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Françoise Balibar

EINSTEIN 1905

Dall’etere ai quanti

Prefazione diCarlo Bernardini

Traduzione e postfazione diLuisa Bonolis

EDIZIONI KAMI

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ISBN 88-89564-08-3

Copyright 2005 Edizioni Kamiper la traduzione italiana

Traduzione di Luisa Bonolis

Cover di Ariela ParraccianiGrafica di Daniela Lisi

Kami-Fabbrica di Idee

Via del Leone 13, 00186 Roma

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Prefazione

Tra le attivitè umane, la fisica e – forse – la matematica hanno, dal1600 in poi, una irruenza senza uguali. II numero di fatti interpretati perunità di tempo (anno per anno) è enorme: troppi, per l’uomo comune,cioè per chi non sia spinto da quella curiosità che determina l’incredibileaccelerazione della ricerca. Il linguaggio astratto sbarra la via ai non ad-detti ai lavori, la fisica sta abbandonando il senso comune per costruireun universo al tempo stesso reale e inedito, senza limiti di spazio e tempo.È il trionfo dei fisici-matematici, una categoria di scienziati che aveva ri-formulato tutta la teoria costruita sulle idee di Newton in modo che ladescrizione naturale fosse, oltre che aderente ai fatti, ricca di proprietàinaspettate (sistemi periodici, modi normali, costanti del moto, variabilid’azione, invarianti adiabatici e così via). Innovazioni sublimi per l’esper-to, astruse e incomprensibili anche per i colti non specializzati. In questaesplosione di scienza dura arriva il giovane Albert Einstein. Liquidarlocon l’appellativo superdotato sarebbe ingiusto e riduttivo. Però, bisognadire qual è il suo merito principale: semplificare. A che serve l’etere elet-tromagnetico? A niente. Via, allora! Che vogliono dire i dati dell’effettofotoelettrico? Come fluttua la materia fatta di atomi? Come avvienel’emissione indotta da radiazione? Perché non si riesce a distinguere uncampo gravitazionale da un riferimento non inerziale? Eccetera. Le sueproposte sono inattese, folgoranti, spregiudicate. L’ambiente scientificosi scuote, entra in agitazione. Rifiuta, come tutti gli ambienti conser-vatori, quasi come una comunità di religiosi: c’è una scienza rifinita dasalvare, non sarà che non è stato interpretato bene ciò che è già scrittonelle equazioni dei meccanici? Una muta accanita di tradizionalisti gliè subito alle calcagna, per azzannarlo, screditarlo, dimostrare che le sue

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idee fanno a pugni con i fatti. Ma fanno buchi nell’acqua. Einstein re-siste a tutto: ha cambiato nientemeno che le idee di tempo, di spazio edi materia, i pilastri delle osservazioni e delle rappresentazioni mentaii; eora le sue novità stanno decantando nella testa dei grandi d’inizio secoloche, uno dopo l’altro, riconoscono quella che è a un tempo la potenzae la bellezza della relatività e della teoria della gravitazione, ma anchela teoria della radiazione, la meccanica statistica, la cosmologia: le ideeeinsteiniane allagano tutta la fisica, nulla si salva delle vecchie fondamen-ta che appaiono ben presto solo una ragionevole approssimazione utilein casi legati alla dimensione umana ma insufficiente a quella cosmicao a quella microscopica. Pensate: l’indistruttibilità della materia, attodi fede del grande chimico Lavoisier che, su di essa, fonda la chimicamoderna, svanisce come fondamento e si muta nella formula più cele-bre del mondo, che sancisce l’equivalenza materia-energia: E = mc2.I grandi capitolano, uno dietro l’altro: Poincaré, Lorentz, Planck, Born,Sommerfeld; i più giovani nascono già einsteiniani convinti, da noi Fermi,Majorana, Gentile jr., Persico. Il rifiuto è ormai appannaggio dei matti”,una categoria che segue il carro della scienza come uno sciame di meteo-re. Lo sforzo di propagandare le idee del nostro non è mai abbastanza.Ecco, questo libro dà una buona mano all’impresa; certamente utile è laposfazione che, come è buona abitudine, fornisce un ampio contesto diriferimento, le condizioni iniziali. Come si capirà, da quel fatidico 1905la fisica non è finita, ma è diventato sempre più difficile cambiare ciò chesi sa.

Carlo Bernardini

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Capitolo 1

Introduzione

«Se ho visto più lontano, è avvenuto salendo sulle spalle dei gigantiche mi hanno preceduto». Questa affermazione è tradizionalmente at-tribuita a Newton. Essa conviene altrettanto bene, se non meglio, adEinstein. Einstein non è quel puro genio, quell’angelo Gabriele, apparsod’improvviso nel cielo della scienza all’inizio del secolo che una storiamitica dell’umanità ha immaginato.1 Einstein è il continuatore di unatradizione intellettuale, quella della fisica moderna inaugurata da Galileo;come tutti i suoi contemporanei, è l’erede di un nodo di problemi chehanno per origine l’opera di un “gigante”, Newton appunto, e che egliha (in parte) risolti, non tanto perché sarebbe stato dotato di un poteresoprannaturale, ma perché è salito sulle “spalle” di altri “giganti”, suoipredecessori, che si chiamano Faraday, Maxwell e Lorentz.

Nel 1905, un giovane, Albert Einstein, ebreo tedesco che aveva direcente acquisito la cittadinanza svizzera, allora impiegato presso l’Ufficiodei Brevetti di Berna, pubblica uno dopo l’altro cinque articoli negliAnnalen der Physik, la più importante rivista scientifica della Germaniae dunque (all’epoca) del mondo.

Tra questi cinque articoli, tre ci interesseranno particolarmente qui.Essi hanno per titolo, in ordine cronologico di pubblicazione:

1In realtà, il “mito Einstein” data dal 1919 quando le osservazioni effettuatedalla spedizione inglese di Eddington confermarono uno dei risultati della teoria dellarelatività generale. Questo mito è stato interamente creato per ragioni politiche: fardimenticare la Grande Guerra ed esaltare la cooperazione tra gli scienziati di tutto ilmondo, contro gli odi nazionali.

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Introduzione

– “Un punto di vista euristico concernente la produzione e la tra-sformazione della luce”; – “Elettrodinamica dei corpi in movimento”; –“L’inerzia di un corpo dipende dal suo contenuto energetico?”

Nel primo, scritto in marzo, Einstein avanza l’ipotesi detta dei “quan-ti di luce” (che diventeranno in seguito i nostri moderni “fotoni”), ipotesisecondo la quale la luce è costituita da grani di energia, da “atomi diluce” in qualche modo. Il secondo articolo, datato giugno, è l’articoloprincipe della teoria della relatività ristretta che, come è noto, ha scon-volto le nostre concezioni del tempo e dello spazio. Quanto al terzo, unasorta di post scriptum al precedente, apparso in settembre, contiene la(troppo) famosa formula E =mc2.

Questo libro ambisce a mostrare che i tre articoli, dai titoli così di-sparati, tentano tutti e tre di rispondere a una unica e stessa domanda:che cos’è la luce?

Sorprenderà forse il fatto che, nel 1905, all’inizio del secolo, la naturadella luce abbia potuto ancora costituire problema. Tuttavia è questoil caso. Si può perfino dire che la luce durante due secoli è stata laquestione fondamentale della fisica.

Newton già nell’Opticks, la sua ultima grande opera scientifica, riela-borata fino alla sua morte (nel 1729), aveva formulato, a guisa di testa-mento scientifico, un elenco di trentuno domande (Queries), di ordinegenerale, ma che si riferiscono tutte alla luce:

Query 5 - I corpi e la luce agiscono reciprocamente gli uni suglialtri: i corpi, sulla luce emettendola, riflettendola, rifrangendola eflettendola; e la luce sui corpi riscaldandoli. . . ?

Query 29 - I raggi di luce non sono dei corpi assai piccoli emessidalle sostanze brillanti? Perché tali corpi passeranno in linea rettaattraverso i mezzi uniformi senza curvarsi nell’ombra, secondo lanatura dei raggi della luce?2

2I. Newton, Opticks, 1704.

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Introduzione

Da qui è nata l’opinione generalmente diffusa secondo la quale New-ton concepiva la luce come un insieme di corpuscoli opinione suffragatae giustificata dalle loro reciproche trasformazioni:

Query 30 - I corpi dotati di volume non sono convertibili in lucee la luce in corpi dotati di volume? [. . . ] Perché tutti i corpi fissiuna volta riscaldati emettono luce finché sono sufficientementecaldi e reciprocamente la luce si arresta nei corpi ogni volta che isuoi raggi vengono a colpire le loro parti.

Ma fare di Newton un sostenitore incondizionato della concezionecorpuscolare è dimenticare che alla Query 17 egli propone di spiegare ilfenomeno dell’interferenza3 con l’aiuto di una analogia ondulatoria: egliparagona la propagazione della luce a quella delle onde generate dallacaduta di una pietra sulla superficie di un’«acqua stagnante». Sebbeneconcluda affermando che «la natura della Luce non può essere unicamen-te ondulatoria». Resta tuttavia che è obbligato a far ricorso all’ipotesiondulatoria per spiegare il fenomeno dell’interferenza.

Si vedrà che Einstein, nel suo primo articolo del 1905, giungerà, perragioni del tutto differenti, alla stessa conclusione: la luce non è soltanto

3Quando si fanno “incontrare” due luci (o più esattamente: quando si fanno so-vrapporre due fasci di luce) si osserva (in certe condizioni che non è necessario quiprecisare) un’alternanza di zone brillanti e di zone oscure nel luogo dell’“incontro”.Queste “frange” segnalano l’“interferenza” (nel senso che questa parola ha nel lin-guaggio ordinario, di interazione più o meno ostacolante) di due fasci di luce. Si èqui in presenza di un fenomeno radicalmente differente da ciò che avviene quando sifanno “incontrare” due particelle (per esempio in un gioco di biglie): invece di urtarsie di cambiare direzione, come fanno le particelle, i fasci di luce si sovrappongono “in-terferendo”, e proseguono la loro propagazione, al di là della zona di incontro, comese nulla fosse. Si può riassumere il fenomeno dell’interferenza in maniera paradossale,dicendo che in questo caso 1 + 1 non fanno 2: in effetti, nella zona di incontro, 1 + 1possono localmente fare 0 (nel luogo delle frange oscure). Di fatto, non c’è paradossose non quando ci si limita, nella rappresentazione dei fenomeni fisici, ai numeri reali;si sa che nell’algebra dei numeri complessi, la somma di due numeri dipende dalle loro“fasi” rispettive e non è la somma “ordinaria” se non quando la differenza delle “fasi”è nulla.

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Introduzione

di natura ondulatoria, alcune delle sue proprietà obbligano ad attribuirleugualmente una natura corpuscolare.

Ma come avviene che questa conclusione, già chiaramente espressadunque, in Newton, abbia potuto nel 1905 passare per rivoluzionaria?

Il fatto è che, dopo aver per un istante seguito quello che credevanoessere l’insegnamento di Newton, i fisici erano stati costretti ad adottareun punto di vista che ritenevano contrario al primo, cioè una concezio-ne ondulatoria della luce, nella quale quest’ultima era vista come uncontinuo.

Lo studio dello stesso fenomeno di interferenza, reso sempre più pre-ciso dal miglioramento dei mezzi di osservazione, esso stesso legato allosviluppo delle tecniche di costruzione degli strumenti ottici, aveva in ef-fetti obbligato i fisici ad abbandonare la teoria corpuscolare, di caratterediscontinuo, e ad adottare una concezione ondulatoria di tipo continuo.Infatti, mentre è impossibile spiegare in una visione corpuscolare (in cuisi numerano gli oggetti) come 1+1 possa fare 0 (il che, vedere la nota4, è l’essenza stessa del fenomeno delle interferenze) la difficoltà scom-pare se si adotta una teoria ondulatoria e la rappresentazione per mezzodi “numeri” complessi che soli permettono di ottenere che 1 e 1 nonfacciano sempre 2, ma possano fare 0).4

Si potrebbe immaginare che i fisici si siano allora forgiati una rappre-sentazione mista della luce a metà ondulatoria a metà corpuscolare. Ora,non è così; in effetti ci si era resi conto che è possibile, con l’aiuto deiconcetti ondulatori, interpretare, oltre le interferenze, i fenomeni d’om-bra, di rifrazione, di riflessione, etc. che Newton interpretava in terminicorpuscolari. Divenuta così superflua, la concezione corpuscolare dellaluce era stata abbandonata in quanto rappresentazione della realtà dellaluce.

4Non è inutile far notare che oggi, per un fisico ragionevolmente “esperto” l’os-servazione di interferenze (rivelate dalla comparsa di “frange”, cioè di zone dove lasovrapposizione di due effetti dà alternativamente un rafforzamento o un annullamentodei due effetti stessi) segnala la natura ondulatoria del fenomeno studiato.

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Introduzione

Di qui era nata l’idea, da una parte che il mondo materiale (as-semblaggio di corpuscoli secondo la concezione newtoniana) dipende dalconcetto di particella e di discontinuo, mentre l’irraggiamento (la luce)dipende dal concetto di onda e di continuo; e d’altra parte, che i dueconcetti, di onda e di particella, sono antitetici, poiché l’uno dipendedal continuo e l’altro dal discontinuo e inoltre ciò che spiega l’uno èinspiegabile per mezzo dell’altro.

Queste poche precisazioni erano necessarie per comprendere in checosa la conclusione del primo articolo di Einstein (sui quanti di luce) do-veva sorprendere nel 1905. Ma, com’ è stato detto, l’oggetto di questolibro è di dimostrare che tutti gli articoli scritti da Einstein nel 1905, eparticolarmente il secondo che tratta di relatività (e dunque del movi-mento, dello spazio e del tempo) procedono dalla stessa preoccupazionefondamentale.

Einstein stesso ci indica, in una conferenza tenuta a Salisburgo nel1909 davanti a una assemblea di fisici, la pista da seguire:5

Da quando è stato constatato che la luce presenta fenomeni diinterferenza e di diffrazione, apparve praticamente incontestabileche essa dovesse essere concepita come un movimento ondulatorio.Dato che la luce era capace di propagarsi nel vuoto, si dovette im-maginare che esistesse, ugualmente nel vuoto, una sorta di sostan-za particolare che permette la propagazione delle onde luminose.Per interpretare le leggi di propagazione della luce nei corpi ponde-rabili, fu necessario supporre che questa sostanza, che fu chiamataetere luminifero, vi si trovasse anch’essa e che fosse essenzialmen-te l’etere luminifero all’interno dei corpi ponderabili a permetterela propagazione della luce. L’esistenza di questo etere luminiferosembrava incontestabile. Nell’ultimo volume, pubblicato nel 1902,del suo eccellente trattato di fisica, Chwolson scrive: «La probabili-

5A. Einstein, L’evoluzione delle nostre concezioni sulla natura e la costituzionedell’irraggiamento, Salisburgo 1909 [Il testo italiano è presente nel volume AlbertEinstein, Opere Scelte, Bollati Boringhieri (1988), a cura di Enrico Bellone].

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Introduzione

tà dell’ipotesi secondo cui esiste un tale agente confina in manierastraordinaria con la certezza».

Come si vede, è il concetto di etere a costituire il denominatorecomune delle ricerche di Einstein nel 1905. Questo concetto è oggilargamente dimenticato ( o almeno non fa più parte dell’arsenale concet-tuale dei fisici) per la ragione appunto che l’articolo di Einstein del 1905sulla relatività ne ha suonato la campana a morto, mostrando che erasuperfluo.

Tuttavia, come indica Einstein, questo concetto era, prima del 1905,uno degli elementi essenziali della concezione ondulatoria.

Einstein aggiunge:

Ma oggi, bisogna considerare l’ipotesi dell’etere come un pun-to di vista superato [è, si è visto, una delle conclusioni dell’articolosulla relatività]. È anche innegabile che esiste un insieme di fat-ti relativi all’irraggiamento i quali indicano che la luce possiedealcune proprietà fondamentali che si comprendono molto meglioadottando il punto di vista della teoria newtoniana dell’emissionedella luce piuttosto che quello della teoria ondulatoria [conclusionedell’articolo sui quanti].

La scomparsa del concetto di etere, determinata dalla teoria dellarelatività ristretta, e le modifiche che è necessario apportare alla conce-zione ondulatoria della luce (oggetto dell’articolo sui quanti) vanno dipari passo. Oppure, detto altrimenti: se la luce presenta caratteristichecorpuscolari, l’esistenza dell’etere, elemento essenziale della concezioneondulatoria di tipo continuo, perde la sua necessità.

Ciò che sta a fondamento dei due articoli (quello sui quanti e quellosulla relatività) è la chiamata in causa di una necessità presupposta ovvia(quella dell’etere o quella di una concezione non corpuscolare della luce).Che l’una e l’altra chiamata in causa derivino dallo stesso procedimentointellettuale è segnalato, nel testo appena citato, dalla congiunzione che

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Introduzione

Einstein utilizza per collegare le due conclusioni: «è anche. . . », indicandonel modo più esplicito che le due conclusioni vanno nello stesso senso, sisostengono e si rafforzano reciprocamente.

Seguendo il filo conduttore che parte dal concetto di etere noi tente-remo di comprendere che cosa fa l’unità dei lavori di Einstein del 1905,e anche l’unità della fisica e dei suoi oggetti dopo di allora.

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Capitolo 2

L’etere, il campo, lo spazio

Come giungono i fisici ad ammettere accanto all’idea di unamateria ponderabile, ottenuta per astrazione dalla vita quotidiana,l’idea che esista un’altra materia, cioè l’etere?

Questa è la domanda che pone fin dall’inizio Einstein nella sua lezioneinaugurale all’università di Leida, del 1920.1

Egli risponde immediatamente:

La ragione risiede certamente nei fenomeni che hanno datoorigine alla teoria delle azioni a distanza e nelle proprietà dellaluce che hanno condotto alla teoria ondulatoria. Esaminiamo orabrevemente questi due punti.

2.1 Il concetto di “forza a distanza”

La nozione2 di etere si vede dunque gratificata così di una originedoppia. Origine ondulatoria - come è già stato spiegato nell’introduzio-ne. Origine corpuscolare - come vedremo nel presente capitolo. Questa

1A. Einstein, “L’Etere e la teoria della relatività”, in Albert Einstein Opere Sceltecit. Nel 1920, l’Università di Leida aveva istituito, a titolo eccezionale, una cattedra“su misura” (senza obbligo di insegnamento regolare) per Einstein il quale, a dispettodei suoi sentimenti antitedeschi, avrebbe trovato fuori posto lasciare Berlino proprionel momento in cui le cose rischiavano di cambiare in Germania e i suoi colleghi sitrovavano in una difficile situazione materiale.

2In tutto ciò che segue i termini “concetto” e “nozione” saranno usati in manieraindifferente, e dunque in un senso indefinito. Einstein, nella citazione appena riportata,impiega il termine “idea” in un senso altrettanto indefinito.

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L’etere, il campo, lo spazio

origine corpuscolare (di cui si noterà che è citata in primo luogo da Ein-stein) è, egli ci dice, legata alla nozione di forza a distanza. Per forzaa distanza, bisogna intendere una forza che si esercita tra due oggetti iquali non si trovano a contatto l’uno dell’altro. La forza di gravitazioneuniversale, introdotta da Newton per spiegare le leggi del movimento deipianeti stabilite da Keplero,3 e che costituisce la seconda parte dell’ope-ra di Newton (la prima essendo l’enunciato delle tre leggi che reggonoil movimento di ogni corpo sottoposto a una o più forze) è il paradigmadi queste forze a distanza. Il loro carattere paradossale è accresciutodal fatto che, sebbene agiscano “a distanza”, esse sono “istantanee”, edunque sono ritenute agire immediatamente, senza ritardo, nello stessoistante in cui due corpi vengono posti in presenza l’uno dell’altro - equesto qualunque sia la distanza che li separa.

Duecento anni di insegnamento del sistema teorico di Newton a unlivello relativamente elementare di istruzione, ci hanno resi quasi insensi-bili al carattere sorprendente dell’idea di forza che si eserciti a distanza,senza che ci sia contatto, e istantaneamente. Tuttavia, come spiegaEinstein nella sua conferenza di Leida, questo concetto non ha nulla di“naturale”:

La mente non avvezza all’indagine fisica nulla sa delle azionia distanza. Quando si tenta di stabilire un nesso causale tra leesperienze compiute sui corpi, sembra, a tutta prima, che nonpossano esistere azioni reciproche oltre a quelle che si esercitanoper contatto immediato; ad esempio: trasferimento del moto perurto, pressione o trazione, riscaldamento o combustione provocatada una fiamma, e così via.

Ma, nota allora Einstein, se l’idea di forza senza contatto ci apparecosì strana, è che in realtà, spontaneamente e senza più riflettervi, noitrascuriamo il più “naturale” di tutti i fenomeni: la gravità, fenomeno

3Si veda a questo proposito F. Balibar, Galilée, Newton lus par Einstein, PUF1984, p. 78 e seguenti.

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L’etere, il campo, lo spazio

per il quale i corpi cadono. . . senza che sia possibile vedere l’effetto diuna qualsiasi azione di contatto

Certo, il peso, che è una forza che agisce a distanza, anche nel-la nostra comune esperienza assume una grande importanza. Mapoiché esso ci appare come qualcosa di costante, del tutto indipen-dente da una causa variabile nel tempo e nello spazio, rinunciamoa cercarne una qualsiasi causa, non ci rendiamo conto della suacapacità di agire a distanza. Soltanto la teoria newtoniana dellagravitazione precisò una causa anche per il peso, considerandolocome un’azione a distanza dovuta alle masse. La teoria di New-ton4 costituisce certo la più grande conquista mai compiuta dallospirito umano nel tentativo di ristabilire un nesso causale tra ifenomeni della natura.

Ma questo progresso in direzione di una spiegazione “causale” deglieventi non era in realtà che un mezzo-progresso. Perché, come Einsteinindica in un altro testo5, la causalità fisica è – dopo Newton e precisa-mente dopo l’enunciazione della sua seconda legge del moto dove appareun quoziente differenziale – di essenza differenziale: è istante per istan-te, in ragione della “forza” che gli è localmente applicata, che un corpodescrive la sua traiettoria - e non in ragione di una causa finale per laquale il moto di un corpo sarebbe determinato dal “luogo” verso cuitende (com’è per esempio il caso nella concezione aristotelica del movi-mento). Ora, è ovvio che l’idea stessa di forza che si esercita a distanza ècontraria a quella di causalità differenziale. Una contraddizione comparedunque all’interno stesso del sistema di Newton: il principio di causalitàdifferenziale che sta a fondamento della prima parte di quest’opera (leleggi del moto) è violato in maniera eclatante in ciò che costituisce laseconda parte, l’attrazione (o gravitazione) universale.

4Che concepisce la gravità come l’effetto dell’attrazione “universale” cioè tra tuttii corpi materiali.

5A. Einstein, La meccanica di Newton e la sua influenza sulla formazione dellafisica teorica, in Opere Scelte cit.

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L’etere, il campo, lo spazio

Devo sottolineare – aggiunge allora Einstein – che Newtonstesso conosceva i punti deboli del suo sistema meglio delle gene-razioni di scienziati che l’hanno seguito. Questo fatto ha sempresuscitato la mia ammirazione e il mio rispetto.

In effetti, Newton era cosciente, più di ogni altro, del carattereincompleto del suo sistema:

Ho spiegato fin qui – egli scrive nello Scholium Generale del li-bro III dei Principia6, i fenomeni celesti e quelli del mare per mezzodella forza di gravitazione, ma non ho assegnato in nessun puntola causa di questa gravitazione [. . . ]. Non sono ancora potuto per-venire a dedurre dai fenomeni la ragione di queste proprietà dellagravità, e non formulo alcuna ipotesi7. Poiché tutto ciò che nonsi deduce dai fenomeni è un’ipotesi, e le ipotesi, sia metafisiche,sia fisiche, sia meccaniche, sia quella delle qualità occulte, nondevono essere accolte nella filosofia sperimentale.

Tale rifiuto di includere nei Principia enunciati che sarebbero stati sol-tanto delle ipotesi non ha impedito a Newton, nelle sue lettere e in altriscritti, di considerare le diverse ipotesi possibili. Essenzialmente due, cheappaiono come i due termini di un’alternativa: l’ipotesi dell’etere (qua-lificata nella citazione che precede quale ipotesi fisica e meccanica) el’ipotesi di un potere di gravitazione inerente alla materia (ipotesi “me-tafisica” che si richiama a “qualità occulte”, secondo le parole stesse diNewton).

L’utilizzazione del termine “etere” da parte di Newton richiama laseguente osservazione. All’epoca, l’etere designa in modo assai generaleun certo “mezzo”, che riempie tutto lo spazio e al quale si attribuisce lafunzione specifica di veicolare le interazioni di un certo tipo; da questopunto di vista, si può considerare l’etere luminoso (o come si diceva anco-ra luminifero) introdotto da Huyghens e ripreso più tardi da Fresnel per

6I. Newton, Philosophie Naturalis Principia Mathematica, prima edizione 1687.7Hypotheses non fingo, in latino.

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L’etere, il campo, lo spazio

spiegare le proprietà ondulatorie della luce, come l’etere specifico delleinterazioni luminose. L’etere di cui parla Newton deve dunque essereinteso come l’ “etere della gravitazione”, conduttore e mediatore delleinterazioni gravitazionali; nulla implica che questo etere sia ugualmente“luminifero”.

Detto questo, l’ipotesi dell’etere merita certamente il qualificativodi meccanica che le attribuisce Newton. Essa consiste in effetti, comespiega Einstein nella sua Conferenza di Leida nel «supporre che le forze adistanza di Newton non sono che apparentemente delle forze a distanzaimmediate, altrimenti detto che esse sono in realtà trasmesse sia dai mo-vimenti, sia dalla deformazione elastica di un mezzo permeante l’interospazio»: l’etere. L’ipotesi dell’etere è dunque meccanica per il fatto chepermette di ristabilire la causalità differenziale che è alla base delle leggidella meccanica.

Che Newton abbia preferito l’ipotesi dell’etere a quella delle qualitàocculte al momento della pubblicazione dei Principia non è dubbio. Loprova il fatto che nello Scholium Generale prima citato, subito dopo averproclamato chiaramente il suo rifiuto di ogni ipotesi, egli si senta non dimeno autorizzato a menzionarne una, precisamente quella dell’etere:

Sarebbe qui il caso di aggiungere qualcosa su questa specie dispirito molto sottile che penetra attraverso tutti i corpi solidi e cheè nascosto nella loro sostanza; è a causa della forza e dell’azione diquesto spirito che le particelle dei corpi si attirano reciprocamentealle più piccole distanze, e che esse hanno coesione quando sonocontigue [. . . ] Ma queste cose non possono essere spiegate inpoche parole; e non si ancora eseguito un numero sufficiente diesperienze per poter determinare esattamente le leggi secondo lequali agisce questo spirito universale8.

8I. Newton, Principia op. cit., Scholium Generale, libro III.

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L’etere, il campo, lo spazio

Lo provano ugualmente i giudizi assai severi che egli esprime in privatocontro l’ipotesi delle qualità occulte e contro l’idea che la materia possa«agire là dove non c’è». Egli scrive a Bentley nel 1692 (seconda lettera):

È inconcepibile che la materia inanimata e bruta possa, senzala mediazione di qualcosa che non è materiale, agire su o colpireun’altra materia, senza contatto reciproco, come deve essere ilcaso se la gravitazione è, nel senso di Epicuro) essenziale e inerentealla materia. Ed è una delle ragioni per le quali non ho voluto chemi si attribuisse l’idea di una gravità innata. Che la gravità siainnata, inerente ed essenziale alla materia, in modo che un corpopossa agire su un altro a distanza o attraverso il vuoto, senza lamediazione di un’altra cosa per mezzo della quale e attraversola quale la loro azione e la loro forza possano essere comunicatedall’uno all’altro, è per me una assurdità di cui credo che nessunuomo, dotato della facoltà di ragionare in modo competente nellediscipline filosofiche, possa mai rendersi colpevole. La gravità deveavere per causa un agente che agisca secondo certe leggi costanti;ma che questo agente sia materiale o immateriale, è quanto holasciato alla considerazione dei miei lettori.

Qui ancora il pensiero di Newton si rivela molto più complesso diquanto appare di primo acchito. Poiché taluni passaggi dell’Opticks,redatta nel 1704, cioè 25 anni dopo la pubblicazione dei Principia, la-sciano intendere che Newton non era più allora ostile all’idea di unagravità inerente alla materia. Significativo a questo riguardo è il passodella Query 32, dove Newton, interrogandosi di nuovo sulla natura dellagravitazione9, giunge ad attribuire alle particelle, a fianco delle proprietàgeometriche e inerziali consuete, dei principi attivi:

Tutto questo considerato, mi pare molto probabile che Dio,formò all’inizio la materia delle particelle solide, pesanti, dure, im-penetrabili, mobili, di tali grandezze figure e altre proprietà, in

9Gravitazione e gravità saranno considerati come sinonimi.

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numero tale e in tale proporzione allo spazio come meglio con-veniva al fine che egli si proponeva [. . . ]. Mi sembra d’altrondeche queste particelle non hanno soltanto una forza d’inerzia da cuirisultano le leggi passive del moto; ma che esse sono mosse dataluni principi attivi, quale quello della gravità [. . . ]. Consideroquesti principi, non come qualità occulte, che risulterebbero dallaforma specifica delle cose; ma come leggi generali della Naturadalle quali le cose sono formate10.

A dispetto delle esitazioni di Newton, i suoi successori hanno optatoin generale a favore dell’ipotesi dell’etere. Al tempo stesso perché questaipotesi si accordava bene con la loro concezione - ondulatoria - della luce,e perché essa sembrava loro più conforme alla ragione scientifica di unaipotesi che attribuisca qualità occulte alla materia. Ma bisogna notareche l’etere non ha mai goduto, in seno alla teoria della meccanica, dellostatuto di concetto primo; l’etere (almeno nel caso della gravitazione) èsempre rimasto una ipotesi aggiunta, la cui unica finalità era di assicura-re alla gravitazione una “causa” differenziale. Contrariamente a ciò cheè avvenuto nella teoria ondulatoria della luce, dove l’etere era al centrodella spiegazione fisica e dei calcoli teorici, nella teoria della gravitazione,l’etere è sempre rimasto una ipotesi passiva, formale, senza reale efficaciafisica, la quale non interviene mai in quanto tale nei calcoli meccanici: ladeterminazione sempre più precisa delle orbite dei pianeti, che costituisceil principale titolo di gloria della teoria newtoniana nel XVIII secolo, si ècompiuta senza che fosse introdotto nei calcoli il minimo riferimento auna qualsiasi proprietà fisica dell’etere. L’etere aveva dunque, nel qua-dro della teoria della gravitazione, lo statuto di ipotesi rassicurante, chepermetteva di soddisfare a buon mercato talune esigenze della causalità.Nella loro grande maggioranza, i fisici del XVIII e del XIX secolo hannoadottato l’atteggiamento scettico di Newton:

Basta che la gravità esista, che agisca secondo le leggi esposteda noi, e che possa spiegare tutti i moti dei corpi celesti e quelli

10I. Newton, Opticks, op. cit.

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del mare, che io ho spiegato, e rendere ampiamente conto di tuttii moti dei corpi celesti11.

Come sottolinea Einstein nella sua conferenza di Leida:

Questa ipotesi [l’ipotesi dell’etere], se da principio non portòalcun progresso, né alla teoria della gravitazione né alla fisica ingenere – tanto che ci si abituò a considerare la legge newtoniana[ossia la legge di attrazione in F = Gmm′/r2] come un assiomairriducibile –, esercitò sempre, nel pensiero dei fisici, una funzionemolto importante, sebbene per lungo tempo solo latente.

2.2 Faraday o la critica dell’idea di azione a di-stanza

I fisici si erano dunque assopiti nella sicurezza dei calcoli: il fatto chela legge dei azione gravitazionale a distanza, in associazione alle tre leggidel moto di Newton, permetta di calcolare e di prevedere con precisionestraordinaria12 la posizione degli astri nel cielo evitava di doversi porre ilproblema dei fondamenti della teoria13.

Fu – ma forse non poteva avvenire altrimenti – un outsider, un au-todidatta, in questo caso Michael Faraday, che risvegliò la fisica dal suosogno dogmatico negli cinquanta dell’Ottocento.

11I. Newton, Principia, op. cit., Scholium Generale. libro III.12L’aggettivo “straordinaria” non è qui né fuori luogo né ha nulla di eccessivo:

oggi è ancora sulla base delle equazioni di Newton che vengono calcolate le orbite deisatelliti artificiali.

13La meccanica quantistica si trova oggi in una situazione dello stesso tipo: i suoisuccessi operativi permettono di dimenticare durante un calcolo che i concetti sui qualiessa opera hanno uno statuto teorico mal definito.

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Per Faraday – che non era stato allevato in seno al serraglio della fisicamatematica della sua epoca14 e si era formato “sul campo” realizzandoper altri delle esperienze di cui cercava di comprendere i risultati e leragioni d’essere, con il solo aiuto della riflessione e senza il soccorsodelle matematiche – l’idea di una forza che faccia sentire la propriaazione a distanza e istantaneamente, era semplicemente inaccettabile,incomprensibile15. Come si vedrà, è attraverso la critica concettuale dellanozione di forza a distanza, che Faraday giunge all’idea fondamentaledi campo, determinando così un rivolgimento teorico del quale Einsteinnon esita a dire che rappresenta «il primo grande progresso fondamentalerealizzato dalla fisica teorica dopo Newton16.

Faraday, occorre sottolinearlo, non era il primo a rivolgere uno sguar-do critico al concetto newtoniano di forza a distanza. Newton stesso,si è visto, era perfettamente consapevole del carattere insoddisfacentedi questa nozione. Nel XVII secolo, Leibniz e Huyghens, per non citarealtri, si erano già opposti a Newton su questo punto, sollevando in parti-

14Michael Faraday (1791-1867) aveva cominciato come operaio rilegatore pressoun libraio di Londra. Affascinato dalle conferenze serali alle quali assisteva, avevaottenuto da uno dei conferenzieri di essere assunto al suo servizio come preparatore.In questo modo apprese la fisica.

15In numerose occasioni Faraday ha insistito sul vantaggio di non sapere troppodi matematica. Così, facendo il processo all’erudizione del suo tempo, essenzialmen-te matematica, egli scrive: «È meglio sapere, o anche supporre, che ci si inganni,piuttosto che essere inconsapevolmente condotto a prendere un errore per la verità[il che non manca di avvenire quando l’errore è scritto in termini matematici]. (M.Faraday, Experimental Researches in Electricity, vol. 3, Londra 1839-1855, §3323).Faraday, è l’esempio di chi ha trasformato uno svantaggio (non essere stato educato aOxford o Cambridge dove venivano insegnate le matematiche necessarie alla fisica deltempo) in un vantaggio: «In quanto sperimentatore, sono incline a lasciarmi guidaredall’esperienza e a seguire una qualsiasi linea di pensiero che l’esperienza giustifichi;sono persuaso che l’esperienza, proprio come l’analisi [matematica], conduca alla piùesatta verità se è interpretata correttamente; penso anche che l’esperienza, per proprianatura, sia più capace di suggerire nuovi pensieri. . . ».

16A. Einstein, La meccanica di Newton. . . , cit., Opere Scelte.

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colare la questione seguente: come un corpo può “sapere” dove si trovail corpo che l’attira e verso il quale si dirigerà?

L’obiezione formulata da Faraday nel XIX secolo, è nuova: egli os-serva semplicemente che per attirarsi bisogna essere in due. Da cuiconsegue, in buona logica newtoniana, che un corpo solo nello spaziodovrebbe essere senza effetto; la sua presenza non deve cambiare nullae può accadere qualcosa soltanto se un secondo corpo (B) viene intro-dotto, a una certa distanza dal primo (A); dal momento in cui il corpoB è introdotto, A e B si dirigono uno verso l’altro. Come spiegare, chie-de allora Faraday, questa brusca apparizione di una forza, necessaria almovimento osservato? La ragione non ripugna a questa irruzione di unfenomeno fisico che sembra essere generato esclusivamente dalla solapresenza di B (poiché quando A è solo nello spazio, nulla accade)17? Dadove viene l’energia improvvisamente messa in gioco?

Per coloro che ammettono la legge di Newton [della gravitazio-ne] senza cercare oltre, la nozione di forza di gravitazione specificache la materia attiri la materia con una intensità inversamente pro-porzionale al quadrato della distanza. Consideriamo dunque unacerta massa di materia (o una particella), che per il nostro intentosarà il Sole, e consideriamo un globo simile a quello di uno dei pia-neti, o della nostra Terra, che sia creato o portato da una distanzalontana fino alla posizione che occupa la Terra in rapporto al Sole;si esercita allora l’attrazione della gravitazione e noi diciamo cheil Sole attira la Terra e che la Terra attira ugualmente il Sole. Mase il Sole attira la Terra, questa forza di attrazione deve o nasceredal fatto della presenza della Terra vicino al Sole, oppure esserepreesistita nel Sole in assenza della Terra18.

Si può comprendere questo testo e il successivo soltanto se si inten-de sotto il termine “forza” ciò che lo stesso Faraday (il quale si era già

17Da notare che NewtonNewton, ancora una volta, aveva già lui stesso riflettutoa lungo sul significato del carattere doppio del concetto di attrazione!

18M. Faraday, On some Points of Magnetic Philosophy (gennaio 1855), testoripreso in Experimental Researches op. cit. vol. 3, p. 572.

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forgiato la sua propria terminologia) intendeva, cioè qualcosa di similea ciò che oggi chiamiamo “energia”, senza essere identico (il concettomoderno di energia non era del resto ancora nato all’epoca). Soprattuttonon bisogna identificare ciò che Faraday chiama “forza” con la forza new-toniana (proporzionale all’accelerazione che essa comunica a un corpoe variabile come 1/r2 nel caso della gravità), perché allora l’argomentosviluppato da Faraday nel seguito, e che concerne “la conservazione del-la forza” non ha più senso – una forza del tipo 1/r2 non conservandoevidentemente un valore costante quando r cambia19.

Nel primo caso [si tratta del caso in cui l’attrazione ha perorigine la presenza della Terra vicino al Sole], mi sembra estrema-mente difficile immaginare che la presenza improvvisa della Terra,a 95 milioni di miglia dal Sole, senza che la loro semplice giu-stapposizione possa causare il minimo legame fisico tra loro, siacapace di suscitare nel Sole una potenza che fino allora non esiste-va. Nei confronti della gravità, la Terra deve essere consideratacome in precedenza [prima che i due astri siano messi in presenzal’uno dell’altro] altrettanto inerte quanto il Sole; essa non possiedemaggior potere induttore sul Sole di quanto il Sole ne abbia su diessa; l’uno e l’altra sono supposti non aver alcun potere all’inizio[quando sono separati]. Da dove viene allora che questo poterenasca dal loro semplice avvicinamento o coesistenza? Che un cor-po privo di forza possa generare forza in un corpo che ne è lontano

19I contemporanei , non avendo saputo adattarsi alla nomenclatura poco ortodossadi Faraday, non hanno colto la pertinenza dell’argomento e hanno ridicolizzato il loroautore che peraltro essi riverivano per le sue performances sperimentali. Maxwell,allora giovane studente, non si è ingannato. In una lettera del 9 novembre 1857,fa osservare a Faraday, con tutto il rispetto che la differenza d’età tra i due uominiesige, che il suo modo di esprimersi è ambiguo: «Sono dispiaciuto del fatto che nonriserviamo i nostri termini per cose distinte e non parliamo di “conservazione del lavoroe dell’energia” per designare ciò che si applica ai rapporti tra quantità e vis viva (è iltermine impiegato da Newton nei Principia) o di “tensione del mondo” [. . . ] L’energiaè il potere che una cosa ha di produrre lavoro sia per effetto del proprio movimento,sia per effetto della “tensione” che esiste tra essa e le altre cose. La forza [in sensonewtoniano] è la tendenza che un corpo ha a spostarsi da un luogo all’altro».

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è cosa già molto difficile da immaginare. Ma questa idea diventaancora più difficile da accettare (se ciò è possibile) quando ci sirende conto che essa implica quella di una creazione di forza. Unaforza può essere sviata, ostacolata da un’altra forza, in parte ointeramente convogliata, perfino convertita in un’altra forza (perquanto ne sappiamo); ma non può essere né creata né annullata,ovvero soppressa (cioè resa inesistente senza azione equivalente).La conservazione della forza è ormai un’idea stabilita nella testadei filosofi; e io penso che nel loro insieme, essi sono d’accordoad affermare che la creazione o l’annullamento della forza è altret-tanto impossibile che la creazione o l’annullamento della materia.Ora, se ci rappresentiamo il Sole da solo nello spazio senza cheeserciti alcuna forza di gravitazione al suo esterno e un’altra sfera,ugualmente nello spazio, nella medesima condizione e se, avvici-nandoli l’uno all’altra, supponiamo che ciascuno abbia per effettoche l’altra eserciti un’azione, per il solo fatto della loro presenzal’uno di fronte all’altro – allora ciò che supponiamo non è una sem-plice creazione di potenza, ma bensì una doppia creazione; infattisi suppone che ciascuno dei due oggetti passi da uno stato ante-riormente inerte a uno stato di potere20. Ugualmente, quando idue oggetti si separano, essi ritornano, in conseguenza di questastessa ipotesi, a uno stato senza potere, il che equivale a un annul-lamento di forza. È chiaro che l’argomento sviluppato a propositodel Sole e della Terra, o di una qualsiasi coppia di corpi in intera-zione, è reciproco; è così che la variazione dell’attrazione, secondoil grado di prossimità dei due corpi, implica lo stesso genere dicreazione e di annullamento di potere che quello che richiedereb-be la creazione o l’annullamento dell’uno o dell’altro dei due corpiagenti.

È questa, mi sembra, la conclusione alla quale non si può nongiungere se si suppone che l’attrazione del Sole sulla Terra ha percausa la presenza della Terra (e l’attrazione della Terra sul Solela presenza del Sole). Non resta più che l’altro termine dell’alter-

20Il termine inglese è power. “Potere” è da prendere qui nel senso in cui si parla(in modi che oggi non hanno nulla di scientifico) di un “potere magnetico”.

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nativa: un potere, o una sorgente efficiente di potere, deve esserepreesistito nel Sole (o nella Terra) prima che la Terra (o il Sole) siastata presente. Da questo punto di vista, mi sembra che in virtùdella conservazione della forza, non ci sono che tre casi possibili:o la forza di gravitazione del Sole, quando è diretta verso la Ter-ra, deve provenire da qualche altro corpo al quale essa sarà statasottratta [. . . ]; oppure essa deve consumare una forma nuova diforza per svilupparsi in quanto forza di gravitazione; o infine, essadeve sempre esistere nello spazio infinito estendentesi attorno alSole. Il primo caso non è mai stato considerato e può difficilmentepassare per probabile [. . . ] Il secondo caso, quello di una nuova oaltra forma di potere, non è stata di più considerata in relazionecon la gravità. Ho tentato con degli esperimenti di stabilire unlegame tra la gravità e l’elettricità, ma i miei esperimenti si so-no rivelati completamente negativi. Resta il terzo caso, cioè cheil potere sia sempre presente attorno al Sole nello spazio infinitotutto attorno, che vi siano o non vi siano corpi secondari sui qualila gravitazione possa agire; e questo non vale soltanto per il Sole,ma anche per ogni particella di materia esistente. Penso di po-ter concepire, senza violare la conservazione della forza, il fattoche vi sia costantemente nello spazio una “condizione necessariaall’azione”21, quando in rapporto al Sole la Terra non è sul postoe che ci sia una certa azione di gravitazione risultante da questacondizione anteriore quando la Terra è sul posto. Penso d’altron-de che è ciò che Newton ricercava nella gravità; che, dal puntodi vista filosofico, è ciò che è generalmente ammesso a propositodella luce, del calore e dei fenomeni di irraggiamento; e che (in unsenso più generale e più vasto) è ciò su cui la nostra attenzioneè attratta nell’ora attuale in maniera vincolante e istruttiva, daifenomeni di elettricità e di magnetismo22.

