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Franco Trabattoni ATTUALITÀ DI PLATONE STUDI SUI RAPPORTI FRA PLATONE E RORTY, HEIDEGGER, GADAMER, DERRIDA, CASSIRER, STRAUSS, NUSSBAUM E PACI

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Franco Trabattoni

ATTUALITÀ DI PLATONE

STUDI SUI RAPPORTI FRA PLATONE E RORTY, HEIDEGGER, GADAMER,

DERRIDA, CASSIRER, STRAUSS, NUSSBAUM E PACI

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© 2009 Vita e Pensiero - Largo A. Gemelli, 1 -

20123 Milano ISBN 978-88-343-1822-5INTRODUZIONE

Nella mia ormai quasi trentennale attività di ricerca mi sono occupato quasi esclusivamente di storia della filosofia antica. Il lavoro dello storico - ed è questo un titolo che rivendico con piena consapevolezza dell’importanza e dei limiti di tale compito - consiste principalmente nell’interpretazione dei testi, volta a stabilire che cosa l’autore volesse significare scrivendoli (o

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diffondendoli in altro modo, dato che nel pensiero antico non sono infrequenti casi di filosofi che si sono espressi solo oralmente). Mi rendo conto che al giorno d’oggi un obiettivo modesto come questo può essere facilmente considerato ingenuo, riduttivo, o addirittura impraticabile. Nell’epoca della decostruzione e del post-moderno si sente spesso dire che i testi, una volta definitivamente separati dal padre che li ha generati (uso una metafora di matrice derridiana), acquistano una completa autonomia. Per cui lo scopo dell’interpreté sarebbe quello di lasciar parlare il testo in quanto tale, facendone emergere i suoi molteplici significati, che vanno molto al di là di quanto l’autore ha inteso consapevolmente esprimere. In tal modo il testo filosofico diviene disponibile per una serie infinita di ritessiture (questa volta prendo il termine da Richard Rorty), che poi costituiscono l’ordito di un modo di fare filosofia certo non indipendente dagli autori utilizzati, ma sostanzialmente libero dai vincoli, e dalle cautele a cui invece è legato il lavoro propriamente storiografico.

Ammetto senza difficoltà non solo che si tratta di un’operazione del tutto legittima, ma anche che essa è alla base di alcune fra le più interessanti produzioni della filosofia contemporanea. In fondo, se si vuole continuare a fare filosofia anche oggi, rifiutando l’idea che viviamo ormai in una stagione di basso impero in cui ai filosofi non rimane che trasformarsi in commentatori, si tratta di una scelta quasi obbligata. Il panorama filosofico del Novecento contempla sia pensatori estrema- mente colti sul piano storiografico, sia pensatori che lo erano molto meno (ad esempio Husserl e Wittgenstein), e non è dettto che i più interessanti siano sempre i primi (il detto eracliteo secondo cui il molto sapere non insegna ad avere intelletto conserva tutta la sua attualità). E tuttavia anche i filosofi più creativi, se così vogliamo dire, e meno interessati alla tradizione, non hanno potuto evitare di esporre le proprie tesi in costante confronto con i filosofi del passato (o almeno con alcuni di essi, ritenuti particolarmente importanti). Il citatissimo detto di A. N. Whitehead, secondo cui tutta la storia del pensiero occidentale non sarebbe altro che una serie di note a pié di pagi

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na al testo di Platone, in realtà non vuole dire (espungendo l’iperbole) altro che questo: è ben difficile che un pensatore contemporaneo possa esporre tesi filosoficamente rilevanti senza che esse prevedano un confronto, implicito o esplicito, con qualcosa come “la filosofia di Platone” o “il platonismo”. Se questo è vero, l’idea di svincolare in qualche modo il testo filosofico dal suo autore e dalle supposte intenzioni che governavano la sua scrittura sembra essere l’unico modo pra-ticabile che ci è rimasto per fare filosofia, poiché se è vero che è impossibile filosofare in astratto senza chiamare in causa i grandi autori del passato, è anche vero che non si può pretendere che i filosofi “teoretici” (uso la terminologia corrente nell’accademia italiana) possiedano le stesse competenze storiografiche che sono invece essenziali per gli storici. Ciò comporterebbe, fra l’altro, un enorme dispendio di energie nella consultazione e nell’analisi di una letteratura secondaria che ormai è d’obbligo chiamare “sterminata”.

Detto questo, è ben chiaro che il lavoro dello storico ha una natura molto diversa. Per il momento mi accontento di far notare che a questo lavoro dovrebbe essere consentita almeno una pari legittimità. E non sarebbe nemmeno il caso di dirlo, se non fosse che tale legittimità viene continuamente messa in discussione: in particolare proprio in Italia, dove fin dagli anni ’50 si è avviata una diatriba noiosa non ancora del tutto sopita. Ancora oggi molti ritengono che lo storico della filosofia sia una sorta di polveroso antiquario, impegnato a leggere testi margi-nali o a dirimere questioni irrilevanti, del tutto avulso da quella che è la filosofia propriamente detta; ovvero, come ho sentito dire da un collega qualche anno fa, che il rapporto tra filosofi “teoretici” e storici sia paragonabile a quello che intercorre tra i giocatori di calcio e gli spettatori allo stadio. Corollario di questa disistima è l’idea che il teoreta, poiché provvisto di una naturale capacità di comprensione dei problemi filosofici ignota allo storico, dovrebbe trascurare la letteratura storiografica per pura e semplice igiene mentale, per lasciare la sua mente libera di elaborare le proprie idee in modo creativo (che è poi più o meno quello che diceva Cartesio; ma ovviamente in relazione a un tempo e a una cultura assai diversi dai nostri).

La disistima nei confronti della storia della filosofia, di cui ho appena detto, mi è sempre sembrata piuttosto bizzarra. Perché - mi sono chiesto spesso - si ritiene del tutto naturale che esistano, oltre agli artisti, storici dell’arte, oltre ai letterati, storici della letteratura, oltre agli imprenditori, storici dell’economia; e invece si ritiene meno legittimo che esistano, oltre ai filosofi,

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degli storici della filosofia? Ora mi sono convinto che a questa domanda vi è una risposta ben precisa, che in parte dipende dalle considerazioni che ho fatto sopra. Tra il lavoro dell’artista e il lavoro dello storico dell’arte (userò questo esempio come indicativo per tutti i casi) in fondo non vi è nessuna interferenza. Non così invece tra il lavoro del filosofo e il lavoro dello storico della filosofia. Se è vero, come ho detto, che oggi il filosofo difficilmente può esimersi dal confrontarsi con i grandi autori del passato, qui lo storico della filosofia sembra avere una importante voce in capitolo: una voce, intendo dire, che richiama il filosofo all’uso corretto delle sue fonti, e mette continuamente in discussione l’uso teoretico di autori, testi e categorie storiografiche, ove si suppone che questi riferimenti siano liberamente rielaborati a dispetto della reale natura dei testi e dell’evidenza storica che vi si manifesta. Credo che buona parte delle critiche mosse dai filosofi agli storici dipenda proprio dall’insofferenza nei confronti di questi richiami. Così si sviluppa una controversia apparentemente molto dificile da risolvere: allo storico che accusa il filosofo di scarsa acribia storiografica, il filosofo oppone l’accusa di scarsa sensibilità filosofica.

Una soluzione in realtà ci potrebbe essere, ed è di carattere stretta- mente pratico: filosofi e storici della filosofìa svolgano pure separata- mente il loro lavoro, senza intralciarsi a vicenda. Ma ciò che è semplice sul piano pratico lo è molto meno sul piano teorico. Da un lato, come detto sopra, è praticamente impossibile fare filosofia disinteressandosi della storia della filosofia. Dall’altro è anche vero che chi fa buona storia della filosofia non fa solo storia, ma fa anche filosofìa. E qui è venuto il momento di dire qualcosa anche a proposito della storia della filosofìa e delle sue possibili deformazioni. La storia in quanto tale non esiste perché la storia è sempre storia di qualcosa. Per cui, così come nell’espressione “storia dell’arte” il termine qualificante l’impresa che essa descrive non è “storia” ma “arte”, allo stesso modo nella storia della filosofia l’elemento qualificante è che l’oggetto della ricerca sia la filosofia. Ora, di fatto, questo avvertimento non è sempre tenuto ben presente dagli storici della filosofia, e ciò fa sì che la diffidenza dei “teoreti” sia in qualche caso giustificata: lo storico che in realtà non si occpa di filosofia non ha ovviamente alcun titolo per interferire in un modo qualsiasi nel lavoro del filosofo.

Ma questo vuole anche dire che se lo storico della filosofia si occupa davvero di filosofia le interferenze con il filosofo sono inevitabili; e in questo caso l’insofferenza del filosofo non è giustificata. Non lo è proprio per la natura particolare che ha la

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filosofia al giorno d’oggi (mentre Cartesio, per tornare al caso che citavamo sopra, poteva forse avere delle buone ragioni per ritenere che al tempo suo fosse necessaria una specie di epochéradicale). Cercherò spiegarmi con un esempio, relativo a uno dei filosofi protagonisti di questo libro, ossia Martin Heidegger. Come è noto, Heidegger ha elaborato una parte essenziale del suo pensiero sulla base della nozione di oblio dell’essere, che sarebbe a suo

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parere il tratto comune della metafisica occidentale; tale oblio dell’essere si regge, a sua volta, sull’occultamento della nozione originaria di verità, che con Platone muta il suo significato di “non-velatezza” nel significato di “correttezza (dello sguardo)”. Ora, è chiaro che Heidegger potrebbe sostenere un particolare tipo di ontologia, e la nozione di verità che le è collegata, senza fare alcun riferimento a indicatori storici come “la metafisica occidentale” o “Platone”. Di fatto però non è così. Di fatto il riferimento alla storia della metafìsica occidentale e a quello che si è verificato in essa prima e dopo di Platone è un aspetto essenziale e determinante della sua stessa filosofia. Senza queste valutazioni “storiche” non ci sarebbe nemmeno il punto di vista teoretico. Così, quando Heidegger nei suoi ultimi anni ha riconosciuto al filosofo e storico del pensiero antico Paul Friedlànder che già nel lessico omerico il termine greco άλήθεια non possedeva più il supposto significato etimologico di “non svelatezza”, solo un osservatore molto condiscendente potrebbe ritenere che si tratti di un indifferente aggiustamento storiografico. Un osservatore più attento, o piuttosto più indi- pendente, dovrebbe invece riconoscere che questo “piccolo aggiustamento” proietta un’ombra pericolosa su tutto il pensiero di Heidegger: se fosse vero che Heidegger ci ha raccontato una storia che non è mai esistita, probabilmente anche le conclusioni filosofiche che ne ha tratto sarebbero in pericolo, perché proprio quel particolare tipo di storia costituisce il loro fondamento primario. Insomma - e in generale -, dato che la storia della filosofia è oggi tanto importante in sede di elabora-zioni teoretiche, credo che sia interesse soprattutto del filosofo in quanto filosofo tenere conto delle storie filosofiche della filosofia: un’immagine superficiale della storia della filosofia, o di alcuni suoi aspetti, potrebbe infatti suggerirgli idee filosofiche scarsamente fondate (e dunque anche scarsamente interessanti). I saggi raccolti in questo volume nascono soprattutto

dall’impressione che per quanto riguarda Platone (l’autore di cui mi occupo) questo fecondo rapporto tra filosofi e storici della filosofia sia quasi inesistente, al punto che certe ambiziose costruzioni teoriche sembrano sorreggersi in gran parte su una semplicisica e stereotipata nozione di ciò che si pretendono essere “Platone” e il “platonismo”. Questa immagine sem-plicistica, ormai decisamente messa in crisi da decenni di serie indagini di storiografia filosofica, è alla base dell’antiplatonismo così diffuso nella cultura filosofica contemporanea: un antiplatonismo che si fonda, a mio avviso, su alcuni radicati

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pregiudizi, circa la reale natura della filosofia di Platone, che sarebbe urgente correggere. Tale urgenza, come ormai dovrebbe essere chiaro, non è dettata saltano da esigenze di puntualizzazione storiografica. Sono infatti persuaso che una rinnovata e più corretta immagine della filosofia di Platone possa costituire un interessante punto di partenza e di confronto per il pensiero contemporaneo. Così come in generale è vero, io credo, che una buona storia della filosofia possa e debba dare il suo contributo alla riflessione speculativa.

Qui però il discorso generale e il progetto particolare di questo libro devono essere tenuti distinti. Non è ovviamente compito mio valutare se i miei studi sul pensiero di Platone costituiscono o no un caso di buona storiografia filosofica. Ed è chiaro, d’altra parte, che quanto esposto in queste pagine si regge proprio sulle ricerce storiografiche a cui ho accennato. Per cui mi regolerò in questo modo. In primo luogo faccio notare che l’antiplatonismo “teoretico” di cui ho detto è seriamente messo in forse, nel panorama attuale degli studi platonici, anche da numerosi altri modelli interpretativi diversi dal mio. Per cui il discorso generale che ho condotto fin qui rimane valido anche se non si accetta l’immagine di Platone e del platonismo da me elaborata. In secondo luogo, non potendo riprodurre in questa sede le analisi storiogafiche che mi hanno condotto a proporre tale immagine, premetto come primo capitolo un saggio in cui le linee principali del mio orientamento sono tratteggiate in modo sintetico.

Chi volesse invece conoscere queste analisi in dettaglio, può anzitutto consultare i testi via via richiamati nelle note. Ma poiché i saggi contenuti in questo libro sono stati scritti in tempi diversi, e poiché ho deciso di ripubblicarli nella loro forma originaria (salvo qualche correzione e aggiustamento qua e là), è evidente che molti degli scritti che ritengo importanti in rapporto all’immagine di Platone di cui ho detto non vi compaiono, in quanto non erano ancora stati stampati. Di conseguenza ho ritenuto opportuno presentarne qui una lista indicativa, che comprende sia scritti già citati in alcune note sia scritti che non vi compaiono. Tra i volumi, Platone, Carocci, Roma 1998; Platone, Liside, a c. di Franco Trabattoni, 2 voli., LED, Milano 2004 e La verità nascosta. Oralità e scrittura in Platone e nella Grecia classica, Roma, Carocci Editore 2005. Tra i saggi, comparsi in riviste, atti di convegmi o volumi collettivi, si vedano i seguenti: Alcune considerazioni generali sul Socrate di Platone, «Rivista di storia della filosofia» 51

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(1996), pp. 895-906; Il pensiero come dialogo interiore (Theaet. 189e4-190a6), in II Teeteto di Platone: strutture e problematiche, a c. di G. Casertano, Loffredo, Napoli 2002, pp. 175-187; L’orientamento al bene nella filosofia di Platone, in New Images of Plato. Dialogues on thè Idea of thè Good, Ed. by G. Reale and S. Scolnicov, Academia Verlag, Sankt Augustin 2002, pp. 294-304; L’errore di Socrate, in M. Barbanti - F. Romano (a cura di), Il Parmenide di Platone e la sua tra-dizione, Catania 2002, pp. 143-153; Il sapere del filosofo, in M. Vegetti (a cura di), Platone. La Repubblica, voi. V, libri VI-VII, Bibliopolis, Napoli 2003, pp. 151-186; Il dialogo come “portavoce” dell’opinione di Platone. Il caso del Parmenide, in M. Bonazzi - F. Trabattoni (a c.), Platone e la tradizione platonica. Studi di filosofia antica, Cisalpino, Milano 2003, pp. 151-178; Unità della virtù e autopredicazione in Protagora 329e-332a, in II Protagora di Platone: struttura e problematiche, Voi I, a c. di G. Casertano, Loffredo, Napoli 2004, pp. 267-291; Sui caratteri distintivi della “metafisica” di Platone (a partire dal Parmenide), «Methexis» 16 (2003), pp. 43-63; Platone onto- teologo?, «Rivista di Storia della filosofia» 59 (2004), pp. 921-930; Esiste un’ontologia in Platone?, in E. Storace (cur.), La storia dell’ontologia, Albo Versorio, Milano 2005, pp. 9-29; Il “circolo virtuoso” del linguaggio. Sul significato del Cratilo platonico, in G. Casertano (cur.), Il Cratilo di Platone: struttura e problematiche, Loffredo, Napoli 2005, pp. 150-181; Dialettica e persuasione nei dialoghi di Platone, in G. Reggi (cur.) Letteratura e riflessione filosofica nel mondo greco-romano, Sapiens editrice, Lugano 2005, pp. 41- 59; Λόγος e δόξα: il significato della confutazione della terza definizione di επιστήμη nel Teeteto, «Rivista di cultura classica e medievale», 48 (2006), pp. 11-27; L’intuizione intellettuale in Platone. In margine ad alcune recenti pubblicazioni, «Rivista di Storia della filosofia» 61 (2006), pp. 701- 719; Plato: Philosophy, Politics and Knowledge. An Overview, in A. Bosch- Veciana -Josef Monserrat-Molas (eds.), Philosophy and Dialogue. Studies on Plato’s Dialogues, Voi. I, Societat Catalana de Filosofìa, Barcelona 2007, pp. 223-246; Esiste, secondo Aristotele, una “dottrina platonica delle idee”?, «Methexis» 20 (2007), pp. 159-180.

Ecco ora l’indicazione delle sedi originali in cui sono stati pubblicati i saggi qui ristampati, e delle fonti degli inediti:

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Capitolo 1: versione leggermente abbreviata di L’argomentazione platonica,«Προβλήματα», 1 (2001), pp. 7-38.

Capitolo 2: Platone, Rorty e la “violenza” della metafisica, «Pratica Filosofica» 10 (1996), pp. 175-197.

Capitolo 3: Platone, Rorty e la consolazione della filosofia, «Arte Estetica» 5 (1997), pp. 31-52.

Capitolo 4: La filosofia è una cosa seria ?, «Rivista di storia della filosofia» 52 (1997), pp. 597-610.

Capitolo 5: traduzione italiana di un testo in francese in corso di pubblicazione negli atti del colloquio internazionale “Platon et Heidegger”, Nizza, 5-6 febbraio 2008.

Capitolo 6: testo in corso di pubblicazione negli atti de The VII Symposium of thè International Plato Society, Dublino, 23-28 luglio 2007.

Capitolo 7: Jacques Derrida e le origini greche del logocentrismo (Platone, Aristotele), «Iride. Filosofia e discussione pubblica», 17 (2004), pp. 547- 568.

Caiptolo 8: Ernst Cassirer e Inestetica platonica”», in Ernst Cassirer, Eidos e eidolon. Il problema del bello e dell’arte nei dialoghi di Platone. Postille di Mauro Carbone, Renato Pettoello, Franco Trabattoni, Edizioni Libreria Cortina, Milano 1998, pp. 103-134.

Capitolo 9: testo in corso dipubblicazione negli atti del convegno Leo Strauss tra antico e moderno, Milano, 10 maggio 2007.

Capitolo 10: Platone, Martha Nussbaum, e le passioni, in G. Giardina (cur.), Le emozioni secondo i filosofi antichi, Atti del convegno nazionale, Siracusa 10-11 maggio 2007, CUECM, Catania 2008, pp. 39-61.

Capitolo 11: Sulle tracce dell’armonia. Enzo Paci, il telos e il Greci, in E. Renzi-G. Scaramuzza (a cura di), Omaggio a Paci. II. Incontri, Cuem, Milano 2006, pp. 219-237.

E doveroso avvertire che non sono un esperto, tanto meno uno specialista, di nessuno degli autori discussi in questi saggi. Sono dunque ben consapevole che gli addetti ai lavori potrebbero rinvenirvi delle tracce di dilettantismo, e me ne scuso in anticipo. A mia discolpa invoco la buona intenzione di cui ho detto sopra, ossia quella di promuovere un dialogo reale ed efficace tra filosofi e storici della filosofia.

Infine, qualche ringraziamento. Sono grato in primo luogo ai direttori delle riviste, ai curatori di volumi collettivi e agli organizzatori dei convegni per avermi concesso di ristampare (o

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di pubblicare) i testi contenuti in questa raccolta. All'amico Mauro Bonazzi devo un prezioso aiuto per la correzione delle bozze. Ringrazio di cuore il mio caro amico Roberto Radice per aver accettato di accogliere il libro nella collana di Vita & Pensiero da lui diretta.

Milano, 18 ottobre 2008.

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Capitolo I

L’argomentazione platonica1

1. Se cè una caratteristica che dovrebbe distinguere il discorso filosofico da ogni altro tipo di discorso (ad esempio dal discorso mitico o dal discorso poetico), la prima cosa che viene in mente è che essa consiste nell’uso dell’argomentazione. Tuttavia, anche se assumiamo provvisoriamente che questa impressione sia fondata, in realtà non abbiamo fatto un grosso passo avanti. Ci resta pur sempre da capire, infatti, che cosa si intende per «argomentazione». Il pensiero antico ci fornisce, a questo proposito, una risposta pressoché univoca, almeno da un punto di vista generale. Aristotele, quando nel I libro della Metafìsica consacra Talete, per tutti i secoli a venire, come primo filosofo della storia, giustifica questa tesi nella maniera seguente

1. Se muoviamo dal punto di vista dei contenuti, la nota

asserzione di Talete secondo cui principio è l’acqua non può considerarsi nuova, né differente nella sostanza dal discorso mitico secondo cui tutte le cose sono nate da Oceano e Teti (che erano due divinità marine). Ciò che differenzia il discorso di Talete da quello mitico consiste piuttosto nel fatto che Talete è arrivato alla sua conclusione mediante un certo genere di argomentazione. Egli avrebbe notato (diciamo «avrebbe» perché lo stesso Aristotele correda la sua esposizione con un «forse»

2) che tutte le cose hanno la loro origine nell’elemento

umido; generalizzando queste osservazioni particolari, sarebbe giunto così ad individuare un unico principio attivo in ogni singola cosa, e dunque capace di raccogliere le differenze in una unità universale: sarebbe riuscito, in altre parole, a conquistare un punto di vista in cui le differenze non sono decisive, a patto che si concentri l’attenzione sugli elementi comuni.

Non senza ragione questo momento della storia della filosofia è sempre stato descritto come un passaggio dal mito al logos. Infatti la parola greca «logos» è legata al verbo legein,

1 Versione abbreviata di L'argomentazione platonica,«Προβλήματα», 1

(2001), pp. 7-38. 1 983bl8-984a5. 2 983b22.

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che significa «dire», ma anche “raccogliere”. Talete, insomma, avrebbe raccolto dalle cose differenti che si trovava di fronte un elemento comune, e lo avrebbe inteso come loro principio. In realtà è questionabile, se non del tutto improbabile, che Talete abbia utilizzato la parola greca arche (princi

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pio) nel modo voluto da Aristotele. Occorre anche avvertire che nell’operazione attribuita da Aristotele a Talete sono presenti due momenti diversi, che non si implicano affatto a vicenda. Una cosa, infatti, è individuare un procedimento mediante il quale si istituisce una differenza tra particolare ed universale. Tutt’altra cosa è dire che questo universale è principio di quel particolare. Chi voglia affermare la verità di que-sta proposizione è costretto, fra le altre cose, a specificare che cosa intende per principio, e a dire in che senso ritiene che l’universale sia principio del particolare. Questo problema giunse ad uno stadio molto avanzato di elaborazione già con Platone e con Aristotele, ma ora lo lasceremo da parte, perché non è rilevante per il nostro scopo presente. Ora ci interessa piuttosto sottolineare il fatto che la prima forma in cui si è storicamente presentata l’argomentazione filosofica, anche sulla base di quanto hanno detto i filosofi che per primi hanno riflettuto cri-ticamente sulla loro attività (come appunto Aristotele), consiste nell’i- stituire un rapporto tra universale e particolare.

Lo stesso Aristotele, sempre nel libro I della Metafisica, ci fa anche capire che il primo filosofo greco che ebbe chiara consapevolezza della centralità teorica di questo metodo fu Socrate. Socrate, spiega Aristotele, concentrò per primo la sua attenzione sui termini o concetti generali

2. Sappiamo infatti che

egli soleva chiedere il «che cos’è» di una certa cosa, precisando esplicitamente che non accettava risposte aventi per oggetto cose singole o particolari, ma che era invece interessato a risposte capaci di cogliere più cose insieme in un’unica defini-zione. Questo procedimento è riccamente documentato dai dialoghi di Platone (vedremo fra poco qualche esempio), in cui la figura di Socrate e il suo metodo occupano una posizione di assoluto rilievo. Tutti conoscono anche la differenza che Aristotele rileva, a proposito dell’universale, tra Socrate e Platone: quest’ultimo avrebbe affermato, distanziandosi in ciò dal suo maestro, che gli universali sono separati dalle cose (cioè che l’universale è separato dal particolare

4). «Separato» (o,

forse meglio, «separabile») è termine tecnico della filosofia di Aristotele, ed è un indicatore significativo per indagare la difficilissima questione del rapporto fra i due massimi filosofi del mondo antico.

Ma anche di questo possiamo al presente non occuparci. Interessante è invece notare che il testo platonico è uno dei luoghi privilegiati in cui, attraverso il modo socratico di indagare,

2 987bl-4.

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L’ARGOMEN TAZIONE PLATONICA 15

si fa consapevole la posizione secondo cui l’argomentare filosofico consiste nel porre in rapporto dialettico particolare e universale. La prima tesi che intendo sostenere in questo saggio è che in tal modo viene alla luce la natura di base di qualunque tipo di argomentazione, attiva sia prima che qualcuno iniziasse a riflettere consapevolmente su di essa, sia dopo che la reazione «post-moderna» contro il logocentrismo ha esplicitamente iniziato a polemizzare contro di essa. Quello che intendo dire, più concretamente, è che la utilizzano anche quanti dicono di negarla, ed anzi la utilizzano nell’atto stesso in cui mettono in opera gli strumenti con cui la negano. La seconda tesi, più articolata, consiste nel tentativo di mostrare (contro le semplificazioni purtroppo ancora correnti) che la discussione platonica del rapporto universale/particolare è consapevole dell’elevata problematicità del suo oggetto, e che pone l’accento su alcuni motivi intorno ai quali è ancora urgente interrogarsi. Questo viene a dire, in altre parole, che la prospettiva platonica, se correttamente oltre che latamente intesa, è ancora oggi l’orizzonte in cui non può non muoversi il discorso filosofico, e che i tentativi di costruire percorsi ad esso estranei o sono falliti o sono dovuti a semplici equivoci.

2. Normalmente si ritiene che definirsi «platonici» sia una cosa assai impegnativa, perché ciò comporterebbe l’accettazione di principi filosofici molto forti, e per di più ormai praticamente privi di corso legale. Esempi di tali principi possono essere l’assunzione che esista un’intuizione intellettuale capace di schiudere con trasparenza, all’occhio della mente, la realtà metafisica delle idee; l’assunzione che l’uomo si possa collocare al cospetto della «perentoria presenza dell’essere»

3; l’assunzione che sia possibile dedurre

apoditticamente la struttura del particolare dalla conoscenza dell’universale (ed eventualmente adottare le misure politiche coercitive indicate in questa situazione); l’assunzione secondo cui lo strumento del linguaggio, in cui si riflette il pensiero, sarebbe in grado di definire in maniera compiuta ed ultimativa la natura di ogni singola idea. In realtà nessuna di queste tesi può essere correttamente ascritta a Platone. Platone non riteneva disponibile all’uomo, almeno fino a che l’anima si trova incarnata in un corpo, nessun tipo di intuizione intellettuale; neppure credeva, in accordo con quanto dirà poi anche Aristotele, che esistesse qualcosa definibile come «l’essere»; non pensava

3 L'espressione è di G. Vattimo, Oltre l'interpretazione, Roma-Bari 1994,

p. 40.

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L’ARGOMEN TAZIONE PLATONICA 16

affatto che il particolare fosse ricavabile dall’universale; aveva, infine, una coscienza ermeneutica del linguaggio e del pensiero (che ha sempre forma linguistica), alla luce della quale il lin-guaggio si presenta come un ambito infinitamente indagabile e senza fondo, incapace di produrre conclusioni o determinazioni definitive. Tanto meno si potrà dire, di conseguenza, che le assunzioni sopra enunciate costituiscono, tutte o in parte, la struttura portante del modo

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platonico di fare filosofia. Per quanto riguarda, invece, il classico principio metafisico dei «due mondi», è necessaria qualche cautela in più. Sarebbe infatti diffìcile, anche alla luce di una lettura non ingenua dei dialoghi, sostenere che Platone non abbia mai affermato nulla di simile. C’è da dire però che tale principio, almeno finché l’indagine si arresta all’ambito ontologico e gnoseologico (senza sconfinare, cioè, nell’ambito etico), può essere anch’esso decostruito in chiave ermeneutica. Si potrebbe sostenere, in altre parole, che la teoria dei due mondi sia solo una brillante metafora per affermare la vicarietà, la non esaustività del mondo in cui l’uomo si trova effettivamente a vivere; e sono indubbiamente pensabili dei quadri di riferimento in cui l’orizzonte mondano appare «secondo» nel senso ora precisato, senza che ciò comporti assunzioni realistico/dogmatiche sulla reale esistenza di un altro mondo e sulla conoscibilità della sua natura.

Discutere analiticamente gli indicatori (pseudo) platonici che abbiamo sopra enunciato ci costringerebbe a compiere un percorso troppo lungo. In questa sede, in particolare, non possiamo nemmeno tentare di dimostrare che il pensiero, per Platone, ha sempre natura dialogico- discorsiva, perché anche quando viene espresso nel dialogo parlato ha comunque l’aspetto di un dialogo che l’anima compie con se stessa

4.

Assumeremo perciò questo punto di vista come un’ipotesi di partenza, senza discuterla. Del resto il principio determinante ed essenziale della filosofia di Platone, che ora ci interessa, è in realtà un altro. Esso consiste nel dire che l’analisi del particolare, per quanto venga reiterata in più tempi e da persone diverse, darà alla fine sempre lo stesso risultato, e cioè che il particolare rinvia necessariamente all’universale, come condizione ineludibile del fatto che il particolare possa essere pensato e detto nel modo in cui gli uomini effettivamente lo pensano e lo dicono. L’universale, in altri termini, è condizione della parola e del pensiero - almeno di quella parola e pensiero che si manifestano come logos. Del resto, se legein vuole dire

4 Ho già parzialmente trattato questi argomenti in Scrivere nell'anima.

Verità, dialettica e persuasione in Platone, Firenze 1994, e in Oralità e

scrittura in Platone, Milano 1999. Analisi più specifiche appariranno in altri

miei studi, alcuni in corso di pubblicazione ed altri in via di elaborazione. Il

riferimento più immediato sono i passi 189e-190a del Teeteto e 263e del

Sofista (quest'ultimo passo non a caso è citato da H.-G. Gadamer in Verità e

Metodo, pag. 468 della traduzione italiana, Milano 1983), ma anche l'analisi dei

libri centrali della Repubblica, dell'gx- cursus filosofico della VII Lettera e di

altri passi salienti, dà lo stesso risultato.

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ATTUALITÀ DI PI ATONE 18

davvero «raccogliere», questa affermazione non si discosta molto dalla tautologia. L’asserzione non tautologica consiste nell’affermazione dell’esistenza di qualcosa come il logos e nell’individuazione della sua struttura nel rapporto biunivoco (o rimando pendolare) tra particolare ed universale.

La posizione ora riassunta si differenzia sia da quella di Aristotele sia da quella di Kant. Tratteremo per primo questo secondo punto, sia perché è il più semplice, sia perché meno rilevante per il discorso che intendiamo svolgere. Nel corso del Parmenide il giovane Socrate, per difendere la «dottrina delle idee» dalle incalzanti obiezioni del filosofo eleate, a un certo punto avanza l’ipotesi che le idee siano soltanto pensieri, e cioè che esistano solo nelle anime

5 (in termini moderni diremmo

«nella mente»). Questa proposta viene però subito confutata da Parmenide perché contrasta con il principio della partecipazione delle cose alle idee. Una cosa è bianca - così potremmo esemplificare - perché partecipa all’idea del bianco. Ma se l’idea del bianco fosse solo un oggetto del pensiero, si creerebbe una strana commistione tra pensieri e cose, superabile solo con l’ipotesi «idealistica» estrema (e assurda) secondo cui le cose stesse non sarebbero altro che pensieri. Questo argomento spiega assai bene, al di là delle sue sottigliezze, la differenza tra il modo di ragionare di Platone e quello di Kant. Se il pensiero coglie l’unità nelle cose, per quanto la sua comprensione di questa unità possa essere limitata dalla circolarità ermeneutica dell’espressione linguistica (a cui il pensiero è vincolato), l’unità deve essere comunque un dato oggettivo, una caratteristica della realtà, non un prodotto della facoltà unificante propria del pensiero stesso. Le idee, in altre parole, sono pur sempre oggetti colti dal pensiero (nella misura in cui sono colti), e sono separate sia perché sono altre dalle cose, sia perché sono altre dal pensiero. D’altra parte, la certezza che le idee non esistano solo nel pensiero è dimostrata dal fatto che, in caso contrario, il pensiero sarebbe in grado di comprenderle in modo chiaro e distinto, semplicemente lavorando dentro di sé in quanto pensiero. Ma questo è appunto ciò che non si verifica. Uno dei problemi più gravi che Parmenide, nel dialogo omonimo, solleva a carico della teoria delle idee consiste appunto nel pericolo che le idee, se separate, sarebbero totalmente inconoscibili all’uomo. Ma in realtà il problema si configura anche nella maniera inversa: le idee devono essere separate, perché

5132b.

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L’ARGOMEN TAZIONE PLATONICA 19

altrimenti sarebbero perfettamente conoscibili (cosa che invece non è).

Il confronto con Aristotele ci impegnerà invece più a fondo, perché a mio parere lo Stagirita è colui che ha dato forma articolata a quella che possiamo chiamare la concezione naturale del linguaggio (e a una dottrina dell’argomentazione ad esso adeguata), che ha in qualche modo dominato la cultura filosofica occidentale sino alla nascita della coscienza ermeneutica; e perché questo orientamento, a mio parere, è dovuto in buona parte al fatto che Aristotele ha in qualche modo occultato e messo a tacere una prospettiva ermeneutica già ben presente nell’opera di Platone.

Platone ed Aristotele sono d’accordo, sia pure in modo diverso, nel dire che attraverso l’esperienza del particolare si manifesta l’universale. Trascurando di indagare se Aristotele ha ragione nel ritenere che per Platone l’universale è separato, e in che senso ciò può essere occasione di critica, c’è tra le due posizioni una differenza più sostanziale. Mentre per Aristotele l’universale si manifesta senza residui nel pensiero e nel linguaggio, per Platone il pensiero e il linguaggio sono il luogo in cui l’universale appare solo in forma di traccia (né sono disponibili fonti di informazione più complete). Questa situazione è resa in Platone dalla dottrina della reminiscenza, secondo la quale conoscere è ricordare: un ricordare, evidentemente, che si sviluppa per tracce, spezzoni e residui, dunque non può mai raggiungere lo stato di esaustività a cui vorrebbe ambire una definizione.

«Definizione», infatti, è termine tecnico di Aristotele, e identifica una proposizione che unisce genere prossimo e differenze specifiche

6. In Platone, invece, la famiglia lessicale

che fa capo al verbo usato da Aristotele nel senso di «definire» (orizein) significa piuttosto «circoscrivere», «delimitare», «separare»

7. Ciò può essere inteso anche nel senso di stabilire

un limite tra due ambiti, mediante la duplice operazione di porre qualcosa da un lato e qualcosa dall’altro. In questo modo la defi-nizione assume in Platone il colore di un procedimento negativo, che consiste nell’accrescere la conoscenza di una idea ponendola sempre al di là di un insieme di negazioni che

6 Metaph. VII, 1037b24-1038a4.

7 Cfr., in proposito, le osservazioni su come intendere la «definizione»

dell'idea del bene in Resp. 534b9 in P. Stemmer, Platons Dialektik.

Diefriihen und mitt- leren Dialoge, Berlin-New York 1992, p. 194, e M.

Vegetti, L'idea del bene nella Repubblica di Platone, «Discipline

filosofiche» 1 (1993), pp. 221-223 e n. 7.

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ATTUALITÀ DI PI ATONE 20

aumenta indefinitamente. Se voglio indagare, ad esempio, la natura della bellezza, il procedimento corretto consiste nel «raccogliere» in insiemi di generalità crescente le cose che possono essere dette belle, dove da un lato la presenza del predicato comune della bellezza ha carattere parzialmente ma progressivamente informativo riguardo che cosa la bellezza sia, ma dall’altro la bellezza in sé è esclusa, sia perché non coincide con nessuna delle cose belle, sia perché ogni generalizzazione è sempre provvisoria e perfetti- bile: cioè al di là e separata da tutto ciò che si può cogliere con i sensi e con il pensiero. Questo procedimento, che assomiglia al metodo con cui la matematica moderna «delimita/definisce» i numeri reali, potrebbe forse essere il modo corretto di intendere la separazione dell’idea platonica di cui parla Aristotele. Quello che è certo, in ogni caso, è che si tratta di un procedimento molto diverso da quello della definizione aristotelica, in base alla quale, una volta individuato il genere prossimo e tutte le sue differenze specifiche, l’indagine semplicemente si arresta: e si arresta perché a questo punto il linguaggio, che è lo specchio fedele della cosa, è riuscito a catturare la cosa nella sua pienezza, e non c’è più alcun bisogno di proseguire l’indagine. Aristotele, in altre parole, non riconosce al linguaggio nessuna vicarietà, né metafisica (in cui il linguaggio è il riflesso imperfetto di una conoscenza metafisica non proposizionale) né ermeneutica (in cui il linguaggio è semplicemente senza fondo). Questo è il motivo per cui - fra le altre cose - la gnoseologia aristotelica è molto più esposta al rischio del dogmatismo di quella platonica. Ciò che garantisce Platone contro questa deriva dogmatica sarebbe, in questo caso, proprio la separatezza dell’idea tanto criticata da Aristotele.

A questo punto qualcuno potrebbe chiedere che il metodo «platonico» sopra enunciato venga mostrato all’opera nei dialoghi. Qui posso solo notare due cose. I dialoghi aporetici di definizione, in primo luogo, rispecchiano assai bene questa struttura. Trattandosi di dialoghi senza conclusione positiva, è ovvio che la risposta diretta alla domanda socratica da cui muove l’indagine alla fine non è stata trovata. E tuttavia sarebbe azzardato dire che la ricerca non ha fatto nessun passo avanti. La cosa cercata risulta essere diversa e al di là di tutte le proposte avanzate nel corso della discussione, e tuttavia i ricercatori ora possiedono qualche suggerimento orientativo per il loro lavoro: sono indubbiamente meno ignoranti di prima. La filosofia, per Platone non è altra cosa che la prosecuzione indefinita di questo lavoro, di questo procedimento

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L’ARGOMEN TAZIONE PLATONICA 21

«delimitante». Esistono però molti dialoghi che non sono aporetici. Un

esempio importante è la Repubblica, in cui sembra addirittura di trovare una definizione positiva di un oggetto del tipo di quelli sui quali si interrogavano invano i dialoghi aporetici (la giustizia). Ed ecco allora il mio secondo rilievo. Benché qualcosa del genere nella Repubblica effettivamente accada, non si tratta però di una definizione nel senso aristotelico del termine. La Repubblica potrebbe essere considerata, nel suo complesso, come il dialogo in cui Platone pone e risolve il problema, formulato alla maniera socratica, di dire «che cos’è la giustizia». La soluzione si profila nel IV libro, a partire da, 433a, quando Socrate osserva che la giustizia consiste nel rispetto del principio posto a fondamento di tutto lo stato: e cioè il principio secondo il quale ciascuno, nelle diverse classi, deve svolgere l’unica attività per la quale è naturalmente portato. Traducendo più avanti questo principio in una definizione sintetica (433e), Socrate afferma che la giustizia consiste nel possesso (exis) di ciò che è proprio (oikeios), nel senso di specificamente appartenente a ciascuno (heautou). Ancora più sinteticamente, poco sotto egli parla anche

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ATTUALITÀ 1)1 Γ 1 ΑΤΟΝΕ 22

di oikeiopragia, cioè del «fare le cose proprie» (433c8). Possiamo dunque affermare, su questa base, di aver colto in

modo completo e definitivo il significato della giustizia? Sarebbe in realtà una affermazione molto azzardata, e fondamentalmente scorretta. Non a caso Socrate dichiara esplicitamente più avanti che si tratta di una definizione approssimativa

8. Non possiamo infatti non chiederci, dopo aver

proposto la definizione, che cosa si intende per «proprio» e per «cose proprie». Sappiamo ad esempio che Antistene, un socratico fieramente avverso a Platone, utilizzava la formula oikeios logos per indicare un discorso capace di definire la natura intrinseca di una cosa, e in questo senso ad esso proprio (cioè appropriato)

9. Ma abbiamo anche buoni motivi per

sospettare, sulla base di alcuni passi del Carmide, del Liside e del Simposio

10 che Platone considerasse il concetto di

«proprio» come di per sé vuoto, almeno fino a che non si sia in grado di precisare in quale relazione il proprio sta con il buono (o il bene). Nel Carmide la formula «fare le cose proprie» (τά έαυτοΰ πράττειν) viene proposta dal giovane personaggio che dà il titolo al dialogo come risposta alla domanda socratica «che cos’è la saggezza? (σοφρωσύνη: 161b)». Subito dopo si scopre che si tratta in realtà di un’idea di Crizia, che viene poi coinvolto di persona nella difesa della sua tesi. Socrate infatti ha buon gioco nel mostrare a Carmide che la sua definizione è assolutamente vuota, che assomiglia più a un enigma che a una risposta. L’idea di Crizia consiste nel definire come buone le cose proprie e particolari di ciascuno (τά οικεία τε και τά éain;o\j:163d). Ma ancora una volta l’incidenza informativa di questa definizione è assai modesta. Se la saggezza è un bene, non basta dire che essa comanda di fare le cose proprie, per-ché il proprio non ha di per sé nessuno riferimento specifico al bene e al male. Lo stesso Crizia, alla fine del dialogo, deve ammettere che la conoscenza offerta all’uomo dalla virtù della saggezza si rivela essere un bene solo se è conoscenza di ciò che è bene e di ciò che è male (I74b). Ma che ne è, allora, del «proprio»? Per citare la domanda su cui si chiude, con un nulla di fatto, il Liside, dovremmo dire che il bene è il proprio (οΐκειον) di ciascuna cosa, o che il male è proprio di ciò che è cattivo, il

8 Cfr. 443c.

9 Su Antistene cfr. A. Brancacci, Oikeios Logos: la filosofia del

linguaggio di Antistene, Napoli 1990. 10

Del Carmide e del Liside diremo tra un attimo. Il luogo del Simposio a

cui mi riferisco è 205e.

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L’ARGOMEN TAZIONE PLATONICA 23

bene di ciò che è buono, il neutro del neutro (222c)? Detto in altre parole, il proprio è buono in quanto proprio, o si definisce proprio solo ciò che è buono? E se scegliamo l’una o l’altra delle due strade, possiamo con questo eliminare il rischio di circolarità? Se definisco il buono a partire dal proprio, non corro forse il rischio di intendere come proprio ciò che ritengo essere, a priori e senza argomentazione, come buono? Se viceversa definisco il proprio a partire dal buono, non c’è forse il sospetto che io chiami buono semplicemente ciò che desidero, ciò che percepisco come cosa mia e propria?

Sarebbe per la verità assai ingenuo ritenere che la Repubblica appartenga a una fase della filosofia di Platone diversa da quella dei dialoghi giovanili - cioè la fase in cui le complesse e confuse aporie dei primi scritti trovano una risposta stabile ed oggettiva -, per cui nel dialogo maggiore il circolo vizioso sarebbe risolto tramite la priorità del bene. Per affermare questo dovremmo poter dire che nella Repubblica Platone formula una definizione esaustiva del bene, e la usa come punto di partenza per un percorso univoco che va dal buono al proprio e mai viceversa. Ma nella Repubblica, come tutti sanno, non c’è nessuna definizione del bene. Né si tratta di una mancanza del tutto contingente. Infatti, anche se prendessimo per buona la definizione del bene che si ricava dalla tradizione indiretta, ossia che il bene è l’uno

11, il problema si riproporrebbe identico:

possiamo davvero dire che l’unità determina il bene, o non dobbiamo piuttosto dire che il bene appare uno in base a un giudizio anteriore alla sua identificazione con l’unità (ad esempio che il bene è ordine, misura, proporzione)? Ma ancora, questo giudizio come sarà a sua volta fondato?

In realtà non esistono vie percorribili per rimuovere in modo definitivo lo schema circolare che abbiamo ora illustrato. In esso si manifesta infatti una caratteristica strutturale ed ineliminabile del pensiero e del linguaggio, ossia la sua infinita declinabilità, la sua sostanziale mancanza di fondo. Questa caratteristica interessa allo stesso modo, anche se non nella stessa misura, sia i dialoghi aporetici sia quelli conclusivi, tra i quali non vi è dunque nessuna differenza essenziale: ciò è dimostrato dal fatto che da un lato i dialoghi aporetici non sono mai del tutto privi di

11

Ciò si deduce, secondo Hans Kràmer, dalla testimonianza di Aristotele.

Cfr. i passi raccolti dallo stesso Kràmer in Dialettica e definizione del Bene in

Platone, Milano 1989, pp. 58-62. Per una limitazione del peso della tradizione

indiretta riguardo a questo problema cfr. F. Trabattoni, Scrivere nell'anima, pp.

168-173.

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24 ATTUALITÀ DI PIATONE

risultati (come abbiamo detto sopra); dall’altro che i dialoghi conclusivi non approdano mai a verità o definizioni assolute e definitive. Questo significa, d’altra parte, che la conoscenza umana non è confinata nello scetticismo (così come volevano alcuni sofisti, sulla base di considerazioni sulla natura del linguaggio per certi versi analoghe a quelle di Platone), e che la filosofia può realmente fare qualche progresso. Basta avere l’accortezza di capire che i progressi della filosofia sono legati all’ipotesi che il circolo ermeneutico possa valere anche come circolo virtuoso e non solo come circolo vizioso; all’accettazione del fatto che l’aumento di conoscenze può accadere solo nella forma nel progressivo squilibrio di probabilità, in cui la parte minoritaria non può mai essere azzerata. La ricerca, in altre parole, appare come un flusso continuo, che può essere arrestato e cristallizzato in una definizione, in una verità acquisita, solo con una decisione arbitraria. Tali, appunto, sono le caratteristiche tipiche dell’indagare (έξετάζειν) di Socrate, il quale non caso ne\V Apologia platonica si prefigura una possi-bile vita ultraterrena non già come il luogo in cui le domande trovano risposta, ma come il luogo in cui la ricerca può finalmente realizzare la sua natura infinita, senza essere limitata dal vincolo della morte

14.

Non c’è però solo la morte a porre dei punti fermi. Abbiamo detto sopra che gli arresti della ricerca possono essere prodotti solo con un moto arbitrario. Ma l’arbitrio non è il capriccio. In realtà tali arresti si rendono necessari, nella vita dei singoli e delle comunità, a causa del- l’obbligo di agire, e dunque di scegliere. Così ha dovuto fare Socrate davanti ai giudici, che è stato costretto a scegliere senza il conforto di verità indubitabili o di certezze assolute, ma fidandosi del ragionamento che sembrava più persuasivo alla sua ragione. Nella stessa linea il pitagorico Simmia, in un celebre passo del Fedone, ammette che in una questione come l’immortalità dell’anima è impossibile o difficilissimo conoscere qualcosa di certo nella vita presente; e che pertanto, sollecitati dall’obbligo di agire, agli uomini non resta che affidarsi al ragionamento meno confutabile (δυσεξελεγκότατον), e usarlo come una zattera per attraversare il mare tempestoso della vita (85c-d). Così pure nella Repubblica, dove è in gioco anche la felicità collettiva, l’analisi individua una serie di buoni argomenti per dire che la giustizia è Γοίκειοπραγία, in cui la bontà del «fare le cose proprie» è sostenuta da ragionevoli considerazioni sulle diverse attitudini naturali degli uomini, sulla preferibilità dell’ordine in rapporto al caos, sulla superiorità dell’intelletto nei confronti degli istinti,

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L’ARGOMEN TAZIONE PLATONICA 25

ecc.: dove però è chiaro che l’indagine su11’oìk8U)v e sul bene e sui loro rapporti reciproci è affetta dalla natura infinita del logos e dell’esercizio dialettico (διαλέγεσθαι) in cui esso si esprime. Così, l’esigenza pratica di agire sollecita un taglio all’indagine, centrato in modo preciso sui logoi che appaiono fino a questo momento come non confutati, mentre il termine vero della ricerca si sposta nel luogo ideale, ma inesistente, in cui la probabilità diventa certezza, l’inconfutato diventa inconfutabile, e ogni ulteriore possibilità di dubitare è svanita. Va da sé che questo non luogo è anche il luogo dove il logos, il διαλέγεσθαι e Γέξετάζειν sono definitivamente scomparsi.

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L'ARGOMKNTAZIONE PLATONICA 26

3. Riassumiamo brevemente le conclusioni che abbiamo raggiunto. Nel primo paragrafo abbiamo tentato di stabilire che per Platone qualunque forma di ragionamento ha carattere sempre e solo proposizionale, e che si configura come l’atto di raccogliere (legeirì) e alternativa- mente dividere l’unità nel molteplice. Nel secondo paragrafo abbiamo voluto mostrare che tale procedimento, pur esprimendosi in modo linguistico, non ha caratteristiche definitorie né scientifico-deduttive, perché connesso a una precoce consapevolezza della natura ermeneutica del linguaggio: una consapevolezza che sposta l’obiettivo della ricerca dalla certezza alla probabilità, dalla dimostrazione alla persuasione. Ora vedremo brevemente i presupposti teorici di questo metodo, come esso si sviluppa e si articola in equidistanza dai due opposti pericoli dello scetticismo - inevitabile per chi muova da una coscienza ermeneutica senza vedere altro che il circolo vizioso - e del dogmatismo - approdo naturale sia di chi confida in una conoscenza proposizionale prelinguistica sia di chi nega la circolarità del linguaggio.

Torniamo, di conseguenza, ad esaminare la procedura argomentativa di base, cioè quella che mette in rapporto dialettico universale e particolare, unità e molteplicità. Inizieremo con alcuni passi tratti dal Menone, significativi anche per alcune interessanti particolarità linguistiche. Il dialogo si apre con la domanda, che Menone rivolge a Socrate, circa l’insegnabilità della virtù. Socrate, nella sua riposta, fa notare che non è possibile individuare una qualità della virtù se non si conosce che cosa la virtù sia (7lb). Dopo alcune battute interlocutorie Menone ottempera alla richiesta di Socrate con una risposta di sapore gorgiano, in cui enuncia e brevemente definisce una serie di virtù diverse (la virtù dell’uomo, della donna, del bambino, della femmina, del maschio, del libero e dello schiavo), spiegando che la virtù e il vizio si specificano in varie forme a seconda delle condizioni particolari (7le-72a). Socrate replica, con palese ironia, che il caso è particolarmente fortunato, perché mentre la ricerca verteva su una sola virtù, Menone si trova a possederne uno «sciame». Poi, sollecitato dall'immagine dello sciame, spiega la vera natura della sua domanda mediante un paragone con le api. La risposta di Menone assomiglia a quella che darebbe uno il quale, interrogato sulla natura dell’ape (μελίττης περί ουσίας ότι ποτ' έστιν), rispondesse che esistono api di vario genere, diverse tra loro (72a-b). Ma, aggiunge Socrate, forse le api sono diverse anche «quanto all’essere api?» (72b4-5). Questa espressione è costruita con il verbo essere, sostantivato e provvisto di articolo,

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L’ARGOMEN TAZIONE PLATONICA 27

declinato al dativo, ed anticipa in maniera caratteristica la formula che sarà poi utilizzata da Aristotele per indicare l’essenza. Naturalmente Menone risponde che, quanto all’es-sere api, non c’è tra le diverse api alcuna differenza. Così Socrate può applicare subito dopo l’immagine alla virtù e mostrare, di conseguenza, che la definizione di stile gorgiano sopra proposta da Menone evade la natura specifica della domanda. Abbiamo dunque qui un caso classico in cui la somiglianza tra i differenti, isolata in quanto somiglianza, ha l’effetto di individuare un terreno di ricerca unitario ed universale, in cui le differenze specifiche devono essere messe in parentesi.

Un esempio più complesso, e filosoficamente più approfondito, lo troviamo in un dialogo cronologicamente e tematicamente assai lontano dal Menone, ossia il Filebo. Il problema su cui il dialogo si interroga è la natura del bene umano. La discussione si apre mettendo a confronto la tesi di Protarco, secondo cui il bene umano è il piacere, e la tesi di Socrate, secondo cui il bene umano è la scienza. Socrate osserva, anzitutto, che ci sono piaceri molto diversi fra loro, se non affatto contrari, per cui può sembrare strano sostenere che sono tutti simili tra di loro (12d). Protarco risponde che diverse ed opposte possono essere le cause del piacere, ma i piaceri non possono essere diversi ed opposti tra loro, perché non c’è evidentemente nulla di più simile al piacere che il piacere stesso (12d-e). In questo modo Protarco enuncia una specie di principio di identità, secondo il quale una cosa deve essere in primo luogo identica a se stessa. Ma il problema consiste appunto nella difficoltà di identificare una cosa come il piacere, cioè il motivo che fonda l’unità e l’universalità di quell’«essere piacere» che viene raccolto dai piaceri particolari, mediante l’esclusione delle loro differenze. Per capire che cos’è questo «piacere» in generale non possiamo però, come è ovvio, accontentarci di verificare l’unità dell’espressione che lo indica. Come Socrate spiega poco dopo, infatti, nessuno può mettere in discussione il fatto che le cose piacevoli siano piacevoli (13a-b). Ma in questo modo non abbiamo fatto alcun passo avanti per capire che cos’è il piacere. Ben provvista di valore informativo, al contrario, è l’asserzione di Protarco secondo cui il piacere è il bene, perché offre un termine di riferimento per capire che cos’è il piacere, diverso dal piacere stesso. Ma per fare questo bisogna anzitutto ritenere che tutti i piaceri siano buoni; ovvero, ciò che è lo stesso, che «l’essere piacere» raccolto dai piaceri particolari sia totalmente inseribile all’interno dell’«essere

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ATTUALITÀ DI PI ATONE 28

buono». Bisogna dunque trovare che cosa c’è di identico in tutti i piaceri, che appunto fa sì che tutti siano buoni (13a-b). Così facendo, tuttavia, c’è il rischio di comportarsi come gli sprovveduti e gli inesperti di discorsi: se diciamo che i piaceri, pur essendo tra loro molto diversi, sono simili per il fatto di essere buoni, veniamo a dire che simili sono le cose dissimili, e anzi che ciò che è maggiormente simile è simile a ciò che è maggiormente dissimile (13d).

Del resto, ammette subito Socrate, un discorso del tutto analogo si può fare anche riguardo alla tesi secondo cui il bene è conoscenza. Siamo dunque di fronte a un problema di struttura, che riguarda l’argomentazione in generale, e non maniere particolari di porre i problemi o di definire le cose. Questo problema può anche essere formulato in modo logico-linguistico, cioè come il problema della predicazione. Se dico che il bene è il piacere, mi devo impegnare a individuare la caratteristica comune a tutti i piaceri in base alla quale essi possono essere detti buoni. In questo caso il piacere non può che apparire, di conseguenza, tanto molteplice quanto uno: molteplice in quanto i piaceri sono diversi, uno in quanto tutti i piaceri convergono sotto Tunica predicazione di «buono». La questione che sta alla base di tutto questo discorso, di conseguenza, è la questione del rapporto uno-molti. Essa viene esplicitamente chiamata in causa da Socrate alle righe 14c4-10. E un problema, spiega Socrate, che crea difficoltà a tutti gli uomini, sia che ne siano consapevoli sia che, in alcuni casi e in alcune occasioni, non lo siano. La sua natura è in qualche modo stupefacente di per sé (πώςπεφυκότα θαυμαστόν), e consiste nell’affermazione che i molti sono uno e che l’uno è molti: è infatti assai facile sollevare obiezioni ad ognuna di queste due asserzioni.

Notiamo subito, in questo passo davvero notevole, due cose su cui dovremo tornare più avanti. La problematicità del rapporto uno-molti, in primo luogo, non è una cosa che riguarda specificamente i filosofi; essa riguarda tutti gli uomini, anche quelli che non ne sono consapevoli. Il che significa che non basta non riflettere su questo rapporto, e nemmeno decidere programmaticamente di trascurarlo o di porsi al di là di esso, perché è attivo per natura in chiunque faccia uso del logos, cioè in qualsiasi parola argomentativa. Questa parola, in effetti, si configura automaticamente come un raccogliere, per natura e definizione, cosicché il rapporto uno-molti è pienamente coestensivo con la sua esistenza. Bisogna anche dire, in secondo luogo, che esso genera una situazione stupefacente e

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L’ARGOMEN TAZIONE PLATONICA 29

strana, come la compresenza di qualità opposte nello stesso soggetto. Questa stranezza è per lo più occultata dal fatto che la relazione uno-molti compare in modo irriflesso in un numero infinito di discorsi, ma quasi nessuno la tematizza come un problema (si diceva, appunto, che essa è attiva anche laddove non è percepita). Essa emerge pienamente alla luce, viceversa, quando l’attenzione si concentra non già sullo svolgimento dell’argomentazione, ma sulla sua struttura di base. Qui, quello che nelle situazioni ordinarie sembra normale appare al contrario del tutto anomalo. Possiamo addirittura spingerci a dire che una delle strutture portanti della filosofia di Platone consiste proprio nella percezione di anomalie per lo più non rilevate, e nei conseguenti tentativi di trovarne delle spiegazioni.

L’anomalia implicita nel rapporto uno-molti non riguarda però, come sembra intendere Protarco (14c-d), il rapporto che esiste tra la molteplicità delle cose e l’unità del concetto («concetto» non è termine

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ATTUALITÀ 1)1 Γ 1A Γ ΟΝΕ 30

platonico, ma preferisco evitare la parola «idea» perché il suo uso nel Fileboè assai problematico). Queste stranezze, spiega Socrate, sono le più semplici e sono molto facili da risolvere (14d-e). Qui Platone probabilmente allude alle prime battute del Parmenide, in cui Socrate propone di risolvere le contraddizioni inerenti alla realtà sensibile, sottolineate dal- l’eleatico Zenone, mediante il procedimento della partecipazione

12(per cui un

uomo, ad esempio, può essere uno e molteplice al tempo stesso, a seconda che vengano considerati l’intero o le sue membra). Le stranezze di cui qui si parla nascono quando si vuole dire che il bue, l’uomo, il bello o il bene sono una cosa sola.

Tra i vari problemi che Socrate elenca subito sotto a proposito di indagini di questo genere, alcuni dei quali richiamano quelli discussi nel Parmenide, ce n’è uno particolarmente importante. Ci si chiede se è davvero necessario porre unità del tipo di quelle sopra elencate, ciascu-na delle quali non solo è una, ma è anche sottratta alla generazione e alla corruzione. Se infatti nell’ambito delle cose sensibili l’unità degli individui non costituisce affatto un problema, perché in un certo senso si tratta di una unità garantita dalla natura (è facile capire che questa cosa singola è Socrate, una e diversa da quest’altra cosa singola che è Teeteto), più diffìcile è capire fino a che punto è necessario porre delle unità reali (αληθώς οΰσας) laddove sono possibili differenti e questionabili modi di «raccogliere». Siamo sicuri che il piacere sia davvero «uno», nonostante le differenze che esistano tra i piaceri particolari? Poiché non percepiamo quella singola cosa che è il piacere allo stesso modo in cui percepiamo quella singola cosa che è Socrate, come possiamo essere sicuri che questa unità esiste? Come possiamo essere certi che il dato ultimo, in questioni di questo genere, non è la molteplicità delle descrizioni e delle opinioni, ma una unità che tutte le accomuna e che in qualche modo le fonda? Possiamo essere ragionevolmente sicuri che Teeteto è identico a se stesso e diverso da Socrate. Ma laddove la nostra conoscenza della cosa non può fare appello a fonti extralinguistiche, e deve per converso affidarsi a descrizioni verbali, come essere certi che il milieu linguistico non sia un flusso indefinito di possibilità, dove domina incontrastata la differenza e non è mai possibile fissare

12

Pam. 128e-129e. 12

Così recita il titolo di un libro importante di Jean Moreau, che leggeva

Platone in chiave latamente neokantiana (Le sens du platonisme, Parigi

1967).

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L’ARGOMENTAZIONE PLATONICA 31

un’unità se non in modo arbitrario? Questo problema, si badi, riguarda in primo luogo oggetti di scarso contenuto empirico come il bene o il bello, ma riguarda in generale qualunque taglio effettuato nella realtà sulla base di un concetto generale, come il bue o l’uomo. Possiamo dire davvero che il bue inteso in senso universale rappresenta un reale oggetto di conoscenza, o non dobbiamo piuttosto ammettere che esso risulta da un convenzionale processo di astrazione che trascura le differenze reali? L’unità (l’universale) è originaria e naturale, oppure origi-naria e naturale è solo la differenza (particolare)?

4. La tesi di Platone - che è poi la tesi di fondo alla quale si riduce in un ultima analisi il «senso del platonismo»

16 - consiste

nella sua accettazione decisa del primo corno dell’alternativa. Egli ritiene, in altre parole, che l’unità non solo sia originaria esattamente come la differenza, ma che anzi goda nei suoi confronti di una specie di priorità logica, fondazionale. Se infatti il molteplice con tutte le sue differenze costituisce la realtà che si presenta a noi nel modo più semplice ed immediato, non per questo si tratta anche di una realtà autosufficiente ed autonoma. C’è qui una sorta di anticipazione della regola aristotelica secondo cui ciò che è primo per noi non coincide affatto con ciò che è primo per sé. Il molteplice, se inteso assolutamente come molteplice, manifesta subito una natura contraddittoria: ossia la sua totale incapacità di essere compreso in quanto assolutamente molteplice. Se intendo parlare del molteplice in quanto tale, in effetti, non posso evitare di usare espressioni collettive, «raccoglienti», sul genere di quella che sto usando ora, e cioè: molteplice. E chiaro che il molteplice così inteso non esprime la differenza, bensì l’unità: si intende in questo caso con «molteplice» qualcosa come un genere (dunque un oggetto unico) che raccoglie dentro di sé tutte le cose singole con le loro differenze. Si veda ad esempio il ragionamento che lo Straniero di Elea, nel Sofista, oppone a coloro che si pronunciano per la pluralità delle cose (243d- 244a). Lo Straniero suppone, per semplificare, che questi pluralisti (Platone allude ai filosofi della physis) ritengano originaria una dualità di principi. Ma essi ammettono o no che di questi due principi si può dire, sia di entrambi sia di ciascuno, che sono? Ma allora come intendere questo termine «essere» che applicano? Se insisteranno nel dire che entrambi i principi sono (e non solo uno di essi) finiranno anche per dire che i due sono uno (in quanto - possiamo aggiungere - sono due casi della stessa realtà unitaria che è l’essere).

Accade la stessa cosa ogni volta che si ripete questo

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ATTUALITÀ DI Γ Ι ΛΤΟΝΕ 32

esperimento, a meno che il pensiero e il linguaggio non vengano utilizzati per indicare quelle realtà che Aristotele nelle Categorie ha chiamato sostanze prime, cioè enti individuali come Socrate o Platone

17. Ma è chiaro che a questo basso livello di

espressione solo impropriamente si può parlare di logos, perché non abbiamo più a che fare con l’atto del raccogliere, ma con l’atto di porre una marca o un’etichetta sopra un oggetto. La funzione demarcante della parola «Socrate» può essere adeguatamente sostituta con un suono inarticolato, con un gesto o con una figura: non così la parola «uomo».

Questo stato di cose è il motivo che ha indotto Platone ad affermare l’esistenza delle idee. Le modalità genetiche che abbiamo rapidamente illustrato aiutano a capire che cosa le idee non sono e che cosa invece sono. Le idee non sono oggetti (sostanze) provviste di una certa forma. Esse sono piuttosto delle unità relative al significato. Ciò viene a dire che nella cosiddetta dottrina platonica delle idee il motivo dell’unità è prioritario rispetto a quello della sostanza (cioè dell’essere) e il motivo del significato è prioritario rispetto a quello della forma (quest’ultimo, sia detto ora per inciso, è l’elemento che attribuisce una porzione ineliminabile di verità all’interpretazione neokantiana di Platone). Tra i tanti passi che possiamo scegliere per documentare, nella nozione platonica di idea, la priorità dell’unità sulla sostanza, prenderemo alcune righe della Repubblica, tolte dalle pagine del libro V in cui Socrate stabi-lisce la differenza tra filosofi e filodossi:

Ciò posto, mi dica, chiederò, mi risponda quel brav’uomo [se. il filodosso] che non ritiene esservi il bello in sé né alcuna idea della bellezza in sé che permanga sempre invariata nella sua identità, ma che invece crede che le cose belle siano molte - lui, l’appassionato di spettacoli che non ammette assolutamente che qualcuno dica che il bello è uno, uno il giusto, e così via: «Fra tutte queste molteplici cose belle, o uomo eccellente, gli diremo, ve n’è forse una che non apparirà anche brutta? e fra quelle giuste una che non sembrerà ingiusta, e fra quelle pie, empia?»

(Resp. 478eV-479a8, tr. Vegetti con leggere

modifiche).

Il torto del filodosso non consiste dunque nel non vedere quelle cose, provviste di forme intelligibili, che sono le idee. Le idee, infatti non si vedono (né l’occhio della mente può essere

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L’ARGOMENTAZIONE PLATONICA 33

inteso in senso realistico come una vera e propria intuizione intellettuale

13). Il suo errore consiste nel non rilevare (e dunque,

in senso traslato, nel «non vedere») che il molteplice richiama immediatamente l’unità, non appena esso venga accostato dal logos (inteso sia come pensiero, cioè come parola interiore, sia come parola pronunciata

14). Se in effetti è inevitabile che

qualunque cosa bella appaia per qualche aspetto anche brutta,

13

Come già detto sopra, ho in corso di elaborazione alcuni interventi spe-

cifici su questo problema. Cfr., in ogni caso, P. Stemmer, Platons Dialektik, pp.

214-225 e Monique Dixsaut, What is it Plato Calls 'Thinking', in «Proceedings

of thè Boston Area Colloquium in Ancient Philosophy», voi. 13 (1997), ed. byJ.J.

Cleary and G.M. Gurtier, Leiden 1999, pp. 1-27. 14

In accordo con i passi del Teeteto e del Sofista che abbiamo citato alla n. 6.

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L’ARGOMEN TAZIONE PLATONICA 34

nessuno ammetterà invece di dire che il bello è anche non bello. Al contrario il bello, se esiste, avrà come sua caratteristica essenziale quella di «permanere sempre invariato nella sua identità», cioè di essere sempre e solo bello

15. Che una cosa

come «il bello» esista, d’altra parte, è garantito dal fatto che noi effettivamente chiamiamo «belle» tutta una serie di cose assai diverse tra loro. Questa facoltà dimostra appunto l’esistenza di una qualità comune che le unifica, la quale, appunto perché raccoglie il molteplice trascurando le differenze inerenti alle cose singole, per cui esse possono essere dette anche «non belle», deve essere solo e unicamente bella, cioè assolutamente invariabile nel suo significato.

Come ben si vede, la necessità di porre l’unità del molteplice deriva da una riflessione sul logos, sul διαλέγεσθαι in cui esso si articola, e sull’invarianza dei significati in essi presupposta. Tale capacità unificante del logos è stata occasionalmente chiamata da Platone δύναμις του δια- λεγεσθαι (Resp. 511b4). Questa espressione non significa, come vorrebbero alcune traduzioni melodrammatiche, la «potenza (o forza) della dialettica», ma indica più semplicemente la capacità di articolare pensiero e parola in modo razionale, cioè raccogliendo e alternativa- mente dividendo l’unità nel molteplice. Essa si trova anche in un luogo molto importante del Parmenide, cui torna utile ora almeno accennare. Come è noto, nel Parmenide Platone mette in bocca al filosofo di Elea una serie di critiche contro una versione piuttosto ingenua della dottrina delle idee, esposta da un giovanissimo Socrate. Dopo aver messo alle corde il suo interlocutore Parmenide, tuttavia, spezza una lancia in favore della tesi dell’avversario:

E vero però - disse Parmenide - che se qualcuno, Socrate, non ammetterà che esistano idee degli enti, sollecitato da tutte le difficoltà che abbiamo ora sollevato, né stabilirà una idea di ciascuna cosa, non avrà dove volgere il pensiero, non ammettendo che

15

Precisamente questo è il senso del tanto discusso motivo dell'autopredi-

cazione delle idee platoniche (quello per cui, ad esempio, l'idea del bello è anche

bella). Platone non vuole, con questo, affermare che l'idea è una cosa (o

sostanza) che ha la bellezza come attributo (questa è l'interpretazione che ne dà

Aristotele, e che dà forza alle sue critiche). Egli vuole invece alludere al fatto che

l'unità e invariabilità del significato non si manifesta mai in modo perfetto nelle

cose sensibili (in questo senso, e solo in questo, è lecito dire che l'idea della

bellezza è bella in modo eminente). Cfr. in proposito il mio Platone, Roma 1998,

pp. 141-143.

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L'ARGOMKNTAZIONE PLATONICA 35

ci sia sempre la medesima idea per ciascuno degli enti, e in questo modo andrà completamente per-duta la dynamis tou dialegesthai. (trad. mia)

Questo passo non dice che l’assenza delle idee (cioè delle unità invarianti di significato) crea delle difficoltà a un certo genere di pensiero. In questo caso si potrebbe infatti risolvere il problema dicendo che non abbiamo identificato correttamente che cosa sia il pensiero. Il passo dice, al contrario, che verrebbe meno il pensiero in generale, e cioè che l’esistenza delle idee è condizione di possibilità di quella realtà inequivocabilmente esistente che è il pensiero. Infatti il pensiero è διαλέγεσ- θαι, nel senso della relazione uno-molti sopra precisata, e l’eliminazione delle unità ideali elimina appunto il διαλέγεσθαι.

Su quali basi si fonda una pretesa apparentemente così impegnativa? Semplicemente sull’esperienza. Se io chiedo a qualcuno, secondo la tipica situazione che troviamo nei dialoghi socratici, che cos’è la giustizia, o una qualunque altra caratteristica generale, il mio interlocutore può certo dare una risposta che non condivido, o che appare erronea da più punti di vista. Ma la sua comprensione della domanda, in base alla quale egli articola la risposta, è prova inconfutabile che entrambi gli interlocutori si trovano già sul terreno dell’universale. Per rispondere alla domanda riguardo la giustizia in modo pertinente (dicendo ad esempio, con Trasimaco, che la giustizia è l’utile del più forte, e non un mollusco appartenente al genere dei celenterati) occorre necessariamente possedere già una dose minima di comprensione comune su ciò che la giustizia in generale sia: occorre ammettere, in altre parole, che esiste una giustizia come unità universale sempre identica nel suo signi-ficato, diversa da qualunque singola cosa giusta (che, come abbiamo visto nel passo della Repubblica, può anche essere non giusta per qualche rispetto).

Lo scopo della domanda socratica, d’altra parte, consiste proprio in questo: il Socrate di Platone non chiede «che cos’è la giustizia» con lo scopo o la speranza di trovare qualcuno che conosca la definizione esatta ed ultimativa. Il suo scopo è quello di mostrare che la domanda stessa, una volta che sia adeguatamente compresa, pone in evidenza il terreno dell’universale in cui da sempre il logos si muove (anche se i più, filodossi nell’indole, non se ne accorgono), e stabilisce che qualunque ricerca razionale, indipendentemente dal grado di verità che le sarà dato raggiungere, non potrà mai evadere da questo terreno. Il torto del sofista Ippia, che alla domanda di

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ATTUALITÀ DI PI Α Γ ΟΝΕ 36

Socrate «che cos’è la bellezza» risponde «una donna bella»16

(così come il torto di Menone che elenca uno sciame di virtù), non consiste nel non vedere la bellezza nella sua essenza (nessuno ha questa visione), o nel non conoscere la sua definizione (il logos non è così potente). Il suo torto consiste nel non avvedersi che cose come bellezza hanno il carattere dell’unità, e che perciò l’indagine razionale deve stare per forza all’interno della dialettica universaleparticolare. La risposta «parlata» di Ippia è in realtà analoga al gesto che avrebbe potuto fare indicando una suonatrice di flauto. Ippia, insomma, non ha capito che cosa è il logos, che esso implca l’esistenza dell’universale. Non è un caso, in effetti, che a volte la domanda socratica chieda semplicemente se l’interlocutore ritiene che una certa determinazione universale esista o no (ne abbiamo un esempio saliente nello stesso Ippia Maggiore, e precisamente a 287c, laddove Socrate chiede a Ippia se esiste qualcosa come la giustizia).

Il logos, il διαλέγεσθαι, dimostra l’unità invariante del significato, ed è questo che Platone vuol cogliere parlando di idea della giustizia, della bellezza, ecc. Questa unità invariante è messa in luce, sia nel passo della Repubblica sia in quello del Parmenide, dall’identico avverbio άεί (sempre). Vorrebbe dunque dire Platone che la giustizia, la bellezza, ecc. hanno sempre lo stesso significato? Non è forse vero che i significati sono sempre variabili, sia nel tempo sia nello spazio? E il fenomeno della comprensione adeguata non potrebbe essere solo un accidente del fenomeno linguistico, del fatto che ci si riferisce a persone che parlano la stessa lingua? Che dire di un διαλέγεσθαι con persone che parlano lingue diverse, magari ancora sconosciute?

Ora, è chiaro che per Platone l’essenza e il significato della giustizia in sé devono essere unici e identici. Non per questo però egli afferma che tale essenza e significato possano essere conosciuti ed espressi mediante il logos in forma ultima e definitiva. Il fenomeno della comprensione è sufficiente a dimostrare l’unità del significato, perché esso dimostra in modo inequivocabile l’esistenza di un terreno comune. Ma questo terreno può anche essere inesplorato, di difficile esplorazione o addirittura inesplorabile nella sua integrità. Tale, a mio parere, è l’idea che ne aveva Platone. L’evento della comprensione fonda, necessariamente, l’unità del molteplice, certifica l’esistenza di una figura, anche se il quadro non può essere completato. Nello

16

Hipp. Maj. 287a.

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L'ARGOMKNTAZIONE PLATONICA 37

stupefacente intreccio tra uno e molteplice, tra identico e diverso - di cui si parla nel Filebo - il motivo stupefacente non è la differenza, ma l’identità. Già prima di Platone alcuni autori avevano raccolto repertori delle differenze, a volte davvero abissali, tra gli usi e costumi dei vari popoli, e le avevano pro-poste allo stupore dei loro uditori e lettori (così ad esempio Erodoto, che non a caso darà molta materia ai sofisti). Ma il vero stupore, per Platone, è esattamente quello inverso, e deriva dal fatto che gli uomini si intendano nonostante le differenze; dal fatto che sia sempre possibile raccogliere in unità qualunque molteplice, anche se formato dalle cose più diverse. Nel caso peggiore, come abbiamo visto nel passo del Sofista, si dovrà almeno dire che tutte le cose, per quanto diverse, sono identiche per il fatto che sono. Dunque ci sarà sempre almeno un

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ATTUALITÀ 01 Γ Ι ΛΤΟΝΚ 38

punto di vista in base al quale siamo costretti a dire che tutte le cose sono uno, che l’unità è originaria, che il molteplice e la differenza non sono mai l’ultima parola sulla realtà. In caso contrario, infatti, questa situazione non si spiegherebbe. Né in questo modo, peraltro, si è ancora spiegato tutto. Resta da spiegare, in particolare, perché l’unità originaria dei significati sia impossibile da cogliere nella sua compiutezza, perché l’accordo sia sempre parziale, temporaneo, precario. Ma c’è una parte della filosofia di Platone, come abbiamo visto sopra, che si incarica di spiegare a anche questo fenomeno: la natura vicaria, ermeneutica del linguaggio; l’indisponibilità, per l’anima incarnata che vive nel tempo, di accedere all’intuizione intellettuale.

Quanto al problema delle differenze di linguaggi, non si tratta di una circostanza determinante. Come si desume dal Cratilo, il linguaggio è per Platone la forma in cui accade il pensiero, non la struttura che lo determina. Nella VII Lettera

17 scrive Platone

che nulla impedisce di chiamare il tondo dritto e il dritto tondo, e ciononostante il significato, per chi ha scambiato i nomi, non sarà meno sicuro (343b). Allo stesso modo è ovvio che il concetto di giustizia è espresso in modo diverso da una lingua all’altra, sia moderne sia antiche, ed è anche chiaro che queste differenze non lasciano del tutto intatto il significato. Questo però non ci impedisce oggi di interrogarci sensatamente sul significato della «giustizia» nell’Atene nel V secolo o nell’Inghilterra di Cromwell, supponendo con questo almeno una parziale identità di significato con il termine giustizia corrente nella lingua italiana del XXI secolo. Né questa identità verrebbe meno in un ipotetico colloquio con un popolo primitivo sprovvisto di una parola corrispondente, perché sarà sempre possibile identificare qualcosa di analogo, magari mediante una perifrasi, intorno a cui si ricostituisca quella minima unità di significato che permette il διαλέγεσθαι.

