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Fuga dal campo 14Blaine Harden

ISBN: 9788875785000

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BLAINE HARDEN

Fuga dal Campo 14

Traduzione di Ilaria Oddenino

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Blaine HardenFuga dal Campo 14

Titolo originaleEscape from Camp 14

Copyright © Blaine Harden 2012All rights reservedMappe: © Jeffrey L. Ward

Progetto grafico e copertina: Alessandro Damin

© 2014 Codice edizioni, TorinoTutti i diritti sono riservatiISBN 978-88-7578-500-0

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In questo paese non c’è alcun problema legatoai diritti umani. Tutti conducono una vita

dignitosa e felice.Agenzia stampa di Stato della Corea del Nord

marzo 2006

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Per i nordcoreani ancoraprigionieri nei campi

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PrefazioneUN MOMENTO EDUCATIVO

Il suo primo ricordo è un’esecuzione.Insieme alla madre raggiunse un campo di grano vicino al fiume Taedong, dove le guardie avevano radunato

migliaia di prigionieri. Eccitato da tutta quella folla, il piccolo riuscì ad aprirsi un varco tra le gambe degli adulti fino aconquistare la prima fila, da cui poté osservare le guardie legare un uomo a un palo.

Shin In Geun aveva quattro anni, troppo pochi per capire il discorso pronunciato prima dell’uccisione. Negli anni avenire comunque quel discorso lo avrebbe ascoltato dozzine di volte: l’incaricato di turno raccontava alla folla che alcondannato era stata offerta la possibilità di “redimersi” attraverso i lavori forzati, ma che era stato egli stesso arifiutare la generosità del governo nordcoreano.

Per evitare che maledicesse lo Stato che lo stava privando della sua stessa vita, al prigioniero fu riempita la boccadi sassi e poi gli fu coperta la testa con un cappuccio. Shin vide tre guardie prendere la mira e fare fuoco tre volteciascuna; spaventato dal fragore degli spari cadde all’indietro, ma riuscì a rialzarsi giusto in tempo per vederletrascinar via un corpo inerte ricoperto di sangue, avvolgerlo in una coperta e gettarlo su un carro. Nel Campo 14,campo di prigionia per i nemici politici della Corea del Nord, era assolutamente vietato radunarsi in più di duepersone: l’unica eccezione erano le esecuzioni, a cui tutti avevano l’obbligo di assistere. Le uccisioni pubbliche, e lapaura da esse generata, venivano utilizzate come momenti educativi.

Le guardie di Shin all’interno del campo, nella doppia veste di insegnanti e allevatori, avevano prima selezionatochi sarebbero stati sua madre e suo padre e poi, una volta venuto al mondo, gli avevano insegnato che i prigionieri cheinfrangono le regole meritano la morte. Su una collina vicino alla sua scuola campeggiava una scritta: «Tutto secondole norme e i regolamenti». Shin imparò a memoria le dieci regole del campo – «i dieci comandamenti», come piùtardi le avrebbe chiamate – e ancora oggi è in grado di recitarle a memoria. La prima era questa: «Chiunque vengasorpreso a tentare la fuga verrà fucilato all’istante».

Dieci anni dopo tornò nello stesso campo in cui aveva assistito alla sua prima esecuzione. Le guardie avevano dinuovo radunato una grande folla, e di nuovo avevano conficcato un palo nel terreno. Era stato costruito anche unrudimentale patibolo. Questa volta però Shin arrivò sul sedile posteriore di un’auto, con le manette ai polsi e sugliocchi una benda ricavata da uno straccio. Il padre, anche lui ammanettato e bendato, viaggiava seduto al suo fianco.Erano stati liberati dopo aver passato otto mesi in una prigione sotterranea all’interno del Campo 14; come condizioneper il loro rilascio avevano firmato un documento in cui giuravano che non avrebbero mai raccontato quanto eraaccaduto sottoterra. In quella “prigione nella prigione” le guardie li torturarono per obbligarli a confessare; volevanoavere informazioni sul tentativo di fuga della madre e dell’unico fratello.

