Franco Amatori, PAM, Università Bocconi · nel 1917 è creata La Rinascente da cui a sua volta per...

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1 GRANDE E PICCOLA IMPRESA NELLA STORIA DELL’INDUSTRIA ITALIANA Franco Amatori, PAM, Università Bocconi 1. L’opinione comune e il “modellaccio” L’Italia è un paese di piccole e medie imprese. È opinione corrente sia degli studiosi sia del più vasto pubblico opinione “sigillata” da un capitolo dell’autorevole libro di Michael Porter Il vantaggio competitivo delle nazioni. In effetti, fra le nazioni avanzate l’Italia ha un vero e proprio record con oltre il 60% della forza lavoro che si concentra in imprese con un numero di addetti inferiore a 50. Il nostro problema è che questa opinione prevalente si è tradotta anche in una prospettiva storiografica. Nell’introduzione al volume curato da Giannetti e Vasta, L’impresa industriale italiana del Novecento, Vera Zamagni parla di vie diverse alla crescita industriale intendendo la possibilità di competere attraverso le piccole dimensioni di impresa. Pierangelo Toninelli scrive addirittura più provocatoriamente di una industrializzazione senza energia, senza tecnologia, senza industria. L’idea di fondo è che esiste un modello dei paesi avanzati e l’Italia ne è fuori. Non sono d’accordo. Secondo me quello dell’Italia per dirla con Giorgio Fuà è un “modellaccio”. L’Italia ha provato ad inserirsi nella corrente delle nazioni di prima fila e stava per riuscire ma poi qualcosa è andato storto. 2. Il modello dei paesi avanzati Nell’ultimo ventennio dell’800 si ha una grande discontinuità che concerne essenzialmente lo stato dell’arte della tecnologia. Questa è un prodotto profondamente umano, frutto di conoscenze scientifiche, di abilità tecniche, di

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GRANDE E PICCOLA IMPRESA NELLA STORIA DELL’INDUSTRIA

ITALIANA

Franco Amatori, PAM, Università Bocconi

1. L’opinione comune e il “modellaccio”

L’Italia è un paese di piccole e medie imprese. È opinione corrente sia degli

studiosi sia del più vasto pubblico – opinione “sigillata” da un capitolo

dell’autorevole libro di Michael Porter Il vantaggio competitivo delle nazioni. In

effetti, fra le nazioni avanzate l’Italia ha un vero e proprio record con oltre il 60%

della forza lavoro che si concentra in imprese con un numero di addetti inferiore a

50. Il nostro problema è che questa opinione prevalente si è tradotta anche in una

prospettiva storiografica. Nell’introduzione al volume curato da Giannetti e Vasta,

L’impresa industriale italiana del Novecento, Vera Zamagni parla di vie diverse

alla crescita industriale intendendo la possibilità di competere attraverso le piccole

dimensioni di impresa. Pierangelo Toninelli scrive addirittura più

provocatoriamente di una industrializzazione senza energia, senza tecnologia,

senza industria. L’idea di fondo è che esiste un modello dei paesi avanzati e

l’Italia ne è fuori. Non sono d’accordo. Secondo me quello dell’Italia per dirla con

Giorgio Fuà è un “modellaccio”. L’Italia ha provato ad inserirsi nella corrente

delle nazioni di prima fila e stava per riuscire ma poi qualcosa è andato storto.

2. Il modello dei paesi avanzati

Nell’ultimo ventennio dell’800 si ha una grande discontinuità che concerne

essenzialmente lo stato dell’arte della tecnologia. Questa è un prodotto

profondamente umano, frutto di conoscenze scientifiche, di abilità tecniche, di

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attitudini socio-culturali che si riflettono nelle forme di mercato. Prodotto umano

che però ad un certo punto acquista una vita autonoma, è altro da noi. A fine ‘800

sotto tale punto di vista constatiamo l’avvento della Seconda Rivoluzione

Industriale, un complesso di innovazioni caratterizzato da alta intensità di capitale,

di energia, processo produttivo continuo e veloce, larga infornata. Sono le

produzioni di massa che colpiscono in particolare quattro settori: la metallurgia, la

meccanica, la chimica, l’industria elettrica. In questi settori funzionano le

economie di scala e di diversificazione, ovvero quelle che consentono di produrre

con uno stesso impianto beni diversi. Solo alcuni settori come quelli menzionati

subiscono le conseguenze di questa grande svolta. Essi divengono il motore dello

sviluppo. Ma attorno ad essi permangono rami ad alta intensità di lavoro nei quali

all’aumentare della produzione i costi unitari non cadono drasticamente e al cui

interno pertanto la piccola impresa resta competitiva. Perché questa opportunità

tecnologica si traduca in realtà economica è necessario un triplice investimento in

impianti alla giusta dimensione di scala, in legame fra produzione e distribuzione

tale da rendere fluido il rapporto fra fabbrica e mercato, nell’ampia assunzione e

promozione del management. È un passaggio difficile perché implica una

notevolissima socializzazione dell’impresa, un passaggio politico quindi. Tuttavia

se questa “mossa” riesce e viene ribadita nel corso del tempo, l’impresa acquista il

diritto ad una lunga sopravvivenza. Le dimensioni di questo first mover sono

quasi sempre settoriali; il che non significa che non possa essere sfidato, non però

da rivali di piccole dimensioni ma sempre attraverso il triplice investimento, che è

à la Taylor, l’unica via migliore. È da rimarcare il fatto che in questo modello la

crescita avviene per ragioni economiche ossia essenzialmente per tramutare l’alto

costo fisso in basso costo unitario.

