, id est [...] carpentarios [. . .]nec non et reliquos ministeriales»65.Alcuni di questi carpentieri, della Val d'Intelvi e di «Besozolo» (cioè di Bizzozzero pressoCastelseprio), li ritroviamo dipendenti dal monastero di San Pietro in Ciel d'Oro in Pavia nel 929 (ecosì pure nel 962 e nel primo trentennio dell'XI secolo) in un atto di conferma di beni per ilmonastero pavese, che fa riferimento ad un diploma di re Liutprando66. È interessante notare comela specializzazione nell'arte della carpenteria sembri tramandarsi tra queste famiglie: «omnescarpentarios illos quos predictus locus [...] possedisse in valle quae dicitur Antelamo vel eos quisunt in vico Besozolo cum filiis filiabusque vel omni agnitione eorum [. . .] indefesse operandodeserviant tam vel posteri eorum in supra fato coenobio» si legge nel 929 e nelle successiveconferme di Ottone I e Corrado II67.Ma non era tanto sull'attività di questi artigiani costruttori raccolti nei centri residenziali curtensiche si basava la possibilità di realizzare quell'«autosufficienza» che si può considerare come «mito»della società altomedievale, quanto piuttosto con il progressivo rafforzarsi della grande proprietà econ il diffondersi dell'azienda curtense, sullo sfruttamento delle risorse del massaricio, sul qualetroviamo documentato, anche per il nostro settore, una forma diffusa di artigianato ruralecontadino68.Così nei due inventari bobbiesi dell'862 e dell'883 sono dipendenti della corte di «Luliatica»(località non identificata, ma nel Pavese) «septem fictales», sette affittuari che, oltre acorrispondere «unusquisque caseum libras XLI, vervicem dimidium; alius reddit oleo libras V,picula libras V; tertius bracales II; quartus et quintus et sextus reddunt vervices II, segale sextariosIII; alio grano modia III», «faciunt vineam et cooperiunt casas cum suo ligno»69 e, più avanti, nel

63 C. Cipolla, Codice Diplomatico del monastero di San Colombano di Bobbio fino all'anno MCCVIII, Roma 1918[F.S.I., 52-53], I, n. XXXVI, p. 140s.64 C. A. Mastrelli, Le denominazioni dei mestieri nell'alto Medioevo, in Artigianato e tecnica, cit., pp. 318-20. Sullavoro del carpentiere: Storia della tecnologia, a cura di C. Singer, E. J. Molmyard A. Ruper Hall, T. I. Williams, II,Torino 1962 (I ed. Oxford 1956), pp. 244-8, 395-402.65 Capitularia I, cit., Capitulare de villis, n. 32, r. 45, p. 87; Capitulare de villis. Cod. Guelf 254, ed. cit., p. 60.66 L. Schiaparelli, I diplomi di Ugo e di Lotario, di Berengario II e di Adalberto, Roma 1924 [F.S.I., 38], n. XX, a. 929,pp. 59s. Per il precetto di re Liutprando, al quale il testo del 929 si richiama: C. Brühl, Codice DiplomaticoLongobardo, III, I, Roma 1973 [F.S.I., 64], n. 14, a. 714 (falso) pp. 48s. Diplomata Regum et Imperatorum Germaniae.I Conradi I, Heiurici I et Ottonis I Diplomata, ed. T. Sickel, in Monumenta Germaniae Historica, Hannover 1879-1884, n. 241, a. 962, p. 340, Die Urkunden den Konrads II, ed. H. Bresslau, in Monumenta Germaniae Historica,Hannover-Leipzig 1909, 1, n. 75, a. 1027, p. 87s., n. 186, a. 1033, p. 247.67 Monneret de Villard, L'organizzazione, cit., p. 68s. Su di essi vedi anche Bognetti, S. Maria, cit., pp. 26, 487s. e note220, 221, 494s.68 V, Fumagalli, Strutture materiali e funzioni nell'azienda curtense. Italia del Nord: sec. VIII-XII, "ArcheologiaMedievale", VII (1980) pp. 25-7. Le osservazioni del Fumagalli sono state riprese da P. Toubert, Il sistema curtense: laproduzione e lo scambio interno in Italia nei secoli VIII, IX, X in Annali della Storia d'Italia Einaudi, VI, Torino 1983,p. 36. Cfr. anche Andreolli, Montanari, L'azienda, cit., pp. 16s., 118-21.69 Inventari, cit., S. Colombano di Bobbio, cit., 1, a. 862, p. 137; 2, a. 883, p. 158.

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Breviarium de terra Sancti Columbani (secolo X-XI), uno «scultor», di nome Giovanni, tiene due«sortes» del beneficio di «Homo»70.Così, anche per il massaricio di corti di proprietà del monastero di Santa Giulia di Brescia, sulloscorcio del secolo IX, ci sono testimoniate attività legate all'edilizia. Nella corte di «Alfiano»(Alfianello, Brescia, e Alfiano Vecchio, Cremona, vicinissime e separate dal fiume Oglio) vi sonoquaranta «sortes super quas sedunt manentes XL, cum ipso canevario et sunt de ipsis VIII magistriad muros et casas et buttes faciendum; hec est redditus eorum: de grano modium tercium, vinummedium et ad fictum porcos XX, berbices XX, pullos LXX, de argento solidos X, opera inebdomada dies XC»71. Questi otto manentes hanno sì una qualificazione particolare, ma sonosoprattutto contadini. È pensabile che espletassero le operae richieste in qualità di costruttori adisposizione dei bisogni del centro domocoltile: un impegno che li distoglieva dal lavoro sul loro«podere» per più di due giornate lavorative alla settimana (la media delle novanta giornate richiesteper tutti i quaranta manentes).Nella «curte Cervinica» (forse Sernìga nel Bresciano) troviamo «sors una, super quam sedetmanentem I, qui reddit de grano modia III, vinum medium, berbicem I, denarios XXX, de rapasmodium I, fava sestarium I, scandolas CCCC»72. Si tratta dunque di un contadino carpentiere, dalmomento che deve corrispondere delle scandolae, cioè delle tavole di legno per la copertura deitetti delle abitazioni.Sembrano dediti esclusivamente ad un lavoro artigianale invece i «servos VIII qui petrastantummodo operantur» insediati su tre sortes dipendenti dal centro domocoltile della corte di«Summolacu», a nord del lago di Garda73. Non devono infatti corrispondere alcun canone, e inoltrel'avverbio «tantummodo» (solamente) è oltremodo significativo: sono scalpellini, lapicidi.I prodotti manufatti di questi artigiani, sia pietra lavorata che scandolae, non erano utilizzati soloper soddisfare le esigenze dei centri domocoltili da cui dipendevano le sortes sulle quali essirisiedevano, o dell'intero complesso delle medesime corti «Cervinica et Summolacu», ma dovevanoprobabilmente avere una circolazione più ampia all'interno dell'insieme della proprietà delmonastero bresciano; così l'attività degli artigiani/costruttori dipendenti dal centro di «Alfiano»doveva avere un raggio di azione più ampio di quell'organizzazione curtense. Doveva cioè esistereuna rete di scambi tra le varie aziende parti di un grande complesso fondiario, con la conseguentecircolazione di prodotti tra le diverse aree ed una certa mobilità della manodopera stessa,soprattutto di quella specializzata 74.Le prestazioni di operae artigianali degli affittuari dipendenti (oltre naturalmente al lavoro delpersonale specializzato concentrato nei centri domocoltili) garantivano quindi una relativa«autosufficienza» della grande proprietà fondiaria per quel che riguarda l'attività edilizia, così comed'altronde avveniva anche per altri settori artigianali75. Questi contadini (in larga misura già piccoliproprietari), attratti sempre più massicciamente nel corso del secolo IX nella grande proprietàcurtense, che fabbricavano e riparavano i loro attrezzi agricoli, le suppellettili domestiche ecostruivano da sé, per la maggior parte, la propria abitazione, ci testimoniano l'«universaleruralizzazione delle attività, il loro chiudersi e contrarsi all'ambito delle grandi proprietàfondiarie»76.

70 Ivi, 4, secolo X-XI, p. 189.71 Inventari, cit., S. Giulia, cit., p. 81s. Per l'identificazione della corte di «Alfiano»: Pasquali, La distribuzione, cit., p.159.72 Inventari, cit., S. Giulia, cit., p. 68. Per l'identificazione della corte «Cervinica»: Pasquali, La distribuzione, cit., p.153.73 Inventari, cit., S. Giulia, cit., p. 61. Per l'identificazione del centro di «Summolacu»: Pasquali, La distribuzione, cit.,p. 151.74 Id., I problemi dell'approvvigionamento alimentare nell'ambito del sistema curtense, "Archeologia Medievale", VIII(1981), pp. 93-116; Andreolli, Montanari, L'azienda curtense, cit., pp. 16s, 120. Galetti, Per una storia, cit.75 P. S. Leicht, Operai artigiani agricoltori in Italia dal secolo VI al XVI, Milano 1959, pp. 58-71.76 Fumagalli, Il Regno Italico, cit., p. 150; v. inoltre p. 151-3.

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La ceramica

L'indagine sulla ceramica postclassica ha catalizzato le energie degli archeologi medievali inquest'ultimo quindicennio. Al centro dell'interesse non è stata la ceramica in sé e per sé, quantopiuttosto la ceramica come strumento di lavoro archeologico. Dopo decenni di studi concernenti leproduzioni "coperte" (maioliche, ingobbiate, invetriate) con taglio generalmente da storia delle artiminori, era necessario razionalizzare il campo costruendo tipologie che permettessero di utilizzareil fossile guida per eccellenza come strumento di datazione degli strati da un lato e dall'altro comestrumento di comprensione di contesti sociali e funzionali. Accanto a monografie relative aproduzioni regionali e subregionali, si sono elaborate carte di distribuzione e si è letta la ceramicacome spia di traffici e rapporti ad ampia gittata: rimane ancora molto lavoro da fare soprattutto perquei secoli compresi fra il VII e il XII-XIII, nell'Italia centro-settentrionale in particolare, dove laparcellizzazione dei centri di produzione e l'adozione di tecnologie estremamente povere impone untipo di indagine a livello microterritoriale. Diversa per certi aspetti l'impostazione della ricerca inaltre parti della penisola dove, come nell'Italia meridionale e in Sicilia, certi apparati produttivihanno conservato assetti di fabbrica e di commercializzazione a scala più ampia.I primi "affondi" sulla ceramica come strumento del lavoro archeologico sono rintracciabili negliAtti dei convegni internazionali della ceramica di Albisola, giunti ormai al diciassettesimo anno divita, come nella rivista "Archeologia Medievale", mentre il corpus de I bacini ceramici medievalidelle chiese di Pisa, di G. Berti e L. Tongiorgi (Roma 1981) costituisce un punto di riferimentoessenziale per la circolazione delle ceramiche nell'intero Mediterraneo. Ma gli strumenti piùcomplessi ed esaurienti di cui si sono dotati gli archeologi medievali, e sui quali possiamo trovare,oltre ad una bibliografia esauriente per l'intera penisola e l'Europa mediterranea, anche gruppi distudi sia su tipologie specifiche che sui più diversi aspetti della produzione, della circolazione edella funzione della ceramica, sono gli atti dei congressi internazionali su La ceramica medievaledel bacino occidentale del Mediterraneo, tenuti a Valbonne nel 1978 (Parigi, 1980) e a Siena nel1984 (Firenze 1986). In quest'ultimo volume segnaliamo in particolare quei saggi relativi alleproduzioni dell'Italia centro meridionale e di Roma, che costituiscono punti di riferimentoestremamente aggiornati sulle produzioni delle aree in questione, che presentano caratteristiche bendiverse dal quadro delineato da tempo per l'Italia centro settentrionale.In questa occasione presentiamo le conclusioni di uno studio a livello regionale, la Liguria, che, adistanza di anni dalla sua comparsa rimane un modello ancora insuperato e certamenteesemplificativo di un contesto che comprende almeno l'intera Italia centro-settentrionale tirrenica:si tratta della sintesi storica che conclude il volume di Tiziano Mannoni, La ceramica medievale aGenova e nella Liguria 1. 1 Genova-Bordighera 1975, pp. 164-181.

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Tiziano Mannoni

La ceramica medievale a Genova e nella Liguria

1. È noto che l'organizzazione della produzione ceramica nell'Impero romano appare complessa estratificata, con al vertice prodotti di tipo industriale, diffusi da poche grandi fabbriche, esubordinate produzioni più o meno regionali. Il carattere "industriale" va identificato con lastandardizzazione dei prodotti e dei metodi di fabbricazione, che sono sempre tecnicamente buoni(omogeneizzazione degli impasti, grandi forni a temperatura ed atmosfera costanti), sia che si trattidi manufatti pregiati (sigillate), sia d'uso comune, che spesso usufruirono di questo tipo diorganizzazione produttiva (anfore, olpi, lucerne ecc.)1. È difficile stabilire se esisteva nelTardoimpero un'organizzazione locale di tipo artigianale, nel senso medievale del termine, poichéanche molte ceramiche comuni di tipo grossolano presentano forme standardizzate e diffusione dimercato in grandi aree. In compenso è documentata una produzione quasi casalinga delle grandiville rurali2.L'approfondimento di questa stratificazione della produzione del Tardoimpero sarebbe ovviamentemolto importante per capire le ceramiche dell'Altomedioevo. Quando si parla quindi di continuità odiscontinuità, almeno in campo ceramico, si dovrebbe precisare di quali aspetti della complessaproduzione tardoantica si intende parlare. È evidente che l'intera organizzazione romana noncontinua nel Medioevo. È facile d'altra parte ipotizzare che il danno peggiore sia derivato aiprodotti di tipo industriale a causa del diminuito o mancato mercato; la loro produzione tuttaviacontinuò a sopravvivere per molti secoli nel Nord-Africa e nel Mediterraneo orientale. da dovecontinuarono ad esempio a provenire, anche in Liguria, fino al Tardomedioevo, anfore scanalate, edove, pur mutando le forme, le tecniche romane vennero ereditate dal mondo arabo.È certo, comunque, che insieme all’organizzazione industriale scompare, per non più ricomparire,la tecnica delle vernici sintetizzate, propria delle sigillate. Le loro imitazioni (in alcune forme e nelcolore) continuano forse anche oltre ai secoli VI o VII. ma prive della caratteristica vernice3.Una vera continuità della produzione industriale romana (sia comune, sia pregiata) nelle rozzeceramiche altomedievali. si può vedere in alcune forme tardoimperiali che persistono per moltisecoli, come il boccale trilobato a basso ventre ed ansa schiacciata4 ed il catino tronco-conico oemisferico. Mentre la seconda è una forma elementare, e perciò la continuità potrebbe esserecasuale, il boccale trilobato costituisce invece una delle forme atte alla mescita delle bevande, che,diffusasi nel Tardoimpero, si può documentare quasi continuamente fino al Tardomedioevo ed aigiorni nostri. I vuoti altomedievali sono dovuti alla mancanza di scavi. I vasi a fiasco, invece, che 1 Cfr R. C. A. Rottländer, Is a provincial-roman Pottery standardized? "Archeometry", 9 (1966),pp. 76-91, e 10 (1967), pp. 35-47.2 Lo studio tecnologico e tipologico di queste fabbriche minori purtroppo è ancora da fare.3Si può anche ritenere di derivazione romana la pittura in ocra rossa applicata su certe ceramiche medievali. anche perla sua precoce comparsa in Renania. regione nella quale le sigillate provinciali tardoromane presentano una lungasopravvivenza, cfr I Hurst. Red-painted and glazed Pottery in Western Europe "Medieval Archaeology". XIII (1969).pp qs 110. 112. ma finora non è stato dimostrato che si tratti di vernici sinterizzate e quindi della continuità dellaautentica tecnica romana. Altri tipi dipinti con ocra rossa sono di origine mediterranea (Spagna, Bisanzio, Italiameridionale), sarebbe perciò importante stabilire a quale gruppo appartengano i reperti liguri.4 Si notano in realtà tre tipi di sezione dell'ansa, dovuti a diverse tecniche di foggiatura: sezione asella (foggiatura al tornio), prevalente nei boccali tardoromani o del XII-XIII secolo; sezioneappiattita (a nastro), nei boccali depurati altomedievali; sezione ellittica (a mano), nei boccaligrezzi.

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assieme ai boccali costituiscono i prodotti tecnicamente migliori dell'Altomedioevo, si possonoritenere derivati dalle olpi per perdita dell'ansa.Una certa tendenza alle decorazioni ottenute durante la tornitura (striature dritte e ondulate), ostampigli geometrici, che si potrebbero ritenere di influenza barbarica, ma già ben sviluppata nellaceramica romana del IV secolo, tende a continuare nel Medioevo.Una estinzione, di valore non trascurabile sul piano del costume e dell'economia domestica, si puònotare invece per quanto riguarda le funzioni del vasellame. Scompaiono ad esempio con lesigillate i servizi ricchi di forme destinate ai vari usi della mensa, e con essi piatti, scodelle e vasipotori individuali5.Il motivo principale per il quale si può dunque parlare di continuità della produzione romana è chefino al secolo XII non sembra comparire nulla di nuovo dal punto di vista ceramico, ma si può solotenere conto di ciò che scompare.

2. L'esistenza in età romana di un substrato locale per quanto riguarda i vasi ceramici di tradizionepreistorica, come le olle e i cinerari, non si può certo negare, anche se in alcune regioni dove letecniche locali si sono maggiormente evolute, probabilmente a contatto con nuove fabbriche di tipoindustriale, tali prodotti non presentano più tipici aspetti primitivi. In Liguria, in particolare, dovepraticamente la tornitura è stata introdotta soltanto con la romanizzazione, la produzione locale èben distinguibile anche in età romana (la cosiddetta «rozza terracotta locale»)6. E probabile che,dato il nuovo assesto dell'economia, anche la diffusione dei prodotti locali subisca in tale periododelle variazioni: certe forme degli orli delle olle, e soprattutto le analisi mineralogiche, dimostranol'esistenza di mercati municipali e regionali; tuttavia aree di produzione e di diffusione dellaceramica indigena esistevano già in età preromana7.Il recipiente tipico che va collocato nel fılone del substrato locale è l'olla. Di questa formaelementare si conosce una serie di tipi abbastanza continua che va dall'età del Ferro fino al secoloXIII per i centri urbani e XV per le aree ad economia chiusa della montagna. I vuoti nella serie siriferiscono all'Altomedioevo, non già perché le olle abbiano subìto un'interruzione, ma per lamancanza di livelli datati negli scavi medievali finora effettuati. Se si escludono alcuni esemplarimolto grossolani foggiati a mano che indicherebbero il ritorno in una fase dell'Altomedioevo dialmeno una parte della produzione locale a livelli preistorici, i rimanenti prodotti indicanol'esistenza di mercati regionali e subregionali, all'interno dei quali le olle, come già in età imperiale,presentano tipiche materie prime e forme costanti.Si è già in parte parlato dei catini tronco-conici ed emisferici privi di rivestimento, vasi molto menofrequenti delle olle. Non sono per ora documentati dal VII all'XI secolo, ma probabilmentesostituiscono le forme analoghe della produzione industriale tardoromana e scompaiono conl'introduzione di forme aperte da tavola di classe superiore (invetriate, ingobbiate). Le loro grandidimensioni e la mancanza di tracce di fuoco, che conferma l'uso da tavola, potrebbero significare

5 Le ultime forme delle stesse sigillate e loro imitazioni sono ovunque costituite solo da catiniemisferici e tronco-conici: J. W. Hayes, Late roman Pottery, Roma 1972, G. Bass, Un avventurosoviaggio commerciale bizantino, "Le Scienze", 39 (1971), p. 28; G. Fingerlin, J. Garbsch, J. Werner,Gli scavi nel castello longobardo di Ibligo-lnvillino (Friuli). Relazione preliminare delle campagnedel 1962, 1963 e 1965, "Aquileia Nostra", XXXIX (1968), p. 117; I. Baldassarre, Le ceramichedelle necropoli longobarde di Nocera Umbra e Castel Trosino, "Alto Medioevo", I (1967), figg. 3 e10.6 N. Lamboglia, Gli scavi di Albintimilium e la cronologia della ceramica romana , parte I,Bordighera 1950. La persistenza della produzione indigena è ovviamente maggiore nelle areemontane che hanno resistito più a lungo alta penetrazione romana (M. Leale Anfossi, Una stipevotiva (?) a Caprauna, "Rivista Ingauna Intemelia", XVII (1962), pp. 56-8.7 T. Mannoni, La ceramica dell'età del Ferro nel Genovesato , "Studi Genuensi", VIII (1970-71),pp. 3-26.

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l'introduzione nella mensa di un unico tipo di recipiente, forse ad uso collettivo. Un riaffioramentodel substrato preromano si può invece vedere nelle ciotole ad impasto vacuolato.Per i cosiddetti "testi" non si può parlare di substrato locale in quanto non sono mai stati trovati fra ireperti di età romana, mentre i rari esemplari, di incerta funzione, appartenenti all'età del Ferro nonsono tali da permettere una ipotesi di riaffioramento culturale. Abbastanza chiaro è invecel'abbinamento di questi primitivi strumenti per la cottura di farinacei all'economia agricolamedievale dell'Appennino orientale funzione che probabilmente ha determinato dopo il primo tipoaltomedievale foggiato con terra delle olle, l'uso di una terra speciale, uso che è continuato fino aigiorni nostri con piccole varianti nelle forme dei bordi e nelle tecniche di foggiatura8.Postmedievale sembra invece per ora l'origine del testo grande da pane.

3. Sulla ceramica longobarda esistono ricerche esaurienti e specializzate9, e proprio per questo èpossibile affermare che non sono stati fino ad oggi rinvenuti in Liguria oggetti tipici di taleproduzione (vasi con decorazioni a "stralucido" o stampigliatura)10. Ma evidentemente la ceramicaprodotta direttamente dai Longobardi in Italia, con tecniche decorative di tradizione protostoricache già in Pannonia venivano applicate su forme di influenza romana, non può esaurire il problemadella produzione dei secoli VI-VIII. Anzi proprio la mancanza di tali prodotti in Liguria, se verràconfermata da successivi scavi altomedievali, starebbe a confermare che forse i Longobardi stessiavevano già abbandonato la loro ceramica tradizionale nella metà del VII secolo, quando hannoappunto occupato la Liguria. L'interesse principale va quindi rivolto alla produzione romana di etàlongobarda, che anche fuori della Liguria è più frequente della ceramica longobarda vera epropria11, utilizzando quest'ultima per il suo valore cronologico più preciso.D'altra parte la ceramica altomedievale italiana non sembra aver subito particolari influenze dallaproduzione longobarda in quanto le forme (boccali, "fiaschi", catini ed olle) possono derivare, invario modo, come si è visto, dalla produzione industriale romana e dal substrato locale; gli stessivasi a fiasco longobardi non derivano da una tradizione protostorica (né formale, né funzionale),ma sembrano un'interpretazione semplice, priva di ansa, dei "versatoi" a basso ventre delTardoimpero, e perciò assai vicini ai vasi a fiasco locali. Ma mentre questi ultimi presentanoreminiscenze di una tecnica industriale e decorazioni a striatura frequenti nei prodotti d'uso comunedel Tardoimpero, i "fiaschi" longobardi presentano tecniche di impasto, cottura e decorazione(stralucido e stampigliatura) di tradizione protostorica. Se dunque un'influenza barbarica vi è stata,

8 Per la produzione dei "testi" non necessita un artigianato organizzato, ma essa è tradizionalmenteinserita nelle attività complementari dei contadini; che ne fanno anche un modesto commerciolocale, in proposito cfr. T. Mannoni, Il "testo" e la sua diffusione nella Riviera di Levante,"Bollettino Ligustico», XVII (1965), pp. 49-64. Ciò nel Medioevo era possibile anche per le olle ecatini foggiati a tornio lento con la stessa terra di gabbro usata per i "testi", e che presentano inoltreuna cottura non elevata e poco uniforme, tipica delle fornaci "a catasta". Meno probabile sembral'ipotesi dei "vasai erranti", in quanto le fornaci da laterizi non sono documentate in Liguria primadel XIII secolo e ad esse si dovrebbero attribuire comunque prodotti con cottura migliore. Unaconferma, invece, della prima ipotesi si può vedere in una importante fonte medievale a propositodelle attività dei contadini nel mese di dicembre: "e si possono far le corde de' vimini, le ceste, legabbie e molti altri arnesi, e stovigli di bisogno" (Trattato della Agricoltura di Piero de' Crescenzi,Milano 1805, p. 328).9 Si tratta praticamente di caratteristici vasi per bere: "fiaschi", boccali e bicchieri (O. von Hessen,Die Langobardische Keramik aus Italien, Wiesbaden 1968).10 Due frammenti problematici provenienti dagli scavi di Genova S. Silvestro sono attribuibili alperiodo protostorico.11 I vasi longobardi sono predominanti nei corredi sepolcrali della Pianura Padana e del Friuli,meno frequenti rispetto alla produzione romana nei centri urbani della stessa area, rari, anche neicorredi sepolcrali, nell'Italia centrale.

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essa è sul piano decorativo, già presente nella ceramica tardoromana (stampigliature); rapporto chepotrebbe però anche essere inserito nella tendenza generale del gusto estetico tardoanticoall'astrazione geometrica. Ma l'influenza si nota in senso contrario nelle forme e, quello che piùconta per l'archeologia, non tanto sul piano estetico, ma funzionale.Un'altra variante barbarica del versatoio tardoromano è il "pegau" francese, che si collega ai boccalilaziali con beccuccio di età carolingia e posteriore, ma anch'essa manca nei reperti liguri12 .

4. Credere che l'enorme ribasso qualitativo e quantitativo subìto dalla ceramica nell'Altomedioevosia tutto da imputarsi ad un deterioramento eccessivo dell'economia in generale, e piùspecificamente di quella domestica, potrebbe essere poco aderente alla realtà, anche sulla base deglistessi dati di scavo. Le percentuali della pietra ollare e del vetro, ad esempio, fra i repertiarcheologici di questo periodo sono molto alte rispetto a quelle di periodi ricchi di buona ceramica.A ciò fanno riscontro le informazioni provenienti dagli inventari patrimoniali dei secoli XII-XIII(molto rari sono quelli altomedievali, ed inesistenti in Liguria), i quali segnalano, oltre a qualcherecipiente di terra, altri in pietra, metallo (rame, ferro), vetro e legno; i primi da fuoco ed i secondi,ovviamente, da tavola )13. È noto però che i metalli sono sempre stati riutilizzati, il legno può esserebruciato e comunque molto raramente si conserva nei depositi archeologici, lo stesso vetro venivain buona parte rifuso, come hanno dimostrato gli scavi delle vetrerie medievali14. E di ciò bisognatenere conto nelle valutazioni quantitative rispetto alla ceramica.Per il vetro e per la pietra ollare, dei quali si conoscono come si è detto i reperti di scavo, si puòd'altra parte parlare di una continuità dal periodo imperiale. I bicchieri a calice cilindrico su basso etozzo stelo ne sono una prova15; un mutamento nella tipologia dei bicchieri si nota solo a partire dalXII secolo con il sopravvento delle forme cilindriche apode a fondo rientrante, legate al diffondersidelle vetrerie forestali. Per la pietra ollare si nota per primo, rispetto al Tardoimpero, unassottigliamento delle pareti, mentre il fondo rimane piano e spesso16; in età comunale anche ilfondo si fa sottile e convesso mentre le dimensioni dei recipienti aumentano fino a raggiungerequelle dei lavezzi in pietra moderni. Andrebbe inoltre appurato se anche i recipienti da fuoco inmetallo siano stati largamente usati nel periodo tardoantico17.

12 La Liguria ha sempre fatto parte dell'area di diffusione del boccale a bocca trilobata, come lamaggior parte delle altre regioni italiane, escluse cioè le regioni meridionali per i periodi dominatidalle produzioni bizantina e araba (nelle quali la bocca trilobata è praticamente assente), se quellepadane per la produzione longobarda, mentre il Lazio, a partire dall'età carolingia, fa parte, come lamaggior parte dell'Europa, dell'area del boccale con bocca rotonda spesso fornita di un beccuccioapplicalo in una delle sue varie forme: a cannone, schiacciato, incorporato al bordo.13 L. Mannoni Sorarù, G. Barbero, Recipienti domestici medioevali negli inventari notariligenovesi, in Atti VI Convegno Internazionale della Ceramica, Albisola 1973, pp. 43-66.14 T. Mannoni, A medieval glasshouse in the Genoese Apennines , Italy, "Medieval Archaeology",XVI (19721, p. 143s. Gli stessi venditori di oggetti di vetro hanno sempre raccolto i vetri rotti perla rifusione.15 Essi probabilmente cominciano a sostituire già nel periodo tardoromano i caratteristici bicchieriin ceramica, che nelle ultime sigillate mancano completamente.16 I piccoli recipienti subcilindrici in pietra ollare rinvenuti a Luni (A. Frova, Scavi di Luni , Roma1973, tav. 75) sono molto simili a quelli di altri siti altomedievali (Castelseprio, Invillino eTorcello).17 A questo fine informazioni positive sembrano provenire dall’archeologia sottomarina. G. Bass.Un avventuroso viaggio cit. p. 28.

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Per il legno, oltre agli inventari domestici, esistono importanti documenti commerciali della primametà del XIII secolo che attestano l'esportazione da parte dei "tornitori" liguri in Sardegna, Siciliae NordAfrica di scodelle, conche, taglieri e mortai per diverse migliaia di pezzi18.Se l'abbandono dei complessi servizi da tavola dell'Impero segna almeno nella maggior parte dellefamiglie, un mutamento nel costume, la funzionalità dei recipienti comuni non sembra dunquecompromessa dal decadimento della ceramica in quanto essa viene rimpiazzata da altre materie piùfunzionali. La porosità e la scarsa resistenza alle escursioni termiche delle olle altomedievali nonrendono certo questi prodotti più utili in cucina dei lavezzi di pietra19 o dei poinoli di rame, questiultimi però certamente più costosi anche se assai più durevoli. Lo stesso vale forse per i boccali ecatini grezzi rispetto al legno e al vetro. Questi fatti provano però che non tutte le tecniche sonodecadute (metalli e pietra ollare richiedono tra l'altro materie prime meno usuali), e che forse nonbastano le consuete considerazioni sul diminuito commercio e consumo per spiegare il fatto che unartigianato locale non abbia potuto ereditare dall'organizzazione industriale romana certe tecnicheper produrre ceramiche funzionali. Forse lo stesso artigianato non è derivato dall'organizzazioneproduttiva romana, ma dai vasai delle ville, da una mai spenta tradizione protostorica locale.D'altra parte la stessa produzione altomedievale, pur nella sua semplicità, presenta, sotto certiaspetti, una diffusione in larghe aree, e spesso le forme sono simili in regioni diverse dell'Europa,dal che si potrebbe dedurre che i modelli circolavano anche in questo periodo, ed il costume dellagente comune era molto simile ovunque20. Solo nei particolari più intrinseci come gli impianti sinotano le influenze delle barriere locali alla diffusione di merci21.È dunque difficile al momento attuale stabilire perché una decadenza della ceramica si instauristabilmente e soprattutto si protragga così a lungo, anche quando cioè, con la prima età comunale,tutte le attività risentono di un miglioramento. Ciò è difficile da spiegarsi se non pensando che unaradicata tradizione tecnologica, di produzione e di consumo, di recipienti funzionali non ceramiciabbia ritardato il riaffermarsi di buone tecniche ceramiche e quindi il largo consumo dei loroprodotti.È solo verso il XII secolo che i vasi comuni si fanno più sottili (terre selezionate), ben torniti e bencotti. Le olle assottigliano il fondo, che si fa convesso e, eliminando le difformità di spessore delpiede, diventano più resistenti agli sbalzi di temperatura. Compaiono i tegami con fondo analogo,ed entrambi presentano le prime impermeabilizzazioni interne con invetriatura, costituendo i primiesemplari di pentolame invetriato da fuoco così come è giunto fino ai giorni nostri. Quali siano ifenomeni che hanno prodotto queste rapide trasformazioni è difficile da stabilire. La pietra ollare edil rame non scompaiono, come attestano gli scavi e gli inventari notarili, mentre i prodotti grezzi siattardano solo nelle aree economicamente isolate, ultimi rappresentanti di una produzionemillenaria.

18 N. Calvini, E. Puizulu, V. Zucchi, Documenti inediti sui traffici commerciali tra la Liguria e laSardegna nel secolo XIII, I, Padova 1957, R. S. Lopez, L'attività economica di Genova nel marzo1253 secondo gli atti notarili del tempo, "Atti della Società Ligure di Storia Patria", LXIV (1935),pp. 163-270.19 Ciò è ancora valido, come è già stato detto, nel XVI secolo.20 In tutti i paesi europei non soggetti agli Arabi e a Bisanzio fino al secolo XII, ed anche al XIII,predominano ceramiche locali prive di rivestimento, più o meno grezze, costituite da olle, catini eboccali. Talvolta le somiglianze formali si spingono, forse casualmente anche ai dettagli, come sipuò constatare, ad esempio, confrontando le olle liguri tipo 13 e quelle coeve del Friuli, cfr.Fingerlin, Garbsch, Werner, Gli scavi, cit., fig. 15.21Il maggiore frazionamento subregionale si constata in Liguria per i prodotti foggiati a tornio lento,attribuibili ai secoli X-XII, periodo nel quale la Liguria è divisa in marche, mentre si vannoaffermando da una parte i comuni e dall'altra le aeree feudali.

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5. L'invetriatura costituisce certamente una tecnica semplice ed efficace per migliorare leprestazioni e talora anche il pregio estetico della ceramica; perciò si dà una certa importanza al suoruolo nel Medioevo. Essa, già usata in età romana, pare certamente presente in Italia negli ultimisecoli del primo millennio22, ma il suo impiego generalizzato si ha solo dopo il Mille. Diversipareri, talora con accenti polemici, sono stati espressi sulle invetriate dei secoli VI-VIII, per i qualisecondo alcuni autori non si avrebbero ritrovamenti sicuri, secondo altri invece latradizione romananon avrebbe mai subìto soluzione di continuità23. In realtà gli esemplari portati ad esempio daisostenitori della continuità sono pochi e tipologicamente legati alla produzione tardoromana, tantoda comprendere i dubbi di chi li ritiene oggetti riutilizzati. Ma anche accettando la versione dellacontinuità, la ceramica invetriata altomedievale non sembra costituire un prodotto diffuso, chegiuoca quindi un ruolo importante nell'ambito della cultura materiale, rispetto alla costanteproduzione di ceramica grezza e priva di rivestimento. Ciò, al di sopra di ogni polemica retorica,resta probabilmente il fatto fondamentale confermato dalla irregolare distribuzione delle stesseinvetriate altomedievali, la maggiore continuità delle quali è forse da ricercare in alcune aree dellaPianura Padana24.Per quanto riguarda la Liguria, in particolare ad Albenga e Ventimiglia, si nota nel Tardoimpero uncrescente impiego dell'invetriatura per recipienti di uso comune, in contrasto con le rare e pregiatecoppe decorate in rilievo dell'Altoimpero. Probabilmente alcuni grossolani prodotti invetriati deilivelli altomedievali possono rappresentare materiali rimaneggiati, ma anche la continuazione delleinvetriate tardoromane. Resta pur sempre difficile, in tal caso, spiegare come una tecnica, che haconferito nel Tardoimpero una maggiore funzionalità ai vasi ceramici da fuoco, possa essere stataapplicata anche nell'Altomedioevo senza mantenere questa sua importante funzione, mentre, comeè stato esposto nel paragrafo precedente, la pietra ollare ed il rame hanno ampliamente sostituito leolle grossolane fino all'introduzione nel XIII secolo della invetriatura del pentolame da fuoco. Forsegli stessi vasi da fuoco invetriati tardoromani costituiscono il primo passo di un mutamento neirecipienti da cucina, che culmina con il loro completo decadimento nell'altomedioevo.Non si deve neppure pensare che l'esistenza di un'arte vetraria, con altra origine, svolta in ambientie con procedimenti spesso diversi da quelli della invetriatura della ceramica, debbanecessariamente avere influenzato l'arte ceramica decaduta ad attività minore, e della migliorefunzionalità della quale probabilmente non si sentiva bisogno perché sostituita da altri materialifunzionali.A Genova e a Savona d'altra parte si sono scavati livelli altomedievali assolutamente privi diceramiche invetriate. Rari sono comunque per ora in Liguria reperti sicuramente classificabili nelleinvetriate altomedievali di tipo laziale. I primi prodotti invetriati che compaiono agli inizi delsecondo millennio mostrano fomme da tavola ed un livello tecnologico generale assai superiore allaproduzione locale priva di rivestimento essi sembrano provenire dal Nord-Africa. Una continuitàdella invetriatura del periodo romano esisterebbe dunque in tutti i modi attraverso la mediazionemediterranea.

22 Nonostante il diffondersi degli scavi medievali il gruppo nettamente più importante di invetriate databili prima delMille rimane ancora quello del Foro Romano, cfr. B. Boni, Locus Juturnae, "Notizie Scavi", 1901; D. Whitehouse,Forum Ware, "Medieval Archaeology", IX (1965), pp. 55-63; O. Mazzucato, La ceramica a vetrina pesante, Roma1972.23 G. Ballardini, L'eredità ceramistica dell'antico mondo romano, Roma 1964; D. Whitehouse, Themedieval glazed pottery of Lazio, "Papers of the British school at Rome», XXXV (1967), pp. 40-86. D Whitehouse, Nuovi elementi per la datazione della ceramica a vetrina pesante, "ArcheologiaMedievale", VIII (1981), pp. 583-7. D. Manacorda e altri, La ceramica medioevale di Roma nellastratigrafia della Cripta Balbi, in La ceramica medievale nel Mediterraneo Occidentale, Firenze1986, pp. 511-44.24 Le invetriate altomedievali sembra che siano molto frequenti, ad esempio, a Castelseprio.

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6. Uno dei meriti degli scavi di archeologia medievale degli ultimi decenni è stato quello disegnalare come alcuni tipi di pregiate ceramiche islamiche, più raramente bizantine, databili aisecoli XI-XIII, e già conosciute in Italia perché inserite come ornamenti architettonici sulle facciatedi chiese o altri edifici pubblici, i cosiddetti "bacini", siano presenti anche nei rifiuti domestici,denunciandone perciò un uso diverso da quello già noto.Le tecniche impiegate nella fabbricazione di tali prodotti esotici (ingubbiature bianche, smaltaturebianche o vivamente colorate, decorazioni dipinte policrome e a lustro metallico, oppure graffite),ma soprattutto la costante presenza di ricchi motivi decorativi, sia astratti, sia figurati, creano neisecoli XI-XII un incolmabile distacco dal livello delle produzioni locali, non solo liguri e italiane,ma di tutta Europa, ancora confinate nelle ceramiche grezze e prive di rivestimento, o, al massimo,con una invetriatura monocroma a decorazioni plastiche ottenute in foggiatura. Il distacco è tale danon permettere in tale periodo tentativi di imitazione locale, di fatto finora non identificati, e daspiegare la meraviglia che certe ceramiche islamiche e bizantine debbono avere destato nei primieuropei che nel corso dell'XI e soprattutto nel XII secolo, a seguito delle prime crociate e di attivitàmarinare, cominciavano a frequentare il Mediterraneo. Da ciò è facile quindi immaginare come i"bacini" costituissero rari oggetti esotici da portare in patria come trofei, ricordi o doni, e ciò forseanche da parte di mercanti intenzionati a crearne un mercato25.La Liguria, e Genova in particolare, che certamente, per il ruolo preminente svolto nella riconquistapolitica e mercantile del Mediterraneo sin dai primi tempi, sono state fra gli intermediari dellepregiate ceramiche islamiche o bizantine, non ne hanno destinato ai propri monumenti che pochiesemplari rispetto, ad esempio, a Pisa e Pavia. I "bacini" islamici decorati in Liguria sono infattilimitati ad una decina, e collocati sull'abside di S. Paragorio di Noli e sulla facciata di S. Ambrogiovecchio di Varazze26; non è possibile stabilire purtroppo a quale tipo e periodo appartenesseroquelli mancanti sulla facciata di S. Stefano e sulla torre nolare di S. Donato a Genova. Anche iframmenti provenienti dagli scavi sono legati a palazzi preminenti, come quelli vescovili o digrandi famiglie di Genova e Savona; anche se un inventario della metà del XII secolo elenca unascutellam pictam de Almeria in una modesta famiglia mercantile27. I tipi presenti in Liguriaprovengono prevalentemente dal Mediterraneo occidentale (invetriate o smaltate dipintemagrebine), più raramente da quello centro orientale, sono piuttosto rari finora i "lustri" egiziani ele graffite bizantine.L'importazione delle rare ceramiche esotiche dei secoli XI-XIII stabilisce probabilmente un gustoed una consuetudine nelle classi agiate che non cessano anche quando nei secoli successivi laproduzione locale si evolve tecnicamente e stilisticamente. Soprattutto il commercio genovesedelle "ispano-moresche" di Malaga, delle quali Genova ha il monopolio, ed anche di Valenza, neisecoli XIV e XV assume volumi giganteschi, a giudicare sia dai reperti di scavo per quantoriguarda il mercato interno sia dalla documentazione scritta per quanto riguarda quello esterno28. Si

25 Mercanti salernitani, amalfitani e caietani, che sono i primi a realizzare gli itinerari commercialitra il Mediterraneo e il Tirreno fino a Pisa, e l'Adriatico fino a Pavia, offrono doni in quest'ultimacittà agli inizi dell'XI secolo (A. Solmi, Onorantiae Civitatis Papiae, informazione di G. Rebora).26 Comunicazione non pubblicata di H. Blake, F. Aguzzi e T. Mannoni al III ConvegnoInternazionale della Ceramica di Albisola (1970); si veda anche: D. Whitehouse, La Liguria e laceramica medievale nel Mediterraneo, in Atti IV Convegno Internazionale della Ceramica,Albisola 1971, tav. I.27 Secondo il Vitale il testatore è un oste, forse di origine catalana o provenzale, molto interessatoall'ambiente delle Crociate, che potrebbe avere partecipato alla presa di Almeria avvenuta diecianni prima del testamento (cfr. V. Vitale, Vita e commercio nei notai genovesi dei secoli XII e XIII,"Atti della Società Ligure di Storia Patria", LXXII (1949), p. 90.28 Sui motivi storico-economici che hanno determinato l'esplosione commerciale delle "ispano-moresche", e sul pesoesercitato da Genova su tale fenomeno (spesso i documenti chiamano le ceramiche spagnole «genovesche») si veda: G.Rebora, La ceramica nel commercio genovese alla fine del Medioevo, "Studi Genuensi", IX (1972), pp. 87-93.

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potrebbe persino pensare, almeno per il tipo tardo di Malaga poco documentato altrove, ad unaimitazione speculativa, ma le analisi degli impasti confermano l'uso di terre spagnole.

7. Con i "bacini" decorati dei secoli XI-XII sulle chiese si trovano spesso scodelle monocromeverdi, corrispondenti per i caratteri tipologici e tecnologici alle invetriate verdi che si trovano neilivelli archeologici dello stesso periodo, e che le analisi mineralogiche indicano come provenientidal Mediterraneo orientale, dal Nord-Africa e dal sud della Spagna, paesi nei quali le monocromeverdi sono state forse assai più frequenti di quanto si può dedurre dalle grandi monografie ispiratealla stilistica29. È questo un accertamento che andrebbe fatto su larga scala e, se l'indicazionearcheologica ligure venisse confermata, le monocrome verdi potrebbero rappresentare la primaconsiderevole corrente di importazione di ceramiche d'uso e ad essa si potrebbe attribuirequell'influenza che giustifica l'improvviso sviluppo nel secolo XIII della invetriatura sui vasicomuni di produzione locale. Non va dimenticato che Genova è già massicciamente presente nelMediterraneo occidentale nel XII secolo30, e che poteva quindi essere, assieme a Pisa, il veicolo ditale corrente.Negli scavi stratigrafici di Genova e di Savona le scodelle verdi di importazione, assieme a scodellecon ingubbio e vetrina monocroma di colore paglierino ("ingobbiata chiara"), costituiscono di fattoi primi vasi da tavola ed anche i primi prodotti invetriati che compaiono a fianco alla monotonaserie altomedievale di olle, boccali e catini privi di rivestimento.Nel XIV secolo, o forse già nel XIII, si constata una imitazione locale delle "invetriate verdi" datavola, il "servizio verde". Esso è alquanto rozzo, principalmente costituito da catini tronco-conicicon tesa, ancora destinati all'uso collettivo.Per l"'ingubbiata chiara" non vi sono per ora evidenti indicazioni sulla provenienza, ma la parentelatipologica più prossima si può stabilire con analoghi prodotti dell'ambiente bizantino31; le analisimineralogiche escludono i componenti tipici del Nord-Africa e della Spagna meridionale, e nonescludono, per il tipo più tardo, una produzione locale.Un fatto significativo dal punto di vista del costume domestico è che le prime ceramiche d'usoimportate sono recipienti da tavola (piatti e scodelle), praticamente assenti nella attardataproduzione ceramica altomedievale, e che a partire dal XII secolo, almeno nell'ambiente urbano ilservizio ceramico da tavola, in base ad una globale valutazione dei reperti di scavo, si sviluppa, siaqualitativamente sia quantitativamente con una tendenza ai colori chiari e bianchi che costituisconoun fatto nuovo nelle stoviglie dei paesi europei.

29 G. Marçais, Les poteries et faïences de la Qal'a des Benì Hammâd . Costantina 1913. L. Llubiá,Ceramica medieval espofiola, Barcellona 1967, documenta solo forme chiuse alle quali si puòmettere in relazione il tipo 26. Per le invetriate islamiche si veda anche: H. Blake, La ceramicamedievale spagnola e la Liguria, in Atti V Convegno Internazionale della Ceramica, Albisola 1972,p. 57s. D'altra parte invetriate verdi nei secoli Xl-XII si trovano ovunque nel Mediterraneo, cfr.Whitehouse, La Liguria cit., p. 269s. D.Cabona, A. Gardini, O. Pizzolo, Nuovi dati sullacircolazione delle ceramiche mediterranee dallo scavo di Palazzo Ducale a Genova, in Laceramica medievale nel Mediterraneo Occidentale, Firenze 1986, pp.453-82.30 A1 1088 data il sacco di Mehdìa ed i connessi accordi commerciali, al 1136 l'incursione e ilconseguente fondaco genovese di Bugia; al 1146-48 la conquista di Almeria e Tortosa, al 1149 ilfondaco di Valenza, cfr. A. Schaube, Storia del Commercio dei popoli latini del Mediterraneo sinoalla fine delle Crociate, Torino 1915, p. 386; T. O. De Negri, Storia di Genova, Milano 1968, pp.211 e 260. Il rinvenimento di giare islamiche occidentali si può mettere in relazioneall'importazione di merci in esse contenute.31 G. Brett, W. J. Macaulay, R. B. K. Stevenson, The Great Palace of the Byzantine Emperors, FirstReport, Oxford 1947, pp. 31-63. Si veda anche: Whitehouse, La Liguria, cit., pp. 269-70.All'«ingubbiata chiara» si possono associare le invetriate tipo 35a.

