Fra il dire e il fare

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Fra il dire comunicazione visiva e partecipazione progetto di tesi di Ilaria N. Roglieri relatore Carlo Vinti co-relatore Silvia Sfligiotti

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This publication intends to analyze the true relationships involving graphic design and users. Often these two worlds have a vague and confused idea of each other. Users are often an obscure incognita during the design process: at the same time, they are rarely conscious of graphic design around them.Historically, there have been attempts to engage deeply the user: various levels are analyzed, from the participation as interpretation to etnography and desktop publishing.The whole research led to experiment with the engagement of users throught their direct involvement in graphic design, showing them how pervasive and ubiquitous it is and then asking to react and to analyze different forms of graphic design.The results from this phase were then shown in a poster that the user had to design directly in order to trigger authentic knowledge through a direct action, a deep dive inside graphic design field.

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Fra il direcomunicazione visiva e partecipazione

progetto di tesi di Ilaria N. Roglierirelatore Carlo Vinti

co-relatore Silvia Sfligiotti

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Fra il dire e il farecomunicazione visiva e partecipazione

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Isia Urbinodiploma accademico di secondo livelloAA 2009-2010

Fra il dire e il fare: comunicazione visiva e partecipazioneprogetto di tesi di Ilaria N. Roglierirelatore Carlo Vintico-relatore Silvia Sfligiotti

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in teoriaParte Iintroduzione

l’utente

la grafica

l’utente passivo esiste?

l’utente al centro: user-centered design

la partecipazione come gioco

l’era del desktop publishing

a chi rivolge la grafica oggi?

la grafica è importante?

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La comunicazione visiva è la disciplina che si occupa di mediare dei contenuti per mezzo di elementi visivi e renderli così accessibili alla collettività. È una disciplina sempre in bilico tra prassi e teoria, tra superficie e contenuto, tra committenza e utenza. Una disciplina a cavallo fra il dire ed il fare. Ma fra i due estremi c’è spesso una grande distanza. In primo luogo, si presu-me che la grafica attraverso il suo dire solleciti un fare.

Questa tesi cerca innanzitutto di analizzare le effettive dina-miche che intercorrono fra questi due momenti. La grafica parla, in tanti e vari modi: ma a chi si rivolge? Gli utenti sono spesso una variabile incognita nella progettazione, una proiezione piuttosto che un’entità concreta. Allo stesso modo, raramente gli utenti hanno un’idea precisa della comunicazione visiva, del suo ruolo e delle sue dinamiche. Questo paradosso ha spinto innanzitutto ad un’ampia indagine storica e critica del rapporto fra grafica ed utenza.

Il dibattito critico da tempo sollecita maggiori responsabilità etiche ma di fatto i tentativi di coinvolgere maggiormente l’utente restano rari, o irrisolti. La tesi ne analizza varie forme e gradi: si comincia dalla partecipazione intesa come interpre-tazione aperta e plurale degli artefatti. In seguito, si passa ad un coinvolgimento dell’utente esclusivamente in quanto oggetto d’indagine. Si descrivono poi le forme ludiche di partecipazione, in cui l’utente viene invitato a offrire il proprio contributo in

introduzione

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in teoria

chiave disimpegnata. Infine, si analizzano le conseguenze della rivoluzione digitale e della nascita del desktop publishing sulla definizione dei ruoli.

Se, dunque, come appare in teoria, l’utente è sempre stato al centro del discorso, di volta in volta come spettatore, interprete, oggetto di studio, nella pratica è difficile verificarne concreta-mente gli effetti. Dunque la distanza è anche fra il dire “grafica per l’utente” ed il fare “grafica per l’utente”.

La tesi si è perciò subito indirizzata verso una direzione prati-ca, volta a confrontarsi apertamente con gli utenti. Il presupposto di partenza è stato mettere a contatto i due mondi attraverso il coinvolgimento degli utenti nelle fasi di progettazione, così da innescare un processo di consapevolezza reciproca: non solo, il coinvolgimento diretto porterebbe anche ad una maggiore consapevolezza critica degli utenti ed al recupero di un ruolo più attivo nei confronti del contesto.

L’analisi degli antecedenti storici più vicini, quali l’architettura partecipata o i metodi d’indagine user-centered, ha poi evidenzia-to l’ambiguità del ruolo effettivo dell’utente nella partecipazione, che spesso viene manipolato o usato come mero strumento di verifica, senza tuttavia fornirgli le conoscenze necessarie a formulare un giudizio critico.

Questo ha portato a fare un passo indietro, e a porre come fulcro dell’indagine principalmente la creazione di un ponte fra grafica e utenti.

Questa connessione è stata messa in pratica attraverso dei workshop rivolti agli utenti, il cui obiettivo consiste, in primo luogo, nell’illustrare il ruolo della comunicazione visiva e fornire così gli strumenti per un’analisi critica. In secondo luogo, i workshop offrono l’occasione di avvicinarsi agli utenti, e com-prendere meglio le loro esigenze e i loro punti di vista.

La formula del laboratorio mira ad unire al racconto teorico una fase di progettazione, nella convinzione che il confronto

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diretto col fare favorisca una conoscenza autentica e solleciti un’atteggiamento più attivo.

Così facendo, questa tesi auspica una nuova posizione della grafica rispetto all’utente e suggerisce lo sviluppo di nuovi strumenti per la ricerca e la progettazione.

introduzione

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Oggigiorno, le informazioni si moltiplicano a vista d’occhio. Questo frenetico flusso di informazioni è percepibile semplicemente all’osservazione di una scena urbana. Ovunque, messaggi di qua-lunque genere usano immagini, testi, colori per parlarci di qualcosa. E non solo: essi cambiano a una velocità forsennata, modificando continuamente il tessuto urbano stesso. Oggi viviamo tendenzial-mente in una posizione di ascolto, o meglio, di ricezione rispetto al contesto. Circondati da centinaia di messaggi, che invocano la nostra attenzione, oggi siamo utenti, potenziali fruitori di una smisurata quantità di informazioni.

Ma utenti di cosa? Il concetto di uso è immediato se pensiamo ad artefatti concreti, come l’architettura, gli oggetti e così via. Ma come si usa la grafica? Essa è diversa, innanzitutto perchè i suoi oggetti possiedono una natura effimera e non duratura nel tempo. Questo è anche il motivo per cui è così difficile per l’utente stesso focalizzare la sua esistenza ed il suo ruolo.

Nel mare d’informazioni che ci circonda, la nostra attenzione ad un certo punto viene calamitata da una cosa anzichè da un’altra. I fattori che possono aver influenzato questa scelta sono molteplici: riconosciamo il marchio di un museo che ci interessa o di una marca che ci piace, a volte basta anche meno, un colore, una frase, un’immagine: dietro tutto questo si celano misteriosi meccanismi orditi dai mittenti del messaggio, o meglio, dai grafici incaricati di progettare quegli artefatti: possiamo forse dire a questo punto che

l’utente

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in teoria

non siamo noi ad usare quell’informazione, ma è quell’informazione che ci sta usando?

Basti pensare alle innumerevoli definizioni che possiamo trovare per questi destinatari della comunicazione visiva: ognuna evoca una sfumatura diversa ed un diverso atteggiamento nei suoi confronti. Essi sono pubblico, quando è a loro richiesto di ascoltare ed even-tualmente formulare giudizi; sono cittadini, quando sono in causa i loro diritti e doveri; sono consumatori, quando è la loro capacità d’acquisto ad essere prioritaria. Sono, infine, utenti quando vengono invitati a far uso di quelle informazioni.[1]

Spesso la grafica viene concepita in senso paternalistico, come servizio benevolo che viene offerto dal cliente al pubblico: il grafico ha dunque la responsabilità ed il dovere di anticipare e soddisfare le aspettative sia del cliente che dell’utente. Il problema è che se può essere più facile soddisfare il cliente, cui si è legati da un rapporto di committenza, il pubblico è invece un’entità silente ed indifferenziata, quasi un fantasma. Questo problema viene in genere risolto con l’idea che cliente e grafico “sanno cosa è meglio per te”: come afferma Ellen Lupton[2],

il soggetto dominante della nostra era è l’utente. … Esso è una figura da proteggere e tutelare, ma anche da sondare e testare, sottomettendola a ricerche e test.

Questa è la strada in genere perseguita dalle forme di comunica-zione finalizzate al consumo, che etichettano come “interpretazione dei bisogni della collettività” quella che è di fatto la creazione di nuovi bisogni e la brama del nuovo.

Ritorniamo per un attimo alla domanda di prima: in che modo l’utente deve usare la grafica? In questo caso, all’utente non è chiesto di fare molto, tranne che di effettuare uno spostamento minimo, passando dalla scelta di un prodotto ad un altro. Il linguaggio utilizzato sarà sicuramente semplice e familiare al consumatore, saprà evocare in lui le giuste sensazioni. La difficoltà per il gra-

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l’utente

fico in questi casi generalmente giace nella poca differenza che effettivamente esiste fra i prodotti ed il bisogno di caratterizzarli tramite altri strumenti, tramite una “immagine”. Le aziende non si limitano più a vendere solo un prodotto ma lo arricchiscono tramite evocazioni e idee di un particolare stile di vita in cui è possibile per l’utente identificarsi o aspirare ad esso.

Non è necessario dunque sapere poi molto dei potenziali fruitori: ogni nuovo messaggio si serve come vocabolario di tutti quelli precedenti. Il successo è dato dal compiacere quanti più “altri” possibili; e questo spiega, almeno in parte, il bombardamento visivo cui siamo ogni giorno sottoposti.

Ciò che emerge da queste riflessioni è dunque una visione quantomai passiva dell’utente, che tende a perpetrare lo status quo, limitandosi a sfiorare l’esistenza dell’individuo, a fissarsi nella sua memoria per il tempo necessario e non oltre.

Al momento di progettare, il grafico proietta il suo messaggio su un’idea di utente, una sorta di utente ideale, capace di interpretare correttamente la sua formulazione del messaggio. Ma cosa accade se esso non viene percepito come dovrebbe?

Quando la grafica viene giudicata difficile, non chiara o peggio ancora ignorata, l’utente viene accusato di essere “deficiente”, non abbastanza pronto e reattivo per cogliere le sfumature, per leggere fra le righe, per cogliere le citazioni, per interpretare correttamente un contenuto, obbligando quindi i grafici alla creazione di artefatti “semplici”, poco innovativi, diretti, se non espliciti. Questo deriva fondamentalmente da due fattori: se da un lato, è molto probabile che l’utente posto dinanzi ad una scelta sia prevalentemente conservativo e perciò tenderà sempre a selezionare ciò che gli è più familiare, dall’altra un atteggiamento di questo genere cela un senso di frustrazione e di rivalsa legato ad un senso di “superiorità” del grafico che sa cosa deve fare.

Tale posizione non tiene conto di un presupposto fondamentale: alla base di qualunque comunicazione deve esistere un terreno

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comune, o perlomeno bisogna partire da un punto comune, in cui l’utente deve riconoscersi e sentire come proprio. Bisogna insomma parlare la stessa lingua.

Secondo la definizione di Frascara[3], ogni comunicazione mira sempre ad una sola cosa: modificare un comportamento, un’attitu-dine, un modo di vedere le cose. Si fa perciò necessaria una cono-scenza ed un’osservazione più approfondite del pubblico e del suo sistema di valori. Di conseguenza, più la comunicazione si rivolge ad un pubblico generico e “ideale”, più ristretta sarà l’effettiva ricezione del messaggio. Per quanto un designer possa esser libero di fare delle scelte, ogni suo artefatto dovrà alla fine fare i conti con un pubblico, che lo valuterà in base al proprio bagaglio di conoscenze visive e culturali. E di questo egli dovrà tenere conto in qualunque caso.

Questo non significa che la comunicazione debba essere sempre necessariamente semplice o immediata. Talvolta la complessità nella strutturazione di un messaggio stimola l’utente, lo spinge alla riflessione critica, all’azione. Dunque esiste la possibilità di una posizione più attiva? O l’utente è davvero diventato un fantasma?

Viviamo in un’epoca di sovraccarico visivo, ma è ancora possibile vedere solo un messaggio per volta: data la forte competizione per la loro attenzione, gli utenti hanno la possibilità di scegliere cosa guardare. Se le scelte fatte per trasferire un messaggio colpiranno la loro attenzione perchè progettate pensando a loro, esse creeranno un prima e un dopo negli utenti che si sono confrontati con quel messaggio.

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Note:

1. Sfligiotti S., Behave! Progettare per, con o contro gli utenti?, intervento al convegno La città senza nome, Milano, 25-26 nov. 2010, a cura di F.Caldarelli, M.Rossi.

2. Lupton E., 2004. Birth of the user. in M.Bierut, W.Drenttel, S.Heller, a cura di, 2006. Looking Closer 5, New York: Allworth Press. p.23.

3. Frascara J., 1997. User centred graphic design: mass communications and social change. Londra: Taylor & Francis. p.3.

l’utente

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La grafica riveste un ruolo fondamentale nella nostra società: dato che gran parte di ciò di cui veniamo a conoscenza probabil-mente giungerà a noi per mezzo di un artefatto visivo (un libro, una pagina web, un poster): di fatto, assumendolo come vero, facciamo un atto di fiducia nei confronti dei mandanti del messaggio.

I media trasformano il grande silenzio delle cose nel loro opposto. Infestano le strade, le vite: queste narrazioni hanno la strano potere di trasformare il vedere in credere e di fabbricare realtà dalle apparenze. La realtà, prima celata e segreta, misteriosa agli occhi dell’uomo, adesso parla costantemente. …Oggi la finzione si atteggia ad unica realtà: gli spettatori cui queste leggende sono dirette non sono obbligati a credere in ciò che non vedono ma piuttosto a credere a ciò che vedono.[1]

Questo ha spinto il mondo della grafica ad interrogarsi spesso sulle proprie responsabilità etiche nei confronti degli utenti. Ma cosa vuol dire comunicare eticamente?

Innanzitutto, occorre precisare che non esiste una comunicazione a-etica: difatti, ogni forma di comunicazione che si basa sul ricono-scimento dell’Altro come soggetto indipendente e pensante è una comunicazione etica. Dunque essa potrà essere eticamente corretta quando rispetta il valore dell’Altro ed è aperta al confronto e al dialogo o scorretta se si limita ad imporre quel particolare punto di vista.

la grafica

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In quanto mediatori sociali, i grafici si trovano in una posizione tendenzialmente scomoda: in bilico tra le pressioni dei committenti e la loro personale ideologia, essi devono anche tener conto di un terzo fattore, gli utenti, su cui presumibilmente quella comunicazio-ne eserciterà un effetto. Nel modo di assegnare priorità a questi tre fattori si manifesta di fatto la condotta etica di un grafico.

Nell’accezione più comune, il grafico è visto come risolutore di problemi: egli si occupa cioè di stabilire una connessione fra il pub-blico ed il messaggio. In questa visione ingegneristica della grafica, egli è impegnato quindi nella trasmissione efficiente del messaggio all’utente: la risoluzione del problema comunicativo parte da un’indagine sistematica e razionale per poi chiudersi con la genesi formale in cui subentra la componente intuitiva. La responsabilità del designer quindi riguarda la costruzione del messaggio, utilizzan-do il linguaggio più appropriato ed efficace entro gli obiettivi della data richiesta.

Questa definizione, secondo J. Frascara[2], è vera solo in parte: innanzitutto un grafico non risolve problemi ma propone una soluzione fra le mille possibili. Un problema matematico o scientifico può essere risolto poichè per sua struttura contiene già implicitamente un discorso logico cui è possibile giungere tramite modalità deduttive. Un problema di comunicazione non può essere determinato logicamente, poichè le modalità d’indagine coinvolte sono essenzialmente adduttive. Il ragionamento adduttivo è un concetto del filosofo Peirce, che lo ha distinto dalle modalità più consuete di induzione e deduzione. La deduzione prova che qualco-sa che dev’essere come ci aspettiamo, mentre l’adduzione suggerisce come qualcosa potrebbe essere: si tratta perciò di un processo congetturale, un “ragionamento produttivo”[3].

In secondo luogo, prosegue Frascara, l’input, ovvero, la com-missione proviene per la maggior parte da interessi politici ed economici che non lasciano la possibilità d’interrogarsi sulla natura dei problemi stessi: il grafico propone un’azione in risposta ad un

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problema: ma che tipo di problema è? Se il grafico si limitasse a confezionare una buona soluzione visiva per qualsiasi contenuto, ci troveremmo di fronte a delle aberrazioni etiche, a buone soluzioni per dei problemi non buoni, come un poster per politico corrotto, e così via.

Proprio in risposta a tale rischio di subordinazione del ruolo del grafico rispetto al contenuto, spesso le voci dei grafici si sono levate per lanciare un appello alla comunità internazionale: ad esempio, il manifesto First Things First (lanciato da Ken Garland nel ‘64, poi riproposto nel 2000) esortava i professionisti ad essere più critici nei confronti delle proprie committenze, soprattutto quelle più commerciali, e di concentrarsi maggiormente su questioni e pro-blematiche pubbliche e sociali. S’invocava un cambio di rotta, una rinuncia e un rifiuto delle logiche commerciali, in nome di ideali più alti e più nobili. Il manifesto si scagliava con fervore contro la pubblicità e il suo potere manipolatorio nei confronti della società ma di fatto poi mancava di una contro-proposta concreta, al punto che il manifesto del 2000 non si discosta poi tanto nei contenuti dal precedente. Il dibattito intorno a quest’iniziativa è stato intenso e fervido, e non pochi hanno sottolineato il carattere tendenzialmente utopistico e velleitario del manifesto, che invocava un cambiamento dall’interno del mondo della grafica, senza considerare che essa è, volente o nolente, una parte dell’ingranaggio.

Constatiamo così che questi alti ideali di redimere la società dalle spietate meccaniche consumistiche donando esperienze di bellezza spesso restano di fatto soltanto teoria e parole.

Esiste nei grafici un costante oscillare fra il ruolo di semplice ambasciatore e il ruolo di messia redentore. Se prima la custodia di valori come verità e integrità morale risiedevano nella religione, adesso questo ruolo di baluardo dei valori più alti e nobili è passato alle arti. I grafici spesso si sono sentiti parte di questa alleanza, tanto più che il loro rapporto con la società è così ravvicinato. E invece essi spesso lamentano di coprire un ruolo molto più subalterno:

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ridotti ad essere le ultime ruote del carro, essi sono considerati il tocco finale, la decorazione, la patina. Visto così, l’operato del grafico si riduce a nulla più che ad un’implementazione meccanica della comunicazione. Affinché la professione non si riduca quindi ad un’azione automatizzata, è necessaria una presa di posizione più forte da parte dei grafici.

Alcuni hanno reagito a questo senso di oppressione e di aliena-zione riproponendo con forza la loro posizione in quanto autori. Laddove il grafico non si limita a codificare l’informazione, ma si assume una responsabilità nei confronti del contenuto, egli difatti diventa autore. Il suo pensiero, la sua visione del mondo interfe-riscono così con la formulazione del messaggio, arrivando anche a coincidere. Questo può prendere forma semplicemente in un nuovo linguaggio, e dunque incarnarsi in un’espressività fortemente personale e distinguibile dal resto. In questo senso, l’autorialità corre il rischio di essere riassorbita nelle logiche commerciali ed il nuovo linguaggio, inizialmente dirompente e provocatorio, si trasforma in uno stile riconoscibile e perciò applicabile secondo le regole consuete.

In altri casi, questo linguaggio si astrae così tanto dalla realtà da perdere il contatto con gli utenti e dunque il suo valore comunicati-vo. Questa è ad esempio l’accusa di Victor Papanek: nel suo Design for the real world (1985) egli aveva descritto la realtà come composta per la maggior parte da individui ordinari, poveri e non potenti e aveva accusato il design costoso, inefficiente, elitario di rimarcare questo ghettizzazione della maggioranza della popolazione. In altre parole, accusava i grafici di rivolgersi agli altri grafici piuttosto che alle persone ordinarie.