Quando non c’è che un solo corpo nello spazio, c’è ugualmente in

21A constant necessary condition to action in inglese. Qui il termine “condition”non è da interpretare in senso logico; esso è sinonimo di “stato”.

22M. Faraday, Experimental Researches, op.cit., On some Points of MagneticPhilosopy.

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quest’ultimo una “condizione necessaria all’azione” e l’attrazione (o la re-pulsione) – dunque il movimento – risulta da questa condizione anteriore,la quale, in qualche modo, si attualizza quando si introduce un secondocorpo nello spazio. Questa è la principale invenzione teorica di Faraday,l’autodidatta sperimentatore: l’interazione tra due corpi non nasce bru-talmente nel momento in cui i due corpi sono messi in presenza l’unodell’altro; essa preesiste già potenzialmente e in tutto lo spazio quandonon c’è che un solo corpo; in questa prospettiva, il corpo introdotto insecondo luogo svolge il ruolo di “corpo di prova”, di rivelatore: esso ren-de sensibile e manifesta sotto forma di forza (nel senso newtoniano deltermine) la “condizione” che nello spazio crea il primo corpo, prima chevi sia introdotto il secondo.

2.3 L’idea di campo

A questa invenzione si dà il nome di campo e per campo si intende,generalmente, una regione dello spazio dove l’introduzione di un corpodi prova induce un moto di quest’ultimo, rivelando che questa regionedello spazio non era inerte. Così, per esempio, l’introduzione della Ter-ra nello spazio che circonda il Sole fa apparire una forza di attrazionedella Terra da parte del Sole – la quale avrebbe per conseguenza chei due astri cadrebbero uno sull’altro, se la Terra non avesse avuto “inpartenza” una certa velocità laterale che le impedisce in ogni istante dicadere sul Sole. La comparsa di questa forza sul corpo di prova che laTerra rappresenta rivela l’esistenza del campo gravitazionale dovuto allapresenza del Sole. La Terra, si dice in questo caso, si trova “nel campodel Sole”. Reciprocamente, il Sole può servire da test all’esistenza delcampo gravitazionale creato dalla Terra.

Si può, senza esagerare, definire l’invenzione del campo un’idea ri-voluzionaria. È d’altronde l’aggettivo che Einstein impiega a questoproposito: “All’epoca in cui ero studente, era la teoria di Maxwell [e

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di Faraday] a essere oggetto del nostro fascino. Ciò che ci sembravarivoluzionario era il passaggio dalle forze a distanza ai campi in quantograndezze fondamentali”23. Il concetto di forza a distanza e quello dicampo corrispondono a due differenti visioni del mondo: in un caso l’in-terazione è una relazione a due (i due corpi, o particelle, in interazione),nell’altro, si tratta di un processo che fa intervenire tre attori: i due cor-pi. . . e lo spazio nel quale sono immersi. In quest’ultima concezione, lospazio è modificato dalla presenza del primo corpo A ed è questa modifi-cazione che il secondo corpo B, risente sotto forma di forza24. Niente delgenere nella concezione classica dove lo spazio che circonda A e B svolgeun ruolo totalmente muto, è in qualche modo dimenticato: intervienesoltanto (nell’espressione della forza Gmm′/r2) la distanza geometricache separa i due corpi. Lo spazio non interviene in quanto essere fisico,cioè in quanto essere suscettibile di interagire con degli altri esseri, dellealtre cose; lo spazio è infatti insensibile e non reagisce alla presenza diA (o di B) o di un qualsiasi altro corpo che vi si trovi). In questo sensopuò essere definito assoluto. È questo carattere di essere assoluto, indif-ferente alle cose, che l’idea di campo rimette in causa. In questa nuovaconcezione, lo spazio che separa i due corpi A e B svolge un ruolo nellaloro interazione; quest’ultima non “salta più a pie’ pari” la distanza chesepara A e B, com’era il caso fino ad allora. “La forza di Newton – scriveHermann Weyl25 – è una relazione tra due corpi che congiungono le loromani al di sopra di un abisso”.

L’idea di campo, occorre sottolinearlo, è l’idea di uno sperimenta-tore; essa è il coronamento, il punto di arrivo di una vita consacrataall’esperienza e della quale è possibile seguire l’evoluzione, praticamentegiorno per giorno, negli Experimental Researches on Electricity dove so-

23A. Einstein, Autobiografia scientifica, in Opere Scelte cit. p. 76.24Da questo punto, salvo indicazione contraria esplicita, il termine “forza” sarà

impiegato nel suo significato abituale (al tempo stesso newtoniano e moderno).25H. Weyl, Philosophy of Mathematics and Natural Science, Princeton University

Press, 1949.

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no raggruppati insieme i testi pubblicati da Faraday e i suoi quaderni dilaboratorio. In verità, l’idea di campo non è venuta a Faraday studiandola gravitazione – per la ragione molto semplice che l’interazione gravita-zionale è talmente debole che non è quasi possibile fare in laboratorioesperimenti significativi a questo riguardo26. In realtà, Faraday, comemolti suoi contemporanei, studiava le interazioni elettriche (quelle che siesercitano tra i corpi chiamati “elettrizzati”) e magnetiche (quelle che siesercitano tra le calamite). Gli uni e gli altri cercavano di capire e di spie-gare il moto di questi corpi sottoposti a forze specifiche, manifestamentedi un’altra natura che l’attrazione di gravitazione universale. Ma mentreper la maggioranza dei contemporanei di Faraday un tale programma diricerca non poteva compiersi se non adattando lo schema teorico New-toniano a queste nuove forze, Faraday che l’efficacia matematica dellateoria di Newton lasciava indifferente, ma il cui buon senso era urtatodall’idea di forza a distanza istantanea, cercava da parte sua di produrreuna descrizione sperimentale degli effetti osservati.

Per far comprendere bene la radicale novità della fisica del campoinaugurata da Faraday in rapporto a quella dell’attrazione a distanza,conviene esplicitare ciò che significa “adattare lo schema teorico di New-ton”. Dato che la terza legge di Newton (F=ma) permette di calcolarel’accelerazione a – e pertanto il moto – di un corpo di massa m quandosi disponga di un’espressione matematica per la forza F alla quale esso èsottoposto, è sufficiente, allorché ci si trova in presenza di un nuovo tipodi interazione, determinare l’espressione matematica di F che corrispon-de a questa interazione, la “legge di forza” relativa, perché il problemadel comportamento del corpo sotto l’azione desiderata sia risolto. Comeafferma Einstein, nel testo già citato dove rende omaggio a Newton:

L’importanza dell’opera di Newton non riguarda soltanto il

26Questo è sempre vero: infatti è soltanto dopo che l’esplorazione dello spazio èdiventata interplanetaria e che lo spazio stesso è stato trasformato in laboratorio chesi può parlare di sperimentazione nel dominio della forza di gravità.

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fatto che egli ha fornito alla meccanica una base veramente utiliz-zabile e soddisfacente sul piano logico; essa ha determinato anche,fino alla fine del XIX secolo27, il programma di ogni ricercatore neldominio della fisica teorica. Ogni evento doveva essere rapporta-to a delle masse obbedienti alle leggi newtoniane del movimento.Bastava semplicemente allargare la “legge di forza”, adattarla allostile dell’evento considerato28.

È così che l’interazione elettrica – per limitarsi ad essa – era con-cepita dall’insieme dei teorici alla metà del secolo come una forza chesi eserciti tra due «cariche (o masse) elettriche» puntiformi, analoghealle masse puntiformi della teoria di Newton; alla forza di gravitazioneF = kmm′/r2, si era fatta corrispondere una forza elettrica F =Cqq′/r2,dove le cariche q e q′ erano state sostituite alle masse m e m′, senza chenulla per il resto ne fosse cambiato. Tutt’al più si era estesa l’idea diattrazione al suo contrario, la repulsione, al fine di tener conto del fattoche i corpi elettrizzati possono, come è noto, sia attrarsi, sia respinger-si. Ma nel fondo, nulla era mutato. La forza elettrica era una forza diattrazione/repulsione, a distanza e istantanea, che si esercitava lungo laretta che univa i due corpi e variava come l’inverso del quadrato delladistanza tra i due corpi. Allo stesso modo si era tentato di rappresentarel’interazione magnetica come una forza a distanza tra due «masse ma-gnetiche (o poli)». Insomma, i successori di Newton, impressionati dalsuccesso della sua opera teorica, di cui si è visto che comportava dueparti (le equazioni del moto e la legge di attrazione a distanza), avevanotentato di applicare il sistema di Newton nella sua interezza ai nuovifenomeni studiati, senza pensare (o avendo voluto dimenticare) che sele leggi del moto valgono qualunque sia la forza F, nulla indica invece

27L’espressione utilizzata da Einstein non è rigorosa: i lavori di Faraday si situanoalla metà del secolo piuttosto che alla sua fine.

28A. Einstein, La meccanica di Newton. . . cit. Opere Scelte.

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nell’opera di Newton che la forma «attrazione a distanza del tipo 1/r2»abbia un valore non limitato al caso della gravitazione29.

È esattamente questo dogma dell’universalità del concetto di forza,pensato sul modello dell’attrazione gravitazionale, che lo studio sperimen-tale dei fenomeni elettrici e magnetici obbligherà Faraday a sconvolgere:

Con la teoria di Maxwell [e Faraday] dell’elettricità – scriveEinstein – la teoria del moto di Newton, concepita come program-ma valido per l’insieme della fisica teorica, ha conosciuto la suaprima messa in discussione. Si constatò che le interazioni tra corpielettrici e magnetici non sono dovute a forze che si esercitano adistanza e con effetto istantaneo, ma a processi che si propaganonello spazio a una velocità finita. Da qui la comparsa, nella conce-zione di Faraday, a fianco del punto materiale e del suo movimento,di una nuova sorta di cosa fisica reale: il campo30.

Ecco il resoconto (redatto da Faraday stesso) della seduta del 23gennaio 1852 della Royal Institution, nel corso della quale egli spiegò,con l’aiuto di dimostrazioni sperimentali, la sua maniera di concepirel’interazione tra due oggetti (nell’occorrenza due calamite):

Il potere che manifesta in modo così ammirevole una calamitae che sembra svilupparsi essenzialmente alle sue due estremità, lequali per questa ragione sono generalmente chiamate «poli magne-tici», ci diventa abitualmente percepibile, per una data calamita,mediante gli effetti attrattivi o repulsivi di questi poli sui poli diun’altra calamita; così si indica la direzione secondo la quale siesercita la forza magnetica come pure l’intensità di questa forza

29Ricordiamo che questa forma di forza è esplicitamente introdotta da Newtoncome quella che permette di ritrovare o dedurre le leggi di Keplero, esse stesse ottenuteper adattamento ai risultati delle osservazioni di Tycho Brahe. Niente in questaprocedura indica che il risultato possa essere esteso ad altro che al moto dei corpisottoposti, come sono i pianeti, all’attrazione universale.

30A. Einstein, La meccanica di Newton. . . cit. Opere Scelte.

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a diverse distanze. La forza è inversamente proporzionale al qua-drato della distanza [. . . ] Faraday propone di impiegare un nuovometodo fondato su una proprietà delle forze magnetiche differentida quella che consiste nel produrre un’attrazione o una repulsione,allo scopo di determinare la direzione, l’intensità di queste forze[. . . ] Egli pensa che questo nuovo metodo potrebbe considere-volmente favorire l’elucidazione della natura del potere magnetico,nella misura in cui il principio di interazione, sebbene differentedall’attrazione e dalla repulsione, non è meno magnetico.

Parlando di linea di forza magnetica, [Faraday] intende sempli-cemente esprimere qual è la direzione della forza, in un luogo dato,e non certamente dare un’idea della maniera in cui si esercita laforza – che ciò avvenga per azione a distanza, pulsazione, onda,corrente o qualsiasi altra cosa. Una linea di forza può essere defi-nita come la linea che è costantemente tangente a un piccolo agocalamitato il quale si sposta nella direzione della sua lunghezza[al punto di tangenza] [. . . ] Il metodo che permette di determi-nare queste linee di forza e di tenerne conto è stato illustrato conesperienze realizzate nel corso della serata. Le linee di forza pos-sono essere messe in evidenza sia con la limatura di ferro31, siacon l’aiuto di un ago calamitato; si dimostra che esse partono dauna estremità della calamita e dopo aver descritto curve più omeno lunghe nello spazio circostante ritornano e finiscono all’altraestremità32.

2.4 Sull’importanza delle rappresentazioni grafi-che

Sembra dunque che il «genio» di Faraday sia consistito nello scoprireuna nuova rappresentazione delle forze, rappresentazione che un’anali-

31Esperienza che tutti i liceali hanno vista realizzata in laboratorio di fisica.32Faraday, On the Lines of Magnetic Force, in Experimental Researches. . . , op.

cit, vol 3 p. 402.

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si troppo rapida condurrebbe a qualificare come non matematica, nellamisura in cui le forze invece di essere rappresentate per mezzo di «equa-zioni», cioè mediante una scrittura algebrica, sono rappresentate permezzo di «linee», cioè mediante una scrittura diagrammatica. Apparen-temente, sembra che si sia regredito; di fatto, non è così, è soltanto lapersistenza di un pregiudizio secondo cui la fisica matematica deve ne-cessariamente presentarsi sotto forma algebrica (per non dire puramentee semplicemente analitica) autorizza un tale giudizio. È ciò che ha bencompreso Maxwell, al quale si deve, tra l’altro, di aver prodotto una teo-ria algebrica dell’elettromagnetismo (la teoria dell’elettromagnetismo) apartire dai lavori di Faraday: i «disegnini» di Faraday sono oggetti ma-tematici a parte intera ed è a torto che alcuni considerano che le ideedi Faraday «comparate a quelle dei matematici di professione hanno uncarattere mal definito, e non matematico»33. Perché, come Maxwellspiega d’altronde34.

Mano a mano che progredivo nello studio degli ExperimentalResearches di Faraday, prendevo coscienza che il suo metodo diconcepire i fenomeni era anch’esso un metodo matematico, sebbe-ne non fosse presentato nella forma convenzionale, con l’aiuto disimboli matematici.

Per Maxwell – il quale contrariamente a Faraday aveva beneficiatodi una eccellente formazione matematica – Faraday è colui che «più diogni altro ha sistematicamente e coscientemente lavorato ad aumentareil potere della propria mente35» e così facendo ha inventato «un nuovosimbolismo matematico». Simbolismo che non soltanto ha permesso di

33J. C. Maxwell, On Faraday’s Lines of Force, testo ripreso in The Scientific Papersof James Clerk Maxwell, ed. W. D. Niven, 2., Cambridge, 1890, p. 155 e seg.

34J. C. Maxwell, A Treatise on Electricity and Magnetism, Oxford 1a ed., 1873,ripubbl. Dover, New York, 1954, Prefazione.

35J. C. Maxwell, On Action at a Distance, testo ripreso in Scientific Papers, op.cit. p. 311 e seg.

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ovviare alle insufficienze di quello «che era stato fino ad allora il solo lin-guaggio parlato dalle persone istruite», ma inoltre possedeva (all’epoca)«una chiarezza e una precisione assai in anticipo rispetto a quelle di cui imatematici erano in grado di dotare le loro formule». È questo un temacaro a Maxwell il quale non cessa di insistere sul potere di visualizzazio-ne di cui gode il formalismo delle linee di forza (che Faraday, egli dice,«vedeva chiaramente con gli occhi della mente») e che ne fa un mododi rappresentazione nettamente superiore alla scrittura di una formula(dove «si perde di vista il fenomeno da spiegare»)36.

2.5 «Contemplare la forza in tutta la sua purez-

za»

Se Maxwell insiste tanto sul potere di visualizzazione delle linee diforza di Faraday, è perché da vero fisico classico quale è, gli è impos-sibile fare a meno di ciò che i fisici tedeschi chiamano Anschaulichkeit,sostantivo formato a partire dal verbo anschauen che significa «guarda-re», «contemplare»37. Ora Maxwell, in quanto membro della classe delle

36Un altro esempio efficace di disegno che illustra la potenza dei diagrammi nellosviluppo delle teorie fisiche, è quello dei diagrammi di Feynman, metodo essenzialeper il calcolo delle interazione in elettrodinamica quantistica. Feynman, nella suaautobiografia, racconta come, dopo aver passato la notte a mettere a punto il propriometodo, era stato preso all’alba da un folle riso all’idea che i suoi «diagrammi idioti»potessero risolvere un problema che avvelenava la vita dei fisici da anni. Feynman,occorre notarlo, non aveva niente di un autodidatta; aveva appreso la fisica al MIT ea Princeton.

Sull’importanza dei diagrammi vedere G. Châtelet, Intuition géométrique - Intuitionphysique, in CISM, Selected Papers on the Teaching of Mathematics, Springer Verlag,1988.

37I fisici dell’inizio del XX secolo faranno l’esperienza dolorosa di dover fare ameno della Anschaulichkeit nel mondo microscopico, quello della teoria quantistica.Vedere a questo riguardo la prefazione redatta da C. Chevalley per la riedizione di unaraccolta di testi di Bohr (Teoria dell’atomo e conoscenza umana, Bollati Boringhieri

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«persone istruite», aveva acquisito dalla sua più giovane età una tale fa-miliarità con le formule della teoria di Newton che esse avevano perdutoai suoi occhi ogni carattere «astratto» ed egli poteva anche «vedere congli occhi della mente» ciò che esse rappresentavano. Se dunque, a uncerto momento della sua vita (cioè dopo aver letto le Experimental Re-searches di Faraday ), egli opta per la rappresentazione che fa uso dellelinee di forza, è evidentemente perché le formule della teoria newtoniananon sono più portatrici di un potere di visualizzazione sufficiente e sonoimpotenti a cogliere correttamente i fenomeni il cui studio è all’ordinedel giorno, cioè i fenomeni elettrici e magnetici.

In effetti la forza newtoniana (è già stato sottolineato) agisce in linearetta, lungo la retta che separa i due corpi in interazione. Ora, si sapevagià (da quando Ørsted nel 1820 aveva dimostrato che un ago calamitatoposto in prossimità di una corrente rettilinea subisce una rotazione) cheesistono forze le quali, in luogo di agire in linea retta, fanno subire unarotazione (e non uno spostamento in linea retta lungo la direzione dellaforza) ai corpi che vi sono sottoposti38. In verità, i «filosofi francesi» –

1961, come pure il glossario che l’accompagna. Da notare che Anschauung, una delleparole intraducibili della lingua tedesca, è spesso resa in francese come «intuizione» ilche maschera l’idea di contemplazione implicita nel termine tedesco.

38Einstein, nella sua autobiografia, rievoca lo stupore che lo colse nella sua infanzia,a quattro o cinque anni, quando il padre gli mostrò una bussola: «il fatto che l’agosi comporti in maniera così determinata non corrisponde al corso normale delle cose,quale poteva inscriversi nel mio mondo concettuale». E Einstein commenta: «Secondome, non c’è alcun dubbio che il pensiero progredisce in gran parte senza far ricorso asegni (le parole) e procede in maniera largamente inconscia. Come spiegare altrimentiche ci succede di “stupirci”, di “meravigliarci”, in maniera tanto spontanea davantiall’una o all’altra esperienza? Sembra che questo “stupore” si produca quando un’e-sperienza entra in conflitto con un mondo concettuale solidamente radicato in noi. Setale conflitto è vissuto in maniera intensa e forte, esso ha ripercussioni decisive sulnostro mondo intellettuale. Lo sviluppo di quest’ultimo è, in certo modo, un tentativomomento per momento di sfuggire al miracolo» (A. Einstein, Autobiografia scientifica,cit., Opere Scelte).

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come dice Maxwell parlando dei fisici39 che avevano sviluppato in parti-colare il punto di vista newtoniano dell’azione a distanza – non erano adisagio nello spiegare questa rotazione: bastava loro far intervenire dueforze agenti in direzioni opposte sulle due estremità dell’ago calamitato(che in fisica si chiama una coppia). L’inconveniente è che la dimostra-zione sperimentale di ciascuna di queste due forze poneva un problema;in particolare, non si riusciva a isolare ognuna delle forze costituenti lacoppia nel caso della rotazione subita da un oggetto semplice come unago calamitato.

Ora precisamente la rappresentazione delle interazioni mediante lineedi forza ha l’immenso vantaggio di includere d’un tratto la possibilità cheuna sola forza sia capace di far subire una rotazione a un corpo. Per ren-dersene conto, basta rileggere il resoconto citato sopra degli esperimentieffettuati da Faraday dinanzi alla Royal Institution: la «forza» (in terminipiù moderni diciamo il campo) è definita in ciascun punto dalla direzioneche assume l’ago calamitato, cioè da un angolo, quello con cui gira l’agomano a mano che si sposta nel campo e che si allinea lungo la direzionedel campo. Altrimenti detto, là dove i fisici classici erano obbligati a farricorso a due forze più o meno immaginarie – nella misura in cui nonpossono essere sperimentalmente separate e dove ad agire realmente èla loro «coppia» – Faraday fa intervenire soltanto una «forza». Come eglistesso dice40:

È chiaro che le nostre concezioni fisiche [concernenti le forze]sono almeno dubbie; penso che l’impresa consistente nel liberarcidelle concezioni a priori che sono implicite in esse non potrebbeessere che benefica; potremmo allora contemplare la forza in tuttala sua purezza.

39Si tratta essenzialmente di Poisson, Lagrange, Ampère e Cauchy.40M. Faraday, Experimental Researches, op. cit. § 3304.

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Contemplare la forza in tutta la sua purezza è riconoscere che unaforza non è necessariamente attrattiva o repulsiva41, come l’imitazionetroppo servile del modello newtoniano dell’attrazione universale lasciavasupporre, ma che essa può da sola produrre una rotazione, «far ruotare».Da qui l’andamento curvo (e non obbligatoriamente rettilineo) che pren-dono le linee di forza che «tessono una tela attraverso il cielo»42, comescrive Maxwell a Faraday (lettera del 9 novembre 1857) riprendendo inproprio un verso celebre della letteratura inglese.

A posteriori, ma soltanto a posteriori, apparirà che l’attrazione/repulsionenon è che un caso particolare di forza, corrispondente all’attrazione gra-vitazionale. Il concetto di forza deve essere allargato: le linee di forza,in generale, non sono delle rette (come avviene per la gravitazione checi mostra il caso più semplice di forza), ma delle curve (corrispondenti aforze più complesse delle quali il magnetismo ci fornisce un esempio.

Così dunque la nozione stessa di forza, pietra angolare del sistemanewtoniano, esce completamente rinnovata dagli esperimenti e dalle ri-flessioni di Faraday. Faraday è colui che ha osato ripensare i concet-ti newtoniani e trasformarli piuttosto che applicarli. In questo senso,Einstein è suo figlio, suo discepolo, lui che più tardi doveva scrivere43:

Non bisognerebbe in alcun caso assimilare a un pigro passa-tempo l’esercizio consistente nell’analizzare i concetti utilizzati cor-rentemente da lungo tempo e nel mostrare a quali circostanze par-ticolari essi devono la loro ragione d’essere e la loro utilità, e come

41Nel suo Journal Faraday annota nel 1833 (all’inizio della sua carriera): «Carat-tere straordinario della forza (magnetica); non polare perché niente attrazione, nienterepulsione. Io non ricordo di aver mai incontrato una forza come questa, cioè unaforza che conduce in una posizione, senza attrazione né repulsione. Allora, qual è laforza meccanica che fa ruotare il cristallo o fa muovere una calamita?»

42Weave a web across the sky.43A. Einstein, necrologio di Ernst Mach (Physikalische Zeitschrift XVII, 1916, p.

101). La citazione si riferisce a Mach, ma in quest’articolo Einstein si situa lui stessonella linea di Mach, almeno su questo punto preciso.

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ciascuno di essi è uscito dai dati dell’esperienza. Si spezza cosìl’autorità eccessiva che essi hanno acquisito. Essi vengono elimina-ti se non possono essere convenientemente giustificati, corretti seil legame che li unisce ai dati concreti è fin troppo saldo, sostituiticon altri se può essere stabilito un nuovo sistema il quale, per unaragione o per l’altra, ha la nostra preferenza.

2.6 La questione della geometria

L’immagine evocata da Maxwell a proposito delle linee di forza, quel-la di una rete di fili che formano una tela attraverso lo spazio, rete nellaquale i corpi sarebbero presi come insetti in una ragnatela, suggerisceuna visione dello spazio del tutto diversa da quella che la fisica classi-ca presuppone. Maxwell non esita a vedere in Faraday il fondatore diuna nuova geometria: «Le linee di forza di Faraday sono per la scienzaelettromagnetica ciò che i fasci di linee rette sono per la geometria diposizione»44.

È a giusto titolo che Maxwell definisce la geometria che la meccanicanewtoniana45, e tutta la fisica classica, presuppone, come «geometria diposizione». La relazione di un corpo con lo spazio si riduce infatti adavervi, ad occuparvi, una certa posizione – cioè un punto geometricoquando il corpo in questione è una «massa puntiforme» idealizzazionesulla quale riposa tutta la dinamica newtoniana46. Poiché i diversi pun-ti dello spazio sono individuati con l’aiuto di ciò che si è convenuto di

44J. C. Maxwell, Faraday, articolo pubblicato in Nature, ripreso in Scientific Papers,op. cit. p. 786.

45Non è inutile ricordare qui che per Newton la geometria era una parte dellameccanica: «La geometria è dunque fondata su una pratica di meccanica, e non èaltra cosa che una branca della meccanica universale che tratta e dimostra l’arte dimisurare» (prefazione ai Principia).

46Questa idealizzazione non impedisce tuttavia di parlare di corpi estesi: bastarappresentarseli come un insieme di «masse puntiformi» rigidamente legate tra loro.

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chiamare le loro coordinate, la relazione dei corpi con lo spazio è inte-ramente definita dalle coordinate dei punti che essi occupano. Essendoquesti punti isolati gli uni dagli altri, senza rapporto tra loro, lo stessoavviene per i corpi della fisica: nulla, nessun filo li lega tra loro, se noneventualmente la retta del tutto immaginaria che va da una posizioneall’altra. Che la relazione dello spazio con i corpi sia ridotta alla deter-minazione della loro posizione implica che lo spazio non «senta» i corpiche vi sono collocati, che sia loro perfettamente indifferente. È del restoquesta indifferenza che rende possibile la descrizione delle interazioni permezzo di una formula altrettanto semplice di quella dell’attrazione uni-versale, che faccia intervenire soltanto la distanza geometrica, in linearetta, tra i corpi e nessun’altra connessione tra loro.

Nulla del genere evidentemente nella rappresentazione secondo Fara-day dove i corpi sono collegati tra loro da una rete di linee curve, analoghe(come indica lo stesso Faraday) alle linee di corrente con le quali i geogra-fi rappresentano il flusso e la circolazione delle masse d’acqua attraversogli oceani47. Faraday ristabilisce, grazie alle sue linee fisiche che collega-no i corpi gli uni agli altri (e che sono materializzate con l’aiuto di un agomagnetico o della limatura di ferro), una continuità che mancava allafisica newtoniana. In Faraday, la «condizione dello spazio» in un puntodato è collegata a quella in un punto immediatamente vicino per mezzodella linea di forza che le unisce. La nuova fisica, la fisica del campo, è inqualche modo una «fisica delle azioni di contatto»; essa dà dello spaziofisico una descrizione differenziale, laddove la fisica newtoniana (fisicadelle azioni a distanza) saltando «a piè pari» al di sopra dello spazio,non dava che una descrizione integrale. Facendo ciò la fisica di Faradaysoddisfa le esigenze imposte da Leibniz, il quale obiettava già alla fisicadi Newton che non soddisfacesse al «principio di continuità», secondo cui

47L’analogia è d’altronde più stretta di quanto non lasci supporre la descrizioneprecedente. Faraday dimostra in effetti che la «forza del campo» (noi diremmo oggila sua intensità) in una regione dello spazio è tanto più grande quanto le linee dicampo vi sono più fitte, come avviene in cartografia.

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i valori delle grandezze fisiche in un punto dato non possono dipendereche dai loro valori in un punto immediatamente vicino (ciò che l’ideastessa di azione a distanza contraddice in maniera evidente).

Così con Faraday si afferma l’idea che le leggi della fisica non possanoessere realmente conosciute se non attraverso lo studio dell’infinitamen-te piccolo spaziale, seguendo passo a a passo le linee di campo che nonvanno da un punto all’altro in linea retta. Si pone allora necessariamentela questione di sapere se la distanza che separa due punti debba esseremisurata in linea retta, come suppone la fisica newtoniana, o lungo lelinee di campo. In altre parole si pone in definitiva la questione di saperese la geometria, nel senso di misura dello spazio, e non più semplicedescrizione dello spazio48, quale conviene allo studio dei corpi in intera-zione, è proprio la geometria correntemente utilizzata fino ad allora, lageometria euclidea.

Nessun dubbio che la geometria euclidea la quale si fonda sulle no-zioni di rette parallele, di piani paralleli tra loro e di rette e piani per-pendicolari, sia ciò che Maxwell chiama una geometria di posizione: ledistanze tra punti, grazie al teorema di Pitagora, vi sono determinatemediante costruzioni che fanno intervenire degli insiemi di linee rette.Di fatto, questa geometria pone quale ipotesi che lo spazio da essa de-scritto e misurato sia omogeneo: in queste condizioni, infatti, la distanzatra due punti è definita nello stesso modo sia che questi due punti sianoinfinitamente vicini, sia che siano macroscopicamente lontani e ciò chevale a livello differenziale vale a livello integrale; lo studio dei fenomeni

48In un discorso di abilitazione di cui si tratterà più oltre, Riemann, classifica leproprietà che si assegnano a uno spazio (definito, propriamente parlando, come unsemplice insieme di punti) in due categorie: descrittive e metriche. Egli fa osservareche le proprietà descrittive non bastano a caratterizzare uno spazio geometrico. Così,la superficie di un piano e la superficie di una sfera, possono essere entrambe descrittecome illimitate, senza confini; esse non corrispondono di meno a due spazi geometricidifferenti, nel senso che la distanza tra due punti non vi è definita nella stessa maniera(quest’ultima è necessariamente finita su una sfera, mentre può essere infinita in unpiano).

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nell’infinitamente piccolo non fornisce più informazioni del loro studiomacroscopico; introdurre il livello differenziale è una complicazione inu-tile. Le cose vanno altrimenti se, come suggerisce Faraday sulla base dievidenze sperimentali, lo spazio è localmente modificato tutto attorno aun oggetto. In questo caso la geometria adeguata (nel senso di misuradello spazio, delle distanze) non può essere che differenziale49, e non sipuò fare a meno del «passo a passo».

Sembra dunque che reintroducendo nella fisica l’obbligo di conside-rare le azioni da vicino a vicino Faraday, di fatto e forse senza averloveramente voluto e senza rendersene conto50, rimette in discussione l’a-deguatezza della geometria euclidea allo studio dello spazio fisico. Inquesto senso, come notano Hermann Weyl51 e Felix Klein52, Faradaynon si è allontanato da Riemann:

L’idea di capire l’universo attraverso il suo aspetto nell’infini-tamente piccolo è la ragione epistemologica che anima la fisicadelle azioni di contatto e la geometria riemanniana – scrive Her-mann Weyl, il quale aggiunge: – si afferra bene la corrispondenzache esiste tra il passaggio dalla fisica delle azioni a distanza allafisica delle azioni a contatto e il passaggio dalla geometria eucli-dea alla geometria riemanniana: questa [proprio come la fisica delcampo] è una geometria che procede da vicino a vicino nelle sueindagini, quella [come la fisica di Newton] dà immediatamentele leggi globali. La geometria riemanniana è in qualche manierauna formulazione della geometria euclidea che soddisfa lo spiritodi continuità, ma assume per questa formulazione un caratteremolto più generale.

49Si dice anche «infinitesimale».50Questo punto non è sfuggito a Maxwell, come indica la frase citata sopra.51H. Weyl, Raum, Zeit, Materie (1918).52F. Klein, Vorlesungen über die Entwicklung der Mathematik im 19. Jahrhundert,

vol. 1, Berlin 1926.

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Conviene qui ricordare brevemente ciò che costituisce la novità del-l’opera di Riemann in geometria – non fosse che per non essere tentatida spingere troppo lontano l’analogia suggerita da H. Weyl con la fisicadi Faraday. Riemann non è l’«inventore» delle geometrie non euclidee;alcune di esse erano state già elaborate da Gauss (1777-1855), Lobatche-vsky (1793-1856) e Bolyai (1802-1860) , molti anni prima che Riemannscrivesse (nel 1854) il suo famoso discorso di abilitazione, Sulle ipotesiche servono di fondamento alla geometria53. Adottando un punto divista più generale dei suoi predecessori, Riemann si pone subito la que-stione di sapere che cosa nella geometria, cioè nelle proprietà metrichedello spazio, non dipende da definizioni assiomatiche e dunque non puòessere determinato che attraverso l’esperienza.

Si sa che la geometria ammette come dati pregiudizialinon soltanto il concetto di spazio, ma anche le prime ideefondamentali delle costruzioni nello spazio. Essa non dà diquesti concetti se non definizioni nominali, mentre le deter-minazioni essenziali si introducono sotto forma di assiomi. Irapporti reciproci di questi dati primari restano avviluppatinel mistero; non si vede bene se essi sono necessariamentecollegati tra loro, né fino a quale punto lo sono, e nemmenose a priori possono esserlo. Da Euclide fino a Legendre, percitare soltanto il più illustre dei riformatori della geometria,nessuno tra i matematici o tra i filosofi è giunto a chiarirequesto mistero54.

53B. Riemann, Über die Hypothesen, welche die Geometrie zu Grunde liegen (1854).Nel rito universitario tedesco dell’epoca, l’abilitazione veniva dopo la tesi e consistevain una «lezione», destinata a giudicare le qualità di insegnante del candidato a taleposto.

54B. Riemann, Über die Hypothesen, welche die Geometrie zu Grunde liegen, trad.italiana Sulle ipotesi che stanno alla base della geometria, a cura di R. Pettoello,Bollati Boringhieri 1994, p. 3.

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Così esordisce il testo di Riemann, Riemann il quale, nella misura incui rifiuta di accontentarsi delle definizioni assiomatiche della geometria,ha coscienza di fare opera di «filosofo», e non di semplice matematico.Infatti, la questione che egli pone se la geometria abbia fondamentiempirici, e se sì quali, oltrepassa il quadro della sola geometria. Aldi là di questa, è posta la questione dei rapporti tra la matematica e larealtà, questione che, se interessa il matematico e il filosofo, è certamentecruciale per il fisico. La fisica, a ognuno dei suoi progressi teorici, obbligaa porsi di nuovo questa questione, come indica ciò che è stato dettoa proposito di Faraday e come scriverà chiaramente Einstein settantaanni più tardi nel celebre testo, giustamente intitolato La geometria el’esperienza:

[. . . ] un enigma ha in ogni tempo turbato fortemente i ri-cercatori. Com’è possibile che la matematica, che è uscita dalpensiero umano indipendentemente da ogni esperienza, si applichicosì perfettamente agli oggetti della realtà? La ragione umanapuò dunque, senza l’aiuto dell’esperienza, mediante la sua sola at-tività pensante, scoprire le proprietà delle cose reali? Mi sembrache a questo non si possa rispondere se non una sola cosa: perquanto le proposizioni matematiche si riferiscono alla realtà, nonsono certe, e per quanto sono certe, non si rapportano alla realtà.La presa di coscienza di questo stato di cose si è generalizzata,mi sembra, soltanto con lo sviluppo del movimento di pensieroconosciuto sotto il nome di assiomatica. L’apporto dell’assioma-tica è stato in effetti di separare gli elementi logico-formali dalcontenuto oggettivo o intuitivo. Per l’assiomatica, l’oggetto dellamatematica è costituito dai soli elementi logico-formali e non dalcontenuto intuitivo, o altro, che è loro associato. [La concezione]dell’assiomatica moderna – aggiunge Einstein – libera la scienzamatematica di tutti gli elementi che le sono estranei e dissipa cosìl’oscurità mistica che circondava finora i suoi fondamenti55.

55A. Einstein, La geometria e l’esperienza, in Idee e opinioni cit.

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Si noterà che Riemann e Einstein fanno appello allo stesso registrodi linguaggio, quello del mistero e della mistica, per parlare dei rappor-ti tra la geometria (e più generalmente la matematica) e l’esperienza(altrimenti detto la fisica). Ma né Riemann né Einstein (il quale avevaletto e discusso attentamente il discorso di abilitazione di Riemann nellasua gioventù56) possono accontentarsi del chiarimento apportato dall’as-siomatica che, a loro parere, non regola la questione. Einstein, poichéquesta concezione della matematica che la rende «inadatta a enunciareuna qualsiasi cosa, né riguarda gli oggetti delle nostre rappresentazioniintuitive, né riguarda gli oggetti della realtà», da una parte lascia il fisicosenza voce e senza parole, ma soprattutto è contraria all’evidenza stessa,cioè poiché «la matematica, in generale, e particolarmente la geometria,è nata dal nostro bisogno di imparare qualcosa circa il comportamentodegli oggetti reali». Riemann, perché vede in questo apparente chiari-mento un difetto di approfondimento del problema, in quanto problemaproprio della matematica: «la ragione [per la quale non è stato ancorapossibile chiarire la ragione dei fondamenti empirici della geometria] èche il concetto generale delle grandezze di dimensioni multiple, compren-dente come caso particolare le grandezze estese [dunque lo spazio] nonè mai stato oggetto di alcuno studio»

Di conseguenza – aggiunge Riemann – mi sono posto dap-prima il problema di costruire, partendo dal concetto generale digrandezza, il concetto di una grandezza di dimensioni multiple.Risulterà da qui che una grandezza di dimensioni multiple è su-scettibile di differenti rapporti metrici [o come noi diremmo oggi,

56Quando era impiegato all’Ufficio dei brevetti di Berna e maturava i suoi famosiarticoli del 1905, Einstein aveva formato una «Accademia Olimpia» sorta di gruppo dilavoro informale in cui i membri dell’accademia leggevano e discutevano alcuni granditesti della filosofia, Kant, Poincaré, Riemann, Dedekind, ecc. Si può pensare che lalettura di H. von Helmholtz che, a partire dal 1868 , si era considerevolmente interes-sato ai fondamenti della geometria e aveva commentato Riemann, abbia egualmenteavuto grande influenza su Einstein.

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di molteplici metriche, cioè molteplici misure della distanza tradue punti dati] e che lo spazio [il nostro, quello nel quale evolvonoi corpi, con la sua propria metrica] non è che un caso particolaredi una grandezza a tre dimensioni.

E Riemann conclude:

Ne segue, necessariamente, che le proposizioni della geometrianon possono dedursi dai concetti generali di grandezza [poiché laconsiderazione matematica di questi ultimi lascia indeterminata lascelta della metrica], ma che le proprietà, per le quali lo spazio sidistingue da ogni altra grandezza immaginabile a tre dimensioni,non possono essere ricavate che dall’esperienza57.

Questo vale in particolare per la geometria euclidea, che corrispondea una metrica molto particolare58, la cui esistenza non presenta alcunanecessità matematica e non è che un’ipotesi la verità della quale puòessere affermata soltanto dopo verifica empirica.

È esattamente la conclusione a cui Einstein giunge in La geometriae l’esperienza:

La questione di sapere se la geometria pratica del mondo59 èuna geometria euclidea o no, ha un senso ben chiaro e la rispostanon può essere fornita che dall’esperienza.

Einstein ritorna altrove su questa concezione alla quale tiene partico-larmente:

57Su questo punto preciso, l’analogia con Faraday sottolineata da H. Weyl èsorprendente.

58Quella di uno spazio a curvatura costante, in particolare nulla.59Einstein intende qui una geometria «spogliata del suo carattere logico formale»,

«che fa corrispondere agli schemi concettuali vuoti della geometria assiomatica og-getti della realtà sensibile», secondo regole che fanno corrispondere agli oggetti dellageometria assiomatica corpi rigidi fisici.

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L’etere, il campo, lo spazio

Per quanto è possibile dire che in natura esistono cor-pi rigidi, la geometria euclidea è una scienza fisica, la cuiverità deve essere sottoposta alla prova dell’esperienza sen-sibile. . . Se si è potuto commettere il grave errore di pensareche la geometria euclidea e il concetto di spazio che essa rac-chiude si fondavano su una necessità intellettuale anteriorea ogni esperienza, è perché era stata relegata nell’oblio labase empirica che sostiene la costruzione assiomatica dellageometria euclidea60.

2.7 Spazio o etere?

Resta allora da determinare qual è la geometria dello spazio fisico. Èqui che le concezioni di Riemann sembrano avvicinarsi di più a quelle diFaraday. Non afferma forse Riemann, vicino in questo a Faraday, comeindica H. Weyl, che la vera geometria dello spazio (geometria piana ocurva, euclidea o non) non può rivelarsi che nello studio differenzialedelle leggi della natura (nella misura in cui «è sull’esattezza con la qualeseguiamo i fenomeni nell’infinitamente piccolo che poggia essenzialmen-te la nostra conoscenza dei loro rapporti di causalità»)? Più ancora:Riemann non sostiene anche, proprio come afferma Faraday, che la verageometria dello spazio si definisce nello studio sperimentale delle devia-zioni rispetto ai principi della fisica newtoniana, liberati dal loro caratteredogmatico?

Si può trovare una soluzione a questi problemi – egli scrivea conclusione del suo discorso di abilitazione – soltanto partendodalla interpretazione dei fenomeni, della quale Newton pose le ba-si e che è stata finora confermata dall’esperienza modificandolagradualmente, sotto la spinta di fatti che essa non può spiega-re; ricerche, come quella condotta qui, che prendono le mosse

60A. Einstein, Fisica e realtà in Opere Scelte, cit. p. 536.

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da concetti generali possono solo contribuire a far sì che questolavoro non sia impedito da concezioni anguste e che i pregiudizidella tradizione non ostacolino il progresso nella conoscenza dellaconnessione delle cose.

Tuttavia, l’analogia tra le concezioni di Riemann e quelle di Faradaynon può essere prolungata oltre. Perché, ed è questo un punto fonda-mentale, quando impiegano il termine «spazio», Riemann e Faraday nonparlano della stessa cosa.

Il termine «spazio» può infatti designare sia uno spazio geometrico,matematico, non sostanziale, pura «forma dei fenomeni», sia uno spazionel senso di «ambiente», perfettamente sostanziale, come nell’espressione«spazio vitale», o quando nel linguaggio tecnocratico moderno si parladi «strutturare lo spazio». La differenza tra i due significati del termine«spazio» può essere riassunta dicendo che lo spazio nel secondo sensodel termine «riempia» lo spazio nel primo senso.

