MilanoRomaTrani dire-fare-baciare 2008

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milano roma trani cronachedissennate2008 direfarebaciare ringraziamenti [2] DIRE remo bassini [2] la globalizzazione che non funziona [4] mi getto in volo... e vado [5] buona liberazione a tutti [5] come si muore in Italia [6] avere 24 anni, oggi [6] il gioco più brutto del mondo [7] sconosciuto [8] FARE giacomo buratti [9] tra ferro e fuoco [13] reduci [14] guida galattica alla città di oik (2) [14] e ci sono 40 gradi - di nuovo [15] per dolce c’era la colomba con su della crema, comunque in quel ristorante non ci andiamo più [16] BACIARE peppe fiore [17] Sara e Alessia.avi [20] l’epopea di Gilgamesh - primo e ultimo atto [20] l’epopea di Gilgamesh - secondo e (davvero speriamo) ultimo atto [21] ho visto l’amore vero. in autobus [22] NapoliRomaTreni [23] guerre stellari [23] andrea malabaila [26]

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un anno di MilanoRomaTrani: Cronache dissennate 2008

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milanoromatranicronachedissennate2008

direfarebaciare

ringraziamenti [2]

DIREremo bassini [2]

la globalizzazione che non funziona [4]mi getto in volo... e vado [5]buona liberazione a tutti [5]come si muore in Italia [6]avere 24 anni, oggi [6]il gioco più brutto del mondo [7]sconosciuto [8]

FAREgiacomo buratti [9]

tra ferro e fuoco [13]reduci [14]

guida galattica alla città di oik (2) [14]e ci sono 40 gradi - di nuovo [15]per dolce c’era la colomba con su della crema, comunque in quel ristorante non ci andiamo più [16]

BACIAREpeppe fiore [17]

Sara e Alessia.avi [20]l’epopea di Gilgamesh - primo e ultimo atto [20]

l’epopea di Gilgamesh - secondo e (davvero speriamo) ultimo atto [21]

ho visto l’amore vero. in autobus [22]NapoliRomaTreni [23]guerre stellari [23]

andrea malabaila [26]

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Remo Bassini: correggi tu, fai pure l'editing: ma non della poesia; mi raccomando È-ra

Lo sanno in pochi. Prima di scrivere romanzi e racconti e post ho scritto poesie. Penso siano orrende.O comunque: simili a milioni di altre poesie che tutti, chi più chi meno (io meno) sanno scrivere. Io però, che sui trent’anni ero giovane e scemo, non resistetti. E pubblicai una raccolta di poesie e pagamento. Ho ancora qualche copia di quella raccolta. Poche. Le più le ho usate per accendere un caminetto, anni fa.Comunque.A questo blog io dedico l’unica poesia scritta dopo, l’unica scritta cioè da vent’anni a questa parte.

Il tempo èed è subito eraUn’immagine fissa:loculi a schiera.(Io al De Maurosuggerirei È-ra)

DIREextra

[grazie. grazie a tutti quelli che han letto, commentato, scritto su MilanoRomaTrani, nel suo primo anno di vita. grazie a chi c’ha regalato racconti e narrazioni – Remo Bassini, Giacomo Buratti, Peppe Fiore e Andrea Malabaila – e meravigliose immagini di Londra e Berlino – Salvatore Piombino - per festeggiare questo primo anno di vita. grazie, infine, a Matteo Scandolin, che s’è preso la briga di immaginare graficamente e d’impaginare questa nostra idea, queste Cronache dissennate 2008.MRT, MilanoRomaTrani – il blog collettivo più figo dello spaziotempo ]

DIRE

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La globalizzazione che non funziona...23 Novembre 2007 di ilteatrodegliorrori | Modifica

... ovvero se la massaia americana ti azzoppa l’economia mondiale.

È il maggio 2003, nel Wisconsin, e Caroline vuole realizzare il sogno della sua vita. Sapete quelle fattorie che vediamo nei film americani, sola in mezzo a campi gialli, tagliati solo da strade dritte percorse da furgoni polverosi e circondata da uno steccato da sistemare? Ecco Caroline vive nel Wisconsin e una fattoria come quella è proprio il sogno della sua vita. Per comprarla si vuole far prestare dei soldi. Il tasso di interesse negli Stati Uniti è solo unopercento e la banca a cui si è rivolta non fa molte domande: come ti chiami? quanti anni hai? hai un lavoro? qual è la tua storia? hai pagato sempre in tempo i tuoi debiti?

Caroline risponde che non ha un lavoro fisso, si arrangia con quelli saltuari e non ha mai avuto debiti. Ma per la casa sì, li vuole fare. Alla banca in realtà interessano poco le risposte. Caroline firma dei moduli in cui sono scritte queste cose e la banca presta, naturalmente a un pò di più dell’unopercento, diciamo all’unopercento più l’unopercento.

Che non siamo un istituto di beneficienza.

Il contratto della signora finisce nella pancia della banca insieme a quelli di altre Caroline del Wisconsin che volevano comprarsi la fattoria. Siccome il tasso d’interesse è molto basso, ci sono molte Caroline che comprano fattorie. E non solo nel Wisconsin. La banca inzia ad avere la pancia piena. Molti prestiti e soldi da spargere per le pianure statunite. E tutti questi soldi insieme sono così tanti che neanche la banca li ha. Allora sai cosa ti dico? Metto insieme tutte queste Caroline che vogliono i soldi e uso il prestito che ho fatto loro (e che se non pagano mi prendo la fattoria), come garanzia. Cioè tutti quei soldi che devo dare alle Caroline in cerca di fattorie, li raccatto da altre banche, chiedendoli in prestito, naturalmente a un pò meno dell’unopercento più

l’unopercento (perchè sono garantiti dal prestito e dalla fattoria). Che non siamo un istituto di beneficienza.

Così Caroline non lo sa, ma il suo mutuo viene fatto a pezzi. Un pezzo a New York, un pezzo a Hong Kong, un altro a Sidney, un pezzo a Milano.

Comunque così, in linea di massima, sembra che ci siamo:a) Caroline e le sue amiche fissate con le fattorie possono realizzare il sogno americano della vitab) La banca ha i soldi da prestare a tutte le Caroline delle pianure e del sogno americanoc) La banca guadagna anche un pò di soldini che non siamo un istituto di beneficienza

Chi ha avuto voglia di arrivare fin qui sa che c’è un però. Dal maggio del 2003 al giugno del 2006 i tassi di interesse vengono alzati. E di molto. Perchè la banca centrale americana ha paura dell’inflazione. Caroline invece ha paura di non riuscire a pagare. Pagava 100, nel Maggio del 2003. Ora, nel Giugno del 2006 si trova a pagare 700. Non solo. Il valore della sua casa si riduce. All’inizio poco, che non c’è da preoccuparsi. Poi sempre di più. Diciamo che adesso, nel Novembre del 2007, la fattoria vale la metà. Perchè? Perchè ora i soldi da prendere in prestito sono molto più costosi e poi perchè chi è così pazzo da comprarsi una fattoria nel Wisconsin?

Ci sono molte Caroline, moltissime. I prestiti che hanno chiesto sono un numero difficile da scrivere, quasi 2 trilioni di dollari. In cifre: 1,900.000.000.000.000. E ora, vacca, questi soldi sono sparsi nelle banche di tutto il mondo. Quali banche? Nel mondo, dove? Chi ne ha di più? Non si sa con certezza. E così anche le banche si fanno diffidenti. Non si prestano i soldi a vicenda. I soldi da prestare costano sempre di più. Le borse mondiali bruciano soldi. I soldi bruciati fanno perdere altri soldi alle banche che si fidano sempre meno l’una dell’altra.

Caroline che non riesce più a pagare, inconsapevole, azzoppa i più grossi istituti finanziari del mondo e forse un pezzo di un modello che tutti hanno accettato senza farsi troppe domande.

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mi getto in volo... e vado.2 Aprile 2008 di sigaretta | Modifica

Dovrei parlare di politica, di Veltron man, del Berlusca, del Pierferdi etc etc etc. e invece no.

Perché c’è qualcosa che mi dà ancor più sui nervi della politica: gli spot sugli assorbenti.

Giuro, non me ne faccio una ragione.

La Lines innanzi tutto dovrebbe capire che ci arrivò la Nuvenia un botto di anni fa a rivoluzionare il ruolo della donna: noi donne aspettiamo che ci arrivino “quei giorni” (e per Dio, basta con questi termini stupidi, chiamiamo le cose col loro nome: mestruazioni, non è una parolaccia, e che cavolo) per lanciarci col paracadute (anche Elio ci ha fatto su una canzone, tremendamente vera, altro che ridere), tagliare gli alberi, fare sport, attività stranissime e pericolosissime.

Poi i restanti 25 giorni non facciamo assolutamente niente, restando in attesa del nuovo ciclo svaccate sulla poltrona, aspettando che arrivi il clone di Trinity a darci la pillola blu o quella rossa.

Ora, voi ditemi: la tipa che lavora nella libreria, povera, è nervosissima perché le devono arrivare…e infatti le arrivano e insieme a quelle anche un invito a cena da un figo da paura.

A chi non è mai capitato? Eh.

L’ultimo spot: la ragazzina (carinissima, mica prendono le donne “normali” come fa la Dove) che sostiene il provino da vj… porella , non solo le sono

arrivate ma le chiedono pure di fare la ruota… ecco, visto che l’hai fatta grazie alla sicurezza che ti dà l’assorbente con le ali, esigiamo tutti che te faccia la ruota in apertura e chiusura di programma.

E quelle quattro suorine che, dovendo affrontare un viaggio in treno e non sopportando l’odore che spesso caratterizza le carrozze dei super treni italiani, che fanno?Ci schiaffano sotto il vetro un assorbente profumato(e si, li fanno anche così, nemmeno avessimo un tripudio di fetore là sotto) e se la ridono pure. Che pena, che tristezza…

Ed infine, non per importanza nella mia classifica d’odio, la ragazza che scende le scale di non so che edificio, insieme ad un’amica e un amico.

Lineamenti spigolosi, pettinatura da medioevo, vestitino orrido, ma veramente ributtante, di un celestino/verdino imbarazzante, un’aria da “Lo farò solo con mio marito, sono verginissima e purissima…ma nel frattempo mi esercito sollazzando chiunque mi capiti a tiro”; scendono le scale felici e raggianti, poi lei si ferma e con un tono quasi minaccioso dice “Perché mi fa sentire più asciutta e più pulita”.

Senti gioia, parla per te appunto, perché a me ‘sto coso in mezzo alle gambe mi dà solo noia, non mi sento asciutta né pulita e ogni volta che ti vedo benedico chi ha inventato i Tampax.

Senza offesa, ma chi crea questi spot può essere solo un uomo…

Pensate, ci hanno fatto anche gli assorbenti col ricamo, così se non ti va di usarli per il ciclo puoi sempre farci il punto croce.

Buona Liberazione a tutti25 Aprile 2008 di 0mrt0 | Modifica

Corriere della Sera, 14 novembre 1974

COS’È QUESTO GOLPE? IO SO

di Pier Paolo Pasolini

Io so.Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato “golpe” (e che in realtà è una serie di “golpe” istituitasi a sistema di protezione del potere).Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.

Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di “golpe”, sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli “ignoti” autori materiali delle stragi più recenti.Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974).Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l’aiuto della Cia (e in second’ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il ‘68, e in seguito, sempre con l’aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del “referendum”.

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Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l’organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggio grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari.Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che

ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero.Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio “progetto di romanzo”, sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il ‘68 non è poi così difficile.Tale verità - lo si sente con assoluta precisione - sta dietro una grande quantità di interventi anche giornalistici e politici: cioè non di immaginazione o di finzione come è per sua natura il mio. Ultimo esempio: è chiaro che la verità urgeva, con tutti i suoi nomi, dietro all’editoriale del “Corriere della Sera”, del 1° novembre 1974.Probabilmente i giornalisti e i politici hanno anche delle prove o, almeno, degli indizi.Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi.A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale.

Avere ventiquattro anni, oggi.25 Giugno 2008 di lecoincidenzenonesistono | Modifica

Ho ventiquattro anni. Un privilegio per cui ringrazio i miei genitori.Avere ventiquattro anni oggi è una bella fortuna.Anche perchè credo che il 1984 sia stato un anno chiave. E non sono l’unico a pensarla cosi, direi. Ci dev’essere qualcosa di esoterico, forse. Una specie di “anno di mezzo”, un varco spaziotemporale. Questo

spiegherebbe sicuramente la moda di quel decennio…Noi ventiquattrenni possiamo permetterci di avere già adesso ricordi vintage dell’ultimo lembo anni 80 e deprecare in largo anticipo lo scadimento delle “nuove generazioni”: aver usato un super santos ovalizzato o comprato un lemonissimo a 400 lire ci rende già vecchi, pur giovani. La nostalgia del passato è un lusso che solo i ventiquattrenni di oggi possono permettersi così presto…

Abbiamo visto nascere con meraviglia e un po’ di intontimento il computer e internet prima e il telefonino poi, senza che ce li mettessero nella culla. E

come si muore in Italia6 Dicembre 2007 di enpi | Modifica

TORINO. questa notte, un incendio nello stabilimento torinese della ThyssenKrupp, ha ucciso un operaio, ferendone altri nove; di questi almeno tre sono in gravissime condizioni. in quella stessa acciaieria si era sviluppato un altro incendio quattro anni fa.

VIBO VALENTIA. una ragazza di sedici anni è morta in ospedale, dopo essere stata ricoverata per un ascesso. a gennaio un’altra sedicenne, nello stesso ospedale, era morta; la causa: un black out di dodici minuti mentre era sotto i ferri in sala operatoria. il monitor dell’anestesia non era stato collegato al gruppo di continuità.

così si muore in Italia: di lavoro (oltre 100 al mese; 1.000.000 di feriti all’anno); di black out in sala operatoria e di ospedali. così si muore in un Paese civile.

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soprattutto dopo l’autoerotismo. E grazie al cielo adesso siamo in grado di adoperarci in ognuna di queste cose (computer, internet e telefonino, s’intende) abbastanza decentemente, sebbene ci sarà sicuramente qualche mocciosetto in età da latte in grado di ridicolizzarci senza affanni. Per questo temiamo molto le nuove generazioni e pur lamentandoci della dilagante superficialità, in cuor nostro la accogliamo rassicurati. Lo stesso può dirsi per l’inglese, più o meno. Ci siamo visti dimezzare il potere d’acquisto della paghetta settimanale a causa dell’avvento della moneta unica e rimpiangiamo la cara vecchia lira, manco avessimo tenuto tra le mani le banconote lenzuolo del dopoguerra. E - bisogna ammetterlo - ancora adesso ragioniamo in lire e paghiamo in euro. E questo ci provoca non pochi microtraumi quotidiani, perchè non siamo abbastanza vecchi per potercene lamentare. Ma - perchè negarlo? - per lo meno i più fortunati di noi possono fregiarsi, a soli ventiquattro anni, di guadagnare quasi un milione del vecchio conio, alcuni arrivano addirittura a uno e mezzo! Un’enormità nel 1984. Che è l’anno a cui siamo rimasti tanto legati. Ci è toccato vivere con grande angoscia uno dei drammi ambientali più terribili che l’umanità abbia dovuto contrastare: il buco nell’ozono. Quando ero

ragazzino, mi sembrava quasi di vederlo questo benedetto buco. Lacche e insetticidi erano armi di distruzione di massa. Eppure i miei genitori le usavano senza farsi troppi scrupoli. Ma io, che non ero certo incosciente come loro, che avevo un futuro, un grande futuro davanti a me, mi guardavo bene dall’imitarli, scrutandoli con sdegno sempre più crescente ad ogni nuova spruzzatina.Ora che abbiamo ventiquattro anni, ci chiediamo, più o meno tutti: ma sto cazzo di buco nell’ozono c’è ancora? L’abbiamo chiuso? O s’è allargato talmente tanto che adesso dobbiamo chiamarlo la macchia di ozono? Beh, inutile pensarci troppo. Adesso c’è una minaccia ancora più grande che incombe sulle nostre teste: il riscaldamento globale (Che poi mi sono sempre detto: l’uomo quando pensa a qualcosa che lo spazzerà via dalla faccia della terra tende sempre a guardare verso l’alto. Il vero coupe de theatre di chi è addetto a quest’incombenza sarebbe organizzare qualcosa di carino che parta da sottoterra. Sai che sorpresona…). Dicevo: il riscaldamento globale!!!! [oooooh di sgomento... le luci si abbassano]

Chissà se tra ventiquattro anni, ci saranno ancora dei ventiquattrenni in grado di capire quant’è bella la vita a ventiquattro anni.Per adesso ci siamo noi. E ce la godiamo alla grande!

Il gioco più brutto del mondo29 Settembre 2008 di PCacciolati | Modifica

Roba da non credere, dimenticare in fondo alla libreria la raccolta di scritti sul calcio di Gianni Brera, Il gioco più bello del mondo. Scritti di calcio (1949-1982) (BUR, 2007).O forse non è stato un caso, che quello scrivere di calcio, in quel periodo storico, e quello stesso titolo dell’antologia mai come oggi mi sembrano così maledettamente preistorici.Mai come oggi l’unico titolo che mi viene in mente è la parafrasi di quello scelto per Brera.Cosa è rimasto del gioco più bello del mondo? Pinturicchi e puponi, ibramoneyvich e figettinho, neobiscardate telebuffonate con sveline e buoi muggenti in sala. E balordi funzionali alla repressione di governo.

Leggendo gli articoli di Brera, mi sento tanto dandy postfutbol, rimpiangendo un calcio già morto prima che nascessi, mentre lo spettacolo dell’oggi si ripropone con impulsi vomiterecci.A controprova le ultime Olimpiadi, dove le pedate degli sgambettapalla, fossero pure superstar come Messi o Ronaldinho, si sono sovrapposte alle immagini di tutte le altre discipline sportive, e in modo

sempre perdente. Non c’è storia, né sotto il profilo tecnico, né sotto quello agonistico, tantomeno sotto quello atletico: il calciatore per me fa una figura meschina rispetto a qualunque altro campione di qualunque altro sport, fosse pure il tiro al piattello.La cosa buffa è che Brera, più di cinquant’anni fa, radiografava prodromicamente i mali attuali, dopo una partita persa dall’Italia con l’Irlanda del Nord con conseguente eliminazione dai campionati mondiali in Svezia.“Il calcio diventerà mero spettacolo per folle di bocca buona. Alle folle bisogna pur dare circensi. Molti ricchi in Italia provvederanno. Funzioni educative il calcio ne ha ben poche. E quanto a fonte di prestigio, meglio non parlarne.”

[La rovesciata di Carlo Parola! È il 15 gennaio 1950, in Fiorentina-Juventus il granitico stopper bianconero si produce nella rovesciata che sarà immortalata sulle bustine delle figurine Panini, pubblicata in oltre 200 milioni di copie e puntualmente riproposta ogni anno sugli album "Calciatori". (Ecco, la Juve, parlare di futbol in Italia non si può senza dire la Juve, metà tifa alla Juve e metà contro, anch’io in un certo senso tifo alla Juve, dicono che è tipo un patrimonio genetico che si trasmette di padre in figlio, fregnacce del genere, che io potrei anche confermare, in fondo mio nonno si pigliava un treno e due tram per portare mio

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padre a vedere Sivori mentre mio padre si pigliava una centoventotto blu con gli interni in plastichino rosso per portare il vostro scrivente ad assistere ai fasti trapattoniani nel fascistissimo stadio comunale di Torino, me la ricordo ancora l’architettura littoria del vecchio stadio di Torino, sovrastato da un parallelepipedo di cemento orribile visu e di sconosciuta funzione, e sarà mica stato un caso questo ricorrere di simboli fasci, magari lì stava l’essenza di quella juventinità, altro che Vecchia Signora e stile sabaudo, forse essere juventino significava soddisfare il piccolo fascista dentro, anche se si votava comunista, credere obbedire combattere ma più che tutto vincere, del resto la Juve l’ha tirata su il principale sponsor industriale di Mussolini e la

Juve ha sempre giocato con nove picchiatori più un fuoriclasse più un arbitro spesso suddito, che vincere per una “svista” dell’arbitro era ancor più bello, sarà mica un caso che i miei primi vaghi ricordi di Juve dal vivo sono onesti manganellatori come Morini, Cuccureddu e Benetti, poi clonati in quel carrarmato cingolato con i ramponi di Gentile, Cabrini, Furino e Tardelli, blindato dal gentiluomo Scirea e da quel supertanardo di Brio che si presentava in campo con la manichine corte della maglietta arrotolate sopra il deltoide, appena ingentilito dagli arabeschi di Causio prima e Platini poi, l’ultima Juve degna di memoria, passata dal bianconero all’azzurro nella prima estate col televisore a colori, il 1982, chiusa parentesi tonda e quadra)].