Come abbiamo visto piegarsi alle logiche del sistema non è una soluzione; tantomeno quella di tagliare i ponti con la realtà ed inseguire solo la propria espressività. Quindi che fare? Sarebbe utopistico pensare che il grafico da solo possa operare per trasforma-re la società.

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Vedere la grafica come forma di produzione sociale piuttosto che come atti individuali di creatività significa infatti riconoscere che essa è soggetta alle stesse forze economiche ed ideologiche che danno forma alle altre attività sociali umane. Solitamente è considerato fuori dalle competenze di un grafico analizzare il contenuto del suo lavoro in relazione alla politica, alla teoria, all’economia, alla morale, e così via. Ma se il dibattito generale sta creando qualcosa che ha un significato per le persone in generale, che gioca una parte nello sviluppo di una nuova, stimolante cultura visiva, allora è necessario capire come la nostra cultura funziona, come si sviluppa e come sviluppa la percezione che abbiamo di noi stessi. Significa mirare al bisogno delle persone per una cultura nella quale essi possano partecipare attivamente. Implicherà necessariamente un’analisi di cosa ci impedisce di costruire una cultura di questo tipo.[4]

La dimensione etica nella comunicazione visiva si trova nelle modalità di coinvolgimento che s’instaurano fra l’interprete del messaggio e il design visivo. Il grafico ha bisogno della collabora-zione degli utenti: senza la loro interpretazione del messaggio, il suo lavoro è inutile. Perciò è responsabilità del grafico nei confronti della committenza lavorare in collaborazione col pubblico, ma al tempo stesso la responsabilità nei confronti del pubblico invoca la collaborazione fra il designer e il committente.

Pierre Bernard di Grapus parlava di co-operazione[5] fra cliente e grafico: scegliendo delle committenze di cui si condividono gli ideali, è possibile diventare co-autori del messaggio da dare al pubblico. Senza questa alleanza, la relazione si riduce ad un servizio e la responsabilità professionale spesso sprofonda nella frustrazione.

Dunque, una soluzione può sicuramente essere quella di cercare committenze “illuminate” di cui condividere gli ideali. Ma queste circostanze si verificano di rado. La grafica è in larga parte grafica commerciale: negare l’evidenza non risolve il problema. Il grafico deve piuttosto sviluppare nuovi strumenti, partecipare a gruppi interdisciplinari, generare nuove informazioni e condividerle. Solo

la grafica

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questo potrà portare ad un cambiamento che si rifletterà anche nel rinforzarsi della rilevanza e del valore percepito della professione grafica.

Il grafico perciò non può e non deve limitarsi alla risoluzione di problemi: deve mirare ad identificarli, e dunque deve lavorare anche senza necessariamente avere una committenza. Il grafico come identificatore di problemi è dunque la realizzazione più piena della sua nuova natura di autore. La ricerca diventa una componente essenziale per produrre innovazione e cambiamento. Già Gropius proponeva l’esistenza di una ricerca personale del progettista paral-lela all’esercizio canonico della professione; tali progetti personali andrebbero sviluppati, possibilmente sostenuti da un gruppo di lavoro, sino a diventare maturi per essere proposti al “mondo reale”, il quale, egli realisticamente intuiva, avrebbe inizialmente rifiutato.

Prova a stemperare l’inevitabile fase di criticismo violento sino a che le persone non abbiamo ripreso possesso delle loro capacità mentali e fisiche necessarie ad usare la tua proposta. Dobbiamo distinguere attentamente i bisogni reali, vitali delle persone e la spirale di inerzia e abitudine che è spesso declamata come volontà delle persone.[6]

Questo aspetto di responsabilità del grafico verso la cultura viene considerato di solito un aspetto secondario. Anche se pressati dalle necessità dei clienti e dai costi di produzione, i buoni designer infiltrano il più possibile il loro lavoro con le loro personali nozioni culturali ed estetiche. Quando il grafico sceglie una prospettiva e definisce un modo di vedere il mondo, di fatto sta esercitando un giudizio critico. È impossibile perciò astenersi dal farne: essi sono impliciti nelle scelte che i grafici compiono, più o meno volonta-riamente. Cercano di trovare soluzioni intelligenti, la cui fruizione vada oltre le richieste della committenza e costituiscano un dono al pubblico, contribuendo così al benessere giornaliero e all’apprezza-mento della bellezza e dell’ingegno. Questa “modalità interstiziale”

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crea cultura attraverso la costruzione di modelli di condotta e relazioni interpersonali.[7]

La costruzione del messaggio non si esaurisce col suo prendere forma in un artefatto e non può perciò prescindere dall’utenza. Nel progettare, il grafico cerca attraverso i rapporti formali fra gli elementi di trasmettere un significato. Ma questo significato è dato soprattutto dall’incontro fra queste forme e gli utenti. Questo rompe l’autoreferenzialità della costruzione formale, e costringe il designer a riconoscere la partecipazione attiva dell’osservatore nel messaggio.

la grafica

Note:

1. De Certeau M., 1980. L’invenzione del quotidiano. Roma: Edizioni Lavoro, 2001.

2. Frascara J., 1997. User centred graphic design: mass communications and social change. Londra: Taylor & Francis. p.12.

3. March K., 1976, citato da Cross N., Designerly ways of Knowing. Springer 2007. p.37.

4. Howard A., 1994. There is Such a Thing as Society, in Bierut M., Drenttel W., Heller S., a cura di, 1997. Looking Closer 2, New York: Allworth Press. p.195.

5. Bernard P., 1990, citato da Frascara J., 1997. User centred graphic design: mass communications and social change. Londra: Taylor & Francis. p.18.

6. Gropius W., 1962, citato da Frascara J., op.cit.7. Frascara J., op.cit.

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Nel modello classico di comunicazione, ideato da Shannon e Weaver del 1949, l’informazione, dettata in un certo codice, passa da un emittente attraverso un canale al ricevente, dove subirà un processo di decodifica. Questo modello è stato definito “cibernetico” in quanto presuppone circostanze asettiche e soggetti indefiniti.

Non si tiene conto di fattori come il contesto, le circostanze, i sentimenti, gli obiettivi, e soprattutto si esclude qualsiasi forma di interpretazione del messaggio. In altre parole, se il ricevente capisce qualcosa di diverso dal messaggio originale, la comunicazione è stata fallimentare.

Come afferma Frascara, questa terminologia foraggia una “men-talità colonialista” [1], una cioè in cui il ricettore guarda alla fonte del messaggio con passività e reverenza e dove la comunicazione è un evento unidirezionale. Questo tipo di comunicazione abbonda nei mass media come la tv, dove le persone diventano riceventi senza possibilità di interazione o replica.

Ricordiamo la provocazione di Berger durante il primo episodio della trasmissione Ways of Seeing:

Ma ricordate che io sto controllando e usando per i miei personali scopi i mezzi di riproduzione necessari per questa trasmissione. Non c’è dialogo, voi non potete rispondermi: perché questo sia possibile nei moderni modi di comunicazione, l’accesso alla televisione dev’essere esteso oltre i limiti attuali. Nel frattempo, in questo programma

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come in tutti gli altri voi ricevete immagini e significati che sono imposti. Spero che voi consideriate ciò che vi ho imposto, ma siate scettici a riguardo.[2]

In molti si sono interrogati sulle effettive conseguenze dell’in-troduzione di questi nuovi mezzi di comunicazione: l’antropologo Michel de Certeau nel suo saggio L’invenzione del quotidiano (1980) s’interrogava sulle modalità d’interazione fra i nuovi mezzi e gli utenti.

Egli dipinge un panorama in cui gli utenti “consumatori” ven-gono imbrigliati dalla società e l’unica libertà lasciata loro è quella di pascolare su ciò che il sistema distribuisce ad ogni individuo. Dall’altro lato, i “produttori” vogliono informare la popolazione e attraverso la scelta dei messaggi da comunicare, dare forma alle pratiche sociali. Nel XVII secolo, l’Illuminismo poneva il libro come fulcro di riforma della società: le idee di un’elite culturale, opportunamente diffuse, potevano rimodellare la nazione. Successi-vamente, i mezzi di diffusione hanno progressivamente dominato le idee che diffondono: il testo diventa la società stessa: assume forme urbanistiche, industriali, commerciali, televisive. Ma il passaggio alla tecnocrazia dei media non ha mai messo in discussione che il consumo (o la lettura) fosse un’atto essenzialmente passivo. In una società sempre più testuale, afferma De Certeau, il binomio produzione/consumo può essere sostituito con scrivere/leggere. La cultura ha gerarchizzato le due attività: scrivere è produrre un testo, leggere è riaverlo da qualcun altro senza metterci il proprio marchio. Le abilità di leggere e scrivere sono di fatto attività separate: nella vita adulta, la lettura si dissocia presto dalla scrittura. La logica produttivistica ha isolato i produttori di testi, gli unici “scrittori”, portandoli a supporre che non ci fosse creatività nei consumatori, e nel loro processo di lettura. De Certeau rigetta con forza tale presupposto rilanciando un’idea dei lettori come forze creative ed anticipando così la teoria decostruttivista. Leggere è vagare in un testo, un sistema imposto. Attraverso il suo atto di lettura, il lettore

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da’ un senso al testo, e di fatto lo modifica: egli non prende la posizione dell’autore ma dandone la sua interpretazione lo trasfor-ma in qualcosa di nuovo. Il senso quindi viene prodotto nel lettore ed esiste solo in lui. Spesso la cultura ufficiale impone un significato letterale precostituito come strumento per esprimere il proprio controllo e instillare nei lettore un senso d’infedeltà o ignoranza nell’azzardare interpretazioni alternative. Ma la natura flessibile del testo può renderlo di fatto un’arma culturale e donare di nuovo agli utenti la loro capacità creativa.

Il filosofo americano Searle afferma qualcosa di molto simile quando dice che una mappa che non è costituita dai pigmenti d’inchiostro sulla carta bensì essa è nell’osservatore: essa esiste come mappa solo perchè l’osservatore sa come interpretarne i segni.

Ritroviamo un pensiero analogo nella filosofia di Umberto Eco e nel concetto di “opera aperta” (1962): egli individuava una nuova tendenza nell’estetica che anzichè cristallizzarsi in strutture che si raccontano esplicitamente predilige l’ambiguità, la polivalenza, l’apertura, appunto, del senso ad una molteplicità di possibili letture. L’artefatto viene offerto all’interpretazione dei fruitori nell’intento di promuovere “atti di libertà cosciente” [3].

Il fruitore diventa il

centro attivo di una rete di relazioni inesauribili, tra le quali egli instaura la propria forma, senza essere determinato da una necessità che gli prescrive i modi definitivi dell’organizzazione dell’opera fruita.[4]

Eco puntualizza che ogni opera potrebbe essere dunque conside-rata aperta alle possibili letture dell’interprete: ma il cambiamento avviene quando tale apertura non viene considerata un fattore collaterale, bensì diventa il centro dell’indagine estetica. Questo porterebbe, nella visione di Eco, ad una cultura nuova, in cui sia ammessa la pluralità dei significati (e qui tenta anche un cauto parallelo con i contemporanei sviluppi nel campo scientifico) e

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porterebbe al superamento della crisi della civiltà borghese, in cui l’uomo, non potendo più avere esperienza diretta della realtà, è diventato incapace di sottrarsi a forme acquisiste che gli vengono fornite dall’esterno. Conformismo e massificazione sarebbero il frutto di una passiva acquisizione di valori subiti come standard:

Le persuasioni occulte e le eccitazioni subliminali di ogni genere, dalla politica alla pubblicità commerciale, fanno leva sull’acquisizione pacifica e passiva di buone forme nella cui ridondanza l’uomo medio riposa senza sforzo.[5]

Questa nuova cultura può stimolare il fruitore ad una posizione più attiva e alle formulazioni di giudizi personali ed inediti. Così, a partire da questa apertura nella fruizione estetica, una maggiore elasticità e un maggior spirito critico non potranno che svilupparsi anche sul piano dei comportamenti quotidiani, delle decisioni intellettuali e dei rapporti sociali. Dare al fruitore la persuasione di un universo in cui egli non è succube ma responsabile perché nessun ordine acquisito può garantirgli la soluzione definitiva, ma egli deve procedere con soluzione ipotetiche e rivedibili, in una continua negazione del già acquisito e in una istituzione di nuove proposte ha un valore positivo che chiaramente supera il campo dell’esperienza estetica pura.[6]

Un corrispettivo di queste riflessione nell’ambito della disciplina grafica è rintracciabile storicamente, mettendo a confronto l’atteg-giamento dei progettisti attivi nella fase del modernismo maturo, del secondo dopoguerra, con le idee e la pratica dei designer più vicini alla cultura postmodernista.

I primi ponevano come prioritari ideali di universalità comunica-tiva, razionalità, chiarezza della comunicazione attraverso leggibilità e neutralità e pongono al centro la griglia come strumento impre-scindibile nella costruzione visiva dei messaggi. Il modernismo parla di comunicazione in termini assoluti.

Laddove la griglia modernista tende a separare testo ed imma-

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gine, e ordina entrambi i contenuto secondo una rigida gerarchia, l’estetica postmoderna favorisce invece una pluralità di relazioni aperte fra frammenti di contenuto. Questa corrente mutua cioè dalla filosofia francese il concetto di decostruzione, di rompere e creare piani di lettura multipli. Così ogni combinazione di immagini e parole diventa un gioco di connotazioni possibili, sorpassando la definizione canonica, il significato denotativo. Tutto diventa pos-sibile e legittimo: ogni associazione può potenzialmente generare significato e il senso si va a depositare negli occhi degli osservatori. Il critico Max Bruinsma ha definito quest’estetica come l’estetica del transitorio[7]: essa si limita sempre e solo, ad accennare, suggerire possibilità di senso. Per esprimere questo senso di vuoto dei segni che attendono di essere riempiti dal lettore, i grafici hanno ricorso in primis agli strumenti offerti dal linguaggio di base: tipografia, linee, cornici. Questi elementi basilari della comunicazione visiva che da sempre mirano a rendere il significato del messaggio traspa-rente adesso vengono usati per mostrare l’assenza di ordine, l’as-senza di gerarchia, di significati prestabiliti. A volte i testi vengono spezzati per ricomparire più in là nella pagina.

Come ha affermato Michel de Boer di Studio Dumbar:

La grafica non dovrebbe essere troppo facile, nè da fare nè da vedere. Il destinatario del messaggio dovrebbe essere indotta a ragionare, costringendoli a pensare a ciò che vedono.[8]

Questo linguaggio è diventato sempre più comune ed è stato usato sempre più entusiasticamente anche nella pubblicità: sempre più spesso abbiamo modo di vedere combinazioni non-sense di im-magini, frasi, parole mischiate fra loro a raccontare ed evocare così tante storie che nessuno slogan brillante potrebbe mai esprimere.

Una delle conseguenze di questa tendenza è quindi il progressivo svuotamento degli artefatti di qualsiasi leggibilità in favore di soluzioni più ardite e forse, in ultima analisi, più vuote di contenuto.

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in teoria

Forse alla base di questi assunti, giace un’idea molto precisa di che tipo di utenti i grafici hanno in mente: sicuramente non pensano a dei fruitori anziani o poveri o senza un’adeguata formazione ma si rivolgono ad una piccolissima parte della popolazione, quella più vivace ed attiva culturalmente. Così facendo essi rendono di fatto la lettura un atto di consumo privato. Visto così, l’atteggiamento non si discosta poi tanto da una visione della grafica come espressione libera e creativa del sè: l’unica differenza è che così facendo essa è sostenuta e rinforzata da una teoria, da una filosofia della grafica.[9]

Un’analisi ancora più in profondità è quella di Kinross: egli si riallaccia alle teorie linguistiche di Saussure, considerate il fondamento della filosofia postmoderna, in quanto stabilivano come arbitrario il legame fra un segno ed il suo significato. Questa arbitrarietà è stato intesa come un voler proiettare il significato nel ricevente del messaggio: ma Saussure puntualizzava subito dopo che, perchè la corrispondenza fosse effettiva, dovesse essere condivisa da una comunità. In altre parole, arbitrarietà non significa libertà interpretativa ma che il legame segno-significato non ha una connessione effettiva con la realtà. Kinross parte da questo per negare con forza che la grafica, che possiede una sua materialità, sostanziandosi in artefatti visivi (il suo riferimento erano soprattutto i libri) possa incarnare l’arbitrarietà della lettura.

Un foglio stampato non è affatto indeterminato, e tutto ciò che viene lasciato al lettore non è altro che la vanità del grafico… Ben lontano dal dare libertà interpretativa al lettore, il design decostruzionista impone la lettura del grafico sul testo su tutti gli altri.[10]

Natalia Ilyin[11] non manca invece di sottolineare come questo atteggiamento di apparente libertà concessa all’utente possa di fatto celare un’autentica paura di mostrare una propria personale ideolo-gia. In un’epoca in cui tutto cambia così velocemente, forse i grafici temono di prendere una posizione precisa, temono il rifiuto

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e l’obsolescenza. Forse può essere che lasciare l’interpretazione aperta a chiunque significhi di fatto glissare sulle proprie responsa-bilità nei confronti dell’utente?

Note:

1. Frascara J., 1997. User-centered Graphic Design, Londra: Taylor & Francis. p.252. Berger J., Ways of Seeing ep.1, 1972, BBC3. Pousseur citato da Eco U., 1962. Opera Aperta, Milano: Bompiani. p.35.4. Eco U., ibidem.5. Eco U., op.cit., p. 151.6. Eco U., op.cit., p.8-9.7. Bruinsma M., 1997. The Aesthetics of Transience, disponibile su www.maxbruinsma.nl/eye/index.html?25trans.htm.

8. de Boer M. , 1991 citato da Stiff P. , 1993. Look at me! Look at me!(What designers want), in Eye n. 11, 1993.

9. Stiff, P. ibidem.10. Kinross R., 1994. Fellow Readers: Notes on Multiplied language, in Bierut M., Drenttel W., Heller S., a cura di, 1997. Looking Closer 2, New York: Allworth Press. p.22.

11. Ilyin N., 1994. Fabolous Us: Speaking the language of Exclusion, in Bierut M., Drenttel W., Heller S., a cura di, 1997. Looking Closer 2, New York: Allworth Press.

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Il grafico svolge la maggior parte del suo lavoro in solitudine. La natura autentica del suo lavoro lo spinge all’isolamento, a rinchiudersi lontano dal mondo, dalla folla. Abbiamo parlato del concetto di utente, del suo ruolo fondamentale nell’interpretazione: tutto sembrerebbe auspicare un’attenzione maggiore al mondo degli utenti, se non addirittura un suo coinvolgimento diretto nelle fasi di progettazione. Le riflessioni che abbiamo fatto finora si sono concentrate su modalità di progettazione client-centered o designer-centered: di recente, nuove tendenze nella grafica contemporanea si stanno concentrando su una visione user-centered. Porre gli utenti come centro delle finalità di progettazione significa fornire delle informazioni in modo mirato e conforme alle loro aspettative e necessità: in questo modo, i committenti darebbero un valore aggiunto ai loro prodotti e servizi, il valore di una comunicazione efficace e focalizzata sugli utenti, e il beneficio apportato dalla grafica diverrebbe, in questo modo, evidente.

In genere gli artefatti grafici vengono valutati per le loro qualità formali ed estetiche. E chi è a valutare? Generalmente altri grafici, o esperti del settore. L’utente ha ben poco a che fare con tutto ciò. Forse, i progetti dovrebbero cominciare ad essere giudicati per il loro modo di interagire col pubblico, che resta sempre e comunque il presupposto primario di ogni comunicazione. Alla fine dei conti, i risultati potrebbero non apparire così diversi da quello che vediamo oggi, ma il punto sta proprio nel rifondare i criteri di valore.