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Un tipo che ha conferito un netto impulso a tale sviluppo, e che per primo ha anche introdottoforme decorate d'uso, è la "graffita arcaica". La sua stretta parentela tipologica, stilistica ecronologica con le graffite policrome del XIII secolo rinvenute nei castelli crociati del MedioOriente32 (a Pisa e in Provenza la graffita arcaica si data a partire dal secondo quarto del XIIIsecolo)33, e la mancanza di rapporti immediati con le graffite islamiche e bizantine 34, possono farpensare ad un tipo occidentale del quale non si conoscerebbe l'origine (le graffite mancano tral'altro nei paesi islamici occidentali), oppure ad un prodotto dei vasai mediorientali assoggettati airegni crociati, in seguito imitato o fabbricato dagli stessi vasai in Occidente. La seconda ipotesispiegherebbe l'origine del tipo, anche le differenze esistenti tra la "protograffita" e la "graffitaarcaica" padano-adriatica rispetto a quella tirrenica; differenze che, come per i "bacini", indicanoquanto le due diverse vie marittime abbiano avuto più importanza della relativa vicinanza terrestre.I tipi iniziali delle due aree, infatti, sono più diversi tra loro delle relative evoluzioni successive.Una produzione savonese di "graffita tirrenica" è l'unica provata da scarti di produzione e dalleanalisi mineralogiche, ma ancora oscura è la sua data di inizio anche se sicuramente anteriore allametà del XII secolo. Si tratta comunque della prima ceramica prodotta in Liguria con unadecorazione autonoma rispetto alla foggiatura del vaso, la quale può avere dato origine a quellaforma di artigianato, tipicamente medievale, che riunisce nei manufatti la reiterazione dei tipi e deimotivi decorativi ad una certa individualità e freschezza stilistica del singolo prodotto.Mentre la Liguria sembra aver giuocato fin dall'inizio un ruolo importante nell'uso e diffusionedell'"ingubbiata chiara" e della "graffita tirrenica", lo stesso non si può dire per la "maiolicaarcaica" che comincia ad affiancarsi ai tipi precedenti verso la fine del secolo XIII con forme edecorazioni caratteristiche della Toscana35. Anche se la tecnica dello smalto stannifero era già nota

32 C, N. Iohns, Medieval slip-Ware from Pilgrims' Castle Atlit (1930-31) , in The Quarterly of theDepartment of Antiquities in Palestine, III, 1934; A. Lane, Medieval Finds at Al Mina in NorthSyria, "Archeologia", LXXXVII (1938), pp. 19-79. Si veda anche: Whitehouse, La Liguria, cit., pp.271-5. H. Blake, The medieval incised Slipped pottery of north-west Italy, in La ceramicamedievale nel Mediterraneo Occidentale, Firenze 1986, pp. 317-52. I genovesi sono presenti adAntiochia fra il 1098 e il 1268, ma già nel 1065 una loro flotta mercantile scambiava merci neiporti della Siria. Certa sembra pure l'esportazione da Tiro di ceramica e vetro verso l'Occidente.Schaube, Storia del Commercio, cit., pp. 83 e 199; W. Heyd, Le colonie commerciali degli italianiin Oriente nel Medio Evo, Venezia-Torino 1866-1868, pp. 155-71. La "graffita tirrenica" raggiungeanche i centri minori della Liguria coinvolta nelle Crociate, mentre è assente in certe aree isolatecome la Lunigiana.33 G. Berti, L. Tongiorgi, I bacini medievali delle chiese di Pisa , Roma 1981. D. Démiamsd'Archimbaud, Les céramiques médiévales italiennes et la Provence, in Atti III Congresso StoricoLiguria-Provenza (1973) (in corso di stampa). M. Picon, G. Démians D'Archimbaud, Lesimportation de céramiques italiques en Provence médiévale: état des question, in La ceramicamedievale nel Mediterraneo Occidentale, cit., pp. 125-36. La diffusione della graffita arcaicatirrenica sembra legata a territori che hanno avuto molto peso nelle prime Crociate.34 S. Gelichi, La ceramica ingubbiata medievale nell'Italia nord-orientale , in La ceramicamedievale nel Mediterraneo Occidentale, cit., pp. 353-408. I motivi decorativi della graffitaarcaica, pur essendo presenti nelle ceramiche bizantine ed islamiche coeve e più antiche, sono usaticon associazioni, stile e spesso anche tecniche caratteristici che ne fanno una classe indipendentedalle produzioni del Mediterraneo orientale. La forma principale (scodella con tesa ad orlo inrilievo) si direbbe tipica del Mediterraneo occidentale. Prodotti sicuramente bizantini sono invecele anfore scanalate, ma esse sono state molto probabilmente introdotte in Liguria allo stato dicontenitori di merci inviate dalle numerose colonie di Oltremare.35Il boccale a piede svasato del XIV secolo è caratteristico della Toscana meridionale e dell'Umbria(cfr. ad esempio H. Blake, Descrizione provvisoria delle ceramiche assisiane e discussione sullamaiolica arcaica, in Atti IV Convegno Internazionale della Ceramica, Albisola 1971, figg. 6, 7, 21,

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in Liguria nel XIII secolo, essa è solo documentata su laterizi per usi architettonici36; soltanto nelsecolo XIV si nota una diffusione delle stoviglie smaltate, con o senza decorazioni dipinte, e dallafine del secolo è documentata una produzione savonese delle stesse37. Il tipo savonese di "maiolicaarcaica" corrisponde alla tarda produzione pisana38, e costituisce la ceramica più diffusa ecaratteristica in Liguria fino agli inizi del XVI secolo. Non si hanno prove (scarti di fabbrica e daticronologici sicuri) di una presunta produzione locale di Albenga, che sembrerebbe essere piùantica.La "maiolica arcaica" introduce un servizio da tavola completo (sei forme) e, forse anche per la suamaggiore funzionalità, soppianta gradualmente la "graffita arcaica", continuando con l'aiuto delleimitazioni ingubbiate quella penetrazione negli ambienti sociali meno ricchi già iniziata daquest'ultima. Il boccale della "maiolica arcaica" è il primo versatoio di ceramica fine molto diffuso.

8. La Liguria non partecipa attivamente al complesso fenomeno italiano che, sotto lo stimolo dellapregiata ceramica spagnola del XIV-XV secolo, determina l'abbandono della medievale "maiolicaarcaica" per creare una maiolica rinascimentale, ben presto indipendente nella tematica decorativa ecromatica, espressione di un gusto e di una sensibilità originali. Tale fenomeno non sembra ingenere coinvolgere direttamente le città marinare legate ai grandi mercati internazionali.La nuova maiolica italiana, particolarmente quella prodotta nel contado fiorentino39; comparetuttavia subito in Liguria come prodotto di importazione a fianco alla "ispano-moresca", ma senzastimoli o influenze sulla produzione locale, ancora ferma agli schemi medievali; tuttavia la"maiolica arcaica", sempre più povera e solo funzionale in confronto con le ceramiche importate,subisce una continua involuzione stilistica. 26, 27, 29 e 30); esso è abbinato in queste regioni ad un recipiente aperto tronco-conico, che non èoggetto d'importazione in Liguria, e che sembra derivare come forma dai catini grezzi, mentre nella"maiolica arcaica" pisano-ligure le forme aperte derivano da quelle mediterranee della "graffitaarcaica". Per le origini e sviluppo della maiolica arcaica si veda: G. Liverani, La maiolica italianafino alla comparsa della porcellana europea, Milano 1958, pp. 10-3; Whitehouse, La Liguria, cit.,pp. 275-9; Blake, Descrizione, cit., pp. 367-74; G. Berti, L. Cappelli, R. Francovich, La maiolicaarcaica in Toscana, in La ceramica medievale nel Mediterraneo Occidentale, cit., pp. 483-510.36 A. Cameirana, Esempi di prime smaltate a Savona. Il pavimento dell'antico convento di S.Francesco, "Faenza", LIX (1973), pp. 132-7. Si vedano inoltre le piastrelle monocrome.37 Gli scarti di fornace savonesi solo di recente sono stati scavati con metodo e quindi datati archeologicamente (A.Cameirana, Contributo per una topografia delle antiche fornaci ceramiche savonesi, in Atti del II ConvegnoInternazionale della Ceramica, Albisola 1969, pp. 61-72), perciò si assumono come termine post quem per laproduzione della maiolica arcaica savonese i già citati documenti dei vasi pisani operanti a Savona, cfr. F. Noberasco,La ceramica savonese, Savona 1925, p. 5s. I presunti scarti di fabbrica genovesi si riducono per ora ad alcuniframmenti di biscotto.38 Cfr. G. Berti, L. Tongiorgi, Ceramica pisana . Secoli XIII-XV, Pisa 1977. Tenuto conto che lacorrispondenza per molti manufatti si spinge ad una identità, che una produzione genovese non èancora dimostrabile, che quella savonese è tarda, ad opera di pisani e non molto diffusa, si puòpensare che Genova abbia sempre importato maiolica arcaica toscana, prima tramite Pisa, poi daPisa stessa, oramai politicamente piegata e rivolta ad una sopravvivenza mercantile; si tenga contodella quasi inesistenza di vasai nei documenti genovesi di questo periodo rispetto a Pisa: L.Tongiorgi, Pisa nella storia della ceramica, I e II, "Faenza", L (1964), pp. 125-39 e LVIII (1972)pp. 3-24. Le forti importazioni possono anche trovare una spiegazione economica nella"rivoluzione dei trasporti" verificatasi alla fine del XIV secolo (Rebora, La ceramica, cit., p. 88), ecostituirebbero la premessa di quelle certamente provate del XVI secolo.39 Cfr. G. Cora, La maiolica di Firenze e del contado, Firenze 1973. Questa merce,assieme a qualche pezzo di "maiolicaarcaica" fiorentina, passa evidentemente per Pisa, che dagli inizi del XV secolo è sotto il dominio fiorentino, e che,come si è detto, probabilmente già esporta a Genova la propria "maiolica arcaica". Anche i tipi successivi di maiolicaitaliana, e cioè della seconda metà del XV secolo e della prima del XVI, sono sempre toscani e in massima parte diMontelupo.

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Dal secondo quarto del XV secolo al primo del XVI si ha di conseguenza in Liguria un periodoparticolarmente ricco di tipi ceramici, stratificati in classi di diverso valore. Con l'avvento dellamaiolica italiana non cessa il commercio delle ceramiche spagnole, che a Genova sembranoarrivare per tutto il periodo, con tipi che non rispecchiano più lo splendore del periodo precedente,ma ancora molto usati. Alla "maiolica arcaica" tarda si accompagnano gli ultimi prodotti dellalocale "graffita tirrenica" e le graffite policrome di tipo padano40, che assieme costituiscono unaclasse meno pregiata. Una classe locale a parte è costituita dalla "graffita monocroma",probabilmente primo tipo di una serie di ceramiche conventuali che si evolve nel periodosuccessivo. Restano infine i prodotti da tavola ingubbiati ed invetriati monocromi ed il pentolameinvetriato da fuoco che presenta tipi standardizzati e molto diffusi. Naturalmente l'intera serie èpresente solo nelle città e nei castelli, mentre nelle campagne compaiono solo le classi più povere.Al vasellame va inoltre aggiunto l'abbondante commercio ed uso di piastrelle da rivestimentospagnole, che in questo periodo passano dalla monocromia alla decorazione policroma "a cuenca"41.Genova, che raggiunge nel XV secolo una estesa organizzazione mercantile di tipo moderno e checompleta praticamente la sua espansione territoriale sulla Liguria42, e in particolare la sua classemercantile, non sembra in un primo tempo favorire la produzione di una propria ceramica originale.E quando, nel secondo quarto del XVI secolo, cento anni in ritardo rispetto ai principali centri dellamaiolica italiana, decide di creare una propria produzione di maiolica, se utilizza per le innovazionitecniche ceramisti dell'Italia centrale43, per i caratteri estetici (formali, cromatici e decorativi)decide di attingere alla ceramica turca44. Ad eccezione dei boccali all'italiana, della prima metà delXVI, e di altre decorazioni meno diffuse ("quercuate", "a paesi"), la decorazione blu di imitazione

40 Data la distribuzione, si ritengono tipi prodotti in Liguria da vasai padani, cfr. G. Pessagno, Cennistorici sulla ceramica ligure, in O. Grosso, Le gallerie d'arte del Comune di Genova, Genova 1932.T. Grandis, Scarti di fomace ad Albisola, in Atti del XIII Convegno Internazionale della Ceramica,Albisola 1980, pp. 319-26.41 L. Panelli, Piastrelle del secolo XVI di fabbricazione genovese, "Atti della Società Ligure diStoria Patria", IX (LXXX111) (1969), pp. 231-6. Mentre per i laggioni dipinti del XVI secolo sisono trovati scarti di fornace a Genova e Savona, non sono state finora rinvenute prove diproduzioni locali di quelli "a cuenca". È vero che gli impasti dei due tipi sono molto simili, ma leanalisi mineralogiche non escludono una possibile produzione valenzana. Non si può escluderequindi che i laggioni con decorazione "a cuenca" siano sempre stati importati dalla Spagna assiemeal vasellame e venduti, come questo, su altri mercati come prodotti "genoveschi" (si veda sopra alpunto 6). In questo caso i laggioni dipinti policromi del XVI secolo sarebbero una continuazionelocale che riprende in parte i motivi moreschi, ma con una tecnica diversa, dopo la decadenzaspagnola, e le ordinazioni documentate a Savona nel XV secolo dovrebbero ritenersi riferite alaggioni monocromi.42 Cfr. J. Heers, Gênes au xvème siècle , Paris 1961 (trad. it.: Genova nel Quattrocento , Milano1984); Rebora, La ceramica, cit. Interessante soprattutto la tendenza dei nuovi mercanti apromuovere nuovi metodi di vendita ed una produzione sempre più di serie, fenomeno quest'ultimoriscontrabile anche nelle "ispano-moresche" del XV secolo, cfr. T. Mannoni, Analisi mineralogichee tecnologiche delle ceramiche medievali. Nota II, in Atti V Convegno Internazionale dellaCeramica, Albisola 1972, p. 122.43 Lo dimostrano da una parte i documenti sulla famiglia da Pesaro a Genova nel 1525 (G.Pessagno, Cenni storici, cit.), dall'altra le nuove tecniche di cottura e formule di composizione deglismalti confrontate con quelle del Piccolpasso, cfr. T. Mannoni, Innovazioni tecnichenell'arteceramica delXVI secolo inLiguria, "Le Machine",II (1969-70) pp. 101-4.44 Cfr. G. Farris, V. A. Ferrarese, Contributo alla conoscenza della tipologia e della stilistica dellamaiolica ligure del XVI secolo, "Atti della Società Ligure di Storia Patria", IX (LXXXIII) (1969),pp. 187-222.

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orientale costituisce la base della produzione di Genova, Savona e Albisola per più di un secolo45,sostituendo nelle famiglie agiate la maiolica italiana e la ceramica spagnola ormai completamentedecaduta, ma soprattutto sostituisce quest'ultima come prodotto «genovesco» nei mercatiinternazionali.Anche le piastrelle, che entrano come ornamento delle nuove e sontuose dimore della nuova classedi potere, subiscono una trasformazione, lasciando la tecnica a stampo e la decorazione rigidamentegeometrica spagnola, per una decorazione dipinta con motivi geometrico-vegetali e qualcheelemento rinascimentale di produzione locale46.Il secolo XVI vede inoltre la fine dei tipi medievali ("graffita arcaica", "graffita monocroma" e"maiolica arcaica"), ma il mercato locale ha ancora bisogno di ceramiche a basso costo, che igenovesi preferiscono importare anziché produrre. Tolto il pentolame, che in parte viene anch'essoimportato da Antibo, forse perché più funzionale47, e le graffite conventuali, il vasellame d'usoviene importato direttamente da Pisa, dove si comprano i tipi di valore più basso e l'incidenza deltrasporto è minima, più raramente imitato ad Albisola48. La "graffita a stecca", la "graffita tarda" ela "marmorata" sono ceramiche molto resistenti all'uso e sobriamente decorate in modo veloce; laloro diffusione è grande e raggiunge assieme al pentolame i centri minori delle campagne, doveassieme alle "tofanìe" di legno, vengono principalmente usate le forme ampie per uso collettivo,retaggio di un costume domestico medievale che giungerà fino ai giorni nostri.Sulla base dei dati fin qui esposti si può tentare una prima periodizzazione della ceramicamedievale in Liguria, con lo scopo anche di fornire un provvisorio quadro riassuntivo di tutto illavoro.

1. Secoli V-VII. Non vengono introdotti in Liguria nuovi tipi ceramici rispetto a quelli dellaarticolata produzione tardoromana, la quale per contro si va progressivamente deteriorando esfaldando nella propria organizzazione. Diventano più rozzi e si riducono nella diffusione e nelle

45 Cfr. G. Olivari, Notazioni iconografiche e stilistiche nella maiolica ligure del XVII secolo , in AttiIV Convegno Internazionale della Ceramica, Albisola 1971, pp. 59-90. La produzione a Genova,iniziata probabilmente dai da Pesaro, continua con i Cagnola fino almeno al 1630 (G. G. Musso, E.Grendi, Ceramologia post-medievale a Genova. Note d'archivio, "Notiziario di ArcheologiaMedievale", Aprile 1973, p. 11); scarti di produzione di questo periodo sono stati rinvenuti in unpozzo di via S. Vincenzo, e prodotti "di terra fatti a Genova a modo di porcelletta" sono citati in uninventario del 1633, cfr. J. Costa Restagno, Ricerche d'archivio: la suppellettile ceramica nel Sei-Settecento, in Atti VI Convegno Internazionale della Ceramica, Albisola 1973 p. 101.46 Panelli, Piastrelle, cit.; G. Farris Contributo alla conoscenza delle piastrelle cinquecenteschesavonesi, in Atti III Convegno Internazionale della Ceramica, Albisola 1970, pp. 195-204. Si vedaquanto già detto nella nota sui laggioni "a cuenca".47 Si tratta di una terra alquanto retrattaria. Pentole di Antibo si trovano negli scavi già nei livelli delXV e XVI secolo, ma la maggior quantità viene da quelli del XVII, ciò in accordo con ladocumentazione scritta: D. Presotto, Arrivi a Genova di vasellame di Antibes dal 1560 al 1640, inAtti V Convegno Internazionale della Ceramica, Albisola 1972, pp. 275-98.48 Pisa sembra specializzarsi in questo periodo in prodotti tecnicamente buoni, poco costosi,evitando l'uso di ingredienti pregiati ed operando in grandi serie con un minimo di gradevoledecorazione; questi caratteri, abbinati al trasporto marittimo, devono essere ottimi per la grandediffusione, come confermano i dati archeologici e quelli d'archivio (D. Presotto, Notizie sul trafficodella ceramica attraverso i registri della Gabella dei Carati (1586-1636), in Atti IV ConvegnoInternazionale della Ceramica, Albisola 1971, pp. 3350). Il fenomeno della "graffita tarda" e"marmorata" pisane si può paragonare in questo senso a quello della "taches noires" albisolese traXVIII e XIX secolo. Sulle imitazioni liguri: M. Milanese, Graffita a girandola, graffita tarda edaltri tipi ceramici postmedievali da uno scarico di fomace di Albisola superiore, in Atti del XVConvegno Internazionale della Ceramica, Albisola 1982, pp. 123-44.

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forme i prodotti di tipo industriale, mentre meglio resistono le semplici produzioni locali, affiancateda una relativa abbondanza di vetro, metalli e di pietra ollare.

2. Secoli VIII-X. I pochi reperti assegnabili a questo periodo per cronologia relativa, provengonotutti dalle grandi serie stratigrafiche, e sono costituiti principalmente da forme elementari eseguitead un livello tecnico molto basso, che sembrano stabilizzarsi come residuo di una tradizione localepreromana e romana. Per mancanza di livelli databili non è ancora possibile fare distinzioneall'interno del periodo e perciò stabilire se alcuni prodotti migliori d'importazione, alcuni dei qualiinvetriati appartengano ancora al periodo precedente e costituiscano già una ripresa in atto primadel Mille.

3. Secoli XI-XII. Mentre la produzione locale si attarda nella maggior parte del territorio in tecnichee forme altomedievali, in alcune aree si nota un certo miglioramento tecnico e formale, che vede tral'altro le prime applicazioni di rivestimenti vetrosi a vasi da fuoco ed opacizzati monocromi alleceramiche architettoniche; ciò nonostante la ceramica domestica non raggiunge quella funzionalitàche le permetterebbe di contrastare la concorrenza di altri materiali (pietra, metalli, vetro e legno), iquali anzi in questo periodo si affermano maggiormente ed i recipienti di legno sono oggetto diesportazione dalla Liguria. In coincidenza delle riprese attività marinare si notano inoltre neicrescenti centri urbani diverse importazioni dal Mediterraneo che vanno dai pregiati bacini decoratial vasellame da tavola monocromo ed infine ai contenitori di merci. Sulla base della tipologia deiprodotti importati è forse possibile suddividere il periodo in almeno due parti.

4. Fine XIII-XIV secolo. Dalle aree a prevalente economia mercantile scompaiono le ceramichegrezze, convertite con una certa continuità di forme nelle prime depurate o invetriate locali datavola e da bottega e in pentolame invetriato, mentre alcune forme grezze resistono nelle aree adeconomia chiusa. All'accelerato mutamento in atto nei prodotti comuni non è probabilmenteestranea la consistente produzione e diffusione della "graffita tirrenica" e dei tipi ad essa collegati, equindi l'introduzione di vasai che possono avere creato le prime fabbriche liguri di ingubbiata e"graffita arcaica". Diventano inoltre più numerose le importazioni della Spagna moresca, rispetto aquelle degli altri paesi mediterranei, mentre si fa consistente il consumo della "maiolica arcaica"toscana.

5. Fine XIV-inizi XVI secolo. Il forte aumento nel volume del traffico marittimo delle ceramiche sirealizza in Liguria su due fondamentali canali mercantili: quello spagnolo che fornisce i tipipregiati, non solo per il mercato interno, ma anche per quello esterno abilmente sviluppato dallanuova classe mercantile, e il canale pisano, dal quale, oltre ad almeno una parte della "maiolicaarcaica", provengono anche i prodotti dell'area fiorentina. Molto meno frequenti le importazionidall'area padana, e forse si tratta di vasai padani trasferiti in Liguria rarissime quelle da paesieuropei. Nel frattempo l'artigrianato locale, sotto la spinta mercantile, si evolve verso unaproduzione di serie, nella quale la reiterazione banale dei motivi spesso prevale sulla ricercastilistica, ma che rende possibile una grande diffusione dei manufatti. Savona, in particolare,accogliendo anche il contributo di vasai pisani, organizza una propria produzione di "maiolicaarcaica" e dei tipi da essa dipendenti che affianca a quella della graffite e del pentolame.

6. Inizi XVI-inizi XVII secolo. Con la decadenza della ceramica spagnola, il ruolo di quest'ultima nelmercato interno ed in quello internazionale, ancora in espansione, viene assegnato alla maiolicaligure, prodotta con le nuove tecniche importate dall'ltalia centrale, ed imitando decorazioni inmonocromia azzurra tipiche delle pregiate ceramiche turche. Anche le piastrelle policromespagnole vengono sostituite con quelle dipinte locali. La vecchia organizzazione medievale sispacca fra le nuove e presto rinomate manifatture di maiolica e chi si riduce a produrre pentolame(in parte però anche importato da Antibo) ed altri recipienti comuni per il mercato locale. Gli altri

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tipi decorati ad uso popolare. graffite e marmorate. vengono importate in grandi quantità da Pisa, dadove passano anche le maioliche fiorentine di tipo corrente mentre rari sono i prodotti padani.Continua una produzione locale di graffite conventuali che si allarga all'imitazione di quelle pisane.Segni materiali di una economia povera ed autarchica della montagna ligure, sono infine ravvisabilinella continuazione della produzione contadina dei ''testi''.

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I vetri

Anche per il vetro, esattamente come per la ceramica o meglio la maiolica, il nome di una città o diun centro (Faenza per la maiolica e Murano per il vetro), evocava quasi integralmente l'interocomplesso produttivo della penisola, viceversa le recenti ricerche sul campo, come i più sistematicispogli documentari, hanno evidenziato una realtà molto più articolata. In particolare lo scavo di unafornace da vetro in territorio ligure e recenti ricerche di superficie nel territorio di Gambassi eMontaione (Fi), hanno mostrato affinità produttive che potrebbero essere l'indice di un ruolopropulsivo svolto dai centri toscani, i cui artigiani troviamo disseminati a livello documentario inmolte parti della regione e nell'Italia centrosettentrionale, come è ben esemplificato anche saggio diSergio Nepoti pubblicato di seguito1. L'apertura di cantieri archeologici sulle aree produttive èdestinata ad offrire nuovi ulteriori elementi per la conoscenza della circolazione dei prodotti divetro, e non è escluso che anche per il vetro emerga per il Bassomedioevo un assetto diorganizzazione del lavoro parcellizzato e disseminato in modo omogeneo ovunque in forme deltutto simili a quanto è successo per la ceramica. Se per le produzioni bassomedievali cominciatimidamente a delinearsi un quadro, ben poco sappiamo per l'Altomedioevo; una sola fornace èstata scavata a Torcello all'inizio degli anni Sessanta, mentre più noti sono i tipi prodotti presenti inminor quantità negli scavi2.

1 Per una storia della produzione e del consumo del vetro a Bologna nel tardo Medioevo, "Il Carrobbio. Rivista diStudi Bolognesi", IV (1978) pp. 321-33.2 D. Schiaffini, Contributo ad una prima sistemazione tipologica dei materiali vitrei alto medievali, "ArcheologiaMedievale", XII (1985), pp. 667-88.

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Sergio Nepoti

Per una storia della produzione e del consumo del vetro a Bologna nelTardomedioevo

La storia della produzione e del consumo del vetro nell'Italia preindustriale, e in particolarenel periodo medievale, è ancora in gran parte sconosciuta se si escludono poche areecircoscritte, benché la quantità di informazioni disponibili sia notevolmente aumentata negliultimi anni con la progressiva diffusione dell'archeologia medievale e di ricerche improntatealla storia della cultura materiale.Prima dell'ultimo ventennio le notizie sul vetro medievale italiano riguardavano quasiesclusivamente la produzione veneziana, per la quale erano state esaminate fontidocumentarie, che testimoniano l'attività dei vetrai a partire dai secoli X e XI ma soprattuttodal secolo XIII, e fonti iconografiche, abbastanza ricche di contenitori di vetro dal secoloXIV1; le altre zone di produzione documentate dai secoli XIII e XIV o pur essendoconsiderate importanti non suscitavano un analogo interesse per gli studiosi, come nel casodella ligure Altare2 o non venivano neppure considerate particolarmente notevoli, come èavvenuto per l'area fiorentina3. Tale diversità di interesse si spiega considerando che glistudi sul vetro, come avveniva per altri manufatti di produzione artigianale collocati nellacategoria delle "arti minori", erano condotti prevalentemente con criteri storico-artistici,trascurando tutta la complessa problematica del ruolo nella vita quotidiana edell'organizzazione della produzione e del commercio4: solo nel caso di Venezia erapossibile passare rapidamente dai documenti medievali, riguardanti soprattutto laproduzione degli oggetti d'uso comune, ai vetri pregiati delle epoche successive giunti finoalle collezioni pubbliche e private contemporanee. Analogamente uno scarso interesse erasuscitato dai frammenti recuperati negli sterri, che, essendo in genere poco numerosi, dipiccole dimensioni e con una limitata gamma di decorazioni, in pratica non consentivano dicostruire con i soli criteri stilistici una cronologia ed una tipologia legata alle aree diproduzione, come invece veniva fatto per i reperti ceramici.Per l'Altomedioevo la mancanza di dati era pressoché totale, se si escludono alcuni oggettirinvenuti in tombe del periodo longobardo, e ne veniva dedotto che l'attività vetraria, ad altocontenuto tecnologico, si era estinta in Italia, come altre tecniche per le quali mancano leprove di una continuità fra l'epoca romana ed il Bassomedioevo, per fiorire nell'areabizantina e poi nel Medio Oriente islamico, ed essere infine reimportata dai Veneziani dallecoste orientali del Mediterraneo. Queste conclusioni si ritrovavano anche nei trattati di storiadella tecnica, che per quanto riguarda il vetro non si erano molto modificati dal secolo

1 Cfr. in particolare G. Monticolo , I Capitolari delle Arti veneziane , Roma 1905, A. Gasparetto, Il vetro diMurano dalle origini ad oggi, Venezia 1958; G. Mariacher, Il vetro soffato da Roma antica a Venezia, Milano19602 Cfr. E. Bordoni, L'industria del vetro in Italia e i trattati commerciali. L'arte vetraria in Altare, Savona 1879.3 Le numerose informazioni contenute in G. Taddei , L'arte del vetro in Firenze e nel suo dominio , Firenze1954, hanno avuto una scarsa eco negli studi successivi.4 Per una precisa puntualizzazione di tali problemi ed un concreto esempio dei più recenti criteri di ricerca suivari tipi di contenitori cfr. L e T. Mannoni, Per una storia regionale della cultura materiale: i recipienti inLiguria, "Quaderni Storici", 31 (1976), pp. 229-60.

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scorso fino ai recenti anni Cinquanta5, mentre nelle principali sintesi di storia economica esociale dell'Europa preindustriale il vetro, insieme alla maggior parte dei manufatti di usoquotidiano in metallo, legno, ceramica, pietra o osso, non veniva nemmeno preso inconsiderazione.Lo scavo italo-polacco del 1961-62 a Torcello ha cambiato sostanzialmente la situazione,con il rinvenimento dei resti di una fornace vetraria databile al VII-VIII secolo nellapiazzetta tra la chiesa di Santa Fosca ed il Palazzo del Consiglio, ora sede del museo6. Oltreai resti delle strutture nello scavo di Torcello si sono rinvenuti frammenti di crogiuoli, scartidi lavorazione e frammenti di calici a gambo, questi ultimi confrontabili con parte dei calicirinvenuti, come si è già accennato, in tombe del VII secolo7. Numerosi frammenti di calici agambo ed anche scorie e scarti testimonianti una produzione vetraria sono stati trovati poinegli scavi effettuati negli anni 1962-73 nel castello longobardo di Ibligo-Invillino in Friuli,abbandonato nell'VIII secolo8, ed anche in alcuni altri insediamenti altomedievali scavati sisono recuperati vetri in quantità discrete9.Questi rinvenimenti dunque indicano che la produzione del vetro almeno nell'Italiasettentrionale, è continuata nell'Altomedioevo, anche se bisogna sottolineare chenormalmente i frammenti di vetro presenti negli strati altomedievali sono pochi, spessoconservati male e di difficile classificazione. Va però anche considerato che rispetto alladiffusione nell'uso quotidiano la presenza quantitativa nei rifiuti è in genere ridotta, per ilvetro come per i metalli, dal recupero dei rottami per la rifusione, che in tutte le epoche haalimentato un flusso commerciale parallelo a quelli delle materie prime e dei manufatti.

5 Si possono confrontare ad esempio la parte dedicata al vetro in J. Labarte, Histoire des arts industriels auMoyen Age et à l'époque de la Renaissance, Paris 1872-752, vol. III, pp. 363-98, e D. B. Harden, Glass andGlazes , in C. Singer, E. J. Holmyard, A. R. Hall, T. I. Williams, A History of Technology, II, T h eMediterranean Civilisations and the Middle Ages c. 700 B.C to c. A.D. 1500, Oxford 1956, pp. 311-46 (ed.italiana, Torino 1962), anche se quest'ultimo, ottimo conoscitore del vetro nell'area mediterranea dall'Antichitàpre-romana al Medioevo, pone in rilievo il problema degli oggetti dalle tombe di età longobarda.6 Lo scavo è stato oggetto di numerose pubblicazioni, dedicate in particolare all'analisi della fornace per ilvetro: A. Gasparetto, Les fouilles de Torcello et leur apport à l'histoire de la verrerie de la Vénétie, dans leHaut Moyen-Age, VIIe Congrès International du Verre, Bruxelles 1975, Comptes Rendus n. 239, pp. 1-8; E.Tabaczynska, Glashütte aus dem VII-VIII Jahrhundert auf Torcello bei Venedig. Ausgrabungen 1961-1962, iviComptes Rendus n. 238, pp. 1-3; A. Gasparetto, A proposito dell'officina vetraria torcellana, "StudiVeneziani" VIII (1966) pp. 3-18, Id., A proposito dell'officina vetraria torcellana. Forni e sistemi di fusioneantichi, "Journal of Glass Studies", IX (1967), pp. 50-75; E. Tabaczynska, Remarks on the Origin of theVenetian GlassmaLing Centre, 8th International Congress on Glass 1968, London 1969, pp. 20 ss.; L.Leciejewicz, E. Tabaczynska, S. Tabaczynski, Commento archeologico ai reperti naturali antichi e medievaliscoperti a Torcello (1961-62), "Memorie di Biogeografia Adriatica", VIII (1969-70), pp. 89-105, L.Leciejewicz, Gli insediamenti protourbani della laguna veneta prima del sorgere della città di Venezia allaluce degli scavi di Torcello, in Atti del Colloquio internazionale di Archeologia Medievale. Palermo-Erice1974, Palermo 1976, pp. 45-58; E. Tabaczynska, Aspetti archeologici dell'artigianato medievale, ivi. pp. 419-22; L. Leciejewicz, E. Tabaczynska, S. Tabaczynski, Torcello. Scavi 1961-62, Roma 1977.7 Il possibile collegamento è stato sottolineato anche a proposito del calice di vetro rinvenuto nella tomba 46degli scavi fiorentini di Santa Reparata, del 1965-73, che viene datato alla fine del VII secolo: O. Von Hessen,Reperti di età longobarda dagli scavi di Santa Reparata, "Archeologia Medievale", II (1975), pp. 211-4.8 Cfr. G. Fingerlin, J. Garbsch, J. Werner, Gli scavi nel castello longobardo di Ibligolnvillino. Relazionepreliminare delle campagne del 1962, 1963 e 1965, "Aquileia Nostra", XXXIX (1968), cal. 57-136.9 Per la Lombardia cfr. E. Tabaczynska, Szkla wczesnosredniowieczne z Castelseprio (Les verres du hautMoyen Age de Castelseprio), "Archeologia Polski", XVI (1971), pp. 295-307; per la Liguria cfr. il contributodi T. Mannoni in Scavi di Luni: relazione preliminare delle campagne di scavo 1970-1971, a cura di A. Frova,Roma 1973, pp. 886-90 per l'Emilia-Romagna vanno segnalati i reperti, ancora inediti, dallo scavo imolese diVilla Clelia-Castrum S. Cassiani e da quello ravennate di Classe.

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Il recente moltiplicarsi degli scavi archeologici postclassici in Italia10 ha fornito nuoveinformazioni sul vetro soprattutto dal Tardomedioevo in avanti, proporzionalmente allaquantità dei frammenti negli strati, che, limitata quasi sempre a poche decine di pezzi fno alsecolo XV aumenta poi notevolmente. I rinvenimenti più significativi per il Tardomedioevosono comunque ancora in numero abbastanza ridotto e possono essere elencati in una rapidarassegna.In Liguria gli scavi urbani sono stati affiancati dalle ricerche sulle fonti documentarie,dall'archeologia di superficie e dall'indagine toponomastica nel territorio appenninico,ottenendo una prima carta di distribuzione delle sedi di produzione in età preindustriale, ed èstata individuata e scavata una vetreria, databile fra gli ultimi decenni del XIV secolo ed iprimi del XV, sul Monte Lecco presso il valico della Bocchetta, dove veniva coltivata unavena quarzosa e si sfruttava il bosco per il combustibile, per produrre vetri d'uso comunedestinati probabilmente alle mescite pubbliche11. A Pavia nello scavo effettuato all'internodella Torre Civica è stato riportato alla luce un livello di attività artigianali chiaramentecollegato ai lavori di rifacimento della cattedrale adiacente e databile intorno al 110012, checonteneva quasi cinquecento frammenti residui della fabbricazione di vetrate multicolori conanche decorazioni dipinte, raccolti probabilmente per la rifusione insieme a frammenti dialtri oggetti ed anche di "pani" a calotta sferica di diverse provenienze, testimonianti untraffico di vetro in questa forma da vetrerie dove veniva effettuata una prima fusione,depurazione e coloritura, a luoghi dove veniva rifuso e soffiato13. Un numero inferiore didati è disponibile finora per l'Italia centrale e meridionale, dove mancano rinvenimenti divetrerie: fra quelli conosciuti i ritrovamenti più notevoli di vetri tardomedievali si sono avutinel Lazio, con gli scavi dei pozzi di scarico domestico a Tuscania14, e in Puglia, negli scavidel Castello di Lucera, dove insieme a vetri islamici sono venuti alla luce anche probabiliprodotti locali15.

10 Sulle possibilità ed i limiti dell'archeologia medievale, ed i suoi rapporti con la ricerca storica nel senso piùgenerale vedere il volume Archeologia e geografia del popolamento, "Quaderni Storici", 24 (1973), ed inparticolare sui problemi e sull'evoluzione delle ricerche italiane fino a quel momento il contributo di T.Mannoni e H. Blake, L'archeologia medievale in Italia, ivi, pp. 833-60, dal 1974 relazioni di scavo, saggi ediscussioni sull'archeologia medievale, la cultura materiale, gli insediamenti ed il territorio vengono pubblicatiannualmente nella rivista "Archeologia Medievale".11 Per la relazione di scavo della vetreria di Monte Lecco, la ricostruzione del funzionamento della fornace,l'analisi della tecnologia impiegata e dei tipi di prodotti vedere: T. Mannoni, A Medieval Glasshouse in theGenoese Apennines, Italy, "Medieval Archaeology" XVI (1972), pp. 143 ss.; S. Fossati, T. Mannoni, Lo scavodella vetreria medievale di Monte Lecco, "Archeologia Medievale", II (1975), pp. 31-97; L. Castelletti, Icarboni della vetreria di Monte Lecco, ivi, pp. 99-121. per un panorama delle ricerche e dei dati sullaproduzione ligure: M. Calegari, D. Moreno, Manifattura vetraria in Liguria tra XIV e XVII secolo, ivi, pp. 13-29; il complesso più numeroso di vetri rinvenuti negli scavi urbani è pubblicato in D. Andrews, Vetri, metalli ereperti minori dell'area Sud del Convento di San Silvestro a Genova, ivi, IV (1977), pp 162-207.12 Cfr. H. Blake , Scavo nella Torre Civica di Pavia, 1972. Notizia preliminare , "Archeologia Medievale", I(1974), pp. 149-70; B. Ward-Perkins, Scavi nella Torre Civica di Pavia. Le fasi di attività artigianali, ivi, V(1978), p. 93-121; S. Nepoti, I vetri dagli scavi nella Torre Civica di Pavia, ivi, pp. 219-38.13 Il commercio di simili lingotti di vetro, veneziani, islamici e cinesi, era noto solo per un'epoca moltoposteriore: cfr. R. J. Charleston, Glass "cakes" as Raw Material and Articles of Commerce, "Journal of GlassStudies", V (1963), pp. 54-68.14 Cfr. W. Lamarque, The Glassware , in J. Ward-Perkins, J. Johns, B. Ward-Perkins, W. Lamarque, M.Beddoe, Excavations at Tuscania, 1973: Report on the finds from six selocted pits, "Papers of the BritishSchool at Rome", XLI (1973), pp. 117-33.15 Sugli scavi di Lucera vedere: D. B. Whitehouse, Ceramiche e vetri medioevali provenienti dal Castello diLucera, "Bollettino d'arte", LI (1966), 3-4, pp. 171-78; sempre per la Puglia cfr. D. B. Harden, Some GlassFragments mainly of the12 th-I3th century A.D. from Northern Apulia, "Journal of Glass Studies", VIII (1966),pp. 70-9; un importante rinvenimento di vetri è segnalato anche nello scavo dell'insediamento rupestre diVarcaturo presso Massafra, in provincia di Taranto: Archeogruppo di Massafra, Ricerche archeologiche negliinsediamenti rupestri medievali, Massafra 1974. La produzione dell'Italia meridionale e della Sicilia pone

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Anche in Sicilia si sono invece scoperti resti di impianti produttivi medievali, oltre a quellipiù antichi di Sofiana, associati a monete del IV secolo16: una vetreria riferibile ai secoliXIV-XV è stata individuata presso le mura del Castello di Cefalà Diana17 e scorie e rifiuti dilavorazione sono stati trovati a Palermo negli scavi alla Zisa18, mentre una abbondantequantità di frammenti di vetri del XIV secolo, comprendente esemplari sia di importazionesia di presumibile produzione locale, è stata rinvenuta sempre a Palermo negli scavi delloSteri19 ed un recupero notevole di vetri attribuiti al secolo XIII è awenuto a Gela durante ledemolizioni del quartiere S. Giacomo20, inoltre sono state intraprese ricerche sul territorio esulle fonti scritte e iconografiche21. Mancano comunque per ora anche per il Tardomedioevosintesi almeno a livello regionale che forniscano serie tipologiche dei recipienti di vetro inrapporto alla cronologia ed anche le ricerche tendenti a ricostruire la storia della produzione,dei commercio e dei consumi in questo settore hanno tuttora una diffusione limitata.Venendo finalmente all'Emilia Romagna, come si è potuto constatare essa non figura tra leregioni con rinvenimenti archeologici di particolare rilievo, se si escludono alcuni scavi piùrecenti inediti, e la mancanza di dati è ancora pressoché totale anche per quanto riguarda lefonti documentarie22, mentre l'iconografia è abbastanza ricca, a partire dalla ben nota serie ditavole imbandite negli affreschi trecenteschi di Pomposa, dove il rapporto fra i contenitori diceramica e quelli di vetro è a favore di questi ultimi, poiché mentre i primi sono per lo più diutilizzo comune, ogni commensale ha a disposizione un proprio bicchiere o calice di vetro.In questo quadro ci si è proposti di presentare una serie di notizie, relative soprattutto alsecolo XIV, sulla produzione del vetro a Bologna, raccolte con una prima ricerca disondaggio sulle fonti documentarie edite ed inedite ritenute più promettenti, quali gli statuticomunali, le tariffe daziarie ed i memoriali.In una rubrica degli statuti del comune di Bologna del 1288, che precisa la tariffa daziariaper l'esportazione delle merci, secondo un elenco abbastanza dettagliato, compaiono sia ivetri lavorati sia i vetri rotti, soggetti ad un'imposta rispettivamente di quattro e due soldi persalma23. Vetro lavorato e vetro rotto con un'imposta rispettiva salita a sette e cinque soldi per

anche il problema del rapporto con quella simile riscontrata a Corinto, dove negli scavi del Foro Romano sonostate trovate due vetrerie, attive a quanto pare fra l'inizio del secolo XI ed il saccheggio del 1147, per lemaestranze delle quali è stata fatta l'ipotesi di un trasferimento in tali aree: cfr. G. R. Davidson, A MedievalGlassFactory at Corinth, "American Journal of Archaeology", XLIV (1940), pp. 297-324; Id. Corinth, vol.XII, The minor Objects, Princeton, New Jersey, 1952, pp. 76-122.16 Alcune strutture di forni, scorie e numerosi frammenti vitrei sono stati scoperti negli scavi del 1961: cfr. D.Adamesteanu, Nuovi documenti paleocristiani nella Sicilia centro-meridionale, "Bollettino d'Arte", XLVIII(1963), p. 264.17 Cfr. M. Bonanno, F. D'Angelo, La vetreria di Cefalà Diana ed il problema del vetro siciliano nel medioevo ,"Archivio Storico Siciliano", XXI-XXII (1972), pp. 337-48.18 Cfr. V. Tusa, Sull'archeologia medioevale (con accenni agli scavi eseguiti allo Steri e alla Zisa) , in Atti delColloquio Internazionale di Archeologia Medievale. Palermo-Erice 1974, Palermo 1976, p. 108.19 Cfr. G. Falsone, Gli scavi allo Steri , in Atti del colloquio internazionale di Archeologia Medievale. Palermo-Erice 1974, cit., p. 121 s.20 Cfr. F. D'Angelo, Produzione e consumo del vetro in Sicilia , "Archeologia Medievale", III (1976), pp. 379-89.21 Cfr. ivi e Bonanno, D'Angelo, La vetreria di Cefalà, cit.22 Come conseguenza compare solo un breve accenno al vetro nelle più aggiornate sintesi sulla produzione esul commercio medievali nella regione: cfr. R. Greci, Produzione, artigianato e commercio in Emilia nelMedio Evo, in Storia della Emilia-Romagna, vol. 1, Bologna 1975, pp. 489-518; A. I. Pini, Produzioneartigianato e commercio a Bologna e in Romagna nel Medio Evo, ivi, pp. 519-47. Si consideri per contrastol'elevato numero di ricerche da un secolo a questa parte sui recipienti di ceramica, stimolato soprattutto daglistudiosi faentini, anche se tali ricerche sono state condotte prevalentemente con un'ottica storico-artistica.23 Statuti di Bologna dell'anno 1288 , a cura di G. Fasoli e P. Sella, Città del Vaticano 1937, Lib. III rubr. V, pp.118 e 120: "...de salma... vitreorum laboratorum... quattuor solidos bononinorum; . . . de salma vitreorumfractorum. . . duos solidos bononinorum".

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salma, figurano anche nella tariffa daziaria in vigore per i fiorentini esportanti merci dalterritorio bolognese, che risalirebbe al 1317, e che presenta un elenco più ampio esistematico di mercanzie24; si trova qui in elenco, soggetto al pagamento di due soldi persalma, anche il manganesi da bicchieri25, il biossido di manganese, impiegato per ottenerevetri incolori, in quanto ossida il ferro quasi sempre presente nelle materie prime utilizzate ene compensa il colore giallo-bruno risultante con la propria tinta purpurea. In quest'ultimatariffa compaiono anche i crogiuoli, grugiuoli, con un'imposta di nove soldi per salma26,necessari per l'attività vetraria ma non riferibili esclusivamente a questa; mancano invece ocomunque non sono identificabili in entrambi gli elenchi le principali materie prime perprodurre il vetro: il quarzo, in blocchi di cava o in ciottoli fluviali che venivano cotti e ridottiin polvere per pestaggio o con mulini, oppure le sabbie silicee, e per quanto riguarda ifondenti alcalini le uniche fonti individuabili nella tariffa del 1288 sono il tartaro delle bottida vino e le ceneri di cerro27 ma anche in questo caso va considerato che gli alcali oltre cheper la fabbricazione del vetro servivano anche per altre produzioni, ad esempio per gli smaltie, soprattutto, per ottenere detergenti e saponi per l'industria tessile e l'igiene personale.Poche novità sono riscontrabili nelle due successive tariffe daziarie bolognesi che ci sonopervenute: nel 1351, durante il dominio di Giovanni Visconti, abbiamo l'appalto ad unmilanese del dacium merchadandie et sigilini, che contiene solo per l'imposta sul transito esull'esportazione un elenco dettagliato delle merci, dove si trovano ancora il manganese damigluoli ed il vetro lavorato e rotto, mentre compaiono per la prima volta crestalli e overade crestalli, che però sono da riferirsi a cristalli di rocca piuttosto che a vetro incolore oproprio a cristallo al piombo, considerata anche l'imposta elevata alla quale sonosottoposti28; nel 1383 abbiamo le norme del dazio delle mercanzie con tariffe dettagliate siaper l'esportazione, dove si ritrovano le stesse voci rilevate per il 1351 e con le stesseimposte, sia per l'importazione a Bologna, dove abbiamo ancora soltanto le voci già notate,qui con imposta differente29, e vale solo la pena di rilevare che il manganese è qui definito amiglolis sive ciatis. Alla fine del Trecento - inizi del Quattrocento infine risale la redazionepiù complessa ed organica di norme e tariffe relative alla gabella delle mercanzie, che èpriva di data ma si può collocare, in base alle addizioni datate che nello stesso codice laprecedono e la seguono, fra il 1396 ed il 1405: in tale redazione, che resterà sostanzialmenteimmutata, tranne che per l'ammontare delle imposte, fino al Seicento, mentre per le merciesportate o in transito la tariffa è analoga a quelle del 1351 e del 1383, per le merciimportate a Bologna la tariffa è molto più ricca di voci e queste sono suddivise secondo le

24 L. Frati, Tariffa daziaria fra il Comune di Bologna e quello di Firenze (1317), Firenze 1903, p. 2225 Ivi p. 18.26 Ivi p. 17.27 Statuti del 1288 , cit., p. 120: ". . . de salma taxi et cineris de cerro . . . duos solidos bononinorum ". Nellavetreria scavata a Monte Lecco si è potuto rilevare che veniva usato minerale quarzoso piuttosto che sabbia, ecome fondenti alcalini con ogni probabilità potassa lisciviata dalle ceneri di legna insieme a soda commercialepiuttosto che ottenere gli alcali dalla calcinazione dei tartrati del vino: cfr. Fossati, Mannoni, Lo scavo dellavetreria, cit. Sembra che il procedimento fosse analogo anche per la Toscana dove si estraeva una roccia detta"tarso" in cave presso Pisa e Massa Carrara, e si usavano anche ciottoli dal letto dell'Arno e sabbie per laproduzione più comune: cfr. Taddei, L'arte del vetro, cit., p. 30. Anche per le gabelle toscane del secolo XIV edegli inizi del XV sulle merci connesse alla manifattura del vetro vedere ivi, p. 11s.28 Archivio di Stato di Bologna (in seguito A.S.B.), Comune, Difensori dell'avere, 83, cc. CXXIIv-CXXVIr:crestalli e overa de crestalli per soma libre 6, per centonaro solidi 24, per dexina solidi 2 denari 5 (per ifiorentini 1'imposta è ridotta rispettivamente a 1. 5. s. 20, s. 2); manganexe da migluoli per soma s. 3, percentonaro d. 7 (per i fiorentini s. 2 e d. 5); vedro lavorado per soma s. 10, per centonaro s. 2, per dexina d 2 el/2 (per i fiorentini rispettivamente s. 6, s. 1 e d. 2 e l/2, d. 1 e 1/2); vedro rotto per centonaro s. 1, per dexina d.1 e 1/5.29 A.S.B., Comune. Difensori dell'avere, 84, cc. XXXllv-XXXIVr: manganexe a miglolis sive ciatis pro salmas. 3; vitro laborato pro salma s. 15; vitro fracto pro salma s. 5.