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3. L’Italia e la Seconda Rivoluzione Industriale

Se questo è il modello dei paesi avanzati, a cavallo del 1900 esso è constatabile

anche nell’evoluzione del sistema economico italiano. Come negli altri paesi

anche da noi la prima grande impresa è un’impresa ferroviaria, la Strade ferrate

meridionali, ovvero la cosiddetta Bastogi dal nome del suo fondatore Pietro

Bastogi, ministro delle finanze nel primo governo dello Stato unitario presieduto

da Camillo Cavour. La Bastogi costruisce la ferrovia che va da Ancona a Brindisi

entro il 1867 ed in seguito realizza la Napoli-Foggia, non senza scandali e

malversazioni. Nel 1905 quando le ferrovie vengono nazionalizzate essa riversa

gli indennizzi nell’emergente settore elettrico restando quindi una potenza

finanziaria di prima grandezza nel panorama economico italiano. Nel 1962,

nazionalizzata a sua volta l’industria elettrica, la Bastogi dirige le sue risorse

verso la chimica, ma in questo caso il diverso scenario competitivo rende il

passaggio molto più problematico. Nel 1884 nasce la Edison, la più grande

impresa elettrica italiana, presto raggiunta dalla Sip, la Sade e la Sme. Nel 1888 è

fondata la Montecatini che poi insieme alla Snia sarà di gran lunga la più

importante impresa chimica italiana. Già nel 1872 era nata la Pirelli. Nell’ultimo

anno del secolo viene fondata la Fiat che alla vigilia della prima guerra mondiale

produce la metà degli autoveicoli italiani per raggiungere subito dopo il conflitto

il controllo di quasi il 90% del mercato. Si costruisce intanto, sempre a cavallo del

XX secolo, la grande siderurgia con la Terni, l’Elba, l’Ilva, la Piombino e la

Falck; mentre la grande meccanica negli stessi anni ha come protagonisti di

assoluto rilievo l’Ansaldo e la Breda. Nel contempo si profila a livello settoriale il

predominio dell’Italcementi, mentre acquista consistenza un’impresa produttrice

di macchine per ufficio, l’Olivetti. Anche la grande distribuzione che ha

dimensioni e ritmi industriali nasce in questi anni. Sulle ceneri della ditta Bocconi

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nel 1917 è creata La Rinascente da cui a sua volta per mitosi nel 1931 ha inizio la

Standa. In definitiva, tranne ENI e Fininvest per evidenti motivi, sebbene con

nomi diversi e con pur notevoli trasformazioni societarie, all’inizio del secolo

sono presenti tutti gli attori che domineranno la scena industriale sino all’ultimo

decennio di esso. La presenza della grande dimensione è quindi simile a quella di

Stati Uniti, Inghilterra e Germania, con un’importante differenza però. In Italia la

struttura oligopolistica è ancora più ristretta data la relativa povertà del mercato

interno. Inoltre la concentrazione è spesso nascosta dalla forma a gruppo, che

porta a distinguere il soggetto giuridico da quello economico. Per questo motivo

capita di prendere non indifferenti “cantonate” a chi studia le imprese partendo dai

repertori delle società per azioni.

4 Gli attori

Se vista dall’alto la forma del sistema industriale non è diversa da quella delle

nazioni di prima fila, differenti sono invece gli attori dello sviluppo. L’Italia è il

terreno ideale per la verifica delle teorie di Alexander Gerschenkron il quale,

come è noto, postula l’esigenza di fattori sostitutivi (ovvero sostitutivi del

semplice imprenditore) per promuovere l’industrializzazione dei paesi late comer.

Essi sono la banca universale – se il ritardo è relativamente contenuto - e lo Stato

– se il grado di arretratezza è maggiore. Ora, in Italia attorno al 1900 è grande il

contributo della banca universale, soprattutto la Comit e il Credito Italiano, alla

fondazione di interi settori e alle più importanti iniziative industriali. Ma è

soprattutto lo Stato il fattore decisivo, quello al quale la stessa banca guarda come

rete protettiva di ultima istanza. Per l’Italia si è parlato giustamente di “precoce

capitalismo di Stato” nel senso che esso si caratterizza come il maggiore operatore

economico-finanziario sin dall’unificazione: per la creazione di debito pubblico,

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per la pressione fiscale, per il vasto processo di privatizzazione del territorio

nazionale (beni demaniali ed ecclesiastici) tutti strumenti con i quali finanziare

infrastrutture essenziali come le ferrovie, l’apparato amministrativo, le forze

armate, le opere pubbliche. In definitiva in Italia i primi grandi affari si effettuano

all’ombra dell’azione pubblica. Tuttavia, negli anni Ottanta dell'Ottocento il

potere politico compie una vera e propria forzatura verso la nascita di serie

iniziative industriali. La rivoluzione nelle comunicazioni e nei trasporti, notevole

esempio di globalizzazione, provoca la massiccia immissione sul mercato italiano

di prodotti agricoli provenienti da oltreoceano, “sommergendo” in tal modo il

modello di un’Italia esportatrice di beni del settore primario. Questa ragione oltre

che quelle relative ad esigenze di politica internazionale, porta nel 1884 alla

creazione della prima impresa industriale moderna del paese, la Terni. È un

episodio strategico della storia economica italiana perché alla Terni lo Stato non