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in teoria

Impostare il lavoro su un metodo di ricerca che si focalizzi sui bisogni degli utenti diventa allora prioritario.

Per avere uno sguardo più in profondità delle persone a cui si rivolge, la grafica può attingere dai metodi di ricerca ed indagine dalle scienze sociali. Avere una conoscenza delle dinamiche sociali di creazione della cultura apporta sicuramente un valore aggiunto alla comunicazione visiva.

L’antropologia, cioè lo studio del comportamento umano, analizza come le persone esperiscono e traggono senso dal mondo circostante. Questo processo rientra in quello che generalmente viene definito cultura: le pratiche, artefatti, sensibilità e idee che danno forma alle nostre vite quotidiane. La cultura include fenome-ni che vanno dall’allacciare le scarpe alle fedi religiose. Di solito le persone non sono consapevoli di come e quanto partecipano al dare forma alla cultura. Gli oggetti d’uso si rapportano agli uomini sia attraverso la loro utilità, il loro impiego effettivo per assolvere una funzione e sia per la loro locazione culturale, la loro “situazionalità” attraverso cui essi assumono significato e diventano oggetto di interpretazione. Gli artefatti diventano così ideologie materializzate. essi ci aiutano a creare la nostra esperienza soggettiva del mondo.

Se l’antropologia cerca di dare la visione d’insieme, l’etnografia studia invece un gruppo di persone nel loro ambiente, in modo da avere una comprensione approfondita e dettagliata. I riscontri pos-sono essere considerati al tempo stesso descrittivi, perchè cercano di catturare ogni dettaglio possibile, ed interpretativi perchè l’etnografo deve intepretare quei dettagli alla luce della sua tesi, senza ricorrere ad informazioni più ampie.

Nell’etnografia accademica o “pura” l’osservazione dei partecipanti può richiedere mesi o anni, affinchè i dati tratti siano attendibili e non influenzati dalla presenza “estranea”. Esiste anche la possibilità che si generi un legame affettivo ed empatico profondo fra lo studioso ed il gruppo.

La comunicazione visiva può avvalersi degli strumenti etnografici

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per analizzare ed osservare i comportamenti di un gruppo ristretto di persone. Applicata a contesti concreti, ad esempio per finalità di mercato, l’osservazione si riduce a pochi giorni, ed è perciò general-mente compiuta da etnografi di grande esperienza.

Questi strumenti tradizionali di ricerca si focalizzano essenzial-mente sull’osservazione; nelle ricerche più orientate al marketing su quello che le persone dicono e pensano. I metodi più usati possono essere qualitativi (che mirano cioè ad individuare un particolare aspetto in ogni suo dettagli) come interviste, focus groups, questionari, brainstorming oppure quantitativi (che mirano ad avere dati generali e complessivi) come statistiche e questionari. I metodi qualitativi generalmente coinvolgono un numero variabile di persone (da due a centinaia) invitate a discutere su un argomento: la discussione è impostata secondo delle linee-guida e viene super-visionata da un moderatore imparziale. Essendo basati su un’inte-razione sociale, essi offrono informazioni su come opinioni ed idee prendono forma, Se da un lato le osservazioni etnografiche offrono un’osservazione molto precisa e realistica, esse risultano poi difficili da generalizzare. Viceversa gli strumenti di discussione rischiano più facilmente di essere “falsati” (ad esempio i partecipanti possono influenzarsi l’un l’altro).

La prima traccia di contatto fra i due mondi è rintracciabile nel 1955 con il libro di Henry Dreyfuss Designing for people nel quale il designer caldeggiava l’uso di metodi come l’osservazione diretta e le interviste per la costruzione di modelli cognitivi.

Da allora pochi passi sono stati compiuti in favore di un avvici-namento di queste due discipline, soprattutto nell’ambito specifico della grafica. Questo è dovuto in parte alla difficoltà di interfacciare la grafica, una disciplina fondata sul progetto e sulla prassi, con le indagini sociologiche ed antropologiche più complesse e “pure”, che spesso parlano un linguaggio molto specifico, se non ostico.

Tuttavia, come sostiene Tim Plowman[1], avvalersi dei contributi di queste discipline in fase di progettazione può contribuire ad

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processo di apertura ed espansione della professione, offrendo ai grafici la possibilità di avere vedute più vaste e ripensare criticamen-te la disciplina: a differenza delle scienze sociali, storicamente la grafica manca di una sistematizzazione teorica delle sue procedure. L’applicazione e “materializzazione” di queste teorie porterebbero a chiarificarle e darebbero fondamento teorico alla disciplina della grafica: lo stesso Victor Margolin[2] invocò una più stretta analisi della presenza/assenza di particolari artefatti in rapporto alla costruzione di ideali di felicità nelle persone.

Nei processi user-oriented, dunque, l’artefatto si progetta focalizzandosi sul soddisfacimento delle necessità degli utenti. Lo scienziato sociale fa da interfaccia fra l’utente e il grafico. Raccoglie dati direttamente oppure attraverso i metodi indiretti. Il grafico interpreta questi dati attraverso delle immagini o scenario. L’utente non è chiamato direttamente in causa ma viene intermediato dal ricercatore.

Un’altra modalità indiretta di studio sugli utenti consiste nell’informance design: essa consiste nel creare, attraverso delle performance, dei personaggi dotati di una propria personalità e capaci di conseguenza di esprimere giudizi ed opinioni sull’artefatto da testare. Gli attori/ricercatori studiano i dati raccolti come un copione su cui basare i loro ruoli: questo processo diventa di fatto apprendimento (esattamente come quando i bambini simulano situazioni ipotetiche e giocano a fare i grandi). Questo tipo di ricerca mescola etnografia ed empatia: si parte dall’osservazione di un particolare gruppo per poi immedesimarsi con esso e trasformare l’empatia in azione.

Se il ruolo primario del designer nelle forme di progettazione user-oriented è quello di coreografo che fornisce un supporto ai bisogni e alle motivazioni dell’utente, allora le sue personali incli-nazioni e ideologie rischiano di esser messe da parte. Ma non tutti si sentono a loro agio con questo ruolo, soprattutto se pensano che ogni decisione in fase di progettazione abbia degli effetti sul mondo

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circostante. Nuovi scenari sono emersi da questo e costituiscono in parte un superamento dei metodi tradizionali user-oriented.

Il persuasion design, ad esempio, si basa sulla rilevanza dei fattori psicologici ed emozionali nei processi decisionali cui viene dato un valore prioritario. Come dice la parola stessa, la persuasione attra-verso la progettazione, il far leva su fattori emotivi, o sub-coscienti porterebbe il grafico ad indirizzare gli utenti verso comportamenti o pensieri che il designer ritiene necessari. Il potente influsso del be-nessere psicologico è stato rivelato da uno studio che ha dimostrato come una facina sorridente sulla bolletta dell’elettricità abbia ridotto i consumi medi dell’8%. Così facendo, il grafico ha l’occasione di far valere la propria voce ed assumersi la piena responsabilità nei confronti degli effetti dei suoi artefatti sugli utenti.

Il designer può diventare un catalizzatore per il cambiamento, se s’immerge ad un livello profondo nella comunità a cui vuole comunicare un messaggio: questo processo ha preso il nome di catalyst design. Anziché portare degli utenti-campione all’interno dell’ambiente di lavoro, è il grafico che si sposta nella comunità doe attira gli utenti attraverso poster, eventi e crea così una rete d’influenze, una coesione sociale che genera consensi condivisi sulla creazione di nuovi scenari futuri. È evidente che questo approccio deve molto ai metodi etnografici.

Un esempio di questo tipo è il Project Masiluleke che mira ad ab-bassare il numero di infezioni HIV attraverso l’uso delle tecnologie cellulari. Degli uomini provenienti da differenti aree del Sudafrica sono stati coinvolti attivamente nella progettazione di una campa-gna pro test-HIV: da questa fase, è emerso come i cellulari abbiano un’ampia diffusione nel Sudafrica e dunque essi sono diventati lo strumento per una diffusione capillare del messaggio.

Performance design si occupa invece dell’osservazione dei com-portamenti simulati su piattaforme virtuali come ad esempio Second Life o World of Warcraft. Il professor Jeff Bardzell, ideatore di questo strumento, partecipa a queste piattaforme, creandosi una personalità

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fittizia atipica, che offre supporto sociale agli altri giocatori. Inizial-mente si fermava nelle periferie per chiacchierare con le persone, per poi diventare parte di una confederazione, e usando questo ruolo per incarnare e trasmettere gli ideali che voleva diffondere. Per farlo, egli ha trascorso lungo tempo progettando il suo personaggio, studiando i valori e gli ideali degli utenti in modo da comprendere i loro bisogni, per poi performarli.

Queste realtà sembrano molto lontane dalla comunicazione di cui abbiamo parlato sinora, e probabilmente ci vorrà molto tempo prima che essi diventino delle pratiche più diffuse e consolidate, tuttavia essi mostrano delle vie alternative d’uscita allo stallo in cui la posizione del grafico oggi pare essere.

Nelle forme propriamente partecipative, i ruoli del designer e del ricercatore diventano meno rigidi e l’utente diventa una compo-nente critica del processo. Se prima sullo sfondo stava il “mercato di massa” in cui le persone agivano all’unisono, e tendenzialmente era facile studiarne e prevederne comportamenti e necessità, adesso la società è immensamente diversificata.

Un passo successivo consiste nell’experience design: si tratta di un passo significativo ed inevitabile che sposta la figura del designer dalla progettazione chiusa di un artefatto a quella più processuale e dinamica dell’esperienza di un’artefatto o di un evento. È evidente come questo sia fondamentale nel progettare forme di comunicazio-ne visiva. Avendo accesso non solo all’informazione da comunicare ma anche ai fattori che influenzano la ricezione del messaggio, pro-gettare esperienze diventa possibile. Per farlo, possiamo ascoltare le persone; ma spesso essi non sanno cosa vogliono o non sono capaci di focalizzarlo verbalmente; in quel caso si ricorre all’osservazione diretta. Scoprire ciò che le persone pensare e conoscono offre infor-mazioni sul loro modo di percepire. Capire ciò che essi sentono, crea una sintonia, una conoscenza tacita (che non può essere espressa a parole) e può far emergere necessità latenti. I nuovi strumenti in un’ottica partecipativa si focalizzano sull’utente in azione, su come

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si interfaccia con gli strumenti che ha a disposizione per esprimere i suoi sentimenti e pensieri.

Questi Make Tools sono un linguaggio di progettazione pensato per gli utenti e non per i designer: se usati in fase di ideazione di un progetto, essi generano degli artefatti realizzati dagli utenti che possono portare idee su bisogni non identificati o irrisolti. Esempi di questi strumenti sono forme più emotive come diari o collage oppure cognitivi come mappe, modelli 3D, diagrammi. Questi artefatti sono basati sulle esperienze degli utenti piuttosto che sull’oggetto in sè.

Queste riflessioni hanno portato alla creazione di una nuova visione del design chiamata Postdesign proposta da Elizabeth B.-N. Sanders[3], presidente della SonicRim, un’agenzia di consulto e ricer-ca di mercato. Postdesign focalizza l’attenzione sull’utente, ritenen-do questa un’epoca in cui le persone sono dotate di una mentalità più flessibile ed incline alla progettazione e dunque capace di dare forma concreta ai propri bisogni. Questo nuovo approccio prevede dunque una partecipazione attiva dell’utente in quanto fonte di materiali e spunti, valorizzandone così il ruolo, spesso sottovalutato, se non ignorato, nei processi creativi.

Note:

1. Plowman T., 2003. Ethnography and Critical Design Practice, in Laurel B., a cura di, 2003. Design Research, methods and perspectives, Massachussets: MIT Press.2. Plowman T., ibidem.3. Sanders E. B.-N., 2002. From user-centered design to participatory design approaches, in Frascara J., 2002. Design and the Social Sciences, Londra: Taylor & Francis Books Limited.

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Come abbiamo visto, il panorama contemporaneo nella comuni-cazione visiva sta subendo un graduale spostamento dalla progetta-zione di artefatti a quella di processi o di azioni. Queste tendenze fanno un ulteriore passo avanti nel rapporto fra grafica ed utente: egli diventa una componente imprescindibile all’esistenza stessa di questi progetti, ed al tempo stesso può servirsi di questi strumenti per dare spazio ad una espressione di sè più libera ed aperta.

Abbiamo visto che anche nell’arte il concetto di “apertura” impli-ca un contatto più profondo con lo spettatore: ad esempio, Franco Vaccari, fotografo degli anni Sessanta, affrontò la problematica del ritratto come rappresentazione autentica e naturale, attraverso un superamento dei ruoli consueti di fotografo e soggetto. Vaccari, in-fatti, demandava al soggetto stesso del ritratto il ruolo di fotografo, eliminando così ogni tentazione d’interpretazione e garantendo una posa spontanea ed onesta. Le sue mostre consistevano dunque in una stanzetta per lo scatto e in pareti piene di autoscatti, il fotografo privato della sua posizione di superiorità.

Non sono affatto convinto che l’arte sia un autovalore, ma sia invece una funzione del gruppo. A me interessava provocare un mutamento del rituale connesso con le esposizioni e suscitare nel visitatore un salto nella coscienza dell’esserci.[1]

la partecipazione come gioco

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Chiaro che dietro questo atteggiamento di Vaccari si celava una messa in discussione della posizione elitaria dell’arte rispetto al pubblico ed una spinta alla democratizzazione dell’attività artistica, un invito allo spettatore a guardare e guardarsi da prospettive inedite e nuove.

Una ricerca affine nell’ambito della grafica, volta a rompere la sacralità della “quarta parete”, è costituita dal Bubble Project, ideato da Ji Lee. Recita il manifesto:

I nostri spazi sono sovrappopolati dalla pubblicità, Stazioni dei treni, piazze, autobus, metropolitane ora urlano un messaggio dopo l’altro. Se una volta erano considerati pubblici, questi spazi adesso si stanno progressivamente privatizzando, per diventare la voce delle multinazionali. Noi, il pubblico, siamo sia l’obiettivo che la vittima di questo attacco mediatico. Il Bubble Project trasforma istantaneamente questi ingombranti monologhi corporativi in dialoghi aperti al pubblico. Incoraggiano ognuno a riempire questi spazi con qualsiasi messaggio, senza nessuna censura. Più Bubbles significa più spazi liberati, più condivisione dei pensieri personali, più reazioni agli eventi e, cosa più importante di tutti, più immaginazione e divertimento.[2]

Nel 2002 Ji Lee lavorava per una agenzia pubblicitaria a New York ma provava un profondo senso di frustrazione dovuto alla chiusura e al conservativismo del mondo della pubblicità. Decise allora di creare di rompere le regole ed autofinanziare la stampa di 20000 adesivi a forma di fumetto. Cominciò ad incollarli sulle pubblicità in giro per New York. I balloon cominciarono a riempirsi in tempo breve. Oggi è diventato un vero proprio fenomeno di massa, e si è diffuso anche fuori dall’America con delle “filiali” in Italia e Spagna.

Ma come è facilmente intuibile, questa è una strada rischiosa in un duplice senso: è vero che la pubblicità è una forma di comuni-cazione che dilaga in maniera talvolta prepotente ed aggressiva nei

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confronti del contesto. Ma negare la sua esistenza è irrealistico: essa non nasce dal nulla, ma ha preso forma e si è sviluppata alla luce di particolari congiunture storiche, sociali ed economiche di cui è oggi l’espressione. Inneggiare alla distruzione della pubblicità, alla sua persecuzione sistematica in nome di più alti valori culturali rischia semplicemente di sostituire all’oligarchia degli ideali consumistici, un’altra oligarchia, quella di una cosiddetta cultura alta, comunque imposta dall’alto.

Secondariamente, questo progetto parte dal nobile presupposto di smuovere le coscienze dei cittadini, ma spesso l’uso libero di questi balloon si riduce ad espressioni ben più basse e prive di contenuto. Questa libertà concessa è di fatto illusoria: regalata senza fornire strumenti critici, si riduce ad una sterile, giocosa anarchia.

Il gioco, con un’accezione molto differente, sta anche alla base del lavoro di Luna Maurer, definito Conditional Design. Infatti la sua ricerca si concentra non su degli artefatti conclusi, bensì sulla progettazione di processi. Attraverso il suo manifesto, la Maurer illustra come in un’epoca dinamica e data-driven romanticizzare il passato è inutile: bisogno piuttosto adattarsi alle nuove possibilità d’interazione, creando non dei prodotti ma dei processi, capaci di adattarsi alla mutevolezza di contesti e partecipanti.

Questo si traduce in delle esperienze “ludiche”: ogni gioco si basa infatti sull’esistenza di regola da rispettare e su cui basare compor-tamenti e relazioni. Gli utenti sono invitati a partecipare a questi giochi, rispettando le regole: ad esempio, costruire delle forme con del nastro adesivo, disegnare su un foglio comune, creare musica su quattro computer insieme. Questi pochi esempi rivelano due cose: innanzitutto, la creazione di un aggregamento sociale ed empatico in cui tutti i partecipanti diventano una collettività transitoria, che condivide strumenti e modalità interpretative (le “regole”); in secondo luogo, l’esistenza di queste regole pone dei limiti che, in quanto tali, stimolano la riflessione sul valore delle proprie scelte.

Il conditional design è generativo, ma in senso lato: esso riporta

la partecipazione come gioco

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al centro il valore dell’individuo la cui partecipazione è fondamenta-le allo sviluppo del progetto. In un’epoca dominata dalle tecnologie, lasciare che questi strumenti generino in automatico e casualmente i risultati sembra naturale. Riportare al centro l’individuo, e dunque rifiutare la casualità come input rivela la natura etica di queste riflessioni.

Ci sarebbe da interrogarsi poi su come effettivamente queste esperienze vengano vissute dai partecipanti: s’insinua infatti il dubbio che l’insieme delle regole (in genere molto semplici ma anche molto rigide) porti di fatto all’automazione del processo e all’annullamento di qualsiasi pensiero critico. L’utente diventa una pedina, in qualsiasi momento interscambiabile: quanto ci siamo allontanati dall’automazione della macchina?

Le direzioni qui discusse hanno il merito di portare l’utente al centro del processo, rendendolo una parte necessaria alla realiz-zazione dell’opera. Le anima un sentimento affine di riscattare un ruolo più attivo e creativo per la collettività; tuttavia, nel dettare le condizioni per “stare al gioco”, tacitamente sottintendono ed autorizzano una partecipazione di fatto acritica.

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la partecipazione come gioco

Note:

1. Vaccari F., 1974. Autointervista, in N.Leonardi, 2007. Feedback:scritti su e di Franco Vaccari, postmediabooks, p. 112

2. Lee J., 2002. The Bubble Project manifesto, disponibile su www.thebubbleproject.com

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Tutti gli uomini sono designer. Tutto ciò che facciamo, tutto il tempo, è design perchè il design è alla base di qualunque attività umana.[1]

Abbiamo prima parlato del grafico come risolutore di problemi. Questa definizione resta una delle più comuni ma anche delle più discusse. Non solo infatti, come abbiamo già detto, non ci si può riferire alle questioni comunicative come problemi. Se poi inten-diamo per problema come qualcosa che crea disagio e che potrebbe essere migliorato, allora ogni persona su questa terra è un risolutore di problemi. E difatti è così: ognuno, attraverso il suo personale modo di vedere ed interpretare la realtà, agisce ed attraverso le sue azioni manipola la realtà per perseguire i suoi obiettivi.