Ora, in Faraday, è in questo secondo significato che la parola «spazio»deve essere intesa. Lo spazio che i corpi modificano è un mezzo e questomezzo riempie lo spazio (inteso in senso comune, euclideo). Certo, Fara-day è pronto a rimettere in discussione il dogma newtoniano attraverso lostudio di ciò che accade sperimentalmente nell’infinitamente piccolo, manon al punto di immaginare un substrato per il suo mezzo diverso dallospazio implicitamente euclideo. Certo Faraday afferma, in opposizionealla concezione post-newtoniana delle interazioni, che un corpo isolatonello spazio produce un determinato effetto, ma questo effetto agisce sol-tanto sul «mezzo» e non incide sulla metrica dello spazio geometrico cheresta implicitamente euclidea. Niente di simile in Riemann per il quale,al contrario, lo spazio deve essere inteso nel primo significato del termine.Il problema che egli si pone è più radicale di quello che preoccupa Fa-raday: lo studio di ciò che avviene sperimentalmente nell’infinitamentepiccolo ha per scopo in Riemann di rispondere alla domanda se la geo-metria, la metrica, di questo spazio, invece di essere fissata una volta

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per tutte (com’è il caso nella geometria euclidea) non sia interamentedeterminata da condizioni che sono esterne ad esso, dagli oggetti chevi si trovano: «Occorre dunque, o che la realtà sulla quale è fondatolo spazio costituisca una varietà discreta, oppure che il fondamento deirapporti metrici sia cercato al di fuori di esso, nelle forze di relazione cheagiscono in esso». Queste poche righe sono generalmente citate comeprova del carattere premonitorio delle concezioni di Riemann. In effetti,nel 1916, grazie ai lavori di Einstein per i quali nella relatività generale èla seconda opzione quella valida61, è risultato che la metrica dello spazioè effettivamente determinata da forze che sono estranee ad esso, le forzedi gravitazione le quali collegano gli oggetti materiali gli uni agli altri.Nella relatività generale, parlare di spazio senza materia non ha senso.Scrive Einstein:

Senza potenziali gravitazionali, non c’è né spazio né porzioni dispazio; sono in effetti questi potenziali a conferire allo spazio le sueproprietà metriche, proprietà in assenza delle quali lo spazio è sem-plicemente impensabile. L’esistenza di un campo gravitazionale equella dello spazio sono intimamente legate62.

Questa è la concezione Einsteiniana dello spazio, concezione che iden-tificando il campo gravitazionale e lo spazio fa della fisica «una vera geo-metria», una dottrina dello spazio stesso, e non soltanto, come la geo-metria di Euclide, e come quasi tutto ciò che si usa chiamare geometria,una dottrina delle forme possibili nello spazio»63. In questa prospettival’opera di Riemann appare stabilire un legame tra le idee di Faraday e

61La prima opzione, quella di una struttura «discreta» dello spazio, ricorda inqualche modo alcune speculazioni più moderne della fisica quantistica.

62A. Einstein, L’etere e la teoria della relatività in Opere Scelte, cit. p. 515.63H. Weyl, Raum, Zeit, Materie, cit. p. 88. Sebbene la teoria della relatività

generale, in più di settanta anni di esistenza, non sia stata ancora «falsificata» questaconcezione dello spazio non raccoglie l’adesione generale. Così J. A. Wheeler, unodegli specialisti odierni in questo campo, scrive: «È difficile immaginare questione piùcruciale per la fisica di quella di sapere se lo spazio-tempo non sia un semplice palco-

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quelle di Einstein dopo il 1916. Le concezioni di Riemann rappresentanouna sorta di biforcazione, una via traversa che il corso della fisica nonha dapprima fatto propria (la geometria che sta alla base dell’elettroma-gnetismo di Faraday e di Maxwell è, e resta ancora oggi, implicitamenteeuclidea), ma che essa ha deciso più tardi di esplorare.

Non si potrebbe evidentemente rimproverare a Faraday di non essereEinstein. Egli è, e resta per sempre, l’inventore del concetto di campo.Che abbia avuto bisogno di un mezzo materiale, per esempio, l’etere64,per sostenere questo campo, non potrebbe essergli rimproverato. Tantopiù che Faraday era essenzialmente preoccupato dai problemi del campoelettrico e magnetico e non era veramente interessato al problema delcampo gravitazionale. Ora, nella concezione moderna, come spiega mol-to bene Einstein che ne è l’autore, «Il campo elettromagnetico procededa una determinazione formale del tutto diversa dal campo gravitaziona-le»65; esso non determina in nulla la metrica dello spazio e l’esistenza diquest’ultimo non è affatto legata a quella del campo elettromagnetico:«Nulla impedisce di immaginare una parte dello spazio senza campo elet-tromagnetico». Di conseguenza, il campo elettromagnetico «riempie lospazio», senza alterarne, o determinare, la struttura geometrica. Nientenei fenomeni elettromagnetici consente di mettere in dubbio l’adeguatez-za della geometria euclidea alla descrizione dello spazio fisico e dunquenon dobbiamo stupirci del fatto che Faraday e Maxwell, nonostante l’im-portanza che attribuiscono ai procedimenti differenziali, abbiano fondatol’elettromagnetismo su uno spazio euclideo.

scenico oppure la totalità [del mondo] («Curved Empty Space-Time as the BuildingMaterial of the Physical World», in Logic, Methodology and Philosophy of Science, acura di E. Nagel, P. Suppes, A. Tarski, Stanford, 1962, p. 361)

64«Il mio proposito è stato sempre di evitare di sostituire una qualsiasi cosa ai fluidie alle correnti, e di liberare la mente da ogni legame con nozioni preconcette; ma percoloro che hanno bisogno di una idea sulla quale appoggiarsi, c’è se si vuole il vecchioprincipio degli eteri» (M. Faraday, Experimental Researches, cit. par. 3302).

65A. Einstein, L’etere e la teoria della relatività, cit. p. 515.

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Che Faraday non abbia potuto fare a meno di un mezzo materiale enon sia pervenuto alla concezione moderna (post-1905) del campo comemodificazione dello spazio senza supporto sostanziale, è ciò che permettedi comprendere la distinzione fatta qui sopra tra «fisica delle azioni dicontatto» e «fisica delle azioni a distanza». Faraday, il quale, sulla basedel principio secondo cui «la materia non agisce là dove essa non sitrova» si oppone all’idea di azione a distanza, non ha altra possibilitàche costruire una fisica delle azioni di contatto; ora, per lui e per tuttii suoi contemporanei, il contatto può effettuarsi soltanto tra elementimateriali, sostanziali. Deve necessariamente esistere un mezzo tra i corpiA e B in interazione; questo mezzo ha una doppia funzione: da una parte,assicurare la trasmissione della «forza», del «potere» emanante da A (oda B) fino a B (o fino ad A), per contatto da vicino a vicino; dall’altraparte, agire su B (o su A) per imprimergli il movimento osservato. ScriveFaraday66:

Concepisco un magnete nello spazio libero come circondatoda un mezzo (magneticamente parlando). Il mezzo, o spazio67

attorno al magnete, è altrettanto essenziale che lo stesso magnete,esso fa parte del sistema magnetico nel suo insieme.

Più ancora, spiega Faraday, con l’appoggio dell’esperienza, è questomezzo che permette alle linee di forza di passare da un corpo a un altro,senza di esso l’«energia magnetica» del primo corpo non potrebbe esseretrasmessa al secondo e il primo corpo sarebbe come una pila elettrica acircuito aperto le cui estremità non siano collegate a nulla. Concezioneperfettamente coerente, bisogna sottolinearlo, con l’idea stessa che sta afondamento della nozione di campo: il «potere» magnetico di un corponon risiede nel corpo stesso (questa è la concezione dei sostenitori del-l’azione a distanza), ma è diffuso nello spazio che lo circonda. Faraday

66Experimental Researches, op. cit. par 3277.67Non si potrebbe essere più espliciti sul significato che Faraday dà al termine

«spazio».

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vede anche una conferma dell’esistenza di un mezzo nel fatto che le lineedi forza possano essere curve: esse si adattano alle variazioni del mezzo.

A sua volta, Maxwell vede nell’introduzione di questo mezzo uno deimeriti essenziali di Faraday68:

Faraday vedeva con gli occhi della mente delle linee di forzaattraversanti tutto lo spazio, là dove i matematici non vedevanoche centri di forza che si attraevano a distanza; Faraday vedeva unmezzo là dove che essi non vedevano che una semplice distanza;Faraday cercava di situare i fenomeni a livello di azioni che sipropagano in un mezzo; essi si accontentavano di azioni a distanza.

Si è allora in diritto di chiedersi se le linee di forza, concepite inizial-mente come un modo di rappresentazione, in qualche modo un’alterna-tiva alle formule, non abbiano di fatto un’esistenza fisica e se non sianocaratteristiche fisiche del mezzo in questione; non si può forse imma-ginare per esempio che linee di forza rappresentino delle correnti, delletensioni, che si disegnano in seno al mezzo? In proposito Faraday è ri-masto molto prudente durante tutta la sua attività; così egli risponde auno dei suoi corrispondenti69:

Mi chiedete in una delle vostre lettere «come concepite la na-tura delle linee di forza magnetica?» Io penso che sia saggio nonrispondere a questa domanda con una ipotesi [. . . ] Una lineadi forza può essere trattata sperimentalmente senza che ne cono-sciamo l’intima natura fisica. Un raggio di luce è una linea diforza, questo può essere provato con l’aiuto di esperienze effettua-te al tempo in cui si parteggiava per l’«emissione», ma anche conesperienze effettuate da si propende per una ondulazione. Il suocarattere fisico non è provato né dalla prima concezione né dallaseconda (una di esse dev’essere falsa e forse lo sono tutte e due);esso è provato dal tempo che la propagazione impiega a compiersi,

68J. C. Maxwell, Treatise on Electricity and Magnetism, op. cit. vol I, p. x.69M. Faraday a C. Matteucci, lettera del 2 novembre 1855.

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dalla curvatura del raggio e dalle sue deviazioni e da tutti i suoiaccidenti fisici70.

Le linee di forza testimoniano dunque di una sola cosa: lo spazio(nel secondo significato del termine, cioè come mezzo) circondante uncorpo è in uno stato particolare, per il fatto della presenza di questocorpo; questo stato [che oggi chiamiamo campo] è caratterizzato in ognipunto dalla tangente alla linea di forza che passa in quel punto e questatangente ha una realtà fisica poiché è lungo di essa che si allinea unago magnetizzato (corpo di prova) collocato in quel punto. Poiché delresto l’allineamento dell’ago non può prodursi senza che vi sia contattomateriale con qualcosa, è necessario che in questo punto, e in tutto lospazio geometrico circostante, si trovi un mezzo. Questo è, riassunto,l’insegnamento di Faraday. Al di fuori di ciò, il resto è solo speculazione.In particolare, si può immaginare che questo mezzo è l’etere luminoso,quello nel quale si propaga la luce, ma è soltanto un’ipotesi, il cui unicomerito consiste nel fatto che essa evita di dover moltiplicare i «mezzi»accessori:

Che cosa è questo stato [dello spazio che circonda un corpo],e da che cosa dipende, non si può dirlo. Può essere che dipendadall’etere [luminoso], com’è il caso dei raggi di luce, e si è già mo-strato che esiste una relazione tra luce e magnetismo. Può essereche dipende da uno stato di tensione, o da uno stato di vibrazione,o forse da uno stato analogo alla corrente elettrica, alla quale il ma-gnetismo è così strettamente legato. Che questo stato dello spazio[il campo] richieda in modo necessario la materia come substratodipende da ciò che si intende con il termine di materia. Se ci silimita alle sole sostanze ponderabili o gravitanti, allora la materianon è essenziale alle linee di forza magnetica, non più che ai raggi

70Alla fine della sua vita, Faraday si consentirà di «speculare» e di «deviare dallastretta linea del ragionamento». Ma le conclusioni che egli propone riguardo alla veranatura delle linee di campo e in particolare i loro rapporti con l’etere restano moltoprudenti.

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L’etere, il campo, lo spazio

luminosi o al calore; ma se l’ipotesi di un etere implica soltantouna specie di materia, allora le linee di forza possono dipendereda una certa funzione di questo etere. Dal punto di vista speri-mentale, lo spazio è magnetico; ma se si sostiene questa credenza[l’esistenza di uno spazio di materia chiamata etere], l’idea di spa-zio deve includere quella di etere [. . . ] . È questo, io penso, unfatto sicuro: la materia ponderabile non è essenziale all’esistenzadelle linee di forza magnetica71.

Qui termina il racconto della nascita del concetto di campo e dell’ideache deve esistere, in relazione con questo concetto, «un’altra materia»differente dalla materia ponderabile: l’etere. Come si vede, l’etere è natodal fatto che, a un certo stadio dello sviluppo del pensiero fisico, eraimpossibile immaginare che lo spazio geometrico abbia proprietà fisiche;queste ultime devono necessariamente avere un supporto materiale el’etere (non in quanto tale, ma in quanto mezzo) è apparso come unanecessità. Vedremo ora, nel capitolo seguente, che il ruolo attribuitoall’etere non si arresta qui e che l’etere ha anche la funzione di evitaredi dover pensare insieme il continuo e il discontinuo.

71M. Faraday, Experimental Researches, op. cit., On the Physical Lines of MagneticForce, p. 438.

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Capitolo 3

L’etere e l’opposizione continuo/discontinuo

Così dunque Faraday, al termine di una vita interamente votata allasperimentazione, aveva introdotto nella fisica una preoccupazione chegli era stata fino ad allora estranea: il pensiero del continuo, del «passoa passo» nello spazio. Ma perché il campo così «inventato» acquistasselo statuto di concetto fisico, rappresentativo di un elemento di realtà,allo stesso titolo di quelli di forza e di particella (o punto materiale) suiquali poggia tutta la fisica newtoniana, occorrerà trasformare ciò che nonera che un’idea in un concetto fisico matematico, cioè trovare i concettimatematici adeguati all’idea di campo. È a James Clerk Maxwell, diuna generazione più giovane di Faraday, che spetta il merito di avercompiuto questa trasformazione mediante la matematica di una idea inun elemento di realtà fisica1.

3.1 Differenziali totali e derivate parziali

Una volta di più, Einstein – lui che, erede di Faraday e di Maxwell,ha portato il concetto di campo al suo compimento teorico - ci serviràda guida per caratterizzare il ruolo fondamentale giocato da Maxwelle dai matematici. Una volta ancora, plana ugualmente su tutta questa

1«Non posso evitare di osservare che la coppia Faraday-Maxwell somiglia in modomolto curioso, nel suo funzionamento interno alla coppia Galileo-Newton: in ognicoppia, il primo scopre le relazioni in maniera intuitiva, il secondo le formula in modoesatta e ne dà le applicazioni quantitative» (A. Einstein, Autobiografia scientifica, cit.p. 76).

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L’etere e l’opposizione continuo/discontinuo

vicenda l’ombra del grande Newton, fondatore della fisica teorica (dunquematematica). Scrive Einstein:

Dopo che Newton ha posto le basi della fisica teorica2, la mo-difica più importante del fondamento assiomatico della fisica, oanche della nostra concezione della struttura della realtà [corsivomio], è stata suscitata dalle ricerche di Faraday e di Maxwell suifenomeni elettromagnetici [. . . ] Nel sistema di Newton, la realtàfisica è caratterizzata dai concetti di spazio, di tempo, di puntomateriale, di forza (cioè di interazione tra punti materiali) [. . . ] Ilpunto materiale è il solo rappresentante della realtà [. . . ] I corpimateriali che erano la causa psicologica della formazione del con-cetto di «punto materiale» dovevano essere essi stessi concepiticome un sistema di punti materiali. Bisogna notare che questosistema teorico è, nella sua essenza, un sistema atomistico e mec-canicistico. Ogni processo doveva essere spiegato in maniera mec-canica, ossia come un semplice moto di punti materiali ubbidientialla legge newtoniana del moto.

Avendo così brevemente descritto ciò che dal punto di vista delleidee caratterizza la concezione newtoniana della realtà fisica, Einsteinperviene alla rappresentazione matematica che le conferisce concretezza:

Per poter dare al suo sistema una formulazione matematica,Newton dovette inventare il concetto di quoziente differenziale epresentare le leggi del moto sotto forma di equazioni differenzialitotali – il che è forse il progresso intellettuale più considerevoleche fu dato di realizzare a un uomo. Le equazioni alle derivateparziali non erano necessarie per questo, e Newton non vi ha fattosistematicamente ricorso.

Apparirà chiaro: se Einstein introduce una distinzione tra due tipi diequazioni, «differenziali totali» e «alle derivate parziali», è allo scopo diarrivare alla seguente conclusione:

2A. Einstein, L’influenza di Maxwell sull’evoluzione della nostra concezione direlatà fisica. Contributo al volume James Clerk Maxwell: A Commemoration Volume,Cambridge, 1931.

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L’etere e l’opposizione continuo/discontinuo

Prima di Maxwell, ci si rappresentava la realtà fisica – nellamisura in cui essa doveva rappresentare i processi naturali – comecostituita di punti materiali, obbedienti a equazioni differenzialitotali. Dopo Maxwell, la realtà fisica è rappresentata da campicontinui, che non è possibile interpretare in maniera meccanicisticae che obbediscono a equazioni alle derivate parziali.

Ma innanzitutto: in che cosa consiste la differenza tra «equazionidifferenziali totali» e «equazioni alle derivate parziali»? Questo interro-gativo ci porterà per un poco sul versante della «tecnica»; ma il lettoresi rassicuri, non durerà; in ogni modo, non si tratta di usare concetti ma-tematici, ma semplicemente di comprendere l’idea sulla quale si basano.Bisogna innanzitutto notare che i due tipi di equazioni sono equazio-ni differenziali, ossia che esse fanno dipendere il valore che una certagrandezza fisica assume in un determinato punto P dal valore che essaassume in un punto, o in più punti, immediatamente vicini. La differen-za tra i due tipi di equazioni riguarda precisamente questa delimitazione:un punto o più punti. Nel primo caso, si parla di differenziale totale,nella misura in cui il valore della grandezza considerata in un solo puntoimmediatamente vicino al punto P determina totalmente il suo valore inP. Nel secondo caso, si parla di «differenziali (o derivate) parziali», nellamisura in cui la conoscenza del valore della grandezza considerata in unsolo punto vicino a P non è sufficiente a determinare il suo valore nellostesso punto P, e quest’ultimo è determinato soltanto se si conosce il va-lore della grandezza considerata in tutti i punti vicini a P, in un dominiodi dimensioni infinitamente piccole attorno a P.

L’equazione del moto (seconda legge di Newton, F = m a = m× laderivata seconda della posizione in rapporto al tempo) che definisce laposizione di un punto materiale di massa m sotto l’effetto di una forzalocale F, è il prototipo delle equazioni differenziali totali: la posizionedel «punto materiale» non dipende che dalla sua posizione in un istanteanteriore della sua corsa, in una posizione immediatamente precedentedella sua traiettoria – i punti dello spazio che si trovano al di fuori del-

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L’etere e l’opposizione continuo/discontinuo

la traiettoria non intervengono assolutamente nella determinazione dellaposizione del mobile. Si deduce dunque che le equazioni differenzialitotali sono concettualmente associate all’idea di «traiettoria», di movi-mento scorrevole, lungo una linea – il che introduce necessariamente unaforma di discontinuità nello spazio: i punti dello spazio si dividono in duesottoinsiemi disgiunti, quelli che appartengono alla traiettoria e quelli chenon ne fanno parte.

Veniamo ora alle «equazioni alle derivate parziali». In questo caso,sono tutti punti dell’intorno di P che contribuiscono alla determinazionedel valore della grandezza considerata nel punto P, nella misura in cuiquest’ultima dipende differenzialmente, ma parzialmente, dal valore inuno qualsiasi dei punti vicini. Il punto P non è più la continuazione diuna sola linea, come nel caso di una traiettoria: in qualche modo, essoè la congiunzione di una rete di linee (immaginarie) che sono altrettantifili tesi tra il punto P e i punti dello spazio circostante; come dice cosìbene Maxwell, P sta nel cuore di una tela tessuta attraverso lo spazio equeste linee weave a web across the sky. Reciprocamente da uno stessopunto P partono altrettante linee che congiungono il punto P a tuttiquelli in cui il valore della grandezza fisica considerata dipende dal suovalore in P: sotto questo riguardo, P appare allora come una sorgenteche «emette» in tutte le direzioni dello spazio, senza che alcun puntodello spazio vi si sottragga. Queste poche indicazioni devono permetteredi comprendere che le equazioni alle derivate parziali sono adatte allarappresentazione matematica delle linee di forza di Faraday e, in modogenerale, a quella del nuovo oggetto introdotto da lui: il campo. Sene deduce dunque l’idea che le equazioni alle derivate parziali regolanoprocessi che si diffondono nello spazio a partire da un punto sorgente,riempiendo tutto lo spazio, e da qui si concepisce come la differenza on-tologica tra un «punto materiale» e un «campo» possa essere tradottain termini matematici per mezzo del tipo di equazioni differenziali, «dif-ferenziali totali» o «alle derivate parziali», su cui si basa il formalismocorrispondente all’uno o all’altro oggetto. Come è logico, una differenza

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L’etere e l’opposizione continuo/discontinuo

tra gli oggetti fisici implica una differenza nel formalismo matematicoche li rappresenta.

Il punto importante qui è che in fisica (non quantistica) la distinzionetra equazioni differenziali totali e equazioni alle derivate parziali coincideesattamente con l’opposizione discreto/continuo. Ciò dipende dal fattoche la scena sulla quale si recita il teatro della fisica è lo spazio – piùesattamente – lo spazio-tempo ottenuto aggiungendo alle tre dimensionidello spazio una dimensione temporale sempre presente nell’evoluzionedegli eventi3. Risulta allora che le equazioni alle derivate parziali, nellamisura in cui trattano di oggetti che coprono tutto lo spazio(-tempo),senza che alcun punto vi si sottragga, dipendono dal continuo. Le equa-zioni differenziali totali, nella misura in cui fanno giocare ai punti dellatraiettoria un ruolo particolare, introducono necessariamente una discon-tinuità nella dipendenza spaziale: un punto situato immediatamente aldi fuori della traiettoria non influisce in nulla sulle grandezze fisiche le-gate al mobile, mentre il suo vicino immediato, situato sulla traiettoria,è determinante. In questo senso, le equazioni differenziali totali sonoadeguate a una rappresentazione di tipo discontinuo, discreto – e perdire tutto: atomistico – della realtà fisica.

In queste condizioni, è chiaro che la questione che pone l’introduzioneda parte di Faraday del continuo nella fisica, fino ad allora particellare eatomistica, è quella della compatibilità del campo e delle particelle, dellacoesistenza all’interno della teoria fisica del continuo e del discontinuo,due concetti la cui natura antagonistica appare con una forza particolarenella differenza di natura degli oggetti matematici che corrispondonoloro.

3È falso dire che la teoria della relatività sviluppata da Einstein nel 1905 introducanella fisica una nuova e quarta dimensione (il tempo): la fisica ha sempre, a partireda Galileo, avuto per quadro lo spazio e il tempo e si è dunque sempre svolta in unospazio a quattro dimensioni. Ciò che Einstein introduce, è una connessione tra lospazio a tre dimensioni e il tempo, estranea alla fisica «classica» per la quale spazio etempo formano due sotto-spazi indipendenti.

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Di fatto, bisognerà attendere il 1905 e l’articolo sui quanti di Einstein,perché la questione sia posta in questi termini4:

Fra le descrizioni teoriche che i fisici si sono formati dei gase di altri corpi ponderabili, e la teoria di Maxwell dei processielettromagnetici nel cosiddetto spazio vuoto, vi è una profondadifferenza formale [. . . ] Secondo la teoria di Maxwell, in tutti i fe-nomeni puramente elettromagnetici, e quindi anche nel caso dellaluce5, l’energia deve essere concepita come una funzione spazialecontinua, mentre, secondo la concezione attuale dei fisici, l’ener-gia di un corpo ponderabile deve essere rappresentata come unasomma estesa agli atomi e agli elettroni. L’energia di un corpoponderabile non può suddividersi in parti arbitrariamente numero-se e arbitrariamente piccole, mentre secondo la teoria di Maxwell(o, più in generale, secondo ogni teoria ondulatoria) l’energia di unraggio luminoso emesso da una sorgente puntiforme si distribuiscecon continuità su un volume via via crescente.

È certamente uno dei grandi meriti di Einstein aver saputo caratteriz-zare in maniera così netta la difficoltà di fronte alla quale si trova la teoriafisica a un certo momento del suo sviluppo. Nessuno dei suoi predeces-sori e dei suoi contemporanei aveva saputo vedere il problema dal puntodi vista di una necessità: quella di rendere compatibili all’interno di una

4A. Einstein, Un punto di vista euristico relativo alla generazione e allatrasformazione della luce, Opere Scelte, cit., p. 118.

5Maxwell aveva stabilito che la luce non è nient’altro che un’onda elettromagne-tica, associazione di un campo elettrico e di un campo magnetico che si spostano“in blocco”. Segnalare questo fatto in una nota a piè di pagina, significa veramenteattribuire poca attenzione a una scoperta così importante che unificava l’ottica, l’e-lettricità e il magnetismo in una sola e stessa teoria: l’elettromagnetismo (detto “diMaxwell”. Ma risulta che, a dispetto della sua importanza, questa scoperta (motivatadalla constatazione che la velocità di propagazione di un’onda elettromagnetica cal-colata da Maxwell e il valore sperimentale della velocità di propagazione della lucehanno valori numerici così simili che ciò non può essere una coincidenza fortuita) nonsvolge quasi alcun ruolo nella storia qui raccontata.

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L’etere e l’opposizione continuo/discontinuo

sola e stessa teoria concetti derivanti dal continuo e concetti derivantidal discontinuo. Alcuni, in minoranza bisogna dire, arrivavano a riteneresoddisfacente che la teoria fisica fosse scissa in due teorie, delle qualil’una tratti del continuo (la teoria del campo o elettromagnetismo) e l’al-tra del discontinuo (la meccanica del punto). Per la generalità dei fisici,i quali non avevano rinunciato all’idea dell’unità della fisica, la soluzio-ne non poteva venire che dall’assorbimento di uno dei domini (continuoo discontinuo) nell’altro. Due possibilità si offrivano dunque: spiegaretutto in termini discontinui, era la visione atomistica e meccanicisticadel mondo; oppure, al contrario, ridurre tutti i fenomeni, compresa l’e-sistenza degli atomi, a concetti continui, ciò che è stato chiamato «iltutto elettromagnetico». Einstein è colui che ha saputo indicare la viache consente di realizzare l’unità della fisica attraverso la coesistenza delcontinuo e del discontinuo, nonostante la loro apparente opposizione.

Ma prima di arrivare a questo, dobbiamo tornare a Maxwell e allesue ambizioni giovanili.

3.2 Fare il continuo con il discontinuoVero e falso continuo

All’inizio della sua carriera, Maxwell, che si era convinto dell’impor-tanza dell’idea di campo e che per la sua educazione si era liberato daogni preoccupazione riguardo alla matematica, ha potuto avere l’impres-sione che l’obiettivo che si era fissato – dare alle idee di Faraday la basematematica necessaria alla loro trasformazione in concetti teorici – nonaveva nulla di irrealizzabile. Che per questo occorra riconciliare quelleche più tardi appariranno come due nozioni irriducibili l’una all’altra, ildiscontinuo e il continuo, non gli sembrò certamente un vero ostacolo.

In effetti, la fisica post-newtoniana aveva messo a punto tecnicheche consentivano di fare il continuo, o più esattamente (come vedremo)lo pseudo-continuo, con il discontinuo. Poiché la fisica di Newton era

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una fisica atomistica, si era stati obbligati, per poter trattare dei corpisolidi dell’esperienza (i quali presentano tutte le apparenze del continuo),a trovare un mezzo per parlarne in termini di discontinuità, atomistici.È sufficiente per questo considerare i corpi apparentemente continui del-l’esperienza come insiemi di punti materiali, dotati di massa e sottopostialle equazioni del moto di Newton, ma così vicini gli uni agli altri daformare un pseudo-continuum (un po’ alla maniera in cui il Sahara vi-sto da un aereo può apparire continuo, mentre in realtà è costituito dagranelli di sabbia). Lo studio del comportamento dei corpi così conside-rati è ciò che si è chiamato (e ancora si chiama) la meccanica dei corpideformabili (pendant e complemento della meccanica del punto da cuideriva e di cui è la generalizzazione). La sua generalizzazione era stataopera di coloro che Maxwell chiama «i filosofi francesi» e si era rivela-ta particolarmente fruttuosa nella spiegazione dei fenomeni idrodinamici,nei quali la natura atomistica del corpo studiato (un liquido) può essere(momentaneamente) trascurata.

Ma bisogna considerare che il «vero» continuo - quello che è defini-to da procedure matematiche ben precise le quali impediscono che siaposto un termine alla sua divisibilità – e il «falso» continuo – ottenutoper effetto di una «vista dall’alto» che permette di ignorare la sua na-tura fondamentalmente discontinua, la quale implica che il processo didivisione abbia necessariamente un termine – non possono da un puntodi vista concettuale essere identificati l’uno con l’altro. Questa radica-le differenza tuttavia non impedisce che nella pratica essi siano trattati(anche matematicamente) nello stesso modo. È per questo che la mecca-nica dei corpi deformabili, teoria «falsamente» di tipo continuo, si basava(e si basa tuttora) sull’uso delle equazioni alle derivate parziali che, perdefinizione, dipendono dal «vero» continuo. Nota Einstein6:

Le equazioni alle derivate parziali erano [. . . ] necessarie al-la formulazione della meccanica dei corpi deformabili; e questo si

6A. Einstein, L’influenza di Maxwell . . . , cit. p. 231.

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spiega con il fatto che, per risolvere questo tipo di problemi, nonha inizialmente avuto alcun ruolo la maniera di concepire la co-stituzione dei corpi partendo dai punti materiali. L’equazione allederivate parziali ha fatto così il suo ingresso nella fisica teorica nelruolo di serva, ma ne è a poco a poco diventata la padrona.

Cercando di dare ai concetti sperimentali di Faraday uno statuto fi-sico matematico, Maxwell, lo vedremo, avrebbe trasformato la serva inpadrona. Avendo così il continuo invaso tutta la scena, non vi si trovòben presto più spazio per il discontinuo e dunque per gli atomi. Apparveallora in maniera evidente la contraddizione tra continuo e discontinuomenzionata da Einstein nella citazione riportata sopra. L’ipotesi dell’e-tere, la cui necessità, come si è visto, non era decisamente affermata daFaraday, e che Maxwell, come si vedrà, fu sul punto di abolire, apparvea un dato momento (e fino al 1905) come la sola capace di conciliarel’«ipotesi atomistica» (di tipo discontinuo) e l’idea di campo (di tipocontinuo). Due nomi sono associati a questa lenta maturazione dellacontraddizione che doveva esplodere nel 1905: Maxwell e Lorentz.

3.3 Maxwell

Nel 1864, Maxwell pubblica un articolo intitolato «Teoria dinamicadel campo elettromagnetico»7 dove, fin dall’inizio, si pone al tempo stes-so come successore di Faraday e come erede della tradizione matematicapost newtoniana.

Successore di Faraday, lo è nella misura in cui si colloca risolutamentedal lato della spiegazione mediante il concetto di campo, contro l’idea diforze che agiscano a distanza: «Ho preferito qui cercare una spiegazionedei fatti in un’altra direzione: io formulo la congettura che essi sonoprodotti da azioni che accadono al tempo stesso nel mezzo circostante

7J. C. Maxwell, A Dynamical Theory of the Electromagnetic Field, Royal SocietyTransactions, vol. CLV, 1864, riprodotto in Scientific Papers op. cit. vol I, p. 526.

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e nei corpi eccitati e provo a spiegare le azioni tra corpi distanti senzafare l’ipotesi che esistano forze capaci di agire a distanze sensibili».

Erede della tradizione matematico-meccanica, lo è in quanto il «mez-zo circostante» in questione (di cui è detto che è «riempito di materiadi un tipo qualsiasi» non precisato) è animato da movimenti, i quali, «sicomunicano da una parte del mezzo a un’altra secondo un meccanismoche dev’essere sottoposto alle leggi generali della dinamica» (ossia allele leggi che i matematici del XVII secolo e dell’inizio del XIX hanno ela-borato per trattare del moto dei corpi deformabili e falsamente continui,per esempio i liquidi). Nella tradizione inglese, questo tipo di ipotesi:esistenza di una materia di natura non precisata, «suscettibile di esseremessa in moto e capace di trasmettere il moto da una delle sue partia un’altra», è qualificata come dinamica. Da qui il titolo dell’articolodi Maxwell che afferma dall’inizio: «La teoria che propongo può esserechiamata una teoria dinamica del campo magnetico perché ha a che ve-dere con lo spazio nelle vicinanze dei corpi elettrici o magnetici, e puòessere chiamata dinamica, perché suppone che nello spazio vi sia dellamateria in movimento, dalla quale i fenomeni elettromagnetici osservatisono prodotti».

Una volta poste queste premesse, Maxwell fa subire alla materia dinatura indefinita di cui è costituito il mezzo considerato (l’etere, perbrevità) un trattamento matematico tale che essa sarà progressivamenteliberata da tutte le sue caratteristiche sostanziali per non conservare indefinitiva come solo e unico attributo che la sua capacità essere la sededi una energia. Questo trattamento non ha del resto in sé nulla di nuovo:le tecniche matematiche sviluppate dai successori di Newton, in partico-lare da Lagrange poi da Hamilton e Jacobi, poggiano tutte sullo stessoprincipio: in un primo tempo si introduce una funzione, combinazionedi un termine detto di «energia cinetica» e di un altro termine detto di«energia potenziale»; quindi in una seconda tappa, si applica a questafunzione un principio di minima azione. È esattamente così che proce-de Maxwell: «Il mezzo [quello che egli considera, l’etere per esempio] è

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dunque capace di ricevere e di conservare in riserva due tipi di energia,cioè una energia “effettiva”8 dipendente dal moto delle sue parti, e unaenergia “potenziale”, uguale al lavoro che il mezzo compirà tornando [al-lo stato iniziale dopo aver subito uno spostamento o una deformazione]».La sola differenza con il trattamento classico dei corpi deformabili è chequeste energie, «effettiva» e «potenziale», in luogo d’essere espresse intermini di inerzia, di velocità, di tensione, di comprimibilità o di elasticità,come avviene nella normale dinamica dei mezzi continui, fanno interve-nire grandezze propriamente elettriche, quali la «corrente», la «quantitàdi elettricità», lo «spostamento elettrico», etc.

Il genio di Maxwell consiste in questo: nell’aver compreso che nelformalismo di Lagrange, Hamilton e Jacobi, le grandezze fondamentalinon sono, come si pensava fino ad allora, le grandezze meccaniche qualil’inerzia, la quantità di moto o l’elasticità del mezzo, ma invece le ener-gie, potenziale ed effettiva, che fino ad allora si erano considerate comegrandezze derivate dalle precedenti, mentre in realtà il concetto di ener-gia ha un dominio di applicazione che supera largamente il quadro dellasola meccanica. Consideriamo il caso dell’energia legata alla velocità diun corpo, detta «cinetica»; che, nel corso dello sviluppo storico dellafisica, essa sia apparsa come la combinazione (mv2/2) di due grandezze,la massa inerziale e la velocità, ha potuto far credere che queste grandez-ze erano fondamentali e che l’energia era una grandezza «derivata». Difatto, non è così: questa espressione dell’energia è del tutto contingentee non si rapporta che a un caso molto particolare, quello di una massam animata da una velocità v; la grandezza fisica fondamentale, quella lacui pertinenza non si limita a questo caso particolare, è l’energia.

Questo almeno era apparso in seguito ai lavori di Helmholtz9 il quale,

8In inglese actual, opposto a potential (potenziale); l’energia «effettiva» è quella incui può «attualizzarsi» l’energia «potenziale». Nel caso di un sistema puramente mec-canico, l’energia «effettiva» è interamente «cinetica», ossia legata allo spostamento ealla velocità di un insieme di punti materiali.

9H. von Helmholtz, Über die Erhaltung der Kraft (Sulla conservazione

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avendo definito l’energia come la grandezza che si conserva nel corsodell’evoluzione dei sistemi, aveva dimostrato che questa grandezza puòassumere diverse forme (meccanica, elettrica, chimica, termica, etc.);ogni processo fisico deve allora essere considerato come la trasformazio-ne di una forma di energia in un’altra, dovendo restare costante l’energiatotale, corrispondente alla somma delle energie di tipo particolare (il checostituisce del resto la legge di evoluzione dei sistemi e permette di ri-trovare, nel caso particolare di una massa puntiforme sottoposta a unaforza data, la seconda legge di Newton). In questo senso, ogni forma dienergia possiede sempre un «equivalente meccanico»: la quantità di ener-gia meccanica ottenuta trasformando l’energia dalla forma consideratain energia meccanica.

Maxwell non può essere più chiaro sullo statuto che il concetto dienergia ha nella sua costruzione teorica:

Parlando dell’energia del campo, desidero essere inteso lette-ralmente. Ogni energia, che sia sotto forma di moto o sotto formaelettrica, è simile10 all’energia.

In compenso, Maxwell mette in guardia il suo lettore contro l’utiliz-zazione metaforica che egli fa di certi termini del vocabolario meccanico:

Quando adopero nel presente articolo espressioni quali «quanti-tà di moto elettrica» o «elasticità elettrica» [. . . ], lo facci soltantoal fine di segnalare all’attenzione del lettore fenomeni meccaniciche lo aiutino a comprendere i fenomeni elettrici. Tutte questeespressioni, nel presente saggio, devono essere considerate comeillustrazioni – in alcun modo come delle spiegazioni.

Così dunque gli aggettivi «meccanico» e «elettrico» quando sono uni-ti all’energia non cambiano in nulla la sua natura: l’energia, qualunque

dell’energia), 1847.10In inglese Is the same.

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sia il qualificativo che le si attribuisce, resta sempre energia. Invece, ilqualificativo «elettrico», quando è attribuito alla quantità di moto (oall’elasticità), ne snatura totalmente il senso; perché la quantità di mo-vimento (o l’elasticità) è necessariamente meccanica e non può esserequalificata altrimenti che per analogia, con abuso di linguaggio11. Nelcaso dell’energia, cessando l’analogia di essere un’analogia, non c’è piùabuso di linguaggio ; si è passati dalla finzione figurativa alla descrizionedella realtà.

Avendo così fatto giocare al concetto di energia il ruolo centrale eprimo che gli conferisce la sua definizione da parte di Helmholtz, Maxwellintraprende allora, come seconda tappa del trattamento «classico», adapplicargli il principio di minima azione e dimostra «che tutto ciò che sisapeva all’epoca della luce e dei fenomeni elettromagnetici è contenutonel suo celebre sistema doppio di equazioni alle derivate parziali, nellequali il campo elettrico e il campo magnetico figurano in quanto funzioniindipendenti»12. Al termine del trattamento «dinamico» che Maxwell fasubire al mezzo responsabile dei fenomeni elettromagnetici, appare chequesto mezzo non ha più alcuna caratteristica meccanica: non soltantola materia di cui è costituito è presupposta dall’inizio «di un tipo qualsia-si», ma risulta inoltre che né la sua densità, né la sua inerzia, né la sua

11È per questo che le critiche rivolte da Duhem a Maxwell (P. Duhem, Les théoriesélectriques de J. Clerk Maxwell: Etude historique et critique, Parigi, 1902), rimpro-verandogli di usare e abusare delle analogie e dunque di non dimostrare nulla, nonsono fondate. Se è vero che prima del 1864, mentre cercava ancora come teorizzarei risultati di Faraday, e a titolo euristico, Maxwell ha moltiplicato le analogie (idrauli-che, termiche, meccaniche, etc.), a partire dal 1864, ossia dal momento in cui il suoragionamento verte sull’energia (e non più su una qualsiasi relazione tra grandezzeelettriche e grandezze meccaniche quali la velocità di un fluido o l’elasticità di unamolla) non si tratta più di una analogia euristica, ma di un vero ragionamento fisico.È per non aver accettato lo statuto primo e unificante del concetto di energia dimo-strato da Helmholtz, che Duhem ha potuto prendere per un’analogia quella che nonlo era affatto.

12A. Einstein, L’influenza di Maxwell . . . cit. p. 232

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elasticità, né alcune delle grandezze che caratterizzano generalmente lamateria non intervengono nella descrizione dei fenomeni elettromagne-tici data dalle «equazioni di Maxwell». Più ancora, di questa materiadella quale si supponeva in partenza che fosse mobile (da cui l’aggettivo«dinamica»), non si può in alcun modo caratterizzare il moto poiché leespressioni del tipo «quantità di moto elettrico», etc., non sono «che del-le illustrazioni – non in alcun modo delle spiegazioni». Soltanto importala capacità di questo mezzo a ricevere, accumulare e trasmettere energia.Il mezzo non ha altra caratteristica fisica che quella di essere la sede diun’energia.

A noi che conosciamo la fine della storia, ossia lo sradicamento del-l’etere (e di ogni altro mezzo materiale supporto del campo elettroma-gnetico) a cui ha proceduto Einstein nel 1905, e che, inoltre, vivendodall’infanzia circondati di onde radio (dunque elettromagnetiche) perfet-tamente invisibili e «immateriali», abbiamo probabilmente una miglioreintuizione del concetto di campo rispetto allo stesso Maxwell, può sem-brare che Maxwell non avesse ormai che un semplice passo da compiereprima di decretare, come farà Einstein 40 anni più tardi la non–esistenzadell’etere (o del mezzo di cui esso è il prototipo). Bisogna guardarsida queste illusioni retrospettive. Perché Maxwell, il quale aveva saputotrarre le conseguenze del lavoro di Helmholtz e dissociare il concetto dienergia dalle sue connotazioni meccanicistiche fino ad allora implicite,non poteva andare fino al punto di considerare che quest’energia possaesistere di per sé, senza supporto materiale a cui essa sia legata. Gliera impossibile concepire l’energia come una sostanza allo stesso titolodella materia – nonostante il fatto che la conservazione, che può essereconsiderata come la definizione stessa dell’energia, sia sempre stata con-siderata come l’attributo principale della sostanza. Per Maxwell l’energiaelettromagnetica non può esistere «nell’aria», di per sé; per esistere essaha bisogno di una sostanza che la «supporti»; non è, come nella conce-zione moderna posteriore al 1905, un oggetto che una volta creato (dallamateria) persista nel suo essere in maniera autonoma.

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Scrive Maxwell nel suo articolo fondatore del 1864:

La sola domanda è questa: Dove risiede essa [l’energia elettro-magnetica]? Nelle antiche teorie, essa risiede nei corpi elettrificati,nei circuiti conduttori, e nelle calamite, sotto la forma di una qua-lità sconosciuta [. . . ] o potere di produrre effetti a distanza. Nellanostra teoria, l’energia risiede nel campo elettromagnetico, nellospazio circondante i corpi elettrici e magnetici, e ugualmente inquesti corpi stessi.

Difatti, per Maxwell il campo non è l’energia elettromagnetica stes-sa, ma l’«abitacolo» in cui essa «risiede». In questo senso l’uso che eglifa del termine «campo» si presta a confusione per le menti moderne:il «campo» di Maxwell non è l’energia elettromagnetica, ma il suo sup-porto, laddove la materia mancando non può svolgere questo ruolo (trai corpi). In questo senso, ugualmente, Maxwell, il quale non cessa diparlare dell’etere come di una ipotesi possibile niente affatto necessitatadal suo calcolo13 non poteva sopprimerlo completamente né trasformarela sua «ipotesi possibile» in «ipotesi superflua».