17

La maggioranza degli studiosi ritiene oggi questa lettera autentica, ma

non mancano autorevoli voci contrarie, mentre altri rimangono incerti. Ce da dire

però che il più grave elemento di dubbio rimane pur sempre V excursus

filosofico, il cui contenuto ad alcuni sembra non collimare con quanto emerge

dai dialoghi. Se però si trova un modello interpretativo della filosofia di Platone

da cui risulta che Vexcursus si sposa perfettamante con gli altri testi (come ho

tentato di fare nei lavori citati alla n. 6), allora la palla rimbalza verso chi nega

l'autenticità della lettera: sarà in questo caso lecito dire che si tratta di un

apocrifo quando si è mostrato che una certa ricostruzione della filosofia di

Platone non è corretta, ma non che tale ricostruzione è scorretta perché la

lettera è apocrifa.

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L’ARGOMENTAZIONE PI ATONICA 39

5. Cerchiamo ora di tirare le conclusioni di tutto questo discorso. Il senso del platonismo, abbiamo detto, consiste nella constatazione che

F I L O SO F I A

vi è una necessaria implicazione tra uno e molteplice. Questo principio forte, peraltro, si collega a una concezione debole della conoscenza filosofica, in cui non solo non c’è nulla che assomigli a un occhio della mente capace di cogliere intuitivamente e infallibilmente le idee, ma il pensiero e il linguaggio sono caratterizzati da una «mancanza di fondo» di ordine latamente ermeneutico.

Un ricco filone del pensiero contemporaneo che trova i più lontani antenati proprio nella svolta ermeneutica (promossa in primo luogo da Nietzsche e Heidegger), e che oggi si riconosce almeno in parte sotto il titolo di decostruzionismo, sta conducendo ormai da parecchi anni la sua battaglia contro la metafisica e il logocentrismo, in nome del singolare, del frammentario, del differente, e in questa sua battaglia ha rivolto i suoi strali proprio contro Platone e contro il tradizionale modo di argomentare che per molti secoli il filosofo ateniese avrebbe imposto all Occidente (penso in primo luogo a Jacques Derrida e Gilles Deleuze). Uno degli obiettivi polemici di questa battaglia è costituito in effetti dal rapporto universale-particolare così come lo aveva inteso Platone, e dalla forma di ragionamento (logos) corrispondente.

Come anticipato sopra, in questo articolo mi propongo - fra le altre cose - di mostrare che questo luogo comune è frutto di fraintendimenti e di equivoci. La gnoseologia che i decostruzionisti combattono, in realtà, non è quella di Platone, ma quella di Aristotele. Essi inoltre, nel compiere questa operazione, vorrebbero anche scardinare alcuni presupposti platonici, che in realtà non possono essere scardinati, perché condizioni di possibilità di qualunque tipo di logos (o parola), compresi quelli utilizzati dai decostruzionisti stessi. Abbiamo detto sopra che Aristotele condivide con Platone il fatto che la conoscenza razionale, cioè quella che si sviluppa mediante il logos, ha come suo oggetto l’universale. Poi abbiamo aggiunto che c’è differenza, viceversa, nel modo in cui essi considerano il logos, e la conoscenza in generale. Aristotele ha una concezione naturale del pensiero e del linguaggio, intesi come gli organi che rispecchiano fedelmente la realtà e permettono di

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40 ATTUALITÀ DI PI ATONE

arrivare, se usati senza errori, a conclusioni definitive. Potremmo anche aggiungere ora che in Aristotele c’è almeno il sospetto dell’esistenza di una intuizione intellettuale non protetta dalla two worlds theory di Platone (dunque disponibile) - ma poiché si tratta di una questione assai controversa la lasceremo da parte

18. Quello che mi sento

invece di affermare è che Platone ha una concezione ermeneutica del pensiero e del linguaggio, sostanzialmente circolare, che li rende strutturalmente disponibili all’apertura indefinita della ricerca, e impedisce di considerarli semplicemente come lo specchio della natura. Questa «ermeneuticità» è stata bloccata per secoli, nella storia della pensiero occidentale, proprio dalla concorrente e vittoriosa concezione aristotelica. È dunque particolarmente grottesco che gran parte degli ermeneuti e decostruzionisti contemporanei continui pervicacemente a ritenere la svolta ermeneutica, caratteristica di tanta parte del pensiero del XX secolo, come una sorta di parricidio nei confronti di Platone.

Bisogna fare una almeno importante eccezione, e precisamente in favore di uno dei padri fondatori del pensiero ermeneutico contemporaneo, e cioè Hans Georg Gadamer (il quale, come è noto, ha dedicato gran parte della sua attività scientifica al pensiero antico, e in particolare proprio a Platone

19). La lettura di Platone proposta autorevolmente da

Gadamer in numerosi suoi studi costituisce un’ulteriore aggravante alla situazione a cui alludevamo sopra, e cioè al fatto che i decostruzionisti, i quali pure in gran parte si considerano interni alla stessa tradizione di pensiero di cui Gadamer è uno dei massimi esponenti, reputino la filosofia platonica come la principale nemica del pensiero ermeneutico. Sembra in realtà che gli approfonditi studi platonici di Gadamer abbiano riscosso presso i teoreti assai meno successo delle frammentarie ed avventurose ricerche sul pensiero antico eseguite da Heidegger (che peraltro su questo terreno era assai meno preparato e attendibile del suo discepolo). Non posso tralasciare un accenno, sia pure cursorio, a un caso abbastanza clamoroso, che interessa da vicino lo scenario

18

Le ultime righe del secondo libro degli Analitici Secondi potrebbero far

pensare che per Aristotele il livello più alto di conoscenza coincida con una

sorta di intuizione intellettuale (100b5-l7). Contro questa interpretazione del

passo ha reagito con vigore Enrico Berti (cfr. ad esempio Le ragioni di

Aristotele, Roma-Bari 1989, pp. 11-18). Su questo tema esiste un interessante

studio monografico di V. Kal, On Intuition and Discursive Reasoning in

Aristotle, Leiden 1988. 19

Cfr., soprattutto, i saggi tradotti in italiano e raccolti nei due volumi Studi

Platonicil e 11 (Casale Monferrato, 1983 e 1984, rispettivamente). Su Gadamer

e Platone v. ora l'ottimo volume di F. Renaud, significativo già nel titolo, Die

Resokratisierung Platons. Die platonische Hermeneutik Hans-Georg

Gadamers, Sankt Augustin 1999.

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L’ARGOMENTAZIONE PI ATONICA 41

filosofico italiano. In un intervento comparso in occasione del centesimo compleanno di Gadamer Gianni Vattimo scrive: «...mi ha sempre colpito il distacco che Gadamer manifesta nei confronti della dura polemica di Heidegger contro la tradizione metafisica, e anzitutto contro Platone»

20. Come si evince dal

contesto, Vattimo in un certo senso si stupisce che Gadamer non abbia accettato il fatto che Γ«eredità greca, anzitutto platonica», sia «uno dei momenti chiave dell’oblio dell’essere che ha condotto il pensiero metafìsico occidentale a identificare l’essere con gli oggetti della conoscenza scientifica e della manipolazione tecnologica»

21. Lo stupore di Vattimo deriva dal

fatto che a

20

In Incontri con Hans-Georg Gadamer, a cura di G. Girgenti, Milano

2000, p. 68.

21 Ibid., pp. 68-69.

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L’ARÌ’.OMKNTAZIONE PLATONICA 42

suo parere l’interpretazione di Platone proposta da Heidegger dovrebbe essere in generale - come è chiaro - ormai ovvia per tutti, e dal fatto che dovrebbe esserlo in particolare per chi si è fatto continuatore della tradizione filosofica inaugurata da Nietzsche e proseguita da Heidegger stesso. Per spiegare questa situazione Vattimo avanza allora una doppia ipotesi: in primo luogo in Gadamer sono attivi dei presupposti «umanistici» estranei ad Heidegger, e in secondo luogo il suo atteggiamento riflette quell’intenzione di «urbanizzare la provincia heideggeriana» di cui ha parlato Habermas

27.

Quello che davvero «colpisce», in realtà, è il fatto che Vattimo sia «colpito». La risposta al problema da lui sollevato, infatti, è sotto il naso di tutti. Gadamer, da «filologo classico estremamente agguerrito» quale lo definisce lo stesso Vattimo

28, ha proposto una sua personale

interpretazione di Platone, quasi diametralmente opposta a quella di Heidegger, che per ottimi motivi doveva apparirgli ben più corretta di questa

29. Per sincerarsene, basterebbe leggere e

meditare i suoi Studi Platonici. Ma questo evidentemente è quanto i decostruzionisti di oggi si rifiutano di fare

30; mentre

invece non si trattengono dal parlare di

27 Ibid. 28 Ibid., p. 68. 29 Un'esposizione sintetica delle due diverse interpretazioni si

legge in O. Poggeler, Ein Streit um Platon: Heidegger und Gadamer, in Platon in der abendlandi- schen Geistesgeschichte, hrsg. von Th. Kobusch und B. Mojsisch, Darmstadt 1997, pp. 241-254. Più interessante, però, è la ricostruzione di F. Renaud, Die Resokratisierung Platons, cit, in part. pp. 25-35. Contro l'identificazione heideg- gerriana platonismo=metafisica=filosofia Gadamer sottolinea la motivazione etica e dialettica che soggiace alla teoria delle idee; se Heidegger evidenzia in Platone l'oblio della verità, Gadamer è interessato piuttosto ala continuità con la verità che si manifesta nonostante l'oblio; mentre Heidegger collega stretta- mente Platone alla storia del platonismo «metafisico», Gadamer rileva la priorità del Platone dialogico, la sua affinità con la filosofia ermeneutica in vista di una metafisica «aperta»; infine, l'interpretazione di Heidegger è gravata da carenze di tipo filologico (ibid., p. 27 e n. 28). In ogni caso, fosse mancanza di preparazione filologica o scelta deliberata (cosa più probabile), gli arbitri compiuti da Heidegger in sede di interpretazione platonica sono piuttosto evidenti. Cfr., in proposito, J. Barnes, Heidegger spéléologue, «Révue de Métaphysique et de Morale» 95 (1990), pp. 173-195, A. Th. Peperzak, Did Heidegger Understand Plato’s Idea of thè Truthì, in Platonic Transformations. With and after Hegel, Heidegger, Lévinas, Lanham (USA) 1997, pp. 57-111, e S. Rosen, The Question of Being. A Reversai of Heidegger, Yale 1993. 30 Eppure, come riccorda Poggeler (Ein Streit um Platon, p. 241), lo stesso Gadamer ha dichiarato di considerare i suoi

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L’ARGOMENTAZIONE PLATONICA 43

studi sulla filosofia antica, culminanti nelle sue ricerche su Platone, der eigenstàndigste Teil del suo lavoro filosofico. Almeno Vattimo, che è stato per qualche tempo allievo diretto di Gadamer e ha tradotto in italiano Verità e Metodo, questo non dovrebbe ignorarlo. Platone a ogni pié sospinto, sempre seguendo la traccia claudicante di Heidegger, e disinteressandosi, oltre che di Gadamer, anche - e a maggior ragione - di tutta la letteratura specialistica.

L’approdo alla retorica, a cui siamo pervenuti attraverso Gadamer, ci permettere di dire le parole che porranno termine al nostro discorso. La diffidenza verso una concezione diretta del pensiero e del linguaggio, intesi come specchio fedele della realtà, è giustificata da solidi argomenti. Non mi riferisco, con questo, alle motivazioni di carattere etico, in cui la diffidenza è motivata dalle preoccupazioni che suscita un discorso metafisico in senso deteriore, cioè dogmatico e potenzialmente violento. Se tale davvero fosse la natura del logos, nessun timore pregiudiziale sarebbe sufficiente a decidere che le cose stanno in modo diverso. Ma il fatto è che le cose non stanno appunto così, perché la natura ermeneutica e dialettica di pensiero e linguaggio risulta evidente - come mostrano al meglio proprio i dialoghi di Platone - dall’esame del διαλέγεσθαι nel suo esercizio concreto. Questa diffidenza, tuttavia, non può spingersi fino a negare la dialettica tra particolare e universale, tra molteplice e uno. Chi ambisca, ad esempio, a cogliere la natura della differenza in quanto differenza, non può pensare con questo di porsi al di fuori dei limiti in cui Platone ha collocato l’argomentazione filosofica. Al contrario, anche riguardo la differenza vale la regola della reductio ad unum che Platone applicava alla giustizia, alla virtù e all’essere stesso. Chi pensa la differenza in quanto differenza, infatti, non può che pensare platonicamente a ciò che unifica le differenze in quanto differenze, cioè a un significato universale di differen-za che si mantiene costante nel tempo. La stessa regola vale ovviamente anche per nozioni post-moderne come la différance derridiana, e nulla rileva il sotterfugio linguistico. Perciò l’argomentazione filosofica non può che muoversi all’interno di questa dialettica, cercando di cogliere e di precisare per quanto possibile unità di senso tagliate in vario modo all’interno dell’infinita molteplicità dei particolari. Al di fuori di questi limiti non c’è né filosofia né logos (ancorché possano esserci il discorso poetico e narrativo, o addirittura il puro non senso). Ciò che davvero si modifica nell’argomentazione, una volta che siano stati ammessi i vincoli ermeneutici a cui sono sottoposti il pensiero e il linguaggio, è che la definizione diventa delimitazione (sempre provvisoria) , che alla logica subentra la retorica, che la dimostrazione si trasforma nella persuasione.

Si può dunque dire che esistano, in certo senso, tre tipi di

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ATTUALITÀ DI PI ΑΓ ΟΝΕ 44

platonismo. C’è anzitutto il platonismo minimo, che a mio avviso contiene i motivi essenziali e determinanti della filosofia di Platone, di chi ritiene che pensiero e linguaggio non possano mai evadere dalla dialettica universale-particolare. Da questo tipo platonismo, nonostante i proclami battaglieri levatisi da più parti in quest’ultimo secolo, la filosofìa occidentale non è in realtà mai evasa: né potrebbe farlo, se non cessando di usare l’argomentazione, il logos, il διαλέγεσθαι - cioè cessando di essere filosofia. C’è poi il platonismo massimo, cioè quello della teoria dei due mondi, della sostanzialità dell’anima, della superiorità dello spirito sulla materia, della bontà e provvidenza di Dio, ecc. Accettare questo platonismo è ovviamente una questione di scelte: ma in questo caso si tratta di scelte davvero molto impegnative, sia da mettere in pratica sia da giustificare razionalmente. C’è infine l’idea di una metafisica della presenza, perentoria e violenta; di una gnoseologia dogmatica e coreci- tiva fondata sull’ammissione di uno sguardo privilegiato sul mondo, indiscutibile, inquestionabile, assoluto. Questa idea è ciò che molti filosofi contemporanei combattono credendo di combattere il platonismo, ma in realtà non ha niente a che fare con la filosofia di Platone.

Capitolo II

Platone, Rorty e la violenza della metafìsica22

Sull’infelice destino della metafisica nel corso di questo secolo non è davvero il caso di insistere. Una ormai lunga tradizione, concorde e compatta quantomeno nell’indicare ciò che rifiuta, ha provveduto con grande spiegamento di mezzi non solo a dimostrare Γ inconsistenza epistemologica di questa disciplina, ma anche a denunciare i gravi danni e pericoli che il pensiero “metafisico” può causare al vivere etico, sociale e politico. In quest’ultimo senso, anch’esso troppo noto perché valga la pena di esaminarlo, la metafisica rappresenta il pensiero violento per antonomasia, con esiti variamente modulati che vanno dal predominio disumanizzante della tecnica alla creazione dello stato totalitario. Al di là di ogni considerazione di carattere teoretico, è difficile non rilevare in questo vero e proprio locus communis della filosofia d’oggi almeno un grave punto debole. Vi si parla di “metafìsica” come di un concetto o di un movimento unitario, senza tenere conto

22 Platone, Rorty e la “violenza" della metafisica, «Pratica Filosofica»

10 (1996), pp. 175-197. 1 Cfr. E. Berti, Le vie della ragione, Bologna 1987, in part. pp. 17-54;

Introduzione alla metafisica, Torino 1993, in part. pp. 12-43. 2 Oltre l’interpretazione, Roma-Bari 1994, p. 40.

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ATTUALITÀ DI PIAI ΟΝ K 40

che le metafìsiche sono molte, e assai diverse fra loro. Queste differenze sono state più volte in Italia sottolineate da Enrico Berti

1, ma non sembra che questi avvertimenti siano riusciti a

scalfire una ormai ben radicata koiné linguistico- culturale. Un esempio recente (e autorevole) è l’ultimo libro di Gianni Vattimo, in cui si legge

Non è perché l’universale conduca necessariamente alla violazione dei diritti dell’individuo che la metafisica deve essere superata; anzi, i metafisici hanno qui buon gioco nel dire che gli stessi diritti dell’individuo sono stati spesso rivendicati proprio in nome di ragioni metafisiche - per esempio nelle dottrine del diritto naturale. È invece in quanto pensiero della presenza perentoria dell’essere - come fondamento ultimo di fronte a cui si può solo tacere e, forse, provare ammirazione - che la metafisica è pensiero violento: il fondamento, se si dà nell’evidenza incontrovertibile che non lascia più adito a ulteriori domande, è come un’autorità che tacita e si impone senza “fornire spiegazioni”

2.

Quale sia la metafisica cui Vattimo si richiama, e soprattutto quale sia il suo punto di riferimento storico, diventa chiaro più avanti nel testo, là dove Vattimo, con evidente consenso, asserisce:

Heidegger ha...insegnato che la tecnica moderna è la conseguenza diretta della metafisica platonica

23.

La natura di questo rapporto dipende a sua volta dal fatto che la metafisica è

già tutta presente nella dottrina platonica delle idee come la struttura rappresentabile dell’essere

24.

Anche questa frase, come si vede, si richiama ad Heidegger, cioè alla sua ben nota tesi secondo cui Platone avrebbe per primo occultato la natura della verità come svelamento, mettendo al suo posto la correttezza dello sguardo. Questo è appunto per Heidegger l’inizio della metafisica, e la tecnica moderna non è che la forma prevalente da essa assunta nell’epoca contemporanea

25. Su questo argomento si è scritto

23

Ivi, p. 51.

24 Ivi, p. 53.

25 Cfr. M. Heidegger, Platons Lehre von der Wahrheit, pubblicato per la

prima volta nel 1942, poi compreso in Holzwege {La dottrina platonica della

verità, tr. italiana in Segnavia, Milano 1987, pp. 159-192).

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RORTY E LA VIOLENZA DELLA METAFISICA 41

moltissimo, e io non ho qui intenzione di aggiungervi nulla (anche perché il presente lavoro ha un obiettivo diverso). Mi preme soltanto mettere in luce che questa linea interpretativa di ascendenza heideggeriana sposa l’immagine della verità come corrispondenza, come evidenza eidetica di ciò che appare alla mente, con il “pensiero della presenza perentoria dell’essere” (nei termini di Vattimo), e con la violenza implicita che ne deriva.

La lettura heideggeriana di Platone ha incontrato, si sa, il favore di numerosi epigoni, non solo in Italia, ma anche in Francia e in Germania; epigoni che spesso ripetono acriticamente, senza una approfondita valutazione, le tesi del maestro. Il motivo di questo successo, al di là del fascino indubbio suscitato dagli scritti del pensatore di Friburgo, consiste nel fatto che il Platone di Heidegger sembra comba-ciare assai bene con l’immagine di gran lunga più diffusa (soprattutto presso i filosofi non “antichisti”) della filosofia platonica. E l’immagine, tanto per intenderci, mediante la quale può essere chiamata “platonica” la concezione realistica che ebbero Frege e Russell degli oggetti matematici: entità ideali, assolute, che si offrono alla percezione mentale. Il Platone che così viene evocato è il filosofo delle idee come oggetti assoluti ed intemporali, che possono essere colti dall’occhio della mente. In tal modo Platone ha potuto fungere da contorno, se non proprio da sostegno, a uno dei bersagli preferiti di un largo filone del pensiero contemporaneo, quello impegnato a combattere ogni forma di realismo epistemologico e di eidetismo (ci si perdoni questa parola, che serve per indicare la persuasione che alcuni concetti siano delle essenze universali invarianti).

E ancora questa l’immagine a cui fa oggi riferimento il principale esponente del neopragmatismo americano, e cioè Richard Rorty (l’influenza di Paul Shorey, lo studioso americano di Platone più celebre prima di Cherniss, non pare essere uscita dalla cerchia degli specialisti

26). Che Platone per Rorty sia

essenzialmente quello di Russell emerge con chiarezza da un brano del suo libro più celebre:

Come Platone a suo tempo si era ispirato alla matematica nel- l’inventare “il pensiero filosofico”

7,

così i filosofi “seri” si rivolsero alla logica matematica per trovare un riparo dai loro esuberanti critici. Figure paradigmatiche di questo tentativo di ritrovare lo spirito matematico furono Husserl e Russell

8.

26

Paul Shorey, nel suo noto saggio dal titolo The Unity of Plato’s Though

(Chicago 1903) è stato il primo degli studiosi contemporanei a notare che

Platone non fa nessun tentativo di descrivere le idee.

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ATTUALITÀ DI PIAI ΟΝ K 42

La tesi del libro è nota. L’obiettivo principale della critica di Rorty è la sequenza “epistemologica”, attiva da Cartesio a Kant fino alla filosofia analitica e alla fenomenologia. Questa tradizione ha in vario modo postulato l’esistenza di una mente come “specchio della natura”, nella quale si riflettono le idee chiare e distinte. L’obiettivo che ne risulta è quello di una conoscenza oggettiva e certa, capace di raggiungere (grazie alla pura intellettualità del procedimento) delle verità assolute e metastoriche, indifferenti al divenire delle società e degli individui. La menzione delle idee “chiare e distinte” richiama naturalmente

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ATTUALITÀ DI Γ Ι Α Γ ΟΝΕ 43

Cartesio, che in effetti è uno dei personaggi principali (tanto per restare nell’ambito rortiano della filosofia come narrazione) di Philosophy and thè Mirror of The Nature. Ma alle spalle di Cartesio compare spesso, negli scritti di Rorty, la figura di Platone. Questa derivazione è sintetizzata in maniera molto efficace in un passo tolto da un saggio del 1984:

... Cartesio conservò proprio quei temi del pensiero antico che Bacone aveva cercato di cancellare. La conservazione dell’idea platonica che la nostra facoltà più distintamente umana era quella di maneggiare “idee chiare e distinte”, piuttosto che realizzare il trionfo dell’ingegneria sociale, fu il contributo più importante e più sventurato di Cartesio a quello che noi ora consideriamo la “filosofia moderna”

27.

Cartesio è colpevole perché ha conservato proprio ciò che si doveva buttare, cioè la concezione platonica dell’oggettività degli universali e della mente ad essi correlata. Rorty ha implicitamente e anche esplicitamente affermato più volte, soprattutto nei saggi che seguono La filosofia e lo specchio della natura, che la prospettiva teoretico-storiografica sopra illustrata deriva da Heidegger, o ameno collima con le analisi compiute dal filosofo tedesco

28. In un saggio del 1984 si

leggono ad esempio frasi di questo tipo:

Interpretare opportunamente l’affermazione di Heidegger richiede che si identifichi il platonismo con l’affermazione per cui l’essenziale della ricerca è venire in contatto con qualcosa del tipo l’Essere, il Bene, o la Verità, o la Realtà, qualcosa, cioè, di vasto e potente che abbiamo il dovere di com-prendere correttamente

29.

27

Habermas e Lyotard sulla postmodernità, in R. Rorty, Essays on

Heidegger and Others Phibsophical Papers - Voi. 2, Cambridge 1991 (tr. it.,

da cui citiamo, Scritti filosofici II, Roma-Bari 1993, p. 231). 28

Che la critica all’idealismo platonico debba molto ad Heidegger si ricava

fra l’altro dal fatto che Rorty fa più volte sua la prospettiva heideggeriana di una

sequenza che va da Platone a Nietzsche. V. ad es. Oltrepassare la tradizione:

Heidegger e Dewey, in Consequences of Pragmatism, Minneapolis 1982 (tr.

it. Milano 1986, p. 75); La filosofia e lo specchio della natura, p. 304. Cfr. in

proposito F. Restaino, Filosofia e post-filosofia in America, p. 102; A.

Gargani, Introduzione a R. Rorty, Scritti filosofici /, Roma-Bari 1994, p. XII

(ed. orginale, Objectivity, Relativism and Truth. Philosophical Papers - Voi.

1, Cambridge 1991), e Introduzione a Scritti filosofici II, p. XII. 29

Heidegger, contingenza e pragmatismo, in Scritti filosofici II, p. 39;

cfr. anche Contingence, Irony and Solidaririty, Cambridge 1989 (tr. it. dal

titolo La filosofia dopo la filosofia, Roma-Bari 1989, p. 93)

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44 ATTUALITÀ DI PI ATONE

Ci hanno insegnato [ìc. Platone e Aristotele] che, se non possiamo rendere evidente l’oggetto della nostra indagine - averlo chiaro e distinto, direttamente presente nell’occhio della mente, raggiungendo così un accordo con tutti quelli qualificati a discuterlo - non riusciamo ad ottenere il nostro scopo

12.

Quest’ultima frase sintetizza quello che per Rorty è l’argomento di Heidegger, e che coincide sostanzialmente con la posizione di Dewey (anche se è stato Heidegger, e non Dewey, a collegare la concezione della verità come adeguatezza, con i tutti i suoi effetti disastrosi, a Platone

13). Ancora più esplicito è

Rorty in uno studio del 1987, dove egli interpreta Essere e Tempo (o almeno la maggior parte di esso) “come una critica nietzscheana alla tradizione platonica”

30:

il tema principale di quel libro giovanile è il tentativo della tradizione platonica di sottrarsi alla finitezza e alla storia, e di collocarsi nel sovratemporale postulando un apparato interno predisposto a far qualcosa di più che adattarsi all’ambiente^.

dove è ben chiaro il tentativo, cui abbiamo accennato sopra, di far convergere il pragmatismo deweyano e la filosofia di Heidegger (soprattutto quella anteriore alla Kehre) verso il medesimo obiettivo.

Seguendo Nietzsche attraverso il filtro di Heidegger Rorty afferma che il platonismo

non pretende che l’incontro con la verità sia un bagliore accecante, una illuminazione, ma semplicemente che si possa giungere alla verità attraverso il vaglio critico delle proprie intuizioni, e che una volta raggiunto un equilibrio riflessivo rispetto ai propri giudizi prefilosofici, sia conseguita la verità filosofica. L’essenziale, qui, è l’idea secondo cui, per giungere alla verità, disporremmo di un apparato interno precostituito, un apparato che include un linguaggio capace di porre le domande giuste - quelle che gli esseri umani hanno sempre formulato, o avrebbero dovuto formulare

31.

Sia pure con un linguaggio in parte più raffinato e in parte più morbido, viene qui ribadita la tesi che conosciamo. Il platonismo

29

Ivi, pp. 40-41. 30

Di là dal realismo e dall'anti realismo: Heidegger, Fine, Davidson e

Derrida, “Aut- Aut” 217-218 (1987), pp. 101-119; qui, p. 102. 31

Ivi, p. 101.

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RORTY E LA VIOLENZA DELLA METAFISICA 45

indica per Rorty quella teoria che postula una armonia prestabilita fra gli organi di conoscenza e la realtà oggettiva: una armonia che rende possibile la conquista della verità, sia pure mediante una attività di ricerca (le domande), come possesso stabile e ultimativo. Ulteriori allusioni al “platonismo” così definito si trovano sparse un po’ dovunque nell’opera di Rorty: è sufficiente per questo scorrere gli indices nominum in calce ai suoi libri. Molto frequente, ad esempio, è la menzione di una linea speculativa epi- stemologico-metafisica che va da Platone a Kant passando attraverso Cartesio (questo motivo è frequentemente ripetuto in Contingence, Irony and Solidarity). Ma il passo più chiaro e completo su tutto questo problema si legge indubbiamente in Philosophy and thè Minor of Nature:

Secondo la mia concezione Platone non ha scoperto la distinzione tra due generi di entità, o interne o esterne. Egli fu piuttosto il primo ad articolare quello che George Pitcher ha chiamato il “Principio Platonico” - cioè il fatto che a differenze nell’ordine di certezza devono corrispondere differenze negli oggetti conosciuti. Questo principio è una conseguenza naturale del tentativo di modellare la conoscenza sulla percezione

32 e di considerare la

“conoscenza di” come fondamento del “sapere che”. Se si suppone che abbiamo bisogno di facoltà distinte per “afferrare” oggetti tanto differenti come mattoni e numeri (nello stesso modo in cui abbiamo organi distinti di senso per i colori e per gli odori) allora la scoperta della geometria apparirà come la scoperta di una nuova facoltà chiamata νους

33.

Il Principio Platonico produce la necessità di interpretare la conoscenza e la giustificazione non già come rapporti tra proposizioni (esito aperto a soluzioni di tipo pragmatistico), ma come delle “relazioni privilegiate con gli oggetti intorno ai quali vertono le proposizioni”

34. Ma la conoscenza, considerata in

questo modo, conduce a

una situazione in cui la discussione non sarebbe precisamente difficile, ma impossibile, perché ciascuno afferrato dall’oggetto in modo richiesto non sarebbe più capace di dubitare o di scorgere

32

Questo tentativo deriva a sua volta “dall’analogia greca (e in particolare

platonica) tra percezione e conoscenza” {La filosofìa e lo specchio della

natura, p. 120) [n.d.r.]. 33

Ivi, p. 119. Cfr. anche Fisicalismo non riduttivo, in Scritti filosofici I, p.

157; Restaino, p. 120, n. 43. 34

La filosofia e lo specchio della natura, p. 121.

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46 ATTUALITÀ DI PI ATONE

un’alternativa35

. Abbiamo in questo modo raggiunto, attraverso Rorty, la

medesima situazione paventata da Vattimo, e per loro inerente in maniera essenziale alla metafisica: cioè una situazione di “evidenza incontrovertibile” che non lascia più spazio a “ulteriori domande”.

L’immagine rortiana di Platone si fonda in massima parte, come è chiaro, sulla metafisica della Repubblica, con particolare riferimento al sesto libro e alla metafora della linea divisa con cui esso si chiude. Ma anche lasciando da parte la questione di stabilire se l’interpretazione di Rorty corrisponde veramente a ciò che Platone vuoi dire in quel testo

36, possiamo

almeno chiederci se l’immagine ora evocata rappresenta il vero Platone, o ciò che la filosofia di Platone significa da un punto di vista essenziale. Che vi sia anche un altro Platone, questo credo che non possa essere negato. Leggiamo a esempio che cosa scrive in un libro recente un altro importante filosofo americano, amico e critico di Rorty, Richard Bemstein (il brano si trova all’interno di un saggio in cui l’A. sta descrivendo i motivi per cui, soprattutto nel corso del ’900, la razionalità filosofica e scientifica ha trovato tanti diffidenti oppositori) Parafrasando il noto aforisma di Whitehead, Bernstein spiritosamente scrive:

Dovrebbe essere chiaro a questo punto che potrei avere svolto la mia narrazione nella forma di una serie di note a Platone. Il primo intreccio può essere fatto risalire alla “costruzione” del Platone metafisico, con la sua teoria dei due mondi, la sua denigrazione della corporeità, e la sua celebrazione delle forme eterne e immutabili che costituiscono il telos erotico della dianoia e della noesis [ecco comparire la metafora della linea divisa; n.d.r.]. Questo Platone (talvolta chiamato “platonismo”) è il cattivo a cui possiamo imputare tutto ciò che in seguito è andato storto nella razionalità occidentale. Questo è il Platone che viene attaccato e “decostrui-to” da Nietzsche, Heidegger, Derrida, Rorty. Ma c’è l’”altro” Platone...che è il grande difensore del dialogo parlato e scritto - che è sempre aperto a nuove svolte e non conosce chiusura definitiva

37.

35

Ibidem. 36

Rinvio in proposito al mio Scrivere nell’anima. Verità, dialettica e

persuasione in Platone, Firenze 1994, in part. capp. III-V. 37

R. Bernstein, The New Constellation. The Ethical-Political Horizons

of Modemity/Post Modemity, Cambridge (Usa) 1991, tr. it. Milano 1994, pp.

56-57.

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RORTY E LA VIOLENZA DELLA METAFISICA 47

Questo secondo Platone, come ben si vede, rappresenta non tanto qualcosa di diverso dalla “metafisica” di Vattimo e dal Platone di Rorty,

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48 ATTUALITÀ 1)1 ΠΑΓ ΟΝΙ ·

ma piuttosto qualcosa di diametralmente contrario. Non è un Platone che permette, magari controvoglia, la domanda ulteriore, i possibili dubbi e alternative; ma un Platone la cui essenza consiste appunto nel concedere tali possibilità. Questo è il motivo che impedisce di risolvere tutta la questione, ove si accettasse che il Platone filosofo dell’evidenza incontrovertibile non è il vero Platone, con un puro aggiustamento storiografico. Non a caso Bemstein ha scritto che il primo Platone viene talvolta anche chiamato “platonismo”. Perché in effetti tale è l’immagine prevalente di ciò che vale nella cultura ordinaria come platonico, e Rorty potrebbe perciò continuare a parlare del Principio di Platone più o meno come si parla del teorema di Talete, come del termine migliore per definire un certo oggetto, senza alcuna pretesa storiografica. La sua narrazione potrebbe cominciare, invece che da Platone, da Aristotele o addirittura da Cartesio. Ma il fatto è che se è vera la seconda immagine di Platone, si apre lo spazio per una interessante alternativa, per una narrazione diversa da quella di Rorty, che potrebbe essere capace di salvaguardare la “conversazione” (ciò che soprattutto sta a cuore a Rorty) senza necessariamente approdare al pragmatismo e al decostruzionismo (tra i quali Rorty stabilisce una relazione: Dewey e, sia pure in misura minore, James con Heidegger e Derrida). In tal modo non solo non c’è più la necessità di evadere da Platone; può anche diventare suggestiva la possibilità di tornare a confrontarsi con lui.

2. Non si può dire che siano mancati, soprattutto nel corso di questo secolo, importanti tentativi di sottolineare l’immagine dialogica di Platone (il “buon” Platone di Bernstein). Basti pensare agli studi platonici di Hans Georg Gadamer

38. Ed è in

effetti curioso notare che Rorty, che pure ha assunto Gadamer come una delle sue principali fonti di ispirazione (soprattutto quando scriveva La filosofia e lo specchio della Natura), non abbia per nulla tenuto conto dell’interpretazione di Platone proposta in più modi e in numerosi scritti dal filosofo tedesco, e si sia acriticamente attenuto all’interpretazione tradizionale nel mondo anglosassone. Ma non è di Gadamer che qui vogliamo parlare; nemmeno posso rendere conto del dibattito accesosi nel secondo dopoguerra prò e contro un Platone dogmatico o

38

La maggior parte di questi lavori, come è noto, è già da tempo

disponibile in italiano: Studi Platonici I e II (Casale Monferrato,

rispettivamente 1983 e 1984). Cfr. anche L’anima alle soglie del pensiero

nella filosofia greca, Napoli 1988. V. in proposito R. Bernstein, The New

Constellation, p. 220: «Sono pienamente d’accordo con Gadamer quando

rimprovera cortesemente Heidegger per il fatto di perpetuare il mito del

’platonism’».

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ROR'IY E Ι .Λ VIOLENZA DELLA METAFISICA 49

problematico. Prenderò invece in considerazione, a titolo di esempio significativo, il recente lavoro di uno studioso americano di filosofia antica, il cui scopo è proprio quello di difendere Platone da interpretazioni come quella accolta da Rorty. Mi riferisco al notevole volume di David Roochnik dal tito lo già di per sé evocativo The Tragedy of Reason

39.

Critici come Nietzsche e Heidegger, esordisce Roochnik, hanno accusato il logos (quel logos che sta alla base della “disumana” tecnica contemporanea) di essere la radice ultima del progetto cartesiano. Inoltre essi hanno considerato Platone come l’iniziatore di quella infelice e ininterrotta tradizione logocentrica che giunge sino a Cartesio. Ma anche ben oltre Nietzsche e Heidegger, prosegue l’A., la medesima analisi è stata spesso ripresa in numerosi ambienti della speculazione contemporanea. Roochnik cita in proposito un volume collettaneo del 1987, dal titolo After Philosophy, in cui sono compresi scritti di autori importanti e diversi come Rorty, Foucault, Derrida, Habermas, Davidson, Dummett e Putnam, tutti però d’accordo nella loro opposizione alla “Platonic Conception of Truth” (questa espressione, maiuscole comprese, è di Rorty)

40.

E chiaro che per Roochnik Platone non aveva affatto quella concezione della verità che qui gli viene attribuita. Ma qual è l’immagine alternativa che egli propone? L’obiettivo di Roochnik consiste nel riconciliare Platone, se così si può dire, con la fonte principale di tutta questa serie di critiche, cioè Nietzsche. In un libro di qualche anno fa che ha suscitato un certo interesse anche presso i filosofi non antichisti

41, Martha Nussbaum ha

sostenuto che Platone può essere considerato il filosofo antitragico per eccellenza, dal momento che i dialoghi costituiscono (traduco una sintesi efficace di Roochnik) “Rifiuti iper- razionali della fragilità e del pathos irripetibilmente bello di essere uomini”

42.

L’attacco di Roochnik consiste nel negare questa tesi. Egli non “difende” Platone dimostrando che nei dialoghi è all’opera una razionalità diversa (cioè più “morbida”) di quella normalmente accreditata alla tradizione Platone-Cartesio-(Kant), ma accettando l’importanza etico-conoscitiva della dimensione tragica contro ogni razionalismo totalizzante, e dimostrando che in Platone esistono dei presupposti “tragici” capaci di mettere in

39

The Tragedy of Reason- Toward a Platonic Conception of Logos, New York and London 1991.

40 Ivi, pp. X-XI; l’argomento è trattato più a fondo nel corso del libro, per

es. pp. 95-96. 41

The Fragility of Goodness. Luck and Ethics in Greek Tragedy and

Philosophy, Cambridge 1986 (tr. it. Bologna 1996). 42

The Tragedy of Reason, p. XI.

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ROR'IY E Ι .Λ VIOLENZA DELLA METAFISICA 50

crisi l’efficacia e il potere della razionalità in generale43

.

43

Ibidem.

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51 ATTUALITÀ DI PLATONK

Se dunque Roochnik ritiene che Rorty muova le sue critiche ad una immagine sbagliata di Platone, questo non significa che l’immagine “giusta” potrebbe andare d’accordo con l’idea che ha della filosofia il filosofo americano. E noto infatti che Rorty, pur facendo proprio il decostruzionismo esplicito o implicito nell’opera di Nietzsche, Heidegger e Derrida, tuttavia si distacca da questi autori proprio perché rifiuta quel pathos e quella tragicità che a tali posizioni sono legate

44. Per Rorty la filosofìa

oggettivistica, speculativa, “platonico”- cartesiana deve trasformarsi in gioco e metafora, in poesia e narrazione: non certo in tragedia e pathos. Anche la celebre interpretazione derridiana del Fedro platonico

45 sarebbe agli occhi di Rorty, in

quest’ottica, qualcosa di troppo. Per Derrida la filosofìa (platonica) si riduce necessariamente a scrittura e a metafora perché il linguaggio umano non è capace di evocare l’origine assente. Ma è anche vero che la consapevolezza di questa assenza non può essere espulsa, e perciò il senso del tragico rimane presente in tutta la sua forza

46.

Ma torniamo a Roochnik. Che veste assume, in Platone, la tragedia del logos? Mediante un percorso che passa non solo attraverso Platone, ma anche Aristotele, Cartesio, Spinoza, Derrida, Rorty (un percorso che qui non possiamo certo seguire nei dettagli), Roochnik arriva a concludere che la ragione filosofica non è in grado di difendere la propria verità in modo cristallino, non è in grado di esorcizzare il poeta, il sofista e il retore. La filosofia affonda le sue radici nel desiderio, cioè nel desiderio di sconfiggere la retorica e la sofistica mediante il coglimento della verità. Ma anche la verità, rappresentata in Platone dalle idee, è solo un prodotto del medesimo desiderio. Da qui nasce la tragedia della ragione.

Ci si potrebbe chiedere se l’immagine della filosofia di Platone sopra delineata sia corretta. Io credo di no. Se la verità è oggetto di reminiscenza, significa che deve esistere prima del desiderio, indipendente da esso, e non può essere un suo

44

Cfr. in particolare i saggi, compresi in Scritti filosofici II, in cui Rorty

cerca di ricondurre questi autori all’interno della tradizione pragmatista (a

titolo indicativo, cfr. pp. 39-163). C’è però almeno un’eccezione. In La

filosofia dopo la filosofia, p. 53 Rorty ammette che una cultura

consapevole della sua finitezza e tuttavia priva di pathos è probabilmente

impossibile. Ma questa fugace ammissione rimane senza conseguenze

apprezzabili. 45

J. Derrida, La pharmacie de Platon, “Tel Quel” 32-33 (1968), seconda

versione in La dissémination, Paris 1972 (tr. it. Milano 1989, pp. 101-197) 46

Cfr. anche J. Derrida, Violence et métaphysique. Essai sur la pensée

dEmmanuel Lévinas (tr. it. in La scrittura e la differenza, Torino 1990, p.

130): “se la scrittura è seconda, non c’è nulla tuttavia che venga prima di

essa” (dove si conferma appunto che la scrittura è seconda).

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ATTUALITÀ DI PIATONE 52

prodotto (cioè non esiste neppure, come motivo tragico, la possibilità che sia solo questo). Né tale visione è compatibile con i principi etico-politici di Platone. Lo stesso Roochnik deve ammettere che la sua lettura di Platone finisce per inclinare verso lo scetticismo. E vero che non è lo scetticismo antitragico di Pirrone ma uno scetticismo aperto alla domanda

47. Ma le sole

domande non sarebbero mai capaci di sostenere alcun progetto eticopolitico (tanto meno un progetto ambizioso come quello platonico): per fare questo ci vogliono le risposte. Platone in realtà non ha alcun dubbio sul fatto che queste risposte ci siano, che la verità esista. Il lato tragico della filosofia non si trova qui, ma altrove: nella consapevolezza che non posso promuovere in forma tecnica e controllata il passaggio da me a un altro di quella che so essere la verità, e che come tale esiste ed appare solo per me

48.

Per denominare l’aporia ora evocata è opportuno, in ogni caso, eliminare la nozione di tragico. L’opposizione indicata da Roochnik fra una ragione trasparente, esaustiva e violenta, e l’ambigua tragicità di una ragione che non riesce mai a raggiungere gli oggetti del suo desiderio, non tiene conto delle possibilità intermedie. Per Platone l’esercizio della ragione non è facile e trasparente come vorrebbe l’immagine tradizionale, e non è tragico come vorrebbe Roochnik. E “semplice- mente” difficile. Ed è difficile perché è difficile maturare una persuasione sufficiente in rapporto a verità e principi che trascendono la dimensione mondana (sono “metafisici”). Io credo che questa metafìsica sia la giusta chiave di lettura per capire che cosa si deve mettere come “immagine di Platone” al posto dell’immagine “errata” attiva nella mente di Rorty.

3. Di che metafìsica si tratta? Se analizziamo un po’ più a fondo il problema dei rapporti fra filosofìa e metafisica, possiamo facilmente cogliere la presenza di alcune incertezze e ambiguità, di alcune non irrilevanti differenze di definizione. Nella sua recente Introduzione alla metafisica Enrico Berti ha affermato che esistono più generi di metafisica, e che il tratto comune a tutte consiste nell’intenzione di svolgere un discorso intorno alla totalità

49. Quest’ultima determinazione sarebbe

perciò la sola capace di cogliere il significato di metafisica in maniera essenziale. Tuttavia Berti prosegue poi distinguendo tra le metafisiche immanentistiche (filosofie che cercano le cause dell’intero dentro l’esperienza) e le metafìsiche trascendentiste (filosofìe che cercano le cause dell’intero fuori

47

The Tragedy of Reason, pp. 204-205. 48

Ho esposto questa tesi nel libro già citato Scrìvere nell’anima. 49

Introduzione alla metafisica, p. 18.

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RORTY E LA VIOLENZA DELLA METAFISICA 53

dall’esperienza). Né manca di sottolineare che solo a proposito di questo secondo tipo il termine metafisica è usato in senso proprio, cioè conservando il significato di ulteriorità rispetto alla fisica, o al mondo dell’esperienza, espresso nella preposizione metà

50.

Tuttavia

anche per il primo tipo...è ormai consueto parlare di metafisica, alfine di distinguere questa forma di discorso da quante altre non hanno alcuna pretesa di caratterizzare la totalità

51.

Se volessimo perdere tempo sulle parole, potremmo dire che sarebbe forse più appropriato chiamare la riflessione sull’intero semplice- mente filosofia (altrimenti come distinguerla dai saperi regionali?), e usare il termine metafisica solo quando questa riflessione giunge ad affermare l’esistenza di principi trascendenti (rispettando così, come nota anche Berti, la significatività del prefisso metà). Sembra particolarmente inappropriato, segnatamente, parlare di metafisica anche per quei pensatori, come i primi ionici, per i quali il dualismo tra trascendente e immanente non si prospettava nemmeno come possibile (essi erano ancorati a modi di pensiero anteriori a tale distinzione, come l’i- lozoismo: anche in questo caso ha presso alcuni un peso decisivo l’autorità di Heidegger, che almeno sotto il profilo storiografico non andrebbe davvero sopravvalutata).

Se però Berti decide di definire il termine metafisica più genericamente come “discorso intorno alla totalità del reale”, ciò forse non dipende solo dal fatto che si tratta di un uso ormai consueto. In realtà quest’uso è vigente solo in certi contesti, come dimostra il fatto che la maggioranza degli studiosi di filosofia antica evita accuratamente di definire metafìsico un Talete o un Anassimandro. Più importante è probabilmente il fatto che Berti deve scegliere una definizione di metafisica abbastanza ampia per poter raccogliere tutto ciò che in Aristotele, in seguito alle note e controverse vicende editoriali, porta ormai da secoli questo nome. Se in effetti la parola “metafisica” dovesse essere riservata solo al pensiero che muove verso la realtà trascendente, la metafisica di Aristotele potrebbe contenere al massimo la sua teologia, cioè quella che i medievali chiamavano metaphysica specialis, mentre ne verrebbe esclusa la metaphysica generalis, cioè la scienza

50

Ivi, p. 19. 51

Ibidem.

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ATTUALITÀ DI PIATONE 54

dell’essere in quanto essere. Come è noto Berti ritiene, diversamente da altri studiosi, che

vi sia in Aristotele

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ROR'IY E Ι .Λ VIOLENZA DELLA METAFISICA 55

perfetta coincidenza tra la metafisica come scienza della totalità del reale, cioè dell’ente in quanto ente, e la metafisica come scienza del soprasensibile, cioè del divino

52.

Questa coincidenza, giova aggiungere, non deriva per Berti dal fatto che “l’ente in quanto ente coincida con Dio” o viceversa (una erronea interpretazione di Aristotele, che lo studioso italiano ha denunciato in numerose occasioni), ma dal fatto che la metafisica aristotelica si qualifica come scienza delle cause e dei principi primi. In questo senso

Il primo, cioè l’ente in quanto ente, è oggetto della metafisica nel senso che è ciò di cui si cercano i princìpi e le cause prime (Metaph. Γ, 1003 a 31-32), mentre il secondo, cioè Dio, è oggetto della metafisica nel senso che è una delle cause prime dell’ente in quanto ente (Metaph. A, 983 a 8-9)

53.

Ciò non toglie però che in Aristotele le cause e i principi primi dell’essere si distinguano in due ben differenti categorie. Da un lato l’ente primo e supremo, cioè il motore immobile, di cui si può dire che è trascendente (tralascio qui le possibili obiezioni), dall’altro le strutture funzionali dell’essere (materia, forma, ecc.), di cui si deve dire piuttosto che sono trascendentali e non trascendenti (questi due termini sono usati in un contesto simile dallo stesso Berti, anche se ovviamente non bisogna confondere il trascendentale di Aristotele con quello di Kant). Da questa diversità deriva una conseguenza assai rilevante: del motore immobile, proprio perché trascendente, l’uomo non può mai acquisire una informazione completa, mentre questo obiettivo è una meta realisticamente conseguibile dalla scienza dell’essere in quanto essere

54.

Proviamo ora a chiederci, in base alle differenziazioni sopra illustrate, in quale genere di metafisica si debba inserire la filosofia di Platone. Se prendiamo in esame l’interpretazione che abbiamo chiamato tradizionale a cui si richiama Rorty, non può non saltare agli occhi un fatto curioso. La metafisica di Platone vi appare descritta come quella filosofia che ha individuato delle strutture soggettive e oggettive capaci di comprendere in modo scientifico ed esaustivo la totalità del reale; cioè come una metafisica che rientra a pieno titolo nel canone “largo” proposto da Berti, ma in cui è del tutto assente l’indicazione essenziale contenuta nella preposizione meta. Nell’immagine di Platone

52

Ivi. p. 11 53

Ibidem. 54

Cfr. E. Berti, Profilo di Aristotele, Roma 1979, pp. 206-207 e 218-219.

Page 66: Franco Trabattoni

ATTUALITÀ DI PIATONE 56

accolta da Rorty non v’è alcun accenno alla trascendenza delle idee, ed è solo per questa mancanza che il platonismo può divenire il prototipo di un sapere bloccato nella fissità del dogma, violento perché indiscutibile e perentorio. L’abbagliante presenza dell’essere (ancora Heidegger!) di cui parla Vattimo (per la verità senza riferirsi in quel luogo a Platone) e la possibilità evocata da Rorty di “maneggiare idee chiare e distinte”, non tengono conto del fatto che l’uomo per Platone non è mai in pre-senza del vero essere, non ha mai la possibilità di vedere le idee in modo chiaro e distinto, né tanto meno di “maneggiarle”. E questo un motivo sul quale Platone torna con particolare insistenza: si pensi anche solo al Fedone, alla Repubblica (l’allegoria della caverna) e al Fedro. In base a questo errore di prospettiva Platone diviene il padre di una “metafisica” che non è affatto una metafisica, ma piuttosto una epistemologia (come è noto la dialettica epistemologia-ermeneutica è uno dei Leitmotiven del libro più famoso di Rorty), oppure, se vogliamo usare la classificazione di Berti, una “metafisica dell’immanenza”.

Io sono persuaso (ma non sono il primo né il solo55

) che la radice di questo equivoco derivi da una più o meno consapevole, e comunque assai antica, sovrapposizione del modello filosofico di Aristotele a quel lo di Platone. Non rientra ora nei nostri obiettivi discutere se la teologia di Aristotele possa essere veramente chiamata una metafisica della trascendenza. Che tale sia però la scienza dell’essere in quanto essere, è certamente improbabile, dal momento che per Aristotele questo oggetto del sapere (cioè quello che abbiamo chiamato il trascendentale, le strutture concettuali dell’essere) è pienamente disponibile alla conoscenza dell’uomo. In effetti Aristotele ha conservato l’intemporali- tà dei concetti platonici, ma ne ha eliminato la trascendenza, spostandone la collocazione dalla metafisica alla gnoseologia. Tali concetti non esistono al di là della dimensione sensibile, ma ne costituiscono gli attributi: attributi che l’uomo può effettivamente cogliere mediante l’intelletto. Così si apre per l’uomo, già nella sua dimensione mondana (che poi è a mio avviso l’unica in cui Aristotele credeva) la possibilità di attingere presto o tardi le strutture intemporali e invarianti della realtà

56.

55

Osservazioni di tale tenore sono state svolte da Gadamer (cfr. ad es.

Platons Dialektische Ethik, tr. it. Studi Platonici I, p. 10). 56

Opportunamente Roochnik: “I think thè subsersives [se. Rorty,

Derrida, ecc.; n. d. r.] are wrong in their understanding and evaluation of

Platonism. In generai I think they have too thoroughly assimilated Plato to

Aristode. It is indeed true that Plato stands opposed to thè subversive’s

Page 67: Franco Trabattoni

RORTY E LA VIOLENZA DELLA METAFISICA 57

Nasce la filosofia come epistemologia e come scienza rigorosa. Che è poi la filosofia presa di mira da Rorty, come scienza

che coniuga il rigore argomentativo, fondato su un ricorso a criteri pubblicamente condivisi, con la capacità di pronunciarsi su questioni di suprema rilevanza per le nostre vite. L’immagine tradizionale della filosofia è quella di una disciplina che (un giorno) produrrà risultati incontestabili in relazione a questioni di supremo interesse

57.

E superfluo aggiungere che questo non è Platone. E vero che Platone riteneva dovere della filosofia pronunciarsi su questioni di supremo interesse, e che avrebbe anche accolto con entusiasmo la scoperta di un algoritmo in grado di risolvere in modo incontestabile i nostri problemi filosofici. Platone pensava anche, per usare ancora una espressione di Rorty, che

se la teoria filosofica ci avesse insegnato a riconoscere la realtà oltre le apparenze saremmo stati in condizione di poter aiutare meglio gli altri esseri umani

58.

Ma questi sono desideri tutt’altro che scandalosi. Se ne possono scandalizzare solo quanti ritengono che noi uomini dovremmo rifiutare il possesso di una verità incontrovertibile anche qualora fosse disponibile, e dovremmo preferire la nostra contingenza, la nostra libertà di sbagliare. Chi ragiona in questo modo proietta sulla verità i connotati negativi del dogmatismo oppressivo, generato da verità sedicenti assolute ma che tali naturalmente non sono. Il dogmatismo è spaventoso solo per il motivo che non possediamo alcuna verità incontrovertibile. Solo chi capisce questo presupposto si colloca nella posizione adatta per capire la metafisica di Platone. Altrimenti succede che da un errore nascano altri errori. Ci si scandalizza del fatto che Platone abbia desiderato conoscere una verità incontrovertibile, e l’impressione negativa generata da questo scandalo porta erroneamente a credere che Platone abbia effettivamente costruito un sapere assoluto e definitivo. Ma intanto si è persa per strada la metafisica, ci si è dimenticati che per Platone il sapere assoluto, per quanto desiderabile, non può essere attinto nella dimensione mondana. Questa “dimenticanza” (intesa letteralmente come perdita di un sapere già posseduto) appare

poeticism. But he does not do so in thè same way as his student. Aristotle

is thè great theoretician who articulates a vision of a world in which

naturai and stable structure can be ratio- nally discovered” (The Tragedy

ofReason, p. 95). 57

R. Rorty, Pragmatismo senza metodo, in Scritti filosofici I, p. 101. 58

La filosofia dopo la filosofia, p. 144.

Page 68: Franco Trabattoni

ATTUALITÀ DI PIATONE 58

in qualche modo anche negli scritti di Rorty. Pur avendo più volte affermato che Platone è il progenitore degli epistemologi, bersaglio ultimo del pensiero decostruttivo, in un suo studio su Derrida Rorty paragona inopinatamente il filosofo francese a proprio Platone:

Chiunque si metta a leggere Platone alla ricerca di argomenti rigorosi va incontro a una delusione. Credo che accada lo stesso con Derrida

59.

Ma se è vero che questo è Platone, perché si tenta di irrigidire il platonismo nelle distinzioni (peraltro poco rigide già in Platone) tracciate nella metafora della linea? O ancora. Secondo Rorty

Platone concluse che le condizioni di possibilità del mondo materiale devono essere immateriali

60.

e affermò, con Kant, che il sublime esiste fuori dal tempo61

. Né Rorty osa aggiungere che la conoscenza umana abbia accesso, per Platone, a queste condizioni immateriali, o che possa evadere fuori dal tempo. Ma allora perché ritenere Platone il capofila del pensiero dogmatico? Perché far risalire a lui la nascita dell’epistemologia? Perché trascurare sistematicamente il riferimento alla trascendenza implicito nella metafisica (il prefisso metàJ?

Eppure questo è un dato assolutamente indispensabile per valutare la filosofia di Platone, o anche la metafisica in generale, per quello che essa contiene di più essenziale. Nella situazione paventata da Vattimo di cui abbiamo riferito all’inizio, la metafisica si configura come “presenza perentoria dell’essere”, come qualcosa che “si dà nell’evidenza incontrovertibile che non lascia più adito a ulteriori domande”, come “un’autorità che tacita e si impone senza “fornire spiegazioni”. Anche solo una lettura superficiale di queste frasi fa subito saltare agli occhi che questa immagine della “metafìsica” è l’esatto contrario dell’idea di filosofia accolta da Platone, in cui da un lato l’incontro con l’essere perentoriamente presente è riservato all’anima disincarnata

62 (cioè non è appannaggio dell’uomo in quanto

mortale), dall’altro la filosofia è descritta proprio come quella disciplina che si apre indefinitamente alla domanda, e il filosofo

59

Derrida è un filosofo trascendentale ?, in Scritti filosofici II, p. 166. 60

Wittgenstein, Heidegger e la reificazione del linguaggio, ibid., p. 78. 61

La filosofia dopo la filosofia, p. 129. 62

Si veda ad esempio il Fedone (66 a sgg.), dove si dice che la

conoscenza dell’idea è accessibile solo dopo la morte, o il celebre mito del

Fedro, in cui viene ribadito il medesimo concetto.

Page 69: Franco Trabattoni

RORTY E LA VIOLENZA DELLA METAFISICA 59

come colui che è in grado di fornire spiegazioni63

. Proprio perché la verità è altrove, per tale motivo il filosofo non è in grado né di bloccare la domanda né di imporre il silenzio; né tanto meno ha il diritto di imporsi con la violenza.

63

Fedro, 275 d sgg.

Page 70: Franco Trabattoni

ROR'IY K IΛ VIOLENZA DELLA METAFISICA 60

Possiamo ottenere una controprova di questo fatto attraverso il confronto con Aristotele. Il libro Γ della Metafisica ha uno scopo per così dire introduttivo in rapporto allo studio dell’essere in quanto essere (cioè di quella che per comodità possiamo chiamare la metaphysica gene- ralis). Nel terzo capitolo di questo libro Aristotele afferma che compete alla scienza dell’essere in quanto essere studiare anche gli assiomi, e in particolare quello fra tutti più generale, cioè il principio di non contraddizione. Non mi dilungherò certamente ora a mostrare come Aristotele procede in questa discussione. Mi interessa invece notare, in accordo con Roochnik, che difficilmente si può parlare di vero dialogo. Il negatore del principio di non contraddizione può scegliere tra tacere o venire confutato non appena proferisca parola: in nessuno dei due casi c’è spazio per una vera e propria dialetticità persuasiva

64.

L’argomento di Aristotele, insomma, manifesta una verità perentoria capace di imporre il silenzio e di interrompere il dialogo. Il motivo per cui ciò è possibile consiste nel fatto che per Aristotele la verità filosofica è già qui e non altrove. L’assioma può essere stabilito senza residui perché nessuna sua parte sconfina oltre l’esperienza sensibile. Nella metafisica di Platone le cose stanno molto diversamente. Essa si carat-terizza non solo come una metafisica della trascendenza, cioè una filosofia che fa appello a principi ulteriori rispetto all’esperienza mondana; ma come una filosofìa in cui la realtà trascendente è proprio il concetto, cioè la verità stessa. Nella filosofia di Platone non si distinguono una metaphysica generalis da una metaphysica specialis, perché ciò che essa afferma di trascendente sono proprio quei concetti universali che permetterebbero, se fossero immanenti, di comprendere la realtà in modo almeno potenzialmente esaustivo (la metaphysica generalis). Così la metafisica di Platone finisce per dire semplicemente che esiste un sapere assoluto da cui il sapere umano dipende (la sophia), ma che questo sapere assoluto non è accessibile all’uomo (che deve accontentarsi della philo-sophia)

65. Ed è evidente che la philo-sophia,

proprio per la sua connessione essenziale con la fallibile temporalità dell’essere umano, non può mai figurarsi come violenza o come dogmatismo, ma deve costantemente rimanere aperta aH’indefinita possibilità di domandare e rispondere (il dialogo).

4. Si è così mostrato che il platonismo non ha affatto un rapporto essenziale con l’epistemologia, o con la metafisica

64

The Tragedy of Reason, p. 150.

65 Cfr. Fedro 278 d.

Page 71: Franco Trabattoni

RORTY E LA VIOLENZA DELIA METAFISICA 61

intesa come conoscenza esaustiva del mondo, ma ha invece un rapporto essenziale con il dialogo. Ma di che dialogo si tratta? Più precisamente. La particolare natura della metafisica platonica non finisce forse per far scomparire il sapere, e mettere al suo posto il dialogo inteso come conversazione “democratica”, per natura non conclusiva e provvista solo di valore retorico o edificante? Il problema è straordinariamente ampio, e anche molto discusso, e non può essere affrontato con ampiezza in questa sede. Qui cercherò soltanto di orientare l’analisi verso una risposta, esaminando due proposte avanzate in anni recenti.

In un interessante articolo dal titolo Plato s Metaphilosophy: Why Plato Wrote Dialogues

66, Charles

Griswold cerca di dimostrare che Platone ha scelto di scrivere in forma dialogica perché consapevolmente preoccupato delle contraddizioni autoreferenziali cui si va incontro quando si cerca di dimostrare, “metafilosoficamente”, la necessità della filosofia. Se in effetti si tenta di fare questo, si sta già facendo filosofia, e si finisce così per presuppone precisamente quello che si vorrebbe dimostrare. Agisce qui lo stesso motivo che ha spinto Hegel a dialettizzare la filosofia, dal momento che non si può imparare a nuotare prima di entrare in acqua. Il dialogo sarebbe dunque il mezzo scelto da Platone per fare della metafilosofia in maniera dialettica, invitando il lettore alla riflessione non già con inefficaci appelli diretti (autoreferenziali), ma conducendolo dall’interno (indirettamente) a maturare determinate posizioni. E questo il dialogo filosofico, inteso come ricerca comune del sapere o della verità. E anche vero però che questa strategia è praticabile solo con chi accetta di sottomettersi a tale genere di dialogo. Che fare invece con chi lo rifiuta? con chi “professes no care for thè Truth” e “no interest in thè love of wisdom”?

67

Questa domanda ha di mira i decostruzionisti come Derrida e (soprattutto) Rorty, che non accettano l’esistenza di un qualsiasi genere di universale prelinguistico anteriormente al linguaggio (la scrittura per Derrida, la conversazione per Rorty). Contro questi avversari Griswold adotta una strategia modellata sul tipo di quella con cui Aristotele confuta i negatori del principio di non contraddizione (ancora il libro Γ della Metafisica) cioè dicendo che presuppongono precisamente ciò che vogliono negare. Secondo Griswold la stessa attività decostruzionista (ad es. la “conversazione” di Rorty) finisce per presuppone comunque “some claim to truth”

68, in modo tale che la pretesa dei

66

In AA.W., Platonic Writings Platonic Readings, New York-London

1988, pp. 143-167. 67

Ivi, p. 165. 68

Self-Knowledge in Plato’s Phaedrus, New Haven-London 1986, p. 237.

Page 72: Franco Trabattoni

ATTUALITÀ DI PLATONK 62

decostruzionisti di eliminare qualunque riferimento alla verità si rivela del tutto inconsistente (potremmo dire, nei termini di Aristotele, non che essi si contraddicono, ma che non dicono nulla). Questo genere di strategia è stato già più volte adottato

68

Cfr. ad es. J. Habermas, Moralbewuftein und kommunikatives

Handeln, Frankfurt a. M. 1983 (tr. it. dal titolo Etica del discorso, Roma-Bari

19892, pp. 23, 36).

Page 73: Franco Trabattoni

RORTY E LA VIOLENZA DELIA METAFISICA 63

*

dagli avversari dei decostruzionisti, per esempio da Habermas, che insieme ad O. Apel ha cercato di dimostrare l’ineluttabilità del dialogo sotto pena della cosiddetta “contraddizione performativa”

54 (che poi non è altro, come ha mostrato Berti

69,

che la riedizione moderna dell’argomento aristotelico di Metaph. Γ).

Ma non è questo il punto che qui ci interessa. Griswold accusa Rorty (a mio avviso giustamente) di separare in maniera troppo netta la filosofia dalla vita prefilosofica, senza vedere quante assunzioni teoriche generali sono già implicite nel nostro agire quotidiano

70. Attraverso una dettagliata analisi del Fedro,

egli giunge a stabilire che il dialogo platonico è in grado di avviare l’interlocutore verso l’autoconoscenza, e dunque verso il riconoscimento di ciò che nel nostro modo di conoscere e di agire è già presente in forma implicita, e che sia pure in modo molto parziale si manifesta anche alla visione non filosofica (si pensi alla visione della bellezza descritta nel Fedro). Il dialogo, afferma Griswold, è da sé solo sufficiente a produrre questo sapere, a restituire un contesto che è già presente

71. L’unica

condizione che si richiede è che almeno uno dei due interlocutori (in questo caso ovviamente Socrate) abbia passione per la “self-knowledge”

72.

Tutta questa ipotesi sembra però mal conciliarsi con ciò che accade concretamente nei dialoghi, in cui il sapere non è mai il prodotto del dialogo stesso, ma emerge come l’esito accuratamente preparato dal personaggio che conduce la discussione (in genere Socrate). In altre parole si tratta sempre, per usare una espressione di Th. Szlezàk, di un Gesprach unter Ungleichen

73. Griswold cerca di aggirare questa

obiezione sostenendo che il dialogare raccomandato da Platone non è necessariamente quello esemplificato nei suoi dialoghi. In essi manca, in particolare, la conversazione tra due maturi filosofi, sul tipo di quelle che accadono, se pure non di frequente, anche nel mondo contemporaneo. Un dialogo di questo genere non può concettualmente mancare, conclude Griswold, nel paradigma di un dialogo come quello platonico, in cui dialettica e filosofia sono inseparabili

74. Ecco un classico

69

E. Berti, Aristotele nel Novecento, Roma-Bari 1992, pp. 239-242. 70

Plato’s Metaphilosophy, pp. 165-166. 71

Self-knowledge, p. 240. 72

Ivi, p. 237. 73

Th. Szlezàk, Gespràche unter Ungleichen. Zus Struktur und

Zielsetzung der pla- tonische Dialoge, “Antike und Abendland” 34 (1988), pp.

99-116. 74

Self-knowledge, p. 225. 74

Ivi, p. 237. 74

The Tragedy ofReason, p. 142.

Page 74: Franco Trabattoni

ATTUALITÀ DI PLATONK 64

caso

Page 75: Franco Trabattoni

65 ATTUALITÀ 1)1 PLATONE

di un procedimento inaugurato per primo nientemeno che da Aristotele (il quale peraltro era incolpevole, perché la sua intenzione non era certo quella di esporre il pensiero di Platone): un interprete attribuisce a Platone anche quello che Platone non dice, ritenendolo deducibile a priori da quello che dice, sulla base della propria interpretazione. Nel caso di Griswold il motivo di tale operazione è ben chiaro. La conversazione liberale tollerante e democratica di cui Rorty si è fatto paladino, e che per Griswold può sembrare il naturale risultato del modo in cui il dialogo è praticato nel Fedr(P

l, si può

tranquillamente riconciliare con il dialogo platonico, a patto che entrambi facciano almeno una concessione. Il fautore della conversazione deve ammettere, per non cadere nella contraddizione performativa, che il suo modo di discutere implica qualche minimo presupposto di carattere universale (contro il decostruzionismo radicale). Il fautore del dialogo platonico deve concedere, per parte sua, che questo insieme di presupposti vengano alla luce proprio e solo con la conversazione, che il dialogo permette di avvicinarsi alla verità pur rimanendo un dialogo fra uguali, lontano da ogni tipo di dogmatismo o anche solo di insegnamento. Poiché non accetta né che il dialogo sia incapace di avvicinarsi alla verità (pregiudizio in favore deH’illuminismo), né che ci sia vero dialogo se non tra uguali (pregiudizio in favore della democrazia), Griswold è costretto a dire che la causa dell’apparire della verità è il dialogo stesso. Ora, che questo sia vero in generale è discutibile (ma certo non ne discuteremo qui). Quello che invece è certo è che non è questo il modo in cui Platone intendeva il dialogo. In effetti Griswold è obbligato ad ammettere che il modo di dialogare descritto nel Fedro non corrisponde a ciò che Platone ha realmente fatto in tutti gli altri dialoghi. Ma la cosa di gran lunga più probabile, naturalmente, è che Griswold non abbia interpretato il Fedro nel modo giusto.

Diverso, anche se parzialmente condotto mediante strumenti e personaggi simili, è il modo scelto da Roochnik per affrontare la questione. Nell’ultimo capitolo del libro che abbiamo sopra citato, Roochnik esordisce con una definizione di dialogo filosofico, e poi/éi sforza di dimostrare che tale dialogo è impossibile. E opportuno rilevare, anzitutto, che con la sua definizione di dialogo Roochnik vuole cogliere qualcosa di importante e di triviale al tempo stesso. Non si tratta, in altre parole, di una concezione filosofica così altamente specifica da rendere tutto sommato poco interessante la discussione in proposito, ma di un dialogo di cui gli uomini hanno un vero interesse a conoscere la natura e le possibilità. Roochnik definisce il dialogo filosofico come una conversazione in cui due persone entrano in disaccordo riguardo “a fundamental issue”, e cercano di risolvere il problema in questione

62.

Page 76: Franco Trabattoni

ATTUALITÀ DI PIATONE 66

Tre sono dunque le condizioni che rendono possibile un dialogo filosofico: 1) che sia un dialogo tra uguali; 2) che siano in gioco delle assunzioni fondamentali su cui c’è disaccordo; 3) che si tenti di superare questo disaccordo. Ora, se l’interlocutore accetta questa definizione di dialogo, può essere o non essere d’accordo su determinate “assunzioni fondamentali”. Se è d’accordo, non c’è dialogo; e si è in disaccordo, ugualmente non c’è dialogo: c’è, sostiene Roochnik, o guerra o silenzio. In effetti per trovare un accordo bisogna presto o tardi trovare un principio sul quale entrambi gli interlocutori convengono. Ma se v’è disaccordo sulle “assunzioni fondamentali”, questo principio non può essere mai trovato. Se viceversa si tenta di contestare la definizione di dialogo sopra formulata, si cade in un circolo vizioso. Tale è per Roochnik la situazione che si verrebbe a verificare in un ipotetico dialogo con Rorty. Rorty contesta la definizione di dialogo sostenendo che non esistono fundamental issues. Ma un sostenitore di quel tipo di dialogo non può entrare in conversazione con Rorty su questo problema, perché si tratta appunto di una questione fondamentale del tipo di quelle che Rorty rifiuta. E qui ci fermiamo. In breve e in pratica: Roochnik ritiene che per quanto riguarda le assunzioni fondamentali, sul tipo di quelle che stanno alla base delle nostre generali impostazioni di comportamento, non è possibile un vero dialogo tra uguali volto a trovare l’accordo. Ciò è dimostrato a suo parere da quello che accade nella vita reale

75; ed è anche

confermato da autorevoli dottrine epistemologiche come quella di Th. Kuhn (mi riferisco all’incommensurabilità dei paradigmi

76).

L’esempio classico scelto da Roochnik per illustrare questa situazione lo abbiamo già fatto. Sul principio di non con-traddizione è possibile e anzi necessario addivenire a un accordo, ma questo accade senza che vi sia un vero dialogo.

Le analisi di Roochnik, che certamente possono essere oggetto di critica e di discussione, possono però anche servire in prima approssimazione a suscitare dei dubbi riguardo la tesi di Griswold, cioè la possibilità che il dialogo fra uguali, proprio in quanto dialogo, sia capace di far apparire la verità. Ma, ancora una volta, non è questo che qui ci interessa. Ci interessa invece sapere se abbiamo fatto qualche passo avanti per comprendere la natura del dialogo platonico. Io credo di sì. Potrebbe in effetti nascere il sospetto che l’inanità e l’evanescenza del dialogo fra uguali, rimarcata de Roochnik, abbiano un rapporto non casuale con il fatto che questo tipo di dialogo non compare mai in Platone (come lo stesso Griswold è costretto ad ammettere). Platone non era forzato a condividere (e in realtà non

75

Ivi, p. 148. 76

Ivi, p. 142, η. 3.

Page 77: Franco Trabattoni

RORTY K IA VIOLENZA DELLA METAFISICA 67

condivideva) nessuno di quei pregiudizi in favore della democrazia ormai saldamente incorporati nella coscienza delle società liberali. Egli sapeva bene che il dialogo fra uguali non offre di per sé nessuna garanzia, e nemmeno alcuna favorevole precondizione, al raggiungimento della verità. Platone vedeva una chiara dimostrazione di questo fatto in alcuni importanti fenomeni culturali del suo tempo: lo sviluppo della democrazia assembleare in Atene sullo scorcio del quinto secolo, il gusto fine a se stesso che i suoi concittadini provavano nel con-traddittorio giudiziario e nella diatriba sofistica, e che aveva investito anche il teatro tragico (emblematico il caso di Euripide). Platone corregge questi modi di conversazione, a suo giudizio inconcludenti, con il dialogo fra disuguali, cioè tra qualcuno che sa e qualcuno che non sa. Questo dialogo, in cui accade un cambiamento di opinione, in cui uno dei due interlocutori matura una convinzione che lo porta a consentire con l’opinione dell’altro (ne abbia o no avuta egli una in precedenza), è definito da Roochnik come “didactic persuasion, or simply istruction”

77; egli esclude invece che si tratti di dialogo

filosofico. Ma non è evidentemente questa l’opinione di Platone. Ho cercato di dimostrare altrove

78 che nel dialogo platonico il

sapere del maestro non può dipendere, come vorrebbero gli studiosi della scuola di Tubinga, dal possesso di una dottrina ultimativa comunicabile solo oralmente. Tale possesso contraddirebbe infatti l’aspetto più caratteristico della metafisica platonica, cioè l’infinita differenza che esiste fra l’immobile intemporalità del vero e la mobile, diveniente condizione dell’uomo. Questa differenza era ben presente alla mente di Platone. Cosicché, anche se egli giudicava desiderabile per l’uomo il raggiungimento di una verità intemporale, pensare con Rorty che egli abbia tentato di “sottrarsi alla finitezza e alla storia” è un giudizio completamente sbagliato, per il fatto che Platone riteneva questa sottrazione del tutto impossibile (dunque non poteva essere tentata). Di conseguenza, se pure non v’è luogo in Platone a un dialogo democratico tra uguali, ma vi sono sempre maestri e discepoli, il sapere del maestro non può tuttavia consistere nel felice possesso di una verità oggettiva e incontrovertibile. Tale sapere consiste invece nella matura e completa persuasione circa l’esistenza di una verità assoluta, anteriore all’esperienza mondana e ad essa sovraordinata. Questo sapere, non la visione delle idee chiare e distinte, è ciò che fa la differenza tra il pragmatista e il platonico. Ma è una differenza non meno determinante.

77

Ivi, p. 147. Scrivere nell’anima.

Page 78: Franco Trabattoni

RORTY E LA VIOLENZA DELLA METAFISICA 68

Una volta capito che questo è il vero senso del platonismo, è possibile tranciare alla radice la rinnovata controversia tra “sofisti” e “platonici”, ora molto di moda in alcuni settori della cultura filosofica americana

79 e francese. Il pragmatista

(americano) e il decostruzionista (francese) vorrebbero rimandare al mittente platonico l’accusa di relativismo (ai sensi della confutazione di Protagora attuata nel Teeteto) dicendo che qualunque asserzione di verità, dunque anche quella del platonico, è già fin dall’inizio storicamente, culturalmente e linguisticamente determinata, e che nessuno può disporre di asserzioni assolute, o pretendere di esporre il punto di vista di Dio (l’espressione è di Hilary Putnam). Ma il platonico non coltiva affatto questa pretesa. Platone sapeva che la verità è sempre un affare dell’uomo, ed è dunque sempre storicamente condizionata. Il platonico combatte il sofista non perché questi si rifiuta di vedere la verità incondizionata, ma perché questi si rifiuta di ammettere che l’esistenza di una trama di significati universali, ancorché inaccessibile nella sua determinatezza alla coscienza finita dell’uomo, è presupposta in qualunque asserzione di verità e in qualunque dialogo in generale. Il platonico non dice di sapere che cosa sia la giustizia, né crede di poter raggiungere un giorno tale sapere, ma dice che un pragmatista o un sofista non possono discutere con altri su ciò che è giusto senza negare i presupposti fondamentali della loro posizione: nell’atto in cui iniziano seriamente una discussione di questo genere, cessano di essere pragmatisti o sofisti e diventano platonici.

Il segno della presenza di un sapere anteriore alla conversazione è offerto, per Platone, dall’inesausta capacità del maestro, modellato per tale aspetto sul Socrate dei dialoghi della maturità (Fedone e Repubblica soprattutto), di rispondere ad ogni nuova domanda in maniera soddisfacente. Se è vero che Platone sarebbe d’accordo con Vattimo (ci si perdoni l’ardito accostamento) nel ritenere che la filosofia debba essere aperta ad ogni ulteriore domanda, è anche vero che egli sarebbe assai meno disposto di lui ad accontentarsi delle domande soltanto. Platone va in cerca soprattutto delle risposte. Il dialogo fra ineguali è il modo scelto da Platone per articolare una risposta tenendo conto del fatto che la condizione umana non consente accesso a una verità irrefutabile. La verità si manifesta al filosofo come persuasione, e il dialogo fra ineguali è il difficile tentativo di trasformare questa verità in oggetto di insegnamento: tentativo difficile perché la verità non può essere consegnata come un oggetto. Così il sapere filosofico deve rinunciare al sogno di costituirsi come scienza, e

79

Cfr. la recente raccolta di saggi Rhetoric, Sophistry, Pragmatism, ed

by S. Mailloux, Cambridge 1995.