Già Nigel Cross [2] si era interrogato sull’esistenza di un tipo d’intelligenza di tipo progettuale: è chiaro che anche i non-designers possiedono almeno alcune capacità progettuali. Nella società industriale queste spesso si riducono alla selezione fra i beni disponibili che sono già stati progettato da qualcun altro: i vestiti, l’arredamento della propria casa. Tutti gli oggetti di cui ci circondia-mo sono un linguaggio che supera il verbale, diventano estensione di noi stessi, un’autoritratto, un modo di presentarci agli altri ed un dimensione esclusiva dell’umanità. La funzionalità degli oggetti che scegliamo è solo uno dei fattori; li scegliamo infatti anche per quello che comunicano agli altri, per mostrare aspetti di noi stessi.

In altre società, specialmente non industriali, c’è spesso una meno

l’era del desktop publishing

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chiara distinzione fra abilità progettuali professionali ed amatoriali, e il ruolo del designer professionista parrebbe non esserci. Nelle società artigiane, ad esempio, gli artigiani non solo producono og-getti d’uso pratico ma spesso questi mostrano anche qualità di tipo estetico. Essi dunque rivelerebbero di possedere livelli di capacità progettuale più alta, anche se in questi casi, l’abilità è collettiva più che individuale. Questi oggetti possiedono una lunga evoluzione nel tempo e spesso il processo che porta alla loro creazione parte dalla copia di quelli delle generazioni precedenti: quindi in questo caso possiamo ben parlare di intelligenza progettuale collettiva.

Persino nelle società industriali, dotate di una classe di progettisti vera e propria ci sono spesso esempi di design vernacolare, che di solito seguono le regole consolidate del “come va fatto”, simile all’ar-tigianato. Talvolta emergono esempi di design naif, nel senso buono del termine. Un esempio sono le Watts Towers di Simon Rodia. Nel 1980, l’artista Richard Wentworth realizzò Making Do and getting by una raccolta di esempi di “creatività spontanea” : artefatti creati per rispondere ad urgenze d’uso assemblando materiali di fortuna rivelano come le persone inconsapevolmente pieghino il mondo alla loro personale interpretazione e necessità.

I grafici stanno sviluppando una crescente consapevolezza di queste capacità: Portable Effects è un’esplorazione video ad opera di Rachel Strickland[3] che osserva l’architettura portatile, cioè gli oggetti che le persone portano con sè, e il modo in cui lo fanno. Una persona vive fuori casa per quasi tutta la giornata, perciò ciò che sceglie di portare con sè è ritenuto essenziale e riflette il proprio modo di organizzare la vita. Questi materiali sono stati poi organizzati attraverso un linguaggio che crea connessioni fra i differenti soggetti osservati, generando così una serie polilineare di film. Questo progetto realizzato fra il 1998 ed il 2003 incarna uno sguardo più profondo sulla società e rivela di fatto l’esistenza di una attitudine alla progettazione nell’umanità.

Finora abbiamo parlato di forme “vernacolari” di creatività,

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nate da urgenze concrete che richiedono un picco d’ingegno e che solitamente fioriscono in situazione condizionate da forti ristrettez-ze e limiti. I risultati assumono spesso un’aspetto “arrangiato” e di fortuna, che spesso non manca di essere estetizzato sotto l’etichetta di naif.

Ma un cambiamento storico rivoluzionario è avvenuto intorno agli anni Ottanta: il desktop publishing.

L’avvento del personal computer ha dilatato il raggio d’utenza dei processi di creazione ed editing di testi, immagini, video. È evidente che questo fenomeno non ha avuto risonanza solo nell’ambito dei professionisti ma che abbia cambiato anche le prospettive degli utenti.

Come afferma Ellen Lupton[4]:

Il desktop publishing ha reso le persone più attente al significato della progettazione. Imparando a editare e formattare i testi, essi diventano capaci di riconoscere la qualità della grafica ben progettata. (…) Siamo arrivati ad una svolta nell’evoluzione della coscienza del design. Il pubblico è maggiormente consapevole dei valori e dei linguaggio del design, dalla grafica all’architettura alle auto. Al tempo stesso, molti consumatori, soprattutto i più giovani, guardano con crescente scetticismo all’economia della produzione di massa.

La Lupton è la maggior sostenitrice della generazione Design-It-Yourself. Nel libro con lo stesso nome, la Lupton parte dal presup-posto che è impossibile continuare ad ignorare questa tendenza: i grafici hanno spesso demonizzato o negato la possibilità che ognuno si autoproducesse la grafica, già pronti a commemorare la fine della professione. Ma la Lupton non crede che questo significhi la morte della grafica: al contrario, una maggior consapevolezza delle regole e degli strumenti della comunicazione visiva porterà gli utenti a riconoscere quando l’intervento di un professionista è necessario, e ad occuparsi da soli del resto, come tra l’altro già fanno,

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ma con maggior padronanza e con risultati migliori.L’ideologia che traspare è anche politica: riappropriarsi dei mezzi

di produzione coincide cioè col riscatto dall’alienazione del lavora-tore che non possiede il materiale che produce. Il classico esempio dello spirito fai-da-te: costruirsi da soli il telescopio per osservare le stelle è meglio che andarlo a comprare perchè dona all’esperienza un sapore di unicità ed irripetibilità.

Il libro si configura come manuale condensando una serie di suggerimenti pratici per i non-esperti fornendo una serie di esempi ed ispirazioni. Le premesse sono giuste eppure questo manuale sembra voler dire qualcosa di diverso da quello che intendiamo per comunicazione visiva: l’importanza della progettazione non emerge con chiarezza, e sembra di voler ancora reiterare l’importanza prioritaria del fare le cose “belle” e di trarre gratificazione dal potersi esprimere liberamente e “artisticamente”.

La mentalità do-it-yourself è parte di un fenomeno più ampio chiamato prosumerismo. La figura del prosumer fu preconizzata da Alvin Toffler nel 1980, predicendo che i ruoli di produttore e consumatore si sarebbero fusi. Il mercato di massa, infatti, per incre-mentare i profitti, sarebbe gradualmente passato dalla produzione massiva di prodotti standardizzati ad una produzione personalizzata di massa. Per raggiungere un livello alto di personalizzazione, i consumatori devono ovviamente partecipare in prima persona ai processi produttivi. Una lettura più estrema del prosumerismo porta ad un’aumento dell’auto-sufficienza e di conseguenza ad un progres-sivo indebolimento delle multinazionali. È in quest’ottica che oggi il fenomeno ha preso piede: una riconquista della libertà liberandosi dalle briglie mentali ed economiche imposte dal consumismo. Questo atteggiamento, unitamente al dilagare dei nuovi mezzi d’informazione, ha cambiato anche il modo di fruire e di condivide-re le informazioni. Pensiamo a Wikipedia o Flickr: in questi esempi, troviamo una specie di consumismo inverso in cui il consumatore dona delle parti e fruisce di altre.

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La templated mind, la mentalità del modello vuoto è il risultato di questo processo: aree di testo, metatags, customizzazione sono quello che oggi gli utenti cercano per esprimere se stessi. Ciò che va considerato però è che queste presunta libertà di personalizzare tutto intorno a noi di fatto non esiste: essa è definita dai limiti im-posti da questi modelli che hanno creato un linguaggio che di fatto inconsciamente è già presente nelle menti. Adesso questa libertà di personalizzare diventa prioritaria sullo stile, persino sul contenuto. Gli utenti semplicemente cercano le opzioni di customizzazione.

Forme ancora più ampie di questo fenomeno sono da indivi-duarsi nell’open-sourcing, cioè in quelle forme di collaborazione aperta alla partecipazione di chiunque, basate sulla labilità dei rapporti di gerarchia nella gestione dei progetti e sulla possibilità di effettuare degli spin-off per portare avanti ricerche autonome; nel crowd-sourcing in cui lo sviluppo del progetto viene affidato tramite una chiamata aperta ad un insieme di persone non già organizzate in un’associazione. Esempi ne sono il già citato Wikipedia oppure Zooppa.it, un sito in cui chiunque può creare un portfolio online e partecipare a varie competizioni per lo sviluppo di marchi e brand-identities.

Questi fenomeni manifesta un nuovo bisogno della collettività di oggi: quello dell’individuo di emergere dalla massa, di dire la propria pubblicamente. Oggi tutti sono più consapevoli delle dinamiche del mercato e della sua influenza sul loro operato. Gli utenti sono meno manipolabili, o perlomeno una parte di essi. Diventa sempre più forte l’impulso di esprimere il proprio valore in quanto individuo unico e differente e gli strumenti per farlo sono a disposizione di tutti.

C’è chi, nel mondo dei professionisti, vede in questo un’occasione di rivalsa sociale: Max Bruinsma, ad esempio, invita le persone a non essere fruitori passivi, ma di diventare utenti in senso letterale, cioè a far uso degli strumenti oggi a loro disposizione per riportare in vita quel senso di collettività, di bene pubblico che la privatizza-

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zione degli spazi pubblici ha progressivamente annullato. Bruinsma sogna il ritorno dell’agorà, e lo rivede nelle piazze delle città italiane: perciò egli sostiene fermamente che intervenendo su uno spazio pubblico sia, di fatto, un’azione pubblica.

Essere un utente adesso significa essere un partecipante attivo alle reti di comunicazione che sono messe a tua disposizione. E se sono chiuse o proibite, usa i tuoi strumenti per averne accesso! L’utente usa i suoi strumenti per partecipare attivamente alla creazione di uno spazio comune a tutti gli utenti: un’attività civica nel dominio pubblico.[5]

Oggi ogni persona dotata di una fotocamera digitale e di un computer è in grado di produrre ed alterare un’immagine. Come risultato il potere dell’immagine si è indebolito in un senso, ma rinforzato nell’altro: diluito dall’ubiquità delle immagini e dalla de-mocratizzazione delle tecnologie (camere poco costose e programmi di fotoritocco) ma al tempo stesso ha chiaramente determinato la sua vittoria sulla parola.

L’immagine domina il nostro mondo ed al tempo stesso è diventata meno sacra: i programmi di fotoritocco istigano una violenza sull’immagine e consentono di dare forma a fantasie irreali o iperreali. Certo, la frode non è nata con Photoshop, ma essa è ora democratizzata e, soprattutto, incontrollabile.

Un’altro strumento, imprescindibile negli ambienti del business, è Microsoft Powerpoint. Ora il suo utilizzo è dilagato nelle scuole o nelle cerimonie sociali. Nonostante il suo uso sia diffusissimo dal principio, PowerPoint è sempre stato oggetto di forti critiche: accusato di coprire la completa mancanza di contenuto a furia di animazioni ed elenchi puntati, di distrarre l’attenzione col suo passare da una slide all’altra, di congelare qualsiasi opinione o discussione.

Nel 2003, Edward R. Tufte [6] nel suo saggio “Lo stile cognitivo di PowerPoint” sostiene che il programma con la sua ampia gamma

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di modelli e slides indebolisce il ragionamento spaziale e verbale e corrompe quasi sempre l’analisi statistica. In quanto programma chiaramente orientato verso il presentatore piuttosto che verso il pubblico, esso favorisce uno modello cognitivo caratterizzato dall’impoverimento dei concetti attraverso un ritmo di sequenza troppo rapido, una gestione dello spazio inadeguata, una priorità per gli aspetti formali piuttosto che per il contenuto.

Con la diffusione di questi strumenti, l’immagine è destinata ad un aumento esponenziale. Pensiamo a fenomeni come Flickr o Youtube, servizi di sharing online che si basano sulla creatività degli utenti: offrono strumenti per la condivisione del proprio materiale artistico, favorendo la creazione di comunità legate dalla condivisio-ne di tali interessi e dallo scambio di commenti ed opinioni.

Questo porta ad una trasformazione fondamentale: oggi è possibile per tutti diventare autori. Online ognuno è libero di far sentire la propria opinione tramite i blog o le piattaforme di sharing. Forse però quest’aumento degli autori porta con sè uno sminuire il concetto stesso di autore. La moltiplicazione delle fonti coincide con la perdita della fonte ufficiale. I computer sono diventati strumenti di individualizzazione: non solo perchè offrono accesso al mondo pubblico, ma anche perchè permettono un’espressione libera ed unica (attraverso la customizzazione delle interfacce o sui siti internet). Gradualmente le persone hanno accettato l’idea che, dato che ognuno può pubblicare su internet, allora non c’è bisogno di fonti condivise d’informazione, che la “fonte ufficiale” sempli-cemente non ha più motivo d’esistere. Tutto è diventato effimero, l’obsolescenza sopraggiunge velocemente. Questo processo di demassificazione sembra emergere naturalmente, e di fatto potrebbe portare alla perdita del cosiddetto sapere collettivo. Non c’è bisogno di conservare alcun sapere: i computer sono diventati la fonte privi-legiata di deposito del nostro sapere. La società sembra aver perso la necessità di possedere una memoria e di custodirla. La trasmissione di sapere sembra messa in discussione. Eppure, come sostiene Karrie

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Jacobs[7], la sopravvivenza della società per come la conosciamo è condizionata dall’esistenza di un sapere condiviso, da parole ed idee che sono state scritte e che ancora valgono per tutta la collettività. In una società demassificata, la conoscenza diventerebbe un bene individuale, e tutti sarebbero marginalizzati.

In che modo deve posizionarsi il grafico rispetto ad un contesto del genere? Il dibattito è molto acceso. Molti vedono in questo un’ovvia marginalizzazione del grafico.

Ellen Shapiro[8], di fronte al rischio di vedere la professione rap-presentata da desktop designers dell’ultima ora propone, fra il serio e il faceto, una certificazione per i grafici che ne valuti la formazione e le esperienze, con tanto di test supervisionato dalle maggiori istituzione mondiali di grafica. Altri ritengono che la questione non sia così semplice: innanzitutto come stabilire dei criteri di distinzio-ne fra i “veri” designer e gli altri? Attraverso una standardizzazione della grafica? Ma come si può standardizzare una disciplina che, abbiamo visto, è già difficile da definire? Se prima un libro veniva scelto anche per la copertina, oggi ci basa sui commenti degli altri utenti e sulle classifiche. Se l’economia continuerà a spostarsi sul fai-da-te, le persone chiederanno sempre maggiori opportunità per farlo ed allora i grafici dovranno adattare i loro metodi.

Potrebbero, come suggerisce la Lupton, potrebbero diventare degli esperti del fai-da-te, e forse non molto altro.

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Note:

1. Papanek V., 1985. Design for the real world, Chicago: Chicago Academy.2. Cross N., 2007. Designerly Ways of Knowing. Springer.3. Strickland R., 2003. Spontaneous Cinema as design practice in Laurel B., a cura di, 2003. Design research, methods and perspectives, Massachussets: MIT Press.

4. Lupton E., 2006. Design It Yourself, New York: Princeton Architectural Press, p.34.

5. Bruinsma M., 2003. Just use it!, disponibile su www.maxbruinsma.nl/index1.html?useit.html.

6. Tufte E.R. citato da Rosen C., 2005. The image culture, in Bierut M., Drenttel W., Heller S., a cura di, 2006. Looking Closer 5, New York: Allworth Press.

7. Jacobs C., 1995. From eternity to here, in Bierut M., Drenttel W., Heller S., a cura di, 1997. Looking Closer 2, New York: Allworth Press.

8. Shapiro E., 1993. Certification for Graphic Designers? A hypothetical proposal, in Bierut M., Drenttel W., Heller S., a cura di, 1997. Looking Closer 2, New York: Allworth Press.

per maggiori approfondimenti, si veda anche:Gerritzen M, Lovink G., 2010. Everyone is a Designer: Manifest for the Design Economy, Amsterdam: BIS Publishers.

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La grafica è una disciplina giovane. Come campo autonomo, essa di fatto prese forma con l’ascesa della moderna cultura di massa e, paradossalmente, si sviluppò in opposizione ad essa. La grafica come professione autonoma nacque infatti a cavallo fra il XIX e XX secolo come sottoprodotto dello sviluppo delle moderne comuni-cazioni di massa, e si piazzava a cavallo fra l’elaborazione di testi ed immagini e la loro stampa e diffusione.

Emerse perciò da una cultura più bassa che alta. In quanto mero produttore di immagini, l’artista commerciale (questo il nome all’epoca) sottoponeva a trattamenti spesso banali i temi e le tecni-che della pittura per soddisfare i bisogni del business e dell’industria dell’intrattenimento.

Parallelamente a questo lavoro su commissione, il disegno del libro diventava l’area di quei grafici che avevano reso standard le forme dei caratteri e delle pagine del Rinascimento. In essi era fortissimo il senso del riscatto verso la cultura del libro, che aveva perso il suo status di detentore della memoria collettiva: in un’ottica di revival umanistico, i grafici sentivano la necessità di difendere la forma e la funzione del libro, dinanzi all’involgarimento causato dallo sviluppo della cultura “popolare” delle masse.

Stanley Morison fu uno dei primi ad intuire il forte carico poli-tico che la grafica possedeva: perciò dichiarò che la grafica doveva essere serva della società. Il grafico doveva scomparire e sottostare alle regole che secoli d’esperienza avevano consolidato come valide:

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egli non doveva avere alcun interesse o affezione artistica verso le forme che produceva, essendo un semplice intermediario fra testo e lettore.

La grafica al servizio della società di fatto rendeva concreto un modello di dominio pubblico modellato dalla cultura borghese, imposta dall’alto. A quel periodo risalgono anche le prime riflessioni su una trasformazione della grafica, incarnate dalla direzione modernista: essa non poteva più ignorare le trasformazioni sociali in atto: era necessario trovare nuove forme per nuovi contenuti. I prodotti della comunicazione cominciavano ad essere rivolti alle masse, che dovevano riscattarsi dalla sottomissione alla borghesia. L’idea di rinnovazione si sposò subito con quella di rivoluzione: i modernisti sognavano una sintassi visiva che potesse essere appresa e disseminata razionalmente e, in potenziale, universalmente. I valori di semplificazione, riduzione, ed essenzialità guidavano la direzione dei linguaggi più astratti e formali. Ma, già qui, prendeva forma il paradosso della grafica: essa contestava un mondo, quello della cultura capitalistica, del quale era parte integrante.

La reazione avvenne a partire dagli anni Sessanta con lo spo-stamento dall’asse forma-funzione a quello di forma-contenuto: il postmodernismo si riappropriava con irruenza del ruolo autoriale del grafico, della necessità di far emergere la propria voce. Alla grafica di pubblica utilità si sostituiva il meaning-making dell’ac-cademia di Cranbrook, la produzione di significato, allora ancora inteso, però, come “dono” del grafico-autore al pubblico. Quello che sembrava scomparire all’epoca era il rapporto fra grafica e società, la grafica non era più suddita: al contrario, essa aveva ora il suo reame, il ben più ristretto mondo del design. Fama e gloria cominciarono ad entrare fra le priorità dei grafici.

Oggi, come sostiene Andrew Blauvelt [1], grazie anche all’avvento dei nuovi media, la grafica ha superato anche la discussione sul binomio forma-contenuto per esplorare il mondo delle relazioni, dei processi, delle interazioni.

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Questa è stata l’evoluzione storica dell’ultimo secolo. Oggi definire una linea unitaria è impossibile.

Insieme al moltiplicarsi delle individualità, che man mano stanno distaccandosi dall’aspetto di “massa” per frammentarsi in gruppi sempre più discreti e caratterizzati, assistiamo ad un parallelo moltiplicarsi delle informazioni e delle culture. È chiaro che quest’andamento si è riflettuto anche sulla comunicazione visiva: la sua natura, da sempre labile e inafferabile, oggi diventa ancora più sfrangiata.