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compagnie delle arti bolognesi alle quali sono pertinenti30. Sotto gli Speziali si ritrova qui ilmanganexe da migluoli con imposta per centonaro de pexo solido 1, ma un complesso piùnumeroso di voci relative al vetro, sia per le materie prime che per i manufatti, comparesotto i Merciai, Setaioli e Quattro Arti, che sono raggruppati insieme: vi si trovano leclessidre, arluogli de vedro cum sabion d'una hora l'uno solidi 2 per cascuna docina,arluoglio de vedro de più d'una horadinari 2 per cascuna hora d'arluoglio; il quarzomacinato, preda pesta da migluoli per centonaro de pexo dinari 4; gli occhiali, anche senon sono citate le lenti, ochiali de busso, d'avuolio e de burala per lirta de pexo solidi Idinari 6; gli specchi, spiechi de legno stagnodi vedradi cum smalto e sença smalto percentonao de pexo solidi 5, vedro da spiechi per centonaro de pexo solidi 6; terra pistoiese,presumibilmente per laterizi refrattari, per costruire le fornaci da vetro, terra pistoiexe dafare fornaxe da minoli per centonaro de pexo dinari 6, vetro con decorazioni pregiate, vedrolavorado al modo de Damasco per livra de pexo dinari 6, oltre al vedro lavorado d'oneraxon salvo che da spiechi per centonaro de pexo solidi 3, ed ai rottami, vedro rotto percentonaro de pexo dinari 6. Evidentemente le informazioni ricavabili da tariffe daziarie sonolimitate a dati qualitativi sul traffico commerciale, a parte i rapporti di incidenzadell'imposta, comunque l'esistenza di un commercio di vetri lavorati, di rottami e dimanganese alla fine del Duecento è indice di una certa attività di vetrai, che infatti trovaconferma in altre fonti: nel più antico estimo cittadino rimasto, del 1296-97, un Johanellusquondam Petri qui facit artem vitrorum denuncia 270 lire dal commercio di olio e 400 lire inoggetti di vetro lavorato31, inoltre la tomba di una famiglia de Ciatis compare nel sepoltuariodel 1291 del convento di S. Domenico32. La prevista introduzione in città di materie prinneper il vetro e per le fornaci testimonia una produzione locale alla fine del Trecento sullaquale, come si vedrà, maggiori informazioni sono.fornite da altri documenti. Va sottolineatoinoltre come i bicchieri siano spesso rappresentativi del vetro lavorato in genere, essendo glioggetti maggiormente prodotti, al punto che gli artigiani come si constaterà sono identificaticome fabbricanti di bicchieri. A questo proposito è interessante rilevare che il terminebichirarius o de bicheriis, che corrisponde a quello in uso nell'area fiorentina33, sembratestimoniato a Bologna solo nel XV secolo, mentre nel Trecento nei documenti bolognesi ibicchieri vengono indicati col termine ciati, da cui de ciatis, dal latino.cyathus, oppure coltermine miuoli o migluoli, da cui miolarus o de miolis una denominazione che risultadiffusa, con varianti locali come moçolli, moioli, miogli, in Emilia-Romagna, Lombardia eVeneto.Ritornando agli statuti comunali bolognesi, nella redazione de1 1352 è presente una rubricade vasis vitreis fiendis, nella quale sulla base dell'osservazione che vasa vitrea sunt multosolito cariora et debiliora, quod contingit ex eo quod est penuria magistrorum etsolummodo certis licet ipsa facere, viene stabilita la possibilità per chiunque cittadino oforestiero di realizzare extra circulas et muros civitatis Bononie fornaces aptas et abiles adfaciendam miolos, inghistarias, bocalitos et alia vasa vitrea, e di vendere liberamente talioggetti purché non fuori del distretto bolognese34. La scarsità di vetrai potrebbe esserespiegata e collegata ad un fenomeno più generale considerando che si è pochi anni dopo la 30 Ivi, cc. LXXXXVIIr.-CXXXVIr31 A. I. Pini, Gli estimi cittadini di Bologna dal 1296 al 1329. Un esempio di utilizzazione: il patrimoniofondiario del boccaio Giacomo Casella, "Studi Medievali", s. III, XVIII (1977), pp. 111-59, alla p. 123 nota53.32 Archivio del Convento di San Domenico in Bologna, Sepolture I (sono grato per la segnalazione alla dott.ssaRossella Rinaldi).33 Cfr. Taddei, L'arte del vetro, cit., in particolare l'appendice documentaria.34 A.S.B., Comune, Statuti del 1352, c. CCVIIv. La rubrica era già stata segnalata, anche per gli statutisuccessivi, con trascrizione parziale in G. Arias, Il sistema della costituzione economica e sociale italiananell'età dei Comuni, Torino-Roma 1906, appendice VI, p. 455.

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peste del 1348; per lo stesso anno 1352 un libro d’estimo fiorentino riporta l'iscrizione dinove bicchierai, ma mancano possibili confronti precedenti35.Nella rubrica statutaria citata compaiono per la prima volta accanto ai bicchieridenominazioni di altri contenitori: se i bocaliti sono probabilmente boccali con la boccatrilobata, le inghistarie dovrebbero essere le bottiglie con corpo sferoidale, rientranza conicaalla base e lungo collo con bocca svasata a tromba, documentate sia nell'iconografia che neirinvenimenti archeologici (fig. 1), che venivano chiamate in modo simile, ingrestarie oinghistere, anche a Venezia dal secolo XIII36. Va rilevato inoltre che per le fornaci è previstala collocazione fuori dal centro cittadino, evidentemente per scongiurare gli incendi:un'analoga preoccupazione da parte dei veneziani aveva fatto concentrare i vetrai a Muranogià dalla fine del secolo XIII, però a Bologna in epoca successiva sono testimoniate fornaciannesse alle botteghe di vendita in zone centrali della città, come anche a Firenze37.La stessa rubrica è presente negli statuti del 135838 e del 1376 39, mentre in quelli del 1389 40

diventa più complessa e ricca di informazioni, poiché dopo aver ribadito la possibilità diimpiantare fornaci, questa volta intus et extra civitatem, ed aver precisato che i manufattidevono essere realizzati con vetro bene cotto et bene temperato e senza impurità che neprovochino una facile rottura o addirittura lo scoppio spontaneo, fissa i rapporti fra qualitàdel vetro, peso e prezzo per i prodotti più comuni, per alcuni dei quali è prevista una gammadi diverse capacità (vedere appendice doc. I e la tabella 1).Questa volta accanto alle inghistarie, ai bocaliti ed ai ciati compaiono anche gli orinali41,che sono previsti cum coperta, e le zuche, anch'esse col rivestimento, da identificarsievidentemente secondo le dimensioni con damigiane e fiaschi, questi ultimi documentatidalla fine del Trecento soprattutto in Toscana, dove fino ai nostri giorni sono rimasti il tipodi contenitore più usato per il vino e sono stati oggetto di una produzione specializzata,affiancata da artigiani rivestitori, testimoniati a Firenze dal 144742. Per le bottiglie, i bocalitied i bicchieri è prevista la produzione in due tipi di vetro, verde e bianco cristallino,quest'ultimo ovviamente più pregiato, mentre la mancata indicazione per orinali e zuchesembra indicare che per questi si usasse comunemente solo il vetro verde. Le diversecapacità riscontrabili nella rubrica statutaria per i bocaliti e le zuche permettono diricostruire una scala plausibile per i vari contenitori, per la quale non è invece moltoindicativo il peso, che varia con la forma e viene qui fissato per evitare l'eccessiva fragilità,infatti i fiaschi sono più leggeri delle bottiglie e dei boccali ma hanno la protezione delrivestimento.

35 Cfr. Taddei, L'arte del vetro, cit., p. 15 s.36 Cfr., anche per gli altri termini, L. Zecchin, Denominazioni antiche dei prodotti muranesi , "Vetro e Silicati",XIII (1969), 2, pp. 25-8.37 Per la collocazione nel secolo XVI delle fornaci in aree centrali di Firenze, in cortili retrostanti alle botteghe,e per la documentazione di incendi, dovuti in particolare alla sistemazione della legna in palchi sopra le fornacistesse per farla seccare, cfr. Taddei, L'arte del vetro, cit., p. 27 s. e appendice, docc. XXI e XXIV.38 A.S.B., Comune, Statuti del 1358, c. CLXXXIIv.39 A.S.B., Comune, Statuti del 1376, c CCLXXVIr.40 A.S.B., Comune, Statuti del 1389, c CCCLXXIIr-v.41 Per un probabile orinale in vetro rinvenuto a Tuscania cfr. Lamarque, The Glassware, cit. n. 15, p. 121 s., fig.33 e tav. XXVa.42 I rivestitori o fiascai usavano, come ancora oggi, un'erba palustre detta schiancia e ricoprivano sia fiaschinuovi sia usati, il che rese abbastanza facili le frodi quando alla fine del Cinquecento fu introdotto comegaranzia di capacità un bollo di piombo attaccato alla veste, sostituito solo dal 1629 da un bollo di vetro colgiglio fiorentino, applicato al collo: cfr. Taddei, L'arte del vetro, cit., pp. 38-46 e appendice, docc. V, Vlll eXV; per bolli di vetro con scudi crociati sulle bottiglie rinvenute nello scavo della vetreria di Monte Lecco cfr.Fossati, Mannoni, Lo scavo della vetreria, cit., p. 58 s.

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FIGURA 1Vetreria di Monte Lecco nell’Appennino tra Genova ed Alessandria, databile alla finedel secolo XIV-inizi del XV. Ricostruzione, in scala, delle principali forme prodottesulla base dei reperti di scavo

Le zuche sono evidentemente i recipienti più grandi, con unità di misura la quarta, per laquale sono previsti multipli e un sottomultiplo, la meza, confrontabile con il "mezzo quarto"che si ritrova anche a Firenze come contenuto del fiasco da vino comunemente usato e per ilquale è stata calcolata un'equivalenza a litri 2,2843; per l'inghistaria è prevista una solamisura e come confronto è possibile utilizzare la capacità delle bottiglie rinvenute nellavetreria di Monte Lecco, stimata fra 850 e 900 centimetri cubici44; per i bocaliti, distinti inbocalitus de meza e bocalitus de piçola et terçarola, è meno facile dedurre le capacità erimane anche da chiarire per la misura più piccola la differenza che sembra esistere tra dueoggetti di peso e costo equivalente; parrebbe comunque trattarsi di capacità inferiori a quelladell'inghistaria: in questo caso la specificazione de meza non sarebbe riferita alla quartacome per le zuche e si potrebbe pensare invece ad un contenuto corrispondenterispettivamente alla metà e ad un terzo in rapporto a quello delle bottiglie. Poco chiararimane infine la distinzione che si riscontra per i bicchieri fra ciati gambasini e ciaticristalini: le denominazioni non sembrano riferirsi a diverse qualità di vetro poiché perentrambi i tipi è prevista la produzione verde e incolore, né suggeriscono una differenza diforme che si possa ricondurre all'esistenza di bicchieri apodi e calici con stelo, si può solorilevare che quelli gambasini sono più leggeri ed economici, che la gamma dei prezzi unitarivaria da uno a tre denari e che in ogni caso quelli in vetro incolore devono essere piùpesanti.Nella stessa rubrica statutaria viene anche stabilito che i vetrai devono essere soggetti allasocietà dei Salaroli, e questo è per ora l'unico dato sulla collocazione di questi artigianinell'ambito delle corporazioni bolognesi, se si trascura la ricordata tariffa divisa per arti nellaquale i Salaroli non figurano e che sembrerebbe suggerire un'appartenenza ai Merciai o alleQuattro Arti, prima della fine del secolo XV, quando

43 Taddei, L'arte del vetro, cit., p. 4344 Fossati, Mannoni, Lo scavo della vetreria cit., p. 65.

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TABELLA 1Tip i, caratteristiche e prezzi dei contenitori d'uso comune in vetro prodotti a Bologna,secondo le norme degli statuti comunali del 1389 (cfr. appendice I).

Contenitore Qualità del vetro Peso unitario Peso unitario inbolognini piccoli

Inghistaria verde once 7 9Inghistaria bianco cristallino once 7 12Bocalitus de meza verde once 5 1/2 6Bocalitus de meza bianco cristallino once 5 1/2 7Bocalitus de pigola et tergarola verde once 3 4Bocalitus de pipola et tergarola bianco cristallino once 3 5Orinalis once 3 10*Ciati gambasini verde libre 1/13 12/12Ciati gambasini bianco cristallino libre 1/11 12/8Ciati cristalini verde libre 1/8 12/5Ciati cristalini bianco cristallino libre 1/7 12/4Zuche de meza once 3 9*Zuche de quarta once 4 1/2 16*Zuche de duabus quartis once 8 24*Zuche maiores duarumquartarum

in proporzionealle precedenti

8 per ogni quartaoltre le prime due

*Cum coperta.

cominciano a comparire dei bichirarii nelle matricole dei Fabbri45. Questo passaggio aiFabbri nel Cinquecento è riscontrabile anche per i ceramisti, un'altra categoria di artigianiche necessitano di fornaci e che produeono contenitori d'uso comune46, mentre un fenomenoanalogo è documentato per Firenze, dove nel secolo XIV i bicchierai costituivano unmembro dell'Ars Oliandolorum, Biadaiolorum, Bicchieraiorum et Casciaiuolorum efacevano anche parte dell'arte dei Medici e Speziali, per poi passare verso il 1400 all'arte deiChiavaioli, Ferraioli e Calderai47.Informazioni su vetrai attivi a Bologna sono ricavabili da un contratto del 139148 (vedereappendice, doc. II), nel quale Francesca di Filippo, vedova di Pietro de Ciatis de Gambassi,che ha perso anche il figlio Jacopo ed alla quale sono rimaste in eredità le attrezzature per laproduzione vetraria del marito e del figlio, si associa con Pietro di Bartolo di Giovanni deGambassi de Ciatis, il quale si impegna a pagarle ottocento lire in quattro anni per l'acquisto

45 A.S.B., Comune, Capitano del Popolo, Libri Matricularum delle società d'Armi e d'Arti V: Blasius lacobi dePilatis de zuchis alias de bicheriis capelle Sancii losep compare insieme al figlio Geronimo nel 1481 (c.CCLXXXVIIIIv), seguito poi da alcuni altri nel secolo successivo.46 Sulla produzione di ceramiche a Bologna fino al secolo XVI vi sono stati studi e polemiche alla fine delsecolo scorso e all'inizio di questo da parte di bolognesi e faentini: in particolare C. Malagola, Memoriestoriche sulle maioliche di Faenza, Bologna 1880, pp. 36-42 e passim; L. Sighinolfi, Per la storia dell'arteceramica, "Faenza", IV (1916), 3, pp. 79-82. Anche per questa produzione è comunque necessaria unarevisione critica dei documenti, anche alla luce dei recenti rinvenimenti archeologici.47 Cfr. Taddei, L'arte del vetro , cit., pp. 14s e 33-7. È interessante comunque notare che a Firenze e a Pisa nelsecolo XV si riscontrano investimenti e partecipanze in cui sono collegate botteghe e fornaci di vetrai conbotteghe di formaggiai o pizzicagnoli: cfr. ivi, pp. 17 e 19 e appendice, docc. II e XVI.48 A.S.B., Comune, Memoriali n. 317, cc. CVIr-v.

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della metà degli oggetti di vetro, dei rottami, degli attrezzi metallici, dei beni mobili ingenere pertinenti alla lavorazione del vetro e delle fornaci esistenti in una casa posta nellacappella di San Remigio: egli promette anche di saldare i debiti di Pietro e Jacopo, riceveràin prestito da Francesca centonovantadue lire a termine di quattro anni e condurrà a mezzocon lei la domus seu statio deputata ad artem et misterium ciatorum per dieci anni, pagandoun affitto annuo di trentacinque lire49. Oltre a consentire la localizzazione di una fornacebolognese questo documento ci dà un'interessante testimonianza sulla località di origine diquesti vetrai, Gambassi, un centro della Val d'Elsa con attività di vetrai documentata dallaprima metà del Trecento. Notizie di produzione vetraria nello stesso periodo si hanno ancheper altri tre comuni vicini, San Gimignano, con fornaci documentate dal 1265, Montaione,che ricavava la legna per le vetrerie dalla selva di Camporena e San Miniato che disputava alpreeedente i diritti sulla selva50, e quest'area e in particolare Gambassi oltre a costituire unanotevole coneentrazione di impianti specializzati diedero origine ad una migrazione di vetraianche al di fuori della Toscana. Se a Firenze numerosi bicchierai originari di Gambassi sononoti dal 142751, come si è rilevato a Bologna sono presenti alla fine del Trecento, e perRavenna è documentata nel 1365 una società ad artem de mioliis, per cinque anni, fra uncesenate che partecipa con un capitale di cento lire ed un cittadino ravennate originario diGambassi che oltre a cinquanta lire si impegna a fornire le materie prime e l'attrezzaturanecessarie52; anche a Modena la prima fornace da bicchieri documentata, nel 1339, fuimpiantata da artigiani fiorentini nella via dei Grasolfi, chiamata poi de miolis53. Ledimensioni della diffusione dei vetrai toscani dalla fine del 1200 sono sottolineate dallatestimonianza di vetrai fiorentini a Genova dal 1297, nonché di un artigiano di Gambassi aSassello nel Savonese nel 1314, di vetrai dalla stessa area a Murano dal 1315, e dalladocumentazione a Palermo nel 1344 e 1345 di due società per la produzione del vetro framercanti palermitani che forniscono il capitale e artigiani di Firenze e San Miniato54.Ritornando alla produzione bolognese, i documenti esaminati consentono di ricavare unadiscreta quantità di informazioni per il secolo XIV, ma rimangono ampie lacune diconoscenza sulla struttura delle fornaei55, l'approvvigionamento delle materie prime e del

49 Attraverso un altro documento, la donazione nel 1413 da parte di Francesca di questa fornace ai fratiFrancescani, tale fabbrica era la più antica nota anche al Guidicini, cfr. G. Guidicini, Cose notabili della cittàdi Bologna, Bologna 1868, vol. I, p. 425.50 Taddei, L'arte del vetro , cit., p. 10. A Gambassi potrebbe risalire l'origine dell'attributo gambasini incontratoper i bicchieri negli statuti del 1389, sebbene ciò non ne chiarisca le caratteristiche né la contrapposizione acristalini; l'attributo compare anche altrove ed in particolare in documenti muranesi dal 1311, cfr. Zecchin,Denominazioni, cit., 5p. 27s.51 Taddei, L'arte del vetro, cit., p. 16s e appendice, docc. II, III, VI, IX.52 Il documento è pubblicato in S. Bernicoli, Arte e artisti in Ravenna. III. Di un'antica vetreria , "FelixRavenna" 9 (1913), p. 353 s. Il fomimentum necessarium è costituito da duodecim miliaria sablonis a vitro,quinque paria de forbicibus ad incidendam lanam et quinque moglas ad pingendum pannum de maglis amiolis, sex somas de metallo a miolis, novem canellas a miolis, septem puntellos, unam capzam ad ponendamvitrum et tres cazzas ad mutandam vitrum, duos ratarellos, unam rasuram grossam, unam cazzolampannorum, unum par de moglis ab archis, unum paleum ad misidandam, unam rasuram parvam, quindecimpadellas, unum miliare de mutoncellis, unum de ferro, unam stateram grossam cum catena, Vl libras terre deRezzo sex capsonos inter magnos et parvos.53 Cfr. Comune di Modena, Museo Civico Medievale Moderno, Guida, s.d. Sala X vetrina VII. Anche aBologna un tratto dell'attuale via Farini era denominato Miola o Migliola o via del Miolo, cfr. M. Fanti, Le viedi Bologna, Bologna 1974, p. 316.54 Per la Liguria cfr. A. Ferretto, Codice diplomatico delle relazioni fra la Liguria, la Toscana e la Lunigianaai tempi di Dante (1265-1321), "Atti Soc. Ligure Storia Patria", XXXI (1901), 1, p. XI; per Murano Zecchin,Denominazioni, cit., p. 27; per la Sicilia Bonanno, D'Angelo, La vetreria di Cefalà, cit. p. 346, docc. 1 e 2.55 Per la discussione sulla struttura e sul funzionamento delle vetrerie nell'Antichità e nel Medioevo sulla basedelle fonti documentarie e dei risultati di alcuni scavi vedere Gasparetto, A proposito dell'officina vetrariatorcellana, cit.

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eombustibile, il numero, la dislocazione, la durata d'esercizio e la produttività degli impianti,il numero, le funzioni e la situazione economica degli occupati nella manifattura vetraria,nonché sulla produzione dei vetri da finestra, delle lenti e di altri oggetti realizzati in vetro,come lampade e calamai, e soprattutto mancano per ora dati sui consumi in rapporto allediverse classi sociali.Per avere delle risposte a questi problemi sono necessarie ulteriori indagini sistematichesulle fonti scritte ed anche un maggior numero di scavi stratigrafici; le ricerche inoltreandrebbero estese oltre il termine cronologico che qui ci si è posti, per chiarire latransizione, riscontrabile a Bologna56 come in altre località, nella seconda metà delQuattrocento ad un monopolio produttivo che arriverà fino alla fine del secolo XVIII,quando la privativa sarà tempestivamente rivenduta al Senato bolognese prima dell'arrivodei Francesi, che, tra le altre cose, abolivano tali privilegi.

Appendice

I

Archivio di Stato di Bologna, Archivio del Comune, Statuto del 1389, Libro VI, rabr. LVII,cc. CCCLXXII r-v.

De vasis vitreis fiendis et aliis capitulis rubrica. Quia vasa vitrea sunt multo solito cariora etdebiliora, quod contingit ex eo quod [est] penuria magistrorum et solumodo certis licet ipsafacere, volentes talibus obviare et ut de talibus copia habeatur, merito duximus statuendumquod quilibet civis vel forensis possit libere et impune facere et fieri facere intus et extracivitatem Bononie fornaces aptas et habiles ad faciendum miglolos, inghistarias, boccalitoset alia vasa vitrea, de bono vitreo bene cotto et bene temperato et sine aliqua immissione exquibus faciliter non rompantur vel a se ipsis sclopentur seu frangantur, sub pena aliterfacienti scu aliter fieri facienti et magistro fornacis quinque solidorum bononinorum proquolibet vase, de quibus et omnibus infrascriptis notarius fanghi et stratarum cognoscere etinquirere possit et teneatur et culpabiles punire et quibus possit acusare et denuntiare, etipsos miglolos, inghistarias, boccalittos et alia vasa vitrea facere et fabrigare et fieri etfabricari facere ac etiam conducere et conduci facere ad civitatem Bononie undecunque etilla vendere possint et teneantur cuilibet emere volenti, dummodo non possint ipsa vasavitrea integra scu fracta nec etiam tasum conducere extra districtum Bononie per aliquem,pena conducenti pro qualibet vice XXV librarum bononinorum et ammissionis rerum, etquilibet possit acusare et habeat medietatem condennationis. Et quilibet veniens adfaciendum miglolos et alia vasa vitrea eos faciat in civitate vel comitatu, sit et esseintelligatur immunis ab omnibus oneribus realibus vel personalibus vel mixtis queimponerentur per comunem Bononie vel aliquam aliam universitatem comuni Bononiesubiectam. Et potestas teneatur facere preconizari predicta infra quindecim dies a diepublicationis presentium statutorum. Et debeant dicta vasa vitrea fieri et esse infrascriptarummanerierum, infrascripti ponderis et qualitatis ipsaque dari debeant et vendi in civitateBononie quibuscunque emere volentibus pro infrascriptis pretiis et non pro maioribus,

56 La privativa fu concessa nel 1472 dai Sedici Riformatori ai Malvezzi, che la mantennero, a parte un breveperiodo all'inizio del Cinquecento in cui la ebbe Nascentorio Nascentori, che vantava un'attività vetrariafamiliare di 150 anni a Bologna (cfr. Una fabbrica di vetri a Bologna già secolare al tempo di Clemente VII,"Archivio Storico dell'Arte", II, 1889, p.l69-71), finché nella seconda metà del secolo XVII passò in dote aiBentivoglio: Filippo Bentivoglio vendette infine il diritto al Senato nel 1792 per 15.000 scudi cfr. A.S.B.,Archivio del Reggimento, Assunteria d'Arti, Recapiti per la privativa dei vetri e G. Guidicini, Cose notabilidella città di Bologna, cit., vol. 1, p. 425 e vol. II, p. 57.

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pondus vero et qualitates infrascriptarum manerierum vasorum vitreorum et pretium proquibus dari et vendi debent sunt hec videlicet: inghistaria vitri viridis ponderis VII untiarumpro novem denariis parvis bononinorum; inghistaria vitri albi cristalini ponderis VIIuntiarum pro duodecim denariis parvis bononinorum; bocalitus vitri viridis de mezaponderis quinque untiarum et dimidie pro sex denariis parvis bononinorum; bocalitus vitrialbi cristalini de meza ponderis quinque untiarum et dimidie pro septem denariis parvisbononinorum; bocalitus vitri viridis de pigola et tergarola ponderis trium untiarum proquatuor denariis parvis bononinorum; bocalitus vitri albi cristalini de pigola et tergarolaponderis trium untiarum pro quinque denariis parvis bononinorum, orinalis ponderis triumuntiarum pro decem denariis parvis bononinorum cum coperta, ciati gambasini vitri viridisponderis ad rationem tredecim pro libra duodecim pro XII denariis parvis bononinorum,ciati gambasini vitri albi cristalini ponderis ad rationem XI pro libra, octo pro XII denariisparvis bononinorum; ciati cristalini vitri viridis ponderis ad rationem octo pro libra, quinquepro XII denariis parvis bononinorum; ciati cristalini vitri albi cristalini ponderis ad rationemVll pro libra, quatuor pro Xll denariis parvis bononinorum; zuche de meza ponderis triumuntiarum pro novem denariis parvis bononinorum cum coperta; zuche de quarta ponderisquatuor untiarum et dimidie pro XVI denariis parvis bononinorum cum coperta; zuche deduabus quartis ponderis octo unziarum pro XXIII lor denariis parvis bononinorum cumcoperta; omnes allie vero zuche maiores duarum quartarum a dictis duabus quartis supraponderis pro qualibet quarta secundum ratam ponderis aliarum zucharum predictarum, proocto denariis parvis bononinorum pro qualibet quarta ultra duas quartas cum coperta, etomnia alia vasa vitrea cuiuscunque alterius maneriei pro iusto et competenti pretio exhiberiet dari emere volentibus actenta ratione supradictarum. Sub pena cuilibet contrafacientiammissionis vasi cuiuslibet in quo fuerit contrafactum et dimidie extimationis seu valorisdicti vasi. Et ut predicta melius observentur volumus quod quilibet magister exercens dictamartem sit subiectus et obediens massario et sotietati artis salarolorum civitatis Bononie, proqua obedientia et subiectione et fideiussione prestanda exigi ab eis non possit ultra solidosquinque pro quolibet et habeantur pro vere exercentibus artem et membrum artissalarolorum quo ad omnia que disponuntur de dictam artem vel membrum exercentibus etmassarius dicte artis teneatur singulis duobus mensibus semel visitare quamlibet stationemdictorum vitrorum et ipsos punire et condennare secundum formam suprascriptam [...]

II

Archivio di Stato di Bologna, Archivio del Comune, Memoriali n. 317, 1391, cc.CVI r-v

Millesimo trecenteximo nonageximo primo inditione quartadecima, die vigeximoterciomensis februarii. Petrus quondam Bartholi olim Johannis de Gambassi de Ciatis habitatorBononie in capella Sancti Remigii, adultus personaliter comstitutus in presentia sapientis etdiscreti viri domini Johannis de Lapis legum doctoris et civis Bononie, petiit a dicto dominoJohanne sibi dari et ipsius decreto comstitui et decerni in suum curatorem Dominicumquondam Guidonis de Manzolis cartolarium et Bononie civem capelle Sancti Josep, ibidempresentem et aceptantem, specialiter ad interponendum et prestandum auctorizandum suampresentiam et comsensum, promissioni quam facere intendit idem adultus domine Franciscequondam Philipi uxori olim Petri de Ciatis de Gambassi, heredi et hereditario nominerecipienti quondam Jacobi sui filii et flii dicti quondam Petri, de octingentis librisbononinorum in una parte ad terminum quatuor annorum hodie inchoandorum, pro precio etextimacione precii plurium rerum et bonorum mobilium, ut est vitrum et laboratum et non etstracii et feramenta et alia de quibus plene patebit in instrumento venditionis inferius

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describendo, vendendarum per dictam dominam Franciscam ipsi adulto pro dicto precio. Etsimiliter confessioni quam facere intendit ipse adultus de dictis rebus a se habitis et traditiset comsignatis sibi per ipsam dominam, promissionique etiam quam facere intendit ex causadicte venditionis de dando satisfaciendo et persolvendo de suo proprio et suis expensiscuidam Johanni de Placentia naute, Petro del Pigaglo de Ciatis et domine Lasie Nannisspeciarii capelle Sancti Laurentii de Guarinis, de omni et quocumque debito olim comtractoet facto tam per dictos Jacobum et Petrum simul vel alterum ipsorum divixii et de omni ettoto eo quod ab ipsis comuniter vel divisim habere et percipere deberent. Item etiampromissioni quam ipse adultus facere intendit predicte domine de centumnonagintaduabuslibris bononinorum in alia parte, quas dictus adultus confiteri intendit se habuisse etrecepisse ex causa mutui de puro amore et gratia speciali a dicta domina Francischina adterminum quatuor annorum hodie inchoandorum et pro rata et parte ac terminis anuatimprout et de quibus in instrumento inde confitiendo inferius declarabitur. Item conductioniquam facere intendit a dicta domina Francisca ad terminum decem annorum proximeventurorum de medietate pro indivixo cum se ipso unius domus seu stationis deputate adartem et misterium ciatorum posite Bononie in capella Sancti Remigii iuxta suos confines ininstrumento de predictis fiendo aponende et clarius describende, promissioni de utendo etfruendo arbitrio boni viri et de dando et solvendo pro pensione et nomine pensionis anuatimlibras tregintaquinque bononinorum terminis in dicto instrumento describendis, et de ipsamstationem in fine termini in eodem statu restituendo [...].Venditio rerum mobillium. Eisdem millesimo inditione mense die testibus, habito agnatoiurante consentiente aserente et dicente ut supra, domina Francisca quondam Philipi uxorolim Petri de Ciatis de Gambassi, heres et hereditario nomine Jacobi eius quondam filii etfilii quondam Petri, ex ipsius Jacobi testamento et ultima voluntate scripta in millesimotrecenteximo octuageximonono inditione duodecima die primo octubris, animo et intentionedictam hereditatem adeundi et in ea se immiscendi sponte et excerta [scientia] per se et suosheredes dedit vendidit et tradidit Petro quondam Bartolli olim Johannis de Gambassi deCiatis heredi substituto per dictum quondam Jacobum in dimidia hereditate ipsiustestamenti, ibidem presenti pro se et suis heredibus recipenti et ementi, cum protestationetam quam ipse Petrus fecit et promixione quod non intendit per aliqua in presenteinstrumento apponenda dicte substitutioni vel aliquibus in dicto testamento contentisullatenus derogare set ea semper ipsi salva fore, dimidietatem pro indivixo cum dicto Petroomnium et singullorum ciatorum, fiallarum, zucharum et aliorum vasorum vitreorum acomnis quantitatis vitri laborati et non laborati, seu fracti et contussi, strazzorum, ferri seuferatii et aliarum quarumcumque rerum mobillium deputatarum ad usum et pro usu faciendiet laborandi vitrum, ac etiam fornacum existentium in una domo comuni ipsorum domineFrancisce ut heredis predicte et Petri predicti, posita Bononie in capella Sancti Remigii,iuxta viam publicam a duobus lateribus, iuxta heredes Nicolay de Castellis, iusta heredesMichaelis Solasse [. . .]

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I metalli

Nel saggio seguente, esemplare quanto poco noto1, Marina Baruzzi, partendodall'analisi di alcuni reperti provenienti dallo scavo imolese di Villa Clelia, impostaun'indagine sull'attrezzatura agricola dell'Altomedioevo e mette in evidenza come lafonte materiale sia estremamente efficace per ridiscutere problemi di cronologia,diffusione e tecnologia già dibattuti dalla storiografia medievale sulla base diun'evidenza prevalentemente scritta ed iconografica. Non solo, lo spunto e lo stimoloproveniente da materiali in contesti archeologici certi, spinge l'autrice ad affrontare,seppure marginalmente, aspetti legati alla produzione e alla circolazione del ferronell'Altomedioevo. Un tema che soltanto recentemente ha nuovamente catalizzatol'interesse della storiografia medievale dopo molti decenni di disinteresse. Attraverso lefonti e la più recente letteratura (V. Fumagalli) ci viene mostrato come nel brescianonel IX e X secolo, la lavorazione metallurgica non costituisse soltanto parte di attivitàin centri dominici, ma fosse disseminata nell'artigianato contadino che indirizzava leproprie capacità produttive non solo all'autoconsumo ma anche alla soluzione dei censidovuti. Contemporaneamente, oltre ai centri signorili e agli artigiani contadini,producevano oggetti in metallo artigiani di mestiere sia in area urbana che rurale. Ilquadro che emerge è quindi di grandissimo interesse dimostrando la polverizzazionedella produzione che doveva avere una simmetria notevole con l'attività estrattiva (untema non affrontato ovviamente nel saggio), che si attuava in forme di "erosione" diogni piccolo affioramento anche superficiale. Sarà soltanto con i nuovi bisogni dellacittà di pietra, in epoca romanica, che estrazione e attività metallurgica sispecializzeranno dando vita ad insediamenti con vocazione specifica in forme peròdestinate a mutare velocemente per le radicali trasformazioni tecnologiche, soprattuttonel quadro dello sfruttamento della forza idraolica nella lavorazione metallurgica, chespinse allo sviluppo dei centri produttivi presso i corsi di acqua.

1 I reperti in ferro dello scavo di Villa Clelia (Imola). Note sull'attrezzatura agricola nell'Altomedioevo,"Studi Romagnoli", XXIX (1978), pp. 423-46.

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Marina Baruzzi

I reperti in ferro dello scavo di Villa Clelia (Imola). Note sull'attrezzatura agricolanell'Altomedioevo

Nel corso della campagna di scavi del 1978 presso Villa Clelia a Imola, sono state riportate alla lucele tracce di un insediamento probabilmente identificabile con il castrum Sancti Cassiani, la sedevescovile che affiancò la città di Imola fino alla fine del XII secolo. Fra i numerosi importantireperti di tale scavo, si segnala il rinvenimento, in strati differenti, di numerosi oggetti in ferro, lamaggior parte dei quali riconoscibile come parte trinciante di strumenti di lavoro. Un primo gruppoè stato rinvenuto nello strato di intonaci databile al VI secolo1. Al momento del ritrovamento,l'intero gruppo poggiava su una graticola in ferro e gli oggetti si trovavano ingrumati in un unicoblocco di forma vagamente rettangolare; ciò lascia supporre che essi fossero originariamente raccoltiin un contenitore. Si tratta di una dozzina di pezzi, tra cui lame di diversi attrezzi, alcune delle qualipresentano ancora tracce di legno nell'immanicatura: un vero e proprio corredo di strumenti,difficilmente riferibile, tuttavia, ad un'attività artigiana, vista l'eterogeneità d'uso dei pezzi presenti.Il maggior numero di attrezzi è da porre in relazione con attività di lavorazione del legno. Troviamoinfatti due scuri, di dimensioni simili ma di foggia leggermente diversa: una (1170 g) è fornita diuna grossa cassa a sezione quadrangolare, che si prolunga in una piccola nuca squadrata (fig. 1, a);1'altra presenta un corpo più compatto, la nuca appiattita fino a confondersi nella cassa, la lamaleggermente arrotondata; il suo peso è leggermente inferiore: 900 g (fig. 1, b). Il peso delle lame e lasuperficie di taglio non sono tali da suggerire trattarsi di scuri da abbattimento: piuttosto, per larobustezza della cassa e l'angolazione delle superfici, esse potevano essere impiegate da taglio, perdiramare, come cuneo per legni teneri. Si affiancano ad esse due piccole scuri ad alabarda (a formadi mannaia) rispettivamente di 610 e 960 g (fig. 1, g ed h). La larga superficie del taglio, utile perspaccare e squadrare tavole, è equilibrata dalla cassa pesante. Completa il gruppo degli attrezzi dataglio uno strumento di piccole dimensioni (450 g) identificabile con un'ascia (fig. 1, c) piuttosto checon una zappa, anche se la posizione della lama e la sua foggia sono nei due attrezzi spesso simili.La prima, tuttavia, consta generalmente di un corpo più corto e compatto e di una cassa più robusta,adatti ad affrontare la maggiore resistenza opposta da legno e radici; la zappa invece può presentareuna cassa anche molto sottile, e la sua lama raggiungere dimensioni notevoli. La lama della nostraascia, di forma allungata, si presenta leggermente arcuata; il lembo tagliente è perpendicolareall'asse del manico; la cassa si prolunga in una stretta nuca, quasi a formare una piccola scure dallalama arrotondata.

1 Per la datazione degli oggetti e la localizzazione dei rinvenimenti si vedano i contributi di M. G. Maioli in Imoladall'età tardo romana all’alto medio evo. Lo scavo di Villa Clelia, Imola 1979; Id., La campagna di scavo 1979 a "VillaClelia" (Imola): relazione preliminare, in "Studi Romagnoli", XXIX (1978), pp. 329-46. Una parte consistente dellamedesima annata della rivista raccoglie gli Atti delle giornate di studio che la Società di Studi Romagnoli ha dedicato airisultati degli scavi (Imola, dicembre 1979). I disegni delle figure 1 e 2 (a cui si fa riferimento nel testo) sono statirealizzati da Miria Mazzetti, che ringrazio.

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FIGURA 1, a-fReperti in ferro dello scavo di Villa Clelia (secolo VI)

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FIGURA 1, g-nReperti in ferro dello scavo di Villa Clelia (secolo VI)

Ancora alla lavorazione del legno erano destinate la sgorbia (450 g) (fig. 1, f) e, forse, le due laminedi forma semicircolare (fig. 1, d ed e) terminanti alle estremità a doppio uncino (predisposte per unadoppia immanicatura?), probabilmente attrezzi destinati alla scortecciatura dei tronchi.Alla frantumazione del terreno sembra invece destinato il lungo piccone (fig. 1,l) che presenta duestrette superfici taglienti opposte e perpendicolari tra loro, adatto soprattutto allo scasso di terreniaccidentati e rocciosi (450 g). Infine troviamo un martello del peso di 1080 g (fig. 1, m); una lamafortemente corrosa e contorta, al punto da essere ormai irriconoscibile, in cui è visibile l'occhio perl'alloggiamento di un manico (fig. 1, i); ed una vanga o pala (fig. 1, n). Quest'ultimo è un attrezzo di

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piccole dimensioni- (960 g); la lama, a taglio arrotondato, è leggermente incurvata, e l'immanicatura,che presenta ancora tracce di legno, forma con essa un ampio angolo, suggerendo trattarsi di unapala anziché di una vanga, anche perché le spalle spioventi e strette dell'attrezzo non sembrano poteroffrire una buona presa al piede del lavoratore. L'attrezzo presenta tuttavia una grossa lamina ricurvadi metallo sulla parte anteriore dell'immanicatura: forse un vangile deformato? Si tratterebbe allorasenza dubbio di una vanga, il principale strumento di lavoro nella piccola coltura, per compiere amano lavori di scasso e rivoltamento del terreno, e per completare l'insufficiente lavoro dell'aratronel campo.Del secondo gruppo di strumenti fanno parte quattro pezzi, rinvenuti in una zona dirimaneggiamento dello strato altomedievale, databile attorno al Mille. Si tratta di una scure, inbuono stato di conservazione (1180 g), con le superfici disposte simmetricamente a forma di cuneodel tutto simile a quella del gruppo precedente, anch'essa munita di grossa cassa e nucaquadrangolare, col lembo tagliente leggermente obliquo (fig. 2, a); un'ascia (560 g) dalla cassasottile, prolungantesi in una nuca compatta ed appiattita (fig. 2, b); un oggetto di peso notevole(2120 g), appuntito simmetricamente, che presenta 1'aspetto di un piccone, sprovvisto tuttavia diforo centrale per alloggiare il manico (fig. 2, c); ed infine una lama di coltello di grandi dimensioni epeso (2300 g), probabilmente - come vedremo - il coltro di un aratro (fig. 2, d).Ritrovamenti di strumenti in ferro di età medievale, soprattuto in numero consistente, sono piuttostorari (anche perché il materiale, raro e prezioso, era soggetto a continui reimpieghi). Sotto questoprofilo i ferri degli scavi di Villa Clelia assumono un'importanza ed un interesse del tutto particolariai fini di una migliore conoscenza dell'equipaggiamento tecnico altomedievale, tenuto conto dellascarsità di informazioni utilizzabili a questo proposito, ed offrono l'occasione per alcuneconsiderazioni di carattere più generale sull'attrezzatura agricola a disposizione dei contadini.Nell'insieme, i reperti imolesi costituiscono un piccolo campionario di lame di quelli che furono,oltre alle falci, gli strumenti essenziali dell'attività agricola nell'Altomedioevo: zappe, vanghe, aratri,asce, scuri; gli stessi attrezzi che, pur eccezionalmente, vengono registrati nei documentialtomedievali tra i mobilia presenti sui poderi dei contadini dipendenti e sulle terre gestitedirettamente dai proprietari.

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FIGURA 2Reperti in ferro dello scavo di Villa Clelia (fine secolo X- inizi secolo XI)

Strumenti di lavoro quotidiano, soggetti ad una usura relativamente lenta, gli attrezzi dotati di partimetalliche venivano fatti oggetto di accurata manutenzione e di continne riparazioni. Il loro forzatoabbandono, come può essere il caso del gruppo di ferri del VI secolo riposti tutti insieme forse inuna cassetta, o il loro smarrimento, come forse è accaduto ai reperti erratici rinvenuti nello strato piùtardo, dovette costituire una perdita di entità non trascurabile. E certo non era fatto di poco conto, seil recupero della lama di un falcastrum - una piccola falce per tagliare i rovi2-, staccatasi dal manico 2 «ferramentum. . . quod a falcis similitudine falcastrum vocatur» (Gregorio Magno, Dialogi, a cura di U. Moricca,Roma 1924, II, VI, p. 89). La definizione è ripresa da Isidoro di Siviglia, Etymologiae, XX, XIV, 5 (ed. W. M. Lindsay,

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e scivolata in un lago, poteva diventare oggetto di miracolo nell'agiografia altomedievale3. Che laperdita delle parti metalliche degli attrezzi da lavoro potesse rappresentare un serio dannoeconomico è confermato dall'esame delle fonti documentarie contemporanee - le carte private inparticolare - da cui si ricava una generale impressione di scarsa presenza di metallo nel settore dellastrumentazione agricola. L'Altomedioevo è stato felicemente definito una civiltà del legno4. Il bosco,sulla cui estensione in quell'epoca e sul cui ruolo nella vita economica non è qui luogo per insistere,non forniva allora soltanto sostentamento per animali e uomini, ma anche il materiale primario perla costruzione della stragrande maggioranza di attrezzi, macchinari, edifici e costruzioni di variotipo. Pale, forche, rastrelli, badili, vanghe e spesso anche l'aratro erano fabbricati esclusivamente inlegno, riservando alle parti trincianti di pochi strumenti l'impiego del metallo5. Non di rado questoera destinato a rivestire come semplice rinforzo una parte soltanto dell'attrezzo: la punta dell'aratro oil bordo delle vanghe, come ben testimonia l'iconografıa contemporanea6, Non a caso, negli elenchidi attrezzi agricoli sono talora compresi anche strumenti di carpenteria che servivano alla lorofabbricazione7.Alcuni elenchi di attrezzi agricoli sono rintracciabili nei "polittici", inventari di terre, coloni e redditistesi dai grandi proprietari altomedievali - enti ecclesiastici e monastici - per una ricognizione deiloro possessi. Fra IX e XI secolo non sono pochi i documenti di questo tipo, talora assai lunghi edettagliati8, Ma anche in essi, che pure costituiscono una fonte di fondamentale utilità per le ricerchedi storia agraria9, le notizie sugli strumenti di lavoro sono rare e sommarie: su tredici politticialtomedievali di area padana, solo due - come vedremo - presentano inventari di questo tipo.Fra di essi, quello relativamente più ricco di informazioni a questo riguardo è il breve recordacionisdel monastero di S. Tommaso di Reggio Emilia, attribuito al X secolo10. In esso è tracciato, per ognicurtis, un elenco di prodotti, attrezzi, servi e bestiame presenti sul centro aziendale11. Apprendiamo,così, che una zappa, una mannaia, due scuri, tre seghe, otto falci messorie sono a disposizione dei 62servi (fra maschi e femmine, adulti e bambini) che lavorano sulla corte principale del monasteronell'area gestita in economia; essi possono inoltre utilizzare due coppie di buoi per l'aratura,effettuata con uno strumento prowisto di rinforzo metallico (oltre a due gioghi sono infatti registrati

Oxford 1911): «Falcastrum a similitudine falcis vocatum: est autem ferramentum curvum cum manubrio longo, addensitatem veprium succidendam. Hi et runcones dicti, quibus vepres secantur, a runcando dicti». Esattamente a questoscopo era impiegato l'attrezzo nel racconto di Gregorio (cfr. nota seguente). Il termine, sinonimo di runco, è comequesto assente negli scritti degli agronomi latini, ad eccezione di Palladio (cfr. D. K. White, Agricultural implements ofthe roman world, Cambridge 1967, pp. 91 ss.). La tarda comparsa di ambedue i termini fa supporre allo studioso «thatimplement was a specialized form of falx invented in later times»: una sorta di falcetto innestato su un lungo manico, dicui si può vedere riprodotto un esemplare (conservato presso il Museo Nazionale di Napoli) nello studio citato (tav. 9b).3 Narra Gregorio che Benedetto un giorno affidò ad un lavoratore goto l'incarico «ut de loco quodam vepres abscinderet,quatinus illic fieri hortus deberit». Nel corso del lavoro, la lama dell'attrezzo cadde nell'acqua del lago sulla cui spondasi trovava il goto, che «tremebundus», corse a denunciare «damnum quod fecerat», chiedendo di essere punito. MaBenedetto «tulit de manu Gothi manubrium, et misit in lacum: et mox ferrum de profundo rediit, adque in manubriumintravit, qui statim ferramentum Gotho reddidit dicens: "ecce labora, et noli contristari"» (Dialogi, cit. p. 89).4J. Le Goff, La civiltà dell'Occidente medievale, Milano 1969, p. 251.5 Cfr. G. Duby, L'economia rurale nell'Europa medievale, I, Bari 1970, p. 30s.6 Una buona raccolta di esempi tratti dall'iconografia medievale inglese è quella apprestata da W. O. Hassall, Notes onMedieval Spades, in The Spades in Northern and Atlantic Europe, a cura di A. Gailey e A. Fenton, Belfast 1970, pp. 30-4.7 Vari esempi in Duby, L'economia rurale, cit., I, p. 30.8 Essi sono ora riuniti (e nuovamente editi) nel volume Inventari altomedievali di terre, coloni e redditi , a cura di A.Castagnetti, M. Luzzati, G. Pasquali, A. Vasina, [F.S.I., 104], Roma 1979.9 Si vedano, ivi, le accurate bibliografie premesse ad ogni polittico e la bibliografia aggiuntiva alle pp. XV-XVI.10 Ivi, n. IX, pp. 195-9 (a cura di A. Castagnetti).11 A ciò fa seguito la registrazione dei proventi relativi ai poderi aggregati ai singoli centri domocoltili, che perù nonfornisce dati sull'attrezzatura agricola.