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deve accomodarsi a diventare retorica. Dunque la filosofia di Platone non ha nulla a che fare con la violenza metafìsica e la tecnica distruttiva che secondo alcuni contraddistinguono la tradizione culturale dell’occidente: anche per Platone il destino della filosofìa si consuma in un dialogo che non permette mai la conoscenza, o peggio la visione, di verità extratemporali. Ma questo dialogo non è riducibile alla conversazione edificante di Rorty, perché è consapevole che c’è qualcosa di intemporale prima di qualunque conversazione

80. E un dialogo vincolato

necessariamente alla tolleranza, dal momento che il discorso umano non è mai intemporale. Ma è anche un dialogo che permette di intravedere la verità anteriore alla conversazione, sia pure nei modi transitori e frammentari in cui essa si riflette nella storia. Capitolo III

Platone, Rorty e la consolazione della filosofia81

1. Sofisti timidi e sofisti sfacciati

1. Rileggendo la tradizione della filosofia occidentale da Platone fino a Russell o giù di lì, Rorty si propone di dimostrare la nascita e il consolidarsi di un paradigma epistemologico non solo infondato, ma anche inutile e dannoso. Si tratta dell’idea

80

Che tale sia la vera natura del pensiero platonico è stato ben

compreso, da Vincenzo Vitiello, che spesso richiama nei suoi saggi

l’insegnamento del maestro ateniese. Il filosofo, per Platone, ripiega nel

dialogo e nella politica perché sa di non poter dire la parola che vorrebbe

dire, sa che l’uno non si può predicare perché di esso non v’è esperienza,

né conoscenza, né sensazione né nome. Ma sa anche che da ciò non

deriva che l’uno non c’è. Sa che c’è qualcosa che non può essere ridotto a

relazione ad altro [ho qui parafrasato alcune espressioni tolte da V.

Vitiello, “De Magistro", in Filosofia 94, a c. di G. Vattimo, Roma-Bari 1995,

pp. 37-52 (in part. pp. 46-50)].

81 Platone, Rorty e la consolazione della filosofia,«Arie. Estetica» 5

(1997), pp. 31- 52. Per gli scritti di Richard Rorty citati in questo studio

utilizziamo le sigle seguenti. FSN = Philosophy and thè Mirrar of Nature,

Princeton 1979 (tr. it. Milano 1986); SF1 = Objectivity, Relativism and

Truth. Philosophical Papers - Voi 1, Cambridge 1991 (tr. it., Scritti

filosofici, Voi. I, Roma-Bari 1994); SF2 = Essays on Heidegger and Others

Philosophical Papers, Voi 2, Cambridge 1991 (tr. it. Scritti filosofici, Voi. Il,

Roma-bari 1993); CIS = Contingency, Irony and Solidarity, Cambridge 1989

(tr. it., La filosofia dopo la filosofia, Roma-Bari 1989); Asserzione - Le

asserzioni sono pretese divalidità universale}, in Filosofia ’94, a c. di G.

Vattimo, Roma Baeri 1995, pp. 53-71. Tutte le citazioni si riferiscono alle

traduzioni italiane. 1 Che tale immagine sia scorretta, ho cercato di mostrare in Platone,

Rorty e la "violenza" della metafisica, in «Pratica Filosofica» 10 (1996), pp.

175-197.

Page 80: Franco Trabattoni

ATTUALITÀ DI PIATONE 70

secondo la quale vi sarebbe una essenziale diversità tra soggetto e oggetto, tra io e mondo, tra schema e contenuto (questi ultimi termini sono di Donald Davidson, un filosofo da cui Rorty prende esplicitamente le mosse). Tale diversità è collegata alla persuasione che soggetto, io e schema abbiano la funzione di rappresentare un oggetto, un mondo, un contenuto, che è altro dall’io in quanto ricopre un ruolo unicamente passivo. Il paradigma ora enunciato è espresso da Rorty con l’immagine di occhio della mente, inteso come specchio della natura, ed è ascritto a Platone

1. Enormi sono le conseguenze

che ne risultano riguardo la nozione di verità. A giudizio di Rorty la tradizione filosofica occidentale non si è mai accontentata di una consapevolezza puramente descrittiva, operazionale, del concetto di verità, ma ha sempre cercato di muovere oltre, verso una analisi ulteriore del suo significato. Ne sono nate due opposte concezioni. La prima, tipica del realismo, analizza la verità in termini di corrispondenza fra rappresentazione e mondo: più o meno ciò che gli scolastici, semplificando forse al di là del lecito il pensiero di Aristotele, chiamavano adaequatio rei et intellectus. La seconda, tipica dell’idealismo, consiste nell’accordo delle rappresentazioni fra di loro, sia all’interno di un soggetto che fra un soggetto e un altro. Questa concezione è tipica dell’idealismo appunto nella misura in cui l’idealismo

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71 ATTUALITÀ DI PLATONK

(ma forse sarebbe meglio parlare di fenomenismo) ritiene che la realtà oggettiva sia sempre determinata in modo essenziale dal soggetto, e che perciò una verifica sul tipo di quella proposta dai realisti sia del tutto impossibile. Il primo difetto, comune ad entrambe le posizioni, è per Rorty il mantenimento dell’opposizione soggetto-oggetto, ossia della mente come specchio della natura (né ha rilevanza decisiva il fatto che la natura, aH’interno della posizione fenomenista, è riflessa in modo strutturalmente insufficiente: la cosa in sé, per quanto inconoscibile, è pur sempre una cosa distinta dal soggetto che a lei si rivolge). Il dualismo soggetto-oggetto è a sua volta legato alla persuasione che esista un terzo punto di vista, estraneo sia al soggetto che all’oggetto, da cui giudicare vuoi la corrispondenza fra i due, vuoi la coerenza delle rappre-sentazioni (è quello che Hilary Putnam ha chiamato il punto di vista di Dio). L’inesistenza di questo punto di vista rende non solo inapplicabi li entrambi i criteri di verità, ma rende del tutto fantasiosa la distinzione fra soggetto e oggetto: lo sguardo che vede la realtà divisa fra io e mondo, da quale regione proviene?

82

Se dunque la nozione di verità non è ulteriormente analizzabile (Rorty sostiene che l’aggettivo “vero” è soltanto uno strumento di encomio), risulta evidente che non è più possibile confrontare fra di loro le varie credenze (o visoni del mondo) per stabilire qual è quella vera: ciò implicherebbe infatti quello sguardo da nessun luogo, quel termine di riferimento fisso estraneo al nostro modo di metterci in rapporto con il mondo. Molti critici del pensiero di Rorty hanno rimproverato a questa prospettiva di essere relativistica, e di lasciare tutto quel complesso di opzioni teorico-pratiche su cui si fonda la nostra civiltà completamente indifeso di fronte ad opzioni di genere completamente diverso, e che noi consideriamo indesiderabili (ad esempio il nazismo). Precisamente questo è il problema che qui intendiamo discutere, con tutti i risvolti di carattere etico e politico che gli sono collegati. Nelle osservazioni che seguono il lettore riscontrerà molte coincidenze (segnaleremo di volta in volta le più importanti) con le critiche mosse recentemente a Rorty da Richard Bernstein

83. Ma il discorso che qui intendo fare

è indipendente nella genesi da quello di Bernstein, e i suoi obiettivi (come cercherò di mostrare) sono sensibilmente diversi.

Diciamo anzitutto che Rorty, per difendersi dall’accusa di

82

Intendo ovviamente alludere al celebre titolo del libro in cui Th.

Nagel ha esposto il suo moderato ma netto realismo ( The view from

Nowhere, New York 1986, tr. it. Uno sguardo da nessun luogo, Milano

1988). 83

R. Bernstein, The New Constellation, Cambridge (USA) 1991, in

part. cap. 8,9 (tr. it., da cui citiamo, Milano 1994).

Page 82: Franco Trabattoni

72 ATTUALITÀ 1)1 IMA IONE

relativismo, ha a sua disposizione una via molto comoda. Se consideriamo come espressione classica del relativismo occidentale la tesi, attribuita da Platone a Protagora, secondo cui ogni opinione (nei termini di Rorty “credenza”) è vera, allora è chiaro che Rorty non intende sostenere nulla di simile. Per affermare che ogni opinione sia vera, bisogna comunque credere in una specie di verità universale in cui si risolvono tutte le opinioni; e bisogna anche credere che la tesi secondo cui ogni opinione è vera dovrebbe essere vera in senso assoluto, a danno di tutte le opinioni diverse da essa, e dunque in contraddizione con il suo stesso contenuto. E chiaro che nessuna di queste due posizioni può essere attribuita a Rorty, dal momento che egli rifiuta di assumere qualsiasi punto di vista metafìlosifico: non esiste alcun aspetto della verità che sporga oltre le credenze concrete. Il relativismo, più o meno scettico, è una posizione che può predicare la sua verità solo in modo circolare

84, ma è ovvio che questo rimprovero non si applica a

chi ritiene che non vi sia alcuna verità generale da predicare. Bisogna però anche dire, in secondo luogo, che questo tipo

di replica è un po’ troppo comoda. Chi accusa Rorty di essere un relativista non vuole tanto accusarlo di assumere quella particolare posizione filosofica che è il relativismo, quanto di proporre una filosofia relativa, cioè incapace di difendere con il discorso quella serie determinata di valori che noi consideriamo privilegiati

85. Non si accusa Rorty di ritenere, in linea di

principio, che tutte le culture siano equivalenti (ivi compresa quella del Terzo Reich), ma di concedere al discorso umano strumenti troppo deboli per postulare delle differenze di valore

86. Rorty è in effetti ben lontano dal negare queste

differenze. Esponente di spicco di un certo liberalismo americano di sinistra erede di John Dewey (e dunque avverso a teorie continentali forti come il marxismo), egli crede nella bontà di un buon numero di valori, come la libertà, la tolleranza, il ripudio della crudeltà, il rifiuto della violenza, ecc.

87. Di

84

Cfr. N. Urbinati, Il liberalismo etnocentrico di Richard Rorty, «Rivista

di Filosofia», 46 (1991), pp. 399-425: pp. 408-409. 85

CIS, p. 57; SF 1, pp. 271-272; cfr. F. Restaino, Filosofia e post-filosofia

in America. Rorty, Bemstein, Mac Intyre, Milano 1990, pp. 139-140; G.

Vattimo, Oltre l’interpretazione, Roma-Bari 1994, p. 114 sgg. Vattimo vuole

evitare la "metafisicità del relativismo" definisca l’intrascendibilità delle

interpretazioni come una eredità storica, come un destino a cui

(heideggerianamente) il nostro passato e il nostro presente ci

consegnano. 86

Opportunamente l’Urbinati: «Rorty respinge la critica di

relativismo; tuttavia quando dice che la legittimazione dei nostri principi

morali dipende dall’individuazione della nostra identità etnica, egli fa

un’esplicita professione di relativismo», Il liberalismo etnocentrico di

Richard Rorty, p. 410. 87

Rorty ha sintetizzato il suo "credo politico" in otto punti in Thugs and

Page 83: Franco Trabattoni

RORTY Ε Ι Λ CONSOLAZIONE DELLA FILOSOFIA 73

conseguenza egli non esita a sostenere la superiorità di questi valori sul piano specificamente morale, e a rivendicare il proprio diritto di indignarsi di fronte a fenomeni come il totalitarismo o il razzismo. E chiaro però che questa preferenza e questa indignazione non possono più essere fondate su determinati valori generali, la cui verità o è evidente o può essere dimo-strata, per il buon motivo che per Rorty non esiste alcun tipo di concetti o di verità generale. Si aprono dunque davanti a Rorty due fondamentali possibilità: 1) rinunciare a produrre qualunque tipo di giustificazione; 2) trovare delle giustificazioni che prescindano dalla dialettica particolare/universale (vero in “questo caso” perché vero “in generale”): dialettica che egli ha escluso poiché parte integrante della inutile e dannosa metafisica tradizionale.

Sembra che la posizione di Rorty a tratti inclini verso la prima possibilità, ma più spesso verso la seconda

88. A volte Rorty

pare ammettere che il pragmatista possa giustificare i valori in cui crede solo in modo circolare, e tenta di difendersi sostenendo che anche il realista incorre nel medesimo inconveniente

89. Altre volte ancora rivendica con franchezza il

diritto del pragmatista a non dare nessuna giustificazione filo-sofica, e a interrompere la comunicazione dove non si profila nessuna possibilità di intesa. Prendendo lo spunto da Dewey e J. Rawls, Rorty scrive ad esempio che

la democrazia liberale può cavarsela senza presupposizioni filosofiche

90.

O ancora. I principi dell’illuminismo occidentale in cui noi viviamo e crediamo ci spingono a credere 1) che tutti gli uomini sono uguali e 2) che le tesi diverse da questa hanno dal punto di vista generale la stessa dignità. Allora che fare? Rorty suggerisce di chiudere la discussione semplicemente dicendo che

Noi liberali occidentali crediamo ciò e tanto meglio per noi

91.

Ma la strategia di gran lunga prevalente è quella contraria, che consiste nel trovare giustificazioni alternative a quelle

Theorists, «Politicai Theory» 15 (1987), pp. 564-580.

88 Cfr. Bernstein, The New Constellation, p. 240: Rorty slitta

costantemente da un significato forte di giustificazione a uno più debole; e

mentre rifiuta il primo tipo di giustificazioni, fa ampio uso egli stesso delle

seconde. 89

CIS, p. 4, SF1, pp. 38, 39, 43. Cfr. Bernstein, The New

Constellation, p. 231. 90

SFl,p. 241. 91

SF1, p. 279.

Page 84: Franco Trabattoni

74 ATTUALITÀ 1)1 IMA IONE

proposte dai filosofi fautori dell’oggettività92

. La prospettiva generale secondo cui vengono

92

SF1, p. 44.

Page 85: Franco Trabattoni

ROR'IV K 1Λ ( X ISOLAZIONE DELLA FILOSOFIA 75

allestite queste giustificazioni (che sono naturalmente giustificazioni filosofiche, anche se non inerenti alla filosofìa oggettivistica) è ancora di schietta marca protagorea, e consiste in primo luogo nel sostituire al “vero” r”utile” (questa è la mossa di apertura di qualunque tipo di pragmatismo), e di ritenere, in secondo luogo, che la nozione di utile consenta quel genere di approfondimenti che non sono leciti con la nozione di vero. I pragmatisti

concepiscono la verità come ciò che ci è utile credere... concepiscono lo scarto fra verità e giustificazione... semplice- mente come lo scarto tra ciò che è attualmente utile e quanto si potrà rivelare utile in futuro

93.

In questo senso, precisa ulteriormente Rorty, trovare qualcosa di più vero di ciò in cui crediamo oggi si riduce a trovare qualcosa che crediamo più utile; ed è anche possibile mostrare l’opportunità di modificare la nostra credenza mediante un certo genere di ragionamento, poiché, come testualmente egli scrive,

possono fare la loro comparsa nuove prove, nuove ipotesi, o tutto un nuovo vocabolario

94.

Insomma. Una volta messo da parte il tentativo di trovare giustificazioni di carattere oggettivistico e universale, si apre un ampio terreno per argomentazioni di ordine più debole, cosicché il rimpianto della metafisica sarà consentito solo a chi desidera delle fondazioni dogmatiche e sbrigative, mentre tutti gli uomini normalmente ragionevoli non avranno perso assolutamente nulla

95.

Un altro genere di argomentazione usato da Rorty, che potrebbe essere definito kantiano per la sua affinità con lo schematismo del giudizio pratico in Kant

96, consiste nel mettere

semplicemente a confronto gli effetti che deriverebbero da determinate opzioni etiche (se tutti facessero così, che cosa ne risulterebbe? vivrei di preferenza in un mondo in cui tutti facessero così, o in un mondo in cui tutti si comportassero diversamente?). Si tratta, sia detto ora per inciso, di quello che J. Habermas ha chiamato il «principio-ponte che deve rendere possibile il consenso»

97 (anche in Habermas c’è un riferimento

93

SF1, p. 31. 94

Ibid. Il riferimento è alle note tesi di Th. Kuhn sulle rivoluzioni scientifiche.

95 Cfr. SF1, p. 90.

96 Kant a dire il vero parla di «tipica» del giudizio pratico, perché lo

schema vero e proprio è possibile solo mediante l’intuizione. 97

J. Habermas, Moralbewufitein und kommunikative Handeln,

Frankfurt a. M. 1983 (tr. it. Etica del discorso, Roma-Bari 1989, da cui

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76 ATTUALITÀ DI Ι ΜΑΓ ΟΝΚ

a Kant).

2. La posizione di Rorty può essere sinteticamente riassunta in questi tre punti: 1): ogni volta che dico “vero”, intendo dire “utile a credersi” (per me o per noi); 2) quando dico che una certa credenza è più utile, posso senza contraddizione accontentarmi di dire che è più utile per me o per noi, senza aggiungere altro; 3) oppure posso tentare di persuadere un altro o un’altra comunità, con argomenti non oggettivistici né metafìsici, che la credenza che a me pare utile potrebbe sem-brare utile anche a lui o a loro.

La posizione descritta con 2) è del tutto coerente, come detto, ma eticamente diffìcile da sostenere. Chiameremo questa tesi “opinione del sofista sfacciato”. Sofista è anzitutto colui che non crede possibile confrontare opinioni ed opzioni etico-politiche con il criterio di una verità generale. Perciò il sofista è pragmatista per vocazione, poiché se dal punto di vista del vero qualunque cosa gli è indifferente, non è certo così dal punto di vista pratico: il sofista riconosce che c’è differenza fra ciò che si desidera e ciò che non si desidera, fra ciò che ci appare utile e ciò che non ci appare tale

98. Tuttavia non può costruire una

teoria dell'utile in generale, per la buona ragione che ciò che egli ha abolito fin dall’inizio è appunto l’idea che si possa mai dire qualcosa “in generale”. Cosicché deve accontentarsi di ammettere che l’unico significato lecito di “utile” è quello di “cosa che a me pare desiderabile”. Ed ecco è nato il “sofista sfacciato”, simile per il suo estremismo al Callide del Gorgia platonico. Vuole le cose perché le vuole e basta. Non ha bisogno di giustificarsi. Nei termini di Rorty:

Noi liberali occidentali crediamo ciò e tanto meglio per noi

99.

Precisiamo, in primo luogo, che fra l’acceso individualismo di Callide e questa posizione di Rorty corre almeno una differenza. Rorty ritiene, sulla scia di una tradizione ermeneutica che risale in ultima analisi allo sprito oggettivo di Hegel, che la pretesa di parlare di una essenza umana in generale fuori dalla comunità in cui l’uomo concretamente vive sia del tutto illusoria, e che perciò determinati valori siano giu-stificabili non già.a priori, con metodo trascendentale, ma come prodotti in qualche modo necessitati dalla tradizione cui apparteniamo. Rorty ha chiamato questa sua tesi

citiamo), p. 71.

98 Cfr. ancora Habermas, Etica del discorso, p. 111. Cfr. in proposito

anche E. Berti, Aristotele nel Novecento, Roma-Bari 1992, pp. 239-242. 99

Urbinati ha parlato, a proposito di questa frase, di «compiacimento

narcisistico per l’appartenenza alla propria comunità» (Il liberalismo

etnocentrico di Richard Rorty, p. 422).

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RORTY E LA CONSOLAZIONE DELLA FILOSOFIA 77

“etnocentrismo”, o meglio, con un virtuosismo verbale atto a conservare la fedeltà della sua posizione al pensiero debole, “anti-antietnocentrismo”. Schematizzando molto, questo verrebbe significare che c’è meno “sfacciataggine” nel dire «mi comporto così perché obbedisco a una tradizione in cui sono cresciuto, e all’interno della quale ammetto l’utilità di certi comportamenti», che nel dire «mi comporto così perché io lo ritengo utile»

100. Ma sarebbe difficile ritenere che su questo

divario si giochi una differenza veramente essenziale. Posto che questi siano i valori in cui io giustamente credo come appartenente a una certa comunità, il problema più grave è in effetti quello di sapere quale comportamento io e la mia comunità dobbiamo tenere con un individuo interno alla comunità stessa, o con una comunità esterna, che non ritiene utile credere alle cose in cui credo io, e che accetta di entrare in un conflitto di interessi con me. Usando le stesse parole di Rorty potremmo infatti correttamente scrivere:

Noi nazisti tedeschi (integralisti islamici, comunisti totalitari, imperialisti americani, ecc.) crediamo ciò e tanto meglio per noi.

Perché mai queste comunità non dovrebbero avere lo stesso diritto, se la nozione di verità si riduce a quella di “cosa in cui mi è utile credere”? Che i nazisti credessero utile per loro lo sterminio del popolo ebraico è un dato storico fuori discussione. Ebbene, qualora i nazisti decidessero di entrare in conflitto con noi per far trionfare in maniera più ampia possibile i “valori in cui ritengono utile credere”, noi potremmo cercare di difendere i valori in cui “noi riteniamo utile credere” solo con la forza. Tali sono le conseguenze cui un sofista sfacciato non può assolutamente sottrarsi.

Ma Rorty non è un sofista sfacciato (come Callide e Trasimaco). E un “sofista timido” come Protagora. Protagora, pur affermando che in linea di principio tutte le tesi sono equivalenti, sosteneva per meri motivi di utilità che la democrazia e l’ordinata vita civile sono superiori alla tirannia e all’anarchia. Allo stesso modo Rorty ritiene che la sua prefe-renza per i valori propugnati dalle democrazie liberali non sia del tutto arbitraria, perché esistono molti modi per affermare che sono migliori di altri, per persuadere chi non vi crede della bontà di ciò in cui crediamo noi.

100

Per una critica più ampia e puntuale dell’"etnocentrismo" di Rorty,

con una acuta semplificazione dei possibili risvolti pratici, v. Urbinati, II

liberalismo etnocentrico di Richard Rorty (in part. pp. 416 sgg.).

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78 ATTUALITÀ DI PI ATONE

Ma il problema è quello di stabilire se si possa seguire una prospettiva di questo tipo senza cadere in contraddizione. Tentare di dimostrare, in un modo qualsiasi, che un modo di vita è migliore di un altro, significa già ritenere che esiste una distinzione fra ciò che in generale è migliore e peggiore, anche se non abbiamo a disposizione nessun concetto visibile di bene e di male. Per abbattere la metafisica (o meglio, tutto ciò che Rorty sommariamente indica con questo nome), così come per difendere il pragmatismo, non è sufficiente dire che non esi-stono strutture universali conoscibili (o comunque concretamente raggiungibili); occorre anche mostrare che l’esperienza umana può sopravvivere senza alcun riferimento, nemmeno regolativo, all’universale. In realtà se manca un riferimento all’universale non solo non è più possibile la dimostrazione, ma non sono possibili neppure la persuasione e la conversazione. Ci rimane come unica opzione quella del sofista sfacciato, intollerante nei confronti di chiunque, perché guidato solo dalla volontà di soddisfare i suoi desideri.

3. Possiamo verificare questa circostanza mediante gli stessi scritti di Rorty. Quando egli scrive, in uno dei brani sopra citati, che è possibile migliorare una determinata credenza mediante nuove prove e nuove ipotesi, ci si potrebbe chiedere che cosa è mai una prova o una ipotesi se non un ragionamento che prende le mosse da un contesto potenzialmente universale. Se tra ciò che mi torna utile credere v’è anche la bontà del furto, quale prova potrei trovare per migliorare questa credenza se non un percorso che va dal particolare all’universale (per quanto debole e limitato), che va dalla mia credenza (o del mio gruppo etnico) a una credenza più generale, condivisa almeno da un altro o da un altro gruppo, per cui si afferma che il furto è per lo più (o in molti casi) un male? Esiste forse un altro modo per trovare delle prove?

In altro brano già citato Rorty scarta esplicitamente la nozione di “prove” (evidentemente troppo forte, troppo metafisica)

101, ma gli esempi che allega non riescono tuttavia a

modificare la sostanza del discorso. Tolta la nozione di prova, sostiene Rorty, ci rimangono molti altri modi per dibattere il problema delle nostre credenze. Per esempio, si potrà parlare del problema del male. Ma come si fa a parlare del ciò che è male se non partendo dalla persuasione secondo cui esistono un bene un male in generale (anche se, ovviamente, nessuno ne ha una percezione chiara, cioè nessuno vede con gli occhi della mente quelle entità metafisiche che sono il bene e il male)? Si potrà parlare, continua Rorty, dell’effetto istupidente prodotto dalla cultura religiosa sulla vita intellettuale. Ma come

101

cfr. anche CIS p. 57, dove Rorty utilizza il termine "argomento" ma

subito dopo ne riconosce l’improprietà.

Page 89: Franco Trabattoni

ROR'IY E 1 -Λ ( x )NSOLAZIONE DELLA FILOSOFIA 79

si fa parlare di questo effetto, ancora, se non partendo dalla persuasione che esista qualcosa che è “stupido” in generale? Come si fa a parlare dei pericoli della teocrazia, se non partendo dalla persuasione (anch’essa tipicamente platonica) che esiste qualcosa di “pericoloso” in generale?

Un discorso analogo si legge anche in Contingence, Irony and Solidarity. Una volta scartata, con Davidson e Heidegger (sic), l’alternativa “razionale-irrazionale”, esistono pur sempre molti modi per risolvere l’apparente situazione di stallo tra l’illuminista che chiede delle ragioni, e il liberale ironico, che pur non volendo darne, non per questo rinuncia a parlare. Tali modi, precisa Rorty, sono «tanti quanti sono gli argomenti di conversazione»

102. Ma un breve elenco delle figure messe in

gioco questa volta dà il medesimo, scoraggiante risultato di prima. Contrapporre diversi paradigmi di umanità (il poeta, il prete, ecc.), e domandarsi se la rinuncia a ogni pretesa «validità assoluta» può essere utile per diminuire la crudeltà e l’ingiustizia, si può fare soltanto se esiste un terreno comune all’interno del quale i paradigmi possano venire confrontati, e solo se la crudeltà e l’ingiustizia sono concetti universali anteriori alle differenze di vocabolario

103. Se rinunciamo

all’ideale della validità assoluta, non facciamo in tempo a chie-derci se la crudeltà possa essere diminuita, perché non arriviamo nemmeno a stabilire che la crudeltà sia qualcosa per noi: non possiamo affermare, insomma che esista un significato di crudeltà valido inter- soggettivamente

104.

Per chiarire come il suo lavoro filosofico possa essere critico e propositivo ad un tempo (si parla di «progresso intellettuale»), in altri contesti Rorty lo definisce come una attività di ridescrizione e di ritessitura. Il pragmatista (o il liberale ironico) risponderà alle critiche provando a

mettere in cattiva luce il vocabolario in cui sono formulate quelle critiche, e così ... cambiare

102

CIS, pp. 65-66. 103

Come ha notato Ch. Taylor, «l’idea di inventare ex novo una

distinzione qualitativa non ha alcun senso. L’individuo, infatti, può

adottare soltanto distinzioni che abbiano senso per lui all’interno del

proprio orientamento di base» (Sources of thè Self, Cambridge MA, 1989;

citiamo dalla traduzione italiana, Le radici dell’io, Milano 1993: p. 47). Non

si può decidere di cambiare ciò che ha valore per noi semplicemente

decidendo di adottare un nuovo vocabolario. Cfr. anche pp. 57, 61. 104

Cfr. Urbinati, Il liberalismo etnocentrico di Richard Rorty, pp. 417-

419. Se per capire che cosa significa «crudeltà» e che ciascuno deve

impegnarsi per impedirla è sufficiente indicare come minimo comun

denominatore umano l’essere «suscettibili all’umiliazione», la condizione

così indicata non è affatto tanto debole e innocua quanto vorrebbe Rorty:

«...la definizione di persona - di soggetto morale - come "qualcosa che

non può essere umiliato" non ripropone nuovamente una prospettiva

metastorica?» (p. 419).

Page 90: Franco Trabattoni

80 ATTTUALITÀ 1)1 PIATONE

discorso invece che ... lasciare all’obiettore la scelta delle armi e del terreno rispondendo frontalmente alle sue critiche

105.

Oppure tenterà «un’autodescrizione migliore»106

(corsivo mio). Ma ancora. Per quanto Rorty si sforzi di eliminare qualunque parametro prelinguistico, la sua scelta in favore del discorso (o del vocabolario) lo costringe a supporre un criterio, per quanto vago, che dal linguaggio sia indipendente. Se il discorso che vuol fare Rorty consiste nel mettere in «cattiva luce» determinati vocabolari, nel tentare una descrizione «migliore», ciò non può essere realizzato se non presupponendo almeno la possibilità di un accordo intersoggettivo, posto su un piano anteriore a quello dei linguaggi e dei vocabolàri, in cui venga stabilito ciò che in generale emana una buona luce e ciò che ne emana una cattiva, ciò che è peggiore e ciò che è migliore

107. Un esempio

particolarmente piccante di questa contraddizione lo troviamo in Asserzione. A p. 64 Rorty sostiene, contro Wellmer, che il significato di un argomento risiede solo nella sua capacità di convincere certe persone e non altre, e che non sia di nessuna utilità chiamarlo un buon argomento. Che è quanto dire che non vi sono argomenti buoni o cattivi, ma solo argomenti utili

105

CIS, p. 57. 106

CIS, p. 67. 107

Cfr. Bernstein, The New Constellation, pp. 235, 236, 241. Una

obiezione dello stesso tenore può essere rivolta a Gianni Vattimo, che

ritiene possibile aprire per l’ermeneutica uno spazio argomentativo,

fondato sulla «capacità di dar luogo a un quadro coerente e condivisibile»

(Oltre l'interpretazione, p. 16). Posto che il vitalismo estetistico di Rorty o

di Derrida è anch’esso una posizione in certo qual modo metafisica, che

cosa rimane all’ermeneuta che non voglia tradire la propria origine (per

cui, con Nietzsche, «tutto è interpretazione»)? Se la "coerenza del quadro"

facesse appello a un tipo generale di coerenza, la contraddizione sarebbe

inevitabile. Perciò Vatdmo scarta questa possibilità, e sceglie di

appoggiare l’argomentazione a uno «storicismo non determinista». Ma

lo storicismo, determinista o no, è pur sempre una metafisica della

storia. La contraddizione performativa in cui si impigliano praticamente

tutti gli ermeneuti contemporanei in realtà è sempre la stessa. Nel

tentativo di evitare una certa metafìsica e gli "orrori" ad essa collegati,

scelgono di credere che il pensiero e il linguaggio non abbiano origine. Ma

poi si accorgono che questo semplicemente non è vero, e si muovono

freneticamente per trovare un’origine da qualche altra parte (purché non

sia metafisica): la poesia in Heidegger, il vitalismo pulsionale (con chiari

riferimenti a Freud) in Rorty, la storia in Vattimo. Ma questa pretesa di dire

l’origine è la peggior metafisica, tipologicamente non diversa da quella

che vorrebbero evitare. Il loro problema è che non si incontrano mai con la

buona metafisica, cioè la metafìsica secondo cui l’origine esiste, ma non

può essere detta.

Page 91: Franco Trabattoni

RORTY E LA CONSOLAZIONE DELLA FILOSOFIA 81

a certi scopi e argomenti utili ad altri scopi. Ma a p. 69 dello stesso saggio si legge che Dewey considerava la tensione tra fatticità e validità una separazione operata «senza alcuna buona (pratica) ragione». L’avvertenza che si tratta di una ragione «pratica» non riesce a nascondere il fatto che anche il pragmatista ha bisogno di «buone ragioni».

Lo stesso tipo di rilievi si può applicare ugualmente bene, in terzo luogo, a quello che abbiamo chiamato l’argomento kantiano. Rorty ritiene che un buon criterio di scelta fra le credenze consista nel riconoscere che «nessuno tra coloro che abbiano sperimentato entrambe le società preferirebbe il secondo tipo»

108 (cioè la società totalitaria). Ora, o questo

metodo si riduce a un rapporto di forza, per cui, in base all’ar-gomento che Socrate avanza contro Protagora nel Teeteto, tutto quanto si può dire sulla validità di una credenza si riassume nel contare il numero di coloro che la sostengono

109,

oppure alla preponderanza numerica è possibile aggiungere anche qualche conforto tratto dal discorso. Nel primo caso riappare (minaccia costante che ritorna in continuazione, mai completamente esorcizzata, nelle analisi di Rorty) il «sofista sfacciato», ed a fortiorì la potenziale equivalenza di qualunque credenza o visione societaria. Nel secondo caso, volendo attribuire al discorso un essenziale ruolo di rinforzo, che cosa potremmo dire a difesa della società liberale se non che, in generale, una vita vissuta all’insegna della tolleranza è in generale migliore di una vita oppressa dal totalitarismo e dallo stato di polizia? Che è poi quello che Rorty stesso è costretto a fare, ogni volta che tenta di mettere in buona luce il model lo politico e sociale da lui preferito. Come ha acutamente osservato Bernstein, mentre ufficialmente Rorty denigra l’indagine relativa agli universali (parificandola acriticamente alla metafìsica essenzialista)

il suo vocabolario dipende da ogni genere di asserzioni universali opinabili, per esempio: noi tutti abbiamo la capacità di autocreazione, noi tutti dovremmo cercare di evitare la crudeltà e di umiliare gli altri, noi tutti dovremmo impegnarci a rafforzare le istituzioni liberali e fare crescere la solidarietà umana

110.

Né si tratta di un problema puramente accademico, confinabile in una serie di casi limite privi di risvolti pratici. Esiste un mucchio di gente convinta che la società dominata dal ricco esteta, dal manager o dal terapeuta non sia per nulla più

108

SF1, pp. 38-39. 109

Teeteto, 170-171. 110

The New Constellation, p. 241.

Page 92: Franco Trabattoni

82 ATTUALI TÀ DI PLATONE

desiderabile della società dominata dal guerriero o dal prete111

. Che comportamento terremo nei confronti di queste persone? Potremo tentare la via della persuasione o dovremo obbligatoriamente ricorrere alla forza? Non ha forse ragione Lyotard, quando contesta a Rorty che l’incommensurabilità dei discorsi finisce per togliere spazio alla tolleranza?

4. Il motivo per cui Rorty non accetta mai fino in fondo la posizione del «sofista sfacciato» dipende dal fatto che egli coltiva una ben precisa serie di preferenze in rapporto a ciò che è “migliore”. Da una parte queste preferenze sembrano muovere, in modo del tutto plausibile, verso una società in cui vi sia un minimo di violenza e un massimo di tolleranza. D’altra parte però il significato di questa tolleranza non rimane ancorato nei limiti di una garanzia puramente negativa, ma si converte nella raccomandazione positiva in favore di una cultura in cui si creino «prodotti sempre più diversi e variopinti»

112. Gianni

Vattimo ha parlato a questo proposito di

esaltazione vitalistica della creatività, la sola che possa spiegare perché è importante che «la conversazione continui»

113.

Opportunamente Aldo Gargani ha notato che tale «presupposto vitali- stico»

per una volta è un riferimento a qualcosa che è vero in sé, che non è...la semplice scelta di un vocabolario, ma che piuttosto costituisce la base tacita e implicita per accettarlo

114.

Che questa base debba rimanere in Rorty «tacita e implicita» è del tutto ovvio, perché altrimenti vi sarebbe una troppo evidente contraddizione performativa. Ma il problema più grave di tutto questo discorso non è probabilmente quello della sua fragilità argomentativa. Il problema vero è che muovendo da da queste basi Rorty si priva della possibilità di escludere esiti chiaramente indesiderati. Quando leggiamo in un suo scritto che

il progresso poetico, artistico, filosofico, scientifico o politico ha luogo quando un’ossessione privata coincide accidentalmente con un’esigenza pubblica

115.

111

SF2, p. 212. 112

CIS, p. 69. 113

Oltre l'interpretazione, p. 47. Cfr. anche Bernstein, The New

Constellation, pp. 202 e 217. Sulla risposta di Rorty torneremo più avand. 114

La conversazione filosofica tra metafora e argomentazione,

Introduzione a SFII, p. XIX. 115

GIS, p. 49.

Page 93: Franco Trabattoni

RORTY E LA CONSOI AZIONE DELLA FILOSOFIA 83

o che la speranza che merita di essere realizzata consiste nel

far sì che

le possibilità di soddisfare le proprie fantasie personali diventino uguali per tutti

116.

come possiamo ignorare il pericolo che qui si nasconde? Il nazismo non fu per caso proprio «un’ossessione privata» che trovò condizioni accidentali per diventare pubblica?

1171 maniaci

sessuali non sono forse individui che hanno delle fantasie personali a cui la morale o la società non concedono un diritto di soddisfazione pari ad altri progetti e fantasie? Non dovremmo allora chiamare la liberazione di queste ossessioni e fantasie, in mancanza di criteri più generali, come dei veri e propri pro-gressi? E opportuno notare, ancora una volta, che non si tratta di una questione meramente teorica o peggio linguistica. Come ha ben visto Bernstein

E una ben magra consolazione sentirsi dire che non c’è alcuna connessione “necessaria” fra narcisismo privato e cinismo pubblico, quando costantemente siamo testimoni di questa “contingente” congiunzione di atteggiamenti

118.

In realtà Rorty sembra sottovalutare completamente questo argomento, e accontentarsi del procedimento inverso. In concreto: Rorty è pago quando riesce a dimostrare che possiamo e vogliamo essere democratici, liberali

119 e

solidaristici

anche senza avere una risposta interessante da dare a Socrate quando ci chiede perché desideriamo farlo...

120

Ma il problema vero non è certo quello di giustificare teoricamente la bontà di chi è già buono; bensì quello di convincere a diventare buono chi non lo è. Se la prospettiva teorica formulata da Rorty è compatibile con qualunque genere di politica, ciò significa che è compatibile anche con il nazismo, lo stalinismo e l’integralismo islamico. Ora, possiamo noi realmente tranquillizzarci dicendo semplicemente: per fortuna che noi, nonostante le nostre idee filosofiche siano compatibili con qualunque posizione, non siamo nazisti ma liberali?

116

CIS, p. 68. 117

Cfr., in proposito, la valutazione che Rorty ha proposto dell’opera di

Freud. V. in particolare CIS , pp. 50-51; SF2, pp. 193-220. 118

The New Constellation, p. 251. 119

CIS, p. 58. 120

SF2, p. 268; cfr. anche, p. 180.

Page 94: Franco Trabattoni

84 ATTUALI TÀ DI PLATONE

5. In realtà non è vero che questa società possa esistere anche privata di un quadro di riferimento filosofico mediamente uniforme. E vero invece che questo quadro di riferimento non possiede l’aulico aspetto di una filosofia accademica, o di un paradigma epistemologico. In realtà Rorty ha completamente sottovalutato il fatto che tra le spiegazioni filosofiche tradizionali (quelle che si possono far partire, grosso modo, dal concettualismo platonico) e le spiegazioni di cui ci serviamo ogni giorno nella vita pratica non v’è alcuna soluzione di continuità. Spezzando questa continuità, Rorty può consolarsi dicendo che il problema dell’universale è solo un problema dei filosofi, e che può essere tranquillamente espulso senza che nulla della nostra vita normale venga compromesso. Ma quando l’analisi entra nel particolare, appare chiaramente vero il contrario. Le società liberali stanno in piedi mediante il comune senso “filosofico” delle persone che in esse abitano, le quali hanno una certa idea della giustizia e del bene in generale

121. Il principio secondo cui deve esistere in generale

una “giustizia” non è solo il frutto del millenario abbaglio dei filosofi platonizzanti, protesi a cercare una misura assoluta, a vedere con l’occhio della mente un immutabile oggetto, e poi subito pronti a strutturare, in base a questa visione, una prassi normativa illiberale e violenta. Il platonismo vero prende le mosse dalla domanda che Socrate rivolge Glaucone: «Credi tu che la giustizia sia qualche cosa o nulla del tutto?»

122, e

rappresenta nella sua essenza la saldatura perfetta fra le domande della vita quotidiana e le domande della filosofia

123.

L’esistenza di una giustizia è un grave problema di vita quotidiana nella misura in cui ciascun uomo (o ciascun gruppo), volendo vivere non all’insegna della violenza usata dal sofista sfacciato, ma all’insegna del discorso e della comunicazione, si sente

121

L’idea di Rorty secondo cui «un sacco di gente non ha mai avuto

molto a che fare con la filosofia» vale solo se si identifica la filosofia con

«ciò che dicono i professori di filosofia nelle loro lezioni», o «ciò che

scrivono i filosofi nei loro libri». Ma per confutare questa tesi è sufficiente

citare il noto argomento del Protrettico aristotelico: anche per decidere di

non fare filosofia, bisogna fare filosofia. 122

La domanda socratica può essere elusa (cfr. SF2, p. 268) solo se ci

si attiene al suo significato generalizzante, costruttivo, e non si riflette

sulla sua natura essenzialmente regressiva, sul suo richiamarsi a ciò che

gli uomini effettivamente pensano e fanno. 123

Questa insidenza della morale nei giudizi quotidiani è stata ben

vista anche da Habermas, Etica del discorso, pp. 6, 22-24.

Page 95: Franco Trabattoni

RORTY E LA CONSOLAZIONE DELLA FILOSOFIA 85

spinto a giustificare i motivi delle sue scelte, a indicare in base a quali principi potenzialmente universali (cioè che egli ritiene estensibili anche ad altri) distingue ciò che è bene da ciò che è male, ed eventualmente a persuadere altri uomini ed altri gruppi.

Lo stesso dicasi della facile e seducente retorica con cui Rorty contrappone alle costruzioni teoriche della metafisica, del marxismo, della teoria critica, deH’heideggerismo (la filosofia prodotta dai «preti ascetici»), gli obiettivi minimi di eliminare la crudeltà

124, di alleggerire il dolore e di aumentare il piacere: e

più in generale una società dove

ognuno è libero di fare quello che vuole a patto di non recare danno agli altri con le sue azioni

125.

Questi obiettivi minimi, che «tutti possono vedere»126

, sfuggirebbero solo ai filosofi sprezzantemente concentrati nei loro altezze universali. Quello che Rorty non vede, o fa finta di non vedere, è che gli obiettivi minimi sopra enunciati si basano su una serie incredibile di presupposti filosofici, che non sono resi meno filosofici dal fatto (ammesso che veramente così sia) che tutti li vedono

127: bisogna ritenere, in una dimensione

intersoggettiva e dunque potenzialmente universale, che il piacere e il dolore siano qualcosa in generale, che sia qualcosa in generale la crudeltà

128, qualcosa in generale provocare un

124

Alla creazione di un ideale politico in cui non esistano «obiettivi

sociali più importanti di quello di impedire la crudeltà» Rorty allude in

modo quasi ossessivo in CIS (v. ad es; p. 82, da cui è tolta questa

citazione, e p. 4). 125

SF2, p.104. 126

SF2, p.101. 127

L’esistenza di un «lato relativamente semplice della morale» (SF2, p.

294) non significa che questo ramo sia staccato dall’albero della filosofia.

Rorty intende evidentemente la filosofia come qualcosa che non esiste se

non nella forma di una disciplina complicata ed astrusa, e priva di contatti

con la vita concreta. 128

Sulle enormi implicazioni contenuto nell’invito di Rorty a rifiutare la

crudeltà cfr. Bernstein, The New Constellation, pp. 247-248: «Non ci vuole

molta immaginazione per ridescrivere molte questioni politiche (forse

quasi tutte) in una società liberale come conflitti sulla crudeltà» (p. 247),

cioè sul significato generale del termine. E’ interessante notare che Rorty,

rispondendo alle critiche di Bernstein, si è limitato ad affermare che la sua

utopia di una società non filosofica, fondata sulla tolleranza e sulla

pluralità dei vocabolari, non esclude affatto la necessità di agire «here and

now» per promuovere la solidarietà o per combattere l’imperialismo

(Thugs and Theorists, p. 572). Ma in questo modo, una volta di più, la

critica è aggirata e non affrontata. Quello che importa sapere è perché mai

dovrebbe promuovere la solidarietà o combattere l’imperialismo chi

ritiene equivalenti tutti i vocabolari, ed auspica una loro indiscriminata

diffusione.

Page 96: Franco Trabattoni

86 ATTUALITÀ DI PI ATONE

danno, ecc. Questa non è una scoperta dei filosofi ma il sapere elementare della gente (quel sapere che posizioni come quella di Rorty, e gli annessi quadri sociali di riferimento, vorrebbero con allegra incoscienza far scomparire), ed ha strettissime relazioni con la vita quotidiana. Lo si può verificare constatando la natura squisitamente filosofica che assumono certi fatti desunti dalla cronaca. Stabilire che è sempre auspicabile un aumento del piacere, non mi aiuta a stabilire quale atteggiamento tenere nei confronti delle droghe. Esse sono indubbiamente delle fonti di piacere, ma senza una valutazione teorica su che cosa sia il piacere in generale, e in quali casi sia lecito (di ciò si occupava la filosofìa morale di Platone e Aristotele), potremmo correre il rischio di trovarci presto o tardi a vivere in una società molto distante dalle nostre aspettative di liberali occidentali.

6. Dunque è vero che esiste un complesso di obiettivi minimi che tutti vedono. Ma questo appunto significa che v’è tra gli uomini il cemento di una comunità prelinguistica. Il che non indica la fine della filosofia e l’inizio della letteratura, ma l’inizio della filosofia, come dialogo volto a chiarificare le premesse universali che stanno alla base della nostra possibilità di parlarci e di intenderci. Questa base comune, prelinguistica, è l’unica condizione che permette la persuasione. Una volta posta l’incommensurabilità dei vocabolari è probabilmente ancora possibile, nella felice contingenza che i partecipanti al dialogo siano tolleranti come noi, avviare una conversazione “edificante”, giocare giochi linguistici interessanti. Ma si tratterà di un dialogo puramente estetico, falsato della sua essenza dal fatto che non vi sono in questo gioco regole comuni, che i partecipanti alla conversazione hanno sempre la possibilità di non prendere sul serio quello che dicono, di rifugiarsi, di fronte alla differenza, nell’incommensurabilità del vocabolario

129. E

comprensibile diffidare di un gioco a regole talmente forti da imporre alla fine della partita, giocata in un tempo determinato, la sconfitta di qualcuno e la vittoria di qualcun altro. Tale è il gioco violento della metafisica tradizionale. Ma non è il gioco della dialettica platonica. Questa dialettica impone che il gioco abbia un significato anche se in un tempo finito non è possibile trovare né vinti né vincitori, anche se non esistono vinti e vincitori in maniera de-finitiva. Il gioco linguistico di cui parla Rorty è invece un gioco senza significato. Qualunque partecipante può giocare stando seduto su un angolo della sedia, può alzarsi dal tavolo quando vuole, può dichiarare che vuole smettere di giocare o anche che non accetta più quelle regole che fino al quel momento, per puro amore della conversazione, ha fatto mostra di voler riconoscere. La fragilità

129

Cfr. Bernstein, The New Constellation, p. 216.

Page 97: Franco Trabattoni

RORTY E LA CONSOLAZIONE DELLA FILOSOFIA 87

e la debolezza di quesd presupposti rende del tutto velleitarie le affermazioni sulla persuasione. Se la persuasione è condizionata dall’accoglimento del gioco e delle sue regole, il suo raggiungimento è non meno compromesso dalla possibilità di uscire dal gioco quando si vuole che dal rifiuto iniziale di partecipare. Tale è il modo della conversazione rortiana, dialogo frivolo di persone che non hanno nessun presupposto prelinguistico comune, e che perciò non si mettono veramente in gioco, per cui la persuasione diviene fatto esteriore, e finisce per risolversi nella tolleranza (quando c’è). Rorty infatti rivendica il diritto di interrompere il dialogo quando i tentativi di trovare un terreno comune sono falliti (ciò potrebbe succedere ad esempio con Nietzsche e Loyola

130). Ma riconoscere che

esistono casi di questo genere equivale a togliere al dialogo qualunque significato.

La posizione di Rorty è sbagliata poi anche per un altro motivo, meno etico e più sostanziale. Se chi partecipa al dialogo pretende per sé la facoltà interromperlo quando crede, allora vuol dire che il dialogo non è mai incominciato. Viceversa, se il dialogo è incominciato, questo significa che nella sua essenza non può mai essere interrotto. O meglio: non esistono segnali, all’interno di un dialogo vero (che non sia la frivola conversazione rortiana), capaci di indicare un momento in cui il dialogo deve essere interrotto perché le possibilità di persuasione sono venute meno. Nessuno può dire come quando e perché ciò accada. Posso certo scegliere di non dialogare più, se lo credo; ma questa rimane una mia scelta. L’atto di dichiarare che il dialogo è divenuto impossibile o è il segnale della malafede di chi fin dall’inizio non ha partecipato al dialogo con serietà (e che dunque mostra il suo volto di “sofista sfacciato”), o è una pura e semplice asserzione metafisica. Quello che Rorty non riesce a capire è che l’esistenza di un universale prelinguistico (certo nella forma del materiale grezzo, e non in quella delle idee chiare e distinte) non è l’ostacolo che sclerotizza la conversazione, ma il combustibile stesso di cui il dialogo si nutre, senza il quale non sarebbe possibile né vero dialogo né persuasione, ma soltanto una sterile conversazione.

7. Trovo assai pertinente una critica che a Rorty è stata rivolta a questo proposito da H. Putnam. Putnam si è chiesto se il dialogo di qui parla Rorty ha o non ha un termine ideale, per cui si possa dire che

c’è una vera concezione della razionalità, una moralità ideale, anche se noi non abbiamo che le nostre concezioni di esse...

La risposta di Putnam è affermativa:

130

L’accostamento, per la verità piuttosto singolare, è dello stesso

Rorty: SF1, p. 250.

Page 98: Franco Trabattoni

88 ATTUALITÀ DI PI ATONE

Il fatto stesso che parliamo delle nostre differenti concezioni come differenti concezioni della razionalità postula un Grenzbegrìff, un concetto limite di verità ideale.

Qui Putnam ha colto in modo adeguato, anche se non era certo questa la sua intenzione, l’essenza della filosofia di Platone, la quale non consiste nel descrivere razionalmente quegli oggetti metafisici che sono le idee, ma nel mostrare appunto che l’esistenza di termini di riferimento comuni è condizione del nostro dialogare, anche se la storicità e limitatezza della condizione umana non saranno mai in grado di trovare per quei termini formulazioni complete e definitive. Rorty dichiara ripetutamente di ritenere inutile questa concezione, ma in realtà egli la rifiuta perché la ritiene pericolosa. Rorty è convinto che un riferimento ai Grenzbegrìffe come quello di Putnam, o asserzioni come quelle di Nagel riguardo l’universalità del discorso filosofico, e la sua ambizione ad utilizzare fonti preverbali o preculturali

131, si convertano

automatica- mente nella presunzione che

prima o poi, verremo in contatto con la matrice vera, naturale e astorica di ogni linguaggio e di ogni conoscenza possibili

132.

Ma non v’è nulla che giustifichi questa deduzione. Parlare di concetto - limite significa proprio escludere l’eventualità che Rorty paventa. Ancora più chiaro è Nagel laddove scrive che la verità non eterna e nonlocale, cui mira la filosofia, è proprio ciò che sappiamo di non poter ottenere

133.

Allo stesso modo la tesi rortiana secondo cui

la nozione di «validità universale» e quella di «corrispondenza a una realtà indipendente» sono solidali

134.

Asserzione che egli crede di vedere verificata in Habermas135

, è del tutto priva di fondamento. Diciamo che essa corrisponde a ciò che a Rorty piacerebbe che fosse. A Rorty piacerebbe che la demolizione della verità come corrispondenza trascinasse con sé anche l’eliminazione dell’universale. Questo sarebbe vero solo se il significato dell’universale fosse quello ristretto

131

SFI2, p. 29. Il richiamo a Nagel si riferisce ad The View from Nowhere, tr. it. p. 14.

132 SF2, p. 33.

133 Uno sguardo da nessun luogo, p. 12 (citato anche da Rorty, ed è

singolare, proprio in SF2, p. 29). 134

Asserzione, p. 59. 135

Ibid., p. 58.

Page 99: Franco Trabattoni

RORTY E LA CONSOLAZIONE DELLA FILOSOFIA 89

accolto da Rorty. Né si tratta di una restrizione innocente. Rorty si comporta come certi illuministi o positivisti che per diffondere l’ateismo si sforzavano anzitutto con ogni mezzo di abbruttire le religioni. E magari non si accorgevano che nei loro stessi discorsi era ancora implicito un fondamento teologico. Vantipragmatista non dice, scioccamente, che può difendere vittoriosamente qualunque asserzione contro chiunque si faccia avanti; ma dice proprio che tenterà di difenderla contro chiunque si faccia avanti

136. L’errore di Rorty consiste nel

ritenere che la nozione di verità universale sia implicita solo nella prima di queste tesi, mentre in realtà essa è implicita anche nella seconda. Là dove due persone dialogano, conversano comprendendo quello che dicono, in quel luogo l’u-niversale è già presente.

E chiaro dunque che questi modi di universalismo moderato non possono per principio (cioè per la particolare maniera in cui viene posto l’universale metastorico e metalinguistico) evocare il fantasma di una metafisica normativa

137. Assai più gravi sono

i pericoli che si corrono se si rinuncia a qualunque forma di universalizzazione. Pensando che la postulazione del Grenzbegriff abbia in qualche modo lo scopo di giustificare teleologicamente la storia, Rorty sbaglia completamente la direzione. La nostra azione non è quella di porre un Grenzbegnff perché lo troviamo utile ma quella di riconoscere che tale concetto è implicito in certi nostri atti, che non potrebbero esistere altrimenti. Quello che Rorty chiama «l’impegno platonico alla possibilità di un accordo universale»

138 non è la cambiale

firmata in bianco di un filosofo un po’ ingenuo, speranzoso in un utopistico avvenire ideale in cui tutti gli uomini andranno d’accordo, ma la condizione stessa del dialogo. Anzi, è a condizione stessa della parola. Di conseguenza, all’obiezione di Rorty a Putnam secondo cui non è facile

capire che rilevanza abbia distinguere tra l’affermazione «vi è solo il dialogo» e l’affermazione «esiste anche ciò verso cui il dialogo converge»

139

si può replicare dicendo che se «c’è solo il dialogo» non c’è dialogo affatto, perché mancano le condizioni che rendono il dialogo possibile. Questo principio potrebbe essere affermato nei termini di Habermas, secondo cui il dialogo e l’interpretazione presuppongono la fiducia, da parte dei partecipanti, in certi

136

Asserzione, p. 60. 137

Per Possessione» an ti metafisica e più in generale antifilosofica di

Rorty si veda Bernstein, The New Constellation, pp. 206-220, passim. 138

SF1, p. 252. 139

SF1, p. 37.

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90 ATTUALITÀ DI PI ATONE

comuni criteri di razionalità140

. Ma nella proposta di Habermas non c’è nulla che assomigli al concetto limite di cui parla Putnam, e anzi non vi sono concetti affatto, ma solo il puro e vuoto momento formale (talché non senza ragione la teoria dell’agire comunicativo appare ad alcuni critici priva di contenuto). Preferisco perciò usare i termini di Putnam, che in fondo sono poi quelli di Platone: noi non potremmo nemmeno incominciare un discorso intorno alla razionalità, se la razionalità non fosse almeno un concetto limite. Questo discorso, al contrario di quanto Rorty vuole far credere, ha una importanza pratica decisiva. La convinzione che i Grenzbegriffe siano impliciti nel dialogo, rende l’accordo fra i partecipanti in linea di principio sempre possibile, e non autorizza mai ad interrompere la conversazione come fa normalmente il sofista sfacciato, e il pragmatista quando è messo alle strette.

Poiché Rorty non crede all’esistenza di questa struttura, nella sua prospettiva al liberalismo occidentale non resta che proporre la conversazione, sperando che i nostri interlocutori si divertano così come ci divertiamo noi, e che nessuno arrivi mai a credere utile di interrompere questa conversazione o di esercitare qualche forma di violenza nei nostri confronti.

2. E solo questione di preferenza ?

1. Abbiamo già accennato, nelle pagine precedenti, ai motivi che spingono il pragmatista ad assumere una posizione epistemologica- mente così debole (o “vaga”, secondo l’espressione dello stesso Rorty). Questi motivi consistono in generale nella persuasione che la metafisica tradizionale, fondata sui concetti universali e sulla rigida separazione di soggetto e oggetto, possa produrre un indesiderabile «dogmatismo morale»

141, cioè il punto di vista opposto a quello

encomiato dalle società liberali. La critica a questa metafisica diviene così la critica di una filosofia come disciplina

che coniuga il rigore argomentativo, fondato su un ricorso a criteri pubblicamente condivisi, con la capacità di pronunciarsi su questioni di suprema rilevanza per le nostre vite. L’immagine tradizionale della filosofìa è quella di una disci-

140

Etica del discorso, p. 36. 141

SF1, p. 77.

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83

RORTY EIA CONSOLAZIONE DELLA FILOSOFIA

piina che (un giorno) produrrà risultati incontestabili in relazione a questioni di supremo interesse

142.

Per sconfiggere questa immagine, e soprattutto per evitare i suoi negativi risvolti politici, non è utile nessuna opzione intermedia, nessun indebolimento parziale della nozione di verità, ma solo la “vaghezza” estrema propugnata dal pragmatismo:

Cosa comporterebbe essere meno vaghi e provinciali? Secondo me significherebbe divenire meno socievoli, tolleranti, di larghe vedute e fallibilisti di quanto non siamo ora

143.

L’esito di questa “vaghezza”, come abbiamo cercato di dimostrare, è una conversazione senza dialogo, in cui nessuno è più autorizzato ad esercitare la critica socratica. Come ha icasticamente osservato Nadia Urbinati, per Rorty l’unico modo possibile per difendere l’umanità dal regime che ha ucciso Socrate è rinunciare a Socrate

144. Poiché la filosofia è

pericolosa, e noi liberali ironici siamo contrari alla violenza, invi-tiamo caldamente tutti a rinunciare alla filosofia. Tuttavia potremmo ben chiederci: qual è la filosofia a cui Rorty allude? Da dove ha tratto l’immagine della filosofia da lui descritta nel primo dei brani che abbiamo citato? A me sembra indubbiamente vero che la filosofia ha sempre preteso di «pronunciarsi su questioni di notevole rilevanza per le nostre vite» (vorrei dire che questa è quasi una tautologia). Ma non mi sembra per niente vero che si pensa in generale alla filosofia come a una scienza fondata su un metodo rigoroso, né tantomeno che la si ritenga capace di produrre un giorno «risultati incontestabili». Mi pare invece che la più diffusa rappresentazione della filosofia, se consideriamo solo chi la guarda con benevolenza, sia quella di una disciplina che produce punti di vista sul mondo, tutti variamente argomentabili e falsificabili, ma tutti provvisti di qualche cosa di interessante da dire sulla nostra vita. Il metodo rigoroso e la definitività dei risultati sono normalmente attribuiti alla scienza, non alla filosofia. Perciò si ha spesso l’impressione che Rorty combatta contro un nemico che non c’è (o non c’è più). Da quanti secoli la coscienza europea ha perso la sua fiducia in una ragione filosofica normativa? Quando mai argomenti filosoficamente

142

SF1, p. 101. 143

SF1, p. 57. 144

II liberalismo etnocentrico di Richard Rorty, p. 425.

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ATTUALITÀ DI PIATONE 92

cogenti hanno veramente avuto il potere di determinare la vita degli uomini? L’esigenza avanzata a gran voce da alcuni anni, condivisa sia da filosofi americani che continentali, secondo cui la filosofia deve essere

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ATTUALITÀ DI PIATONE 93

debole, il più debole possibile145

, suona come un grido d’allarme grottesco, per il buon motivo che la filosofia, anche quando si pretendeva «forte» dal punto vista teoretico, non è mai stata forte dal punto di vista pratico: non ha mai avuto a disposizione un braccio secolare, non ha mai istruito processi inquisitori

146.

Questo dovrebbe essere tanto più evidente nel nostro tempo, in cui esistono filosofie non disposte a negare ogni razionalità eccedente il linguaggio e le pratiche individuali e sociali, e tuttavia ben lontane dalla metafisica. Si pensie ad esempio ad Habermas, con cui Rorty ha avviato da tempo un serrato dibattito. Habermas ritiene che alle spalle della conversazione o discorso vi siano necessariamente dei presupposti impliciti, «che attestano la presenza di un’istanza di razionalità comune a tutti i parlanti in genere»

147. Questa

razionalità implicita è documentata dalla «prassi comunicativa quotidiana» che «rende possibile un’intesa orientata verso pretese di validità». L’intesa fra gli uomini si realizza infatti in base a ragioni contestabili ma argomentate, che «ci costringono a prendere posizione con un sì o con un no». Perciò, contraria-mente a quanto pensa Rorty, v’è un effettivo interesse filosofico a «vedere nelle nostre pratiche sociali di giustificazione qualcosa di più che queste sole pratiche» (la frase è di Rorty)

148. Questo riferimento a ciò che sta prima delle pratiche

linguistiche o sociali è implicito, sempre a parere di Habermas, nell’ermeneutica stessa. I partecipanti a quelle che Habermas chiama «azioni comunicative ... accettano per principio il medesimo status di coloro le cui espressioni essi vogliono com-prendere»

149. Il che significa che la partecipazione al dialogo

presuppone un luogo comune grazie al quale l’accordo diviene per principio possibile (per Habermas un specie di sapere non

145

SF2, p. 11 en. 6. 146

Cfr. R. Nozick, PhilosophicalExplanations, Cambridge (Mass.), 1981

(tr. it., Milano 1987, p. 18): «Ma anche se la filosofia viene applicata come

attività coercitiva, la pena che i filosofi possono infliggere, in fin dei conti,

è abbastanza leggera». In fondo Rorty queste cose le sa molto bene. In

effetti coesistono in lui, sia pure diversamente distribuite nella sua

evoluzione speculativa, due posizioni difficilmente compatibili. Da un lato

c’è una accesa polemica contro un certo modo di fare filosofìa, che in

generale ha dominato la tradizione occidentale, interamente riconducibile

a una certa forma di metafisica (si veda soprattutto La filosofia e lo

specchio della natura). D’altro lato c’è la constatazione che il mondo non

è stato mai prodotto né trasformato dai filosofi, e che perciò la

«metafisica» non deve essere presa troppo sul serio, e deve essere più

«minimizzata» che «superata» o «smascherata» Cfr. ad es. SF2, p. 234. 147

Così sintetizza il pensiero di Habermas Έ. Agazzi, in Habermas,

Etica del discorso, p. XXIII. 148

Cfr. Habermas, Etica del discorso, p. 23. 149

Ivi., p. 31.

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ATTUALITÀ DI PIATONE 94

proposizionale).

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RORTY E LA CONSOLAZIONE DELLA FILOSOFIA 95

La natura di questa implicazione è stata illustrata da Habermas, sulla scia delle ricerche svolte da K. O. Apel, attraverso il concetto della contraddizione performativa. Brevemente: chi partecipa al dialogo, accetta implicitamente dei presupposti non proposizionali che gli impediscono di sostenere senza contraddizione l’autarchia del linguaggio. A meno che le pretese di validità non siano delle pure pretese di potere, che contraddire abbia solamente il senso di “voler essere diverso”

150, il dialogante deve assumersi l’onere

dell’argomentazione. Altrimenti è come se il dialogo non vi fosse affatto. Chi poi si rifiuta esplicitamente di partecipare al dialogo riesce a schivare la contraddizione logica, ma non la contraddizione, se così si può dire, esistenziale (o pragmatica). Habermas ha utilizzato, per chiarire questo punto, la terminologia hegeliana. Chi si rifiuta di partecipare al dialogo

può negare la moralità, ma non l’eticità dei rapporti vitali, entro i quali per così dire ha la sua fissa dimora. Altrimenti dovrebbe cercare rifugio nel suicidio o in una grave malattia mentale

151.

La differenza tra Rorty e Habermas è dunque chiara. Mentre in Rorty chi entra in dialogo lo fa o per il suo buon cuore, o perché la sua coscienza etnocentrica lo spinge in questa direzione, o perché si diverte nella conversazione (senza che per questo la libertà e la tolleranza appaiano troppo debolmente difese), per Habermas gli uomini sono convocati nel dialogo praticamente per forza (tale convocazione è implicita nel loro esistere), e ugualmente per forza devono parteciparvi mediante argomentazioni razionali (essendo l’argomentazione razionale implicita nel dialogo stesso). Questo residuo di scientismo espone Habermas, a parere di Rorty, alle obiezioni dei suoi critici francesi, e trattiene la sua posizione sul terreno della metafisica. Tali critici francesi, d’altra parte, sono intellettualmente troppo schizzinosi per operare delle scelte teoriche e politiche sul tipo di quelle che Rorty apprezza in Habermas. L’ideale a cui Rorty aspira, in conclusione, è quello di un intellettuale decostruzionista e radicalmente antifondazionalista come Derrida o Foucault (contro Habermas), in cui però tali direttive non siano occasione di disimpegno, di rinuncia all’affermazione e alla difesa di alcuni valori di fondo della civiltà occidentale (con Habermas).

Il caso di Habermas ha un valore emblematico. Le critiche avanzate da Rorty nei suoi confronti dimostrano che il suo

150

Cfr. Habermas, Der philosophische Diskurs der Moderne. Zwólf

Vorlesungen, Frankfurt a. M. 1985 (tr. it. Il discorso filosofico della

modernità, da cui citiamo, Roma-Bari 1987) pp. 127-128. 151

Habermas, Etica del discorso, p. 111.

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96 ATTUALITÀ DI PI ATONE

obiettivo non è tanto quello di eliminare la metafisica, ma quello di negare ogni sapere prelinguistico o prepragmatico (dunque ogni criterio per valutare pratiche e linguaggi), e di mostrare che un sapere di questo genere è già di per sé metafisica, qualunque cosa ne dicano i suoi promotori'

152. Il fatto è che se

c’è qualcosa prima dell’azione e della comunicazione, per Rorty questo qualcosa è sempre in predicato di essere identificato con Dio, con l’assoluto, con la trascendenza, con il Concetto. In effetti, come ha acutamente osservato Derrida a proposito di Lévinas,

è solo in Dio che la parola, come presenza, come origine e orizzonte della scrittura, si adempie senza scadimenti

153.

Perciò, a parere di Rorty, solo un pragmatismo assolutamente radicale può difendere l’uomo dalla violenza metafisica implicita in qualunque tentativo, anche minimo, di fondazione: cedere qualcosa, significa già cedere tutto. Ma è una posizione accettabile? Solo a patto di ammettere una grave contraddizione performativa. Se la debolezza della metafìsica tradizionale consiste nella sua pretesa di imporsi con necessità, uguale “metafìsica” debolezza è anche in coloro che reputano la metafìsica necessariamente impossibile

154.

Questa contraddizione non è evidentemente per Rorty di nessun disturbo. Come ha acutamente scritto Aldo Gargani:

Alla fine si capisce che è il fronte anti-

152

V. in proposito FSN, pp. 292-294; in CIS, p. 102, Habermas viene

definito «metafisico» poiché ritiene che «per salvaguardare le libertà

politiche liberali ci deve essere consenso su ciò che è da considerarsi

universalmente umano». Cfr. anche p. 224: il consenso fra gli uomini non

ha (pace Habermas) un fondamento astorico. 153

J. Derrida, L’écnture et la différence, Paris 1967 (tr. italiana, da

cui citiamo, Torino 1971), p. 130. 154

Non sembra un caso che, a parere di Vattimo, anche Rorty non sia

immune dalle ricadute metafisiche che egli rimprovera a Nietzsche: «Se

infatti è possibile - contro le intenzioni esplicite degli autori - considerare

il sistema di Hegel e le filosofie di Nietzsche e di Heidegger come pure

ridescrizioni letterarie, rispetto alle quali non ci si pone nemmeno un

problema di validità, tale possibilità è aperta solo da una implicita

metafisica dell’eterno ritorno dell’uguale o comunque da un pensiero che,

sulla base di uno svelamento della vera struttura delle cose, smentisca la

possibilità stessa di un discorso filosofico che non sia semplice

ridescrizione letteraria...Rorty può ridurre la filosofìa a un genere

letterario e a ridescrizione solo perché presuppone (a mio parere ancora

metafisicamente) che il mondo altro non sia che gioco di interpretazioni»

(Il paradigma e l’arcano, in Filosofia ’93, a cura di G. Vattimo e M. Ferraris,

Roma- Bari 1994, pp. 241-242). Così il gioco degli anti-metafisici del

nostro secolo, agonisticamente impegnati ad «assicurarsi la posizione di

primo antiplatonico radicale della storia» (come ironizza lo stesso Rorty

in SF2, p. 129), assume conno-

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RORTY E LA GONSOI AZIONE DELLA FILOSOFIA 97

metafisico, che i candidati prescelti hanno condiviso, a costituire la linea discriminante lungo la quale Rorty assesta le sue analisi storico-critiche

75.

Ma, come nota sempre Gargani, dal momento che ogni vocabolario può indifferentemente arricchire la cultura, è questa una discriminante del tutto ingiustificata.

2. Alle spalle del discorso di Rorty agisce perciò soltanto una preferenza, come credo egli stesso ammetterebbe senza scandalo, nei confronti di una certa immagine dell’uomo: liberale in politica, antimetafisico ed antifondazionista in filosofia. Quali sono i motivi di questa preferenza? Lasciamo da parte le tradizionali ragioni della modernità, che Rorty ha in comune con tanta altra parte del pensiero novecentesco. La metafisica è per Rorty una forma di consolazione pagata al troppo caro prezzo di asservire qualcosa che si suppone essere una “mente” a qual-cosa che si suppone essere un insieme oggettivo di valori (eventualmente sintetizzabili in Dio). Che la riduzione di tutto ciò che è metafisica a questo schema sia un errore, si può constatare dal fatto che le domande metafisiche esistono e vengono poste anche nella filosofia a buon mercato e nella conversazione quotidiana, che nulla sanno dell’occhio della mente e del punto di vista di Dio. Né si tratta di un errore innocente. E anzi un errore funzionale all’esigenza di presentare anche la sua filosofia come consolatoria, anzi come l’unica possibile consolazione

76. Rorty non tollera ciò che Nietzsche (e

soprattutto il suo Zarathustra) avevano ben capito, cioè che il crollo della metafisica come scienza e come risposta ci lascia il difficile dono dell’ambiguità e dell’inquietudine; non vuole accettare che rimanga una differenza fra essere ed ente anche se l’essere non è Dio, che la scrittura continui a rimanere seconda anche se non c’è nulla che viene prima di lei

77. Ecco

perché Rorty, sia pure a prescindere da contesti specificamente metafisici, scarta anche la mera possibilità che l’agire comunicativo non sia l’intero: perché partendo da questa possibilità la filosofia non può più essere fonte di consolazione. Se la metafisica è la consolazione del pensiero puerile, il pragmatismo di Rorty costituisce un caso del medesimo

tati francamente grotteschi. Questa rincorsa fallimentare (almeno stando all’epigono immediatamente successivo) verso un pensiero sempre più debole non dimostra forse che v’è nel concetto di metafisica una provocazione ineludibile?

75 SF2, XVIII-XIX. 76 SF1, p. 41. 77 J. Derrida, L'écrìture et la différence, p. 130.

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98 ATTUALITÀ DI PI ATONE

fenomeno, sia pure di segno opposto. Essa costituisce l’ennesimo tentativo di eliminare le domande esistenziali, e l’inquietudine che esse producono, semplicemente dicendo che non v’è nulla che possa essere né una domanda né una risposta di questo genere: tolto il contesto oggettivistico-eidetico della metafisica tradizionale, dovrebbero automaticamente sparire anche le domande. E invece queste domande, come sa bene chiunque si limiti anche solo pragmaticamente ad analiz-zare “ciò che gli uomini fanno”, non sembrano destinate a sparire: tanto il senso comune quanto le coscienze colte continuano, tutti i giorni, ad interrogarsi sul significato della morte, e sulla poca corrispondenza fra ciò che ciascuno ritiene eticamente desiderabile e ciò che effettivamente accade

155. E si può

ipotizzare che nessun cambiamento di vocabolario, almeno se non vogliamo ritenere auspicabile l’assunzione del vocabolario di un alienato, privo della coscienza vigile che caratterizza gli uomini in condizioni normali, (la pianta di Aristotele, il folle di Habermas) potrebbe dissolvere questo genere di problemi. In quel particolare tipo di consolazione che è il pragmatismo di Rorty i problemi più importanti dell’esistenza e della filosofia vengono ridotti alla pacifica e liberale ritessitura di atteggiamenti che corrispondono ai nuovi stimoli. Così la vita dell’uomo può finalmente assomigliare ad un ameno e rasserenante déjeuner sur l’herbe, dove ciascuno, con amichevole spirito di tolleranza, partecipa creativamente alla conversazione inventando sempre nuovi e fantastici giochi linguistici

156. Il fatto

che ciascun giocatore, a turni inesorabili, sia costretto a smettere di giocare, non deve turbare né interrompere il gioco, e soprattutto non deve costituire motivo sufficiente per far sorgere nei giocatori rimasti il sospetto che vi siano al mondo delle attività più serie del gioco stesso. E chiaro che il tipo di consolazione proposto da Rorty è una consolazione debole, più o meno come era debole la consolazione proposta da Epicuro contro quella proposta da Platone. Ma ciò non toglie che di consolazione si tratti. La debolezza della consolazione è utile a conferire a questo genere di ipotesi un aspetto rispettabile e sobrio, praticamente quasi-scientifico, sul genere di chi raccomanda le proprie idee perché “non racconta favole”, e non immagina fantasiosi paradisi o universi come quelli proposti dai “consolatori forti” (metafisici, preti e profeti millenaristi di vario genere). Ciò non toglie, ancora, che la consolazione neopragmatista sia sempre e ancora né più né meno che la materializzazione del desiderio: il desiderio che l’angoscia di esistere possa dissolversi, sia pure nel modo meno pretenzioso

155

Cfr. Nagel, Uno sguardo da nessun luogo, pp. 13-14. 156

Cfr. Bernstein, The New Constellation, pp. 202, 217, 233.

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RORTY E LA GONSOI AZIONE DELLA FILOSOFIA 99

e più moderato possibile. Ma questo è appunto ciò che l’uomo moderno non può avere.

3. Né si può dire che questa impossibilità sia sfuggita allo sguardo indubbiamente acuto dello stesso Rorty. Si veda ad esempio là dove egli scrive che una cultura in cui «la poesia avesse pubblicamente ed esplicitamente trionfato sulla filosofia», «che avesse accettato come definizione della verità il riconoscimento della contingenza, e non della necessità», e dove «la finitezza non avrebbe pathos», è probabilmente una cultura impossibile» («quel pathos è ineliminabile»)

157. Il motivo

di questa impossibilità consiste nel fatto che

qualunque tentativo di ridescrivere il mondo e il passato, qualunque tentativo di creare se stessi imponendo le proprie metafore, non può che essere marginale e parassitario

158.

Non può esistere un linguaggio che sia tutto una metafora per il buon motivo, aggiunge Rorty, che anche se i linguaggi

non sono mezzi di rappresentazione o espressione, rimangono pur sempre mezzi di comunicazione, strumenti di interazione sociale, modi di mettersi alla prova in rapporto agli altri

159.

Dunque anche a parere di Rorty non possiamo fare a meno della “filosofia”, di un linguaggio che vada in qualche modo oltre la pura descrizione. Ma tutto ciò in fondo equivale a dire, come si evince dall’ultima frase che abbiamo citato, che gli uomini rimangono pur sempre soggetti padroni del linguaggio anche se questo soggetto non è più un occhio che si fa specchio della natura; che è l’uomo ad usare il linguaggio come strumento e non è il linguaggio che si serve di lui. Insieme alla filosofia, torna così in campo il soggetto. Se il linguaggio è un modo di mettersi in rapporto con gli altri, come è possibile escludere dalla conversazione una ricerca sui significati generali che rendono possibile tale rapporto, sui quali si sviluppano consenso e dissenso? Né questo basta. Se è vero che la finitezza non è mai senza pathos, come si può immaginare che l’uomo scelga di concentrare la propria attenzione sulla finitezza e sulla contingenza, e non invece proprio su quel pathos che costituisce l’unica vera differenza, e dunque l’unico motivo di interesse e di cura? La conversazione, messa a confronto con questa ricerca, non può che essere tempo perso. Ciò che Rorty finisce per concedere, anche se a lui o ad altri può sembrare poco, è già sufficiente per rimettere interamente in gioco

157

CIS, p. 53. 158

Ibid. 159

Ibid.

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100 ATTUALITÀ DI PI ATONE

l’atteggiamento di Socrate, per cui non v’è impegno o interesse degno dell’uomo se non in quel luogo, ampio o stretto che appaia, dove la contingenza è negata. Ma naturalmente non è questa la conclusione di Rorty. L’apertura al superamento della metafora, il riconoscimento che la contingenza assoluta è un’ipotesi contraddittoria, ha come unico effetto quello di trasmettere il marchio della contingenza a tutta la costruzione rortiana. Il pathos che accompagna la finitezza non deve rappresentare l’angoscia della mancanza, la delusione di chi domanda senza ottenere risposta; ma più semplice- mente

la consapevolezza del fatto che ad un certo punto si deve confidare nella buona volontà di chi vivrà una vita diversa e scriverà altre poesie.

Si tratta, se così si può dire, di una accettazione della contingenza priva del riconoscimento che di contingenza si tratta, per impedire che da qui si sviluppi una esigenza, per quanto debole, di necessità. Perciò ritengo che Vattimo, quando rimprovera a Rorty una specie di «ricaduta metafisica», nella misura in cui egli muoverebbe dal presupposto che «la vera struttura delle cose» smentisce «la possibilità stessa di un dis-corso filosofico che non sia semplice ridescrizione letteraria»

160,

non dica giusto, perché la pagina che abbiamo sopra commentato afferma esplicitamente il contrario. E vi è anche, in quella pagina, una parallela riduzione della “metafìsica” nietzscheana

161, che viene incontro proprio all’obiezione di

Vattimo, secondo cui rendere assoluta la contingenza equivale ad accettare ipotesi metafisiche sul tipo di quella dell’eterno ritorno.