Shin fu denudato, legato ai polsi e alle caviglie con delle corde e appeso a un gancio sul soffitto, da cui venivacalato su un fuoco. Quando la pelle iniziava a bruciare sveniva; ma non confessò mai niente, per il semplice motivoche non aveva niente da confessare. Non aveva cospirato con la madre e il fratello per tentare di fuggire, e credevadavvero in quello che gli era stato insegnato fin dalla sua nascita nel campo: mai e poi mai avrebbe potuto scappare, edera suo dovere denunciare chiunque ci avesse provato. Shin non aveva fantasticato su una vita al di fuori del camponeanche nei suoi sogni più segreti.

A lui le guardie non avevano mai insegnato quello che impara ogni studente della Corea del Nord: che gliamericani sono dei bastardi che complottano per invadere e umiliare la madrepatria, che la Corea del Sud è succubedel suo padrone americano, che la Corea del Nord è un grande paese i cui leader valorosi e brillanti sono l’invidia delmondo intero. A dirla tutta, non aveva la minima idea che la Corea del Sud, la Cina o gli Stati Uniti esistessero. Adifferenza dei suoi connazionali non era cresciuto con l’onnipresente ritratto del suo Caro Leader, come vienechiamato Kim Jong Il, né aveva visto fotografie o statue del padre, Kim Il Sung, il Grande Leader che aveva fondato la

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Corea del Nord e che ne è tuttora il Presidente Eterno, nonostante la morte avvenuta nel 1994. Pur non essendo cosìimportante da meritare un lavaggio del cervello, Shin era comunque stato educato a denunciare la propria famiglia e icompagni di classe, i quali, a loro volta, facevano la spia sul suo conto e lo picchiavano con altrettanta rabbia.

Quando gli fu tolta la benda dagli occhi, e quando poi vide la folla, il palo di legno e il patibolo, Shin pensò chefosse giunta la sua ora. Non gli misero in bocca nessun sasso, però, e anzi gli liberarono i polsi dalle manette. Unaguardia lo portò in prima fila, davanti al resto della folla: lui e il padre sarebbero stati spettatori. Di lì a pocotrascinarono sul patibolo una donna di mezza età e legarono un ragazzo al palo di legno. Erano sua madre e suo fratellomaggiore. Mentre le stringevano un cappio intorno al collo lei cercò di incrociare lo sguardo di Shin, invano. Appenagli spasmi del corpo cessarono fu il turno del fratello, fucilato da tre guardie, tre colpi ciascuna.

Nel guardarli morire Shin provò un senso di sollievo al pensiero che non fosse toccato a lui. Era arrabbiato con lamadre e il fratello per aver cercato di fuggire. Anche se per quindici anni non l’avrebbe mai confessato a nessuno,sapeva di essere responsabile per la loro morte.

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FUGA DAL CAMPO 14

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IntroduzioneMAI SENTITO LA PAROLA AMORE

Nove anni dopo l’impiccagione della madre, Shin strisciò fuori da una recinzione elettrificata e scappò viacorrendo nella neve. Era il 2 gennaio 2005. Nessuno nato in un campo di prigionia per reati politici della Corea delNord era mai riuscito a evadere. Per quanto ne sappiamo, Shin rappresenta un caso unico.

Aveva ventitré anni e non conosceva nessuno al di fuori di quella recinzione; eppure di lì a un mese riuscì araggiungere a piedi la Cina, dopo due anni viveva in Corea del Sud e dopo quattro si era stabilito nella Californiameridionale ed era senior ambassador per Liberty in North Korea (LiNK), organizzazione americana che si batte peri diritti umani in Corea del Nord. In California andava al lavoro in bici, seguiva i Cleveland Indians (merito del lorofortissimo battitore sudcoreano, Shin-Soo Choo) e mangiava due o tre volte a settimana da In-N-Out-Burger, chesecondo lui serviva l’hamburger più prelibato del mondo.

Ora si chiama Shin Dong-hyuk1; il nome l’ha cambiato dopo il suo arrivo in Corea del Sud nel tentativo diricostruirsi una vita da uomo libero. È di bell’aspetto, con occhi vigili e attenti; i denti, che nel campo non potevalavare, sono stati rimessi a posto da un dentista di Los Angeles. Nel complesso gode di buona salute, ma il suo corpo èuna mappa delle sofferenze causate da una vita intera passata nel campo di prigionia, campo di cui il governonordcoreano nega fermamente l’esistenza.