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due vomeri). Non molto diversa la situazione nelle altre cinque corti descritte nel polittico, dellequali ugualmente si registra l'attrezzatura rinvenuta sulla pars dominica 12.Notiamo che tra i beni mobili di cui sono dotate le aziende alcuni soltanto - i più rilevanti - vengonoregistrati: per lo più compaiono utensili da cucina, contenitori per derrate alimentari di vario tipo,soprattutto quelli di grandi dimensioni, ed infine attrezzi da lavoro, ma probabilmente solo quellidotati di parti metalliche, tralasciandosene molti altri - che pure dovevano essere presenti - di piùsemplice e comune fabbricazione. È difficile perciò esprimere una valutazione sulla consistenzadell'equipaggiamento tecnico di queste aziende, senza contare che non sappiamo nulla della suaeffıcacia. Le laconiche informazioni dei documenti sembrano suggerire una generalizzata carenza distrumenti agricoli di metallo: conclusione cui, in effetti, gli storici dell'economia nella maggior partedei casi - pur con qualche eccezione13 - pervengono 14. Ma due elementi, almeno, vanno tenutipresenti, per non incorrere in conclusioni affrettate: da un lato, l'organizzazione del lavoro all'internodel sistema curtense; dall'altro, la realtà del paesaggio altomedievale e le sue peculiarità produttive.Per quanto riguarda il primo punto è noto che la lavorazione dei campi tenuti in economia eraaffidata per gran parte alle prestazioni di opere (cioè alle giornate di lavoro) dei coloni dipendenti, iquali presumibilmente portavano con sé i propri attrezzi, necessari alle diverse operazioni agricole, espesso anche i buoi per l'aratura (e forse lo stesso strumento aratorio): l'ingiunzione medietatem cumbovis et medietatem cum manibus, che più frequentemente ricorre a proposito delle corvées nei patticolonici15, non sembra infatti riferirsi solo al tipo di lavoro da eseguire, ma ancheall'equipaggiamento che i coloni sono tenuti - se possibile - a portare con sé16. 12 A Sciola, nella montanga parmense, sono annotate una falcina, due zappe due mannaie, un vomere per l'aratro, duebuoi; i servizi qui sono 36. A Vercallo, nell'alta collina reggiana, dove lavorano 5 servi, non è registrata la presenza dialcun attrezzo. A Cedogno, nella stessa zona, ci sono - a disposizione di 33 servi - due zappe, una mannaia, due falcimessorie, una setia; anche un giogo e due buoi compaiono nell'elenco, ma non c'è menzione del vomere: forse sul suololeggero di questa azienda collinare era considerato sufficiente l'impiego di un aratro di legno temperato al fuoco, il cuilavoro sarebbe stato poi completato a mano. A Curciliano, ubicato probabilmente in alta collina o in montagna, 7 servidispongono - oltre che del giogo, di un vomere e di un numero imprecisabile di buoi (la carta in questo punto è abrasa) -di una mannaia, due zappe, due falcine e tre falci messorie. Relativamente meglio equipaggiata rispetto all'estensionedel terreno signorile (di cui possiamo farci un'idea in base alla quantità dei prodotti che vi sono coltivati) sembra esserela corte di Enzola, nella bassa pianura reggiana vicina al Po; qui per 13 servi vi sono tre buoi, due gioghi, due vomeri,quattro zappe, due scuri, una mannaia e quattro falci messorie. Per l'identificazione delle località, cfr. V. Fumagalli,Storia agraria e luoghi comuni, "Studi Medievali", s. 3, IX (1968), pp. 949-65, a p. 955.13 Si veda ad esempio R. Delatouche, Regards sur l'agriculture aux temps carolingiens , "Journ. des Savants", 1977/2,pp. 73-100, a p. 78 ss. Per un periodo più tardo, le ricerche di P. Toubert sull'area laziale hanno individuato la presenzadi artigiani del ferro sul fronte della colonizzazione, «pour fournir à la conquête rurale un outillage dont nous n'avonsaucune raison de minimiser la valeur à l'excès» (Les Structures du Latium médiéval. Le Latium métidional et la Sabinedu IXe siècle à la fin du XIIe siècle, I, Rome 1973, p. 230).14 Così, ad esempio, Duby, L'economia rurale , cit., p. 24 ss., Le Goff, La civiltà , cit. p. 256 ss.; J. Dhondt, L'AltoMedioevo, Milano 1970, p. 124; G. Fourquin, Le Premier Moyen Age, in Histoire de la France rurale, a cura di G.Duby e A. Wallon, I, Paris 1975, p. 331 ss.15 Un elenco dei contratti con coltivatori editi (limitatamente all'Altomedioevo e all'ltalia del Nord) è in M. Montanari,L'alimentazione contadina nell'alto Medioevo, Napoli 1979, Appendice a pp. 481-5. Un aggiornamento del medesimoelenco è in Id., La corvée nei contratti agrari altomedievali dell'ltalia del Nord, in Le prestazioni d'opera nellecampagne italiane del Medioevo, Bologna 1987. L'ingiunzione ricorre in questa stessa forrna anche nel citato politticodi S. Tommaso di Reggio: medietatem cum bovis et medietatem cum manibus (Inventari, cit., pp. 196-8).16 Esplicite indicazioni in tal senso si rinvengono nella documentazione d'Oltralpe, ove gli inventari espressamenteprecisano che i dipendenti devono recarsi a lavorare il terreno dominico con i loro propri attrezzi (cfr. Delatouche,Regards sur l'agriculture, cit., p. 78). Un capitolare di Carlo Magno dell'anno 800, relativo al pago Cenomannico mache può avere un significato più generale, si riferisce ai coloni tenuti ad opere di aratura «cum suis animalibus [. . .] cumsuo aratro in campo dominico», precisando che se non hanno animali a sufficienza, devono prestare opere manuali piùnumerose (Capitularia Regum Francorum, edd. A. Boretius, V. Krause, Monumenta Germaniae Historica, Leges, 1,Hannover 1883, n. 31). Nella documentazione dell'Italia del Nord mancano attestazioni altrettanto esplicite riguardo allecorvées, ma per le opere di trasporto in alcuni contratti si fa precisare ai coloni che «si bubus non abuerimus at manibusaciuvare debeamus» (così in P. Federici Codex diplomaticus pomposianus, in appendice, a Id., Rerum pomposianarumhistoria monumentis illustrata, Roma 1781, pp. 397-591, n. LXVII, a. 1025, pp. 496s; cfr. Montanari, L'alimentazione,

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Per valutare, dunque, l'adeguatezza della strumentazione agricola altomedievale, non possiamoprescindere dall'attrezzatura dei poderi contadini. Non manca chi - sia pure in via ipotetica - sostieneuna sua migliore qualità, e maggiore consistenza, rispetto alle aziende signorili: il Modzelewski, adesempio, ritiene che diversamente dal signore, il colono avesse ogni interesse ad investire in attrezzii pur magri proventi del suo lavoro17. La tesi è interessante, ma difficilmente verificabile, dato chesull'equipaggiamento dei poderi contadini sappiamo ancor meno di quanto si può accertare per icentri dominici. I riscontri documentari fino al X secolo sono davvero pochi: basti pensare che suoltre 160 contratti con coltivatori stipulati nell'ltalia del Nord fra VIII e X secolo uno soltantofornisce indicazioni a proposito degli attrezzi. Si tratta del contratto di livello stipulato nell'anno 853fra il monastero veronese di S. Maria in Organo e i fratelli Lusiverto e Luvenperto, i quali «devonopremunirsi per poter mantenere, una volta scaduta la locazione, la proprietà dei pochi beni che sisono portati dietro all'ingresso nel podere»18, e cioè, per quanto riguarda gli attrezzi agricoli, ottozappe, cultra una, giuntezos (= correggiati) duos, falces [. . .] torias tres 19 .Quali, in concreto, fossero i risultati di un'agricoltura praticata con tali mezzi, uniti ad unaconcimazione insuffıciente e a rotazioni irregolari20, è dato rilevare dalle rese unitarie dei cereali,che il già citato inventario del monastero di S. Tommaso ha permesso al Fumagalli di calcolarealcuni anni or sono: esse oscillano, nelle parti domocoltili delle singole aziende, tra 1'1,7 e il 3,8 peruno21. Più basse nelle proprietà ubicate in zone collinari o di montagna, esse risultano relativamentepiù alte nelle zone più adatte alla coltivazione dei cereali dell'alta e della bassa pianura; in ogni casosi tratta di rendimenti esigui, spia di un livello tecnologico decisamente basso. Entra però in causa aquesto punto la seconda delle due considerazioni sopra accennate: la realtà del paesaggioaltomedievale e la sua tipologia economica. In effetti, in quel sistema produttivo il settorecerealicolo aveva una importanza relativa, in certi casi addirittura secondaria, rispetto ad altre realtàproduttive legate oltre che allo sfruttamento intensivo degli orti - soprattutto all'utilizzo degli spaziincolti: selve, pascoli, paludi. Questi costituirono nell'Altomedioevo, non meno dei coltivi, una fontedi approwigionamento costante per gli uomini, per la possibilità di pascolarvi grandi greggi di maialie di ovini e caprini, di esercitarvi la caccia, la pesca, la raccolta dei frutti spontanei22. Lacaratterizzazione fortemente silvo-pastorale dell'economia altomedievale va tenuta ben presente per

cit., nota 21 a p. 231; e vedi P. Allegri, I contratti con coltivatori nella Romagna dei secoli IX-XII, tesi di laurea,relatore M. Montanari, Università di Bologna, a.a. 1978-79, pp. 268, 281). Sulle corvées contadine vedi ora il volumeLe prestazioni d'opera cit.17 K. Modzelowski, La transizione dall'antichità al feudalesimo , Storia d'Italia Einaudi. Annali , 1, Torino 1978, pp. 3-109, a p. 98. Anche il Delatouche (Regards, cit., pp. 89-91) suppone una migliore attrezzatura (e una maggioreproduttività) dei poderi contadini rispetto alle terre tenute in economia dai signori.18 V, Fumagalli, Le prestazioni di opere sul dominico in territorio veronese nel secolo IX , in Id., Coloni e signorinell'Italia settentrionale. Secoli VI-XI, Bologna 1978, pp. 1735, a p. 28. Sul problema dei beni mobili accumulati daicoloni nel periodo di permanenza sul podere (conquestum) e la possibilità di disporne, vedi B. Andreolli, A dconquestum faciendum. Un contributo per lo studio dei contratti agrari altomedievali, "Rivista di Storiadell'Agricoltura", XVIII (1978), 1, pp. 109-36.19 V. Fainelli, Codice diplomatico veronese , I, Venezia 1940, n. 189, pp. 285-7 (ma vedi Fumagalli, Le prestazioni, cit.,per una più corretta e completa lettura del passo).20 Cf. Duby, L'economia rurale, cit., p. 37, Montamari, L'alimentazione, cit., p. 162.21 Fumagalli, Rapporto fra grano seminato e grano raccolto, nel polittico del monastero di S. Tommaso di Reggio , in"Rivista di Storia dell'Agricoltura", VI (1966), 4, pp. 360-2; Id., Storia agraria e luoghi comuni, cit., pp. 953-5. Sullascorta della vecchia edizione dell'inventario curata dal Torelli l'autore indicava come indice massimo di resa il 3,3 peruno; il valore 3,8 è calcolabile per la corte centrale del monastero (per cui il Fumagalli indicava uma resa 2,8) in basealla lettura del documento proposta recentemente dal Castagnetti (Inventari, cit., p. 196). Sulle rese cerealicole nelMedioevo vedi, ora, M. Montanari, Rese cerealicole e rapporti di produzione. Considerazioni sull’Italia padana dal IXal XV secolo, in "Quaderni medievali", 12 (1981), pp. 32-60.22 Cfr. per questo soprattutto V. Fumagalli, Terra e società nell'Italia Padana. I secoli IX e X , Torino 1976, pp. 3 ss.;Id., Il regno Italico, in Storia d'Italia, a cura di G. Galasso, II, Torino 1978, pp. 57 ss.; Montanari, L'alimentazionecontadina, cit., pp. 19 ss. e 221ss.

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valutare nella loro giusta portata i dati forniti dalle fonti, a cominciare dalla stessa carenza distrumenti agricoli.La realtà fısica degli spazi incolti costituì lungo tutto l'arco del Medioevo una presenza con cui gliuomini dovettero misurarsi quando vollero conquistare nuove terre all'agricoltura. È signifıcativopertanto osservare che nei documenti scritti, così come nei riscontri iconografici e nei repertiarcheologici (anche in quelli imolesi), accanto agli attrezzi per la lavorazione del suolo gli strumentida taglio - per diradare rovi, tagliare rami, attaccare il bosco e abbattere quella che i documentichiamano silva infructuosa23 - sono una costante fissa. Sotto questo profilo è particolarmenteinteressante l'inventario della corte di Migliarina, nella pianora emiliana presso Carpi24. Nel Xsecolo, epoca di stesura dell'inventario questa era una vera e propria corte pioniera ai margini di unagrande foresta, che nelle annate buone - quando glande bene prinde - poteva ingrassare ben 4.000maiali25. Fra gli attrezzi di questa corte sono registrate asce, accette, scuri, seghe, pialle: dolatoriauna, secure una, secies VI, sappes VII, asia una, asione uno, rasoria una, falce potatoria una,tappolis dai, secio uno26. Un vero e proprio corredo da boscaiolo.Non diversamente funzionale alle caratteristiche delle terre- in buona parte incolte - che Altipertohomo liber prende a livello nell'812, in Toscana, appare l'elenco di attrezzi che gli vengonoconsegnati al momento di entrare sul podere: questo è composto di quattro appezzamenti a vigna edi due moggi di terra ad pastenandum, per la coltivazione dei quali egli potrà utilizzare tzappa una,marcione unum; l'altra parte del podere è formata da una cetina - zona di recente diboscamento27- didieci moggi: una scure, un runcone, un runcilione ed una falce mensuria costituiscono il restodell'equipaggiamento 28.Se ora ci soffermiamo ad esaminare quali fossero i centri di produzione del metallo e degli arnesimetallici, notiamo che nell'organizzazio ne economica della grande proprietà, complessivamentetendente all'autosufficienza, la produzione di manufatti artigianali era prevista talora nei centridominici, ad opera dei servi prebendari.Dal breve memoriationis dell'abate di Bobbio Wala, stilato forse fra 1'833 e 1'83529, apprendiamoquali erano i principi ispiratori dell'organizzazione economica curtense. Si tratta infatti di unoschema di pianificazione delle risorse dei diversi possessi del monastero, con indicazioni precise perla loro gestione. Una serie di officine avrebbe dovuto provvedere alla fabbricazione di tutti imanufatti necessari al normale funzionamento dell'azienda. Ogni settore doveva essere affidato adun responsabile, che al tempo stesso si occupasse del lavoro dei servi e dell'approvvigionamento delmateriale necessario. Così, per il settore che a noi interessa, Wala suggerisce che «camarariusabbatis provideat omnes fabros scutarios [. . .] et ipse provideat omnia ferramenta» 30. Alle diversenecessità del grande complesso monastico, inoltre, rispondeva la specializzazione - per quantopossibile - delle singole aziende, in base alle risorse locali: così Wala «Gardam deputavit ad oleam,Luliaticam ad ferrum»31. Se presso questa corte, ubicata nel Pavese 32, si praticasse anche un'attività 23 Per tale espressione cfr. G. Tiraboschi, Storia della augusta badia di S. Silvestro di Nonantola , II, Codicediplomatico, Modena 1785, n. XXXIII, a. 837, p. 50s; n. XXXVI, a. 845, p. 52 s.24 Inventari, cit., n. X, pp. 201-4 (a cura di A. Castagnetti).25 Il dato si ricava dalla decima (400 maiali) che la corte riscuote annualmente, se la produzione delle ghiande va bene,dai coloni che utilizzano la selva (ivi, p. 203).26 Ivi, p. 204.27 Cfr. B. Andreolli, Recensione a W. Kurze, Codex Diplomaticus Amiatinus , Tübingen 1974, "Rivista di Storiadell'Agricoltura», XVII (1977), 1, pp. 137-42, a p. 141.28 Kurze, Codex Diplomaticus Amiatinus , cit., n. 73, a. 812; cfr. ivi, nota I a p. 145, l'identificazione di alcumi attrezzi edi altri oggetti citati nel testo. E vedi Fumagalli, Precarietà dell'economia contadina e affermazione della grandeazienda fondiaria nell'ltalia Settentrionale dall'VIII all'XI secolo, "Rivista di Storia dell'Agricoltura", XV (1975), pp. 3-27, a p. 4s.29 C, Cipolla, Codice diplomatico del monastero di S. Colombano di Bobbio, I, Roma 1918, doc. XXXVI, a. (833-835?).30 Ivi, p. 141.31 Ivi, p. 140.32 Inventari, cit., p. 137 nota 1.

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estrattiva o solo la lavorazione del metallo, non sappiamo; è certo che, negli anni successivi, daidipendenti di questa corte provengono manufatti in ferro: dei sette fictales registrati nel brevebobbiese dell'anno 862, uno deve corrispondere come canone annuo cinque vomeri33, e lo stessonumero di vomeri è tenuto a prestare ancora al momento della stesura di un secondo breve,nell'88334. Non sappiamo invece di dove provenisse il ferro che i dipendenti della corte di Sorlasco,nel Pavese, erano tenuti a trasportare fino a Piacenza35.Notizie relativamente abbondanti e sistematiche sono quelle che sugli attrezzi e sul metallo grezzo cifornisce l'inventario dei beni del monastero femminile di S. Giulia di Brescia, databile agli anni acavallo fra IX e X secolo36. In esso non è documentata alcuna attività artigianale presso ilmonastero; ma molti dei poderi dipendenti, ubicati nelle ricche colline metallifere delle prealpilombarde, forniscono come canone ferro o attrezzi già lavorati, in quantità rilevante37. 30 libbre diferro rendono 8 manentes insediati su una sors dipendente dalla corte di Cassivico, 60 libbre di ferroriscuote da 83 servi la corte di Bradellas in Val Camonica; 20 libbre è il fictum corrisposto ognianno da un manens della corte di Borgonato; 20 vomeri, 3 scuri, una mannaia, 2 forche di ferro (chequi compaiono per la prima volta nella documentazione medievale dell'Italia del Nord) ed altre 100libbre di ferro vengono dai dipendenti della corte di Griliano; 5 vomeri da tre manentes di Mairano;4 vomeri e 4 falci sono consegnati alla corte di Odolo; 130 libbre di ferro provengono dalbeneficium dell'amministratore Pietro, legato alla corte di Vuassaningus, forse Siniga in comune diPisogne38. Sono complessivamente 340 libbre di ferro39, 29 vomeri, 3 scuri, 1 mannaia, 4 falci, 2forche, a testimonianza di un'attività artigiana diffusa, in zone naturalmente ricche di giacimentiminerari ferrosi, come le colline bresciane40.Queste notizie ci testimoniano un fatto importante: la lavorazione dei metalli non aweniva solo suicentri dominici, ma anche (forse soprattutto) in una forma diffusa di artigianato rurale, contadino, icui prodotti erano destinati non al mercato - o non solo ad esso—ma alla soddisfazione delleesigenze di autosufficienza dell'economia curtense. Pochi altri documenti lasciano intrawederequalche aspetto di questa attività: oltre al caso della corte bobbiese di Luliatica che abbiamo appenaconsiderato, due falces prataricias sono pagate come canone da due dipendenti della corte diVerriana, nel Pistoiese, che appare fra i possedimenti del monastero di Bobbio nell'adbreviatio, nondatata, assegnabile agli anni fra IX e X secolo41.E ancora la preoccupazione di procurarsi strumenti di lavoro dovette spingere l'abate di NonantolaPietro, nel 907, a commutare il canone in natura corrisposto da Gudepertus faber, titolare di unpodere nel Comasco, con il prodotto della sua attività artigianale, obbligandolo a consegnare ognianno, entro il mese di aprile, quindici falci prataricias, di cui vengono stabilite - fatto del tuttoeccezionale - anche le dimensioni42. 33 Ivi n. VIII/1 pp. 121-44 (a cura di A. Castagnetti), a p. 137.34 Ivi n. VIII/2 pp. 145-65 (a cura di A. Castagnetti), a p. 158.35 Ivi pp. 143 (a. 862) e 164 (a. 883).36 Ivi n. V, pp. 41-94 (a cura di G. Pasquali).37 Per la rilevanza del dato anche in un ambito geografico più ampio cfr. Duby, L'economia rurale, cit., 1, p. 32.38 Inventari, cit., pp. 65, 72, 56-57 54, 69, 63, 71. Per l'identificazione delle località vedi (oltre alle note in calce al testodell'inventario) G. Pasquali, La distribuzione geografica delle cappelle e delle aziende rurali descritte nell'inventarioaltomedievale del monastero di S. Giulia di Brescia, in San Salvatore di Brescia. Materiali per un museo, II, Brescia1978,pp. 142-l67.39 A titolo puramente indicativo si può osservare che secondo il Delatouche una buona zappa richiedeva circa 800grammi di ferro (Regards, cit., p. 80). Il dato concorda con i reperti degli scavi imolesi di Villa Clelia: il peso dei ferrioscilla infatti tra i 500 ed i 1200 grammi. Dunque, con 340 libbre di metallo si sarebbe potuto costruire un numeroconsistente di attrezzi (anche senza assegnare alla libbra il valore ottimale di mezzo chilogrammo).40 Sull'importanza della produzione di ferro delle miniere bresciane nel Medioevo cfr. R. Sprandel, Das Eisengerverbein Mittelalter, Stuttgart 1968, p. 111 ss.41 Inventari, cit., n. VIII/3, pp. 166-175 (a cura di A. Castagnetti), a p. 173.42 Codex Diplomaticus Langobardiae, Torino 1873, n. CCCCXXII, cc. 730-731. Per questo documento vedi ancheoltre, nota 49 e contesto.

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Il terzo polo della produzione di attrezzi in ferro, assieme ai centri signorili e all'artigianatocontadino, era quello degli artigiani di mestiere, operanti nelle campagne o nelle città. Le menzionidi fabbri specializzati si moltiplicano nei documenti già a partire dai secoli IX e X43, attestando unosviluppo progressivo della loro attività e della loro rilevanza sociale, collegata con una prosperitàeconomica che si manifesta nel possesso della terra44. Da questo punto di vista non è forse senzasignificato trovare menzione di un Iohannes faber, possessore fondiario nel primo documentoimolese conservatoci, risalente all'anno 96445. Fin dal secolo X, e poi nell'XI e nel XII, ladocumentazione imolese attesta una straordinaria presenza e vitalità di questa categoria artigiana,presente sia in città sia negli insediamenti minori del contado46. Nello stesso castrum S. Cassiani,entro la cui area sono stati effettuati gli scavi di cui ci stiamo interessando abbiamo esplicitamenteattestati almeno quattro fabbri47.Quanto alla tipologia degli attrezzi, alla loro conformazione, alla loro efficacia d'impiego,informazioni di questo tipo sono assolutamente eccezionali nelle fonti documentarie altomedievali:unica nel suo genere è la descrizione dettagliata delle dimensioni che devono avere le falci fienaiefornite al monastero di Nonantola dal fabbro lombardo sopra ricordato, secondo il contrattodell'anno 90748. Né molto più utili risultano a tale scopo i trattati enciclopedici, come le Etymologiedi Isidoro di Siviglia o il De universo di Rabano Mauro, costellati di ardite fantasie (o, al meglio, didotte citazioni) anche là dove ci si attenderebbero descrizioni precise49. In realtà, soprattutto i repertiarcheologici, e in qualche misura l'iconografia, possono fornirci indicazioni concrete sugli attrezzi,sulla loro foggia e taglia, anche se il riscontro fra menzioni scritte, immagini e oggetti è sempredelicato e spesso problematica l'instaurazione di precise corrispondenze, a volte a rischio difraintendimenti50. Risultati concreti si possono tuttavia attendere, se la lettura delle fonti si unisceall'osservazione delle immagini51 e soprattutto all'esame - a cominciare dalla pesatura - degli oggettigiunti fino a noi. 43 Cfr. sull'argomento anche Modzelewski, La transizione, cit., pp. 75, 87.44 Cfr. C. Violante, La società milanese nell'età precomunale, Bari 19742, p. 60.45 S. Gaddoni G. Zaccherini, Chartularium Imolense, I, Imola 1912, n. 1, p. 4: «a tercio latere [di una «mansione que estedificata in monte castro Imola»] tenente lobannes faber per livello de ipsius [del monastero di S. Vitale] iura».46 Ivi, passim (si veda il dettagliato indice onomastico in fondo al II vol.).47 Ivi,II, n. 738, a. 1140, p. 318: Ugo faber (cfr. 1, n. 78, a. 1144, p. 117: Ugo Iohannis fabri); 1, n. 208, a. 1160, p. 270(Guido faber: cfr. n. 257, a. 1168, p. 322); n. 217, a. 1161, p. 281 (Romesinus faber: cfr. n. 218, a. 1161, p. 281); 11, n.767, a. 1187, p. 358 (Bernardus faber).48 Cfr. sopra nota 43 e contesto. L'interpretazione di queste misure, benché ostacolata dall'abrasione del testo nelle partiche ci interessano, pone alcuni problemi di interesse non secondario. Il documento stabilisce, che le «falces pratariciasbonas quindecim cum [.. .] ferreas eatum [. . .] sicut necesse est segandum. Sed tale debeant esse [. . .] ut sint unaquaquelonga pedes legitimos doos manualis ad mediocrem haminem, quod sunt duos pedes, semisses quattuor [. . .]»; che amio awiso si potrebbe interpretare così: ogni falce sia lunga due piedi, e il manico adatto ad un uomo di media statura,cioè lungo due piedi e quattro semissi. In questo caso ci troveremmo di fronte ad un tipo di falce fienaia il cui manicoha scarso sviluppo in confronto alla lama forse del tipo "italico" descritto da Plinio in opposizione ad un tipo di manicolungo utilizzato ai suoi tempi in Gallia ed in seguito diffusosi altrove (Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, ed. C.Mayheff, Leipzig 1892, XVIII, 28, 5 (261); cfr. White, Agricultural implements, cit., pp. 98-103). Caratteristicaprincipale di questo attrezzo è quella di tagliare l'erba non rasoterra, ma ad una certa altezza dal suolo, e di poter essereutilizzato con una mano sola. Esso inoltre - secondo l'indicazione di Plinio poteva essere maneggiato anche inter vepres,fra gli sterpi: destinazione, che certo poteva riuscire utile nell'Altomedioevo, quando la lotta all'incolto era un'attivitàquotidiana del lavoro agricolo. Raffigurazioni medievali di falci di questo tipo provengono dall'area fiamminga doveancora oggi esse sono in uso (cfr. ivi, p. 89, e tav. 10).49 Sulla sostanziale astrattezza e ripetitività dei trattati altomedievali vedi Fumagalli, Terra e società, cit., p. 157 s.50 Per gli equivoci derivanti, ad esempio, dalla non corretta identificazione dei vari tipi di falces menzionati dagli autorilatini, in particolare a proposito della falx foenaria, cfr. J. Le Gall, Les 'falces' et la 'faux', in Etudes d'archéologieclassique, II, (à la mémoire de M. Launey), "Annales de l'Est", Mém. 22 (1959), 4, pp. 55-72.51 Una raccolta sistematica di immagini del XII secolo (le raffigurazioni dei Mesi) che per la forte ripetitività deisoggetti rappresentati si offrono come buon punto d'osservazione per l'indagine storica, ho condotto nella tesi di laurea,discussa nell'a.a. 1975-76 con il prof. V. Fumagalli presso l'Università di Bologna: Iconografia e storia agraria: leoccupazioni dei Mesi nell'arte medievale padana. In particolare cf. le pp. 2 ss., per una rassegna delle problematiche

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A titolo esemplificativo, vorrei soffermarmi sui problemi relativi alla identificazione dello strumentoal quale era probabilmente fissato il coltello rinvenuto nello strato altomedievale degli scavi di VillaClelia. Che si tratti di un attrezzo da taglio più sostanzioso che un semplice coltello appare subitochiaro dalle sue dimensioni; la foggia ed il peso possono suggerirne l'identificazione con un coltro el'appartenenza ad uno strumento aratorio. A questo proposito può risultare utile un raffronto con ilpeso di alcuni coltri realizzati alla metà del '400 da un fabbro casentinese. Sull'attività di questo hariferito Laura De Angelis, utilizzando un taccuino di lavoro in cui si trovano registrati peso e prezzodei singoli manufatti eseguiti dall'artigiano52.Tra questi compaiono dodici coltri, il cui peso oscillatra le 7 libbre e le 101ibbre e mezzo, cioè tra i 2 e i 3 chilogrammi53. Il coltro rinvenuto a Imola pesa2 chilogrammi e 3 etti.A che tipo di strumento aratorio apparteneva questo coltro?Non è facile dirlo. Molto spesso degli aratri antichi non si conservano che le parti metalliche, cioè ilvomere e, quando sia presente, il coltro: ma sulla scorta di questi soli elementi non è possibilerisalire con certezza all'attrezzo originario. E questo è tanto più vero quanto più ci si allontana neltempo e scarsi sono i riferimenti per affrontare il problema nel suo insieme.Quali forme e quali caratteristiche tecniche avessero gli aratri in età medievale, nelle diverse areegeografiche e soprattutto in quella mediterranea, che è stata finora la meno studiata54, resta unproblema aperto55. La complessità e varietà di attrezzi che caratterizzano le carte etnologiche d'Italiadegli strumenti aratori56 invitano a guardarsi da eccessive semplificazioni57.Un utile criterio di classificazione, per individuare le caratteristiche discriminanti degli aratri, èquello che li distingue in due classi principali in base alle caratteristiche tecniche delle partilavoranti ed alle funzioni che esse assolvono58. Un primo tipo di aratro59 è caratterizzato dal vomere

relative alla critica delle fonti iconografiche per ricerche di interesse rurale. Su questi temi vedi ora P. Mane,Calendriers et techniques agricoles (France-Italie, XIIe-XIIIe siècles), Paris 1983.52 L. De Angelis, Intorno all'attività di Deo di Buono, fabbro casentinese, "Archeologia Medievale", III (1976), pp. 429-32 (e Appendici, p. 433 ss.).53 Ivi, p. 433.54 Per l'Europa del Nord esistono numerosi contributi. Oltre al classico P. Leser, Entstehung und Verbreitung desPfluges, Münster i.W. 1931, un folto numero di interventi si può reperire nella rivista danese "Tools and Tillage" edita apartire dal 1968 a cura di alcuni tra i più qualificati specialisti del settore: A. SteensFerg, A. Fenton, G. Lerche. Si vedainoltre A. Steensberg, Aratro e colture nell'Europa nordica medievale, "Quaderni Storici», XXXI (1976), pp. 85-109,con una aggiomata bibliografia. Per il Bassomedioevo, un'indagine puntuale è stata condotta da S. Anselmi, Pioviperticari e buoi da lavoro nell'agricoltura marchigiana del XV secolo, ivi, pp. 202-28.55 Un approccio metodologico alla problematica d'insieme, con particolare riguardo alle fonti iconografiche, è offerto daB. Gille, Recherches sur les instruments du labour au Moyen Age, "Bibliothèqùe de l'Ecole de Chartes", 1962, pp. 1-38.56 Si veda ad esempio in C. Grassi, Parole e strumenti del mondo contadino. L'aratro, Storia d'Italia Einaudi, VI,Torino 1976, pp. 471-5, una carta degli aratri basata essenzialmente sulle caratteristiche costruttive degli strumenti. Peruna rappresentazione cartografica che tenga conto della distinzione di tipo funzionale, tra aratri simmetrici e aratriasimmetrici, con particolare riguardo per questi ultimi, vedi G. Forni, Aratri ed altri mezzi tradizionali mantovani per lalavorazione del suolo, nella storia generale dell'aratro, in Arte e lavoro nella civiltà padana, San Benedetto in Polirone1977, pp. 213-30, a p. 223.57 Gli studi di Steensberg relativi all'Europa del Nord e quelli di Anselmi pertinenti l'area marchigiana (vedi sopra, nota54) invitano ad attenuare e articolare la tradizionale separazione fra Europa mediterranea, area dassica di diffusionedell'aratro "semplice", ed Europa del Nord dove troverebbe largo impiego l'aratro "pesante". In proposito cfr. laletteratura ricordata da Anselmi (anche se egli non ha potuto evitare un incidente di lettura dovuto alla ambiguatraduzione di un brano di J. Heers, Le Travail au moyen âge, Paris 19682, p. 19; infatti, nell'edizione italiana del lavoro(Messina 1973, p. 24) i termini aratro e coltro mal restituiscono, in una lingua che non ha conservato due temminidistinti per indicare i due tipi di aratro, rispettivamente i francesi charrue ed araire. Da ciò prende origine l'equivocoper cui l'area di diffusione dei singoli strumenti è nella traduzione italiana, capovolta rispetto all'originale, inducendoAnselmi ad accogliere questa tesi come altemativa a quella della storiografia tradizionale). La ricerca di Anselmi hadimostrato come si possa verificare la compresenza di diversi strumenti aratori in una stessa area, coerentemente conesigenze diverse di coltura e di lavorazione del suolo.58 A. G. Haudriccurt, M. J. Brunhes Delamarre, L'Homme et la charrue à travers les siècles, Paris 1955. Sull'importanzae la maggiore funzionalità di tale classificazione rispetto ad altre precedenti cfr. C. Poni, Gli aratri e l'economia agraria

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simmetrico, eventualmente accompagnato da due ali egualmente simmetriche, che esegue un lavorosuperficiale di scasso sollevando ai lati le zolle del terreno smosso. Asimmetriche, invece, le partilavoranti dell'altro tipo di aratro, in cui il vomere presenta una metà più sviluppata, e la sua azione ditaglio orizzontale della zolla è completata dalla presenza, sul medesimo lato dello strumento, di unasse obliquo che ha la funzione di rivoltare completamente la zolla: il versoio60. Questo strumentoasimmetrico - che una proposta vorrebbe fosse chiamato plovo61, richiamandosi ad una terminologiagià in uso nei secoli scorsi in Italia62 e che si riallaccia ad una radice comune alle lingue germanicheper indicare l'aratro asimmetrico63 - pratica sul terreno un lavoro più profondo, grazie ancheall'azione trinciante di un coltello - il coltro posto verticalmente sull'asse del timone, davanti alvomere 64.Se ci si è dilungati su questa distinzione è per un motivo non secondario alla questione che a noiinteressa. Infatti, molti storici sono concordi nell'assegnare alla diffusione dell'aratro asimmetrico unruolo di protagonista in quella che viene definita la "rivoluzione agraria» medievale, che avrebbeinteressato tutta l'Europa occidentale, compresa l'Italia settentrionale, a partire dal secolo XI65.Tuttavia, a tutt'oggi i tempi e le aree di diffusione dell'aratro asimmetrico nell'Europa medievalerestano per gran parte da defınire66. Nulla, poi, sappiamo del suo ruolo nell'area padana. Ciò che puòessere utile in questo momento è cercare di definire i termini del problema per quanto riguarda l'areache a noi interessa, in modo da poter mettere a frutto ogni informazione che come il ritrovamentoimolese - possa apportare nuovi contribuiti all'indagine. nel Bolognese dal XVII al XIX secolo, Bologna 1963, p. 6. In seguito F. Sach, Proposal for the Classifcation of Pre-lndustrial Tilling Implements, "Tools and Tillage", I (1968), pp. 3-27, ponendosi 1'obiettivo di separare nettamente ilpunto di vista fommale da quello funzionale, ha inteso offrire due differenti schemi d'indagine (cioè due diversi tipi diclassificazione, che tengano rispettivamente conto della distinzione «betwecn the kind of am implement according to ilsfunction and the type according to its shape») per la ricerca sulle basi materiali di una società, da uma parte, e quellaetnologica dall'altra. M. J. Brunhes Delamarre, nel recensire il lavoro di Sach, esprime alcune riserve sul metodoadottato, osservando che la ripartizione proposta non tiene conto della forza motrice («attelage») e ribadendo i pericoliinsiti in una classificazione «formaliste» degli strumenti aratori, basata unicamente sui criteri costruttivi ("Etudesrurales", 1970, pp. 129-31).59Questi aratri possono avere, in circostanze deterrninate, diversi montaggi dando luogo a strumenti abbastanzadifferenti tra loro. Vedi ad esempio i primi risultati di una ricerca sul campo condotta da G. Caselli, Per uno studiotipologico dell'aratro con particolare riferimento alla regione toscana, "Archeologia Medievale", IV (1977), pp. 281-96, che adotta, se pure con qualche riserva, la tipologia degli aratri simmetrici proposta da Haudricourt e BrunhesDelamarre, offrendone una sintetica documentazione grafica ed iconografica.60 Haudricourt, Brunhes Delamarre, L'Homme et la charrue, cit., p. 15. La distinzione fra i due tipi di aratri, come haben messo in luce Carlo Poni, già era esposta con chiarezza e proprietà di linguaggio dell'agronomo bologneseVincenzo Tanara, il quale, nel descrivere gli aratri in uso nel "piano" bolognese alla metà del '600, scriveva: «Il piò nonha che una tavola e non alza che una gleba over laga. Ma l'arà, che ha due tavole quali in punta si vanno a congiungersopra il vomero, alza due glebe rivolgendone una da una parte e una dall'altra» (Poni, Gli aratri, cit., p. 4; cfr. V.Tanara, L'economia del cittadino in villa, Bologna 1644, p. 411).61Forni, Aratri, cit., p. 35s, poi ripresa in Una proposta terminologica per semplifcare e chiarire la nomenclaturaitaliana dell'aratro, "Rivista di Storia dell'Agricoltura", XVII (1977), 3, pp. 137-44.62 Forni, Una proposta, cit. pp. 140-2. Una interessante serie di dati linguistici collegati alla voce plovum, trattidail'Atlante Linguistico Italiano per precisare la diffusione geografica del temmine, è in G. B. Pellegrini, Terminologiaagraria medievale in Italia, in Agricoltura e mondo rurale in Occidente nell'Alto Medioevo, Settimana di Studio delCentro Italiano di Studi sull'Alto Medioevo, 22-28 aprile 1965, Spoleto 1966, pp. 605-61, a p. 620s (nota 13).63 Diversamente che nella lingua italiana, infatti, come noto, in molte lingue europee si sono mantenuti due diversitemmini per indicare le due diverse classi di strumenti (ibid).64 L'impiego dell'uno o dell'altro tipo di aratro dà luogo ad una lavorazione profondamente diversa dal suolo, che lasciatracce evidenti nei rialzi del terreno (Steensberg, Aratro e colture, cit., p. 86). Per le connessioni aratro/forma dei campiil dibattito è ripreso nelle sue linee essenziali in Anselmi, Piovi perticari e buoi, cit., nota 9, p. 217.65 Così, ad esempio, il Duby ritiene possa giustificarsi il «successo agricolo» verificatosi nell'Europa dell'XI-XII secolo(Il problema delle tecniche agricole, in Id. Terra e nobiltà nel Medio Evo, Torino 1971, pp. 36-47: trad. del testo giàpubblicato in Agricoltura e mondo rurale, cit., pp. 267-83).66 Diverse ricerche archeologiche hanno interessato l'area danubiana. Sui loro risultati cfr. Forni, Una proposta, cit., p.139.

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Molti studiosi concordano nell'affermare che il mondo romano conobbe esclusivamente aratrisimmetrici, adatti a suoli leggeri ed accidentati come quelli mediterranei, sui quali essi praticano unoscasso non troppo profondo, che rimuove la terra evitando una eccessiva evaporazione ed erosione67.Tra gli scrittori latini, Plinio è quello che ha descritto gli aratri in uso ai suoi tempi con maggiorricchezza di dettagli, come sempre attento ad annotare curiosità e novità68. Come è noto, è grazie adun passo della sua Naturalis Historia, in cui sono elencati diversi tipi di vomeri e lame per aratri,che siamo informati che nel I secolo d.C. era conosciuto e diffuso - perlomeno in Rezia - un tipo diaratro dotato di un ampio vomere e che presentava una novità allora piuttosto eclatante rispetto aglistrumenti aratori mediterranei familiari a Plinio: la presenza di un avantreno a ruote69. Se un tale tipodi aratro si sia presto diffuso anche in area padana, non sappiamo. Contribuisce però a farlo crederela nota testimonianza di Servio, del IV secolo, che nel commentare un passo delle Georgiche (1,174), identifica il currus del testo virgiliano con un tipo di aratro munito di ruote diffuso ai suoitempi nella regione nativa del poeta, l'area mantovana70.Da un punto di vista tecnico, l'adozione delle ruote non implica necessariamente un diverso tipo diaratura; essa tuttavia sembra rappresentare la risposta più idonea alle esigenze di lavorazione di suolipesanti e argillosi, dove la tendenza dell'aratro ad infossarsi non può essere facilmente arrestata -come nei suoli più leggeri del Sud - dalla pressione del piede e della mano dell'aratore71.L'aratro a ruote probabilmente rappresentò una fase intermedia di evoluzione dall'aratro simmetricoa quello asimmetrico72. Grazie al miglioramento della trazione fu facilitato, su terreni pesanti e inclimi piovosi, l'impiego di un aratro che adottasse vomeri di più ampie dimensioni, rendendosiinoltre possibili nuove e importanti trasformazioni dello strumento. L'applicazione del versoio e, piùtardi, del vomere asimmetrico e del coltro sarebbero stati perfezionamenti ulteriori dell'attrezzo, chegli avrebbero conferito la sua conformazione più tipica ed una più completa effıcacia di lavoro.La localizzazione e l'individuazione delle fasi di questa evoluzione presentano tuttavia alcuniproblemi, dovuti sia alla scarsità del materiale documentario che alla reale difformità del processo.Per ciò che concerne i reperti archeologici, va tenuto presente che il vomere continuò probabilmentea lungo ad essere fabbricato in forma simmetrica, benché montato su strumenti di tipoasimmetrico73: ciò può rendere difficile interpretare correttamente ritrovamenti archeologici divomeri e capire a che tipo di aratro appartenessero. La presenza, poi, del coltro, se non è affiancata 67 In talune occasioni essi potevano essere inoltre usati obliquamente, per eseguire una aratura inclinata.68 Le descrizioni di aratri romani giunte fino a noi non sono numerose, e per lo più attinenti alle singole parti conparticolare interesse per l'etimologia dei temmini che le designano. Uno studio approfondito di tali menzioni,unitamente ad una documentazione relativa all'iconografia contemporanea ed ai reperti archeologici è stato condotto daWhite, Agricultural implements, cit., pp. 123-45 (si vedano anche le tavv. 10, 11, 12).69 Plinio, Naturalis Historia, cit., XVIII, 172: latior haec quarto generi et acutior in macronem fastigata eodemquegladio scindens solum et acie laterum radices herbarum secans, non pridem inventum in Raetia Gadioe duas adderetali rotulas, quod genus vocant plaumorati, cuspis effigiem palue habet. Il brano, lacunoso, presenta non pochedifficoltà di interpretazione, e ha dato luogo a diversi emendamenti, soprattutto per il temmine plaumoratum checompare solo in questo passo. Cfr. White, Agricultural implements, cit., pp. 141, 213. Una aggiomata letteraturasull'interpretazione del temmine è segnata in Forni, Una proposta, cit., p. 138.70 Currus autem dixit propter morem provinciae suae in quo aratra habent rotas quibus iurantur (Servii grammatici quiferuntur in Vergilii Bucolica et Georgica commentarii, ed. C. Thilo, Leipzig 1887, III, 1, 173). Motivi di ordinefilologico oltre che tecnico hanno indotto a ritenere errata l'interpretazione di Servio, che porterebbe ad anticipare dialcuni secoli la comparsa di un avantreno a ruote fissato all'aratro. Cfr. Haudricourt, Brunhes Delamarre, L'Homme et lacharrue, cit., pp. 100-2. Ancora di recente, tuttavia, Steensberg (L'aratro nell'Europa nordica, cit., p. 88) ha sostenutoche già Virgilio «descrive un assolcatore fissato su un carro a ruote di uso comune nelle terre di Lombardia». Lo stessoin M. Bloch, I caratteri originali della storia rurale francese, Torino 1973, p. 61.71 Haudricourt, Brunhes Delamarre, L'Homme et la charrue, cit., p. 330 ss. (anche per quanto segue). Per M. Bloch (Icaratteri, cit., p. 60) la presenza o meno delle ruote costituisce la caratteristica discriminante delle diverse tipologie diaratri.72 Un aratro di questo tipo è raffigurato su una formella bronzea collocata nel portale di S. Zeno a Verona, realizzataverso la metà dell'XI secolo.73 Gille, Recherches, cit., p. 30.