È d’altronde attraverso considerazioni sulla necessità di questo etere,destinate a rispondere ad alcune obiezioni che gli sono state fatte, cheMaxwell completa il suo Trattato di elettricità e di magnetismo, operapubblicata alla fine della sua vita che costituisce in qualche modo iltestamento lasciato alle generazioni future:

[. . . ] Ora noi siamo incapaci di concepire la propagazionenel tempo altrimenti che come il «volo» di una sostanza materialeattraverso lo spazio o come la propagazione di una condizione [uno

13La frase che è stata appena citata prosegue così: «[L’energia elettromagnetica]esiste sotto due forme, che si possono, senza fare alcuna ipotesi, descrivere in terminidi polarizzazione magnetica o di polarizzazione elettrica, o secondo un’ipotesi moltoprobabile, come i moti e i vincoli di un solo e stesso mezzo. (Ma) le conclusionialle quali si giunge qui sono indipendenti da questa ipotesi perché derivano da fattisperimentali. . . ».

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stato] di moto o di tensione in un mezzo già esistente nello spazio[. . . ] Ogni volta che dell’energia è trasmessa da un corpo all’altronel corso del tempo, deve esserci un mezzo o una sostanza in cuil’energia esiste dopo aver lasciato il primo corpo e prima di averraggiunto il secondo, poiché l’energia, come fa notare Torricelli(Lezioni accademiche, Firenze 1715, p. 25), «è una quintessenzadi una natura così sottile che non può essere contenuta in nessunricettacolo se non è ciò che la sostanza delle cose materiali ha dipiù profondo». Così dunque tutte le teorie conducono a concepireun mezzo nel quale avviene la propagazione, e se ammettiamo peritpotesi l’esistenza di questo mezzo, penso che debba occupareun posto eminente nelle nostre ricerche e che ci occorra tentare dicostruire una rappresentazione mentale della sua azione nei minimidettagli; tale è stato il mio obiettivo lungo tutto questo trattato14.

3.4 Le difficoltà concettuali della teoria di Max-

well

Ma l’esistenza di un «mezzo elettromagnetico» (chiamiamolo etere),distinto dalla materia ordinaria e occupante lo spazio tra i corpi, poneun certo numero di problemi che hanno fortemente preoccupato Maxwell.L’articolo «Etere» dell’Enciclopedia Britannica, scritto al termine dellasua vita, reca traccia di questa insoddisfazione 15.

Uno di questi problemi riguarda la costituzione dell’Etere; non neldettaglio (poiché subito, nell’articolo del 1864, questa è posta comepriva di, e tale da non dover avere, importanza), ma in generale: «qualè la costituzione ultima dell’etere? Molecolare o continua?», si chiedeMaxwell.

14J. C. Maxwell, A Treatise on Electricity and Magnetism, op. cit, vol 2, p. 493.15J. C. Maxwell, «Etere», voce dell’edizione 1879 dell’Enciclopedia Britannica,

riprodotta in Scientific Papers, op. cit. p. 764.

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La domanda evidentemente non può mancare di porsi. Le equazionidi Maxwell, infatti, in quanto equazioni alle derivate parziali, dipendonodal continuo. Questo continuo è necessariamente «vero», poiché la teo-ria verte su funzioni matematiche, definite in ogni punto dello spazio, inconformità con le idee di Faraday e poiché nessuna ipotesi fisica è venutaad alterare questo continuo «vero» nel corso della dimostrazione. L’e-nergia elettromagnetica è dunque distribuita con continuità nello spazio.In queste condizioni, il suo supporto è continuo: l’etere deve avere unastruttura continua.

Ma, in un’epoca in cui l’idea di una struttura atomica della materia èsempre più confermata (e Maxwell stesso ha contribuito con i suoi lavoridi meccanica statistica a questo stato di fatto), ammettere che l’etere, invirtù della teoria elettromagnetica, debba avere una struttura continuanon è scontato. Altrettanto, secondo logica, questa conclusione deveestendersi alla materia, poiché anch’essa serve di supporto all’energiaelettromagnetica. Così Maxwell si sforza di immaginare, almeno perl’etere, diversi meccanismi più o meno barocchi, con i quali un mezzocontinuo possa presentare un’apparenza di discontinuità.

Questo imbarazzo è sintomatico: Maxwell inciampa su un problemadi fondo, quello, individuato più tardi da Einstein, della coesistenza, inseno a una teoria unitaria della materia e dell’elettromagnetismo, delcontinuo e del discontinuo. Come conciliare il carattere continuo delcampo con l’esistenza sempre più accertata di atomi di materia?

Agli occhi dei fisici dell’epoca, la difficoltà si è manifestata sottouna forma più pragmatica, ma ugualmente sintomatica. Fino ad allora,si erano rappresentate le cariche elettriche in maniera particellare (unaparticella materiale essendo suscettibile di «portare» una carica) e lacorrente come uno spostamento di queste particelle cariche. Visionesemplice e chiara che è del resto quella che abbiamo ritrovato oggi, dopoche Lorentz (vedi più avanti) l’ebbe ripristinata in seno alla teoria.

Ma per Maxwell, il quale si era fissato come scopo di creare unateoria dell’elettromagnetismo non facesse in alcun momento intervenire

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la struttura microscopica della materia16, le grandezze fisiche (in ognicaso le grandezze elettriche) non potevano essere concepite se non comefunzioni continue dello spazio, il che gli impediva di pensare in terminidi particelle cariche elementari. Da qui, ancora, le sottili invenzioni (lacui sottigliezza non aveva convinto i contemporanei) che facevano inter-venire l’etere (a fianco della materia) nella costituzione delle cariche etendevano a rappresentare la corrente come uno spostamento di etere (enon di materia).

Così, il difetto principale della teoria di Maxwell, inerente alla suastessa struttura, è dunque che il continuo e il discontinuo, il campo e lamateria per semplicità, non vi sono separati. Questo ha per conseguen-za essenziale che è allora impossibile pensare l’interazione tra materia ecampo. Evidentemente la materia agisce sull’etere (è essa a produrre ilcampo, ma in che modo?) e ogni cambiamento che la concerne (in parti-colare ogni spostamento che implica l’attivazione di una energia cinetica)deve tradursi mediante una variazione dell’energia elettromagnetica chel’etere supporta, dunque con una modificazione dell’etere.

Ma nella misura in cui l’energia elettromagnetica è ripartita al tempostesso nell’etere e nella materia, non si ha a che fare con una sempliceconversione dell’energia cinetica della materia in energia elettromagne-

16Non bisogna soprattutto concluderne che Maxwell fosse contrario a ciò che sichiamava all’epoca «ipotesi atomistica». Al contrario. Lo abbiamo detto: Maxwellè uno di coloro che con i suoi lavori sui gas (dove interviene il famoso «demone diMaxwell» che è generalmente tutto ciò che si conosce di Maxwell, tanto la storiadell’elettromagnetismo è mal conosciuta) ha contribuito a stabilire una visione ato-mistica della materia, allo stesso titolo di Boltzmann, del quale condivideva molteidee. Maxwell, e più ancora i suoi allievi, speravano di poter dedurre gli atomi dalcontinuo, con un procedimento matematico ancora da inventare. Vedere a questoriguardo J. Z. Buchwald, From Maxwell to Microphysics, Aspects of ElectromagneticTheory in the Last Quarter of the Ninetteenth Century, The University of ChicagoPress, 1985. Einstein si fisserà a più riprese nel corso della sua vita un obiettivo simile:«Una teoria veramente razionale dovrebbe dedurre i costituenti elementari (elettroni,etc.) e non porli a priori» (lettera a M. Besso del 10 settembre 1952, in Einstein-BessoCorrispondenza 1903-1955, Guida 1995.

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tica immagazzinata dall’etere, con trasferimento dalla materia all’etere:una parte dell’energia meccanica della materia serve ugualmente a mo-dificare l’energia elettromagnetica di questa stessa materia, il che com-plica considerevolmente le cose. Dato che, secondo Maxwell, sebbenela materia e l’etere non possano sovrapporsi in uno stesso luogo, nonè impossibile che l’etere invada l’interno della materia infiltrandosi negliinterstizi tra gli atomi, come pensare in queste condizioni l’interazionetra materia e campo? Ugualmente nel quadro di questa incapacità aseparare chiaramente l’energia della materia da quella del campo (e dun-que l’etere dalla materia) si pone uno dei problemi che assillerà i fisicidurante quasi un mezzo secolo, quello del moto della materia in rap-porto all’etere. «Bisogna chiederci – scrive Maxwell alla voce “Etere”dell’Enciclopedia Britannica già citata – se, quando i corpi densi sono inmovimento attraverso il grande oceano dell’etere, essi trasportano consé l’etere che contengono, oppure se l’etere passa attraverso di essi co-me l’acqua attraverso le maglie di una rete rimorchiata da una sciabica».Dato che la luce non è altro che un’onda elettromagnetica, esiste unmezzo per decidere sperimentalmente la questione: basta determinarese la sua velocità (velocità di propagazione nell’etere) è o non è la stessanelle due direzioni terrestri opposte. Se la Terra nel suo movimento tra-scina il proprio etere, non si deve osservare una differenza nel risultatodelle misure; una differenza, invece, sarebbe l’indizio che l’etere passaattraverso la materia, o anche che la materia si sposta nell’etere senzainfluenzarlo né esserne influenzata, come l’acqua attraverso una rete dapesca. «La questione dello stato del mezzo luminifero [l’etere] in vici-nanza della terra, e dei suoi legami con la materia ordinaria, è lontanadall’essere risolta», conclude Maxwell.

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3.5 L’«atto liberatorio» di Lorentz

Atto liberatorio, è così che Einstein definisce l’opera di Lorenz. ScriveEinstein17:

Quando H. A. Lorentz ha cominciato a lavorare, la teoria diMaxwell sull’elettromagnetismo si era già imposta, ma i suoi fon-damenti erano di una stranezza e di una complessità tali che nonsi poteva ricavarne l’essenziale con una perfetta chiarezza.

È il meno che se ne possa dire e l’«atto liberatorio di Lorenz» con-sisterà essenzialmente nello «stabilire una chiara divisione dei ruoli tral’etere da un lato e la materia ponderabile dall’altro18» – cioè, comeprecisa Einstein (nel testo appena citato): «nel privare l’etere delle suequalità meccaniche e la materia delle sue qualità elettromagnetiche».

In effetti, Lorentz, il quale aveva intrapreso assai giovane a riscrive-re tutta l’ottica in termini elettromagnetici (in applicazione diretta delrisultato ottenuto da Maxwell secondo il quale la luce è un’onda elet-tromagnetica) aveva potuto sperimentare meglio di chiunque altro ledifficoltà causate dall’incapacità in cui si trova la teoria di Maxwell aseparare l’etere dalla materia. Era allora giunto a una rappresentazionedell’etere che, pur essendo compatibile con le equazioni di Maxwell nerinnovava completamente la concezione. L’etere, nella teoria di Lorenz,

17A. Einstein, Allocuzione pronunciata sulla tomba di Lorentz. Hendrik Antoon Lo-rentz (1853-1928) fisico olandese, professore all’Università di Leida, è una delle grandifigure della fisica dell’inizio del secolo. Einstein ammirava molto Lorentz («Ammiroquest’uomo più di chiunque altro; posso anche dire che lo adoro», lettera a Laub,maggio 1909). L’ammirazione di Einstein andava sia all’opera scientifica di Lorenzche al suo impegno politico al servizio della pace in Europa.

18P. Ehrenfest, Professor H. A. Lorentz as Researcher, testo incluso nei CollectedPapers di Ehrenfest, Amsterdam 1955, p. 471-478. Paul Ehrenfest (1880-1933),amico di Einstein e di Bohr, è certamente il fisico il cui spirito originale e critico hacontribuito di più alla elaborazione da parte di altri (Bohr e Einstein, appunto) dellafisica del XX secolo.

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L’etere e l’opposizione continuo/discontinuo

occupa tutto lo spazio, ivi compreso quello dove si trovano delle parti-celle. Altrimenti detto, Lorentz stabilì subito una coesistenza tra eteree particelle, tra continuo e discontinuo19. Questa concezione è stata va-lutata come «liberatrice» dai fisici in primo luogo perché permetteva ditornare all’antica concezione delle cariche trasportate da particelle ma-teriali e della corrente come movimento di queste cariche. Ma l’«attoliberatorio» di Lorenz va più lontano. Esso permette di costruire una rap-presentazione (ciò che era impossibile nella concezione di Maxwell) dellaproduzione del campo elettromagnetico (e dunque della luce) mediantela sola materia o più esattamente mediante il suo movimento soltanto.Come indica Einstein questo è possibile solo perché la materia è stata«privata di qualità elettromagnetiche»; la materia non ha che un’unica«qualità»: il movimento – come è sempre stato da che esiste la fisica(da Galileo e Newton20) – ed è con questa unica «qualità» che essainterviene nell’elettromagnetismo. Quanto alle «qualità» propriamenteelettromagnetiche, esse sono appannaggio dell’etere.

Questo è pertanto «privato delle proprietà meccaniche»? È quelloche Lorentz e i suoi contemporanei hanno creduto. E la citazione ri-portata prima lascia intendere che tale è anche l’opinione di Einstein. Ineffetti, questo non è completamente vero. Certo, l’etere non contribuiscepiù, in quanto supporto dell’energia, alla costituzione del campo, il cam-po una volta creato (dal movimento della materia) esiste, e si propaga,in maniera autonoma nello spazio vuoto. In questo senso, le proprietàmeccaniche dell’etere sono diventate totalmente superflue, dunque ine-

19La rappresentazione data qui è di proposito semplificata, allo scopo di mettere inrilievo soltanto i punti sui quali i lavori di Einstein del 1905 avrebbero apportato unosconvolgimento. Di fatto, da Maxwell a Lorentz, la storia dell’etere e dei suoi rapporticon la materia ha conosciuto diverse trasformazioni. In uno studio più completoconverrebbe analizzare i contributi della scuola tedesca, in particolare le ricerche diHelmholtz e Hertz.

20Attribuire alla materia altre «qualità» che il movimento è precisamente ciò checostituiva problema per i contemporanei, e per Newton stesso, nell’idea newtonianadi gravitazione.

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sistenti. Ma, di fatto, e come farà notare Einstein nel 1905, l’etere haconservato una proprietà meccanica, quella di non avere moto, di essereimmobile. Questa «stazionarietà», come veniva chiamata, dell’etere èassolutamente necessaria nello schema di Lorentz, perché è in rapportoall’etere che si individua il moto delle particelle, il quale crea il campo. . . L’etere conserva un ultimo residuo di «meccanicità», e dunque, a cau-sa dell’associazione materia/moto, una certa «materialità». Si vedrà nelcapitolo seguente che cosa Einstein farà di questi residui.

Riassumendo, la teoria di Lorentz ha quale merito principale di averseparato i ruoli: la materia è discontinua e ha per «qualità essenziale ilmoto, che essa effettua in conformità con le leggi di Newton; è questomovimento che crea il campo, in termini di una conversione di energiacinetica (energia di moto della materia) in energia elettromagnetica (tra-sferita all’etere, sostanza continua la cui natura è mal definita; tutt’alpiù si sa che l’etere non ha carattere meccanico, e soltanto «qualità»elettromagnetiche); una volta creato, il campo continua ad esistere e sipropaga in conformità con le equazioni di Maxwell. Poiché fissa a ciascu-no un ruolo, la teoria di Lorentz costituisce un tentativo di unificazione,relativamente riuscito, tra la teoria di Newton e quella di Maxwell, trala teoria del discontinuo e quella del continuo.

La teoria di Lorenz presenta un altro vantaggio, di cui trarrà profittoEinstein. Postulando la coesistenza del continuo e del discontinuo, Lo-rentz fa della teoria dell’elettromagnetismo, fino ad allora macroscopica(trattando dei corpi in generale senza voler sapere nulla della loro costitu-zione interna), una teoria la cui validità è estesa al dominio microscopico,applicabile altrettanto bene all’atomo (e anche all’elettrone) che alle ga-lassie21. Il problema del continuo e del discontinuo è dunque risolto?

21A dire il vero, era difficile, all’epoca, non porsi la questione della validità del-l’elettromagnetismo a livello microscopico: J. J. Thomson nel 1897 aveva messosperimentalmente in evidenza l’esistenza dell’elettrone. È significativo che la teoria diLorentz, nella sua seconda versione, apparsa a partire dal 1892, sia conosciuto sottoil nome di «teoria dell’elettrone di Lorentz».

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Certamente no. Perché la sintesi operata da Lorentz non è avvenutase non a prezzo dell’introduzione di un dualismo tra campo e particella,continuo e discontinuo, che, se permette di semplificare la teoria fisicaattribuendo il continuo all’etere (il campo) e il discontinuo alla materia(gli atomi e i loro elettroni), non regola altrettanto la questione dei lororapporti reciproci. Il problema resta aperto, è anche acuito nella misurain cui il campo e le particelle sono pensate come entità irriducibili leune alle altre. Come, in queste condizioni, pensare l’interazione tra ilcampo e la materia, questo incontro tra due «contrari»? Insomma, inMaxwell, l’interazione tra il campo e la materia era difficile da concepireperché i due concetti erano troppo mescolati l’uno all’altro; in Lorentzla difficoltà dipende dal fatto che essi sono troppo fortemente separati.Scrive Einstein:

Se si considera criticamente questa fase dello sviluppo dellateoria, si resta colpiti dal dualismo insito nel fatto che il puntomateriale, nel senso newtoniano e il campo come un continuo,stiano l’uno accanto all’altro come concetti elementari22.

Che il problema non fosse stato risolto si manifestava di più, co-me sempre in fisica, attraverso le contraddizioni del formalismo. Scriveancora Einstein:

H. A. Lorentz giunse a compiere la sintesi della meccanicanewtoniana e della teoria del campo di Maxwell23. La sua teoriaaveva un punto debole: cercava di determinare gli eventi com-binando equazioni alle derivate parziali (equazioni del campo diMaxwell per lo spazio vuoto) ed equazioni differenziali (equazionidel moto di un punto). Il che era un procedimento artificioso. Sipoteva misurare l’imperfezione di questa concezione dalle necessitàin cui ci si trovava di considerare le particelle come dotate di una

22A. Einstein, Autobiografia scientifica, cit. p. 77.23A. Einstein, Fisica e realtà, Opere Scelte, op. cit. p. 544.

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estensione finita perché il campo elettromagnetico presente allaloro superficie non diventasse infinitamente grande [. . . ] H. A. Lo-rentz, in un primo tempo chiuse gli occhi su questi difetti della suateoria, ben conosciuti da lui, al fine di dare una rappresentazionecorretta dei fenomeni almeno in modo approssimato.

La semplificazione, come si vede, era soltanto apparente, in ogni casoapprossimativa. A guardare da vicino le cose, non si sfuggiva all’eternaquestione di sapere come distribuire un’energia veramente continua suun discontinuo che non fosse approssimativo. A guardare ugualmente davicino, la separazione in energia cinetica propria della materia ed ener-gia elettromagnetica caratteristica dell’etere, appariva come artificiale,a dispetto del (e probabilmente a causa del) suo potere semplificatore:«l’energia cinetica e l’energia del campo – scrive Einstein24 – appaio-no sostanzialmente diverse. La cosa risulta tanto più insoddisfacente inquanto, secondo la teoria di Maxwell, il campo magnetico di una cari-ca elettrica in movimento rappresenta l’inerzia [risultato dimostrato nel1885 che si chiede qui di dare per acquisito]»

Inoltre, la teoria di Lorentz soffriva di un difetto che retrospettivamen-te può apparire tale da condannarla senza appello: essa non soddisfacevail principio di relatività enunciato da Galilei, e sul quale si era costruitatutta la fisica. Secondo questo principio il moto di traslazione uniformenon produce alcun effetto fisico; ne consegue che tutti i moti che nondifferiscono tra loro se non per una semplice traslazione sono fisicamen-te equivalenti e che dunque non si può mai essere sicuri di trovarsi inuno stato di quiete assoluta (poiché questa quiete potrebbe anche essereuna traslazione senza che sia possibile decidere empiricamente tra le duepossibilità. In altri termini, il principio di relatività esclude l’idea chepossa esistere un «sistema di riferimento», cioè un corpo in rapporto alquale si definisce il moto) il quale sia in quiete assoluta e in relazioneal quale si possano individuare tutti i moti. Ora, l’etere «stazionario» di

24A. Einstein, Autobiografia scientifica, cit., p. 78.

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Lorentz, in rapporto al quale è riferito il moto delle particelle di materia,e in rapporto al quale si calcolano, mediante le equazioni di Maxwell, glieffetti elettromagnetici, appare propriamente come uno di questi sistemidi riferimento assoluti banditi dal principio di relatività.

Per Lorentz, le equazioni di Maxwell nello spazio vuoto non eranovalide che per un solo sistema di coordinate ben determinato, e cheappariva definito dallo stato di quiete relativamente a tutti gli altri sistemidi coordinate. Era questa una situazione veramente paradossale, poichéquesta teoria sembrava, più della meccanica classica, limitare il sistemainerziale25. Questa circostanza, che appariva completamente immotivatada un punto di vista empirico, non poteva non portare alla teoria dellarelatività26.

3.6 Einstein e la ripartizione dell’energia elettro-

magnetica

Certamente, «questa circostanza non poteva non portare alla teoriadella relatività», ma questo esito non sarebbe avvenuto in maniera diretta.Come si vedrà ora, il cammino intrapreso da Einstein passa innanzituttoattraverso un approfondimento delle concezioni elettromagnetiche e unacritica delle teorie di Maxwell e Lorentz.

In effetti, l’idea che la teoria di Maxwell-Lorentz possa non soddisfarepienamente il principio di relatività non è stata forse mai seriamente con-

25Si chiama «sistema inerziale» un sistema di coordinate (o sistema di riferimento)in rapporto al quale le leggi della meccanica classica sono valide. Queste leggi valgonoallora, in virtù del principio di relatività, in tutti i sistemi di riferimento che sonoin moto uniforme gli uni rispetto agli altri; esiste dunque nella fisica classica, unaclasse di sistemi di riferimento privilegiati, tutti equivalenti dal punto di vista delleleggi della meccanica. L’esistenza di una classe di sistemi di riferimento equivalenti, èevidentemente incompatibile con quella di un sistema di riferimento in quiete assoluta,come appare l’etere di Lorentz.

26Allocuzione pronunciata sulla tomba di Lorentz, cit.

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siderata dai fisici, poiché costruendola in modo «dinamico» Maxwell siera appoggiato sui principi basilari della meccanica, necessariamente re-lativistici. In ogni caso Einstein non potrebbe essere più chiaro su questopunto: «La teoria del campo elettromagnetico di Maxwell-Lorentz servìda modello alla teroria dello spazio-tempo e alla cinematica della teoriadella relatività ristretta. Di conseguenza essa soddisfa le condizioni dellateoria della relatività ristretta [corsivo mio]; ma essa assume un aspettonuovo quando la si consideri dal punto di vista di quest’ultimo»27 – cioèsotto l’angolo della non esistenza di un sistema di riferimento privile-giato, in stato di quiete. Il punto di vista relativistico è dunque apparsocome tale da dare un chiarimento nuovo alle difficoltà incontrate peraltronell’applicazione e la comprensione della teoria di Maxwell-Lorentz, diffi-coltà alle quali si è già fatto cenno. Come dice Einstein, commentando ilavori di Lorentz28: «Quindi, la rivoluzione incominciata con l’introduzio-ne del campo non era affatto terminata». È a lui che spetterà il meritodi questo compimento.

Tra le difficoltà presentate dalla teoria di Lorentz, c’è senza dubbioquella legata alla distribuzione dell’energia – distribuzione considerevol-mente semplificata da Lorentz – che ha avuto un ruolo determinante.Come si vedrà, l’articolo del 1905 in cui Einstein avanza l’ipotesi deiquanti, e dove l’introduzione del discontinuo nell’irraggiamento continuopone subito la questione della coesistenza del discontinuo e del continuo,ha come punto di partenza la dimostrazione del fatto che la ripartizioneimmaginata da Lorentz in energia cinetica attribuita alla materia disconti-nua ed energia elettromagnetica localizzata nell’etere continuo conduce,in un caso particolare importante, a un impasse.

Questo caso particolare importante riguarda il dominio microscopico;cioè il fatto che, senza i lavori di Lorentz che introducono il microscopiconella teoria elettromagnetica fino ad allora macroscopica, nulla sarebbe

27A. Einstein,L’Etere e la teoria della relatività, Opere Scelte, op. cit. p. 51028A. Einstein, Autobiografia scientifica, cit. p. 78.

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stato possibile29. Einstein, e non era il solo, si interessava allora al modoin cui la luce si produce. Si è visto che in base alla teoria di Lorentz, è ilmoto delle particelle cariche (gli elettroni degli atomi) a essere responsa-bile della produzione di un campo elettromagnetico, il quale, una voltagenerato, si propaga in maniera indipendente, avendo «dimenticato» l’a-tomo che gli ha dato origine. Einstein dunque si interessava all’atomoin quanto sistema concernente l’elettromagnetismo.

Ma se è il moto degli elettroni dell’atomo a produrre il campo elet-tromagnetico (e dunque la luce irradiata dai corpi), allora quest’ultimodeve dipendere dalla temperatura. In effetti, essendo particelle materiali,gli elettroni sono sottoposti alle leggi della meccanica statistica, stabili-te da Maxwell e Boltzmann nel periodo precedente, in virtù delle qualila temperatura di un sistema è ciò che regola l’agitazione dei suoi co-stituenti. L’agitazione degli elettroni essendo sotto la dipendenza dellatemperatura ambiente (si vedrà tra poco secondo quale legge), la luceche gli atomi di un corpo emettono deve dipendere dalla temperaturaalla quale questo corpo si trova. È questo un fatto che si incontra spessonella vita corrente: il colore di un corpo riscaldato varia con la sua tem-peratura; è anche così, si dice, che gli operai della metallurgia sono ingrado di apprezzare «ad occhio» la temperatura di un metallo in fusione.In fisica, questo problema della relazione tra la luce emessa da un cor-po e la sua temperatura porta il nome di «radiazione del corpo nero»30.Esso costituiva all’inizio del secolo l’oggetto di numerose ricerche tantosperimentali che teoriche – ricerche che dopo la «teoria dell’elettrone

29Il fisico della generazione presente considera la concezione a cui è arrivato Lorentzcome la sola possibile; ma a quel tempo era un passo audace e sorprendente, senzail quale non sarebbero stati possibili i successivi sviluppi. A. Einstein, Autobiografiascientifica, cit. p. 77.

30Questo appellativo bizzarro si riferisce al fatto che per osservare la luce prodottada un corpo riscaldato si è obbligati a chiudere quest’ultimo in un forno (dove, comesi sa, «fa nero») e a osservare la luce emessa attraverso un foro praticato nella paretedel forno; l’espressione corrispondente in tedesco è «radiazione nera».

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di Lorentz» si basavano tutte sull’applicazione a questo problema del-la teoria elettromagnetica di Maxwell-Lorentz, ormai valida nel dominiomicroscopico.

Einstein, da parte sua, non era uno specialista di elettromagnetismo.Del resto di che cosa avrebbe potuto veramente essere specialista dalmomento che aveva soltanto 26 anni? Egli aveva appreso l’elettroma-gnetismo di Maxwell nel corso dei suoi studi, effettuati al Politecnicodi Zurigo negli anni 1895-1900, sotto la direzione dei migliori professoridell’epoca31. Poi, non aveva quasi fatto uso di questo sapere, ma si eratenuto al corrente dei lavori in corso; aveva letto una gran parte degliarticoli di Lorentz e, durante i cinque anni che separano la sua uscita dalPolitecnico dal suo annus mirabilis, il 1905, aveva lavorato nel campodella meccanica statistica, nonostante le difficoltà materiali legate allasua situazione di «disoccupato diplomato».

La meccanica statistica32 era stata sviluppata in vista di studiare leproprietà della materia collegate alla sua costituzione atomica. In questosenso, essa si era costruita ai suoi inizi, contemporanei a quelli dell’elet-tromagnetismo (la metà del XIX secolo) a margine e indipendentementedalla teoria elettromagnetica che era allora essenzialmente macroscopica.I legami tra queste due branche della fisica era stato possibile intesser-li soltanto con l’avvento della teoria microscopica detta «dell’elettrone»di Lorentz. Einstein non era dunque il primo a voler collegare tra lo-ro l’elettromagnetismo e la meccanica statistica. Tuttavia, Einstein è ilprimo ad aver posto in evidenza che le due teorie erano fondamental-mente incompatibili. Egli è anche il primo ad aver saputo ricollegarequesta incompatibilità ai problemi lasciati senza risposta dalla teoria di

31Non dispiaccia a una certa vulgata, Einstein non era autodidatta. Quanto allasua reputazione di studente non diligente, essa esige di essere relativizzata; Einsteinera quel genere di studente non diligente che fa soltanto di testa sua e studia solo ciòche gli piace, tanto è ossessionato da un certo numero di questioni di fondo.

32I suoi principi e i suoi metodi saranno discussi nel capitolo seguente.

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Maxwell-Lorentz. Ricordando questo periodo egli scrive33:

Il mio problema principale era questo: dalla formula della ra-diazione [«formula» largamente empirica che descrive la radiazionedel «corpo nero»], quali conclusioni generali si possono trarre inmerito alla struttura della radiazione [cioè del campo elettroma-gnetico] e, ancor più generalmente, alle basi elettromagnetichedella fisica?

Einstein manifestava in questo una preoccupazione che ebbe da uncapo all’altro della sua vita, quella dell’unità della teoria fisica. Perchéper voler valutare la compatibilità di due teorie, e con ciò stesso chiarirel’una alla luce dell’altra, occorre essere convinti del fatto che queste dueteorie devono essere compatibili e fare necessariamente parte della stessacostruzione intellettuale. Mentre i contemporanei cercavano soltantodi associare la meccanica statistica e l’elettromagnetismo, Einstein, daparte sua, si poneva il problema della loro unità logica e concettuale.

Non è sorprendente che questa ricerca vertesse sull’utilizzazione delconcetto di energia, concetto unificante per eccellenza (del quale Maxwellaveva già saputo fare l’uso che si sa). La domanda che Einstein siponeva era dunque la seguente: le due teorie, l’elettromagnetismo e lameccanica statistica, facevano un uso coerente del concetto di energia?La legge di conservazione dell’energia, la quale vuole che una forma dienergia sia sempre trasformata in un’altra equivalente, veniva rispettataquando nell’analisi di un processo fisico (all’occorrenza la radiazione «delcorpo nero») intervenivano insieme l’elettromagnetismo e la meccanicastatistica?

Veniamo adesso alla spiegazione dettagliata del ragionamento di Ein-stein. La radiazione del corpo nero può essere concepita come una tra-sformazione di energia cinetica acquisita dagli atomi sotto l’effetto dellatemperatura in energia radiante (elettromagnetica). La concezione in

33A. Einstein, Autobiografia scientifica, cit. p. 83

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vigore della radiazione elettromagnetica sarà verificata se l’energia cine-tica corrispondente alla Temperatura si ritrova interamente sotto formadi energia luminosa.

La relazione che stabilisce un legame tra l’energia cinetica dei costi-tuenti di un corpo e la temperatura di quest’ultimo è l’oggetto di unodei teoremi fondamentali della meccanica statistica: il teorema dettodell’«equipartizione dell’energia» che ripartisce l’energia cinetica in mi-sura uguale tra i differenti «gradi di libertà» del sistema. Il numero di«gradi di libertà» di un sistema è definito come il numero di possibilità in-dipendenti che hanno di spostarsi gli elementi costitutivi del sistema; cosìun sistema isolato ha tre gradi di libertà corrispondenti alle possibilitàche possiede di spostarsi secondo ciascuna delle tre direzioni indipendentidello spazio; un sistema costituito da due atomi senza interazione possie-de sei gradi di libertà e così via. Il teorema di equipartizione dell’energiaprecisa anche che, per un sistema mantenuto alla temperatura T34, un’e-nergia del valore kT/2 è associata a ciascun grado di libertà del sistema,dove k designa una costante universale detta di Boltzmann.

Una volta stabilita questa corrispondenza tra l’energia cinetica dellamateria responsabile del campo e la temperatura, il problema della com-patibilità tra l’elettromagnetismo e la meccanica statistica si pone nelmodo seguente: dato che la teoria di Maxwell-Lorenz stabilisce una di-stribuzione precisa dell’energia in energia cinetica attribuita alla materiaed energia elettromagnetica diffusa nell’etere, l’energia dei diversi gradidi libertà del sistema di particelle produttrici di luce si ritrova tutta sottoforma elettromagnetica nell’etere?

È questo il problema che Einstein formula nel primo paragrafo delsuo articolo del 1905 sui quanti. E, come previsto, giunge a una incom-patibilità35:

34T è riferita alla scala delle temperature «assolute», il cui zero si situa a –273gradi della scala Celsius.

35A. Einstein, Un punto di vista euristico relativo alla generazione e allatrasformazione della luce, cit., p.119

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L’etere e l’opposizione continuo/discontinuo

§1 Su una difficoltà relativa alla teoriadella radiazione di corpo nero

Per cominciare ci collochiamo nella prospettiva della tweoriadi Maxwell e della teoria dell’elettrone [di Lorentz] e consideriamoil caso seguente. In una regione dello spazio, chiusa da paretiperfettamente riflettenti, si trovi un certo numero di molecole digas e di elettroni; supporremo che essi siano liberi di muoversi e cheesercitino l’uno sull’altro forze conservative quando si avvicinanomolto tra loro, cioè che possano entrare in collisione come molecoledi un gas secondo la teoria cinetica dei gas. Supporremo inoltreche un certo numero di elettroni siano attratti da punti dello spazio,molto distanti gli uni dagli altri, con forze orientate verso questipunti e proporzionali alle elongazioni.

Questi ultimi «modellizzano» gli elettroni legati ad atomi; sono essiche, dal momento del loro moto, emettono luce.

Chiameremo «risonatori» gli elettroni legati ai punti dello spa-zio; essi emettono e assorbono onde elettromagnetiche di frequen-za determinata.

Si ha qui la descrizione del «corpo nero» tradizionale e «secondo ilmodo attuale di concepire l’origine della luce, la radiazione nello spazioconsiderato, ottenuta applicando la teoria di Maxwell [. . . ], dev’essereidentica alla radiazione nera». La meccanica statistica permette allora dicalcolare l’energia cinetica media di un elettrone risonatore in funzionedella temperatura alla quale l’insieme è mantenuto; basta calcolare ilnumero di gradi di libertà del risonatore; si trova che l’energia cineticadi un risonatore equivale a kT. Continua allora Einstein:

Facciamo ora un ragionamento analogo a proposito dell’inte-razione tra i risonatori e la radiazione presente nello spazio.

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L’etere e l’opposizione continuo/discontinuo

Il calcolo è già stato fatto da Planck e dà per l’energia media di unrisonatore che emette una luce di frequenza ν36 un’espressione che fa in-tervenire il rapporto della densità di energia elettromagnetica ρ per unitàdi volume (e unità di frequenza) al quadrato della frequenza: E=αρ/ν2

essendo qui α un coefficiente non esplicitato per semplificare. Secondo lateoria di Lorentz, la produzione di luce da parte di un atomo corrispondealla conversione dell’energia cinetica di un «risonatore» (kT) in energiaelettromagnetica secondo il calcolo di Planck, altrimenti detto

kT=αρν2

Cioè:

ρ= kTν2/α

Commenta Einstein:

Questa relazione, che è stata trovata come condizione dell’e-quilibrio dinamico [in applicazione rigorosa della ripartizione del-l’energia prescritta dalla teoria di Lorentz] non trova confermanell’esperienza; di più, essa asserisce che, nel quadro da noi trac-ciato, non si può parlare di una ripartizione precisa dell’energia traetere e materia [corsivo mio].

In effetti, più si estende il dominio delle frequenze assegnate ai ri-sonatori, più l’energia di radiazione che riempie lo spazio aumenta e allimite si ottiene un valore infinito37 per l’energia elettromagnetica. Oltreil fatto che un valore infinito non ha senso (Ehrenfest a questo proposito

36La frequenza, legata alla lunghezza d’onda, è ciò che in fisica quantifica il colore.La frequenza varia in modo continuo attraverso lo spettro delle luci visibili, spettrodell’arcobaleno), dove l’estremità viola dello spettro corrisponde a una frequenza piùelevata dell’estremità rossa. L’ultravioletto, di cui si tratterà più avanti, corrispondedunque a frequenze elevate.

37Infatti l’energia totale dev’essere ottenuta «integrando» la densità di energia sututto lo spazio e tutte le frequenze (ρ è la densità per unità di volume e per unità difrequenza). Ora ρ varia come ν2. Il suo integrale fra 0 (basse frequenze) e l’infinito(alte frequenze) è infinito.

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ha parlato di «catastrofe ultravioletta», legata all’esistenza di frequenzeluminose elevate), una tale conclusione rimette in causa la ripartizionedell’energia tra la materia e l’etere caratteristica della teoria di Lorentz:tutta l’energia è accaparrata dal campo (l’etere), gli atomi (o elettroni«risonatori») hanno un’energia nulla, o infinitamente piccola - il che nonha senso.

Questa difficoltà deve richiamarci alla memoria (è almeno l’interpre-tazione di Einstein) che il problema della coesistenza del continuo e deldiscontinuo non è sempre risolto.

Ma nello stesso tempo si intravede quello che è il suo punto debole.La nozione di grado di libertà è stata definita per un sistema costituitoda elementi discreti; l’etere che dipende dal continuo, ed è dunque su-scettibile di una divisibilità infinita, deve essere considerato come dotatodi un numero infinito di gradi di libertà.

Supporre, come si è fatto, che al momento del processo di emissioneun grado di libertà della materia trasferisca tutta la sua energia all’etere,porta a supporre che ogni grado di libertà dell’etere acquisisca l’energiakT.

Non bisogna allora stupirsi che l’energia dell’etere così calcolata diaun risultato infinito. Una conclusione si impone: la rappresentazionedel campo mediante funzioni continue porta ad attribuirgli un numerotroppo elevato (infinito) di gradi di libertà.

Questa rappresentazione continua è responsabile delle difficoltà; èessa che bisogna rimettere in discussione. Scrive Einstein nel suo articolosui quanti:

La teoria ondulatoria della luce basata su funzioni spaziali con-tinue si è dimostrata eccellente per la descrizione dei fenomenipuramente ottici e non sarà certo mai sostituita da un’altra teoria.Si deve tuttavia tener presente che le osservazioni ottiche si riferi-scono a valori medi temporali, e non già a valori istantanei, e no-nostante gli esperimenti abbiano pienamente confermato la teoriadella diffrazione, della riflessione, della rifrazione, della dispersione

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L’etere e l’opposizione continuo/discontinuo

e così via, è concepibile che una teoria della luce basata su funzio-ni spaziali continue porti a contraddizione con l’esperienza se la siapplica ai fenomeni della generazione e della trasformazione dellaluce.

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Capitolo 4

Einstein, o il perfezionamento del concetto di campo

4.1 La crisi ontologica della fisica

Il capitolo precedente si è concluso su una constatazione di fallimen-to: quello dell’etere continuo, che portava a una «contraddizione conl’esperienza» nel caso dell’emissione di luce da parte di un corpo riscal-dato (radiazione del corpo nero). La contraddizione in realtà è tra dueteorie, l’elettromagnetismo e la meccanica statistica. Ci si può stupiredella fretta con cui Einstein incrimina l’elettromagnetismo piuttosto chela meccanica statistica. Qual è la ragione per la quale quest’ultima godenella sua mente di un tale pregiudizio favorevole?

Il fatto è che Einstein è l’erede della tradizione tedesca della finedel XIX secolo. I fisici tedeschi avevano reagito da Tedeschi, cioè comestudiosi allevati nella tradizione filosofica di Kant, all’avvento della teoriaelettromagnetica sviluppata essenzialmente in Inghilterra. Senza entrarenei dettagli, diciamo che il confronto delle teorie di Maxwell e Faradaycon il sistema filosofico di Kant si era tradotto in quella che è statadefinita una critica del meccanicismo, e più precisamente nella chiamatain causa dell’immagine (Bild) della natura in termini di punti materialie dei loro moti implicita nella fisica Newtoniana, la quale era servita difondamento alla teoria della conoscenza di Kant1.

1Vedere a questo riguardo la voce «Immagine» del glossario che accompagna lariedizione della raccolta dei testi di Bohr intitolata Physique atomique et connaissancehumaine, Gallimard 1991; prefazione e glossario redatti da C. Chevalley.

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Einstein, o il perfezionamento del concetto di campo

Questa critica ha dato origine, presso tali fisici di approfondita culturafilosofica che allora l’università tedesca produceva, a due correnti, unafenomenologica, l’altra conosciuta sotto il nome di energetismo. Questedue tendenze sono perfettamente descritte da Ludwig Boltzmann in undiscorso pronunciato dinanzi all’assemblea dei fisici tedeschi del 18992.

I sostenitori della tendenza fenomenologica, spiega Boltzmann, par-tono dall’idea, suggerita dalla maniera in cui la teoria di Maxwell è stataprodotta e quindi verificata da Hertz3, che la validità di una teoria nonviene dal fatto che sia dedotta dall’esperienza, ma piuttosto dal suo ac-cordo con i fatti, una volta che sia stata formulata. Essi ne concludonoche «la fisica deve avere come unico obiettivo la scrittura di equazionida cui si possa dedurre quantitativamente il corso dei fenomeni, e questosenza l’aiuto di alcuna ipotesi, di alcun modello, e di alcuna spiegazionemeccanica». Aggiunge Boltzmann:

È questa una forma estrema di fenomenologismo, che qualifi-cherei come matematico, mentre la fenomenologia generale cercadi descrivere ogni gruppo di fatti enumerando i fenomeni dipen-denti dal dominio considerato e menzionandone la storia naturale[. . . ]. Si rinuncia così a ogni concezione uniforme della natura, adogni spiegazione meccanica e ad ogni altra forma di fondamentorazionale. Quest’ultimo punto di vista è ben riassunto dall’enun-ciato di Mach4 secondo il quale l’elettricità non è nient’altro che

2L. Boltzmann, Populäre Schriften, saggi N. 14, Leipzig 1905, riprodotti in tra-duzione inglese in L. Boltzmann, Theoretical Physics and Philosophical Problems,Dordrecht e Boston, a cura di B. McGuinness, Reidel, 1974, p. 77-100.

3Nel 1887, Heinrich Hertz (1857-1894) aveva dimostrato che un’onda costituitada un campo elettrico e da un campo magnetico ortogonali tra di loro si propaga lungoun filo alla velocità della luce, in conformità con le previsioni della teoria di Maxwell.

4Ernst Mach (1838-1916). Einstein aveva seriamente studiato l’opera di Machnella sua giovinezza. È anche, secondo la sua testimonianza, il filosofo che, con Humelo ha influenzato di più. Egli descrive così la «dottrina» di Mach: «Secondo Mach, lascienza non è altro che l’atto di confrontare e ordinare, secondo certi punti di vista ecerti metodi progressivamente appropriati, i dati che si trovano effettivamente presenti

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Einstein, o il perfezionamento del concetto di campo

la somma di tutte le esperienze che abbiamo a suo riguardo, o chesperiamo di avere. I due punti di vista si assegnano per compito larappresentazione dei fenomeni senza andare al di là dell’esperienza.