La malnutrizione ha compromesso il suo sviluppo fisico, perciò è esile e minuto: un metro e sessantasette dialtezza per circa cinquantaquattro chili. Le braccia sono piegate ad arco a causa del duro lavoro a cui era costretto dapiccolo, mentre la parte bassa della schiena e le natiche portano le cicatrici delle ustioni provocate dalle torture. Ilgancio con cui era stato tenuto sospeso sopra le fiamme gli ha lasciato il segno di un foro proprio sopra il pube. Ha lecaviglie deformate dai ceppi usati per tenerlo appeso a testa in giù durante il periodo di isolamento. Il dito medio dellamano destra è mozzato all’altezza della prima falange, punizione per aver fatto cadere una macchina per cucire in unafabbrica di vestiti del campo. Gli stinchi di entrambe le gambe portano ancora i segni delle ustioni del recintoelettrificato che non è riuscito a trattenerlo dentro il Campo 14.

Shin ha grosso modo la stessa età di Kim Jong Un, il paffuto terzogenito di Kim Jong Il che ha preso il potere ilgiorno dopo la morte del padre, nel dicembre del 2011. I due coetanei rappresentano i poli opposti del privilegio edella privazione nella Corea del Nord, società nominalmente senza classi ma dove in realtà tutto dipende dal sangue edal lignaggio.

Kim Jong Un, nato principe comunista, è cresciuto dietro le mura del palazzo. Ha studiato sotto falso nome inSvizzera ed è poi tornato in Corea del Nord per frequentare un’università d’élite intitolata a suo nonno. In virtù dellesue origini, vive al di sopra della legge. Per lui tutto è possibile. Nel 2010 è stato nominato generale a quattro stelledell’Armata Popolare Coreana nonostante una totale mancanza di esperienza nell’esercito, e un anno più tardi, dopo lamorte del padre per un improvviso attacco di cuore, i mezzi d’informazione di Stato della Corea del Nord hannoiniziato a descriverlo come «un altro leader mandato dal cielo». Detto ciò, è possibile che su questa terra si trovicostretto a condividere la sua dittatura con altri parenti più vecchi e leader militari.

Shin, nato schiavo, è cresciuto dietro una recinzione elettrificata. In una scuola del campo ha imparato a malapenaa leggere e contare. Dal momento che il suo sangue era “contaminato” dai crimini ereditati dai fratelli di suo padre,viveva al di sotto della legge. Per lui niente era possibile. La carriera che lo Stato aveva in serbo per lui prevedevalavori forzati e una morte precoce dovuta a malattie e fame cronica, il tutto senza un’accusa formale, un processo o lapossibilità di un appello. E nella più assoluta segretezza.

Nelle storie dei sopravvissuti ai campi di concentramento si può individuare lo stesso arco narrativo: le forze disicurezza strappano il protagonista a una famiglia amorevole e a una casa confortevole; per sopravvivere, lui abbandona

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ogni principio morale, e reprime i sentimenti nei confronti del prossimo e la propria natura di essere umanocivilizzato.

In uno dei libri più famosi della letteratura della deportazione, La notte, scritta dal premio Nobel Elie Wiesel, ilnarratore tredicenne racconta il suo tormento descrivendo la quotidianità che lui e la sua famiglia vivevano in Romaniaprima di venire ammassati sui treni destinati ai campi di sterminio nazisti. Ogni giorno Wiesel studiava il Talmud, ilpadre lavorava nella bottega di sua proprietà e il nonno si univa a loro per celebrare le festività ebraiche. Ma dopo chela sua famiglia al completo perse la vita nei campi, Wiesel si ritrovò «solo al mondo, terribilmente solo, senza Dio,senza uomini; senza amore né pietà».

La storia di Shin, invece, è diversa. La madre lo picchiava, e ai suoi occhi lei non era che una rivale per il cibo. Ilpadre, a cui le guardie permettevano di dormire con la madre solo cinque notti l’anno, lo ignorava. Il fratello era untotale sconosciuto. Gli altri bambini del campo erano inaffidabili e violenti. Prima di qualsiasi altra cosa Shin imparòa sopravvivere denunciando e tradendo ognuno di loro. Amore, pietà e famiglia erano parole prive di significato. Dionon era né morto né scomparso: Shin semplicemente non lo aveva mai sentito nominare.