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da altri elementi, difficilmente rappresenta, da sola, un elemento sufficiente a stabilire che ci si trovain presenza dei resti di un aratro asimmetrico. Come vedremo, il coltro poteva anche far parte di unostrumento aratorio dotato di questa sola lama74. Da ultimo, bisogna tener conto del fatto che ilversoio fu per lungo tempo costruito in legno, e quindi può non aver lasciato tracce di sé nel terreno.Un esame sistematico della documentazione iconografica a questo proposito potrebbe offrireinformazioni molto utili, sia riguardo alla cronologia, sia riguardo a problemi più strettamentetecnici75. Nella documentazione scritta, per l'area che a noi interessa, un primo possibile accennoall'esistenza di due distinti strumenti aratori si trova nell'editto di Rotari (anno 643) al capitolo 288,De plovum76. A quale tipo di aratro il termine plovum, qui giustapposto ad aratrum, si riferisca, èimpossibile sapere; è certo però che più tardi un termine derivante dalla stessa radice indichieràl'aratro asimmetrico in molti paesi dell'Europa nord-occidentale, ed anche nella documentazionedell'area padana e marchigiana77.In seguito, per tutto l'Altomedioevo, la documentazione scritta dell'Italia padana non sembra farealcun accenno alla tipologia degli aratri, né, tantomeno, al plovum. La maggior parte delle menzioniche abbiamo registrato sono riservate - abbiamo visto - al vomere: tra i censi in natura costituiti damanufatti in ferro, i vomeri hanno la preminenza assoluta78; ma nulla ci è dato di sapere sulla suaconformazione, né gli scavi, per quanto è a mia conoscenza, hanno portato nell'area padanacontributi di qualche interesse. Si potrebbe tuttavia pensare che l'assenza di menzioni dell'altra partedell'aratro asimmetrico necessariamente in ferro, il coltro, significhi molto semplicemente che essonon era ancora utilizzato, e che l'unico tipo di strumento in uso sia rimasto a lungo il tradizionalearatro simmetrico, anche sui terreni della bassa pianura padana, sui quali la sua azione poco efficaceavrebbe certamente dovuto essere completata dal lavoro della vanga.L'unico riscontro documentario relativo ad un coltro non ci fornisce elementi sufficienti per sapereesattamente di che cosa si tratti. In un documento dell'anno 853, in cui compare 1'unico elenco distrumenti a disposizione di un colono, tra gli altri si trova ricordata cultra una: certo uno strumentoda taglio di notevoli dimensioni, ma non sappiamo con certezza a quale uso adibito79. In questasituazione, il ritrovamento a Imola di un coltro, databile intorno agli inizi dell'XI secolo, costituisceun dato di notevole interesse, che forse può indurre la soggestiva ipotesi di una precocetestimonianza di uno strumento aratorio di tipo asimmetrico in un'area in cui esso è certamentediffuso alcuni secoli più tardi80. Ma la scarsità di indizi documentari (scritti, iconografici,archeologici) non permette di prendere chiaramente posizione in questo senso; né, forse, va 74 Cfr. oltre, nota 82 e contesto.75 Si vedano ad esempio gli interessanti risultati di una breve indagine sulle miniature inglesi tra X e XIV secolo, che haportato ad una prima periodizzazione della diffusione di differenti strumenti aratori nell'isola (Gille, Recherches, cit., p.10).76 «Si quis plovum aut aratrum alienum iniquo animo capellaverit, conponat solidos tres, et si furaverit, reddat inactogild» (Edictus ceteraeque Langobardorum leges, ed. F. Bluhme, Monumenta Germaniae Historica, Fontes iurisGerm. antiqui in us. sch., Hannover 1869, p. 57).77 Uno spoglio della documentazione per aree ben detemminate, volto a individuare la comparsa di termini legati allastessa radice del plovum di Rotari, di cui danno sporadica testimonianza i dizionari, sarebbe a mio avviso una ricercafruttuosa.78 Vedi sopra, p. 159.79 Vedi sopra, nota 19 e contesto. Ancora per tutto il Medioevo il termine mantenne questo significato: nel D econtroversia mensium di Bonvesin de la Riva (seconda metà del XIII secolo) Novembre brandisce un cultrum [. . .acutum, quo porcos iugulat. Cfr. G. Orlandi, Letteratura e politica nei 'Carmina de mensibus' ('De controversiamensium') di Bonvesin da la Riva, in Felix Olim Lombardia. Studi di storia padana dedicati dagli allievi a GiuseppeMartini, Milano 1978, pp. 103-95, a p. 160 (vv. 264-5). Nella redazione volgare del componimento, ad opera dellostesso autore, leggiamo: «Novembre à piglià in man un cortel de bechè»). Cfr. G. Contini, Le opere volgari di Bonvesinda la Riva, Roma 1941. Sui vari significati di cultrum in età medievale vedi il Glossarium del Du Cange, s.v.80 Esso doveva ormai essere largamente diffuso quando lo statuto della Società dei Fabbri di Bologna del 1397,suddividendo in dieci gruppi (membri) gli artigiani del ferro attivi in città, ne disciplina la produzione prevedendo tral'altro la fabbricazione di coltre da pio da parte del membro dei fieri gruossi e di feracieri. Cfr. M. G. Tavoni, Glistatuti della società dei Fabbri dal 1252 al 1579, Bologna 1974, p. 52.

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trascurata l'ipotesi, sopra accennata, che una lama di tal fatta fosse collocata su uno strumentoindipendente, come quello di cui abbiamo notizia per l'età romana. L'interesse suscitato dal passo diPlinio ricordato poc'anzi ha lasciato un po' in ombra il resto del brano, in cui l'autore descrive idiversi tipi di lame utilizzabili per fendere il terreno. Delle quattro ricordate, una in particolare èdetta culter, ed è così descritta: si chiama "coltro" il ferro ricurvo usato per tagliare la terra duraprima che essa venga più profondamente scassata dal vomere che ne segue le tracce81.E questa l'unica menzione di un culter adibito ad uso aratorio negli scrittori latini. Esso è statoidentificato non come parte dell'aratro, ma come uno strumento a sé stante- simile a quello oggiancora in uso in alcune zone dell'area alpina- diverso e staccato dall'aratro vero e proprio, la cuifunzione è quella di tagliare il terreno verticalmente per facilitare il successivo passaggio del vomerenell'aratura di terreni pesanti o ghiacciati durante l'inverno82. Non è da escludersi che uno strumentodel genere fosse in uso nell'Italia del Nord medievale: una verifica sul piano iconograficorenderebbe l'ipotesi più attendibile.Allo stato attuale delle ricerche, il ritrovamento di un pezzo isolato non è sufficiente ad individuare aquale tipo di strumento aratorio esso appartenesse. Tuttavia, nel caso imolese, sia che si vogliaattribuire il coltro ad un aratro vero e proprio, sia che si ipotizzi l'esistenza di uno strumentoseparato, è chiaro che ci troviamo di fronte ad un attrezzo che risponde alla necessità di unalavorazione più profonda del terreno83, al rinnovamento del quale non era ritenuto sufficientementeidoneo il solo scasso del vomere di un aratro simmetrico, in un'area in cui, più tardi, l'aratroasimmetrico avrà larga diffusione.

81 Plinio, Naturalis Historia, cit., XVIII, 171: culter vocatur inflexus praedensam, priusquam proscindatur, terramsecans futurisque sulcis vestigia praescribens incisuris, quas resupinus in arando mordeat vomer. Per le diverseinterpretazioni a cui il passo ha dato origine, soprattutto in relazione alla conoscenza a posteriori dell'impiego modernodel coltro nell'aratro asimmetrico, cfr. White, Agricultural implements, cit., p. 132. Sull'argomento vedi G. Forni, Latinorustico «culter» = vomere o coltello d'aratro? Aspetti ergologico-storici e semantici dell'etimologia dell'italiano«coltro», in "Rivista di Storia dell'Agricoltura", XXVI (1986), 1, pp. 23-35.82 Cfr. Haudricourt, Brunhes Delamarre, L'Homme et la charrue, cit., p. 108 ss. Il ritrovamento di coltri di epoca romanain Gran Bretagna e in Irlanda ha fatto supporre ad alcuni studiosi l'esistenza di aratri di tipo asimmetrico in quei paesiper l'epoca romana. Tuttavia, secondo Haudricourt e Brunhes Delamarre, tale interpretazione sarebbe da respingere inquanto distorta dall'esperienza moderna (analoghi rilievi, sul piano documentario, possono essere rivolti alleinterpretazioni di cui alla nota precedente).83 Forse non è senza significato ricordare, con Haudricourt e Brunhes Delamarre (L'Homme et la charrue, cit., p. 110),che strumenti di questo tipo - «coutriers» - non si trovano nelle regioni mediterranee dal suolo leggero ed asciutto, cherichiede generalmente una aratura superficiale: aPline avait dû en voir ou entendre parler, à propos de régions plusseptentrionales, au climat plus humide et au sol plus profond et compact» (ivi, p.111).

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I resti organici

I1 cantiere archeologico appare sempre più un laboratorio dove si incontrano e si confrontano"scienziati" e "umanisti", dove lo stesso confine fra le due culture si confonde: non è infattiimprobabile trovare archeologi che si specializzano in settori di ricerca che sembravano off limits,come ad esempio problemi di carattere mineralogico, petrografico e paleobotanico per poterimpostare correttamente analisi che altrimenti risultano inutili appendici ed abbellimento di edizionidi scavo, oppure "scienziati" confrontarsi con i problemi della stratigrafia di un determinato sito percogliere il senso del proprio lavoro in laboratorio. I1 deposito archeologico oggi non viene piùselezionato, è esso stesso, materialmente, fonte di ricerca con il suo contenuto "naturale", attraversola lettura sedimentologica e dei pollini è possibile ad esempio contribuire alla ricostruzione deiquadri ambientali, individuando diffusioni di specie arboree altrimenti non documentabili; oppureattraverso la raccolta dei materiali osteologici contribuire ad una storia dell'alimentazione che offrequantità e qualità di informazioni che integrano, surrogano e parlano al posto di un'informazionescritta disomogenea e da un punto di vista cronologico e da un punto di vista geografico.I problemi della raccolta dei dati e della loro elaborazione insieme ad una prima sintesi generalesono i temi del saggio elaborato da Maria Ginatempo riproposto nelle pagine seguenti1 relativo alproblema di una storia alimentare fondata sulla base dei materiali archeozoologici, che pone fral'altro il problema del valore del campione archeologico in una prospettiva estremamente concreta estimolante.

1 Archeologia Medievale", XI (1984), pp. 35-61.

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Maria Ginatempo

Per la storia degli ecosistemi e dell'alimentazione medievali:recenti studi di archeozoologia in Italia

Alla storia dell'alimentazione sono possibili, com'è noto, diversi tipi di approccio. E non soltantoin base al differente tipo di fonti utilizzate (documentarie e letterarie; archeologiche;iconagrafiche; orali ecc.) oppure in base alle necessarie "deviazioni" specialistiche che quest'areatematica può richiedere. L'alimentazione infatti appare come un nodo in cui confluiscono, siintersecano e possono essere osservati molti degli aspetti o livelli secondo i quali si considerageneralmente suddivisa o composta la realtà che si vuole analizzare. A seconda delle scelte dipriorità, dunque, e analogamente ad altri was ist disciplinari, come ad esempio la culturamateriale, lo studio dell'alimentazione può prendere direzioni tra le più divergenti.All'interno di ogni sistema alimentare che si intende ricostruire sembrano infatti giocarecontemporaneamente: le strutture ambientali, così come sono date per condizionamento"naturale" e soprattutto per condizionamento e modificazione umana (si mangia ciò chel'ambiente è in grado di produrre); le strutture tecnico-produttive, sia per quanto riguardadirettamente la produzione alimentare, sia meno immediatamente per quanto riguardal'organizzazione tecno-economica nel suo complesso (si ma mangia ciò che l'uomo è in grado diprodurre); le strutture degli scambi e le stratificazioni sociali, sia nel senso della circolazione edistribuzione dei beni alimentari (ripartizione dei prodotti e differenziazioni sociali dei consumi:non sempre si mangia ciò che si produce), sia in relazione ai modi complessi in cui i rapporti diproduzione retroagiscono o determinano la produzione stessa (ripartizione dei mezzi diproduzione e livello delle forze produttive, ma anche in senso ristretto influenza dei mercati,ecc.); infine, ma senza pretese di esaurire l'argomento, le strutture mentali, i rituali, il linguaggioe l'estetica alimenare, sia nel caso di preferenze alimentari non motivabili con un determinismotecno-ambientale, sia per ciò che concerne le tecniche di preparazione dei cibi e tutti quei sottilimeccanismi di identificazione etnica o sociale che passano attraverso il gusto e la qualità dei cibi,o più in generale attraverso il numero praticamente infinito di associazioni alimentari possibili,anche a partire da un numero finito di prodotti e dai ferrei condizionamenti biologicidell'organismo umano1.Impossibile poi dimenticare un altro aspetto fondamentale che traversa tutti quelli frettolosamenteelencati, ossia le retroazioni che le strutture alimentari hanno sulla storia del corpo. Accanto allostudio delle tecniche del corpo e delle modificazioni storiche e sociali della struttura fiscia (egenetica) dell'organismo umano a queste connesse, a fianco della paleopatologia e della storiadella medicina, non possono certo mancare studi che, assunta l'alimentazione come uno dei

1 Cfr. per quest'ultimo aspetto in generale A. Leroy Gourhan, Il gesto e la parola , trad. it. Torino 1977, pp. 338-45 eF. Braudel, Capitalismo e civiltà materiale (secoli XVXVIII), trad. it., Torino 1977, pp. 126-97. Più specificamenteper il Medioevo i lavori e le tendenze ricordati in G. Piccinni, Note sull'alimentazione medievale, "Studi Storici", 3(1982), pp. 603-15 a p. 612, in margine al convegno Problemi di storia dell'alimentazione nell'Italia medievalepromosso da «Archeologia Medievale». Su alcune preferenze alimentari divergenti dall'andamento dei prezzi deiprodotti G. Pinto, Le fonti documentarie bassomedievali, "Archeologia Medievale", VIII (1981) pp. 39-58, a p. 57 s.Su alcuni rituali legati al ruolo alimentare della castagna G. Chernbini, La civiltà del castagno in Italia alla fine delMedioevo "Archeologia Medievale", VIII (1981), pp. 247-80, a p. 279 s.

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principali veicoli delle stesse modificazioni storiche del corpo umano, tendano a comprendere emettere a fuoco il peso delle strutture alimentari sul piano demografico, economico-produttivo2.Un tipo di approccio, però, può essere quello che, senza operare alcuna scelta di priorità, finisce,pur partendo da intenti rigorosamente e ottimamente interdisciplinari, per circoscrivere il campodell'alimentazione finalizzandolo a se stesso, per creare - analogamente a quanto è avvenuto perla cultura materiale o per i villaggi abbandonati o per l'abitazione rurale - un contenitoretematico, estremamente fecondo e ricco di stimoli, ma destinato quasi a essere demotivato dallestesse ricerche a cui ha dato origine o rinnovata vitalità. Questo tipo di approccio latente, mipare, in alcuni dei saggi dell'ottavo numero di «Archeologia Medievale», interamente dedicatoalla storia dell'alimentazione medievale- sembra infatti comportare alcuni rischi. Ad esempio ilrischio di un descrittivismo, connesso probabilmente con il fatto che lo scopo risulta quello diricostruire l'alimentazione in una data situazione, piuttosto che risalire dalle strutture alimentariad altre strutture portanti dello stesso contesto. Oppure il rischio opposto di uno sforzo dimodellizzazione all'interno del "contenitore" - a titolo di esempio si ricordino i tentativi didefinire una volta per tutte il motivo chiave dell'abbandono dei villaggi, che pure sono stati fatti- sforzo che non può che vanificarsi di fronte all'evidente differenziarsi e opporsi dei contesti, difronte a ciò che rimane in qualche modo esogeno al "contenitore", ma che risulta alla fin finemolto più significativo. Infine, un altro inconveniente sembra quello strettamente metodologicodell'uso di procedimenti circolari, di serpenti che si mordono la coda, al fine di colmare lelacune o le incertezze delle fonti. Intendo dire che quando si deve fare i conti con fonti indirette,frammentarie o di difficile quantificazione - e se si parla di società medievale ciò awiene moltodi frequente - e all'interno di questo tipo di approccio, appare a volte legittimo owiare a carenzeo distorsioni dei dati sull'alimentazione, o meglio sui consumi alimentari, ricorrendo ad esempioa informazioni sulla struttura ambientale o tecnicoproduttiva, e alle carenze dei dati suquest'ultima con i dati sull'alimentazione, usando cosı indifferentemente l'uno e l'altro ordine diinformazioni, magari contemporaneamente, come indicatori e come "indicata".In questo senso le scelte di priorità possono consentire una collocazione stabile degli indicatoriindiretti, e di conseguenza un più accurato controllo e una resa euristica migliore. Ma, unesempio può forse chiarire meglio tutto ciò. Ammesso che solo raramente ci si trova di fronte asituazioni di completa coincidenza di produzione e consumo, se l'interesse del ricercatore è,poniamo, verso la capacità di resistenza alle malattie o verso i ritmi dello sviluppo puberale neicui confronti, com'è noto, svolgono un ruolo improtante i consumi alimentari (o meglio ilbilancio proteico), le informazioni sulle strutture ambientali, sul rapportoagricoltura/allevamento, o in generale sulla produzione carnea o casearia possono costituiredegli ottimi indicatori indiretti e fornire preziosi elementi sulle strutture alimentari, ma è chiaroche parleranno correttamente solo se controllati e accuratamente tarati in base alle variabiliconnesse con le direzionalità sociali, sia a livello quantitativo che qualitativo, dei surplusalimentari. Allo stesso modo, se l'interesse si dirige verso le strutture ambientali e le forme disfruttamento del territorio, i dati sui consumi alimentari possono dirci molto sulla produzione epossono essere assunti come indicatori indiretti del sistema ecoculturale entro il quale sonoavvenuti, ma è necessario - prioritario, direi - trovare gli strumenti più adatti per renderli fruibilie depurarli dagli elementi di "disturbo" costituiti essenzialmente dal divergere di produzione econsumo, o meglio per individuare, valutare e collocare all'interno di un sistema complessoquesti stessi elementi. 2 Cfr. ad esempio M. S. Mazzi, Consumi alimentari e malattie nel Basso Medioevo , "Archeologia Medievale", VIII(1981), pp. 321-37 e Id., Salute e Società nel Medioevo, Firenze 1978, pp. 158 ss.; A. M. Nada Patrone, Il cibo delricco ed il cibo del povero. Contributo alla storia qualitativa dell'alimentazione. L'area pedemontana negli ultimisecoli del Medioevo, Torino 1981 e Id., Trattati medici diete e regimi alimentari in ambito pedemontano alla fine delMedioevo, "Archeologia Medievale", VIII (1981), pp. 369-92; G. Forniciari, F. Mallegni, Alimentazione epaleopatologia, ivi, pp. 353-68.

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Entriamo così nel cuore stesso del discorso. I reperti archeozoologici si presentanoessenzialmente come fonti sui consumi carnei, sia perché provengono per lo più da avanzi dipasto, sia perché il primo e più consistente livello di informazioni da essi offerte concernecomunque il rapporto uomo/animale (sia selvatico che domestico) in termini di uccisione-consumo, in particolare per i contesti urbani ma anche per gli insediamenti rurali3. D'altro canto,l'interesse prevalente negli studi di archeozoologia - e in chi scrive - si focalizza sulla possibilitàdi far luce sugli ecosistemi del passato4 a partire dal settore nevralgico dell'allevamento e dellaproduzione di beni alimentari proteici, ossia su quello che possiamo considerare come unsecondo livello di informazioni dei reperti faunistici e che si riferisce al rapporto uomo/animalevivo. In base a questa scelta di priorità - operata sempre entro il campo della storiadell'alimentazione o almeno a partire da esso - si determina l'oggetto della nostra discussione.Assunta la divergenza tra produzione e consumo come asse protante dell'intera riflessione e lasubordinazione delle informazioni archeozoologiche sui sistemi produttivi a quelle sui consumicome punto di partenza, si concentrerà l'attenzione sulla fruibilità dei reperti faunistici per lastoria degli ecosistemi medievali e su alcuni metodi per aumentare o realizzare questa fruibilità.Si cercherà inoltre di fare il punto dei risultati a tutt'oggi ottenuti in Italia dalla ricerche inquesto senso.L'ottica in cui Graeme Barker da un lato e Judith Cartledge dall'altro propongono di analizzare iproblemi della rappresentatività dei campioni faunistici consiste nella ricostruzione - il piùdettagliata possibile - della storia del campione stesso, dall'animale vivo al reperto che giungesul tavolino dell'archeozoologo dopo aver subito una serie complessa di modificazioni, siaumane che naturali5. Judith Cartledge propone di vedere ciò come quattro processi:

1. produzione, allevamento o cattura;2. attività successive alla morte dell'animale;3. trasformazioni successive all'interramento;

3 A proporre di vedere le potenzialità delle fonti archezoologiche in termini di ricostruzione del rapportoumano/animale è J. Cartledge, Faunal Studies and urban archeology, in Archeology and Italian Society, a cura di G.Barker e R. Hodges, Oxford 1981, pp. 91-7 a pp. 91 e 93. Cfr. anche M. Montanari, L'alimentazione contadinanell'alto Medioevo, Napoli 1979 p. 244s.4 È naturalmente ii più vicino alle suggestioni della nuova e stimolante epistemologia archeologica (si veda sul«paradigma ecologico» Ga. Maetzke, Metodi e problemi dell'analisi delle fonti archeologiche, "ArcheologiaMedievale", VIII (1981), pp. 9-24, a p. 14s.; in generale sulla new archaeology, l'ecologia culturale e il«materialismo antropologico», G.Kezich, Tra materialismo e metafisica. Note sulla cultura materiale, "La RicercaFolklorica", 2 (1980), pp. 130-5, a pp. 132-5, J. Barrau, Ecologia, in Il laboratorio dell'etnologo, a cura di R.Cresswell, Bologna 1981, II, pp. 13-59 e anche B. Hodges, Method and Theory in medieval Archeology,"Archeologia Medievale", IX (1982), pp. 7-37; cfr. inoltre Gu. Maetzke e altri, Problemi dell'analisi descrittiva suisiti archeologici pluristratificati, "Archeologia Medievale", IV (1977), pp. 7-45 e il più vicino agli interessi dellanuova storiografia agraria (cfr. a questo proposito quanto ricordato da M. Montanari, Storia, alimentazione e storiadell'alimentazione: le fonti scritte altomedievali, "Archeologia Medievale", VIII (1981), pp. 25-38, a p. 32 o, a titolodi esempio, la sintesi di G. Cherubini, Le campagne italiane dall'XI al XV secolo, in Storia d'Italia, a cura di G.Galasso, IV, Torino 1981, pp. 265-448 o Montanari, L'alimentazione contadina, cit. o P. Toubert, Feudalesimomediterraneo. Il caso del Lazio medievale, ed. it., Milano 1977 sul Lazio altomedievale, o G. Pinto La Toscana nelTardo Medioevo. Ambiente, economia rurale, società, Firenze 1982, cap. I sulle strutture ambientali della Toscanatardomedievale). Si veda inoltre G. Barker, R. Hodges, Archeology in Italy, 1980: new directions and mis-direcrions,in Archeology and Italian Society, cit., pp. 1-16, in generale sui nuovi indirizzi dell'archeologia italiana. In generalesui problemi dell'analisi dei consumi e sulla loro irrinunciabile dimensione sociale cfr. W. Kula, Problemi e metodidella storia economica, Milano 1972, pp. 224 ss., sulle fonti archeologiche pp. 300-10. L'unico studio diarcheozoologia divergente da queste direzioni risulta quello di Ch. Beck Bossard, L'alimentazione in un villaggiosiciliano del XIV secolo sulla scorta delle fonti archeologiche, "Archeologia Medievale", VIII (1981), pp. 311-20,focalizzato consapevolmente sulla ricostruzione dei regimi alimentari, piuttosto che dei sistemi produttivi.5 G. Barker, Studi sulla fauna e l'economia medievale in Italia , "Archeologia Medievale", VIII (1981), pp. 59-70, app. 60 ss.; Cartledge, Faunal studies, cit., p. 91.

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4. scavo (archeologico).Barker considera l'azione di "disturbo" di 5 fattori:

1. selezioni alimentari non coincidenti con il sistema produttivo;2. luoghi, tempi e modi di macellazione;3. tipi di seppellimento;4. caratteristiche del suolo;5. metodi e tecniche di scavo.

Come si vede, Barker- che tende dichiaratamente a esaminare la rappresentatività dei campionifannistici per la ricostruzione del sistema economico-produttivo, mentre la Cartledge sembraparlare in generale, pur se dichiara che il compito dell'archeozoologia è di ricostruire il sistemadi relazioni uomo/animale - si mostra più sensibile ai problemi di produzione/consumo econsidera i sistemi di allevamento (o di caccia) con tutte le loro implicazioni come la base sucui agiscono i vari fattori di "disturbo", come il nucleo di informazioni a cui arrivare dopo avereliminato l'influenza di questi ultimi. La Cartledge invece sembra includere il punto nevralgicodelle selezioni alimentari nel primo processo (produzione), o nel primo e nel secondo,stabilendo un discrimine (la morte dell'animale) che risulta tutto sommato poco significativo ainostri fini. Naturalmente entrambi pongono in eguale misura l'accento sulla variabile costituitadalle tecniche di scavo e - sia pure con qualche differenza data dal fatto che l'uno ponel'attenzione sui fattori di trasformazione e l'altra sulle trasformazioni stesse - sulla distanza chesepara l'archeologo dalle ossa animali ad attività di produzione-consumo conclusa.È ormai quasi ovvio che diverse tecniche di scavo determinano campioni faunistici condizionatiin modo differente e a più livelli di informazione e che, costituendo il momento dellaproduzione dei dati, l'adozione di tecniche accurate è la prima condizione della fruibilità delcampione. Meno scontato, anzi in pieno sviluppo, è lo specifico campo d'indagine che da ciòviene aperto: da un lato si tende a stabilire come (e quanto) e su quali informazioni agiscano ledifferenti tecniche di scavo, mettendo a punto strumenti di valutazione per una migliore lettura eper una adeguata comparizione dei campioni già prodotti; dall'altro si cerca di costruire coerentistrategie per i casi in cui non è possibile l'applicazione integrale delle tecniche che menocondizionano il campione faunistico (il setacciamento a secco)6. Allo stesso modo è ormaievidente che le caratteristiche del suolo, la profondità del seppellimento, il tipo di deposito enaturalmente le vicissitudini del contesto materiale da cui provengono i resti ossei possonoavere un'incidenza determinante sui processi di frammentazione, sulla sopravvivenza delle ossadi questa o quella specie, di questo o di quel tipo, con queste o quelle informazioni, e diconseguenza sulle quantificazioni che il campione consente e richiede. Anche ciò apre uncampo d'indagine teso a comprendere come e quanto queste variabili causino distorsioni sui datiarcheozoologici, e a rendere comparabili i diversi campioni, tramite accurati sistemi di controlloe procedimenti statistici a volte molto sofisticati7.Mai usciamo un attimo dall'ottica proposta dai due studiosi inglesi o meglio dai loro rispettivischemi. I problemi inerenti le tecniche di scavo e i processi di trasformazione posteriori al

6 Cfr. soprattutto, G. Barker, Dry bones? Economic studies and historical archeology in Italy , in Papers in ItalianArcheology, I, part. 1, a cura di H. Mc. K. Blade, T. W. Potter e D. B. Whitehouse, Oxford 1978, pp. 35-49, a pp. 35s., 42 e 45; J. M. Maltby, The variability of faunal samples and thair effects upon ageing data, in Ageing and SexingAnimal Bones from Archeological Sites, a cura di B. Wilson, C. Grigsons, S. Payne, Oxford 1982, pp. 81-90, a p. 82,Barker, Studi sulla fauna, cit., pp. 62-4; Id., L'economia del bestiame a Luni, in Scavi di Luni II, a cura di A. Frova,Roma 1977, pp. 725-35, a p. 725s., in rapporto agli scavi di Luni e alle variazioni dei campioni prodotti con tecnichediverse.7 Barker, Dry bones?, cit. p. 37, Maltby, The variability, cit., pp. 81-9 e bibliografia da entrambi riportata. Cartledge,Faunal Studies, cit., pp. 91 e 94.

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deposito delle ossa - e gli specifici campi di ricerca che essi richiedono - non sono certo menodeterminanti di altri problemi. Tuttavia, essi possono apparire agli occhi di uno storico, nontanto un campo estraneo e specialistico al punto da indurre una sorta di delega agli addetti ailavori - ciò infatti può essere vero per la messa a punto di alcuni strumenti di valutazione, manon in generale, né nell'eventuale utilizzazione dei dati archeozoologici, né in forme piùcomplete e auspicabili di collaborazione 8 -, quando qualcosa di strumentale, di essenziale per lafruibilità della fonte, ma il cui interesse si esaurisce in ciò, ossia nella funzione di depurare i datida fattori di vero e proprio disturbo. Infatti, si tratta di processi che avvengono come si è detto -ad attività di produzione-consumo già conclusa e che solo secondariamente riguardano l'attivitàe la vita della comunità nel preciso contesto in cui viene studiata ed è rappresentata dai repertiosteologici (si pensi al caso limite degli scavi nei villaggi abbandonati). Inoltre, non a casoquesti processi costituiscono potenziale distorsione sia per la ricostruzione dei consumialimentari che per indagini sull'economia o sugli ecosistemi. Voglio giungere a dire che, adifferenza dell'analisi dei processi di trasformazione delle ossa animali nella terra,l'individuazione e la ricostruzione di tutto ciò che succede a esse prima dell'eliminazione e deldefinitivo interramento costituisce qualcosa di più che la semplice - si fa per dire - conquista diuna migliore fruibilità della fonte. Si identifica infatti necessariamente con la comprensioneraggiungibile non solo tramite informazioni "contestuali", ma anche tramite potenzialità dellestesse fonti archeozoologiche - di alcuni importanti processi che, per awenire all'interno di uncomplesso sistema socioeconomico (o ecoculturale), solo provvisoriamente possono essereconsiderati fattori di disturbo. Considererei dunque i due ordini di problemi relativi allarappresentatività dei campioni faunistici su due piani differenti, l'uno riferito alla correttezza deiprocedimenti di produzione ed elaborazione dei dati, l'altro alla lettura e interpretazione globaledi questi ultimi.Prima di passare decisamente ai problemi concernenti squisitamente l'uso di fonti che riflettonoprima di tutto i consumi alimentari al fine di risalire alle strutture ambientali e tecnico-produttive (o agli ecosistemi), sembra opportuno fermare l'attenzione su alcune questioni cheriguardano la rappresentatività dei campioni faunistici nei confronti degli stessi consumialimentari. Questi problemi possono essere raggruppati in due ampi settori, l'uno più generale el'altro più specifico e direttamente collegato alla possibilità di redistribuzione delle carcasse (diparti dello stesso animale) tra differenti luoghi di uno stesso sito o tra siti tra di loro in relazione,ossia alle modalità e soprattutto ai luoghi della macellazione e dello scarico dei rifiuti. Se infattiè vero che i campioni faunistici riflettono il consumo più direttamente che la produzione, èaltrettanto vero che, soprattutto in contesti urbani, luoghi differenti possono riflettere contestisocioculturali diversamente alimentati, solo se si è in grado di verificare che non esistonoscollamenti tra il luogo di consumo e quello di scarico degli avanzi di pasto (si pensi ad esempiola possibilità che questi ultimi o parte di essi venissero gettati fuori dalle mura della città o -come sembra che avvenisse a Londra9 - in un fiume ecc.) o anche tra il luogo di macellazione eseppellimento (o riciclaggio) di alcune parti della carcassa e il luogo del consumo/seppellimentodelle altre. Quest'ultimo fattore agisce in forma più mediata dando luogo a campioni che,sbilanciati ad esempio a favore delle specie consumate intere, oppure diversamente condizionatiin differenti periodi, risultano correttamente leggibili solo dopo attenti controlli e dopo confrontioperati su larga scala, ossia tra campioni diversamente rappresentativi non soltanto di consumisocialmente differenziati, ma anche di diversi meccanismi di macellazione-consumo-scarico10. 8 Si veda ad esempio quanto proposto in Piccinni, Note sull'alimentazione medievale, cit., p. 606.9 Cartledge, Faunal Studies, cit., p. 9410 Barker, Studi sulla fauna , cit., pp. 61s; Cartledge, Faunal Studies , cit., pp. 91, 94, 95; e soprattutto Maltby Thevariability, cit., pp. 81-9, dove si mostra come con raffinati procedimenti e a partire da campioni ampi, numerosi esoprattutto opportunamente differenziati è possibile distinguere tra incidenza della sopravvivenza differenzialedelle ossa nella terra, incidenza delle diverse tecniche di scavo e incidenza delle attività di macellazione-scarico.

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L'esempio di quanto verificato a Exeter11 è a questo proposito illuminante, e se da un lato puòindurre un certo scoraggiamento per l'archeozoologia in Italia dove non esiste ancora nessuncomplesso di campioni faunistici paragonabile a quello di Exeter per estensione, ragionatadifferenziazione interna e profondità di elaborazione, dall'altro lato però ricordainequivocabilmente come l'arma euristica più importante, per una valida lettura di dati che presialla lettera o isolatamente sarebbero molto ingannevoli, risieda nella possibilità di sottoporre acontinui confronti (o integrazioni) campioni differenziati in base alle molte variabili descritte12.Riprenderemo comunque più avanti il discorso su questa variabile in quanto, sempre a partiredagli studi su Exeter, è stato verificato che essa agisce fortemente anche sulla determinazionedelle età di morte, cioè su un ordine di informazioni cardine ai fini della storia degli ecosistemi.Su un piano più generale gli ostacoli più importanti che si pongono alla ricostruzione deiconsumi alimentari dai campioni faunistici possono essere identificati, oltre che nella giàaccennata esigenza di disporre di campioni rappresentativi di consumi socialmente differenziati,nella indubbia difficoltà di accedere all'universo dei valori assoluti13. Infatti, se è vero che lefonti archeozoologiche possono fornire ottime risposte sulla reciproca importanza delle varierisorse carnee e casearie nell'alimentazione e nella gerarchia socioeconomica dei consumi, cioèsulla qualità dei regimi alimentari proteici e in parte sulla varietà della dieta, difficilmente essepotranno parlare sulla quantità di questi consumi, sia in relazione alla complessiva dieta omeglio alle diverse diete, sia in assoluto, cioè in un tentativo di definire il consumo pro capitedei gruppi sociali14. Inoltre, queste fonti sembrano tacere anche sui ritmi stessi della dieta e sulcarattere quotidiano/festivo di alcuni consumi15. Naturalmente ciò non nega il valore di quantopossono dirci le fonti archeozoologiche sui regimi alimentari medievali - che diventa tanto piùimportante, quanto più si constata che le fonti documentarie o letterarie, dove sono presenti,taceranno per sempre su molti aspetti pregnanti e significativamente messi in luce dai repertifaunistici -, ma vuole solo delineare, gli spazi che rimangono estranei a queste fonti o illuminatisolo in negativo.Veniamo dunque alle questioni centrali di questa riflessione - cioè ai modi in cui i datiarcheozoologici ci parlano degli ecosistemi - e consideriamo alcune linee generali di esse

11 J. M. Maltby, Faunal Studies or urban sites: The animal bones from Exeter , 19711975, University of Sheffield1979, e Id., The variability, cit.12 Si veda anche Barker, Dry bones? , cit., pp. 44-6; Id., Studi sulla fauna , cit., pp. 63-5 e 67 e Cartledge, FaunalStudies, cit., p. 95.13 Piccinni, Note sull'alimentazione medievale, cit.,14 Ivi, p. 614. Ciò, pur non essendo un limite proprio delle fonti documentarie, è comunque un limite generale dellostato attuale delle ricerche sulla storia dell'alimentazione o meglio il loro punto d'arrivo ideale. Cfr. ancora ivi, n.39 per i casi in cui sono stati svolti lavori in questo senso, ai quali è da aggiungere il recentissimo G. Nigro, Gliuomini dell'irco, Firenze 1983, sui consumi carnei a Prato alla fine del '300. Ancora sui consumi carnei si veda ilconvincente quadro delineato da F. Leverotti, Il consumo della carne a Massa all'inizio del XV secolo: primeconsiderazioni, "Archeologia Medievale", VIII (1981), pp. 227-39, mettendo in relazione le fonti sullemacellazioni di Massa Lunense all'inizio del Quattrocento con altre fonti fiscali. Da questi due lavori emergechiaramente come le fonti sulle macellazioni da sole avrebbero parlato soltanto sul ruolo reciproco delle diverserisorse carnee e non sull'ammontare relativo del consumo carneo individuale e dei gruppi sociali.15 Anche questo è un aspetto ricostruibile solo con fonti documentarie (o letterarie). Cfr. Leverotti, Il consumo dellacarne, cit., p. 233 s.; S. Frescura Nepoti, Macellazione e consumo della carne a Bologna: confronto tra i datidocumentari e archeozoologici per gli inizi del secolo XV, "Archeologia Medievale", VIII (1981), pp. 281-99, a pp.286-8; e Nigro, Gli uomini dell'irco, cit., pp. 25-41. Sui problemi specifici delle fonti documentarie bassomedievalie in particolari sulla tendenza di esse a illuminare prevalentemente la dieta di gruppi particolari e non sempresocialmente rappresentativi, oppure la dieta degli strati sociali privilegiati piuttosto che quella dei ceti menoabbienti, il mondo urbano piuttosto che quello rurale, l'alimentazione che passa per il mercato piuttosto chel'autoconsumo, e i consumi principali (cereali o sostitutivi) piuttosto che quelli minori, ma alla fin fine connotatoridei vari regimi alimentari, cfr. M. Aymard, M. Bresc, Nourritures et consommation en Sicilie entre XIVe et XVllle

siècle, "Mélanges de l'Ecole Française de Rome. Moyen Age-Temps modernes", 87 (1975), pp. 535-81, a pp. 535-8e Pinto, Le fonti documentarie, cit. Per le fonti scritte altomedievali Montanari, Storia, alimentazione, cit..

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prendendo l'esempio dei campioni faunistici provenienti dai contesti medievali urbani. Esiste,infatti, la domanda se sia legittimo usare i metodi dell'archeozoologia- sviluppati nell'analisi dicomunità preistoriche, dunque in situazioni di sostanziale autosussitenza - per lo studio dellasocietà medievale, e soprattutto bassomedievale, la quale, nonostante la permanenza di enclavesprotostoriche e gli indubbi caratteri di arretratezza agraria, è indiscutibilmente una societàcomplessa, stratificata e urbanizzata. Ma, porsi questa domanda in generale può non essere unbuon punto di partenza o può condurre ad affermare conclusioni, come ad esempio quella diritenere legittima l'archeozoologia solo in situazioni di identità di produzione/consumo (incontesti altomedievali ad esempio, o nelle enclaves di cui sopra, o ancora solo in contesti ruraliparticolarmente arretrati ecc.)16. Cosa che appare un po' come gettar via il bambino con l'acquadi bagno.È chiaro infatti che i campioni faunistici urbani, oltre a presentare i problemi più sopra descritti,avranno nei confronti dell'ecosistema prevalente o meglio del sistema agrario che connota ilterritorio una rappresentatività molto attenuata o problematica, così come è chiaro che ilconsumo alimentare da essi indicato non rifletterà che una parte (forse piccola) della produzioneagricola dell'area territoriale in cui il sito urbano è inserito. Tuttavia, anche se non sempre si puòdire che in un contesto urbano la relazione uomo/animale si limita a quella uomo/animalemorto, o acquistato presso i produttori e strettamente finalizzato al consumo17, è molto probabileche campioni del genere riflettano un consumo privilegiato, in altre parole una produzionespecificamente diretta al mercato urbano e da esso influenzata, un drenaggio (spazialmente benconnotato) di eccedenze agricole. Come non considerare che, anche quando il sistema agrariodello stesso contesto storico dovesse risultare del tutto eterogeneo a quello che il campionefaunistico urbano superficialmente assunto indicherebbe, un tipo di produzione del genere esistee trova posto in un sistema non necessariamente omogeneo, ma profondamente stratificato ediscontinuo? Come trascurare, su un piano diverso di riflessione, che le fonti archeozoologicheconsentono, ad accurate letture e tramite adeguati confronti tra dati provenienti da contestidifferenziati in un'area territoriale, di far luce sul problema della direzionalità dei surplus, sulladistribuzione dei prodotti o ancora sulla diversificazione della produzione indotta dalladomanda urbana? Certo, i problemi in questo senso sono molti: una volta verificata l'attrazionedel mercato (e del macello) urbano - nota giustamente J. M. Maltby18 -, come rapportare tra loroquantitivamente i diversi tipi di produzione animale dei singoli siti o aree del territorio, quellaad esempio di carne diretta al consumo urbano (e rappresentata nei campioni faunistici dellacittà, ma difficile da quantificare in generale e anche perché i prodotti provenienti da varie partidel territorio sono raggruppati insieme, con scarse o nessuna possibilità di distinzione), conquella diversamente finalizzata o direttamente consumata dalle comunità? Come valutarel'importanza relativa dei diversi indirizzi produttivi dell'allevamento nel sistema agrario, e 16 Anche porsi questa domanda in relazione ai contesti medievali urbani puù portare a conclusioni che prestano ilfianco a critiche. Ad esempio Cartledge, Faunal Studies, cit. p. 93s. argomenta che 1'archeozoologia medievale èlegittima e remunerativa perché le sue difficoltà rispetto a quella preistorica non sono maggiori, grazie allapossibilità di informazioni "contestuali" (ma la questione non sembra essere quante difficoltà esistano, quantopiuttosto quali e quanto risolverle sia fecondo), e che l'archeozoologia urbana godrebbe in più di una serie di"semplificazioni" date dalla particolare struttura sociale urbana—come ad esempio l'accentramento delle attività dimacellazione e raccolta dei rifiuti, il fatto che il rapporto uomo/animale si riduce a quello uomo/prodotti animali(fauna domestica) - e note già, almeno a livello generale, per gli studi sul contesto storico. Questo tipo diargomentazioni, se non si indica insieme quali sono le potenzialità informative delle fonti archeozoologiche e se nonsi ha presente che la corrente di informazioni tra queste fonti e quelle sui "contesti" è e deve essere a doppio sensorischia di far pensare che il ruolo dell'archeozoologia sia solo di confermare alcune tendenze generali già individuateper altra via, ossia che si riduca a ben poca cosa.17 Così Cartledge, Faunal studies , cit., p. 94, si veda nota precedente. Su forme di allevamento di bestiameall'interno delle mura cittadine, cfr. ad esempio Porci e Porcari nel Medioevo, a cura di M. Baruzzi, M. Montanari,Bologna 1981, p. 70.18 Maltby, The variability, cit., p. 87 s.

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soprattutto come individuare la soglia dopo la quale l'influenza del mercato urbano diventafattore di trasformazione strutturale dello stesso sistema agrario?Sono domande a cui al momento non è certo facile (o possibile) rispondere; tuttavia, essespingono a riflettere sul fatto che, pur se le città sono state definite «anomalie delpopolamento»19, è vero che nulla ci può essere di anomalo o di esogeno, se si considera unaciviltà come un sistema complesso, e che in un ottica più globale è errato identificare il sistemaagrario con il sistema ecoculturale. Il problema è semmai - e soprattutto ciò è un'esigenzairrinunciabile per gli archeologici e per dar luogo a coerenti strategie di scavo - di individuareun certo numero di modelli spaziali20 che servano da guida e da punto di partenza alle ricerchestoriche e archeologiche in questo senso. Inoltre, è bene soffermarsi ancora sull'ultima delledomande avanzate- domanda urbana e trasformazioni strutturali del sistema agrario - in quantocontiene delle implicazioni importanti e non esenti da equivoci.A volte, infatti, si è portati ad assumere che a un aumento della popolazione urbana e anche a unmiglioramento delle sue condizioni di vita - delle quali i regimi alimentari sono evidentementeun aspetto importante - debbano corrispondere un aumento della produttività delle campagne euna ristrutturazione del sistema produttivo21. Questo datato, ma tenace modello - per il qualealcuni studiosi anglosassoni spezzano ancora qualche lancia - proviene, com'è noto, dagli studisull'evoluzione post-medievale che la realtà inglese ha conosciuto ed è per essa probabilmentevalido. Ma, se viene trasportato di peso non solo alla realtà mediterranea, ma anche al Medioevorurale mediterraneo, interpretando l'espansione urbana dei secoli XI-XIII come provadell'aumentata produttività delle campagne22, esso rischia di appannare la comprensione di piùdi un carattere di arretratezza e di contraddittorietà della cosiddetta colonizzazione medievale edella sostanziale fragilità del sistema agrario mediterraneo. Tutto ciò è stato ampiamentesuperato dalla storiografia agraria contemporanea23, tuttavia una certa rigidità teorica,nell'interpretazione dei dati sulle eccedenze agricole e nella fattispecie quelli sui consumi carneiprivilegiati, può viscosamente persistere e far dimenticare che probabilmente non è il volumedelle eccedenze a caratterizzare e differenziare le civiltà precapitalistiche (o non è soltanto esso)ma tutta un'altra serie di processi, tra i quali quelli di stratificazione sociale, direzionalità eintensità di drenaggio dei surplus stessi.Torniamo all'interpretazione dei dati archeozoologici. Da un lato si situa dunque l'ipotesi chel'aumento della popolazione urbana sia leggibile in essi come miglioramento della qualità delbestiame e del suo sfruttamento in direzione della produzione carnea, in altre parole comeaumento della produttività animale in inscindibile relazione con quello della produttivitàagricola in generale24. Dall'altro è inevitabile la riflessione che non è affatto automatico che 19 Braudel, Capitalismo e civiltà materiale, cit., p. 380.20 Sul problema della costruzione e applicazione dei modelli "spaziali" per la nuova archeologia, Hodges, Methodand Theory, cit., pp. 13 ss.21 Ad esempio Barker, Studi sulla fauna , cit., p. 67 s., nel riferire sugli studi di Exeter, per i quali (cfr. Maltby,Faunal Studies, cit.) quando descritto rappresenta l'ipotesi di ricerca; così anche in Cartledge, Faunal Studies, cit., p.93.22 Ciò è latente anche nell'opera meno recente di P. Jones, cfr. P. Jones, Per la storia agraria italiana nel MedioEvo: lineamenti e problemi, in Id., Economia e società nell'Italia Medievale, Torino 1980, pp. 191-247, a pp. 194s.,202-4 ecc. (l'anno si riferisce all'ultima edizione italiana, prima ed. 1964).23 Sui caratteri di arretratezza dell'agricoltura mediterranea e dell'espansione dei secoli XI-XIII, si veda ad esempioP. Jones, La società agraria medievale all'apice del suo sviluppo. L'Italia, in Storia economica Cambridge, 1,L'agricoltura e la società rurale nel Medioevo, Torino 1976, pp. 412-526, particolarmente a pp. 446-65, oppureCherubini,—Le campagne italiane, cit., soprattutto a pp. 271-315 e 326-35, o ancora G. Haussmann, Il suolo nellastoria d'Italia, in Storia d'Italia Einaudi, I, Torino 1972, pp. 61132, a pp. 73-102, o il "dassico" F. Braudel, Civiltà eimperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II, Torino 1976 pp. 245-54 o pp. 44-80. Sulla fragilità dell'assetto tecno-ambientale nella Toscana medievale cfr. Pinto, La Toscana nel Tardo Medioevo, cit., p. 23. Sui processi didegradazione dei boschi mediterranei cfr. E. Sereni, Terra nuova e buoi rossi, Torino 1981, pp. 3-100.24 Maltby, Faunal Studies, cit., e Barker, Studi sulla fauna, p. 67s.