Ciò non toglie, però, che la filosofia di Rorty rimanga consolatoria. Dopo avere invano sperato che la poesia possa sostituire la filosofia, che la contingenza non tolleri dubbiose aperture, che la finitezza sia senza pathos, che il soggetto possa essere tolto di mezzo senza rimpianti, Rorty deve pur riconoscere che così non stanno le cose. E una scoperta preoc-cupante. Perciò Rorty si impegna, visto che non può eliminare la differenza, almeno a ridurla nei minimi termini, fino a che diventi quantité négligeable. E infine ci invita semplicemente a non preoccuparcene. Ma è troppo chiaro che se la differenza c’è, al pensiero non filisteo interessa solo la differenza. O i giochi linguistici esauriscono tutto quello che

160

II paradigma e Varcano, pp. 241-42. 161

«...il superuomo non potrebbe fare un’affermazione più forte di

questa: che la sua diversità rispetto al passato, per quanto marginale o

minore che essa sia, entrerà nondimeno a far parte del futuro...che le sue

ridescrizioni metaforiche di alcuni pezzetti del passato saranno nel

repertorio futuro delle verità letterali» (CIS, p. 55).

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RORTY E IA CONSOLAZIONE DELLA FILOSOFIA 101

esiste (e allora non ci resta altro che giocare), o esiste qualcosa rispetto al quale i giochi linguistici sono solo giochi da bambini (e allora siamo in qualche modo costretti a fare qualche cosa di più serio che giocare). Di tutto quello di cui potevano disporre Adamo ed Èva nel giardino dell’Eden, a loro interessava naturalmente solo la mela.

L’opera di Rorty dimostra ancora una volta, in ultima analisi, quanto poco sia praticabile una filosofia puramente consolatoria. Come ha scritto Klaus Heinrich sulla scia di Paul Tillich

162, il problema luterano della giustificazione del peccato

si è oggi convertito nel problema della giustificazione del dubbio. Ciò significa che l’uomo contemporaneo (sono ancora parole di Heinrich) deve riconoscere l’impossibilità di assicurarsi dell’incondizionato, di sclerotizzare il mobile dinamismo di scelte impegnative, di domande inquietanti e di risposte ambigue, nell’edificio monolitico di un essere (Parmenide) o di un Dio (Giona) capaci di dissolvere qualunque dubbio. Bisogna accettare il fatto che l’ambiguità e l’inquietudine sono destinate a restare. Ma ciò vale anche nella direzione opposta: se la vita non può essere elevata a una fiduciosa attesa del paradiso, non può nemmeno essere ridotta al piacere epicureo della conversazione.

162

K. Heinrich, Parmenides undJona, Frankfurt a. M. 1982 (tr. it., da cui

citiamo, Napoli 1988), p. 126.

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Capitolo IV

La filosofia è una cosa seria?163

1. Qua e là, nel panorama filosofico contemporaneo, si sente ancora qualche eco della polemica sull’adesione di Heidegger al nazismo

1, e sui possibili rapporti tra il suo pensiero e l’ideologia

nazionalsocialista2. Che questo problema continui a suscitare

interesse non è certo sorprendente. Non si tratta infatti solo di sapere fino a che punto un intellettuale si è compromesso praticamente con il nazismo. Ben più pungente della questione biografica è la questione filosofica. Heidegger non è un filosofo qualunque, per quanto grande. Heidegger è il filosofo che molti hanno preso a modello per la loro denuncia della violenza della ragione, delle distorsioni prodotte dall’uso aberrante delle tec-nologie, di cui Auschwitz è l’esempio di gran lunga più orribile. Eppure Heidegger non ha mai pronunciato sulla Shoà una parola chiara

3. E inoltre. Oggi si pone molto spesso la questione su che

cosa significa pensare, fare filosofia dopo Auschwitz; ci si chiede se un evento immane come quello non ci costringa a modificare radicalmente i nostri parametri, a cambiare almeno alcuni dei nostri metri di giudizio

4. Ma

163La filosofia è una cosa seria?,«Rivista di storia della filosofia» 52

(1997), pp. 597-610. 1 V. ad esempio F. Fédier, Il rispetto che dobbiamo a Heidegger, «aut aut»

260-261 (1994), pp. 109-149. 2 Ricordiamo, tra le pubblicazioni più recenti, la raccolta degli atti del con-

vegno tenuto a Roma dal titolo L’eredità di Heidegger (Goethe-Institut, 29-31

maggio 1989): AAW, Heidegger in discusssione, a cura di Franco Bianco,

Milano 1992 (contributi di Apel, Held, Jacob, Lugarini, Luporini, Orth, Ott,

Pòggeler, Renaut, Reiter, Ricoeur, Riedel, Ruggenini, SchùBler, Semerari,

Volpi, Wisser). 3 Assai deludente, in particolare, l’intervista pubblicata postuma su «Der

Spiegel» nel 1976 [ora in AAW, Antwort. Martin Heidegger im Gespràch, hrsg.

v. G. Neske u. E. Kettering, Neske, Pfullingen 1988 (tr. it. di C. Tatasciore in

Risposta. A colloquio con Martin Heidegger, Napoli 1992, pp. 107-137)]. In

questo volume si trova inoltre una interessante racconta di interventi, alcuni

molto autorevoli, sul problema dei rapporti di Heidegger con la politica, il

nazismo, etc. Gli studiosi e gli osservatori sono sostanzialmente unanimi nel

giudicare il silenzio di Heidegger dopo il 1945 ben più sconcertante della sua

adesione al nazismo negli anni ’30. Cfr., in Heidegger in discussione, gli

interventi di F. Bianco (Introduzione, p. 14), C. Luporini (Con Heidegger 1931-

1933. Alcune riflessioni, oggi, tra filosofia e politica, p. 49), O. Pòggeler

(Heidegger e la politica, p. 65). 4 Possiamo limitarci a citare, per brevità, il recente studio di Silvia Benso,

Pensare dopo Auschwitz, Napoli 1992, con ampia bibliografia.

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104 ATTUALITÀ DI PLATONK

Heidegger, il filosofo che ha visto una vocazione violenta in tutta la storia dell’occidente, che per alcuni atteggiamenti teorici può essere accostato all’Husserl della Krìsis e al Freud del Disagio nella civiltà, non solo è stato colpevolmemente antisemita nel 1933, ma non ha ricavato da Auschwitz lo stimolo a ripensare a fondo nessuna delle sue tesi. Non c’è in questi fatti qualcosa di strano? O forse qualcosa di troppo chiaro, talmente chiaro che non lo si riesce o si vuole vedere?

Prenderemo le mosse da un recente saggio di Richard Bernstein, da poco tradotto anche in italiano

164 A parere di

Bernstein c’è una piena e comprensibile congruenza tra il silenzio di Heidegger (dopo la seconda guerra mondiale) sul tema della Shoà, il suo rifiuto di riconoscere in qualche modo la colpa sua e del popolo tedesco, e l’essenza più intima della sua filosofia. Per dimostrare questa congruenza Bernstein analizza alcuni passi della Lettera sulVurnanismcP e soprattutto la conferenza sulla Questione della tecnica

1, giungendo d interessanti conclusioni

(che esponiamo qui di seguito, non senza qualche nostra sottoli-neatura). Poiché per Heidegger il significato della tecnica non è quel lo corrente, cioè quello di cosa neutra utilizzabile bene o male, ma quello provocato e destinato dal Ge-stell (l’impianto, o imposizione), cioè da altri che non sia l’uomo, l’uomo non ha a disposizione nessuno strumento efficace per contrastarne progettualmente e fattivamente il dominio. Questo significa (per il buon motivo che egli è solo la causa occasionale del loro sviluppo, e non il loro principio creatore, come vorrebbe il pensiero tecnico-metafisico) che l’uomo è irrimediabilmente in balia del destino, che non può fare nulla contro le potenze da lui evocate? No, perché in tal modo si confonderebbero fato e destino. Al fato come causa determinante l’uomo non può aggiungere nulla, ma al destino come invio e come chiamata egli è provocato a rispondere. Ora, questa risposta può essere duplice: 1) l’uomo può accollarsi senza deflettere tutte le conseguenze del Ge-stell, e sviluppare senza freno e senza riflessione la volontà di potenza che si dispiega nella tecnica; 2) oppure può tentare di risalire (rammemorando) al significato originario della tecnica, che è la disvelatezza, e imparare a pensare Tessere in questa dimensione. In altre parole, l’uomo non può fare nulla di concreto e diretto contro l’impeto trasformatore e distruttivo della tecnica, perché questo impeto non deriva da lui bensì dal Ge- schick (invio e destino). Ma può imparare a pensare il senso di questo destino; può imparare a

164

II silenzio di Heidegger? Ethos e tecnica, in The New Constellation,

Cambridge 1991 (tr. it., La nuova costellazione, di S. Cremaschi, Milano 1994,

da cui citiamo, pp. 78-130).

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LA FILOS( )FIA È UNA COSA SERIA? 105

pensare che la tecnica nella sua essenza è lasciar essere le cose nella loro disvelatezza (secondo il detto di Hòlderlin: «dove c’è il pericolo, cresce anche ciò che salva...»

165), cioè qualcosa di ben

diverso di ciò in cui consiste la tecnica nell’età moderna. Si può immaginare che Heidegger si attendesse da questo pensiero rammemorante una svolta capace di correggere il nichilismo dell’e-ra contemporanea. Ma poiché tale svolta è consegnata al pensiero e non alla volontà, e intende inscriversi nel contesto di un destino di cui è parte, perdono automaticamente significato tutti i criteri di valutazione antropomorfici ed assiologici. La dialettica di bene/male, di innocenza/colpa, e perfino di verità/errore, viene sostituita dalla dialettica autentico/inautentico (questo già in Essere e Tempo), e poi più determinatamente da pensare e non pensare

166. Tale contesto vorrebbe per Heidegger essere più

originario di qualunque etica. Poteva sembrare in effetti che dopo Essere e Tempo Heidegger dovesse scrivere un’etica (come gli suggerì un giovane lettore

167), ma solo a chi abbia letto quel libro in

maniera superficiale. In realtà in Essere e Tempo l’analisi esi-stenziale di Heidegger evita sistematicamente, con continui e quasi ossessivi avvertimenti, di tradurre le questioni e le antinomie che lì vengono poste in termini etici (emblematico il caso di autentico/inautentico

168), e altrettanto sistematicamente è evitata

qualunque forma di deontologia di tipo assiologico169

. Detto nei termini di Bernstein, Heidegger non riesce a vedere una possibile via di salvezza dal Ge-stell compiuta mediante la phronesis e la praxis (il pensiero progettante ed agente in base a valori), ma considera solo l’alternativa della parola poetica (cioè del «pensiero» che non soggettivizza, che non è né tecnico né metafisico). Ci si salva dal nichilismo del produrre e del distruggere non con un diverso modo di progettare (che è impossibile), ma con un diverso modo di pensare, quello che lascia essere.

Questo ordine di considerazioni ha come conseguenza aberrante, a parere di Bernstein, quella di mettere sullo stesso piano del Ge-

stell tutto ciò che è tecnica, ad esempio togliere ogni differenza essenziale tra la meccanizzazione dell'agricoltura e le camere a gas dei

165

Patmos, w. 3-4, citati da Heidegger in La questione della tecnica, (tr.

it., p. 22 e 26). 166

V. ad es. la conferenza Was heifit Denken? (tr. it. in Saggi e

Discorsi, pp. 108), dove Heidegger afferma di continuo che noi non sappiamo

ancora pensare. 167

Cfr. Lettera sull’umanismo (tr. it. in Segnavia, p. 304). 168

Cfr. G. Vattimo, Le avventure della differenza, Milano 1980, p. 57. 169

Una analisi esemplificativa di questa procedura è in P. Ricoeur, Il proble-

ma etico in «Essere e tempo», in Heidegger in discussione, pp. 50-62.

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106 ATTUALITÀ DI PI ATONE

nazisti170

. Qui le scelte politiche di Heidegger (soprattutto quelle compiute dopo la guerra) si incontrano con la sua filosofia. Quello che è in gioco, a mio parere, è il rifiuto aprioristico della valutazione etica, visibile fin da Essere e Tempo. Il significato normale di tecnica come strumento neutro aperto agli usi buoni e cattivi si dimostra come un significato non originario, derivato, non vero. La tecnica si è sviluppata come imposizione ( Gestell), in un contesto preassiologico in cui non vi sono valori come bene e il male, e di conseguenza non vi è neppure nulla che possa essere neutro rispetto a questi valori

171. E precisamente in tale mondo senza

valori che lo sterminio degli ebrei può essere paragonato alla meccanizzazione delFagricoltura. Bernstein si chiede quale mai possa essere la natura di un pensiero che non è strutturalmente autorizzato a vedere questa differenza; un pensiero che parla spesso di autentico e supremo pericolo, e tuttavia non vede questo pericolo in eventi come la Shoà; un pensiero che parla tanto spesso di domande e risposte decisive, ma per il quale

veramente importante e appropriata è la risposta alla silenziosa chiamata dell’Essere, non alle silenziose grida dei nostri simili

172.

Le osservazioni di Bernstein sono indubbiamente di grande effetto e, all’apparenza, inoppugnabili (tanto più che lasciano sospettare in Heidegger il subdolo tentativo di giustificare i suoi errori attraverso l’arrogante serietà di una profonda filosofia). Ma a ben guardare la

questione è molto più complessa. Io credo che molti filosofi d’oggi non prendano troppo sul serio la svolta operata nella filosofìa contemporanea dal pensiero di Nietzsche, una svolta che

170

Come è noto, nel manoscritto non pubblicato della conferenza del 1949

sulla questione della tecnica si trovava una frase, che poi non compare nell’e-

dizione della stessa conferenza in Vortràge und Aufsatze, in cui si dice che

l’agricoltura, ora che è diventata industria meccanizzata dell’alimentazione, è

«essenzialmente la stessa cosa della produzione industrializzata di cadaveri

nelle camere a gas e nei campi di sterminio, la stessa cosa del blocco e

l’affamamento di paesi, la stessa cosa della produzione delle bombe

all’idrogeno» (cito da R. Bernstein, La nuova costellazione, p. 125). 171

E noto che Heidegger disprezzava la cosiddetta «filosofia dei valori» cor-

rente ai suoi tempi. Ricorda a questo proposito Max Mùller: «Gli piaceva dire:

"Questa è l’ultima decadenza della borghesia. Chi può impegnarsi ed entusia-

smarsi per dei valori? Ci si può entusiasmare per determinati compiti. I compi-

ti sono compiti creativi, e la creazione è l’opera. Di fronte alla filosofia del valo-

ri (Wertphilosophie) deve nascere una filosofia delle opere [Werkphilosophie).

Solo ciò che è concreto impegna, i valori non impegnano mai."» (in Antwort,

tr. it. pp. 219-220). 172

La nuova costellazione, p. 128.

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LA FILOS( )FIA È UNA COSA SERIA? 107

indubbiamente esercitò una enorme efficacia almeno in un pensatore come Heidegger, che aveva meditato a fondo la filosofia di Nietzsche, e che ne aveva fatto proprie molte istanze. Il «platonismo rovesciato» di Nietzsche

173 in fondo significa che non

v’è più la possibilità di un pensiero etico orientato ai valori distinti e superiori alla prassi, o comunque sufficientemente individuati per mettere in moto la dialettica pratica di conoscenza ed azione. Quello che Nietzsche ha tolto di mezzo è proprio la possibilità della phronesis, cioè di orientarsi nell’universo dei mezzi e dei fini operando le opportune distinzioni teoriche e le scelte pratiche conseguenti. In altre parole: ciascuno si scandalizza del fatto che Heidegger abbia messo sullo stesso piano la meccanizzazione dell’agricoltura e lo sterminio degli ebrei, cioè qualcosa che appare come un bene (perché migliora l’alimentazione degli uomini) e qualcosa che è certamente male, e male dei più terribili. Ma quanti sono i filosofi del ’900 davvero provvisti dei mezzi teorici per attuare la distinzione tra ciò che è bene, ciò che è male e ciò che è neutro? Chi è d’accordo con Heidegger sul necessario smantellamento del «platonismo», sia pure nella forma debole definita sopra, può consentire a queste valutazioni solo con un colpo di reni della volontà; oppure con una mossa retorica valida al livello elementare del consensus gentium, della chiacchiera e del «si dice» (cioè, in termini heideggeriani, con un persistere nella sfera inautentica del man). Orbene, Heidegger era certo d’accordo con Nietzsche sulla necessità di rovesciare il platonismo. Fatto questo, che cosa rimane? Restano la volontà di potenza e l’eterno ritorno; la libertà si identifica con l’accettazione del fato (che assorbe in sé il destino), e l’uomo non ha più difese contro il Ge-stell (e contro le camere a gas). Io credo che solo Heidegger abbia visto tutte le conseguenze che derivano dal «destinato» rovesciamento del platonismo, e si sia reso conto del drammatico pericolo che ne deriva. La maggior parte di coloro che criticano le sue scelte politiche ed ideologiche non si sono accorti di nulla. Un buon numero di questi filosofi si professano nietscheani e heideggerriani, ma si rifiutano di accettare le conseguenze che tale posizione comporta. Pur avendo fatto proprie non solo la morte di Dio e la caduta della metafisica in senso forte, ma

173

Heidegger ha citato e commentato questa espressione nietscheana nel

corso su Nietzsche del 1936/37 dal titolo La volontà di potenza come arte. I

corsi su Nietzsche sono stati pubblicati per la prima volta da Heidegger

stesso (Pfullingen 1961), e poi ripubblicati nel voi. 66 della Gesamtsausgabe. Il

passo al quale ci riferiamo si trova a p. 15 della traduzione italiana di Franco

Volpi [Nietzsche, Milano 1994).

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LA FILOSOFIA È UNA COSA SERIA? 108

anche la drammatica constatazione che non vi sono più valori e significati riconoscibili e almeno parzialmente invarianti, essi continuano a scandalizzarsi di fronte all’ipocrisia e alla violenza, a provare orrore

174 per ciò che è «male». Continuano a pensare e ad

agire come se tali valori e significati ci fossero. Heidegger, come è noto, non accettò le conclusioni di

Nietzsche, e non le accettò nell’unico modo che per lui era ancora accettabile dopo Nietzsche (cioè dopo aver fatto suo quanto del pensiero di Nietzsche gli sembrava inoppugnabile): non sul piano etico, cioè sul piano «platonico» della visione e del riconoscimento dei valori; ma sul piano della dialettica autentico/inautentico, intendendo la volontà di potenza e l’eterno ritorno come l’ultimo atto del pensiero metafisico, come il grado supremo e più elevato di imposizione (Ge-stell), dove sono venute a mancare persino le condizioni in base alle quali si impone. Ma contestualmente questo rifiuto degli esiti del pensiero nietzscheano apre anche una via di salvezza. C’è un modo non metafìsico e non impositivo (dunque non violento) di pensare l’essere (poesia, rammemorazione, ecc.). Questo modo può apparire vuoto, ed è stato anche da più parti messo in ridicolo. Ma è necessario andare oltre a questo giudizio, e risalire al motivo per cui la via di salvezza proposta da Heidegger appare così ostinatamente priva di contenuti etici riconoscibili. Il motivo è l’acuta consapevolezza di Heidegger di quanto sia difficile avanzare un’etica dopo il rovesciamento del «platonismo», quanto lontano bisogna andare dall’etica propriamente detta per poter conquistare delle nuove basi, e di quanta spregiudicatezza bisogna dar prova. Questa difficoltà non è percepita affatto da molti suoi critici e seguaci, che restano legati a una specie di etica del senso comune pur non credendo più nella possibilità di elaborare un’etica filosofica, e così facendo separano implicitamente l’etica dalla filosofia, la prassi dalla teoria.

2. Sto pensando in particolare a Richard Rorty, che pur collocandosi consapevolmente sulla scia di Nietzsche e di Heidegger, e accettandone con entusiasmo temi come lo smontaggio genealogico e il decro- struzionismo, vuole però conservare il diritto di dire che la crudeltà è il peggiore dei mali

175. Il

prezzo di questa operazione consiste però, come detto, nel considerare l’etica e la politica pure questioni di preferenze (o di

174

E l’orrore come esperienza e fatto universale, di cui parla Luporini con

accenti drammatici nell’intervento sopra citato (p. 49). 175

Come è noto, l’idea che la crudeltà sia il male peggiore e l’invito rivolto a

tutti gli uomini affinché la evitino è il Leitmotiv di molte pagine rortiane [in

particolare in Contingence, Irony and Solidarity, 1989, Cambridge (tr. it. di G.

Boringhieri, La filosofia dopo la filosofia, Roma-Bari 1989)].

Page 119: Franco Trabattoni

LA FILOSOFIA F. DNA COSA SERIA? 109

ossessioni private), che nulla hanno a che fare con la filosofia. Così Rorty scagiona la filosofìa di Heidegger dalle accuse per la stessa ragione per cui la logica di Frege è indipendente dall’ideologia antisemita del suo inventore

176. Ma non è la stessa cosa, perché la

logica di Frege può anche essere indifferente sotto il profilo etico, mentre la filosofia di Nietzsche ed Heidegger sicuramente no. Certo, Rorty ha ragione nel negare che il filosofo debba per forza possedere, in quanto filosofo, «sapienza e bontà, intuito e urbanità»

177. Ma qui non si tratta della questione, peraltro assai

triviale, di stabilire se un filosofo è stato o no coerente con le sue idee. Si tratta di stabilire se la filosofia ha o non ha un rapporto con l’etica, se essa ha o non ha la funzione di fare chiarezza sulle scelte concrete che l’uomo ha da compiere (anche se non di determinarle). Ebbene, proprio questo è quello che Rorty nega. Per Rorty la filosofìa si riduce al testo scritto dai filosofi, e il compito dei filosofi non è altro che quello di produrre e leggere descrizioni sempre diverse della nostra esperienza. Per Rorty il carattere della filosofia in senso tradizionale e metafisico - quel carattere che appunto oggi a suo parere non può più essere accettato - coniuga la forza dell’argomentazione con la pretesa di pronunciarsi su questioni di estremo interesse per la vita

178; ed egli

apparentemente vede questi due aspetti come reciprocamente implicantisi, perché la caduta dell’uno (la rinuncia alla pretesa del rigore argomentativo) comporta anche la caduta dell’altro: se la filosofia non può essere forte sotto il profilo epistemologico, deve anche rinunciare alla pretesa di dire cose importanti riguardo la vita dell’uomo. Ma tra le due cose non v’è alcun nesso. Prova ne sia la filosofia di Socrate, in cui convivono una accentuata debolezza epistemologica (si pensi ad esempio al tema dell’ignoranza) con una estrema vicinanza ai problemi più delicati dell’esistenza. Se dunque non si può pretendere di ricavare giudizi sulla filosofia di Heidegger partendo dalla sua vita (o viceversa), è però lecito chiedersi se in Heidegger l’adesione a una filosofia così ricca di conseguenze, immediate e mediate, sul piano dell’etica, non abbia avuto qualche peso nel determinare certi suoi comportamenti pratici. E lecito chiedersi se tali comportamenti non derivino in parte anche dal fatto che egli riteneva compito della filosofia

176

Taking Philosphy Seriously, in «The New Republic» 11, aprile 1988,

pp. 31-

34 (tr. it. di R Kobau, Prendere sul serio la filosofia, «aut-aut» 226-227

(1988), pp. 133-140). 177

Ibid., p. 138. 178

Pragmatismo senza metodo, in Objectivism, Relativism and Truth.

Philosophical Papers - Voi I, Cambridge, 1991 (tr. it. di M. Marraffa, Scritti

filosofici, volume I, a cura di A. Gargani, Roma-Bari (1994), da cui citiamo (qui

p. 101).

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110 ATTUALITÀ DI PI ATONE

«pronunciarsi su questioni di estremo interesse per la vita». Tutto sta dunque nel capire se la filosofia deve essere presa sul

serio

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ATTUALI TÀ DI PLATONE 111

o no. Nella parte finale del Fedro, dove il Socrate platonico avanza le sue celebri critiche nei confronti della scrittura, c’è una descrizione del discorso scritto che ricorda da vicino, nella sua leggerezza, la riduzione rortiana della filosofia a testo dilettoso e ricreativo:

Questi giardini di lettere, a quanto pare, verranno seminati e scritti per puro diletto. Posto poi che li scriva, si tratterà di far tesoro di appunti, qualora giunga la vecchiaia, vittima dell’oblio, per sé e per chiunque procede sulle medesime orme. Egli proverà diletto neH’ammirarne la delicata fioritura; e quando gli altri si daranno ad altre forme di piacere, abbeverandosi di conviti e di tutti gli altri divertimenti analoghi a questi, egli allora, verosimilmente, respingerà tali passatempi, ma rallegrerà la sua esistenza con le soddisfazioni delle quali io parlo (276d-e).

C’è un preciso rapporto tra la riduzione di un testo a scrittura e la sua leggerezza. Il testo scritto è trasformato in oggetto fruibile, consumabile, che si può aprire e chiudere a piacere, che parla solo quando noi vogliamo farlo parlare, che può essere utilizzato solo nei limiti in cui procura diletto: che naturalmente non dice nulla di importante per la nostra vita. E precisamente nello stesso spirito che Rorty consiglia di leggere i libri di Heidegger: «in un momento tranquillo, con curiosità e con mentalità aperta e tollerante»

179.

Possiamo immaginare una tranquilla serata d’autunno, davanti al camino e con un bicchiere di brandy in mano, dopo che sono state sbrigate le diffìcili e serie faccende dell’esistenza. A questo punto si chiude la porta della vita e si gioca alla filosofia.

Sembrerebbe perciò di poter dire che qui sono messi a confronto due modi diversi di intendere la filosofia: due modelli globali, tra loro incommensurabili, incapaci di confutarsi a vicenda, la cui scelta dipende solo dall’indole di ciascuno. E invece così non è, perché Rorty nonostante tutto vuole conservare il diritto di dire che, «come essere umano, Heidegger era un esemplare molto scadente: vigliacco e bugiardo, e molto, fino all'ultimo»

180; che

Wagner, Milton e Newton non erano «brave persone», che «Frege era vizioso, antisemita e protonazista», ecc.

181 Evidentemente si

illude che questi giudizi possano essere stilati stando al di fuori della filosofia. E chiaro invece che le valutazioni morali sopra citate

179

Prendere sul serio la filosofia, p. 140. 180

Ibid., p. 136. 181

Ibid., p. 137.

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112 ATTUALITÀ DI PI ATONE

presuppongono una discussione filosofica sul tipo di quella condotta da Socrate con Callide nel Gorgia·, presuppongono la soluzione del problema etico a favore della verità e contro la menzogna, a favore del rispetto degli altri e conto l’uso strumentale preconizzato dal «superuomo» di Callide, presuppongono che noi sappiamo, per averlo in qualche modo stabilito, chi è una brava persona e chi no, che cosa è bene e che cosa no. Presuppongono che sia stata fatta una certa indagine filosofica intorno a come bisogna vivere, e che questa indagine sia stata presa sul serio. Insomma, si arriva sempre troppo tardi a fissare il punto in cui inizia la filosofia, perché questo punto si trova in un luogo indeterminato dietro le nostre spalle; purché si viva da uomini, si è sempre dentro la filosofia (come hanno ben visto Aristotele ed Hegel): mai prima o dopo di essa

182.

3. E molto probabile che Heidegger abbia preso sul serio la filosofia. Di formazione scolastica, fin dall’inizio della sua carriera egli si è interrogato sul senso dell’essere, e non ha mai cessato per tutta la vita di porsi questa domanda. Ma ben presto si è accorto che la tradizione scolastica trascurava tutta una serie di caratteristiche essenziali dell’essere, cosicché il problema dell’essere non poteva più essere affrontato senza passare attraverso l’Esserci. In questo orientamento confluivano motivi diversi come lo storicismo di Dilthey (il problema della vita), l’e-sistenzialismo di Kierkegaard, la filosofia di Nietzsche, la teologia luterana e infine lo stesso Husserl del precategoriale e del mondo della vita. Questo significa che per Heidegger la filosofia, nel suo tentativo di chiarificare il significato dell’essere, deve mettere in primo piano il senso dell’esistere. Tale carattere è del tutto evidente nella fase che possiamo chiamare esistenzialista del pensiero di Heidegger, in particolare in Essere e tempo, dove il tema del rapporto tra esistenza autentica ed inautentica ha un amplissimo rilievo. La centralità di queste tematiche è appunto una testimonianza del fatto che per Heidegger la filosofia ha il compito di dire qualcosa di importante, o addirittura di decisivo, sul senso della vita.

E alla luce di queste premesse che devono essere valutate le

182

Tra i vari «post» che caratterizzerebbero il mondo contemporaneo

(primo fra tutti il post-moderno), da molte parti si tende oggi anche ad anno-

verare una «posterità» in rapporto alla filosofia. Si veda ad esempio il volume

collettaneo dal titolo After Philosophy (ed. by K. Baynes, Cambridge USA

1987), con saggi di Rorty, Foucault, Derrida, Habermas, Davidson, Dummet e

Putnam. Né è certo un caso che il titolo del volume di Rorty del 1989

(Contingency, Irony and Solidarity) sia stato modificato nella traduzione

italiana in La filosofia dopo la filosofia.

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LA FILOSOFIA È UNA COSA SERIA? 113

scelte teoriche e pratiche di Heidegger, e in particolare le possibili connessioni fra le due. Ora, alcune delle ascendenze cui abbiamo sopra accennato (soprattutto Nietzsche) trasmettono ad Heidegger il tema del rovesciamento del platonismo e del tramonto della metafisica (cosicché il senso dell’essere può ormai essere precisato, a suo parere, solo alla luce di questi punti fermi). Qui possiamo porre la questione cruciale. Il «platonismo» e la «metafisica» sono tramontati davvero o per scherzo? Se la filosofia è un gioco di parole, la vita non ne risulta né modificata né interessata. La morte di dio, l’eclissi del senso, la genealogia della morale, restano senza conseguenze. Si continua ad essere non violenti e gentili, si continua a considerare questo comportamento come l’unico naturale e ovvio. Ma se la filosofia fosse una cosa seria? Per gli hei- deggerriani à la Rorty non lo è, e dunque il crollo della metafisica apre l’ameno universo delle differenze, delle narrazioni e dei giochi linguistici. Ma, per chi ritenga la filosofia una cosa seria, la liberazione del linguaggio e il crollo della metafisica non sono affatto le note preliminari di una giuliva festa danzante; sono eventi che non possono essere sot-tovalutati, perché in essi si nasconde un enorme pericolo: il pericolo che il crollo dei valori si traduca in una esistenza dove in linea di principio i confini fra il lecito e l’illecito dileguano. Da questo pericolo, per Heidegger, bisogna trovare una via di salvezza.

A ben guardare, tutta la filosofia di Heidegger è cupamente dominata dallo spettro del pericolo e dalla ricerca affannosa di una salvezza, ed è difficile non riconoscere in questo affanno un interesse etico. Tuttavia questa dimensione etica, come ha notato Paul Ricoeur a proposito di Essere temptfi

6 non si sviluppa mai in

una morale, perché sempre di volta in volta coperta dall’intonazione prevalente dell’opera, cioè quella ontologica. Perciò Ricoeur ha visto nel discorso svolto da Heidegger nel suo libro del 1927 la compresenza di forza etica e di carenza morale. Come uscire da questa impasse? Come tradurre in termini morali l’ontologia di Essere e tempo, che «quanto all’orientamento nell’azione [...] si astiene da qualsiasi proposta»?

183 Per fare questo sarebbe

necessario ricollegare «lo stadio della moralità, nel senso del- l’obbligazione, dell’interdizione» al suo «fondo etico - strutturato sull’aspirazione al vivere “bene” con e per gli altri aH’interno di istituzioni giuste»

184. Se ho ben capito l’opinione del filosofo

francese, si tratta di completare i motivi ontologico-esistenziali come l’ingiunzione con un bene e un giusto in senso sostantivo, cui l’ingiunzione si riferisce:

183

Ibid., p. 61. 184

Ibid.

Page 124: Franco Trabattoni

114 ATTUALITÀ DI PI ATONE

Se diciamo, infatti: vivere «bene» con e per gli altri all’interno di istituzioni giuste, ci salviamo dalla indeterminazione della chiamata alle possibilità più proprie dell’Esserci ed anche daH’indeterminazione della decisione

185.

E difficile però essere d’accordo con Ricoeur nel ritenere che la mancanza di questo completamento derivi, in Heidegger, dalla sua diffidenza «rispetto alla filosofia pratica di Kant ed alla filosofia dei valori di Max Scheler»

186. In realtà quella che Ricoeur chiama

«carenza morale» è una caratteristica strutturale di una filosofia, come quella di Heidegger, indelebilmente segnata dal rovesciamento del platonismo di Nietzsche (e anche dall’antiplatonismo di pensatori come Dilthey). L’insistenza di LIeidegger sull’ontologia, insistenza che in particolare in Essere e tempo sconcerta il lettore, al quale sembra di aver che fare con analisi esistenziali à la Kierkegaard molto più che con una ricerca sull’essere di stampo aristotelico, ha radici e motivazioni ben chiare nella struttura della filosofia heideggeriana. Come detto sopra, il problema che occupò Heidegger fin dall’inizio fu la Seinsfrage, cioè l’ontologia. Ma il fatto è che la Seinsfrage, dopo Kierkegaard, Nietzsche e Dilthey, non poteva più essere risolta né nel dualismo classico immanenza-trascendenza (che sbocca nella teologia), né nel dualismo kantiano e neokantiano esperienza-trascendentale. Non solo la prima, in effetti, ma anche la seconda è per Heidegger una forma di metafisica

31, che in quanto tale si lascia sfuggire il

senso dell’essere nella sua determinatezza, tutta interna all’essere stesso; nella sua intrinseca vitalità o motilità (come si legge già nel Natorp-Bericht del 19 2 2

32). E questo lo stesso motivo per cui

Heidegger, nel suo tormentato confronto con l’ontologia di Aristotele, finì per mettere in primo piano la Fisica, e in particolare il concetto dinamico di energeia

3^. L’orientamento cui abbiamo ora

accennato è antitetico a qualunque tentativo di riproporre il dualismo vita/valore, ed è in un certo senso destinato a sfociare nel vitalismo astratto della Entschlossenheit, o decisione: inclinazione che del resto fu comune a tanta parte della cultura europea nei primi quarantanni di questo secolo, con le torbide corrispondenze politiche che tutti conoscono.

L’apparente insipidità etica della filosofia di Heidegger è «destinata», d’altra parte, nella stessa misura in cui tale filosofia è una filosofia del destino (Geschick). Qui si fanno evidenti gli agganci con Hegel, agganci che la critica ha da tempo messo in luce (anche se forse non sono ancora stati indagati a fondo).

185

Ibid., p. 62. 186

Ibid.

Page 125: Franco Trabattoni

LA FILOSOFIA È UNA COSA SERIA? 115

L’ambizione di cogliere l’essere nel suo divenire è comune ad entrambi. Ma quando il divenire, la vita (o la motilità) vengono posti al centro dell’essere, come sua essenza, viene anche meno qualunque dialettica tra particolare e universale, e anche qualsiasi tentativo di porre un diaframma tra fatti e norme, di giudicare l’esperienza in base a criteri indipendenti. La differenza tra Hegel e Heidegger è che il primo conforma il destino del divenire alle astratte leggi del logos, alla luce di una necessità che dovrebbe essere in grado di esibire le sue ragioni; il secondo, invece, sta piuttosto dalla parte di Nietzsche, per cui il destino è la perentorietà esistenziale di quello che effettivamente ci è, e che la filosofia ha il compito di descrivere (non di dedurre). E se pure nell’analitica esistenziale di Heidegger vi sono analogie con Va priori e Va posteriori kantiani, quello che in Heidegger è a priori è la visione ambientale preveggente

187, nella quale già da sempre siamo come

«gettati». Allo stesso modo, l’unica possibile trascendentalità è quella dell’Esserci

188, cioè di quell’essere che noi da sempre siamo:

non l’universale, né la forma, l’idea o il valore. L’antiumanismo è perciò una conseguenza a cui non si può sfuggire. Che le analisi esistenziali di Heidegger risultino intraducibili in termini immediatamente etici è un dato strutturale implicito nell’indole più autentica del suo pensiero. Cosicché un loro recupero immediato in chiave etica si può fare solo decidendo consapevolmente contro Heidegger, in direzione di quell’antropologia che egli ha sempre giudicato negativamente.

Io credo che Heidegger, consapevole di questa impossibilità, abbia tentato di raggiungere l’etica in modo meno immediato, percorrendo una strada molto più lunga; anche a rischio di apparire cieco di fronte all’evidenza. Date le premesse da cui partiva, era un rischio che non si poteva evitare, se si voleva veramente andare al nocciolo del problema. La svolta heideggerriana, la tesi dell’oblio dell’essere, dipendono più di quanto non si creda da questa esigenza etica

36 e dalla crisi personale di Heidegger, che si è

trovato privo degli strumenti necessari per vedere che il nazismo era male. Questa crisi non è però stata sufficiente a ricondurlo su posizioni che riteneva ormai da molto tempo definitivamente superate. Avrebbe potuto davvero tornare a parlare, in modo semplice ed aurorale, di bene e male, di colpa e innocenza? Non sarebbe stato un ritorno alla concezione dell’essere come semplice presenza, ovvero un ritorno alla tanto deprecata filosofia dei valori

37, alla tesi per cui esistono oggetti concettuali che il pensiero

187

Essere e tempo, § 16 e sgg. 188

Cfr. a questo proposito soprattutto Wom Wesen des Grundes, tr. it. di F.

Volpi, Dell’essenza del fondamento, in Segnavia, Milano 1987, pp. 79-131.

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116 ATTUALITÀ DI PI ATONE

del soggetto coglie e definisce? Heidegger sentì che la sua filosofia non gli consentiva di farlo

38, e non lo fece. Sarebbe stato

36 Non ci sono motivi seri per dubitare della sincerità di Heidegger quando nella Lettera sull’umanismo spiega il senso deH’andumanismo di Essere e Tempo: «Questa opposizione non significa che tale pensiero si schieri contro l’umano e propugni l’inumano, difenda l’inumanità e svaluti la dignità dell’uomo. Si pensa contro l’umanismo perché esso non pone l’humanitas dell’uomo a un livello abbastanza elevato» (p. 283). Questo concetto, d’altra parte è ripetuto spesso nella Lettera. Più in generale meriterebbe di essere approfondito il motivo, cui variamente si allude nella Lettera, della ricerca delle radici premorali dell’etica: ricerca necessaria, per non trasformare il giudizio morale in una tautologia, o nel vuoto moralismo che riduce l’etica alla sterilità dell’encomio o del biasimo privi di mediazioni. Cfr., sempre nella Lettera, la tesi secondo cui solo il pensiero che pensa la verità dell’essere raggiunge una radicalità sufficiente per pensare l’etica in modo autentico, così da costituirsi addirittura come «etica ori-ginaria» (tr. it. in Segnavia, in particolare pp. 304-308).

37 Cfr. n. 14 e tutta la polemica contro i valori presente nella Lettera sull’umanismo, (tr. it. in Segnavia, pp. 299 sgg.).

38 Si veda ad esempio quanto Heidegger scrive sulla colpa nel § 58 di Essere e Tempo (p. 420 dell’edizione Utet, Torino 1986, della traduzione di P. Chiodi): «L’idea di colpa non solo deve sottrarsi al dominio del prendersi cura calcolante [potremmo chiamarlo il dominio della phronesis, n. d. r.], ma deve anche essere sciolta dal riferimento al dovere e alla legge, violando i quali si incorrerebbe in una colpa». La colpa sarebbe in tal caso una mancanza, una deficienza, una forma di non essere nel senso del semplicemente presente. Ma in quanto tale non si può applicare all’esistenza, perché ad essa «non può mancare assolutamente nulla, non perché essa sia completa, ma perché il carattere del suo essere è del tutto diverso da quello della semplice presenza». Il che nuovamente implica: se la comprensione dell’essere come semplice presenza e la metafisica che le è collegata appartengono a un modo di esistere inautentico, e se non sono chiacchiere che si fanno per sbarcare il lunario, non c’è davvero motivo di sorprendersi del fatto che Heidegger non abbia mai fatto alcuna ammissione di colpa nel senso «volgare» del termine («volgare» è parola di Heidegger, che si legge nella stessa pagina). come (per citare una formula di Nietzsche cara a Vattimo) tentare di sognare sapendo di sognare.

Io credo perciò che si possa imparare molto dall’esperienza di Heidegger: soprattutto nella misura in cui noi la giudichiamo una esperienza negativa, e drammaticamente segnata dall’errore. Heidegger insegna che se il pensiero ci porta davvero, e non per

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LA FILOSOFIA È UNA COSA SERIA? 117

gioco, al di là del bene e del male, il giudizio con cui rifiutiamo la crudeltà sono parole tolte dal sogno di un uomo che sa di sognare. Se viceversa non siamo disposti a rinunciare alla verità di questo giudizio etico, ed anche ammettiamo, contro i debolisti, che l’etica non può essere separata dalla filosofìa, allora vuol dire che possediamo un criterio di orientamento obbligato: non certo capace di costringere l’uomo sulla via di una verità incontrovertibile, ma almeno capace di dire che certi orientamenti filosofici non possono essere veri. L’errore di Heidegger è stato quello di non accorgersi che alla prova dei fatti la sua filosofia non può e non deve essere vera: perché non può essere vera una filosofìa che non ha più nulla da opporre, in quanto filosofia, all’orrore

189 delle camere a gas.

Qualunque cosa si voglia dire della «salvezza» proposta di Heidegger, rimane vero che si tratta di una salvezza inserita nel circolo di un destino, che non ha titolo per opporre valore a valore, che non può costituirsi come progetto, che si limita alla disvelatezza (Entbergung) e all’abbandono (Gelassenheit). E una salvezza antimetafìsica e antitecnica solo nel senso che «lascia essere». Anche Auschwitz. Prova ne è la stessa Lettera sull’umanismo. L’azione dell’ontologia, o etica fondamentale, consiste nel lasciar essere l’essere

190, cioè nella rinuncia a qualun-

que forma di soggettivismo. Soggettivistica è in generale la pretesa che sia il pensiero a creare la casa dell’essere

191, e in particolare

che sia l’uomo responsabile del male che accade nell’esperienza: l’essenza del male non consiste «nella semplice cattiveria dell’agire umano, ma nella malvagità deH’ostile»

192. Ciò significa che il

«nientificare dispiega la sua essenza» (così Franco Volpi traduce l’heideggeriano west) nell’essere stesso, e non nell’esserci dell’uomo

43. E chiaro perciò che Heidegger nel 1946, alla luce della

sua filosofia, vedeva l’opera nientificante del nazismo come inscritta nell’essere e come non dipendente dall’esserci dell’uomo. In verità io non saprei dire dove la filosofìa di Heidegger può arrivare, e dove è effettivamente arrivata, muovendo da queste basi. Quello di cui sono certo, è che muovendo da queste basi l’etica non la

189

Cfr. C. Luporini, Con Heidegger 1931-1933, p. 49. 190

In Segnavia, p. 309. 191

Ibid., p. 310. 192

Ibid.

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LA FILOSOFIA F. DNA COSA SERIA? 118

si raggiunge mai. Se il compito della filosofia è quello di insediarsi sul terreno dell’«etica originaria», questo vuol dire che non è compito della filosofia occuparsi di etica.

Mi pare perciò urgente che certi filosofi italiani di oggi invece di condividere la sequenza heideggerriana, scandalosamente superficiale e priva delle più elementari distinzioni critiche, che fa derivare Auschwitz dalla metafisica e dalla tecnica; invece di assolvere la filosofia di Heidegger dalle sue compromissioni con il nazismo, in base alla supposizione ermeneuticamente debolissima che si tratterebbe di autofraintendimento

193; invece di cercare

proprio nella filosofia di Heidegger una certa forma di salvezza dagli abissi che minacciano la società contemporanea; farebbero meglio a pensare se è accettabile una deriva filosofica, da Nietzsche ad Heidegger, che non ha più in mano gli strumenti per dare una semplice valutazione etica dei campi di sterminio; e se è accettabile la filosofia di chi, per aver preso sul serio la filosofia, per aver ritenuto che i suoi pensieri dovessero rimanere gli stessi prima e dopo il «caso» Auschwitz, non ha mai potuto ritrattare con chiarezza il suo antisemitismo. Se anche noi oggi dovessimo accet-tare lo stesso destino cui Heidegger ha ritenuto necessario attenersi, allora bisognerebbe ammettere davvero che l’uomo è impotente, e che solo un dio lo può salvare

194. Non sarebbe invece

piuttosto il caso, dopo l’orgia bacchica dei tramonti, dei superamenti (Uberwindungen o Verwindungen che siano), delle decostruzioni e dei postmodernismi, di ripensare alla filosofia come

193

Questi temi sono presenti in molti degli scritti di Vattimo dalla fine degli

anni ’70 ad oggi (numerosi e ben noti, in parte anche al di fuori della cerchia

degli specialisti, tanto che sarebbe inutile menzionarli qui). Ricordiamo soltan-

to, per l’esplicita menzione di Auschwitz, Metafisica, violenza e

secolarizzazione, in Filosofia ’86, a cura di G. Vattimo, Roma-Bari 1987, pp. 71-

94. 194

Come è noto, questa è la conclusione dell’intervista di Heidegger a «Der

Spiegel» (sopra citata), ed è poi l’ultima parola deH’itinerario speculativo hei-

deggeriano. Vale la pena di citare a questo proposito una frase rivelativa di

Vattimo: «Da questo punto di vista si potrebbero rileggere anche gli scritti e i

discorsi politici dell’epoca del rettorato, mettendo in luce che la posizione nei

confronti del nazismo come «destino», con tutta la sua equivocità, è forse solo

il riconoscimento di questo necessario prevalere delle dimensioni

sociopolitiche su quelle individuali nell’esperienza dell’uomo. Che Heidegger

non si opponga a queste «potenze» sovrapersonali in nome di esigenze e

valori «esistenzialistici» o personalistici, cioè in nome del singolo

kiekegaardiano, non costituisce un limite ma anzi il vero elemento positivo e

«profetico» del suo pensiero, che si apre alla comprensione delle nuove e

ancora ignote dimensioni dell’esperienza» (Le avventure della differenza, p.

61). Il riferimento a Kierkegaard qui non è essenziale. Essenziale è invece il

riferimento ai valori. L’uomo viene qui descritto come colui che non ha valori

da opporre alla necessità storica. In tal

Page 129: Franco Trabattoni

cosa seria, come riflessione che nasce socraticamente dalle istanze più semplici e più inderogabili dell’esistenza? Non sarebbe il caso di ammettere con franchezza che vi è ancora oggi tra gli uomini, all’insaputa dell’uomo comune che non si crede filosofo e con buona pace del filosofo che crede separabile l’etica dalla filosofia, una macroscopica uniformità filosofica, che ha resistito agli attacchi di tutte le genealogie e di tutti i prospettivismi, la quale consiste nel distinguere ciò che è bene da ciò che è male, nel dire che il bene dovrebbe essere perseguito e il male evitato? E se siamo d’accordo nel dire che Auschwitz fu male, che la crudeltà è male, non sono forse questi giudizi abbastanza forti per costringerci sulla strada di una filosofia davvero capace di pensare il bene e il male (e non collocata al di là di essi), di argomentare in favore del primo e contro il secondo, di convocare su questo terreno tutti gli uomini che hanno rispetto della propria umanità?

modo risulta affetto da una doppia impotenza: anche se disponesse dei valori, non potrebbe combattere contro la necessità, e anche se la necessità non ci fosse, non avrebbe valori da proporre. Che cosa ci sia di «positivo e profetico» in questa posizione, e quali siano le possibilità che lascia aperte per l’uomo, è per me impossibile da capire. Quello che è invece è del tutto chiaro è che per l’Heidegger qui encomiato (per usare un’espressione cara a Rorty) da Vattimo, l’evento di Auschwitz appartiene a un destino storico a cui l’uomo non può opporsi con argomenti semplicemente morali. Come si

Page 130: Franco Trabattoni

120 ATTUALI TÀ DI PLATONE

vede, esistono forme di revisionismo anche molto sottili, e accuratamente mascherate. Capitolo V

L’interpretazione heideggeriana della dottrina delle idee e le sue

premesse. Alcune osservazioni195

Se si legge l’unico testo che Heidegger ha pubblicato su Platone durante la sua vita, cioè la conferenza che ha per titolo La dottrina platonica della verità (apparsa per la prima volta nel 1942

1 e poi compresa nella raccolta Wegmarken

2), sarebbe facile

concludere che il confronto pluriennale con la filosofia di Platone ha in ultima analisi prodotto un risultato del tutto negativo. Infatti, come è ben noto, in questo testo Heidegger ha accusato Platone di aver occultato il significato originario della nozione di verità, intesa cone Unverborgenheit (svelatezza). In tal modo Platone avrebbe inaugurato un percorso sul quale si è in seguito incamminata tutta la tradizione filosofica occidentale (ossia la metafisica): per dirla in breve, questa tradizione accetterebbe concordemente l’idea che la verità non è un attributo dell’essere, ma del pensiero, del discorso, della proposizione.

Tuttavia - e ciò appare sempre più evidente mano a mano che vengono pubblicati nella GA i corsi universitari tenuti da Heidegger tra gli anni ’20 e ’40 - l’atteggiamento di Heidegger di fronte alla filosofia di Platone è tutt’altro che univoco. Con questo voglio dire non solo che il giudizio di Heidegger nei confronti del pensiero platonico non ha sempre assunto l’aspetto di un rifiuto, ma soprattutto che il filosofo di Friburgo ha per lungo tempo pensato di trovare in Platone un precursore della sua concezione dell’essere e della verità. Ma anche questo, ormai, è ben noto

3. Così come è

195 Traduzione italiana di un intervento tenuto in francese al colloquio

"Platon et Heideggei1', Nizza, 5-6 febbraio 2008, in corso di pubblicazione negli

atti del convegno. 1 Platons Lehre von der Wahrheit, «Geistige Uberlieferung. Die zweite

Jahrbuch», pp. 96-124. 2 Frankfurt a.M. 1976. Tr. it Segnavia, da cui citiamo, Milano 1987. 3 Accurate esposizioni dello sviluppo e dell’evoluzione che ha subito nel

corso degli anni il confronto di Heidegger con Platone si trovano sia in A.

Boutot, Heidegger et Platon. Leproblhn.edu nihilisme, Paris 1987 (v. in part.

pp. 40, 149-150, dove si sottolinea che l’atteggiamento di Heidegger non è

sempre stato negativo) sia in A. Le Moli, Heidegger e Platone. Essere

Relazione Differenza,

Page 131: Franco Trabattoni

ben noto, almeno dopo la pubblicazione nel 1988 nella GA del corso tenuto nel semestre invernale

Page 132: Franco Trabattoni

122 ATTUALITÀ DI PLATONK

1931/32, pubblicato con il titolo Vom Wesen der Wahrheifi, che il punto di rottura con la nozione platonica di verità passa attraverso la differente interpretazione del mito della caverna che Heidegger ha proposto, in rapporto al testo che abbiamo ora citato, nella conferenza pubblicata nel 1942. Ci sono delle buone ragioni per sospettare, e non solo in forza della concomitanza cronologica, che questa rottura abbia un legame particolarmente stretto con ciò che Heidegger stesso ha chiamato la Kehrfi, al punto che si potrebbe persino vedere al fondo di questa svolta una specie di renversement du platonisme. o, più precisamente, un rifiuto, da parte di Heidegger, della componente platonica (una componente, ben inteso, che si può chiamare platonica solo se si accetta l’interpretazione di Platone proposta da Heidegger) che era più o meno consapevolmente attiva nel suo pensiero.

Nelle pagine che seguono mi occuperò marginalmente anche di questo problema, ma non si tratta del mio obiettivo principale. Il compito che mi propongo di assolvere, in effetti, è quello di mostrare che il modificato atteggiamento di Heidegger nei confronti di Platone non dipende in primo luogo dal fatto che egli avrebbe mutato la sua interpretazione dei fondamenti della filosofia platonica, ma piuttosto dal fatto che egli, nei dieci anni cruciali tra il 1930 e il 1940, si è sempre più reso conto che la sua immagine di Platone, e in particolare dell’epistemologia e dell’ontologia platonica, era in ultima analisi incompatibile con il ruolo che in precedenza egli aveva creduto di poter attribuire ad esse all’interno del proprio percorso speculativo. Più precisamente, la mia tesi è che Heidegger ha interpretato fin dal principio la filosofia di Platone alla luce di modelli esegetici, quali quelli che ricavava da Aristotele

6

e da Husserl, sulla base dei quali non era in realtà possibile considerare la teoria platonica dei principi (cioè le idee e l’idea del bene) come una valida prefigurazione della dimensione trascendentale rappresentata, nella filosofia dello stesso Heidegger, dal Dasein (ante Kehré) o dall’essere (post Kehre).

2. Iniziamo la nostra analisi con l’interpretazione del mito della

Milano 2002. Una lista di studi recenti pubblicati sul problema Platone- Heidegger si trova in A. Caputo, Vent’anni di recezione heideggeriana (1979-1999). Una bibliografia, Milano 2001, pp. 235-237.

4 Frankfurt a.M. 1988, tr. it., L'essenza della verità, da cui citiamo, Milano 1997.

5 E’ questa la tesi, ottimamente argomentata, di P. Ciccarelli, Il Platone di Heidegger. Dalla «differenza ontologica» alla «svolta», Bologna 2002.

6 Sulla deformazione aristotelica dell’interpretazione di Platone proposta da Heidegger ha scritto pagine molto

Page 133: Franco Trabattoni

‘HEIDEGGER E LA DOTTRINA DELLE IDEE 123

interessanti S. Rosen, The question of Being. A Reversai of Heidegger, New Haven-London 1983, pp. 1-35. caverna compresa nel corso del semestre invernale 1931/32. Heidegger, esattamente come poi farà ne La dottrina platonica della verità, divide il testo platonico in quattro sezioni: 1) la situazione dell’uo- mo nella caverna, 2) la prima liberazione dell’uomo, che avviene ancora all’interno della caverna, 3) la vera liberazione dell’uomo, che avviene quando egli può uscire dalla caverna e vedere la luce originale, 4) la discesa nella caverna del prigioniero liberato. Ciò che qui ci interessa è il terzo stadio, il problema principale consiste nel comprendere che cosa significa il soggiorno del prigioniero fuori della caverna, ossia il suo abitare nel luogo supraceleste che è anche il luogo delle idee, e che è a sua volta illuminato dalla luce generata dall’idea suprema, ossia l’idea del bene

17. In questo nuovo soggiorno l’uomo è finalmente in grado

di conoscere non più le ombre, ma delle realtà completamente diverse, cioè le idee. A proposito di queste idee Heidegger afferma qui che esse sono altro rispetto all’ente

196.

Prima di vedere in dettaglio le caratteristiche dell’interpretazione heideggeriana del testo platonico, in particolare a proposito della natura delle idee e del modo in cui è possibile conoscerle (un problema su cui torneremo più avanti), consideriamo ora da un punto di vista generale la situazione che si produce con il completamento del terzo stadio. L’idea, in questo punto del testo, non è tanto un oggetto che è visto, ma piuttosto «la veduta (Anblick) dell’ “in quanto che cosa qualcosa che è si presenta»

197; ciò significa che l’idea è il mezzo nel quale «noi

scorgiamo (erblicken wir) che cosa ogni ente è e come esso è, in breve: l’essere dell’ente»

198. In altri termini, la funzione

fondamentale dell’idea è «essenza della luce e del chiaro, la penetrabilità al vedere (Durchlàssenheit fùr das Sehen)»

u.

Ancora: «Ciò che è avvistato nell’idea, e in quanto idea», non è l’idea stessa, ma «l’essere...dell’ente»; «l’idea ci fa vedere (sehen) che cosa l’ente è» perché non è possibile vedere l’ente se non laddove l’essere è già preliminarmente compreso. L’idea, allora, può essere assimilata all’essere stesso, nella misura in cui è, esattamente come la luce, ciò che «lascia passare (Durchlassen) ». Insomma, «la funzione fonda- mentale ( Grundleistung) dell’idea è l’essenza fondamentale ( Grudwesen) della luce»

199.

Tutte queste qualificazioni, come si può facilmente vedere,

196

Ivi, p. 73. 197

Ivi, p. 76. 198

Ivi, p. 77. 199

Ibid.

Page 134: Franco Trabattoni

124 ATTUALITÀ DI PI ATONE

definiscono l’idea come una specie di condizione trascendentale che rende possibile la comprensione dell’essere (o, meglio, dell’essere dell’ente). Più avanti nel testo Heidegger precisa in maniera ancora più chiara che le idee in quanto tali «non sono niente “in sé”, non sono mai oggetti». Infatti «le idee non sono...affatto oggetti presenti, nascosti da qualche parte, che si potrebbero scovare per mezzo di qualche incantesimo». Ciò non significa, d’altra parte, che esse siano qualcosa di totalmente soggettivo, perché «non sono né cose, oggettivamente, né solo alcunché di escogitato, di soggettivo»

200. In conclusione, le idee

rappresentano l’apertura trascendentale e preliminare dell’essere in quanto tale, metaforizzata attraverso l’immagine della luce, che rende possibile qualunque comprensione dell’ente, e che, per tale motivo, non sta né dalla parte dell’oggetto né dalla parte del soggetto.

3. E tuttavia ben possibile intravedere, nel testo heideggeriano, una tendenza evidente a “umanizzare”

201 questa condizione

trascendentale, avvicinandola alle strutture fondamentali del Dasein e ai dati tolti dall’analitica esistenziale di Sein und Zeit. Notiamo, in primo luogo, che le nozioni di idea e di luce sono, fin dall’inizio deiranalisi del terzo stadio, associate alle nozioni di libertà e di liberazione (nel senso dell’atto di liberarsi, Frei-werderì). A prima vista ciò pare del tutto ovvio, dal momento che la storia raccontata e commentata da Heidegger è appunto la storia della liberazione dei prigionieri dalla loro cattività sotterranea. Ma il problema è che questa liberazione/libertà, di cui parla Platone nel mito della caverna, è una liberazione/libertà intesa come proprietà degli uomini, i quali pervengono, durante il loro difficile cammino di risalita, a liberarsi dalle loro catene. Di conseguenza, l’interpretazione heideggeriana del testo platonico sembra descrivere uno schema esegetico segnato da una fondamentale ambiguità. Da un lato il fine dichiarato dell’analisi di Heidegger è mettere in rilievo un orizzonte ontologico trascendentale, che coincide con l’apertura originaria dell’essere e rende possibile il dispiegamento di ogni verità relativa all’essere dell’ente, includendo nello stesso tempo il mondo, gli uomini e tutta la natura non umana. D’altro lato, questo orizzonte sembra strettamente legato a, o meglio dipendente da, le strutture esistenziali del Dasein: in particolare la libertà, l’attività progettante, o addirittura la decisione dell’uomo.

Non è diffìcile rinvenire nel testo che stiamo esaminando le

200

Ivi, p. 97. 201

Su questo tema dell’ “umanizzazione” cfr. P. Ciccarelli, Il Platone di Heidegger (in part. pp. 47-111).

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‘HEIDEGGER E LA DOTTRINA DELLE IDEE 125

tracce di questa seconda prospettiva, ossia di questa specie di umanizzazione dell’orizzonte trascendentale. Heidegger non ritiene, beninteso, che la nozione di libertà significhi soltanto una volontà di cui l’uomo ha una proprietà assoluta. Si tratta, in effetti, di una “liberazione”, di «un vincolarsi progettante (etti entwerfendes Sich-binden) ». E tuttavia si tratta di una attività liberatrice messa in opera dall’azione del soggetto che ne è il protagonista, che ha il compito di «abituare progressivamente lo sguardo dal buio al chiaro»

202. Qualche pagina dopo Heidegger,

più chiaramente ancora, dichiara:

Divenire liberi significa comprendere l’essere in quanto tale e soltanto questa comprensione fa essere l’ente in quanto ente. Che l’ente diventi più o meno ente dipende dunque dalla libertà dell’uomo...

203

Questa umanizzazione della libertà trova il suo corrispettivo, in primo luogo, nell’attività progettante per mezzo della quale essa manifesta la sua essenza. Secondo Heidegger

Comprendere l’essere significa: progettare anticipatamente la legalità e la struttura essenziali dell’ente. Divenire liberi per l’ente, vedere-nella-luce, significa compiere il progetto d’essere in cui viene pro-gettata e tenuta davanti una veduta [Anblick] (immagine [Bild\) dell’ente...

204

In secondo luogo, la prospettiva umanizzante determina anche la natura dello “scorgere” che è appropriato alle idee: scorgere le idee non significa semplicemente trovare qualcosa davanti a sé per mezzo dello sguardo, ma significa

un guardare (Blicken) nel senso dello scorgere {Er-blicken), vale a dire del formare anzitutto attraverso il guardare e nel guardare ciò che viene scorto (la veduta [Anblick] ) - formar lo anticipatamente, pre-formarlo (vor-bilden)

205^.

In effetti le idee, come abbiamo già visto, non sono nulla in quanto tali: «le idee», prosegue Heidegger, «essendo qualcosa di avvistato (Gesichtetes), sono solo (se mai possiamo dire così) in

202

L'essenza della verità, p. 84. 203

Ivi, p. 86. 204

Ibid. 205

Ivi, p. 97.

Page 136: Franco Trabattoni

126 ATTUALITÀ DI PI ATONE

questo vedere che scorge {in dieserà Erbkickenden Sehen)»206

. Non è dunque senza ragione che un recente commentatore, al quale dobbiamo una parte delle

206

Ibid.

Page 137: Franco Trabattoni

». VHEIDEG* ;κ κ E IΛ DOTTRINA DELLE IDEE 127

riflessioni esposte fin qui, ha potuto scrivere che ΓίδέΙν fonda ontologicamente le idee

207.

La conclusione di questo lungo ragionamento di Heidegger è che la capacità di svelare, in fondo, è «un accadere - un accadimento che riguarda l’uomo»

208. Durante questo evento, è

importante aggiungere, ciò che accade all’uomo è una sorta di decisione (Entscheidung), mediante la quale l’uomo diviene «ciò che può essere secondo le possibilità che gli sono accessibili»

209.

Per dirlo in termini un po’ brutali, la storia che Heidegger racconta commentando il mito della caverna è semplicemente la storia di una conversione, la storia della decisione dell’uomo di rivolgere lo sguardo verso la luce e l’essere, per mezzo di una scelta spontanea che coincide con la sua libertà, cioè la libertà di farsi legare dai legami della verità dell’essere. E come se l’uomo non incontrasse l’orizzonte trascendentale, che rende possibile la verità dell’essere, in quanto struttura che appartiene all’essere come tale, ma in quanto è la vera essenza del Dasein, che in altre parole non è altra cosa che lui stesso. L’uomo, ossia il Dasein, scopre la trascendentalità dell’essere come struttura essenziale e purificata (questa purificazione coincide appunto con il percorso che conduce il prigioniero dal fondo della caverna alla luce del sole) di se stesso: tale struttura, infatti, si esprime come lo sguardo (Gesicht) dell’uomo, come la libertà/liberazione (Befreiung/Frei-werden) dell’uomo, come l’attività pro-gettante ( Vor-wer- fen) e pre-figurante (Vob-bilden) dell’uomo, come una decisione (.Entscheidung) dell’uomo.

E vero che Heidegger nega con forza, nel nostro testo, l’interpretazione umanizzante, soggettiva, o addirittura relativista, del percorso che ha esposto. Quando dice, in effetti, che la capacità di svelare è un evento che concerne l’uomo, è ben consapevole del pericolo che ciò potrebbe comportare: ossia che la verità, una volta ridotta a qualcosa di puramente umano, sia di conseguenza ridotta semplicemente a nulla

210. La risposta

heideggeriana a questa possibile obiezione consiste nel mostrare che nell’affermazione secondo la quale la verità è qualcosa di umano non si deve intendere la nozione di uomo (e, più generalmente, la nozione di umanità) in un senso immediato e superficiale. Infatti il percorso corretto non va dalla conoscenza dell’uomo alla conoscenza dell’essenza della verità, ma, proprio al contrario, dall’essenza della verità alla conoscenza dell’uomo: si

207

P. Ciccarelli, Il Platone di Heidegger, p. 103. 208

La dottrina platonica della verità, p. 99. 209

Ivi, p. 102. 210

Ivi, p. 99.

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128 ATTUALITÀ 1)1 PLATONE

comprende l’uomo, secondo Heidegger, a partire dall’essenza della verità, e non viceversa. In effetti, a ben guar- ^ dare, c’è qui la stessa situazione che troviamo nell’analisi

esistenziale di ggin und 7At, dove, benché Heidegger si sia sforzato di sottolineare s esplicitamente la natura ontologica del suo lavoro e di distinguere accu- ^ ratamente tra la nozione di uomo e la nozione di Dasein, la coloritura esistenziale/antropologica può difficilmente essere trascurata. E come vge l’accesso alla dimensione della verità, cioè alla svelatezza, fosse sospeso a una scelta esistenziale molto vicina alla decisione che, in Sein und *.Zeit, segna la differenza tra la condizione inautentica e la condizione autentica del Dasein.

4. Questa prospettiva, che con una certa approssimazione potremmo chiamare “umanistica”, è all’opera anche nella frequente utilizzazione, fatta da Heidegger nel periodo di cui ora ci stiamo occupando, di un’altra importante nozione della filosofia platonica, ovvero l’idea del bene

211. Nello stesso corso

del 1931/32 egli dedica a questo tema un intero capitolo. L’orientamento generale della sua lettura si fonda sul presupposto che l’idea del bene possiede, benché notevolmente amplificate, le stesse caratteristiche delle altre idee: «l’idea somma attende nel modo più originario e più proprio a quello che comunque è già il compito dell’idea» E questo compito consiste evidentemente nel «rendere possibile essere e svelatezza (etwas wie Sein und Unverborgenheit mit- ermòglìcht) ». L’idea, in altre parole, è ciò che «conferisce all’essere e alla svelatezza, in quanto tali, il potere ài essere ciò che sono»

212. Affinché l’idea del bene,

così chiaramente segnata in senso assiologico, possa real-mente assolvere questo compito, Heidegger precisa che non la si deve intendere nel suo significato etico, ma secondo il significato greco della parola: non si tratta del bene morale, ma di «ciò che è idoneo a qualcosa e rende idoneo qualcos’altro (was etwas taugt und anderes tauglich macht) con cui si possa iniziare qualcosa»

213. In questo senso l’idea del bene,

proprio come tutte le altre idee, non è una cosa o un oggetto, benché trascendente, ma piuttosto un trascendentale, un principio che non cade sotto la categoria dell’ente ma sotto la

211

V. in proposito l’ottima sintesi di A. Boutot, Heidegger et Platon, pp.

154-181. 212

La dottrina platonica della verità, p. 126. 213

Ivi, p. 135.

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». VHEIDEG* ;κ κ E IΛ DOTTRINA DELLE IDEE 129

categoria della dynamis. Si potrebbe anche aggiungere che è proprio questa connotazione del bene, che segna la natura dell’ente supremo, ciò che dà alle idee in generale la caratteristica trascendentale di dynamis, di essere ciò che rende possibile (Ermachtigung). In altre parole, l’idea del bene rappresenta, per Heidegger, al grado più alto, la nozione contratta di finalità, di «in vista di» (umwillen o worumwillen), dello sguardo pre-figurante e pro-gettante che individua la differenza tra il puro ente e la dimensio-

ne trascendentale della verità, della libertà e dell’essere. Ma allo stesso tempo questo primato della nozione di bene, nel senso greco del termine, ha anche l’effetto di rendere in qualche modo inevitabile l'inflessione antropologica della differenza ontologica, per la buona ragione che è propriamente l’uomo colui che esercita la libertà, che si libera, che inizia a fare qualcosa, che pensa e vive in vista di qualche cosa e - in generale - in maniera pre-fìgurante e pro-gettante. In effetti, a conclusione della parte del suo corso dedicata al mito della caverna, e subito dopo l’analisi dell’idea del bene, Heidegger ripete ancora una volta ciò che si potrebbe considerare come il vero risultato del suo lavoro: «la domanda sull’essenza della verità è la domanda sulla storia dell’essenza ( Wesengeschichte) dell’uomo - e viceversa». Qualche pagina più avanti, dove Heidegger sintetizza le sue conclusioni, si legge ancora più chiaramente che

la svelatezza dell’ente e la trasformazione ( Wandlung) di questa svelatezza sono connesse all’essenza dell’uomo, nella sua liberazione in vista di se stesso, anzi...non sono nient’altro se non il carattere di accadimento che è proprio di questa liberazione ( Geschehenscharakter dieser Befreiung)^.

Non si potrebbe mettere meglio in rilievo l’andatura fondamentalmente antropologica del cammino percorso da Heidegger nel testo che abbiamo studiato.

L’importanza che Heidegger, a un certo punto della sua carriera speculativa, ha concesso all’idea del bene (segnata dai tratti teleologici e antropologici che abbiamo sottolineato) al fine di connotare le sue proprie nozioni di essere e di verità, è chiaramente messa in luce dal grande numero di occorrenze di tale principio nei testi che circondano la redazione di Sein und Zeit. Nel corso del semestre estivo del 1928 (l’ultimo tenuto da Heidegger a Marburgo, pubblicato nella GA col titolo Principi metafìsici della logica

214) si legge per esempio che nell’idea del

214

Metaphysische Anfangsgriin.de der Logik, GA Bd.26, Frankfurt a.M.

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130 ATTUALITÀ 1)1 PLATONE

bene bisogna vedere ciò che Platone e Aristotele designano come lo ού ένεκα, cioè

L’ ιδέα τού άγαθοΰ, che è ancora oltre l’ente e il regno delle idee, è l’in-vista-di - il che significa: è la determinazione autentica che trascende la totalità delle idee e le organizza nello stesso tempo come un intero

215.

1978 (tr. it., da cui citiamo, Genova 1990).

215 P. 219.

Page 141: Franco Trabattoni

‘HEIDEGGER E LA DOTTRINA DELLE IDEE 131

Troviamo la stessa determinazione dell’idea del bene come ού ένεκα e come Γ “in vista di” in un saggio che risale anch’esso al 1928, L’essenza >del fondamento

00 (poi inserito in

Wegmarkerì), dove Heidegger precisa inoltre che essa è «la sorgente della possibilità come tale»

216. Ma è ancora più

interessante notare che in questo stesso testo Heidegger stabilisce un nesso assai chiaro tra l’idea del bene e il Dasein:

Nella frase di Platone έπέκεινα της ουσίας si parla espressa- mente della trascendenza. Ma è possibile interpretare Γάγα- θόν come trascendenza dell’esserci? Uno sguardo sia pure fugace al contesto in cui Platone discute la questione dell’à- γαθόν dovrebbe dissipare ogni perplessità. Il problema del- Γάγαθόν è soltanto il punto culminante della questione centrale e concreta relativa alla possibilità fondamentale dell’esistenza dell’esserci nella πόλις

217.

Questa affermazione ci rinvia a un corso tenuto pochissimo tempo prima, ossia durante il semestre estivo del 1927, pubblicato nella GA con il dtolo I problemi fondamentali della fenomenologia

218. In questo testo troviamo, dopo un breve

riassunto dell’interpretazione del mito della caverna più ampiamente esposta nel corso del 1931/32, una affermazione molto significativa: «Γέπέκεινα της ουσίας è ciò su cui bisogna interrogarsi, posto che l’essere deve divenire oggetto della conoscenza»

219. Quello che colpisce, in questa citazione, è che qui

Γέπέκεινα τής ουσίας, cioè l’idea del bene, ha esattamente lo stesso ruolo che, in Sein und Zeit, era appannaggio del Dasein. E ciò sembra sottolineare, ancora una volta, l’inflessione umanistica dell’ontologia che Heidegger cercava di elaborare a cavallo tra gli anni ’20 e ’30.

5. Tutto ciò è in qualche modo confermato dal fatto che la Kehre degli anni ’30, almeno secondo una interpretazione molto diffusa, consiste proprio in una modificazione decisiva della differenza ontologica: questa differenza, dopo la Kehre, non passa più tra la dimensione trascendentale del Dasein e la dimensione ontica dell’ente non umano, ma tra l’essere e l’ente in generale, dove è chiaro che il vero trascendentale coincide ora con un “essere” del tutto impersonale, mentre la dimensione umana viene

216

Segnavia, p. 117. 217

Ivi, p. 116 (ho leggermente rimaneggiato la traduzione). 218

Die Grundprobleme der Phànomenologie, GA Bd. 24, Frankfurt a.M.

1975 (tr. italiana, da cui cidamo, Genova 1999). 219

Ivi, p. 273.

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132 ATTUALITÀ DI PI ATONE

relegata nella zona inferiore della dicotomia. In questa prospettiva la Kehre sarebbe allora una presa di distanza dagli elementi antropologizzanti che persistevano, malgrado le stesse intenzioni di Heidegger, sia nelle analisi esistenziali di Sein und Zeit, sia nella filosofìa di Platone, quale egli la interpretava nella stessa stagione speculativa. Ci sarebbe, in fin dei conti, una plausibile (ancorché parziale) rappresentazione della Kehre come un rifiuto del platonismo.

E tuttavia lecito domandarsi in che senso la filosofia di Platone, e specialmente la teoria delle idee che è al centro dell’interpretazione heideggeriana, possa essere letta alla luce di una preminenza antropologica. In effetti, se si prende la teoria delle idee in quanto tale senza aggiungervi troppe finezze interpretative, pare piuttosto che essa stabilisca il primato assoluto dell’oggetto sul soggetto: le idee corrispondono infatti all’essere vero, eterno e immutabile, superiore alla dimensione umana, che stabilisce le regole oggettive della verità, della conoscenza e dell’azione (etica e politica). Se questo è vero, è abbastanza evidente che la proposizione heideggeriana secondo la quale lo svelamento, o più semplicemente la verità, è un evento che concerne l’uomo, non concorda assolutamente con il platonismo. In Platone, in effetti, sembra piuttosto che l’essere e la verità abbiano un primato e una autonomia assoluti, e che l’uomo sia soltanto quell’ente il quale, a certe condizioni, può eventualmente prendervi parte. In realtà è abbastanza curioso che nel momento in cui, nel corso del 1931/32, Heidegger cerca di ribattere la possibile accusa di aver ridotto la verità a un semplice attributo dell’uomo, è come se si trattasse di esorcizzare una sorta di relativismo protagoreo: «Che cos’è l’uomo per poter diventare la misura di ogni cosa?»

220. Il problema che

dobbiamo porci ora è dunque quello di capire quali sono le particolarità dell’interpretazione heideggeriana di Platone che potrebbero far confondere la sua filosofia, o meglio la sua ontologia e la sua epistemologia, con il loro nemico più pericoloso, ossia il protagorismo.

6. Per rispondere a questa domanda bisogna anzitutto chiedersi che cosa accade quando Heidegger cessa di considerare le idee platoniche (e specialmente l’idea del bene) un interessante equivalente della trascendenza del Dasein, e inizia a pensare che è proprio la dottrina platonica la fonte principale dell’occultamento tanto della nozione originaria di verità quanto della differenza ontologica (che, almeno in un certo senso, ne dipende). Nel corso del 1931/32 non mancano, per la verità osservazioni critiche che ci permettono di capire che, secondo Heidegger, Platone non aveva

220

L’essenza della verità, p. 99.

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‘HEIDEGGER E LA DOTTRINA DELLE IDEE 133

colto in modo del tutto soddisfacente la nozione originaria di verità, ovvero che nella sua trattazione del problema erano già presenti i germi di una trasformazione errata del suo significato. D’altra parte, nella conferenza La dottrina platonica della verità (dove Heidegger prende nettamente le distanze da Platone) l’analisi del mito della caverna è più o meno identica a quella esposta nel corso del 1931/32: il mito racconta la conquista progressiva, da parte dei prigionieri, della dimensione di una verità intesa come svelatezza, mentre le idee, e in primo luogo l’idea del bene, hanno ancora lo stesso ruolo trascendentale che conosciamo. Secondo Heidegger, infatti, per la comprensione del mito non bisogna limitarsi a ciò che Platone esplicitamente dice, ma è invece necessario (come egli fa notare fin dall’inizio) appellarsi al “non detto”, cioè a ciò che resta non formulato nel testo, e che tuttavia è alla base del cambiamento che si verifica a proposito della nozione di verità. In altri termini, Heidegger ora vede nelle pagine di Platone una ambiguità inevitabile, che si rende manifesta

per il fatto che Platone, mentre tratta e discute άεΗ’άλήθεια, nondimeno pensa e assume come determinante Γόρθότης, e tutto questo nel corso dello stesso pensiero

221.

Il mito, secondo questa nuova interpretazione, «si fonda sul processo non detto attraverso cui Γίδέα diviene padrona dell’c^Geta»

222. Più precisamente

Se ovunque in ogni comportarsi in rapporto all’ente ciò che importa è 1’ίδεΐν dell’ìòéa, la visione dell’ «e-videnza», allora ogni sforzo deve concentrarsi anzitutto nel rendere possibile un tale vedere

223.

Il passo ora citato è decisivo, a mio avviso, per capire le ragioni profonde del cambiamento di atteggiamento di Heidegger nei confronti di Platone: un cambiamento che, nel testo stesso di Heidegger, ha piuttosto il carattere del non detto che quello dell’espressione manifesta.