Nella prefazione a La notte, Elie Wiesel ha scritto che ciò che un adolescente conosce della morte e del male«dovrebbe essere limitato a quello che scopre nei libri». Shin però, rinchiuso nel Campo 14, non aveva idea di cosafosse la letteratura. L’unico libro che vide durante la sua prigionia era una grammatica coreana stretta tra le mani di uninsegnante che indossava una divisa da guardia, portava una rivoltella sul fianco e picchiò a morte una sua compagnadella scuola elementare con la bacchetta della lavagna.

A differenza dei sopravvissuti ai campi di concentramento, Shin non era stato strappato a un’esistenza civile ecostretto a una discesa all’inferno. All’inferno ci era nato e cresciuto, e ne aveva accettato i valori. L’inferno era la suacasa.

I campi di lavoro nordcoreani, tuttora funzionanti, esistono da un periodo di tempo doppio rispetto ai gulagsovietici e dodici volte superiore rispetto ai campi di concentramento nazisti. Sulla loro collocazione geografica nonci sono dubbi: le immagini satellitari ad alta risoluzione, disponibili su Google Earth a chiunque abbia accesso ainternet, mostrano ampi perimetri recintati disseminati lungo le impervie montagne della Corea del Nord. Secondo lestime del governo sudcoreano sarebbero circa centocinquantamila i prigionieri rinchiusi nei campi, mentre secondo ilDipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America il numero toccherebbe quota duecentomila. Dopo aver esaminatoattentamente dieci anni di immagini satellitari, nel 2011 Amnesty International ha notato nuove costruzioni al lorointerno e ha ipotizzato che il numero di detenuti stesse aumentando, risultato del tentativo da parte del regime discoraggiare possibili disordini nel momento in cui il potere iniziava a spostarsi da Kim Jong Il al suo giovane einesperto erede2.

Secondo i gruppi per i diritti umani e i servizi segreti sudcoreani, i campi sarebbero sei. Il più grande è lungo circacinquantuno chilometri e largo quaranta, una superficie più estesa della città di Los Angeles. Quasi tutti sonocircondati da recinzioni di filo spinato ad alta tensione, pattugliate da uomini armati e interrotte di tanto in tanto daalcune torri di guardia.

Due di questi, il numero 15 e il numero 18, prevedono aree di “rieducazione” in cui alcuni fortunati detenutiricevono lezioni correttive fondate sugli insegnamenti di Kim Jong Il e Kim Il Sung. Se le imparano abbastanza bene, ese convincono le guardie della loro lealtà, possono guadagnarsi la libertà. Ma la polizia di Stato continuerà a spiarliper il resto della loro vita.

Tutti gli altri sono “campi a regime duro”, concepiti per sfruttare fino alla morte la manodopera dei prigioniericonsiderati irrecuperabili3.

Il numero 14, quello in cui è nato e cresciuto Shin, è un campo a regime duro. Ha la reputazione di essere ilpeggiore di tutti per le condizioni di lavoro particolarmente brutali, la stretta vigilanza delle guardie e il rigore el’inflessibilità mostrati dallo Stato nei confronti dei “crimini” commessi dai suoi prigionieri, molti dei quali sonoufficiali epurati dal partito al potere, dal governo o dall’esercito e rinchiusi insieme alle loro famiglie. Aperto nel1959 nella zona centrale della Corea del Nord – Kaechon, nella provincia del Sud Pyongan – si presume che il Campo14 ospiti quindicimila prigionieri. È lungo circa quarantotto chilometri e largo ventiquattro, e incastonate nel suopanorama di valli e montagne scoscese ci sono fattorie, miniere e fabbriche. Anche se Shin è l’unica persona nata in

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una struttura del genere ad essere riuscita a scappare e raccontare la sua storia, in questo momento nel mondo ci sonoalmeno altri sessanta testimoni oculari dei campi4. Tra questi si contano almeno quindici nordcoreani un tempodetenuti nella zona di rieducazione (il Campo 15) che dopo aver guadagnato la libertà si sono trasferiti in Corea delSud.