Hugues C. Boekraad[2] ha tentato un’individuazione delle categorie in cui è possibile dividere le tendenze dei grafici e degli studenti di grafica di oggi: i teorici, orientati al testo, alla filosofia e alla dottrina della grafica, piuttosto che alla grafica in sè, anche nella pratica partono da concetti puri e tendono spesso alla sofisticazione; gli artigiani si focalizzano sulla forma e sul materiale e su quello che naturalmente scaturisce da essi, recuperando il piacere della dimen-sione artigianale del fare; i designers, orientati al visivo, cercano (talora inconsciamente) l’immagine del momento nei cinema, nei giornali, nei musei e generano nuovi materiali attraverso un collage di tutte queste influenze; gli artisti usano i metodi e gli strumenti della grafica per scopi puramente soggettivi, e si esprimono senza badare all’efficienza della comunicazione; i tecnofili affascinati dagli aspetti tecnologici della disciplina, dai nuovi strumenti e dalle possibilità che offrono.

Seppur, come tutte le generalizzazioni, un po’ rigida, questa suddivisione evidenzia in modo un po’ brutale quelle che sono le tendenze nei grafici oggi: magari le distinzioni non sono così nette ma dalla suddivisione risulta evidente un fattore importante.

Nessuna di queste categorie si proietta all’esterno, le differenze sono puramente nello stile o nel metodo di lavoro. Il contesto sociale è posto fuori; queste posizioni anti-conformiste rivelano una fuga dal lavoro commissionato e dalle responsabilità sociali, perpe-trando di fatto lo status quo accettato come sottofondo inevitabile

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alla professione.Abbiamo già parlato della responsabilità etiche dei grafici: è

presupposto necessario che essi producano comunicazioni che effettivamente comunicano qualcosa. Non c’è esistenza culturale senza comunicazione. Ma esiste un modo giusto ed efficace per comunicare?

La semiotica è stata avvicinata con interesse da molti designer come strumento per analizzare sistematicamente i differenti aspetti coinvolti in un processo di comunicazione. Essa è una scienza pura, che studia i fenomeni della comunicazione dal di fuori. Più che una strategia per la costruzione dei messaggi, si è sviluppata come strumento per la loro analisi e non ha mai posto un raffronto con gli utenti reali. Essi non possono essere ridotti a strutture di rela-zione e subordinazione: insomma un pubblico vero è troppo vario, sfaccettato, complesso per una disciplina che aspira ad essere una scienza. La semiotica deriva dalla linguistica e come tale richiama l’idea saussuriana di lingua come struttura astratta del linguaggio. Attraverso una codificazione anche molto complessa, la semiotica ha sviluppato una terminologia ed una serie di categorie, spesso sostituendo le definizioni alle spiegazioni più concrete.

Forse la semiotica è uno strumento insufficiente per analizzare le dinamiche della comunicazione visiva. Essa ben si presta all’analisi, ad esempio, dei simboli che vengono utilizzati nell’informazione pubblica. Ma la sua validità regge sino a quanto essi si limitano ad identificare qualcosa: spesso essi richiedono di agire di conseguenza, superando dunque una dimensione puramente cognitiva (il campo della semiotica, appunto).

I segnali da soli spesso non sono sufficientemente comunicativi: questo è suffragato dalle scritte che spesso accompagnano i segnali, scritte come “leggi il cartello”, solitamente in stampatello e dal tono colloquiale. Questo mostra che la componente persuasiva, intesa come sollecitazione a livello emotivo e subconscio, è sempre presente.

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Informazione e persuasione: essi sono da sempre i poli attorno a cui oscilla tutta la costellazione della grafica. Tutto il pensiero modernista ruotava intorno alla visione di una grafica culturalmente neutra, scevra di valori, in cui il contenuto dovesse parlare da solo (la celebre visione della grafica come calice di cristallo di Beatrice Warde).

Ci sono ovviamente delle aree della grafica in cui la priorità assoluta va alla neutralità ed alla trasparenza delle informazioni da trasmettere: casi come mappe, segnaletica, materiali educativi necessitano di raggiungere naturalmente e spontaneamente gli utenti. Progettare in queste aree richiede una conoscenza generale dei processi cognitivi ed una più specifica dei processi cognitivi degli utenti interessati.

C’è chi si è domandato se esista davvero una comunicazione neutrale: Robin Kinross, ad esempio, nel suo saggio La retorica della neutralità (1989) parte dall’analisi di uno degli artefatti verosimil-mente più neutrali: le tabelle degli orari dei treni. Egli riscontrò che anche in questo esempio considerato scevro di qualsiasi intenziona-lità persuasiva, esiste una certa quantità di retorica: è sufficiente l’uso di un carattere anzichè un altro, l’uso dello stampatello, la sostitu-zione dei trattini con i punti, per fare un vero e proprio esercizio di eloquenza.

La persuasione è un fattore che, dunque, rientra sempre nella costruzione di un messaggio visivo: c’è sempre quel qualcosa che convince l’utente ad osservare l’artefatto e a percepirlo come credibile. La credibilità di un messaggio dipende dalla relazione fra i valori dell’audience e i valori espressi nel messaggio e nel suo veicolo (l’artefatto). Se i valori non sono affini, non solo il messaggio verrà rifiutato ma non verrà nemmeno compreso. Per essere credibile, un messaggio deve servirsi di un linguaggio coerente col messaggio che deve trasferire.

Ritorniamo alla comunicazione neutrale (o presunta tale): nella sua veste scarna, tendenzialmente fredda potrebbe essere efficace a

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condizione di avere una presenza fisica continua, perchè causerebbe un effetto di straniamento rispetto al “rumore” del contesto. Ma è anche vero che oggi l’informazione viene sempre più spesso trasmessa per vie dematerializzate, diventando più esperienze che artefatti. Katherine McCoy[3], suggerisce che la grafica oggi per essere efficace dovrebbe possedere un certo grado di vischiosità (stickyness) per creare delle esperienze ricche e coinvolgenti, che lasciano una traccia negli utenti.

Semplicità e complessità: altri due opposti nel modo di comuni-care. Se da un lato la semplicità assicura di raggiungere gli utenti, dall’altro essa corre sempre il rischio di isterilirsi in soluzioni facili e consuete, di aderire implicitamente agli stereotipi e di causare una stasi cognitiva nell’utente.

Soluzioni più complesse, dall’altro lato, possono stimolare l’utente, spingerlo alla riflessione critica, all’azione. Ma chiaramente anche la grafica più complessa deve partire da dei presupposti culturali vicini a quelli dell’osservatore, deve condividerne il bagaglio culturale, altrimenti diventa grafica difficile, inavvicinabile se non dalla ristretta cerchia dell’élite culturale.

Complicato è concetto diverso da complesso: e talvolta sembra proprio che sia il primo a dominare. Una tendenza sembra proprio quella di aggiungere confusione attraverso densità e confusione: titolazioni enormi, testi sempre più brevi ed illegibili, icone, citazio-ni, colori. Questo atteggiamento viene giustificato come reazione al fenomeno di alienazione sociale e culturale, come bisogno di sviluppare un vocabolario grafico più personale che penetri attra-verso le culture. La quantità di “voci” nell’ambiente moderno crea un’illusione: quella di vivere in un’era dell’informazione.

Ma molta dell’informazione che ci circonda è vuota, sia essa sem-plice o complessa, neutrale o persuasiva, spesso ciò che ci circonda è segno senza informazione effettiva. La pubblicità e la propaganda politica sono buoni esempi di questo, e il giornalismo contribuisce in larga misura: la pressione commerciale per pubblicare un giornale

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al giorno ha generato un enorme quantitativo d’informazione ridondante ed irrilevante. La grafica, attraverso un trattamento superficiale e standardizzato, riflette la vacuità di questi materiali.

Appare necessario recuperare la capacità del linguaggio e delle immagini di comunicare davvero informazione, e rendere le persone di nuovo capaci di distinguere fra informazione e rumore. Al centro della nozione di informazione è la nozione di rilevanza. La rilevanza tiene la comunicazione viva, incentiva lo sviluppo del linguaggio, e crea nuove necessità espressive che invocano nuove soluzione visive, le quali a loro volta generano fervore culturale.

Note:

1. Blauvelt A., 2008. Towards Relational Design, disponibile su observatory.designobserver.com/entry.html?entry=7557

2. Boekraad H.C., 1992. Norm and form: the role of graphic design in the public domain, in Bierut M., Drenttel W., Heller S., a cura di, 1997. Looking Closer 2, New York: Allworth Press.

3. McCoy K., 2001. Terminal terminology, in Bierut M., Drenttel W., Heller S., a cura di, 2002. Looking Closer 4, New York: Allworth Press.

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Finora ci siamo mossi nei meandri della speculazione teorica e del dibattito critico: abbiamo visto come la grafica s’interroga su se stessa e sul suo rapporto col mondo; abbiamo visto che tanto ancora si può fare per migliorare le forme della comunicazione, e di conse-guenza, portare il linguaggio e la cultura ad un livello successivo. Ma nella realtà cosa succede davvero?

Gli utenti quanto sono coscienti del loro ruolo di utenti, e, non ultimo, del loro ruolo di cittadini? La grafica esercita davvero tutto questo potere? È davvero uno strumento così importante, per tutto e per tutti?

Già Albe Steiner nel 1966 si poneva queste domande nell’ar-ticolo intitolato I grafici nel cassetto. Egli riscontrava un livello basso e stagnante della comunicazione visiva in Italia rispetto al resto dell’Europa. Osservava un inquinamento visivo generato da un’espressione artistica dozzinale e disturbatrice, dovuta a una visione del pubblico come “sottosviluppato” ed a committenze “fuori dal loro tempo” che esigevano dal grafico non un apporto sensibile, personale, di cultura, ma semplicemente qualcosa che colpisse l’attenzione del passante.

Ma analizzando le reazioni del consumatore dinnanzi all’efficacia del manifesto, ci si renderà conto di quanto è lontano il risultato che il produttore vorrebbe ottenere. ...Non possiamo dimenticare che per ora nella maggioranza dei casi, benché le nostre strade siano piene di cartelloni,

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se domandiamo alle persone che giornalmente frequentano e vedono le pareti della città, ben difficilmente ci sapranno indicare qualche manifesto che le abbia attratte o colpite per motivi diversi da quelli voluti dal committente.[1]

Steiner additava le cause nella poca caratterizzazione formale rispetto al contenuto, nell’assenza d’invenzione, consistente di “uno studio approfondito di quanto si vuole propagandare, tenendo conto di tutti i fattori, strada, luci, fretta, il risultato di una sintesi che non può essere raggiunta senza cultura e senza la massima libertà espressiva.” [2]

La saturazione delle immagini oggi è ai massimi storici. Vediamo immagini dovunque, di qualunque tipo; Internet ci mette a dispo-sizione un rifornimento infinito e, come risultato, l’immagine ha perso il suo potere magico e sconvolgente. Prima si temeva l’imma-gine, ed la sua potenza: la vista è il più potente dei sensi, recepisce subito, senza mediazioni, direttamente a livello emotivo.

Oggi, grazie alle tecnologie, la nostra capacità di discernere il vero dal falso si è notevolmente ridotta, e ci avviciniamo sempre più ad accettare per buono ciò che è soltanto verosimile.

Il potere delle immagini e il loro dilagare e rendere accessibile a chiunque un numero pressoché infinito di informazioni rischia di indebolire il significato ed il valore della realtà: Susan Sontag aveva intuito il rischio che la fotografia sminuisse il valore della realtà e dell’esperienza genuina, rendendoci così disincantati di fronte a qualsiasi scenario da rendere la realtà un’esperienza ben più debole e, in ultimo, deludente[3].

Steiner aveva ben ragione a dire che l’utente non sarebbe stato colpito da nulla: e come potrebbe? Cosa potrebbe più sorpren-derlo? Abituati a questo ritmo, gli utenti non posano gli occhi su un’immagine per più del tempo necessario e poi la dimenticano. Non solo, perchè mantenga viva la nostra attenzione essa deve cambiare continuamente. La nostra sete di immagini richiede un ricambio costante. È chiaro che questo mette a rischio il valore

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della conoscenza e della sua preservazione, in un’epoca in cui tutto è raggiungibile in qualsiasi momento, custodire non ha più significato.

Ma allora possiamo dire che è tutto inutile? Che, in ultima analisi, la grafica non è poi così importante?

La grafica non ha una natura in sè, è una proprietà formale, una dimensione retorica. È pur vero che ogni oggetto non potrebbe continuare propriamente ad esistere senza di esso, ma il suo contributo è solitamente dato per scontato. Questo ci lascia in una condizione paradossale, perchè se da un lato tutto ci porta a dire che il suo ruolo nella vita quotidiana è fondamentale, dall’altro manca di effettivi riscontri nel mondo reale, che rimangono aleatori e indecifrabili.

Forse invocando maggior attenzione e premendo sull’effettiva ubiquità della grafica, i grafici non fanno altro che diminuire il peso del loro ruolo nella cultura: la persona media ha più rispetto per l’ar-tista che emerge per la sua sensibilità unica, che per un grafico che svolge senza schiamazzi il suo servizio per rendere la città un posto più leggibile. Se l’utente pensa alla professione del grafico, il suo pensiero corre subito e soltanto agli aspetti più frivoli e superficiali della professione. Per la sua natura effimera, la grafica resta legata alla cultura popolare e prosaica.

Come afferma Mr Keedy :

Per tutto il lavoro che i grafici hanno speso nel rendere prodottucoli ed idee sciocche più interessanti, sono stati ripagati con la marginalizzazione. Vorrei poter rimuovere la grafica dal pianeta per un paio d’ore. Le grandi idee sarebbero ancora comunicate, ma le sensibilità che le connettono a noi e le rendono concrete sarebbero irrimediabilmente perse.[3]

Quindi alla domanda: la grafica serve? si può rispondere in due modi.

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No, non serve.

Se l’apporto si riduce solo a reiterare il frastuono che ci circonda, se serve solo ad appesantire i contenuti, o peggio a renderli inser-vibili: la grafica come decorazione diventa inutile e viene ignorata, perchè la gente oggi è abituata a districarsi in questo labirinto per puntare dritto a cosa cerca.

Forse non è un caso che i materiali meno progettati siano i più letti: i giornali o i romanzi hanno subito una lenta evoluzione, conservando la loro natura intatta da parossismi visivi. Non è cosa sorprendente il fatto che questi materiali progettati al minimo siano di fatto i più letti.

Forse non tutto ha bisogno della “bella grafica”: Loretta Staples[4] ha citato l’esempio di una rivista politica, Z, un pessimo esemplare di grafica dilettantesca. Ma man mano che si astraeva dal suo aspetto, per indagarne i contenuti, la Staples ha constatato quanto irrilevante fosse la grafica per un giornale e per un pubblico di quel tipo. Qualsiasi riprogetto l’avrebbe reso qualcosa di antitetico e contraddittorio rispetto al suo spirito autentico. Forse quella rivista sta bene così com’è. Forse, a volte, la grafica non è la soluzione, ma il problema.

Stefan Sagmeister afferma che i grafici spesso tendono a dimenticare che i fattori che intervengono nella scelta di qualcosa sono molti e vari. Cinicamente afferma che i grafici possono fare la differenza solo in un paio di settori: l’acqua e la vodka. Infatti il con-sumatore non può in alcun modo valutare le differenze fra un’acqua e l’altra ed in quel caso la sua scelta è dettata da ragioni puramente estetiche. In tutti gli altri casi, “il consumatore conosce la differenze: quello che facciamo diventa perciò pressoché insignificante”. [5]

Questo perchè i grafici stessi sono stati sedotti, analogamente ai clienti ed al pubblico, dall’idea dello status mitico della grafica come apportatrice di valore aggiunto. Queste considerazioni, seppur con piglio provocatorio, gettano una luce diversa sulla natura della professione e come tali, offrono uno valido spunto di riflessione.

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Sì, la grafica è importante.

Non c’è dubbio che il contenuto (la condizione umana) ed il contenitore (l’ambiente umano) siano risultati dello stesso processo dialogico, di reciproca formazione e condizionamento. Il nostro modo di pensare e i nostri comportamenti sono influenzati da giornali che leggiamo, dalle persone con cui interagiamo e dai posti che visitiamo. Ogni giorno, tutte le nostre attività sono rese possibili o ostacolate dal design, sia esso grafico, del prodotto o dell’ambiente. La vita umana accade in un mondo promosso e sanzionato dai mass media e costruito dal design.

Le immagini che ci circondano non sono solo rappresentazione ma anche una proposta ed in questo portano una doppia responsa-bilità per il grafico: esse deve corrispondere ai valori collettivi perché sia comprensibile all’utenza, ma contemporaneamente andrà ad influenzarla e dirigerla verso una qualche direzione.

La percezione è un processo di ricerca di significato. Ogni persona di fronte al caos reagisce in maniera differente, in base alla sua età, al suo bagaglio culturale e alle sue inclinazioni caratteriali. Ma tutti provano a comprendere, cioè ad interpretare segni e creare connessioni, a trasformare il caos in un sistema dotato di senso.

Eppure, pochi utenti riflettono leggendo il Times sul buon senso che ebbe Stanley Morison come direttore creativo. Pochi guardano al logo IBM come l’autentico spirito dell’identità visiva moderna. La segnaletica è troppo familiare per essere guardata. Ancor meno s’interrogheranno sulle implicazioni culturali della relazione fra i grafici, la loro formazione e le trasformazioni del mondo della comunicazione.

Ogni artefatto incarna un’estetica nelle sue proprietà formali e nella sua storia, portando l’eredità di ogni uso e riuso. La discussione sul “valore del significato” o sull’espressività degli strumenti visivi è più o meno condivisa. Ma con una piccolissima sollecitazione, i lettori focalizzeranno senza difficoltà una preferenza per un carat-tere o per un altro, ed ammetteranno l’influenza che il linguaggio

la grafica è importante?

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in teoria

grafico ha sul valore semantico. Mostrare alcuni esempi di poster, caratteri, e altri artefatti visivi rende subito evidente che questi codici influiscono sul nostro vedere.

Il significato è prodotto nel momento della lettura, non è depo-sitato lì. Molti ancora insistono sulla trascendenza del messaggio rispetto alla sua visualizzazione, che è ancora il senso ciò che importa davvero. Come fare a rendere gli utenti più coscienti delle proprietà materiali del linguaggio grafico?

Joanna Drucker[6] s’interroga sul modo degli utenti di pensare alla grafica e vi trova l’idea, coadiuvata dai “menu” dei programmi di editing, che questi elementi siano entità discrete ed isolate. La Drucker chiama questa attitudine a vedere ogni entità grafica come a se stante, “materialità letterale”. I menu dei programmi rinforzano l’idea che l’aspetto di queste entità faccia parte di una lista di elementi da cui scegliere quello da mettere in pagina.

Il problema è che questi elementi non sono davvero indipendenti ma acquisiscono senso e significato solo in relazione al contesto. Il supporto non è uno spazio a priori ma piuttosto un campo di possibilità, una rete di relazioni possibili.

Rivelare agli utenti che questi elementi non siano semplicemente giustapponibili l’uno all’altro in modo casuale ma dal loro insieme nasca il senso ultimo dell’artefatto, li mette in condizione di svilup-pare uno spirito critico maggiore. Dare questi strumenti è forse un dovere e un’occasione per restituire significato alla comunicazione visiva.

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Note:

1. Steiner A., 1966. I grafici nel cassetto, in A.Steiner, 1978. Il mestiere di grafico, Torino: Einaudi.

2. Steiner A., ibidem.3. Mr Keedy, 1997. Greesing the wheels of capitalism with style and taste, or, the “professionalization” of American graphic design, in Bierut M., Drenttel W., Heller S., a cura di, 2002. Looking Closer 4, New York: Allworth Press. p. 205.

4. Staples L., 1999. On FTF, in Bierut M., Drenttel W., Heller S., a cura di, Looking Closer 4, 2002, New York: Allworth Press.