concede solo sovvenzioni, commesse, protezionismo. Quando tre anni dopo la

nascita, nel 1887, l’impresa è sull’orlo della bancarotta lo Stato provvede al

salvataggio utilizzando la Banca Nazionale, in seguito Banca d’Italia, con

l’emissione di nuove banconote. Un’operazione di questo genere – il salvataggio

attraverso l’intervento della banca centrale – in mezzo secolo è attuata quattro

volte: nel 1887 viene salvata un’impresa, la Terni per l’appunto; nel 1911 è la

volta di un intero settore industriale, il siderurgico; nel 1922 il privilegio tocca alle

attività industriali afferenti a due grandi banche, la Banca Italiana di Sconto

(dentro c’è la maggiore azienda italiana, l’Ansaldo) e il Banco di Roma; infine,

nel 1933 l’ultimo e più grande salvataggio, quello delle imprese legate alle tre

grandi banche miste, la Comit, il Credito Italiano, il Banco di Roma. Nasce l’IRI,

ovvero lo Stato Imprenditore, ed è la fine della banca mista. Dopo l’Unione

Sovietica l’Italia è il paese che può vantare la maggiore estensione di proprietà

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industriale pubblica. La morale è evidente: per un'impresa ritenuta strategica per

gli interessi del paese, manca in Italia una libertà fondamentale in un sistema

capitalistico, quella di fallire.

5. Il capitalismo politico

Non si tratta tuttavia di un fatto solo quantitativo. La pervasiva presenza dello

Stato ha un forte impatto sull’agire imprenditoriale. Mentre nei paesi avanzati la

crescita è perseguita per ragioni squisitamente economiche, ovvero il taglio dei

costi unitari, non di rado in Italia si assiste a tentativi di espansione per meglio

contrattare con il potere politico. All’inizio del secolo gli imprenditori siderurgici

sono consapevoli del fatto che le caratteristiche del mercato non richiedono la

costruzione di nuovi impianti e tuttavia si espandono perché sanno che presto o

tardi si arriverà ad un accordo arbitrato dal governo; è meglio arrivarci più

“abbondanti” possibile. Allo stesso modo l’Ansaldo si lancia in un folle progetto

di integrazione verticale durante la prima guerra mondiale: dalle miniere alla

fabbricazione di tutte le più significative produzioni metalmeccaniche. Per i suoi

leader giustificare in senso economico quest’opera è compito dello Stato dato

l’interesse nazionale che essa rappresenta. Significativo è l’esempio della Terni

nel periodo immediatamente successivo alla prima guerra mondiale. Vengono

meno le ragioni economiche della siderurgia bellica e il suo leader, Arturo

Bocciardo, la porta ad operare nel campo della produzione di energia elettrica e di

risulta in quello elettrochimico. La siderurgia bellica però viene mantenuta in

attività in quanto formidabile strumento di pressione nei confronti del governo

fascista. È un do ut des: la Terni continua ad offrire armamenti anche quando non

ha alcuna convenienza economica, ma il governo garantisce buone condizioni per

le forniture di energia elettrica, un terreno di prezzi amministrati, e buone

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posizioni all’interno dei cartelli chimici. Prendiamo anche l’esempio della

Montecatini: per acquisire una duratura supremazia nel fondamentale settore dei

concimi chimici, l’impresa di Guido Donegani si lancia nella produzione di azoto

sintetico con l’originale metodo Fauser che lo ricava da acqua, aria, elettricità. Ma

per un obiettivo del genere la società milanese deve attuare costosissimi

investimenti, ovvero la costruzione di centrali idroelettriche. Per giustificare un

impegno del genere Donegani ha bisogno del totale controllo del mercato interno.

Chiede quindi a Mussolini dazi che costituiscano barriere insuperabili e all’inizio

degli anni Trenta li ottiene. Del resto la Montecatini era l’epitome dell’impresa

fascista. In particolare per la produzione di azoto sintetico, che corrispondeva a tre

idee-forza del regime: ruralismo, bellicismo, e infine autarchia, dati gli ingredienti

necessari. Nulla viene dato per gratuito, però. In cambio della protezione tariffaria

il governo chiede alla Montecatini una serie di salvataggi: l’ACNA, impresa

produttrice di coloranti; la Montevecchio, che in Sardegna gestiva giacimenti

piombiferi; le maggiori aziende attive nel settore marmifero carrarese. Alla

Montecatini viene anche chiesto di tenere in vita produzioni obsolete, come la

lignite, o autarchiche, si veda il caso dello zinco con un impianto elettrolitico.

L’azienda di Donegani si appesantisce così con danno irreparabile nel differente

contesto del secondo dopoguerra. È questa l’origine del fallimento che porta nel

1966 alla disastrosa fusione con la Edison. Si ricordi infine la vicenda della

chimica italiana negli anni Settanta, quella che è all’origine del famoso processo

IMI-SIR. Tre aziende – Montedison, ENI e SIR di Nino Rovelli – costruiscono tre

impianti simili nello stesso luogo, Ottana, al centro della Sardegna. Non c’è

razionalità economica ma solo ragioni strategico-politiche. In totale, se il

capitalismo americano può essere definito manageriale, se quello inglese è un

capitalismo personal-famigliare, e se il tedesco può essere indicato come

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capitalismo cooperativo, non pare esagerato definire quello italiano un capitalismo

politico.

6. Il grande capitalismo privato

Non c’è solo questo in Italia. C’è anche una grande industria orientata al mercato.