L’idea platonica, secondo Heidegger, perde la sua connotazione trascendentale precisamente quando ci si accorge che anch’essa appartiene al dominio degli oggetti. Infatti l’idea platonica rappresenta la realtà obiettiva che è vista, evidentemente tramite uno sguardo intellettuale, da un soggetto che rivolge ad essa la sua attenzione. Non abbiamo

221

Segnavia, p. 186. 222

Ivi, p. 184. 223

Ivi, p. 185.

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134 ATTUALITÀ DI PI ΑΤ ΟΝΕ

più dunque a che fare, in tal modo, con una dottrina che pone i fondamenti di una comprensione trascendentale dell’essere, ma con i dati primitivi di qualunque ontologia metafisica: un soggetto puramente intellettuale e un oggetto puramente intelligibile, e la conoscenza della realtà intesa come accordo tra i due.

Ora, la mia tesi è, in primo luogo che questa interpretazione tradizionalmente metafisica della teoria platonica delle idee, benché Heidegger sia stato probabilmente influenzato anche dalla lettura trascendentale di Paul Natorp, è presente in tutti i testi in cui il filosofo di Friburgo si occupa di Platone, anche in quelli appartenenti al periodo in cui egli dimostrava, verso il filosofo ateniese, una atteggiamento piuttosto compiacente; e, in secondo luogo, che Heidegger è stato profondamente influenzato, a questo proposito, dalle analogie che egli credeva di vedere tra la conoscenza delle idee in Platone e la nozione di intuizione categoriale messa a punto da Husserl nella VI Ricerca Logica.

7. Iniziamo dal primo punto. Nella prima parte del corso del semestre estivo 1924/25, dedicato al Sofista

224 Heidegger si

propone espressa- mente di interpretare la filosofìa di Platone a partire da quella di Aristotele

225. Ora, questa scelta esegetica ha

l’effetto, fra gli altri, di assimilare l’epistemologia di Platone a quella di Aristotele, e in particolare di stabilire che c’è, in Platone, la stessa corrispondenza perfetta tra realtà e logos, ossia tra realtà, pensiero e parola, che troviamo nelle prime righe del de interpretatione aristotelico. Ma questo significa che la possibilità di attribuire all’idea platonica la funzione di orizzonte trascendentale, e dunque essenzialmente non oggettivabile, è compromessa fin dal principio. In effetti, nel corso del medesimo testo, Heidegger giunge a dire che in Platone uno dei significati fondamentali del λόγος «manifesta la sua identità con Γειδος»

226 Di conseguenza, come si

può facilmente vedere, l’idea e il λόγος (che, a sua volta, nell’interpretazione di Heidegger significa anche il νους

227)

intrattengono fra di loro un rapporto puramente e perfettamente speculare, che elimina qualunque eccedenza trascendentale e fonda la nozione di verità come corrispondenza (όρθότης).

Se poi passiamo al corso del 1931/32 possiamo scoprire che il retroterra esegetico di Heidegger non è mutato a sufficienza per permettergli di dare una interpretazione coerentemente trascendentale della dottrina platonica delle idee. Più volte in

224

Platon: Sophistes, GA Bd. 19, Frankfurt a.M. 1992. 225

Ivi, pp. 11-12. 226

Ivi, p. 201. 227

Ivi, p. 202.

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‘HEIDEGGER E LA DOTTRINA DELLE IDEE 135

questo testo Heidegger scrive che le idee sono ciò che è “avvistato” (Gesehene, Gesichteté), e questo vale anche per l’idea del bene. Questa tesi si accorda evidentemente con l’interpretazione metafisica, ossia aristotelizzante, del pensiero platonico. Ma si accorda assai male con la nuova prospettiva trascendentale che Heidegger mette in rilievo in questo testo. Tutto ciò appare con molta chiarezza nella forte ambiguità che vi si trova a proposito dei rapporti tra l’idea e la visione: l’idea è allo stesso tempo ciò che è visto (o scorto, avvistato) e la condizione trascendentale che rende possibile la visione (e che, in questo senso, non è né un oggetto né qualcosa di “visto”). Heidegger, è vero, precisa in proposito che

il problema delle idee può essere posto su nuove basi solo se viene inteso a partire dall’originaria unità che lega assieme ciò che scorge e ciò che viene scorto (Erblickenden und Erblickten)

228.

Ma egli è anche del tutto consapevole, già nel corso del 1931/32, che questo significa andare «al di là di Platone», e che è dunque proprio a partire da Platone che «l’intero problema dell’idea è stato sospinto a forza in una direzione che ha condotto al suo fraintendimento»

44. In effetti, tutta l’interpretazione heideggeriana

della dottrina delle idee cade, dall’inizio alla fine, sotto il giogo (come potremmo dire utilizzando un’espressione dello stesso Heidegger) della lettura aristotelica del λόγος e del principio secondo il quale le idee sono l’oggetto proprio avvistato dallo sguardo intellettuale del soggetto (un soggetto che, per parte sua, crede che questo λόγος possa arrivare a riflettere fedelmente la natura dell’essere). Ma è evidente, allora, che l’unica nozione di verità compatibile con questo schema è quella dell’óp- θότης, e che non può esservi spazio alcuno per la differenza ontologica: in questo modo la dottrina platonica delle idee, lungi dallo stabilire una differenza e una trascendenza insormontabili, sanziona il dominio dell’identità assoluta.

Sarebbe troppo pretenzioso tentare di determinare la ragione precisa per la quale Heidegger non ha mai abbandonato, circa la dottrina platonica delle idee, le premesse esegetiche che gli impedivano di fare di Platone un compagno di viaggio nella sua ricerca di una ontologia trascendentale, persino quando, negli anni che circondano Sein und Zeìt, perseguiva molto seriamente questo obiettivo. Si potrebbe dire, in primo luogo, che Heidegger aveva forse un po’ troppa confidenza nella sua capacità di cogliere in modo intuitivo ciò che significa “pensare alla greca”. Un esempio

228

L'essenza della verità, p. 96.

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136 ATTUALITÀ DI PLATONK

di questa fiducia eccessiva è la sua insistenza nello stabilire un rapporto immediato tra la storia etimologica di un termine e il suo significato concettuale. Egli era convinto, per esempio, che in tutte le parole in cui compare la radice *id (quali ιδέα, είδος, ecc.) il greco percepisse direttamente un rapporto con la visione, quando invece l’uso corrente aveva già caricato queste parole di significati indipendenti. Si può vedere, ad esempio, ciò che Heidegger dice, nello stesso corso del 1931/32, a proposito dell’espressione di Teeteto 184d3. Socrate sta parlando di una certa idea unitaria (μίαν τίνα ίδέαν) responsabile dei processi percettivi, che alla fine si rivela essere l’anima. Ora, Heidegger cerca di mostrare che anche qui si ha a che fare con il fenomeno della visione, al punto di definire l’anima come un «ambito uni- tarìo di apprendibilità che ci circonda, più precisamente: questo avvistato nel suo essere avvistato»

229. Non c’è dubbio che si tratti di un malinteso, dal

momento che la parola ιδέα ha qui soltanto il significato di “specie”. Ma io credo che in generale, e in particolare nel corso del 1931/32, Heidegger abbia forzato la mano ai dati testuali, per giungere poi a una sorta di interpretazione “panottica” dell’epistemologia plato-nica, ossia centrata sulla visione.

8. La mia ipotesi, come ho detto sopra, è che questa prospettiva sia stata influenzata dalla nozione husserliana di intuizione categoriale. E noto che Heidegger ha spesso richiamato l’impressione profonda che hanno esercitato su di lui le Ricerche Logiche, e in particolare la sesta (non solo per l’intuizione categoriale, ma anche per la nozione antepredicativa della verità). Questa influenza è del tutto evidente nelle pagine che egli dedica all’intuizione categoriale nel corso del semestre estivo del 1925 (pubblicato nelle GA col titolo Prolegomeni alla storia della nozione di tempfà), ma è confermata anche dalla visione restro- spettiva che Heidegger ha dato del suo pensiero nel 1963

230.

Quello che è interessante per il nostro problema è constatare che ci sono delle connessioni precise tra l’analisi di certi passi del Teeteto, tolti dalla seconda parte dello stesso corso del 1931/32, e ciò che Husserl scrive nella VI Ricerca Logica a proposito dell’intuizione categoriale. Prendiamo in considerazione la sezione in cui Heidegger commenta le celebri pagine del dialogo laddove Socrate espone a Teeteto l’ultimo argomento in forza del quale la conoscenza non può essere ridotta alla percezione sensibile: persino nell’esercizio della percezione, in effetti, si vede all’opera una conoscenza che ha come oggetto dei dati astratti, quali

229

Ivi, p. 206. 230

Zur Sache des Denkens, Tùbingen 1969 (tr. it. col titolo Tempo ed Essere, Napoli 1980).

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‘HEIDEGGER E LA DOTTRINA DELLE IDEE 137

l’essere, il non essere, il simile, il dissimile, ecc. Ora, il punto sul quale Heidegger concentra la sua attenzione è l’apprensione di connettivi quali la congiunzione “e”: «percependo il suono e il colore apprendiamo anche dell’altro: l’“è”»

231. Questa osservazione

ci conduce direttamente alla VI Ricerca Logica, e in particolare al § 40, dove Husserl stila una lista di connettivi, tra i quali troviamo anche la congiunzione “e”. Per Husserl l’evidenza fenomenologica di questi connettivi costituisce il presupposto necessario e sufficiente per decretare l’esistenza, a fianco dell’intuizione sensibile, di una intuizione categoriale. E Heidegger, che evidentemente segue Husserl su questo punto, considera il passo del Teeteto che sta commentando come una specie di anticipazione dell’analisi husserliana.

Ma questo anche significa, allo stesso tempo, che Heidegger trasferisce semplicemente le caratteristiche dell’intuizione caregoriale husserliana all’interno dell’ontologia e dell’epistemologia platoniche. Quello che qui ci interessa è che Husserl, benché sia consapevole del fatto che l’intuizione categoriale è in certa misura differente da quella sensibile (e che sono proporzionalmente differenti le modalità di riempimento), non può tuttavia rinunciare neppure in questo caso alla nozione di “oggetto” (sia pure intesa in senso largo). Ecco che cosa scrive nel § 45 della VI Ricerca:

Di queste parole [se. “oggetto” e “percezione”], il cui senso ampliato è naturalmente manifesto, non possiamo fare a meno. In che altro modo mai potremmo infatti designare il correlato di una rappresentazione-di-soggetto non sensibile o che contenga forme non sensibili se ci è preclusa la parola oggetto; in che modo potremmo chiamare il suo attuale «essere dato» o il suo manifestarsi come «dato» se ci è preclusa la parola percezione? Così i sistemi, le molteplicità indeterminate, le totalità, i numeri, le disgiunzioni, i predicati (l’essere giusto), gli stati di cose diventano - in un discorso la cui validità d’uso è generale - «oggetti», mentre gli atti attraverso i quali essi si presentano come dati, diventano percezioni

232.

Si sarà facilmente riconosciuto, nella lista di oggetti redatta da Husserl, un ampio insieme di nozioni astratte e generali, in cui le idee platoniche sono indubbiamente comprese (si vedano soprattutto i predicati come l’essere giusto). Se si applica, come ha evidentemente fatto

231

L’essenza della verità, p. 211. 232

Citiamo dalla traduzione italiana, Milano 1968, pp. 445-446.

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ATTUALITÀ DI PLATONE

Heidegger, la dottrina husserliana dell’intuizione categoriale alla teoria platonica delle idee, se ne ricava che le idee sono degli oggetti visti (scorti) dal soggetto. Le frequenti affermazioni heideggeriane, contenute nel corso del 1931/32, secondo le quali non si deve pensare alle idee come a degli oggetti, restano dunque lettera morta, dal momento che la loro natura di oggetti è necessariamente implicita nel fatto che esse sono qualcosa di visto, qualcosa che è preso di mira da un’intuizione intellettuale. Tutto questo, in realtà, è già pienamente sufficiente per tagliare la strada all’interpretazione trascendentale e perciò per decretare la vittoria della lettura metafisica/aristotelizzante. Non è dunque necessario, per rinvenire nella riflessione heideggeriana le tracce di questo quadro interpretativo, attendere né i cambiamenti prodotti dalla Kehre né la presa di posizione esplicita contenuta ne La dottrina platonica della verità. Infatti, come abbiamo visto, questo testo non presenta novità significative in rapporto al corso del 1931/32: la tesi secondo la quale ciò che conta è la visione dell’idea non è altro, a ben guardare, che la conseguenza diretta del fatto che le idee sono, in primo luogo, ciò che è avvistato; e su questo punto la posizione di Heidegger è sempre rimasta la stessa. Ma in questa tesi sono anche impliciti, pratica- mente in modo analitico, tutti i rilievi critici che Heidegger ha in seguito indirizzato a Platone, a partire dalla riduzione dell’essere all’ente (nella misura in cui l’essere si identifica con quell’ente determinato che è l’idea) fino alla concezione dell’essere come pura presenza (l’idea è precisamente ciò che è pensato come presente dallo sguardo intellettuale diretto verso di lei). Ci limiteremo, a questo proposito, a citare una sola frase, tolta da un corso su Nietzsche, che riassume in modo molto chiaro questa prospettiva: «L’i5éa, l’aspetto visto, connota l’essere, e precisamente per quella specie di vedere che riconosce in ciò che vede, in quanto tale, la pura presenza»

233.

Si capisce molto bene, di conseguenza, che il tentativo messo in opera da Heidegger verso la fine degli anni ’20 e l’inizio degli anni ’30 di rinvenire nella teoria delle idee di Platone un corrispettivo del suo progetto trascendentale era compromesso fin dal principio, e dunque inevitabilmente destinato a fallire. Affinché tale progetto potesse avere qualche possibilità di riuscita, Heidegger avrebbe dovuto interpretare la dottrina platonica delle idee limitando fortemente, se non semplice- mente togliendo, il carattere visivo/intuitivo della

233

Nietzsche, Pfullingen 1961 (tr. it., da cui citiamo, Milano 1994, p. 168).

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ATTUALITÀ DI PLATONE

conoscenza noetica, e dunque rinunciando a leggerla sotto la lente husserliana.

9. Tiriamo ora qualche conclusione. Ci siamo chiesti come sia possibile che Heidegger, in un certo momento della sua carriera, abbia

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‘HEIDEGGER E LA DOTTRINA DELLE IDEE 125

sentito il bisogno di difendere la filosofia di Platone da una obiezione antirelativista, e antiumanista, che sarebbe stato più corretto sollevare contro un Protagora. Ora siamo in grado, forse, di dare una risposta. Negli anni che contornano la redazione di Sein und Zeit, quando era sulle tracce di una ontologia trascendentale al cui centro stava la nozione di Dasein, Heidegger ha pensato di trovare una interessante prefigurazione di ciò nella nozione platonica di idea, e in particolare nell’idea del bene. Questo orizzonte trascendentale era pensato da Heidegger, che anche in questo caso seguiva alcuni suggerimenti husserliani, come indipendente e anteriore in rapporto alla distinzione tra soggetto e oggetto. Tuttavia, il primato accordato al Dasein, almeno in un certa misura, tratteneva il progetto heideggeriano all’interno di una dimensione antropologica, o addirittura umanistica, e uno dei significati più evidenti della Kehre è proprio il rifiuto di questa dimensione fortemente soggettiva. Con questo rifiuto, Heidegger ha rifiutato nello stesso tempo il platonismo, poiché il suo sfruttamento teoretico era strettamente legato al progetto di raggiungere un orizzonte trascendentale dove gli evidenti caratteri umanizzanti fossero assorbiti, proprio come nel caso del Dasein, in una prospettiva ontologica più ampia. Le cause per le quali, d’altra parte, Heidegger non è riuscito a liberare il platonismo da questa dimensione umanizzante, risiedono nell’interpretazione metafisica della dottrina delle idee, che egli non ha smesso di sostenere dall’inizio alla fine del suo percorso speculativo. Se si identificano le idee con il trascendentale, come a un certo punto Heidegger ha cercato di fare, l’umanismo presente in esse non è che residuale, dal momento che secondo questa concezione le idee sono pensate come anteriori e indipendenti in rapporto alla distinzione soggetto/oggetto. Ma se Heidegger, alla fine, ha abbandonato questa ipotesi appunto perché non poteva accettare neppure questo umanismo residuale, a più forte ragione era obbligato a rifiutare una concezione delle idee in cui i tratti umanizzanti erano del tutto evidenti, in quanto la differenza soggetto/oggetto vi è chiaramente implicata. Inoltre, è tipicamente heideggeriano vedere nell’ammissione esplicita di questa differenza in quanto dato originario del reale la pura e semplice posizione del primato del soggetto, che diviene così padrone e signore dell’essere e della verità. Come si legge ne La dottrina platonica della verità, con la sostituzione dell’ όρθότης all’ αλήθεια la verità «diventa una caratteristica del comportarsi

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126 ATTUALITÀ DI PLATONK

dell’uomo in rapporto all’ente»234

. E questa svolta segna al medesimo tempo, per Heidegger, l’inizio della metafisica nel pensiero di Platone e quel

lo dell’umanismo nella cultura occidentale235

. Non potremo mai indovinare che direzione avrebbe preso la filosofia di Heidegger se egli avesse avuto una concezione diversa del pensiero platonico

236: se avesse adottato, ad esempio, la concezione a

mio avviso ben più corretta elaborata dal suo grande allievo Hans Georg Gadamer

237.

Capitolo VI

Dialettica, ontologia ed etica nel Filebo L’interpretazione

di Hans Georg Gadamer238

1. Lo scopo di questo saggio è quello di mettere a fuoco il rapporto tra ontologia ed etica in alcuni luoghi dell’opera di Gadamer Platos Dialektische Ethik

1, nonché di formulare su

questa base alcune domande sul valore e sul significato dell'immagine complessiva da lui proposta della filosofia di

234

P. 185. 235

Cfr. ivi, p. 190. 236

V. in proposito R. J. Dostal,

Beyond Being: Heidegger’s Plato, «Journal of thè History of Philosophy» 23

(1985), pp. 71-98. L’autore di questo studio muove dal presupposto che la

reale posizione di Platone sia in realtà assai prossima a quella dello stesso

Heidegger, e analizza le cause per qui quest’ultimo non è pervenuto a

riconoscerlo. Alla base di questo mancato riconiscimento ci sarebbe, da

parte di Heidegger, una errata “epistemologizzazione” del pensiero pla-

tonico. Un suggerimento analogo era già stato avanzato da S. Rosen,

Heidegger’Interpretation of Plato, in Essays in Melaf-Msics, Pennsylvania

1970, pp. 127-217 (v. in part. p. 140). i: ' ‘

237 Per una accurata disamina del modo in cui la differente lettura di

Platone abbia indirizzato la riflessione di Gadamer verso esiti assi diversi da

quelli raggiunti da Heidegger cfr. F. Renaud, Die Resokratisierung Platons.

Die platonische Hermeneutik Hans-Georg Gadamers, Sankt Augustin 1999 e

B. Wachterhauser, Beyond Being. Gadamers ’s Post-Platonic Hermeneutical

Ontology, Evanston 1999.

238 Intervento tenuto durante The VII Symposium of thè International

Plato Society, Dublino, 23-28 luglio 2007, in via di pubblicazione. 1 II titolo completo è Platos dialektische Ethik. Phaenomenologische

Interpreta- tionen zum “Philebus". Si .tta dell’llabilitationschnft di Gadamer,

presentata a Marburg nel 1929, e poi pubblicata nel 1931 (Leipzig). Questo

lavoro è stampato, con brevi aggiunte nel voi. V delle GW (Tùbingen 1985),

pp. 5-163. Traduzione italiana, da cui citiamo, in Studi Platonici 1, Casale

Monferrato 1983, pp. 17-184. 2 96a sgg. 3 Studi Platonici 1, p. 59.

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Platone. Analizzando il passo in cui Socrate, nel Fedone, pone il

problema della causa2, Gadamer spiega che le cause fisico-

naturali non possono costituire il fondamento richiesto, in quanto non sono immutabili

3. Dopodiché accenna alla delusione provata

da Socrate nei confronti del nous di Anassagora, come se il problema fosse rimasto esattamente il medesimo. In realtà il testo del Fedone presenta qui uno scarto tra quella che potremmo chiamare la causa formale, che risponde ai problemi del tipo: «per quale causa una cosa è più grande di un’altra?», e quella che potremmo chiamare la causa finale, che risponde invece a domande del tipo «per quale causa Socrate è in carcere?”». Il problema delle cause finali nel Fedone resta non indagato, ma riemergerà più avanti, in parte nel Filebo e in parte nel Timeo (dove sarà risolto, rispettivamente, con la causa della mescolanza e con il demiurgo).

Gadamer ritiene che questo accada già nel Fedone, dove si annuncia una dialettica tra uno e molteplice che sarebbe in grado già di per sé di produrre il valore solo e semplicemente esercitandosi come dialettica. La domanda intorno alla vera causa per cui a un determinato oggetto può essere attribuito un determinato attributo (la domanda che chiede, come nell’esempio citato sopra, «perché una certa cosa è grande?») produce come risposta la scoperta de\V eidos', tale risposta, a sua volta, apre la strada alla dialettica del Parmenide, del Sofista (succintamente

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128 ATTUALI TÀ DI PLATONE

analizzati nel libro di Gadamer) e del Filebo (a cui è dedicata la seconda parte del lavoro). Gadamer sovrappone a questa domanda la domanda relativa alla finalità (che nel Fedone emerge solo in un secondo momento, attraverso la critica ad Anassagora), e provvede di conseguenza ad identificare Veidos (insieme all’esercizio dialettico che ne deriva) come l’oggetto che risponde, nel medesimo tempo, ad entrambe. Leggiamo, per sincerarcene, quanto Gadamer scrive a p. 59:

Se ora Anassagora presenta il nous come causa, ciò suscita in lui [se. Socrate] l’aspettativa. Se infatti una realtà spirituale, la ragione, definisce le cose nel loro essere, ciò significa che dalla ragione, che le definisce, deriva la loro razionalità, la bontà di ciò che è (e quindi l’essere di ciò che è buono).

L’aspettativa che suscita in Socrate la proposta di Anassagora consiste nel fatto che essa ha individuato come causa ultima, correttamente, una realtà spirituale, ovvero la ragione. Subito dopo Gadamer enuncia le motivazioni per cui questa scoperta è rimasta in Anassagora inefficace, e al tempo stesso anche le condizioni per cui una realtà spirituale può adempiere al ruolo di causa che è chiamata a svolgere. La prima condizione, come si evince dalle righe che abbiamo citato, è che la ragione definisca le cose nel loro essere. Questo compito definitorio coincide precisamente con il ruolo che Gadamer, nelle pagine successive del saggio, attribuisce alla dialettica. Ma nella medesima frase Gadamer spiega anche che definire le cose nel loro essere significa mostrarne la razionalità, e che questa razionalità si identifica a sua volta con la bontà. Ecco dunque il punto: se Gadamer può sostenere che la dialettica è immediatamente anche etica, ciò si deve al fatto che la dialettica non può mostrare le cose nel loro essere (la loro razionalità) se non mostrandone la bontà, perché evidentemente bontà e razionalità coincidono.

Si assiste in questo modo a una contrazione del modello tecnico (da Platone pervasivamente applicato in vari campi, dall’etica alla cosmogonia) che ha come risultato la riduzione ad uno di due elementi che nella versione platonica sono invece tenuti distinti. Per Platone la conoscenza della cosa ha come sua condizione fondamentale la conoscenza dell’idea. Ora, per quanto l’idea in quanto tale rappresenti un livello superiore alla realtà sensibile anche dal punto di vista assiologico, non per questo si può dire che il bene sia immediatamente prodotto, tanto a livello etico quanto a livello cosmologico, dall’idea in quanto tale, ovvero dalla conoscenza dell’idea in quanto “buona”. Per quanto riguarda il livello etico basterà citare l’inizio del libro VI

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GADAMER E IL FILMO 129

della Repubblica, laddove Socrate spiega che là conoscenza delle cose che sono funge da modello, guardando al quale il filosofo sarà in grado di «istituire anche quaggiù, le norme relative alle cose belle e giuste e buone, se occorre istituirle, e da preservare con la loro difesa quelle già esistenti»

239. Da questo

passo risulta con chiarezza che il bene «quaggiù» non è immediatamente realizzato dalla sua causa o modello razionale (l’idea), ma ha bisogno del concorso di un soggetto attivo (il filosofo) che prima conosca questa causa o modello, e poi provveda a strutturare la realtà in base ad esso. Tradotto nei termini del Fedone, questo discorso indica quali sono le condizioni “formali” per cui una cosa, ove sia buona, è tale; ossia la sua conformità al modello. Ma per individuare le cause finali per cui la cosa buona si è effettivamente prodotta, oltre al modello occorre introdurre l’esistenza di una causa attiva altrettanto buona, che ha deciso di porre in atto il bene. In altre parole: se le idee devono essere anche cause finali oltre alle idee medesime si richiede un soggetto che agisca «in vista di».

Ecco il motivo per cui la razionalità della cosa, diversamente da quanto scrive Gadamer, per Platone non coincide immediatamente con la sua bontà. Tutto ciò che esiste, in quanto esiste, ha evidentemente la sua ragione formale nel modello corrispondente. Ma ciò non significa, evidentemente, che tutto ciò che esiste sia buono. Questo è del tutto pacifico sul piano etico e politico: esistono, come si evince da un altro luogo della Repubblica (472c), sia uomini ingiusti sia il modello corri-spondente dell’ingiustizia. Se la causa finale, come si legge esplicitamente nel Fedone, ha lo scopo preciso di spiegare perché è meglio che una cosa sia disposta in un modo piuttosto che in altro (99b-c), allora la causa formale non può bastare: Veidos dell’ingiustizia fornisce la ragione per cui un uomo è ingiusto, ma questa ragione non coincide certo con la bontà di quest’uomo (non può ovviamente costituire la spiegazione del fatto che è meglio che quest’uomo sia ingiusto).

Qui c’è molto probabilmente un problema strutturale interno alla stessa teoria delle idee di Platone. Dal punto di vista dell’eidos devono esistere universali separati per tutti gli insiemi di enti sensibili che manifestano caratteri simili; ma questo significa che le idee, in quanto cause formali, rendono ragione tanto di ciò che è bene quanto di ciò che non lo è, e questo sembra in contrasto con l’indubbia connotazione assiolo- gica che Platone attribuisce al mondo ideale nel suo complesso. Ora, per introdurre un possibile correttivo in questo

239

Resp. 484cd, tr. Vegetti.

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130 ATTUALITÀ DI PLATONK

apparente squilibrio non ci sono che due alternative: 1) attestarsi sul punto di vista de\Y eidos e delle sue leggi di formazione, senza introdurre alcuna causa integrativa, e dichiarare semplicemente (al modo di Hegel) che tutto ciò che è reale è razionale (e dunque buono). In questo caso la causa finale e quella formale sono semplicemente la stessa cosa, e lo stesso uomo ingiusto è “buono”, poiché la ragione stessa del suo essere (l’idea di ingiustizia) è immediatamente anche la sua bontà; 2) attestarsi sul punto di vista del valore, introdurre differenziazioni assiologiche nel seno stesso degli eide, e aggiungere come causa un soggetto in grado di operare delle scelte.

Ora, mentre Gadamer sembra attenersi alla prima alternativa (la conoscenza dell’ eidos rivela la bontà della cosa, e/o la dialettica coincide immediatamente con l’etica), Platone pare aver scelto la seconda. Se da un punto di vista ontologico ed epistemologico tutto ciò che esiste a livello ideale è superiore a tutto ciò che esiste a livello sensibile, questa superiorità “di valore” non è però traducibile immediatamente sul piano etico. Sul terreno etico e politico l’effettiva realizzazione della finalità buona non potrà prodursi solo e semplicemente in seguito alla causalità delle idee (che, come abbiamo visto, non sono solo causa di cose buone), ma avrà bisogno di un soggetto buono che sceglie, all’interno del modello ideale, le forme da applicare “quaggiù” in vista del bene che vuole attuare: questo soggetto, ad esempio, sceglierà di applicare, tra i modelli che conosce, quello della giustizia e non quello dell’ingiustizia. Lo stesso dicasi a livello cosmologico: la bipartizione tra cosmo sensibile e mondo delle idee non garantisce di per sé che le cose siano come devono essere (ossia, per dirla nei termini del Fedone

240, che

cielo e terra siano disposti nel modo migliore); è necessaria l’opera di un soggetto buono (il demiurgo) il quale anzitutto sappia individuare qual è il modello migliore, e poi lo applichi alla realtà materiale.

In tal modo si profila in Platone un’etica che rimane distinta dall’indagine razionale. Mentre Gadamer sembra supporre che la finalità buona sia raggiunta nel momento stesso in cui l’analisi razionale è conclusa (mostrare le ragioni di una cosa significa al tempo stesso mostrarne la sua bontà), per Platone pare che l’azione etica entri in gioco immediatamente dopo, sulla base del modello tecnico di cui abbiamo detto sopra: l’artigiano/demiurgo, che agisce in vista del bene, seleziona il modello migliore, e poi lo applica alla realtà. Nel caso di Gadamer, viceversa, è come se il bene fosse già tutto realizzato, e la conoscenza razionale della

240

99b-c.

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GADAMER E IL FILMO 131

cosa ha l’effetto immediato di metterlo in evidenza.

2. E interessante osservare, a questo proposito, che il modello tecnico introduce nella filosofìa di Platone una metafisica di carattere “onti- co” piuttosto marcata, e sostanzialmente estranea sia a Gadamer sia ai punti di riferimento teorici di cui egli si serviva per interpretare Platone. E noto infatti che Gadamer ha sempre sostanzialmente negato, o ridotto a metafora, il dualismo metafisico presente in dialoghi platonici come il Fedone o il Fedro (e contestualmente ha imputato alla

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GADAMER E IL l'IIJÌBO IBI

deformazione di Aristotele l’interpretazione delle idee come realmente “separate” dal mondo sensibile

241). Ma è chiaro, per

converso, che il modello tecnico come lo abbiamo presentato sopra implica una forte pregiudiziale dualistica, ovvero la possibilità di una interazione oggettiva tra due mondi che esistono indipendentemente l’uno dall’altro. Lo sguardo del filosofo, e del demiurgo, deve alternativamente rivolgersi all’uno e all’altro, per cui il cosmo ideale non può essere semplice- mente ridotto alla struttura teorica, immanente nella realtà, in cui si manifestano la razionalità e la bontà delle cose: la razionalità e la bontà, infatti, in questo caso, non possono essere semplicemente bontà e razionalità delle cose, ma devono essere anzitutto una bontà e una razionalità altre dalle cose, e proprio a causa di questa alterità (così Platone) possono essere applicate alle cose. E probabile che questo atteggiamento di Gadamer sia stato in qualche modo influenzato sia dalla lettura di Platone offerta da Hegel (centrata sulla dialettica come struttura razionale immanente) e da Natorp (ne parleremo più avanti).

Ma ancora più importante, in proposito, è stata l’influenza di Heidegger. Come dichiarato apertamente dall’autore medesimo, il saggio sull’etica dialettica è stato scritto sotto il potente influsso di Essere e Tempo

1 (che, ricordiamolo, era stato pubblicato solo

quattro anni prima). Ciò, del resto, è ben visibile in gran parte dell’opera, in cui Gadamer utilizza e fa sue le analisi esistenziali dell’Esserd proposte in Essere e Tempo, nonché tutta la strumentazione linguistica e concettuale adottata da Heidegger in quel libro. Qui ci interessa, in particolare, un paragrafo di tono decisamente heideggeriano, compreso nella prima parte, che ha per titolo II dialogo e il logofi. Quivi Gadamer espone sin-teticamente alcuni temi heideggeriani relativi all’analitica dell’esserci, alla priorità ontologica della nozione di “utilizzabile”, alla struttura dell’ “in vista di”. In breve, Gadamer accoglie l’idea di Heidegger secondo cui i fenomeni della finalità e della cura pratica non sono da collegarsi a un contesto etico, in cui esistono differenze nette tra un soggetto che progetta, una finalità che esso persegue e i valori a cui esso si ispira, ma devono piuttosto essere intesi come parti costituenti di una ontologia

241

Cfr., ad es., Die Idee des Guten zwischen Plato und Aristoteles,

Heidelberg 1978. Questo testo è ripubblicato nel voi. VII delle GW, pp. 128-

227 e tradotto in italiano in Studi Platonici 2 (Casale Monferrato 1984, pp.

149-261). Nel primo capitolo di questo saggio (pp. 155-171) Gadamer

argomenta in vari modi contro la posizione tradizionale secondo cui vi

sarebbe in Platone una “dottrina dei due mondi” e contro le deformazioni

aristoteliche. V. in proposito F. Renaud, Die Resokratisierung Platons,

Sankt Augusdn 1999, pp. 12-13.

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132 ATTUALITÀ DI PLATONK

(ossia quella che Heidegger aveva a suo tempo chiamato “ontologia della fatticità”). Gadamer sembra, in effetti, muoversi completamente aH’interno della prospettiva heideggeriana (confermata, come è noto ancora molti anni dopo, con la Lettera sull’umanismo) secondo cui l’etica non è un fenomeno indipendente, ma quasi una proiezione secondaria dell’ontologia. Se dunque Gadamer legge Platone sulla scorta di queste posizioni di Heidegger, ben si capisce perché sia così propenso ad identificare la finalità con la ragion d’essere della cosa: la trascrizione hedeggeriana delle strutture pratiche in una ontologia piuttosto che in un’etica fa sì che anche in Gadamer il punto di vista teoretico, che ha per oggetto l’essere della cosa, domini ed assorba dentro di sé il punto di vista etico, che invece dovrebbe avere per oggetto il valore (e ben si sa quanto Heidegger fosse sarcastico contro la cosiddetta “filosofia dei valori”). Se si vuole capire Platone da quello che ancora Heidegger chiamava il punto di vista “greco” la domanda fondamentale che ci si deve porre verte non già sul bene, ma suH’essere della cosa: dove è chiaro, per il suo discepolo Gadamer, che poi si troverà anche il bene, perché il bene è compreso neH’orizzonte dell’essere (e della ragione che lo manifesta), e non il contrario.

1. L’influsso di Heidegger si fa fortemente sentire, a mio avviso, anche su un terreno molto più specifico (e particolarmente adatto alle tematiche discusse nel Fìlebo), ossia riguardo il problema del bene (o dell’idea del bene). Notiamo subito che la nozione di “idea del bene” potrebbe essere risolutiva riguardo al problema che qui ci interessa, ossia quello di una possibile identificazione di etica e dialettica. Se infatti fosse possibile dire che il cosmo ideale di Platone trova non solo il suo culmine, ma in un certo senso la sua sintesi, nell’idea del bene, ne conseguirebbe immediatamente che l’oggetto della dialettica (l’idea) si identifica senza residui con l’oggetto dell’etica (il bene). In questo caso l’interferenza tra piano dell’essere (e dunque delle cause razionali) e piano dei valori, di cui abbiamo detto sopra, sarebbe tolta, perché il grado supremo della realtà viene a coincidere con il grado supremo del valore.

Mi rendo conto che parlare dell’idea del bene come “grado supremo della realtà” coinvolge il problema di interpretare il celebre passo della Repubblica in cui si dice che il bene è ÈTtéiceiva oùatat;. Ma ovviamente non è questa la sede per farlo. Basterà qui osservare che proprio questa sua condizione “al di là dell’essere” costituisce uno dei motivi per cui Heidegger, prima di risolversi definitivamente a indicare in Platone il primo

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133 ATTUALITÀ DI PLATONK

responsabile della riduzione dell’essere ad ente, tentò di sfruttare il bene platonico come figura della differenza ontologica. Nel corso del 1927 pubblicato nella GA col titolo I problemi fonda

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GADAMER E IL FILEBO 134

mentali della fenomenologia?, con riferimento al passo della Repubblica a cui abbiamo accennato, Heidegger scrive:

La comprensione dell’essere si fonda sul progetto di un ÈTié- Keiva Tfjq oùaiaq. Qui Platone s’imbatte in qualcosa che chiama «ciò che s’eleva al di sopra dell’essere». Esso ha la funzione della luce, dell’illuminazione, in ogni disvelamento dell’ente o, in questo caso, nella comprensione dello stesso esse-re

242.

Perciò, prosegue Heidegger poche pagine più avanti, «Diviene ... chiaro che lo èrcéiceiva tnq ovai ac, è ciò su cui bisogna interrogarsi, posto che l’essere deve divenire oggetto della conoscenza»

243. Poiché però nel 1927 la differenza

ontologica è ancora pensata nel quadro delle determinazioni fenomenologiche di Essere e Tempo, l’idea del bene ha un immediato riferimento non tanto all’essere al di là dell’ente, quanto piuttosto all’Esserci, inteso come ciò che deve essere interrogato per venire in chiaro dell’essere in quanto tale. In questo senso nell’idea del bene si rende manifesta «la comprensione dell’essere propria dell’antichità, la sua origine nella produzione»

244. L’idea del bene, in altre parole, è qui la

determinazione ontologica dell “in vista di”, al punto che Heidegger si risolve senz’altro a identificarla con «il S'nin'upyóq, il produttore per eccellenza. Questo fa già vedere che la Ì8éa àya0o\) si ricollega al jroièiv, alla npàfyc, e alla xéxvrì nel senso più largo del termine»

245 (qui, evidentemente, è in gioco il

significato ontologico del termine àya- 0óv, inteso più come “buono a” che come valore etico in quanto tale).

Lo stesso tema viene poi ripreso nel saggio, pubblicato per la prima volta nel 1929, Dell’essenza del Fondamento

246. Quivi

Heidegger collega in modo assai preciso la trascendenza di quel bene che è èrcéKevva xf|q où- ataq con la trascendenza dell’Esserci. Ecco che cosa scrive testualmente:

Il problema dell’àyaQóv è soltanto il punto culminante

242

Ivi, p. 272. 243

Ivi, p. 273. 244

Ivi, p. 274. 245

Ibid. 246

Vom Wesen des Grundes, «Jahrbuch fùr Philosophie und

phàenonologische Forschung», 1929, pp. 71-110. Il saggio è stato poi inserito in

Wegmarken, Frankfurt a.M. 1976. Tr. it Segnavia, da cui citiamo, Milano 1987, pp.

79-131.

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GADAMER E IL FU UBO 135

della questione centrale e concreta relativa alla possibilità fonda- mentale dell’esistenza dell’esserci nella 7tóÀ,iq

247.

Il motivo per cui l’idea del bene può essere interpretata in questo modo è il nesso che intercorre tra àyaGóv e ou 8V£Ka:

L’essenza dell’àyaOóv sta nell’essere potenza che dispone di se stessa in quanto ou èveica; in quanto «in vista di» esso è la sorgente della possibilità come tale. Siccome poi il possibile dimora più in alto del reale, f\ tou àyaOo'O è£tq è la sorgente essenziale della possibilità, uetCóvoc ttaméov [Resp. 509a]

248.

L’idea platonica del bene si ricollega dunque all’Esserci di Essere e Tempo, perché essenza dell’Esserci è proprio la progettualità, l’agire in vista di, il prendersi cura.

Ora, tanto l’analisi della struttura dell’Esserci in Essere e Tempo quanto la particolare interpretazione dell’idea del bene offerta da Heidegger in quegli anni costituiscono il retroterra ben facilmente individuabile dello scritto gadameriano. L’idea del bene non rappresenta quel puro oggetto del conoscere a cui il soggetto “buono” deve guardare per poter realizzare il bene nell’uomo, nella polis e nel cosmo. In questo caso, infatti, la progettualità e la finalità sarebbero collegate al soggetto che agisce, il quale è determinatamente diverso dal modello conosciuto. Al centro delle considerazioni di Heidegger, infatti, c’è il principio secondo cui essere, valore e progettualità sono indissolubilmente fuse insieme nella stessa idea del bene: non esistono un filosofo, o un demiurgo, che agiscono “in vista di”, perché il bene stesso è 1’ “in vista di cui”, il bene stesso è il demiurgo. Quello che ne risulta è che la conoscenza dell’essere della cosa si identifica senza residui con la conoscenza della struttura progettuale che costituisce la sua essenza ontologica, e dunque che l’essere (l’oggetto di conoscenza) e il bene (il fine della progettualità etica) finiscono per identificarsi.

Tutto ciò trova puntuale coincidenza sia nell’assimilazione gadame- riana di dialettica e etica sia nel modo in cui egli tratta, nel saggio di cui parliamo, del bene (e dell’idea del bene). Ecco alcuni esempi:

Il “concetto teleologico del bene” è il concetto fondamentale dell’ontologia platonica. Essere buono ed essere determinato, in fondo, significano la stessa

247

Ivi, p. 116. 248

Ivi, p. 117.

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136 ATTUALITÀ DI PLATONK

cosa249

.

Questo carattere [se. la conformità alla misura] costituisce l’essenza sia del bene sia del bello. “Bello” e “buono” è ciò a cui non manca nulla e a cui nulla deve essere aggiunto

250.

Solo in quanto è determinata nel proprio rapporto una mescolanza è determinata in ciò che è e deve essere, nel suo essere e nella sua bontà

251.

Solo la dialettica perviene alle archai dell’ente, e, alla fine, all’idea del bene, vale a dire: a ciò per cui ogni ente va visto come stabile nel proprio essere. Essa rappresenta il sapere più sicuro, in quanto il suo oggetto viene pienamente messo in luce per quello che è. Ciò che è compreso come buono, è compreso in ciò che lo fa quello che è e deve essere

252.

La “verità”, in quanto momento costitutivo della bontà, denota in sé la svelatezza [Gadamer in questo saggio interpreta la verità esattamente come Heidegger, cfr. p. 137], quindi, la razionalità del rapporto di mescolanza

253.

Dalla penultima citazione risulta con chiarezza il nesso tra la dialettica e il bene (dunque l’etica): se la dialettica ha il compito di rivelare i principi dell’essere, e questi principi coincidono in ultima analisi con il bene, la coincidenza tra dialettica ed etica può darsi per dimostrata. Ma questa coincidenza, in concreto, attraverso quali mediazioni si produce? Anzitutto rappresenta la piena identità tra ciò che è (oggetto della dialettica) e ciò che deve essere (oggetto dell’etica). Tale identità è svelata dalle strutture matematico/estetiche che manifestano l’ente per quello che determinatamente è: limite, misura, proporzione, armonia, ecc. E proprio nella sovrapposizione semantica, attiva in questi termini, tra punto di vista matematico e punto di vista estetico che si radica la possibilità di far coincidere la razionalità dialettica in cui si manifesta l’essenza delle cose con la determinazione di valore. Infatti, da un lato le strutture matematiche e di calcolo costituiscono l’essenza di quel /Voyto^ói; (e dell’attività di Àoyl^eaOat in cui esso si esprime) che è il motore ultimo della razionalità dialettica; dall’altro la bellezza che le determinazioni matematiche mettono in luce si identifica con la loro bontà (come

249

Studi Platonici 1, p. 116 250

Ivi, p. 117. 251

Ivi, pp. 118-119. 252

Ivi, p. 170. 253

Ivi, p. 176.

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GADAMER E IL FU UBO 137

osserva Gadamer in uno dei passi sopra citati, bello e bene sono per Platone la stessa cosa), che a sua volta coglie, nell’oggetto, la sua conformità a un fine, ovvero il fatto che tale oggetto è precisamente come dovrebbe essere.

In questo modo il bene del Filebo, che è ad un tempo proporzione, misura e verità, offre la possibilità di dare una risposta unica alle due domande che si poneva il Socrate del Fedone, cioè quella relativa allacausa formale e quella relativa alla causa finale: la struttura formale della realtà manifestata dall 'eidos (e, al suo livello eminente, dall’idea del bene) è al tempo stesso la sua ragion d’essere finale. Per trovare 1’ “in vista di”, in altre parole, non occorre individuare qualcosa che stia al di fuori dalla razionalità dialettica, ad esso immanente, dell’ente medesimo, perché non è possibile rendere ragione di questo ente per come è se non dicendo anche le condizioni che fanno sì che esso sia esattamente come dovrebbe essere. Il risultato, come abbiamo anticipato sopra, è che il modello tecnico attivo nell’etica platonica viene semplificato mediante l’appiattimento di due termini l’uno sull’altro (il modello formale e il soggetto che agisce secondo fini). Nulla potrebbe esprimere più chiaramente questa modifica che la frase di Heidegger citata sopra, secondo cui l’idea del bene è il demiurgo, ossia il produttore per eccellenza. Posto che l’idea del bene risolve in sé l’essere e il valore, la forma e il fine, non c’è più bisogno (né nella polis né nel cosmo) di un produttore a cui l’esecuzione del bene sia affidata come sua propria responsabilità.

2. Ma, ovviamente, potremmo chiederci se sia davvero corretto identificare l’idea del bene con il demiurgo; oppure, per stare al Filebo, se non è forse vero che la causa della mescolanza introduce un principio diverso dal bene (sia esso da individuare nel limite, o, come vorrebbe Gadamer, nel limitato), e non identificabile con esso. In una pagina importante del libro lo stesso Gadamer sembra riconoscere che le cose stanno appunto così. Quando viene a parlare della causa della mescolanza Gadamer tenta di mostrare perché questo quarto genere è necessario come gli altri tre. Il nerbo della sua argomentazione consiste nel distinguere, aH’interno dei quattro, ciò che vale solo come principio ontologico e ciò che invece ha una determinatezza ontica. Se capisco bene che cosa Gadamer vuol dire in questa pagina, la qualifica di “ontologico” si riferisce a principi generali dell’essere, mentre quella di ontico a realtà effettivamente esistenti. Se si può dire, di conseguenza, che l’indeterminato, il determinato e la stessa mescolanza hanno carattere ontologico,

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138 ATTUALITÀ 1)1 PLATONE

si deve però dire che il misto (ovvero il risultato di questa mescolanza) ha carattere ontico. Natorp non ha saputo offrire una spiegazione adeguata del terzo genere proprio perché non ha riconosciuto l’incidenza, nei quattro generi, di ciò che è ontico. Egli, in particolare, «nel terzo genere scorgeva unicamente il senso ontologico della legge», quando invece - sempre che io capisca correttamente l’osservazione di Gadamer - esso manifesta anche la natura ontica (intesa come realtà concretamente esistente) del misto che ne deriva. Ora, è appunto questa onticità del misto il motivo per cui si rende necessario introdurre una causa della mescolanza (che dunque avrà un carattere ugualmente ontico):

Questa unione di indeterminato e determinazione è insieme la determinatezza di un rapporto ontico. Mediante la determinazione deH’indeterminato viene realizzata l’unità di realtà ( Vorhandenem) opposte. Il determinato non è, perciò, principio, ma risultato dell’unione. In quanto però così realizzato (Hegerstelltes) esso rimanda a un realizzante (Herstellendes), che lo precede, a qualcosa che non è nel causato, ma al contrario deve preesistere perché il causato possa essere

254.

Poco più avanti, poi, prosegue:

Per quanto sia vero che la misura determinante “trasforma” l’indeterminato in determinato, è certo che non riveste il carattere della causa...il realizzando (Herzustellendes) deve essere visto (gesehen) come qualcosa da realizzare, da mescolare in un determinato rapporto quantitativo

255.

Ora, se questo è vero sembra tornare in causa il modello tecnico in tutta la sua forza. Se l’incontro dei generi opposti deve avere per risultato un Vorhandenes (si noti il termine heideggeriano), ossia qualcosa che ha una determinatezza ontica, allora i principi ontologici non sono cause sufficienti. Nei termini di una celebre critica che Aristotele ha mosso contro le idee di Platone, le idee in quanto forme non possono essere causa sufficiente della produzione effettiva delle cose, poiché non possono essere principi di movimento: è un uomo che genera un uomo, non la sua forma. Gadamer, argomentando contro l’interpretazione puramente trascendentale della dottrina platonica delle idee, sembra qui riconoscere proprio questa

254

Ivi, p. 119. 255

Ivi, p. 120.

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GADAMER E IL F1LEB0 139

necessità: affinché la cosa effettivamente si produca (e insieme alla cosa, ovviamente, la sua bontà), occorre un produttore il quale veda l’oggetto da realizzare come cosa buona. Eccoci dunque di nuovo in presenza, come abbiamo detto, di un modello tecnico provvisto di tutte le sue componenti, e in particolare di un soggetto che agisce “in vista di”. Ne risulta, se questo è vero, che il demiurgo non può più essere identificato con l’idea del bene. E altresì molto plausibile, anche alla luce della letteratura secondaria sull’argomento, che la causa della mescolanza del Filebo debba essere interpretata proprio in questa chiave: in quanto voùq, essa anticipa e prefigura con una certa chiarezza la natura ed il ruolo che il demiurgo svolgerà nel Timeo: un demiurgo che, come è noto, è accuratamente distinto dal modello a cui egli si ispira.

Nel libro di Gadamer, tuttavia, questa linea tematica resta senza sviluppo. Subito dopo le righe che abbiamo riportato, infatti, Gadamer sembra propenso a interpretare la causa della mescolanza più come un principio di intelligibilità del reale che come il principio responsabile della sua effettiva realizzazione:

Il genere della causa...è il momento in cui soltanto viene veramente in luce il senso dell’essere: l’essere di un ente non sta nell’ incontro tra una misura determinata e una materia determinata, bensì nel fatto che l’ente venga concepito come unità in virtù di questa determinazione quantitativa, che venga compreso, sia enunciabile e, quindi, realizzabile come identico. Soltanto l’enunciabilità del rapporto di una mescolanza è ciò che fa sì che un ente sia questo e quello. I rapporti di mescolanza non enunciabili, pur non stando accanto agli enunciabili, non hanno il carattere della determinatezza e dell’essere. La loro realizzazione manca di fondamento stabile. Alla determinatezza appartiene sostanzialmente la loro svelatezza ed enunciabilità

256.

Ora, è vero che in questo passo l’enunciabilìtà non esclude l’atto del realizzare, perché in un certo senso ne costituisce il presupposto. Però Gadamer, in realtà, non tornerà più, nel corso del suo saggio, a trattare la causa della mescolanza alla luce del rapporto ontico tra realizzante, realizzando e realizzato, ma ne parlerà soprattutto dal punto di vista ontologico. Si legge ad esempio, parecchie pagine dopo:

256

Ibidem.

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140 ATTUALITÀ 1)1 PLATONE

Ne risulta che il nous non viene preso in considerazione in quanto causa, bensì come conformità della mescolanza alla ragione, come noi diciamo: “che c’è intelligenza nella cosa”. Qui pertanto il nous è una determinazione oggettiva. Di qui la vicinanza di nous e “verità”, stabilita quasi per gioco in 66b6. La verità è il correlato oggettivo del nous. Anzi, ciò che va mescolato è qui, come là, il nous

257.

Come ben si vede, qui il nous non solo è principio di razionalità e di intelligibilità della cosa (e dunque di enunciabilità), ma è altresì un principio oggettivo interno ad essa: coincide con la verità immanente di questa cosa, che in quanto tale non può esserne distinta. La sua funzione di causa della mescolanza non viene quindi assolta dall’esterno, da un principio ontico che ha la funzione di produrre il misto tramite la mescolanza medesima, ma da una causa che è essa stessa mescolata. Ma ciò determina, di nuovo, l’eclissi del modello tecnico: se il nous è parte

257

Ivi, p. 179.

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GADAMER E IL FILEBO 141

della mescolanza, il nous è semplice metafora della verità. Perciò il ruolo del soggetto attivo buono che agisce “in vista di” rimane deserto, e il demiurgo torna a identificarsi con l’idea del bene.

3. Nel corso dei suoi successivi studi platonici Gadamer manterrà nel complesso la medesima posizione, che del resto è ben coerente con il suo rifiuto di prendere sul serio il dualismo metafisico di Platone. Da questo punto di vista azzarderei a dire che Gadamer ha continuato a leggere la dottrina platonica dei principi alla luce del neokantismo di Natorp. Ciò non significa, naturalmente, che Gadamer accettasse in toto la lettura di Platone offerta da Natorp. La linea di continuità consiste nel fatto che Gadamer ha di norma interpretato le istanze dualistiche e metafìsiche presenti nei testi platonici non già come un controfatto capace di mettere in crisi l’interpretazione trascendentale, ma piuttosto come stimolo ad articolare e complicare la stessa interpretazione trascendentale per permetterle di comprendere dentro di sé quelle istanze, una volta private della loro coloritura metafisica. Un esempio efficace di questa procedura è offerto proprio dal trattamento della causa della mescolanza, o nous, proposto nel saggio sul Filebo.

Vorrei soffermarmi, per finire, su alcune conseguenze di carattere generale collegabili a tale atteggiamento. La prima chiama in causa, di nuovo, Heidegger. La traduzione della finalità in termini ontologici, la riduzione del valore all’essere e l’appiattimento dell’attività demiurgica (sia essa cosmica o politica) sull’idea del bene ha conseguenze teoriche di vasta portata. Se la determinazione del vero essere della cosa è in pari tempo la determinazione della sua piena e perfetta conformità al suo fine, l’unica conclusione possibile è che tutto ciò che esiste è già esattamente come dovrebbe essere. In Heidegger mi sembra del tutto evidente che l’assorbimento della progettualità etica all’interno dell’ontologia prefigura il carattere destinale dell’Esserci e l’interpretazione del divenire come evento. Non c’è nulla che l’uomo possa fare in vista del bene, né nel cosmo né nella polis, perché la progettualità non è appannaggio della libera spontaneità del soggetto (inteso come soggetto “tecnico”), ma è inscritta nella struttura stessa dell’essere: se la causa è la verità stessa, se il demiurgo è il bene, il corso degli eventi è determinato sempre e solo dalla natura progettuale dell’essere, e l’uomo non vi ha parte alcuna. Ne derivano, a mio avviso, sia l’insofferenza che Heidegger ha sempre dimostrato nei confronti dell’etica, sia il conservatorismo di marca lontanamente hegeliana che grava inevitabilmente sia sugli studi platonici di Gadamer sia

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142 ATTUALITÀ DI PLATONK

sull’ontologia ermeneutica nel suo complesso. Qui però si apre uno scenario troppo ampio, che non può

essere introdotto in questa sede. Più pertinente al nostro tema è chiederci quale ruolo giochi, all’interno dell’immagine di Platone proposta da Gadamer, la riduzione della causa della mescolanza in termini di razionalità e di enunciabilità. La possibilità di individuare in Platone, sulla base del Filebo, una eventuale identità tra ontologia, dialettica ed etica dipende dalla fondatezza di questa interpretazione: occorre decidere, in altre parole, se è vero che ciò che in Platone rimane uguale a se stesso, e dunque ha funzione di principio ultimo della realtà, possa davvero essere inteso in termini di linguaggio, ossia di un intelletto ridotto a condizione di comprensibilità e di enunciabilità (un nous mescolato e non separato). La risposta a questa domanda è decisiva per valutare l’interpretazione “antidualistica” (e dunque neokantiana nella sostanza) che Gadamer dà di Platone.

Capitolo VII

Jacques Derrida e le origini greche del

logocentrismo (Platone, Aristotele)258

1. Come ha scritto sinteticamente Gianni Vattimo, “il programma decostruttivo derridiano...è un programma di oltrepassamento della metafisica analogo a quello di Heidegger ma anche caratterizzato da alcune specifiche connotazioni”; in particolare “l’identificazione della metafisica con il fono-logo-centrismo della cultura occidentale”

1. Quella che in Heidegger si

configura come metafisica della presenza in Derrida appare contrassegnata dalla centralità della voce, della parola parlata che si illude di poter realizzare la piena presenza del soggetto a se stesso. E per tale motivo che la metafìsica e l’ontologia dominanti nella storia della cultura occidentale hanno dovuto allontanare ed esorcizzare la scrittura, perché essa è caratterizzata dalla dialettica del rinvio, dell’alte- rità, della

258 Jacques Derrida e le origini greche del logocentrismo (Platone,

Aristotele), «Iride. Filosofia e discussione pubblica», 17 (2004), pp. 547-568. 1 Derrida e Voltrepassamento della metafisica, in J. Derrida, La scrittura

e la differenza, Torino 1990, p. XI. 2J. Derrida, De la Grammatologie, Paris 1967 (tr. it. di G. Dalmasso, Milano

1998, d’ora in poi G, da cui citiamo; qui p. 25). 3 G, p. 31.

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dislocazione: in poche parole, da una deformazione originaria (cioè da sempre in atto, e non derivata da alcuna forma) che fa apparire la realtà, strutturalmente, come differenza e non come presenza.

Uno dei testi chiave in cui Derrida espone questo rapporto, ad un tempo conservativo ed innovativo, con Heidegger, è indubbiamente Della grammatologia. Citiamo qualche passo significativo. La scrittura, ossia la vittima dell’esorcismo metafisico, sarebbe la

traduttrice di una parola piena e pienamente presente (presente a sé, al suo significato, all’altro, condizione stessa del tema della presenza in generale), tecnica al servizio del linguaggio, porta-voce, interprete di una parola originaria a sua volta sottratta all’interpretazione

2.

Ne deriva che «...il fonocentrismo si confonde con la determinazione istoriale del senso dell’essere in generale come presenza»

3, ed in questo è solidale, come abbiamo letto nella

citazione di Vattimo, con il logocentrismo: Tutte le determinazioni metafisiche di verità [cioè tutto quanto si può riassumere come metafisica della presenza]...sono più o meno immediatamente inseparabili dall’istanza del logos o da una ragione pensata nella discendenza dal logos... l’essenza della phone sarebbe immediatamente vicina a ciò che nel “pensiero” come logos è in rapporto col “senso”, lo produce, lo riceve, lo dice, lo raccoglie”

259.

Stando così le cose, Derrida può affermare:

La storia della metafisica, ad onta di ogni differenza, e non solo da Platone a Hegel (passando pure per Leibniz) ma anche, al di fuori dei suoi limiti apparenti, dai presocratici a Heidegger, ha sempre assegnato al logos l’origine della verità in generale

260.

Ed è appunto per tale motivo che la tradizione metafisica ha dovuto disinnescare la minaccia della scrittura, promuovendo la sua rimozione al di fuori della parola “piena”

261.

Tralasciamo, in questo lavoro, di discutere alcuni presupposti

259

G, p. 29. 260

G, p. 20. 261

Ivi.

Page 172: Franco Trabattoni

144 ATTUALITÀ DI PLATONK

assai avventurosi su cui si fonda l’analisi di Derrida (e in parte già quella di Heidegger): che si possa parlare della metafisica

262; che

la storia filosofica dell’occidente sia la storia della metafisica; che siffatta metafisica si configuri come metafisica della presenza e come ontoteologia

263; che (lo specifico derridiano) la metafisica

occidentale abbia tentato di esorcizzare la scrittura. Non ne parleremo, come detto, anche se a parere di chi scrive tutti questi presupposti sono piuttosto falsi che veri: e ciò sarebbe già sufficiente per ridurre a quantité négligeable tutta una certa koiné filosofica che va da Heidegger a Derrida e oltre (si tratta precisamente di quella parte della koiné ermeneutica, per citare ancora Vattimo

264, alternativa in rapporto a Gadamer

265).

262

Cfr. In proposito E. Berti, Introduzione alla metafisica, Torino 1993. 263

L’ontoteologia, propriamente parlando, dovrebbe indicare quella

posizione filosofica in cui Dio è l’essere (la cosiddetta «metafisica dell’Esodo»).

Ma in questo caso è del tutto errato attribuirla a tutta (o anche solo a gran parte)

della tradizione filosofica occidentale. Quello che è certo, in ogni caso, che

Platone e Aristotele non hanno nulla a che fare con essa. 264

Cfr. G. Vattimo, Ermeneutica come koinè «Aut-Aut» 217-218 (1987),

pp. 3-11. 265

«Accanto ai tentativi di lasciarsi alle spalle il “linguaggio della metafìsica”

con l’aiuto del linguaggio poetico di Hòlderlin, solo due vie mi sembrano per-

corribili, e sono state percorse per mostrare, contro l’addomesticamento onto-

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DERRIDA E IL LOGOCENTRISMO 145

Nella storia della metafisica così intesa si presentano in scena tre diversi protagonisti: la parola (phone), il logose la scrittura (il gramma- ovvero, con una sovradeterminazione semantica di cui diremo più avanti, la traccia). Ora, se è facile dire che cosa sono la phone e il gramma, meno facile è capire che cos’è il logos. Nel passo derridiano citato poco sopra il logos si pretende come un pensiero che è immediatamente in rapporto col senso (e che troverebbe nella voce una rappresentazione all’apparenza fedele, non dislocante e differenziante come la scrittura). Dunque la metafisica suppone la presenza di un senso o una verità ori-ginari, fondativi, immobili, e ad essi correla la presenza di un logos/pensiero capace di cogliere questo senso/verità senza dis-trazioni, rimandi, differenze o rinvii.

Ma dal testo di Derrida subito salta agli occhi un problema: il logos crea il senso o lo riceve? e se lo riceve, lo riceve da chi? La pagina der- ridiana non aiuta a operare la distinzione; piuttosto, identifica - o tratta come indifferenti - le due cose. Parlando di ciò che nel pensiero come logos è in rapporto col senso Derrida scrive: “lo produce, lo riceve, lo dice, lo raccoglie”. E dunque? il senso si produce nel logos, o il logos lo riceve da altro, lo raccoglie da altro, lo dice perché (forse) l’ha udito? Sono domande tutt’altro che irrilevanti: se infatti il logos “riceve” il senso, allora non si può dire che sia “l’origine della verità in generale” (p. 20), e viene così messa in forse la consistenza dell’opposizione derridiana tra gramma e logos. Un logos che riceve il senso, e non lo produce, non sarebbe con questo ancora identico alla traccia derridiana, che è traccia senza origine; ma aprirebbe la possibilità che anche il logos sia traccia. Se così fosse, la battaglia antimetafisica del mezzo emisfero ermeneutico a cui accennavamo sopra si troverebbe privata del bersaglio più grosso, appunto il logos: nella “metafisica della presenza” il logos brilla per la sua assenza; non è ma ha, non fa ma riceve.

Quanto abbiamo ipotizzato sopra ci basta, al momento, per introdurre un sospetto. La voce, per Derrida, è maschera meno visibile della metafisica della presenza. Ma che ragioni si hanno per dire che il logos sta dalla parte della presenza (non della assenza) e dell’identità (non della differenza)? In altre parole: come si passa dal fonocentrismo al logocentrismo? Perché la metafisica della presenza coincide con il logo- centrismo?

logico che è proprio della dialettica, un cammino che conduca all’aperto. Una è la via che dalla dialettica risale al dialogo e al colloquio. Ho cercato io stesso di percorrere questa via con la mia ermeneutica filosofica. L’altra, che è stata mostrara soprattutto da Derrida, è stata la strada della decostruzione»,

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146 ATTUALITÀ DI PI ATONE

H.G. Gadamer, Distruzione e Decostruzione, in Wahrheit und Methode 2, Tubingen 1986/1993 (tr. it. di R. Dottori, Milano 1995, pp. 329-330).

Verifichiamo questo passaggio su alcuni testi di Derrida, iniziando dalla Grammatologia. In un luogo che abbiamo già riportato si legge:

Si comincia dunque a presentire che il fonocentrismo si confonde con la determinazione istoriale del senso dell’essere in generale come presenzai

11.

Poche righe sotto si legge invece:

Il logocentrismo sarebbe dunque solidale con la determinazione dell’essere dell’ente come presenza

12.

E da supporre che le righe intermedie tra le due frasi contengano le ragioni del passaggio dal fonocentrismo al logocentrismo. In realtà troviamo soltanto, tra parentesi quadre, una serie di indicatori asintoticamente connessi:

[presenza della cosa allo sguardo come eidos, presenza come sostanza/essenza/esistenza (ousia), presenza temporale come punta (stigme) dell’adesso o dell’istante (nun), presenza a sé del cogito, coscienza, soggettività, con-presenza dell’altro e di sé, intersoggettività come fenomeno intenzionale dell’ego, ecc.]

13.

Non è difficile rinvenire in queste parole un rapido sunto diacronico della “metafisica occidentale” da Platone a Husserl, passando per Aristotele, Cartesio, Kant (e forse anche il neoplatonismo e l’idealismo).

Soffermiamoci sul primo degli indicatori tra parentesi quadra: “presenza della cosa allo sguardo come eidos". Il riferimento, ga va sans dire, è Platone, ritenuto l’iniziatore della “metafisica della presenza": l’essere in senso eminente (ontos on) è eidos, ed è accessibile allo sguardo come una cosa presente. Ma questo non è ancora logocentrismo, poiché lo sguardo è cosa ben diversa dal logos (ci può essere uno sguardo senza logos). La “presenza della cosa allo sguardo come eidos” indica piuttosto un “videocentrismo”: ossia un pensiero che 1) intende Tessere come presenza e 2) ritiene conoscibile questo essere mediante uno sguardo, una visione, una intuizione intellettuale, una forma qualunque di men- tal grasp. Se c’è anche logos, oltre a questo, per ora non sappiamo. Perché lo sguardo sull’essere sia indice di logocentrismo occorre evo-

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DERRIDA E IL LOGOCENTRISMO 147

nG,p. 31.

12 Ibidem. 13 Ibidem.

care una terza proposizione: 3) lo sguardo interiore è riproducibile fedelmente da un logos, da una parola/voce interiore. Senza questa terza proposizione, il logos (e il logocentrismo) non entrano in gioco.

Il rapporto tra fonocentrismo e logocentrismo è analizzato in dettaglio da Derrida ne La voce e il fenomeno. In questo saggio il filosofo francese, prendendo in considerazione soprattutto la Prima Ricerca Logica di Husserl, vuole dimostrare che la fenomenologia si trova ancora all’in- terno della metafisica della presenza e del logocentrismo. A parere di Derrida, in effetti, per Husserl la condizione conoscitiva originaria sarebbe il monologo interiore, in cui il linguaggio gode di una espressività pura, mentre senso e significato sono immediatamente presenti al soggetto; la scrittura, per contro, rappresenterebbe l’impurità del “fuori”, che introduce la differenza, la ripetizione, la dislocazione. L’intenzione di Derrida è quella di mostrare che una simile contrapposizione non sussiste, perché qualunque espressione linguistica, non importa se esterna od interna, inaugura

una catena di ripetizione che precede e supera la...intenzione di significato, la altera costitutivamente, la devia da se stessa

266.

Non c’è, dunque, una reale differenza tra monologo interiore e linguaggio esterno, tra intenzione rappresentativa e intenzione comunicativa: laddove c’è linguaggio, lì sono già all’opera la ripetizione, la decostruzione, la differenza.

L’idea che il monologo interiore sia il luogo dell’espressione pura (o integrale) deriva, per Derrida, dal fatto che si suppone “un legame essenziale tra l’espressione e la phonè”

267. Ma in

realtà la superiorità della voce è solo apparente. Tale apparenza dipende dal fatto che, nel mezzo vocale,

il “corpo” fenomenologico del significante sembra cancellarsi nel momento stesso in cui è prodotto. Sembra appartenere fin d’ora all’elemento dell’idealità. Esso stesso si riduce feno-menologicamente, trasforma in pura diafanità

266

C. De Martino, Oltre il segno. Derrida e l esperienza dellr impossibile,

Milano 2001, p. 89. 267

La voix et le phénomène, Paris 1967 (tr. italiana di G. Dalmasso, Milano

1968, d’ora in poi VF, da cui citiamo: qui p. 111).

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148 ATTUALITÀ DI PI ATONE

l’opacità mondana del suo corpo. Questa eliminazione del corpo sensibile e della sua esteriorità è per la coscienza la forma stessa della presenza immediata del significato

268.

268

VF, p. 112.

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149 ATTUALITÀ DI PIATONE

Dunque la voce (“nel senso fenomenologico e non nel senso di sonorità intramondana

269) è quella particolare materia

espressiva capace di nascondere accuratamente se stessa, di apparire come trasparente e nulla, e dare così alla coscienza l’illusione di avere il significato come immediatamente presente.

Ma non è tutto. Per Derrida gli elementi distintivi che caratterizzano la voce non sono semplicemente correlati, in modo estrinseco, alla metafìsica della presenza. Essi, al contrario, costituiscono l’origine del concetto stesso di “presenza”. E la voce ciò che istituisce l’essere come presenza (e la conoscenza come presenza immediata a sé del significato), perché la sua azione ha l’effetto di occultare la differenza, e far sembrare che originaria sia l’identità, quando invece lo è la differenza (che, al di fuori dell’illusione, in realtà affetta anche la voce).

L’illusorietà tipica della voce dà origine al logos. Ma di quale logos si tratta? E un “logos assoluto...unito in modo immediato” a una “faccia di pura intelligibilità”, a un

significato che può “aver luogo”, nella sua intelligibilità, prima della sua “caduta”, prima di ogni espulsione nell’este- riorità del quaggiù sensibile

270.

Derrida non è molto generoso di spiegazioni sul genere di logos che qui si annuncia e sulla conoscenza che gli sarebbe correlata. Utilizzeremo perciò un efficace commento di Di Martino:

Sul primato della voce si fonda l’autorità del logos, di un certo logos, inteso ora (da Derrida) non come linguaggio o discorso, ma come pensiero, o meglio, platonicamente, come pensiero puro e presente a sé neirinteriorità dell’anima, come significato che in ultima istanza sfugge al gioco dei significanti, come ragione originariamente autonoma e autarchica.

271

In che cosa consiste questo genere di logos? In una sorta di linguaggio che si illude della sua purezza, quale sarebbe una Ursprache, un linguaggio di Dio? Oppure in un pensiero non linguistico, cioè in una sorta di intuizione o di visione interiore (lo sguardo che vede Veidos come presente)? Così sembra intendere Di Martino (“non come linguaggio o discorso”). Ma

269

VF, p. 111. 270

G„ p. 32. 271

Oltre il segno, p. 77.

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150 ATTUALITÀ DI PLATONK

allora perché chiamarlo logos? Non è forse il logos, essenzialmente, linguaggio? Ma c’è anche una terza possibilità, ossia che si tratti di un linguaggio che si pretende puro perché capace di rispecchiare fedelmente la visione interiore, la visione déiYeidos come presente. Il suo vantaggio sarebbe appunto quello di essere interno, e come tale vicino alla visione interiore, mentre esterni, dunque segnati dalla differenza e dall'impurità, sarebbero sia il linguaggio come “sonorità intramondana”, sia il gramma. A me pare che Derrida, almeno nella discussione con Husserl che compare ne La voce e il fenomeno, inclini verso quest’ultima soluzione. A suo parere l’intenzione di Husserl sarebbe quella di individuare un'“espressione integrale” il cui “telos...è la restituzione, nella forma della presenza, della totalità di un senso dato attualmente all’intuizione”

272.

Se questo è vero, però, la metafisica della presenza non è connessa strutturalmente al logocentrismo, ma dipende in modo essenziale dall’assunzione che la conoscenza sia, al suo fondo, intuizione immediata. L’ipotesi che esista un genere innocente di linguaggio capace di ridurre a zero l’effetto della mediazione sul contenuto intuito (il logos di un certo tipo, interiore), per converso, non le è essenziale, ma è semplice- mente giustapposta. Non a caso possiamo leggere (sempre ne La voce e il fenomeno) che “il concetto husserliano di linguaggio è diretto da una teoria intuizionista della conoscenza”

273. Ecco dunque

qual è il motivo per cui anche Husserl, a parere di Derrida, appartiene alla tradizione metafisica occidentale: non tanto e non solo perché in Husserl è mantenuta la centralità del logos, ma perché la sua concezione del linguaggio è “diretta” da una gnoseologia di carattere intuizionista. Senza il presupposto intuizionistico, infatti, non c’è metafisica della presenza, perché in tal caso nulla sarebbe dato, nella sua presenza, all’intuizione, e nulla potrebbe essere restituito da un logos ad essa adeguato. Per rinvenire le tracce, nella storia della filosofia occidentale, della metafisica della presenza, non è dunque utile cercare le tracce del logocentrismo. E utile e necessario, invece, cercare i documenti e le tracce della gnoseologia intuizionista, e qualificare come logocentrismo metafisico solo quel genere di logocentrismo che da tale gnoseologia risulta “diretto”. Sono infatti pensabili sia una metafìsica della presenza senza logocen-trismo sia un logocentrismo senza correlazioni con la metafisica della presenza. Chi dunque ritiene necessario abbandonare la metafisica della presenza, non ha con questo ancora dimostrato

272

VF, pp. 108-109. 273

VF, p. 129.

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DERRIDA E IL LOGOCENTRISMO 151

la necessità della decostruzione. Qui emerge una delle caratteristiche strutturali dei moderni oppositori della “tradizione metafisica occidentale”. Essi lavorano sulla base del presupposto che tertium non datur. O la metafisica, o la decostruzione; o la verità come rispecchiamento, o la verità come evento; o il logos o la differenza, ecc. Nel caso nostro, tra il logos come specchio dell’intuizione eidetica e la decostruzione il tertium è rappre-sentato, di nuovo, dal logos dialettico (e dialogico) in uso nella seconda metà della tradizione ermeneudca (quella gadameriana).

2. Negli scritti di Derrida (mi riferisco in particolare a Della Grammatologia e a. La voce e il fenomeno) il nesso tra metafìsica della presenza e logos non mi risulta che sia stato esplicitamente tematizzato. Sembra piuttosto che su questo motivo Derrida abbia accolto quel forte legame di implicazione reciproca suggerito da Heidegger. Dalle lezioni sul Sofista di Platone del semestre invernale 1924/1925

22, in cui Heidegger

dichiara esplicitamente di interpretare Platone alla luce di Aristotele

23, si evince che a suo parere tanto in Platone quanto in

Aristotele c’è un senso in cui il logos risulta identico aIVeidos. I greci concepivano l’essere come ciò che nel tempo occupa il luogo del presente e la verità come attributo del giudizio che percepisce appunto come presente ciò su cui esso si esercita. Da Platone in poi questo essere presente è V eidos, mentre lo strumento del giudizio che ad esso pienamente si accorda è il logos. Così Heidegger può affermare nel corso citato che in Platone uno dei sensi del logos manifesta la sua identità con Vei-dos^ e che in Aristotele (qui Heidegger sta commentando un passo del De partibus animalium) logos significa legein, cioè render presente mediante la parola, mentre il “logos in quanto legomenon (cioè “detto”, “proferito”) è Veidos”

25.

Abbiamo così trovato il collegamento tra il logos e la presenza. Il logos presentifica l’essere, ossia entra in gioco solo per segnalare il fatto che qualcosa è presente. Significativamente Heidegger chiude la parte introduttiva (dedicata ad Aristotele) del suo corso sul Sofista con le seguenti parole:

Questa irruzione del Xóyoq, del logico in questo senso stretta- mente greco, in questa interrogazione riguardo l’òv, è motivata dal fatto che l’òv, l’essere dell’essente stesso, è interpretato in modo primario come presenza, e il Xóyoc, è il modo in cui io, primariamente, rendo presente a me qualcosa (ciò

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152 ATTUALITÀ DI PLATONK

appunto di cui parlo)26

.

Che ne è, alla luce di queste asserzioni heideggeriane, del rappor-

22 Platon: Sophistes (1925/1925), GA XIX. 23 Ivi, p. 11. 24 Ivi, p. 201. 25 P. 45. 26 P. 225.

to tra logos e intuizione? Se Veidos coincide con il logos, e se Veidos è anzitutto ciò che è visto o avvistato (un tema sul quale Heidegger insiste a più riprese

274), allora il logos risulta identico

all’intuizione. Il logos, dunque, è al tempo visione e discorso: das Ausgesprochene o das Besprechendes.

Ma in queste equivalenze non c’è nulla di necessario, e dunque non c’è nessun legame di implicazione tra il logos e la metafisica della presenza. Che una concezione dell’essere come presenza, ad esempio come presenza alla mente (psyché) dell’essenza o forma {eidos), si sposi all’idea che questa presenza dell’essere si manifesti nella sua evidenza in un logos, è un fatto semplicemente possibile, eventuale, contingente. Anche ammesso che questo collegamento si possa riscontrare in uno o più autori, o in determinate correnti di pensiero, non vi è tuttavia alcun motivo per ritenere che in esso risieda una struttura necessaria e ineludibile del pensiero metafisico. Il logos, in altre parole, può essere pensato come qualcosa che non ha alcun rapporto necessario con la presenza e la visione &e\Y eidos.

E facile constatare, in effetti, che tra metafisica della presenza e logos, non che esservi un nesso logico, vi è piuttosto una opposizione. Lo possiamo verificare mediante una diversa applicazione delle stesse analisi di Derrida. La tradizione metafisica occidentale, così come viene descritta nella koiné decostruzionista, crederebbe fermamente nella forza del logos. Ora, se questa forza consistesse nella “restituzione, nella forma della presenza, della totalità di un senso dato attualmente all’in-tuizione”, allora il logos già fin da subito, all’interno della stessa tradizione metafisica, si manifesterebbe come profondamente segnato dalla contraddizione, dalla différance derridiana. Infatti il logos è tanto più forte quanto meno esiste, quanto meno è

274

Cfr. in particolare il corso del semestre invernale 1931/1932 {Vom

Wesen <ler Wahrheit. Zu Platon Hólengleichnis und Theàtet, GA XXXIV, tr.

it. Milano 1997) e il saggio Platons Lehre von der Wahrheit (in Wegmarken,

GA IX, tr. it. Milano 1987).

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DERRIDA E IL LOGOCENTRISMO 153

visibile, quanto meno agisce. Se il suo obiettivo è quello di lasciar essere l’intuizione nella sua purezza, allora il logos deve semplicemente sparire, perché la sua azione sarebbe comunque (de)formante; e se pure riesce ad esistere senza deformare, si tratta in ogni caso di un’esistenza tollerata finché innocua, eventualmente nociva, utile in nessun caso.