5. Sagmeister S., intervista con Millman D., in Millman D., 2007. How to think like a great Graphic Designer, New York: Allworth Press. p.84

6. Drucker J., 2003. Quantum Leap: beyond Literal Materiality in Bierut M., Drenttel W., Heller S., a cura di, 2006. Looking Closer 5, New York: Allworth Press.

la grafica è importante?

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in praticaparte IIriscontri effettivi

workshop 1

workshop 2

workshop 3

conclusioni

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83

103

131

147

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riscontri effettivi

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riscontri effettivi

Quanti sforzi sono stati fatti in questa direzione finora? Offrire agli utenti non solo una comunicazione stimolante, ma dare anche gli strumenti per comprenderla e per sviluppare consapevolezza.

Pensiamo alla grafica modernista degli anni Venti: essa ha avuto un grande impatto nel mondo della grafica ma nel contesto storico, a volerci astrarre da valutazioni di forma e sagacia costruttiva degli artefatti, quei lavori così astratti erano troppo distanti dal pubblico che s’intendeva raggiungere. Eppure quei lavori sono nei libri di storia della grafica: dobbiamo quindi considerare l’innovazione formale ed estetica come l’unica chiave per segnare un’evoluzione nella storia della comunicazione visiva?

Questo deriva da un’errata percezione della grafica, che ancora ostinatamente viene misurata come mera espressione artistica e quindi valutabile esclusivamente secondo criteri estetici, senza tener conto dei suoi effetti sul contesto socio-culturale.

Un’altro aspetto problematico della questione è che questa eccessiva attenzione verso stile e valori estetici ha portato al sovra-dimensionamento di alcune aree della grafica a discapito di altre, quelle nella fattispecie che si avvicinano di più a lavori artistici, come il poster, l’illustrazione, e così via. Discussioni di estetica e fruibilità andrebbero estese anche ad oggetti grafici tradizionalmen-te esclusi, notoriamente quelli più “volgari” come moduli, manuali d’istruzione, e così via, un numero infinito di cose con cui le persone interagiscono ogni giorno.

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in pratica riscontri effettivi

L’estetica è dunque una delle componenti della grafica: essa rende l’artefatto attraente, sceglie attraverso il bagaglio di valori che porta con sè il suo pubblico, e contribuisce all’intensità con cui viene percepito il messaggio.

Quando l’estetica si svuota del suo bagaglio di rimandi culturali e storici, e diventa solo stile perde ogni valore e diventa sterile se non fuorviante. Prendiamo un altro esempio: la grande stagione del poster teatrale polacco negli anni Sessanta. Essa nacque da un’analisi inedita del teatro, in cui mescolando realtà e surrealismo si genera-vano immagini ricche d’intensità e contenuto. Ma venticinque anni dopo, quelle stesse immagini sono diventate un paradigma estetico, un linguaggio, uno stile privo di contenuto e di conseguenze di potere comunicativo.

Perchè significhi qualcosa per gli utenti, l’estetica dev’essere sempre legata al contenuto, e legata ai valori culturali del pubblico. Questo non significa che quei valori vadano pagliacciati solo per assicurarsi la ricezione del messaggio. L’uso degli stereotipi culturali è uno strumento inevitabile, che porta alla creazione di un senso di familiarità negli utenti.

L’uso e abuso di questi clichè nella pubblicità è, come sappiamo, ciò che genera maggior malcontento nel mondo della grafica perchè appiattisce e banalizza le finalità comunicative ad un facile consenso.

Questo spiega perché anche casi di coinvolgimento diretto degli utenti come i focus groups generino risultati deludenti e prevedibili. Questo tipo di test forza gli utenti ad una reazione impulsiva e prevedibilmente reazionaria. In questo tipo di approcci, l’utente spesso non ha l’occasione, il coraggio, la voglia di esprimere un’opi-nione. C’è una generale paura del cambiamento. Perciò le aziende, il cui unico interesse è di vendere il proprio prodotto, più che produrre cambiamento, puntano a produrre consenso, lasciando tutti nella agiata sicurezza di ciò che conosciamo.

Sono invece le nuove esperienze, unite al desiderio di comu-nicarle, che generano lo sviluppo di linguaggio ed informazione.

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in pratica

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riscontri effettivi

El Lissitskij, Il cuneo rosso, 1919

James Montgomery Flagg, Uncle Sam, 1917

Questi due poster appartengono allo stesso periodo, e sono entrambri di contenuto politico ma usano un linguaggio completamente differente.

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in pratica riscontri effettivi

L’informazione è stata definita da Bateson[1] “una differenza che genera una differenza”.

Mesmerizzati dagli schermi, abbiamo perso la voglia e la capacità di confrontarci per via diretta con le cose e le esperienze.

Lo spettatore, non più coinvolto nella produzione delle cose, convoglia la sua brama tattile nell’acquisto di prodotti già fatti.[2]

Fra il 1957 e il ‘72 a Parigi, un gruppo di critici cominciò a protestare contro la passività della vita moderna, diventata un immenso accumulo di spettacoli da guardare e subire. L’Interna-zionale Situazionista, questo il nome del movimento, si basava sul presupposto che i partecipanti dovessero creare nelle loro vite delle “situazioni” speciali in opposizione alle condizioni imposte dal con-sumismo e al crescente senso di alienazione che andava generandosi di conseguenza. I loro esperimenti consistevano in comportamenti costruttivi giocosi mirati a provocare e a stimolare le menti intor-pidite: fare passeggiate senza meta per il vicinato, rifiutare qualsiasi aiuto meccanico per svolgere qualcosa, disporre i mobili in casa per creare ostacoli, e così via.

Nonostante queste esperienze corressero sempre sul filo della provocazione e quindi destinate ad esaurirsi presto (come di fatto avvenne), l’Internazionale Situazionista mirava ad aggirare il rischio di passività dettato dalla società dei consumi per recuperare una dimensione del vivere più attenta e ricettiva attraverso l’azione.

Negli anni Settanta, in Italia gli Archizoom Associati, guidati da un sentimento affine, miravano a liberare l’uomo dalla cultura, cioè da tutti i valori morali, estetici e religiosi precostituiti per dare luce alla creatività spontanea ed innata dell’uomo comune.

La realtà è priva di valori in quanto è generata da un sistema economico senza destino: la cultura, l’estetica, la morale, attribuendo alla realtà e alla storia valori e significati, impediscono all’uomo di agire liberamente verso di queste.[3]

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in pratica

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riscontri effettivi

Il recupero delle facoltà creative come diritto naturale era il nuovo scopo della cultura che il gruppo si prefiggeva, e questo comportava il rifiuto della società così com’era, cioè basata sulla pro-duttività e sulla conseguente divisione fra produttori e consumatori.

Chiaramente queste idee convergono verso l’utopia generale di quegli anni: l’abolizione del lavoro. Dalla parte degli operai, il rifiuto del lavoro consisteva nella speranza di riscattare il proprio ruolo sociale; da parte degli imprenditori significava automatizzare i processi. Così facendo, nasceva la società del consumo, dove consumare è l’attività preposta alla creatività, in cui valori e modelli venivano prodotti. Ma questa società del Tempo Libero era destina-ta a trasformarsi presto in società di massa. Il tempo libero diventa il momento necessario a ristabilire l’equilibrio: la cultura viene concentrata in un prodotto o in un libro per consentire un processo meditativo rapido, proporzionale al tempo libero a disposizione.

Da queste premesse nacque nel 1973 Global Tools, una contro-scuola che costituisse un fronte unitario delle forze creative, un’agenzia di diffusione sociale di tutte le attività creative legate all’uso di tecniche costruttive e progettuali e di riscossa della creatività spontanea ed incondizionata.

Vicina a questa proposta degli Archizoom, c’era l’esperienza coeva di Riccardo Dalisi nel quartiere Traiano di Napoli: egli cre-deva nell’esistenza di una “tecnologia povera”, che una volta liberata dai suoi limiti precostituiti ed intrinseci, dalle regole accademiche, avrebbe liberato l’energia costruttiva delle persone.

Così Dalisi cominciò a compiere esperimenti di didattica “spon-tanea” di gruppo coi ragazzi del quartiere offrendogli strumenti e ambienti su cui intervenire. Il suo interesse non era paternalistico o didattico, ma scientifico, curioso com’era di verificare come questi ragazzi, più vicini ad uno stato di spontaneità e puri da ogni vincolo dettato dalle culture, potessero esprimersi creativamente.

Ovviamente queste esperienze contenevano già in sè la contrad-dizione implicita del sistema in cui operavano: essi di fatto propone-

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in pratica riscontri effettivi

vano una liberazione dalla cultura, ma per farlo essi ne imponevano un’altra che, come constatarono ben presto, già si stava trasformando in modello, un modello della miseria e della rinuncia (che tra l’altro ben si prestava alla nascente crisi energetica e culturale).Così l’esperienza di Global Tools si sciolse con un solo laboratorio all’attivo, dopo tre anni.

Nel campo dell’architettura, l’urgenza di stabilire un ponte con gli utenti del territorio ha avuto sicuramente più riscontri che nel campo della grafica.

Lucien Kroll, architetto belga, si oppone alla visione dell’archi-tettura come monopolio gerarchizzato del potere decisionale. La complessità di un progetto riflette inevitabilmente la complessità della società: diventa prioritario abbattere l’ignoranza ed il silenzio, utili a mantenere i rapporti di potere prestabiliti, attraverso modalità di partecipazione degli utenti autentiche, che non si riducano a con-sultazioni strumentali, ma che facciano inneschino nuovi processi cognitivi generati da uno scambio reciproco fra progettisti e utenti. Chiedere la collaborazione degli utenti non è fare del semplice assistenzialismo ma praticare una scienza delle relazioni.

Il padiglione della X biennale di Venezia ad esempio, è stato vissuto da un gruppo di studenti di architettura per la durata della Biennale, che l’hanno modificato costruendovi i propri spazi vitali e le proprie relazioni, dimostrando che non è lo spazio a fare l’archi-tettura ma le persone.

Nel campo della grafica, i vari gradi di partecipazione che abbiamo già analizzato dipingono un quadro sempre parziale, in cui l’utente finisce sempre per diventare in qualche modo una pedina o uno strumento, oppure un potenziale distruttore della disciplina stessa. In sostanza, tutti gli approcci partecipativi oscillano fra il pieno controllo da parte del grafico, che usa un metodo intuitivo, ed il pieno controllo da parte degli utenti, tramite metodi empirici.

Audrey Bennett [4] ha tentato un approccio più equilibrato nella progettazione di una campagna di prevenzione per l’Aids in Africa.

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in pratica

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riscontri effettivi

copertina dei bollettini della Global Tools, 1971

tecnologia povera nel rione Traiano a Napoli, 1971

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in pratica riscontri effettivi

In questo esperimento, gli utenti non vengono impiegati solo in una fase preliminare di ricerca ma coinvolti anche nella fasi finali di elaborazione e realizzazione degli artefatti. In questo modo, la forma finale viene demandata all’utente, ed il grafico diventa un consulente che controlla il processo. Questo coinvolgimento più diretto si è rivelato il più corretto: il fatto che i poster fossero progettati diret-tamente dagli utenti ha assicurato una comunicazione più efficiente poiché nasceva da un linguaggio condiviso. I nativi africani avevano a disposizione un bagaglio insostituibile di codici, simboli, strategie narrative condivise dall’utenza.

Questa esperienza ha contribuito allo sviluppo e all’indipendenza dei partecipanti, ed alcuni di loro potrebbero adesso persino diventare dei “grafici locali”. A conclusione del progetto, sono stati realizzati dei prototipi che in futuro potrebbero essere utilizzati in Kenya su larga scala per testare l’effetto della campagna.

Un’altra esperienza interessante è quella promossa da Anja Lutz, direttrice della rivista Shift intitolata This Should be Made Public. Il progetto si è svolto in quattro diverse località: Lussemburgo, Il Cairo, Milano e Bangkok. Inizialmente nato in occasione del Co-lophon festival nel 2007 a Lussemburgo, il progetto parte dall’idea di rendere qualcosa pubblico per far scaturire idee e discussioni sul concetto di pubblico/pubblicato.

In uno degli spazi del museo era stato creato uno spazio di lavoro con gli strumenti necessari a scrivere, disegnare e progettare: un modello con uno spazio bianco era lasciato ai partecipanti per esprimere la propria opinione. Alla fine tutti i poster vennero appesi alle pareti, mostrando una grande varietà di commenti e visioni.

L’esperienza nella città del Cairo venne estesa allo spazio pub-blico, così da rendere partecipanti attivi anche i passanti. Seppur in forme più controllate, anche sui poster sparsi per la città c’è stata una reazione vivace. A Bangkok, l’esperienza è stata ripetuta in un posto ancora più frequentato, un centro commerciale, registrando una partecipazione inaspettatamente vivida.

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in pratica

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riscontri effettivi

Anja Lutz,This should be made public, Il Cairo, 2008

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in pratica riscontri effettivi

Seppur con modalità analoghe al già citato Bubble Project, questo progetto ha dato risultato decisamente diversi: nonostante la gamma dei commenti sia molto varia, il pubblico è stato chiamato in causa per esprimere un’opinione che ritenesse meritevole di essere condivisa. Questo implica un’atto di riflessione critica e dunque ha una profondità molto diversa dal riempire le vignette sulle pubblici-tà nel più totale disimpegno.

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in pratica

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riscontri effettivi

Note:

1. Bateson, 1972, citato da Frascara J., 1997. User centred graphic design: mass communications and social change. Londra: Taylor & Francis. p.25.

2. Berger J., 1972. Ways of seeing, Londra: Penguin Books.3. Branzi A., 1985. La casa calda, Esperienze del nuovo design italiano,Ideabooks.4. Bennett A., Heller S., 2006. Design studies: theory and research in graphic design, New York: Princeton Architectural Press.

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workshop 1

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workshop 1

Le riflessioni esposte sinora hanno cercato di fare una panora-mica molto ampia che inquadrasse innanzitutto la grafica come disciplina e la rapportasse alla realtà circostante, una realtà composta di milioni di persone e di pensieri diversi. L’ambizione di una comunicazione universale si è rivelata nel corso del discorso un’uto-pia sempre più irraggiungibile.

Un’inversione di rotta ed un’indagine sui ruoli possibili della co-municazione visiva oggi appaiono necessarie. Una delle direzioni è sicuramente il recupero di un contatto autentico fra grafico e utente, o più in generale fra persona e persona. La grafica può diventare uno strumento di condivisione e coesione sociale, ma a condizione che essa sia portata en plain air e che si esponga ai possibili rischi di una “contaminazione umana”.

Si avverte infatti nell’aria una doppia urgenza: quella di avviare l’utente ad una conoscenza più attenta e cosciente della comunica-zione visiva che lo circonda e, in secondo luogo, quella di osservare più da vicino come la grafica viene percepita “da fuori”.

Si tratta dunque di un processo di mutua comprensione. Lo strumento migliore per realizzare un incontro fra questi due mondi è proprio quello del confronto diretto che si è sviluppato come naturale conseguenza delle ricerche e di questo sentimento di “distanza” rispetto all’utente.

Un workshop è parso lo strumento migliore per favorire il contatto, per raccontare ed al tempo stesso ascoltare, un laboratorio

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in pratica workshop 1

di parole ma anche di fatti. Tutto il progetto è partito dal presup-posto fondamentale che solo attraverso un fare, un’azione diretta è possibile sviluppare una conoscenza autentica e non superficiale.

Preparativi del workshop 1

Il primo passo è stato definire per grandi linee le modalità e le finalità di realizzazione di questo workshop.

Se il suo obiettivo primario è quello di favorire una maggior con-sapevolezza della comunicazione visiva che ci circonda, è evidente che la proposta si rivolge ad un pubblico non specializzato e molto vario, quello degli utenti, appunto.

L’idea iniziale era di realizzare un laboratorio di progettazione partecipata, in cui gli utenti dessero il loro contributo concreto in tutte le fasi, dall’ideazione alla realizzazione del progetto. Quest’ipo-tesi è stata tralasciata perchè richiede strumenti e competenze molto più complesse di quelle a disposizione. In secondo luogo, è parso che il problema fosse ancora più a monte, e che innanzitutto si presentasse l’urgenza di verificare l’idea di grafica nell’immaginario collettivo.

Perciò, il workshop parte innanzitutto come occasione per farsi raccontare e raccontare cos’è la comunicazione visiva e come invito ad osservare con più attenzione. A tale scopo la struttura del wor-kshop è stata divisa in tre parti: una parte introduttiva, consistente in una presentazione, una parte di osservazione ed una parte finale di “produzione”.

La presentazione cerca di coprire la grafica in ogni aspetto, dalla defizionione sino alle sue funzioni e ai suoi campi d’azione. La sezione centrale chiede ai partecipanti di riconoscere fra vari esempi quale appartenga al mondo della grafica, allo scopo di aiutarli a mettere a fuoco la complessità e l’impatto che essa può avere nelle proprie vite.

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workshop 1

etImologIa

grafIca

sost. deriv. da grafìadal greco graph-o, scrivo, disegno, faccio un segno, incido, scolpisco da cui graph-e-ion, stilo per scrivere, da cui graphikos, attinente allo scrivere.

che cos’è

la grafica?qUesta è grafIca?

Che cos’è la grafica? il mondo senza la grafica

Etimologia e definizioni Questa è grafica? una serie di immagini

defInIzIonI

grafIca

[grà-fi-ca]s.f. (pl. -che)1 Insieme dei procedimenti che caratterizzano l’aspetto tecnico della stampa.

(fonte: dizionario Hoepli)

etImologIa

grafIca

sost. deriv. da grafìadal greco graph-o, scrivo, disegno, faccio un segno, incido, scolpisco da cui graph-e-ion, stilo per scrivere, da cui graphikos, attinente allo scrivere.

etImologIa

grafIca

sost. deriv. da grafìadal greco graph-o, scrivo, disegno, faccio un segno, incido, scolpisco da cui graph-e-ion, stilo per scrivere, da cui graphikos, attinente allo scrivere.

defInIzIonI

grafIca

[grà-fi-ca]s.f. (pl. -che)1 Insieme dei procedimenti che caratterizzano l’aspetto tecnico della stampa.

(fonte: dizionario Hoepli)

defInIzIonI

grafIca

s. f. [dall’agg. grafico].In editoria, l’insieme delle indicazioni che definiscono l’aspetto grafico di un libro, e in genere di un’opera editoriale, dalla scelta dei caratteri all’impaginazione del testo e delle illustrazioni e alla confezione finale.

(fonte: dizionario Treccani)

dUnqUe,

ha a che fare con le procedure tecniche di stampa

con i libri

ma è una produzione artistica

defInIzIonI

grafIca

indica il settore della produzione artistica orientato alla progettazione ed alla realizzazione di prodotti di comunicazione visiva.Ospita al suo interno più settori, di cui almeno due chiaramente definiti:- il graphic design (progettazione grafica) a cui oggi si assimila il termine indicante la categoria generale di grafica;- la grafica d’arte, settore orientato alla riproduzione di opere artistiche (come acquaforte, punta secca, xilografia, litografia, etc etc).

(fonte: graficicreativi.com)

etImologIa

grapHIc desIgn

sost. deriv. dal latino designare (assegnare, scegliere; stabilire)composto dal pref. de- (via) e signare (marcare, designare)da signum (indicazione, vessillo) da secare (tagliare, recidere, decidere)

defInIzIonI

graphIc desIgn

è l’arte applicata di disporre immagini e testo per comunicare un messaggio o per produrre un effetto. può essere applicata a qualsiasi media, come la stampa, i supporto digitali, film, animazione, prodotti, segnaletica.

(fonte: wordik.com)

e qUesta?

e qUesta?

e qUesta?

e qUesta?

e qUesta?

e qUesta?

e qUesta?

e qUesta?