La seconda tendenza critica è denominata energetismo. Scrive Bol-tzmann:

Si è dimostrato che equazioni aventi forme analoghe descrivo-no trasformazioni di forme diverse di energia le une nelle altre, elet-trica, magnetica, radiante, etc. [. . . ] questo ha provocato pressoun certo numero di scienziati, che si qualificano come «energetisti»,un entusiasmo tale che essi sono giunti ad affermare che dobbiamonecessariamente rompere con tutte le nostre concezioni anteriori[. . . ] La nuova dottrina ritiene che il concetto di energia costi-tuisce l’unico punto di partenza possibile nell’investigazione dellanatura [. . . ] Essi [gli energetisti] considerano superflua e pregiu-dizievole ogni forma di modello meccanico che suggerisca perchél’energia assume una forma o un’altra [. . . ] La fisica, e di fattoogni futura scienza della natura, è per essi soltanto la descrizionedel comportamento dell’energia.

Si vede bene ciò che nello sviluppo della teoria elettromagnetica hapotuto motivare l’una o l’altra presa di posizione. Il fatto che Maxwellnon abbia formulato alcuna ipotesi circa la natura del suo mezzo e abbiapotuto così giungere a equazioni che descrivono completamente il campoelettromagnetico serve a giustificare il punto di vista fenomenologistico.Ugualmente, il ruolo che Maxwell assegna all’energia, ruolo precisatoe accentuato in seguito nella teoria dell’elettone di Lorentz, serve difondamento al punto di vista dell’energetismo.

alla nostra coscienza. La fisica e la psicologia si distinguono di conseguenza, non peril loro oggetto, ma soltanto per il punto di vista sotto il quale i materiali sono ordinatie concatenati [. . . ] I concetti non hanno significato che nella misura in cui si possonodesignare chiaramente le cose a cui si rapportano». Per questa ragione Mach rifiutavadi ammettere l’esistenza di atomi che non aveva mai visti. Einstein evidentementenon lo seguiva su questo punto.

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Nei riguardi della teoria della conoscenza, i due punti di vista si ca-ratterizzano per una rinuncia all’idea (centrale in Kant) di una immagine(Bild) dei concetti. La meccanica poggiava su una rappresentazione chia-ra degli oggetti di cui parlava: punti materiali, atomi. Nella concezionefenomenologica restano solo le equazioni matematiche (o le sensazioni,che non forniscono un’immagine); quanto alla concezione energetistica,essa procede dall’applicazione di principi non visualizzabili (essenzialmen-te il principio di conservazione dell’energia). Il punto importante per losviluppo della fisica è che queste due concezioni corrono un rischio totaleriguardo al concetto di atomo; i due punti di vista sono al tempo stessonon meccanicistici e non atomistici.

Boltzmann, di fronte a questa evoluzione, a questa secessione (poichégli uni e gli altri si presentano come «secessionisti» in seno alla comunitàdei fisici) «saluta la dissidenza» ma afferma alta e netta la necessità diuna concezione atomistica. Davanti ai suoi colleghi egli esclama:

Mi presento a voi come un reazionario, come qualcuno che è ri-masto in coda e ha conservato tutto il suo entusiasmo per le buonevecchie dottrine classiche, contro gli uomini d’oggi [. . . ]. Io pensoche sia mio dovere – scrive altrove5 – impedire i danni che a mioavviso non mancherebbe di causare nella scienza l’innalzamentodella fenomenologia al rango di dogma.

5Saggio N. 10 dei Populäre Schriften, op. cit. indicato nella riedizione inglesecon il titolo «On the Indispensability of Atomism in Natural Science». Come si vede,Boltzmann aveva a cuore le questioni teoriche, e le occorrenze in cui afferma che è suodovere lottare con tutte le sue forze per conservare l’atomismo sono numerose nellasua opera. Boltzmann ha vissuto l’evoluzione della fisica alla svolta del secolo in modotragico: si è suicidato nel 1906, in gran parte per ragioni legate alla sua attività di fisico,non è del resto il solo ad aver vissuto male quella che viene chiamata «la crisi dellafisica». Poincaré, per esempio, si descrive come «circondato da rovine». Si troverannoechi di questa crisi nell’opera di Lenin intitolata Materialismo ed empiro-criticismo;che un uomo politico abbia ritenuto suo dovere di scrivere un libro intero sulla crisidella fisica e sulla «scomparsa della materia» dimostra l’importanza e l’universalità delproblema filosofico posto.

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La convinzione atomistica di Boltzmann poggia sui recenti successiteorici riportati nel quadro di questa concezione, in particolare dalla mec-canica statistica. Il successo più grande di questa teoria è evidentementel’identificazione del calore con l’energia di agitazione (dunque cinetica)dei costituenti (atomi o molecole) del sistema considerato6. Ma non ètutto: l’intera termodinamica (studio delle trasformazioni della materiasotto l’effetto del calore) può essere riformulata, e fondata, in terminiatomistici e statistici. Dopo aver compilato la lista dei fenomeni chela teoria «molecolare» ha permesso di recente di spiegare, Boltzmannaggiunge:

Tutti questi successi, e molti altri che li precedono, non posso-no in alcun modo essere ottenuti dalla fenomenologia o dall’ener-getica; e io affermo che una teoria la quale autorizza spiegazioniche altre teorie non permettono di ottenere, e per di più è con-fortata da un buon numero di fatti della fisica, della chimica, edella cristallografia, una tale teoria, io dico, non dovrebbe esserecombattuta, ma sviluppata.

Chiaramente, nella mente di Boltzmann, la superiorità della teoriaatomistica viene dal fatto che essa spiega un maggior numero di fenome-ni della natura rispetto alle teorie rivali del fenomenologismo e dell’ener-getismo. La teoria atomica è una vera visione del mondo, un’immaginementale (ein geistiges Bild) della natura. Non è necessariamente un’on-tologia. Boltzmann su questo punto è del tutto esplicito: una teoriafisica non deve essere una descrizione vera del mondo oggettivo; è suffi-ciente che sia una rappresentazione, una immagine (Bild) della natura,

6Questo risultato fa parte di ciò che si è convenuto di chiamare «la teoria cineticadei gas» (cinetica, perché l’ipotesi essenziale è quella di una agitazione disordinatadelle molecole di gas, assimilate a punti materiali animati da una certa velocità). Lateoria cinetica dei gas è designata anche all’epoca con il nome di «teoria molecolare».Il teorema dell’equipartizione dell’energia, di cui si è trattato alla fine del capitoloprecedente, dipende da questa teoria.

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«che consenta di rendere conto nella maniera più uniforme e più estesadella totalità dei fenomeni». L’atomismo di Boltzmann non è dunque on-tologico: «La questione se la materia sia costituita di atomi oppure siacontinua si riduce alla questione, ben più chiara, di sapere se il continuoè capace o no di fornire una migliore immagine dei fenomeni».

4.2 Einstein successore e critico di Boltzmann

Al momento, sto studiando di nuovo la teoria dei gas di Bol-tzmann. Tutto vi è perfetto, ma l’accento non è sufficientementeposto sul confronto con la realtà [. . . ]. Penso che questo libro7,in maniera generale, meriti di essere studiato con più attenzione.Ho capito di recente che quando la luce è generata, deve esserviconversione diretta dell’energia di moto in luce a causa del pa-rallelismo energia cinetica delle molecole - temperatura assoluta -spettro (energia radiante in stato di equilibrio nello spazio) chissàquando sarà infine aperto un tunnel attraverso queste montagnecosì dure!

Così si esprime Einstein in una lettera datata 30 aprile 1901, indiriz-zata alla donna che doveva diventare la sua prima moglie, Mileva Maric,ex studentessa come lui del Politecnico di Zurigo8.

Si sarà riconosciuto nella seconda parte della citazione («Ho capi-to. . . ») l’abbozzo del ragionamento riferito nel capitolo precedente chedoveva condurre Einstein a decretare il fallimento della concezione con-tinuista dell’etere, supporto del campo elettromagnetico. È interessanteche il racconto di questa intuizione sia preceduto da considerazioni sullateoria di Boltzmann. Einstein era un fervente ammiratore di Boltzmann(il cui libro sulla teoria dei gas è qualificato di grossartig, in una lettera

7H. Helmholtz, Vorlesungen über Gastheorie, 1898.8The Collected Papers of Albert Einstein, vol. I, The Early Years, 1897-1902, p.

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a Mileva Maric del 13 settembre 1900); egli era perfettamente persuasodella superiorità della rappresentazione atomistica della natura su ognialtra. Come mostrerà l’analisi del seguito della memoria sui quanti, èutilizzando la teoria di Boltzmann che egli sarà portato a proporre una so-luzione al problema della produzione di luce dove il discontinuo si troveràintrodotto in seno al continuo.

Ma prima occorre notare che la teoria di Boltzmann utilizzata daEinstein nel 1905 è una versione modificata di quella originale, nella qualeegli ha tenuto conto della sua critica del 1901, secondo cui «l’accentonon è sufficientemente posto sul confronto con la realtà». In una parola,la concezione atomica non è per Einstein una immagine, ma una realtà.

Negli anni 1902–1904 Einstein, poiché non era integrato nel sistemauniversitario e dunque ignorava i lavori più recenti di meccanica statistica,aveva sviluppato per proprio conto una teoria dei fondamenti statisticidella termodinamica. La termodinamica, com’è noto e come suggeri-sce il suo nome, studia le trasformazioni della materia in rapporto a uncambiamento di temperatura. Boltzmann e Gibbs, negli anni 1890-1905,avevano dimostrato che nel loro insieme le leggi della termodinamicapotevano essere fondate su una rappresentazione atomica della materiae sullo studio del moto degli atomi costituenti in funzione della tempe-ratura9. Da qui il nome di «meccanica» dato a questa teoria; quantoall’aggettivo «statistica», si capisce bene: la termodinamica è una teo-ria macroscopica e soltanto metodi statistici, giustificati dal fatto cheil minimo volume di materia contiene un numero enorme di elementiatomici (dell’ordine di 1023) possono permettere di passare dal livellomicroscopico al livello macroscopico. Uno dei principali risultati deglistudi di Boltzmann concerneva il «secondo principio della termodinami-ca» principio secondo il quale la trasformazione di energia meccanica in

9In questo senso, la teoria cinetica dei gas non è che un caso particolare dellameccanica statistica – la sua applicazione allo stato gassoso della materia.

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calore non è reversibile10 Boltzmann aveva «interpretato» questo prin-cipio in termini di ordine e disordine. Aveva dimostrato che il calorecorrisponde a un moto disordinato (agitazione delle molecole in tutti isensi), mentre l’energia meccanica è ordinata. Il «secondo principio» sispiega allora in maniera semplice: la natura procede sempre nel senso diun disordine crescente (è possibile produrre del disordine a partire dal-l’ordine, ma l’inverso non è vero). Di questa marcia verso il disordine,Boltzmann aveva anche dato una formula: S=k lnW. Qui k è la «costan-te di Boltzmann» di cui si è già trattato. S è la quantità termodinamicadenominata «entropia» introdotta molti anni prima da Clausius; l’inte-resse della relazione S=k lnW, detta «di Boltzmann», consiste nel fattoche essa lega questa grandezza macroscopica, definita per ciascuno statomacroscopico del sistema considerato, a una grandezza dipendente dallostato microscopico del sistema, più precisamente al numero di possibilitàmicroscopiche che ci sono di realizzare questo stato macroscopico, – unostesso stato macroscopico, potendo, evidentemente, corrispondere a piùconfigurazioni dei suoi costituenti atomici11. La formula di Boltzmannappare allora regolare la marcia delle cose . . . almeno nel dominio in cuivalgono le ipotesi su cui riposa la meccanica statistica, cioè quando ilsistema considerato è costituito da atomi (o molecole).

Einstein, nella sua «scoperta» di questo risultato di Boltzmann, ave-va avuto cura di non perdere di vista «il confronto con la realtà» che

10È la ragione per la quale l’espressione «economie di energie», che, se ci si attie-ne alla conservazione dell’energia (proprietà definitoria dell’energia), sembra assurda(qualcosa che resta costante non può essere «economizzato»), ha in definitiva un sen-so: il calore è energia «perduta», nel senso che essa non può essere ritrasformata inlavoro.

11Uno stato macroscopico del sistema, perfettamente ordinato dal punto di vistamicroscopico, corrisponde a un’unica configurazione possibile; la probabilità W (Wper Wahrscheinlichkeit) corrispondente è dunque 1. Per uno stato più disordinato dalpunto di vista microscopico, il numero W, numero di configurazioni possibili, aumenta.L’entropia S, che varia nello stesso senso di W, aumenta dunque quando si passa dauno stato ordinato a un altro meno ordinato.

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rimproverava a Boltzmann di aver trascurato. In particolare, si era im-pegnato a dare alle probabilità W una definizione fisica in termini difrequenza nel tempo12, mentre Boltzmann si era limitato ad argomenti apriori e a combinatorie astratte nel calcolo delle W. Più ancora, Einsteinaveva cercato di dare una interpretazione fisica della costante k. Egli eraarrivato alla conclusione che k misura la stabilità (termica) del sistema.

Ciò richiede una breve spiegazione. La meccanica statistica, poichéè statistica, ragiona su valori medi; ma essa permette anche di conoscerele deviazioni in rapporto a questi valori medi, o piuttosto i valori medidei quadrati di questi scarti - ciò che si designa abitualmente con il nomedi «deviazioni standard». Queste deviazioni standard devono essere inter-pretate come una misura delle fluttuazioni della grandezza considerataattorno al suo valore medio, altrimenti detto, una misura delle fluttuazio-ni del sistema attorno alla sua posizione di equilibrio. Avendo dimostratoche k dà la misura di queste deviazioni (e dunque della «stabilità» delsistema), Einstein aveva cercato un possibile «confronto con la realtà».

Lo aveva trovato nel moto browniano, moto disordinato di particel-le in sospensione (per esempio, granelli di polline in un raggio di sole),perfettamente accessibile all’esperienza. Avendo immaginato un mezzosemplice per misurare le fluttuazioni del moto browniano, egli aveva po-tuto, confrontando il suo risultato con quelli dell’esperienza, convincersidella «realtà della formula» S=k lnW e della giustezza dell’interpretazio-ne che le dava, dove i costituenti individuali del sistema intervengono inquanto esseri fisici (suscettibili di passare più o meno tempo in una o

12Per esempio, se una particella (atomo o molecola), nel corso di un’esperienza chedura un secondo, passa un centesimo di secondo in una certa regione dello spazio, laprobabilità W corrispondente è 1/100. Se si ha a che fare con n particelle indipendenti,la probabilità di una certa configurazione è ottenuta moltiplicando le une con le altreper le probabilità corrispondenti a ciascuna delle n particelle. Se si vuole, come faràEinstein nel suo articolo sui quanti, calcolare la probabilità di una configurazione doven particelle indipendenti si trovano tutte raggruppate in una frazione V/V0 di unvolume V0, si moltiplica n volte la probabilità V/V0 corrispondente a una particellaper se stessa.

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altra regione dello spazio) - e non più soltanto, come in Boltzmann, inquanto elementi di una immagine «fruttuosa» del mondo13.

Quarantadue anni dopo egli scrisse14:

Non conoscendo le precedenti ricerche di Boltzmann e Gibbs,che avevano già esaurito l’argomento, sviluppai la meccanica sta-tistica e la teoria cinetico-molecolare della termodinamica che sibasava su di essa. Il mio scopo precipuo era quello di trovare fattiche confermassero, per quanto era possibile, l’esistenza di atomi dideterminate dimensioni finite. Nel corso di questa ricerca scopriiche in base alla teoria atomica doveva esserci un movimento diparticelle microscopiche sospese, accessibile all’osservazione, sen-za sapere che le osservazioni relative ai moti browniani erano giàda lungo tempo note.

E Einstein aggiunge:

Il successo della teoria dei moti browniani dimostrò ancora inmodo definitivo che la meccanica classica dava sempre risultati at-tendibili [. . . ] Sulla base di questa constatazione, si può costruireun metodo relativamente diretto atto a dirci qualcosa di più sullacostituzione della radiazione [radiazione del corpo nero] partendodalla formula di Planck.

Ci si potrà stupire (e contemporanei non hanno mancato di farlo)del fatto che Einstein abbia potuto inferire dal successo della meccanicastatistica nel dominio delle particelle in sospensione l’applicabilità delmetodo al caso della radiazione che, a prima vista, sembra non aver

13Si possono immaginare i sentimenti tiepidi che Einstein aveva dovuto provarealla lettura di frasi come questa, estratta dalla Teoria dei gas di Boltzmann: «Noiindichiamo [così] quanto siamo lontani da ammettere, in maniera ferma e come unarealtà, che i corpi sono in tutti i loro punti composti di particelle molto piccole».

14A. Einstein, Autobiografia scientifica, cit., p. 83.

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nulla in comune con le particelle15. Il fatto è che Einstein era convinto,da quel momento, del valore unificante incomparabile della concezioneatomica. Si ricordi che già Boltzmann aveva fatto notare che la suaimmagine atomica spiegava un maggior numero di fenomeni rispetto allerappresentazioni fenomenologiche. Si ritrova l’eco amplificata di questaconvinzione in Einstein16

È mia convinzione che il più grande successo della meccanicadi Newton stia nel fatto che le sue coerenti applicazioni hannoportato al di là di tale rappresentazione fenomenologica, partico-larmente nel campo dei fenomeni termici, come si verificò nellateoria cinetica dei gas e, in generale, nella meccanica statistica[. . . ] Questi progressi decisivi furono conquistati mediante la cor-rispondenza posta tra entità atomiche e punti materiali; per cui ilcarattere di costruzione speculativa di quelle entità è ovvio17. Nes-suno potrebbe mai sperare di «percepire direttamente» un atomo[. . . ] In questa maniera la fisica (o almeno una sua parte), costrui-ta originariamente per una via più fenomenologica venne ricondot-ta, basandosi sulla meccanica di Newton applicata alle molecole eagli atomi, a un fondamento ancora più lontano dall’esperimentodiretto, ma di carattere più uniforme [corsivo mio].

È dunque, perché era convinto che i metodi della meccanica statisticafossero insieme più vicini alla «realtà» e più unitari di ogni altro, cheEinstein tentò quello che alcuni hanno potuto considerare un colpo di

15In effetti, l’articolo sul movimento browniano è apparso dopo quello sui quan-ti. Ma la corrispondenza di Einstein in questo periodo, come pure i suoi ricordiretrospettivi, non lasciano alcun dubbio sul fatto che le due ricerche erano condottesimultaneamente.

16A. Einstein, «Fisica e realtà», in Pensieri degli anni difficili, Boringhieri, Torino,1965, p. 51.

17Per Einstein il fatto che si trattasse «pure costruzioni mentali» non toglie nullaal carattere reale degli atomi. La realtà fisica è – egli vi ha sufficientemente insistito– sempre costruita a partire da pure concezioni della mente; tra queste si devonoconservare quelle le cui conseguenze sono in seguito verificate dall’esperienza.

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forza: sostituire ai «fondamenti elettromagnetici della fisica», dei qualiegli aveva provato l’insufficienza.

4.3 Un punto di vista euristico sulla luce

Come Maxwell, cercando di fondare una nuova concezione dei feno-meni naturali, aveva dovuto, in un primo tempo, procedere per analogia(in particolare con i sistemi meccanici regolati dallo stesso tipo di equa-zioni matematiche del sistema elettrico studiato), così Einstein, cercandouna descrizione «statistica» della radiazione, si vede costretto, in una pri-ma tappa «euristica»18, a ragionare per analogia. In particolare, egli deveimmaginare due sistemi, l’uno dipendente senza possibilità di dubbio dal-la descrizione statistica (sarà un gas, costituito da n molecole identichee indipendenti, chiuso in un recipiente e mantenuto a una temperaturafissa, situazione tipo nella teoria cinetica dei gas) e l’altro appartenenteal dominio dell’elettromagnetismo e si tratterà di una radiazione rac-chiusa anch’essa in un contenitore e mantenuto a temperatura fissa –altrimenti detta «radiazione del corpo nero». Si tratta insomma di unaanalogia materia-radiazione che niente a prima vista giustifica se nonl’identità delle condizioni sperimentali (contenitore di volume fisso man-tenuto a una temperatura costante). Einstein dimostrerà che si tratta diuna «analogia matematica», per impiegare un termine caro a Maxwell o,come dice lui stesso19, che esiste «una profonda similitudine formale tragas e radiazione».

Einstein comincia con lo studiare «nel quadro della teoria molecolare,[. . . ] «la dipendenza dell’entropia di un gas dal volume». Dopo aver

18Si qualifica come «euristica» un procedimento che, senza portare prove formalidella sua esattezza, indica una via ragionevole lungo la quale cercare la soluzione diun problema.

19A. Einstein, Quantentheorie des einatomigen idealen Gases, PreussischeAkademie der Wisseschaften, Sitzungberichte, p. 261.

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ricordato che secondo lui le probabilità non sono combinazioni matema-tiche, ma hanno una realtà fisica, egli arriva a una formula che dà lavariazione di entropia del gas (misurando dunque la variazione del gradodi ordine/disordine degli n costituenti di questo gas) quando il volumedel contenitore passa, a temperatura costante da V0, suo valore iniziale,a V (si può immaginare che l’insieme stia in un recipiente chiuso da unpistone che viene spinto più o meno in basso). Questa formula (che nonè necessario sapere, per ciò che qui ci interessa, come Einstein l’abbia di-mostrata, ma della quale bisogna semplicemente notare come è costruita,come si presenta «alla vista»), è la seguente:

S−S0 = variazione di entropia = k ln(V/V0)n

dove k è la costante «di Boltzmann», che interviene nella famosaequazione S = klnW, e n, la lettera all’esponente del rapporto fra ivolumi V/V0 (importante notarlo per il seguito) è il numero di molecolechiuse nel recipiente. Aggiunge Einstein20:

È degno di nota che per ricavare questa equazione [. . . ] nonsia necessario fare ipotesi sulla legge del moto delle molecole.

Osservazione cruciale per chi, come Einstein, ha intenzione di applica-re lo stesso trattamento teorico alla radiazione chiusa in un contenitore:questa impresa ardita sarebbe stata anticipatamente votata al fallimentose per avventura la variazione di entropia del gas fosse dipesa specifica-mente dalle interazioni tra molecole e non fosse stata, come è in effetti,interamente determinata dal fatto che il gas è costituito di elementiindipendenti.

Einstein calcola allora, mediante metodi propriamente termodinamici,dunque sicuri, la variazione di entropia della radiazione racchiusa in un

20In questo paragrafo le citazioni da Einstein, salvo esplicita menzione contraria,sono tutte tratte dall’articolo del 1905 «Un punto di vista euristico relativo alla ge-nerazione e alla trasformazione della luce» (A. Einstein, Opere scelte, a cura di E.Bellone, Bollati Boringhieri, Torino 1988).

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contenitore mantenuto a temperatura fissa, quando il volume del con-tenitore passa da V0 a V, appoggiandosi sulle formule empiriche della«radiazione del corpo nero» delle quali si era già servito nella sua di-mostrazione della insufficienza della teoria elettromagnetica «ordinaria».Ottiene allora una formula che si scrive

S−S0 = variazione di entropia = k ln(V/V0)E/hν

dove h è una costante (la cosiddetta «costante di Planck») e E l’ener-gia della radiazione di frequenza ν chiusa nel contenitore. Confrontandoallora le due formule con la formula di Boltzmann S = k lnW, Einsteinafferma, in base al principio secondo cui similitudini nella scrittura ma-tematica delle leggi non possono essere frutto del caso e sono dunquel’indice di una analogia fisica:

Si giunge alla seguente conclusione:Se una radiazione monocromatica di frequenza ν e di energia

E è racchiusa (da pareti riflettenti) nel volume V0, allora la proba-bilità che in un istante arbitrario tutta l’energia di produzione sitrovi contenuta in un sottovolume V del volume V0 è

W = (V/V0)E/hν

Se ne conclude inoltre che:Sotto il profilo della teoria del calore, una radiazione monocro-

matica di piccola densità [. . . ] si comporta come se consistesse diquanti21 di energia, tra loro indipendenti, di grandezza hν.

Ed egli aggiunge come conclusione provvisoria:

Se ora una radiazione monocromatica (di densità abbastanzapiccola) si comporta, rispetto alla dipendenza dell’entropia dal vo-lume, come un mezzo discontinuo consistente in quanti di energiadi grandezza hν, allora è naturale chiedersi se anche le leggi della

21Il termine «quantum» è correntemente usato in tedesco per indicare unagrandezza «quantificata» e non distribuita con continuità.

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generazione e della trasformazione della luce siano le stesse che siavrebbero se la luce consistesse in quanti di energia del genere.

Non si tratta evidentemente che di una ipotesi, la quale più che euri-stica è «rivoluzionaria», come Einstein scrive a uno dei suoi amici22, maevidentemente Einstein è sicuro di sé; tanto più sicuro, perché, una voltaposta questa ipotesi, certe «osservazioni riguardanti la “radiazione nera”,la fotoluminescenza, la produzione dei raggi catodici per mezzo della lu-ce ultravioletta, e altre classi di fenomeni concernenti la generazione e latrasformazione della luce, appaiono più comprensibili se si ammette chel’energia della luce è distribuita in maniera discontinua nello spazio»23.

Si misurerà il grado di adesione di Einstein alla teoria atomisticadal fatto che egli utilizza la formula di Boltzmann a rovescio rispettoal senso consueto, cioè da sinistra a destra. Fino ad allora, si leggevala relazione S = k lnW da destra a sinistra: si calcolava W, grandez-za dallo statuto mal definito in Boltzmann, mezzo-matematica, mezzo-fisica, e se ne deduceva l’entropia, vera grandezza fisica. La formula diBoltzmann appariva allora come un mezzo per calcolare una grandezzafisica. Niente di ciò in Einstein. Egli determina mediante per via termo-dinamica la grandezza fisica «entropia» e deduce, mediante applicazionedella formula di Boltzmann, una probabilità W che, nella sua mente, èun’altra grandezza fisica, suscettibile di una interpretazione fisica (e nonsemplicemente combinatoria). Questa interpretazione, cioè l’esistenza di«quanti» nel sistema studiato, è motivata dall’osservazione, fatta al mo-mento del calcolo dell’entropia del gas di molecole, secondo la quale laforma dell’entropia ottenuta in questo gas non dipende dalla «legge chegoverna le molecole» e dunque è interamente prodotta dall’indipendenzadelle molecole del gas. Questo gli permette di affermare (in maniera«euristica») che se l’entropia della radiazione ha la stessa forma di quel-

22A. Einstein a Conrad Habicht, primavera 1905, Collected Works, cit.23ibid.; la spiegazione di questi «fenomeni» occupa le ultime pagine dell’articolo

sui quanti.

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la del gas, e se effettivamente questa forma dell’entropia è interamentedovuta all’indipendenza dei costituenti del sistema, allora, la radiazionedeve essere anch’essa costituita di particelle indipendenti.

Ma Einstein procede più lontano. Perché la W così calcolato è inter-pretato da lui come la probabilità che una frazione dell’energia (e noncome un insieme di oggetti «materiali») si trovi concentrata in una cer-ta frazione del volume iniziale. Non soltanto egli attribuisce a W unostatuto «reale», di probabilità concernente oggetti «reali», statuto cheBoltzmann era reticente a concedere ad essa, ma fa di più: completandoe superando in questo l’opera intrapresa da Maxwell e Lorentz, egli af-ferma che l’energia luminosa è un concetto altrettanto «materiale» dellamateria atomica. Infatti, l’energia luminosa che è suscettibile di esserelocalizzata nello spazio, con una probabilità ben determinata che si è cal-colata, deve essere pensata nel modo localizzato e discontinuo propriodella materia. «Si è portati a chiedersi [. . . ] se la luce [non sia] costituitada quanti di energia».

4.4 E l’etere?

Ma da qui stesso si è portati a domandarsi anche che cosa divental’etere in questo caso. Poiché se la luce «è costituita da un numero finitodi quanti di energia localizzati in punti dello spazio», che cosa divental’etere, supporto, per definizione continuo, dell’energia elettromagneti-ca? L’ipotesi più semplice è evidentemente quella della sua scomparsa,in quanto elemento di una visione superata delle cose. E infatti Einstein,nell’articolo sui quanti, non menziona mai l’etere, tranne nel paragra-fo intitolato «Una difficoltà concernente la teoria della “radiazione delcorpo nero”», dove conclude che la distribuzione dell’energia tra eteree materia immaginata da Lorenz non è certamente corretta. Insomma,Einstein agisce già come se l’ipotesi dell’etere fosse «superflua». Ci sonoil vuoto, gli atomi (e i loro elettroni il cui moto produce l’energia elet-

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tromagnetica), i quanti. . . e nient’altro. Alla coesistenza del continuoe del discontinuo che era a fondamento della teoria di Lorentz (e delledifficoltà che un tale dualismo implicava), Einstein sostituisce, sembra,l’immagine monistica di un mondo fatto di «quanti» (quanti di materiae quanti di energia) e del vuoto.

Non è tuttavia del tutto esatto dire che Einstein sostituisca una con-cezione a un’altra. Poiché, dato il potere imponente di spiegazione dellaconcezione ondulatoria continuista, egli non può evidentemente rimpiaz-zarla puramente e semplicemente con un’altra: «La teoria ondulatoriadella luce basata su funzioni spaziali continue si è dimostrata eccellenteper la descrizione dei fenomeni puramente ottici e non sarà certo maisostituita da un’altra teoria». Di fatto, Einstein suggerisce che l’oppo-sizione irriducibile tra continuo e discontinuo, sulla quale Lorentz avevafondato la sua costruzione teorica, non è probabilmente pertinente – poi-ché un solo e stesso oggetto (la luce) presenta, a seconda delle condizionisperimentali, l’uno o l’altro di questi aspetti presupposti contraddittori:l’aspetto ondulatorio nelle condizioni sperimentali dell’ottica e l’aspet-to corpuscolare in quelle della «radiazione nera» che fa intervenire latemperatura.

In questo senso, l’articolo sui quanti del 1905 contiene già in germele aporie della teoria quantistica sviluppata negli anni seguenti24. Ma perquanto ci interessa qui è più importante notare che l’idea che uno stessooggetto possa dipendere allo stesso tempo dal continuo e dal discontinuoconduce necessariamente a mettere in dubbio l’esistenza dell’etere. Que-sto non è indispensabile se non quando si immaginano gli oggetti comenecessariamente puntiformi: l’etere è allora ciò che, per la sua continuità,assicura le relazioni tra questi oggetti, e in una tale concezione non c’èpiù posto per il vuoto. Inversamente, quando si abbandona l’idea che unoggetto debba dipendere sia dal continuo, sia dal discontinuo, l’etere non

24Vedi prefazione di C. Chevalley alla riedizione di N. Bohr, Physique atomique etconnaissance humaine, op. cit.

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ha più ragion d’essere e il vuoto riprende i propri diritti all’esistenza25.Lorentz, poiché opponeva continuo e discontinuo, aveva un bisogno im-perioso dell’etere; Einstein, poiché intravede la possibilità che continuo ediscontinuo non siano fisicamente incompatibili, può immaginare di farnea meno.

Di fatto, l’ipotesi della scomparsa dell’etere era considerata da Ein-stein da molto tempo, da molto prima del 1905. Lo testimonia questoestratto da una lettera a Mileva Maric, dell’agosto 189926:

Sono sempre più convinto che l’elettrodinamica dei corpi inmovimento, com’è presentata attualmente, non è corretta, e chedev’essere possibile presentarla in maniera più semplice. L’intro-duzione del termine «etere» nelle teorie dell’elettricità ha portatoalla nozione di mezzo [animato] di un moto del quale si può par-lare, ma senza essere capaci, mi sembra, di associare il minimosignificato fisico a questa affermazione.

In questa prospettiva, l’introduzione dei quanti è dovuta apparire aEinstein come un semplice punto base (un’indicazione euristica) nellasoluzione delle difficoltà che ingombravano l’elettromagnetismo, difficol-tà delle quali egli aveva assai presto supposto che l’etere fosse in granparte responsabile. Che lo studio delle proprietà termiche della luce(studio della «radiazione nera») abbia mostrato che l’etere non avevanulla di necessario era per Einstein un incoraggiamento importante, manon costituiva affatto una soluzione per il problema delle «vere leggi»dell’elettrodinamica. Parlando del periodo 1900-1905, Einstein scrive27:

25Vedere a questo riguardo l’analisi che fa Kant, nei Primi principi metafisici dellascienza della natura, circa la necessità di supporre un etere a partire dal momento incui si rifiuta l’ipotesi dell’esistenza del vuoto: «È qui la sola teoria che noi ammettiamounicamente perché si può concepirla e per controbilanciare un’altra ipotesi (quella deglispazi vuoti) che si appoggia soltanto sulla premessa che le cose non sono concepibilisenza spazi vuoti».

26The Collected Papers of Albert Einstein, vol. 1, op. cit. p. 225.27A. Einstein, Autobiografia scientifica, cit., pp. 85–86.

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A poco a poco incominciai a disperare della possibilità di sco-prire le vere leggi attraverso tentativi basati su fatti noti. Quantopiù a lungo e disperatamente provavo, tanto più mi convincevo chesolo la scoperta di un principio formale universale avrebbe potutoportarci a risultati sicuri.

Questo principio formale è il problema del moto dell’etere, moto dicui si può parlare, ma senza che si possa averne una interpretazione fisica,che gli sarebbe stata fornita.

Ma prima di esaminare questo punto, che è al centro dell’articolo del1905 fondatore della teoria della relatività ristretta, conviene aggiungerequalche commento alla precedente citazione. In effetti, è nel corso diquesto periodo di tentativi costruttivi disperati che Einstein si è forgiatauna concezione delle teorie fisiche, sulla quale è spesso ritornato, secondola quale converrebbe distinguere due tipi di teorie: le teorie costruttivee le teorie di principio.

In fisica si possono distinguere teorie di diverso tipo. La mag-gior parte sono teorie costruttive. Esse cercano di elaborare, sullabase di un formalismo relativamente semplice, una rappresentazio-ne dei fenomeni più complessi. Così la teoria cinetica dei gas cercadi ricondurre i processi meccanici e termici e i processi di diffusio-ne al movimento delle molecole [. . . ] Ma accanto a questa classedi teorie, ne esiste una seconda. Le chiamerò «teorie di princi-pio». Queste non si servono del metodo sintetico, ma del metodoanalitico. Non partono da elementi di costruzione ipotetici, ma daproprietà universali dei processi naturali, trovati empiricamente, daprincipi dai quali si ricavano in seguito criteri formulati matemati-camente e che i diversi processi, o le loro rappresentazioni teoriche,dovranno soddisfare. Così la termodinamica si basa sul risultatodell’esperienza comune dell’impossibilità di un perpetuum mobileper tentare di scoprire, attraverso l’analisi, i vincoli a cui debbonoubbidire i diversi fenomeni28

28A. Einstein, Che cos’è la teoria della relatività, in Idee e opinioni, cit., p. 216.

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Nell’articolo sui quanti, Einstein aveva tentato di elaborare una teo-ria costruttiva dei fenomeni elettromagnetici, fondata sulla combinazionedi due teorie costruttive: la meccanica statistica e l’elettromagnetismodi Maxwell e Lorentz. Sfortunatamente, era giunto a una conclusioneche era soltanto un’intuizione della quale egli era incapace di dare unadimostrazione logico-deduttiva: l’esistenza possibile di quanti di energiae la non-esistenza dell’etere. Era naturale dunque che, una volta consta-tato questo fallimento relativo del modello costruttivista, considerassel’altro approccio, e tentasse di sviluppare una teoria che fosse rispettoall’elettromagnetismo ciò che la termodinamica è rispetto alla meccanicastatistica:

Davanti a me avevo l’esempio della termodinamica. Il principio ge-nerale era tutto in questo enunciato: le leggi della natura sono tali che èimpossibile costruire un perpetuum mobile (di prima o di seconda specie).Ma come trovare un siffatto principio universale?

4.5 L’impossibile immobilità dell’etere

Abbiamo già segnalato che l’immobilità dell’etere di Lorenz non eraesente da problemi, nella misura in cui questo etere «stazionario» rasso-migliava in maniera troppo imbarazzante allo spazio assoluto di cui siriteneva che la fisica si fosse liberata per sempre. I fisici dell’epoca, co-scienti dell’importanza di principio della questione, avevano cominciatoa immaginare come verificare sperimentalmente se l’etere era immobile ono. Una idea semplice consisteva nel cercare di rivelare gli effetti collegatial moto della terra in rapporto all’etere «stazionario» che non dovevanomancare di manifestarsi se quest’ultimo era realmente immobile. Da qui,tra il 1890 e il 1905, una moltitudine di esperienze (di cui la più celebre èquella di Michelson e Morley) destinate a mettere in evidenza con mezziottici la velocità di trascinamento della Terra in rapporto all’etere.

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Ora, si verificò che tutte queste esperienze portavano a un risultatonullo, cioè esse non indicavano alcun trascinamento della Terra in rap-porto all’etere. La situazione teorica era dunque la seguente: la teoriadi Lorentz esigeva per la sua coerenza una separazione netta tra etereimmobile e materia mobile in rapporto a questo etere; ma era impossibilerivelare il moto di un blocco di materia particolare (la Terra) in rapportoall’etere! Restava dunque da spiegare perché il moto della materia nel-l’etere fosse a questo punto impercettibile. Lorentz e Poincaré, per noncitare che loro, tentarono diversi approcci, dei quali nessuno era veramen-te soddisfacente, nella misura in cui si fondavano tutti su ipotesi ad hoc.Lorentz, per esempio, aveva immaginato che le interazioni tra l’etere ela materia potessero dipendere dal moto relativo della materia rispettoall’etere e aveva anche calcolato quale forma matematica dovesse averequesta dipendenza al fine che, per un effetto di compensazione, il motodella terra nell’etere fosse in definitiva impercettibile. In questo modo sitrovava «spiegato» per quale «complotto» (l’espressione è di Poincaré) lanatura ci nascondeva la velocità di trascinamento della Terra in rapportoall’etere.

Einstein abbordò la questione da tutt’altro punto di vista. Cercandoun principio generale sul quale fondare la ricostruzione della teoria fisicache egli ambiva a realizzare, trasformò ciò che per Poincaré era un com-plotto, in un principio, e decretò che se il moto della Terra in rapportoall’etere non può essere osservato, è perché la Terra e l’etere apparten-gono alla stessa classe di sistemi equivalenti, il cui movimento relativo,come vuole Galilei, è «come nullo», cioè fisicamente impercettibile. Al-trimenti detto, Einstein decretò che l’etere, nonostante il suo caratterefondamentalmente elettromagnetico (in Lorentz l’etere non era più, co-me in Maxwell, un mezzo al tempo stesso materiale e elettromagnetico,ma un mezzo puramente elettromagnetico), era, in quanto sistema di ri-ferimento, equivalente alla Terra. Ciò significava far rientrare l’etere nelrango degli oggetti di cui tratta la meccanica, obbligarlo a sottomettersiagli stessi loro principi.

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Era lo stesso che decretare che le leggi dell’elettromagnetismo sono,come le leggi della meccanica, soggette al «principio generale formale»che è il principio di relatività. Insomma, era decretare l’unità della teoriafisica sotto l’egida del principio di relatività. Bisogna tener presente chefino allora l’enunciato di Galilei era considerato come un enunciato fon-datore, a partire dal quale si era sviluppata la meccanica newtoniana, inquesto senso era logico pensare che la sua validità dovesse essere ristrettaal campo della meccanica, dunque del discontinuo. Einstein, decretandol’estensione della sua validità all’elettromagnetismo (al continuo) compiedue colpi di forza. In primo luogo, modifica lo statuto dell’enunciato diGalilei, all’interno stesso della meccanica, che, da base dalla quale de-durre le «leggi» della fisica quale era, diventa un obbligo a cui devonoobbedire tutte queste «leggi», una «super-legge» in qualche modo. Insecondo luogo Einstein unifica due campi teorici fino ad allora separati,quello che tratta del continuo e quello che tratta del discontinuo, per-suaso com’è che l’incompatibilità fisica tra continuo e discontinuo nonsia che un’illusione e che le due teorie che trattano di essi, la meccani-ca e l’elettromagnetismo, non siano l’una più universale dell’altra. Suquesto punto, Einstein si distingue nettamente dai suoi contemporanei,in particolare da Lorentz e da Poincaré che cercavano anch’essi l’unitàdella fisica, ma che, convinti della superiorità della descrizione elettro-magnetica sulla descrizione meccanica, tentavano di realizzare questaunificazione sotto il segno dell’elettromagnetismo, salvo a far scomparirepuramente e semplicemente il meccanicismo29. Bisognava essere persua-so, come era Einstein, del fallimento al tempo stesso del meccanicismoe dell’elettromagnetismo30 per voler tentare la loro unificazione su unpiede di parità, in nome di un «principio formale generale», capace di

29«Lo scopo perseguito non è il meccanicismo, il vero, il solo scopo, è l’unità», H.Poincaré, La science e l’hypothèse, 1902, p. 207.

30«Avevo già trovato che la teoria di Maxwell non rendeva conto della struttura mi-croscopica della radiazione e dunque non poteva avere validità generale», A. Einstein,lettera a C. Seelig del 19 febbraio 1955 (Archivi di Einstein, Boston, Stati Uniti).

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trascenderli, piuttosto che come riduzione dell’uno all’altro.In numerose occasioni Einstein ha raccontato le esperienze personali

che gli hanno fatto sospettare il valore universale del principio di rela-tività (sotto la sua forma: è impossibile rivelare fisicamente movimentirelativi di traslazione uniforme). Più importante per la storia del con-cetto di campo che ci interessa qui, è l’inizio dell’articolo del 1905, chefonda la teoria della relatività ristretta. Infatti, Einstein vi esprime intermini appena più tecnici le ragioni specifiche della teoria elettromagne-tica che gli hanno fatto pensare che occorreva realizzare l’unificazionedella meccanica e dell’elettromagnetismo sotto l’egida del principio direlatività.

È noto che l’elettrodinamica di Maxwell - così come essa èoggi comunemente intesa - conduce, nelle sue applicazioni a corpiin movimento, ad asimmetrie che non sembrano conformi ai feno-meni. Si pensi ad esempio alle interazioni elettrodinamiche tra unmagnete e un conduttore. Laddove la concezione usuale contem-pla due casi nettamente distinti, a seconda di quale dei due corpisia in movimento, il fenomeno osservabile dipende, in questo casosolo dal moto relativo di magnete e conduttore31.

La situazione semplice immaginata, un magnete e un conduttore(altrimenti detto un filo nel quale le cariche elettriche possono circolare)collocati l’uno in rapporto all’altro, è una situazione la cui interpretazionefisica richiede al tempo stesso la meccanica (si ha movimento di un corpoin rapporto all’altro) e la teoria elettromagnetica (si ha a che fare con unmagnete e un conduttore). L’esperienza mostra che gli effetti osservatidipendono soltanto dal movimento relativo del magnete e del condutto-re, in altre parole, sebbene mescolando meccanica ed elettromagnetismo,soddisfano il principio di relatività galileiano. Questa circostanza (asso-ciata a molte altre, occorre dire) ha fortemente contribuito a convincereEinstein che la validità universale del principio galileiano era un fatto di

31A. Einstein, L’elettrodinamica dei corpi in movimento, Opere Scelte, cit., p. 148.

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esperienza e poteva perciò stesso essere eventualmente essere trasforma-to in principio, proprio come è stata trasformata in principio l’inesistenzaempiricamente stabilita di un perpetuum mobile.