Il metafisico in senso deteriore, in realtà, non è affatto logocentri- co. Al contrario egli diffida molto del logos, perché esso corre sempre il rischio di inquinare la visione perentoria, assoluta, inquestionabile della sua mente. Corre il rischio di costringere la verità apparsa (a lui) nell’intuizione a giustificarsi in base al ragionamento, dunque sottoporsi al dialogo, al dubbio, all’obiezione, alla confutazione. In modo del tutto simmetrico, chi è convinto dell’inaggirabilità del logos, ben ' difficilmente sarà fautore della metafisica della presenza. Perché il logos per sua natura intrinseca è ciò che “rinvia a giudizio” (proprio nel ‘ senso del rinvio derridiano), che sottomette a prova, che sospende la verità della presenza, prende tempo, suscita la discussione, convoca interlocutori, testimoni, obiettori. Il logos è per sua natura intersoggettivo, comunicabile, aperto alla comprensione e alla persuasione; esso mette fin da subito fuori gioco l’intuizione, la visione di ciò che è presente alla mente: perché questa presenza non entra in circolo, resta del soggetto, non può tradursi in un logos che esiste solo come ponte tra più soggetti.

Tutto questo è in realtà piuttosto ovvio. Tuttavia rimane incomprensibilmente oscurato sia nella concezione heideggeriana del logos sia nel logocentrismo derridiano. Ma l’operazione derridiana ha in più una sua propria singolarità. Apparentemente Derrida mette in questione e aggredisce il nesso heideggeriano tra presenza e logos, così da far pensare che abbia smascherato l’infelice connubio inscenato da Heidegger, e si accinga dunque rivendicare la funzione di schermo, differenziante e dislocante, del logos. In realtà rimane totalmente all’interno dei presupposti heideggeriani, e in particolare della sua interpretazione della storia della filosofia e della metafisica occidentali. In effetti Derrida smantella e sottrae alla metafìsica della presenza alcuni pezzi del logos, come la scrittura e la voce stessa, ma lascia il logos nelle braccia della sua indesiderata concubina. La scrittura manifesta la differenza, e la stessa voce si illude soltanto, complice la volatilità del mezzo, di dire l’identico. Il logos, invece, continua stranamente da solo, senza voce, senza scrittura, a dire l’identico.

Ma che cosa rimane, al logos, una volta che la scrittura e la voce sono state collocate tra le cose che esprimono la

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154 ATTUALITÀ DI PLATONK

differenza? Che cos’è questo logos residuo? E il senso dato nell’intuizione? Ma se è intuizione, perché parlare di logos? E forse allora il logos trasparente, diaframma nullo, che lascia essere l’intuizione? E il linguaggio, il discorso interiore che restituisce con esattezza il dato intuito? Ma se esiste un linguaggio interiore capace di tradurre in parole l’intuizione, un interfaccia non distorcente tra la visione de\Veidos e la sua espressione linguistica (logos), perché mai questo linguaggio interiore non potrebbe riprodursi identico nei mezzi, altrettanto linguistici, della voce e nella scrittura? Perché mai solo la parola scritta, dovrebbe essere il luogo in cui si manifesta la differenza, mentre il pensiero, che pure ha natura linguistica, sarebbe il portatore violento della metafisica della presenza? Insomma, delle due l’una: o il pensiero ha caratterie intuitivo, e allora la tradizione metafisica non si configura come un logocentrismo; oppure il pensiero Ha carattere discorsivo, e allora pensiero e scrittura sono i mezzi indifferenti che possono farsi portatori degli stessi significati, delle stesse presenze come degli stessi rinvii, perché in tal caso fra i due mezzi non sussiste alcuna differenza “significativa”.

3. Nella tradizione che considera la storia della filosofia occidentale come metafisica della presenza e/o come logocentrismo il principale responsabile di tale deriva è identificato, come detto sopra, in Platone. Abbiamo visto però come Heidegger, che può considerarsi il fondatore di questo orientamento, scelga esplicitamente di leggere Platone attra-verso il filtro di Aristotele. E poiché questo approccio è riscontrabile anche in Derrida

275, risulterà utile prendere le mosse

proprio da Aristotele. Nella pagina della Grammatologia, già citata, in cui Derrida collega il logos alla metafisica della presenza, si legge la seguente citazione tolta da De interpretatione aristotelico:

E come neppure le lettere dell’alfabeto sono le stesse per tutti, non sono le stesse neppure le voci. E certo però che le cose prime di cui queste sono segni, sono affezioni dell’anima uguali per tutti, e ciò di cui queste affezioni sono somiglianze sono le cose, che sono già uguali (De int. 16a5-8).

In questo passo sono nominati quattro elementi: le cose, le

275

Cfr. anche, per un approccio analogo, C. Sini, Platon et H origine de la

métaphysique, in M. Dixsaut (éd.) Contre Platon 2. Renverser le platonisme,

Parigi

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DERRIDA E IL LOGOCENTRISMO 155

affezioni dell’anima che ad esse somigliano, le voci che esprimono queste affezioni e infine i segni linguistici che riproducono le voci. Più avanti Aristotele scrìverà anche che “i discorsi sono veri allo stesso modo in cui sono vere le cose” (19a33).

Derrida ha dunque ragione nel dire che per Aristotele il significante, in particolare quello scritto (ma ancora: perché questa differenza?) è “sempre tecnico e rappresentativo. Esso non avrebbe alcun senso costituito”

276. Possiamo dunque dire

che la concezione del logos, in particolare di quel logos rappresentato dalla scrittura, come mezzo assoluta- mente trasparente che lascia essere la cosa nella sua purezza, sempre identica a sé nella sua presenza (tale da suscitare nell’anima di ciascuno affezioni altrettanto identiche), sarebbe propria almeno di Aristotele, che così diventerebbe uno dei padri della metafìsica della presenza e del logocentrismo.

Ma che ne è, in Aristotele, dell’altro elemento che abbiamo visto essere costitutivo della metafìsica della presenza, cioè dell’intuizione intellettuale, “della presenza della cosa allo sguardo come eidos’} La questione, presso gli interpreti di Aristotele, è controversa. Pur essendoci nel corpus aristotelicum dei passi apparentemente favorevoli a un’epistemologia intuizionista

277, nella stragrande maggioranza dei casi Aristotele

sembra ritenere che la conoscenza dell’essenza di una cosa (1 ’ ousia) si ottenga per mezzo della definizione, cioè mediante qualcosa che ha necessariamente bisogno del logos. Ma allora in che senso Aristotele può essere inserito tra i fondatori della “metafisica della presenza”? Non manca forse un elemento essenziale?

La ragione consiste proprio nel fatto che Aristotele interpreta il logos in senso tecnico (e forte) come “discorso definitorio”. La de-finizione, infatti, è un discorso capace di cogliere la cosa così come essa è, definendola e delimitandola in modo completo e de-finitivo. Essa rappresenta dunque un logos che non rimanda e non rinvia, che non si fa veicolo della differenza ma al contrario manifesta solo l’identità, identificandosi perfettamente con la cosa. È vero che manca, in questo caso, la presenza allo sguardo della cosa che il logos riproduce, ma qui il logos è in grado di sostituirsi a questa presenza. Ciò che l’anima ha presente, come sua affezione, quando conosce l’essenza di una cosa, è precisa- mente la sua definizione. Si potrebbe anche dire che l’assenza della visione rafforzi, anziché indebolire, la

1995, pp. 293-304.

277 Cfr, ad es., Metaph. X 1051b22-28, AnPo. II, 100b5-17.

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156 ATTUALITÀ DI PLATONK

concezione dell’essere come presenza, perché il duplice concorso di visione e logos apre in ogni caso la possibilità, sia pure teorica, che vi sia tra la cosa “vista” e la cosa riprodotta dal logos una differenza irriducibile, e dunque anche la possibilità che il logos sia pensato come veicolo della differenza (o anche della differenza). Se il logos, definendo, coglie compiutamente l’essenza di ciò che si manifesta all’intelletto come presenza, allora la differenza non ha più nessuno che la possa rappresentare.

E tuttavia l’assenza della visione, da un’altra prospettiva, ha anche degli effetti dislocanti e ritardanti, tali da indebolire, invece che rafforzare, la “metafisica della presenza”. La definizione espressa dal logos è infatti il punto di arrivo di una ricerca che prende tempo, che deve superare tutte le aporie, che si sviluppa mediante un metodo induttivo, che passa attraverso la sensazione, la memoria e l’esperienza

278. In questo senso le

manca quella serie di caratteristiche che Derrida, nella scansione diacronica che abbiamo visto sopra, ha chiamato “presenza come sostanza/essenza/esistenza (ousia), presenza temporale come punta (.stigme) dell’adesso o dell’istante (nun), presenza a sé del cogito, coscienza, soggettività...”. L’ousia, per Aristotele non si impone all’intelletto grazie all’evidenza puntuale del suo essere presente, ma viene trovata mediante una ricerca che al contrario ha lo scopo di rendere presente (e manifestare nella definizione) ciò che in quanto tale non lo sarebbe.

Da tutto ciò si capisce perché i fustigatori della metafisica della presenza, pur indugiando volentieri anche su Aristotele, finiscano poi sempre per spostare indietro il bersaglio grosso, e puntare su Platone: perché da un lato gli occhiali aristotelici sono loro utili per interpretare Platone in un certo modo (come meglio vedremo fra poco), dall’altro in Platone sembra potersi trovare nella sua forma più esplicita tutto l’armamentario concettuale tipico della metafisica della presenza: lo sguardo che vede V eidos come presente e il logos che lo riproduce accuratamente nella definizione.

In realtà questa tesi è tutt’altro che scontata. Se non è facile ricavare dai testi platonici riferimenti precisi ad una intuizione intellettuale davvero disponibile all’uomo nella sua condizione mortale

279, ancora più difficile è attribuirgli una concezione del

278

An. Po. II, 99b34-100b5. 279

Non posso che rinviare in proposito al mio II sapere del filosofo, in M.

Vegetti (a cura di), Platone. La Repubblica, voi. V, libri VI-VII, Napoli 2003, pp.

151-186. Cfr. anche P. Stemmer, Platons Dialektik. Die fruhen und mittleren

Dialoge, Berlin-New York 1992, pp.214-225. Ciò che in questi studi viene messo

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DERRIDA E IL LOGOCENTRISMO 157

logos come trasparente rispecchiamento dell’intuizione eidetica. La testimonianza più esplicita a quest’ultimo proposito è il luogo del Fedone sulla cosiddetta “seconda navigazione” (96a-100a) - passo tanto famoso quanto spesso frainteso. Socrate racconta di aver cercato da giovane le cause della generazione e della corruzione rivolgendosi anzitutto ai filosofi naturalisti, ma di esserne rimasto ben presto deluso. Perciò decise di modificare il suo metodo di indagine e di rifugiarsi nei logoi. Questa fuga nei logoi è descritta appunto come “seconda navigazione”, che è l’espressione con cui i greci indicavano la navigazione a remi, più faticosa di quella a vela, a cui i naviganti dovevano accomodarsi per mancanza di vento. La metafora, dunque, indica che il ricorso ai logoi è un procedimento “secondo”, una specie di second best a cui si deve attenere in mancanza del primo (la metafora della seconda navigazione è usata, sempre per esprimere vicarietà, in altri due luoghi del corpus platonico

280). La prima navigazione

non è ovviamente, in questo caso, il metodo naturalistico che cerca le cause dentro la realtà sensibile; ma il metodo che pretende di trovare quello che cerca mediante un procedimento diretto come quello attuato dei sensi; cioè il metodo di chi vorrebbe conoscere l’essenza delle cose per mezzo dello sguardo intellettuale nello stesso modo in cui gli oggetti sensibili sono colti direttamente, immediatamente, dalla vista. Ciò da cui la seconda navigazione ripiega non è altra cosa, dunque, che quello sguardo supposto capace di vedere la cosa come eidos.

Tutto ciò è rinforzato, sempre nello stesso passo del Fedone, da un’altra metafora. L’uso dei logoi, spiega Socrate, è simile all’uso di specchi e schermi di cui si servono, per non essere abbagliati (e perciò non vedere nulla) coloro che vogliono guardare il sole durante l’eclissi (99d-e). Dunque i logoi fanno da schermo e da filtro, permettono sì di vedere, ma solo attraverso un diaframma che istituisce una distanza e una differenza. Perciò, se pure i logoi sono lo strumento migliore per conoscere la realtà nella sua essenza, in essi si manifesta sempre, e per

in questione è che sia possibile ricavare, da alcuni passi cruciali della

Repubblica, «la présence d’une vision suprasensible» (C. Sini, Platon et

l'origine de la métaphysi- que, p. 294). Non si intende mettere in dubbio il fatto

che, in Platone, esista una conoscenza intellettuale distinta dalla conoscenza

sensibile, ma si vuole escludere che la conoscenza intellettuale sia da

interpretare come una «visione». 280

Politico 300cl, Filebo 19c3. Per un’interpretazione testualmente e storica-

mente corretta della “seconda navigazione” vedi ora S. Martinelli Tempesta, Sul

significato del Semepoq Trofie; nel Fedone di Platone, in F. Trabattoni - M.

Bonazzi, (a cura di), Platone e la tradizione platonica. Studi di filosofia antica,

Milano 2003, pp. 89-125.

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158 ATTUALITÀ DI PLATONK

natura, anche la differenza. Sopra abbiamo visto che il logocentrismo non è

strutturalmente connesso a una dottrina della visione intellettuale. Ora vediamo che di fatto, in Platone, la sussistenza del logos, la ragion sufficiente del suo esistere, consiste al contrario nella differenza che esso istituisce. Se il sole (l’essenza) potesse essere visto senza filtro, allora il logos non servirebbe. Dunque il logos è il filtro. Poiché l’identico si può manifestare, nella misura in cui si manifesta, solo attraverso una certa dose di differenza, il logos rappresenta lo strumento che permette di far passare il massimo possibile di identità attraverso il minimo possibile di differenza; è ciò che permette a ciò che è strutturalmente lontano di essere presente quanto possibile, pur sapendo che questo render relativamente presente non toglie la lontananza

281.

A sostegno di questa interpretazione si possono citare i numerosi passi dei dialoghi in cui Platone fa capire che la conoscenza intellettiva si basa esclusivamente sul logos, sul logismòs (cioè ragionamento) e sull’attività di dialegesthai a loro collegata

282. Qui vogliamo però riportare un esempio forse meno

noto, tolto dal Politico. Durante l’analisi mirante a scoprire la natura del vero uomo politico lo Straniero di Elea (conduttore della discussione) introduce a più riprese osservazioni di carat-tere metodologico sul procedimento dialettico e sulla filosofia in generale. In una di queste (285d-286a) si legge che esistono due generi di realtà: la prima consta di quelle cose sulle quali è facile dare spiegazioni in base alle somiglianze sensibili, senza bisogno di utilizzare il logos; la seconda riguarda realtà più nobili ed elevate, di cui non esistono immagini, e che pertanto possono essere indagate solo col logos, cioè con un metodo più faticoso e meno immediato. Viene qui espressa, come si vede, la stessa natura vicaria del logos che abbiamo visto nel Fedone, le realtà immediate e sensibili si possono cogliere facilmente in modo diretto; le realtà intelligibili più elevate, viceversa, non si presen-tano come eidos alla percezione della vista interiore, ma possono essere studiate solo mediante il faticoso procedimento del logos,

281

Questa vicarietà del logos è confermata anche éalY excursus filosofico

della VII Lettera (342a7-344d2) laddove Platone parla di debolezza dei logoi,

pur ritenendo che la conoscenza debba comunque passare attraverso gli stadi

della conoscenza discorsivo-proposizionale. 282

Le descrizioni della conoscenza intelletiva in termini di dialegesthai, di

“dare e ricevere discorso” sono frequentissime soprattutto nei libri centrali della

Repubblica (cfr. ad es. 524e5-6, 525d6-7, 531d7-e5, 532a6, 532d8, 533c2,

534b3-6, 534d8-10 ). Ma v. anche Fedone 78c6-79a5, Fedro 249b7-cl, Teeteto

188 c- d, Parmenide 130a2, ecc.

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DERRIDA E IL LOGOCENTRISMO 159

cioè del ragionamento così come si configura nella prassi dialettica del dare e ricevere discorso (286a4-5).

Si potrebbe tuttavia pensare che Platone sia riconducibile all’interno della metafisica della presenza alla maniera aristotelica, cioè mostrando che anche per lui l’obiettivo del logos è la definizione. Questa idea è in effetti una parte importante di quella costruzione fantastica a cui si dà il nome di metafisica della presenza, spacciandola per la filosofia di Platone. Anzitutto si assume senz’altro per vera l’ipotesi che la conoscenza intellettuale, in Platone, abbia natura intuizionistica, e si intende che questo sia il contributo specificamente platonico alla metafisica della presenza. Poi, per evitare che la concezione platonica del logos faccia apparire (come realmente accade) la differenza tra la conoscenza intesa come visione immediata de\Yeidos e la conoscenza intesa come rinvio, come esercizio vicario del ragionamento e della dialettica, si applica a Platone la concezione aristotelica del logos come definizione (ecco perché è così utile, come è evidente soprattutto in Heidegger, interpretare Platone attraverso Aristotele!). Ora il mostro è fatto e finito: sommando un intuizionismo che non è platonico alla concezione aristotelica del logos

283 come definizione nasce la “filosofia di

Platone” (?) intesa come metafisica della presenza, come “oblio dell’essere che ha condotto il pensiero metafisico occidentale a identificare l’essere con gli oggetti della conoscenza scientifica e della manipolazione tecnologica”

284.

Per dimostrare che il logos, in Platone, non si può esaurire nella definizione, si renderebbero necessarie analisi specialistiche. Devo dunque limitarmi di nuovo a poche indicazioni. Inizieremo osservando che il termine tecnico usato da Aristotele per la definizione, cioè horismòs, compare decine di volte nel corpus aristotelico, nemmeno una in quello platonico. Questo può semplicemente significare che si tratta di un conio linguistico aristotelico. Ma il problema dell’origine investe in realtà anche il concetto. Per Aristotele si può parlare di definizione per-ché esiste un procedimento capace di cogliere l’essenza di una cosa sulla base di un genere prossimo e di poche differenze specifiche. In Platone, al contrario, la corretta mescolanza dei generi di cui si parla nei dialoghi dialettici (in particolare Sofista, Politico e Filebo) non prevede queste articolazioni

283

Cfr. ancora C. Sini, Platon et l'origine de la métaphysique, p. 295, in cui

la concezione platonica del logos è senz’altro assimilata a quella aristotelica. 284

G. Vattimo, Cent'anni di Gadamer, in Incontri con Hans-Georg

Gadamer (ed. italiana, a c. di G. Girgenti, di Begegnungen mit Hans-Georg

Gadamer, Stuttgart 2000), Milano 2000, pp. 68-69.

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160 ATTUALITÀ DI PLATONK

(genere/specie) e limitazioni (un numero ristretto di differenze specifiche). In più luoghi dei dialoghi sopra menzionati si legge, al contrario, che il dialettico dovrebbe essere in grado di identificare lo spettro completo dei rapporti che legano un dato concetto ad un altro

285. Ma in tal modo la finitezza del logos aristotelicamente

inteso come de-finizione lascia il posto alTin-finità dell’esercizio dialettico, che corrisponde perfettamente alla vicarietà del logos caratteristica della concezione platonica. Il logos, inteso come filtro e diaframma che nel momento stesso in cui manifesta necessariamente anche nasconde, naturalmente non si presta a farsi veicolo di conoscenze definitive, e questo si sposa perfettamente con l’idea che l’essenza potrebbe essere colta in modo definitivo non già per mezzo di poche differenze specifiche (come vuole Aristotele), ma solo mediante l’individuazione degli infiniti rapporti che legano ciascuna essenza con tutte le altre. L’impossibilità di definire le idee platoniche, del resto, è confermata dallo stesso Aristotele, a parere del quale non è possibile definire gli enti eterni, e ciò è dimostrato - egli osserva - da ciò che fanno gli stessi platonici, nessuno dei quali tenta di definire le idee (.Metaph. VII, 1040a27-b4).

A queste considerazioni si deve aggiungere anche il fatto che nei luoghi platonici in cui si parla del metodo dialettico normalmente non compare solo il momento astratto ed oggettivo della mescolanza dei concetti, dei rapporti di inclusione ed esclusione. Vi si trova spesso anche un riferimento alla concreta attività del “dare e ricevere discorso”, e ciò dimostra che l’esercizio del logos non è in Platone mai separato dal movimento effettivo con cui un certo logos passa da un soggetto ad un altro, stimolandone la persuasione.

Anche qui, come si vede, si manifesta un ripiego, un indebolimento, una struttura vicaria. Se infatti la definizione ha il compito di restituire

285

Parmenide 136b-d, Sofista 254c-d, Politico. 285a-b, Filebo 19b.

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DERRIDA E IL LOGOCENTRISMO 161

l’essenza della cosa come presente, il rinvio reiterato della definizione proprio di un logos che necessariamente anche nasconde suppone che la cosa sia destinata a restare, almeno da qualche punto di vista, nascosta ed assente. Questo parziale restar nascosto della cosa sottrae alla conoscenza il criterio dell’evidenza, impedisce di pensare alla verità come ostensione inquestionabile di ciò che è presente. Si rompe così lo schema del De interpretatione aristotelico, in cui dalla cosa uguale per tutti si passa alle affezioni dell’anima (anch’esse uguali per tutti) e poi al logos definitorio, convenzionale nell’uso dei segni ma identico in ciò che significa. Tale schema suppone la possibilità di raggiungere un’evidenza e una presenza prime, oggettivamente tali per tutti, su cui poi articolare dimostrazioni cogenti. Ma poiché in Platone ciò che è revocato in dubbio è proprio questa presenza, il logos non può essere solo lo specchio dell’oggettiva determinazione della cosa. Esso, al contrario, deve concedere una parte essenziale alla persuasione, per poter supplire allo scarto tra presente e lontano, tra evidente e nascosto, tra ogget-tivo e soggettivo. Il logos platonico deve poter riguadagnare in capacità persuasiva ciò che perde nell’atto in cui, manifestando, nasconde.

4. La vicarietà del logos, che abbiamo visto all’opera analizzando alcuni aspetti della filosofìa di Platone, è il motivo per cui riteniamo, contro Derrida, che metafisica della presenza e logocentrismo possano e debbano essere separati; e che lo debbano essere, anzitutto, proprio e soprattutto nel pensiero platonico. Questa separazione è ben evidente nel dialogo di Platone che Derrida ha sottoposto ad indagine più accurata, e cioè il Fedro. Tuttavia qui l’analisi di Derrida appare singo-larmente ambigua. Da un lato, infatti, egli sembra ritenere che il logos sia pensato da Platone come lo specchio fedele dell’origine, e che pertanto il veicolo della differenza, il pharmakon da esorcizzare, sia la scrittura. Dall’altro sembra anche ammettere che la filosofia (la dialettica) sia anch’essa pharmakon che si oppone a pharmakon

286 e che dunque lo

stesso logos, molto prima della scrittura, costituisca una struttura di supplenza.

Esaminiamo questi due motivi con un po’ più di attenzione. La

286

La pharmacie de Platon, in La dissémination, Paris 1972 (tr. it. a c. di S.

Petrosino, Milano 1989, pp. 101-195, d’ora in avanti F, da cui citiamo: qui p. 150).

Cfr. F. Wolff, Trios. Deleuze, Derrida, Foucault, historìens du platonisme, in

B. Cassin (éd.) Nos Grecs et leurs modemes, Paris 1992, pp. 232-247 (qui pp.

238-240 in particolare).

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162 ATTUALITÀ 1)1 PLATONE

scrittura, scrive Derrida nella Farmacia di Platone, è parente del mito, e in quanto tale si oppone al “sapere e in particolare al sapere che uno può attingere da se stesso”. La parentela della scrittura col mito istituisce, in altre parole, la distanza tra parola scritta, che ospita la differenza, e il complesso fogcw-dialettica, in nome del quale Socrate nel Fedro lancia la sua requisitoria contro la scrittura

287. Derrida non vuole dire, con questo, che il

logos sia l’origine (oppure, utilizzando le metafore del Fedro e della Repubblica, il padre-sole-capitale). E infatti “l’origine del logos è suo padre”:

A differenza della scrittura, il logos vivente è vivente per il fatto di avere un padre vivente (mentre l’orfano è mezzo morto), un padre che sta presente, in piedi accanto a lui, dietro di lui, in lui, sostenendolo con la sua rettitudine, assistendolo di persona e nel proprio nome

288.

La preminenza del logos sulla scrittura deriva dunque dal fatto che quello, a differenza di questa, ha accesso diretto alla fonte: “Il bene (il padre, il sole, il capitale) è dunque la fonte nascosta, illuminante e accecante, del logos"

289. E ancora:

Il logos è dunque la risorsa, bisogna volgersi verso di esso, e non solo quando la sorgente solare è presente...bisogna rivolgersi verso il logos anche quando il sole sembra assentarsi nella sua eclisse

290.

Già qui è ben visibile l’ambiguità di cui abbiamo detto sopra. La fonte (padre, capitale, bene “ordine e valore degli enti visibili”) è una cosa di cui “non si può parlare semplicemente o direttamente”

291. Ma allora, è assente o presente? E se è la fonte

è nascosta, come può essere la fonte accecante e illuminante del logos? Come illumina, come acceca ciò che è nascosto? E se il logos è già secondo rispetto alla fonte, perché la differenza non si annuncia già nel logos, ma solo nella scrittura?

Questa ambiguità deriva in parte dal fatto che Derrida, nel momento in cui individua nel Fedro la differenza essenziale nel divario che separa la scrittura dalla parola e dal logos, nomina qualcosa che non è essenziale. L’opposizione fondamentale di

287

F, p. 112. 288

F, p. 114. 289

F, p. 119. 290

F, p. 120. 291

F, p. 118.

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DERRIDA E IL LOGOCENTRISMO 163

cui parla il Fedro passa attraverso il logos, comprensivo di pensiero parola e scrittura, da un lato, e il sapere dell’anima dall’altro. Il discorso orale, nel Fedro, è superiore a quello scritto perché ha una maggiore capacità persuasiva (e abbiamo visto sopra come la persuasione diventi importante, in Platone, proprio perché il logos è vicario), non perché sia ritenuto più vicino all’origine. Come ha acutamente osservato Y. Rinon, il distacco del logos dal padre avviene molto prima della scrittura: “The moment thè logos is prou- nounced, thè moment it is uttered, it is disconnected from thè living and speaking subject-father”

292. Non

solo, insomma, non si capisce in generale perché proprio la scrittura dovrebbe essere la sede privilegiata della differenza, ma il Fedro platonico non offre alcun appiglio per questa ipotesi. La vera differenza è quella che intercorre tra il logos, con tutti i suoi modi espressivi, e ciò che viene prima di lui.

Ora, che cosa viene prima del logos - se pur c’è qualcosa che viene prima? Prima del logos non può esserci altro che l’intuizione pura, cioè la visione che vede l’eidos come presente. Al di sotto di questa visione, reale o fittizia che sia, vi sono per Platone le tre forme del logos, cioè il pensiero, la parola e la scrittura, che stanno tutte allo stesso livello di secondarietà (o vicarietà) rispetto alla fonte. Tra parola e scrittura vi è, come detto, una differenza, ma non essenziale sotto questo profilo. Tra pensiero e parola, invece, non vi è alcuna differenza in generale, come risulta da quel celebre passo del Sofista in cui lo Straniero di Elea dice che

il pensiero e il logos sono la stessa cosa, con la sola differenza che quel bgos che avviene all’interno dell’anima, fatto dall’anima con se stessa, senza voce, proprio questo fu denominato da noi pensiero (263e).

Qui si mostra che il pensiero, per Platone, ha natura dialogica, dunque linguistica e discorsiva, esattamente come la parola pronunciata, e che dunque in entrambi si rende evidente la differenza dall’origine, dalla visione immediata dell’eidos.

Se dunque il pensiero è invariabilmente logos, e il logos è necessariamente vicario rispetto alla visione dell’eidos, allora il logos platonico, comprensivo delle sue tre specie, è fin dall’inizio segnato dalla differenza e dalla dislocazione. Tutto ciò può essere visto, di nuovo, all’opera nel Fedro. A parere di Derrida il

292

Y. Rinon, The Rhetoric af facques Derrida II: Phaedrus, «Review of

Meta- physics» 46 (1993), pp. 537-558: qui p. 543, n. 18.

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164 ATTUALITÀ 1)1 PLATONE

senso della scrittura sarebbe governato dall’opposizione tra mnémee hypomnesis. L’hypomnesis, nel Fedro, è la rammemorazione offerta dalla scrittura, mediante la quale può essere riattivata la memoria (mnéme) vera e propria (vedo scritta una certa frase e mi ricordo di ciò che so in proposito). La mnéme è dunque il sapere, il logos interiore dell’anima che dice l’identico, che nomina l’eidos presente? No. La mnéme è la reminiscenza (anàmnesis), che a sua volta è traccia di una visione assente (la visione diretta delle idee offerta alle anime prima della loro incarnazione in un corpo). Se dunquel’hypomnesis è traccia, lo è anche la mnéme. La mnéme, cioè il ricordo delle idee viste dall’anima prima di nascere, si configura necessariamente in forma di logos, ed in questo senso è traccia dell’origine assente. Nella mnéme l’essenza si presenta dislocata, allontanata, filtrata, segnata dalla differenza: aperta e nascosta al tempo stesso. Perciò, se è vero che l’opposizione tra mnéme e hypomnesis governa il senso della scrittura, bisogna dire ancora una volta che non è questa l’opposizione che conta. L’opposizione che conta corre tra hypomnesis/mnéme e il sapere, tra il logos (attivo sia nella scrittura sia in quel pensiero interiore che è costituito dalla rammemorazione) e l’essenza, tra l’assente e il presente, tra il linguaggio e l’intuizione.

Qui si fa interessante un confronto con Aristotele. A parere di Sini il passo del De Interpretatione citato sopra costituisce una “summa” del Sofista, perché sia nel dialogo platonico sia nel testo aristotelico si istituisce una comparazione tra i pathemata dell’anima e le cose fuori di noi, prodotta dalla mediazione dei segni

293. In realtà le due prospettive sono

sostanzialmente diverse, perché diversa nei due casi è la natura del luogo dove appare la verità (l’anima). In Aristotele le affezioni dell’anima replicano un mondo uguale per tutte perché questo mondo è per tutte sempre presente, e la memoria, con la sua facoltà di reiterare l’identico senza residui, è uno dei mezzi che porta alla scoperta dell’essenza e della definizione che la dice

294. Poiché per Platone, al contrario, la memoria è

reminiscenza, la presenza della cosa è confinata nel luogo mitico in cui l’anima abita prima di entrare in un corpo. Quando l’anima è incarnata, dunque, le sue affezioni non sono più identiche, perché diversi sono i ricordi del mondo assente, e non c’è (più) il confronto con una presenza oggettiva che possa

293

Sini, Platon et l'origine de la métaphysique, p. 303. 294

An. Po. II, 100a3-6.

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DERRIDA E IL LOGOCENTRISMO 165

togliere la differenza. Perciò il logos, quando entra in gioco, è già segnato da uno scarto e da una differenza ineludibili.

E singolare constatare, come detto, che questa differenza sia segnalata dallo stesso Derrida:

L’invisibilità assoluta dell'origine del visibile, del bene-sole- padre-capitale, il sottrarsi alla forma della presenza o dell’entità, tutto quell’eccesso che Platone designa come epékeina tès usias (al di là dell’entità o della presenza) dà luogo, se così si può ancora dire, ad una struttura di supplenza tale che tutte le presenze saranno i supplementi sostituiti aH’origine assente e tutte le differenze saranno, nel sistema delle presenze, l’effetto irriducibile di ciò che resta epékeina tès usias

4^.

Dunque, contrariamente in ciò che si legge nella Grammatologia, almeno per il Platone del Fedro non è vero che “il logos è l’origine della verità in generale”. Se in Platone l’entità e la presenza si sottraggono, se tutte le presenze (a partire dal logos) sono sostituite da supplementi, che ragioni ci sono per considerare Platone come l’iniziatore della metafìsica della presenza? (e per per lasciare la differenza alla sola scrittura? ).

Questo problema potrebbe essere affrontato a partire da una frase di Deleuze spesso citata, e cioè che “Platon le premier indiquàt cette direction du renversement du platonisme”

295. Così

come per Deleuze, anche per Derrida Platone è quello che edifica e rovescia, che mette e toglie allo stesso tempo. E tuttavia: quali motivi abbiamo per attribuire a Platone questa natura contorta, questo ripiegamento che si rivolge contro se stesso per smantellare tutto quello che edifica? Perché mai il duplice concorso, in Platone, di presenza ed assenza, di vicino e lontano, di identità e differenza, di svelare e nascondere, diviene il segno di instabilità e di contrasto, diviene il luogo in cui è obbligato- rio prendere una decisione? Che è poi, per come sia Derrida sia Deleuze interpretano Platone, la decisione in favore del presente, del- Yeidos, dell’identico, contro la differenza e il simulacro? Secondo Derrida, in effetti, Platone tenterebbe di occultare il più possibile la necessità del rinvio appunto perché ha deciso di affermare a ogni costo la presenza (la critica alla scrittura che compare nel Fedro costituirebbe un momento essenziale di questa strategia

296). Ma perché il duplice

295

G. Deleuze, Logique du sens, Paris 1969, p. 295. 296

Cfr. la lettura della Farmacia proposta da C. H. Zuckert in Postmodem

Platos: Nietzsche, Heidegger, Gadamer, Strauss, Derrida, Chicago-London

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166 ATTUALITÀ 1)1 PLATONE

concorso di presenza ed assenza non potrebbe essere, come sembra più logico, l’indicatore di un rapporto dialettico organico e coerente, non conflittuale né contraddittorio - dunque non obbligato a decidere (a tagliare, a interrompere, a inaugurare, a iniziare la stagione dell’oblio dell’essere)?

Il fondamento di questa coerenza non conflittuale, il piedistallo che regge in Platone l’ambigua alternanza di presenza e di assenza, è l’idea che il rimando e il rinvio non possano essere pensati come assoluti. Se il logos è filtro, dunque parzialmente nasconde, allora vuol dire che anche parzialmente rivela; se mostra la differenza, allora necessaria-mente mostra anche l’identico; se allude a ciò che è lontano, con ciò stesso include il lontano in un orizzonte per cui il lontano, da un altro punto di vista, deve potere apparire come (relativamente) vicino. Ma per Derrida questi rapporti di coimplicazione possono e devono essere

1996, pp. 216-225.

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167 ATTUALITÀ DI PIATONE

rotti. Per quanto parziale sia l’identico che passa o permane, esso funge da moltiplicatore per tutto l’insieme di cui esso fa parte, per cui tutto l’insieme diventa presenza, blocco monolitico di essenza, sostanza, intelletto, pensiero, logos. Per salvare la differenza, occorre scioglierla dalla sua connessione con l’identico, e parlare di differenza pura, di differenza assoluta (espressioni di questo genere si trovano nel primo importante lavoro filosofico di Derrida, cioè 1’ Introduzione a L’origine della geometria di Husserl

297). In questo senso, cioè in quanto

assoluta, la differenza non può coincidere nemmeno col trascendentale

298. Ma in realtà la differenza assoluta, come

hanno ben visto Eraclito ed Hegel, non è più differenza: è la stessa cosa dell’identità.

Derrida oppone ad Husserl il fatto che la presenza deriva dalla ripetizione, il senso dal segno e non viceversa. Ma se il segno è originariamente ripetizione, questo significa già che l’identico precede il diverso. Se l’identico non esistesse già, nulla potrebbe essere ripetuto. L’atto ripetitivo con cui si ritiene che la memoria costruisca l’universale, in realtà presuppone l’universale esistente prima che la memoria si metta a costruirlo, come condizione di possibilità del fatto che la memoria possa funzionare come ripetizione, cioè come il mezzo in cui l’univer-sale (l’identico che permane nella ripetizione) si mostra ed appare. Il che non comporta che l’universale sia presente (ecco il significato della reminiscenza). Anzi, il logos “rinvia a giudizio” (logon didonai) proprio a causa della sua assenza.

Da questo gioco di assenza/presenza, da questo versante costruttivo e ricostruttivo del logos, che coincide a mio avviso sia con l’essenza del platonismo sia con l’emisfero gadameriano dell’ermeneutica

299, non c’è pensiero che possa evadere; se

non - beninteso - ricorrendo alla solita illusione ottica delle false opposizioni. Se l’oggettività non è presente, ciò ancora non

297

Cfr. De Martino, Oltre il segno, pp. 119-120. 298

Sul problema del «trascendentalismo» in Derrida cfr. M. Vergani, Jacques

Denida, Milano 2000, pp. 44-45 (e la bibliografia segnalata alla n. 38). 299

Dire che il particolare esiste solo in rapporto all’universale, che il diffe-

rente esiste solo in rapporto all’identico, significa anche dire che il comprendere

(l’intendersi, la platonica homologhia) è anteriore al dissenso, al frainten-

dimento, al conflitto delle interpretazioni. E tutto questo, come giustamente ha

scritto Gadamer ( Und dennoch: Macht des guten Willens, in Ph. Forget (Hrsg.),

Text und Interpretation, Munchen 1984; tr. it. di M. Ravera, «Aut-Aut» 217-218

(1987), pp. 61-63, qui p. 62), «non significa fare alcuna metafisica». Se c’è real-

mente dialogo, insomma, allora l’intendersi, e l’identità che esso presuppone,

sono necessariamentge a priori. Ho affrontato questo tema in L'argomentazione

platonica, «npo|3Àr)|iata» 1 (2001), pp. 7-38.

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obbliga ad accomodarsi sul versante opposto, e dichiarare l’oggettività “un effetto della differenza”

300. L’oggettività è condi-

zione di possibilità della differenza ad onta della sua assenza. Nella differenza si manifesta la traccia di una origine assente, di una oggettività virtuale, anteriore, persa e dimenticata. Questa oggettività è sempre in azione, pur non essendo presente, nel costituire la differenza, che è pensabile solo come variabile dell’identico. E’ l’orizzonte virtuale senza di cui la differenza non potrebbe aver luogo. Si arriva sempre troppo tardi a nominare la differenza, perché nominando la differenza si nomina, già fin dall’inizio, anche l’identico.

300

J. Derrida, Positions, Paris 1972 (tr. it. Verona 1999, p. 38).

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DERRIDA E IL LOGOCENTRISMO 169

Page 198: Franco Trabattoni

Capitolo Vili

Ernst Cassirer e 1’«estetica platonica». Introduzione alla lettura

di Eidos und Eidolon301

1. Ha scritto Nathalie Janz che per farsi un’idea della lettura cassire- riana di Platone bisognerebbe avere la pazienza di un collezionista

1. Nonostante in effetti che per Cassirer, così come

per gli altri esponenti della scuola di Marburgo, Platone rappresenti un punto di riferimento essenziale, egli non gli ha dedicato alcuna monografia (così come hanno fatto, invece, sia Cohen sia Natorp). In attesa delle Leiioni sulla filosofia antica di prossima pubblicazione (fanno parte dei manoscritti di Yale

2),

per il momento possediamo solo le pagine dedicate a Platone nella Geschichte der Philosophie (d’ora in poi TP

3) curata da M.

Dessoir, un saggio su Platone e Goethe (d’ora in poi G4) la

conferenza Eidos ed Eidolon. Il problema del bello e dell’arte nei dialoghi di Platone (d’ora in

301 Ernst Cassirer e Inestetica platonica”», in Ernst Cassirer, Eidos e

eidolon. Il problema del bello e dell'arte nei dialoghi di Platone. Postille di

Mauro Carbone, Renato Pet- toello, Franco Trabattoni, Edizioni Libreria Cortina,

Milano 1998, pp. 103-134. 1 Nathalie Janz, Cassirer, doublé lecteur de Platon ? L’historien de la

philosophie et l’épistémologue, in Images de Platon et lectures de ses

ceuvres. Les interprétations de Platon a travers les siècles, édité par Ada

Neschke-Hentschke avec la collaboration de Alexandre Etienne, Louvain-Paris

1997, pp. 417-433, qui p. 417. 2 Nel piano dell’opera previsto per l’edizione del Nachlafi queste lezioni

figurano nella terza sezione (Scritti di storia della filosofia), come tredicesimo

volume della serie, col titolo Lectures on Greek Philosophy. Cfr. in proposito J.

M. Krois, Le carte inedite di Ernest Cassirer e l’edizione nei Nachgelassene

Manuskripte und Texte, «Rivista di Storia della Filosofia», 50 (1995), pp. 871-

888. 3 Die Philosophie der Griechen von den Anfangen bis Platon, in Die

Geschichte der Philosophie, a cura di M. Dessoir, voi. I (Die Geschichte

derAntike Philosophie), Berlin 1925 (tr. it. a cura di G. A. De Toni, con titolo Da

Talete a Platone, Roma-Bari 19922, da cui citiamo).

4 Goethe und Platon, in Goethe und die geschichtliche Welt. Drei

Aufsatze, Berlin 1932 (tr. it. e introduzione di R. Pettoello, Brescia 1995). 5 Eidos und Eidolon. Das Problem des Schònen un der Kunst in Platons

Dialogen, in «Vortrag del Bibliotek Warburg» 2 (1922-23), parte I, Teubner,

Leipzig-Berlin 1924, pp. 1-27. Traduzione italiana a c. di A. Pinotti, Milano 1998,

da cui citiamo. Per una prima collocazione di questo saggio all’interno dell’opera

cassireriana v.

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CASSIRER E i:<«ES I ETICA PLATONICA. 171

poi EE5). Ma il confronto con Platone percorre, tra il detto e il

non detto, gran parte della produzione cassireriana: dal libro su Leibniz del 1901, all’ampia ricerca storica sul problema della conoscenza in filosofia, fino a investire in più modi anche la stessa Filosofia delle forme simboliche, e proseguire poi fino agli scritti politici del periodo americano

6. Ben si capisce perciò

quanto sia difficile (se non impossibile) organizzare una esauriente prospettiva di insieme. Ma per fortuna in questa sede possiamo limitarci ad un compito più modesto, cioè ad indicare in modo sommario le motivazioni di fondo dell’interesse di Cassirer per Platone, con lo scopo di rendere più intelligibile il testo che presentiamo.

La breve storia del pensiero greco fino a Platone che Cassirer ci ha lasciato può essere considerata in vari modi esemplare. Ragionando da filosofo più che da storico, Cassirer articola le figure e le dottrine che prende in considerazione entro un quadro ben definito di miglioramento teoretico. Da Talete a Platone la filosofia affina progressivamente i suoi metodi e individua oggetti sempre più adatti alla sua natura. Sembra di leggere, stilizzati in un tipo ideale, tutti i più nobili luoghi comuni della nostra tradizione manualistica. Né c’è da stupirsi. Gli storici del pensiero prearistotelico difficilmente possono restare insensibi li al modello che già lo stesso Aristotele ha inaugurato nel primo libro della Metafisica

1. Sarebbe certo troppo facile

sottolineare ancora una volta i difetti di acribia storica tipici di queste forme di storicismo. Anzi, è ormai forse il caso di avanzare qualche argomento a difesa: purché si ammetta, come la stessa opera di Cassirer dimostra, che l’approccio sto-rico può anche essere un modo del tutto plausibile per fare della filosofia in senso teoretico.

In accordo con il principio di sviluppo che abbiamo ora indicato, Cassirer individua il progresso decisivo del pensiero di Platone nel modo in cui questi ha trattato il problema dell’essere. Di conseguenza, anche qui in linea con un’interpretazione che in tutto questo secolo ha sempre trovato nuovi sostenitori, uno dei dialoghi decisivi per capire il pensiero di Platone è il Sofista. Che Platone sia stato il fondatore del-l’ontologia occidentale era anche opinione di Heidegger (che non a caso ha dedicato al Sofista un ponderoso corso universitario

8). Ma subito dopo questo inizio le prospettive

divergono. Secondo Heidegger Platone ha posto per primo la domanda sull’essere, ma poi ha subito perso la strada, perché, rispondendo che l’essere è idea, ha ridotto Tessere ad ente, ed

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172 ATTTUALITA DI PLATONE

ha così avviato la millenaria deriva della filosofia e della

Massimo Ferrari, Ernst Cassirer e la ’Bibliothek Warburg’, «Giornale critico della filosofìa italiana», 68 (1986), pp. 91-130 (in part. pp. 112-114).

6 Cfr. A. Zadro, Platone nel Novecento, Roma-Bari 1987,

pp. 57-62. 7 E da notare, in ogni caso, che il referente più immediato di

Cassirer non è tanto Aristotele, quanto l’idea di una storia filosofica della filosofia, che affonda le sue radici negli scritti postumi di Kant, ed ha poi trovato più larga espressione nelle due scuole neokantiane di Marburgo e del Baden (cfr. in proposito G. Raio, Introduzione a Cassirer, Roma-Bari 1991, pp. 5-6).

8 Platon: Sophistes, Gesamtausgabe voi. 19, Frankfurt a. M. 1992. civiltà occidentale. Per Heidegger, in altre parole, Platone non è rimasto abbastanza fedele alla domanda ontologica da cui aveva preso le mosse, in un contesto in cui si dà per scontato che la filosofia coincide con l’ontologia in senso proprio. In Cassirer questo discorso assume sviluppi del tutto diversi. Mentre i presocratici si sono interrogati su che cosa sia l’essere, e ne hanno dato ciascuno una risposta specifica (acqua, aria, numeri, ecc.), Platone per primo ha posto la domanda relativa al significato. Nella domanda socratica infatti non si «trattava dell’esistenza di determinati contenuti, ma della definizione del senso univoco dei concetti»

302. Questo trapasso dall’esistenza al

senso mostra perché, in Cassirer, alla domanda platonica riguardo l’essere non deve necessariamente conseguire una ontologia: «Il vero inizio della dottrina platonica originale si può dire consista nel fatto che gli si sposta il rapporto fra il problema dell’essere e il problema del significato: il problema del significato gli diviene la vera àp%f|, il punto iniziale del filosofare, mentre il concetto dell’essere appare solo un risultato derivato, la conseguenza risultante da tale cominciamento»

303. L’indagine

che qui si inaugura risulta in quanto tale incommensurabile con le dottrine dei presocratici (come mostra il Fedone), perché tali dottrine sono relative a una domanda solo apparentemente identica (“che cosa è l’essere”). Quando in effetti ci si chiede che cosa è l’essere, viene spontaneo passare dall’essere all’ente (come direbbe Heidegger), e indicare quella cosa che è

302

TP, p. 103. 303

TP, p. 104.

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CASSIRER E i:<«ES I ETICA PLATONICA. 173

l’essere in senso eminente304

. Se viceversa vogliamo che la domanda indugi proprio sull’essere e non slitti verso una certa cosa (un ente), la risposta non trova più l’essere ma il significato. Parlare dell’essere, insomma, significa in prima istanza passare dal piano ontologico a quello semantico, perché dal punto di vista ontologico l’essere non esiste. Si risponde davvero alla domanda sull’essere solo quando ci si chiede «che cosa significa la determinazione, la predicazione, la posizione dell’essere in quanto tale»

305. Come spesso succede, anche in

questo caso l’interpretazione di Platone si fa mediatrice di un contrasto filosofico più generale, come quello tra la sensibilità neokantiana e marburghese ai problemi del conoscere e l’ossessione ontologica di Heidegger. In effetti la preminenza del problema del significato è ovviamente da ricondursi al platonismo dei neokantiani, che derivavano l’idea platonica soprattutto dall’esigenza che l’intelletto possa contare su concetti o significati stabili cui riferirsi. Indicativo in proposito è il colloquio avvenuto nel 1929 a Davos tra Heidegger e Cassirer, in cui, men

304

G, p. 133. 305

Ibid., corsivo mio.

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174 ATTTU ALITA ni PLATONE

tre Heidegger ribadisce la sua fedeltà alla domanda “di Platone” sull’essere, Cassirer spiega che tale domanda, dopo Kant, non è più la stessa, perché «l’essere nella nuova metafisica... non è più l’essere di una sostanza, ma l’essere che viene da una molteplicità di significati e di determinazioni funzionali»

306.

Per Cassirer il trapasso dall’essere al significato corrisponde al trapasso, in Platone, dalla filosofia presocratica a quella di Socrate: «Nei confronti della domanda socratica la natura resta muta; non può insegnare nulla al nuovo bisogno di sapere che qui si è destato»

307. Ma quel

lo che si sviluppa con Socrate è molto di più di un semplice spostamento di campo. Nel domandare e nell’argomentare socratico, infatti, non c’è solo l’apertura di un nuovo ambito di ricerca. C’è anche la constatazione iniziale che una certa comprensione è già accaduta, che un certo significato è già noto. Come si ricava da un celebre passo del Sofista, per Platone pensare da soli non è altro che un discorrere dell’a- nima con se stessa (263e). Perciò l’essere a cui mira la domanda socratica è «quell’essere che si esplicita nella forma del discorso e che non può rivelarsi in altra forma»

308. Sottolineo

questa frase con soddisfazione, soprattutto perché è invalsa da più parti l’idea che il punto più elevato del conoscere secondo Platone sia un sapere non proposizionale

309. Ma Cassirer aveva

visto giusto, come si può constatare anche da un analogo passo del Teeteto

310.

Ora, il fatto che Tessere si possa esprimere solo nel discorso è gravido di conseguenze importanti, di schietto sapore neokantiano. Scrive Cassirer che «Platone non domanda né come siano possibili le cose nello spazio e nel tempo, né da quali cause siano nate, ma da quali fonti scaturisca l’intendere, l’intendersi sulle cose»

311. L’accadere delle cose, in effetti, può

divenire oggetto di domanda solo se si passa dalle cose ai discorsi, dagli enti ai significati. Ma a questo punto sono già comparsi il dialogo e il miracolo dell’intendersi. La domanda è

306

II colloquio è stato pubblicato in Appendice a Kant und das Problem der

Metaphysik, Frankfurt am Main 1973 (tr. it. di V. Verrà, Roma-Bari 1981). Il

passo qui citato si trova a p. 234 della traduzione italiana. 307

TP, p. 106. 308

TP, p. 107. 309

Ho discusso questo problema in Scrivere nell’anima. Verità, dialettica e

persuasione in Platone, Firenze 1994, pp. 217-218, 246-249. 310

189e -190a. 311

TP, p. 107.

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CASSIRER E INESTETICA PLATONICA» 175

parte di un dialogo, di un discorso significativo. Io non posso domandarmi “che cosa è un elefante” senza pormi la domanda circa il significato della parola “elefante”, perché l’elefante di cui parlo non è una cosa, ma appunto un significato: tanto che, se la domanda mi fosse stata fatta in una lingua che non conosco, io non l’avrei capita. Chiedere che cosa è una cosa, insomma, significa né più né meno che chiedersi il significato delle parole che usiamo. Potremmo uscire da questo cerchio solo se possedessimo un discorso senza parole, capace di riferirsi direttamente alle cose. In questo caso la mediazione del linguaggio non ci servirebbe e non avremmo bisogno né di dialogo né di dialettica.

Sarebbe d’altra parte un classico errore considerare il diaframma della parola solo come un ostacolo: perché il diaframma ha anche il merito di procurare, kantianamente, una certa specie di a priori. L’indagine muta del pensiero non discorsivo si muoverebbe al buio, senza possibilità di dialogo né di verifica. L’esame dei significati che si attua per mezzo dei discorsi offre fin dall’inizio il terreno sicuro delle intese che già esistono, e che sono condizioni preliminari affinché si sviluppi un discorso in generale. L’essere di cui andiamo in cerca è perciò «quell’essere di cui ci rendiamo conto a vicenda nel domandare e rispondere»

312. Tale ricerca si sviluppa secondo la prospettiva

kantiana delle “condizioni di possibilità”. Così come in Kant l’explicandum sono i giudizi sintetici a priori, e di essi bisogna trovare le condizioni di possibilità, così per il Platone di Cassirer Vexplicandum è l’intesa di cui attraverso la parola già disponiamo nell’atto stesso in cui inizia l’indagine, la cui possibilità deve essere spiegata in modo analogo.

Così arriviamo alle idee di Platone, che costituiscono appunto le condizioni di possibilità dell’intesa. Da un certo punto di vista l’interpretazione cassireriana di Platone appare perciò assai vicina a quella dei marburghesi, che a vario titolo vedevano nell’idea platonica soprattutto una garanzia epistemologica. Ma i tratti caratteristici di Cassirer sono soverchianti. In primo luogo, come abbiamo appena visto, l’idea di Platone appare a Cassirer non tanto come essenza ideale oggetto di intuizione pura, ma piuttosto come punto di convergenza del dialogo che si instaura tra le persone mediante le parole. In secondo luogo, l’indagine cassireriana evita di prendere direttamente in considerazione il problema più delicato in rapporto alla dottrina platonica delle

312

TP, p. 107 (ma qui Cassirer traduce Platone, Fedone 78 c).

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CASSIRER E INESTETICA PLATONICA» 176

idee: cioè il problema di stabilire se le idee sono oggetti o concetti. Pare quasi che egli intendesse con il termine «significato» una terza possibilità capace di dimostrare che le due proposte tradizionali sono solo falsamente contraddittorie. Per Cassirer l’idea platonica rappresenta, in tutti i campi in cui essa svolge la sua funzione, non solo e non tanto l’unità relativa al molteplice, ma soprattutto la condizione che spiega la determinatezza delle cose; che risponde alla domanda di «trovare di contro a un relativo, un assoluto; di contro a un condizionato, un incondizionato; di contro all’indeterminato illimitato, un determina

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177 ATTUALITÀ DI PIATONE

to»313

. L’idea, ancora, è ciò che dà consistenza alla «realtà effettuale» come sua misura, come «verità che stia ferma in se stessa, immutabile perché valida incondizionatamente, “essa stessa in se stessa” (...), che costituisca la base per tutti gli enunciati sull’essere relativo, empirico»

314!. Naturalmente la

contrapposizione tra mobile e immobile richiama la contraddizione “ontologica” tra il divenire delle cose materiali e la stabilità sostanziale dell’essere, ed una delle ragioni che impongono l’esistenza delle idee è appunto l’impossibilità che l’essere si riduca alla mobile materia sensibile. Ma per il Platone di Cassirer il divenire rappresenta il limite della conoscenza

315,

non il limite che individua il genere inferiore delle cose. Oltre il limite segnato dal divenire e dalla sua prigione, c’è il mondo della conoscenza e dei significati. Come ha giustamente scritto Attilio Zadro (a proposito del libro di Cassirer su Leibniz), «il chorismòs passa così tra la funzione e i suoi argomenti, cioè gli oggetti sui quali si esercita e che, per così dire, la verificano»

316.

Funzione è qui quello che altrove Cassirer chiama significato. L’idea platonica è infatti ciò che «conferisce al particolare un determinato significato universalmente valido, al di là e al di sopra del suo esserci individuale, del suo esistere in questo o quel punto della serie spaziale e temporale empirica»

317.

Questo ennesimo riferimento al significato ci fa capire che cosa differenzi la posizione di Cassirer da quella che tradizionalmente si oppone al sostanzialismo, ossia la posizione concettualista. E vero che Cassirer, per designare le idee di Platone, usa spesso il termine “concetto” (Begrifj). Ma si tratta appunto di un concetto che ha il compito di significare. Identificare le idee con i significati conferisce loro un carattere forzatamente relazionale, perché il significato ha per natura il compito di significare qualcosa, di rapportarsi a qualcosa. Per tale motivo non si identifica semplicemente con il concetto, appunto perché il significato vive solo nella sua relazione con ciò che significa, ossia nell’uso che gli uomini ne fanno quando

313

EE, p. 17. 314

TP, pp. 110-111. 315

G, p. 137. 316

Platone nel Novecento, p. 59. 317

TP, pp. 119-120. Mi è impossibile in questa sede discutere le varie moda-

lità mediante le quali Cassirer rinviene nell’idea platonica un precedente signi-

ficativo di ciò che egli chiamerà di volta in volta "funzione" (con valenza soprat-

tutto matematica), forma e simbolo. Ma ho l’impressione che sarebbe possibile

ripercorrere le tracce del suo intinerario speculativo anche prendendo come

punto di riferimento la maniera in cui egli approfondisce e sviluppa il suo inte-

resse per la nozione platonica di eidos.

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178 ATTTUALITÀ 1)1 PIATONE

vogliono significare qualcosa con le parole. Per Cassirer l’intento primario della dottrina platonica delle idee non era dunque né quello di proporre un mondo di cose perfette separate da quelle sensibili, né quello di stabilire un cosmo noetico di pure essenze che l’uomo deve sforzarsi di contemplare per raggiungere un perfetto sapere. Infatti per il Platone di Cassirer «ciò che caratte-rizza la conoscenza umana come tale non è... il sapere portato a termine, ma solo l’aspirarvi, solo il progredire dal problema alla soluzione e dalla soluzione di nuovo al problema»

318. Il

progresso del sapere è reso possibile, a sua volta, dalla funzione attiva del significare che le idee rappresentano.

Questa interpretazione delle idee di Platone, che potremmo definire semantico-linguistica, è gravida di conseguenze interessanti. In primo luogo (questo è importante soprattutto in sede di critica platonica) si apre la possibilità di considerare del tutto naturale il passaggio dai dialoghi della maturità ai cosiddetti dialoghi dialettici, ugualmente impacciato sia dalla concezione sostanzialista sia da quella concettualista (come dimostra la prima parte del Parmenide). Per Cassirer le dottrine esposte nel Parmenide, nel Filebo, nel Sofista e nel Politico non tradiscono la natura originaria della dottrina delle idee, perché il movimento che qui è introdotto «esprime una alterità della relazione, una diversità che viene resa possibile e richiesta quando muti il punto di riferimento... Il concetto non si può porre come concetto determinato, come questo o quello; senza che in tale forma del porlo sia già presente un’opposizione, senza che unicamente il suo semplice esser così esprima un essere altro rispetto ad esso»

319. Da questi passi, che hanno un vago sentore

hegeliano, emerge la consapevolezza che l’idea platonica si determina solo nella relazione. Così, è soprattutto attraverso i dialoghi dialettici che si precisa la natura funzionale dell’idea; nel contempo il rigido dualismo che sembrava caratterizzare la dottrina nelle sue prime formulazioni viene superato dall’interno, nel momento in cui la natura semantica e relazionale dell’idea si mostra in azione. Con questo la separazione non è negata; piuttosto emerge alla luce il fatto che la separazione non è tanto una caratteristica ontologica, ma la condizione di invarianza che permette all’idea di ricoprire una funzione significativa in diversi contesti: dove però è chiaro che sarebbe illusorio pretendere una conoscenza dell’idea in sé e per sé, al di fuori di ogni contesto e delle specifiche relazioni che la riguardano.

Queste linee interpretative corrispondono in buona parte ad istanze teoretiche proprie dello stesso Cassirer, in cui da un lato

318

TP, p.156. 319

TP, p. 150.

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CASSIRER E L’«ESTETICA PLATONICA» 179

occupa un posto centrale la dialettica tra forma e materia, tra unione e divisione, tra analisi e sintesi, e dall’altro agisce una esigenza di unità organica e articolata, aliena da rigide fratture e dualismi insuperabili. Questo spiega anche perché, come vedremo meglio più avanti, Cassirer abbia particolarmente sottolineato il principio della partecipazione delle idee alle cose (methexis) ed abbia attribuito particolare importanza al Timeo, dove la separazione tra mondo ideale e mondo sensibile è attenuata dalla presenza delle figure geometriche nel cuore stesso della materia. E spiega anche perché egli abbia potuto paragonare la forma nel senso di Goethe, che non va al di là del fenomeno, alla forma platonica, nonostante le profonde evidenze in contrario da lui stesso sottolineate. Non è il caso di chiedersi in questa sede fino a che punto la prospettiva cas- sireriana rispetti la reale natura del pensiero platonico. Quanto meno è lecito dire che si tratta di una prospettiva interessante, sia pure da assumere e analizzare più con occhio teoretico che storiografico. Ma anche da questo secondo punto di vista può valere come utile antidoto, come efficace principio regolativo contro le troppo facili schematizzazioni. Allo storico sempre assalito dal dubbio che la dottrina delle idee faccia apparire il mondo sensibile privo di valore o significato, Cassirer come minimo insegna che si può compiere un buon tratto di strada nella direzione contraria, e che esistono modi plausibili di intendere il dualismo platonico non già come una fuga dal mondo, ma come l’unico mezzo possibile per conferire al mondo un significato.

2. Questa esigenza di unità armoniosa ed organica, pur nella dialet- ticità delle differenze, è anche il punto di partenza di Eidos undEidolon. Platone appare a Cassirer il filosofo dialettico per eccellenza, in cui si accordano perfettamente, in feconda unità di contrasti, volere e conoscere, mito e ragione. La vivente armonia dell’insieme è fecondata dalla richiesta incessante di rendere ragione, che tutto sa articolare nelle sue differenze specifiche e poi ricomprendere con uno sguardo complessivo, in un moto pendolare di analisi e sintesi, finché il tutto e le parti appaiano trasparenti all’occhio della ragione. Scrive Cassirer che per Platone vale più che per altri quella frase di Goethe, secondo la quale «ogni elemento isolato è da rigettare»

320:

propria degli spiriti grandi, quali sono Goethe e Platone, è appunto la caratteristica di essere “persone capaci”, in grado di concepire e di sentire la totalità dei problemi del mondo e della

320

EE, p. 12.

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180 ATTTUALITÀ 1)1 PIATONE

vita in modo a loro congeniale321

. Sta di fatto però che nel pensiero platonico c’è come un

punto di rottura, un contrasto che pare talmente insanabile da non poter essere padroneggiato dalla doppia azione equilibratrice di analisi e sintesi: Platone è riuscito a fondere mediante la dialettica l’etica, la religione e

321

G, p. 165.

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CASSIRER E L’«ESTETICA PLATONICA» 171

la matematica, ma da questa armonia pare irrimediabilmente esclusa l’estetica. Benché Cassirer parli qui dell’ “artista” Platone, rammentando in proposito il famoso aneddoto secondo il quale egli avrebbe bruciato le sue composizioni poetiche, non si tratta affatto di contrapporre in modo psicologistico il Platone poeta al Platone filosofo. Ben più importante è il fatto che nella teoria delle idee di Platone non sembra in generale trovar spazio un’estetica come scienza autonoma. Il ripudio dell’arte segnale dell’imperfetta armonia della costruzione platonica, non a caso è posto da Cassirer in collegamento con la dottrina delle idee. Perché se l’unità organica della filosofia di Platone è raggiunta grazie a una concezione dell’idea come strumento funzionale alla comprensione significativa del mondo, capace di sanare i dualismi in una sintesi superiore, l’annullamento dell’estetica è a prima vista il segnale che l’operazione non riesce, e che il dualismo di fondo persiste. In effetti l’estetica riguarda l’aspetto sensibile delle cose, e la profonda diffidenza di Platone a riguardo induce il sospetto che per lui le cose sensibili rimangano al fondo inintelligibili. Può essere utile a questo pro-posito rammentare il significato che ha la parola in Kant (in cui copre anche l’ambito della conoscenza sensibile). Cassirer naturalmente è consapevole di usare il termine in una accezione più ristretta. E tuttavia l’impossibilità dell’estetica non può non costituire ugualmente un ostacolo alla comprensione del mondo sensibile, quasi che non esista (per usare ancora un termine kantiano) alcuno schematismo efficace per passare dall’intelletto al senso. Insomma, se davvero l’idea è lo strumento che dà significato al mondo della realtà percepibile, c’è il rischio che non sia riuscita ad assolvere la sua funzione. Oppure, al contrario, il ripudio dell’estetica potrebbe essere il sintomo che l’interpretazione funzionale dell’idealismo platonico merita di essere riconsiderata.

Naturalmente per Cassirer questa è l’ipotesi da scongiurare. Un importante indizio che così non è è dato dal fatto che da nessun’altra dottrina filosofica come quella platonica, nonostante la sua negazione dell’estetica, «sono derivati effetti estetici più forti e più ampi di quelli scaturiti da questo sistema»

322. A

suffragio di questa tesi Cassirer abbozza una sintetica Wirkungsgeschichte che da Plotino e Agostino, attraverso il platonismo rinascimentale di Marsilio Ficino e Michelangelo, arriva fino a Goethe, Winckelmann e Schelling. Un discorso analogo può essere fatto anche per la storia della scienza, come

322

EE, p. 13.

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CASSIRER E L’«ESTETICA PLATONICA» 172

dimostrano i casi eclatanti di Galilei e Keplero, che hanno adottato il paradigma platonico nella loro interpretazione della natura. Ma nel campo specifico dell’arte questa evidente affinità di ispirazione e di metodo è sempre soggetta al pericolo di vanificarsi nella massima lontananza, a causa del

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174 ATTUALITÀ DI PIATONE

l’ambiguità caratteristica del concetto platonico di forma. Se infatti da un lato la forma è il presupposto implicito di tutte le possibili estetiche di stampo platonico, dall’altro costituisce per l’arte anche la più grave minaccia, perché «sforzandosi di universalizzare e di depurare il concetto di forma proprio dell’arte, [la filosofia platonica] in verità lo sopprime»

323. Questo

intreccio dialettico di massima affinità e di massima differenza è plasticamente raffigurato dai due concetti eidos e eidolon, i quali, pur derivanti da una medesima radice che significa “vedere”, rappresentano l’uno il coglimento della forma che si sviluppa con un atto spirituale, l’altro la sua immagine depotenziata, ossia il momento passivo della percezione sensibile. Tale esito travalica di molto il problema circoscritto dell’arte, poiché è intrinsecamente connesso alla natura specifica della filosofia di Platone e ai meccanismi della sua genesi. La comprensione della realtà che si sviluppa mediante l’uso del pensiero e della parola costringe l’indagine a muovere verso le condizioni di questo comprendere, cioè verso il mondo delle forme e dei significati puri, insensibili alle variazioni di tempo e di luogo. Tuttavia, una volta imboccata decisamente questa strada, c’è il rischio che non si possa più tornare indietro, e che la forma appaia un oggetto tanto rarefatto ed universale da perdere la sua funzione esplicativa, così da ridurre il mondo sensibile a puro eidolon del mondo ideale. In questo modo l’unità dell’universo speculativo platonico andrebbe perduta.

La strategia che Cassirer adotta per risolvere questo problema è chiara e schematica. In primo luogo egli riprende il tema della genesi dell’idea platonica come superamento della speculazione presocratica: in Platone si compie il passaggio dall’essere alla forma, nel senso che dall’essere variopinto dei filosofi presocratici si passa a una comprensione dell’essere priva di raffigurazioni sensibili, e perciò inteso come pura forma, come realtà assoluta e incondizionata. Cassirer peraltro si rende conto che questo schema di sviluppo ha un carattere esclusivamente epistemologico, e sembra escludere lo stimolo decisivo offerto a Platone dall’impulso etico di Socrate. Perciò egli osserva, sottolineandolo più di una volta, che l’esigenza di incondizionatezza fu inizialmente concepita da Platone sul versante socratico del volere. Dalla doppia riflessione sul sapere e sul volere scaturiscono da un lato la matematica, dall’altro l’etica

324. Ora, mentre questi due ambiti sono dominati dalla

determinatezza e compiutezza della pura forma (del volere in un

323

EE, p. 14. 324

Cfr. EE, p. 20.

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CASSIRER E L’«ESTETICA PLATONICA» 175

caso, del sapere nell’altro), esistono altri due ambiti in cui questa determinatezza è carente, al punto da essere ridotti allo stato di immagine (eidolon), secondo una differenza che corre sempre il rischio di trasformarsi in una vera e propria contraddizione. Tali ambiti sono costituiti dalla natura e dall’arte, e nella parte restante del suo saggio Cassirer cerca di dimostrare in quale misura anche la natura e l’arte, nella filosofia platonica, possano essere riscattate alla luce dell’ eidos.

Torneremo fra poco sugli aspetti interessanti di questa operazione. Ma non possiamo lasciare la prospettiva delineata senza commento. Osserviamo in primo luogo che è del tutto evidente, forse anche al di là delle intenzioni dell’autore, il carattere kantiano dello schema che Cassirer utilizza. Sembra di trovarsi di fronte a un’opera di restauro di Platone alla luce di Kant. Mentre nell’ambito della matematica e dell’etica la kantianizzazione di Platone è pienamente riuscita, si tratta ora di compiere una analoga operazione a proposito della scienza della natura e dell’arte: se la Critica della ragione pratica di Platone è già compiuta, bisogna completare alcune parti della Critica della ragione pura e scrivere per intero la Critica del Giudizio. Ma anche le determinazioni concettuali che Cassirer utilizza nei diversi ambiti risentono profondamente del modello kantiano. Già abbiamo notato come la nozione di estetica per Cassirer non sia del tutto indipendente dal significato che le attribuiva Kant; e questo si nota in particolare nel fatto che Cassirer considera l’estetica platonica soprattutto come articolazione del momento conoscitivo, privilegiando il significato e le connessioni epistemologiche nei confronti di tutte le altre possibili relazioni. Notiamo, in secondo luogo, che gli stessi concetti di puro sapere e di puro volere sono sostanzialmente estranei al pensiero platonico. Sottolineando in Platone soprattutto la ricerca della “forma”, Cassirer finisce per appaiare questa tensione alla ricerca kantiana di ciò che è puramente formale (attiva in vari modi in tutte e tre le critiche), minimizzando il fatto che l’obiettivo di fondo della filosofia platonica è quello di individuare le condizioni teoriche per la realizzazione del bene (inteso come eudaimonia, cioè benessere e felicità). Infine lo stesso concetto di volere, che Cassirer utilizza per identificare l’impulso iniziale di Platone alla filosofia, non è né socratico né platonico (e in generale non è stato precisamente determinato dal pensiero antico), ma è anch’esso, come ben si vede, di estrazione kantiana.

Questo stato di cose non aiuta Cassirer a cogliere con precisione qual è il motivo di fondo per cui in Platone c’è un grave contrasto tra estetica e filosofia. Il preteso conflitto

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176 ATTUALITÀ DI PIATONE

psicologico tra il pensatore e l’artista non è una spiegazione, perché resta poi ancora da spiegare da dove esso nasca. Esso nasce in realtà dal conflitto che si instaura in Platone tra estetica ed etica. Cassirer sceglie invece di privilegiare le motivazioni epistemologiche esposte nel libro X della Repubblica, dove l’opera d’arte è definita come il terzo grado del conoscere, cioè imitazione delle cose sensibili così come tali cose sono imitazioni delle idee. Non è que- sta la sede per discutere il difficile problema del rapporto, in Platone, tra valutazione etica e valutazione epistemologica dell’arte. Possiamo però almeno dire che la valutazione epistemologica, per quanto basso sia il grado in cui viene inserita la forma artistica, non è mai sufficiente per instaurare una vera contraddizione tra estetica e filosofia, perché da un lato rimane aperta la possibilità che l’arte abbia una funzione diversa ed autonoma da quella conoscitiva e filosofica (questo percorso è abbozzato nello Zone

325), dall’altro la produzione artistica

potrebbe sempre costituire un modus minor per accostare l’anima alla verità filosofica, che a tratti può risultare utile o addirittura necessario. Anche tale motivo è segnalato più di una volta nell’opera platonica, ed in fondo è dimostrato dallo stesso saggio cassireriano di cui ci stiamo occupando qui.

Come meglio vedremo più avanti, Cassirer tenta di promuovere in Platone un riscatto epistemologico dell’arte, ed ha molte buone ragioni per farlo. Se infatti consideriamo l’opera platonica nella sua globalità, comprendendovi in particolare i dialoghi dialettici, il Timeo e le Leggi, l’episodio del libro X della Repubblica perde progressivamente rilievo, e si dimostra profondamente legato al contesto del dialogo in cui è stato scritto, mentre per converso si fanno strada valutazioni dell’arte assai differenti: si pensi ad esempio alle Leggi, dove l’imitazione non è più svalutata in quanto tale, ma più semplicemente articolata in imitazioni buone e imitazioni cattive (668 B), o dove, addirittura, in un altro luogo si dice che a volte ai poeti è dato di cogliere parti della verità (682 A). Ma quando pure siamo riusciti a togliere il conflitto “epistemologico”, rimane intatto il conflitto tra estetica ed etica, che non a caso viene ribadito anche nelle Leggi sia a livello teorico sia a livello di legislazione politica. Come ho detto sopra, Cassirer non era nella posizione migliore per dare il giusto peso a tale conflitto, perché interpretava l’etica socratico-platonica come un’etica tendente in senso kantiano alla pura forma del volere, e in questa prospettiva in effetti non si

325

Cfr. E. Trabattoni, Sul significato dello Jone- platonico, "Sandalion", 8-9

(1985-86), pp. 27-57.

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CASSIRER E L’«ESTETICA PLATONICA» 177

vede come possa nascere un contrasto con l’estetica. Muovendo dal principio del volere, Cassirer interpreta l’etica socratico-platonica come se il suo scopo fosse quello kantiano di trovare una norma stabile del- l’agire (la forma) in opposizione alla “molteplicità di singole azioni casuali” (la materia). Per il Platone di Cassirer la forma è regola del morale, perché «vi è un ordine riposante in se stesso del morale, un interno canone dei rapporti volitivi, che si può paragonare secondo la sua condizione e la sua validità ai puri rapporti di misura matematici»

326. Così si completa la perfetta armonia tra ordine

teoretico e ordine pratico, perché l’obiettivo di entrambi è quello di raggiungere la pura forma nei rispettivi ambiti. È appena il caso di notare che tutto ciò non ha molto a che fare con l’etica platonica, e con l’etica antica in generale. Principio di fondo dell’etica di Socrate e di Platone (ma poi anche di quella di Aristotele) è l’incoercibile tendenza dell’uomo al bene, inteso come la sua felicità. Ora, poiché questo obiettivo è per Platone cogente nella maniera più forte possibile, è necessario dichiarare inutile o dannoso tutto ciò che è indifferente allo scopo o addirittura ad esso contrario. Così, se il bene e la felicità dell’uomo sono il suo obiettivo ultimo, e risiedono nell’esercizio della virtù, allora per Platone è conseguentemente necessario proibire l’arte che istiga al vizio. Perciò non è vero che Platone rifiuti per principio un’estetica autonoma o neghi un’idea indipendente di bellezza. E vero che l’estetica entra troppo spesso in conflitto con l’etica, e che in questi casi la scelta deve privilegiare ciò che conta di più. Quando ciò accade sembra che la considerazione della bellezza scompaia semplicemente perché il bello di Platone e dei greci è carico di pregnanza etica, cosicché ciò che non è anche buono non può essere detto davvero bello.

3. Ma ora è venuto il momento di riprendere il filo delle argomentazioni di Cassirer. Per Platone la natura è soggetta all’eterno divenire di cui parlava Eraclito, e perciò non può essere compresa in modo stabile e rigoroso: così a quello che il mobilismo eracliteo rappresenta dal punto di vista ontologico si affianca il relativismo sofistico dal punto dì vista della dottrina della conoscenza. Platone è rimasto fedele a questa visione, precisa Cassirer, per lunga parte della sua vita, almeno fino al momento in cui il moto (KIVTÌOK;) diventa «un concetto sistematico fondamentale della logica platonica»

327 (Cassirer

326

EE, p. 18. 327

EE, p. 20.

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178 ATTUALITÀ DI PIATONE

sta pensando evidentemente ai dialoghi dialettici, e in particolare al Sofista). Questo stato di cose è documentato in maniera esemplare dal modo in cui Platone valuta la scienza astronomica nella Repubblica: l’astronomia merita di essere coltivata, spiega Socrate, come scienza puramente matematica, perché con il suo elevato grado di astrazione prepara l’anima alla conoscenza delle essenze ideali, e per questo deve essere considerata in maniera separata dai fenomeni che descrive. In tal modo si compie la piena dissociazione la tra scienza pura, rappresentata dalle forme idea li della matematica, e la scienza applicata alla comprensione degli eventi mondani, che fa uso della forma sensibile, in un contrasto tra eidos e eidolon che appare a prima vista insanabile. Ma così non è, perché accanto alla separazione c’è anche la partecipazione. In effetti, per quanto un fenomeno sia soltanto fenomeno, esso fa in ogni caso parte dell’essere, e in quanto tale deve contenere una sia pur minima dose di

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179 ATTUALITÀ DI PLATON

forma e stabilità. Questa stabilità è data dalle forme della matematica le quali, se è vero come è vero che appaiono alla considerazione cognitiva dello scienziato della natura, devono appartenere alle cose nel loro interno, e costituirne in certo modo la forma ultima. Qui è evidente che Cassirer legge la Tisica’ platonica più alla luce di Galileo che di Kant, come dimostra il fatto che il suo termine di riferimento principale è il Timeo. La dottrina esposta nel Timeo è definita dal conduttore del dialogo all’inizio della sua esposizione come un discorso ragionevole (eikòs: 29 D). A Cassirer non sfugge la promettente fecondità della nozione di eikòs, che diviene utile per gettare un ponte tra eidos e eidolon, perché in essa «tanto si sottolinea il contrasto rispetto alla pura verità... [in questo senso la natura appartiene al regno imitativo degli eidola,] quanto si afferma il riferimento ad essa [in questo senso è attiva nella natura l’azione dell ’ eidos.]»

?)ò.