Anche alcune ex guardie di altri campi sono riuscite ad approdare in Corea del Sud. Kim Yong, per esempio, extenente colonnello nordcoreano appartenente all’élite di Pyongyang, ha trascorso sei anni in due diversi campi primadi fuggire su un treno che trasportava carbone5.

Le loro testimonianze, raccolte dalla Korean Bar Association di Seoul, hanno permesso di ricostruire neldettaglio la vita quotidiana all’interno dei campi d’internamento. Ogni anno un certo numero di prigionieri vienegiustiziato davanti a tutti, mentre altri vengono picchiati a morte o assassinati in gran segreto da guardie che hannolicenza pressoché totale di violenza e abusi. Quasi tutti i detenuti coltivano i campi, estraggono carbone dalle miniere,cuciono divise militari e impastano cemento sostentati da una dieta da fame a base di mais, cavolo e sale. Perdono identi, le gengive si fanno nere, le ossa s’indeboliscono e intorno ai quarant’anni si ritrovano piegati in due all’altezzadella vita. Una o due volte l’anno gli vengono consegnati dei vestiti. Normalmente lavorano e dormono coperti dastracci sudici e non hanno mai a disposizione sapone, calze, guanti, biancheria intima o carta igienica. Infine, sonocostretti a giornate lavorative di dodici-quindici ore fino al giorno della loro morte, che solitamente avviene prima deicinquant’anni a causa di malattie legate alla malnutrizione6. Per quanto sia impossibile ottenere cifre esatte, i governioccidentali e i gruppi per i diritti umani stimano che le persone decedute in questi campi siano centinaia di migliaia.

La maggior parte dei nordcoreani viene internata senza alcun processo, e molti muoiono senza mai conoscere leaccuse a loro rivolte. Vengono prelevati dalle loro abitazioni, generalmente di notte, dagli agenti del Bowibu, la poliziasegreta legata al Dipartimento per la Sicurezza di Stato, che conta circa duecentosettantamila uomini.

In Corea del Nord è legale incriminare i cittadini in base ai legami di sangue e di parentela, e imprigionare questi“trasgressori” insieme ai genitori e ai figli secondo una legge istituita da Kim Il Sung nel 1972: «Il seme dei nemici diclasse, chiunque essi siano, deve essere estirpato attraverso tre generazioni».

Ho incontrato Shin per la prima volta nell’inverno del 2008, a pranzo. Ci siamo dati appuntamento in un ristorantecoreano nel centro di Seoul. Loquace e affamato, ha divorato svariate porzioni di riso e manzo mentre raccontava a mee al mio interprete com’era stato assistere all’impiccagione di sua madre. La incolpava per le torture subite nel campoe non si stancava di sottolineare tutta la rabbia che provava ancora verso di lei. Ha ammesso di non essere stato unbravo figlio, senza però spiegarmi il perché.

Durante tutti gli anni trascorsi nel campo mi ha detto di non aver mai, neanche una volta, sentito pronunciare laparola amore, tantomeno da quella madre che continuava a disprezzare anche da morta. Aveva sentito parlare delconcetto di perdono in una chiesa sudcoreana, ma ne era rimasto perplesso: chiedere il perdono nel Campo 14 volevadire «implorare di non essere punito».

Aveva raccontato la sua esperienza in un’autobiografia pubblicata in Corea del Sud, che però aveva ricevuto scarsaattenzione. Era senza lavoro, al verde, indietro con l’affitto e incerto sul da farsi. Le regole del Campo 14 gli avevanoimpedito, pena la morte, di stare insieme a una donna. Ora voleva trovarsi una fidanzata, ma non sapeva neanche da cheparte cominciare. Dopo pranzo mi ha portato nel piccolo e triste appartamento di Seoul che non poteva permettersi dipagare, e senza mai guardarmi negli occhi mi ha mostrato il dito mozzato e la schiena segnata dalle cicatrici, e mi hapersino concesso di scattargli qualche foto. A dispetto di tutte le sofferenze sopportate, il suo volto sembrava quellodi un bambino.

Aveva ventisei anni, ed era fuori dal Campo 14 da tre. Io di anni ne avevo cinquantasei, il giorno di quel pranzomemorabile. Come corrispondente per il “Washington Post” nel Nordest asiatico, da più di un anno ero alla ricerca diuna storia che spiegasse come la Corea del Nord stesse sfruttando la repressione per evitare il collasso.