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in pratica workshop 1

l’arte è pural’iilustrazione è una prima forma di mercificazionela grafica è arte commercialela pubblicità è vendita.

secondo marshall arIsman,

altro dUbbIo:

la grafica è la pubblicità?

nì.

Spesso i due termini sono visti come sinonimi, ma le cose non stanno proprio così.La pubblicità è sempre finalizzata alla vendita di un bene di consumo, e dunque ricorre a delle logiche che mirano, spesso indiscriminatamente, ad una persuasione rapida ed immediata.Esistono molti altri campi in cui la grafica opera, magari più silenziosamente, al servizio degli utenti.

qUesto l’ha fatto Un grafIco: franco grIgnanI1964

qUesto l’ha fatto Un grafIco: henry beck1933

qUesto l’ha fatto Un grafIco: albe steIner1963

qUesto l’ha fatto Un grafIco: James montgomery flagg1917

qUesto l’ha fatto Un grafIco: sUsan kare1987

qUesto l’ha fatto Un grafIco: tomI Ungerer1967

qUesto l’ha fatto Un grafIco: stefan sagmeIster1999

La grafica è arte? è pubblicità?

Il nome di un grafico? elenco di artefatti “celebri”

Funzioni della grafica

Un dUbbIo:

la grafica è arte?Il nome dI Un altro

grafico?le fUnzIonI del graphIc desIgn

1. IdEnTIfIcazIOnE dire che cos’è e da dove viene

2. InfOrMazIOnE fornire una conoscenza o una capacità

3. pErSuaSIOnE indurre a modificare un comportamento

4. dEcOrazIOnE rendere gradevole alla vista, intrattenere, allietare

5. evocazIone rendere presenti cose assenti/trasfigurare la realtà

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workshop 1

Dov’è la grafica? aree di competenza

Progettare: esempi di errori di progettazione

!

!!

!

!

!!

!

edItorIa (lIbrI, rIvIste, etc..)

tIpografIa

BARFLYIn QuESTO bar

cOnnESSIOnE wIrELESS

BARFLYIN QUESTO BAR

CONNESSIONE WIRELESS

LABORATORIO ODONTOTECNICO

SCIANATICO DOMENICO

tIpografIa

2 caratteri diversi

e condensati

no.

LABORATORIO ODONTOTECNICO

SCIANATICO DOMENICO

è ben dIverso dal carattere InclInato

io sono corsivo

io non sono corsivo

tIpografIa

(dal centro)- disciplina i capelli ribelli- elimina l’effetto crespo- memorizza la piega- dona brillantezza e setosità- aumenta il volume dei capelli fini

rIpetIzIone

ritmo

continuità

manca un punto focale!

comUnIcazIone pUbblIca

comUnIcazIone pUbblIca

ImmagIne coordInata/brandIng

packagIng

web/Interfacce

desIgn dell’InformazIone

type desIgn

parte III

progettare

Funzioni della grafica

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in pratica workshop 1

Workshop 1 - 30/12/2010, Baridurata: 3 orepartecipanti: 7

Parte I: Introduzione

Il workshop è cominciato con una domanda a bruciapelo: che cos’è la grafica?

Ogni partecipante ha messo per iscritto la sua definizione su un modulo apposito (qui a fianco e nelle pagine successive). Dopo dei rapidi commenti sulle definizioni, soprattutto su quelle più vaghe, è cominciata la presentazione.

La parte della definizioni si è rivelata piuttosto prolissa e i partecipanti hanno mostrato un interesse più alto al momento della carrellata di immagini che chiedevano di essere definite o meno come artefatto grafico: la discussione si è animata, sono emersi punti di vista diversi soprattutto sulle immagini rafiugranti una firma e un murales. Nessuno ha avuto esitazioni sul cartello di divieto o sul grafico a torta definiti come validi per la loro universalità indiscussa. La discuissione ha preso subito una piega molto intensa, arrivando a toccare punti molto delicati, come l’autorialità o l’artisticità di certe forme di grafica, col rischio costante di arenarsi. L’elenco telefonico è stato invece l’occasione per un breve excursus su questioni di progettazione quale l’attenzione alle problematiche di un testo a corpo così piccolo. I partecipanti hanno mostrato viva curiosità verso queste manifestazioni invisibili della progettazione.

A seguire il dibattito sul rapporto grafica, arte e pubblicità è pas-sato velocemente in quanto erano punti già emersi dalle discussioni sulle immagini. Interrogati sul nome di un grafico, come prevedibile, nessuno ne conosceva. A seguire una carrellata di esempi a tutti noti che sono stati progettati da grafici, le funzioni della grafica, e i vari ambiti di attività (editoria, packaging, branding, e così via).

Tutta questa parte ha preso all’incirca due ore.

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workshop 1

l’utilizzo combinato di immagini, colori, testi, fotografie per comunicare messaggi e concetti, utilizzando le “forza espressiva” delle immagini e dei colori per suscitare interesse nel destinatario.

la grafica è la rappresentazione grafica di un concetto.

è lo strumento che può rendere efficace, attraente, convincente un oggetto. Anche se l’elemento rappresentato è di scarsa qualità una buona rappresentazione dello stesso rende più efficace la percezione di chi guarda.

le definizioni dei partecipanti

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in pratica workshop 1

un mezzo di comunicazione visivo ampiamente utilizzato nel campo della pubblicità e dell’editoria

rappresentazione di un concetto con un disegno

la grafica è quella disciplina che si occupa dello studio dei simboli grafici che costellano la realtà nella quale viviamo. Questa scienza si occupa di studiare le com-binazione cromatiche e di scomporre i simboli e i carat-teri e di ricomporne di nuovi. Con il termine grafica si intende tutto ciò che deriva dalla scrittura e dal segno “grapho”=scrivere.

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workshop 1

esprimere con le immagini i concetti senza usare le parole e senza bisogno che ne siano.

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in pratica workshop 1

Parte II: Osservare

I partecipanti sono stati poi invitati ad andare in coppia in escursione nel quartiere a fotografare esempi di grafica che fossero significativi sia positivamente che negativamente.

Parte III: Fare

Al loro rientro le foto sono state osservate e brevemente commentate. Ognuno ha compilato una scheda di commento alle immagini che poi ha esposto anche a voce. Sono stati fatti commenti sull’efficacia di questi esempi, e possibili suggerimenti per migliorarli. Questa parte ha occupato l’ultima mezzora.

Per finire, sono stati mostrati degli esempi di non-progettazione scattati in giro per la città che offrivano spunti di dialogo

Conclusioni

Il workshop ha avuto una durata molto breve ma sicuramente è stato molto intenso. Le parti di dibattito hanno appassionato tutti i partecipanti ed hanno messo in luce dei punti interessanti.

La presentazione forse risulta troppo carica d’informazioni e categorizzazioni, che alla fine appesantiscono un po’ il tono del laboratorio. La meticolosità della presentazione voleva essere un modo per dare strumenti accurati per l’osservazione della realtà ma di fatto il loro utilizzo al momento dell’esplorazione è stato molto inferiore alle aspettative. Molte scelte erano dettate da motivazioni superficiali e mostravano i segni della stanchezza. Alcuni esempi erano sbagliati nell’individuazione del soggetto: sono stati fotogra-fati oggetti, oppure è stato confuso il cattivo funzionamento della comunicazione con quello dell’oggetto cui era applicato.

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workshop 1

alcuni momenti del workshop

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in pratica workshop 1

gruppo 1

gruppo 2

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workshop 1

cos’è: cartello di segnaletica stradaleperchè: non è facilmente riconoscibile ed interpretabile

dibattito: per chi sono progettati in questo modo? chi ne fruisce di fatto? e come? come si potrebbero migliorare?

cos’è: pacchetto di sigaretteperchè: la grafica evoca correttamente l’idea di pericolo e morte

dibattito: il commento si riferisce alla grafica o al messaggio? la grafica in se per se suggerisce un’idea di morte?

cos’è: cartello vendesiperchè: è inequivocabilmente un cartello che codifica la vendita di un bene. Chiaro anche nell’evidenziare l’oggetto, le sue caratteristiche e come contattare il proprietario.

dibattito: si parla di due livelli di comunicazione distinti, sono entrambi definibili come grafica?

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in pratica workshop 1

gruppo 3

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workshop 1

cos’è: insegna negozioperchè: attrae per i codici, per i colori. Ma i codici non sono chiari... Esempio poco efficace.

dibattito: esempio di cattiva progettazione, il nome del negozio viene spezzato dal marchio.

cos’è: istruzioni per il lavaggioperchè: informazioni efficaci per il lavaggio perchè ci sono i simboli che fanno capire cosa si può fare al capo d’abbigliamento: lavare come..., stirare

dibattito: sono simboli decifrabili immediatamente? o forse solo alcuni? cosa si potrebbe fare per renderli più chiari?

cos’è: orologioperchè: bell’idea di minutaggio (secondo, decimo e millesimo)

dibattito: siamo nell’ambito della comunicazione grafica? e comunque la progettazione è corretta e chiara o è solo un’idea ad effetto?

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in pratica workshop 1

gruppo 4

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workshop 1

cos’è: manifestoperchè: comunica immediatamente e chiaramente il suo contenuto. attira lo sguardo.

dibattito: è una comunicazione efficace e riuscita?

cos’è: manifestoperchè: i codici cromatici identificano subito le parti importanti del messaggio.

dibattito: ci sono delle differenze fra parte superiore ed inferiore del manifesto? la parte inferiore forse appensantisce il risultato finale e non è necessaria.

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in pratica workshop 1

I commenti dei partecipanti

I partecipanti di questo primo workshop erano per la maggio-ranza conoscenti e hanno partecipato senza avere un’idea precisa di cosa andavano a fare. Eppure, in linea di massima, tutti sono parsi da subito presi dalle discussioni: soprattutto, hanno spesso mostrato di aver compreso correttamente le problematiche che venivano affrontate.

Alcuni di loro hanno lasciato dei commenti sull’esperienza che si sono rivelati preziosi per migliorare la formula di quello successivo.

COMMENTI?È stato molto interessante io però avrei reso più rapida la parte delle definizioni senza perdermi troppobella la parte in cui chiedevi di dire secondo noi se le immagini che ci mostravi erano grafica o no e molto bello il momento progettuale in cui facevamo foto, si.. aggiungerei un lavoro magari su quelle immagini, lo renderei più progettuale ma più veloce la parte in cui sei solo tu a dare definizioni, diciamo che devi evitare di perdere molto tempo all’inizio per introdurre la situ-azione e metterla subito sul vivo perchè come hai visto dopo eravamo tutti molto presi...e si è davvero creato un dibattito.A me è piaciuto molto e penso poi che per essere il primo lo hai gestito molto bene, unica cosa se lo vuoi condurre tu...devi spogliarti della tua opinione e diventare giudice imparziale, traspariva troppo il tuo punto di vista e invece non dovresti influenzarci...

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workshop 1

COMMENTI?Il workshop era strutturato in 3 fasi: introduzione, osservare e fare. Quella che ho trovato più interessante e più utile per avvicinarmi alla grafica è stata l’introduzione della quale tuttavia ridurrei allo stretto indispensabile la parte delle definizioni sulla grafica. Ho trovato giusto e interessante partire con la scrittura della nostra idea della grafica. ... Mi è piaciuta moltissimo la parte nella quale abbiamo osservato varie immagini (firma, saracinesca, insegne etc) e abbiamo discusso su quale fosse grafica e quale no. Unica pecca è la poca chiarezza che evidentemente c’è circa i confini e i contorni della grafica ... segno che forse i confini della materia non sono ben definiti nemmeno in dottrina ma che tuttavia ha creato in me, da profana e ignorante, il senso di non sapere benissimo dove guardare per riconoscere la grafica.Eliminerei la fase della visione di opere di grafici, perché forse inutile dopo il dibattito precedente, e anche la fase definitoria delle varie caratteristiche perché ripetitiva rispetto al dibattito precedente nel quale erano state già bene o male accertate.Cambierei la fase pratica perché si è rivelata anch’essa incerta e ripetitiva poiché mandati a fotografare la grafica della zona abbiamo portato press’a poco tutti le stesse immagini con le stesse motivazioni, anche se l’esercizio è stato molto stimolante e divertente. ... suggerirei all’organizzatrice stessa di munirsi preventivamente di immagini rappresentative a suo parere di una grafica efficace e non efficace e di sottoporle a ciascuno dei presenti. ...La durata non è stata stancante o noiosa, il tempo è passato velocemente ma credo che sarebbe stato più stimolante avere un raggio più ampio di dibattito e parte pratica. Eliminerei assolutamente tutto il resto.

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workshop 2

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workshop 2

WORKSHOP DI GRAFICA PER NON-GRAFICI

DOVUNQUE SIAMO, CIÒ CHE SENTIAMO È PER LO PIÙ RUMORE.QUANDO LO IGNORIAMO, CI DISTURBA. QUANDO LO ASCOLTIAMO LO TROVIAMO AFFASCINANTE

JOHN CAGE

29.01.2011 (data provvisoria) CBa Design Solutions, via Privata Lecce 4, Milano h. 15.00-18.00

Cos’è la grafi ca? E perchè dovrebbe interessarti?

Guardati attorno. È dovunque intorno a te. Ogni giorno manifesti, riviste, siti web, poster, segnali ti parlano. Il modo in cui lo fanno non è casuale, è il risultato di scelte progettuali mirate a trasmettere il messaggio in modo chiaro. Ma è sempre così?

Questo workshop nasce per osservare la grafi ca più da vicino, per parlare insieme di cosa funziona e cosa si può migliorare, per sperimentare praticamente le dinamiche della progettazione.

iscrizione gratuita su grafi ca.non.grafi [email protected]

poster per il secondo workshop

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in pratica workshop 2

Preparativi del workshop 2

Il primo workshop aveva evidenziato uno sbilanciamento fra la parte di narrazione e quello di confronto diretto con la grafica: le discussioni hanno appassionato i partecipanti, lasciando poche energie per gli sviluppi successivi. Inoltre, è parso come se la questione si fosse leggermente spostata dal capire la grafica al darne una definizione: ma questa è una questione spinosa (e difficile anche da gestire) su cui i grafici stessi s’interrogano ancora e sicuramente non l’ambizione di tale esperienza.

È parso, insomma, di aver sviato dall’intento iniziale e di non aver pienamente centrato il punto: questo ha portato a ripensare la struttura del laboratorio, anche sulla base dei suggerimenti dei partecipanti al primo, allo scopo di ridurre il parlare per dare molto più spazio e risorse all’ascoltare e al fare.

La presentazione è stata notevolmente ridotta di tutte quelle classificazioni e definizioni, di fatto non necessarie: la serie di immagini che chiedevano di essere giudicate come artefatto grafico o no, è stata sostituita con un elenco che mostra i vari ambiti e le varie funzioni della grafica; del tutto omesse le varie definizioni e la parte sui grafici professionisti. In complesso, la presentazione è stata riconfigurata pensandola per i non addetti al mestiere.

Oltre a queste modifiche, è stata decisamente trasformata la seconda parte, che si è trasformata in un vero e proprio laboratorio di progetto.

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in pratica

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workshop 2

etImologIa

grafIca

sost. deriv. da grafìadal greco graph-o, scrivo, disegno, faccio un segno, incido, scolpisco da cui graph-e-ion, stilo per scrivere, da cui graphikos, attinente allo scrivere.

che cos’è

la grafica?

Che cos’è la grafica? risultati google images vs mondo senza la grafica

Etimologia + origini Questa è grafica: una serie di immagini

ALLA VOCE “GRAFICA”

O “GRAPHIC DESIGN”

MA È DAVVERO TUTTO QUA?

OGGI, NELLA SOCIETÀ DELL’INFORMAZIONE ESSA DIVENTA IL SUPPORTO BASILARE A QUALSIASI SCAMBIO D’INFORMAZIONI.

LA GRAFICA (O GRAPHIC DESIGN) È LA DISCIPLINA CHE SI OCCUPA DI PROGETTARE GLI ARTEFATTI COMUNICATIVI.

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in pratica workshop 2

LA GRAFICA

organizza le informazioni per mezzo di varissimi strumenti (immagini, testi, colori, forme, ma anche citazioni, metafore, simboli) e che è più efficace tanto più rapida ed intuitiva è la sua lettura

LA GRAFICA

è progettazione, nel senso che il messaggio viene comunicato secondo regole e scelte che possono dare priorità alla chiarezza e alla neutralità piuttosto che all’impatto visivo e a sperimentazioni più personali, ma è sempre finalizzata ad uno scopo.

OSSERVANDO NEL DETTAGLIO, CIÒ CHE SEMBRA NATURALE, O CASUALE

OSSERVANDO NEL DETTAGLIO, CIÒ CHE SEMBRA NATURALE, O CASUALE SI RIVELA ESSERE IL FRUTTO

Franklyn Anne Somersaught StreetFranklyton Robert Burton Street 145

OSSERVANDO NEL DETTAGLIO, CIÒ CHE SEMBRA NATURALE, O CASUALE SI RIVELA ESSERE IL FRUTTO DI SCELTE PROGETTUALI.

Definizione Grafica significa progettare

Se è progettata male, influenza le nostre vite

LA GRAFICA

è comunicazione mediata ovvero qualcosa che si frappone fra il mandante del messaggio ed il suo ricevente

OSSERVANDO NEL DETTAGLIO, NON TUTTO PERÒ È PROGETTATO COME DOVREBBE.

DOVREBBE PARLARCI CHIARAMENTE

DOVREBBE PARLARCI CHIARAMENTEE INVECE CONFONDE, O PEGGIO.

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in pratica

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workshop 2

I toni della grafica Perchè dovrebbe interessarci?

PUÒ INFORMARCI DI QUALCOSA.

PUÒ INSEGNARCI QUALCOSA.OSSERVARLA PIÙ ATTENTAMENTE PORTA A DUE COSE:

1: ESSERE PIÙ CONSAPEVOLI E CRITICI.

2: VIVIAMO IN UN EPOCA IN CUI TUTTI PRIMA O POI S’IMBATTONO IN UNA PRODUZIONE GRAFICO-VISIVA.

PROGETTARE NON È OPZIONALE, È UN METODO, UN APPROCCIO CHE RICHIEDE RICERCA E ATTENZIONE.

PUÒ PERSUADERE.

PUÒ SORPRENDERE E INTRATTENERE.

PUÒ SHOCKARE E SCUOTERE.

PUÒ EVOCARE.

PUÒ INVITARE A RIFLETTERE.

PERCHÈ DOVREBBE INTERESSARCI?

Se è progettata male, influenza le nostre vite

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in pratica workshop 2

Workshop 2 - 29/01/2011, Milanodurata: 3 orepartecipanti: 5

Parte I: Cos’è la grafica?

Il workshop è cominciato anche stavolta con la domanda a bruciapelo: che cos’è la grafica? Ogni partecipante ha messo per iscritto la sua definizione.

Dopo dei rapidi commenti sulle definizioni, soprattutto su quelle più vaghe, è cominciata la presentazione vera e propria: si comincia mostrando l’idea stereotipata di grafica nell’immaginario collettivo attraverso le ricerche d’immagini alla voce “grafica” su Google images e poi alcune immagini tratte dal lavoro di due fotografi sul mondo senza grafica. Molto brevemente si parla delle origini lontane della grafica nel segno e nell’incidere. Si passa poi ad una carrellata di esempi che mostrano l’ubiquità del design nelle vite quotidiane e che offrono l’occasione per osservare più nel dettaglio la natura “progettata” delle manifestazioni più consuete della grafica (elenco telefonico, mappe della metropolitana). Da qui si passa a sottolineare che la differenza fondamentale non è fra bello e brutto ma fra progettato bene o male. Poi si passa a parlare dei vari “toni” che la grafica usa per parlare agli utenti, da quello più neutrale ed informativo a quello persuasivo o shockante. La presentazione si chiude con una riflessione sul perchè la grafica dovrebbe interessare tutti: la grafica non è una patina superficiale ma consiste di proget-tazione e saperla giudicare in questi termini è utile sia in quanto utenti, per poter saper meglio mettere a fuoco i problemi comunica-tivi, che in quanto potenziali grafici occasionali.