Sconosciuto18 Novembre 2007 di 0mrt0 | Modifica

[di Maria Pepe]

Ti vedo camminarecon passo sicurostringendo con mano validauna borsapiena di sicurezza

Il tuo mondoracchiuso in un involucrorigido

Ti circonda l’universo

Riapri l’involucrorimetti in circoloil tuo contenuto

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FAREGiacomo Buratti: in questo preciso istante

In questo preciso istante, proprio ora, mentre scrivo i-stàn-te, sono nel Museo dell’Arte Classica dell’università. Un’accozzaglia di copie in gesso di sculture e basso/altorilievi greci e latini (il museo, non l’università). È un posto tranquillo, ci sono anche un paio di grandi tavoli ma sempre poche sedie, ci si viene per studiare o semplicemente a trascorrere un po’ di tempo - magari quello tra una lezione e l’altra - in attività che escludono il coinvolgimento di altre persone. Ci sono anche delle riviste, per dire, tra cui alcuni numeri del New Yorker, tutti risalenti ai primi anni novanta – tre dei quali, per colpa di belle copertine di Art Spiegelman, un giorno si sono nascosti nel mio zaino e ora vivono con me.Io son venuto qui, oggi, per scrivere. Cosa non lo so - ma voglio scrivere. Oddio, in realtà lo saprei, o meglio: so cosa non vorrei scrivere. Non vorrei lasciare la penna in mano al mio corrosivo sarcasmo (così sembra una cosa seria), in modo che possa trascrivere la storia che mi ha raccontato ieri sera Luisa. Mi ha detto che un tizio che ha conosciuto in facoltà, un certo Franco (ma ovviamente Franco non è il suo vero nome), esasperato dai coinquilini che lo privano del sonno “giocando a carte a orari impensati e portando a casa troiette deficienti” (sono parole di Luisa), sta seriamente prendendo in considerazione l’offerta di un “ragazzo padre” (ci tengo anche qui a dire che la definizione è di Luisa, ché a me ragazzo padre fa molto ridere) il quale, per poter mantenere il figlioletto, è costretto ad affittare una stanza del suo appartamento - già piccolo, ma col pregio di essere situato nei pressi dell’università - agli studenti.Lo so, detto così, nell’ottica di Luisa diventa un film di Loach, ma io lo so (so anche questo, ne sono veramente sicuro) che in mano a me, cioè al mio sarcasmo, questa storia diventerebbe il diario di un giovane padre progressista che educa il proprio ragazzo usando i suoi inquilini come esempi di ciò che si deve e non si deve fare. E poi sarcasmo è una parola che non mi piace per niente, e non mi piacciono neppure tutte le parentesi che sto usando. (Però devo ammettere che potrebbe essere divertente la scena in cui il padre illustra al figlio i vantaggi di una corretta igiene

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dimostrandogli quanto prende fuoco in fretta la maglietta che l’inquilino indossa da una settimana).D’altra parte, la storia che mi ha raccontato Luisa mi aiuterebbe ad uscire dalla brutta fase che sto attraversando. Ultimamente tutto ciò che produco trasuda romanticismo nostalgico, che in pratica significa raccontini teneri teneri un po’ pungenti ma alla fine tanto dolci sulla mia infanzia barra pre trattino adolescenza. [Mi vergogno anche solo a scrivere che parlo di queste cose perché dall’altra parte del tavolo, qui nella Sala Lettura del Museo dell’Arte Classica, c’è una ragazza carina che indossa un maglione rosso e quando distoglie gli occhi dal libro guarda me, e se solo intuisse cosa la mia penna va farneticando sarei finito.]Rivangare nel passato, dicevo, mi ha stancato ed inizia ad imbarazzarmi. Non sarà troppo presto - io ho vent’anni - per guardare ai miei anni alle elementari e alle medie come a una mitica età dell’oro? Non dovrebbe essere questa la mia età dell’oro? La mia vita è così banale, deprimente, da non offrirmi nemmeno lo spunto per un racconto?Come dite? Dove sta la fantasia? L’invenzione? Basta con le domande? Io vi capisco. Lo so che pensate che uno che si mette a scrivere dovrebbe star lì ad una scrivania come tante ma con un cervello unico in cui brillano le immagini di mondi ignoti. Ma, a parte il fatto che ho visto troppa tv, la mia professoressa del liceo (mi è venuta in mente osservando queste statue sporche in questo pseudo-museo che lei troverebbe quanto meno indegno), quando parlava di Euripide come di Esiodo, diceva che noi non abbiamo inventato niente, e io le davo ragione – allora come adesso.Per esempio, ho questa storiella che mi ronza in testa da un po’, un accadimento da cui pensavo che avrei ricavato un racconto già mentre mi ci trovavo in mezzo. Mio nonno che trova nel suo orto un vaso contenente due piantine di (cercherò di riportare come posso il gorgoglio con cui si espresse lui) “ma-mar-marich-mariuwana”. Avrei accennato al fatto che il piccolo terreno che coltiva mio nonno è di proprietà della parrocchia e che il parroco è lo zio di mia madre, ovvero la nuora di mio nonno. Avrei descritto con dovizia di particolari la scena in cui ebbe luogo la rivelazione dell’illecito possesso (il tradizionale pranzo della domenica in cui tutta la famiglia si riunisce attorno al tavolo dei nonni). Non avrei potuto omettere il momento in cui mia nonna estrasse dalle pagine di un grosso libro di ricette una foglia di “ma[…]riuwana” che, e cito: “il nonno ha preso per confrontarla con quella che è sul portachiavi del figlio dei vicini”. Poi però mi sarei fermato. Avrei dovuto fermarmi per forza. Non posso ignorare l’esistenza di un film piuttosto famoso che tratta anch’esso del rapporto tra persone anziane e sostanze stupefacenti, un film intitolato, se non sbaglio, L’erba di Grace. Certo, avrei anche potuto far finta di nulla e, anzi, insistere sulla veridicità del mio racconto (lo giuro, è vero),

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sulla concretezza della mia esperienza (e non sto scherzando, mio nonno l’erba l’ha trovata sul serio). Ma il lettore più informato si sarebbe accorto della somiglianza col film e avrebbe fortemente dubitato della mia franchezza [mi sbaglio, lettore informato?]. Nella peggiore delle ipotesi si sarebbe addirittura sentito ingannato, preso per i fondelli [non è vero, lettore informato?]. Io in fin dei conti sono un tipo onesto, avrei sentito l’obbligo morale di rendere noto al lettore che nel caso la lettura lo avesse troppo affaticato, avrebbe potuto noleggiare al più vicino Blockbuster il dvd del film L’erba di Grace [contento, lettore informato?]. E poi non credo che si possa uscire da tutto questo. O almeno, io non ci riuscirò molto presto. Perfino il giochetto che sto facendo, l’elenco di ciò che non piace, che non si vuole essere, non si vuole diventare, è vecchio quanto gli originali da cui sono state ricalcate male le riproduzioni del Museo dell’Arte Classica. Il gioco dovrebbe finire con me che dico cosa mi piace, cosa voglio essere, cosa diventare. Prima però devo aggiungere qualcosa all’elenco delle mie avversioni. Vorrei, o meglio: volevo evitare di scrivere l’ennesimo racconto in cui il protagonista scrive un racconto. Chiunque sappia di cosa parla quando parla di scrittura vi dirà che un autore che si rispetti deve sottrarsi con tutte le sue forze alla lusinga - perché di ciò si tratta - rappresentata dalla scelta di uno scrittore come protagonista di un’opera in prosa. Ma io non so resistere alle lusinghe. Per farvi un esempio, la ragazza col maglione rosso, quella che vi dicevo prima, seduta davanti a me, mi sta fissando intensamente, se fossi un altro mi innervosirei (ma forse mi ha scambiato per un altro). Fa una cosa, con gli occhi, come se stesse cercando da qualche parte le parole esatte che diano forma a quello che sente di dover fare, le sue pupille si muovono impercettibilmente come se stessero seguendo la catena di caratteri di un libro. Sistema indietro i capelli, come solo le ragazze coi maglioni rossi sanno fare. Ora si è alzata. Forse mi ha veramente preso per chi non sono, e, accorgendosi dell’errore, si è però ricordata qualcosa. Forse assomiglio molto al suo ex ragazzo, i suoi occhi hanno riletto la lettera che come una stupida gli aveva scritto, e ha deciso di telefonargli, un’altra volta. Oppure no. Viene verso di me. Proprio verso di me. È davanti a me. Mi chiede se per caso ho una penna. Le dico che no, mi dispiace, non ce l’ho. - Ma se ci stai scrivendo adesso! - Ah già. Che stupido. Tieni.- Volevo scriverti il mio numero di telefono. Ma… Ma che fai?- No, scusa, la penna mi serve.- Ti serve per cosa?- Mi serve per questo.

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Tra ferro e fuoco!12 Novembre 2007 di lecoincidenzenonesistono | Modifica

ROMA. Capitano quelle sere paradossali. Cioè, epocali.

Quelle sere in cui tutto quello che conosciamo, per come lo conosciamo, sembra sia arrivato al capolinea. Che stia finendo per ricominciare stravolto, rivoluzionato. Quelle sere in cui succede qualcosa che - lo senti - farà cambiare un pezzo di mondo, se non proprio tutto. Scorci di storia.

E se queste sere non le vivi sul posto, perchè sei uno della periferia, e le cose grosse succedono solo a Roma, al massimo a Milano va’, almeno le percepisci e le sperimenti (a te pare) grazie alla televisione, la radio, il computer, il telefonino. La rivoluzione negli elettrodomestici. La due cavalli è roba vecchia. Figa, ma vecchia.

E quando la vivi in questo modo, e senti: Roma/Parigi/altra città grossa messa a ferro e fuoco! credi che sia davvero così che stanno andando le cose, anzi forse molto peggio, chè si sa che alla tele non dicono tutto quello che succede per motivi di sicurezza o perchè le cose manco le sanno poi così bene, oh diciamocelo, chi avrebbe il coraggio di rischiare la vita in mezzo al ferro, e al fuoco (una mezza riflessione che fai, ma su cui non ti soffermi ed è un peccato, perchè gli sprechi d’intuito sono imperdonabili).

Vedi i bagliori del ferro, senti il calore del fuoco. Pericoloso, ma così rassicurante. Vagheggi, fantastichi, ti sembra di leggere i titoli delle prime pagine del giorno dopo. Pensi davvero che Roma, tutta Roma, sia in preda alla guerriglia, alla follia delle scene fotocopia che sapresti riprodurre senza copione. Ed è un’idea che rischia di portarsi in dote un piacere sottile: quello di sentirsi in fondo parte di qualcosa, da raccontare ai nipotini, ma - grazie al

cielo - senta stare lì in mezzo a prendersi le botte. Tanto meno il ferro o il fuoco.

Ricacci indietro questo pensiero, mentre apparecchi la tavola, restando comunque sulle spine. Anche perchè c’è il caso che ti preoccupi seriamente per la gente che ci vive lì, dove stasera, al posto dei monumenti e delle cartoline e dei palazzi e dei souvenir c’è il ferro, e il fuoco!

Non pensi che in una città enorme, davvero non sai quanto, anche tutto il ferro e il fuoco di una sera non bastino a cambiare le cose. Ma neanche un po’. Non rifletti sul fatto che in uno spazio cosi vasto, e caotico, pure l’urlo di centinaia di migliaia di persone a malapena ce la fa a superare il fiume. Sei preoccupato, cazzo, certo che non ci pensi. Temi per chi ami, sotto al ferro, in mezzo al fuoco. Non sai che una guerriglia urbana che stravolge i palinsesti, fa indignare i politici e sgomenta i genitori, spesso fa più rumore da te, negli echi da pianerottolo di palazzo di cittadina di periferia di Sud Italia, che dove la guerriglia c’è davvero. Dove si stanno ammazzando nel-vero-senso-della-parola, eh!

Non immagini che, durante la guerriglia, ci siano parecchi concittadini dei guerriglieri, intenti a difendersi dalle tentazioni di un happy hour. Distratti (cinici?) luogotenenti della superificie. Presidiano gli aperitivi e assaltano gli stuzzichini. E della guerriglia nel quartiere affianco ne sanno meno di te.

Che non vivrai a Roma, certo, ma sei uno che si informa!

O non sospetti che, magari, nella città grossa, c’è un provinciale come te. In mezzo al ferro e al fuoco. Che tutto quello che riesce a fare è chiedersi in continuazione: ma perchè?

Che gente, questi provinciali!