Giovanni Battista Pirelli si consolida ed amplia la propria azienda sin dall’ultimo

ventennio dell’Ottocento rispondendo a commesse pubbliche nel settore dei cavi

telegrafici e telefonici. Pirelli tuttavia costruisce ben presto un’impresa che

compete sul mercato internazionale costruendo stabilimenti in Spagna, in Sud

America, addirittura in Inghilterra, nel cuore del capitalismo globale. La Fiat è

senz’altro un’impresa che “nasce bene”. Fra gli azionisti ci sono i migliori nomi

dell’aristocrazia e della borghesia torinese e all’inaugurazione del primo

stabilimento sono presenti due altezze reali. Tuttavia la Fiat è l’impresa egemone

dell’industria automobilistica italiana già alla vigilia della prima guerra mondiale

quando produce la metà dei veicoli nazionali, grazie ad un imprenditore, Giovanni

Agnelli, il primo a comprendere che l’automobile non è un giocattolo per ricchi

ma un tipico prodotto di massa della seconda rivoluzione industriale. Agnelli è

quindi capace di attuare una vasta operazione di integrazione verticale dalle

fonderie ai garage per la vendita che dà alla Fiat un incolmabile vantaggio sugli

altri competitori nazionali. Si consideri anche il caso della Falck che fabbrica

acciaio con una tecnologia flessibile come quella che consente il forno elettrico e

che punta su un mercato “normale” ovvero non legato a commesse militari, per la

meccanica e lo sviluppo urbano.

7. Il mercato interno ristretto

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Perché questo capitalismo pur orientato al mercato non si trasforma in capitalismo

manageriale all’americana o famigliar-manageriale alla tedesca? Appare decisiva

in questo senso la ristrettezza del mercato interno che se all’inizio degli anni Venti

vede pari ad 1 il reddito pro capite italiano, deve assegnare il doppio a quello

inglese e francese e un 3,6 all’americano. Del resto quando i tecnici della Fiat

vanno a Detroit a studiare il funzionamento delle celebri catene di montaggio di

Ford, tornano con una relazione nella quale è scritto che il loro sistema appariva

impetuoso come un torrente di montagna a paragone del quale la catena del

Lingotto sembrava uno stagnante rigagnolo. E tutto ciò non sembra esagerato,

dato che alle 2000 automobili giornaliere della Ford ne corrispondevano 300 della

Fiat. È il paese, l’Italia, nel quale la maggiore impresa chimica, la Montecatini, ha

alla base dei suoi affari la produzione di concimi – “con la calciocianamide il

villano se la ride” recita un celebre slogan – mentre è ben visibile la debolezza

della chimica industriale. L’Italia è il paese in cui una catena di grande

distribuzione, la Rinascente, non può puntare sui magazzini di lusso e riesce

quindi a salvarsi dalla grave crisi dei primi anni Trenta con la riconversione verso

i negozi popolari della UPIM (Unico prezzo italiano Milano). È l’Italia in cui nel

1932 il direttore generale della Fiat, Vittorio Valletta, predica un fordismo grazie

al quale quattro operai comprano una Balilla, l’automobile meno cara della Fiat

sebbene costosa quanto un appartamento. Ai quattro ipotetici operai Valletta

chiedeva di recarsi al lavoro insieme con l’automobile acquistata e quindi di

godersela con la famiglia una domenica al mese ciascuno. Si potrebbe sostenere

che un’alterativa possibile era rappresentata dalle esportazioni, ad esempio la Fiat

collocava all’estero nel 1922 il 70% della propria produzione. Ma il mercato

internazionale si presentava caratterizzato da forti incertezze e fluttuazioni.

Quando nel 1926 il governo italiano decide di sostenere la lira probabilmente oltre

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i limiti del ragionevole, il settore automobilistico, ad esempio, riceve un durissimo

colpo.

8. Il settore elettrico cuore del potere economico

Alla vigilia della seconda guerra mondiale il capitalismo industriale italiano

sembra regredire verso forme feudali. È quanto afferma il magnate dell’industria

elettrica Ettore Conti in una celebre pagina del suo Taccuino di un borghese. In

essa si afferma che mentre in Italia si celebra un sistema politico ed economico

che va verso il popolo, la realtà dice di interi rami dell’industria governati da un

uomo, Agnelli, Pirelli, Donegani, Falck, Cini, Volpi. A fine anni Trenta Stato e

famiglie dominano la grande industria italiana e la loro azione converge nel

controllo del settore elettrico, un’industria resa possibile dall’eccellenza tecnica

dei nostri ingegneri ma che finisce per risolversi in un terreno di sicura rendita. I

capi dell’industria elettrica più che a top manager in senso anglosassone

assomigliano a funzionari, funzionari di un grande imprenditore pubblico come

Alberto Beneduce, o di eminenti famiglie, gli Agnelli, i Pirelli, i Crespi, i

Feltrinelli, i Borletti, i Marchi.