Avevo fatto dell’implosione politica la mia specialità. Per il “Washington Post” e per il “New York Times” hopassato trent’anni a scrivere di governi falliti in Africa, del crollo del comunismo nell’Europa dell’Est, deldisfacimento della Jugoslavia e della lenta rovina della Birmania durante la dittatura dei generali. Dall’esterno, laCorea del Nord sembrava a un passo dal tipo di tracollo che avevo già visto altrove. In una parte del mondo in cuipraticamente tutti si stavano arricchendo, la sua popolazione era sempre più isolata, povera e affamata. Eppure ladinastia Kim teneva tutto sotto controllo; la repressione totalitaria permetteva al loro folle regime di restare a galla.

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Il problema era documentare come il governo riuscisse a fare questo, data l’estrema difficoltà a entrare nel paese.Non sempre gli Stati repressivi riescono a sigillare in maniera davvero efficace i loro confini: avevo giratoliberamente nell’Etiopia di Mengistu, nel Congo di Mobutu e nella Serbia di Milosevic, e avevo scritto della Birmaniadopo essermi infiltrato come turista. Ma la Corea del Nord era molto più rigorosa nei controlli, e raramentepermetteva ai reporter stranieri, soprattutto americani, di introdursi al suo interno. Avevo visitato il paese una voltasola, visto quello che i miei sorveglianti volevano che vedessi, e capito ben poco. I giornalisti che entravanoillegalmente venivano considerati alla stregua di spie e imprigionati mesi, se non anni; per ottenere il rilascio avevanobisogno dell’intervento di personalità politiche di spicco7.

Date tutte queste restrizioni, la maggior parte delle informazioni giornalistiche sulla Corea del Nord risultavanoquindi distanti e inconsistenti. Scritte da Seoul, Tokyo o Pechino, le storie iniziavano sempre con un resocontodell’ultima provocazione di Pyongyang, come l’affondamento di una nave o l’aggressione a qualche turista. Dopodichési ripeteva il solito noioso tran-tran della carta stampata: i funzionari americani e sudcoreani esprimevanoindignazione, quelli cinesi invocavano moderazione e i gruppi di esperti si lanciavano in interpretazioni più o menoplausibili. Ne ho scritti fin troppi di pezzi così.

Ecco, Shin ha fatto piazza pulita di tutto questo. La storia della sua vita è stata come un grimaldello che hapermesso di spalancare le porte e mostrare al mondo come la famiglia Kim si tenga in piedi grazie all’omicidio e allosfruttamento della schiavitù infantile (e non). Pochi giorni dopo il nostro incontro il volto di Shin era sulla primapagina del “Washington Post”, insieme alla sua drammatica storia.

«Wow» mi scrisse Donald E. Graham, presidente della Washington Post Company, nell’email monosillabica chericevetti la mattina dopo la pubblicazione dell’articolo. Un regista tedesco che casualmente era stato in visitaall’Holocaust Memorial Museum di Washington proprio il giorno in cui uscì il pezzo, decise di girare undocumentario sulla sua vita8. Sempre sul “Washington Post” uscì un editoriale in cui si affermava che le brutalità che ilragazzo aveva dovuto sopportare erano sì spaventose, ma non più dell’indifferenza del mondo sull’esistenza dei campid’internamento nordcoreani.

«In America gli studenti delle scuole superiori discutono sul perché Franklin D. Roosevelt non abbia bombardatole linee ferroviarie che portavano ai campi di concentramento dei nazisti» concludeva l’editoriale. «I loro figlipotrebbero chiedere, più o meno tra una generazione, perché l’occidente sia rimasto a guardare le ben più espliciteimmagini satellitari dei campi di Kim Jong Il. Senza far nulla».

La storia di Shin sembrava aver toccato profondamente i lettori, che scrissero lettere e inviarono email offrendosoldi, accoglienza e preghiere. Una coppia di coniugi di Columbus, Ohio, dopo aver letto l’articolo rintracciò Shin egli pagò il viaggio negli Stati Uniti. Lowell e Linda Dye gli dissero che volevano essere i genitori che non aveva maiavuto. Una giovane donna coreana di Seattle, Harim Lee, lesse la sua storia e volle incontrarlo. Più tardi la suarichiesta fu accolta: i due si conobbero in California meridionale e s’innamorarono.