Per spiegare come questo avvenga in Platone, Cassirer fa un prevedibile riferimento alla teoria dei quattro elementi del Timeo: aria acqua, terra e fuoco non possono costituire il più elementare stato di aggregazione della materia, perché in tal caso non si potrebbe spiegare la configurazione geometrico-matematica della natura. Perciò Platone immagina per ciascuno dei quattro elementi una struttura atomica composta da solidi regolari, che se da un lato permette il libero divenire delle cose, dall’altro garantisce alla natura «una certa forma interna... una condizione necessaria» almeno analoga alla «determinatezza dell’idea pura»

36. A proposito del mondo fisico la mediazione tra

eidos e eidolon sembra dunque avere successo. E questo non tanto perché Platone avrebbe col passare del tempo preso le distanze dal suo dualismo iniziale, ma perché l’accentuazione della differenza è un passo fondamentale per stabilire l’analogia. Benché Cassirer si esprima in modo da far pensare a una certa evoluzione, dal Fedone alla Repubblica al Timeo, verso la restituzione alla filosofia di un mondo di forme sensibili che pareva perduto, in realtà la struttura portante è sempre la stessa. Nel Fedone e nella Repubblica Platone vuole mostrare che una scienza della natura fondata empiricamente sulla natura medesima è fallimentare. A tale scopo deve stabilire in tutta la sua piena determinatezza la scienza delle forme pure (matematiche in particolare), e questo non si può fare se non mostrando la loro irriducibile alterità, se non vera e propria opposizione, in rapporto al mondo sensibile. A questo punto sorge naturale la tentazione di stabilire l’opposizione come definitiva, e di vedere in essa lo scopo ultimo per cui Platone si è

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CASSIRER E INESTETICA PLATONICA» 180

mosso alla ricerca delle pure essenze: per trovare altrove che nel mondo sensibile quelle norme di essere e conoscibilità che esso non può rispettare. Ma sarebbe una tentazione ingannevole: lo scopo per cui la

35 EE, p. 24. 36 EE, p. 26.

forma è purificata ed opposta alla realtà materiale consiste nel fatto che solo così la forma possiede quelle caratteristiche di universalità e di assolutezza che la rendono utilizzabile per conoscere la realtà sensibile in tutte le sue espressioni. L’immagine di Platone che ne deriva, seducente da più punti di vista, andrebbe verificata anche al di fuori del contesto epistemologico (l’unico che davvero interessava a Cassirer in questa fase del suo percorso speculativo). Ma alla luce delle ricerche che conduco da diversi anni sul pensiero platonico, mi sento senz’altro di dire che ha una forte dose di probabilità.

Risolto il problema della natura, rimane però ancora il problema del bello; che è indubbiamente il più difficile dei due. In effetti tra la forma che appare nella natura e la forma artistica ci sono delle differenze essenziali. Mentre la prima subisce il vincolo della realtà cui appartiene, pur nel suo scorrere, nella seconda dominano sovrani la soggettività e l’arbitrio dell’opinare. Questa condizione di massima libertà, che caratterizza in generale ogni facitore di immagini, fa apparire l’artista esattamente come un sofista, con tutta la sua capacità di produrre apparenze senza sottostare a una regola, e perciò ben al di sotto dell’artigiano, che può operare solo imitando la forma determinata dell’oggetto da costruire. E questo il punto, spiega Cassirer, in cui «il cammino di Platone e quello della successiva teoria dell’arte che per lo più ne deriva si separano nel modo più netto»

328. Né Cassirer

ritiene attuabile il progetto moderno di riscattare l’estetica di Platone, a dispetto delle sue stesse convinzioni, mediante la sostituzione dell’ideale all’idea. In effetti, come dimostra il tentativo in questa direzione promosso da Karl Justi, così si suppone che l’idea derivi da una generalizzazione della percezione estetica. Quello che non va in questa ipotesi è che essa colloca l’idea platonica alla fine di un percorso induttivo, che è il metodo esattamente contrario a quello adottato da Platone. Se è vero infatti che l’ideale estetico comporta un necessario riferimento alla realtà sensibile, non può però arrestarsi a questo livello, perché né la semplice pluralità delle percezioni né lo «scorrere di immagini... numerose e meramente

328

EE, p. 31.

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CASSIRER E INESTETICA PLATONICA» 181

sensibili» può mai produrre, per Platone, la pura forma329

. Bisogna dunque rassegnarsi a ritenere il dissidio insanabile?

Altri tentativi di risolvere questo problema, per quanto seducenti a prima vista, si rivelano fallimentari. Si potrebbe ad esempio mostrare che anche nell’ambito dell’arte, così come in quello della natura, alla separazione si affianca la partecipazione. Anche in questo caso il medium è la matematica, perché per Platone (così come, possiamo aggiungere, per gran parte dell’estetica antica, imbevuta di pitagorismo) «ogni bello... in ultima analisi riposa su pure determinazioni numeriche e di misura»

330. Potrà dun

329

EE, p. 33. 330

EE, p. 35.

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182 ATTTUALITA DI PLATONE

que accadere che l’arte, anche se irrimediabilmente lontana dall’idea, ne sappia offrire un’espressione simbolica, appunto per mezzo di quel concetto di misura che costituisce una specie di ponte tra la verità e la bellezza. In altre parole, la traduzione della bellezza nella determinatezza della matematica e della misura salva l’arte dal libero e casuale gioco delle apparenze, dall’incessante riproduzione della realtà fenomenica, e la costringe a una regola, la annoda a qualcosa che ha un rapporto necessario con la stabilità della dimensione ideale. Ma in realtà questo successo è soltanto illusorio. Così facendo si è forse riusciti a salvare l’estetica, ma non l’arte. Che da un lato la dottrina platonica delle idee sia collegata a concetti matematici come ordine, armonia, unità, misura, ecc., e che dall’altro per Platone la bellezza abbia a che fare proprio con la matematica, sono due fatti innegabili. Ma così si dimostra soltanto che la dot-trina delle idee ha anche una valenza estetica (cioè ha rapporto col bello). Nulla di positivo ne risulta invece per l’arte come fenomeno imitativo (ad esempio l’arte di Omero, dei tragici o dei pittori). Al contrario, la sua condanna si fa ancora più drastica e immedicabile. L’artista, in effetti, imita le cose così come appaiono, ed è ben lontano dal perseguire l’unico ideale estetico che per Platone è provvisto di valenza filosofica, cioè quello delle matematiche. Se ne deduce perciò, con rinnovata chia-rezza, che il dialettico e il mimetico fanno cose diverse e si rivolgono a mondi diversi (secondo quanto si legge nella metafora della linea e nel mito della caverna narrati nella Repubblica). Si consuma in tal modo una dissociazione che non ha cessato di stupire nei secoli i lettori dell’opera di Platone, e che pure è tipicamente sua: cioè la dissociazione tra arte e bellezza. Cassirer menziona in proposito il secondo discorso di Socrate nel Fedro (245a-257b) e la scala amoris descritta in un celebre passo del Simposio (210a-211d) dove «la contemplazione della forma sensibile, in cui l’artista si immerge, è sì un primo gradino e un punto di transito nell’ascesa verso il mondo del bello; ma essa deve essere solo, e non può essere niente di più che, un tale punto di transito»

331. Da ciò egli conclu-

de che un’unica determinazione di pensiero e un’unica opposizione costruita in modo sistematico determinano in Platone tutti i giudizi sull’arte e sul bello

332, rendendo così il

contrasto tra arte e filosofia apparentemente insanabile. Questa deduzione lascia però adito a più di un dubbio. E vero

che nel Simposio e nel Fedro la bellezza sensibile e l’arte

331

EE, p. 39. 332

EE, p. 40.

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CASSIRER E L’«ESTETICA PLATONICA» 183

rappresentano solo un gradino sulla strada che porta al raggiungimento della verità e delle essenze ideali. Ma in entrambi i casi si tratta di un momento importante, addirittura per certi versi essenziale. Socrate spiega nel Fedro che di tutte le idee la sola bellezza è quella che lascia trapelare l’immagine di sé nel mondo sensibile, per cui essa viene a trovarsi in una posizione assoluta- mente privilegiata anche dal punto di vista filosofico

333. Allo stesso modo nel Simposio non solo il desiderio

della bellezza rappresenta il primo impulso verso la filosofia, ma quando Socrate afferma che il fine dell’eros filosofico consiste nel procreare nel bello, la produzione poetica è citata come uno dei modi eminenti in cui questo obiettivo può essere realizzato (209d). Come abbiamo già detto sopra, nonostante le apparenze contrarie in realtà non è l’ambito epistemologico il luogo in cui può essere davvero riscontrato l’atteggiamento negativo di Platone nei confronti dell’arte. Cassirer evidentemente cerca e non trova in Platone un apprezzamento della bellezza e dell’arte in quanto tali, che possa dar loro la dignità di discipline autonome accanto alla filosofia. Il minimo che si possa dire a questo proposito è che tale problema non interessava per nulla a Platone. Platone parla sempre dal punto di vista della filosofia, così come dell’etica e della politica che le sono strettamente legate, per cui le sue valutazioni dell’arte sono sempre stilate in funzione dell’utilità e del danno che essa può fare nei confronti dell’ambito filosofi- co, etico e politico. Così può accadere che il bello sensibile o artistico sia visto a volte come un freno che trattiene l’anima nel mondo sensibile e non le permette di salire alle idee, altre volte come un mezzo utile per compiere proprio quello stesso percorso da cui nel primo caso sembrava distogliere. Si potrebbe dimostrare altresì, come ho cercato di spiegare in altri lavori

334, che la contraddizione tra questi due

diversi atteggiamenti è solo apparente. Ciò può essere anche espresso in un modo conforme a quello che Cassirer utilizza per caratterizzare la dottrina platonica delle idee. Se davvero c’è mediazione, in natura, tra eidos e eidolon, allora questo significa che l’opposizione tra mondo sensibile e mondo ideale è indispensabile proprio per far sì che il secondo sia una spiegazione del primo. Perciò il passaggio dal mondo sensibile al mondo ideale è sempre accessibile (purché si usi il metodo giusto): così come è sempre in agguato l’errore di confinare le

333

250b. Questo passo, come fra poco vedremo, è menzionato dallo

stesso Cassirer nel suo saggio. 334

Cfr. Scrivere nell anima, in particolare pp. 260-261; Platone, Fedro, a

c. di F. T., Milano 1995, passim; Platone, Roma 1998, in part. pp. 167-177.

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184 ATTTUALITÀ 1)1 PIATONE

nostre percezioni e volizioni nel mondo sensibile, quando si crede che il sapere umano non conosca altro luogo che quello. Come ben si vede si tratta in entrambi i casi di valutazioni filoso-fiche, che lasciano il problema estetico del tutto impregiudicato. Perciò si può dire che in Platone non c’è un’estetica semplicemente perché egli non parla mai da un punto di vista estetico.

Del resto anche l’ultimo passo che compie Cassirer nel suo saggio è

compreso all’interno di questa prospettiva. C’è un’ultima possibilità per mediare il contrasto, in ambito estetico, tra eidos e eidolon, ed è quella di dimostrare che la filosofia è pur sempre affetta da una debolezza congenita (l’uomo, come si legge nel Simposio, può essere al meglio filosofo, perché sophòi sono solo gli dei), cosicché si trova costretta ad assu-mere forma artistica, a ripiegare sull’eidolon per l’impossibilità strutturale dell’uomo, dei suoi mezzi conoscitivi e linguistici, di accedere all’à- dos direttamente e con sicurezza.

Cassirer osserva anzitutto che in Platone il reiterato ammonimento contro le seduzioni dell’arte si accompagna spesso, a volte addirittura nel medesimo luogo, a uno stile di esposizione particolarmente sensibile ai valori estetici. Potremmo citare, a questo proposito, il caso singolare del libro X della Repubblica, dove al netto ripudio, metafìsico e gnoseologico, della poesia, che compare nella prima parte, si accompagna nelle pagine finali lo straordinario mito di Er, che è una delle costruzioni poetiche di Platone meglio riuscite. Cassirer sceglie invece come esempio il Fedro, in cui Platone dichiara, come già abbiamo visto, che tra tutte le idee tra-scendenti l’unica che si lasci intravedere anche nel mondo sensibile è proprio quella della bellezza: al punto che, nonostante in questo dialogo egli ribadisca con forza che solo la ragione può contemplare l’idea, mai come qui Platone si è attardato a descrivere la bellezza sensibile della natura. Nella suggestiva ambientazione con cui il dialogo si apre, spiega Cassirer, si conciliano di fatto i contrasti introdotti dalla dottrina delle idee. Il ripudio della ^tfrr|aic; stabilito nella Repubblica non impedisce a Platone, qui come nel Timeo, di produrre un’arte che sarebbe riduttivo intendere solo come imitativa, e che per Cassirer, sempre con un occhio alle istanze teoretiche che hanno suscitato il suo interesse nei confronti delle idee platoniche, «conforma in senso proprio»

335 (gestaltend): cioè

l’arte del discorso mitico, che anche in questo caso può trovare

335

EE, p. 42.

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CASSIRER E L’«ESTETICA PLATONICA» 185

nel verosimile (eikòs) un punto medio tra eidos e eidolon. Per una corretta comprensione di questo punto non bisogna

farsi ingannare dall’illusione psicologistica, che vede nel ripiegamento di Platone sull’arte solo l’effetto inconsapevole di una contraddizione mai risolta. Al contrario, come ora apparirà con sempre maggiore chiarezza, esso corrisponde ad istanze vitali per la natura stessa del pensiero platonico. Con un evidente riferimento ai gradi del conoscere fissati nella Repubblica, Cassirer dimostra che per Platone l’uso dell’immagine interessa da vicino anche la conoscenza matematica, la quale, pur essendo «orientata puramente alle idee nella loro permanenza ed eternità, nel loro puro In-Sé, non può in alcun modo evitare gli aiuti e gli appoggi sensibili»

336. Ma

neppure questo ulteriore gradino raggiunge il culmine. Fino

336

EE, p. 43.

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CASSIRER E L’«KS I'ETICA PLATONICA» 186

a questo punto si potrebbe infatti pur sempre supporre che la poesia, il mito e le raffigurazioni matematiche costituiscano in un certo senso gli strumenti di servizio della filosofia, utili solo in certi casi e per determinati scopi, mentre la via maestra della filosofia in quanto tale sarebbe quella dell’intuizione pura e del pensiero deduttivo, capace di cogliere il vero senza alcun diaframma. Invece la presenza del diaframma è strutturale, ed è attiva fin dal momento in cui il dialettico «intraprende il tentativo di esprimere in parole il risultato di questa visione allo scopo di dar vita a una dottrina e di comunicarla

337. In effetti la parola - e

qui Cassirer cita con pertinenza il celebre excursus filosofico della VII Lettera - costituisce sempre una mediazione, e come tale è inadeguata all’oggetto che vorrebbe esprimere. Dunque la condizione del dialettico appare segnata dall’identica tragicità che informa la condizione dell’artista.

Qui l’interpretazione di Cassirer tocca il grado più alto della sua capacità mediatrice. Purtroppo però non trova lo slancio per giungere al traguardo del percorso che essa stessa ha indicato. Infatti Cassirer alla fine mostra pur sempre di ritenere che il riscatto della poesia non vada oltre una mediatezza strumentale e contingente, poiché il pregio dell’arte rimane in ogni caso quello di costituire “uno stadio preliminare indispensabile per la suprema conoscenza filosofica”

338. Ma se così stanno le cose,

che ne è della tragicità della filosofia? Per Cassirer essa evi-dentemente riguarda soltanto la comunicazione che si sviluppa tramite le parole, non la conoscenza. Se però a questo punto gli fosse venuto in mente quel passo del Sofista che citerà un anno dopo in Die Philosophie der Griechen, dove si mostra che l’essere non può rivelarsi in altra forma che in quella del discorso (logos)

339, o i numerosi luoghi dei dialoghi in cui

appare con chiarezza che la conoscenza filosofica per Platone deve passare attraverso i logoi (primo fra tutti il celebre passo del Fedone dove è introdotta la cosiddetta “seconda navigazione”

340), probabilmente si sarebbe accorto che il

diaframma delle parole ostacola allo stesso modo tanto la comunicazione quanto il pensiero. E avrebbe potuto vedere, in base ai suoi stessi presupposti, che non esistono nel pensiero di Platone dei sottofondi nascosti, irriducibili ai modi della comunicazione. A ben guardare, in effetti, tutta la filosofia

337

EE, p. 44. 338

EE, pp. 44-45. 339

2 63e. Come si ricorderà, abbiamo già esposto sopra la lettura

cassireria- na di questo passo. 340

99e.

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platonica appare segnata da una duplice e opposta tensione. Da un lato Platone non si stanca di indicare e descrivere un metodo di conoscenza adeguato alla realtà ultima e perfetta che tale conoscere ha per oggetto. Dall’altro si nota con estrema evidenza che questo metodo non viene mai eseguito, e che al suo posto la scena è totalmente occupata dagli strumenti più deboli, come il dialogo e l’invenzione poetica che si esprime nel mito: ossia la parola dialettico-dimostrativa e la parola pare- netico-edificante. Lo scarto che c’è tra la pura conoscenza noetica e la parola è in effetti puramente teorico, perché la noesi indica il culmine di un cammino che si potrebbe compiere solo in una dimensione metafisica, mentre l’uomo, almeno fino a che resta nella sua condizione terrena, non ha niente di meglio della parola. Per questo non può svincolarsi dalla tragicità che è ad essa inerente, che è poi la tragicità del legame dell’uomo al tempo e alla storia

341.

In ogni caso, sia come sia di questo problema, la sua soluzione riguarda la natura della filosofia e non l’estetica in quanto tale: la riconciliazione tra eidos e eidolon avviene solo perché V eidolon si fa surrogato de\Y eidos. Cassirer può così concludere che «il sistema platonico in quanto tale non conosce un’estetica filosofica, non ne ammette neanche la possibilità»

342.

Tale conclusione appare accettabile, come già abbiamo visto, solo se con essa si intende che per Platone l’estetica non fa parte della filosofia. Sarebbe invece scorretta se volesse dire che Platone non riconosceva alcun valore autonomo alla creazione artistica. Al contrario, è proprio l’ammissione di questo valore, e della piacevoli seduzioni che ne derivano, ad imporre al legislatore, nella Repubblica e nelle Leggi, i severi provvedimenti censorii che tutti conoscono. Platone non dice che il bello artistico non esiste (anzi, egli ammette tranquilla-mente l’opposto); quello che dice è che il bello artistico deve essere regolato affinché sia sempre in accordo con il bello in senso etico, e vietato quando ciò non accade. La struttura dominante che in Platone assorbe il bello dentro di sé, finendo per annullarlo, non è Veidos in quanto norma superiore di conoscenza, ma il bene; ovvero Veidos se inteso come depositario in primo luogo di una eccellenza assiologica: quell’ eidos che non a caso, come si ricava da un celebre luogo della Repubblica, trova la sua espressione più elevata nell’idea del bene. Questo genere di problemi aveva già suscitato il profondo

341

Per una approfondimento di questa “immagine” di Platone non

posso che rimandare ai miei lavori citati alla n. 43. 342

EE, p. 46.

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188 ATTTUALITÀ 1)1 PIPATONE

interesse del maestro di Cassirer, cioè di Hermann Cohen. Ma le ricerche del suo discepolo puntavano decisamente altrove.

Capitolo IX

Leo Strauss e V“esoterismo” platonico

1. Le ricerche platoniche di Leo Strauss343

hanno vissuto e continuano a vivere, nella ricezione critica da parte degli studi specializzati, uno strano destino. Da un lato propongono un approccio dialogico raffinato, che costituisce una formidabile alternativa ai metodi praticati dagli studiosi di estrazione analitica. Leo Strauss ha il grande merito di aver proposto, in anni in cui la recente rivalutazione degli aspetti letterari e dialogici dell’opera platonica era ancora ben al di là da venire, una serie di procedure esegetiche attente alla natura del testo in quanto tale, alle strategie di comunicazione messe in atto dall’autore, alle sfumature di carattere letterario, ai contesti testuali e intertestuali, ai possibili rimandi interni, siano essi espliciti o sottaciuti, ecc. Insomma, Strauss appare ben consapevole della particolarissima natura dell’oggetto a cui ci si trova davanti quando si legge Platone. Se si pensa che il grande antichista inglese F. MacDonald Cornford, nella sua traduzione della Repubblica comparsa in prima edizione nel 1941, si è sentito tranquillamente in diritto di omettere «many of thè formai expressions of assent inteijected by Gkaucon and Adeimantus, and thus allowing Socrates to advance one step in his argument in a single connected speech»

344, la differenza a vantaggio di

Strauss (e del suo metodo in un certo modo pionieristico) salta clamorosamente agli occhi. Come ben si vede anche dalla citazione di Cornford, presso molti interpreti di Platone l’interesse principale del lettore consiste nel ricostruire corret-tamente gli argumenta del conduttore del dialogo (nella Repubblica, dunque, Socrate). Ora, non è che questo non sia legittimo, o che non sia addirittura assolutamente naturale. In fondo la filosofia, almeno nell’accezione più largamente diffusa, ha a che fare con l’argomentazione. E se c’è una cosa in particolare per cui il magistero dei filosofi Greci ha sviluppato

343

Per una bibliografia indicativa sulla letteratura secondaria

suH’argomento cfr. C. Altini, Il filosofo e il legislatore. Leo Strauss lettore

di Platone, in L. Strauss, Le «Leggi» di Platone, Soveria Mannelli 2006, pp.

IX-X, n. 3. 344

The Republic of Plato, London 1941, p. VII.

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nella storia dell’Occidente un’influenza decisiva, questa cosa è appunto l’esercizio del logos, ossia dell’argomentazione. Ma il problema è che la struttura argomentativa e la natura del testo che la ospita non sono reciprocamente indifferenti. Nel caso dei dialoghi platonici,

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190 ATTUALITÀ DI PI ATONE

di cui qui stiamo parlando, l’intersezione di questi due elementi impone che la stessa ricostruzione dei supposti “argomenti” di Platone segua una via complessa ed obliqua, capace di tenere conto di tutti gli elementi che abbiamo menzionato sopra. Solo in questo modo, infatti, diviene possibile leggere i dialoghi di Platone con l’obiettivo di imparare davvero qualcosa da lui: quando invece troppo spesso capita di leggere saggi, in genere di stretta osservanza analitica, in cui l’autore crede di avere qualcosa da insegnare a Platone

345. Ma anche al

di là del caso assolutamente specifico presentato dal testo platonico, il metodo esegetico adottato da Leo Strauss si raccomanda più in generale per l’accurata sensibilità storica che manifesta. Che è appunto ciò che per lo più fa difetto agli interpreti di estrazione analitica. I quali, per citare una frase paradossale ma non del tutto irrealistica di Pierre Hadot, «si direbbe quasi che si stupiscano del fatto che, stranamente, Aristotele abbia ignorato i Principia Mathematica di Russell e Withehead»

346.

Di tutto questo, però, c’è anche un importante rovescio. Leo Strauss ha interpretato molti autori o testi di cui si è occupato, e in particolare Platone, alla luce della coppia di concetti esoterico/essoterico, adottando una strategia di lettura secondo la quale il ricco contesto di indicatori letterari a cui abbiamo accennato sopra sarebbe in genere governato dall’intenzione da parte dell’autore di selezionare le cose da dire e quelle da non dire, alla luce di una ben precisa concezione gerarchica dell’intelligenza e del sapere del possibile lettore: i testi in oggetto, in altre parole, vorrebbero a suo parere avere un significato edificante per chi si trova in “piccioletta barca”, mentre sarebbero in grado di far intravedere ben più inquietanti retroscena a coloro che hanno mezzi intellettuali adeguati a sopportare il peso della verità. Ora, questo particolare tipo di esoterismo (ben diverso, come poi vedremo, da quello fatto proprio dalla cosiddetta scuola di Tùbingen-Milano), non è riuscito a imporsi nel contesto degli studi platonici. Ciò vale in buona parte anche per il gruppo di platonisti di marca latamente straussiana (qui mi limito a citare Stanley Rosen, Charles Griswold, Drew Hyland e David Roochnik). Vorrei dire subito che, a mio avviso, il gruppo di autori ora menzionato è riuscito a mettere in atto una formidabile comunità di ricerca, traendo

345

Cfr. T. Penner, Desire and Power in Socrates: thè argument of

Gorgias 466a-468f that orators and tyrants have no power in te city,

«Apeiron», 14 (1991), pp. 148-202 (v. p. 200). 346

La philosophie comme manière de vivre, Paris 2001 (tr. it. Torino 2008, da cui citiamo, p. 102).

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LEO STRAUSS E 1 .'“ESOTERISMO” PLATONICO 191

frutto proprio dai suggerimenti metodologici di Strauss (a cui sopra ho accennato, e che più avanti elencherò con qualche dettaglio), senza tuttavia concedere uno spazio decisivo (almeno per come la vedo io) alla contrapposizione straussiana tra esoterico ed essoterico. Quello che ne risulta, sempre ovviamente a mio parere, è che gli esiti più interessanti del metodo inaugurato da Strauss, almeno per quanto riguarda gli studi platonici, sono stati raggiunti non tanto da lui stesso, quanto dai suoi allievi di prima e seconda generazione. Mi spingerei anzi a dire che questo genere di ricerche ha costituito, e costituisce tuttora, una forte e feconda provocazione in un contesto di studi platonici, come quello angloamericano, largamente dominato dalle metodologie di taglio analitico, e che in un certo senso ha preparato il terreno per gli “approcci dialogici” oggi così di moda.

2. Ma è venuto il momento di esporre un po’ più diffusamente gli aspetti, a mio parere tutti positivi, del metodo di lettura del testo platonico proposto da Strauss. Strauss è stato fra i primi a porre seriamente in gioco la questione dell’anonimato di Platone, e dunque a indicare che la corretta metodologia di approccio a questo genere di testi non consiste nel leggerli come se fossero dei trattati, ma nell’adottare gli stessi accorgimenti che si usano con i testi drammatici (Strauss, in par-ticolare, ha messo in luce le tangenze con il teatro comico). In secondo luogo, Strauss ha fortemente sottolineato la necessità di ricostruire il contenuto dell’insegnamento di Platone (ove, ben inteso, si ritenga che ve ne sia uno) attraverso l’analisi del dialogo in quanto dialogo, e dei molteplici fattori che vi sono all’opera: ad esempio la scelta del titolo, la scelta del personaggi, il particolare svolgimento dell’intreccio, ecc. L’idea di fondo è che in un dialogo di Platone l’autore parli al lettore non tanto e non solo attraverso i suoi personaggi (Socrate o altri conduttori), ma attraverso la struttura compositiva dell’opera, che deve essere in qualche modo decifrata. Alla base di questa persuasione vi è il principio, oggi accettato da buona parte della critica, secondo cui in un dialogo platonico nulla sia casuale, e che dunque sia possibile rintracciare informazioni significative anche laddove il testo non presenta una diretta esposizione delle tesi e degli argomenti. Connessa a questa idea vi è quella che Strauss chiama la necessità di leggere i discorsi (di Platone) alla luce dei fatti (deeds). Ecco che cosa scrive esplicitamente Strauss in proposito:

to understand thè speeches in thè light of thè deeds means to see how thè philosophic treatment of thè

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192 ATTUALITÀ 1)1 PLATONE

philosophic theme is modified by thè particular or individuai or transformed into a rhetorical or poetic treatment or to recover thè impli- cit philosophic treatment from thè explicit rhetorical or poetic treatment

347.

Altro motivo saliente del metodo di Strauss è il principio secondo cui la forma dialogica di Platone non solo intende imitare l’adattabilità del discorso orale (così da permettere di dire cose diverse a diversi interlocutori), ma, diversamente da quanto ritengono i tubinghesi riesce anche nell’impresa di curare completamente i difetti della scrittura

348.

Come avrà ben capito chi ha qualche conoscenza del dibattito recente sul problema della forma dialogica in Platone, Strauss accetta in modo convinto l’unità di forma e di contenuto fatta valere a suo tempo, per la prima volta in modo esplicito e netto nel dibattito critico contemporaneo, da Friederich Schleiermacher. E in effetti in uno scritto del 1939 (ma pubblicato postumo) dal titolo Exoteric Teaching

349, Strauss

riconosce che Schleiermacher

fece cinque o sei osservazioni estremamente importanti e vere sugli artifici letterari di cui si avvale Platone, rimaste a tutt’oggi insuperate...per la finezza e l’acume che denotano.

Subito dopo però egli aggiunge:

Eppure, Schleiermacher non era riuscito a cogliere la questione cruciale. Egli infatti asserisce che vi è un solo insegnamento platonico, vale a dire quello presentato nei dialoghi, sebbene vi siano, per così dire, infiniti livelli di comprensione di tale insegnamento che il principiante comprende in maniera inadeguata e che solo lo studioso di Platone perfettamente allenato può comprendere adeguatamente

350.

Schleiermacher, secondo Strauss, avrebbe dunque interpretato la caratteristica tipica del dialogo platonico, ossia quella di dire cose diverse a persone diverse, nel senso che Platone offrirebbe diversi gradi di elaborazione della stessa

347

The City and Man, Chicago-London 1964, p. 60. 348

Ivi, pp. 52-53. 349

«Interpretation» 1 (1986), pp. 51-59, tr. it., da cui citiamo, in

Gerusalemme e Atene. Studi sul pensiero polìtico dell’Occidente, Torino

1998, pp. 294-305 (qui p. 299). 350

Ibid.

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LEO STRAUSS E 1 .'“ESOTERISMO” PLATONICO 193

materia; quando invece andrebbe interpretata nel senso che il testo platonico, utilizzando strategie di scrittura che lo stesso Strauss ha teorizzato in Persecution and Art of Writìng

351,

dice cose qualitativamente diverse a interlocutori qualitativamente diversi: come sono diversi qualitativamente, ossia sia sul piano intellettuale sia su quel lo morale, i filosofi e i non filosofi.

Lo scrittore di cose filosofiche, quale fu lo stesso Platone, si troverebbe di conseguenza nella necessità di tacere determinate verità filosofiche pericolose, sia per l’individuo sia per la comunità, mentre dichiarerà espressamente (nell’aspetto essoterico della sua scrittura) di accettare alcune opinioni comunemente diffuse che egli non ammette come verità certe, ma al massimo come eventuali. Il pensiero filosofico, infatti, ha il compito strutturale di criticare, e di porsi costantemente al di là di tutte le opinioni largamente diffuse, per cui se il filosofo non adottasse il gioco esoterico/essoterico come misura di prudenza, egli correrebbe dei gravi rischi.

La differenza tra esoterico ed essoterico sembra dunque riguardare, rispettivamente, la differenza tra le verità (scomode) che il filosofo decide di celare e le opinioni (accettabili dai non filosofi) che il filosofo finge di approvare.

3. Sulla base di queste puntualizzazioni, torniamo ora al “caso” di Platone, e in particolare della Repubblica. Nel saggio che Strauss dedica a questo dialogo il principio metodologico che afferma la distinzione tra comunicazione esoterica e comunicazione essoterica è profilato in modo piuttosto leggero. Nelle pagine introduttive si legge che

thè proper work of writing is truly to talk, or to reveal truth, to some while leading others to salutar opinions; thè proper work of writing is to arouse to thinking those who are by nature fit for it

352.

Tuttavia, analizzando concretamente il dialogo, Strauss è singolarmente parco di informazioni sia su quali sarebbero queste verità che Platone farebbe intravedere al lettore adatto, sia su quali sarebbero le opinioni edificanti che egli vorrebbe instillare in coloro che non sono in grado di assimilare le prime.

Una indicazione interessante potrebbe venire da quel passo della Repubblica (415c-d) in cui Socrate, per convincere i

351

Glencoe 1952. 352

The City and Man, p. 54.

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194 ATTUALITÀ 1)1 PLATONE

cittadini della futura Kallipolis ad accettare la divisione in classi sancita dal mito esiodeo, ricorre all’espediente della “nobile menzogna”. Strauss si sofferma più volte su questo passo in The City and Man. La sua conclusione è che «thè good city is not possible...without a fundamental falsehood. It cannot exist in thè element of truth, of nature»

353. Questo stesso passo è anche

utilizzato da Strauss nella polemica antischleiermacheriana di cui dicevamo sopra: per sanzionare la differenza tra insegnamento esoterico ed

HIvi, p. 102.

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LEO STRAUSS E I .'“ESOTERISMO” PLATONICO 195

insegnamento essoterico egli afferma infatti che l’insegnamento essoterico coincide proprio con queste “nobili menzogne”.

Ma qui viene subito alla luce una prima debolezza, per ora unicamente formale, della tesi straussiana. Socrate si farebbe portatore, nel passo citato, della tesi platonica secondo cui occorre distinguere tra un insegnamento esoterico e un insegnamento essoterico. Ma se così fosse Platone in questo modo rivelerebbe pubblicamente il suo gioco, e la sua pretesa ambizione di scrivere un testo capace dire la verità al lettore accorto e di ingannare quello sprovveduto non potrebbe avere successo. Anche il lettore più sprovveduto, qualora legga in un testo filosofico che il filosofo inganna a fin di bene, è immediatamente indotto a diffidare del testo che legge, e dunque non può in alcun caso cadere nella rete edificante che la comunicazione essoterica avrebbe preparato per lui. E se la tessitura di questa rete fosse uno degli scopi per cui Platone ha costruito il suo testo, egli evidentemente si guarderebbe bene dallo svelare il trucco.

Considerazioni analoghe possono essere fatte anche per quel passo della Repubblica, ugualmente citato da Strauss in The City and Man (p. 54), in cui Socrate dice che delle cose più importanti si può parlare solo tra amici (450d-e). Ovviamente neppure questo passo può essere invocato a dimostrazione deH’esoterismo implicito (o interdialogico) di cui parla Strauss. Chi infatti legge questo brano, che è contenuto in un testo filosofico di larga diffusione in quanto è scritto, ove ritenesse che ciò che Socrate sta qui dicendo corrisponda perfettamente all’opinione di Platone, sarebbe ovviamente indotto a pensare che lo scritto che legge non parli affatto delle questioni più importanti. Se un filosofo dice, in un testo scritto, che la verità può essere detta solo fra pochi amici, ovviamente sta anche dicendo che in questo scritto non si trova la verità (in quanto lo scritto si rivolge a tutti).

Questo problema mette in questione il particolare tipo di esoterismo straussiano, che - a differenza di quello proposto dalla scuola di Tùbingen-Milano

354 - è interamente

interdialogico, e non rimanda a dottrine orali esterne ai all’opera scritta. Lo scritto platonico, secondo i tubinghesi, ha lo scopo (fra gli altri) di far sapere al lettore che esiste un insegnamento esoterico. Se viceversa, come vuole Strauss, il testo platonico

354

Sulle differenze che intercorrono tra i due esoterismi, cfr. A. Petit, Leo

Strauss et Uésoterisme platonicien, in L. Jaffro, B. Frydman, E. Cattin, A.

Petit, Leo Strauss: art d’écrire, politique, philosophie, Paris 2001, pp. 131-

146.

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196 ATTUALITÀ DI PI ATONE

avesse lo scopo di tenere celata l’esistenza di una verità supe-riore ai lettori sprovveduti, allora sarebbe del tutto assurdo che questo medesimo testo scoprisse da solo il suo gioco. Il che significa che l’esoterismo straussiano, al contrario di quello dei tubinghesi, non può invocare a suo vantaggio alcuna autotestimonianza.

Ma la questione è in realtà ancora più complessa, perché l’autote- stimonianza sarebbe valida solo se valesse la cosiddetta “teoria del portavoce”: ossia la teoria secondo la quale è possibile estrarre dai dialoghi le argomentazioni e le posizioni filosofiche di Platone facendo esclusivo riferimento al conduttore della discussione (Socrate o chi per lui). Ciò non costituisce problema per i tubinghesi, che non hanno particolari diffidenze verso questa posizione; ma lo è invece per Strauss, che mostra invece di sostenere l’approccio dialogico: ossia, come abbiamo visto sopra, l’ipotesi alternativa secondo cui per capire il pensiero di Platone occorre decifrare con attenzione, e pluralità di metodi, la struttura dialogico-letteraria del testo. E infatti Strauss scrive, appunto a questo proposito, che «we cannot ascribe to Plato any utterance of any of his characters without having taken great precautions»

355. Ma poche righe

sopra nella stessa pagina leggiamo una frase che dimostra in modo palmare la contraddittorietà del metodo da lui adottato: «According to Plato’ Socrates, we would then have to say that Plato con- ceals himself completely in his dialogue». E vero che subito dopo questa asserzione viene in parte ridimensionata. Ma la contraddizione rimane. E troppo ovvio osservare che il Socrate personaggio di Platone non può materialmente dire nulla del suo autore. Se perciò supponiamo che questo Socrate dica qualcosa di Platone, è chiaro che partiamo dal presupposto che Socrate sia il portavoce di Platone. Ma se questo è vero, allora non è vero che Platone si nasconde dentro i suoi dialoghi: sarà necessario ammettere, infatti, che egli si rivela attraverso le parole le suo portavoce Socrate. Detto in altri termini, pretendere di utilizzare, come strumento per attribuire a Platone una strategia espositiva secondo cui egli non parla attraverso un personaggio inteso come portavoce, le parole di uno di questi personaggi, è chiaramente contraddittorio. I rilievi formali che siamo venuti svolgendo portano

semplicemente a dire che l’esoterismo interdialogico di cui parla Strauss non può essere suffragato da alcuna testimonianza; e che dunque, laddove egli pretende di rintracciare queste autotestimonianze, in realtà non fa altra cosa che applicare

355

The City and Man, p. 59.

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LEO STRAUSS E I .'“ESOTERISMO” PLATONICO 197

scorrettamente il metodo dialogico da lui stesso enunciato. Si potrebbe però anche osservare che ciò non sarebbe molto rilevante, se la struttura esoterica del testo platonico potesse essere mostrata per altra via. Ma riguardo a Platone, e con particolare riferimento alla Repubblica, l’ipotesi che l’uso scorretto del metodo sia stato in qualche modo decisivo per suffragare l’interpretazione esoterica è assai forte, perché nel concreto la sua applicazione si mostra particolarmente ardua. Strauss ha maturato la sua concezione esoterica della scrittura sulla base di Lessing, non di Platone (a cui l’ha applicata in un secondo tempo), e già abbiamo detto che nel saggio sulla Repubblica contenuto in The City and Man questa concezione è debolmente esplicitata (forse non a caso). Proviamo allora ad applicare a questo testo straussiano la distinzione esoterico/essoterico tracciata nello scritto del 1939. Se lo schema funziona, dovremmo rintracciare nell’interpretazio-ne straussiana di questo dialogo un complesso di “verità” manifestate in modo coperto agli intelligenti insieme a una serie di dottrine edificanti, coerenti con il pensiero comune, esposte a beneficio della maggioranza.

4. Dopo aver esposto per capi generali la sua interpretazione Repubblica Strauss sembra voler dire quanto segue. Apparentemente il dialogo ha lo scopo di proporre in modo realistico un modello di stato e di vita buono, quando invece il suo obiettivo recondito è quello di mostrare l’irrealizzabilità di uno stato del genere, dovuta all’inevitabile incompatibilità di politica e filosofia. Il contenuto esoterico del dialogo, se questo è vero, sarebbe dunque questo secondo, e Platone lo renderebbe chiaro attraverso una serie di indizi che i lettori più intelligenti sarebbero in grado di decifrare. Strauss enumera tutta una serie di incongruenze più o meno minute (come i problemi concreti che sorgerebbero ove il “salto di classe” fosse realmente possibile), che però fanno capo in ultima analisi ad alcune omissioni importanti, e segnata- mente l’omissione della natura e dell’eros: mentre al lettore sprovveduto sembra semplicemente di assistere alla descrizione dello stato migliore che ci sia, il lettore accorto dovrebbe capire tra le righe che Platone voleva dire ben altro: ossia che lo sforzo di adattare la ragione filosofica alla realtà concreta è del tutto vano, data l’incompatibilità che esiste fra le due cose, e che dunque l’unica possibile realizzazione della filosofìa è la vita contemplativa

356.

Non è tuttavia difficile accorgersi che lo schema non funziona

356

L’insegnamento essoterico, p. 296.

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198 ATTUALITÀ DI PI ATONE

da nessuno dei due lati, ossia né da quello essoterico né da quello esoterico. Iniziamo dal primo. Dove sarebbero, nelle dottrine esposte nella Repubblica, «le opinioni convenute», ovvero «le dottrine ortodosse», che Platone affermerebbe senza credervi realmente, solo per edificare i più? Ovvero quelle dottrine che egli mostrerebbe di accettare solo per prudenza pratica, per non incorrere nei pericoli a cui vanno di solito incontro i filosofi? Lo schema prevede infatti che il contenuto dell’insegnamento essoterico sia non solo edificante, ma anche endoxon, non paradoxon. Al contrario quanto esposto nella Repubblica, per quanto abbia sicuramente un carattere educativo-normativo, è anche larga mente paradossale. Basti pensare alle tre ondate, e ai commenti sbigottiti degli interlocutori di Socrate di fronte alle tesi socratiche come l’uguaglianza tra i sessi, la comunanza delle donne, il governo ai filosofi (per tacere delle sferzanti critiche aristoteliche, basate spesso sul common smse). Nulla compare di meno, nella Repubblica, che principi di buon senso pacificamente edificanti. Si può anzi dire che tutto l’impianto del dialogo, che consiste nel dimostrare che il giusto è felice, si scontri fin da subito con le contrarie osservazioni del senso comune esposte da Glaucone e Adimanto, e che riprendono nella sostanza il tour de force tentato da Socrate, nel Gorgia, con Callide: dove l’opinione comune è evidentemente con Callide, non con Socrate.

Quanto al fatto che si tratti di tesi edificanti, su questo non c’è dubbio. Ma il fulcro dell’operazione platonica consiste proprio nel mostrare che davvero edificante (nel senso di educativo, formativo) è proprio ciò che alla maggioranza appare paradossale. Di conseguenza il progetto della Kallipolis può essere promosso, nella sua verità e realizzabilità, solo a prezzo di sottili argomentazioni filosofiche. E ciò porta ad escludere del tutto che l’aspetto dichiaratamente propositivo della Repubblica, ossia la costruzione del modello ideale di stato, costituisca una nobile menzogna, coerente con le «opinioni convenute» e le «dottrine ortodosse», a beneficio dei meno intelligenti.

Ma c’è un grave problema anche sull’altro versante, ossia quello esoterico. Se l’atteggiamento esoterico del filosofo dipende dall’esigenza di tacere alcune verità

357 ciò significa che

il filosofo queste verità le deve possedere. Ma se la filosofia, come ritiene Strauss, è una sorta di ricerca infinita alla maniera di Socrate, ovvero è una scepsi zetetica che non produce

357

Ivi, p. 298.

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LEO STRAUSS E I .'“ESOTERISMO” PLATONICO 199

nessuna conclusione, e che deve continuamente tornare e riformulare le domande

358, quali sono le verità che il filosofo

dovrebbe tacere? Se la filosofia, socraticamente, è ricerca, il tacere del filosofo non è reticenza; è solo l’effetto del suo imperfetto sapere, del suo essere philo-sophos e non sophos.

E interessante rilevare, a questo proposito, che l’esoterismo individuato in Platone da Strauss è esattamente l’opposto di quello che credono di rinvenirvi gli esponenti della scuola di Tubingen-Milano. Muovendo dal punto di vista, a mio parere corretto, che si può parlare di reticenza solo in presenza di una scelta di tacere deliberata e consapevole, giustamente costoro osservano che può essere reticente solo chi sa. Se dunque si accetta l’esistenza, in Platone, di un dualismo eso-terico/essoterico, sembra logico supporre che esso abbia lo scopo di

358

Per questi temi straussiani mi limito qui a rinviare a M. Farnesi

Camellone, Giustizia e Storia. Saggio su Leo Strauss, Milano 2007 (v. ad es.

p. 179).

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200 ATTUALITÀ DI PLATONK

celare, per dirla con Giovanni Reale, una sapienza segreta

359. Ma forse si potrebbe dire che la verità taciuta dal

filosofo è appunto l’inevitabili- tà della scepsi, la constatazione che la filosofia è ricerca continua che torna sempre su se stessa senza trovare mai una via d’uscita definitiva. In questo caso l’aspetto essoterico, edificante, sarebbe quello conclusivo e dogmatico, quello per cui Platone dichiara che cosa sono il bene e il giusto, e dunque concretizza questo sapere in una proposta politica, conclusiva, dogmatica - dunque non filosofica

360. In

questo modo, però, il problema si allarga, anziché restringersi. Perché un numero assai considerevole di scritti platonici mostra in atto proprio questo atteggiamento zetetico, se non proprio scettico: e lo mostra con tale chiarezza che difficilmente potrebbe essere scambiato per un’informazione accuratamente dissimulata, e comprensibile solo a pochi.

5. Con questo abbiamo toccato, per così dire, il cuore di tutto il nostro problema. Strauss ha ottimi motivi per dichiarare la natura zetetica della filosofia di Platone. Ne fa fede una pagina molto importante di The City and Man (p. 121), dove egli osserva che non solo è impossibile la giustizia in quanto tale, ma è anche impossibile la realizzazione dello stato giusto modellato sull’esempio dell’idea di giustizia. La ragione di questa impossibilità risiede nel cuore stesso della metafisica di Platone, ossia nella teoria delle idee: poiché le idee sono assolute ed intemporali, l’ideale non può mai realizzarsi compiutamente nel reale. Ciò che Socrate intende nella Repubblica con idea di giustizia, scrive Strauss, «transcendes everything which men ever achieve»

361.

Stando così le cose, Strauss non trova altro mezzo per giustificare il realismo politico che Platone sembra adottare nella Repubblica, ovvero l’apparente conclusiva dogmaticità delle sue proposte, se non scaricare questo dogmatismo sul lato essoterico ed edificante della comunicazione filosofica: solo il filosofo, colui che dedica consapevolmente la sua vita alla pura attività di ricerca, può sopportare il peso della scepsi; gli altri uomini, impegnati nella politica, nella morale, nella costruzione della vita buona, hanno bisogno di verità edificanti, di pietose bugie, di verità salde a cui appoggiarsi; hanno

359

Cfr. G. Reale, Platone. Alla ricerca della sapienza segreta, Milano 2004. 360

Cfr. Farnesi Camellone, Giustizia e storia, p. 192. 361

The City and Man, p. 120.

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LEO STRAUSS E L’“ESOTERlSMO” PLATONICO 201

bisogno che venga loro spacciato per vero ciò che al filosofo appare come eventuale, e che solo il filosofo può sopportare proprio nella sua natura di eventuale.

Nasce così un Platone, rovesciando il celebre giudizio che alcuni antichi hanno dato di Arcesilao, scettico in segreto e dogmatico in pubblico. Ma questa ipotesi - che, come abbiamo visto, è piuttosto inverosimile - dipende solo dal fatto che Strauss non è riuscito a conciliare i poli, solo apparentemente opposti, dello scetticismo e del dogmatismo in Platone. O meglio, sarebbe ancora più corretto dire che non serve alcuna conciliazione, perché Platone non è né scettico né dogmatico. Lo stato descritto da Platone nella Repubblica è chiaramente irrealizzabile nella realtà; e lo è in gran parte proprio per la ragioni addotte da Strauss (in primo luogo la ragione di fondo indicata sopra, ovvero l’impossibilità si spazializzare e temporalizzare l’idea). Ma non è questo il messaggio filosofico che la Repubblica vuole comunicare, né tanto meno si tratta di una tesi esoterica, che Platone avrebbe voluto sottrarre ai più. E, infatti, la conseguenza più ovvia e palmare di tutta la metafisica platonica.

Se la tesi alternativa a quella di Strauss fosse quella secondo cui Platone, scrivendo la Repubblica, si prefìggesse di mostrare come l’idea di giustizia possa prendere concretamente corpo nella storia, allora la lettura esoterica sarebbe una tentazione quasi irresistibile. La sua intenzione, viceversa, non era tanto quella di sostenere la piena congruenza tra modello e copia, quasi che il divenire storico potesse solidificarsi nella presenza dell’idea, ma quella di affermare la necessità del modello

362. Platone rimane a metà tra scetticismo e dogmatismo

perché da un lato nega la perfetta conoscibilità e realizzabilità del modello, dall’altro afferma che il modello può essere parzialmente conosciuto, e dunque parzialmente imitato; dove è inteso che è sempre possibile una conoscenza migliore del modello e una sua imitazione più adeguata. Se Platone fosse uno scettico, con tutto il pessimismo politico che ne deriva, probabilmente l’interpretazione esoterica sarebbe quella più fun-zionale, perché l’idea di costruire un modello politico edificante si gioverebbe proprio del fatto che questo scetticismo e questo pessimismo rimangono nascosti ai più, quando invece la loro pubblica manifestazione comprometterebbe decisamente la realizzabilità dell’impresa. In questo caso il dogmatismo (con l’ottimismo politico che ne deriva) non sarebbe altro che la menzogna edificante a cui i filosofi non possono prestar fede.

362

Cfr. Resp. 47lc-472d.

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LEO STRAUSS E L’“ESOTERlSMO” PLATONICO 202

Dunque l’alternativa esoterismo/essoterismo, in Strauss, è strettamente collegata alla sua incapacità di trovare una via d’uscita teorica tra scetticismo e dogmatismo: per cui la soluzione di questo (apparente) conflitto è rinviata a livello di strategie della comunicazione. Ma non si tratta certo di una via d’uscita obbligata. Si potrebbe infatti osservare, come abbiamo detto sopra, che la moderata e fallibile approssimazione al vero e al bene è lo sfondo ultimo a cui chiunque può fare riferimento, sia pure secondo diverse modalità

363: non offende l’intelligenza

“zetetica” del filosofo e non scoraggia né spaventa l’esigenza pra

363

Cfr. F. Schleiermacher, Introduzione a Platone, Brescia 1994, p. 78.

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203 ATTUALITÀ DI PI ATONE

tica della gente comune. E non c’è alcun bisogno, in questo caso, di invocare la differenza esoterico/essoterico.

5. Per comprendere come questa alternativa sia realmente possibile, occorre prendere sul serio l’orientamento metafisico della filosofia di Platone (quello, tanto per intenderci, che si concretizza nella teoria del due mondi) e la dottrina della reminiscenza che le è collegata. All’interno di questo contesto troviamo che la conoscenza piena e perfetta della realtà ideale è collocata da Platone nello spazio mitico/oltremondano abitato dall’anima disincarnata, mentre all’uomo nella sua condizione temporale e mondana è riservato un accesso alla verità di tipo approssimativo e indiretto, tramite la rivitalizzazione parziale dei ricordi presenti nell’anima e la loro articolazione attraverso il dialogo, l’attività di domandare e rispondere, l’esercizio discorsivo della dialettica. In tal modo il momento dogmatico del conoscere è confinato in una dimensione regolativa realisticamente inaccessibile all’uomo nella sua dimensione presente, senza per questo che egli, all'interno di questa medesima dimensione, debba rassegnarsi allo scetticismo, dal momento che la reminiscenza sancisce un collegamento con la verità originaria mai completamente interrotto.

A mio avviso una delle cause più influenti che hanno determinato l’incomprensione della struttura di fondo della filosofia di Platone, non solo con riferimento a Strauss ma anche ad orientamenti critici contemporanei assai agguerriti e consolidati nella letteratura, è proprio l’arbitraria negazione dello sfondo metafisico di cui abbiamo detto. All’interno dell’ambito tematico di cui ci occupiamo in questo studio si sviluppa, in particolare, la serie seguente di false alternative: a) Platone è scettico (non esiste nessuna verità); b) Platone è dogmatico (la verità è disponibile in forma

conclusiva qui ed ora); c) Platone è scettico e dogmatico al tempo stesso (visto che

nei suoi dialoghi si trovano in abbondanza indizi in entrambi i sensi). Di conseguenza, o Platone è contraddittorio, ovvero in uno dei due casi non fa sul serio: cioè si deve intendere che Platone metta consapevolmente all’opera una strategia comunicativa in cui la parola esoterica si contrappone a quella essoterica:

cl: esoterismo della scuola di Tùbingen-Milano: Platone è scettico in pubblico (dialoghi) e dogmatico in segreto (dottrine orali);

c2: Strauss: Platone è dogmatico in pubblico (insegnamento

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essoterico) e scettico in segreto (insegnamento esoterico). Se viceversa viene valorizzata e conservata la-struttura

metafisica di cui abbiamo detto, tutto questo ginepraio di varianti, per varie ragione tutte insoddisfacenti, viene tagliato alla radice: molto semplicemente Platone ammetteva la possibilità di accedere in modo approssimativo e asintotico alla verità. E se è ovvio che i soggetti privilegiati in grado di godere di questo accesso sono i filosofi, ciò dipende dalle loro superiori doti naturali, che anche tutti gli altri uomini sono in qualche modo costretti ad ammettere. I filosofi sono consapevoli sia di essere più sapienti degli altri sia di non essere infallibili. A questo stato di cose deve essere data, per Platone, la più ampia pubblicità, affinché le persone comuni si convincano che affidare il governo dello stato ai filosofi è conforme anzitutto al loro proprio interesse. Dunque non c’è nulla da nascondere a nessuno: non c’è nessuna sapienza segreta e nessuno scetticismo esoterico.

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LEO STRAUSS E 1 .'“ESOTERISMO” PLATONICO 205

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Capitolo X

Platone, Martha Nussbaum, e le passioni364

1. Nel suo celebre libro del 1986 (The Fragility of Goodness1)

Martha Nussbaum dedica alcuni importanti capitoli al pensiero di Platone. Questi capitoli, benché si occupino in modo specifico solo di alcuni dialoghi di Platone o di alcune sezioni di tali dialoghi, presi nel loro complesso costituiscono un sorta di monografia dedicata all’etica platonica, o più precisamente alla concezione platonica della vita buona e alla teoria dei valori che le è connessa. Le opere prese in considerazione sono, nell’ordine, il Protagora, la Repubblica, il Simposio e il Fedro. A parere dell’autrice è possibile rintracciare in questo percorso una sorta di evoluzione, che condurrebbe Platone via via a ritrattare, in parte già nel Simposio ma soprattutto nel Fedro, alcuni aspetti unilaterali della sue etica e della sua psicologia, che sono emblematicamente focalizzati proprio nel Protagora e nella Repubblica. Per quanto riguarda il Protagora Nussbaum prende in considerazione soprattutto la parte finale, in cui Socrate espone la sua techne metretica capace di misurare e valutare correttamente piaceri e dolori. Secondo l’autrice in questo passo viene in luce l’idea che l’etica sia assimilabile a una specie di procedimento matematico, in cui il conflitto tra le diverse finalità può sempre essere risolto mediante una accorta misurazione del peso quantitativo di ciascuna di esse in rapporto al bene che si vuole conseguire (ossia la felicità). Questa possibilità si fonda, a sua volta, sul presupposto che i vari beni siano omologabili in una tipologia unitaria, e dunque il conflitto sia riducibile a una pura e semplice differenza quantitativa. Contro tale ipotesi Nussbaum osserva che, viceversa, la fiducia nella piena commisurabilità di tutti i nostri valori è ingiustificata; o, almeno, è giustificata solo dal desiderio di poter programmare la vita etica in modo ragionevole e non conflittuale, semplicemente dichiarando che gli impulsi irrazionali non omologabili in termini quantitativi costituiscono una specie di malattia di cui è necessario

364 Platone, Martha Nussbaum, e le passioni, in G. Giardina (cur.), Le

emozioni secondo ì filosofi antichi, Atti del convegno nazionale, Siracusa 10-

11 maggio 2007, CUECM Catania 2008, pp. 39-61. 1 The Fragility of Goodness. Luck and Ethics in Greek Tragedy and

Philosophy, Cambridge 1986; tr. it., La fragilità del bene, da cui citiamo,

Bologna 1996. 2 Ivi, p. 237.

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PLATONE, MARTHA NUSSBAUM, E LE PASSIONI 207

liberarsi. La razionalizzazione dell’etica a cui ambisce Platone, in altre parole, è secondo Nussbaum una mistificazione dell’esperienza effettiva dettata dall’esigenza di controllare ciò che ci sfugge: «Noi vogliamo il punto di vista della scienza perché ne abbiamo bisogno»

2.

Questo primato etico della ragione, sempre secondo Nussbaum, viene ripreso e consolidato nella Repubblica.

La Repubblica...sviluppa una teoria del valore nella quale non predominano singoli elementi, ma dove la purezza, la stabilità e la verità ordinano gli oggetti e le attività che costituiscono la vita. Il dialogo ribadisce la scelta di questi criteri di valore affermando che un essere umano fornito di un’esperienza completa e posto nel punto di vista «alto» sceglie la vita basata su questi valori e non sui loro opposti

365.

In sintesi, l’esigenza di attribuire in etica tutto il potere alla ragione provoca una selezione, nell’ambito dei beni, a favore di quelli che hanno carattere di stabilità di omogeneità, perché solo questi valori sono tecnicamente governabili da una ragione etica fondata (come nel Protagora) sulla valutazione e sulla misurazione. Ne consegue l’accanita difesa di uno stile di vita «che non è solo filosofico, ma anche ascetico»

366. In tal modo, tuttavia,

la Repubblica sottovaluta gravemente la complessità della nostra natura appetitiva quando [in quanto] ignora il lato estetico dell’attività appetitiva e le profonde connessioni tra questa attività e gli altri fini dotati di valore.

367

Abbiamo, in altre parole, due diverse descrizioni della vita etica fra loro concorrenziali: da un lato c’è l’idea che il complesso dei beni e dei valori costituisca un insieme omogeneo dove ogni singolo elemento è relativizzabile e ordinabile nell’insieme medesimo, per opera della ragione, in modo tale da ridurre ogni possibile conflitto all’esito di un ragionamento sbagliato (di una applicazione scorretta della ragione); dall’altro c’è l’idea, a parere di Nussbaum ben più realistica, che la tensione verso i vari beni abbia un carattere fondamentalmente irrazionale, per cui ciascuno di essi ha un significato particolare e una natura irriducibilmente qualitativa, che in quanto tale non consente quell’articolazione verticale di livelli capace di espellere il conflitto. Platone, resosi conto che un quadro di questo secondo tipo non è governabile dalla ragione, avrebbe nella Repubblica deliberatamente optato

365

Ivi, p. 298. 366

Ivi, p. 304. 367

Ivi, p. 305.

Page 246: Franco Trabattoni

208 ATTUALITÀ DI PI ATONE

per il primo, e così facendo avrebbe gravemente amputato l’esperienza umana di alcuni aspetti fondamentali:

Egli ha offuscato alcune distinzioni che noi consideriamo molto importanti e ha negato la presenza del valore intrinseco dove noi lo vediamo

368.

La scorretta semplificazione della vita etica che Nussbaum attribuisce a Platone si può chiaramente vedere mediante un confronto con VAntigone sofoclea, opera alla quale l’autrice dedica un importante capitolo del suo lavoro

369. In questa tragedia,

come è noto, si sviluppa un acuto contrasto tra la posizione del re Creonte, che ha imposto per legge di lasciare insepolto il corpo del traditore Polinice, e quella di Antigone (sorella del morto), che ritiene necessario obbedire prima alla legge degli dei che quella degli uomini, anche a rischio subire la pena di morte comminata da Creonte ai trasgressori. Un terzo personaggio è Emone, figlio di Creonte e promesso sposo di Antigone. In un drammatico colloquio fra padre e figlio, Creonte tenta di persuadere Emone della malvagità di Antigone, e dimostrargli dunque che il suo matrimonio con una donna del genere sarebbe deleterio sia per lui sia per la sua casa

370. Ed è appunto questa sua convinzione ciò

che lo aveva spinto, in un dialogo precedente avuto con Ismene, a dire che Emone avrebbe potuto trovare la felicità altrove, dal momento che ci sono “altri campi da arare”

371. In altri termini,

poiché a parere di Creonte Antigone è una donna malvagia, tale da rendere infelice la vita di chi la sposa, Emone dovrebbe deporre il suo amore particolare per lei, per non sacrificare la propria felicità con un matrimonio incauto. Secondo la Nussbaum Creonte dimostrerebbe in questo modo di avere una concezione della felicità inclusiva ed unitaria, che non lascia alcuno spazio alla pluralità dei beni e al possibile conflitto che ne deriva. Affinché la strategia di Creonte funzioni

il fine deve offrire spontaneamente una moneta comune, a cui possano essere ridotti tutti gli effettivi interessi e tutti i valori dell’agente

372.

La concezione di Creonte, che contempla un solo fine, gli impedisce di avere una corretta visione della città, la quale, nella pienezza delle sue relazioni, non sembra manifestare un unico

368

Ivi, p. 307. 369

Ivi, pp. 133-190. 370

Ant. 639-680. 371

Ivi, 570. 372

La fragilità del bene, p. 146.

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PLATONE, MARTHA NUSSBAUM, E LE PASSIONI 209

bene373

. Le idee e il comportamento di Creonte, insomma, sono figura

delle idee e del comportamento di Platone, con riferimento preciso a quanto abbiamo appena visto nel Protagora e della Repubblica. Emblematico, per evidenziare l’analogia con il primo caso, è l’atteggiamento che

373

Ivi, p. 149.

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210 ATTUALITÀ 111 PIATONE

Creonte vorrebbe vedere assunto da suo figlio: un atteggiamento che rispecchia il principio, enunciato nel Protagora, secondo cui il conseguimento della felicità sembra essere prodotto semplicemente da un calcolo relativo dei beni e dei mali. Emone, insomma, se ragionasse come Creonte/Platone dovrebbe capire 1) che l’unico fine della sua vita è il conseguimento della felicità, 2) che il matrimonio con Antigone non permette di realizzarlo, e di conseguenza dovrebbe perdere ogni interesse per quella persona. In tal modo, secondo la Nussbaum, Creonte/Platone mostrerebbero di non vedere che certi beni (come Antigone per Emone) sono amati nella loro particolarità e singolarità, e non possono essere relativizzati o sostituiti dal alcun bene (supposto) maggiore; né è possibile, sempre secondo Nussbaum, eliminare la forza delle passioni (o delle emozioni) sulla semplice base di un ragionamento che le dimostra incompatibili con la felicità (anche qualora questo ragionamento fosse corretto).

Su un piano politico più generale, invece, Creonte è figura di una semplificazione analoga a quella operata dai filosofi-governanti nella Repubblica. La ragione etica impone che esista un unico bene sommo, il quale costituisce l’unico criterio per determinare il valore, relativo o assoluto, di tutti gli altri beni. Creonte non solo identifica con sicurezza questo bene nelle leggi della città, ma mostra di non voler deflettere in alcun modo dalla sua scelta. Questo suo atteggiamento non dipende, come forse potrebbe sembrare, dall’ostinazione patologica del personaggio, ma dalla necessità che egli avverte di restare fedele a un quadro teorico irrinunciabile, in mancanza del quale si produrrebbe sicura-mente la distruzione della città. Se deve essere rintracciabile, infatti, una condizione a priori che elimina alla radice l’eventualità che nella città si sviluppino conflitti insanabili, questa condizione è che il bene sia unico. Nella Repubblicaiì rigido governo dei filosofi che ordinano e selezionano il desiderio in base al criterio del buono assoluto sembra obbedire allo stesso principio; né certo è un caso che in tutte le grandi opere politiche di Platone si senta l’esigenza di offrire un antidoto a quello che a suo avviso era il più grande dei mali per una comunità politica: ossia la stasis, la guerra civile, dei cui effetti Platone era stato preoccupato testimone sullo scorcio del secolo V.

E opinione della Nussbaum che Platone, tuttavia, abbia successivamente modificato questa sua posizione. Le prime avvisaglie di questo cambiamento si possono trovare nel Simposio, che Nussbaum legge dando particolare rilievo agli spunti “irrazionalistici” mediati dall’irruzione di Alcibiade ubriaco nella terza sezione del dialogo. Ma la parte più consistente della ritrattazione sarebbe offerta dal Fedro. Secondo l’autrice:

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PLATONE, MARTHA NUSSBAUM, E LE PASSIONI 211

il Fedro presenta una nuova concezione del ruolo che il sentimento, l’emozione e, in modo particolare, l’amore devono avere nella vita buona...

374.

[il Fedro] è un’opera nella quale egli [se. Platone] ammette di essere stato cieco, di aver concepito le opposizioni in modo troppo rigido; dov’egli tenta, con la ritrattazione e con l’autocritica, di guadagnare un nuovo punto di vista

375.

Infatti nel Fedro Platone ammetterebbe che le passioni e i desideri umani (e l’eros in particolare, che in un certo modo li sintetizza tutti) abbiano un carattere fondamentalmente irrazionale, di cui è necessario tenere conto. Ne deriva l’impossibilità di individuare la via migliore per il conseguimento della felicità semplicemente sulla base di un calcolo razionale, come se tutti i desideri fossero parti omeomere di quell’unico desiderio che è rivolto alla felicità. Questa novità sarebbe introdotta nel Fedro in primo luogo mediante la definizione di eros come una sorta di mania (o pazzia), che come tale non si lascia mettere da parte dalla ragione neppure nel caso in cui la ragione medesima fosse in grado di dimostrare che essa non produce quella felicità che gli uomini si aspettano dalla soddisfazione dei loro desideri.

Sempre secondo Nussbaum, nel Fedro Platone intende deliberata- mente mettere in scena questa sua ritrattazione proprio per mezzo della stessa struttura che governa la composizione letteraria del dialogo. Ne riassumo brevemente il contesto. Il giovane Fedro legge a Socrate un discorso di Lisia in cui questi cerca di dimostrare che per un giovane è più conveniente concedere i suoi favori a una persona che non lo ama piuttosto che a una persona che lo ama. Socrate si impegna con Fedro, subito dopo, ad elaborare egli stesso un discorso analogo a quello di Lisia, in cui, muovendo dal fatto che l’amore è una forma di pazzia, giunge a conseguenze simili: o meglio, arriva a mostrare che non è conveniente concedersi a chi ama, appunto perché questi è preda della pazzia. Poi però pronuncia anche una ritrattazione, fondata su questo principio: il discorso precedente sarebbe adeguato se la mania fosse sempre un male; ma siccome esistono forme buone di mania, ne consegue che l’irrazionale non è di per sé una cosa negativa, e che anzi può all’occorrenza essere sfruttato in una prospettiva filosofica. Ed è questo appunto il caso dell’eros, ove sia correttamente inteso come impulso ad elevare l’anima verso la virtù e la conoscenza dell’intelligibile, e

374

Ivi, p. 391. 375

Ivi, p. 394.

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212 ATTUALITÀ DI PI ATONE

non verso la soddisfazione dei desideri più bassi. Ora, secondo la Nussbaum la ritrattazione di Socrate (analoga,

nel dialogo, alla palinodia di Stesicoro, che aveva incautamente biasimato Elena) sarebbe figura della ritrattazione di Platone: così come Stesicoro, per recuperare la vista che gli era stata tolta dai Dioscuri, dichiarò «No, non è vero questo discorso»

376, allo stesso

modo Platone avrebbe costruito il Fedro con lo scopo di comunicare ai lettori che egli ormai giudicava falso quanto aveva scritto nel Protagora e nella Repubblica

377.

2. Su quanto sia improbabile ed ingenuo questo modo di leggere l’opera di Platone (così come quella di molti altri filosofi) non vale forse più nemmeno la pena di insistere. La filosofia di Platone parte dalla realistica constatazione della complessità dell’esperienza umana, ben consapevole della presenza, al suo interno, di tensioni o conflitti fra loro in contrasto, o addirittura apparentemente contraddittori. La sua ambizione teorica, di fronte a questa oggettiva complessità, è quella di elaborare modelli esplicativi abbastanza ampi ed elastici per ricomporre il conflitto, ed anzi capaci di mostrare che le ragioni di una possibile con-ciliazione sono presenti in modo particolare proprio laddove i conflitti sembrano manifestarsi nella maniera più acuta. Così, ad esempio, Platone può dimostrare con il Fedone e con la Repubblica che il filosofo ha una naturale vocazione politica proprio in ragione delle sue tendenze ascetiche, e non in opposizione ad esse

378; può mostrare, nei dialoghi aporetici ein

quelli conclusivi, che le provocazioni scettiche inerenti ai tentativi dell’uomo di conseguire la conoscenza non sono un ostacolo verso il raggiungimento della verità, ma sono al contrario il materiale e lo strumento che rendono questo raggiungimento, almeno parzialmente, possibile; può infine mostrare (ed è questo che ora precisamente ci interessa) che un adeguato riconoscimento della natura irrazionale degli impulsi e dei desideri umani non costituisce un’obiezione decisiva al primato della ragione, ma offre al contrario la base su cui la ragione si sviluppa, per poi giungere in ultimo ad esercitare il suo ruolo normativo. Ove, come troppo spesso accade, tale ambizione teorica non sia

376

Phaedr. 243a. 377

La fragilità del bene, pp. 391-392. 378

Cfr. F. Trabattoni, Sì può parlare di “unità” della psicologia platonica?

Esame di un caso significativo (Fedone, 68b-69e), in M. Migliori, L. Napolitano

Valditara, A. Fermani (curr.), Interiorità e anima: La psychè in Platone, Milano

2007, pp. 307- 320.

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PLATONE, MARTHA NUSSBAUM, E LE PASSIONI 213

percepita (e dunque sfugga l’esistenza di questi modelli) si genera un insieme sistematico di false opposizioni: c’è un Platone ascetico diverso da un Platone politico, un Platone scettico diverso da un Platone dogmatico, un Platone che esalta la ragione diverso dal Platone che esalta le passioni (un Platone poeta e un Platone che brucia le sue poesie perché convertito alla filosofia). Dopodiché è del tutto naturale che chi, a causa della propria miopia o ristrettezza di vedute, si arresta sul piano di queste opposizioni unilaterali, sia costretto a giustificare la sua posizione dicendo che Platone, da questo dialogo a quest’altro, da questa fase del suo pensiero a quest’altra, ha cambiato idea, o - peggio - ha apertamente ritrattato le sue precedenti posizioni.

Proviamo a verificare la correttezza di questa ipotesi in rapporto al tema della (irrazionale) mania erotica, che secondo la Nussbaum costituirebbe la novità dirompente del Fedro, tale da giustificare l’ipotesi della ritrattazione: laddove il primum era la ragione (Repubblica), ora il primum diventa la passione (irrazionale). Se questa tesi fosse corretta dovremmo rintracciare nel Fedro, e solo nel Fedro, il riconoscimento di un’opposizione insanabile tra desiderio e ragione, mentre negli altri dialoghi la ragione sarebbe in grado di fagocitare completamente gli istinti e le pulsioni irrazionali. Ma così non è. Platone in realtà è sempre coerente nel determinare la natura umana come uno stato peren-ne di desiderio, o di tensione, verso un fine che genericamente si può denominare felicità. Questo stato naturale dell’uomo non è interrogabile o razionalizzabile, perché è semplicemente il dato di fatto primo e fondamentale, dunque irrazionale, da cui è necessario partire: il quadro etico che Socrate espone al giovane Clinia nell’Eutidemo prende le mosse dal dato inequivocabile, non deducibile né giustificabile, che tutti gli uomini sono animati per natura dal desiderio di felicità. Un importante passo del Simposio (204c-205a) chiarisce bene questo punto. Se si chiede ad un uomo perché desidera il bello ed il buono, questi risponderà certamente che egli si aspetta, dal conseguimento del bello e del buono, il raggiungimento della felicità. Ma a questo punto non si può più procedere oltre con l’indagine razionale, in quanto non ha alcun senso chiedere a qualcuno perché egli vuole essere felice. Il desiderio di felicità, dunque, è un dato irrazionale irriducibile, inerente alla natura umana in quanto tale. Né sarebbe necessario aggiungere che tale quadro è accuratamente rispettato nella Repubblica, in cui non solo lo scopo complessivo del dialogo (almeno a partire dal secondo libro) è quello di mostrare come è perché la virtù, e solo quella, renda felici, ma la stessa fondazione dello stato ideale (a cui è

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214 ATTUALITÀ DI PI ATONE

sospesa la possibilità di realizzare la vita buona) prende avvio in primo luogo dai bisogni. In proposito osserva la Nussbaum (il riferimento è al Gorgia, ma il contesto teorico è del tutto analogo):

Non possiamo [si intende, secondo Platone], dunque, determinare il contenuto della vita solamente considerando ciò che soddisfa i vari bisogni che ci è capitato di avere in passato o chiedendo alla persona in preda a quei bisogni che cosa desideri. Dobbiamo guardare alle attività in se stesse e chiederci se esse siano buone

379.

In questa sintetica descrizione della dottrina platonica del valore c’è, a ben guardare, più di un elemento mistificante. Osserviamo in primo luogo che l’esigenza di determinare il contenuto della vita considerando non solamente i desideri che le persone o i gruppi effettivamente manifestano, o hanno manifestato in passato, è una condizione mini- male che certamente non possono trascurare neppure etiche assi meno ambiziose di quella platonica: altrimenti dovremmo prendere per buoni i bisogni, e le relative soddisfazioni, di nazisti, pedofili e terroristi. Se dunque è inevitabile - come evidentemente la Nussbaum raccomanda di fare - prendere le mosse dai desideri reali, è anche vero che si tratta solo del primo passo: se non vogliamo ammettere la legittimità di etiche francamente improponibili, dobbiamo anche ammettere che non tutti i desideri sono leciti, e che dunque è necessario operare nei confronti dei medesimi un lavoro di valutazione e di selezione non troppo diverso, almeno quanto al genere, da quello intentato da Platone. In secondo luogo, quando Nussbaum scrive che (secondo Platone), oltre ai desideri reali occorre tenere conto di ciò che è bene in sé, introduce nella posizione platonica (forse sotto l’influsso delle celebri critiche di Aristotele) una differenza inesistente. Ciò che è bene in se stesso, per Platone, non vale in quanto bene secondo un ordine di priorità che è indifferente alla natura del desiderio. Esso vale in quanto bene proprio e solo perché è pensato come l’unico mezzo in grado di soddisfare il desiderio, una volta ammesso che l’universo dei desideri non può essere acriticamente accolto nella sua superficiale evidenza, ma va riorganizzato e rielaborato in modo da far emergere ciò che è davvero desiderabile.

Qui, in effetti, non sembrano proprio esservi scappatoie. Mettiamoci pure, come la Nussbaum, dal punto di vista dell’etica antica, che prende le mosse dai desideri (non da cose come il dovere) e si prefigge lo scopo di produrre la vita buona (e non, ad esempio, il rispetto di certe leggi). Ora, se non esiste nessun

379

La fragilità del bene, p. 292.

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PLATONE, MARTHA NUSSBAUM, E LE PASSIONI 215

criterio per ordinare e valutare comparativamente i desideri, non sussiste più nessuna etica, se non travestita sotto i panni improbabili di una pedissequa descrizione dei desideri medesimi. Se, viceversa, questo criterio esiste, in linea di principio non ci sono limiti alla sua applicazione. Non si vede come limitare la sua efficacia, ad esempio, alla distinzione desideri leciti ed illeciti, e impedirgli di rimanere attivo anche all’interno dei desideri leciti, per stabilire quali finalità sono più desiderabili di altre, e tentare in questo modo di limitare il conflitto. Ma questa, evidentemente, è già la strada su cui camminano Creonte (si intende, il Creonte della Nussbaum) e Platone. L’unica accortezza che si deve avere è che il.bene sia inteso non già come ciò che trascende il desiderio o che si oppone ad esso, ma precisamente come quell’unica cosa che lo soddisfa: il vero bene (non tutto ciò che la gente ritiene superficialmente buono) è ciò che è davvero desiderabile, ciò che soddisfa quanto possiamo veramente definire desiderio (che non coincide con tutto quanto la gente superficialmente desidera).

E ovvio, beninteso, che l’indagine di Platone può essere scorretta, o può essere considerata tale. Chiunque può ritenere che Platone abbia ordinato e selezionato i desideri in maniera erronea, e che dunque sia pervenuto a una nozione del bene altrettanto sbagliata. Ma nessuno può correttamente affermare che Platone giunga al bene senza partire dal dato irrazionale dei desideri, e senza passare attraverso un’analisi, a tratti anche molto approfondita, ad essi relativa. Si prendano, ad esempio, le celebri pagine del libro VI della Repubblica in cui Socrate accenna all’idea del bene, e dove, anche per oper^delle critiche di Aristotele, può sorgere l’impressione che il bene platonico sia ricavato con un percorso astratto e sostanzialmente distante dal mondo dei bisogni e dei desideri. Quivi Socrate parla dell’idea del bene (o meglio “l’idea del buono”, come correttamente traduce Mario Vegetti

380) nel modo seguente:

certo hai sentito spesso che l’idea del buono è la massima conoscenza, e che grazie alla relazione con essa le cose giuste e così via divengono utili e vantaggiose (xpiiai[ia KCÙ rò(|)é/a|ia Yvyv£Tai)...se non la conosciamo, senza di essa, anche se sapessimo nel modo migliore possibile tutto il resto, sai bene che non sarebbe di alcun giovamento (oì)5èv ri|fìv ò(|)£À,o<;)...

381.

Poi, poche pagine più avanti, Socrate aggiunge:

380

Platone, La Repubblica, Milano 2006 (da cui citiamo). 381

Resp. 505a2-7.

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216 ATTUALITÀ DI PI ATONE

E non è chiaro che per ciò che concerne le cose giuste i più sceglierebbero di fare, di possedere, di far credere le cose che paiono tali, anche se non lo sono, quanto alle cose buone, invece, nessuno si accontenta di possederne di apparenti, bensì tutti ricercano quelle che lo sono davvero, e su questo punto chiunque disprezza l’opinione?