9. Un miracolo che viene da lontano

Pur in un percorso tutt’altro che lineare, quando inizia la seconda guerra mondiale

l’Italia è l’unico paese del Mediterraneo ad avere raggiunto uno stabile stadio di

industrializzazione. Non ce l’ha fatta la Spagna, ad esempio, che forse si è affidata

troppo alle multinazionali. Per l'Italia è la prima guerra mondiale con le commesse

della Mobilitazione Industriale il punto di non ritorno al termine del quale la

nazione è fra le otto più industrializzate del mondo. Ma già negli anni

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immediatamente precedenti la Grande Guerra il paese è autonomo per una

produzione essenziale come quella siderurgica, mentre un'impresa come l'Ansaldo

nonostante la megalomania dei suoi capi ha impianti che suscitano l'ammirazione

degli addetti militari tedeschi. Nel corso della prima metà del ventesimo secolo si

formano in Italia importanti forze produttive che si concretizzano soprattutto nella

costituzione di coorti manageriali. Sono ad esempio gli “uomini del Professore”,

ovvero i dirigenti della Fiat che affiancano Vittorio Valletta nella grande

performance degli anni Cinquanta. Quasi tutti entrano in azienda all'inizio degli

anni Venti per rispondere alle esigenze create dalla inaugurazione del Lingotto, il

più moderno impianto automobilistico d'Europa. Sono i “siderurgici” di Oscar

Sinigaglia, il “samurai” che ha individuato nell'acciaio la questione economica

fondamentale dell'economia italiana. Sinigaglia sin dal 1910 espone un lucido

programma di sviluppo e specializzazione degli impianti a ciclo integrale che

diano al paese prodotti siderurgici su vasta scala, di buona qualità e a basso

prezzo. Sinigaglia prosegue la sua azione per tutto il periodo considerato,

particolarmente importante è a sua opera all'interno della Sofindit, la finanziaria

che raggruppa le partecipazioni industriali della Banca Commerciale Italiana

all'inizio degli anni Trenta. E' qui che Sinigaglia ha un'influenza decisiva su un

manager come Agostino Rocca che alla fine degli anni Trenta realizzerà il primo

stabilimento a ciclo integrale di Cornigliano, presso Genova, un'esperienza che,

sebbene vanificata dai tedeschi nel 1943 è all'origine dei grandi successi degli

anni Cinquanta. Un terzo nucleo di assoluta rilevanza è costituito dai seguaci di

Francesco Saverio Nitti, l'uomo politico lucano, che riteneva solo

l'industrializzazione potesse risolvere la grande questione nazionale, quella del

Sud. Il più importante dei “nittiani” è Alberto Beneduce, l'ideatore della formula

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IRI, ovvero di un'insieme di imprese di proprietà pubblica ma caratterizzate da

uno stile manageriale privato.

10. La grande impresa protagonista del miracolo

Gli anni a cavallo del 1960 sono ricordati come il periodo del “miracolo

economico” italiano. Indiscussi protagonisti sono imprenditori che giocano in

grande e non vedono il mercato frenato da vincoli insuperabili. Perseguono quindi

le economie di scala e di diversificazione lanciandosi nella costruzione di grandi

impianti e grandi organizzazioni. Non vedono nella contrattazione con il potere

politico l'essenza del proprio agire imprenditoriale. Questa è data piuttosto da

produzioni di massa che rendano accessibili beni essenziali alla maggioranza dei

consumatori. Si consideri Vittorio Valletta e il lancio della 600 nel 1955 e della

500 due anni dopo. Per l'Italia è il raggiungimento della motorizzazione con livelli

comparabili a quelli del grande paese d'oltreoceano. Un traguardo impensabile

pochi anni prima. Oscar Sinigaglia realizza un piano per la siderurgia degno di un

John Rockefeller. Costruisce un grande impianto a ciclo integrale presso Genova,

a Cornigliano appunto, secondo lo stato dell'arte della tecnologia. Specializza la

produzione degli altri impianti, chiude quelli obsoleti licenziando migliaia di

operai. Sinigaglia era molto sensibile ai costi sociali e a chi gli obiettava le

conseguenze della sua azione in questo campo rispondeva che offrendo acciaio di

buona qualità e a basso prezzo sviluppava potentemente l'industria meccanica

ottenendo quindi un massiccio incremento dell'occupazione. Altro grande “primo

attore” di questa fase è il leggendario Enrico Mattei, il fondatore dell'ENI, che

realizza a vantaggio dell'industria settentrionale una fitta rete metanifera mentre

attua un'efficace politica nel settore del petrolio grazie a geniali e rischiosi accordi

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con i paesi produttori. Mattei si avvale della sua posizione in campo metanifero

per strappare alla Montecatini, a vantaggio degli agricoltori italiani, la leadership

dei concimi chimici azotati. Nel 1956, infatti, costruisce a Ravenna un impianto

petrolchimico con un investimento di sessanta miliardi. Sei anni prima la

Montecatini aveva speso per un analogo stabilimento a Ferrara diciotto miliardi.

Le economie di scala realizzate dall'ENI sono imbattibili. Un quarto

indimenticabile protagonista è Adriano Olivetti, l'imprenditore più consapevole

delle conseguenze sociali dell'industrializzazione ma così concreto da realizzare

nel campo dei prodotti per ufficio una multinazionale da cinquantamila

dipendenti, tale da acquisire alla fine degli anni Cinquanta una delle maggiori

imprese americane del settore la Underwood. Importante è notare come non ci sia

differenza in questa golden age fra privato e pubblico (a questo proposito

potremmo aggiungere il caso dell'Alfa Romeo di Giuseppe Luraghi). Certo non

tutti vincono. Perdenti sono coloro che restano fermi alla cultura e al modo di

operare del periodo precedente, al capitalismo politico. La prova più chiara è la

vicenda della Montecatini che dopo il 1945 non muta la filosofia di do ut des con

il potere politico restando un'obsoleta conglomerata.