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l'incremento demografico urbano significhi un aumento nella domanda di carne, né chel'aumento della domanda e dei consumi carnei urbani costituisca un reale ed efficace stimoloper la produttività e per la trasformazione dei sistemi agrari.Questi infatti potrebbero trovarsi al centro di numerosi circoli viziosi che impedirebbero oridimensionerebbero in modo deciso ogni sviluppo. Verificare l'una e l'altra tendenza, com'èfacilmente intuibile, è molto più che arduo. Basti dire, però, che da un lato negli studiarcheozoologici su Exeter25 viene ribadita, in relazione ai dati medievali, l'assenza di nesso traincremento demografico urbano e ristrutturazione del sistema agrario, mentre dagli studisull'alimentazione siciliana emerge prepotentemente come i consumi carnei del Bassomedioevoe dell'età moderna seguano le curve demografiche in funzione nettamente inversa, cioè cheall'aumento della popolazione non corrisponde un aumento della produzione, ma un aumentodei prezzi dei prodotti carnei e un peggioramento della qualità e della quantitàdell'alimentazione26. In generale poi, è da credere che in contesto mediterraneo, dove mezzadriao colonia parziaria, transumanza e latifondo connoteranno la realtà agraria fino alle sogliedell'età contemporanea, anche i dati archeozoologici post-medievali parlerebbero in sensocontrario all'ipotesi "inglese"27 .Tuttavia, le potenzialità delle fonti archeozoologiche non si limitano al pur prezioso contributocirca la dimostrazione che la realtà mediterranea è uno spazio bianco rispetto al cosiddetto"modello inglese". Queste fonti, infatti, nonostante tutte le cautele espresse fin qui e nonostantesi debba passare sempre attraverso il filtro costituito dai consumi alimentari e dalle implicazionie deviazioni che essi comportano, possono fornire decisive informazioni su quello che è statodefinito «un carattere strutturale del modo di produzione mediterraneo»28, ossia sull'incapacitàdel sistema produttivo di integrare organicamente - forse nemmeno nel modo ancora arretrato ecircolarmente vizioso proprio dei paesi d'open field - agricoltura e allevamento e sulla tendenzaopposta a tenere l'animale al margine della vita e delle pratiche agrarie. Sarebbe a dire chepossono dirci molto, e su una scala potenzialmente priva dei limiti cronologici e spaziali propridelle fonti documentarie, su uno di quei circoli viziosi che sembrano aver svolto un ruono nonindifferente nel rendere l'agricoltura mediterranea incapace di trasformarsi strutturalmente persecoli, nonostante la presenza di eventuali stimoli allo sviluppo quali i mercati, la domandacittadina e i suoi incrementi ecc. Questi ultimi, e in particolare la domanda urbana, potrebberoessere stati soddisfatti secondo soluzioni (e feed-back negativi) specificamente mediterranei (ilsistema mezzadrile ad esempio, o altre forme di intensificazione del drenaggio dei surplus), suiquali le stesse fonti archeozoologiche hanno qualcosa da dirci.Inoltre, possono fornirci informazioni sull'utilizzazione (stagionale o no) degli spazi incolti, delpatrimonio boschivo o meno in generale, sullo sfruttamento delle risorse carnee provenienti daquelle popolazioni animali che legano il loro ciclo biologico al bosco e alle sue variazionistoriche o comunque all'outfield.Come dar torto dunque a Graeme Barker quando, dopo aver individuato nell'interpretazionedelle fonti archeozoologiche tre livelli di complessità crescente - dalla dieta della singola 25 Maltby, Faunal Studies, cit., e Id. The variability, cit.26 Aymard, Bresc, Nourritures cit., pp. 549 ss., A. Giuffrida, Considerazionisul consumo della carne a Palermo nei secoli XIV e XV, "Mélanges de l'EcoleFrançaise de Rome, Moyen Age-Temps modernes", 87 (1975), pp. 583-95, ap. 594, Cherubini, Le campagne italiane, p. 328.27 Cfr. a titolo di esempio C. Pazzagli, L'agricoltura toscana nella prima metà dell'Ottocento , Firenze 1973, pp. 235-312.28 Toubert, Feudalismo mediterraneo , cit., p. 69. Ma sul contrapporsi di agricoltura e allevamento come limite econtraddizione di fondo dell'agricoltura mediterranea cfr. anche gli studi citati alla nota 23 e soprattutto Jones, Lasocietà agraria, cit., e Cherubini, Le campagne italiane, cit. In relazione alla Toscana ottocentesca e al sistemamezzadrile (nel suo punto di maggiore perfezionamento) cfr. Pazzagli, L'agricoltura toscana, cit.,pp. 60ss e 235-312(allevamento), 322-31 (concimazioni).

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comunità, alle sue basi economiche e i suoi sistemi di sussistenza, ai sistemi di redistribuzionein complesse economie di mercato, dall'animale nella dieta, al ruolo delle popolazioni animalinell'ecosistema e nell'economia-, definisce gli studi e le tecniche archeozoologici «thearchaeological key to understanding the changing relationship between town and country»29?Oppure quando definisce questi studi come parte essenziale di un approccio completo al sito eal territorio e come un grosso sforzo richiesto all'archeologia e agli archeologi, che non sipentiranno certo per averlo fatto e ne raccoglieranno i frutti30?Ma vediamo in modo più dettagliato quali sono le informazioni fornite dai reperti ossei animali.Generalmente da essi vengono tratti questi ordini di dati:

1. diverse specie animali;2. relativa importanza di ciascuna specie nel campione, calcolata tramite:

a) numero dei frammenti;b) numero minimo di individui;c) peso dei frammenti;d) stima della carne;

3. età al momento della macellazione o della morte;4. dimensioni, da cui possono essere dedotte;

a) sesso;b) razze;c) livelli nutritivi;

5. composizione anatomica, tipo di frammentazione e macellazione, stato di conservazione eresistenza/fragilità.

Quest'ultimo ordine di dati rappresenta naturalmente lo strumento con il quale saggiarel'incidenza delle variabili che vanno dalle tecniche di scavo, alle trasformazioni posteriori aldeposito, ai meccanismi di macellazione-consumo-scarico, mentre il primo svolge il ruolo didelimitare l'universo significativo dei frammenti identificabili, a volte meno della metà delleossa rinvenute31. Il secondo e il terzo invece costituiscono allo stesso tempo il nucleo principalee più fecondo di informazione e il settore più delicato, più soggetto alle variabili di disturbo epiù problematico. Se ciò è più che ovvio nei confronti del calcolo della frequenza relativa dellediverse specie animali, che dovrebbe costituire, al di là delle distorsioni informative, lo specchiodella relativa importanza delle risorse carnee provenienti da ciascuna specie nel regimealimentare e in seconda istanza quello del ruolo di ciascuna specie nella produzione,nell'economia e nell'ecosistema, meno owio è invece nei confronti dell'età di morte. Questeinfatti insieme al sesso e alle misure di ciascun tipo di popolazione animale, dovrebberoindicare in modo abbastanza diretto la natura dello sfruttamento di ogni specie da parte 29 Barker, Dry bones? cit., pp. 40 e 46.30 Id., Studi sulla fauna, cit., p. 68.31 Barker, Dry bones?, cit., p. 37. Il problema della identificazione delle specie nel campione non è certo dasottovalutare e un aspetto di esso è ad esempio l'impossibilità in molti casi di distinguere i resti caprini e ovini (ciò èstato possibile finora solo nel caso di S. Maria in Cività, cfr. R. Hodges, G. Barker, K. Wade, Escavation at D85(Santa Maria in Cività): an early medieval hilltop settlment in Molise, "Papers of British School at Rome", 35(1980), pp. 70-124, a p. 102s.). Sulla maggiore pericolosità (ecologica) dell'allevamento caprino rispetto a quelloovino e sulla distruttività del morso delle capre, cfr. ad esempio, Sereni, Terra nuova, cit., pp. 42-4. Per ciò inrelazione alla "civiltà del castagno" e su alcune norme che regolamentavano rigidamente l'allevamento caprino, cfr.Cherubini, La civiltà del castagno, cit., p. 262.

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dell'uomo (naturalmente si prendono in considerazione quasi soltanto le specie principali diallevamento). È stato tuttavia verificato - sempre a partire dai dati di Exeter- che le attività dimacellazione possono spesso distruggere ossa con informazioni sull'età o meglio causare unaloro diversa dislocazione in più luoghi del sito e dunque campioni diversamente condizionati32.Ciò naturalmente agisce soprattutto per i campioni piuttosto ampi, quelli cioè che consentonouna vera e propria quantificazione delle varie età di morte, mentre la maggioranza dei campioniitaliani sembra consentire a questo proposito solo valutazioni poco più che indicative.Comunque non è solo la ridotta dimensione dei campioni a causare questo: attraverso la fusionedelle epifisi infatti è possibile ottenere solo indicazioni approssimativamente ante quem o postquem, mentre l'analisi condotta attraverso la dentizione e l'usura dei denti risulta più precisa, maper lo stato ancora pionieristico di queste tecniche, ancora approssimativa. Sia l'una che l'altratecnica si basano inoltre su parametri tratti dalla moderna zootecnia e inducono dunque a unacomplessiva sottovalutazione delle età di morte del bestiame medievale. I dati o meglio leindicazioni in questo senso vanno dunque assunti in generale, come ordini di grandezza e maicome precisi e assoluti valori33 . Queste informazioni sono tuttavia essenziali in quanto indicanol'indirizzo produttivo dell'allevamento. Ad esempio, per quanto riguarda i caprovini, unaprevalenza di bestiame femminile adulto, accanto a resti di agnelli o castrati, indica unaproduzione prioritariamente casearia, mentre la prevalenza di bestiame ovino adulto dei duesessi indicherebbe una specializzazione verso la produzione di lana e la predominanza dianimali giovani o giovanissimi una produzione destinata a soddisfare una domanda di carne34.Per i bovini, un campione faunistico composto da resti di bestiame adulto o decisamentevecchio indica che l'animale ucciso era alla fine del suo ciclo lavorativo (le bestiae inutiles)35,che la funzione principale di questa specie era l'armatura, o in generale la produzione di energiameccanica e che poco spazio per essa rimaneva nel sistema agrario36. Viceversa una presenzapiù o meno alta di bestiame bovino giovane indica un indirizzo dell'allevamento verso laproduzione carnea e probabilmente importanti trasformazioni nel sistema agrario e nelletecniche agricole (tra cui l'introduzione delle colture da foraggio).Non sempre però i dati archeozoologici sono così caratterizzati e leggibili, anche perché spessoci si trova di fronte, oltre a particolari forme di consumo, anche sistemi produttivieffettivamente poco specializzati e in cui alcune specie - particolarmente i caprovini - eranoallevati con una polivalenza di funzioni. Inoltre, è ovviamente necessario tenere contodell'importanza relativa delle tre specie principali e del ruolo delle specie selvatiche. Adesempio nel caso di una netta predominanza di caprovini nel campione e di una struttura d'etàben connotata da femmine adulte e maschi molto giovani, è possibile pensare a una primitivaeconomia pastorale37, tanto omogenea ed estesa da non ammettere consumi carnei privilegiati senon entro i limiti costituiti dal surplus di agnelli (semmai è da verificare la direzionalità diquesti ultimi e dei prodotti caseari). Ma, quando questa specie occupa un posto minore o anchequando la struttura d'età (e di sesso) si limita a indicare la presenza di animali sia giovani chevecchi, è più giusto pensare a una produzione poco specializzata (in contesto rurale) o a unconsumo solo in parte privilegiato o ancora a una debole influenza della domanda di carnimigliori (in relazione a campioni urbani, o provenienti da siti per altri motivi privilegiati). 32 Maltby, The variability, cit., si veda anche nota 10.33 Barker, Dry bones?, cit., p. 38. Si stanno però mettendo a punto nuovissime tecniche che dovrebbero consentireindicazioni assolute sull'età di morte e che si basano sulle linee di crescita leggibili nelle sezioni dei denti reperiti,cfr. J. P. Coy, R. T. Jones, K. A. Turner, Absolute agening of cattle from tooth sections and its relevance toarcheology, in Agening and Sexing, cit., pp. 127-40 e in generale tutto il volume di cui questo lavoro fa parte.34 Barker, Studi sulla fauna, cit., p. 59 s.35 Jones, Società agraria, cit., p. 464.36 Sui limiti tecnologici e del sistema agrario che si celano dietro a ciò Braudel, Capitalismo e civiltà materiale , cit.,pp. 250-9, 80-2, e in generale gli studi citati alle note 23, 28 e 35.37 Barker, Studi sulla fauna, cit., p. 59 s.

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Laddove un bestiame bovino macellato invariabilmente adulto non lascia dubbi sul tipo disistema agrario (e tecnologico) dell'area territoriale in esame, la presenza di bovini più giovanirisulta di problematica interpretazione, sia per le oggettive difficoltà di quantificazione di questidati, sia perché implica l'intera questione del rapporto tra domanda urbana e trasformazionitecno-produttive dell'agricoltura e socioculturali dell'ambiente e richiede l'analisi della naturadel campione e del contesto storico più generale.Per quanto riguarda i suini, la popolazione animale più direttamente legata alla funzione diproduzione di proteine nobili e, per antonomasia, la più "economica" - nel senso del lavoro e delgrado di sviluppo tecnoambientale che richiede-, le informazioni sull'età risultano secondarie eci parlano, insieme a quelle sulle misure, più dei livelli nutritivi, dei ritmi di crescita e del gradodi specializzazione del loro allevamento, che della loro funzione nell'economia- questa vieneindicata già in modo ampio dalle frequenze nel campione.E tuttavia interessante notare, in base al suggerimento di Graeme Barker38, come unapredominanza crescente dei suini rispetto alle altre specie possa indicare processi degneratividell'economia agraria e delle strutture ambientali, specie se in zone marginali o che per unmotivo o per l'altro si apprestano a diventare tali. Questo suggerimento richiede comunquealcune sfumature e precisazioni, o meglio un'applicazione attenta al tipo di contesto in cui siriscontra la predominanza o l'aumento dei suini. È vero infatti che i maiali non sono soltanto lapopolazione animale più "economica", ma anche, in quanto onnivori, potenziali concorrentiecologici dell'uomo39 e conseguentemente potenziale sintomo di disfunzioni a livello delrapporto popolazione/risorse. Ma è vero anche che la prevalenza dei suini, soprattutto se siconsidera che i campioni fannistici ci parlano soltanto in termini di rapporti percentuali tra levarie specie e non dei valori assoluti di ciascuna di esse, può indicare fenomeni diversi e anchecontrapposti. È nota ad esempio l'importanza dei suini nel sistema agrario altomedievale -almeno in relazione all'area padana-, all'interno del quale essi risultano lo specchio del ruolodecisivo dell'economia silvo-pastorale, della disponibilità e del "libero" accesso alle risorse deiboschi e dell'incolto, e infine di un regime alimentare variato e probabilmente più equilibrato oelastico di quelli dei secoli successivi all'XI40. D'altro canto una presenza dominante dei suinipuò indicare un equilibrio in cui si è esasperata anche a sfavore dei caprovini la tendenza atenere l'animale al margine di un sistema che non consente la produzione o il reperimento delnutrimento per esso, ovvero un sufficiente rapporto ager/saltus. Un equilibrio in cui i suini, perle loro capacità di riciclare i rifiuti o in generale per il loro carattere "economico", risultanol'unica possibile fonte di proteine nobili, accanto a pochi caprovini allevati con più funzioni,eventualmente il bestiame da cortile e ancor meno bovini tenuti al minimo indispensabile perl'aratura. Ancora, è da rilevare come nemmeno la verosimile relazione bosco-incolto/maiali incontesti altomedievali sia da assumere in modo automatico in quanto è possibile che, per motivitutti da indagare, l'outfield venisse utilizzato in modo diverso da quello che è stato definitomodello "longobardo", ossia che non si verificasse la scelta nei confronti della popolazionesuina41. Da un lato, dunque, una situazione di scarsa o scarissima pressione demografica e dilarga disponibilità di risorse - sia pure in termini di prelievo da bosco e incolto - e la scelta"culturale" verso i suini, dall'altro in sistema che, in opposte condizioni demografiche e in uncapovolto rapporto di ager/saltus-silva, trova i suoi equilibri (o le sue precarietà)nell'esasperazione della cerealicoltura. Conseguentemente a ciò l'aumento dei maiali oltre una

38 Barker, L'economia del bestiame , cit., p. 729 s., in relazione ai dati di Luni. Cfr. anche Barker, Dry bones?, cit., p.42 s.39 Cfr. ad esempio Barrau, Ecologia, cit., p. 51 s. e R. A. Rappaport, Maiali pergli antenati. Il rituale nell'ecologia di un popolo della Nuova Guinea, Milano1980, pp. 192 ss.40 Montanari, L'alimentazione contadina, cit., pp. 225-44, 425-31 e 469-80.41 Baruzzi, Montanari, Porci e Porcari, cit., p. 20s. e Montanari, L'alimentazione contadina, cit., pp. 245-50 e 402-4.

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certa soglia - il problema è stabilire quale - può significare certo la rottura di alcuni equilibri, main più sensi: da una parte crisi territoriale da spopolamento e «deumanizzazione", boschi epaludi che avanzano, o ancora processi di marginalizzazione di alcune microregioni; dall'altral'esplosione delle contraddizioni proprie di un certo tipo di economia contadina, il superamentodelle soglie di tollerabilità dell'ambiente nei confronti di irrazionali sfruttamenti agricoli e neiconfronti di una popolazione animale che non è certo tra le meno pericolose42.È ora venuto il momento di saggiare concretamente le potenzialità di queste fonti sulla base diquanto a tutt'oggi si è fatto in Italia in termini di produzione di dati e di interpretazioni di questi.A ciò è opportuno premettere che un tentativo, non tanto di sintesi, quanto di intensificazionedei confronti tra dati provenienti da contesti differenziati, incontra grossi limiti nello stato stessodelle ricerche e nel fatto che non sempre al momento attuale i campioni faunistici si presentanolegittimamente comparabili o che non sempre è possibile, sulla base di ciò che è attualmenteedito, ricostruire e impadronirsi dei necessari strumenti di stima in relazione alle numerosevariabili - di disturbo e no - descritte sopra. Per una disciplina in rapido e recente sviluppo ciò ènaturalmente inevitabile, e costituisce piuttosto un sintomo di vitalità che un segno negativo.Inoltre, appare comunque opportuno tentare uno sforzo di sistèmatizzazione, che, per quantoprowisorio, tenda a evidenziare le acquisizioni più importanti e i settori che più richiedonoapprofondimento o verifica, e cerchi di cogliere in una visione d'insieme indicazioni chealtrimenti rimarrebbero nelle pieghe dei singoli lavori o del tutto in ombra. Questo anche se irisultati che emergeranno da alcuni confronti andranno completamente rivisti nel volgere dipoco tempo, non appena cioè i progressi di questi studi daranno luogo a altre possibilità di stimae lettura dei campioni faunistici.L'area geografica attualmente toccata dagli studi di archeozoologia medievale comprende, oltrealla Liguria, alla Lunigiana e alla Maremma toscana e laziale—le regioni meglio rappresentare -, l'Umbria, la Lombardia e l'Emilia, il Molise e la Sicilia (che tuttavia resterà fuori dal nostrodiscorso). Per il Molise si tratta di un insediamento rurale abbandonato prima del X secolo (unpiccolo centro di sommità), poi si dispone di due campioni coevi (XV secolo) per Bologna, diparecchi campioni per la Torre Civica di Pavia dall'XI secolo ai giorni nostri, di datibassomedievali (XIII-XV) per la Rocca Posteriore di Gubbio (sede di una guarnigione). LaMaremma è rappresentata dai dati su Scarlino (XI-XII secolo e XV) e sulla fortezza di Grosseto(XI-XIII e XIV) e dai ricchi campioni di Tuscania (seconda metà del Duecento, 1350 circa,primo Quattrocento, prima metà Quattrocento, tardo Quattrocento). Per l'arco ligure-lunense sidispone di un campione databile all'XI-XII secolo per un'area del complesso di Filattiera (S.Giorgio), degli accurati campioni di Luni (presentati in modo da poter tenere contodell'incidenza delle varie tecniche di scavo e dei quali i più significativi si riferiscono al VII-VIII secolo e all'XI), di dati su 4 siti della città di Genova (piazza Matteotti, dati per il VI-VIIsecolo; S. Agostino, un grande complesso conventuale, dati per il XIII secolo; via Ginevra,insediamenti della consorteria dei Fieschi, XIII secolo circa; S. Silvestro, sede arcivescovile,dati per il IX-X secolo e per il primo Quattrocento), e infine di dati per altri 4 siti rurali, il«Castellaro» di Zignago e Castel Delfino (castelli feudali, rispettivamente XI-XII secolo e XIII),Monte Zignago (borgo feudale arroccato, XV secolo) e Molassana (castello, dati per il XVsecolo)43.

42 Sulla dannosità dei maiali cfr. ad esempio B. Slicher Van Bath, Storia agraria dell'Europa occidentale (500-1850), Torino 1972, p. 101. In generale, sull'importante assunto metodologico che identici dati (in questo caso lefrequenze dei suini nei campioni faunistici o la loro importanza relativa nel sistema alimentare ed ecoculturale)possono avere significato diverso in contesti diversi, Kula, Problemi e metodi, cit., p. 338.43 Si da qui l'elenco degli studi dai quali sono tratti i dati archeozoologici che verranno analizzati da qui in avanti, perbrevità si tralascerà di fare altri riferimenti ad essi, salvo che per necessarie precisazioni o nei casi in cui siricorderanno informazioni contenute in questi studi e non limitate agli stessi dati.

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Gli insediamenti liguri-lunensi, come si vede, sono nettamente i più numerosi, ma se si eccettuala stessa Luni sono anche quelli in cui i dati si presentano non solo privi di ampiezzacronologica, provenienti da campioni piuttosto ridotti e limitati alle quantificazioni relative alnumero dei frammenti, ma anche privi o quasi di informazioni sulla natura del campione e delcontesto socioculturale che rappresentano. Lo stesso si paò dire per i dati dei siti genovesi - senon che per S. Silvestro si dispone al momento di due campioni confrontabili nel tempo44 - e inparte anche per quelli bolognesi. Vere e proprie interpretazioni dei dati archeozoologici, nelsenso della ricostruzione dell'economia di base di alcune comunità o del significato di alcuniconsumi urbani o privilegiati sono state fatte al momento solo per Luni, Tuscania, S. Maria inCività (Molise), Pavia e in parte Gubbio45.Dopo questa sorta di censimento e nonostante le oggettive difficoltà a procedere acomparazioni, proviamo a collocare i dati disponibili entro tre grandi scansioni temporali (anteXI secolo, XI-XIII secolo e XIV-XV) e a comprendere all'interno di questi periodi alcunemacroscopiche differenziazioni dei contesti da cui provengono i campioni faunistici.Per il primo periodo disponiamo di alcuni scarni dati su due siti genovesi che indicherebberoper l'insediamento più antico (piazza Matteotti, VI-VII secolo) un consumo carneo fortementebasato sui caprovini giovani, e per l'altro (S. Silvestro IX-X secolo) un consumo basatoall'opposto e quasi per intero sui suini. Nel campione del primo, infatti, sono assenti le ossabovine, piccolo posto è lasciato a quelle suine (23% delle specie principali) o di altre specie e leossa caprovine appartengono ad animali macellati prevalentemente giovani. Il campione però èmolto ridotto e soprattutto non ci è dato alcun elemento per comprendere a quale gruppo socialesia da attribuire questo tipo di consumo. Nel campione di S. Silvestro (proveniente dai livellipiù antichi dell'orto del castello vescovile) le ossa bovine sono ugualmente assenti, ma i suinicoprono quasi i 4/5 e i resti caprovini mostrano un'età di morte piuttosto alta. Da ciò senzaulteriori approfondimenti e contestualizzazioni, è naturalmente impossibile dedurre qualcosa,tuttavia ci si può porre la domanda se la totale assenza dei bovini sia puramente casuale e —Molise: Hoges, Barker, Wade, Excavation at D85, cit.;—Bologna: Frescura Nepoti, Macellazione e consumo della carne, cit.—Pavia: G. Barker, A. Wheeler, Informazioni sull'economia medievale e postmedievale di Pavia: le ossa delloscavo, "Archeologia Medievale", V (1978), pp. 249-66;—Gubbio: G. Barker, Alimentazione della guarnigione di stanza sul Monfe Ingino, Gubbio, "ArcheologiaMedievale", III (1976), pp. 267-74, e Id., La Fauna [della Rocca posteriore di Gubbio], "Archeologia Medievale", V(1978), pp. 469-74;—Grosseto e Scarlino: G. Tozzi, La fauna della Fortezza Vecchia di Grosseto in Archeologia e storia di unmonumento mediceo. Cli scavi nel «cassero» senese della Fortezza di Grosseto, a cura di R. Francovich e S. Gelichi,Bari 1980, pp. 182-5, Id., L'alimentazione nella Maremma medievale. Due esempi di scavo, "ArcheologiaMedievale" VIII (1981), pp. 299-305.—Tuscania: G. Barker, The economy of medieval Tuscania: the archeological evidence"Papers of the British School at Rome", 31 (1973), pp. 155-77;—Filattiera: M. Biasotti, R. Giovinazzo, I reperti faunistici di Filattiera, "ArcheologiaMedievale", IX (1982), pp. 358-62; —Luni: Barker, L'economia del bestiame, cit.—Siti genovesi e liguri: M. Biasotti, P. Isetti, L'alimentazione dall'osteologia animale inLiguria, "Archeologia Medievale", VIII (1981), pp. 239-46;—Genova, S. Silvestro XV secolo: J. Cartledge, Le ossa animali dell'area sud del Chiostro di S. Silvestro a Genova,"Archeologia Medievale", V (1978), pp. 437-51.Inoltre per la datazione dei reperti di Filattiera: cfr. D. Cabona, T. Mannoni, O. Pizzolo Gli scavi nel complessomedievale di Filattiera, 1: la collina di S. Giorgio, "Archeologia Medievale", IX (1982), pp. 331-57.44 Esistono però degli altri e ben più ampi dati su questo sito, inediti. Notizia in J. Cartledge, The animal bones fromthe Cloister of S. Silvestro, Genoa, in Papers in Italian Archeology, 1, cit., part. Il, pp. 358-63 e Id., Faunal Studies,cit.45 Barker, L'economia del bestiame , cit., Id., The economy of medieval Tuscania cit., Hodges, Barker, Wade,Escavation at D85, cit., pp. 96 ss., Barker, Wheeler Informazioni sull'economia medievale, cit., Barker, Dry bones?,cit., pp. 42-4 (per Gubbio e ancora per Luni, Tuscania e Pavia).

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derivata da qualche variabile di disturbo, o se nasconda qualche significato. Così ci si puòchiedere se la differenza tra i due consumi non possa riflettere alcune trasformazioni avvenutetra i due periodi e che significato abbia la predominanza dei suini su una mensapresumibilmente privilegiata come quella vescovile.In questo stesso periodo si situano i ricchi dati di Luni provenienti dai campioni di «controllo»del VII-VIII secolo (ossia due di quelli ottenuti tramite setacciamento) e quelli,approssimativamente databili al VII-IX secolo, di S. Maria in Cività, piccolo villaggio molisano(forse composto da una cinquantina di persone) situato in una delle zone ambientalmente menofavorevoli della Valle del Biferno46. In entrambi i campioni sono assenti (o quasi) i resti dianimali selvatici, quasi che la caccia fosse scarsamente praticata, e in entrambi, i frammenti dibovini occupano un piccolo posto (tra il 10 e il 15% circa) e indicano un'età di morte piuttostoalta, salvo qualche eccezione per Luni. La funzione produttiva e l'importanza dei bovini nelcomplessivo sistema di allevamento dei due siti sembra dunque abbastanza chiara, ma per S.Maria in Cività ciò si collega a una netta predominanza di ovini (produttivamente polivalenti, dirazza piccola e dunque legata ad una piccola transumanza locale), mentre a Luni si riscontra unequilibrio pressoché perfetto tra suini e caprovini. Si delinea così, per il villaggio molisano, unsistema (agricolo-pastorale) integrato di prevalente autosussistenza47, forse connotato da unfavorevole rapporto popolazione/risorse, nonostante i condizionamenti ambientali, e comunquecaratterizzato da un rapporto con l'incolto e i boschi senz'altro dissimile da quello dell'Italiapadana altomedievale. Per Luni emergere invece la mancata scelta produttiva nei confronti deicaprovini48 (allevati comunque essenzialmente per latte e lana e in regime di piccolatransumanza) in un sistema tendente a scaricare gran parte del fabbisogno di prodotti carnei suisuini. In base alla conoscenza complessiva delle trasformazioni del territorio lunense, ossia inbase a quanto si sa sulla disgregazione del sistema romano di drenaggıo delle acque e sulgenerale degrado ambientale, e anche alla luce del successivo incremento dei suini (nelcampione di «controllo» dell'XI secolo), sembra inoltre possibile avanzare l'ipotesi che la sceltaproduttiva a favore dei maiali rappresenti qui un potenziale elemento di contraddizione49 e laspia di un lento processo di marginalizzazione, piuttosto che un elemento di equilibrio in unsistema tipicamente altomedievale. Una particolare soluzione che, in relazione alle deboli eregressive strutture ambientali dell'area lunense e di fronte a eventuali incrementi demografici,potrebbe costituire uno dei motivi del collasso dello stesso sistema microregionale - com'è noto,Luni venne abbandonata definitivamente all'inizio del secolo XIII50.Tuttavia, quasi a confermare che ogni struttura alimentare e produttiva suggerita dai campionifaunistici per poter essere compresa appieno deve essere irrinunciabilmente messa in rapportocon il proprio contesto ambientale, nell'insieme dei dati dell'XI-XII secolo relativi agliinsediamenti rurali le frequenze dei suini di Luni non risultano affatto anomale anzi si mostranosuperiori - se questi confronti sono validi - solo a quelle di Filattiera. Nel campione di C.Zignago, infatti, - contesto montano non lontano da Luni - il numero dei frammenti suini risultapoco meno inferiore al 60% della specie principali (Luni 47,2%, Filattiera 42,5%), mentre nelcampione di Scarlino essi arrivano a coprire addirittura i 4/5.

46 Hodges, Barker, Wade, Escavation at D85 , cit., pp. 103-5 e 109 s. Si veda anche R. Hodges, Ch. Wickham, Theevolution of hilltop villages in the Biferno valley, Molise, in Archeology and Italian Society, cit., pp. 305-12, a pp.307-9.47 Hodges, Barker, Wade, Escavation at D85, cit., pp. 103-6.48 Barker, L'economia del bestiame, cit., p. 730.49 Ivi, p. 729 s.50 Sulla crisi territoriale economica di Luni, si veda B. Ward-Perkins, Luni: the decline and abandonement of Romantown, in Papers in Italian archeology, 1, cit., part. Il, pp. 313-21 e Id., Luni: the prosperity of the town and itsterritory, in Archeology and Italian Society, cit., pp. 179-90.

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Diversi si mostrano invece sia i dati duecenteschi di Castel Delfino (Savona) e di Tuscania, siaquelli di Grosseto (XI-XIII secolo), sia quelli urbani di Pavia (XI-XII secolo) e di Genova S.Agostino e via Ginevra (XIII secolo). A Tuscania infatti i caprovini sembrano non lasciarespazio alle altre specie (coprono quasi il 90% del campione duecentesco), mentre per CastelDelfino, per Grosseto, per Pavia e per i due siti genovesi, in particolare per la sede dei Fiaschi, auna leggera predominanza dei caprovini stessi- generalmente macellati giovani, salvo che aPavia - si unisce una presenza stranamente alta dei bovini, i quali sono invariabilmentemacellati adulti in tutti i campioni del periodo. Può dunque essere relativamente facile pensareche i campioni urbani costituiscano lo specchio di consumi privilegiati, di un drenaggio dirisorse carnee, o meglio di una domanda di carne soddisfatta innanzitutto con i caprovinigiovani51 e solo secondariamente con i suini e con bovini, attratti comunque dal mercato o dallemacellazioni urbane pur alla fine del loro ciclo lavorativo. Così può essere legittimo accostare aciò che anche Castel Delfino - nel quale si riscontra tra l'altro una sorprendente presenza dicervidi - in base alla riflessione che i consumi privilegiati non sono da identificare sempre eautomaticamente con l'"urbano". È possibile ragionare in modo analogo anche per ciò cheriguaga Grosseto, non tanto assumendola tout court come un polo urbano, quanto perché èprobabile che il campione faunistico rifletta il consumo di una guarnigione. Viceversa, perPavia è giusto tenere conto che l'età di morte dei caprovini nei campioni dell'XI-XII secolosembra indincare, insieme ai dati sulle misure, una prevalente produzione di lana nel territorio52.Ma, ammesso che i campioni disponibili siano significativi a grosso modo comparabili e chequanto detto sia relativamente verosimile, cosa pensare invece della alte quote di ossa suine neicampioni rurali dell'XI-XII secolo e soprattutto della posizione, che appare diametralmenteopposta di Tuscania e Scarlino?Certo sarebbe suggestivo pensare che i suini, relativamente trascurati dai consumi urbani adifferenza dei caprovini giovani, svolgessero un periodo di verosimile incremento demograficoun ruolo compensatore in campagna. Ma, al di là di quanto detto per Luni e il suo specificocontesto ambientale e in generale sul ruolo dei suini nelle economie contadine, come affermarein relazione ai casi concreti degli insediamenti liguri-lunensi e di Scarlino che essi gravitasseronell'orbita di attrazione di un qualunque polo urbano- Genova, Lucca o Pisa o altri che sianosenza nulla sapere sui circuiti di scambio dei prodotti agricoli e nemmeno sul tipo di economiache connotava gli insediamenti in questione?A quest'ultimo proposito si può in questa sede aggiungere soltanto qualche elemento sulla basedegli stessi dati archeozoologici. Per gli insediamenti linguri-lunensi, infatti, le età di morte deicaprovini sembrano essere in diretto rapporto con l'importanza della specie nel campione: perLuni già sappiamo che la produzione carnea risulta circoscritta ai suini sia per la presenzarelativamente bassa dei caprovini (30% circa), sia per la finalizzazione al latte e alla lana delloro allevamento; per C. Zignago - ricordiamo che si tratta di una zona montana- accanto a unapresenza di suini che sembrerebbe anche più alta di quella di Luni si situa però una consistentequota di caprovini (40% circa), all'interno della quale ci sono anche resti di agnelli o capretti; aFilattiera, infine, i frammenti di caprovini sono di poco superiori a quelli di suini e le età dimorte sembrano indicare animali macellati prevalentemente giovani.Riguardo a Tuscania, invece, c'è da dire che, nonostante le oggettive difficoltà di trarreindicazioni precise dalle età di morte e nonostante nell'intero stock di reperti i resti provenientida animali macellati adulti siano senz'altro prevalenti, pure sembra di intravedere nel campioneduecentesco una maggiore presenza di caprovini macellati prima del secondo anno di età53 . Ciò 51 Cfr., anche se per un periodo successivo (fine Trecento), il ruolo dei caprovini giovani e dei castroni nei consumicarnei di Prato, ricostruiti tramite fonti documentarie da Nigro, Gli uomini dell'irco, cit., pp. 27-38.52 Barker, Wheeler, Informazioni sull'economia medievale, cit., pp. 250 e 252 e Barker, Dry bones?, cit., p. 44.53 Barker, The economy of medieval Tuscania , cit., tab. 4. Graeme Barker non rileva questa differenza, preferendoconsiderare i dati sulle età di morte nel loro insieme. In effetti, considerazioni come questa, rispetto alla necessità di

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potrebbe indicare che la struttura produttiva dell'allevamento caprovino nella Tuscaniaduecentesca non fosse ancora decisamente specializzata nei confronti del latte e della lana, e cheil ruolo di produzione carnea non assegnato al maiale potesse essere assunto da questa specie.Torniamo alla domanda se la predominanza del maiale nei campioni liguri-lunensi e di Scarlinocostituisca un sintomo di crisi microregionale - remota o recente - o di scarsa umanizzazione delterritorio; oppure un elemento di un sistema agrario fortemente indirizzato verso la produzionecerealicola, in cui l'animale è stato sconfıtto in una sorta di concorrenza allo sfruttamento dellaterra e in cui solo il maiale può produrre le necessarie proteine nobili trasformando tuttol'economicamente trasformabile; o ancora se possa costituire la spia di alcuni processi diredistribuzione, di una risposta contadina ai drenaggi verso il polo urbano e alla domanda dicarne caprovina, piuttosto che suina. Dobbiamo naturalmente concludere che la questione restaintegralmente aperta, tuttavia anche il solo fatto di impostarla non può non spingerci a ripetere -con Barker - che le fonti archeozoologiche, se correttamente prodotte e interpretate, possonocostituire davvero una chiave per comprendere alcuni dei processi più importanti della storia delpaesaggio e dei rapporti città/campagna.Passiamo comunque al periodo successivo (XIV-XV secolo). Salvo che per i due siti urbanibolognesi del primo Quattrocento (S. Petronio, area densamente urbanizzata e S. Giorgio, areaper cui non si dispone di informazioni contestuali se non che è attualmente un'area cimiterialecon poche tracce di frequentazione), per i due siti rurali liguri (Monte Zignago e Molassana, XVsecolo), e per Gubbio (XIII-XV secolo, guarnigione di stanza sul Monte Ingino), abbiamo lafortuna di poter leggere gli altri dati di questo periodo in relazione a eventuali trasformazioniavvenute nei confronti dei periodi precedenti. Questi dati si riferiscono a Pavia (XIII-XVIsecolo), Tuscania (metà Trecento e XV secolo), Scarlino (XV secolo), Grosseto (XIV secolo) eGenova S. Silvestro (primo Quattrocento). Pavia mostra, forse in relazione alla contiguità didatazione e all'ampiezza dell'arco temporale rappresentato che potrebbe eventualmentenascondere variazioni di medio periodo, una coincidenza quasi completa con i dati del periodoprecedente (XI-XII secolo), non fosse che per un ulteriore spostamento a favore dei bovini e adanno dei suini. Invariata sembra rimanere anche l'età di macellazione dei caprovini, cheunitamente ai dati sulle misure e sulle razze aveva già indotto a pensare alla scelta produttivaverso la lana (il campione di questo periodo è tuttavia piuttosto ridotto).A Pavia può essere accostato uno dei due siti bolognesi (S. Petronio), il campione del quale èl'unico a mostrare una insolita predominanza dei bovini, che rimane tale anche dopo aver sottrattouna consistente quota di frammenti esplicitamente connessi a attività artigianali. Il ruolo deibovini nei campioni di Pavia e Bologna S. Petronio - si tratta naturalmente di animali macellatiadulti -, visto nel suo complesso e anche in rapporto al campione dell'altro sito bolognese dove ibovini sembrano occupare un posto del tutto secondario, induce a pensare non tanto a unconsumo specificamente privilegiato, né tantomeno a una produzione destinata a soddisfare ladomanda urbana e potenziale fattore di trasformazione per l'agricoltura - non ancora per lomeno54 -, quanto a un eventuale ruolo di attrazione dei macelli urbani nei confronti di bestieutilizzate nel territorio quasi esclusivamente per l'aratura. A ciò c'è da aggiungere soltanto che, adifferenza di Pavia, nei due siti bolognesi i resti caprovini mostrano una buona presenza dianimali consumati giovani, o meglio giovanissimi, e che la discordanza rilevata a questoproposito rispetto ai dati delle fonti documentarie - che sembrano indicare una prevalentemacellazione di agnelli, capretti e persino vitelli - non sembra poi così accentuata. Le fontidocumentarie - riguardanti le impostazioni fiscali sulle macellazioni - potrebbero infatti riflettereuna fascia particolare dei consumi, ossia quella direttamente legata al mercato della carne fresca e utilizzare queste informazioni solo come ordini di grandezza potrebbero risultare legittime solo fino a un certopunto.54 Si veda per un'eventuale interpretazione in questo senso di dati post-medievali di Pavia (nei quali si verifica unaumento percentuale di bovini e suini) Barker, Wheeler Informazioni sull'economia medievale, cit., p. 254 s.

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delle macellazioni urbane, lasciando fuori altri tipi di consumi, macellazioni non soggette a tasseo tendenti a evadere il fisco ecc. Inoltre, anche soltanto un'analisi sommaria delle variazionimensili delle macellazioni55 porta a sfumare molto, e in base al carattere quotidiano/festivo delconsumo di agnelli e capretti, la discordanza tra i due diversi tipi di fonte. Così è da credere cheun'analisi contestualizzante dei dati tratti dalle fonti documentarie bolognesi, una collocazionesociale dei consumi indicati - in base ad esempio ad altre fonti fiscali - e un tentativo didefınizione (anche qualitativa) del ruolo dei caprovini giovani e gersino dei vitelli nel complessodella struttura alimentare e produttiva56 potrebbero delineare un quadro molto diverso da quelloimmediatamente suggerito dai semplici dati quantitativi sulle macellazioni, e, chissà, forse anchepiù vicino a quello adombrato dai campioni faunistici.Dal campione di Gubbio emerge un consumo (relativo alla guarnigione) pervalentemente basatosui caprovini giovani e secondariamente sui suini. Invece, sia per ciò che riguarda la mensaarcivescovile genovese, sia per i due siti rurali liguri l'elemento comune e connotatore sembral'alta o altissima quota di frammenti di suini, unita all'assenza o quasi di frammenti di bovini e auna presenza relativamente bassa (sotto il 40% delle specie principali) di frammenti di caprovini,provenienti da animali adulti per Monte Zignago, sia adulti che giovani per Molassana e S.Silvestro. Ciò naturalmente ci ricorda quanto rilevato sia per gli insediamenti liguri-lunensi e perScarlino nell'XI-XII secolo, che per la stessa sede vescovile nel IX-X secolo.Tuttavia, le considerazioni più interessanti emergono dalla constatazione di quanto sembraavvenire in Maremma. Se nel campione trecentesco di Grosseto sparisce l'alta presenza diframmenti bovini riscontrata nel periodo precedente (XI-XIII secolo), per lasciare spazio aicaprovini - macellati in larga parte abbastanza giovani, ossia entro il secondo anno di età - i qualigiungono a coprire i 2/3 dell'insieme delle specie principali, il campione quattrocentesco diScarlino sembra conoscere un vero e proprio rovesciamento, dalla prevalenza quasi completa deisuini nell'XI-XII secolo alla netta predominanza dei caprovini - più del 60% delle specieprincipali e macellati essenzialmente adulti. Quanto a Tuscania, l'attenuarsi del ruolo deicaprovini - che rimangono però una quota decisiva dei reperti quattrocenteschi, dal 58,9% delcampione più ampio del tardo Quattrocento, al 73,6% e 86% di quelli della prima metà delsecolo, e che sono in maniera più chiara e decisa macellati adulti - è stato felicemente interpretatoda Graeme Barker come segno della crisi del sistema di transumanza locale, o meglio gestitodalla stessa comunità, nell'ambito del generale sviluppo della grande transumanza della Doganadel Patrimonio di S. Pietro57. A ciò si può aggiungere soltanto che, se le differenze che pare diintravedere nelle età di morte caprovina tra il campione duecentesco e quelli quattrocenteschihanno un valore euristico, ciò può costituire un ulteriore tassello per la comprensionedell'economia di Tuscania e del territorio circostante. Si potrebbe infatti pensare che quella partedei caprovini che è sparita nei campioni quattrocenteschi a favore dei suini e in parte dei boviniadulti, possa appunto essere quella degli animali giovani quasi sottratti alle altre finalitàproduttive, possa appunto essere la carne migliore. In altre parole, si potrebbe pensare che la

55 Frescura Nepoti, Macellazione e consumo della carne, cit., pp. 286-8.56 Cfr. ad esempio quanto è stato possibile fare, a partire da fonti analoghe, a Nigro, Gli uomini dell'irco , cit. eLeverotti, Il consumo della carne, cit. In particolare nel lavoro di F. Leverotti emerge come i rapporti percentuali trale varie specie macellate e tra animali giovani e adulti avrebbero indotto a valutazioni errate circa una prevalenza delconsumo di animali giovani o circa un indirizzo verso la produzione carnea. Dall'analisi più generale si vede invececome questo tipo di consumi svolgesse un ruolo limitato e fosse ridotto a ristrette fasce sociali e a particolarimomenti dell'anno, mentre la gran parte della popolazione macellava un solo agnello o capretto l'anno, per giuntacomprandolo e non producendolo in proprio. Il quadro efficacemente delineato da F. Leverotti è dunque quello diuna produttività animale piuttosto ridotta, soprattutto per ciò che riguarda la carne, e conforme al classico modellodell'economia contadina.57 Barker, The economy of medieval Tuscania , cit., pp. 167-70; J. C. MarieVigueur, Les pàturages de l'Église et la Donàne du Bétail dans la province duPatrimonio (XlVeXVe siècle), Roma 1981.

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diminuzione dei caprovini stia in qualche rapporto con un processo che rendecontemporaneamente la finalizzazione extralimentare (e extraterritoriale) di questa partedell'allevamento completa e la transumanza locale sempre meno importante di quella a granderaggio.I dati archeozoologici maremmani sembrano dunque riflettere in modo diverso - dal "filtro" datidai consumi della guarnigione di Grosseto nei quali si conserva il ruolo dei caprovini giovani,agli scarti netti e facilmente leggibili di Scarlino, alle complesse variazioni di Tuscania identiciprocessi di trasformazione dell'ambiente e dei modi di sfruttamento di esso. Il punto di coagulo diquesti processi sembra consistere nello sviluppo dell'allevamento transumante in un territorio invia di maggiore o minore desertificazione58, cominci questo sviluppo da zero come sembraavvenire a Scarlino (e nei territori circostanti?), o si innesti su più antichi sistemi come aTuscania. Il fatto poi che questi processi sembrino significativamente assenti da quanto èpossibile leggere nei dati liguri, nei quali il ruolo dei suini sembra rimanere immutato, spinge aun'ulteriore riflessione di carattere generale. Ossia che ogni informazione archeozoologicadiventa significativa dei processi di trasformazione degli ecosistemi e dell'economia, non soltantodopo aver subito innumerevoli trattamenti di depurazione dai fattori di "disturbo", non soltantodopo aver compreso i principali meccanismi connessi alle differenziazioni dei consumi, alleredistribuzioni dei prodotti, e a un più generale divergere della produzione dal consumo, nonsoltanto in rapporto agli specifici contesti ambientali, ma anche e soprattutto in rapporto alcontesto storico globale e all'interno di alcune decisive periodizzazioni. Questa riflessione puòapparire banale, ma si pensi ai motivi per cui in alcuni contesti signifıcativamente periodizzati lafunzione di sintomo di processi degenerativi dell'economia e del sistema ecoculturale può essereassunta dal crescente ruolo della popolazione suina in essi, mentre in altri momenti storici, aindicare fenomeni simili, o precise risposte regressive e fallimentari - in termini di rapportouomo/ambiente - al degrado terntoriale e alla crisi demografica, può essere il dilagare deicaprovini e dell'allevamento transumante59. La "soluzione" transumanza infatti, può per moltiversi essere considerata una vera e propria scelta ecoculturale - se pure è quasi banale ribadirlo -una svolta che connoterà per secoli e in maniera globalizzante la storia di ampi spazi del territorioitaliano.

58 In generale sullo sviluppo della transumanza cfr. Cherubini, Le campagne italiane , cit., pp. 329-35; Jones, Lasocietà agraria, cit., pp 461-5. Su questo fenomeno nella Maremma senese cfr. G. Chernbini, Risorse, paesaggio edutilizzazione agricola del territorio della Toscana sud-occidentale nei secoli XIV-XV, in Civiltà ed economiaagricola in Toscana nei secc. XIII-XV: problemi della vita delle campagne nel Tardo Medioevo, Pistoia 1981, pp.91-115, a pp. 112-5; Pinto, La Toscana nel Tardo Medioevo, cit., pp. 421-3. Sulla desertificazione delle areecoinvolte da questo fenomeno cfr. Ch. Klapisch, Villaggi abbandonati e emigrazioni interne, in Storia d'ItaliaEinaudi, V, Torino 1973, pp. 309-64, a pp. 341-57, Ch. Klapisch, J. Day, Villages désertés en Italie, Esquisse, inVillages désertés et histoire économique. XIe-XVIIe siècles, Paris 1965, pp. 419-59, a pp. 444-50; per la Maremmatoscana cfr. Pinto, La Toscana nel Tardo Medioevo, cit., pp. 58-65 e 80-5. Sulla transumanza come fenomenospecificamente mediterraneo Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo cit., pp. 73-90.59 Sulla fallimentarietà - in termini di ristrutturazioni ambientali e socio-economiche - dell'incontrastato sviluppodella transumanza cfr. soprattutto Haussmann, Il suolo nella storia d’Italia, cit., pp. 74-7, 83 e 87s e Klapisch,Villaggi abbandonati, cit., pp. 345-50.