Questa trasformazione è tanto più necessaria perché la teoria, «cosìcome essa è oggi comunemente intesa», non è all’altezza della situazionesperimentale: nella misura in cui essa obbliga a distinguere il caso nelquale è il magnete a muoversi e il conduttore a restare fisso, oppure ilcaso inverso, introduce una distinzione che non esiste nell’esperienza32.

Infatti, se si muove il magnete e rimane stazionario il condut-tore, si produce, nell’intorno del magnete, un campo elettrico conuna ben determinata energia, il quale genera una corrente nei luo-ghi ove si trovano parti del conduttore. Se viceversa il magneteresta stazionario e si muove il conduttore, non nasce nell’intornodel magnete, alcun campo elettrico; tuttavia si osserva, nel con-duttore, una forza elettromotrice, alla quale non corrisponde, diper sé, un’energia ma che - supponendo che il moto relativo sia lostesso nei due casi – genera correnti elettriche della stessa inten-

32Einstein ha insistito a più riprese sul fatto che la teoria della relatività era statamotivata da ragioni sperimentali piuttosto che filosofiche: «All’origine della teoria dellarelatività vi sono fatti sperimentali e il bisogno di comprendere in maniera semplice epriva di contraddizione per quanto è possibile, e non una posizione filosofica specifica».Sono dunque sempre ragioni fisiche a determinare le teorie fisiche; la fisica si cerca esi trova attraverso l’esperienza e la matematica. O ancora: la fisica è una «filosofianaturale» i cui principi sono sperimentali e matematici (non è un caso se il trattatodi Newton si intitola Principi matematici della filosofia naturale). Detto questo, lafisica si scrive con le parole del linguaggio comune e non è un puro empirismo sulquale si potrebbe applicare un puro formalismo. Testimoniano a questo riguardola maggior parte degli articoli «tecnici» di Einstein, particolarmente quelli del 1905,dove il linguaggio comune ha un posto assai più importante che il formalismo, tuttosommato abbastanza semplice. Quanto alle eventuali posizioni filosofiche dei fisici,sembra che Einstein abbia giudicato il loro intervento nel processo di ricerca in modopiuttosto negativo. Vedere a questo riguardo la critica che egli fa dei presuppostipositivistici degli energetisti e di Mach (A. Einstein, Autobiografia scientifica, cit. pp.70-74).

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sità di quelle prodotte dalle forze elettriche nel caso precedente, eche hanno lo stesso percorso.

Il problema posto dalla teoria attuale non è dunque che essa nonpermette in fin dei conti di spiegare il fenomeno, bensì che occorre farricorso a due spiegazioni di natura differente là dove l’esperienza e ilprincipio generale di relatività lasciano supporre insieme che dovrebbeesserci soltanto un’unica e stessa spiegazione.

Per comprendere bene ciò che Einstein vuol dire, bisogna considerareche il termine «forza elettromotrice» che interviene nella seconda spie-gazione, è sinonimo di campo magnetico. L’asimmetria individuata daEinstein si riassume allora in questo: in un caso, la spiegazione fa inter-venire il campo elettrico, nell’altra il campo magnetico. Ora, nella teoriadi Lorentz, il campo elettrico e il campo magnetico si distinguevano traloro per il fatto che il primo è generato da particelle cariche immobilirispetto all’etere e il secondo da cariche in movimento (in rapporto all’e-tere). Ma la distinzione tra questi due tipi di cariche ha senso soltantonel caso che si supponga l’etere «assolutamente» immobile; altrimentiessere immobile in rapporto all’etere non è più sinonimo di quiete diquanto lo sia essere immobile in un treno in marcia; quiete e movimentoassoluti non hanno senso. Se dunque si abbandona l’idea dell’etere comesistema di riferimento assoluto, si è portati a concludere che la distinzio-ne tra campo elettrico e campo magnetico sia interamente relativa: ciòche a un certo osservatore appare come un campo elettrico può assaibene apparire a un altro in movimento rispetto al primo come un campomagnetico, e viceversa. A questo punto, l’eccesso di spiegazioni (duespiegazioni per un solo e stesso fenomeno) appare un artefatto, legatoall’ipotesi dell’assoluta «stazionarietà» dell’etere, una «illusione» che uncambiamento di prospettiva basta a dissipare.

Se si rammenta ora che Einstein, con i suoi lavori sulla «radiazionenera», aveva acquisito la convinzione che l’etere probabilmente non esiste(perché la sua esistenza rende l’elettromagnetismo incompatibile con la

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meccanica statistica e la termodinamica) si concepisce come, dopo averscoperto che lo stesso etere rende l’elettromagnetismo incompatibile conil principio di relatività su cui si basa tutta la meccanica, egli abbia potutoavere la sensazione eccitante di possedere finalmente la chiave dell’unitàdella fisica e che tutti i tasselli del puzzle andavano a posto:

Si è presi da un sentimento meraviglioso quando si riconoscel’unità di un complesso di fenomeni che appaiono, dal punto divista della realtà visibile, come cose del tutto distinte33.

Ma proseguiamo la lettura della memoria del 1905. Einstein viafferma la sua posizione nella maniera più netta:

Esempi come questo, come pure i tentativi falliti di individuareun qualche movimento della Terra relativamente al «mezzo lumi-nifero»34 suggeriscono che i fenomeni elettrodinamici, al pari diquelli meccanici, non possiedono proprietà corrispondenti all’ideadi quiete assoluta [. . . ] Eleveremo questa congettura (il contenutodella quale verrà detto, in quanto segue, «principio di relatività»)al rango di postulato [. . . ]

Non ci sono dunque, in tutte le branche della fisica, che un movimen-to e una quiete relativi. L’etere, come sistema di riferimento assoluto,non era che un tentativo maldestro, una tentazione, una regressione ver-so l’idea di spazio assoluto di cui la fisica post-newtoniana si era a giustotitolo liberata.

33Lettera a M. Grossmann, aprile 1901, pubblicata in The Collected Papers ofAlbert Einstein, vol. 1, op. cit., p. 290.

34Si pensa evidentemente all’esperienza di Michelson e Morley. Ma, nonostantealcune incoerenze, le testimonianze di Einstein sulla questione se egli avesse avutoconoscenza di questa esperienza prima della redazione dell’articolo del 1905 sembranoindicare che non fosse così. Ma esistevano altre esperienze dello stesso tipo e Einsteinstesso aveva immaginato e allestito in maniera artigianale un esperimento destinato amettere in evidenza la velocità della Terra nell’etere.

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4.6 Unità e sostanza

Bisogna dire che togliendo all’etere il suo carattere di immobilità,Einstein ne firmava la condanna a morte. Perché, come egli scrive35,«Quanto alla natura meccanica dell’etere di Lorentz, si potrebbe dire, unpo’ per celia, che l’immobilità è l’unica proprietà meccanica che Lorentzgli abbia lasciato». E Einstein aggiunge: «Il mutamento radicale che nellaconcezione dell’etere apportò la teoria della relatività ristretta consistevanel privare l’etere anche di questa sua ultima proprietà meccanica, cioèdell’immobilità». Il che sembra niente, ma implica semplicemente lascomparsa dell’etere in quanto sostanza.

La sostanza non è uno dei concetti della fisica; è un concetto filo-sofico, la cui storia fa parte di quella della filosofia. Ma nella misura incui la fisica non è mai indipendente dalla tradizione filosofica, l’idea disostanza assilla i fisici. Ora, dopo Galilei, cioè da quando esiste la fisica«moderna», l’idea di sostanza è indissociabile da quella di movimento,nella misura in cui la fisica moderna poggia sull’ipotesi metafisica che,nell’apparente caos del mondo, sia possibile discernere tra ciò che cam-bia e ciò che persiste nel suo essere, che sussiste: «La varietà apparentemanifestata da un corpo si fonda sui cambiamenti di luogo delle sue par-ti, senza guadagno né perdita» scrive Galilei. Hermann Weyl che citaquesta frase di Galilei36, fa notare che è essenziale per questa concezionedella sostanza «che si sia capaci di identificare uno stesso elemento disostanza durante tutto il suo movimento». Altrimenti detto, è essenzialeper l’idea che la fisica post-galileiana classica si fa della sostanza che lostato cinematico di ciò che sussiste (la sua velocità e la sua posizione)sia definito in ogni istante37.

35A. Einstein, L’etere e la teoria della relatività, Opere Scelte, cit., p. 51036H. Weyl, Philosophy of Mathematics and Natural Sciences, cit. p. 165.37Ci si può chiedere allora perché la fisica che si è sviluppata come una concet-

tualizzazione sempre più raffinata del moto non ha effettuato lo stesso lavoro sullasostanza.

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L’etere che Lorentz considerava come una «sostanza elettromagne-tica» cessa di «sussistere» dal momento che gli si nega la possibilità diavere una velocità (anche uguale a zero). Lorenz non si è sbagliato, luiche, nonostante l’ammirazione che portava a Einstein, scrisse dopo il190538: «Non posso impedirmi di pensare che l’etere, che è la sede delcampo elettromagnetico con la sua energia e le sue vibrazioni sia dotatodi un certo grado di sostanzialità [. . . ] In questa prospettiva, sembranaturale non ammettere senz’altro [come fa Einstein decretando l’uni-versalità del principio di relatività] che non c’è differenza se un corpo simuove nell’etere oppure no».

Einstein, da parte sua, afferma nel 1905 con la sicurezza devastantedella gioventù:

L’introduzione di un «etere luminifero» si manifesterà super-flua, tanto più che la concezione che qui illustreremo non avrà biso-gno di uno «spazio assolutamente stazionario» corredato di partico-lari proprietà, né di un vettore velocità assegnato a un punto dellospazio vuoto nel quale abbiano luogo processi elettromagnetici.

Einstein affronta allora la dimostrazione di come, modificando le no-stre concezioni degli intervalli di tempo e di spazio, sia possibile costruireun nuovo elettromagnetismo, «libero da contraddizioni» in cui il campomagnetico e il campo elettrico non sono che due aspetti di uno stessofenomeno, il campo elettromagnetico.

Ma l’importante non sta qui: l’importante è che l’etere non ha piùragion d’essere, così che la luce diventa qualcosa di esistente in manieraautonoma, allo stesso titolo della materia. Scrive von Laue39:

38H. A. Lorentz, Theory of Electrons, 1909, seconda edizione 1941, New York,Dover 1952, p. 230.

39Max von Laue (1879-1960), fisico tedesco, deciso sostenitore della teoria dellarelatività dall’inizio e il solo Tedesco rimasto in Germania durante il periodo nazistacon il quale Einstein abbia accettato di parlare dopo il 1945. Le frasi citate sonoestratte da Relativitätsprinzip, Jahrbuch für Philosophie, Berlin, 1913.

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Einstein, o il perfezionamento del concetto di campo

La teoria della relatività poggia su una concezione completamentenuova della propagazione degli effetti elettromagnetici nel vuoto; questieffetti non sono «trasportati» da un mezzo; né si producono attraversoun’azione a distanza priva di mediazione. Il campo elettromagneticonello spazio vuoto possiede una realtà fisica autonoma, indipendente daogni sostanza.

Si può precisare la natura di questa «cosa indipendente da ogni so-stanza»? È certo, in ogni caso, che essa riempie, o piuttosto copre, tuttolo spazio. L’idea che il campo possa «saltare» una regione dello spazionon ha alcun senso: «Nella teoria del campo – scrive H. Weyl40 – le quan-tità che determinano lo stato e la struttura del campo, da una parte, edall’altra il mezzo spazio-temporale, continuum a quattro dimensioni [tredi spazio e una di tempo] senza struttura, sono interdipendenti. Se inquest’ultimo esiste un sistema di coordinate , le quantità che determina-no lo stato del campo appaiono come funzioni di tali coordinate»41. Inquesto senso, il campo non può essere identificato con la sostanza dellafisica classica, la quale si oppone allo spazio (è in rapporto ad esso chela sostanza si sposta e possiede uno stato di moto); il campo «aderisce»allo spazio come una seconda pelle. «Il campo è organicamente unitoallo spazio», commenta Hermann Weyl.

Si deve notare che Einstein non usa praticamente mai il termine «so-stanza». L’origine di questa mancanza di interesse è forse da ricercarein Hume, del quale Einstein dice che ebbe una profonda influenza sulsuo pensiero42. Hume infatti è un avversario dell’idea di «sostanza» e

40H. Weyl, Philosophy of Mathematics. . . , cit. p. 172.41Questa concezione del campo è spinta al suo limite estremo in elettrodinamica

quantistica (versione «quantistica» della teoria dei campi) il campo vi è definito ineffetti non come una funzione delle coordinate, ma come un insieme di «coordinategeneralizzate».

42Nel periodo in cui Einstein stava elaborando l’ipotesi dei quanti e la teoria dellarelatività ristretta, leggeva e commentava con i suoi amici le opere di Hume (tra glialtri). Uno di loro, Maurice Solovine, ricorda (molto più tardi, negli anni cinquanta)

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si oppone alla «maniera di vedere le cose [che] obbliga l’immaginazio-ne a fingere un qualcosa di sconosciuto, o sostanza originale [. . . ] inquanto principio di unione o di coesione tra le qualità, e in quanto ciòche può dare all’oggetto composto il diritto di essere chiamato “cosa”,indipendentemente dalla sua diversità e dalla sua composizione»43.

Ma se Einstein non parla di «sostanza» a proposito del campo, è pro-babilmente anche perché per lui né la materia né il campo corrispondonoall’idea che egli , in conformità con l’etimologia, si fa della sostanza comepermanenza. È nota la favola che serve a Kant per illustrare l’idea di so-stanza: «Si pose a un filosofo questa domanda: “Quanto pesa il fumo?”.Egli rispose: “Togliete dal peso del legno bruciato il peso della cenere cherimane, avrete il peso del fumo”. Egli supponeva dunque come cosa in-contestabile che anche nel fuoco la materia (sostanza) non scomparisse,ma che nel fuoco soltanto la sua forma subisse un cambiamento44. Ora,come doveva dimostrare Einstein in un breve articolo45 aggiunto in un se-condo momento (in settembre) alla memoria più ampia del giugno 1905,«L’elettrodinamica dei corpi in movimento», esiste una cosa che, comela «materia (sostanza)» del filosofo di Kant, non scompare e subisce sol-tanto un cambiamento di forma, è l’energia-massa. Prima di venire allaspiegazione di quest’ultimo punto, e all’introduzione del nuovo concetto,diciamo semplicemente che, se Einstein non usa il termine «sostanza»(che in ogni modo non fa parte del vocabolario dei fisici) è perché egliha «qualcosa di meglio» da mettere sul tavolo, un vero concetto fisico,definito da una relazione matematica: l’energia-massa (ancora chiamata

che furono soprattutto le idee di Hume sulla sostanza e la causalità ad essere al centrodi quelle discussioni.

43D. Hume, Trattato sulla natura umana, libro I, IV parte, sezioni 6 e 3, citato daH. Weyl in Philosophy of Mathematics, cit, p. 180.

44I. Kant, Critica della ragion pura, traduzione italiana di Giovanni Gentile eGiuseppe Lombardo Radice, Laterza, Bari, 1944-1945.

45Articolo intitolato L’inerzia di un corpo dipende dal suo contenuto energetico?in A. Einstein, Opere scelte, cit., p. 178–180.

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energia-inerzia).Einstein dimostra infatti che «la massa inerte46 di un corpo diminui-

sce durante l’emissione di luce» altrimenti detto, quando un corpo emetteluce, l’energia che perde a causa di questa emissione (in conformità conle teorie di Maxwell e di Lorentz) corrisponde a una diminuzione dellasua massa. Per dimostrarlo, basta effettuare un bilancio dell’energia (l’e-nergia ha per proprietà essenziale di conservarsi sempre, in particolarenel processo considerato qui di emissione di luce da parte di un corpo),e di stabilire questo bilancio in due sistemi di riferimento in traslazionel’uno in rapporto all’altro (alla base della dimostrazione c’è dunque unargomento relativistico).

Consideriamo un corpo in sospensione, libero di muoversi. Que-sto corpo emette, in due direzioni opposte, la stessa quantità dienergia sotto forma di radiazione. In questo modo esso rimane im-mobile. Indichiamo con E0 l’energia del corpo prima dell’emissione,con E1 la sua energia dopo l’emissione e con L la quantità di ener-gia della radiazione emessa; secondo il principio di conservazionedell’energia si avrà:

E0 = E1 + L

Consideriamo ora il corpo e la radiazione che esso emette col-locandoci in un sistema di coordinate in rapporto al quale il corposi sposta con la velocità v. La teoria della relatività fornisce allo-ra lo strumento per calcolare l’energia della radiazione emessa, inrapporto al nuovo sistema di coordinate47.

Chiamiamo L questa energia espressa nel secondo sistema di riferi-mento. La sua espressione fa intervenire la velocità v. Chiamiamo E0’

46Le espressioni «massa inerte» e «inerzia» sono sinonimi; esse designano la misuradella quantità di materia contenuta nel corpo che interviene nella resistenza (inerzia)di questo corpo nel mutamento di moto (accelerazione o decelerazione) è il coefficientem che figura nell’enunciato della legge del moto di Newton F=ma.

47A. Einstein, L’evoluzione delle nostre concezioni sulla natura e la costituzionedell’irraggiamento, cit.

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e E1’ l’energia del corpo radiante prima e dopo l’emissione, espressa nelsecondo sistema di riferimento. La legge di conservazione dell’energiavale ugualmente nel secondo sistema, poiché in virtù del principio di re-latività le leggi della fisica devono avere la stessa forma in due sistemi diriferimento equivalenti. Si ha dunque:

E0’ = E1’ + L’.

Sottraendo l’una dall’altra le due relazioni ottenute:

(E0’− E0) = (E1’− E1) + (L’− L).

Ma (E0’− E0) non è altro che l’energia cinetica del corpo prima dell’e-missione di luce e (E1’− E1) non è altro che la sua energia cinetica dopol’emissione di luce. Se si chiama M0 la massa del corpo prima dell’emis-sione e M1 la sua massa dopo l’emissione, si può scrivere, trascurando itermini di ordine superiore a due48:

(1/2)M0 = (1/2) M1 v2 + (1/2)Lv2/c2

ovvero:

M0 = M1 + L/c2

Risulta - conclude Einstein - che la massa di un corpo diminuisce diL/c2 quando emette l’energia radiante L.

In altre parole, massa ed energia luminosa sono convertibili l’unanell’altra, materia e radiazione non sono che due manifestazioni di unostesso fenomeno più fondamentale: l’energia-massa (inerte), dove figuracome legame l’identità concettuale della massa e dell’energia luminosa,del discontinuo e del continuo. Se la fisica classica aveva potuto fun-zionare su due principi di conservazione separati, la conservazione della

48Questa precauzione è destinata a introdurre una espressione approssimata del-la differenza (L’−L), di cui Einstein aveva dato la dimostrazione nel suo articolodel giugno 1905: (L’−L) = (1/2)Lv2/c2, dove c è la velocità della luce, costantefondamentale della fisica.

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massa (considerata come il segno di permanenza della materia, e dunquedel suo carattere sostanziale) e la conservazione dell’energia (principio«dinamico» che regola l’evoluzione delle cose), appare che d’ora in poila teoria fisica dovrà svilupparsi su un solo principio di conservazione, laconservazione della massa-energia. In questo modo dunque, nello spaziodi sei mesi, Einstein ha successivamente abolito la distinzione ritenutaassoluta tra il continuo (identificato con la radiazione) e il discontinuo(identificato con la materia), poi quella tra materia e radiazione (aboli-zione che ha senso soltanto nella misura in cui egli ha prima collocato ilcampo su un piano di eguaglianza ontologica con la materia, eliminan-do l’etere). Così, un’impresa che, all’inizio voleva essere una rifusioneteorica destinata a cancellare una «profonda differenza formale» (quellastessa che si manifesta al meglio nella differenza tra equazioni alle de-rivate parziali e differenziali totali), porta a un recupero completo dellacategoria di «sostanza», pensata ormai dai fisici come equivalenza tramassa ed energia49, equivalenza proclamata da una formula che tuttivanno ripetendo senza sentirne l’intento unitario profondo:

E = mc2.

49È appunto ciò che indica la relazione M1 = M0 + Energia/c2: energia e massasono identiche a meno del fattore di conversione c2.

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Capitolo 5

Postfazione1904. Un anno prima di Einstein:

Il Congresso di Scienze e Arti di Saint-Louis

Luisa Bonolis

5.1 Introduzione

Un secolo di progresso scientifico e tecnologico viene messo in mo-stra nel corso dell’Esposizione Universale del 1904 a Saint-Louis, capitaledel Missouri, in occasione del centenario della liberazione della Louisianadalla Francia. Nel mese di settembre l’Esposizione culmina con il Con-gresso di Arti e Scienze. L’idea di un congresso scientifico associato auna grande esposizione non era nuova; conferenze e convegni avevanoavuto luogo a Vienna nel 1873, a Filadelfia nel 1876 e a Parigi, nel 1878e nel 1889, ma soprattutto in occasione della grande Esposizione del1900. Tuttavia, soltanto a Saint-Louis l’esposizione e il convegno furonoprogettati fin dall’inizio come due eventi strettamente correlati: la primadoveva mostrare i prodotti tangibili della mente e della mano dell’uomomentre il congresso doveva rappresentare l’essenza culturale di tali attivi-tà, che si sarebbe espressa attraverso il tema centrale prescelto, l’“unitàdel sapere”. Il Congresso delle Arti e delle Scienze di Saint-Louis si pre-figgeva quindi lo scopo di presentare una visione unificata dei progressiintellettuali dell’umanità attraverso i temi più vari: la storia politica, l’e-

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Postfazione. 1904. Un anno prima di Einstein

conomia, il diritto, le lingue, le arti, la musica, la religione, la metafisica,la medicina, la filosofia, la tecnologia, le scienze matematiche, fisiche ebiologiche.

Il congresso aveva luogo in un momento di grande fermento speri-mentale, teorico e ideologico per la fisica, una disciplina che nel corsodel secolo appena concluso aveva vissuto un periodo di gigantesco svilup-po legato a innovazioni concettuali come la conservazione dell’energia,il concetto di campo, la teoria della luce come vibrazioni di un “etereelettromagnetico”, il concetto di entropia come espressione del caratteredirezionale dei processi fisici. Henri Poincaré, a quell’epoca scienziatodi fama mondiale e membro di innumerevoli accademie, aveva iniziatoil suo discorso sui “Principi della fisica matematica” con una serie diinterrogativi: “Qual è lo stato attuale della fisica matematica? Qualisono i problemi che è costretta a porsi? Qual è il suo futuro? I suoiorientamenti sono sul punto di modificarsi? Gli scopi e i metodi di que-sta scienza tra dieci anni appariranno ai nostri immediati successori nellastessa luce o, al contrario, stiamo per essere testimoni di una profondatrasformazione?”.

“Pur essendo tentati di rischiare un pronostico, dobbiamo resisterea questa tentazione – osservava Poincaré –, basti soltanto pensare allestupidaggini che i più eminenti scienziati di cento anni fa sarebbero statipronti a proferire se qualcuno avesse chiesto loro quale sarebbe stata lascienza del XIX secolo”.

Dopo aver ricordato che la fisica matematica era nata alla fine delSettecento con la meccanica celeste, Poincaré aveva osservato che permolto tempo la “forma ideale di legge fisica” era stata la legge di Newtonche, in quanto “relazione costante tra i fenomeni di oggi e quelli di do-mani”, ha la forma di una equazione differenziale. Differenziale nel sensoche procede per piccole differenze che fanno dipendere il valore assuntoda una certa grandezza fisica in un punto, dal valore che essa assume inun punto dello spazio immediatamente vicino, o in punti immediatamen-te vicini. La posizione di un corpo in movimento, per esempio, dipende

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Postfazione. 1904. Un anno prima di Einstein

stante per istante soltanto dai punti immediatamente precedenti lungola traiettoria e non da quelli esterni ad essa.

Regina incontestata dell’“universo astronomico”, la legge di New-ton sembrava applicabile anche a livello microscopico, dove i corpuscolicostituenti la materia si attraggono o si respingono secondo una legge di-pendente soltanto dalla distanza e agente lungo una linea retta, analogaa quella che Newton aveva trovato per i corpi celesti. Tuttavia, sotto-lineava Poincaré, era arrivato il momento in cui la “concezione di forzacentrale non appariva più sufficiente” e questa era soltanto “la primadelle crisi” che lo scienziato dell’epoca era stato chiamato a fronteggiare:“Allora gli investigatori rinunciarono a penetrare nei dettagli della strut-tura dell’universo, ad isolare i pezzi di questo gigantesco meccanismo,ad analizzare una per una le forze che li mettono in movimento e si ac-contentarono di assumere come guida certi principi generali che hannocome oggetto proprio lo scopo di evitare questo studio dettagliato”.

La fisica newtoniana aveva dovuto cedere il passo alla “fisica dei prin-cipi”. Il principio di conservazione dell’energia, per esempio, enunciavasolennemente Poincaré, aveva appunto la funzione di trarre delle conclu-sioni che riguardano l’universo e in particolare le sue parti più nascoste.“Osservando i movimenti di quelle che possiamo vedere, con l’aiuto diquesto principio, siamo in grado di trarre conclusioni che rimangono vereindipendentemente dai dettagli del meccanismo invisibile che le anima”.

5.2 La legge di conservazione dell’energia

Lo studio della relazione tra calore e lavoro meccanico era stato diimportanza centrale nella fisica del XIX secolo. L’impossibilità pratica direalizzare una macchina in grado di creare energia dal nulla, il cosiddettomoto perpetuo di prima specie, aveva contribuito in modo importanteall’affermazione della prima legge della termodinamica, che è l’estensioneai fenomeni termici del principio di conservazione dell’energia. Sebbene a

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quell’epoca fosse ancora in auge la teoria del calorico, uno tra i vari “fluidiimponderabili” caratteristici della scienza tra Settecento e Ottocento, siera fatta strada la concezione del calore come forma di energia in terminidi movimenti a livello molecolare. La dimostrazione dell’equivalenza tracalore e lavoro meccanico da parte di James Joule e la formulazionematematica della legge di conservazione dell’energia da parte di Hermannvon Helmholtz, entrambi avvenute negli anni ‘40 dell’Ottocento, avevanocostituito la base per l’unificazione dei processi meccanici e termici.

Il primo principio della termodinamica, nel mettere in relazione calore,energia e lavoro utile nel corso dei processi termici, i esprimeva attraversola prescrizione che la variazione di energia interna di un sistema termo-dinamico chiuso può verificarsi solo per apporto o sottrazione di energiadall’esterno, sotto forma di calore o di lavoro, o di entrambi. Ma oltrea stabilire il principio di equivalenza tra calore e lavoro meccanico, lascienza della termodinamica era interessata a quale fosse la direzione delflusso di calore nel corso della produzione di tale lavoro. La secondalegge, che in realtà era stata scoperta per prima da Sadi Carnot, scaturìdalla constatazione sperimentale che è impossibile trasformare in lavoroutilizzabile il calore estratto dai corpi senza alcuna limitazione. Un enun-ciato equivalente di questa seconda legge afferma che la trasformazionedi energia meccanica in calore non è reversibile, allo stesso modo il calorenon è in grado di passare in modo naturale da un corpo “freddo” a unoa temperatura più elevata.

La prima legge della termodinamica poteva essere compresa in termi-ni di moti e collisioni di particelle microscopiche, cosa che non si riuscivaa fare nel caso della seconda legge, in base alla quale il flusso di calo-re nei processi naturali, come nel caso di un cubetto di ghiaccio che siscioglie, è sempre irreversibile: il calore non fluisce mai nella direzioneopposta in modo naturale, così che il cubetto disciolto non tornerà acongelarsi spontaneamente e una goccia di vino in un bicchiere d’acquasi diffonderà più o meno lentamente attorno al punto iniziale, sino a chel’interno del bicchiere non sarà diventato di un rosa tenue e uniforme.

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Come era dunque possibile rendere conto di un tale comportamento at-traverso la spiegazione meccanica? Nonostante ciò la formulazione delledue leggi fondamentali della termodinamica, nel fornire il quadro teo-rico relativo alla dinamica dei flussi di calore, costituiva un ponte traprocessi meccanici e non meccanici, due aspetti della realtà fino a quelmomento ritenuti disgiunti. La legge di conservazione dell’energia, ele-vata al rango di principio, aveva fornito a sua volta un nuovo potentequadro concettuale per la costruzione delle teorie fisiche basata sulla vi-sione meccanica della natura. Sembrava proprio che la fisica, accantoalle leggi generali della dinamica e alla loro applicazione alle interazioninell’ambito dei corpi solidi, liquidi e gassosi, potesse quindi occuparsi diquegli agenti che erano stati sempre designati come imponderabili – luce,calore, elettricità e magnetismo, etc. – trattandoli come forme di moto,come manifestazioni della stessa energia fondamentale.

I due principi della termodinamica erano consistenti fra loro: sebbe-ne l’energia fosse dissipata nel corso dei processi irreversibili, non venivadistrutta, ma semplicemente trasformata in altre forme di energia. Lachiarificazione della natura dei processi irreversibili venne soprattutto dal-l’introduzione del concetto di entropia. Ogni processo naturale si svolgenecessariamente nella direzione che comporta un aumento di entropiadei corpi (sistema fisico e sorgenti di calore) che hanno preso parte allatrasformazione. Qualsiasi trasformazione naturale crea entropia nell’uni-verso e quest’ultima a sua volta fornisce una misura della direzione deiprocessi termodinamici, del grado di irreversibilità di una trasformazione.

In questo senso la seconda legge sollevava problemi inquietanti. L’e-nergia si conservava, ma allo stesso tempo veniva dissipata progressiva-mente e irreversibilmente. Quando un sistema isolato ha raggiunto ilvalore massimo dell’entropia compatibile con la sua energia, esso non èpiù capace di evolvere ulteriormente. Anche il calore della terra dovevadissiparsi allo stesso modo, condannando il pianeta a trasformarsi in unluogo gelido e inospitale per la specie umana. A quell’epoca non erastato preso in considerazione il calore generato dalla radioattività natu-

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rale, di cui non si conosceva ancora l’esistenza, e l’età della terra erastata valutata intorno ai cento milioni di anni, considerando il temponecessario perché questa si raffreddasse, passando dallo stato fuso allatemperatura attuale.

In ogni caso le conseguenze del primo principio si traducevano neltrasformare tutta l’energia in calore e quindi in una completa cessazionedei processi naturali: l’universo stesso sembrava condannato alla “mortetermica”, incapace di cambiamenti e paralizzato nello stato di massimaentropia. Alcuni fisici formulavano teorie alternative, che davano vitaa un universo parallelo, eterno, immutabile e invisibile in cui l’energiadissipata nel nostro universo transitorio potesse rifluire nuovamente uti-lizzando come supporto un etere onnipresente, anch’esso invisibile. Inqueste idee sembravano riaffacciarsi le antiche concezioni che vedevanol’universo suddiviso in “sfere” in alcune delle quali tutto era perfetto eimmutabile, come in quella delle stelle fisse, mentre in altre, come nellazona “sublunare”, tutto era imperfetto, corruttibile, transitorio.

A maggior ragione appariva dunque necessario ancorarsi all’energiacome concetto fisico fondamentale, elevandola al rango della materiaquanto a realtà e indistruttibilità. Per molti si trattava di una riformula-zione e generalizzazione della dottrina della convertibilità l’uno nell’altrodei vari “poteri” o “forze” naturali, la cui indistruttibilità complessiva co-stituiva una struttura concettuale per l’interpretazione teorica delle sco-perte sperimentali. La possibilità di utilizzare l’energia come metodo percaratterizzare il comportamento di un sistema fisico indipendentementedalla conoscenza della sua struttura meccanica veniva visto con favoreanche da James Clerk Maxwell, il quale pensava che perfino un sistemaelettromagnetico potesse essere trattato in termini di energia potenzialee energia cinetica senza fare ipotesi particolari riguardo la sua strutturanascosta. Un nuovo quadro concettuale si era delineato attraverso unprogramma universale di spiegazione dinamica basato sullo status del-l’energia intesa come costituente fondamentale della realtà fisica e sullasua legge di conservazione come principio dinamico unificante.

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5.3 Meccanicismo e energetismo

In quel periodo la maggior parte dei fisici riteneva che la fisica avesseraggiunto un livello di sviluppo tale da poter ragionevolmente sperare dipervenire ben presto a una spiegazione di tutti i fenomeni naturali. Lacrescente esigenza di quantificazione e di ricerca di leggi matematiche siaccompagnava all’emergere di una visione unificata della disciplina e al-l’aspirazione che una sola teoria fondamentale dovesse essere sufficientea rendere conto di tutti i fenomeni; tutte le altre discipline scientifichedovendo essere dedotte da tale teoria. Il punto sul quale le opinionidivergevano fortemente riguardava la questione di scegliere quale teoriapotesse aspirare al ruolo di teoria fondamentale della scienza. Due scuoleprincipali si contendevano il primato: il meccanicismo e l’energetismo. Lavisione meccanicistica del mondo per un certo tempo era stata egemonenel ricondurre tutti i fenomeni naturali – e perfino quelli “soprannatu-rali” – alla dinamica di un mezzo etereo universale. Nel pensare chesarebbe stato possibile spiegare tutti i fenomeni in termini di particelledi materia in moto e di forze agenti tra queste, parecchi fisici avrebbe-ro voluto attribuire agli atomi tale moto. Il meccanicismo si articolavain teorie che si rifacevano a modelli meccanici ipotetici (come ruote emolle) utilizzati per la rappresentazione e illustrazione dei fenomeni os-servati, o che addirittura evitavano qualsiasi ipotesi sulla struttura fisicadel meccanismo di rappresentazione, ricorrendo al formalismo astrattodella dinamica analitica di Lagrange.

Queste diverse soluzioni, pur rifacendosi individualmente ai principidi una spiegazione meccanica, riflettevano le problematiche legate allaconsapevolezza dell’esistenza di un profondo divario tra la teoria, intesain termini di rappresentazioni meccaniche, e realtà fisica nelle sue diver-se manifestazioni. Se, come Newton e i suoi seguaci suggerivano, tuttala materia consiste di atomi (o molecole), che nel muoversi in tutte ledirezioni si urtano a vicenda cambiando la direzione del proprio motoad ogni collisione, deve esistere una velocità media e quindi una energia

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cinetica media delle particelle contenute in un gas, aggregati di un enor-me numero di particelle. Secondo la teoria cinetica il calore stesso nonsarebbe altro che l’energia del moto, o energia cinetica, degli atomi. Unamaggior quantità di calore significa una maggior energia cinetica media,che a sua volta è una misura della temperatura del gas o del liquido.

Ma anche gli atomi, come accade per le palle da biliardo, devonointeragire a livello microscopico seguendo le leggi della meccanica new-toniana. Queste interazioni sono reversibili: la scena di una collisionetra atomi sembrerebbe perfettamente normale, cioè plausibile, se venisseosservata facendo girare la pellicola al contrario. Da dove nasce quindil’irreversibilità di un processo come quello del ghiaccio che si scioglie,o di una sbarra di ferro che si raffredda? Questo ed altri paradossi in-coraggiavano coloro che, come Ernst Mach, negavano l’esistenza stessadegli atomi. Gli energetisti, più radicali come il fisico chimico WilhelmOstwald, rifiutavano l’intero programma meccanicistico accusandolo diricorrere ad ipotesi come quella degli invisibili atomi. Nel ragionare dauna prospettiva più fenomenologica Ostwald mirava a fare della termo-dinamica il piedistallo su cui basare la spiegazione fisica, convinto che latermodinamica sarebbe stata una scienza irriducibile e che tutti i feno-meni (compresi quelli meccanici) sarebbero stati alla fine descritti nonattraverso i movimenti di atomi, ma attraverso degli scambi di energianel mondo di tutti i giorni. Secondo gli energetisti, l’ipotesi atomicapoteva tutt’al più rappresentare un artificio di calcolo che consentiva diottenere risultati interessanti, ad esempio come sistema di classificazioneutile per i chimici, ma in ogni caso lontano da una descrizione reale dellanatura. La stessa teoria cinetica dei gas, nel rappresentare le molecolecome piccole sfere rigide, non poteva essere altro che una descrizioneconveniente, da non prendere alla lettera. Oltre a sottolineare sia le dif-ficoltà non ancora superate dall’atomismo in teoria cinetica dei gas, siale contraddizioni esistenti fra i diversi modelli di atomo proposti all’e-poca, gli energetisti opponevano quindi degli argomenti di principio allanozione stessa di atomo e osservavano che nel basare l’intera teoria della

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materia su oggetti ipotetici, che nessuno era mai riuscito ad osservare,si rischiava di mettere in crisi la credibilità stessa della scienza in un’epo-ca in cui quest’ultima veniva presa di mira da molti filosofi, fortementecritici verso il suo carattere riduzionistico, apparentemente disumano.

5.4 Il concetto di campo

Ma nel panorama di metà Ottocento, accanto alle ormai consolidatescienze della meccanica e della termodinamica, la “fisica del continuo”trionfa nelle ricerche di Faraday e di Maxwell che culminano nella sco-perta dell’interazione elettromagnetica, la seconda interazione universaledopo quella gravitazionale. La formulazione definitiva delle leggi fonda-mentali dell’elettrodinamica prende corpo attraverso il concetto di “cam-po” fisico, tramite la supposizione che le forze elettriche e magnetichesiano distribuite nello spazio attraverso la mediazione del campo stesso.Il termine “campo magnetico” era stato introdotto nel 1845 da Faraday,il quale aveva utilizzato il concetto di linee di forza per rappresentarela disposizione delle forze elettriche e magnetiche nello spazio. Questeteorie fornirono la base concettuale per la nozione di un agente di sup-porto del campo, l’etere elettromagnetico, o luminifero, che permeavagli spazi esistenti tra i corpi elettrificati e magnetici consentendo la tra-smissione delle forze elettriche e magnetiche tra particelle. Le linee diforza di Faraday avevano “intessuto una rete attraverso il cielo”, secondola definizione dello stesso Maxwell, spazzando via ogni residuo di fluidielettrici e magnetici, nonché di forze a distanza agenti tra corpi elettri-ficati e magnetizzati attraverso distanze finite di spazio. Le forze dellagravitazione, dell’elettrostatica e del magnetismo obbediscono alle leggidi Newton e di ed agiscono lungo la linea di congiunzione tra due corpiche si attirano o si respingono. Ma Faraday e Ørsted avevano scopertoche ogni variazione del campo magnetico genera un campo elettrico eviceversa, in modo tale che l’improvviso fluire di una corrente elettrica in

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un conduttore genera nelle sue immediate vicinanze un campo magneticoe quindi una forza in grado di agire su un ago calamitato.

Nel rivelare una sorprendente relazione tra magnetismo e elettricità,questi esperimenti mettevano in evidenza un fenomeno del tutto ina-spettato: la forza agente fra il polo magnetico e le piccole porzioni delconduttore non giace lungo linee congiungenti il filo e l’ago, ovvero tra leparticelle del “fluido” elettrico in moto nel filo e i dipoli magnetici elemen-tari dell’ago. La forza è perpendicolare a queste linee di congiunzione enon è quindi riconducibile a un punto di vista di tipo meccanicistico. Allametà degli anni ‘60 dell’Ottocento l’opera di Maxwell, che affondava lesue radici nelle ricerche di Faraday, aveva definitivamente fuso luce, elet-tricità e magnetismo in una sola entità fisica, il campo elettromagnetico.Maxwell aveva dato alla sua teoria del campo elettromagnetico uno sta-tuto fisico e matematico coerente: “La teoria che propongo può esseredenominata una teoria dinamica del campo elettromagnetico, poiché es-sa ha a che fare con lo spazio in vicinanza dei corpi elettrici o magnetici,e può essere denominata dinamica, perché presuppone che in tale spazioesista della materia in movimento che produce i fenomeni elettromagne-tici osservati”. Il suo Trattato di Elettricità e Magnetismo, pubblicato nel1873, riuniva in un unico contesto teorico i risultati delle ricerche che loavevano preceduto nel corso della fine del Settecento e nella prima metàdell’Ottocento. Nella sintesi di Maxwell l’energia elettrica, magnetica eradiante erano considerate tutte manifestazioni di uno stesso insieme dileggi fondamentali: le “equazioni di Maxwell”.

La teoria di Maxwell aveva delle implicazioni inaspettate. Nel 1888Heinrich Hertz aveva dimostrato che le onde elettromagnetiche possonoessere prodotte e propagarsi nell’aria alla velocità della luce, posseden-do quindi tutte le proprietà delle onde luminose – riflessione, rifrazione,interferenza, diffrazione, polarizzazione. La verifica sperimentale dell’esi-stenza di tali onde fu immediatamente interpretata come una confermaeclatante dell’esistenza del campo elettromagnetico, in opposizione allevarie versioni di teorie dell’“azione a distanza”, una visione che secon-

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do il matematico Hermann Weyl corrisponderebbe a “due mani che siafferrano al di sopra di un abisso”.

La possibilità? di trasmettere a breve distanza – qualche metro – deisegnali apriva la strada dello sfruttamento commerciale delle onde radio,tuttavia anche quando Guglielmo Marconi ottenne il suo primo brevettonel 1898, nessuno, nemmeno i più audaci profeti delle meraviglie delfuturo, poteva immaginare che la radio e la televisione avrebbero avutoun ruolo enorme nella vita dell’uomo del XX secolo.

5.5 Onde e particelle, continuo e discontinuo, for-

ze a distanza

La nozione di particella materiale aveva dominato la fisica del XVIIe XVIII secolo e tuttavia, fin dall’epoca della rivoluzione scientifica, lestesse indagini sulla natura della radiazione luminosa avevano posto inevidenza l’alternativa tra ipotesi di natura “particellare” e ipotesi facentiriferimento a una propagazione di tipo ondulatorio. Newton aveva avutouna concezione sostanzialmente corpuscolare, anche se era ben consa-pevole che alcuni fenomeni non potevano essere spiegati agevolmentesecondo questo punto di vista, mentre Huygens, contemporaneo di New-ton, aveva ipotizzato che la luce è un’onda, un trasferimento cioè dienergia e non di sostanza, in modo tale che “questo movimento impres-so alla materia interposta sarà progressivo e pertanto si propagherà comefa il suono, per superfici sferiche e per onde; poiché le chiamo onde perla loro somiglianza con quelle che vediamo formarsi nell’acqua allorchévi si getta un sasso e la cui propagazione si effettua in circoli successivi”.

Per i primi quarant’anni del XIX secolo lo sviluppo della fisica ma-tematica in Francia e nell’Europa continentale, si diramò secondo duescuole di pensiero rivali: quella che faceva capo a Laplace (tra cui spic-cano Biot, Navier, Cauchy e soprattutto Poisson) che sosteneva unaconcezione corpuscolare basata su interazioni del tipo “forze a distanza”,

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e la scuola che seguiva l’approccio dinamistico-analitico di Lagrange (Fre-snel, Fourier, Ohm, Ampère). Una inversione di tendenza si era infattiprodotta in seguito a una quantità di scoperte sperimentali in base allequali era apparso che le teorie ondulatorie risultavano essere in miglioreaccordo con l’esperienza. Tuttavia, secondo le affermazioni di Poisson, la“meccanica analitica” di Lagrange sarebbe stata rimpiazzata dalla “mec-canica fisica” di Laplace, basata sull’ipotesi di moti e di forze molecolari,applicabile a problemi come lo studio delle corde flessibili, delle superfi-ci elastiche e della pressione di fluidi. La rivalità tra queste due scuoleaveva caratterizzato non soltanto la nascita e lo sviluppo della teoriaelettromagnetica, ma aveva esteso il suo influsso anche in altri campi.