11. Un approdo “giapponese”?

Un reddito nazionale che in vent'anni (1950-1970) cresce mediamente del 6%

annuo; la Fiat quinta impresa automobilistica mondiale potenzialmente in grado di

competere sul mercato internazionale con l'esperienza acquisita nel segmento

delle small cars; la Olivetti che primeggia sui mercati internazionali con le sue

macchine per scrivere e con le sue calcolatrici tanto da acquisire una corporation

americana di primo rango; Enrico Mattei protagonista della politica petrolifera

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internazionale; la siderurgia che passa dal nono al sesto posto nel mondo; il

nucleare che vede il paese all'avanguardia in Europa; la formazione di nuovi

settori industriali come quello degli elettrodomestici e il generale irrobustimento

della struttura produttiva cosicché i sarti diventano industriali dell'abbigliamento, i

falegnami mobilieri, i calzolai calzaturieri. Tutto questo dava la sensazione che

l'Italia potesse spingersi sino alla frontiera dell'economia mondiale, come il

Giappone, un paese certo lontano ma per molti versi vicino data la

periodizzazione del suo sviluppo industriale, dato il ruolo giocato in esso

dall'attore pubblico. La chiave per comprendere i diversi esiti dei due paesi è

nell'elemento politico-istituzionale. Negli anni Trenta in Giappone l'azione dello

Stato è troppo pervasiva: una selva di leggi e regolamentazioni finisce per

ingessare l'economia nazionale. Il Giappone dove la burocrazia è forte mentre

debole è la politica, apprende la lezione. Nel secondo dopoguerra si assiste al

ritiro dell'intervento pubblico diretto; i grandi ministeri dirigono la politica

industriale grazie a guidelines, a moral suasion. Si delinea una sorta di quadratura

del cerchio per cui lo Stato protegge e sostiene le grandi imprese ma le obbliga a

confrontarsi con il mercato globale. In un tentativo di storia controfattuale si

potrebbe dire che in Italia lo Stato avrebbe dovuto ritirarsi dall'intervento diretto e

dedicarsi alla creazione di un quadro di regole all'interno delle quali la grande

impresa potesse prosperare. Sarebbe stata necessaria quindi un'efficace protezione

degli investitori in Borsa; la promozione di investitori istituzionali; la revisione

della legge bancaria con il ripristino della cosiddetta haus bank; una legislazione

antitrust; il governo delle trasformazioni sociali e del conflitto.

12. Uno Stato politicizzato

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Quella italiana è una società che, date le caratteristiche del processo che ha portato

alla formazione dello Stato unitario, si è sempre contrassegnata per la sua

frammentazione localistica tale da non sopportare un rapporto diretto fra Stato e

cittadini, necessitando invece di una mediazione da parte della politica. Quando si

parla di pubblico in Italia, quando si parla di Stato, è sempre necessario

intravedere l'azione e la discrezionalità della politica. Si prenda il caso di quello

che diverrà il sistema delle Partecipazioni Statali. La formula Beneduce –

proprietà pubblica e stile managerial-imprenditoriale privato – era la brillante

soluzione di un nodo storico, la discrepanza fra le necessità di investimenti

industriali e la disponibilità di capitali. Ma i rischi non erano di poco conto. La

fase della “negligenza benigna” da parte dei politici non dura molto a lungo. Già

alla metà degli anni Cinquanta si intravede uno spoil system che segnerà

pesantemente l'intera costruzione. E dato il cosiddetto bipartitismo polarizzato che

la natura del maggiore partito di opposizione, il Partito Comunista Italiano, rende

inevitabile, si tratta di uno spoil system a senso unico che finisce per rendere

irresponsabili governo ed opposizione. Lo Stato Imprenditore diviene sempre più

uno strumento per il consenso, ovvero cresce per incrementare l'occupazione

sicuro grimaldello del successo elettorale. Nel 1956 con la nascita del Ministero

delle Partecipazioni Statali viene creata una catena di comando che nel corso degli

anni si rivelerà micidiale. Prendiamo il caso siderurgico. Alla fine degli anni

Cinquanta era necessario incrementare sostanzialmente la capacità produttiva.

Viene effettuata una indagine fra i maggiori dirigenti della Finsider, la finanziaria

siderurgica dell'IRI, il responso è quasi unanime e prevede il raddoppio dello

stabilimento di Piombino, un sito di antica industrializzazione. Il Ministero insiste

perché un nuovo impianto sorga a Taranto, la città pugliese in crisi per lo stato dei

suoi cantieri. I capi della Finsider vi si recano e, constatata la grave situazione di

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disagio sociale, si convincono a costruire a Taranto il quarto centro siderurgico

dopo quelli di Genova, Piombino, Bagnoli. Ma gli allievi di Oscar Sinigaglia non

potevano non confrontarsi con le esigenze del mercato. Propongono quindi di

costruire un impianto che realizzi grandi tubi per metanodotti e lamiere per navi,

ovvero prodotti ad alto valore aggiunto. Ancora una volta prevalgono i politici e

impongono il dissennato incremento della produzione con la costruzione di diversi

altiforni. E' la produzione di massa a basso costo per la quale si va a sicura

sconfitta da parte dei concorrenti asiatici. L'occupazione aumenta ma per la

Finsider è l'inizio della fine, che arriva con la “bancarotta” del 1988, un debito di

25.000 miliardi. Una sorte simile rischia l'ENI, che, obbligata a salvataggi da leggi

del parlamento – un vero e proprio metodo sovietico di esproprio delle prerogative

di impresa – viene trasformata di fatto da azienda a ente per lo sviluppo. Pasquale

Saraceno . accademico ma anche fra i maggiori dirigenti dell'IRI, testimone e

protagonista della sua vicenda – afferma l'esigenza per l'impresa pubblica di

perseguire il concetto di “economicità”, ovvero la dialettica fra massimizzazione

del profitto e istanze politico-sociali. E' quanto di fatto avviene con i cosiddetti

oneri impropri, ovvero indicazioni politiche di investimenti per le imprese

pubbliche e vincoli localizzativi che il parlamento compensa con un fondo di

dotazione. E' un metodo che finisce per rendere irresponsabile il management

pubblico. L'economicità di Saraceno è un concetto affascinante ma che non regge

alla prova dei fatti.