Non avevo sbagliato all’inizio. Volevo dire paradossali.

Ciao Gabbo!

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REDUCI16 Aprile 2008 di 0mrt0 | Modifica

di Matteo Scandolin, per Milano-Roma-Trani

C’è un cane di piccola taglia. Non chiedermi la razza, conosco a tentoni quelle tre o quattro che mi piacciono dei gatti, i cani sono per me un universo completamente alieno. Ma c’è un cane di piccola taglia sulla prua di un barchino. Dritto, zampe tese e coda in aria. Guarda avanti, ignora un cane molto più grande di lui che dalla fondamenta gli abbaia contro. Dietro, seduto poco avanti al motore che un bordello atroce, un autoctono veneziano che, sigaretta in bocca e cappellino tirato sugli occhi, spreme i cavalli girando la manopola e filando verso la fine della Misericordia, per poi – immagino – girare e prendere Venezia alle spalle, dalla parte dell’ospedale.

C’è un vecchio edicolante che la mattina guarda i pacchi di riviste e giornali che gli scaricano davanti alla serranda, e si chiede con due o tre bestemmie dove mettere tutti i libri, i dvd, i dischi, gli inserti, lo speciale sulla popart, quello sulle città del mondo, e il pesantissimo inserto sul design, per non parlare delle enciclopedie, e degli album fotografici, e i cd: dove mettere tutto quello che non è giornale ma è l’unica cosa che fa vendere ancora i giornali.

C’è il barista cinese che pulisce il bancone e ha imparato a fare spritz e cicchetti come vogliono i locali, e a comprare il Gazzettino il lunedì perché c’è il supplemento sportivo, e a comprarlo gli altri giorni perché è ben che concentrato sulla città e

l’immediato hinterland, e questo ai clienti va bene. Lui che viene da lontano ha capito presto che qui siamo tutti attenti soltanto alla nostra pelle e a quel che ci mettiamo sopra, e quel che c’è a un passo di distanza ha un odore diverso dal nostro, un colore, un sapore che non ci interessa conoscere.

Ci sono io, che cammino velocissimo anche quando non ci sono turisti da schivare, e arrivo in ufficio puntualmente sudato come un maratoneta. Scirocco atroce, in laguna, a Mestre, ovunque. Te ne accorgi quando sali sul treno per andare in Umbria, o Trento, o in qualsiasi altra parte che non sia Provincia-Di-Venezia: l’aria si alleggerisce, sparisce l’impressione appiccicaticcia che ti accompagna tutti i giorni, e torni a respirare. E invece, in città sudi. Come una bestia. Poi quando a metà aprile piove, e poi smette di piovere, e riprende a piovere, come se Venezia fosse una piccola Londra di un altro universo, be’ neanche ti accorgi che smette di piovere, tanto l’aria è carica d’acqua e vapore e tutte queste cose umide.

Sarà la stanchezza, o le politiche, o la lapide fresca di pompe funebri che da quattro mesi mi aspetta perché dia una faccia un po’ più bella all’ultima casetta di mio padre, sarà che tra un paio di mesi ne faccio ventisei e me ne sento di più, sarà che tra un paio di settimane saranno otto anni che il Casi s’è appeso all’armadio, sarà quel che sarà. Ma: mi sento un reduce in mezzo ai reduci.

Contrariamente ai reduci di guerra, non so a che cosa siamo sopravvissuti. A un’idea, probabilmente. Persa nei canali che ogni tanto prosciugano e puliscono. È così, da queste parti, un bel pantano.

Guida galattica alla città di Oik (2)15 Febbraio 2008 di illettoreforte | Modifica

CAPITOLO I

GLI ARCHI ROMANI.

Un ipotetico visitatore della Oik preistorica non avrebbe visto una città, ma solo una serie di colline ondulosamente dolci, e di cieli imbiancati dalle nuvole. Al centro c’era un bel fiume natabile (la Bormida), con le sponde inverdite dall’erba. Le terre alte, ricoperte di boschi lianosi, abbondavano di lagomorfi e scolopacidi, cervidi e fasianidi, e soprattutto artiodattili. Le terre basse celavano sorgenti di acqua calda, a naso abbastanza imbevibili. E, all’inizio della primavera, i cespi di primule sprigionavano odori irripetibili. Poi, cominciarono a spuntare i primi liguri.

In principio, dunque, erano i liguri. Prima di inoltrarmi nel cuore di questo capitolo, ci tengo a precisare di essermi documentato a fondo sull’origine dei liguri.

Rischiando litigi domestici, mi sono chiuso giorni e notti nell’Archivio Preistorico della città di Oik, dove sono conservati i documenti più antichi dell’Alto Monferrato. Chiedo al lettore di avere un minimo di pazienza, perché le informazioni storico-etnologiche che seguiranno, per quanto possano sembrare troppo specifiche, costituiscono il background necessario alla comprensione della storia artistica di Oik, e non un semplice sfoggio di erudizione.Dopo questo preambolo, dunque, parliamo dei liguri. Si sa che non erano di grande statura. Abitavano nei boschi dell’Alto Monferrato in piccole comunità di raccoglitori, nate per una specie di socialismo spontaneo, in armonia con la natura, un po’ come i puffi¹. Ma cosa facevano di particolare questi liguri, a parte le gaie scorribande nei boschi a cogliere salsapariglia? Innanzitutto, gli storici ci dicono che erano abilissimi a nascondersi sotto i sassi. Ci sono numerosi aneddoti di turisti che, attirati dai baedeker neolitici alle meraviglie della vecchia Oik, e catturati dallo spettacolo della natura incontaminata, venivano sorpresi all’improvviso da un ligure che spuntava da sotto un sasso e gli faceva delle mosse tremende. I

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turisti, colpiti da infarto, si portavano una mano al cuore, mentre il ligure rideva a crepapancia e poi spariva tra le fratte.L’arte di nascondersi sotto i sassi era tramandata di padre in figlio, e successivamente da un’istituzione chiamata Genoa Cricket and Football Club, che a tutt’oggi è una delle più longeve società di nascondino sotto i sassi ancora esistenti al mondo.

Da dove venivano questi liguri? Alcuni dicono che provenissero da un continente di nome America, sprofondato nel mare sotto il peso dei sacchi di rumenta ivi abbandonati dai liguri medesimi. Altri dicono che fossero un popolo autoctono, sopravvissuto alle grandi glaciazioni grazie a grandi economie (scatenando il rumour che i liguri siano dei tirchi della malora). Il loro capo era un certo Colombo, un tipo inaffidabile che nei comizi in piazza diceva che presto o tardi il continente sprofondato sarebbe tornato in superficie, e lui in persona avrebbe guidato il popolo ligure alla sua riconquista, ma segretamente mirava a una carriera nello showbiz, e sognava di interpretare un detective in un famoso telefilm.All’inizio, fidandosi delle promesse del loro capo, i liguri, a parte spaventare i turisti spuntando all’improvviso da sotto i sassi, non facevano un bel niente: affondati nel molliccume, aspettavano solo di tornarsene in America. Poi però, dal momento che il cazzeggiamento continuo alla lunga poteva essere noioso, si trovarono altre occupazioni.

Le loro abitazioni non erano gran che, erano semplici penthouse di paglia e fango. Anche i loro abiti erano di paglia e fango, e, volendo, paglia e fango poteva anche essere un primo piatto spiritoso da servire agli ospiti importuni per una cena improvvisata. Ma il loro piatto preferito era la farinata, una torta salata molto bassa dagli ingredienti semplici e low budget: farina di ceci, acqua, sale e olio. Sembra che, durante la difficile navigazione dall’America all’Alto Monferrato, le navi dei liguri si trovassero coinvolte in una tempesta, e alcuni barili d’olio e farina di ceci si rovesciassero, mischiandosi all’acqua di mare. Il risultato fu tanto

nutriente che divenne un piatto nazionale. I sostenitori dell’autoctonia dei liguri, au contraire, dicono che la ricetta della farinata fu elaborata durante le glaciazioni, e che in penuria di farina di ceci si usasse inizialmente la farina d’avorio, ricavata dalle zanne dei mammut, che (complice la sciagurata idea degli happy hour di farinata sui ghiacciai) di lì a poco si estinsero.In ogni modo, quel che più importa è che la farinata può essere gustata anche oggidì sulla nostra tavola.

Dicevano di avere una capitale, una città favolosa, l’ubicazione della quale era custodita gelosamente. Gli storici non riuscirono mai a ritrovarla, cominciarono a sospettare che in realtà questa città segreta non esistesse affatto, e dissero ai liguri di piantarla lì, insinuando che fosse solo un trucco per darsi delle arie, ma i liguri risposero agli storici: “Bravi, bel tentativo. Ma non vi ci portiamo!”Per ricordare il continente perduto, cantavano struggenti canti marinari, molto gettonati, ma scadevano spesso nel commerciale, com’è dimostrato da certe iscrizioni rupestri: “Che confusione | sarà perché ti amo | è un’emozione | che cresce piano piano | stringimi forte e stammi più vicino | se ci sto bene | sarà perché ti amo”.Alcuni davano i nomi a tutte le cose (abbattifieno, accozzaglia, bacio, Bauhaus), altri costruivano armi rudimentali. Alcuni inventavano la ruota, altri pescavano gamberi di fiume nei ritani; altri ancora segnavano con tacche lo scorrere del tempo:

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Ma, soprattutto, tutti credevano nell’assenza di Dio e, siccome non c’erano programmi televisivi tipo Otto e mezzo² a convincerli del contrario, vivevano in un mondo relativamente felice.

E così fecero per ventimila anni, finché non arrivarono i romani.

(continua su MilanoRomaTrani!)

e ci sono 40 gradi - di nuovo23 Giugno 2008 di enpi | Modifica

per chi non c’è mai stato da ’ste parti [Puglia, 42 gradi circa di latitudine e un 16 di longitudine] un antefatto doveroso: l’acqua non c’è; non c’è tutti i giorni e, spesso, c’è solo di notte. per questo i bravi cittadini si dotano di cisterne. queste cisterne sono di ferro o d’alluminio; spesso sono sui terrazzi delle case (è una questione di fisica: caduta, si chiama e fa risparmiare elettricità), altre volte negli atrii (e c’è un motorino elettrico) - dove c’è posto, insomma. chi non c’ha posto, s’attacca, nel doppio senso: o rimane senz’acqua o riempie contenitori capienti dalle fontanine pubbliche.

dove vuoi andare a parare - si starà chiedendo più d’uno? la solita solfa del Sud depresso e demotivato?

no, voglio dire un’altra cosa. oggi ci sono 38 gradi. il sole scalda le cisterne. l’acqua viene calda, sempre, ché viene dalla cisterna di metallo. e qualunque cosa tu stia facendo: lavorando, dormendo, all’amore, studiando ecc., ché non ti passi per la mente di sciacquarti la faccia!

e farla scorrere, l’acqua, non serve, a niente.

l’anno scorso - non ricordo se era luglio o agosto - siamo arrivati a 48 gradi.

ho caldo; abbiamo caldo. siamo, il caldo.