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La pratica archeologica

Lo scavo è il momento qualificante la ricerca archeologica: i problemi delle strategie adottate, delmetodo di ricerca, le domande che stanno alla base di un intervento che presenta costi elevati intermini di investimenti finanziari, fisici ed intellettuali sono elementi essenziali per raggiungere gliobiettivi di passare da un'indagine "al microscopio" alla costruzione del documento archeologico equindi alla elaborazione di un modello, ad una riflessione sul valore del campione archeologico,anche in presenza di evidenze negative.I casi di scavo che abbiamo selezionato come esemplificazioni dei problemi di cantieri in ambitopostclassico, lontani da essere esaustivi della pluralità delle situazioni analizzate negli ultimi dieciintensi anni di attività, rappresentano comunque un largo spazio delle problematiche presenti agliarcheologi che operano sul campo. Il caso della Cripta di Balbo a Roma è il primo scavo urbano digrande respiro nel quale si pone come problema centrale in modo esplicito il tema del rapporto fraarcheologia e restauro architettonico. Un tema vitale perché la ricomposizione di una lettura fraparti in elevato e deposito archeologico attraverso gli strumenti di una "archeologia globale",elaborati in particolare dal gruppo genovese dell'ISCUM1 rappresenta l'unica chiave per superare ilimiti di parcellizzazioni disciplinari, che costituiscono barriere insormontabili alla compernsionedi fenomeni insediativi e costruttivi.I problemi di una "continuità" insediativa e del rapporto fra archeologia dell'insediamento earcheologia monumentale sono i temi viceversa dello scavo di San Vincenzo al Volturno, che conla vastità dell'evidenza materiale prodotta in oltre cinque anni di scavi, affiancata da sistematichecompagne topografiche, permette di "riscrivere la storia" di una realtà molisana in un quadro diriferimento europeo.Lo scavo di San Silvestro di Campiglia marittima riconduce l'interesse al tema classico dei villaggiabbandonati nel XIV secolo, in una situazione caratterizzata da un'economia estrattiva e ditrasformazione metallurgica dove lo stato di conservazione dell'insediamento e la "fossilizzazione"del territorio circostante, comprese le miniere contemporanee alla vita del castello, permettono dileggere contesti sociali, attività produttive e mutamenti tecnologici in situazione ottimale.I tre scavi, a diverso grado di avanzamento e quindi di approfondimento esplicitano chiaramentestrategie di intervento, obiettivi posti e problematiche storiografiche2. 1Si confrontino in proposito le ultime cinque annate di "Archeologia Medievale".2Il saggio di D. Manacorda, Crypta Balbi, che qui si presenta è stato pubblicato in " Restauro e Città ", 2 (1985), pp. 21-32; quello di R. Hodges sugli scavi a San Vincenzo al Volturno è, invece, nella veste che qui si pubblica inedito, mentrel'ultimo rappresenta il Rapporto preliminare di R. Francovich al saggio Un villaggio di minatori e fonditori di metallonella Toscana del Medioevo: San Silvestro (Campiglia Marittima), apparso in "Archeologia Medievale", XII (1985),pp. 313-22.

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Daniele Manacorda

Appunti su archeologia e architettura nel cantiere della Crypta Balbi

Una storia dei rapporti sul campo tra archeologia e architettura nell'esperienza italiana di questoultimo secolo è ancora da scrivere. Un primo bilancio sommario dovrebbe tuttavia rilevare unapersistente condizione di incomunicabilità, quando non di conflittualità, tra le due discipline, e nonsolo sul piano accademico, quanto soprattutto nella formulazione teorica degli interventi sulcampo e nella loro attuazione pratica. Eppure, sul piano della professionalità- che oggi più di altrici fa discutere - l'interdipendenza delle due discipline è sempre più stretta1.Episodi significativi di intercambiabilità professionali sono oggi più frequenti sui nostri cantieri discavo e di restauro: la problematica scientifica modifica l'angolazione settoriale dell'intervento epretende la formulazione di ottiche nuove. Il fenomeno, pur nuovo, ha radici profonde. Prima cheil divario tra le due discipline continuasse ad approfondirsi (ma esso è già consolidato con lacultura antiquaria) il caso di Giacomo Boni segnò un momento nel quale il rapporto tra duecompetenze, quella architettonica, appunto, e quella archeologica, sembrò trovare aspetti disintesi.Giacomo Boni fu sostanzialmente un archeologo: tanto più lo possiamo affermare oggi, quanto piùi suoi colleghi si studiarono di sfocarne la definizione2. I motivi di questa difficoltà di rapporto daparte di componenti diverse della cultura archeologica italiana verso la fıgura e l'opera di Bonivanno ricercati nella incapacità da parte del classicismo di tradizione filologica o di tendenzaestetizzante, così come dello storicismo di tradizione idealistica o materialistica3, di riconoscere lagrande lezione di metodo che la formazione positivistica di Boni aveva introdotto nellaarcheologia italiana, facendolo penetrare per una finestra extraaccademica addirittura nel santuariodella cultura classica romana, nel Foro romano4. Eppure la formazione dell'archeologo Boni, che sisarebbe trovato ad assolvere il ruolo di padre senza figli dell'archeologia stratigrafica italiana, erastata piuttosto quella di un architetto. Le sue prime esperienze veneziane saranno sulle impalcaturedel Palazzo Ducale o a contatto delle fondazioni del campanile di S. Marco, di cui studieràinsieme gli aspetti strutturali e qualitativi5. La sua esperienza di funzionario dellaAmministrazione delle Belle Arti sarà concentrata per lungo tempo sul problema delle architetturereligiose del Medioevo pugliese; il suo maestro e padre spirituale sarà per molti versi JohnRuskin6.

1 Si veda ad es. F. Gurrieri, Architetto, archeologo, centro storico. Una collaborazione opportuna per un interventodifficile, "Archeologia Medievale", VI (1979), pp. 23-31, il cui titolo costituisce anche un programma di lavoro.2 Architetto preferivano chiamarlo Gherardo Ghirardini ( L'archeologia nel primo cinquantennio della nuova Italia ,Roma 1912, p. 30), che ne dava comunque un giudizio positivo, o, più recentemente, Nevio Degrassi (Nuovi metodi discavo e restauro archeologico e necessità di un loro coordinamento, in Il monumento per l'uomo, Atti del IICongresso internazionale del Restauro, Padova 1972, 171s.), che ne azzarda un giudizio liquidatorio del tuttoingiustificato.3 Lo stesso R. Bianchi Bandinelli dimostrò di non aver sufficientemente compreso l'opera di Boni, «un rètore, la cuiopera scientifica si è ridotta a nulla in pochi anni» (Introduzione all'archeologia classica, Bari 1976, a p. 78 s.; cfr.anche Prefazione a C. W. Ceram, Civiltà sepolte, Torino 1955, p. 14).4 Vi entrerà infatti in qualità di architetto della Direzione di Belle Arti. Boni, nonostante la sua notorietà in campointernazionale, non fu mai ammesso alla Accademia dei Lincei (cfr. L. Beltrami, Giacomo Boni, Milano 1926, p.69s.).5 G. Boni, Il muro di fondazione del campanile di S. Marco a Venezia , "Archivio Veneto", XXIX, 2 (1885); cfr. ancheE. Tea, Giacomo Boni nella vita del suo tempo, I Milano 1932, pp. 19 ss. e 154 ss.6 Beltrami, Giacomo Boni, cit., pp. 17 ss. e 46 ss.

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L'archeologia di tradizione antiquaria ha assimilato asetticamente l'immagine di Boni,disconoscendone la teoria metodologica e respingendone la prassi7. Se oggi i limiti più evidentidella sua opera appaiono, ai nostri occhi di archeologi di formazione prevalentemente storica,nello scarso spessore della sua formazione storico-erudita8 (e lasciamo da parte gli effetti della suapiù tarda involuzione irrazionalistica), al tempo stesso nella storia della sua formazione culturale enella sua pratica di ricerca troviamo presenti quelle tematiche che sono oggi al centro anche deldibattito sull'archeologia urbana: la stratigrafia, innanzitutto, quale strumento portantedell'intervento archeologico; l'attenzione rivolta alle tecniche edilizie nei loro aspetti qualitativi(materiali, malte ecc.) come in quelli esecutivi, in un'ottica che oggi riassumiamo con il termine dicultura materiale; la centralità dell'intervento di restauro nel rapporto tra uomo e monumentoantico9.Sul piano delle istituzioni la lezione del Boni non ha lasciato tracce. La tradizione degli interventidi restauro sui monumenti, e in particolar modo su quelli di epoca post-classica, da parte dellecompetenti Soprintendenze ha testimoniato nel suo complesso una volontà pervicace di ignorare ildato e il contesto archeologico, negando l'intervento archeologico, quasi che quella archeologiamonumentale - pur così disarmata in campo classico di fronte alle necessità di una letturastratigrafica del manufatto antico - fosse non di meno di impaccio all'intervento di restauro,angustamente sentito come opera di natura strettamente architettonica. Né da partedell'archeologia, per evidenti motivi portata a vedere più da vicino i nessi tra archeologia earchitettura, si è spesso assistito, specie a livello istituzionale, ad un richiamo alle necessitàdell'intervento scientifico.La distruzione sistematica di una quantità incalcolabile di contesti archeologici post-classici è ladiretta conseguenza di questa prassi, che solo in questi ultimi anni sta conoscendo una inversionedi rotta. Molto dobbiamo per questo all'opera svolta dalla nascente scuola di archeologiamedioevale in Italia, ed in particolare alla rivista "Archeologia Medievale"10. Le stesse primecomparse di ispettori archeologi medievisti sono segnale di una coscienza nuova delle competenzeprofessionali richieste dall'intervento di restauro11. Il processo in atto non è lineare e fagiustamente discutere. Se dunque è ancora necessario vigilare affinché non si torni a sottrarre allaspecificità della competenza archeologica l'intervento conoscitivo nei siti pluristratificati anche dietà post-classica, è pur vero che «la tutela del patrimonio archeologico, e in particolare di quellopost-classico, può realizzarsi soltanto nel quadro di una ricomposizione complessiva dellecompetenze», perché se è indubbio che esistano specificità disciplinari è anche certo che esistono

7 D. Manacorda, Cento anni di ricerche archeologiche italiane: il dibattito sul metodo , "Quaderni di storia",16 (1982),pp. 85-91.8 Richiamata da F. Coarelli, Topographie antique et idéologie moderne: le Forum romain revisité , "Annales E.S.C.",37,1982,p.724 ss. e Il ForoRomano. Periodo arcaico, Roma 1983 p. 3 ss. con una sintetica esposizione del dibattitointerno all'archeologia classica italiana negli anni a cavallo tra i due secoli, cfr. inoltre le osservazioni esposte in D.Manacorda, Introduzione a E. C. Harris, Principi di stratigrafia archeologica, Roma 1983, p. 27 ss9 Molto interessante a questo proposito è una lettera del Boni del 1893 - precedente di vari anni il suo impegno nelForo - riprodotta in Tea, Giacomo Boni, cit., p. 433.10 Mi riferisco agli editoriali della rivista ma anche a singoli contributi - ad es. R. Francovich, Archeologia medievale eistituzioni, "Archeologia Medievale", II (1975), pp. 399-408 - o a numeri monografici, quale quello dedicato alla"Archeologia e pianificazione dei centri abitati", "Archeologia Medievale», VI (1979), nel quale si segnalano per ilnostro discorso in particolare gli interventi di F. Gurrieri, R. Francovich, E. Guadagni, A. Gardini, M. Milanese, F.Bonora.11 Si veda in proposito il documento a cura degli ispettori medievisti delle Soprintendenze italiane pubblicato in"Archeologia Medievale", IX(1982), pp. 439-41: un testo da sottoscrivere, che lascia tuttavia qualche perplessitàladdove sembra privilegiare una pur necessaria «attività di tutela per fasce cronologiche di competenza» a scapito diun'altrettanto fondamentale concezione dell'intervento a scala territoriale.

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settori di "confine", e in questo settore si collocano evidentemente gli interventi di scavo-restauro12.Tra le nuove esperienze in atto crediamo che quella in corso a Roma nel cantiere della CryptaBalbi offra un'occasione importante di sperimentazione dei rapporti possibili tra le diversediscipline. Ne è premessa lo stesso. contesto da cui l'iniziativa trae origine. Come si è già altrevolte avuto occasione di rilevare13, infatti, 1'indagine alla Crypta Balbi pur nella centralità degliaspetti archeologici (conoscenza della stratificazione urbana di un settore-chiave del centrostorico; rilevanza monumentale degli insediamenti a scala topografica) - si sviluppa intorno ad ungrande tema di natura urbanistica: il reinserimento di un isolato urbano abbandonato e sconvolto(che racchiude insieme con le preesistenze classiche elementi della topografia cittadina delBassomedioevo, del tardo Rinascimento e dell'età barocca e che ha trovato la sua definitivafisionomia nel corso del XVIII secolo) nell'ambito di un quartiere che ha visto in epoca recenteuno sventramento urbanistico condotto in un punto delicato della più antica viabilità storica diRoma. Cultura architettonica e urbanistica e cultura archeologica sono chiamate a trovare insiemele risposte adeguate.La scala urbana pretende che il discorso sul riuso e lo sviluppo del tessuto urbano non vadadisgiunto dalla tutela del dato archeologico, cioè dalla sua comprensione e quindi dal suo studio.La consapevolezza che «la valorizzazione del patrimonio archeologico costituisca comunque unpresupposto fondamentale per la riqualificazione del tessuto urbano» è una delle ipotesi dipartenza del progetto Crypta Balbi. Nella prospettiva urbana, in altri termini, «le stesse opere direstauro e recupero vengono così a definirsi in termini complessi ed ormai totalmente estranei altradizionale concetto di monumento. Ad esso si sostituisce l'interesse di una testimonianzadiacronica costituita dall'insieme dei dati scientifici propri di uno scavo stratigrafıco in areaurbana»14.Credo si debba rilevare l'importanza del fatto che queste formulazioni giungano dal versante dellacultura architettonica, che si trova oggi di fronte al profondo rinnovamento in atto nella culturaarcheologica italiana - a misurarsi con strumenti teorici e pratici - la stratigrafia innanzitutto-rimasti sinora periferici al suo bagaglio concettuale.Queste condizioni, che fanno di alcuni cantieri di intervento archeologico-architettonico in Roma,in atto o in programmazione, occasione di costruzione di nuovi laboratori, si collocano nel quadrodell'applicazione della legge speciale per la tutela e la valorizzazione dei monumenti antichi diRoma: una legge che ha fatto molto discutere, destinata a segnare la storia urbanistica di Roma.Rivolta al passato, essa si riallaccia alle faticose iniziative che attraverso tortuosi camminicondussero alla creazione, sia pur mutilata, della Zona archeologica di Roma15; rivolta al presentee al prossimo futuro della città, essa offre alcuni strumenti che hanno cambiato qualcuna dellecarte in tavola nel gioco delle responsabilità urbanistiche. Se tutelare significa innanzituttocomprendere, quindi dotarsi di strumenti di conoscenza, intervento di restauro e intervento

12 Si veda il documento Archeologia postclassica. Competenze di intervento e necessità di tutela con le relativeosservazioni di R. Francovich, "Notiziario di archeologia medievale", 37, gennaio 1984, pp. 3-5.13 Sull'indagine in corso alla Crypta Balbi si vedano: D. Manacorda, Archeologia urbana a Roma: il progetto dellaCrypta Balbi, Firenze, 1982,Un "mondezzaro" del XVIII secolo, a cura di D. Manacorda, Firenze 1984 e Id. (a curadi), Il giardino del Conservatorio di Santa Caterina della Rosa a Firenze, 1985, relazioni preliminari e notizie sitroveranno in D. Manacorda, L'enquete archéologique dans la zone de la Crypta Balbi, "Nouvelles de l'archéologie",13 (1983), pp. 11-6, A. Gabucci, L. Sagul, L'enquete archéologique de la Crypta de Balbus, in Archéologie et projeturbain, Paris 1985, pp. 177-81; AA.VV., Crypta Balbi, 1981-1983, in Roma Archeologia nel centro, vol. II, pp. 546-64, De Luca, Roma 1985; L. Saguì, in "Archeologia Medievale", XII (1985), pp. 471-84 e XIII (1986) pp. 345-55.14 M. L. Conforto, Problemi del recupero urbano, in Manacorda, Archeologia urbana, cit., p. 75.15 Sulla legge n° 92/1981 e i problemi della sua applicazione cfr. Roma. Archeologia e progetto cit., nonché A. LaRegina, Programmi della Soprintendenza archeologica di Roma, in Archeologia laziale, IV, Roma 1981, pp. 13-22.Per le vicende della Zona archeologica si veda da ultima P. Ciancio Rossetto, La «passeggiata archeologica», inL'archeologia in Roma capitale tra sterro e scavo, Venezia 1983, pp. 75-88.

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stratigrafico vanno di pari passo e insieme indicano che l'archeologia, cioè la somma delle tantearcheologie in cui ancora ci dibattiamo, depurata del classicismo e del monumentalismo, sicandida a buon diritto tra le discipline in grado di contribuire alla programmazione ed allaesecuzione dell'intervento urbanistico: l'archeologia muove la città, e aiuta a sollevare il velo daisuoi "buchi neri", introducendovi ottiche inconsuete.Da questo angolo di visuale riusciamo forse a capire meglio alcuni aspetti della rovente polemicasul progetto di scavo dei Fori imperiali: un dibattito assai complesso, non schematizzabile, ma nelquale la nuova capacità programmatrice assunta dall'archeologia urbana ha dimostrato di toccarecorde assai delicate e di rompere steccati consolidati anche nel campo della cultura architettonicaed urbanistica, e specialmente in quello della storia dell'arte, il più pronto, si direbbe, ad alzare iltono della polemica, il più restio, in taluni suoi rappresentanti, a rendersi conto che la disciplinaarcheologica con cui misurarsi parla un linguaggio e agita problematiche assai diverse dallefastidiose e rassicuranti retoriche di un tempo.La storia dell'insediamento copre due millenni e mezzo di vita urbana. Abbiamo avuto occasionedi esporre altrove il succedersi delle fasi urbanistiche e di elencare fonti e problematiche relative.Qui ci limitiamo a richiamare quella che sembra essere una tendenza ricorrente nella tipologiadell'insediamento, costituita da un'alternanza di momenti di accorpamento edilizio e urbanistico amomenti di disgregazione e parcellizzazione nell'uso del suolo16. La storia del sito è storia digrandi monumenti, certamente, ma è anche storia di grandi spazi, di pieni e di vuoti e di continnetensioni tra questi due elementi sul piano della stratigrafia orizzontale, di continua alternanza dipieni a pieni, di pieni a vuoti e anche di vuoti a vuoti sul piano della stratigrafia verticale.Murature e terre formano un amalgama che solo l'indagine stratigrafica è in grado di cogliere. Èappunto anche questo il grande compito delI'archeologia urbana, che per defınizione rifugge daottiche gerarchizzanti: isolare un problema con atteggiamento totalizzante significa in questecondizioni condannarsi a non comprenderlo o ad averne quanto meno una immagine assaiparziale. Ma il rifiuto dell'ottica selettiva comporta all'archeologo come all'architetto, all'indaginestratigrafica come al progetto di restauro, il problema della scelta tra conservazione e distruzione17.Questo conflitto si colloca su due diversi piani: vi è una conflittualità oggettiva sul pianourbanistico e sociale quando l'intervento archeologico (e di restauro) metta in discussionel'effettiva possibilità di sussistenza delle strutture moderne o contemporanee insistenti supreesistenze antiche; vi è un'altra sorta di conflittualità, di natura più culturale e metodologica, chesorge di fronte alla necessità di scegliere nel corso dell'intervento per la conservazione di uncontesto a danno di un altro. Nel primo caso ci troviamo di fronte a problematiche che nondovrebbero appartenere alla prassi dell'archeologia urbana che - a differenza dell'archeologiamonumentale - non vuole essere il grimaldello per operazioni di sventramenti urbanistici né perallestimenti di "banchetti" archeologici di infausta memoria: deve semmai intervenire per limitarei danni tramutando operazioni distruttive in occasioni di conoscenza. Nel secondo caso il conflittoè interno agli stessi strumenti concettuali dell'archeologia urbana: la sua risoluzione credo vadacercata tuttavia al suo esterno, coinvolgendo in essa tutti gli operatori del settore, archeologi earchitetti e non soltanto questi.Nel cantiere della Crypta Balbi «ci si trova ad operare al di fuori delle ipotesi già sperimentatecome valide, e secondo parametri metodologici ancora da definire e di difficile definizione [. . .].Si tratta prima di tutto di acquisire allo spazio urbano la lettura scientifica delle trasformazioniavvenute [. . .], dei cambiamenti subiti dalle unità abitative e dagli edifici che definiscono ilperimetro, distinguendo strutture originarie e superfetazioni, adattamenti e trasformazioni in uninsieme reso oggi incomprensibile [...] ritrovando una forma che questo insieme riscatti dal 16 Cfr. nota 13, in particolare Manacorda, Archeologia urbana, cit., p.l4 s.17 Un problema che, per quanto riguarda lo "scarto" dei reperti mobili comincia ad essere affrontato in termini piùapprofonditi da parte degli stessi archeologi: cfr. A. Ricci, Carta da macero e "cocciopesto": appunti sullo scarto direperti archeologici, "Quaderni storici", 56(1984), pp. 655-68.

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risultato casuale di oltre quaranta anni di abbandono»18. I due piani nel nostro caso, dunque, siintersecano. Mentre nel primo piano non è in discussione la salvaguardia dei volumi e delle lineeessenziali della stessa tipologia dell'insediamento (altra cosa è la discussione sulla destinazioned'uso), nel secondo piano non possiamo che rifarci a quanto già osservato all'atto dellapresentazione del progetto: «L'ipotesi archeologica su cui lavorare è quella della definizione dicontesti insediativi omogenei da scavare o da conservare integralmente, una volta che siano statiinseriti nella sequenza stratigrafica. Sul piano urbanistico potremmo pensare - parallelamente aduna scelta che privilegi il mantenimento delle forme compiute, comprensibili e reinseribili nelcontesto urbano»19.Queste formulazioni astratte, e che altro non vogliono essere che una riflessione a voce alta su diuna tema che non conosce ancora proposizioni definitive, hanno sinora avuto riscontro nelle scelteeffettuate sul cantiere della Crypta Balbi, dove la prospettiva perseguita è quella di creare lepremesse per una sorta di antologia degli insediamenti urbani riconoscibile e percorribile una voltache- terminata l'operazione di scavo e restauro - l'area potesse essere restituita al godimentopubblico.Questa antologizzazione dovrebbe condurre alla definizione di spazi aperti e di spazi fabbricatiche consentano di leggere - sia pure a livello di campionature - la successione stratigrafica equindi la storia urbanistica. L'obiettivo è certamente anche quello di recuperare l'uso di partealmeno degli antichi criptoportici (la cui natura ancora ci sfugge) e di riacquistare la praticabilitàdi un settore della piazza augustea, individuando un'area dove sia possibile esporre un quadrantedelle sue preesistenze, ma anche di definire un settore dove sia possibile rendere testimonianzadella qualità e dell'estensione dell'accumulo altomedievale (la "distruzione" di Roma antica) e delsorgere dei nuovi insediamenti. Se l'area un tempo occupata dalla chiesa di S. Maria (nota dal Xsecolo) dovesse ancora conservarne le vestigia in termini comprensibili (lo scavo non ha ancoraaffrontato quell'area) la sua conservazione, in un settore perimetrale dell'isolato, si imporrebberispetto a pur pressanti necessità di conoscenza della natura del monumento sulle cui rovine lachiesa dovette erigere le proprie fondamenta. Una quinta monumentale chiude a sud-ovest ilcomplesso rinascimentale con la chiesa di S. Caterina e le arcate superstiti del conventocinquecentesco, la cui persistenza consente in questa ottica di approfondire l'indagine al di sottodei piani d'uso superstiti in altre zone del fabbricato, di cui vengono scavati integralmenteambienti e fondazioni, privilegiando in questo caso l'indagine dei livelli bassomedievali dell'area,a tutt'oggi tra i più complessi e sconosciuti.Questo orientamento sin qui seguito si riflette pertanto in una programmazione che abbia comecostante riferimento il riconoscimento dei rapporti esistenti (o un tempo esistiti) tra le aree aperte ele strutture in elevato (o quanto di queste ancora resta), trasformando sì il momento della"distruzione" archeologica in occasione di arricchimento di conoscenze storiche, ma anche inopportunità di ricomposizione (effimera se destinata allo scavo, duratura se alla conservazione) diunità topografiche delle quali il tempo aveva lasciato che si perdesse la percezione. Se questoproblema è il pane quotidiano dell'archeologia stratigrafica e dell'applicazione della strategia pergrandi aree20, a scala più grande il problema coinvolge necessariamente un arco più ampio dicompetenze e si riflette drammaticamente sulla programmazione delle attività di ricerca e direstauro.Se distruggere significa conoscere, alla scala ridotta dell'intervento stratigrafico l'intreccio dicompetenze tra archeologo e architetto torna a porsi attraverso lo studio delle tecniche costruttive.Questo aspetto della ricerca ha una lunga tradizione in campo classico, con ombre e luci. In questasede varrà solo la pena di ricollegarsi brevemente ad una nota polemica degli anni Cinquanta che

18 Conforto, Problemi del recupero, cit., p. 75.19 Manacorda, Archeologia urbana, cit. p. 13.20 Su cui cfr. Ph. Barker, Tecniche delio scavo archeologico, Milano 1981 p. 59 ss.

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riflette quanto il problema dell'approccio al monumento, il cui studio tecnico apre orizzonti nuovialla comprensione della cultura che lo produsse oltre che alla determinazione della cronologia, siastato uno dei temi più delicati del rapporto tra topografia classica e archeologia stratigrafica. Miriferisco alla recensione che Nino Lamboglia dedicò alla ormai classica monografica di GiuseppeLugli sulla Tecnica edilizia romana ed alla risposta, molto illuminante, dell'autore21, Al di là delleforzature e dei limiti delle due posizioni22, quella polemica nasceva da una sostanzialecontrapposizione metodologica che mentre faceva asserire a Lamboglia che il «rapporto costantefra il monumento e lo strato coi suoi materiali è [. . .] il punto cruciale del metodo stratigraficoapplicato all'archeologia classica»23 consentiva invece al Lugli di teorizzare non solo la legittimitàdell'esistenza ma la necessità di distinzione di due metodi formatisi «nella nostra scienzaarcheologica in relazione col "piano di campagna": il metodo strutturale-architettonico, per tuttociò che è sopra terra, e il metodo preistorico-stratigrafico per tutto ciò che è sotto terra»24: unaformulazione, come ben si vede, che vanifica ab imis ogni ulteriore discorso sul rapportonecessario tra archeologo e architetto. È certamente una posizione anacronistica che più non ciriguarda, ma che va richiamata per aiutarci a comprendere alcune delle radici culturali delle nostreproblematiche25.Lo studio delle tecniche edilizie rappresenta - si diceva - uno degli elementi di novità checaratterizzano l'attuale stagione della archeologia post-classica. Sentiamo assai più di ieri ilbisogno di costruire un linguaggio comune tra archeologi e storici dell'architettura, i quali a lorovolta cominciano a porsi nuovi interrogativi ed a fare alcuni conti con il passato.. La direzione èquella della definizione disciplinare di una archeologia dell'architettura moderna26, che - ancheattraverso la riflessione sull'opera di personalità contraddittorie del recente passato, di formazionepositivistica27 _ rivendichino alla storia dell'architettura «un approccio conoscitivo ispirato aimetodi dell'archeologia, o meglio alla stessa ottica della ricerca archeologica»28. I concetti intornoai quali si definisce la storia della cultura materiale credo possano rappresentare il sottofondocomune a questa ricerca, della quale gli aspetti archeologici e storico-architettonici non sono chedue punti di vista ora paralleli ora sovrapponibili.Da un incontro con le problematiche storico-architettoniche l'archeologo ha molto da guadagnare:l'architettura nella prospettiva archeologica ha spesso sofferto per una irrisolta mescolanza diaspetti tecnici, stilistici o tipologici, non sempre sostenuti da una sufficiente capacità di analisi

21 Cfr. N. Lamboglia, Opus certum , "Rivista di studi liguri", XXIV (1958), pp. 158-70 e G. Lugli, Opus incertum ,"Rendiconti dell'Accademia dei Lincei", XIV (1959), pp. 321 -30.22 Cfr. Manacorda, Cento anni, cit., pp. 106-8.23 N. Lamboglia, La datazione stratigrafica dei monumenti di età classica , in Cronica del IV Congreso internacionalde Ciencias prehistòricas y prothistùricas - Madrid 1954, Zaragoza 1956, p. 904.24 Lugli, Opus incertum, cit., p. 329.25 Pur riconoscendone la funzione per l'analisi dei monumenti la stratigrafia viene confinata all'indagine nel sottosuolofinalizzata allo studio dei reperti ceramici da G. Caputo, Metodo di scavo e sistemi di restauro, in Il monumento perl'uomo, cit., p. 190: ma si veda nel suo stesso contributo la riproduzione della stratigrafia del crollo della basilicaseveriana di Leptis Magna, esempio mirabile per l'epoca (1937) dell'applicazione dell'osservazione stratigrafica alprogetto di restauro monumentale (ivi, p. 184, fig. 7). Nello stesso volume il testo dovuto a G. Ioppolo, Contributo peruna metodologia nella ricerca archeologica e nel restauro dei monumenti antichi (pp. 231-4) testimonia di una benpiù matura sensibilità verso i problemi della lettura stratigrafica dei monumenti, isolati d'altronde nel panorama deltempo.26 Cfr. nota 2.27 La figura di Gustavo Giovannoni meriterebbe in questo contesto di essere analizzata in relazione - sul pianoculturale come su quello politico-ideologico - con i due grandi personaggi dell'archeologia italiana di formazionepositivistica, Giacomo Boni e Nino Lamboglia.28 P. Marconi, Il conoscitore di architettura "moderna": quale storia per il restauro , "Ricerche di storia dell'arte", 20(1983), p. 7.

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strutturale dei manufatti29. La storia dell'architettura a sua volta non può non beneficiaredell'inserimento delle ottiche stratigrafiche, ad essa storicamente estranee e che le consentonoinvece a livello di elaborazione un arricchiamento metodologico evidente, a livello di operativitàla possibilità di superare la facciata, l'immagine esterna dell'architettura, per andare a sezionare lecomponenti più intime, riflesso diretto del lavoro umano30.Questa complessa problematica si va affrontando alla Crypta Balbi a misura che l'indagine discavo, con l'allargamento del cantiere ai fabbricati perimetrali, si viene a fondere in forme semprepiù interdipendenti con il cantiere di restauro. I primi passi riguardano l'awio di una definizionedelle tipologie delle tecniche edilizie e dei materiali impiegati, la creazione di archivi di malte, dilaterizi, di elementi costruttivi, l'avvio dell'analisi epigrafica doliare di età post-classica.Prendendo le mosse da esperienze già maturate in campo classico e medievale, ci si indirizza allaelaborazione di una nuova scheda dell'unità muraria31 inseribile nel meccanismo delladocumentazione archeologica, ma in grado di essere utilizzata nella analisi del manufattoarchitettonico con la stessa rigorosa duttilità con cui essa può essere utilizzata quale elementocostituente la ricostruzione della sequenza stratigrafica.L'introduzione di strumenti di natura archeologica nello studio delle tecniche edilizie nel cantieredi restauro dovrebbe trovare una corrispondenza nella maggiore acquisizione da partedell'archeologo della capacità, propria dell'architetto, di ragionare per organizzazione degli spazi,funzioni, percorsi: un'attitudine certamente non ignota all'archeologo ma troppo spesso limitata dauna tendenza descrittivistica che non rende ragione alla mole del lavoro analitico, che è ilpresupposto, ma non il fine della indagine stratigrafica. Questa capacità - si potrebbe anche direquesta curiosità - si traduce a livello di rappresentazione grafica nell'attenzione maggiore chel'archeologo dovrebbe rendere alle ricostruzioni topografiche e architettoniche degli insediamenti(un'attitudine assai sviluppata nella cultura ottocentesca e poi via via andata perduta), specieattraverso un uso più diffuso e consapevole della rappresentazione assonometrica, che restituisceal monumento quella potenzialità di tramissione di informazioni che al rudere non è concessa.Ma l'apporto più significativo dell'ottica stratigrafica all'analisi archeologico-architettonica ècostituito dall'introduzione del fattore tempo nella documentazione archeologica come nel rilievodei monumenti32. È la quarta dimensione infatti che viene documentata principalmente dallasezione stratigrafica, dove il contatto materiale dei tratti grafici che si sovrappongono l'un l'altrointende proprio testimoniare la dinamicità della stratificazione, mentre la sua qualità viene affıdataalle diverse tecniche di caratterizzazione, secondo una rappresentazione estranea al repertoriografico delle sezioni architettoniche, ma a questo complementare 33. Ed è la quarta dimensione chel'archeologo introduce nella sua documentazione grafica orizzontale al momento della redazionedelle piante composite: piante per fase, e come tali sincroniche, ma solo interpretabili in unasequenza stratigrafica che registri le presenze e le assenze, gli apporti come le sottrazioni, anche

29 Non si può non concordare con quanto scrive a questo proposito C. F. Giuliani, Introduzione a C. M. Amici, Foro diTraiano: basilica Ulpia e biblioteche, Roma 1982, p. IX s. Ma un problema in questo senso sembra porsi anche nellaformazione professionale degli storici dell'architettura (cfr. Marconi, Il conoscitore, cit.).30 Il problema è ben definito da E. Guadagni: «L'architetto, il muratore, il tecnico, dovranno farsi archeologi, o megliol'archeologo dovrà entrare col proprio bagaglio metodologico nel gruppo di lavoro che interviene sulla conservazionee da questa indispensabile collaborazione nella fase conoscitiva dovranno prendere l'avvio le proposte per l'interventodi restauro», Il recupero delle tradizioni costruttive locali nel restauro del patrimonio edilizio esistente, "ArcheologiaMedievale", VI (1979), p.99.31 Ricordo a tale proposito le importanti esperienze portate avanti da R. Parenti negli scavi condotti dall'lnsegnamentodi Archeologia medievale dell'Università di Siena sotto la direzione di R. Francovich.32 Particolarmente chiare mi sembrano a tale proposito le osservazioni di F. Bonora, Nota su un'archeologiadell'edilizia, "Archeologia Medievale", VI (1979), in part. pp. 171s. e 176.33 Su teoria e prassi dell'intervento stratigrafico rinvio a A. Carandini, Storie della terra , Bari 1981 e ad Harris,Principi di stratigrafia, cit., due opere che non dovrebbero mancare nello scaffale dell'architetto impegnato neicantieri di restauro.

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qui secondo uno schema grafıco estraneo al rilievo architettonico ed alla rappresentazioneplanimetrica di natura topografica.La riproposizione del criterio di lettura stratigrafica delle planimetrie sui prospetti degli elevatirappresenta il momento di incontro più ravvicinato tra l'ottica archeologica e quella dell'architetto.Oltre a raffigurare sul piano verticale la dinamicità della stratificazione (le leggi che presiedonoalla stratigrafia verticale sono le stesse definite per qualunque tipo di stratificazione archeologica)la stratigrafia degli elevati introduce al tema centrale del rapporto tra stratigrafie orizzontali everticali, sia nella sua forma direttamente verificabile nel procedimento di scavo, sia nella suaforma ricostruibile per associazioni, confronti, periodizzazioni, attraverso la storicizzazione deldato stratigrafico: un aspetto centrale della ricerca dell'archeologo, ma altrettanto fondamentaleper qualunque ipotesi di restauro architettonico.Questa capacità di tradurre in un sistema integrato di documentazione grafica e scritta leosservazioni stratigrafiche condotte sull'insieme monumento-ambiente non è ancora, almenoquanto dovrebbe esserlo, patrimonio consolidato della professionalià dell'archeologo. Altrettantoin formazione mi sembra essere, dal punto di vista dell'archeologo, la figura dell'architetto ingrado di utilizzare a pieno la mentalità stratigrafica nel proprio intervento sul cantiere di scavo-restauro. I1 tema della formazione professionale mi pare quindi che scaturisca come necessariaconclusione di questa serie di appunti, che non si è posta altro obiettivo se non quello di unariflessione su problemi e aspetti del lavoro quotidiano in un cantiere di archeologia urbana. Senzadubbio sarà il moltiplicarsi delle occasioni di incontro sui cantieri che indicherà le strade piùadatte al conseguimento di questa formazione professionale; ma senza un pronto coinvolgimentodelle nostre istituzioni (nella formulazione dei piani di studio universitari, nell'organizzazionedelle scuole di perfezionamento, nella elaborazione dei programmi concorsuali per l'accessoall'Amministrazione dei beni culturali) le vie saranno più tortuose, le soluzioni più episodiche, illivello di consapevolezza più incerto. In questa fase, credo, abbiamo bisogno di empiria; ma losbocco di un approccio empirico deve essere quello della defınizione di una figura professionalenella quale i contenuti di una formazione storico-filologica e insieme tecnico-operativa trovinouna sintesi equilibrata.

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Richard Hodges

Scavi a San Vincenzo al Volturno:un centroregionale ed internazionale dal 400 al 1100*

San Vincenzo al Volturno fu uno dei maggiori monasteri benedettini dell'Europa altomedievale.Il Chronicon Vulturnense, una storia del monastero compilata nel XII secolo, lo paragona, nel IXsecolo, a Farfa e a Montecassino per splendore ed importanza (fıg. 1): il cronista descrive unacomunità prospera, dell'ordine di grandezza di un piccolo regno, e governata da una serie di abatipotenti1. Tuttavia, al contrario di molti altri grandi monasteri suoi contemporanei, San Vincenzoal Volturno è oggi dimenticato, e storici e archeologi non ne conoscono l'ubicazione e lafisionomia attuale. Solo la pubblicazione del Chronicon, awenuta negli anni Venti e Trenta adopera di Vincenzo Federici, ha risvegliato l'interesse degli studiosi per questo importante centro2

.L'abbazia sorge presso le sorgenti del Volturno, nella piana di Rocchetta, ai piedi dei montidell'Abruzzo, al confine settentrionale dell'odierno Molise. San Vincenzo si trova a soli 30-40km in linea d'aria da Montecassino, ma il viaggiatore moderno deve attraversare gli Appennini erisalire la tortuosa valle del Volturno, prima di raggiungere l'abbazia fra i monti. Il suoisolamento geografico attuale non era tale nell'antichità: in periodo preromano la zona si trovavasull'itinerario dei pastori transumanti che ogni anno si spostavano dalla Puglia e dalla Basilicataai pascoli degli Abruzzi, ed era quindi densamente popolata. Anche in epoca classica, i pastorifacevano probabilmente tappa nella piana di Rocchetta prima di affrontare l'aspra salita verso leMainarde a circa 2000 m. di altezza. In epoca post-classica questa stessa catena montuosasegnava il confine fra il Ducato (più tardi Regno) di Benevento e gli stati della Chiesa a nord; fraVIII e IX secolo infine la regione ebbe per un breve periodo il ruolo di frontiera meridionaledell'Impero carolingio, fino al disfacimento di questa formazione politica. Nei secoli seguenti,l'instabilità politica del centro e del meridione d'Italia fece sì che la prosperità dell'abbaziadipendesse principalmente dalla sua prossimità ai ricchi pascoli degli Abruzzi: questiassicurarono la relativa prosperità dei villaggi dell'alta valle del Volturno rispetto ai centri delMezzogiorno. Come nel Sud, tuttavia, anche qui l'emigrazione, dal XIX secolo, verso le cittàdell'Europa settentrionale e dell'America ha dato luogo ad un drammatico spopolamento, e unadelle principali risorse della regione rimane oggi l'industria turistica, al cui potenziamento potràcontribuire anche lo scavo e l'apertura al pubblico di San Vincenzo al Volturno.

*Desidero ringraziare la soprintendente dottoressa D’Henry ed inoltre i responsabili e i volontari che hanno lavoratoa S. Vincenzo.1 Chronicon Vulturnense del monaco Giovanni, a cura di V. Federici [F.S.I. 58-60], Roma 1925-38.2 Ibid.

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FIGURA 1Carta di localizzazione di San Vincenzo al Volturno

L'ubicazione precisa del monastero altomedievale era, fino a pochi anni fa, sconosciuta, e,benché la scoperta di una cripta affrescata del IX secolo avrebbe dovuto richiamare l'attenzionedegli studiosi su questo sito, il suo isolamento ha scoraggiato qualsiasi ricerca.I risultati del nostro lavoro, ottenuti in cinque anni di scavi, vanno in primo luogo inseriti nellaprospettiva storica dello sviluppo del monastero, come è descritto dal Chronicon Vulturnense, laprincipale fonte per il periodo che va dalla fondazione di San Vincenzo all'inizio del XII secolo.Il cronista, Giovanni, utilizzò probabilmente documenti dell'VIII, IX e X secolo: è peròopportuno leggere il Chronicon con una certa cautela, perché esso venne redatto con lo scopodichiarato di esaltare l'importanza del monastero in un periodo in cui le sue fortune erano indeclino. In breve, la storia riferisce di come tre monaci dell'abbazia di Farfa, Paldo, Taso e Tato,fondarono San Vincenzo all'inizio dell'VIII secolo, in un luogo selvaggio e boscoso. È probabileche ai monaci venisse fatto dono dei ruderi di una tenuta, ai confini settentrionali del Ducato diBenevento, appena fondato. Sembra anche che i monaci restaurassero una chiesa preesistente,costruita, secondo la tradizione, in epoca costantiniana. I tre fondatori collaborarono poi allarifondazione dell'abbazia di Montecassino. Le ragioni della dedica dell'abbazia a San Vincenzorimangono oscure e anche il Chronicon non ne fa menzionare3; forse le reliquie del martiremenzionato in un documento del X secolo appartenevano ad uno sconosciuto di epocatardoromana, piuttosto che al famoso santo spagnolo4.Il monastero del secolo VIII era probabilmente di piccole dimensioni, anche se nel suoscriptorium venne redatto, al tempo dell'abate Ato, il famoso Codex beneventanus5. Quandol'imperatore Carlo Magno, nel terzo quarto del secolo VIII, conquistò il Regno longobardosettentrionale, San Vincenzo, come altri monasteri, si trovò a dover decidere fra la fedeltà ai 3 P. J. Geary, Furta Sacra. Theits of relics in the central Middle Ages, Princeton 1978, p. 166 s.4 Ibid.5 D. H. Wright, The canon tables of the Codex Beneventanus and related decoration, "Dumbarton Oaks Papers", 33(1979), pp. 135-56.

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duchi locali e il rispetto verso il potente conquistatore. In quest'epoca secondo Paolo Diacono,che scriveva a Montecassino, San Vincenzo al Volturno era una comunità di una certa entità6. Ladecisione dell'abate Paolo, intorno al 780, di schierarsi con i Carolingi, può essere stata la causadi una serie di nuove donazioni all'abbazia, ma è solo con il suo successore, Giosuè (792-817),che 1'appoggio carolingio assunse una forma tangibile. Il Chronicon descrive la ricostruzione diSan Vincenzo che Giosuè compì con l'aiuto di suo cognato, Ludovico il Pio; pare addirittura cheil re franco organizzasse lo spoglio sistematico di un tempio romano a Capua, per poi farlotrasportare a San Vincenzo pezzo per pezzo. Per quanto si tratti forse solo di una leggenda,questo episodio rivela gli stretti rapporti esistenti fra la corte carolingia e il monasterobenedettino, ed il prestigio che a questi attribuiva il cronista nel XII secolo.Dopo Giosuè, gli abati Talarico ed Epifanio continuarono ad espandere il monastero, costruendonuove chiese e ottenendo donazioni dai beneventani. Lo zenith delle fortune del monastero furaggiunto alla metà del IX secolo, e l'awento, nell'860, di una banda di pirati Saraceni, segnòl'inizio del declino. In quell'occasione, i pirati nordafricani si accontentarono di un riscatto, manell'ottobre dell'881 un'altra banda, guidata dal feroce Saradan, attaccò San Vincenzo, e, dopouna drammatica battaglia, saccheggiò l'abbazia, spogliandola di tutti i suoi tesori e costringendo imonaci sopravvissuti a fuggire a Capua. Essi ritornarono nel 914-15, e probabilmenteutilizzarono San Salvatore, piuttosto che la chiesa madre, ormai in rovina. Nel secolo che seguì,l'attività edilizia nel monastero fu assai ridotta, e vi fu invece un crescente interesse perl'amministrazione delle terre di proprietà di San Vincenzo: il Chronicon riporta una serie di carteche documentano la fondazione di villaggi dopo il 940; alle popolazioni degli insediamenti giàesistenti vennero dati in affıtto nuovi terreni, con lo scopo evidente di formalizzare il rapporto fraquesti e l'abbazia, e nello stesso tempo di aumentare la produzione agricola, mediante lacolonizzazione delle aree boschive. È probabile che San Vincenzo incoraggiassel'"incastellamento" della zona, per procurarsi le risorse necessarie a riparare e mantenere ilmonastero in rovina, seguendo l'esempio di Farfa e Montecassino7. È certo che nel periodo cheseguì la concessione di queste carte di fondazione e affitto nel monastero si ebbe una fase digrande attività edilizia. Al tempo dell'abate Giovanni IV (998-1007) la chiesa madre,abbandonata nell'881, fu restaurata. In seguito l'abate Ilario (1011-45) fece costruire un nuovocampanile, mentre Giovanni V (1053-76) rinnovò il pavimento nella grande chiesa e costruì unnuovo chiostro. Con l'abate Gerardo, un ex monaco di Montecassino all'epoca di Desiderio, lachiesa madre fu totalmente ricostruita, ad imitazione della bella basilica di Montecassino volutada Desiderio, e fu completata solo al tempo di Benedetto (1109-17), quando il monacoconosciuto come Giovanni era già intento a scrivere la storia di San Vincenzo8. La stesura diquest'opera si colloca all'inizio del defınitivo declino di San Vincenzo. Nel XIV secolo ilmonastero venne gravemente danneggiato da un terremoto, e da allora esso ebbe solo importanzalocale, fıno a che, nel 1699, le sue proprietà vennero rilevate da Montecassino. La chiesaabbaziale fu fatta restaurare dai cassinesi, che la usarono come luogo di ritiro estivo. KeppelCraven, un viaggiatore inglese che visitò San Vincenzo nel 1837, ignorò sia l'edificio, di cuisembrava non conoscere la storia, che la cripta affrescata, allora da poco (1832) scoperta da O.Fraja-Frangipane, archivista di Montecassino9. Gli affreschi richiamarono l'attenzione deglistorici dell'arte, che nei 150 anni seguenti li studiarono, anche se nessuno tentò di inserirli nel piùampio contesto della storia dell'abbazia. La chiesa abbaziale fu poi danneggiata durante la

6 Paolo Diacono, Storia dei Longobardi.7 C. Wickham, Il problema dell'incastellamento nell’Italia centrale: l'esempio di San Vincenzo al Volturno , Firenze1985.8 A. Pantoni, Le chiese e gli edifici del monastero di San Vincenzo al Volturno , Montecassino 1980, p. 69 s. Pantonicrede che il sito del monastero sia sempre stato quello odierno, e perciò attribuisce i chiostri della "nuova" abbazia(I'attuale) a Giovanni V (pp. 75-7) e suggerisce che la fase finale della chiesa abbaziale sia stata operata da Gerardo.9 Pantoni, Le chiese e gli edifici, cit., p. 91.

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Seconda guerra mondiale e restaurata nel periodo postbellico sul modello della chiesa dell'XI-XII secolo di cui parla l'autore del Chronicon. Nel 1972 infıne, poco dopo la pubblicazione delfamoso studio che H. Belting dedicò agli affreschi della cripta10, la fattoria che la sovrastava fusostituita da un curioso edificio di copertura che, insieme ai "restauri" eseguiti all'epoca, portò aldrammatico deteriorarsi delle pitture, che a tutt'oggi rappresenta un problema per laSoprintendenza archeologica del Molise.Il professor D'Agostino, soprintendente nel 1979, ci invitò a scavare la zona circostante la cripta,conosciuta con il nome di San Lorenzo, in via preliminare al restauro completo degli affreschisotto la direzione del professor Basile del Centro di restauro di Roma. Per ragioni che sono stateesposte altrove11, noi chiedemmo di studiare non solo la cripta ma anche il monastero nel suoinsieme, e, in seguito al lavoro di C. Wickham sullo studio della terra di San Vincenzo compiutoda M. Del Treppo, di condurre una ricognizione di superficie e dei saggi di scavo in alcunelocalità della regione legate al monastero. Il nostro scopo era quello di condurre un programmadi ricerca interdisciplinare che ci permettesse di definire il ruolo del monastero nella regione fraVIII e XI secolo. In particolare, si sperava di ottenere dati sufficienti sulla forma del monasteroper stabilirne la funzione come centro regionale nell'Altomedioevo. Va sottolineato che il lavoroè stato intrapreso con in mente tre punti principali, che hanno poi guidato la nostra strategiasuccessiva. In primo luogo, la chiesa della cripta veniva considerata come una cappella isolata, acirca 400 m. dall'abbazia attuale. Il nostro scopo era di condurre uno scavo ad "open area" perdocumentare accuratamente lo sviluppo della chiesa e degli edifici circostanti; questi scaviavrebbero dovuto formare il nucleo principale di un parco archeologico, di cui la cripta avrebberappresentato il monumento più insigne. In secondo luogo, volevamo accertare l'estensione delmonastero altomedievale compiendo saggi sia intorno all'abbazia attuale che nella zona fraquesta e la cripta. Credevamo che l'insediamento avesse avuto un'estensione di circa un ettaro,come veniva confermato dagli scavi di D. Whitehouse in un altro insediamento di epocacarlolingia, Farfa (Sabina), e dall'ipotesi di W. Horn, che la famosa pianta di San Gallo fossequella di un monastero dell'819 circa, di un ettaro di estensione12.