13. L'approdo mancato

L'incapacità di raggiungere i risultati del Giappone si concretizza in cinque

grandi episodi.

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1. La degenerazione dello Stato Imprenditore, di cui si è parlato proprio ora;

2. Il fallimento dei progetti di frontiera tecnologica. E' l'Olivetti che dopo

l'improvvisa scomparsa del suo leader Adriano Olivetti non riesce a

concretizzare l'occasione della pionieristica produzione di computer, una

iniziativa i cui costi andavano ben oltre le disponibilità di una impresa

famigliare. E' l'abortire del grande progetto di dotare il paese di una rete di

impianti nucleari, che solo una determinata e unitaria politica industriale

poteva rendere realistico.

3. Le conseguenze della nazionalizzazione dell'energia elettrica. E' il risultato

della decisione caldeggiata dal governatore della Banca d'Italia Guido Carli di

indennizzare le aziende e non gli azionisti. Carli pensava di ripetere

l'operazione del 1905 quando gli indennizzi della nazionalizzazione delle

ferrovie si erano riversati nell'emergente industria elettrica. Ora si pensava alla

chimica ma il contesto competitivo era ben diverso né esisteva una Borsa per

sanzionare i comportamenti negativi degli imprenditori né una haus bank tale

da indirizzarli correttamente. Il risultato più rilevante di questo snodo è la

disastrosa fusione fra Montecatini ed Edison.

4. La crisi delle grandi famiglie che si verifica diffusa negli anni Sessanta fra

vecchie e nuove dinastie industriali. Del resto nel 1976 viene pubblicata una

ricerca dello studioso italo-americano Robert J. Pavan, dalla quale emerge

l'incapacità di crescere e di competere sui mercati internazionali della grande

impresa famigliare italiana all'interno della quale i dirigenti risultano giudicati

più per la fedeltà che per le performances.

5. Il “lungo autunno”. E' il periodo che inizia con la vertenza Fiat del settembre

1969 e che si conclude sempre alla Fiat con la cosiddetta marcia dei

quarantamila nell'ottobre del 1980. E' un periodo di importanti conquiste

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sociali ma anche di tragici conflitti come la diffusione del terrorismo. Ciò che

risalta è l'incapacità di incanalare politicamente e istituzionalmente giustificate

rivendicazioni, alla maniera tedesca con la cogestione.

Sono sconfitte dalle quali la grande impresa non si riprenderà più, nonostante i

ruggenti anni Ottanta, del resto profondamente contrassegnati dall'assenza di

regole. Carlo De Benedetti quota in Borsa quattro volte la stessa società; la Fiat

vende le azioni libiche con metodi non proprio trasparenti. Raoul Gardini acquista

la Montedison con i soldi della Montedison. Una vera e propria fortuna per l'Italia

è rappresentata dalla piena adesione al progetto europeo, dall'accordo di

Maastricht. Esso porta non solo alla moneta unica ma anche all'instaurazione

finalmente di regole, come l'antitrust, il rafforzamento della Consob, la legge sulle

SIM, la nuova legge bancaria, la legge sulla corporate governance. Ma “i buoi

sono scappati”. La grande impresa è irrimediabilmente depotenziata. Nel 1997 la

Montedison cede le attività chimiche. Quasi nello stesso periodo la Fiat entra in

una crisi di cui è difficile prevedere la conclusione, mentre le prime imprese

italiane risultano quelle come l'ENI e la Telecom che nella realtà usufruiscono di

forti posizioni di rendita.

14. La scoperta della piccola impresa

L'Italia degli anni Settanta è un mistero. Sembra afflitta da tutti i mali e da tutte le

crisi ma continua a crescere seconda solo al Giappone fra i paesi dell'OCSE. Si

“riscopre” allora la piccola impresa, spesso organizzata nella forma del distretto

industriale - un territorio definito dedicato alla produzione di un bene per la quale

viene realizzata una divisione del lavoro sia orizzontale sia verticale, ovvero oltre

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al bene si fabbricano anche le macchine per la sua realizzazione. Nel 1991 quando

il parlamento approva una legge che intende tutelarli, vengono censiti 199 distretti

che possono contare 2.200.000 addetti, ossia il 45% dell'occupazione

manifatturiera complessiva. Sono i distretti che indirizzano le proprie risorse

verso la produzione di beni per la persona e per l'abitazione ad essere protagonisti

nell'ascesa del “made in Italy”. I distretti si formano in un processo di lungo

periodo. Se la causa scatenante è l'emergere di un mercato nazionale e

internazionale nel secondo dopoguerra, le origini sono senz'altro remote. Un forte

ruolo è giocato dalla tradizione corporativa come dal retaggio mezzadrile con

l'etica del lavoro, le tante abilità manuali, lo “spirito imprenditoriale”. Importanti

sono anche l'antica consuetudine di raffinata domanda urbana e l'attitudine al

commercio cosmopolita. In ogni caso, quello dei distretti è un successo che non si

spiega solo con la quantità e qualità dei fattori individuali. Decisivo è l'apporto di