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per dolce c’era la colomba con su della crema, comunque in quel ristorante non ci andiamo più24 Marzo 2008 di tfatf | Modifica

Come da tradizione ovunque, il Lunedì dell’Angelo è dedicato a giri fuori porta che si risolvono, immancabilmente, in una partenza mattutina frastornata dal sonno, in un pranzo più o meno terrificante e in una coda isterizzante per tornare a casa.

Casa.

Ci pensi, in macchina, a una andatura che oscilla tra i ventidue e i trentasette chilometri di velocità, alla tua casa, a cosa avresti potuto fare in questa giornata anziché farti fottere nel ristorante sicuramente tipico, sicuramente caro, sicuramente coi piatti surgelati.

Dov’è casa? Casa è anche qui in macchina, volendo. Se apro lo sportello nel cruscotto, questo mi si abbatte sulle ginocchia mostrandomi abitudini e oggetti dimenticati - la bustina di granelli profumati per il posacenere, ecco dov’era finita.La mignon di glen grant rotola su un cd masterizzato, senza custodia e già pieno di graffi, infilato nelle pagine delle istruzioni d’uso dell’autoveicolo da cui sbuca la fattura della revisione fatta pochi mesi fa. Quattrocentotrentotto euro, han cambiato i filtri, l’olio e anche le spazzole tergicristallo. C’è da bere, c’è da

ascoltare musica, c’è da aver cura di un bene primario e ci son soldi spesi, spesi bene uno può asserire, se non fosse che il tagliando è stato fatto con circa quindicimila chilometri di ritardo e quelle vecchie ottocentomila lire sarebbero finite in banca a maturare degli interessi risibili su cui grattare a fine anno in una partita doppia di cui è meglio non conoscere le regole, a patto di non finire in rosso.

Lungo la strada centinaia di persone fanno il pic-nic. Hanno il tavolino pieghevole, con su una tovaglia mediamente a bianca con fiori tenui, il frigidaire portatile arancio oppure blu oltremare ai loro piedi che calzano scarpe da ginnastica o anche sandali. I bambini giocano con un pallone poco distanti, gli adolescenti son in giro con il cellulare in mano e un’espressione annoiata, gli adulti sfondano le sedie o i plaid sull’erba dormendo in posizioni improbabili, le vecchie osservano i rimasugli di lasagne al forno e parmigiane ricche d’olio.

Ovviamente, è nostra regola criticarli: come sia possibile fare un pic-nic sul ciglio della strada è incomprensibile a chiunque. Come noi possiamo passare il pomeriggio in coda per tornare a casa è incomprensibile a tutti.

La strada delle Valli di Lanzo è un costellarsi di questi campeggiatori al monossido di carbonio che fissano con commiserazione, ricambiati, le auto transitare lentissime verso la città.

Passato Robassomero, si intravedono le luci di Caselle e, dietro, di Torino.Potevamo stare a casa a guardare la televisione.

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BACIAREPeppe Fiore: vacanze di Natale a Napoli, nella mia cameretta

Vado nella mia stanza col trolley mentre mamma in camera da letto entra nella sua tuta di felpa blu. Sulla parete del mio letto c’è da anni lo stesso quadretto rettangolare: ogni lettera fatta da un pupazzetto che si contorce, la scritta GIUSEPPE, il mio nome per esteso che ho sempre sinceramente odiato. Poi una foto del gatto presa da vicinissimo. La testa pigra di Birillo ingigantita, con una caccoletta nera all’angolo dell’occhio sinistro e sempre la stessa espressione di sazia soddisfazione sui baffi. Su un altro muro c’è la foto di me a sei o sette anni a cavallo. Ogni volta che la rivedo cerco di ricordarmi quando l’ho fatta. Niente. Mi ricordo soltanto, e molto vagamente, la paura nera che mi fece vedere da vicino questo cavallo, che era una bestia smisurata. Per il resto, le tracce della mia presenza passata combattono eroicamente con l’avanzata di papà. Quando abitavo qui, lui aveva in usucapione solo il mobiletto basso sotto lo stereo, perennemente chiuso a chiave. Ci veniva a maneggiare la sera, prima di cena, era il suo piccolo regno di burocrazia. Me lo ricordo in pigiama ginocchioni davanti al mobile mentre io chiudevo la versione di greco. Tirava fuori pacchi di vecchie bollette, faldoni incomprensibili, moduli del 740. Era lo stesso mobile dove custodiva un tesoro di cancelleria assortita: gomme, bianchetti, penne a chili e vari stick di colla a tampone. Quand’ero piccolo la presenza dentro la mia stanza di questo arsenale di tecnologia utile, dall’utilizzo immediato e comprensibile, mi sembrava miracoloso. Era un altro dei segni dell’onnipotenza paterna. Poi un giorno mi è capitato di aprirgli il mobiletto perché a lui, dall’ufficio, serviva non so cosa. Avrò avuto quindici o sedici anni: ci trovai dentro due pacchi di preservativi, visione che mi fece gelare il sangue e che rimossi immediatamente. Due anni dopo, la mia prima fidanzata, tale Ludovica, mi costrinse a ricordarmene. C’erano solo quelli in casa, visto che io ero terrorizzato in partenza dall’eventualità di chiavarla e perciò non me ne ero procurato di miei quando l’avevo invitata a casa. Era l’estate del 2000 e Ludovica, che stava al mio stesso liceo ma in una sezione diversa, aveva fatto tutto lei: lei aveva voluto conoscermi per tramite del mio compagno di classe Luca

BACIAREextraestratto del prossimo romanzo di Peppe Fiore, in uscita per Minimumfax a primavera

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Rubino, lei aveva voluto prendere ripetutamente con me lo schifoso caffè alle macchinette del corridoio al primo piano, lei aveva voluto assistere al concerto di beneficenza ai giardinetti di Via Ruoppolo dove si esibivano anche le Baccanti, il gruppo in cui il sottoscritto suonava la chitarra. Successe tutto nell’ultimo tratto dell’anno dell’esame di maturità, mentre il mio liceo e la mia vita in generale collassavano dentro l’estate con una velocità deprimente.

Così pure il nostro corteggiamento e il nostro cosiddetto stare insieme era un film in avanti veloce: io e Ludovica siamo due insetti impazziti sullo sfondo ultimo della nostra adolescenza. Forse perché non avevo mai avuto una fidanzata. Chissà. Di fatto, c’era una parte di me che era rimasta identica a quando avevo undici anni, ed era convinta che non avrei mai chiavato. Invece all’improvviso, un pomeriggio di luglio, il corpo di Ludovica era sul mio letto, ed era effettivamente quello della mia fidanzata e, dopo essersi presa il massimo che potevo darle, cioè un’estenuante interminabile leccata di fica, adesso giustamente voleva chiavare. Bisogna dire che Ludovica era un burro con le tette grandi e rosa, il culo pure grande (che mi dava un turbamento oscuro che all’epoca, povero ingenuo, ancora non riuscivo a decifrare) e la fica nera.

La prima fica che ho visto nella mia vita – a diciott’anni suonati – è stata questa cosa nera sotto una ragazza bionda, biondissima, e mi è sembrata dal primo momento un’assurdità siderale. Tutta la figura di Ludovica nuda era in effetti fondamentalmente assurda: aveva i fianchi grossi e la vita stretta, e questo, unitamente alla fica nera (bagnata) e alla testa bionda (abbastanza inespressiva), mi dava l’idea di due ragazze diverse montate insieme alla meno peggio per mettermi in crisi. Come in ogni vera tragedia, tutto il resto successe in un attimo. Lei che muove le labbra, dice qualcosa, io che annuisco, recupero da un cassetto le chiavi, apro il mobiletto, la folata di cancelleria tenuta al chiuso che mi investe, il sentore di papà incluso in quell’odore, la scatola di profilattici Sento, da cui ne mancano due, e questo è l’orrore, l’orrore nella sua forma più pura: due profilattici in meno che evidentemente sono stati calzati sul pene paterno per penetrare la fica di mamma, quindi tutta la stanza che congela, il mondo che muore, io che dall’ombelico in giù smetto definitivamente di esistere. Poi i suoi occhi che si socchiudono dentro il nostro abbraccio, che è l’abbraccio di due estranei senza vestiti. Poi lo sfinimento e alla fine, solo alla fine, la liberazione enorme che sento (l’unico vero piacere in tutta la pena di quel pomeriggio), quando ci rinunciamo – la certezza che questa è l’unica cosa sincera che saremo in grado di compiere insieme in tutta la nostra storia.

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Sara e Alessia.avi7 Dicembre 2007 di enpi | Modifica

DALLA RETE. Sara e Alessia si baciano. per minuti, minuti. è l’atrio di una scuola - secondaria superiore, immaginiamo - sentiamo la voce di un ragazzo, la voce leggera, giovane di un giovane regista.

Sara e Alessia si baciano, alla francese. li-mo-na-no. per minuti, minuti.non si vede altro; questo non è il video di Forza Chiara (ragazzina di Perugia, che fa sesso sul divano con il suo amichetto/fidanzato - quella che si disse: ha tentato il suicidio!); e non è la fanciulla molto minorenne di Ancona che fa sesso di gruppo coi compagni di classe, mentre gli altri fanno il tifo. nemmeno Quant’è figa Paola si spoglia a scuola.

qui Sara e Alessia sono vestite, per tutto il tempo. solo: si baciano. french kiss. amore? e il ragazzo dalla voce non formata che riprende col telefonino, regista del bacio, dà indicazioni - su giù sotto, brave ecc.qui Sara e Alessia sono l’Empire State Building ripreso per ore ore e ore da Andy Worhol.

qui, Sara Alessia e il nostro regista infante sono l’Arte, sono l’istante in cui un essere umano può essere Arte e la ripresa di Sara e Alessia che si baciano è la trascrizione di questo loro momento, del momento in cui sono state: giovani, incoscienti, innocenti e perverse. e la perversione non è nell’essere giovani donne che si baciano, nell’essere dirette dal giovane regista.sono perverse perché sono sfacciatamente strumento, terribilmente oggetto, quadro, modelle, tela.esprimono: noi, tu, io tutti quanti, i tempi, l’estetica del Mondo, l’utilità del Mondo.

L’epopea di Gilgamesh - Primo e ultimo atto11 Dicembre 2007 di ilteatrodegliorrori | Modifica

(Il sipario prende fuoco e poi dà fuoco, cade sulla scena e sulla platea, accende, arde, abbrustola, stritola il pubblico in un ultimo abbraccio. La papera cerca di volare via, ma il loggione, crudele, crolla sotto il peso dell’anonimato. E del grasso cummenda che contribuisce. Il suo orologio da taschino rimane appeso al lampadario che, efferato, soddisfa la sua eterna tensione e schianta fragoroso al pavimento. Finalmente.Intanto il monocolo s’infrange. Le schegge, mai state troppo lucide, rinsaviscono e rimbalzano sulle persone impazzite.I soldi bruciano e il teatro è il luogo in cui tutti, ma proprio tutti, finalmente, si riscoprono. Funzionari, nostromi, imbalsamatori, rigattieri, appaltatori di anime, panciuti, ipocefali, accidiosi, calvi, barbuti, pressappoco tutti uguali.

Lo zecchino cede, indifeso, al movimento della scala a chiocciola e si ritrova giù, al piano di sotto. La papera lo osserva e rotola giù con lui. Uno tintinna. L’altra starnazza.)