La presentazione è durata un quarto d’ora, dunque ben più breve rispetto alla precedenti ed è stata seguita con attenzione dall’inizio alla fine, senza sollevare particolari domande o dibattiti.

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in pratica

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workshop 2

alcuni momenti del workshop

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in pratica workshop 2

La grafica è l’espressione bidimensionale di concetti... che cosa? Non riesco a spiegarlo con delle parole, anche perchè credo che la sua definizione dipenda dalla sua funzione (obiettivo)...

È la disciplina che studia i segni. Con questo termine possiamo definire tutti gli elementi simbolici presenti nella realtà in cui viviamo a partire dai cartelloni, i segnali stradali ma anche le scelte di rappresentare un elaborato più complesso come le copertine di un libro, etc.. Deriva dal termine grapho.

La grafica è una disciplina che si occupa della comunicazione visiva attraverso parole, immagini statiche o dinamiche con l’obiettivo di controllare il messaggio che queste comunicazioni visive passano.

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in pratica

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workshop 2

La grafica è il racconto di un prodotto, di un evento o di un elemento in generale attraverso segni che sappi-ano emozionare.

È una disciplina che utilizza testi, immagini, colori per comunicare messaggi. intermedia fra contenuti e persone.

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in pratica workshop 2

Parte II: Osservare

Ai partecipanti è stata sottoposta una serie di immagini, divise in sette macroaree della grafica: segnaletica, mappe, testi, copertine, packaging, istruzioni, insegne. A ciascuno veniva chiesto di osser-varle e scegliere quelle che reputassero più significative sia in senso positivo che negativo.

Una volta selezionate, ognuna spiegava agli altri le motivazioni delle proprie scelte: abbiamo riscontrato delle tendenze dominanti, in particolare sulle mappe e sul packaging su cui tutti avevano opinioni affini. Si è cercato di lasciar ampio spazio alle loro osser-vazioni, salvo cercare di moderare una certa tendenza a giudicare in base a quello che era più familiare, o in certi casi a spostare il giudizio sul valore del contenuto dell’artefatto.

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in pratica

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workshop 2

le serie di immagini

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in pratica workshop 2

Testi: una serie di scansioni tratte da tascabili

Copertine italiane e straniere del libro La guerra dei mondi

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in pratica

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workshop 2

Packaging di farina italiani e stranieri

Insegne di Bar

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in pratica workshop 2

Istruzioni di bordo per sicurezza aerea

Mappe cittadine

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in pratica

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workshop 2

Segnaletica pedonale

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in pratica workshop 2

la fase di scelta e discussione

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in pratica

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workshop 2

Parte III: Fare

In questa terza ed ultima fase, veniva chiesto ai partecipanti di realizzare un poster su cui comunicare le riflessioni tratte dalla fase precedente.

I materiali dati a disposizione sono:

un 50x70 bianco o nero;tutte le immagini quadrate;fogli adesivi col titolo WORKSHOP DI ______ da completare con un titolo per quest’esperienza; forbici, colla, penne, matite.

Allo scopo di conferire unità ai risultati, ma anche di offrire un punto di partenza da cui cominciare a riflettere, sul poster è disegnata una griglia di quadrati 3 x 3: essa costituisce l’area su cui è possibile operare. La parte superiore viene lasciata libera per inserire l’adesivo col titolo.

Ognuno è stato lasciato libero di scegliere se inserire tutte le immagini scelte o fare un ragionamento preciso su una singola immagine. Per farlo, era libero di servirsi anche di altre immagini (incluse copie della stessa). Le immagini potevano essere tagliate, divise, ruotate. La loro posizione sulla griglia era generalmente il punto di partenza per esprimere il proprio ragionamento.

È stato chiesto ai partecipanti di cercare di ricorrere al testo il meno possibile ed eventualmente solo a conclusione del lavoro, e che si sforzassero di esprimere tramite le immagini stesse e le loro relazioni il senso del loro discorso.

Dopo aver riflettuto su cosa volevano comunicare, cercavamo insieme di decidere quali immagini potevano essere utili al ragiona-mento. Successivamente ognuno ha trovato la chiave per esprimere la propria riflessione.

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in pratica workshop 2

la griglia del poster è pensata per offrire una soluzione “facile”: l’obiettivo è mostrare che i limiti possono anche essere aggirati per trovare soluzioni inedite.

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workshop 2

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in pratica workshop 2

Leggere la città contemporanea popolata dalla grafica significa leggere un testo la cui trama è disorganizzata e non lineare. Sta a noi riuscire a “leggerla” tramite gli strumenti della grafica che ci permettono di orientarci nella città in maniera più consapevole.

workshop di: lettura urbanatitolo: la lettura non è solo quella di un testo, ma anche dei luoghi che abitiamo

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in pratica

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workshop 2

I due esempi di segnaletica si distinguono per la loro chiarezza: l’uno comunica chiaramente quattro direzioni, l’altro le confonde. Ho esteso le direzioni del primo per mostrarne l’efficacia, invece ho ripetuto ossessivamente il secondo chiudendolo in un circolo vizioso per esprimere la sua ambiguità.

workshop di: istruzioni per l’uso dei segnali del mondotitolo: la giusta direzione

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in pratica workshop 2

Il confronto ravvicinato tra progetti grafici simili ci fa capire quanto le differenze rilevanti non sono solo prettamente estetiche ma fatte di struttura, organizzazione e finalità. Capire queste differenze ci fa anche capire che il nostro primo approccio alla grafica non può essere solo una questione di “gusto”.

workshop di: introduzione alla graficatitolo: quasi lo stesso

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in pratica

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workshop 2

La grafica deve scoprire il prodotto senza essere scoperta: bisogna saperla equilibrare senza creare sovrapposizioni ed inquinamento visivo. Questa confezione di farina riesce a comunicare la qualità del prodotto utilizzando pochi elementi, quasi invisibili ma ben curati che rimescolati e reinterpretati sono ancora elementi dello stesso messaggio caratterizzante.

workshop di: scoperta graficatitolo: senza titolo

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in pratica workshop 2

La mappa che ho scelto risulta chiara in ogni suo aspetto. L’unica pecca è nell’aver forse scelto un colore troppo scuro per segnalare le strade rendendole di fatto illegibili. Ho usato il poster come una lente per ingrandire la mappa e mostrare così questa carenza.

workshop di: leggibilitàtitolo: dove andiamo?

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in pratica

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workshop 2

Conclusioni

Il workshop sembra aver funzionato bene e impresso un segno nelle persone che hanno partecipato. Va notato che comunque alcuni dei partecipanti erano vicini per via traverse al mondo della grafica (chi architetto, chi designer). Perciò sarebbe sicuramente auspicabile replicare l’esperienza per acquisire maggiori dati.

Le parti del workshop erano sicuramente più bilanciate: la presentazione ha lasciato la mente sgombra e attiva in vista delle fasi successive.

La parte di discussione sulle sette categorie è stata interessante ed utile: c’era nei partecipanti un oscillare fra conservazione e curiosità verso artefatti più astratti e “difficili”.

La parte di progettazione, infine, è stata molto interessante, e la più stimolante per tutti i partecipanti. Essi hanno avuto così il modo di confrontarsi attivamente con le cose di cui abbiamo parlato, e questa pare una giusta chiusura del discorso.

Tutti, dopo un momento di spaesamento iniziale, hanno saputo individuare il proprio obiettivo e cercato di esprimerlo “graficamen-te”: ovviamente la tendenza iniziale era quella di assemblare insieme tutte le immagini scelte accompagnadole con testi esplicativi.

Non a caso la griglia voleva essere una specie di test: se d’impulso si è portati a utilizzarla nel modo consueto (riempire i quadrati) essa poteva essere alterata o “violata” mostrando che esistono altri modi di dire le cose, giocando su gerarchie, relazioni, posizioni e così via...

Unica imperfezione è stata nella scelta di alcune immagini, che andavano a falsare le scelte: le mappe ad esempio non erano tutte scalate alla stessa grandezza, oppure c’erano elementi in lingue diverse, che sono parsi leggermente fuorvianti.

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in pratica workshop 2

I commenti dei partecipanti

organizzato molto bene, stimolante, creativo, uno sguardo sul mondo grafico per chi non ha la possibilità di poterlo progettare

È stata molto interessante la realizzazione del poster (un esercizio che inizialmente mette un po’ in crisi!) ma dal quale molto velocemente puoi imparare qualche insegnamento di base di come si “metta in pagine un’idea”.

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in pratica

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workshop 2

ho trovato quest’iniziativa interessante perchè spiega bene la presenza della grafica nei nostri giorni e ci insegna ad analizzarla (e capirla) più a fondo.

molto interessante soprattutto la seconda parte poichè ci ha coinvolto personalmente in un progetto grafico. mi ha aiutato molto a riflettere su quelle che sono le scelte degli addetti ai lavori si trovano a fare, avvicinandomi ad un mondo che conosco solo da lontano. Credo che questi momenti di interazione siano molto utili per persone che non conoscono la grafica, poichè aiutano ad aprire la mente, a cercare soluzioni nuove e non troppo scontate ma anche a sforzarsi di riflettere sull’effettiva utilità di ciò che si vuole andare a realizzare. Lo proporrei alle scuole.

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workshop 3

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workshop 3

Preparativi del workshop 3

Il terzo workshop è stato uno strumento di ulteriore verifica della formula del secondo, che si è rivelata abbastanza efficace. Non sono perciò state apportate modifiche significative alla formula del secondo workshop, tranne piccole variazioni nella scelta delle immagini. Al fine di avere dei dati completi e rappresentativi, per questa terza prova sono state contattate persone il più possibile distanti dal panorama della grafica.

Workshop 3 - 5/02/2011, Baridurata: 3 orepartecipanti: 4

Parte I: Cos’è la grafica?

La presentazione si è svolta in maniera analoga al secondo workshop, occupando una durata di venti minuti. Riportiamo le definizioni di grafica date dai partecipanti.

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in pratica workshop 3

a mio parere la grafica è un modo artistico di esprimere in pratica un pensiero, quindi utilizzando colori, forme e parole.

la grafica serve secondo me ad esprimere in modo visivo un concetto attraverso disegni

l’arte di presentare qualcosa, la risoluzione di problemi tecnici di costruzione visiva

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in pratica

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workshop 3

il modo di esprimere un concetto con parole e immagini

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in pratica workshop 3

Parte II: Osservare

Ai partecipanti sono stati sottoposti i vari gruppi di immagini, divise in sei macroaree della grafica (le istruzioni di sicurezza sono state eliminate perchè nel secondo non hanno avuto alcun riscon-tro): segnaletica, mappe, testi, copertine, packaging, insegne.

Anche in questo caso, le discussioni sono state vive e piene di spunti interessanti: sono state fatte riflessioni sulla leggibilità dei testi e delle mappe, sull’impatto visivo delle copertine (e sulla sua effettiva utilità), sulla chiarezza espositiva dei packaging.

Parte III: Fare

Alla fase di commento alle immagini, è seguita la progettazione. I partecipanti di questo workshop in particolare si sono mostrati particolarmente spiazzati di fronte alla richiesta di dare forma ai loro pensieri attraverso le immagini, ma proprio in ragione di questo hanno raggiunto alla fine i risultati più soddisfacenti, perchè frutto di un intenso percorso cognitivo.

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in pratica

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workshop 3

Segnaletica pedonale

Mappe cittadine

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in pratica workshop 3

Testi: testo riscritto con i caratteri di varie case editrici

Copertine di Uno, Nessuno e Centomila

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in pratica

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workshop 3

Packaging di farina italiani

Insegne di Bar

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in pratica workshop 3

la fase di scelta e discussione

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in pratica

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workshop 3

la progettazione dei poster

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in pratica workshop 3

Il mio messaggio è che l’essenziale è vincente. Spesso mille immagini non fanno che confonderci.

workshop di: grafica-mentetitolo: per una parola centomila immagini

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in pratica

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workshop 3

la somma (…) per il packaging perfetto.

workshop di: matematica per non-graficititolo: pkg = (a+b+c)

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in pratica workshop 3

l’essenzialità e la chiarezza talvolta emergono dal compromesso tra l’apparenza e la sostanza.

workshop di: grafica essenzialetitolo:la sostanza apparente

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workshop 3

I colori, bussola della vita, aiutano nel cammino.

workshop di: parola alle immaginititolo: bussola cromatica

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in pratica workshop 3

Conclusioni

Questa terza prova sostanzialmente conferma le premesse della seconda, producendo di fatto un cambiamento illuminante nei partecipanti. Mettendosi “nei panni di”, i partecipanti hanno potuto comprendere la natura e le complessità al fondo della comunicazio-ne visiva e al tempo stesso hanno potuto per la prima volta riflettere sui loro stessi giudizi generalmente formulati a livello inconscio.

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in pratica

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workshop 3

I commenti dei partecipanti

questo pomeriggio grafico è stato molto divertente interessante e stimolante. è servito ad interpretare meglio il mondo che ci circonda attraverso le forme più varie di comunicazione e informazione

non sapevo cosa aspettarmi da questo incontro, direi che è stato utile perchè ho capito cosa c’è dietro ad una semplice grafica

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in pratica

ritengo che effettivamente la grafica sia ovunque, ma che tutti la ignorino, ritengo dunque necessario capire come essa riesca a persuadere, influenzando le nostre scelte

il workshop di grafica per non grafici si è inaspettatamente rivelato un ottimo modo per capire valutare e sperimentare gli aspetti grafici come prodotti pensati e destinati per noi.in particolare è stato bello analizzare e capire lo scopo per cui la grafica e’ nata e il grande ruolo che ha nella vita di tutti i giorni e nel mondo che spesso non siamo abituati ad osservare. vestendo i panni della grafica mi sono chiesta cosa mi colpisce, cosa mi affascina e cosa mi risulta di più certo effetto, e ho apprezzato moltissimo il poter “creare” un prodotto visivo che fosse la risposta a queste domande.

COMMENTI?

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in pratica

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in pratica conclusioni

Che cos’è la grafica?mappa complessiva

mezzo

arte

comunicazione

visiva

parole

immagini

colori

uso

rappresentazionestrumento

disciplina

simboli

racconto

risoluzione

problemi

attraente

prodotto

pubblicità

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in pratica

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conclusioni

messaggi

suscitare

interesse

rendere

esprimere

controllare

comunicare

concetto

realtà

segni

emozionare

presentare

editoria

disegno

destinatario

funzione

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in pratica conclusioni

Conclusioni complessive

La somma di queste esperienze nel complesso è stata illuminante: vivere il contatto con gli altri si è rivelato lo strumento indispensa-bile per andare più a fondo nell’indagine del rapporto fra grafica e utenti.

Tutto il dibattito teorico, per quanto stimolante, rimane confinato in visioni e proposte di futuro assolutamente condivisibili ma, di fatto, ipotetiche: questo perchè affrontare direttamente l’utente richiede un impegno non trascurabile e tempi e risorse non sempre disponibili. Non solo: è necessario mettere da parte l’astrazione per scendere ad un livello più pragmatico, ed in questo lo scambio con gli utenti si è rivelato fondamentale, perchè offre prospettive e punti di vista estremamente semplici ma inaspettati e aiuta a rivedere la propria posizione in maniera relativa.

Al tempo stesso, questa esperienza è stata un sicuro arricchi-mento per tutti i partecipanti, nella speranza che essi d’ora in poi riflettano più consapevolmente sulla grafica in cui s’imbatteranno nel loro cammino.

Come abbiamo già detto, questa tesi vuole costituire un primis-simo passo verso l’avvio di una più vasta diffusione della cultura visiva, nella speranza che essa divenga una parte della cosiddetta cultura generale. Questa carenza attuale chiaramente è dovuta in parte al fatto che la grafica costituisce materia “giovane” , e tuttavia non è pensabile continuare a non tener conto della sua rilevanza nel contesto contemporaneo.

Al tempo stesso, l’ambizione di questo progetto è recuperare lo spirito sociale della discussione e dell’incontro, nella convinzione che sia solo nel fare esperienze dirette che si ottiene una conoscenza autentica.

In un’epoca in cui tutto è mediato, ritrovare momenti di con-fronto diretto con le persone e con le cose diventa non solo più raro ma anche più difficile: il valore della curiosità si indebolisce in un contesto dove tutto è possibile, raggiungibile ed ottenibile.

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in pratica

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conclusioni

Limiti e possibilità future

Non è un caso che l’aspetto meno riuscito di questa ricerca sia stato proprio stabilire il contatto con gli utenti. L’evento è stato comunicato tramite contatto diretto o attraverso i canali di social networking: chi ha partecipato, l’ha fatto senza la piena consape-volezza di cosa andava ad affrontare. Eppure successivamente tutti sono stati concordi sull’importanza di una simile proposta. E allora come convincere delle persone distanti al mondo della grafica a partecipare ad un laboratorio di grafica?

Una soluzione potrebbe essere inserire i laboratori all’interno di altri contesti: come suggeriva qualcuno dei partecipanti, sicuramente le scuole sarebbero un’ottimo punto di appoggio per un’esperienza simile. Sicuramente toccherebbe rivedere l’assetto della proposta alla luce dell’età dei potenziali partecipanti, e qui si indica come migliore scenario quelle delle scuole superiori e delle università, visto comun-que che le finalità sono incetrate più su valori di consapevolezza e progettualità che su direzioni più libere di spontaneità e creatività.

Certo, con maggiori risorse a disposizione, sarebbe stato possibile avviare una campagna di comunicazione dell’evento, cosa sicura-mente auspicabile per gli sviluppi futuri. Resta la difficoltà di dare un volto ad una esperienza così peculiare, in bilico tra finalità di sensibilizzazione nei confronti del contesto e finalità didattiche, ma senza l’ambizione ad essere un corso esaustivo quindi non adeguato a chi intende avvicinarsi alla professione.

Sarebbe estremamente interessante tuttavia lavorare alla comuni-cazione dell’evento, magari avvalendosi degli strumenti e dei metodi stessi del workshop e chiedendo la collaborazione dei partecipanti: essa diventerebbe un ulteriore strumento per verificare l’effettiva ricettività degli utenti e di quali in particolare.

Un altro possibile sviluppo di tale ricerca potrebbe essere il suo impiego come strumento di verifica in fase di progettazione. Si potrebbe analizzare la problematica da affrontare scomponendola in elementi di base. Una ricerca su tali elementi produrrebbe una serie

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in pratica

di variabili, che sottoposte ai partecipanti, potrebbero rivelare in-formazioni preziose sulle preferenze (o anche sui preconcetti) degli utenti. I partecipanti potrebbero anche in quel caso essere invitati ad esporre le loro scelte in un artefatto, per fornire così ulteriori chiavi interpretative per lo sviluppo del progetto.

Questa ricerca è stata un lungo processo e sicuramente non mira a concludersi qui: difatti, è nata dall’inquietudine di non trovare riscontri effettivi di un rapporto concreto e consapevole fra utenti e grafica e dalla volontà di scardinare quella tendenza del progettista a chiudersi nel proprio mondo anzichè proiettarsi all’esterno.

I risultati fin qui prodotti mostrano sicuramente uno scenario più roseo di quello previsto ed un parziale recupero della rimpianta dimensione sociale dell’agorà; ma abbiamo già detto abbastanza.

Ora comincia il tempo del fare.

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comunicazione visiva e partecipazione

Isia Urbinodiploma accademico di secondo livelloAA 2009-10

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