Per un certo tempo restò soprattutto molto acceso il dibattito sullanatura della luce, ma il concetto di onda, insieme alla teoria ondulatoriadella luce, finì con l’imporsi e diventare un concetto centrale in tutta lafisica del XIX secolo. Nell’attraversare diversi domini delle scienze fisiche,come il calore, l’ottica, la dinamica dei fluidi, l’astronomia, l’elettricità,la concezione ondulatoria finì col prendere il sopravvento rispetto allaconcezione particellare sulla quale si fondava la fisica classica erede diGalilei e di Newton. In realtà le due descrizioni, la corpuscolare e l’ondu-latoria, convivevano grazie alla loro capacità di spiegare alcuni fenomeniin modo soddisfacente. Una serie di fenomeni in cui si ha a che fare conluce e ombra possono spiegarsi ammettendo che luce si propaga in linearetta nel vuoto o nell’aria. La legge del moto rettilineo non è valida quan-do la luce attraverso il vetro o l’acqua, ma il fenomeno della rifrazionepuò essere ancora spiegato in termini di teoria meccanica ammettendo lamateria agisca sui corpuscoli luminosi attraverso una forza che ne facciavariare la velocità, determinando una variazione nella direzione origina-ria del moto. Anche la riflessione della luce prodotta dagli specchi puòessere spiegata in modo semplice dalla teoria corpuscolare per analogiacon quanto si osserva nel caso delle palle da biliardo che rimbalzano suuna superficie solida e piana.

Ma se la luce bianca è formata da luce di vari colori separabili per

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mezzo di un prisma, come già aveva osservato a suo tempo Newton,genera una certa perplessità il dover ammettere che esistono altrettan-ti tipi di corpuscoli quanti sono i colori, la cui velocità risulta diversaall’interno del vetro, ma torna ad essere la stessa nel vuoto o nell’aria,quando contribuiscono tutti insieme a formare la luce bianca. D’altraparte, se la luce si comporta come un’onda nell’incontrare un ostacoloabbastanza piccolo non deve produrre un’ombra nettamente delimitata,come vuole invece la teoria corpuscolare. Infatti, facendo passare unaluce sufficientemente intensa da un minuscolo forellino non si osserve-rà più una separazione netta fra luce ed oscurità, la luce si smorzeràgradualmente passando al fondo scuro con una serie di anelli chiari escuri. La teoria ondulatoria fornisce una spiegazione brillante del feno-meno della diffrazione in termini di interferenza costruttiva e distruttivadelle onde che sono all’origine delle zone chiare e scure. Come nota-va Huygens, l’acustica, scienza dei suoni, aveva preceduto l’ottica comedominio privilegiato della teoria ondulatoria, che risultava ugualmenteefficace nel descrivere i movimenti dei fluidi, che rientravano nel campod’azione dell’idrodinamica, prototipo per la fisica del continuo e dei fluidiconservati, che cioè non vengono né creati né distrutti. Anche la teoriadell’elasticità dei corpi solidi era un caso di fisica dei mezzi continui, incui la meccanica poteva essere applicata senza ricorrere all’ipotesi di unasuddivisione della materia in punti materiali. Questi settori di ricerca eb-bero una importanza enorme nell’acquisizione di nuovi strumenti formalinel campo della fisica matematica, che consentirono a loro volta unadescrizione completamente nuova dei fenomeni fisici.

All’inizio dell’Ottocento la scuola di Laplace proponeva di studiare ifenomeni relativi alla propagazione del calore in termini di “atomi di ca-lorico” che si supponeva venissero irradiati da ogni singola molecola. Seun corpo è riscaldato in modo che la temperatura in un punto di esso siainizialmente più elevata, il calore si spanderà sino a che la temperaturadel corpo diverrà uniforme. Questo processo spontaneo è intrinsecamen-te irreversibile perché manifesta la tendenza naturale della distribuzione

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spaziale di una quantità a passare da uno stato non uniforme a uno piùuniforme. Un fenomeno analogo si ottiene quando una goccia di vinocade in un bicchiere d’acqua: il vino si spargerà più o meno lentamen-te attorno al punto iniziale, sino a che l’interno del bicchiere non saràdiventato di un rosa tenue ed uniforme. Possono tornare a separarsiscuotendo a lungo il recipiente? In linea di principio non è impossibile,ma solo infinitamente improbabile.

Jean-Baptiste Fourier, il primo a impostare teoricamente lo studiodei processi irreversibili, capovolse completamente l’approccio meccani-cistico dominante in Francia e partì dall’idea di “calorico” come fluido,traducendo in formule il fenomeno della diffusione del calore e conside-rando tale fluido come una quantità che complessivamente si conservanel tempo. Questo concetto, che matematicamente si esprime attraversole equazioni alle derivate parziali, equazioni differenziali che esprimonol’influenza su un punto dato di un insieme di punti immediatamente vi-cini, diventerà il fulcro della fisica ottocentesca. L’oggetto elementare,che fino a quel punto era stato il punto materiale, diventa l’onda sfericauscente da una sorgente. Su questa scia nascerà la teoria del campoelettromagnetico, che utilizza la conservazione della carica elettrica co-me “fluido elettrico”. Nell’analizzare l’evoluzione del fenomeno Fouriertracciò una curva della temperatura in funzione della distanza e la scom-pose in tante curve sinusoidali di frequenza diversa. Aveva inventato unpotentissimo strumento matematico, la cosiddetta “analisi di Fourier”,che consisteva nel rappresentare qualsiasi distribuzione non uniforme nel-lo spazio e nel tempo come una sovrapposizione di onde elementari,ciascuna di una ben determinata frequenza. L’analisi di Fourier di un fe-nomeno periodico permette di caratterizzare il comportamento dinamicodi un qualsiasi sistema fisico mediante “frequenze caratteristiche”, unapossibilità che si rivela determinante per i cosiddetti sistemi “lineari”, peri quali la risposta a una somma di input è la somma degli output agliinput singolarmente applicati (“principio di sovrapposizione”).

Nonostante il successo di queste efficaci rappresentazioni fenome-

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nologiche in termini di continuo, alcuni fenomeni risultavano enigmatici:come mai la materia, pur essendo discontinua, una volta riscaldata emet-te luce, il cui comportamento è di natura ondulatoria, quindi continuo?La teoria atomica della materia fondata sulla meccanica e la teoria dellaluce sembravano quindi difficilmente conciliabili. Infatti, a partire daglianni sessanta dell’Ottocento la problematica teorica della fisica europeaè sempre più contraddistinta dalla contrapposizione tra una concezioneatomistica, o “molecolare”, della materia ordinaria, ancora in gran partebasata su uno schema che si rifaceva a Newton e a Laplace secondocui l’atomo è visto come centro di forze a distanza, e una concezionecontinua, o “di campo”, delle azioni elettromagnetiche e dei processi dipropagazione luminosa che vede nell’etere – concepito e descritto comemezzo omnipervasivo, omogeneo, uniforme, continuo e privo di strutturainterna – una sostanza primordiale, di cui è imbevuta la stessa materiaordinaria e che si estende senza dislocazioni o fratture in ogni zona dellospazio. Di questo dibattito faceva anche parte integrante una discussio-ne sulla natura dell’etere il cui status nell’ambito della fisica era statonotevolmente accresciuto dalla teoria elettromagnetica di Maxwell.

Il concetto di etere risaliva all’antichità, ma presso gli antichi greciaveva avuto un carattere più filosofico che fisico. All’inizio l’unica funzio-ne dell’etere era stata quella di riempire lo spazio eliminando la possibilitàdell’esistenza del vuoto in natura. Le onde elastiche, come per esempiole onde sonore, riescono a diffondersi nei gas, nei liquidi e nei solidi. Inassenza di un mezzo le onde elastiche non si manifestano. Per spiegareanche la diffusione della luce attraverso lo spazio apparentemente vuotosembrava quindi indispensabile ricorrere a un mezzo imponderabile nelquale potessero aver luogo le oscillazioni. Un’onda non è nient’altro cheuna perturbazione che si propaga in un mezzo appropriato, se la luce eraun’onda era necessario supporre che un mezzo di propagazione esistessenon soltanto in prossimità della terra, ma nell’intero spazio, per spiegarela luce che proveniva dalle stelle, dal sole e dalla luna. Era necessariodedurre la natura di questo etere dalle leggi che regolano i fenomeni

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luminosi e, viceversa, spiegare le leggi che regolano i fenomeni luminosisulla base di un modello meccanico dell’etere, una faccenda che si rivelòassai spinosa. Inoltre, man mano che le esperienze di elettricità rivela-vano altri tipi di effetti a distanza, tre nuovi tipi di etere fecero la loroapparizione: l’etere elettrico, l’etere magnetico e l’etere gravitazionale.Perfino la teoria di Maxwell, presupponeva l’esistenza di un etere elettro-magnetico, detto anche “luminifero” – che “trasporta la luce” – comesupporto onnipresente responsabile della propagazione nello spazio deifenomeni elettrici, magnetici e ottici, manifestazioni di una stessa classedi fenomeni, l’elettromagnetismo.

All’inizio tale etere veniva dotato di proprietà analoghe a quelle deiliquidi, ma a causa delle proprietà di polarizzazione e riflessione della lucefu necessario riconoscere che l’onda luminosa era dotata di una perturba-zione trasversale e non longitudinale, come nel caso della propagazionedelle onde nell’acqua: le oscillazioni dovevano essere perpendicolari e nonparallele alla direzione di propagazione dell’onda. Non potendo essereun liquido, l’etere venne paragonato a un corpo solido quasi rigido, unsolido che tuttavia possedeva delle ben strane proprietà: doveva esseredotato di un’elasticità molto elevata, nello stesso tempo doveva esserecompletamente trasparente e non doveva offrire resistenza ai movimentidei pianeti e delle stelle... Inutile dire che questo strano miscuglio diproprietà, era del tutto contraddittorio, non corrispondendo ad alcunarappresentazione plausibile della materia. Malgrado ciò l’esistenza dell’e-tere diventò un articolo di fede universalmente riconosciuto tra i fisici. Leequazioni di Maxwell, fondate sul concetto di campo, implicavano unaripartizione continua dell’energia elettromagnetica nello spazio. L’eterenon poteva avere dunque che una struttura continua. Tuttavia l’elettri-cità in quanto rappresentata come spostamento di particelle cariche sirifaceva a una rappresentazione discontinua.

D’altra parte, la contrapposizione tra continuo e discontinuo risul-ta particolarmente evidente nell’opera dello stesso Maxwell, che forniscecontemporaneamente fondamentali contributi sia alla teoria cinetica dei

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gas (il caso esemplare di teoria atomistica) sia alla teoria del campo elet-tromagnetico e all’ottica ondulatoria, entrambe imperniate sul concettodi etere. Un bel dilemma per Maxwell, che nel 1879, poco prima di mo-rire, si chiese “la costituzione ultima dell’etere: molecolare o continua?”.La soluzione di Maxwell e Boltzmann e la nascita della meccanica stati-stica La teoria atomistica aveva fornito a James Clerk Maxwell, RudolfClausius e Ludwig Boltzmann il mezzo per interpretare la termodinami-ca in termini di meccanica classica. Eredi della teoria meccanica delcalore della prima metà del XIX secolo, essi cercarono di conciliare rap-presentazione meccanica e termodinamica del mondo fisico estendendoil dominio d’azione di quest’ultima nell’ambito della struttura microsco-pica della materia. Lo strumento di tale riconciliazione fu il concettodi probabilità. La termodinamica si occupa di processi di trasformazionidella materia nel corso di variazioni di temperatura e in quanto tale èper sua natura una teoria che si applica al mondo macroscopico. Ma ilpiù piccolo volume immaginabile di materia contiene un numero enormedi elementi microscopici: è impossibile descrivere il loro comportamentoindividuale attraverso un sistema di equazioni. La seconda legge dellatermodinamica dice che la maggior parte dei processi naturali sono irre-versibili, in contraddizione con la meccanica newtoniana, se applicata aentità microscopiche come gli atomi: le equazioni del moto sono rever-sibili per inversione del tempo, restano valide anche se si fa scorrere lavariabile tempo verso il passato, piuttosto che verso il futuro. Boltzmannin particolare risolse questa contraddizione interpretando la seconda leg-ge come una legge statistica, non assoluta. Lo studio di un sistemacomposto da un gran numero di atomi, per esempio un gas racchiusoin un contenitore, non richiede necessariamente il calcolo esplicito dellatraiettoria di ciascun atomo, è sufficiente conoscere il comportamentomedio delle molecole per dedurne temperatura o pressione. Maxwell eBoltzmann cercarono di calcolare il comportamento medio degli atomi,sotto l’ipotesi che ciascuno di essi obbedisse alle leggi della meccanicanewtoniana, mostrando come le leggi sperimentali della termodinamica

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dei gas si potessero dedurre da tali calcoli statistici. Anche Maxwellriteneva che la seconda legge della termodinamica fosse una legge es-senzialmente statistica che descriveva il comportamento di un numeroimmenso di molecole e che non poteva essere spiegata da una teoriadei moti individuali delle molecole. Questi tentativi daranno origine allameccanica statistica, che trovò la sua prima applicazione nella teoria ci-netica dei gas. Tale teoria, i cui principi sono tuttora validi, assimila ungas ad un insieme di atomi (o di molecole) che si spostano liberamentenello spazio e che subiscono delle collisioni occasionali sia con un altroatomo del gas, sia con le pareti del contenitore. Temperatura e pres-sione corrispondono rispettivamente all’energia media del movimento diciascun atomo e all’intensità degli urti di tali atomi contro le pareti delcontenitore, stabilendo un’analogia tra gas e bocce da biliardo che su-biscono continuamente delle collisioni. Poiché ci sono tantissimi atomie molecole perfino in un piccolissimo pezzo di ghiaccio, è estremamen-te improbabile – seppure non impossibile in linea di principio – che lamiriade di molecole che fanno parte del pezzetto disciolto si riorganizziin un tempo finito da uno stato di disordine come quello del liquido, inuno stato di ordine come quello del solido cristallino. L’interpretazione diBoltzmann dell’irreversibilità della trasformazione dell’energia meccanicain calore consisteva nell’interpretare questa legge facendo appello alle no-zioni di ordine e disordine. Il calore è disordine, in quanto manifestazionedell’agitazione “termica”, disordinata, delle molecole. Il solo fatto di agi-tare in un contenitore un certo numero di biglie bianche e nere separateinizialmente da una parete di separazione implica che alla fine non cisarà più differenza tra le due parti nelle quali il numero di biglie dei duecolori sarà approssimativamente lo stesso. Questo processo appare deltutto naturale a un osservatore esterno, che al contrario considererebbedel tutto innaturale il processo inverso attraverso il quale, agitando ilcontenitore, le biglie bianche e nere tornassero a disporsi in due gruppiperfettamente separati. L’intuizione comune sa che è possibile produrre“disordine” in modo naturale a partire dall’ordine, mentre non è vero il

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contrario.Nel 1877 Boltzmann aveva stabilito una relazione tra entropia e ana-

lisi statistica dei moti molecolari, caratterizzando l’aumento irreversibiledell’entropia nei fenomeni naturali come una legge statistica. Questa con-statazione trovava una semplice formulazione matematica nella formuladi Boltzmann: S = klnW: l’entropia S (una grandezza termodinamica,dunque macroscopica, che esprime l’aumento di disordine) è proporzio-nale attraverso una costante universale k (precedentemente trovata daPlanck, ma che sarà chiamata da Einstein costante di Boltzmann), allogaritmo della probabilità W, probabilità microscopica che Boltzmannattribuisce al numero di configurazioni possibili del sistema fisico. Sesi considera un sistema ordinato costituito da due gas di specie diversechiusi in un contenitore e inizialmente separati per mezzo di una paretemobile, non è difficile immaginare che un numero enorme di configurazio-ni corrisponde a uno stesso stato macroscopico:quello che rappresenta idue gas mescolati fra loro. L’entropia S cresce dunque con il crescere dellogaritmo di W. Questa formula di Boltzmann non dice nulla né dei mec-canismi che sono all’opera in un gas portato a una certa temperatura, nédelle forze di interazione tra le molecole, eppure ha il potere di stabilireun collegamento ben preciso fra aspetti macroscopici e microscopici diun sistema fisico.

Le proprietà macroscopiche del calore e degli oggetti materiali, co-me l’irreversibilità, scaturiscono dunque dal comportamento statistico diun numero enorme di atomi “meccanici”, un comportamento che puòessere descritto dalla “meccanica statistica”, una disciplina destinata aconoscere sviluppi straordinari nel corso del XX secolo.

La meccanica statistica applicata alla teoria cinetica permetteva dicalcolare l’ordine di grandezza del numero di Avogadro, che fornisce ilnumero di molecole presenti in una grammo-molecola (o grammo- ato-mo), la quantità di una specie chimica corrispondente a un numero digrammi pari al suo peso molecolare (atomico). Riconciliando la visioneatomistica di Dalton e i risultati di Gay-Lussac sulle leggi di combina-

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zione dei gas Avogadro aveva formulato nel 1811 una legge secondo laquale, nelle medesime condizioni di temperatura e di pressione, ugualivolumi di gas di diversa composizione contengono lo stesso numero dimolecole. La teoria cinetica dei gas di Maxwell e Boltzmann, non sol-tanto era in grado di mostrare che questa legge è rigorosamente validaper i gas perfetti, cioè per gas molto rarefatti con valori bassi di pres-sione e densità, ma attraverso la valutazione approssimativa del numerodi Avogadro riusciva in un certo senso a “contare le molecole”. Inco-raggiati dai successi della teoria di Maxwell e Boltzmann, i meccanicistiintravedevano il giorno in cui sarebbe stato possibile interpretare tutti ifenomeni così come era stato fatto con la teoria cinetica dei gas, giornonel quale sarebbe stato dimostrato che la termodinamica, lungi dall’es-sere una scienza fondamentale, sarebbe stata ridotta a una “meccanicaatomistica”.

La possibilità di ottenere un sistema coerente di formule per tuttii composti chimici appariva come una valida conferma della teoria ato-mica della materia. La chimica, che fin dai lavori di Dalton dell’iniziodell’Ottocento si era basata sull’ipotesi atomica, mostrava che un atomodi ossigeno era sedici volte più pesante di uno di idrogeno, ma nessuno sa-peva quanto in realtà ciascuno pesasse. Nel 1869 il chimico russo DimitriI. Mendeleev aveva effettuato una classificazione degli elementi chimici,disponendoli nell’ordine dei pesi atomici crescenti, e aveva osservato che,riunendoli in gruppi di sette elementi, appariva evidente un’analogia nelleproprietà chimiche di elementi corrispondenti di questi gruppi. Succes-sivamente risultò che le cose sono meno semplici di quanto si potessesupporre in base al semplice schema di Mendeleev, che pure costituivaun enorme punto di arrivo per i chimici. Restava il fatto che essi erano ingrado di spiegare quale fosse l’origine del diverso comportamento degliatomi corrispondenti ai differenti elementi. La vera comprensione delleregolarità e irregolarità della tavola periodica avverrà soltanto nella pri-ma metà del Novecento e richiederà molti sforzi da parte della comunitàdei fisici e l’apporto fondamentale di teorie del tutto nuove.

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Circa nello stesso periodo il microscopio aveva raggiunto il suo limiteteorico di perfezione, ma gli atomi restavano comunque fuori della suaportata. D’altro canto il positivismo era all’apice del suo sviluppo, edesponenti autorevoli come Ernst Mach insistevano sul fatto che la fisicadovesse, in generale, evitare di postulare l’esistenza di entità inosservabiliper spiegare dei fenomeni osservabili. Il violento attacco alla teoria ato-mica veniva da personaggi come Wilhelm Ostwald, il padre della fisicachimica moderna. Nel congresso di Lubecca del 1895, durante il qualela maggioranza degli scienziati tedeschi attaccò violentement i temi difondo del pensiero di Boltzmann, Wilhelm Ostwald lesse una conferenzadal titolo molto provocatorio: “Il superamento del materialismo scientifi-co”. Secondo Ostwald la visione meccanicistica del mondo è insostenibileper ragioni interne alla stessa fisica: “La congettura secondo cui tutti ifenomeni naturali si lasciano ridurre a quelli meccanici non può essereneppure definita un’utile ipotesi di lavoro: essa è semplicemente un errore.Tale errore è chiaramente rivelato dal seguente fatto. Tutte le equazionidella meccanica hanno la proprietà di ammettere l’inversione temporale.Vale a dire, i processi meccanici si svolgono allo stesso modo indipen-dentemente dallo scorrere del tempo verso il futuro o verso il passato.In tal modo, in un mondo puramente meccanico, non potrebbe esistereun prima e un dopo come accade nel nostro mondo: l’albero potrebbetornare ad essere un germoglio, un seme... Il verificarsi dell’irreversibi-lità nei fenomeni naturali prova dunque l’esistenza di processi che nonpossono essere descritti dalle equazioni della meccanica”. Ostwald eradisposto a considerare l’atomo come un concetto “euristico”, utililizzatotutt’al più come elemento ausiliario per la comprensione della realtà, main ultima analisi, egli sperava che l’atomismo potesse essere rimpiazzatoda una estensione del concetto di energia. “Chi li ha visti?”, tuonava asua volta Ernst Mach riferendosi agli atomi. Nonostante questa visioneantiatomistica fosse sostenuta da solide argomentazioni scientifiche, lanegazione dell’idea di atomo ricordava che Galilei e Newton erano staticostretti a occultare le loro speculazioni atomistiche per non essere ac-

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cusati di empietà associata a materialismo e che nella Francia del XVIIsecolo la pena di morte minacciava coloro che insegnavano tali teorie.

Al Congresso di Saint-Louis del 1904 Ostwald tenne una conferen-za sulle metodologie della scienza sottolineando l’importanza di stabilireuna completa e ben definita “corrispondenza” tra la “molteplicità “ delleesperienze riguardanti una certa situazione empirica e la “molteplicità”delle espressioni formali espressa in termini di costruzioni concettuali de-gli scienziati, siano esse parole, equazioni, o simboli. A proposito deifenomeni fisici e chimici Ostwald insisteva nel promuovere l’energetica ela sua enfasi sulle trasformazioni misurabili di energia, promettendo l’ac-cordo più pieno nell’ambito del ventaglio delle possibilità concettuali edempiriche. Nella sua convinzione che sia nella fisica sia nella chimica lanuova prospettiva fenomenologica fornita dall’energetica fosse superiorealla vecchia visione ipotetica, meccanica e atomistica, Ostwald conclude-va che, giudicando secondo il criterio di una corrispondenza diretta traconcetti e dati empirici “tutte le precedenti sistematizzazioni in formadi ipotesi” risultavano del tutto insufficienti. Tra l’uditorio presente allaconferenza di Ostwald si trovava lo stesso Boltzmann, che parlò il giornosuccessivo. Nonostante non si dimostrasse contrario in linea di principioalle teorie di carattere fenomenologico, Boltzmann rifiutava di credereche fossero più adeguate a ristabilire l’ordine rispetto a specifiche ipo-tesi meccaniche riguardanti gli atomi, le molecole e l’etere. Nel negareche quelle stesse teorie fossero del tutto libere da ipotesi e idealizzazioni,e quindi irrefutabili, Boltzmann riteneva che l’utilità delle teorie feno-menologiche fosse limitata a riassumere o sviluppare “conoscenze giàacquisite”. D’altro canto Boltzmann rivendicava la libertà di fare ipotesispecifiche e dichiaratamente provvisorie che “forniscono all’immaginazio-ne lo spazio per giocare” e così ispirano “le più inaspettate scoperte”.I recenti risultati sperimentali che ruotavano intorno ai raggi catodici eai fenomeni della radioattività, secondo Boltzmann, non facevano chefornire credibilità al punto di vista atomistico. La spiegazione della se-conda legge della termodinamica in termini di una teoria statistica dei

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moti molecolari fu severamente attaccata nel corso degli ultimi dieci an-ni del secolo XIX anche dallo stesso Max Planck, che nel sottolineare lavalidità assoluta del concetto di entropia ne aveva fin dall’inizio cercatauna interpretazione puramente termodinamica.

Nel 1906, due anni dopo il Congresso di Saint-Louis, al momentodel suo suicidio a Duino, presso Trieste, Boltzmann, di temperamentodepressivo, si sentiva ormai praticamente isolato nella lotta contro lacrescente accettazione delle idee antiatomistiche. Sulla sua tomba nelcimitero di Vienna fu incisa perenne ricordo la formula che riassume ilsenso profondo della sua battaglia scientifica S=k lnW. Eppure, appenaun anno prima, Einstein aveva utilizzato la “teoria cinetico-molecolaredel calore” per mostrare come “particelle in sospensione in una soluzionecompiano, in conseguenza del moto termico delle molecole, movimentidi ampiezza tale da poterli agevolmente osservare al microscopio”. Subi-to dopo Einstein aveva osservato che i moti da lui considerati potevanocoincidere “con il cosiddetto moto molecolare browniano”. Infatti, fin dal1827, il botanico Robert Brown, armato di microscopio, aveva osservatoche microscopiche particelle in sospensione in un liquido sono soggettea una serie incessante di movimenti disordinati. Quelle troppo grandinon si muovono perché “vengono urtate da tutte le parti dagli atomiin movimento” come aveva osservato Poincaré nel 1904, nel corso dellaconferenza di Saint-Louis. Gli urti che ricevono sono talmente tanti chesi compensano l’uno con l’altro, a causa del suo carattere irregolare ecasuale, mentre le più piccole ne ricevono troppo pochi perché si crei que-sto equilibrio e quindi si muovono incessantemente da una parte all’altra.Da dove veniva quell’energia che sembrava non dovesse mai esaurirsi? siera chiesto Poincaré: “A dire il vero non dovremmo rinunciare alla no-stra fiducia nella conservazione dell’energia, eppure sotto i nostri occhi ilmoto si trasforma in calore per attrito, e il calore si ritrasforma in moto,tutto ciò senza alcuna perdita poiché il movimento dura per sempre”. Laspiegazione secondo Einstein sta nel fatto che il moto casuale dei granelliin sospensione è dovuto a delle fluttuazioni della densità delle molecole

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del gas o del liquido. Nel concludere la premessa al suo primo articolosul moto browniano Einstein aveva aggiunto che “una determinazioneesatta della vera grandezza degli atomi sarà possibile. Se viceversa lanostra previsione si dimostrasse inesatta, ciò fornirebbe un serio argo-mento contro la concezione cinetico- molecolare del calore”. Nel 1909Jean-Baptiste Perrin seguirà il metodo indicato da Einstein per fare unanuova determinazione del numero di Avogadro e nel suo famoso libro LesAtomes, pubblicato poco dopo, renderà omaggio all’intuizione scientificadi Dalton e Boltzmann: “Indovinare in tal modo l’esistenza o le proprietàdi oggetti che sono ancora al di là della nostra conoscenza, spiegare ilvisibile complicato con l’invisibile semplice”. Einstein vedrà in questorisultato sperimentale “un significato essenziale... a livello dei principi...si vede direttamente al microscopio una parte dell’energia termica sottoforma di energia meccanica”. Di fronte a tale evidenza lo stesso Ostwaldsarà costretto ad accettare la sconfitta e ad ammettere la realtà degliatomi.

5.6 Le sorprendenti scoperte di fine Ottocento

In effetti, la concezione atomistica della materia si era andata impo-nendo ai fisici anche grazie a una serie di sorprendenti scoperte avvenutenegli ultimi anni del secolo XIX. Nel corso dell’Ottocento si erano accu-mulate prove che, quando la materia assorbe o emette radiazione lumi-nosa, lo fa in modo specifico, tanto specifico da costituire una sorta diimpronta digitale. Tutto ciò non soltanto venne interpretato come unaconseguenza del fatto che la materia sembrava assorbire ed emettereenergia luminosa nell’ambito di un certo numero di frequenze caratte-ristiche degli atomi che entravano a far parte della composizione delmateriale, ma a sua volta suggerì che l’atomo poteva essere esso stessocomposto di parti, e che queste frequenze assorbite o emesse potesseroessere una manifestazione dell’attività vibratoria fondamentale di queste

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parti. L’analisi degli spettri consentì addirittura la scoperta di nuovi ele-menti chimici. Inoltre, a partire dall’inizio della seconda metà del secolosi cominciarono a scoprire numerosi fenomeni che suggerivano l’esistenzadi processi fisici operanti all’interno dell’atomo stesso. Lo studio dellascarica elettrica in tubi di vetro dove era stato praticato un vuoto spin-to, aveva portato nel 1859 alla scoperta di una radiazione provenientedal catodo, fatta da J. W. Hittorf. Inizialmente anche i raggi catodicifurono interpretati, particolarmente dai fisici tedeschi, come fenomenoondulatorio, mentre gli inglesi erano orientati a considerarli delle parti-celle, presumibilmente un qualche tipo di ioni. Lo studio delle proprietàdi tali raggi condusse W. C. Röntgen nel 1895 alla scoperta dei raggi X,una radiazione sconosciuta emessa dal tubo a raggi catodici, capace diattraversare il corpo umano impressionando una lastra fotografica. L’im-patto di questa scoperta sulla comunità scientifica fu enorme: la “RevueGénéral des Sciences” annunciò subito la nascita della “fotografia del-l’invisibile” e nei due anni successivi le riviste scientifiche pubblicaronopiù di mille articoli sull’argomento e si svilupparono immediatamente leapplicazioni mediche della scoperta.

Lo stimolo derivante dal tentativo di comprendere la natura dei raggiX, che soltanto più tardi risultarono essere radiazione elettromagneticaad alta frequenza, portò un anno più tardi, nel 1896, alla scoperta dellaradioattività dell’uranio da parte di Henri Becquerel. A questo punto luce,magnetismo, elettricità, “vuoto”, comportamento variabile della materiasottoposta a queste diverse radiazioni, apparivano costituire i pezzi diun gigantesco puzzle. La scoperta della radioattività da parte di HenriBecquerel aggiunse un nuovo mistero, perché questa radiazione apparvesubito come qualcosa di “naturale”, nel senso che veniva prodotta senzastrumenti costruiti dall’uomo. Nel 1898 Maria e Pierre Curie scoprononuovi elementi radioattivi oltre l’uranio, il radio e il polonio e ErnestRutherford dimostra che i “raggi uranici” di Becquerel contengono duetipi di radiazioni che egli chiamò alfa e beta; questi ultimi risultaronoessere elettroni con velocità prossime a quelle della luce.

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L’effettiva comprensione della radioattività venne soprattutto dallastraordinaria collaborazione tra Ernest Rutherford e Frederick Soddy, cheproposero, almeno per i decadimenti naturali (alfa e beta) la necessitàdi un cambiamento della specie chimica e investigarono in dettaglio lanatura delle radiazioni emesse. Cominciavano a essere messe radicalmen-te in discussione concezioni come quelle espresse nel 1873 dallo stessoJames Clerk Maxwell: “Le pietre di fondazione dell’universo materialerimangono inalterate. Esse sono oggi, così come erano quando furonocreate, perfette in numero, misura e peso”. La radioattività è proprio latrasmutazione di un elemento in un altro. Nessuno all’epoca poteva es-sere consapevole del fatto che stava nascendo la fisica nucleare, perfinol’esistenza degli atomi non era un fatto scontato, né tanto meno si avevaun’idea della loro struttura in termini di nucleo circondato da una nube dielettroni. Al momento queste emanazioni vennero classificate tutte come“raggi”: catodici, X, alfa, beta o gamma. Esse rivelavano che l’atomonella sua capacità di produrre fenomenologie complesse potesse addirit-tura suddividersi in parti più piccole, a loro volta indivisibili. Nel 1895 J.B. Perrin dimostra che i raggi catodici sono carichi negativamente e nel1897 J. J. Thomson riesce a determinarne il rapporto e/m, carica divisomassa, studiandone la deflessione in campi magnetici ed elettrici. Questericerche utilizzavano un particolare modello di tubo a raggi catodici, ilprecursore di quello successivamente utilizzato negli apparecchi televisivi.Sorprendentemente risultò che la massa della particella a denominatoreera 2000 volte inferiore rispetto a quella dello ione idrogeno, già notoattraverso il processo di elettrolisi dell’acqua. D’altra parte Faraday ave-va a suo tempo dimostrato che era necessaria sempre la stessa quantitàdi elettricità per liberare una quantità di materia corrispondente a unamole dell’elemento chimico considerato.

Il significato reale di questo risultato fu espresso da Helmholtz nel1881, nel corso di una delle conferenze intitolate a Faraday: “Se accet-tiamo l’ipotesi che le sostanze elementari siano composte di atomi, nonpossiamo evitare di concludere che l’elettricità stessa si divida in porzioni

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elementari che si comportano come atomi di elettricità”.E ora, per la prima volta, si parlava esplicitamente di una particella

più leggera dell’idrogeno. Due anni dopo si trovò che le particelle prodot-te per effetto fotoelettrico, bombardando con radiazione elettromagne-tica la superficie dei metalli, erano caratterizzate dallo stesso rapportoe/m e inoltre fu dimostrato che il valore del rapporto e/m era indipen-dente dal materiale utilizzato per il catodo. Per lo stesso motivo anche iraggi beta risultarono essere presumibilmente della stessa natura, anchese fin dall’inizio apparve chiaro che la massa di questa particella variavacon la velocità, quando le velocità si avvicinavano in modo significativoa quella della luce.

Nel 1900 Paul Villard scopre l’esistenza di una radiazione molto pe-netrante emessa dai corpi radioattivi, i raggi gamma, che più tardi sirivelò essere radiazione elettromagnetica ad altissima frequenza, simili airaggi X, ma di lunghezza d’onda molto più corta. In quello stesso annoviene fatta la prima determinazione della vita media di un decadimen-to radioattivo e Soddy osserva la disintegrazione spontanea di elementiradioattivi in varianti che chiama “isotopi”.

Tra il 1898 e il 1904 J. J. Thomson concepì uno dei primi modellidi atomo nel quale gli elettroni carichi negativamente erano immersi inun volume elettropositivo, come l’uvetta in un panettone. Varie propo-ste si erano succedute dopo la teoria dell’atomo come vortice nell’etereluminifero pubblicata da Kelvin nel 1867, una teoria che, nel rimuoverela solita dicotomia tra etere e materia e i vari moti all’interno di un si-stema, sembrava poter costituire la base per una visione unificata per ifenomeni osservati in ottica, elettricità, magnetismo e calore. Più tardiKelvin abbandonò questo modello e verso la fine del secolo parlava diatomi come sfere o centri di forza, senza essere convinto che fosse unavera e propria descrizione degli atomi reali. Questi modelli presentava-no grandi difficoltà teoriche, particolarmente riguardo alla loro stabilitàmeccanica ed elettromagnetica, che tuttavia poteva spiegare il verificarsidei fenomeni radioattivi.

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Sul fronte energetico questi nuovi fenomeni riservavano delle veresorprese. Dalla valutazione dell’energia cinetica associata alle particellealfa lo stesso Rutherford era riuscito a valutare che l’energia in gioconel corso dei processi di disintegrazione risultava circa un milione divolte maggiore rispetto a quella connessa alle trasformazioni chimicheconosciute. I sali di radio risultavano luminosi nell’oscurità, le sostanzeradioattive concentrate emettevano calore e lo stesso Pierre Curie avevadimostrato che un grammo di radio, posto in un calorimetro, era ingrado di fondere, in un’ora, una quantità di ghiaccio pari almeno alproprio peso. Da dove proveniva questa continua emanazione di energia,apparentemente inesauribile e dalle origini del tutto misteriose? A questostadio gli scienziati erano in grado di osservare soltanto il risultato finaledi un processo che mutava la natura stessa del nucleo atomico di cuiancora non sospettavano nemmeno l’esistenza: la sua comprensione fumolto più ardua rispetto allo studio delle sue proprietà.

Parecchie decine di anni di ricerche assai complesse saranno necessa-rie per identificare le leggi che regolano l’emissione dei “raggi uranici” daparte della materia. L’irruzione di questa incredibile serie di scoperte nelpanorama della fisica si accompagnava al permanere di pressanti interro-gativi sul carattere continuo o discontinuo della materia, che riguardavaanche gli annosi rapporti tra materia ponderabile ed etere. A questoproposito Maxwell era stato molto lucido nella sua conclusione dell’arti-colo “Etere” scritto per la nona edizione dell’Encyclopaedia Britannicanel 1879: “L’intera questione dello stato del mezzo luminifero [l’etere]in prossimità della terra, e il suo legame con la materia ordinaria, sonotuttora ben lontani dall’essere chiariti”.

5.7 La visione elettromagnetica del mondo

Verso la fine degli anni ottanta dell’Ottocento, il programma di spie-gazione “dinamica”, che assumeva come costituente base della realtà

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fisica un substrato di particelle materiali in movimento, cominciò ad es-sere messo in difficoltà. Si fece strada una tendenza che si proponevadi descrivere le leggi della meccanica, le proprietà e il comportamentodella materia in termini di elettromagnetismo, vale a dire facendo delleequazioni di Maxwell lo strumento fondamentale di spiegazione dell’uni-verso. Il principale responsabile di questo progetto era Hendrik AntoonLorentz, il grande fisico olandese, che sviluppò a poco a poco una teoriain cui l’elettrone, l’unità elementare di carica elettrica, veniva considera-to un mattone elementare della materia. L’approccio radicale adottatoda H. A. Lorentz proponeva una fisica universale fondata puramente suconcetti elettromagnetici, in cui le leggi stesse della meccanica dovevanoricondursi a quelle più fondamentali dell’elettricità e del magnetismo. Inquesto quadro teorico l’universo intero veniva ricondotto a due elementifondamentali, l’elettrone e l’etere, ossia enti strutturalmente non mec-canici, la cui compresenza metteva in particolare risalto la dualità traproprietà corpuscolari e proprietà ondulatorie che ora costituiva uno deipresupposti fondamentali della medesima teoria.

La “materia” di Lorentz era ora costituita interamente di elettroni,in modo tale che i suoi fondamentali attributi – la massa, l’elasticità, ladurezza e la duttilità – dipendevano dal modo in cui le cariche elemen-tari interagivano l’una con l’altra. Le proprietà elettriche, magnetiche,termiche della materia venivano spiegate attraverso l’interazione deglielettroni fra di loro e con un etere stazionario, la cui relazione con la ma-teria veniva a sua volta rappresentata come una interazione tra elettronie campo elettromagnetico. Lorentz era convinto che perfino la forza digravitazione avrebbe finito col trovare una spiegazione nell’ambito di que-sta teoria. La “teoria dell’elettrone” di Lorentz costituiva la premessa diun programma di ricerca che rappresentava l’estremo tentativo di supe-rare la forma classica del dualismo onda-corpuscolo e, insieme, la vecchiacontrapposizione tra teoria meccanica e teoria elettromagnetica, ma erauna teoria destinata ad assumere un ruolo transitorio, pur costituendo ilcoronamento di un secolo di indagini, un punto d’arrivo su cui impostare

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con ottimismo la costruzione di una nuova sintesi stabile e feconda. Co-me dirà lo stesso Einstein in una allocuzione sulla tomba di Lorentz nel1928, quest’ultimo era riuscito a “Privare l’etere delle sue qualità mecca-niche e la materia delle sue qualità elettromagnetiche”. L’etere occupatutto lo spazio, compreso quello dove si trovano le particelle; continuo ediscontinuo coesistono, ma a prezzo di una contraddizione che si rivelaa livello matematico: combinare equazioni alle derivate parziali, comele equazioni del campo di Maxwell, e equazioni differenziali, come leequazioni del moto di un punto materiale. Inoltre, la teoria di Lorentznon soddisfaceva al principio di relatività che Galilei aveva installato nelcuore della fisica secoli prima.

D’altra parte la sua straordinaria potenza esplicativa, la semplicitàe coerenza dalla rappresentazione delle interazioni elementari che essaoffriva e la sua capacità di unificare settori dell’esperienza fino alloraconsiderati distinti, dava un impulso senza precedenti alla ricerca speri-mentale e costringeva la ricerca teorica ad affrontare problemi interpre-tativi sempre più profondi e generali. Nel 1897 il fisico olandese PieterZeeman aveva scoperto che certe linee spettrali sembravano suddividersiin presenza di un campo magnetico. Lorentz riuscì a spiegare il fenomenoe previde inoltre che la riga originale si sarebbe suddivisa in tre secondouna ben precisa separazione tra le nuove linee spettrali. La teoria di Lo-rentz aveva un altro forte punto a suo favore nel fornire una spiegazioneagli esperimenti effettuati da Albert Abraham Michelson e Edward W.Morley negli anni ottanta dell’Ottocento, che avevano definitivamentemesso in luce serie difficoltà nella spiegazione della relazione tra etere emateria.

5.8 Il moto della terra attraverso l’etere

A partire dagli anni venti dell’Ottocento, il complesso delle riflessionisulla natura dell’etere e delle sue relazioni con la materia si era svilup-

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pato parallelamente a una serie di esperienze di ottica che avevano inparticolare l’obiettivo di valutare la velocità e la direzione del moto dellaterra nello spazio attraverso l’etere. L’idea di fondo di queste esperienzeconsisteva nel far passare simultaneamente un raggio di luce attraversodei mezzi trasparenti e in direzioni differenti, confrontando il comporta-mento di tali raggi. Per esempio, una delle esperienze classiche, fattadallo scienziato francese Hippolyte Fizeau aveva per oggetto il confrontotra velocità della luce nell’acqua e nell’aria. Quanto all’etere si ritenevache potesse interagire con la materia in movimento in tre modi diver-si. Il moto della materia poteva essere trasmesso integralmente all’etere(ipotesi di trascinamento totale): in questo caso la velocità relativa tramateria ed etere doveva essere nulla. La seconda possibilità era quella diassenza totale di resistenza: in questo caso la velocità relativa tra eteree materia doveva essere uguale alla velocità assoluta dello spostamentodella matera. L’etere doveva rimanere immobile. La terza possibilitàera quella di trascinamento parziale: soltanto una parte del moto dellamateria veniva comunicato all’etere.

Purtroppo le varie esperienze davano dei risultati contraddittori. Lapiù celebre di queste, eseguita da Michelson e Morley, permetteva diconfrontare la velocità di due fasci luminosi che percorrevano due tragit-ti perpendicolari l’uno all’altro. L’apparato, fermamente fissato a terra,poteva essere ruotato su se stesso, di conseguenza ci si attendeva ditrovare, in corrispondenza di ciascuna rotazione, un effetto massimo cor-rispondente alla situazione in cui uno dei due fasci si trovava ad essereorientato parallelamente alla direzione del movimento assoluto della ter-ra nell’etere, mentre l’altro risultava essere perfettamente perpendicolare.La sensibilità dell’apparato era duecento volte superiore allo scarto previ-sto tra le due direzioni, ma nonostante ciò non individuò alcuna differenzadi velocità della luce fra le due direzioni. Questo esperimento fu crucialenella storia della scienza: il suo risultato negativo scombussolò i fisici delmondo intero. Eseguito per la prima volta nel 1881, fu ripetuto nel 1897con un apparato ancora più perfezionato. In seguito altri esperimenti

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del genere sono stati ripetuti utilizzando vari tipi di radiazione, come adesempio il laser, ma ogni volta, indipendentemente dalla sensibilità dellostrumento, il risultato è sempre stato negativo.