L: E’ ancora testa! M: Ma chi ha vinto?L: Temo nessuno. So solo che ho perso. M: Ma allora…L: Eh no, non è così semplice. M: Eppure pensavo che fosse possibile solo testa o croce.L: Anch’io. Ma ora non mi regolo più sulle leggi del mondo, nè posso ignorare di trovarmi qui. Appeso a questa corda di lenzuola legate tra loro. Abbarbicato su un ramo di di ficosecco. In attesa. M: …Non capisco. Stava andando tutto così bene e poi…

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L: E’ stato quell’uccellaccio, guardalo, ci perseguita ancora.M: Accoppalo! Accoppalo!

(Corrono e saltano in lungo e in largo)

L: Mi ripeto, senza sapere cosa ho detto prima.M: Ora ce ne siamo liberati. Possiamo scordarci di tutto. L: Tranne che di quello che vorremmo dimenticare.

(Si può dunque tornare un pò indietro? Mica tanto, qualche riga soltanto… Almeno qualche parola…E sia. Solo due lettere… Accontentiamoci. Contiamo due lettere e accontentiamoci. Se questo è quanto possiamo ottenere… Indietro. Lentamente, per guadagnare tempo.E poi perderlo di nuovo.)

Testo: Delirio delle 3 di notte (circa)

L’Epopea di Gilgamesh – Secondo e (davvero speriamo) ultimo atto12 Marzo 2008 di ilteatrodegliorrori | Modifica

Montag si sveglia stamattina e non ha niente da bruciare. La speranza l’ha riposta in un angolo remoto del sottoscala, oggi è finito il suo lavoro. Il potere purificatore del fuoco. Libri non ce ne sono più, ufficialmente e definitivamente, tutti ridotti in cenere. I movimenti di lettori ribelli sono stati sconfitti.

Probabilmente gli servirebbe un caffè, e acqua gelata sulla faccia per risolvere il problema degli occhi gonfi. Senza calcolare i gesti, ma contando i passi, si avvia verso il portone chiuso e sbircia dallo spioncino. Non ha suonato nessuno e nessuno potrebbe farlo che la casa di Montag non ha il campanello. Come potrebbe esserci qualcuno? Silenzioso come un pidocchio sui capelli si avvia verso la sua teleparete e accende il canale statico. Ci sono le previsioni del tempo e dell’economia che anticipano perfettamente cosa accadrà da qui ai prossimi 6 mesi.

METEO: un nubifragio della durata di 12 minuti e 27 secondi si abbatterà sulla città il prossimo 29 Aprile. Cadranno 312mm di pioggia e saranno sufficienti al fabbisogno idrico di 25 famiglie. Seguirà un vento caldo da Nord che asciugherà le strade e le case.

ECONOMIA: i redditi delle famiglie di categoria L2 saranno equiparati a quelli superiori, con beneficio per entrambe le categorie. Chi non è d’accordo sarà retrocesso alla categoria inferiore.

Spegne.

Montag pensa che, da quando sono controllate centralmente, meteorologia ed economia sono diventate scienze perfettamente prevedibili e si vive molto meglio. Non ci si deve più affacciare alla finestra a indovinare dove vanno le nuvole, immaginarsi come volgerà il cielo. Non ci si deve più chiedere nulla. Tutto viene dato e tolto dalla struttura.Questo lo confortava ieri, eppure oggi si sente strano, solo. La città è una metastasi di cemento. Oggi Montag non deve uscire a bruciare nulla, perché gli hanno tolto il lavoro. Sa quello che succederà da qui ai prossimi 10 anni. Ripensa ai libri che non ci sono più, alle vampe che salivano, ai roghi e alle persone che ha fatto condannare: impresari, crapuloni, dinoccolati, masnadieri, orbi, menagrami, canuti, ipertiroidei, bellimbusti, cirrotici, ributtanti, mecenati, nani, butterati, giamaicani.Libri nascosti ora non ce ne sono più e lui ricorda tutti i loro volti: il suo lavoro è stato completato con nota di merito.Ora sa che non c’è più nulla da bruciare e nessuna parola scritta.

Vorrebbe solo dormire Vorrebbe solo dorm Vorrebbe solo Vorrebbe

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Ho visto l’amore vero. In autobus21 Maggio 2008 di lecoincidenzenonesistono | Modifica

Credo che l’amore sia veramente difficile da riconoscere. Si ingrossa sempre di più la frangia di quelli che si sono convinti che non esista, tra i quali sospetto perda terreno la corrente degli oltranzisti speranzosi in perenne via di disillusione. Non parliamo poi dell’amore vero.

Che poi non è una questione di amore eterno, o comunque di lunga durata. Forse, ed è opinione di chi non ne sa praticamente niente, l’amore non è uno stato permanente, lo si coglie ad attimi. O forse sono le sue manifestazioni ad essere evenenziali, ma serve un sostrato che persista.

Meno male che a me tutte queste masturbazioni cerebrali non servono più, perchè io l’amore ieri l’ho visto. Sull’autobus. L’amore grande, vero. Un amore con due palle così…

Tornavo verso casa dopo una giornata più anglofona che concreta, inframmezzata da media planning, web project, stakeholders, con qualche spruzzata di claim e brand. Il tutto condito come sempre dall’immancabile pinzimonio di mission e vision. Per farla breve, salivo in autobus rimuginando sugli anni di cialtronate che mi mancano, prima di scrivere il mio best seller d’esordio e cominciare finalmente la maledetta vita da artista cialtrone. Ma sto parlando di me…

C’erano due anziani, un uomo e una donna seduti uno di fronte all’altro. Mi hanno incuriosito, perchè la donna parlava in continuazione, flemmatica, di qualsiasi cosa passasse tra i confini del finestrino e l’uomo ascoltava, imperterrito, annuendo di tanto in tanto, ma con l’espressione abbastanza vacua.

“Vedi quella gelateria? Prima c’era un negozio di scarpe, ancora prima un centro Olivetti per riparare le macchine da scrivere”.

“Prima qui c’era un grande marciapiede. Poi hanno messo l’aiuola in mezzo, vedi? Per motivi di sicurezza, sicuramente. Qui c’è l’ambasciata americana. Poveretti gli americani. Tutti li odiano ormai. Infatti davanti all’ingresso c’è sempre la macchina della polizia. Che poi mi devono spiegare cosa può fare una macchina sola della polizia se buttano la bomba atomica”.

“Che belli questi alberi. Sono oleandri”.

“In che razza di mondo viviamo. Stiamo passando davvero una brutta epoca. A proposito, ma il 630 ha cambiato percorso? Prima non incrociava la Salaria. Ora c’è questo semaforo che non passa mai”.

A dire il vero la frase che ha calamitato la mia attenzione è stata (a parlare era sempre e solo lei): “Quanti negri ci sono. Sempre di più. Che poi povera gente, cosa gli puoi dire? Gia nascono negri…”. Ma non fraintendete. Almeno in questo caso, il contenuto di questa osservazione non sarà oggetto di dibattito. La frase è servita solo a farmi voltare indignato verso di loro e osservarli.

Roteando gli occhi, ho pensato: “Vabbè questa viene da un’altra epoca, le avranno fatto il lavaggio del cervello. E quanto parla! I vecchi sono cosi soli, che appena possono attaccano bottone e parlano senza sosta col primo che acchiappano… Meglio se vecchio come, anzi più di loro! Ma poi guarda quello. Quello è davvero un poveretto. Questa gli s’è attaccata addosso con questi discorsi e manco lo fa parlare e lui annuisce per cortesia, ma sono sicuro che non vede l’ora di liberarsene. Guarda che occhi persi…”.

Gli occhi dell’uomo guardavo. Quelli della donna non li avevo notati.

Poi la frase che mi ha coinvolto. Me l’aspettavo, visto che io li stavo osservando da un po’: “Hai visto quant’è alto questo ragazzo? Mi scusi quant’è alto lei? E’ veramente alto lo sa?” E di lì è stato un attimo passare dal consiglio di provare ad arruolarmi nei corazzieri - tanto a lei la prendono sicuro, visto che è anche un bel giovane - alla domanda se giuoco alla pallacanestro, per approdare ai racconti del nipote alto, non proprio come me ma comunque alto, schermidore provetto, bravissimo in tutte le materie e fan di Totti.

È stato in quel momento che l’ho visto. Ho visto l’amore, mentre ero stanco ed annoiato e mi sforzavo di sembrare un giovane cordiale e interessato alla storia del nonno colonnello della marina e d’accordo con l’assenza di disciplina nella scuola moderna. Era tutto negli occhi della donna, improvvisamente rivolti verso l’uomo di fronte, gonfi di tenerezza, mentre ricominciava a parglargli. Era nella mano venosa e pallida che sfiorava le macchie sparse sulla mano di lui e poi stringeva e accarezzava. Era stato li affianco a me per tutto il tempo: in quel fiume di parole, frasi banali e fuori dal tempo, di discorsi sconnessi, detti e ridetti con una voce dolce, affettuosa, convinta. Inarrestabili, anche di fronte a due occhi persi nel vuoto.

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Alla fermata, la donna si è alzata. Ha baciato l’uomo sulla fronte e gli ha preso il braccio. Continuava ad accarezzargli la mano. Solida, lo ha letteralmente sollevato, aiutandolo ad aggrapparsi al passamano. Gli occhi dell’uomo erano rimasti impassibili per tutto il tragitto: negri, oleandri e bombe atomiche non li avevano fatti neppure vibrare. Gli ho dato una mano a scendere. La donna sorridendo verso me e verso l’uomo dallo sguardo spento, mi ha sussurrato complice: “E’ alzheimer, sa…”

Poi mentre le porte si richiudevano ha aggiunto: “Lei è un bel ragazzo, buono. Si mantenga sempre cosi. Però non si lasci distrarre. La vita è tutto!”.

“Dare più valore allo sforzo che alla ricompensa, questo si chiama amore” sosteneva Confucio. Può darsi che avesse ragione. Io non lo so e non so se quell’uomo e quella donna fossero sposati, fratelli, amici o chissà che. Sono solo certo che negli occhi, nelle parole, nelle mani, negli sforzi di quella donna c’era la voglia disperata di far “vivere” una persona amata.

Ecco perchè ieri, nell’autobus, ho visto l’amore vero.

NapoliRomaTreni11 Novembre 2008 di giip | ModificaFermata 1.

La ragazza apre la porta e mi si piazza davanti a nordest in modo che tra i 4 sedili le uniche 2 diagonali possibili siano SuoZainoEastpackBlack - MiaZainoMonospallaNikeBlack e Me - Lei. Ci ritroviamo all’improvviso uniti da geometria e matematica in mezzo a tutto ciò che non conta e che assomiglia sempre di più a - puro - caos: rumore di fondo ferroso, parole inutili di gente di ogni mattina, suoni di avvio di windows tutti uguali non sincronizzati tra loro, capotreno penitente che invita a consumare panini già sgonfi alle 8, poppanti, studentesse nevrotico-isterico-ansiose ed altro che, nonostante lo sforzo, non si riesce proprio a sentire ma sono sicuro che c’è.