10 H. Belting, Studien zu Beneventanischen Malerei, Wiesbaden 1968.11 R. Hodges, Excavations and survey at San Vincenzo al Volturno , Molise: 1980, "Archeologia Medievale", VIII(1981), pp. 483-6.12 W Horn, E. Born, The Plan of St. Gall, Berkeley 1979.

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FIGURA 2La principale area di scavo di lato al fiume Volturno

In terzo luogo, la ricerca archeologica sulla terra mirava ad individuare gli insediamenti esistentidurante il periodo più antico della vita del monastero: la densità del popolamento ed altrisemplici problemi dovevano essere affrontati e risolti prima di raggiungere una valutazione dellediverse ipotesi relative allo sviluppo dell'economia altomedievale. Era quindi necessariorinvenire tipi ceramici diagnostici in contesti stratificati in varie località della terra, per poiconfrontarli con i dati associati alla cripta, l'unico punto fermo nella cronologia. Ricercheprecedenti sulla ceramica altomedievale condotte da D. Whitehouse nella Puglia settentrionale eda R. Hodges e G. Barker nella valle del Biferno13, suggerivano che era possibile rinvenire taleceramica. Un progetto di 5 anni iniziò così nel 1980, con la collaborazione, dal 1981, delladottoressa G. D'Henry, la nuova soprintendente.Nell'agosto del 1981, durante la seconda stagione di scavo, divenne chiaro che il sito delmonastero altomedievale si trovava a sud della chiesa della cripta, lungo il Volturno. L'abbaziaattuale invece si trova sul luogo di quella dell'XI secolo, probabilmente quello voluto dall'abateGerardo. Dal 1981 abbiamo portato alla luce presso il Volturno una sequenza edilizia moltocomplessa, comprendente alcuni resti di età carolingia, in ottimo stato di conservazione, ed 13 D. B. Whitehouse, Medieval painted pottery in South and Central Italy , "Medieval Archacology", 10 (1978), pp.30-44; Id., The medieval pottery of Rome. in H. McK. Blake, T. W. Potter, D. B. Whitohouse, Papers in ltalianArchaeology, Oxford l 978, pp. 475-505; R. Hodges, G. Barker, K. Wade, Excavations at D85 (Santa Maria inCività): an early medieval hillton settlement in Molise, "Pape Pantoni, Le chiese e gli edifici, cit., p. 91.rs of theBritish School at Rome", 48 (1980), pp. 70-124.

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inoltre resti di periodi anteriori e posteriori. I resti archeologici interessano un'area di circa 5ettari e indicano che in alcuni periodi il sito raggiungeva le dimensioni di una piccola città.L'esiguità delle risorse a nostra disposizione ci ha finora solo permesso di verificare la sequenzae l'estensione di una piccola parte del sito; pensiamo tuttavia di aver raggiunto dei risultatisoddisfacenti in rapporto ai nostri obiettivi iniziali e ci è ora possibile descrivere la sequenzainsediativa lungo il Volturno, e quindi offrire una prima valutazione del ruolo di San Vincenzocome centro regionale.Queste in sintesi le fasi costruttive evidenziate dallo scavo del complesso:

—fase 0a, periodo repubblicano;—fase 0b, periodo romano (I-IV secolo d.C.);—fase 1, periodo tardoromano (V-inizio VI secolo);—fase 2, periodo longobardo (tardo VI-VII secolo)—fase 3, il primo monastero (VIII secolo);—fasi 3a, b, c, ristrutturazioni del monastero (fino all'inizio del IXsecolo);—fase 4, il monastero dell'inizio del IX secolo;— fase 4a, ristrutturazioni;— fase 5, le opere di Epifanio (824-42 e oltre);—fase 5a, b, c, ristrutturazione e tracce dei danni causati dai Saraceni(881);—fase 6, il monastero del X secolo—fase 6a, b, abbandono;—fase 7, il monastero del secolo XI;—fase 8, l'abbazia nel tardo XI secolo e quella moderna.

La storia raccontata dagli scavi è sorprendentemente dettagliata. Il collegamento con i Sanniti,cui accenna il cronista, è per esempio con fermato dall'esistenza qui di un vicus repubblicano, dacui gli architetti del IX secolo d.C. prelevarono molto materiale edilizio. L'insediamento di epocaimperiale era molto più modesto, anche se era un centro importante a livello subregionale, comesuggeriscono i suoi resti (compreso il materiale epigrafico). Di dimensioni analoghe fu la villatardoromana; a differenza dei suoi predecessori, tuttavia, considerazioni di carattere difensivo nedeterminarono la natura, ed essa operò anche come centro religioso: l'entità delle chiese potrebbeaddirittura far pensare ad un vescovato. Ciò è forse contraddetto dalla varietà dei resti culturali edalla natura della popolazione sepolta nel cimitero, simile a quelle rinvenute nei cimiteri di altrezone dell'Italia centrale e meridionale. Per il momento, la villa va attribuita ad un proprietariolocale che consolidò il suo potere con la costruzione di una chiesa e di un cimitero di cuiusufruiva la popolazione di questa parte dell'alta valle del Volturno.L'abbandono della villa avvenne in un periodo in cui lo stato non aveva più potere effettivo nellearee più marginali dell'Italia. L'invasione bizantina, le guerre Gotiche e l'improvvisa conquistadell'Italia settentrionale e parte dell'Italia centrale da parte dei Longobardi, riflettono ladisintegrazione economica e sociale di questo periodo14. Le singole comunità dovevano reagirein modo individuale alle circostanze e contribuivano al crollo dello stato centralizzato: ciòprovocò anche la scomparsa dei grandi proprietari terrieri e l'emergere di tenute più piccolecoltivate per supplire ai bisogni locali. La continuità del popolamento è testimoniata dai datiprovenienti dalla basilica funeraria di San Vincenzo. La pratica funeraria tardoromana persistettesenza cambiamenti fino all'awento nella regione di una nuova élite politica, etnicamente distinta,

14 R. Hodges, D. Whitebouse, Mohammed, Charlemagne and the origins of Europe , London 1983 R. Hodges et abiExcavations at Vacchereccia (Rocchetta al Volturno): a 7th to 12 th century settlement in the upper Volturno valley,"Papers of the British School at Rome", 52 (1984), pp. 148-94.

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i Longobardi, e i membri più ricchi delle piccole comunità circostanti poterono ancora ottenereper vie commerciali orecchini in argento di tipo tardoantico.Come a Farfa e a Montecassino, anche a San Vincenzo i monaci scelsero un sito di epocaclassica per edificarvi il monastero: pare anzi che in ciascun caso i monaci utilizzassero il nucleodi una tenuta tardoantica in abbandono, attirati dalla sua evidente potenzialità economica edall'ubicazione adatta all'amministrazione di comunità disperse. Nel caso di San Vincenzo,tuttavia, il cimitero era probabilmente ancora in uso, così che Paldo, Tato e Taso non fecero cheoccupare un centro ancora operante.Il primo monastero è apparentemente molto piccolo e primitivo. Il Codex beneventanusdell'Abate Alto acquista portata ancora maggiore quando si pensi alla minuscola chiesaimbiancata di fase 3 e al suo altare in mattoni. La comunità deve essere stata molto piccola, eformatasi sotto l'influenza locale e isolata dell'abbazia. L'accento posto sulle sepolture nel latoovest dell'abside e a quelle nei successivi deambulatori suggerisce l'ipotesi che San Vincenzo, acui l'abbazia fu dedicata, fu un romano di questa regione, e le sue reliquie non avrebbero attiratogrande attenzione al di fuori di essa tranne che in circostanze eccezionali: queste si produsseroquando Carlo Magno conquistò l'Italia settentrionale e si alleò con una serie di papi. L'abbazia diSan Vincenzo, al confine settentrionale del ducato di Benevento, acquistò un rango e unaricchezza prima inimmaginabili: la breve ma efficace diffusione dell'ideologia carolingia, chesosteneva con fermezza l'autorità del Papa come vero e unico agostolo di Dio in terra, fuprincipalmente diretta al regno di Benevento 15.Il Ducato (più tardi Regno) di Benevento era una marca politicamente divisa, che si trovava fral'impero di Bisanzio e quello di Carlo Magno, e fra le loro due chiese. I Carolingi, che facevanocapo alla corte longobarda in Italia settentrionale e a quella papale, potenziarono i monasteri diSan Vincenzo e Montecassino, come centri di potere ideologico da cui manipolare la politicabeneventana. Una serie di donazioni beneventane del IX secolo rivelano la vera entità di questoinvestimento: esso è evidente in modo tangibile nell'impressionante espansione di San Vincenzo,pare effettuata sotto il patrocinio di Ludovico il Pio, su di un modello che riassume lecaratteristiche del movimento carolingio.La datazione precisa dell'abbazia di fase 4 non può essere stabilita con certezza: l'abate Giosuèpuò esserne stato l'artefice principale, come riporta il cronista, ma la ricostruzione può ancheessere stata effettuata dal suo predecessore, Paolo. Quest'operazione chiaramente ebbe luogo frala fase 3b e la cripta di Epifanio. La fase 3b è degna di nota: alla chiesa sud e alla chiesa dellacripta furono aggiunti rispettivamente un protodeambulatorio e un'abside tricora. Entrambe leforme si richiamano a idee architettoniche tardoantiche, recuperate durante il periodo carolingioverso la fine dell'VIII secolo16; cioè prima della grande ricostruzione questa piccola comunità giàrisentiva di influenze nordiche.

15 W. Ullmann, The Carolingian Renaissance and the idea of Kingship , London 1969, R. Hodges, J. Moreland, H.Patterson, San Vincenzo al Volturno, the kingdom of Benevento and the Carolingians, in Papers in ItalianArchaeology IV, The Cambridge Conference, IV, a cura di C. Malone e S. Stoddard, Oxford 1985, pp. 261-88.16 Belting, Studien, cit., p. 25 s.; C. Heitz, More Romano. Problèmes d'architécture et liturgie carolingiennes , inRoma e l'età carolingia, Roma 1976, pp. 27-37; e 1'importante studio di R. Krautheimer, The Carolindan revival ofearly Christian architecture, "Art Bulletin", 24 (1942), pp. 1-38.

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FIGURA 3L’abside della Chiesa dell’VIII secolo (lato sud). Il primo San Vincenzo

Il monastero di fase 4 appare come un complesso edilizio pianificato comprendente zone adibitealle diverse funzioni: questo è un punto molto importante in quanto sembra sottintenderel'operare di un'autorità centrale, intenta a realizzare un modello ideale17. La costruzione delnuovo monastero quasi certamente fu completata prima della stesura della famosa pianta di SanGallo: le caratteristiche di quest'ultima indicano la preesistenza, prima che l'abate Haito lomettesse per scritto, di un concetto preciso di quello che è il "monastero modello"18. Lacostruzione di San Vincenzo al Volturno ne è un'interpretazione locale, molto attenta tuttavia aitemi principali della renovatio carolingia. In particolare ricorrono ovunque nel monastero irichiami tardoantichi: gli affreschi, la forma degli edifici, i colonnati e le arcate, la produzione ditegole e vetro si ispiravano tutti a idee e tecniche correnti tre o quattrocento anni prima. SanVincenzo poi fu quasi tutta costruita con materiali di reimpiego, esibiti con l'intento di suggerirecon forza ai visitatori l'immagine di un impero rinascente. La quantità di simboli presentiprobabilmente comunicava un messaggio confuso al visitatore laico, che ne recepiva soloun'impressione di grandiosità e imponenza: San Vincenzo era, nel IX secolo, una città agli occhidei contemporanei. I monaci e lavoranti laici devono essere stati mille o più: forse nessun altromonastero e quasi nessun altro centro dell'epoca in Europa contava tanti abitanti. La possibilitàdi espansione edilizia nella piana può avere contribuito a determinare la grande crescita delmonastero; l'attività costruttiva sembra tuttavia, nelle fasi 4 e 5, essersi concentrata intorno allacollina.Scavi in alcuni villaggi della terra di San Vincenzo mostrano che qui, come in altre partid'Europa in questo periodo, le comunità consistevano raramente di più di cinquanta persone19.Un'abbazia che, nel giro di una generazione, divenne venti volte più grande, deve avere

17 R. Hodges, The evolution of gatervay communities: their socio-economic implications , in Rankingi Resource andExchange, a cura di C. Renfrew e S. Shennan, Cambridge 1982, pp. 117-218 Horn, Born, The Plan of St. Gall cit., ringrazio A. Zettler, che ha discusso questo problema con me, e mi hacomunicato ciù che sapeva sulla storia di Reichenau, Germania Occidentale, dove ha scoperto un monastero con unasimile pianta, precedente la pianta di San Gallo.19 Hodges, Barker, Wade, Excavations at D85 , cit., p. 112; R. Hodges, Dark Age Economics , London 1982, pp. 132-5.

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rappresentato un fenomeno eccezionale. Come in una città in esso vivevano artigiani: i datiparlano di una fabbrica di tegole, di un'officina vetraria, fabbri e, quasi certamente, almeno unvasaio. Artigiani del cuoio, del legno, falegnami, muratori, amannensi e pittori devono averevissuto a San Vincenzo nel momento del suo massimo splendore. Questo deve essersi verificatoal tempo di Epifanio, quando, come abbiamo visto, molti dei monumenti principali venneroulteriormente abbelliti.Gli anni 820-30 furono un periodo importante per gli uomini di chiesa politicamente attivi,poiché essi riuscirono brevemente ad imporre la loro autorità mentre il potere secolarecentralizzato cominciò a disintegrarsi20. Gli abati e i vescovi carolingi furono al culmine dellapotenza durante le guerre civili degli anni 830, ma, come tutti gli altri membri dell'élite,soffersero della recessione economica che seguì. Dobbiamo immaginare Epifanio, nel reame difrontiera, a operare in queste circostanze. La quarta decade dell'800 vide la caduta del governocentrale nel regno di Benevento e l'avvento di fazioni in lotta. San Vincenzo poté quindiprosperare per un breve periodo sfruttando i suoi legami con autorità lontane, decadendo però,come tutti i grandi monasteri dell'Impero, quando la benevolenza dello Stato cessò.

FIGURA 4Forno da ceramica dell’XI secolo (fase 7)

Nell'881, data dell'attacco saraceno, San Vincenzo era ancora un'espressione classica delmovimento carolingio. Era un monumento molto diverso da quelli di Benevento (per esempioSanta Sofia)21, o dei villaggi collinari quali Santa Maria in Cività 22. Ma nell'881 il momento dimassimo splendore del monastero era certamente concluso: le riparazioni eseguite in seguito ad 20 Ullmann, The Carolingian Renaissance, cit.21 Belting, Studien, cit., pp. 42-53.22 Hodges, Barker, Wade, Excavations at D85, cit., pp. 83-6; fig. 9.

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un terremoto nella fase 5 rivelano il ritorno a tecniche più antiche e più primitive. Forse perquesto il cronista, 250 anni più tardi, fu felice di attribuire la responsabilità del declino agli odiatipagani. I Saraceni, pirati nordafricani del Maghreb, secondo la leggenda saccheggiarono edevastarono San Vincenzo. I nostri scavi suggeriscono un'immagine meno pittoresca di quelmattino di ottobre: gli attacchi furono forse localizzati alla due estremità dell'insediamento el'equivalente altomedievale di artiglieria leggera, l'arco composito, fu utilizzato per appiccarepiccoli fuochi a scopo intimidatorio. Anche se l'impatto psicologico dell'attacco non può essereminimizzato, è improbabile che molti edifici venissero devastati. Va poi notato che le porte delleofficine erano sbarrate: questa da sola è un'indicazione del nuovo contesto economico-sociale incui venne a trovarsi il monastero: i Saraceni non arrivarono inaspettati.Il precario insediamento del X secolo, che tentava insistentemente di richiamare l'attenzione delvisitatore sui suoi morti, piazzati all'entrata del monastero, è una scoperta sconcertante nell'era diCluny. Sembra che, con il rango, scomparisse anche l'abilità tecnica e San Vincenzo tornò adessere un modesto centro a livello regionale. Naturalmente San Vincenzo, come altre abbazie diquesto periodo, lamenta la sua triste condizione23 e il quotidiano confronto con i grandiosi edificiormai in rovina deve avere umiliato più di un abate. Ciò può avere contribuito a stimolare ilcrescente interesse nello sviluppo dei terreni di prol?rietà dell'abbazia, ed il tentativo diaumentarne la produzione agricola. È impossibile ignorare il contrasto fra il monastero in declinola serie di atti che documentano il disboscamento di numerosi terreni e l'iniziodell'incastellamento nell'alta valle del Volturno.I redditi crescenti e una rinascita ecclesiastica, nel secolo XI riportano l'abbazia, per un breveperiodo, alla ribalta. Come a Farfa e a Montecassino, anche a San Vincenzo fu realizzato unimponente programma di ricostruzione. Nella prima metà del secolo XI l'intera struttura delmonastero fu rivoluzionata. L'entità di questo processo è sorprendente, come può notare ancoraoggi chi visita gli scavi: l'enormità della distribuzione suggerisce alla fantasia orde di Saraceni,non l'energia spirituale dell'ideologia romanica. La demolizione di monumenti più antichi èun'illustrazione eloquente del modo in cui la tradizione può essere sfruttata in un'epoca eobliterata e negata in quella successiva. La costruzione di un nuovo chiostro a sud di SanVincenzo segnò uno stacco netto dalla storia passata del monastero; la negazione del passato fuattuata anche con la creazione di una nuova abbazia ad opera dell'abate Gerardo, ex monaco diMontecassino al tempo di Desiderio. Lo spostamento sull'altra riva del fiume, da una posizionedominante la piana di Rocchetta ad una di carattere più difensivo, incombente sulla gola delVo1turno, illustra con forza il nuovo spirito di un secolo importante. Con l'inizio del XII secolola comunità di Gerardo entrò in competizione con la piccola nobiltà normanna locale, e lefortune di San Vincenzo, isolato dalle principali correnti di traffico italiane, cominciarono adeclinare.In un momento di crescente competizione con l'autorità secolare, un monaco (o monaci) di SanVincenzo redasse una vivida descrizione della storia passata del monastero.La narrazione dettagliata e le suggestive illustrazioni descrivono un passato che per secoli è statodifficile comprendere:San Vincenzo raggiunse veramente tale splendore e fama?Ebbe veramente una storia simile a quella della vicina Montecassino o della grande abbaziaumbra di Farfa?I1 suo isolamento fra i monti del Molise rendeva ciò poco credibile. Sei stagioni di scavo hannodato profondità e prospettiva alla storia, portando San Vincenzo al rango di uno dei siti piùimportanti del periodo altomedievale in Europa occidentale.

23 Chronicon Vulturnense, cit., 1, p. 36 s

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Riccardo Francovich

Un villaggio di minatori e fonditori di metallo nella Toscana del Medioevo:San Silvestro *

In Italia, nonostante la ripresa di interesse verso i temi della storia della metallurgiapreindustriale1, i problemi dell'estrazione e della lavorazione siderurgica hanno trovato in ambitoarcheologico postclassico uno spazio molto limitato e confinato all'epoca moderna. E questononostante la centralità che tale aspetto della produzione ha avuto in epoca medievale ed inparticolare per quell'area della costa toscana che fino dall'epoca etrusca è stata intensamentesfruttata per le sue risorse minerarie2.I1 progetto di scavo archeologico intorno al villaggio minerario di Rocca San Silvestro(Campiglia Marittima-Livorno), intrapreso nel 1984 dall'Insegnamento di Archeologia medievaledell'università di Siena, vuole viceversa riproporre la tematica, sostanzialmente abbandonatanella sua dimensione di ricerca sul campo da oltre mezzo secolo, in una prospettiva che tengaconto degli aspetti relativi all'estrazione, alle tecnologie della riduzione e della lavorazione nelpiù ampio campo della storia dell'insediamento medievale.L'intervento sul villaggio minerario di San Silvestro si è concentrato, nella prima campagna discavi, sulle strutture urbanistiche del centro, di cui in questa occasione diamo una dettagliataseppure preliminare informazione, mentre nella seconda campagna (1985), oltre che allargarel'indagine all'interno dell'abitato e su parti significative della struttura «castrense», sono stateaffrontate le aree di produzione del ferro e di lavorazione del rame.Il progetto di ricerca che ha al suo centro San Silvestro, comprende inoltre, come di consueto,sistematiche indagini documentarie sia relativamente al sito stesso, sia al territorio circostante,dalla Valle della Cornia alla costa a nord di Castagneto Carducci. Ma la ricognizione sulle fontinon si limita al Medioevo—che nel caso della Cornia hanno un carattere di eccezionalità perl'abbondanza degli atti altomedievali conservati, tale da rendere di straordinario interesse il«confronto» con l'evidenza topografica—infatti le stesse fonti di epoca moderna, e non solo laletteratura e l'erudizione storica ed archeologica moderna, insieme alla cartografia antica, sonooggetto di indagini da parte di un gruppo di studiosi.Le indagini documentarie sono partite in anticipo rispetto alle campagne topografiche, appenainiziate nel 1985, ma già fino da ora possiamo notare come la fonte archeologica (sia a livelloestensivo che intensivo) offra una quantità di informazioni diverse e nuove rispetto alla ricercadocumentaria, e non soltanto per quegli aspetti legati alla storia del popolamento edell'insediamento, sul quale ci siamo già soffermati in altra sede3, ma anche per quegli aspettirelativi all'attività estrattiva e per la storia della siderurgia che per quanto riguarda l'epocapostclassica e preindustriale rimangono un capitolo ancora tutto da scrivere. Si deve infatti *Del tema che trattiamo in questa occasione abbiamo parzialmente già parlato in R. Francovich, G. Gelichi, R.Parenti, Aspetti e problemi di forme abitative minori attraverso la documentazione materiale nella Toscanamedievale, "Archeologia Medievale", VII (1980), pp. 176-205, R. Francovich, Per la storia della metallurgia edell'insediamento medievale sulla costa toscana: lo scavo del villaggio minerario di San Silvestro, "Rassegna diArcheologia", IV (1985), Id., Rocca San Silvestro: an archaeology project for the study of a mining village inTuscany, in Medieval iron in society, Stoccolma 1985, pp. 318-40.1 Per lo stato degli studi si veda il recente volume monografico di "Ricerche Storiche", XIV (1984) dedicato aMiniere e metalli in Italia fra medioevo e prima età moderna e curato da G. Pinto.2 Cfr. L'Etruria mineraria, Firenze 1981.3 Si vedano le pagine introduttive a Scarlino I. Storia e territorio, a cura di R. Francovich, Firenze 1985.

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notare che per questa specifica area, differentemente da quanto sappiamo per il territoriolimitrofo di Massa Marittima, anche le fonti bassomedievali sono, al proposito, di una povertàestrema, mentre ben diverso è il discorso per l'epoca moderna.Le difficoltà della ricerca in questo campo sono aggravate dallo stato della letteraturaarcheologica classica che pare viziata da un peccato originale: quello di aver ignoratogeneralmente l'uso e il «riuso» in epoca preindustriale delle miniere, che sono state considerategeneralmente sfruttate fino solo all'età romana. Tale condizione pone difficoltà non indifferenti achi si trova ad operare sul campo: si tratta in sostanza di ridefinire gli strumenti di datazionedelle miniere e delle fosse, e cioè le diverse tecniche estrattive senza i condizionamentiprovenienti da una tradizione, che pur fra molti meriti, ha la responsabilità di non aver guardatocon sufficiente attenzione ai problemi di continuità e di rottura sui tempi lunghi4.Oltre alle consuete e non sempre facili operazioni di laboratorio legate all'analisi dei materialirinvenuti nel corso dello scavo secondo le indicazioni di un'archeometria sempre più affinata, leproblematiche inerenti la ricerca hanno imposto un'allargamento delle cooperazioni, che non silimitano solo al campo della metallurgia e della geologia (per i quali il coinvolgimento, findall'inizio della indagine sulle strutture produttive, di Tiziano Mannoni costituisce unaimportante e imprescindibile garanzia scientifica), ma si allargano anche a quel settore delladiagnostica archeologica che in strutture monumentali del tipo di San Silvestro si sarebberopotute considerare marginali. Il preventivo riconoscimento dei punti di lavorazione dei metalli(ad esempio) attraverso l'uso di indagini magnetometriche, si è rivelato di grande utilità per poterfar marciare in modo omogeneo ed equilibrato l'indagine sull'insediamento e ha postoimmediatamente il problema del suo allargamento all'esterno delI'area abitata al fine di avere unquadro complessivo delle relazioni fra il sito e il suo immediato territorio. Un problema, questo,sentito in modo già marcato per quanto riguarda l'attività estrattiva; alcune cave, ad esempio, efosse sono state individuate, all'interno dell'area pertinente al castello, e conosciuta ancheattraverso la documentazione scritta, con l'uso della foto aerea5 che ha evidenziato una viabilitàminore ancora solo parzialmente percepibile sul terreno.Di non minore importanza sono i problemi legati alla conservazione e alla fruizione delmonumento stesso. In questo quadro il ruolo di protagonista che l'amministrazione comunale diCampiglia Marittima ha nella gestione del cantiere di scavo e nella partecipazione allaprogettazione dei parchi, coordinata da Italo Insolera, è l'unica certezza che il progetto possaavere un buon fine, insieme alla solidarietà che Soprintendenza ai beni architettonici e storiciartistici di Pisa e Soprintendenza archeologica della Toscana hanno espresso.

Nel corso del 1984 è stato portato a termine dopo un ampio lavoro di disboscamento, che hainvestito l'intera superficie dell'insediamento all'interno delle mura pari a poco meno di un ettaro,il rilievo dello sviluppo planimetrico dell'abitato, che ne ha permesso una prima interpretazione.Nel 1985 è stata riportata in pianta anche 1'area di lavorazione del ferro, posta a sud est dellemura e sono state apportate soltanto alcune piccole integrazioni al primo rilievo. L'insediamentoè circondato da una cinta muraria ben conservata per lunghi tratti, realizzata in muratura a saccocon conci di calcare locale disposti in filari regolari; nel muro, fondato generalmente sulla rocciaaffiorante, si aprono strette feritoie strombate.

4 I progetti di A. Minto, Per una carta archeologica sulle antiche coltivazioni minerarie del bacino mediterraneo"Studi Etruschi", XX (1948-49), pp. 303-39, rimasero tali fino ad anni recenti (cfr. nota 2) e comunque 1'aspettodell'attività estrattiva rimane un campo ancora ampiamente scoperto e che viceversa sta drammaticamentedepauperandosi per il degrado naturale e soprattutto per l'attività di cava che non di rado ha sostituito l'attivitàmineraria (cfr. situazione di Monte Valerio nel Campigliese).5 Per questo aspetto ci gioviamo della collaborazione preziosa di Marcello Cosci della Regione Toscana.

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FIGURA 1Carta di localizzazione

FIGURA 2Sezioni NW-SE e SW-NE del castello di San Silvestro

La costruzione e l'andamento attuale della cinta muraria è comunque il risultato di un processopiuttosto lungo e non si tratterebbe, da una prima analisi, di una costruzione avvenuta in unristretto lasso di tempo; infatti in alcuni casi, soprattutto nella parte ovest, il muro pare checoincida con alcuni tratti in muratura successivamente utilizzati come terrazzamentidell'insediamento, in altri casi, ed è la situazione a sud-est, il muro pare successivo allacostruzione di almeno due strutture abitative che vengono sormontate dal muro stesso. Sul latomeridionale poi, la cinta venne ampliata in un periodo successivo alla definitiva conclusione

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della «muratura», come dimostra il diverso tipo di tecnica utilizzata, e la presenza di merli:probabilmente si tratta di una diversa organizzazione dell'accesso alla porta del castello, come èapparso dallo scavo. All'interno della cinta, sulle ripide pendici del rilievo, si sviluppano le casee gli edifici di servizio, la parte alta dell'abitato è occupata dagli edifici a destinazione militare,religiosa e signorile; l'intero complesso è collegato da una fitta e regolare rete di vicoli, che eratagliata direttamente sulla roccia affiorante.

Area «militare». Nel punto più alto dell'insediamento sorge, su uno sprone roccioso, la torre diguardia, cinta in basso da un contrafforte probabilmente coevo ad un vano che l'affiancava equindi nella parte più bassa troviamo un'altra cinta dove si apriva una porta di fianco a duecisterne poste in parallelo, interne a questo nucleo. Nella parte bassa, la cinta, che presentaalmeno due fasi costruttive, delimitava un'altra struttura abitativa di cui alcuni recenti scaviclandestini hanno evidenziato la pavimentazione in pietra. La torre è realizzata in muratura asacco con bozze perfettamente squadrate ed è di limitate dimensioni (m 4x5), vi si accedevaattraverso una porta che si trovava a circa 3 metri di altezza.Area signorile (6000). L'area che indichiamo con questo termine occupava una piattaformaimmediatamente sottostante il complesso «militare» e sovrastante la chiesa. Tutta l'area eracircondata da strutture murarie, di cui per altro rimangono in vista poche tracce, mentrechiaramente visibili erano i crolli di imponenti strutture abitative.Nel corso della prima campagna di scavi la regolarizzazione di una buca praticata dai clandestiniha evidenziato alcuni strati in relazione a strutture murarie di una fase arcaica (corrispondenteprobabilmente ad una prima fase insediativa, comunque databile ad epoca postclassica), mentresoltanto nel corso della seconda campagna sono state evidenziate strutture abitative, circondateda una struttura muraria di notevole consistenza, che si aprivano in direzione est con una porta. Ilcomplesso, che non presenta edifici monumentali o comunque molto diversi come superficierispetto alle unità abitative del borgo, aveva una sua definizione ed un suo rapporto organico conl'«area militare», e con questo costituiva il «cassero». Un elemento ancora in fase di studio,perché emerso nel corso della seconda campagna, è l'apparecchiatura muraria delle struttureemerse che rimanda ad una prima fase costruttiva.Ecclesia de Rocca a Palmenti (1000). La chiesa aveva un suo spazio definito, fra il «cassero» e il«borgo», non solo dalle strutture murarie dell'edificio, ma anche dall'area cimiteriale circondatanella parte antistante il sagrato da un muro di terrazzamento, rialzato in più tempi e da un murodi andamento nord-sud, fra il terrazzamento e le cisterne del «cassero».Il borgo (3000, 4000, 5000, 8000). Le abitazioni del villaggio si trovano, a diversi livelli lungo lestrade del borgo, intorno al nucleo fortificato (o «cassero») sviluppandosi da nord-est a sud-est.Il rilievo ha mostrato che difficilmente ci troviamo di fronte ad un singolo edificio, ma piuttostoa lotti comprendenti due o tre case sorte quindi secondo un minimo di coordinamento, anche senon mancano eccezioni. Si tratta di edifici generalmente articolati su due piani, più difficilmente(forse in un caso) su tre, che sembrano seguire un modulo costante, non tanto per quantoconcerne lo sviluppo planimetrico quanto piuttosto per la superficie abitativa.L'analisi delle tecniche murarie utilizzate per la costruzione del complesso abitativo ha permessofino da un primo esame l'individuazione di almeno due fasi edilizie nella vita del sito, di cui laseconda, che si data con buone probabilità a pochi decenni prima dell'abbandono è relativa adampliamenti e rifacimenti (in alcuni casi si tratta specificamente di rialzamenti). L'impianto dellaquasi totalità degli edifici, pertinente alla prima fase, ma come vedremo questa prima fase ha unasua articolazione ed una sua dinamica, è caratterizzato da muratura a sacco con conci di notevoledimensione disposti in filari piuttosto regolari. Più approssimativo è il tipo di muratura relativoalla seconda fase, dove sono impiegate pietre di medie e piccole dimensioni con una sola facciaspianata, forse di spacco, disposte disorganicamente. Nei frequenti casi dove gli alzati siconservano in buono stato, le finestre superstiti sembrano riconducibili a due tipi principali,

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anche se non mancano varianti. Il tipo più antico sembra essere quello della finestra strombatacon architrave monolitico e più recente invece quello della finestra rettangolare. La coperturadelle case, con tetti a doppio spiovente con travature in legno, era realizzata mediante l'impiegodi sottili lastre di calcare scistoso, che veniva cavato nel poggio di fronte (sud-ovest) e il cui usolocale nel Medioevo è ancora oggi testimoniato nella chiesa di San Giusto a Suvereto.Area produttiva interna (2000). All'interno della cinta muraria esiste un'ampia superficie che sitrova nell'area nord-ovest, sotto la torre, che non presenta evidenti tracce di edifici, ma soltantoterrazzi e tracce di viabilità e scalette incise nella roccia, mentre affiorano notevoli quantità discorie di rame. In tale area abbiamo riconosciuto la zona nella quale si dovettero concentrare leattività produttive ed in particolare quelle appunto legate alla lavorazione del rame. Lo scavoappena iniziato nelle ultime settimane delle campagne del 1985 parrebbe confermare la presenzadi forni per la fusione di rame, mentre le preventive indagini magnetometriche avevano datoesito negativo. La contraddizione potrebbe spiegarsi con il fatto che l'anomalia riscontrabileattraverso l'intervento magnetometrico nei punti di fuoco non sarebbe rilevabile in quell'areadove la concentrazione del calore avviene direttamente sul calcare, privo di minerali ferrosi.Area produttiva esterna alle mura (9000). In quest'area, disboscata nel 1984, sono emersi dueampi vani rettangolari, appoggiati al fronte di una più antica cava di calcare (utilizzata per lacostruzione degli edifici dell'insediamento probabilmente della prima fase); con l'analisimagnetometrica si è potuto evidenziare un punto di anomalia che si è quindi rivelato una fornace«alla catalana» per la lavorazione del ferro solo nella campagna del 1985. Si è così evidenziatoun uso in almeno tre fasi dell'area: I, cava, II, area di lavorazione del ferro, abbandonata già nelcorso del XII secolo, III, ovile o ricovero per animali.Il riconoscimento della viabilità circostante il castello ed il suo limitatissimo interland agricolocon i piccoli terrazzamenti per olivi e i «petia de terra» a destinazione cerealicola sono problemi,al momento, appena impostati.Per concludere questa prima analisi descrittiva ci pare possibile prospettare alcune ipotesirelative al nucleo di popolamento che questo insediamento poteva accogliere. All'internodell'«area militare» riteniamo possibile che potessero alloggiare fra le 10 e le 15 persone, forsesolo poco più nell'«area signorile», mentre nel borgo, considerando che dovettero essere in usocontemporaneamente nella fase di massimo sviluppo (XIII secolo) fra le 40 e le 45 case,dovevano vivere approssimativamente dalle 230 alle 260 persone.Questo calcolo si basa su una lettura dell'analitico rilievo condotto nel corso della primacampagna di scavo e non tiene conto delle possibilità prospettate nel corso della secondacampagna, quando analizzando l'«area industriale» interna si è affacciata l'ipotesi che la suadestinazione ad area di lavorazione sia stata successiva ad un primo uso insediativo. In questocaso, che deve essere comunque confermato, si potrebbe ipotizzare un nucleo di popolamentoancora più consistente in una fase anteriore al XIII secolo.Gli obiettivi che ci siamo posti con le prime campagne di scavo sono puntati ad ottenere risultatirelativamente a:

1. La dinamica dell'insediamento stesso dalle sue origini, siano esse preromane o medievali, e inquesto secondo caso «mettere a confronto» evidenza archeologica e documentazione scritta.

2. Le caratteristiche dell'insediamento bassomedievale, in particolare:

a) quale era l'articolazione urbanistica (già in parte «letta» attraverso il rilievo planimetrico);b) quali trasformazioni ha subito tale assetto per giungere alla sua definizione;c) come era organizzato lo spazio interno alle abitazioni e agli edifici di servizio;d) in quali modi e in quali forme era organizzato il lavoro siderurgico (in particolare, sapendodalle analisi dei campioni di minerali e di scorie, raccolti superficialmente dal 1979, che San

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Silvestro era stata sede di un'industria differenziata per la lavorazione del ferro, del rame eprobabilmente anche di zinco e piombo6, è nostra intenzione capire se ci sia stata unasuccessione cronologica nella produzione dei singoli metalli, o se c'era viceversacontemporaneità; e, in questo contesto, naturalmente cogliere le peculiari tecnologie produttive).

FIGURA 3Rilievo planimetrico dell’abitato di San Silvestro. Area 6000: area signorile ai piedidell’area militare (torre). Aree 5000, 8000, 3000: edifici pertinenti al borgo. Area 2000:area di produzione del rame. Area 9000: area di produzione del ferro.

Nel corso del primo anno di intervento si è tentato di dare risposta a questi quesiti indagando:

1. tre diverse situazioni all'interno dell'area del borgo (aree 3000, 4000, 5000);2. la chiesa (area 1000);3. l'«area signorile» (area 6000), attraverso una prima «pulizia» di una sezione evidenziata dascavi illegali, dove si poteva immaginare di cogliere la lunga durata dell'insediamento.Dando alle stampe il rapporto preliminare relativo alla prima campagna di scavi, quando si staconcludendo la seconda, che ha ampliato i termini dell'analisi delle strutture murarie presentatada Parenti e gli stessi termini dell'intero progetto, non sarà forse inutile accennare in pochissimeparole alcuni punti affrontati nel secondo anno di ricerche.

6 Cfr. Francovich, Gelichi, Parenti, Aspetti e problemi, cit., p. 206.

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Non avendo avuto possibilità di intervenire sull'area cimiteriale, per motivi «tecnici» (problemidi stabilità di un muro a retta), l'intervento nell'area dell'abitato si è concentrato su un lottofrazionato in abitazioni, dove la «programmazione» urbanistica del centro era più facilmenteleggibile e dove è stato possibile riconoscere una fase costruttiva precedente a quelle già evidentiin elevato, caratterizzata da una tecnica muraria molto più imprecisa e approssimata rispettoall'uso del «filaretto» di epoca pienamente «romanica»; che al momento non possiamo escluderepossa costituire la prima fase insediativa. Nell'area dell'abitato è stato inoltre parzialmentescavato un ampio terrazzo, che costituiva un «casalino», un lotto predisposto per la costruzionedi una casa, mai avvenuta 7.Nell'area signorile, l'allargamento dello scavo sulla parte sommitale, a differenza di quantopotevamo aspettarci, ha evidenziato un ampio piazzale delimitato da unità abitative di superficiesostanzialmente omogenee a quelle del borgo che presentavano una tecnica costruttiva di primafase, giunte fino al Bassomedioevo. E questo è un elemento di notevole interesse, che se rimaneferma l'interpretazione dell'area come quella occupata dai Della Rocca, signori del castello, apreprospettive di ricerca particolarmente stimolanti per lo studio delle condizioni materialid'esistenza dei ceti egemoni.L'intervento sulle strutture produttive oltre che offrire dati rilevanti sulle tecnologie, di cuineppure diamo cenno, ha mostrato come la produzione di ferro nell'area 9000 sia cessata alla finedel XII-inizi XIII secolo e viceversa come nell'area 2000 la produzione di rame abbia avuto unamaggiore continuità.Le condizioni di conservazione dell'insediamento e la «fossilizzazione» di una parte del territoriocircostante, in particolare la valle del Manienti, a conclusione delle prime indagini e ricognizioni,hanno confermato il potenziale informativo che questo sito può esplicitare, in considerazionesoprattutto della «specializzazione» delle sue risorse economiche. È chiaro che l'attività agricoladegli abitanti del castello costituiva soltanto una piccola ed integrativa parte della vitaeconomica, riducendosi probabilmente alla copertura delle mere necessità di sussistenza,affiancata da un'attività pastorale che nel corso del XIV e XV secolo diventerà sempre piùrilevante fino ad essere l'unica attività praticata su un territorio abbandonato. La popolazione diSan Silvestro aveva nell'attività mineraria e nella lavorazione siderurgica la base della propria«ricchezza», tutta da quantificare ma esemplificata da una presenza di ceramica che trovaconfronti come qualità soltanto in contesti urbani e non in contesti rurali8.Il dato essenziale che emerge dalla lettura delle permanenze archeologiche, dalle struttureabitative e dai circostanti resti di attività estrattive è che la maggior parte degli abitanti, se non latotalità, era dedita a tale attività, mentre rimane da capire se il lavoro siderurgico fosse«specializzazione» nel quadro di una già consolidata divisione del lavoro oppure se si trattava diun lavoro stagionale o comunque praticato dagli stessi «cavatori»9. Come da chiarire sono gliaspetti giuridici del rapporto che doveva esistere fra l'«universitàs» degli abitanti e i signori delcastello, che, come abbiamo notato, non hanno lasciato un «signum» particolarmente evidentenel tessuto abitativo, pur avendo la certezza della loro presenza nel sito.Alcuni degli interrogativi ancora aperti potranno trovare soluzione con l'avanzamento delloscavo, quando, ad esempio attraverso lo studio dei forni da ferro e da rame, sarà possibile avereelementi di quantificazione della produzione in relazione alle risorse di minerale presenti nellepertinenze del castello; appare infatti difficile immaginare l'importazione di materie prime da

7 Il rinvenimento di maiolica arcaica negli strati di riempimento fa ritenere probabile che la costruzione del lotto sisia conclusa nel corso dei primi decenni del XIV secolo, quando ormai la "crisi" aveva già colpito San Silvestro.8 Per alcune prime osservazioni sui materiali ceramici oltre che le relazioni sulle singole aree di scavo si vedano lemie brevi note Per la storia della metallurgia, cit., p. 28.9 Stupisce al proposito l'assoluto silenzio delle fonti, che contrasta con quanto viceversa sappiamo per l'Isola d'Elba(cfr. L'estrazione e la lavorazione del ferro elbano sotto il comune di Pisa, in M.W., Miniere e ferro dell'Elba daitempi etruschi ai nostri giorni, Roma 1938, pp. 35 55.).

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altri territori, anche se per quanto riguarda i minerali di ferro si devono approfondire le analisiche ci permettono di accertarne la provenienza.Ancora sostanzialmente da affrontare rimane il problema dell'origine dell'insediamento. I dueframmenti di ceramica a figure rosse non sono una spia sufficiente per farci ipotizzare lapreesistenza di un abitato preromano, potendo trattarsi di riusi provenienti da luoghi vicini e bendocumentati in epoca etrusca: lo stesso uso della «panchina» di San Vincenzo, unica pietraproveniente da siti leggermente distanti da San Silvestro, e utilizzata in epoca etrusca, ci paredifficilmente individuabile come un indizio per ipotizzare nella zona del castello un'area diinumazione, essendo stata utilizzata soltanto nella fase più tarda delle costruzioni medievali e inmodo limitato.La stessa prima fase di insediamento medievale non è stata individuata con chiarezza anche seappare assai probabile che anteriormente all'impianto degli edifici «romanici», coevi allacostruzione della chiesa, nella sua prima redazione, sia esistito soltanto l'impianto, rinvenuto in«lacerti» nell'area 8000 e nell'area signorile, riferibile ad un'epoca non più alta del X secolo.In questo contesto appare chiaro comunque come San Silvestro fosse già ampiamenteconsolidato, come unità di popolamento, nel XII secolo: è infatti riferibile a questo secolol'ampliamento della chiesa, indice esplicito dell'incremento demografico. Interessante notare lacoincidenza di questo fatto con l'incremento della domanda di metalli che proprio in quel secolosi dilatò sotto la spinta dei bisogni cittadini. Il problema dell'origine dell'insediamento medievalerimane uno dei temi più significativi della ricerca anche per tentare di cogliere se esiste unrapporto fra l'iniziativa signorile e lo sfruttamento delle risorse minerarie.Per quanto concerne i motivi dell'abbandono del sito possiamo avere dallo scavo soltanto parzialiinformazioni, mentre molto possiamo sapere sui modi dell'abbandono. Appare infatti chiaro chedalle tre diverse situazioni analizzate la fine dell'insediamento pare legata ad un processo diluitoche inizia già verso la metà del secolo (area 5000), si allarga probabilmente intorno alla secondametà (area 5500 e 4000), per concludersi definitivamente nei primi decenni del XV (area 3000).Verso questa interpretazione di lenta estinzione spingerebbero alcune indicazioni archeologiche,come la presenza di muretti a secco lungo viabilità interne minori che sembrerebbero costituireuna chiusura progressiva di aree dell'insediamento, anche se pare contraddittoria la presenza dinumerosi manufatti, anche in ferro e quindi di un certo pregio, all'interno di alcune struttureabitative (area 5000).Se infatti non abbiamo informazioni relative ad episodi traumatici (fatti militari o accidentinaturali), che hanno determinato la fine dell'insediamento, pare probabile pensare che ildissanguamento del villaggio sia stato provocato da tutta una serie di fattori, fra i quali ricoprìprobabilmente un ruolo non marginale il diffondersi delle nuove tecniche di lavorazione deiminerali, che richiedevano una diversa organizzazione degli spazi per la produzione e una nonmeno vitale vicinanza con corsi di acqua. Inoltre non dovette essere estranea alla fmedell'insediamento l'espansione politica pisana, che tese ad abbattere ogni superstite emergenzasignorile, di cui sono espressione da un lato l'abortito tentativo di fondazione della terranuova diSan Vincenzo e dall'altro il viceversa riuscito incremento d'importanza affidato al ruolo diCampiglia, che divenne il centro di popolamento più consistente della zona sotto l'egemonia diPisa.Oltre che a San Silvestro sono state rinvenute aree di scorie di lavorazione del ferro nel castellopre-trecentesco di Fornoli presso Roccastrada10, scarti di lavorazione di minerali ferrosiprovengono anche dai castelli di Cugnano e di Rocchette (a nord-ovest di Massa Marittima) 11,mentre contemporaneamente sappiamo di lavorazioni stagionali per la lavorazione del ferro

10 Ricognizioni topografiche 1984 a cura dell'Insegnamento di archeologia medievale, università di Siena (resp.Silvia Guideri).11 Campioni raccolti nel luglio 1985 da chi scrive su segnalazione di Moreno Bargelli.

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lungo la costa toscana, e in particolare nell'entroterra populoniese ad opera di «fabbri» pisani12, enella pianura, presso corsi di acqua, per iniziative di strutture religiose, generalmente cistercensi(a San Galgano, ma soprattutto a Giugnano, vicino a Roccastrada13 dove sono stati rinvenuti restipertinenti ad un forno). Ci troveremmo in sostanza di fronte a diversi modi di organizzazionedella produzione metallurgica, una legata al sistema signorile attraverso l'uso di aree incastellatee le altre legate a iniziative cittadine e/o monastiche, che razionalizzando le tecnologie, inparticolare attraverso l'uso dei corsi di acqua per azionare i mantici dei forni, cancellerà nel corsodel XIV secolo un modo di produrre di cui soltanto ora cominciamo ad avere un primo quadro.In questo contesto la ridiscussione di quanto fino ad ora già dato per scontato relativamente aigrandi accumuli di scorie di rame accanto ai «forni» di Madonna di Fucinaia, che vengonogeneralmente attribuiti ad epoca preromana, potrebbe aprire un margine nuovo di discussione. Seinfatti non si esclude che le scorie di rame possano essere tardomedievali, cosa da accertare enon affatto scontata, ma non per questo impossibile, potremmo trovarci di fronte ai resti diun'attività produttiva promossa dal centro di Campiglia, per iniziativa pisana, di una talerilevanza, che non può non aver condizionato le sorti della più modesta attività siderurgica diSan Silvestro.

12 Cfr. S. Gelichi, Impianti per la lavorazione del ferro sul promontorio di Piombino , "Ricerche storiche", XIV(1984), pp. 35 SS.13 Vedi nota 10.