L’esperienza di Michelson e Morley sembrava dimostrare a priori chel’etere era totalmente trascinato dalla materia, mettendo completamentein crisi Lorentz il quale aveva dimostrato come tutte le altre esperien-ze risultavano compatibili con l’ipotesi di trascinamento parziale. Tra il1895 e il 1904 vennero fatti degli enormi sforzi per trovare una soluzio-ne del dilemma. Lorentz e il fisico irlandese Francis George FitzGeraldavanzarono indipendentemente la stessa proposta: questa implicava chel’apparato si contraeva nella direzione del moto tanto da rendere ugua-li i tempi di percorrenza dei due fasci di luce. Entrambi arrivarono adaffermare che i risultati di Michelson e Morley non erano altro che unadimostrazione di questo fenomeno. Inutile dire che il loro ragionamen-to si mordeva la coda: faceva appello alla loro ipotesi di contrazioneper spiegare il risultato negativo dell’esperimento, poi utilizzava questorisultato negativo come prova della contrazione.

L’accettazione stessa di tale inconsistenza logica testimonia chiara-mente l’entità della crisi attraversata all’epoca dai fisici che tentavano dicomprendere i risultati più disparati degli esperimenti volti a mettere inevidenza il “vento d’etere”. Sia Lorentz che FitzGerald ritenevano realel’effetto di contrazione, pur dandone spiegazioni diverse. Nonostante l’i-potesi della contrazione fosse in grado di spiegare i risultati sperimentalisull’interazione etere-materia, un certo numero di teorici – tra i qualiHenri Poincaré – la giudicavano un po’ troppo costruita su misura. AlCongresso di Saint-Louis, Poincaré ribadì la sua fiducia nel principio direlatività “[. . . ] secondo il quale le leggi dei fenomeni fisici devono esserele stesse sia per un osservatore fermo sia per un osservatore in moto tra-slatorio uniforme; così che non abbiamo e non siamo in grado di avere inalcun modo la possibilità di distinguere se siamo effettivamente trascinatiin tale moto”.

Questo principio era già contenuto nel famoso passo di Galilei (“Dia-

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logo sopra i due massimi sistemi del mondo” giornata seconda):

Riserratevi con qualche amico nella maggiore stanza che siasotto coverta di alcun gran navilio, e quivi fate d’aver mosche, far-falle e simili animaletti volanti; siavi anco un gran vaso d’acqua,e dentrovi de’ pescetti; sospendasi anco in alto qualche secchiello,che a goccia a goccia vadia versando dell’acqua in un altro vasodi angusta bocca, che sia posto a basso: e stando ferma la naveosservate diligentemente come quelli animaletti volanti con parivelocità vanno verso tutte le parti della stanza; i pesci si vedrannoandar notando indifferentemente per tutti i versi; le stille cadentientreranno tutte nel vaso sottoposto [. . . ] Osservate che avretediligentemente tutte queste cose, benché niun dubbio ci sia chementre il vassello sta fermo non debbano succeder così, fate muo-ver la nave con quanta si voglia velocità; ché (pur che il moto siauniforme e non fluttuante in qua e in là) voi non riconoscereteuna minima mutazione in tutti li nominati effetti, né da alcuno diquelli potrete comprender se la nave cammina [. . . ]

Nel suo discorso, che secondo alcuni storici anticipava la sostanzadella relatività einsteiniana, Poincaré aveva ribadito che “tutti i tentati-vi di misurare la velocità della terra in relazione all’etere hanno fornitorisultati negativi” e aveva commentato che “questa volta la fisica speri-mentale era stata più fedele al principio della fisica matematica; i teorici,per creare un accordo con la loro visione generale, non lo avrebberorisparmiato, ma l’esperimento lo ha testardamente confermato [. . . ] Mi-chelson ha spinto la precisione ai limiti estremi, non ne è venuto fuorinulla”. Per quanto riguardava i fenomeni conosciuti, egli era convintoche un principio di relatività fosse in atto tanto da obbligare le leggi cono-sciute della fisica ad adottare la stessa forma in sistemi che si spostavanouniformemente uno rispetto all’altro, come la terra e l’etere.

Per quattro anni Lorentz si era dedicato allo studio di questi proble-mi, quando finalmente, qualche mese prima del congresso di Saint-Louis,aveva proposto una soluzione che secondo lui rispondeva al quesito posto

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da Poincaré. La sua analisi iniziava con il fornire una serie di equazioniche sostituivano quelle tradizionali (le cosiddette equazioni di trasforma-zione di Galilei le quali mettevano in relazione le coordinate spaziali etemporali corrispondenti a sistemi dotati di moto uniforme l’uno rispet-to all’altro). Le equazioni analoghe formulata da Lorentz funzionavanoperfettamente: le leggi della fisica assumevano la stessa forma nei diffe-renti sistemi e inoltre quando venivano applicate a misure di lunghezzain sistemi in moto relativo uniforme saltava fuori la contrazione di Lo-rentz-FitzGerald. L’applicazione delle “equazioni di trasformazione diLorentz” prevedeva ugualmente che la massa di una particella carica inmoto dovesse aumentare in funzione della velocità relativa tra le parti-celle, un previsione in accordo, entro i limiti normali di incertezza, conle osservazioni recenti. Tuttavia, una delle conseguenze di queste equa-zioni turbava notevolmente Lorentz. La loro applicazione a coordinatetemporali prevedeva che il ritmo degli orologi nel sistema in moto ap-parente dovesse decrescere in funzione della velocità. Secondo Lorentzl’effetto non poteva essere reale: si trattava semplicemente di un “artifi-cio di calcolo”, di una “astrazione” , che egli denominò “tempo locale”.In questo modo Lorenz non si preoccupò più delle caratteristiche fisichedell’etere, che per lui non diventava altro che il sistema di riferimentodello spazio assoluto newtoniano. L’etere si riduceva alle equazioni chelo descrivevano.

Nella sua relazione al congresso di Saint-Louis, Poincaré aveva ri-chiamato l’attenzione di tutta la comunità dei fisici sull’importanza delle“trasformazioni di Lorentz”, inoltre aveva affermato che, secondo la suaopinione, i fenomeni elettrici erano il risultato di spostamenti degli elet-troni nell’etere che riempiva lo spazio. E aveva quindi avanzato l’ipotesiche, se la teoria di Lorentz era fondata, allora ci si doveva aspettare lanascita di una “nuova meccanica”, la quale doveva implicare che nessuntrasporto di materia o di energia potesse superare la velocità della luce.Le discussioni del congresso si basavano in gran parte su questi sviluppirecenti, e tuttavia nessuno, in un modo o nell’altro, per un motivo o

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per un altro, mise in discussione l’esistenza dell’etere. Il direttore dellaprestigiosa rivista “Physical Review” arrivò ad affermare che l’etere rap-presentava una “necessità intellettuale”. L’etere insomma era diventatouna questione che monopolizzava l’attenzione di coloro che erano allaricerca di una spiegazione della materia. Nel complesso le proposte diLorentz non ebbero un effetto particolare, molti ritenevano che ulterio-ri esperimenti sarebbero stati necessari prima di poter arrivare ad unaconclusione riguardo il moto relativo della materia nell’etere.

Paul Langevin, nella sua relazione “The relations of physics of elec-trons to other branches of science”, ribadiva che “La straordinaria fertilitàdimostrata dalla nuova idea, basata sulla prova sperimentale della strut-tura corpuscolare discontinua delle cariche elettriche, appare come la piùstraordinaria caratteristica dei recenti progressi nel campo dell’elettricità.Le conseguenze si estendono a tutte le parti della vecchia fisica, special-mente all’elettromagnetismo, all’ottica, al calore radiante; esse gettanouna nuova luce perfino sulle idee fondamentali della meccanica newtonia-na e hanno riportato in auge le vecchie idee atomistiche facendo sì cheesse fossero elevate dal rango di ipotesi a quello dei principi”. Nel riba-dire che la nozione di elettrone era diventata il solido fondamento dellateoria e dell’esperimento, Langevin sottolineava quanto fosse giustifica-ta l’“attuale tendenza a conferire alle idee elettromagnetiche un postopreponderante”, la cui solidità scaturisce da una “doppia base”: dalla“esatta conoscenza dell’etere elettromagnetico che dobbiamo a Faraday,Maxwell e Hertz e dall’altra parte dall’evidenza sperimentale fornita dallerecenti indagini sulla struttura granulare dell’elettricità”.

Perfino Rutherford era interessato a ricondurre il fenomeno della ra-dioattività nell’ambito dell’interpretazione elettromagnetica e favorevoleall’idea che la massa della particella beta, ovvero dell’elettrone, fosseinteramente di origine elettromagnetica e destinata ad aumentare manmano che la velocità si avvicinava al suo limite massimo, la velocità dellaluce. Nel presentare a Saint-Louis le più recenti conoscenze sperimentalie teoriche riguardanti la radioattività – dalla natura delle radiazioni alfa

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beta e gamma, fino all’energia in gioco in questi processi – Rutherfordmise in evidenza che la teoria della disintegrazione radioattiva da luiformulata insieme a Frederick Soddy, che implicava problemi di conser-vazione dell’energia, risultava in armonia con “la moderna visione dellacostituzione elettronica della materia”. “Sebbene ancora molto recenti –continuava Langevin – le concezioni di cui ho cercato di fornire un’ideacomplessiva stanno per penetrare nel cuore stesso dell’intera fisica doveagiranno come un germe fertile nel cristallizzare intorno ad esse, attraver-so un ordine nuovo, dei fatti molto lontani l’uno dall’altro. Quest’ideaha avuto uno sviluppo immenso negli anni recenti e sta mandando inpezzi la struttura della vecchia fisica, sovvertendo l’ordine stabilito diidee e leggi per ramificarsi di nuovo in una organizzazione che si prevedesemplice, armoniosa e fruttuosa”. Con queste conclusioni trionfalisticheLangevin decretava la morte del programma di spiegazione meccanicadel mondo.

5.9 La crisi del meccanicismo e le nubi di LordKelvin

Il fallimento dei tentativi volti a spiegare il meccanismo del moto dellaterra attraverso l’etere e le difficoltà concettuali associate al programmatradizionale di spiegazione meccanica attraverso la costruzione di modellisi erano entrambi drammaticamente imposti all’attenzione dei fisici difine Ottocento.

Già Maxwell nel suo Trattato aveva sottolineato che tali modelli nonerano in grado di fornire una spiegazione unica dei fenomeni e avevaattirato l’attenzione sui rischi di confondere rappresentazione e realtà.Nonostante rimanesse legato all’obiettivo di formulare una teoria mecca-nica “completa” del campo elettromagnetico, alla fine aveva fatto ricorsoalla formulazione analitica della dinamica, piuttosto che a specifici mo-delli meccanici come aveva fatto negli stadi iniziali delle sue ricerche.

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La propagazione delle forze magnetiche ed elettriche era stata spiegataattraverso una analogia meccanica, una illustrazione euristica del tutto“provvisoria e temporanea”: nel campo, rappresentato come un fluidoincompressibile, vortici rotanti la cui configurazione geometrica dovevacorrispondere alle linee di forza, erano separati da strati di particellesferiche (identificate con l’elettricità), che fungevano da ingranaggi permettere in moto il flusso di corrente. La correlazione tra modello mec-canico e elettromagnetico aveva fornito a Maxwell una rappresentazionedei fenomeni di induzione, che una volta costruita la teoria lui stessoaveva abbandonato a favore di un formalismo analitico astratto. Il de-clino della visione meccanica del mondo si accompagnava ai dibattiti suifondamenti della fisica e perfino alle critiche di carattere filosofico. Nellasua analisi della storia della meccanica pubblicata agli inizi del NovecentoErnst Mach aveva dimostrato che le leggi della meccanica non possonoavere uno status privilegiato nella fisica. Mach estendeva la sua criticaalla filosofia meccanicistica attaccando l’atomismo, ontologia della visio-ne meccanica del mondo, ed enfatizzava il carattere ipotetico della teoriasostenendo che gli atomi non erano altro che simboli della rappresentazio-ne dei fenomeni, non particelle reali. Nel 1900, quando gli sviluppi delleteorie dell’etere e del campo minacciavano ormai seriamente l’egemoniadella visione meccanica del mondo, Lord Kelvin pronunciò alla Royal In-stitution una famosa allocuzione dedicata alle “Nubi del diciannovesimosecolo sulla teoria del calore e della luce”.1

Mentre Ostwald poneva violentemente l’accento sulla constatazioneche lo sviluppo delle scienze fisiche aveva portato a una crisi e, per uscireda essa, riteneva necessario enunciare un vero e proprio verdetto filoso-fico sulla scomparsa della materia e sostenere che l’energia deve essereposta alla base di ogni spiegazione del mondo fisico, per Kelvin invece, lo

1W. Thomson, Nineteenth-Century Clouds over the Dynamical Theory of Heatand LightThe London, Edinburgh and Dublin Philosophical Magazine and Journal ofScience, Serie 6, vol. 2, p. 1 (1901).

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sviluppo delle scienze fisiche aveva portato a difficoltà gravissime e a verie propri fallimenti, per uscire dai quali egli asseriva la necessità di una ri-formulazione dei problemi irrisolti, con nuovi concetti fisico-matematici.Le nubi di cui parlava Kelvin erano due nodi teorici fondamentali. Ilprimo nodo riguardava una domanda che aveva radici nelle teorie ondu-latorie affermatesi all’inizio del secolo: “Come potrebbe la terra muoversiattraverso un solido elastico quale essenzialmente è l’etere luminifero?”.Kelvin si riferiva appunto al groviglio di difficoltà sorte in rapporto ancheall’esperimento di Michelson e Morley e al brillante suggerimento di Fitz-Gerald e Lorentz sulla contrazione. La seconda nube riguardava invecealcuni aspetti importanti del lavoro di Maxwell e Boltzmann sui qualiesistevano dei dati sperimentali divergenti rispetto alla teoria, relativi aldelicato problema dei calori specifici e agli spettri molecolari dei gas.

La formulazione di modelli della struttura molecolare della materia sitrovava a dover affrontare delle restrizioni imposte da differenti fenomeniche risultavano in contraddizione tra di loro. Maxwell aveva derivato dal-la sua teoria cinetica dei gas il risultato matematico che l’energia cineticain un gas di molecole è distribuita “equamente” tra i moti interni dellemolecole. Il cosiddetto “teorema di equipartizione” sulla distribuzionedell’energia risultava in conflitto sia con le determinazioni sperimentalidelle proprietà termiche (calori specifici) dei gas, sia con l’evidenza spet-troscopica, da cui si deduceva che le linee spettrali erano il risultato divibrazioni interne molecolari piuttosto complesse, del tutto in contraddi-zione con le restrizioni imposte dal teorema di equipartizione dell’energia,che implicava una restrizione nella struttura meccanica delle molecole.

Nella seconda metà del secolo le ricerche nel campo della spettrosco-pia avevano messo in luce che ciascun elemento chimico è in grado siadi assorbire che di emettere luce di ben precise lunghezze d’onda carat-teristiche dell’elemento stesso. Questo suggeriva che le linee scure dellospettro solare non erano che il risultato dell’assorbimento selettivo dellaluce da parte degli elementi chimici contenuti nell’atmosfera solare. Laspettroscopia divenne interessante per i chimici a cui forniva un preciso

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metodo di analisi, oltre a provocare speculazioni sulla natura degli ele-menti stessi. L’indagine sugli spettri di stelle lontane rivelò la prevalenzadi gas leggeri nelle stelle più calde, mentre le più fredde contenevanouna maggiore proporzione di metalli pesanti. Questa analisi consentivala formulazione di ipotesi sull’evoluzione degli elementi chimici a partireda sostanze più semplici e come risultato di fenomeni di raffreddamentoe condensazione di elementi più leggeri nelle stelle. Il puzzle che nascevadalle osservazioni astrofisiche si accompagnava a una seconda questio-ne, apparentemente del tutto innocente, che riguardava la quantità dienergia richiesta per innalzare la temperatura di un corpo, ovvero il suocalore specifico. Il problema era che si richiedeva molta meno energiadi quanto previsto. Quasi cent’anni prima Pierre-Louis Dulong e Alexis-Thérèse Petit avevano osservato che indipendentemente dal materialedi cui è costituito un solido il calore specifico per molecola è circa lostesso. A questa legge Boltzmann aveva dato una formulazione apparen-temente solida, applicando la meccanica statistica agli atomi di un solidoera riuscito a calcolare il calore specifico per atomo in preciso accordocon le osservazioni di Dulong e Petit. Verso la fine del secolo, tuttavia,non soltanto alcuni materiali come il diamante mostravano di avere uncalore specifico troppo piccolo, ma l’avvento delle tecniche di criogeniaaveva messo in evidenza che i calori specifici a temperature molto bassedipendevano fortemente dalla temperatura, in contrasto con la teoria diBoltzmann. La descrizione del comportamento degli atomi in un soli-do e la derivazione matematica di Boltzmann sembravano dover essereseriamente messe in discussione. Qualcuno pensava che in realtà gliesperimenti e la teoria fossero corretti e che la crisi potesse essere risoltaadottando un punto di vista del tutto nuovo.

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5.10 Planck e la radiazione di corpo nero, il con-tinuo messo in discussione

Nessuna relazione al Congresso di Saint-Louis aveva per oggetto ilrecentissimo lavoro di Max Planck, che partendo da problematiche com-pletamente diverse aveva in realtà rimesso completamente in discussioneil concetto di continuo creando i presupposti per un profondo sovverti-mento nell’universo della fisica classica. Di lì a poco sarà proprio Einsteina coglierne l’essenza “rivoluzionaria”.

Fin dal 1860 i fisici si erano sforzati in ogni modo alla ricerca diuna formula in grado di descrivere in modo soddisfacente la natura dellaradiazione emessa da corpi ideali, i cosiddetti “corpi neri”. Tale radia-zione è assimilabile alla radiazione elettromagnetica emessa da un corpoincandescente o da un piccolo foro praticato in una cavità (per esem-pio un forno) dalle pareti perfettamente riflettenti contenente radiazioneelettromagnetica ad alta temperatura. Il problema era stato sollevatoda Gustav Kirchhoff che ne aveva sottolineato il carattere universale: lalegge doveva dipendere solo dalla frequenza e dalla temperatura dellaradiazione e non dalla natura del corpo emittente purché il suo potereassorbente fosse il 100%. Gli scienziati dell’epoca erano anche interes-sati a fissare delle misure standard per l’emergente industria elettricain Germania e a questo scopo avevano misurato il modo in cui l’ener-gia elettromagnetica totale di un corpo nero si distribuiva tra le diverselunghezze d’onda. Infatti i motivi che spingevano i fisici a interrogarsisulle relazioni tra la luce emessa da un corpo e la sua temperatura, era-no anche di natura pratica. La formula cercata descriveva la peggioresorgente luminosa possibile che poteva servire da campione per tararele nuove lampade elettriche a filamento incandescente in base al lororendimento. Esistevano delle formule che correlavano la luce emessa daun corpo (l’insieme delle frequenze) alla sua temperatura. Le stelle stes-se potevano essere classificate in base a questo criterio, ma le formule

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esistenti funzionavano soltanto in particolari zone dello spettro: fino al1900 nessuno era stato capace di fornire una precisa formula matematicaper la distribuzione di energia per tutte le temperature e le frequenze cosìcome era stata sperimentalmente osservata. Perfino Lorentz era statocostretto ad ammettere che la sua teoria dell’elettrone non era in gradodi dar conto del modo in cui l’energia della radiazione di corpo nero sidistribuisce tra le varie lunghezze d’onda osservate sperimentalmente.

Fin dal 1896 l’attenzione di Max Planck, che vedeva nelle proprietàdella radiazione del corpo nero un nodo teorico di grandissima rilevan-za, fu attratta da questo problema che esercitava un fascino speciale sudi lui, a causa del suo carattere universale. La distribuzione “normale”dell’energia spettrale rappresentava qualcosa di assoluto e Planck ave-va sempre considerato la ricerca di qualcosa di assoluto come lo scopopiù elevato a cui potesse tendere l’attività scientifica. Come lui stessoosservava tutte le misure sono relative, i materiali di cui sono fatti glistrumenti che utilizziamo sono condizionati dal luogo da cui vengono, laloro stessa fabbricazione lo è dall’abilità di chi li ha progettati, perfino illoro uso subisce l’influenza degli scopi particolari che lo sperimentatore sipropone di ottenere attraverso di essi. Secondo Planck, si trattava quin-di di scoprire l’Assoluto, il Generale, l’Invariante che si nasconde dietroa tutta questa enorme quantità dati sperimentali.

Inizialmente Planck, che si era laureato con una tesi sul secondo prin-cipio della termodinamica, aveva sperato di derivare la formula basandosisulla teoria di Maxwell, facendo delle assunzioni naturali riguardo l’ener-gia e soprattutto fornendo una interpretazione puramente termodinamicadei processi radiativi. Ma questa linea risultò fallimentare e Planck fucostretto a raccogliere le osservazioni di Boltzmann, che gli aveva fat-to notare come le equazioni del campo elettromagnetico, come quelledella meccanica, sono simmetriche rispetto all’inversione del tempo ein quanto tali non possono da sole essere alla base della descrizione diprocessi irreversibili. Planck si trovò costretto ad adottare l’interpreta-zione statistica dell’entropia formulata da Boltzmann e il 14 dicembre

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del 1900 fu in grado di annunciare dei risultati sensazionali di fronte al-l’uditorio della Società tedesca di fisica a Berlino: a distanza di 40 annidalla sfida lanciata da Kirchhoff era riuscito a fornire una giustificazioneteorica alla formula da lui stesso proposta due mesi prima per descriverela distribuzione di energia radiante emessa da un corpo nero per tutte letemperature e lunghezze d’onda. Per arrivare a questa deduzione Plancknon soltanto aveva dovuto seguire la via proposta da Boltzmann, masi era trovato nella necessità di postulare che gli oscillatori microscopicipotevano scambiare l’energia soltanto sotto forma di quanti (ǫ = nhν),o multipli di una quantità elementare, quella che oggi chiamiamo h, lacosiddetta costante di Planck.

Rivoluzionario suo malgrado, Planck era stato costretto ad allonta-narsi dalle categorie di pensiero tradizionali. Nella fisica classica l’energiaè una grandezza che può variare in modo continuo e che può quindi es-sere fornita a un oscillatore in qualsiasi ammontare, in maniera continua,in accordo con i principi della teoria elettromagnetica. In sostanza il pro-cedimento di Planck consisteva nel sostituire una rampa con una scalaa pioli posti a intervalli uguali, in modo che lo scambio di energia tramateria e radiazione di corpo nero non avvenisse in maniera continua, inaccordo con i princìpi della teoria elettromagnetica. Introducendo ancheper l’energia una struttura granulare simile a quella già ammessa per lamateria o per l’elettricità, risultava che questa doveva essere assorbitao emessa soltanto in certe unità discrete, rappresentate dalla distanzacostante da un piolo della scala a quello successivo. Ogni oscillatoredoveva sempre trovarsi su un piolo o su un altro e, se saliva o scendevalungo la scala energetica, doveva farlo saltando dall’uno all’altro. Planckinoltre affermò che la distanza tra i pioli della scala energetica, i “livelli”di energia, non era sempre la stessa per tutti gli oscillatori, ma dovevacomunque essere proporzionale alla loro frequenza.

Il fatto che egli avesse discretizzato l’energia totale introducendola grandezza ǫ = hν non rappresentava un procedimento insolito, maun semplice trucco matematico. Si trattava infatti di un’ipotesi pura-

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mente formale, una procedura utilizzata abitualmente per semplificarei calcoli, salvo poi far tendere a zero la discretizzazione per tornare alcontinuo. Ma alla fine Planck si trovò invece di fronte ad una incredi-bile realtà: tutto funzionava soltanto mantenendo l’assunzione che laconversione di calore in luce poteva avvenire solo secondo determinatequantità, “pacchetti” di energia, multipli interi di una unità minima discambio, proporzionale alla frequenza della luce prodotta attraverso unacostante, h, che Planck affermò essere una costante universale e chechiamò “quanto elementare di azione”, a causa delle unità con le qualisi misura (un’energia per un tempo) e che la storia ha battezzato comecostante di Planck.

Le implicazioni di questi sorprendenti risultati, che si sarebbero rive-late fondamentali per la fisica del Novecento, sul momento non eranoapparse tali nemmeno allo stesso Planck. Se il quanto elementare d’a-zione fosse stata una grandezza fittizia, tutta la legge dell’irraggiamentosarebbe stata illusoria in linea di principio, non rappresentando altro cheun gioco di formule senza contenuto. Se invece la deduzione della leggepoggiava su un reale contenuto fisico, allora il quanto d’azione dovevaavere un significato fondamentale, annunciare qualcosa di assolutamentenuovo, fino ad allora insospettato, destinato a rivoluzionare il pensiero fi-sico basato sulla nozione di continuità, propria di tutte le relazioni causalifin da quando Leibniz e Newton avevano fondato il calcolo infinitesimale.“La natura non fa salti” era una massima che la fisica moderna avevaereditato senza incertezze dalla Scolastica: come può un corpo, secondoil modo di pensare ricavato dall’esperienza macroscopica millenaria, pas-sare dalla velocità di 20 km/h a quella di 30 Km/h senza poter viaggiare,almeno per un istante, alle velocità intermedie, a esempio 25 km/h?D’altra parte l’ipotesi sconcertante della “quantizzazione” dell’energia,che risolveva il problema della distribuzione spettrale della radiazioneemessa da un corpo nero, non era affatto chiara a prima vista.

Occorsero quasi dieci anni di dibattito teorico perché la comunitàscientifica si rendesse conto che il concetto stesso di processo fisico do-

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veva subire una trasformazione radicale, e non poteva più essere coe-rentemente inserito nell’immagine classica della realtà fisica. Per moltotempo lo stesso Planck, convinto che l’energia della radiazione dovesseavere un carattere continuo, sperò che la discontinuità potesse essereattribuita all’interazione tra materia e radiazione, si sforzò di spiegare ericonciliare con le conoscenze esistenti la costante h. Il ruolo che que-sta nuova costante rivestiva nel corso regolare dei processi fisici restavaancora completamente oscuro, così Planck cercò di inquadrare in un mo-do o nell’altro il ‘quanto elementare di azione’ nell’ambito della teoriaclassica. Ma fu proprio il fallimento di tutti i suoi tentativi in questosenso a rendere evidente il ruolo fondamentale che il quanto elementaredi azione assume nella fisica atomica. Come apparve chiaro più avanti, lasua apparizione, del tutto inattesa stava aprendo un’era del tutto nuovanel campo delle scienze naturali.

Fu proprio Einstein a cogliere in pieno l’essenza della scoperta diPlanck, che poneva un problema del tutto nuovo: quello di trovare unanuova base concettuale a tutta la fisica. Tuttavia, la teoria di Planck,aveva un carattere ibrido: da una parte era legata alla teoria del campoelettromagnetico, una teoria del continuo, e dall’altro utilizzava argomen-ti della teoria molecolare del calore, un approccio tipicamente discreto.La dottrina atomistica, fino allora centrata sull’ipotesi della limitata divi-sibilità della materia, doveva fare un passo ulteriore ed estendersi anchealla concezione dei processi fisici elementari, in particolare ai processi cheimplicavano la generazione e la trasformazione della luce. Anche questirisultarono avere una struttura “atomica”, ossia implicano “transizioni”intere, finite, discontinue.

Nel 1905, nel “Punto di vista euristico relativo alla generazione e allatrasformazione della luce”, un lavoro che all’epoca lui stesso considerò“rivoluzionario”, Einstein farà l’ipotesi che “quando un raggio luminosouscente da un punto si propaga, l’energia non si distribuisce in modocontinuo in uno spazio via via più grande; essa consiste invece di unnumero finito di quanti di energia, localizzati in punti dello spazio, i qua-

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li si muovono senza dividersi e possono essere assorbiti e generati solonella loro interezza”. Einstein aveva scoperto un oggetto, la luce, chesfuggiva alla dicotomia continuo/discontinuo, rendendo d’un sol colpocompatibili fra loro le teorie della luce e della materia. Essa apparvetroppo radicale anche allo stesso Planck, che per lungo tempo fece ognisforzo per riconciliare l’ipotesi quantica con la fisica classica. I foto-ni, come più tardi furono denominati i quanti di luce di Einstein, cherisultavano efficaci per spiegare processi come l’effetto fotoelettrico, l’e-missione di elettroni da parte di metalli colpiti da radiazione luminosadi una ben precisa frequenza, saranno lungamente osteggiati dai fisici,troppo abituati alla natura ondulatoria della radiazione elettromagneti-ca, finché non sarà dimostrato da Arthur H. Compton (1923) in modoinequivocabile che nell’interazione con gli elettroni essi si comportanoproprio come dei corpuscoli, obbedendo fedelmente alle leggi della con-servazione dell’energia e della quantità di moto. Riapparivano gli antichifantasmi; la teoria dei quanti aveva risuscitato i corpuscoli, sotto formadi fotoni, e il duplice aspetto, ondulatorio e corpuscolare della radiazio-ne da Compton in poi, non potrà più essere ignorato. Ma era soltantol’inizio delle scoperte stupefacenti che di lì a poco avrebbero delineatoun finale sorprendente a questo antico dilemma estendendo l’incredibiledualismo onda-corpuscolo anche alla materia ponderabile, suscitando ac-cesi dibattiti tanto scientifici quanto filosofico-metodologici. In effetti ilavori di Planck e successivamente quelli di Einstein, che non rimettevanoesplicitamente in discussione la natura ondulatoria della luce, ma le so-vrapponevano una nuova dimensione corpuscolare in termini di pacchettidi energia come concetto “complementare”, ebbero l’effetto di scatena-re una crisi senza precedenti, dalla quale emergerà una nuova fisica, lameccanica quantistica.

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5.11 La fisica dei principi

Ma nel 1904, nel corso del congresso di Saint-Louis, stavano appenainiziando quelli che R. McCormack ha chiamato “gli incubi di un fisicoclassico”. La fiducia in una scienza che progredisce in modo ordinato ver-so leggi dal carattere assoluto era definitivamente incrinata. Il discorsonel quale Poincaré cercava di valutare la fisica contemporanea ricollocan-dola in un contesto storico, evidenziava che nuove sfide mettevano incrisi la “fisica dei principi”. La fisica stava entrando in una nuova fase diprofonda trasformazione: perfino la seconda legge della termodinamica,una gloria del XIX secolo, appariva ora assumere il carattere di un “im-perfetto” teorema statistico, riguardante i moti molecolari. Il “principiodi Lavoisier”, il sacro principio di conservazione della massa, come “mas-sa puramente meccanica” sembrava essere messo in dubbio. Alcuni fisiciproponevano che la massa dovesse avere un’origine “esclusivamente elet-trodinamica” e per di più molti affermavano che la massa, di qualsiasiorigine essa fosse, sembrava variare con la velocità, come appariva daosservazioni relative agli elettroni che nel corso dei processi radioattivivenivano emessi a velocità prossime a quelle della luce. Forse la mecca-nica statistica, suggeriva Poincaré, stava per svilupparsi in una direzioneche avrebbe avuto la funzione di modello per tutta la fisica. Anche ilprincipio di conservazione dell’energia cadeva “in discredito” di frontealla enorme quantità di energia che sembrava immagazzinata all’internodell’atomo, come aveva dimostrato l’esperimento di Pierre Curie.

Lo spirito del congresso di Saint-Louis del 1904, rifletteva bene iproblemi nei quali si dibattevano i fisici da mezzo secolo e testimoniavaanche la diversità dei punti di vista che caratterizzavano l’inizio del XXsecolo: una grande sintesi era attesa e si presumeva che sarebbe stata for-mulata a partire da etere ed elettroni. Paul Langevin era convinto che la“concezione elettronica della materia” sarebbe stata alla base di una com-pleta inversione del pensiero scientifico tradizionale. Nel paragonare lasintesi scientifica promessa dalla fisica dell’elettrone a una “Nuova Ame-

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rica”, Langevin respingeva la rappresentazione meccanica dei concettielettromagnetici a favore di una “rappresentazione elettromagnetica deiprincìpi e delle idee della meccanica ordinaria”. Langevin consideravala visione elettromagnetica qualcosa che andava ben oltre una semplicepossibilità teorica ed affermava che la rivoluzione elettromagnetica eraormai in atto. Oppure, come pronosticava Poincaré, stava per emergere“una meccanica del tutto nuova, della quale riusciamo a cogliere soltantoalcuni indizi, in cui l’inerzia aumenta con la velocità, e la velocità dellaluce diventa un limite che non può essere superato”. Nel discutere l’e-sperimento di Michelson e Morley e il principio di relatività, che fra tuttisembrava il più saldo, Poincaré si era avvicinato in modo significativo aitemi che sarebbero stati oggetto della critica radicale di Einstein. For-se, egli diceva, “La meccanica ordinaria, più semplice, costituirebbe unaprima approssimazione, poiché resterebbe valida per velocità non trop-po grandi, così che ritroveremmo ancora la vecchia dinamica all’internodella nuova. Non dovremmo rimproverarci di aver creduto nei principi[. . . ] il modo più sicuro dovrebbe ancora essere in pratica quello di agirecome se continuassimo a crederci [. . . ] Decidere di escluderli del tuttosarebbe come privarsi di un’arma preziosa. In conclusione mi affretto adaffermare che non è ancora il momento, niente prova che i principi nonusciranno fuori dalla lotta vittoriosi e intatti”.

Soltanto un anno dopo, l’annus mirabilis di Einstein inaugurerà unastagione radicalmente nuova per la fisica: i principi costituiranno unavera e propria guida per la formulazione di nuove teorie. Nel sottoli-neare che “[. . . ] i fenomeni elettrodinamici, al pari di quelli meccanici,non possiedono proprietà corrispondenti all’idea di quiete assoluta”, Ein-stein si porrà nella linea inaugurata da Galilei e proseguita con Newton:“[. . . ] per tutti i sistemi di coordinate per i quali valgono le equazionidella meccanica varranno anche le stesse leggi elettrodinamiche e otti-che. Eleveremo questa congettura (il contenuto della quale verrà detto,in quanto segue, “principio di relatività”) al rango di postulato; suppor-remo inoltre – un postulato, questo, solo apparentemente incompatibile

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col precedente – che la luce, nello spazio vuoto, si propaghi sempre conuna velocità determinata, c, che non dipende dallo stato di moto delcorpo che la emette. Questi due postulati, enunciati nella sua “Elettro-dinamica dei corpi in movimento”, bastano per giungere a una teoriaelettrodinamica dei corpi in movimento, semplice e coerente, fondatasulla teoria di Maxwell per i corpi stazionari. L’introduzione di un “etereluminifero” si manifesterà superflua [. . . ]”.

Il prezzo da pagare era che al concetto di simultaneità di due eventinon si poteva più “attribuire alcun significato assoluto, e che eventi giu-dicati simultanei in un certo sistema di coordinate, in un altro sistemache sia in moto rispetto ad esso non sono più da considerare tali”. Par-tendo dai due postulati Einstein riuscì a ottenere come conseguenza lestesse equazioni di trasformazione delle coordinate spaziali e temporalinel passaggio da un sistema di riferimento inerziale a un altro che Lorentzaveva derivato ad hoc per giustificare i fenomeni osservati e necessarieper generalizzare le trasformazioni di Galilei a sistemi di riferimento inmoto relativo uniforme a velocità prossime a quella della luce.

La teoria di Einstein sarà ribattezzata teoria della relatività, ma ilsuo concetto fondante è l’invarianza: invarianza della velocità della lucee invarianza delle equazioni della meccanica e dell’elettromagnetismo.

Questa posizione sarà radicalizzata da Einstein alla ricerca di una“estensione del postulato di relatività a sistemi di coordinate in motonon uniforme l’uno relativamente all’altro”. Se la teoria speciale dellarelatività – “un gioco da ragazzi”, come lui stesso scriverà ad ArnoldSommerfeld nel 1912 – aveva profonde radici nella fisica classica, la re-latività generale (“Le leggi della fisica debbono essere di natura tale chele si possa applicare a sistemi di riferimento comunque in moto”) sarà ilrisultato di un salto in un mondo completamente nuovo per la fisica, eavverrà dopo sette anni di strenuo lavoro in cui Einstein sarà obbligatoad utilizzare strumenti che perfino i matematici dell’epoca considerava-no qualcosa di “esotico”, pure curiosità formali. La teoria generale dellarelatività fu una creazione individuale, solitaria, una geniale intuizione,

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Postfazione. 1904. Un anno prima di Einstein

poggiata però su solide basi matematiche in primo luogo sulla geome-tria non euclidea, elaborata nel secolo XIX da Riemann, ma anche sullautilizzazione di uno strumento matematico di difficile accesso, il calcolodifferenziale assoluto, che, sorto con le ricerche di Gauss, Riemann eChristoffel, in quel periodo era stato sistematicamente sviluppato da duegrandi matematici italiani, Gregorio Ricci-Curbastro e Tullio Levi-Civita.

Le equazioni di Einstein stabilivano con esattezza come lo spazio-tempo prodotto dalle masse che vi si trovano viene curvato a causa dellapresenza di tale materia. Egli era stato quindi in grado di calcolare qualeavrebbe dovuto essere la curvatura dei raggi emessi da una certa stella,situata in un certo preciso momento dietro il sole, quasi ai margini deldisco solare, prevedendo che la stella sarebbe stata visibile in un luogodiverso da quello che si attendeva. Il 29 maggio del 1919, nel corso diuna eclissi solare, la previsione fu puntualmente confermata. Avutanenotizia per mezzo di un telegramma inviatogli da Lorentz, sembra cheEinstein abbia commentato: “In caso contrario mi sarebbe dispiaciutoper il buon Dio, perché la teoria è corretta”.

Era iniziata la carriera ufficiale della “relatività”, mentre Einstein d’unsol colpo elevato al rango di Newton, era destinato a divenire uno dei mitidel XX secolo e oltre, sinonimo di genio, icona di saggezza, creatività eimmaginazione.

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Index

Ampère, André-Marie, 34Avogadro, Amedeo, 142

Becquerel, Henri, 143Bentley, Richard, 17Biot, Jean-Baptiste, 129Boltzmann, Ludwig, 69, 78, 81, 135–

142, 156, 157, 159, 160Bolyai, János, 40Brahe, Tycho, 29Brown, Robert, 141

Cauchy, Augustin-Louis, 34, 129Chwolson, Orest D., 9Clausius, Rudolf J. E., 93, 135Compton, Arthur H., 163Coulomb, Charles A., 127Curie, Maria, 143Curie, Pierre, 143

Dalton, John, 137, 138, 142Dedekind, Richard, 42Duhem, Pierre, 64Dulong, Pierre-Louis, 157

Eddington, Arthur S., 5Ehrenfest, Paul, 71, 83Euclide, 40

Faraday, Michael, 5, 19–22, 25–27,29–41, 44–50, 52, 53, 55,

56, 58, 60, 64, 68, 127,128, 144, 153, 168

Feynman, Richard, 32FitzGerald, Francis G., 150, 152, 156Fourieri, Jean-Baptiste J., 130Fresnel, Augustin-Jean, 15, 130

Galilei, Galileo, 75, 106, 107, 112,130, 139, 150, 152, 165,166

Gauss, Karl F., 40, 167

Habicht, Conrad, 100Hamilton, William R., 61, 62Helmholtz, Hermann von, 72Helmohltz, Herman von, 42Hertz, Heinrich, 72, 128, 153Huyghens, Christiaan, 15, 20

Jacobi, Karl G., 61, 62

Kant, Immanuel, 42Kelvin, Lord Thomson, W., 145, 155,

156Keplero, Giovanni, 13, 29Klein, Felix, 39

Lagrange, Joseph-Louis, 34, 61, 62,125, 130

Langevin, Paul, 153, 154, 164, 165

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Index

Legendre, Adrien-Marie, 40Leibniz, Gottfried W., 37, 161Lobatchevsky, Nicolaj I., 40Lorentz, Hendrik A., 5, 60, 68, 71–

80, 82–84, 147, 148, 150–153, 156, 159, 166, 167

Mach, Ernst, 35, 126, 139, 155Marconi, Guglielmo, 129Maxwell, James C., 5, 22, 25, 29,

31, 32, 34–36, 38, 39, 47,49, 52–55, 57–82, 124, 127,128, 133–136, 138, 144,146–148, 153–156, 159, 166

Mendeleev, Dimitri I., 138Michelson, Albert A., 105, 111, 148–

151, 156, 165Morley, Edward, 105, 111, 148–150,

156, 165

Navier, Claude-Louis, 129Newton, Isaac, 5–8, 13–21, 24, 26–

29, 33, 36, 37, 39, 44, 52–54, 58, 59, 61, 72, 73, 120,121, 125, 127, 129–131,133, 139, 161, 165, 167

Ohm, Georg, 130Ostwald, Wilhelm, 126, 139, 140,

142, 155

Perrin, Jean-Baptiste, 142, 144Petit, Alexis-Thérèse, 157Planck, Max K. E. L., 83, 95, 99,

137, 141, 158–163Poincaré, Henri, 42, 120, 121, 141,

150–152, 164, 165

Poisson, Siméon D., 34, 129, 130

Röntgen, Wilhelm C., 143Riemann, Bernard, 38–47, 167Rutherford, Ernest, 143, 144, 146,

153, 154

Soddy, Frederick, 154

Thomson, J. J., 145

Villard, Paul U., 145

Weyl, Hermann, 26, 39, 40, 43, 44,46, 129

Zeeman, Pieter, 148

Ørsted, Hans C., 33, 127

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Indice

1 Introduzione 5

2 L’etere, il campo, lo spazio 12

2.1 Il concetto di “forza a distanza” . . . . . . . . . . . . . . . . 122.2 Faraday o la critica dell’idea di azione a distanza . . . . . . . 192.3 L’idea di campo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 252.4 Sull’importanza delle rappresentazioni grafiche . . . . . . . . . 302.5 «Contemplare la forza in tutta la sua purezza» . . . . . . . . . 322.6 La questione della geometria . . . . . . . . . . . . . . . . . . 362.7 Spazio o etere? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 44

3 L’etere e l’opposizione continuo/discontinuo 52

3.1 Differenziali totali e derivate parziali . . . . . . . . . . . . . . 523.2 Fare il continuo con il discontinuoVero e falso continuo . . . . 583.3 Maxwell . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 603.4 Le difficoltà concettuali della teoria di Maxwell . . . . . . . . 673.5 L’«atto liberatorio» di Lorentz . . . . . . . . . . . . . . . . . 713.6 Einstein e la ripartizione dell’energia elettromagnetica . . . . . 76

4 Einstein, o il perfezionamento del concetto di campo 86

4.1 La crisi ontologica della fisica . . . . . . . . . . . . . . . . . . 864.2 Einstein successore e critico di Boltzmann . . . . . . . . . . . 914.3 Un punto di vista euristico sulla luce . . . . . . . . . . . . . . 974.4 E l’etere? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1014.5 L’impossibile immobilità dell’etere . . . . . . . . . . . . . . . 1054.6 Unità e sostanza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 112

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Indice

5 Postfazione. 1904. Un anno prima di Einstein 1195.1 Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1195.2 La legge di conservazione dell’energia . . . . . . . . . . . . . . 1215.3 Meccanicismo e energetismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1255.4 Il concetto di campo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1275.5 Onde e particelle, continuo e discontinuo, forze a distanza . . 1295.6 Le sorprendenti scoperte di fine Ottocento . . . . . . . . . . . 1425.7 La visione elettromagnetica del mondo . . . . . . . . . . . . . 1465.8 Il moto della terra attraverso l’etere . . . . . . . . . . . . . . 1485.9 La crisi del meccanicismo e le nubi di Lord Kelvin . . . . . . . 1545.10 Il continuo messo in discussione . . . . . . . . . . . . . . . . . 1585.11 La fisica dei principi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 164

Indice dei nomi 168

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