La ragazza mi guarda. Io mi faccio idee sbagliate. Lei fruga un po’ nella borsa, scansa trucchi e fondotinta e specchietti e quaderni e tutto quello che trova prima di arrivare a quello che cerca, poi tira fuori un piccolo foglietto bianco e me lo passa. La guardo anch’io. Oltre alla matematica ed alla geometria ora siamo legati da qualcosa di chimico che si è impossessato

dell’aria attraversando i suoi occhi nocciola. Distolgo lo sguardo a fatica e lancio un’occhiata al foglietto; c’è l’immagine di Steve Jobs con cuffiette ed aureola. Mi ricorda la foto modificata del ministro dell’istruzione che veniva distribuita sul treno il giorno del voto in parlamento; sotto di lei c’era scritto: “Beata Ignoranza”. Sul retro di Steve Jobs, invece, c’è scritto: ” L’unico modo che abbiamo per sopravvivere è quello di entrare in fase autistica quando lo vogliamo. Noi abbiamo bisogno di vibrazioni diverse. Preghiamo:”

Ipod

benedetto tu sia nei secoli

sulle sue orecchie e sulle mie orecchie

amen.

Questo c’era scritto. Io le ho sorriso. I nostri ipod hanno cantato per un’ora attaccati al collo come simboli per fedeli. Gli occhi si sono cercati. Il treno ha fatto quello che doveva. Abbiamo ascoltato quello che volevamo ascoltare. Abbiamo sentito quello che volevamo sentire. Lenny dice che “Love rules”. L’amore regola tutto. Alcuni di noi l’hanno fatto.

(e tu avevi i vestiti adatti per le tue) guerre stellari12 Agosto 2008 di 0mrt0 | Modifica

di Alessandro Milanese

Da solo.Come un cane, senza neanche il guinzaglio.I miei ammortizzatori parlano chiaro.

L’anteriore sinistro è sempre il più usurato, quello che bisogna sostituire ad ogni costo.Ad ogni costo, come profetizza il meccanico fidelizzato.Sintomo che l’automobile passa buona parte, quasi la sua totalità, della sua carriera con un solo passeggero.Me, alla guida.Dicevamo, percorro la solita statale battuta in questi anni attraversando nuvole d’umidità e di zanzare.D’altronde il 31 di Luglio non potevo aspettarmi niente di diverso.

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E si sa, Pozzolo non è esattamente il posto più fresco della piana padana che si va ad esaurire verso il ligure.Oltrepasso la discoteca che in questi ultimi 500 anni ha cambiato milioni di nomi e di incendi.Tengo la strada grande, e non giro a destra verso l’Ilva, non più.Poche centinaia di metri, un insegna nascosta nel verde e nel buio.Una freccia rossa con la scritta Ippodromo piantata appena sotto.Giro.Nessuna luce, alzo tutti gli abbaglianti che ho.Un panorama post atomico.

Box vuoti, orfani di purosangue e ronzini.Terra e sabbia ovunque, sembrerebbe il classico posto dove gli strafighi di C.S.I. ritrovano uno dei loro trivellati cadaveri.Accelero provocando un polverone pauroso, accendo la lucina interna dell’auto, non so perché lo faccio, ma ho un senso di disagio.Se ci fosse un cecchino appostato non vorrei mi scambiasse per la vittima designata che sta aspettando, chissà da quanto tempo.Arrivo in una steppaglia adibita a parcheggio.Pochi passi usando il cellulare come pila.Arrivo.Un centinaio di persone, sparpagliate a loro modo con una logica.Mi giro e mi rigiro.Non è l’ansia questa.Non è la paura di incrociarla, perché lo so che lei non c’è.Me lo sento.Squadro qualcuno, cercando un appiglio, un appoggio in questa scintillante serata di musica dal vivo.Sul palco un tizio si lamenta.Accompagnato da un contrabbasso e da un violino, mi sembra.Aspetto che Le luci della centrale elettrica incomincino.Aspetto con una birra in bottiglia di cui ignoravo l’esistenza.Con un nome più da romanziere che da alcolico.Comincio a scorgere facce conosciute.Ex colleghi di vite passate.Ex compagni di giorni lontani, che non ritorneranno a darmi noia.

Un rigido inverno.Il tipo, il meteoreologo con quella sua giacca blu per tutte le stagioni per una volta ci ha visto giusto.Metà febbraio da ghiaccio sui vetri, da piumini e cappotti ben allacciati.Pozzolo che ogni tanto mette il naso fuori dalla nebbia.Io, che pochi metri dopo quello che è rimasto della meravigliosa sala da ballo svolto secco a destra.L’anteriore scivola un po’, non molto.Alzo il piede dal gas, ritorna in carreggiata senza grossi problemi.Mi infilo in questa stradina deformata che si intuba un paio di volte sotto lo stabilimento dell’Ilva e dei suoi fumi tossici.Piccoli cunicoli che dovrebbero essere dei figli minori e diseredati dei grandi tunnel autostradali.

Degli specchi sporchi e minuscoli alle due estremità, e la sensazione che se arrivasse qualcuno dall’altra parte il vetro sarebbe talmente piccolo che l’auto non ci starebbe nemmeno.Si entra, piano, e non si ha mai la certezza di uscirne illesi.Superato il pericolo industriale, rimangono solo un paio di rotonde enormi tra me e il mio appuntamento.Le taglio bene usando tutta la strada, scambio l’interno e I suoi autobloccanti per il mio personalissimo cordolo.Una piccola salita per spostarsi dalla cittadina di 30 mila abitanti scarsi ad un piccolo quartiere residenziale.Probabilmente il posto più freddo del pianeta, con queste 50 villette con i riscaldamenti lanciati a più non posso.Arrivo e mi appoggio ad uno dei garage, in senso figurato.Aspetto, il mio solito quarto d’ora.Il solito sms che mi avverte che sei pronta e che stai scendendo.Sto per incazzarmi come sempre, quando, come sempre, vedo una piccola luce avvicinarsi e riconosco questo tuo modo di camminare con piccoli passettini.Il tuo cappuccio verdino, quelle ciocche color carbone che spuntano.Apri la portiera.Ti scusi per il ritardo, come sempre, chiamandomi amore.Ma io, sono circa 10 secondi che sto pensando ad altro, non sento neanche cosa dici.Voglio solo baciarti, e basta.Baciarti ad occhi aperti, per paura che riaprendoli non ti troverei più davanti a me.Parliamo 10 minuti su cosa fare, su dove andare.Parto e dopo cento metri mi infilo nel poco illuminato spiazzo inghiaiato che dovrebbe essere un parcheggio per un ipotetica piscina.In fondo, accanto ad un bidone dell’immondizia, giusto dietro l’ultimo albero della fila.Lontano dalle luci, lontano dalla strada.Lontano da tutto, voglio solo baciarti.

Davanti al palco c’è una sabbia da grande spiaggia (deturpata) caraibica.Mai stato in un ippodromo in vita mia, non capisco sinceramente se sia il fondo adatto per quei poveri zoccoli usurati da centinaia di frustate sul rettilineo finale.Vasco e Canali salgono.Sotto il palco siam una cinquantina.Aprono con Piromani.Sono curioso di vedere che effetto mi fanno dal vivo.Il disco lo amo, penso, o amo come mi fa sentire in questi ultimi due mesi.L’acustica elettrificata si scaglia contro gli accordi.Canali si manovra con la solita destrezza.Vasco urla:“Andiamo a vedere le luci della centrale elettrica”.La lascia li, galleggia nell’aria umida.Gira ancora in loop grazie ad un eco smisurato.Dei cinquanta che siam li sotto, 30 si allontanano, 19 applaudono convinti, uno (io) fissa i peli alzarsi sopra un buon centimetro di pelle d’oca.

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I pezzi passano veloci, e a volume zero canto anch’io dalla prima all’ultima bestemmia.La resa live è buona, più rumorosa, meno cantautorale, ma comunque parecchio emozionale.Canali è bello convinto e la sua Gibson vetusta mi riporta ad una serata estiva milanese.Alla cascina Monluè, lui curvo in fianco a Maroccolo, con Ferretti e Zamboni a dividersi la scena, la ribalta.Prima di loro gli Ulan bator strepitosi, gelidi e matematici.Un concerto indimenticabile.Probabilmente estate 98, dieci anni orsono.Ritorno in Piemonte giusto in tempo “per combattere l’acne”.Bellissima, stringata, qualcuno cerca di cantare.Qualcuno cerca di non pensare a qualcosa a cui non vorrebbe pensare.Qualcosa a cui non vale più la pena pensare.Qualcuno per cui non vale più la pena pensare.Il ragazzo qui davanti a me con la sua chitarra esausta si lamenta che: “si fermavano i tram per deridermi”.E in quel preciso istante capisco veramente di cosa sta parlando.

La condensa ci aggredisce.Tui sei nuda e io sono in pensiero, pericolosamente premuroso.Ho sempre paura che possa venirti qualcosa.Sudato e con la mia immancabile maglietta della salute mi devo sentire deriso per la scelta conservativa e anti ghiacciolo.Mi dai del vecchio.E ne sei completamente coscente di aver ragione.Sai, io me lo nascondo, che sono un qualcosa di troppo diverso per durare più di una sana sfuriata.Sai, io lo ignoro, che tutte le cose che mi dici in questi momenti sono figlie del l’attimo.Figlie delle mia dita che cercano di darti un minimo di gioia.Figlie della mia voglia smisurata di baciarti ovunque.Figlie della mia voglia di sentirti contenta proprio vicino ai miei lobi.Figlie dei miei occhi che si perdono sul retro dei tuoi jeans a vita bassissima.Neri, perfetti.Momenti perfetti a cui bastan pochi decimi per svanire.Un movimento sbagliato.Una verità che era meglio sottotacere.“Sei la cosa migliore che mi sia capitata negli ultimi tempi”.Già.Tu, che ti rivesti con calma, con troppa calma, come se fosse tutto naturale, troppo naturale.Io, che guardo triste i pantaloni che riprendono il posto delle tuo corpo bianchissimo e penso che vorrei tenerti con me.Sempre.Nuda, appiccicata a me.Immersi nel nostro bellissimo sudore.Immersi in un questa Corsa scomoda e piena di ghiaccio.

Immersi in questo parcheggio per cui comincio ad avere una stima smisurata.Questo parcheggio in cui i miei fazzoletti bianchi sembrano grandi funghi porcini appoggiati al tronco dell’alberoriparo.