un'istituzione come la famiglia per aziende nelle quali padroni ed operai sono

spesso parenti. Così come in primo piano è la comunità locale, per cui la

concorrenza è bilanciata da un senso di solidarietà e le conoscenze tecniche e

professionali sono “nell'aria”. Altrettanto importanti sono le istituzioni locali sia

con interventi positivi, come ad esempio nel campo dell'istruzione e della

costruzione di infrastrutture, ma anche con la tolleranza verso comportamenti

discutibili (evasione fiscale). Si consideri infine l'elemento relativo alla

omogeneità politica: i distretti fioriscono in aree o fortemente “rosse” o a netta

prevalenza cattolica. In questo modo è possibile attenuare il lacerante conflitto

sociale che caratterizza la grande impresa. Tutte queste virtù non possono

nascondere lati oscuri come la sottocapitalizzazione, la sclerosi produttiva, la

volatilità dei mercati al cui interno i distretti operano, mercati soprattutto di beni

voluttuari, come si è già detto, la diffusa piaga dell'evasione fiscale. Un quadro di

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luci e di ombre quindi che in definitiva riesce a catturare la grande vitalità del

paese.

15. Il quarto capitalismo

Dai distretti emergono non di rado imprese che in essi creano precise gerarchie.

Tali attori vengono definiti “quarto capitalismo” perché non possono essere

identificati né con la grande impresa privata né con quella pubblica né con la

piccola impresa. Alla fine degli anni Novanta sono attive in Italia un migliaio di

aziende che fatturano fra i trecento e i tremila miliardi di lire. Una parte di esse ha

origini che risalgono al periodo successivo alla prima guerra mondiale, altre sono

figlie del miracolo economico, altre ancora nascono proprio con la crisi degli anni

Settanta. Due le caratteristiche fondamentali: grande abilità tecnica di origine

addirittura artigianale - si pensi a Leonardo Del Vecchio e alla sua Luxottica -

oppure una straordinaria capacità commerciale come nel caso della Divani e

Divani di Pasquale Natuzzi. La formula del successo di questo quarto capitalismo

è la concentrazione su una nicchia ma a livello globale, come sanno i produttori

fabrianesi di cappe aspiranti. Il quarto capitalismo ha fatto scrivere che l'Italia più

che un declino stia subendo una metamorfosi. In realtà questo nuovo protagonista

deve affrontare due nodi irrisolti. Il primo riguarda quella che oggi viene definita

governance, ovvero il modo in cui si rende armonico il rapporto fra proprietà,

controllo e gestione d'impresa. Il quarto capitalismo è nettamente dominato da

imprese famigliari, con tutti i problemi che questo assetto comporta. Il secondo

riguarda i settori in cui esso opera – tessile, abbigliamento, calzature, pelli e

cuoio, legno e mobili, ceramiche e marmo, oreficeria, gioielleria, strumenti

musicali, articoli sportivi, giocattoli – ovvero quelle produzioni a cui si accennava

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in precedenza riferendosi ai distretti, produzioni che non sono certo quelle di

frontiera.

16. Conclusione

Teniamoci stretto il quarto capitalismo ed i distretti, che almeno - mi si permetta

infine di usare una metafora sportiva – ci consentono di giocare in serie B. Per la

serie A in un libro pubblicato qualche anno fa dal dean della Sloan School

dell'MIT, Lester Thurow, le sette industrie chiave del XXI secolo erano indicate

nella microelettronica, nei computer e nel software, nelle telecomunicazioni, le

biotecnologie, le nuove scienze dei materiali, la robotica e le macchine utensili,

l'aviazione civile: questi sono inequivocabilmente affari della grande impresa. In

un brillante articolo pubblicato in un volumetto nel 1998 l'illustre economista

Giacomo Becattini ripensando alla storia economica italiana e all'emergere negli

ultimi decenni dei distretti industriali scriveva che in fondo poteva andarci peggio.

A conclusione di un lavoro realizzato con il collega Andrea Colli ritenevo di

opporgli un “si poteva fare meglio”. Certo, c'è da chiedersi se la dimensione

nazionale sia oggi l'unità d'analisi più adeguata. Penso che un discorso su grande e

piccola impresa debba essere inquadrato almeno all'interno del processo di

integrazione europea. Se questo si realizzerà senza riserve, potremo accettare

quello che Porter definisce il nostro vantaggio competitivo. Se invece gli stati

nazionali resteranno protagonisti allora le regole del gioco saranno quelle del

secolo scorso. In questo caso forse forse dalle vicende raccontate si potrà trarre

qualche insegnamento.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ESSENZIALI

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Storia d'Italia. Annali. Vol 15., L'industria, Torino, Einaudi, 1999

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F. Bonelli, Il capitalismo italiano. Linee generali di interpretazione, in R. Romano e C. Vivanti )a

cura di), Storia d'Italia. Annali, vol. 1, Dal feudalesimo al capitalismo, Einaudi, Torino, 1978

A. Colli, I volti di Proteo. Storia della piccola impresa in Italia nel Novecento, Bollati Boringhieri,

Torino, 2002

A. Colli, Il quarto capitalismo. Un profilo italiano, Marsilio, Venezia, 2002

R. Giannetti – M. Vasta (a cura di), L'impresa italiana nel Novecento, Il Mulino, Bologna, 2003

M. E. Porter, Il vantaggio competitivo delle nazioni, Mondadori, Milano, 1991

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periodo, in L. Cafagna e N. Crepax (a cura di), Atti di intelligenza e sviluppo economico. Saggi per

il bicentenario della nascita di Carlo Cattaneo, Il Mulino, Bologna, 2001