382

Dal primo dei due passi si ricava con chiarezza che il bene ha una relazione essenziale con ciò che è utile o giovevole: gli uomini cercano ciò che è utile e giovevole per loro, per il bisogno che tutti li spinge a procurarsi la propria felicità (v. Eutidemó), e possono soddisfare questo bisogno proprio conoscendo l’idea del buono, che è né più né meno che il criterio in base al quale si può stabilire l’utile e il giovevole di tutte le altre cose. Il secondo passo, a sua volta, mostra l’evidente connessione di ciò che è buono con la soddisfazione di desideri e bisogni. Perché gli uomini potrebbero, all’occorrenza, accontentarsi di possedere la giustizia in apparenza, ma nessuno si accontenta di possedere cose buone in apparenza? Perché la giustizia apparente può essere intesa come un mezzo per procurarsi la soddisfazione del desiderio naturale di felicità, mentre chi rinuncia alle cose buone rinuncia semplicemen-te a soddisfare tale desiderio, rispetto al quale l’apparenza della soddisfazione non offre evidentemente alcun compenso. Del resto, tutto ciò collima perfettamente con il passo del Simposio che citavamo sopra, in cui il desiderio (il dato di partenza irrazionale qui figurato dall’eros) si realizza nel possesso di ciò che è buono, e questo a sua volta è finalizzato al conseguimento della felicità: raggiunta la quale, il desiderio semplicemente cessa.

Stando così le cose, non si dà mai in Platone né il caso in cui la natura umana sia identificata semplicemente con la razionalità, né il caso in cui l’esercizio della ragione costituisca un obiettivo indipendente da, e in contrasto con, il soddisfacimento dei desideri irrazionali. Nella cosiddetta scala amoris che si trova nel Simposio

383 Diotima cerca di mostrare non già che l’uomo debba

sostituire l’esercizio della ragione al desiderio irrazionale del bello, ma che l’uso della ragione è il solo ed unico mezzo tramite il quale il desiderio irrazionale di felicità può essere soddisfatto. E lo stesso desiderio irrazionale, in altre parole, che si converte in razionalità (se convenientemente educato), minimizzando al massimo grado ogni possibile opposizione. Che la faccenda stia in questi termini lo si deduce anche da un passo del libro IX della Repubblica (582a),

382

Resp. 505d5-9. 383

Symp. 210e-212a.

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PLATONE, MARTHA NUSSBAUM, E LE PASSIONI 217

in cui Socrate prende in considerazione tre tipi di vita (o di desi-derio): la vita dedita al piacere, quella dedita all’onore e quella dedita alla conoscenza. Socrate ovviamente opta per quest’ultima, ma con una motivazione assai interessante. Egli non arriva a questa conclusione dicendo, come farà invece Aristotele nelVEtìca Nicomachea, che l’uomo è per essenza un essere razionale. Egli osserva molto più concretamente che solo il filosofo è buon giudice dei desideri e delle relative soddisfazioni, perché è l’unico ad aver provato tutti tre i tipi di piaceri. Con ciò si dimostra, ancora una volta, che per Platone la ragione etica non ha il compito di identificare in astratto che cosa si dovrebbe fare, ma quello di stabilire qual è il modo migliore per portare a compimento il desiderio naturale di felicità.

Dunque, per riassumere, se si ammette che l’etica ha il compito di soddisfare il desiderio oggettivo e irrazionale di felicità, lavorando come principio di organizzazione e di selezione, il bene di cui parla Platone è inteso a tutti i livelli come il mezzo mediante il quale tale desiderio può essere soddisfatto: sia nel senso che la felicità consiste nel possesso di cose buone, sia nel senso che l’idea del buono è il criterio in base al quale una cosa può essere definita buona (utile, giovevole). E chiaro dunque che per Platone il dato irrazionale del desiderio e la determinazione razionale di ciò che è buono non individuano due ordini di realtà distinti e separati (tali per cui il bene diviene la negazione o l’obliterazione del desiderio), ma rappresentano, rispettivamente, il punto di partenza e il punto di arrivo dello stesso percorso: il buono colto e selezionato dalla ragione rappresenta la soddisfazione del desiderio naturale e non razionale (di felicità) comune a tutti gli uomini.

3. Una volta stabilito questo principio, non si può dire tuttavia che la posizione platonica (ci riferiamo a quella criticata dalla Nussbaum nel Protagora e nella Repubblica) sia stata ancora convenientemente difesa. In primo luogo ci potrebbe essere l’obiezione di merito che abbiamo già sollevato. Anche ammesso che la ragione abbia il compito di selezionare accortamente ciò che è davvero desiderabile si potrebbe comunque ritenere che Platone abbia compiuto questa selezione in maniera scorretta, restituendo un’immagine dell’uomo talmente intellettualistica ed ascetica da risultare irrealistica e poco compatibile con l’esperienza. Contro questa obiezione per ora osserveremo soltanto che essa non esclude, ed anzi in un certo modo conferma, l’approccio metodologico di Platone: ciò che ci sarebbe di sbagliato sarebbe solo la scelta specifica del criterio unificante, non la necessità di trovarne uno. Quanto poi al merito di questo

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218 ATTUALITÀ DI PI ATONE

criterio, ossia alla valutazione dell’etica di Platone come davvero ascetica, irrealistica ed antimondana, mi sia consentito ritornarvi sopra più avanti. Più urgente, per ora, è chiedersi se non sia proprio l’approccio metodologico ad essere sbagliato. Siamo sicuri che la naturale complessità dell’esperienza umana tolleri non solo un più o meno moderato lavoro di selezione dei desideri, ma addi-rittura un’unificazione completa sotto l’egida di un solo criterio, come pare essere in Platone (e nel suo supposto alter ego Creonte)?

Qui interviene, come dovunque in Platone, uno di quei modelli teorici elastici e di vasto respiro che per lo più i critici fanno fatica a rintracciare. Le opzioni di massima non rappresentano praticamente mai, in Platone, la fotografia realistica dell’oggetto a cui vorrebbero riferirsi. Sostenere il principio, tanto per citare un esempio tolto dal Fedone, che il filosofo desidera morire, non significa che per Platone esista realisticamente una figura di filosofo il cui unico e vero desiderio è quello di essere morto. Tale principio, infatti, enuncia il modello di una presa di distanza dai beni del corpo a cui il filosofo, se è veramente tale,

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208 ATTUALITÀ DI PLATONK

espressioni di una preferenza, espressioni di un atteggiamento o di un sentimento, e appunto in questo consiste il loro carattere di giudizi morali o di valore

384.

L’etica di Platone, al contrario, ha lo scopo preciso di evitare gli scogli opposti di un’etica umana che non è più umana, perché fondata sulla piena realizzazione dell’ideale unificante promosso da una ragione ignara di emozioni e passioni, e di un’etica umana che non è più etica, perché incapace di ordinare e limitare in un modo qualsiasi l’indeterminata molteplicità conflittuale dei desideri e delle emozioni. Lo strumento per realizzare questo obiettivo consiste nel mantenere aperta la tensione ineliminabile tra reale (molteplice) e ideale (uno), una tensione in cui l’ideale non è mai abbastanza forte per assorbire il reale dentro di sé fino a negare l’autonomia del reale, e il reale non è mai abbastanza autonomo per negare l’esigenza di una progressiva raziona-lizzazione di ciò che è reale alla luce di un modello ideale imitabile.

4. Questo accorto bilanciamento di reale è ideale è visibile in vari modi in tutta l’opera di Platone, e non certo solo nel Fedro (come vorrebbe la Nussbaum). A suo parere il Fedro mostrerebbe qualcosa come la resipiscenza di un vecchio Platone, che finalmente vi riconoscerebbe le ragioni della realtà. La novità enunciata da questo dialogo, osserva la Nussbaum, consisterebbe nel fatto che qui «gli elementi non intellettuali sono fonti necessarie di energia motivazionale» (p. 409). Platone riconoscerebbe, in altre parole, che la ragione da sola non basta a fornire l’impulso verso la vita virtuosa e filosofica, e che al contrario essa ha bisogno dell’energia passionale che sono in grado di fornirle solo gli elementi non intellettuali. Quello che si può riconoscere alla filosofa americana è nessuno degli altri dialoghi platonici sembra riservare un ruolo così importante alla mania. Ma ciò non basta di sicuro ad istituire una differenza così decisiva come quella che vi riscontra la Nussbaum. Già abbiamo visto che in altri dialoghi, (come YEutidemo e il Simposio) Platone non solo riconosce il carattere fondamentalmente irrazionale del desiderio, ma anche ammette che questo stato di desiderio costituisce la natura essenziale dell’essere umano. Se poi passiamo ai grandi progetti educativi della Repubblica e delle Leggi, ben si vede fino a che punto Platone fosse persuaso che l’esercizio della ragione da solo non basta a sviluppare nell’individuo, e nelle comunità, la vita buona. Si può anche aggiungere che questa tesi viene portata alle

384

A. Me Intyre, After Virtue. A Study in Maral Theory, Notre Dame 1981 (tr. it. Roma 2007

2, p. 41).

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PLATONE, MARTHA NUSSBAUM, E LE PASSIONI 213

sue estreme conseguenze nelle ultime pagine del Timeo, in cui il conduttore del dialogo si spinge sino ad affermare che la cattiva condotta morale di un uomo può essere prodotta anche da una cattiva conformazione fisica

385.

Ma quello che forse è ancora più grave è che la Nussbaum non dà alcuna spiegazione adeguata del perché Platone avrebbe sentito il bisogno di sostenere la sua proposta filosofica con fonti di energia tolte dall’irrazionale. Secondo la sua analisi si tratterebbe solo di una felice eccezione, documentata dal Fedro, all’interno di un razionalismo perva- sivo e quasi soffocante. Ma se la faccenda è messa in questo modo non si capisce assolutamente niente: se la cifra fondamentale della filosofia di Platone fosse il razionalismo di cui si è detto, come si spiega l’eccezione del Fedro? O - ancora peggio: se avesse ragione Nussbaum, il Fedro non costituirebbe forse un sorta di confutazione del platonismo prodotta dallo stesso Platone?

In effetti così non è. Se per Platone la filosofia è più o meno obbligata, e non solo nel Fedro, a ricorrere a motivazioni di carattere irrazionale, ciò dipende dalla natura metafisica del suo oggetto (che la Nussbaum, viceversa, non vede e dunque non prende in considerazione). La parte accattivante e moderna del Fedro, ossia quella in cui si fa largo spazio all’irrazionale, alle emozioni e alle passioni, non può essere isolata dalla sua parte più arcaica e meno attuale, in cui Socrate tratteggia lo schema, sia pure nella veste immaginifica del mito, di una metafisica inequivocabilmente dualistica. Quivi si legge, in particolare, che gli oggetti di cui il filosofo vorrebbe venire a conoscenza sono pie-namente e direttamente visibili solo all’anima disincarnata, perché appartengono a un mondo separato e diverso da quello in cui si trova a vivere il composto umano di corpo e anima. Ecco dunque spiegata la debolezza della filosofia, e la sua necessità di ricorrere all’energia offerta dagli stimoli non razionali: perché il filosofo non è sapiente (sophos) come gli dei

386, e dunque è nella perpetua

condizione di aspirare in eterno a ciò che non potrà mai possedere in maniera completa. Se è vero, come si legge nel Simposio, che il sapiente è precisamente colui che ha già soddisfatto per intero il suo desiderio (e dunque non è più filosofo, non è più amante del sapere), allora è anche vero che il filosofo deve supplire al suo imperfetto sapere con una passione irrazionale, e indefessa, a conseguirlo. Se il filosofo è colui che aspira a conoscere oggetti, come le idee, che appartengono a un’altra dimensione, quanta

385

Turi. 86b-87b. 386

Phaedr. 278d (cfr. anche Lys. 218a, Symp. 204a).

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PLATONE, MARTHA NUSSBAUM, E LE PASSIONI 213

passione ci vuole affinché continui per tutta la vita a dedicarsi ad una impresa così difficile? Perché, stando così le cose, non si dedica alla ricerca di qualcosa di più facile da conseguire (come il piacere o

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PLATONE, MARTI IA NUSSBAUM, E LE PASSIONI 215

dovrebbe tendere come sua misura ideale, dove è però evidente che la perfetta realizzazione del modello sottrarrebbe al filosofo la sua stessa umanità. La piena realizzazione del modello, in altre parole, ha l’effetto immediato di annullare la differenza che separa il modello stesso dalle realtà inferiori che lo imitano, che ipso facto cesserebbero di esistere come imitazioni. In questo senso è impossibile, ontologicamente parlando, che il modello sia realizzato, perché in questo modo verrebbe meno quella differenza tra mondo reale e mondo ideale che costituisce il cuore di tutta la metafisica di Platone. Tuttavia questo non impedisce che il modello sia oggetto di imitazione, più o meno appros-simativa. La necessaria approssimazione di ciò che imita garantisce la sua esistenza indipendente da ciò che è imitato, garantisce l’esistenza di un mondo sensibile accanto a un mondo intelligibile, di una città di uomini accanto alla città degli dei, di una comunità di filosofi accanto alla comunità dei sophoi (che, poi, sono ancora gli dei).

Questo discorso, tradotto nei termini dell’argomento di cui stiamo parlando ora, significa che nel mondo umano l’unificazione sotto l’egida del bene non è e non può essere mai completa, ma solo e sempre approssimativa: dunque che è impossibile eliminare definitivamente tutti i conflitti. La posizione platonica non ha come suo tratto essenziale, contrariamente a quanto la Nussbaum lascia intendere, una perfetta riduzione dei conflitti all’unità di una sola via d’uscita (quasi che Emone - per tornare al nostro esempio - ove gli convenisse rinunciare ad Antigone non provasse per questo alcuna sofferenza), ma la loro riduzione al minimo, intesa come progressiva e mai perfettamente compiuta approssimazione all’unità. Se infatti non fosse possibile in nessun modo compiere un’operazione di questo genere - se, in altre parole, il conflitto tra i vari beni non fosse neppure approssimativamente componibile - l’uomo non avrebbe alcuna speranza di conseguire la felicità, neppure in modo parziale. Questa parzialità, d’altra parte, è al tempo stesso il limite e la possibilità entro cui il rapporto imitazione-modello circoscrive l’esperienza umana. L’esistenza del modello chiarisce al tempo stesso che l’imitazione è possibile ma è anche destinata a rimanere imperfetta. Il modello delfunificazione completa, ove posto compiutamente in atto, realizzerebbe la piena e perfetta felicità. Ma questa piena e perfetta felicità sanzionerebbe l'avvenuta trasformazione del-l’uomo in dio, ossia la perdita di quella tensione desiderante che costituisce la cifra della condizione umana in quanto tale (e che la distingue da quella divina).

Qui si rivelano, a mio parere, tutte le difficoltà inerenti alle immagini massimaliste, o in vari modi estreme, dell’antropologia

Page 262: Franco Trabattoni

212 ATTUALITÀ DI PI ATONE

platonica. Che per Platone sia presente nell’uomo una fondamentale tensione all’autosuperamento credo che non possa essere messo in dubbio. Ma se non si presta attenzione alle infinite manovre retrograde che il testo platonico ci offre, ai numerosi e vari contesti in cui questo autosuperamento si configura come un’idea-limite valida soprattutto in quanto criterio per ordinare e strutturare la vita presente, la spinta all’autosupe- ramento finisce per configurare una situazione in cui l’uomo raggiunge un’esistenza adeguata al suo concetto solo quando ha perduto i caratteri distintivi della sua umanità: solo quando l’uomo, in altre parole, non c’è più

387. Quello che ne risulta è che la

filosofia di Platone, non importa se si consideri ciò come un pregio o come un difetto, diviene antiumanistica nella sua essenza: il compimento dell’etica e della politica di Platone trascende, e perciò nega, la dimensione umana. Dunque, se esistono per l’uomo in quanto uomo un’etica e una politica praticabili, non possono essere un’etica e una politica platoniche. E tuttavia, quando ci si accinge a costruire un’etica e una politica della vita buona ci si accorge ben presto che, senza una certa dose di “platonismo minimo” (che poi, a mio avviso, coincide semplicemente con il platonismo tout court), nessuna etica e nessuna politica di questo tipo sono possibili. Se il supposto “platonismo massimo” prevede la piena unificazione del bene e dei desideri, è però anche vero che nessuna etica può essere edificata senza un ordinamento gerarchico dei desideri, per quanto approssimativo, condotto sulla base di un criterio unitario (anch’esso approssimativo). In caso contrario, infatti, non

387

Ha scritto in proposito J. Annas: «Becoming like God, or assimilating

one- self to Good, is not meant as an alternative to thè idea that virtue is

sufficient for happiness; it is just a specification of what happiness is.

Moreover, thè idea is also not intended as an alternative to thè idea that virtue

is sufficient for happiness: for it is explicated, in many of thè passages in

which it occurs, by thè thought that becoming like God is what becoming

virtuous is». Ma questo significa appunto, come Annas mette chiaramente in

luce poche righe dopo, che «we seem here to have thè idea that virtue turns a

human life into something different in kind» (PlatonicEthics, Old and New,

Ithaca and London, 1999, p. 53). In effetti non è troppo difficile mostrare, in

Platone, l’incidenza del telos colto dalla formula ó(ioicooic Secò (cfr. S.

Lavecchia, Una via che conduce al divino. La "homoiosis theo" nella filosofia

di Platone, Milano 2006). Se tuttavia si trascura il fatto che questa

assimilazione a dio rappresenta soprattutto il modello regola- tivo che

consente al filosofo di vivere correttamente nel mondo, e non una realistica

trasfigurazione che lo lo allontana e lo separa definitivamente da esso, ne

risulta un’immagine della filosofia di Platone sostanzialmente distorta. E tale

rimane anche se si tratta, indubbiamente, di una disorsione nobilitata da una

lunga e ricca tradizione (dal medio al neoplatonismo e oltre).

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PLATONE, MARTI IA NUSSBAUM, E LE PASSIONI 215

resterebbe altra etica che quella denominata da Mclntyre come “emotivismo”:

L’emotivismo è la dottrina secondo cui tutti i giudizi di valore, e più specificamente tutti i giudizi morali, non sono altro che espressioni di una preferenza, espressioni di un atteggiamento o di un sentimento, e appunto in questo consiste il loro carattere di giudizi morali o di valore

388.

L’etica di Platone, al contrario, ha lo scopo preciso di evitare gli scogli opposti di un’etica umana che non è più umana, perché fondata sulla piena realizzazione dell’ideale unificante promosso da una ragione ignara di emozioni e passioni, e di un’etica umana che non è più etica, perché incapace di ordinare e limitare in un modo qualsiasi l’indeterminata molteplicità conflittuale dei desideri e delle emozioni. Lo strumento per realizzare questo obiettivo consiste nel mantenere aperta la tensione ineliminabile tra reale (molteplice) e ideale (uno), una tensione in cui l’ideale non è mai abbastanza forte per assorbire il reale dentro di sé fino a negare l’autonomia del reale, e il reale non è mai abbastanza autonomo per negare l’esigenza di una progressiva raziona-lizzazione di ciò che è reale alla luce di un modello ideale imitabile.

4. Questo accorto bilanciamento di reale è ideale è visibile in vari modi in tutta l’opera di Platone, e non certo solo nel Fedro (come vorrebbe la Nussbaum). A suo parere il Fedro mostrerebbe qualcosa come la resipiscenza di un vecchio Platone, che finalmente vi riconoscerebbe le ragioni della realtà. La novità enunciata da questo dialogo, osserva la Nussbaum, consisterebbe nel fatto che qui «gli elementi non intellettuali sono fonti necessarie di energia motivazionale» (p. 409). Platone riconoscerebbe, in altre parole, che la ragione da sola non basta a fornire l’impulso verso la vita virtuosa e filosofica, e che al contrario essa ha bisogno dell’energia passionale che sono in grado di fornirle solo gli elementi non intellettuali. Quello che si può riconoscere alla filosofa americana è nessuno degli altri dialoghi platonici sembra riservare un ruolo così importante alla mania. Ma ciò non basta di sicuro ad istituire una differenza così decisiva come quella che vi riscontra la Nussbaum. Già abbiamo visto che in altri dialoghi, (come YEutidemo e il Simposio) Platone non solo riconosce il carattere fondamentalmente irrazionale del desiderio, ma anche ammette che questo stato di desiderio costituisce la natura

388

A. Me Intyre, After Virtue. A Study in Moral Theory, Notre Dame 1981 (tr.

it. Roma 20072, p. 41).

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214 ATTUALITÀ DI PI ATONE

essenziale dell’essere umano. Se poi passiamo ai grandi progetti educativi della Repubblica e delle Leggi, ben si vede fino a che punto Platone fosse persuaso che l’esercizio della ragione da solo non basta a sviluppare nell’individuo, e nelle comunità, la vita buona. Si può anche aggiungere che questa tesi viene portata alle sue estreme conseguenze nelle ultime pagine del Timeo, in cui il conduttore del dialogo si spinge sino ad affermare che la cattiva condotta morale di un uomo può essere prodotta anche da una cattiva conformazione fisica

389.

Ma quello che forse è ancora più grave è che la Nussbaum non dà alcuna spiegazione adeguata del perché Platone avrebbe sentito il bisogno di sostenere la sua proposta filosofica con fonti di energia tolte dall’irrazionale. Secondo la sua analisi si tratterebbe solo di una felice eccezione, documentata dal Fedro, all’interno di un razionalismo perva- sivo e quasi soffocante. Ma se la faccenda è messa in questo modo non si capisce assolutamente niente: se la cifra fondamentale della filosofia di Platone fosse il razionalismo di cui si è detto, come si spiega l’eccezione del Fedro? O - ancora peggio: se avesse ragione Nussbaum, il Fedro non costituirebbe forse un sorta di confutazione del platonismo prodotta dallo stesso Platone?

In effetti cosi non è. Se per Platone la filosofia è più o meno obbligata, e non solo nel Fedro, a ricorrere a motivazioni di carattere irrazionale, ciò dipende dalla natura metafisica del suo oggetto (che la Nussbaum, viceversa, non vede e dunque non prende in considerazione). La parte accattivante e moderna del Fedro, ossia quella in cui si fa largo spazio all’irrazionale, alle emozioni e alle passioni, non può essere isolata dalla sua parte più arcaica e meno attuale, in cui Socrate tratteggia lo schema, sia pure nella veste immaginifica del mito, di una metafisica inequivocabilmente dualistica. Quivi si legge, in particolare, che gli oggetti di cui il filosofo vorrebbe venire a conoscenza sono pie-namente e direttamente visibili solo all’anima disincarnata, perché appartengono a un mondo separato e diverso da quello in cui si trova a vivere il composto umano di corpo e anima. Ecco dunque spiegata la debolezza della filosofia, e la sua necessità di ricorrere all’energia offerta dagli stimoli non razionali: perché il filosofo non è sapiente (sophos) come gli dei

390, e dunque è nella perpetua

condizione di aspirare in eterno a ciò che non potrà mai possedere in maniera completa. Se è vero, come si legge nel Simposio, che il sapiente è precisamente colui che ha già soddisfatto per intero il

389

Tini. 86b-87b. 390

Phaedr. 278d (cfr. anche Lys. 218a, Symp. 204a).

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PLATONE, MARTI IA NUSSBAUM, E LE PASSIONI 215

suo desiderio (e dunque non è più filosofo, non è più amante del sapere), allora è anche vero che il filosofo deve supplire al suo imperfetto sapere con una passione irrazionale, e indefessa, a conseguirlo. Se il filosofo è colui che aspira a conoscere oggetti, come le idee, che appartengono a un’altra dimensione, quanta passione ci vuole affinché continui per tutta la vita a dedicarsi ad una impresa così difficile? Perché, stando così le cose, non si dedica alla ricerca di qualcosa di più facile da conseguire (come il piacere o

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ATTUALITÀ DI PIATONE 214

l’onore)? Per la forza, del tutto irrazionale, del suo amore per il sapere. Se il filosofo non fosse soccorso dalla passione per l’oggetto che desidera, essendo questo oggetto talmente lontano dalla vita di tutti i giorni che gli uomini comuni ne negano persino l’esistenza

391, probabilmente abbandonerebbe presto l’impresa.

Se, al contrario, l’oggetto che desidera fosse facilmente disponibile nella vita presente, la filosofia non avrebbe affatto bisogno dell’energia irrazionale di cui parla la Nussbaum. Il filosofo, in questo caso, sarebbe semplicemente un uomo che trova regolarmente quello che cerca, e potrebbe vivere tutta la sua vita come tranquillo e pacato uso della ragione, senza alcun bisogno di ricorrere all’irrazionale, alla mania, all’eros.

La natura metafìsica, dunque separata, dell’oggetto proprio della conoscenza filosofica fa sì che l’impresa della filosofia sia sempre per l’uomo una sorta di “seconda navigazione”, ossia - chiarendo una metafora che Platone usa tre volte nei suoi dialoghi

392 - un tentativo di trovare una soluzione

approssimativamente accettabile, nella consapevolezza che la soluzione definitiva non è mai disponibile. Se la prima navigazione è la perfetta conoscenza delle idee accessibile solo all’anima di-sincarnata, la seconda navigazione, disponibile all’uomo nella sua condizione mortale, è una conoscenza approssimativa e fallibile delle idee, conseguita grazie soprattutto alla forza di una passione incapace di accontentarsi, nonostante la difficoltà dell’impresa, di obiettivi più bassi

393.

Questa metafora potrebbe essere applicata, forse con qualche azzardo, anche all’ultima parte del secondo discorso di Socrate nel Fedro. Quivi Socrate descrive la forma perfetta di amore, inattaccabile dalle seduzioni corporee, come la via migliore per condurre l’anima al recupero delle ali e dunque alla visione dell’intelligibile:

Si verifichi ora la condizione che prevalgano gli elementi più eletti dell’anima, quelli che portano a una norma di vita ordinata e all’amore per la sapienza. In tal caso, con perfetta felicità e concordia essi trascorrono la vita su questa terra (HctKccpióv (j.èv Kdì ò^ovoriTiKÓv xòv év0à5e plov Sidyoatv), attuando il

391

Cfr. Resp. 478e-479a, Parm. 134e-135b. 392

Phaed. 99c, Poi 300c, Phìl 19c. 393

Per il corretto significato della metafora "seconda navigazione" cfr. S.

Martinelli Tempesta, Sul significato di Sewepoq nel Fedone di Platone, in M.

Bonazzi - F. Trabattoni 2003 (curr.) Platone e la tradizione platonica. Studi di

filosofia antica, Milano 2003, pp. 89-125. Per il suo uso filosofico in Platone

cfr. F. Trabattoni, Platone, Roma 1998, pp. 136-138.

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PLATONE, MARTI IA NUSSBAUM, E LE PASSIONI 215

dominio di sé e l’armonia interiore, perché hanno soggiogato i fattori che determinavano il sorgere della malvagità dell’anima e affrancati invece quelli che suscitavano la virtù. Eccoli giunti al termine: divenuti alati e leggeri, delle tre lotte veramente olimpiche, una ne hanno vinta e nessun bene maggiore di questo l’umana saggezza o la divina mania possono offrire all’uomo

394.

Queste parole, a ben vedere, dovrebbero suggellare in modo conclusivo tutto il discorso che il dialogo ha svolto sin dalla lettura del discorso di Lisia. All’amore di segno negativo di cui si parlava sia in quel discorso sia nel primo discorso di Socrate, si è passati a una opposta valutazione dell’eros e della mania che ne costituisce la sostanza: l’eros se correttamente inteso e condotto, produce una perfetta felicità, una situazione assolutamente statica di esercizio della virtù e di ripulsa del vizio che prepara senza più sussulti o mutamenti il passaggio dell’anima a miglior vita. E tuttavia il discorso di Socrate non finisce qui, ma prosegue fino a descrivere anche l’opposta condizione, quella di chi si ispira

a un tenore di vita meno elevato, bramoso non di saggezza ma di onori: in questa eventualità i cavalli ribelli di entrambi [se. l’amante e l’amato], sottoposti al giogo, riescono forse a sorprendere in qualche modo gli animi incustoditi nell’abbandono dell’ebbrezza o di qualche altra negligenza e, tratti insieme alla stessa meta, afferrano quel partito che a giudizio della moltitudine appare invidiabile e lo portano a compimento

395.

Abbiamo qui a che fare, in altre parole, con l’amore che non sempre riesce a rimanere all’altezza dei puri valori dell’anima, ma devia di quando in quando (sempre meno, con il passare del tempo) verso le soddisfazioni corporee. Ebbene, anche il risultato di questo amore non è disprezzabile; anche in questo caso i due contraenti possono essere detti amici, sia pure di grado inferiore ai primi. Né è loro affatto precluso il raggiungimento della meta finale:

E al termine della vita, se non alati, almeno dopo aver aspirato a divenirlo (d)p|xr|KÓTr|Q 8è 7ixepoùa0a.t), abbandonano il corpo, cosicché non mediocre è il premio che dall’amorosa mania essi riportano, poiché non più verso l’oscurità e verso il sentiero sotterraneo è legge che muovano coloro che hanno già iniziato il

394

Phaedr. 256a7-b7 (qui, e anche nei passi successivi, riportiamo

la traduzione di Linda Untersteiner Candia). 395

Phaedr. 256b7-c5.

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218 ATTUALITÀ DI PI ATONE

cammino che si svolge sotto il cielo (xoit; Kaxr|py|iévoi<; t^St] xf\q ÙTurupavlou Ttopeiat;). Essi devono, al contrario, nel corso di una splendida esistenza, raggiungere la felicità procedendo l’uno accanto all’altro, e divenire alati insieme, per virtù d’amore, quando dovranno esserlo

396.

Dunque Socrate ha parole di comprensione anche per l’eros che di tanto in tanto traligna, che in qualche caso non riesce a restare al

livel lo perfetto dell’amore purissimo, totalmente ed esclusivamente filosofico. Il giro, in questo caso, è più lungo, ma può comunque condurre alla stessa meta. Qui, a ben vedere, ciò che è primo dal punto di vista dell’ideale diviene secondo dal punto di vista della realtà (e viceversa), perché l’effettiva condizione umana è assai più simile a questa che all’altra. L’amore perfetto designa la vita statica di chi ha già realizzato tutto il suo desiderio, quasi una prefigurazione qui sulla terra della divinità futura che attende l’uomo dopo la morte. E tuttavia, come dirà nel V secolo d. C. il lontanissimo discepolo di Platone Damascio, coloro che un giorno diventeranno dei prima devono essere uomini

397; ed è inerente alla

condizione imperfetta dell’essere umano la possibilità della caduta e del fallimento. Come recita tutta la sapienza greca, fin di miti più antichi e dalle più venerate sentenze, l’umanità dell’uomo e la divi-nità di dio non possono mai essere ridotte alla stessa cosa: fino a che l’uomo è uomo, la differenza in rapporto al divino è la cifra della sua umanità. Ma la perfetta realizzazione dell’amore segnerebbe, appunto, l’eclissarsi di quella differenza, e darebbe così origine a una situazione contraddittoria. Tale contraddizione è accuratamente segnalata da Platone in una delle frasi che abbiamo citato. Se la perfetta felicità (p.aKaptÓTr|<;) è la contromarca distintiva degli dei, come potrebbe essere possibile che sia naicàpiov già xòv èv0d5e (M.ov? Non è possibile, e Platone, ancora una volta, lo sottolinea: il grande discorso di Socrate non si chiude con l’esaltazione della vita perfetta (come quella degli dei e dei sophoi), ma con un ragionevole apprezzamento della vita che ha iniziato il suo cammino verso la direzione giusta (come quella degli uomini che, grazie al corretto uso dell’eros, riescono a diventare philo- sophoi), della vita che non ha ancora realizzato il bene, ma se ne lascia guidare come da un modello imitabile sempre e solo nei limiti delle possibilità e delle debolezze umane. Come si legge in un celebre passo del Filebo, nella gara per la felicità l’uomo concorre solo per il secondo

396

Phaedr. 256d3-e2. 397

Vita Isidori 292, 6-11 (Phot. Ep., 242, 227).

Page 269: Franco Trabattoni

PLATONE, MARTI IA NUSSBAUM, E LE PASSIONI 215

posto398

: perché si porta dietro sempre, fino a che è uomo, tutte le sue emozioni e tutti i suoi desideri, insieme al mai totalmente azzerabile carico di instabilità e di inquietudine che la loro presenza comporta.

398

Phil. 22c-e.

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Capitolo XI

Sulle tracce dell’armonia: Enzo Paci, il telos e i Greci399

Devo confessare che la prima volta che sono entrato, come docente, nell’aula 211 dell’Università Statale di Milano, non ho potuto trattenere una certa emozione. Lì avevo ascoltato, ancora studente liceale, alcune lezioni di Mario Dal Pra. Poi, iscritto come matricola di filosofia all’anno accademico 1975-1976, in quella stessa aula avevo avuto la fortuna di assistere all’ultimo corso universitario di Enzo Paci. Il miei ricordi sono per la verità abbastanza confusi, sia perché frequentavo le lezioni in modo saltuario, sia perché Paci appariva ormai piuttosto affaticato, e non era sempre limpido nel suo modo di esprimersi. Ma mi è rimasto particolarmente impresso il meditato e costruttivo ottimismo che emanava dalle sue parole. Certo non è un caso che la prima parte del suo ultimo corso fosse dedicata proprio a Leibniz, il filosofo secondo il quale «Dio aveva fatto sì che l’accordo potesse essere possibile e che se c’è un fine di tutte le entelechie, questo fine sarà appunto l’armonia. Si comincia bene e si finisce meglio del bene...»

1. E un ottimismo analogo traspariva anche dalla seconda

serie di lezioni, dedicate a Husserl, ma centrate soprattutto sull’idea di un telos che idealmente si ricongiunge all’armonia leibni- ziana

2: un telos che Paci ripetutamente, con un’insistenza

che aveva a un tempo qualcosa di ingenuo e di commovente, sintetizzava con la formula «un mondo in cui tutti sono soggetti e nessuno oggetto».

Ricordo bene che questo suo ottimismo non mi convinceva molto. Dai rari commenti che ho rinvenuto su quella vecchia dispensa risulta che il telos di cui Paci parlava era a mio avviso troppo povero di contenuto per costituirsi come un chiaro e definito

399 Sulle tracce dell'armonia. Enzo Paci, il telos e il Greci, in E. Renzi-G.

Scaramuzza (a cura di), Omaggio a Paci. II. Incontri, Cuem, Milano 2006, pp.

219-237. 1 Enzo Paci, Il problema della monadologia da Leibniz a Husserl per una

concezione scientifica e umana della società. Lezioni dell anno accademico

1975- 76, a cura di Silvana Merati, Milano 1976, p. 16. 2 Scrive Paci che Husserl, proprio in riferimento ali’intersoggettività,

dopo

il richiamo a Cartesio delle Meditazioni Cartesiane «sente più tardi il

bisogno di riferirsi a Leibniz» (ivi, p. 8).

Page 272: Franco Trabattoni

220 ATTUALITÀ DI PLATONK

obiettivo da perseguire. Che mondo è il mondo in cui tutti gli uomini sono soggetto e nessuno oggetto? E il mondo in cui ciascuno è libero di perseguire i propri fini e in cui nessuno, secondo la celebre formula kantiana, è ridotto a mezzo definito nello spazio e nel tempo, in cui accadono il dolore e la dispe-razione non escluda il passaggio (o la metabolé. su questo concetto dovremo ritornare) ad una armonia futura. Per i teologi cristiani questo problema si configura come l’esigenza di salvaguardare la verità della croce senza che la verità della risurrezione la degradi ad apparenza, fantasma, opinione. E per certi versi il problema uguale e contrario a quello così efficacemente esposto nel brano del Grande Inquisitore dei Karamazov. non si tratta di trovare il modo in cui la redenzione possa annullare il dolore innocente, dissolvendo la sua cruda e concreta temporalità alla luce immateriale dello spirito; si tratta, proprio all’opposto, di salvare la dignità dell’esperienza e del dolore dell’uomo, che non desidera una redenzione (o una armonia) che pregiudichi la verità del tempo e degli eventi che hanno segnato la sua vita. Paci, attento lettore di due grandi tragici dell’epoca moderna come Fédor Dostoevskij e Thomas Mann, a questo problema era particolarmente sensibile. Così l’assunto da rispettare risulta chiaramente delineato: trovare il passaggio verso l’armonia salvando la realtà del tragico, dove la difficoltà già di per sé enorme di raggiungere il primo obiettivo è cospicuamente accresciuta dall’obbligo di conseguire anche l’altro, che ad esso pare contraddittorio.

Inizieremo dal tragico, ripercorrendo a questo fine le pagine che Paci, nella Storia del pensiero presocratico citata sopra, ha dedicato ai tre grandi protagonisti della tragedia attica. Prima però è necessario dire qualcosa di questo lavoro, che non è certo tra i più noti della produzione paciana. Paci lo scrisse in seguito a una serie di trasmissioni radiofoniche il cui argomento era appunto il pensiero presocratico (il che ci fa rimpiangere, una volta di più, la Rai di altri tempi). Avverte Paci nella Prefazione di aver non solo rielaborato il testo radiofonico per la stampa, ma anche di averlo arricchito ponendolo in relazione «con la storia della letteratura, della religione, della scienza, della tecnica, dell’arte, delle vicende politiche, di tutta intera la civiltà greca». Il che non annacqua, peraltro, la “filosoficità” del lavoro, perché questo ampliamento di orizzonte, come ricorda ancora l’A., corrisponde a una sua intima convinzione, secondo la quale non è possibile «una storia della filosofìa separata dalla storia della cultura e della civiltà»

400. Dire

400

Ivi, p. 7.

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ENZO PACI, IL TEI.OS E I GRECI 221

che quest’opera sia un libro “storico-filosofico” sarebbe, peraltro, troppo e troppo poco al tempo stesso. Come si desume dalle note bibliografiche e dagli autori citati nel testo, Paci dimostra una discreta conoscenza dei principali studiosi allora di riferimento: tra gli stranieri menzioniamo Cherniss, Cornford, Dupréel, Farrington, Th. Gomperz, Jaeger, Kérenyi, Murray, Nestle, Stenzel, e Zeller, mentre tra gli italiani campeggiano (per citare solo gli storici della filosofia propriamente detta) i nomi di Bignone, Calogero, Capizzi, Maddalena, Mondolfo, Untersteiner (che sono poi i grandi protagonisti di una stagione di studi presocratici italiani rimpianta e forse irripetibile). Inoltre Paci evita accuratamente (ciò che viceversa non faranno i più comuni manuali ancora per molti anni) alcuni infondati stereotipi storiografici (valga per tutti l’idea da tempo tramontata di un Eraclito “filosofo del divenire”); opera alcune ripartizioni meditate ed impegnative (come quella di trattare Filolao a parte dal più antico pitagorismo); sceglie di leggere la filosofia presocratica attenuando considerevolmente la distinzione tra presocratici propriamente detti e sofisti, rilevando che il supposto divario tra “filosofi che studiano la natura” e “filosofi che studiano l’uomo” non è del tutto realistico (come la critica più aggiornata ha ben riconosciuto). Ciononostante, Paci sviluppa un complesso lavoro filosofico all’interno di ciascun pensatore - in parte seguendo il filo conduttore dei suoi interessi teoretici -, con il risultato che certe ricostruzioni appaiono deformate, o in qualche modo forzate a rap-presentare anticipazioni di futuri sviluppi. Basterà citare, anche qui, solo qualche caso, come quello di Parmenide (identificato, in modo abbastanza improbabile, come il filosofo della contraddizione, per cui «il contraddittorio, fin dall’inizio, è necessario alla verità»

401) o

quello di Empedocle (una sorta di umanista che pone per primo il problema del soggetto) e di Anassagora (precorritore di Leibniz e Cantor). Non ho intenzione, tuttavia, di soffermarmi su questi problemi: un lavoro di ripensamento filosofico degli antichi non è in linea principio illecito, soprattutto quando - come in questo caso - gli esiti di un tale lavoro sono a volte assai interessanti.

Dunque torniamo ai tragici. Il pensiero tragico, come è abbastanza ovvio, si fonda sul dato di una contraddizione, che almeno apparentemente sembra insanabile. In Eschilo, secondo Paci, i termini della contraddizione sono in primo luogo quelli di finito e infinito: la colpa umana, simbolizzata una volta per tutte dalla colpa di Oreste, è quella di «esistere nel finito, di distaccarsi

401

Ivi, p. 67.

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222 ATTUALITÀ DI PLATONK

dall’infinito e di cadere nell’indeterminato»402

(qui Paci si riferisce espressamente ad Anassimandro). Nel Prometeo, invece, sullo sfondo «dello Zeus eschileo si profila l’antinomia filosofica tra l’essere e il divenire. Se Zeus è l’essere assoluto, tirannico di Parmenide, Prometeo ha ragione di ribellarsi ed il vero dio sarà allora Prometeo e non Zeus»

403. Giova ricordare, a questo

proposito, che per Paci Parmenide è il filosofo dell’unità e identità assoluta dell’essere, che rifiuta pervicacemente ogni tipo di mediazione. E appunto per que-

402

Ivi, p. 184. 403

Ivi, p. 190.

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ATTUALITÀ DI PLATONE 224

metà di cui si compone ogni numero pari con due file di punti convergenti verso l’alto come i lati di un triangolo, notiamo subito che il triangolo che ne risulta è incompleto e illimitato (nel senso di “privo di limite”). Tra i due punti più alti corre infatti uno spazio vuoto, che può essere colmato solo da un altro punto, comune ad entrambe le serie, il quale definisca lo spazio non finito e conferisca completezza e perfezione al disegno. Ma questo punto è figura di ciò che in tutta la tradizione pitagorica e neopitagorica antica (Platone compreso) è a un tempo il Limite (l’Uno) o il Bene. Solo apparentemente questo punto è un punto come gli altri, che agli altri si aggiunge. Per i pitagorici l’Uno non era né pari né dispari, ma superiore ad entrambi, poiché di entrambi è il principio generativo (aggiungendo una unità a un numero pari si genera un numero dispari, e viceversa). Il punto/unità è infatti è il Limite-Bene che governa dall’altp la realtà molteplice e illimitata, è bontà essenziale che conferisce alle cose la bontà derivata nella misura precisa in cui ciascuna di esse è capace di riceverla; è la forma che impartisce l’ordine alla materia. Nella stessa filosofia di Platone la mediazione tra uno (limite) e molteplice (illimitato), salva i diritti del molteplice (contro la minaccia di annullamento da parte dell’Uno-esse- re parmenideo), ma conserva al tempo stesso la superiorità dell’uno- limite-forma. La polis di Platone nasce dalla conformazione della materia a un ordine che la trascende; perciò non nasce da un patto tra l’uomo e dio, nulla viene messo ai voti, e l’unica vera relazione (sia essa dialettica, dialogo, o dibattito politico) si sviluppa sempre e solo unter Ungleichen

u. La quantità

di bene che appare è direttamente proporzionale alla misura dello squilibrio che si produce all’interno della relazione, e inversamente proporzionale alla libertà degli uomini che vi prendono parte.

Qualcosa di molto simile accade con il voto di Atena: la quale, prima di essere personificazione di Atene, è simbolo del sapere dominante che discende direttamente da Zeus. La dea, infatti, agisce super partes, e può determinare la scelta positiva proprio e solo perché recupera le caratteristiche dell’essere, del dio, dell’uno, della legge e della forma dismesse - sempre secondo l’interpretazione di Paci - dallo Zeus del Prometeo. Votando a favore dell’assoluzione, la dea agisce come deus ex machina che si sottrae alla relazione: in tal modo frantuma dall’alto ad un tempo l’isonomia della polis (alterando la parità dei voti) e la libertà dell’uomo. L’uomo che rivendica la realtà del suo essere libero ha

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ENZO PACI, IL TEI,OS E I GRECI 225

diritto di conservare la propria incertezza, mentre l’intervento divino impone al divenire quel telos che l’uomo, da solo con la sua libertà, non sarebbe in grado di trovare: fino a che egli si attiene alla relazione egli non sa dire quali siano le scelte che conducono, rispettivamente, al bene e al male. La polis democratica è stata fondata, infatti, con il concorso di un dio che ha pattuito di rispettare la libertà. Ma quando poi la dea marca e segnala la direzione corretta, la relazione è persa, e la libertà si mostra come mera apparenza.

Lo stesso problema di Eschilo è affrontato, per Paci, anche da Sofocle. Ma è reso più acuto da una più profonda consapevolezza esistenziale, ed anche la soluzione che egli intravide è di più ampio respiro. Sofocle è «è il poeta della duplicità esistenziale, dell’ambiguità drammatica della situazione umana»

15, e questo,

prosegue Paci, «è il problema dell’incarnazione dell’eterno nel tempo, il problema della relazione tra il divenire e l’essere, tra 1’"occasione” e la divinità, tra la molteplicità e l’unità...»

16. Questa

ambiguità e duplicità dell’esistenza «si rivela alla fine, in Sofocle, come duplicità del male e del bene»

17. Per Sofocle, a differenza di

Eschilo, tale problema può tuttavia essere risolto solo trovando un punto di arrivo che superi la dimensione della città

18. L’obiettivo è

quello di pervenire alla «attuazione dell’armonia, come pienezza dell’amore, come terpsis»

19. Si tratta, sempre secondo Paci, di

una «visione classica dell’armonia», intesa come «il valore più alto della paideia classica»

20. Essa si configura da un lato come

«armonia delle azioni umane in accordo con la terra e il cielo»21

, come «armonia dell’umano e del divino che all’uomo si rivela solo alla fine»

22: infatti, «soltanto la visione di una possibile e divina

armonia dà un senso alla lotta del bene contro il male e permette, nel labirinto dell’esistenza, la scelta»

23. Dall’altro assume l’aspetto

di «una concezione organica della natura e della vita, verso una relazione che congiunge ogni particolare in un’armonia che si pone all’uomo come idea limite, come modello ideale, come visione formatrice della vita e della storia, come paideia»

24. Per Sofocle

infatti, secondo Paci, il teatro, «dimostrando l’autodistru-

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222 ATTUALITÀ DI PLATONK

sto motivo, come abbiamo visto sopra, che a parere di Paci la sua filosofia deve accogliere la contraddizione: perché la contraddizione è la necessaria conseguenza dell’atto con cui Parmenide a un tempo ammette l’opposizione (tra verità e doxa) e si rifiuta di mediarla. E chiaro dunque che chi dopo Parmenide lavora in favore della mediazione (ovvero della riconciliazione o dell’armonia) non può non essere per principio antieleatico (e ciò, come poi vedremo, vale per lo stesso Platone). Anche in Eschilo, a parere di Paci, la mediazione è possibile. Egli rifiuta decisamente, ad esempio, la tesi diffusa secondo cui in Eschilo sarebbe impossibile una teodicea

404 (ovvero che Eschilo non consegue a

questo proposito l’obiettivo che si era prefissato). Al prezzo però di attribuire alla teodicea connotati più laici che religiosi: infatti essa si attua, mediante un accordo tra Zeus e Prometeo, nella forma della polis democratica.

Con questo siamo tornati nel bel mezzo del problema da cui siamo partiti. Zeus non è più il corrispettivo mitico dell’essere parmenideo perché è «dialettica», perché «non è l’essere ma la legge del divenire e la redenzione del divenire, il processo del divenire diretto verso il bene, verso la religiosità della polis...»

405.

Detto in altre parole, Zeus può affrancarsi dall’inutile (e contraddittoria) immobilità dell’essere parmenideo perché decade dalla sua assolutezza, diviene relazione, entra a contatto col divenire e si fa motore del suo processo, concretizzandosi nella polis. La polis diviene così il luogo in cui Prometeo e Zeus, l’umano e il divino, la società e la religione (potremmo anche aggiungere: l’immanenza e la trascendenza), vengono a coincidere. Paci sintetizza questo concetto dicendo che lo scontro tra la libertà di Prometeo e la legge di Zeus non si conclude né contro la libertà né contro la legge, «ma con la legge che è

404

Ivi, p. 187. 405

Ivi, pp. 190-191.

15

Ivi, p.

196. 1

6 Ivi, p.

197. 1

7 Ivi, p.

202. 1

8 Ibid.

19

Ivi, p.

204. 2

0 Ibid.

21

Ivi, p.

208. 2

2 Ivi, p.

211. 2

3 Ivi, p.

202. 2

4 Ivi, p.

209.

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ENZO PACI, IL TELOS E I GRECI 223

libertà»406

. Ed è appunto in tale concordia tra legge e libertà che si produce, a parere di Paci, il «processo del divenire diretto verso il bene»

407. In questo processo non è difficile riconoscere lo stesso

ottimismo che animerà, circa venti anni dopo, il corso dell’anno accademico 1975-76: le sue figure sono l’armonia leibniziana, per cui «si comincia bene e si finisce meglio del bene», e il telos rappresentato da un mondo di soli soggetti, in cui convergono la monadologia di Leibniz e l’intersoggettività di Husserl. Ma il vero problema è: da dove nasce il bene? L’essere (parmenideo) si fa relazione e scende a patti col mondo del divenire (Prometeo) per dare origine alla realtà dinamica della polis. Allo stesso modo l’uno di Parmenide, nel dialogo platonico che porta questo nome, scende a patti con il molteplice e accetta di assoggettarsi alla relazione. Ma la relazione, in quanto relazione, è capace di pro-durre il bene, di promuovere il telos in cui tutti gli uomini saranno soggetto e nessuno oggetto? Come mostrare che nel trapasso dall’essere alla relazione accade la nascita del valore? Se Zeus scende a patti con Prometeo, ciò significa che il dio e l’uomo, la legge e la libertà, sono posti, nel patto, sullo stesso piano. Zeus, rinunciando a rappresentare l’essere, rinuncia al tempo stesso ad essere un dio, ed è appunto grazie a questa rinuncia che la libertà (dell’uomo) è salva. Ma la salvezza della libertà umana è anche l’espressione della verità del tragico. La libertà in quanto tale è indifferente al valore, per cui nessuno può dire se la rappresentazione che l’uomo sta recitando avrà esito tragico o comico (nel senso preciso in cui è “commedia” il poema di Dante). Nella misura in cui si salva la libertà, nella stessa misura il bene non può essere determinato in anticipo, e non c’è motivo per supporre che la dinamica del divenire umano si muova davvero verso un telos buono.

Lo stesso Paci ne è perfettamente consapevole. Nelle Eumenidi eschilee Oreste è giudicato democraticamente da una giuria cittadina, e i voti che lo condannano risultano esattamente uguali a quelli che lo assolvono. Dunque, «non c’è dimostrazione assoluta della via da scegliere: non c’è una dimostrazione teoretica, garantita, del bene»

408. Oreste viene assolto, nella

tragedia, perché Atena interviene a suo favore, votando per la sua salvezza. Dunque «agli stessi Ateniesi la liberazione dalla colpa di Oreste non è garantita, perché i voti sono pari»

409. Il che significa:

la rinuncia di Zeus alle sue prerogative divine, la sua accettazione

406

Ivi, p. 191. 407

Ibid. 408

Ivi, p. 193. 409

Ibid.

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224 ATTUALITÀ DI PLATONK

del patto che dà origine alla polis democratica e salva la libertà umana, consolida nella realtà la minaccia immedicabile dell’incertezza; se l’essere si fa relazione, non c’è più forma capace di orientare la materia, non c’è più legge capace di orientare la libertà, non c’è più valore in grado muovere il divenire verso il bene (armonia, telos). Scrive Paci che «la scelta è positiva, ed Oreste si salva, perché interviene la dea Atena, dea della polis Ateniese e sua incarnazione». Ma questo probabilmente è troppo. Se la dea incarnasse davvero la polis ateniese, sarebbe segnata anch’essa dalla legge dell’incertezza e della libertà.

Non deve ingannare il fatto che la dea vota anch’essa, ponendosi apparentemente sullo stesso piano dei cittadini-giudici. Le due serie di giudici che votano a favore e contro Oreste sono paragonabili alle due serie di punti che, uniti insieme, rappresentano, per i pitagorici, i numeri pari. Ma i numeri pari sono segnati dall’illimi tato e dall’indefì- nito, e dunque dal negativo (o dal male). Se raffiguriamo infatti le due

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ATTUALITÀ DI PIATONE 226

zione dei personaggi e la negatività delle situazioni unilaterali, rappresentando le conseguenze dell’assolutizzazione di questa o quella posizione, libera l’uomo dal dogmatismo e lo purifica dall’errore»

410, orientandolo appunto verso quella concezione

relazionista di cui abbiamo detto. Così incontriamo di nuovo, sia pure tradotta dal livello politico a

quello cosmico, la stessa questione che abbiamo sollevato a proposito della lettura paciana di Eschilo. Parlando di Sofocle Paci nomina in modo esplicito l’alternativa tra bene e male, e la necessità di trovare, nel labirinto dell’esistenza, la strada che conduce al primo e non al secondo. Questa strada è anche vista, al tempo stesso, come un cammino di purificazione dall’errore, capace dunque di indirizzare l’uomo verso la verità. Nel contesto dell’armonia tra divini ed umani, ossia nel cuore stesso della relazione, si profila perciò una scansione di natura asimmetrica, in cui non tutti i termini della relazione sono equipollenti. C’è dif-ferenza, infatti, tra il male ed il falso, da un lato, e il bene ed il vero, dall’altro, e l’armonia che si manifesta nella relazione dovrebbe essere in grado di promuovere questo scarto. Tuttavia, esattamente come accadeva nell’accordo tra Zeus e Prometeo che abbiamo visto in Eschilo, a parere di Paci l’origine di questa asimmetria non deve e non può essere cercata in un supposto significato determinante, o direttivo, attribuibile al contraente divino. L’accordo fra l’uomo e dio fa comparire il bene ed il vero non a causa di una supposta superiorità normativa del contributo divino che entra in gioco nell’accordo; ma in forza dell’accordo medesimo, perché in esso divini ed umani si pongono in relazione su un piano di parità. Paci scrive infatti che l’errore, la negatività (e dunque il male) conseguono non già da una fonte connotata all’origine in termini di valore, ma dal coerente sviluppo delle procedure relazionali: l’errore deriva dalle «situazioni unilaterali», dall’«assolutizza- zione di questa o quella posizione», dal «dogmatismo». Il teatro, luogo pubblico e “democratico” un cui le varie posizioni sono poste a confronto, è pertanto simbolo eccellente di questa armonia realizzata attraverso la relativizzazione di qualunque posizione unilaterale (fosse pure quella di un dio). Ed è appunto attraverso questa relativizzazione che dovrebbe essere possibile intravedere la strada verso il vero ed il bene.

E lecito chiedersi, tuttavia, in che modo il valore possa sgorgare dal semplice esercizio della relazione, dalla messa in scena di diversi, ma tutti ugualmente leciti, punti di rista. Gli studiosi platonici più radicali nel sostenere il cosiddetto dialogical

410

Ivi, pp. 208-209.

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ENZO PACI, IL TELOS E I GRECI 227

approach leggono i dialoghi precisa- mente alla luce di questa dimensione teatrale: l’autore, ossia Platone, nega al lettore la sua valutazione e il suo giudizio, e si accontenta di portare sulla scena il teatro della filosofìa. Nessun orientamento “platonico” si può ricavare da questa rappresentazione, perché la voce autoria- le è assente, e dunque nulla fa pendere l’ago della bilancia in favore di qualcosa che abbia le apparenze del vero e del buono. E un teatro che mostra, ma non orienta. Tutto ciò è tuttavia chiaramente a mal partito con l’esigenza padana di indicare un telos. Nel “teatro” di Eschilo e Sofocle, così come è ripensato da Paci, la presenza determinante in favore del bene e del vero dovrebbe essere quella di dio, perché l’uomo è condannato alla sua libertà. Ma il dio entra nell’accordo precisamente rinunciando alle sue prerogative divine. E un dio debole e assente, sotto il profilo dell’orientamento al valore, nella stessa misura in cui è debole e assente, nell’interpretazione sopra citata, l’autore del teatro della filosofia, che si cancella dietro a suoi personaggi. Eliminato l’autore, vuoi nella forma del dio che stabilisce a priori il telos dell’armonia a cui dà origine, vuoi del sapiente che modella il dialogo distribuendo, in modo magari implicito, torto e ragione, bene e male, vero e falso, rimane solo la relazione: rimangono gli uomini, con la loro libertà, i loro punti di vista, il loro sentimento drammatico e dubbioso dell’esistenza. Come, una volta scontate tutte queste riduzioni, si potrà ancora parlare di un telosì

La debolezza di dio si trasforma in pura e semplice assenza, se non addirittura nella morte di dio, nell’ultimo dei grandi poeti tragici, cioè Euripide. Anche Euripide, come e più di Eschilo e Sofocle, «era estremamente sensibile all’ambiguità esistenziale»

411. La sua

tragica scoperta è «il legame strettissimo che egli sente tra il divino e il demoniaco, tra la moralità e l’immoralità, tra la luce e le tenebre, tra il “solare” e il “lunare”»

412 Infatti questa «ambiguità

esistenziale si lega in Euripide con il senso del divenire e la trasmutazione di tutte le cose, con il mutarsi della luce nella tenebra e di ogni forma in ogni altra forma»

413. Purtroppo, però,

«Zeus non può garantire all’uomo, con un taglio netto, la separazione tra la ragione e la follia, tra il bene e il male, tra il reale e l’irreale, tra la vita e la morte»

414. Euripide si trova qui sulla stes-

sa linea di Protagora, a parere del quale «chi decide su ciò che è essere e su ciò che è non essere» ormai non è altri che l’uomo. «E ciò comporta la condanna dell’essere parmenideo, di un essere già

411

Ivi, p. 216. 412

Ivi, p. 214. 413

Ivi, p. 223. 414

Ivi, p. 219.

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228 ATTUALITÀ DI PLATONK

stabilito e compiuto. Dall’uomo dipende ciò che è e ciò che non è: l’uomo è responsabile dell’essere [corsivo di Paci]»

415. Infatti,

«Zeus come punto fermo, Zeus come essere prestabilito non c’è più»

416 (la morte di dio?).

Dunque l’ambiguità originaria della condizione umana può essere superata solo con una scelta, per la quale tuttavia «sembra che non ci siano indicazioni»

417.

Questo non significa, però, che non ci sia alcuna via di uscita. Il fatto stesso che l’uomo «è l’insieme di tutte le facoltà [che sono ambigue nel modo in cui abbiamo detto] e non può rinunciare a nessuna di esse se vuol essere uomo» già di per sé è in grado di delineare un obiettivo:

La sua mèta sarà dunque l’organicità e l’armonia delle facoltà, mèta ideale consona allo spirito ellenico da Pindaro a Platone, mèta che Sofocle proietta nel futuro e nella sua città celeste, ma mèta che non può essere concepita senza la libertà umana, senza la condizione rischiosa dell’uomo che appare spesso in Euripide posto tra l’ambiguità delle forze telluriche dionisiache e il responso sempre duplice dell’oracolo divino, di Apollo

418.

Sempre e di nuovo (non a caso usiamo Yimmer husserliano che Paci citava tanto spesso), a dispetto dell’inevitabile eclissi del divino e di tutti suoi succedanei che abbiano l’ambizione di presentarsi come principi direttivi ed informatori, dell’immedicabile ambiguità, libertà e responsabilità che domina la vita umana, rispunta indomita la prospettiva di una meta, di un telos, di un ideale:

L’ideale deve essere realizzato nel mondo ed è ideale di organicità e di armonia, ma lascia aperta ogni possibilità negativa pur indicando la direzione verso un valore positivo, verso la possibilità della giustizia...Alla fine la trascendenza di Zeus, l’ideale della giustizia e dell’armonia, e non il preordinato e già concluso essere parmenideo, pur essendo un compito inesauribile, coincide con la gioia immanente nella natura orientata verso il piacere (la terpsisdi Sofocle), di cui il senso è questo orientamento anche se esso, nell’ambiguità

415

Ivi, p. 220. 416

Ibid. 417

Ibid. 418

Ivi, p. 221.

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ENZO PACI, IL TELOS E I GRECI 229

dell’esistenza e della libertà, può sempre trasformarsi in dolore, come l’amore può trasformarsi in odio e la vita in morte

419.

Dunque, nonostante l’intrascendibilità della relazione, ovvero l’obbligo inevitabile di accomodarsi a un mondo in cui esistono solo sog-

419

Ivi, pp. 232-233.

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ATTUALITÀ DI PIATONE 230

getti liberi, non garantiti nelle loro scelte - questa stessa relazione in quanto tale produce dal suo seno uno squilibrio, un orientamento verso la giustizia ed il bene: uno squilibrio che deve scontare a sua volta il difficile equilibrio di muoversi come sulla lama di un coltello. Il bene e il male non sono ugualmente possibili. Nell’esistenza degli uomini è iscritto un telos ideale che è possibile in misura maggiore del male; ma non al punto da divenire necessario, perché in tal caso sparirebbe la stessa possibilità del male, che invece deve essere preservata. Solo così, infatti, si salva e conserva l’ambiguità intrascendibile della condizione umana.

Le figure che rappresentano tale squilibrio non possono dunque essere, appunto per la precarietà di cui abbiamo detto, né l’essere “precostituito” di Parmenide, né un dio in carne ed ossa che impone dall’alto agli uomini le sue regole, né una verità realizzata o reale. La trascendenza di Zeus coincide con la trascendenza ideale di giustizia e armonia, trascendente appunto solo perché mai reale. Circa dieci anni dopo Paci scriverà a questo proposito:

Da un lato diciamo che la verità è sempre un telos, un fine a cui l’uomo tende, per cui vive, per cui lavora, per cui può essere d’accordo, ma anche in disaccordo con gli altri uomini. Dall’altro diciamo che la verità non è reale o, più precisa- mente, non è l’oggetto reale. Se fosse un oggetto reale, nel senso con il quale alcuni credono che lo siano le idee platoniche, si tratterebbe di una superiore realtà, invece [...] la verità, proprio perché irreale, è quella cui tutti tendiamo [...]. L’irrealtà della verità agisce dunque sulla vita e agisce proprio perché non è reale

420.

In questo modo Paci ha dunque conseguito la sua “quadratura del cerchio”. Ma quali sono le sue condizioni di possibilità? Egli qui ripercorre le tracce, ovviamente sulla base delle sue personali rielaborazioni, di Platone, di Anassagora, di Leibniz e infine di Husserl. Platone è ancora quello del libro giovanile sul Parmenide

421 con particolare riferimento alla “terza ipotesi”

discussa da Socrate nella seconda parte di tale dialogo, a cui Paci fa spesso e volentieri riferimento nelle sue opere successive. Così anche nel capitolo su Euripide del suo libro sui presocratici. Quivi

420

L'enciclopedia fenomenologica e il telos dell” umanità, in Idee per una

enciclopedia fenomenologica, Milano 1973 (ma questo saggio è stato

pubblicato per la prima volta nel 1968), p. 36. 421

II significato del Parmenide nella filosofia di Platone, Messina-Milano

1938 (ristampa Milano 1988).

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ENZO PACI, IL TELOS E I GRECI 231

l’orientamento positivo del telos è colto ad esempio nella «direzione della vita, ambigua e metamorfotica, ma pur sempre tale da potersi dirigere verso un valore positivo, non garantito, valore presente sia nel sensibile che nell’idea, e che il sensibile congiunge all’idea, così come l’eros congiunge alla possibilità armonica dell’apollineo e della giustizia»

422. Platone, insomma, è

visto da Paci non già come il filosofo della trascendenza reale delle idee sulla realtà sensibile, ma come il filosofo della mediazione possibile tra reale e ideale: possibile proprio perché l’ideale è solo ideale (nel senso precisato sopra), non un reale separato e diverso dalla realtà sensibile, e nemmeno una verità reale che si impone da adesso, come reale, alla doxa, e al libero arbitrio degli uomini

423. Figura di questa mediazione è, poi,

il punto di incontro tra apparenza e realtà, tra vita e morte, nel quale la vita attraverso la morte ritorna vita, in una meta- bolé inarrestabile che è conservazione e rinnovamento, passato che nel presente si fa futuro, legame e liberazione, permanenza e ricreazione, amplesso fecondo dell’elemento femminile e dell’elemento maschile dell’universo; il centro, infine, reale e possibile, condizionato e libero, storico e ideale, temporale ed eterno come l’istante di cui parla Platone nel Parmenide

424.

Platone interessa a Paci perché da un lato è il filosofo che ha articolato in modi infiniti l’ambiguo dualismo che caratterizza la realtà

425 (e già abbiamo visto come Paci fosse sensibile a questo

tema), e dall’altro è anche il filosofo che ha individuato il paradigma di ogni possibile mediazione. L’istante è il luogo in cui reale e ideale si congiungono. Se il reale e l’ideale fossero due realtà diverse, l’una nel tempo e l’altra fuori dal tempo, la mediazione sarebbe impossibile. Le cose strabbero precisamente in questo modo se la qualità del margine estremo della realtà temporale fosse anch’essa univocamente temporale: questa realtà sarebbe destinata a rimanere statica, inesorabilmente chiusa in se stessa, priva di meta e di telos. Ma quel margine estremo è temporale ed eterno, reale e ideale al tempo stesso, cosicché l’uomo può trovare aH’interno della stessa

422

Ivi, p. 233. 423

In questo modo di intendere l’idea platonica si percepisce l’eco dell’in-

terpretazione neokantiana, che Paci aveva conosciuto e apprezzato in gioventù. 424

Storia del pensiero presocratico, p. 233.

425 Cfr. H. Thesleff, Studies in Plato sTwo-Level Model, Helsinky 1999.

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ATTUALITÀ DI PIATONE 232

dimensione finita in cui vive, priva di qualunque garanzia teologica, una fenditura (un anello che non tiene). Attraverso il punto di passaggio dell’istante viene dunque in chiaro, per Paci, che l’orientamento verso un telos ideale ed eterno è già potenzialmente iscritto nella realtà temporale. E appunto attraverso questa fenditura che l’umanità si può mettere in cammino.

Tutto questo sta in piedi, come ormai dovrebbe essere chiaro, a patto di ammettere che il reale e temporale non è talmente reale e temporale da impedire un orientamento verso un telos ideale ed eterno, e l’ideale ed eterno non è a tal punto ideale ed eterno da apparire inattingibile da qualsiasi progetto di realizzazione. Alcuni anni dopo Paci scriverà che il programma abbozzato nella terza ipotesi del Parmenide sarà poi realizzato da Husserl, poiché questi «riconduce l’empirismo già precostituito ad una analisi originaria e non pregiudicata della doxa e ritrova Veidos nella doxa così come ritrova la doxaneW eidos»

AX. Secondo questa

interpretazione la proposta di Platone decade dunque a progetto di fronte alla realizzazione compiuta da Husserl. Qui Paci sembra voler dire che la mediazione tra temporale ed eterno (o tra doxa ed eidos) in Platone non poteva essere perfezionata, perché solo una analisi radicale dell’esperienza come quella compiuta da Husserl (in cui non c’è alcun empirismo precostituito) può mostrare come Veidos sia già presente nella doxa. I motivi che rendono possibile questa «sintesi fenomenologica» sono offerti dall’intuizione eidetica e dal «fondamento precategoriale spaziale e temporale»

426. Da un lato, infatti, «Eidos e percezione sono

inesorabilmente congiunti: ogni percezione è nello stesso tempo l’intuizione di un eidos e ogni intuizione è ritorno alla percezione e al precategoriale»

427. Dall’altro,

l’incontro tra l'eidos, il tempo e lo spazio, come nel Parmenide e nel Timeo, è possibile perché avviene nell’istante (per Husserl nel tempo allargato delle modalità temporali) e nella chora (per Husserl in tutte le modalità spaziali) e avviene in modo tale da ridurre la struttura soggetto-oggetto, intesa come struttura conoscente-conosciuto, a struttura temporale spaziale empirica e precategoriale nella quale il soggetto si costituisce con gli altri soggetti e con il mondo

428.

Con la fenomenologia di Husserl si produce dunque un incontro

426

Ibid. 427

Ivi, pp. 16-17. 428

Ivi, p. 17.

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ENZO PACI, IL TELOS E I GRECI 233

tra il reale, determinato in modo spazio-temporale, e l’ideale (che assume qui la figura dell 'eidos) non solo rigoroso nella sua fondazione, ma anche capace di allargare la sfera ideale al tema dell’intersoggettività. È inutile aggiungere quanto questo allargamento sia importante per la concezione del telos che Paci elabora nell'ultima parte della sua parabola speculativa.

Ed è appunto del telos che dobbiamo ora tornare a parlare. La linea di sviluppo che abbiamo brevemente tratteggiato, dall’istante platonico all’intuizione eidetica e al precategoriale di Husserl, quali progressi ha consentito di fare alla nostra ricerca? Abbiamo visto sopra che parlando di Eschilo e Sofocle Paci non evita di menzionare concetti apertamente etici, come bene e giustizia. Ebbene, il passaggio da reale a ideale reso possibile dall’istante, così come la presenza dell’^dos già nel mondo della percezione evidenziata dall’intuizione eidetica e dal precategoriale, come possono assumere una valenza etica? Che ragioni ci sono per ipotizzare che Veidos inscritto nella realtà percepibile, di per sé assiolo- gicamente non connotato

429, prefiguri la meta

dell’armonia, del bene e della giustizia, ovvero (per dirla con il Paci del suo ultimo corso) un mondo in cui tutti sono soggetti e nessuno oggetto?

Per compiere questo passo ulteriore risulta a mio avviso più produttivo abbandonare l’istante, e prendere le mosse dall’intersoggettività: si configura in questo modo una linea teorica che raggiunge Husserl partendo non dalla terza ipotesi del Parmenide platonico, ma da Anassagora, passando attraverso la decisiva mediazione di Leibniz. Per Anassagora, a parere di Paci,

l’uomo non riuscirà mai [...] a possedere la piena conoscenza della moltitudine delle cose. E tuttavia egli può, sia pur limitatamente, conoscere e può conoscere in virtù di un principio che è fondamentale per la filosofia di Anassagora come lo sarà per la filosofia di Leibniz. Espresso con le stesse parole di cui si serve Anassagora il principio è il seguente: “in tutto c’è tutto: nulla può essere isolato e tutto partecipa di tutto”

430.

Il riferimento diviene chiaro se aggiungiamo che Paci, con una interpretazione del passo anassagoreo che per la verità non oserei definire inoppugnabile, ritiene che «in base a questo

429

Ciò non vale, in realtà, per Platone (vi accenneremo nelle righe finali di

questo studio). 430

Storia del pensiero presocratico, p. 107.

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ATTUALITÀ DI PIATONE 234

principio, in linea teorica generale, in ogni parte dell’universo, per quanto piccola, è presente tutto l’universo»

431. Nel capitolo su

Euripide, poi, Paci collega il tema metamorfotico presente nella sua opera alla

visione di un universo nel quale ogni forma è legata alle altre perché potenzialmente in sé le contiene, proprio come ogni omeomeria di Anassagora porta in sé tutte le altre e può trasformarsi in tutte le altre. Una simpatia cosmica collega le forme del tutto ed ogni forma contiene l’infinità delle altre

432.

Questa simpatia universale è retta a sua volta da un ordine il quale, esattamente come l’intelletto di Anassagora, «è nel mondo ma è al di là del mondo»

433. Questo Intelletto è kosmos (con i

pitagorici), eidos (con Platone e Husserl) e telos (con Husserl e Paci), ideale immanente nel mondo che «distingue ma non separa»

434. Esso prefigura l’armonia (o simpatia universale) per

una serie di motivi che Paci vede tra loro strettamente connessi: ogni omeomeria contiene in sé l’intero universo; ogni monade riflette in sé lo stesso mondo, sia pure da un diverso punto di vista; ogni soggetto si costituisce come tale sulla base della relazione intersoggettiva con altri soggetti, che hanno in comune il fonda-mento precategoriale e la medesima Umwelt. Ma «che cosa vedono in comune gli osservatori e che cosa dovranno vedere sempre in comune»?

435

Detto in greco è I'“eidos tes aretes” [sic]. Ossia, l’intuizione dell’essenza è 1’”eidos” di ciò che c’è di “ar”, radice greca che vuole dire virtuoso nel senso di ciò che è perfetto, ciò che unisce, ciò che si accorda, ciò che è armonico, ciò che c’è di essenziale nelle cose; e la descrizione dell’essenza è ciò che a noi appare quando abbiamo tolto tutti i pregiudizi.

Questa frase riporta una delle ultime parole di Paci sul nostro argomento. Il passaggio tra l’essere e il valore, tra la relazione e il bene, è mediato da un concetto straordinariamente ambiguo come la parola greca aretè, che accoglie al suo interno un significato morale (nel senso di “virtù”) e un significato non morale (nel senso di “capacità di”). La fatica della mediazione è, ancora in questa

431

Ibid. 432

Ivi, p. 223. 433

Ivi, p. 221. 434

Ivi, p. 113. 435

II problema della monadologia, p. 122.

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ENZO PACI, IL TELOS E I GRECI 235

frase, tutta lì da vedere: perché mai la visione dell’essenza priva di pregiudizi (concetti assiologica- mente neutri) dovrebbe approdare a qualcosa di “armonico” e di “perfetto” (concetti assiologicamente connotati)? Non sembra forse, anche questo, un pregiudizio (un pregiudizio ottimista)? Oggi, trent’anni dopo il fugace incrocio tra uno studente al suo primo anno di corso e un professore al suo ultimo anno di insegnamento, questo pregiudizio ottimista mi sembra molto meno arbitrario di allora: anche perché

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236 ATTUALITÀ DI PLATONK

adesso mi è chiaro che lo stesso ottimismo e lo stesso pregiudizio costituiscono l’ossatura remota di tanta parte della filosofia antica, e di quella di Platone in particolare (come Paci aveva ben visto). Per Platone esiste in natura un dinamismo intrinseco tra particolare e universale, che si manifesta nell’uomo philo-sophos come tensione infinita (come eros) verso la dimensione ideale della sophia. La sophia, a sua volta, è l’idea- limite di un sapere che ha per oggetto Veidos. Ma l’obiettivo di questa tensione non è il sapere in quanto tale. Lungo il percorso che porta dal particolare all’universale, dal sensibile all 'eidos, si assiste infatti alla nascita del valore. L'eidos non è solo l’universale ontologico e logico che sta a fondamento della realtà; esso rappresenta anche, e soprattutto, un ideale di perfezione non dissimile da quello di cui parla Paci. In Platone, non a caso, in cima al cosmo noetico non ci sono né dio né l’essere, ma il bene (eventualmente rappresentato come Uno-Bene), e gli eide a cui egli rivolge quasi tutta la sua attenzione sono quelli del bene, del bello e del giusto. E non a caso, ancora, l’unica via di cui l’uomo dispone per tradurre in reale l’ideale, nella misura in cui ciò è consentito dalla storicità dell’essere umano e dall’inguaribile pluralità delle doxai, è il progetto politico di una città in cui le differenze individuali si distribuiscano ordinatamente nell’armonia dell’insieme. Questa città, d’altra parte, è ciò a cui tutti gli uomini tendono proprio perché irreale.

INDICE DELLA MATERIA TRATTATA

Introduzione Capitolo I

L’argomentazione platonica Capitolo II

Platone, Rorty e la violenza della metafisica

Capitolo III

Platone, Rorty e la consolazione della filosofia

Capitolo TV

La filosofia è una cosa seria?

Capitolo V L’interpretazione heideggeriana della dottrina delle idee e le sue premesse. Alcune osservazioni

Capitolo VI Dialettica, ontologia ed etica nel Filebo.

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L’interpretazione di Hans Georg Gadamer

Capitolo VII

Jacques Derrida e le origini greche del logocentrismo (Platone, Aristotele)

Capitolo VIII

Ernst Cassirer e Inestetica platonica». Introduzione alla lettura di Eidos und Eidolon

Capitolo IX

Leo Strauss e l’“esoterismo” platonico Capitolo X

Platone, Martha Nussbaum, e le passioni Capitolo XI

Sulle tracce dell’armonia: Enzo Paci, il telos e i Greci15

Ibidem. 6 Uber den Humanismus, Klostermann, Frankfurt

a. M. 1981 (tr. it. di F. Volpi, Lettera sull’«umanismo», in Segnavia, Milano 1987, pp. 267-315; ora anche in edizione monografica, Milano 1995, con una nota introduttiva di F. Volpi).

7 Die Frage nach der Technik, in Vortràge und

Aufsàtze, Neske, Pfùllingen 1985 (tr. it. di G. Vattimo, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, Milano, numerose edizioni).

26 II problema etico in essere e tempo, p. 47.

33 Cfr. in proposito E. Berti, Aristotele nel

Novecento, Roma-Bari 1993, pp. 98- 111. 7 L'essenza della verità, p. 68.

11 Ivi, p. 82.

27 Ivi, p. 146.

30 Vom Wesen des Grundes, «Jahrbuch fur

Philosophie und phàmenonologi- sche Forschung», 10 (1929), pp. 71-110. Tr. italiana, Segnavia, pp. 79-131.

46 Prolegomena zur Geschichte des Zeitsbegriffs,

GA Bd. 20, Frankfurt a.M. 1979 (tr. it. Genova 1991). Su questo tema vedi D. O. Dahlstrom, Heidegger’s Concepì ofTruth, Cambridge 2001.

7 Studi Platonici 1, p. 4. Quivi è riconosciuto anche

il debito nei confronti di Natorp. 8 Ivi, pp. 27-31.

9 Die Grundprobleme delPhànomenologie, GA Bd.

24, Frankfurt a.M. 1975 (tr. it. I problemi fondamentali della fenomenologia, da cui citiamo, Genova 1999).

48 F, p. 192.

14 E l’espressione con cui Th. A. Szlezàk ha descritto

la struttura del dialogo tra il Socrate platonico e i suoi

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238 ATTUALITÀ DI PLATONK

interlocutori: Gespràche unter Ungleichen. Zur Struktur und Zìelsetzung der platonischen Dialoge, “Antike und Abendland” 34 (1988), pp. 99-116.

41 Attualità di Husserl, in Idee per una enciclopedia

fenomenologica, (la prima pubblicazione del saggio risale però al 1965), p. 17.