Vasco ha quasi finito.Fa un pelo di autoironia definendo un pezzo esattamente uguale a tutti gli altri.Può essere, anzi lo è, ma a me non importa.Stagnola viene benissimo e Canali fa gridare le corde, sia le sue che quelle della sua Les Paul.Poi arriva La gigantesca scritta Coop.Se fossi qui, ma sono più di quattro mesi che non ci sei.Dicevo, se fossi qui, ti abbraccerei tenendoti stretta davanti a me.Farei una cosa che ti infastidisce, e non poco.Cantarei.A squarciagola.Cercando di stonare ancora di più di quanto faccia naturalmente.Giusto per farti incazzare.Giusto per sentirmi dire qualche cattiveria gratuita, per sentirmi vivo.Sposterei i tinti capelli corvini, verso il collo, chiudendoli in una coda.Mi avvicinerei a quelle due bellissime orecchie sottili che ti ritrovi.E all’improvviso, aspettando bene Vasco per entrare a tempo, prenderei fiato. Mi concentrei.E con tutto quello che mi è rimasto nella pancia urlerei:“e tu avevi i vestiti adatti per tue guerre stellari!”Due volte, solo due.Ti gireresti ancora intrappolata a me.“Amore lo sai che non devi cantare, che sei stonato da dio”.Poi mi bacieresti.Poco, senza tanta convinzione.Come se fosse una cosa troppo preziosa per uno come me.Ma tu non mi baci.Io non posso baciarmi da solo, lo farei, lo giuro.Perché in fondo mi piaccio, mi piacciono le cose che mi piacciono, mi piace il modo in cui riesco a farmele piacere.Mi piacerebbe chiedere un bis.Un giorno balordo dei Diaframma, per esempio.Ma anche per stasera il mio coraggio mi ha tirato il pacco e non è venuto.Mi piace guidare, verso casa.Forte.Unico su sta striscia grigia dal noioso andamento sempre rettilineo, con questi capannoni (pieni di mobili e macchine agricole) a lato.I finestrini abbassati con un aria che mi ammazza.Vasco che sceso dal palco è ritornato nelle mie portiere e urla ancora.Canali sempre in sottofondo, maestoso.Ed io, che mi sarei accontentato di essere semplicemente il tuo Luke Skywalker.

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Andrea Malabaila: il ragazzo del lingotto (passion lives here)

Stasera glielo dice. Non gli ha preparato nessuna cenetta speciale e niente potrebbe far pensare a un’occasione importante. Non ci sono candele sul tavolo, non ha indossato un vestito particolare, non ha scelto nessun profumo ricercato, non si è truccata più di quanto non faccia normalmente, non ha inserito nel lettore il cd con la loro canzone, non ha fatto, insomma, niente che possa stupirlo o ingannarlo od obbligarlo a dire e fare qualcosa che non voglia davvero. Non deve dirle di sì solo per via di qualche trucchetto da quattro soldi.Dalla finestra si vedono gli scavi per la metropolitana, sembra che i lavori non finiscano mai. Quando si sono inventati lo slogan “Torino non sta mai ferma” non pensavano certo ai cantieri. Ma il Lingotto, è vero, sta cambiando faccia e non è più il quartiere di una volta, tutto casa e Fiat. La metropolitana stessa è il segno che qui la Fiat non è più la mamma che ti cresce, ti protegge e ti tiene attaccato per sempre alle sue gonne. Adesso, pensa lei mentre lo aspetta e guarda dalla finestra, siamo un po’ tutti orfani e in cerca di una nuova famiglia.Eccolo che suona alla porta. Eccolo che entra e le dice ciao e le dà un bacio veloce sulle labbra – un tempo si sarebbero abbracciati e baciati per dieci minuti,

FINEextraFINE

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anche se magari non si vedevano da un’ora appena, ma ormai sono cinque anni che stanno assieme e pure la passione ha i suoi tempi. È vestito molto casual, e questo le fa pensare di aver fatto bene a non mettersi in ghingheri senza avvisarlo. Si sarebbe trovata in imbarazzo per lui, nonostante siano a casa di lei e non li veda nessuno – che poi, se fossero al tavolo di un ristorante, sarebbe lo stesso: i vip elogiano sempre questa città così discreta che potresti anche darti fuoco e nessuno ci farebbe caso.Mentre mangiano – non è bravissima come cuoca, ma due o tre cose le sa fare – stanno quasi sempre in silenzio. Lei sta cercando le parole giuste, lui forse pensa ai fatti suoi, alla partita della Juve o a qualche altra cosa che non c’entra con loro due. O magari non sta pensando proprio a niente. Lei ha evitato di fare il piatto che lui preferisce – le lasagne al forno – anche se è una delle due o tre cose che sa fare: l’ha evitato perché non vuole nemmeno creargli delle illusioni su di lei. Vuole, insomma, che sia veramente libero di decidere, senza essere condizionato da nulla di ciò che lo circonda. Anche perché deve darle una risposta che non vale per un momento, ma per sempre.«C’è una cosa che devo dirti» prova a esordire lei, dopo aver bevuto un lungo sorso di vino. La voce le trema un po’.«Anch’io» dice lui, più freddo.«Dimmi.» Vedi mai che sia la stessa, di cosa.«No, dimmi prima tu.»Beve un altro sorso e poi insiste: «Prima tu.»«Domani sera non ci sono perché ho la partita di calcetto.»Iniziamo bene, pensa lei. «Ah. Solo questo?»Pensavo peggio, pensa lui. «E tu? Cosa volevi dirmi?»«È una cosa difficile… Non so da dove cominciare…»«Dall’inizio?»«No. È meglio dalla fine.» Non vuole condizionarlo neppure con i ricordi. «Ormai sono cinque anni che stiamo assieme. Forse sarebbe giusto dare una svolta al nostro rapporto, non credi? Cominciare a fare progetti, smetterla di vivere come due ragazzini.»«Ne abbiamo già parlato, cara. Lo sai.» Guarda l’orologio con uno scatto nervoso del polso. Spera che uno squillo del telefono metta fine al discorso.«Io voglio costruire qualcosa con te. Credo sia arrivato il momento per farlo. Non si può rimandare sempre tutto…»«Ma cara…»«Aspetta, non dire niente. Lasciami finire. Quello che voglio sapere stasera, anzi no, subito, è se vuoi sposarmi. Sì o no.»«Immagino di non avere scappatoie. E di non poter nemmeno chiedere l’aiuto del pubblico...»«Per favore. Sii serio almeno una volta. Mi vuoi sposare?»«Ma certo che ti voglio sposare.» Fa finta di masticare, per prendere tempo. «Solo che non mi sembra il momento per... Come pensi di farcela?»«O sì o no. In cinque anni ti sarai fatto un’idea in proposito, spero.»

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(Una pausa, interminabile per lei, troppo breve per lui.)«Va bene. Hai ragione. Qualche modo possiamo trovarlo…»«Davvero? Davvero? Vuoi dire che mi sposi? Dimmelo! Dimmelo per intero!»«Ti voglio sposare.»

Con le mani in tasca, attraversa i giardinetti di Italia ’61, costeggia il laghetto artificiale. Non può credere che lei l’abbia fregato così, come un ragazzino. Eppure è successo, ieri sera. Adesso che scusa può trovare? Con che faccia può dirle che non ha nessuna intenzione di metter su una famiglia? Che dalle Olimpiadi non ha più lavorato e si è inventato mille storie per non deluderla? Lui, che una volta era Gliz, una delle due mascotte di Torino 2006. O meglio: non proprio Gliz, il ripieno di Gliz. Le Olimpiadi erano state un momento di illusione per tutto il quartiere: il mondo, non solo quello sportivo, gravitava attorno ai siti olimpici del Palazzo a Vela e dell’Oval, dalla terrazza del Lingotto si aveva l’illusione di essere al centro di tutto. Una zona operaia che diventava improvvisamente lo sfondo di ogni immagine stampata sui giornali o trasmessa dalle televisioni dei cinque continenti. E il simbolo di tutto questo movimento erano quei due pupazzi dalla testa enorme, Neve e Gliz, che non mancavano mai di fare sfoggio della loro simpatia, salutando le folle e abbracciando le nonne e i nipoti. Solo che, dopo la cerimonia di chiusura, le luci si erano spente, la gente era tornata a pensare ai fatti suoi, il Lingotto era ridiventato un quartiere triste seppur riconvertito al commercio, e il costume da Gliz era finito in soffitta. È dura la vita della mascotte: passata la festa, non ti vuole vedere più nessuno, nemmeno quelli che poco prima ti adoravano.Per quanto ci stia provando, non riesce ancora a spiegarsi come abbia fatto ad essere così ingenuo da dirle subito di sì, senza neanche pensarci. Arriva nella zona giochi e supera la recinzione. Tutti quei bambini che si buttano giù dagli scivoli gli mettono una nostalgia indicibile. Lui, un tempo, era il loro eroe. Ha la tentazione di riprovare ad esserlo di nuovo, per un’ultima volta.«Ehi, ma tu sei Giada!» dice a una bambina bionda con un aeroplanino in mano.«Sono Martina» gli fa lei, indispettita. «E tu chi sei?»«Non ti ricordi di me?»«No.»«Hai ragione. Non potresti proprio. Sono Gliz.» Lei lo guarda seria, ma non dice niente. «Ti ricordi di Gliz? Gliz, di Neve e Gliz?»«Non sei lui.» Poi: «Ti piace il mio nareoplano?»«È un bellissimo nareoplano giallo.»«È rosso!» ribatte, calcando tantissimo la r. «Non vedi che è rosso?»«Allora è un bellissimo nareoplano rosso.»«Dove abiti?»«Nel Palazzo a Vela.»«Dentro?»«Sì. E ho una pista di pattinaggio tutta per me.»«Mi inviti?» domanda lei, finalmente conquistata.

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«Non so se posso. Tu sei brava coi pattini?»«So le tabelline fino al sette.»«Allora va bene. Puoi venire.»«Ma davvero sei Gliz?»«Vieni, Martina, lascia stare il signore» le dice la madre, prendendola per un braccio. Lancia un’occhiataccia allo sconosciuto che si è permesso di importunare sua figlia. Probabilmente un maniaco della peggior specie.«Mi inviti, vero?» riesce ancora a dirgli la bambina, ma è già lontana.

Mentre fa le scale che portano alla passerella dell’Arco Olimpico, il simbolo del rinnovamento urbanistico del Lingotto e di tutta Torino, lui pensa ancora a quell’idea meravigliosa di un futuro che è già passato, ai siti olimpici abbandonati, al degrado e alla ruggine e alle erbacce e alle scritte sui muri. E alle parole di lei di ieri sera. Ha un sacco nero sulla spalla. Si guarda attorno, sospettoso. Un signore di mezza età lo affianca e lui gli fa: «Dice a me?»«Come, scusi?»«Ho chiesto se stava dicendo a me.»«Veramente non ho parlato.»«Abbia il coraggio di ammetterlo, almeno.»«Le assicuro che non ho detto niente.» Poi, affretta il passo.«Mai nessuno che si prenda le sue responsabilità.»Dalla passerella guarda il cielo azzurrissimo, come quasi mai a Torino, un felice contrasto con l’arancione dell’arco. Appoggia il sacco a terra, lo apre e tira fuori il costume di Gliz. Lo indossa. Poi sale sul parapetto, chiude gli occhi per le vertigini, si fa il segno della croce. E, come un supereroe senza mantello né poteri, si lascia cadere nel vuoto.

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[MilanoRomaTrani è: Paolo Cacciolati, Andrea Tullio Canobbio, Barbara Delfino, Stefania Di Gregorio, Stefano Mastrolitti, Luca Naseddu, Gianluca Pezzella, Salvatore Piombino, Enrico Piscitelli.

Hanno scritto per MilanoRomaTrani: Albert1, Pamela Canali, Chopin76, Remo Bassini, Giacomo Buratti, Peppe Fiore, Harlan, Andrea Malabaila, Alessandro Milanese, Maria Pepe, Matteo Scandolin]