Il mio articolo aveva svelato soltanto una piccola parte della vita di Shin. Capii che un racconto più approfonditoavrebbe potuto mettere a nudo gli ingranaggi segreti che permettono al regime totalitario nordcoreano di continuare aesistere, e avrebbe mostrato – attraverso i dettagli della sua rocambolesca fuga – come alcuni di quegli ingranaggioppressivi non funzionassero più a dovere, dal momento che un ingenuo fuggiasco era riuscito ad attraversare (più omeno) indisturbato uno Stato di polizia e oltrepassare il confine con la Cina. Non da ultimo, dopo aver letto un librosu un ragazzo messo al mondo con l’unico scopo di essere sfruttato fino alla morte, nessuno avrebbe più potutoignorare l’esistenza dei campi di prigionia nordcoreani.

Chiesi a Shin se fosse interessato. Gli ci vollero nove mesi per decidere, nove mesi in cui gli attivisti per i dirittiumani in Corea del Sud, Giappone e Stati Uniti lo convinsero a collaborare dicendogli che un libro in inglese avrebbepermesso a tutto il mondo di conoscere questa drammatica situazione, aumentato la pressione internazionale sullaCorea del Nord e forse messo del tanto agognato denaro nelle sue tasche. Quando accettò, si rese disponibile persette turni di interviste, prima a Seoul, poi a Torrance, California, e infine a Seattle. Io e Shin ci accordammo perdividerci la metà di qualsiasi cifra il libro avesse guadagnato. Il nostro accordo, però, mi lasciava pieno controllo suicontenuti.

All’inizio del 2006, circa un anno dopo la sua fuga dalla Corea del Nord, Shin iniziò a tenere un diario, checontinuò anche quando a Seoul fu ricoverato per depressione. Il diario diventò la base per la sua autobiografia in lingua

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coreana, Escape to the Outside World, pubblicata nel 2007 dal Database Center for North Korean Human Rights.Quel libro è stato il punto di partenza per le nostre interviste, nonché la fonte di molte delle citazioni dirette che inquesto volume sono attribuite a Shin, alla sua famiglia, ai suoi amici e ai suoi carcerieri nel periodo trascorso inCorea del Nord e in Cina. Ma in queste pagine la descrizione dei suoi pensieri e delle sue azioni è basata sulle molteinterviste fatte, in occasione delle quali ha approfondito, e in molti punti fondamentali corretto, il suo testo coreano.

Anche quando collaborava, Shin sembrava comunque aver paura di aprirsi con me. Mi sentivo spesso come undentista che si trovi a trapanare senza anestesia, durante una seduta che si è protratta a intermittenza per più di dueanni. Alcune delle nostre sessioni hanno avuto su di lui un effetto catartico, ma altre lo hanno depresso.

Faceva molta fatica a fidarsi di me; d’altronde ha ammesso che la diffidenza nei confronti di chiunque è unacomponente imprescindibile del modo in cui è stato cresciuto. Le guardie gli hanno insegnato a tradire i genitori e gliamici, quindi dava per scontato che chiunque incontrasse avrebbe fatto prima o poi lo stesso con lui.

Nello scrivere questo libro ci sono state volte in cui anch’io ho fatto fatica a fidarmi di lui. Durante la nostraprima intervista mi ha ingannato in merito al ruolo svolto nella morte della madre, e ha continuato a farlo in più di unadozzina di altri incontri. Quando ha cambiato versione, mi sono chiesto cos’altro avesse inventato.

Il fact-checking non è possibile in Corea del Nord. Nessun estraneo ha visitato i campi per prigionieri politici, e iresoconti di quello che succede al loro interno non possono essere verificati. Anche se le immagini del satellitehanno contribuito non poco a una migliore comprensione dei campi dall’esterno, le fonti primarie di informazionecontinuano ad essere i rifugiati, i cui fini e credibilità non sempre sono senza macchia. In Corea del Sud, così comealtrove, hanno spesso un bisogno disperato di guadagnarsi da vivere, e sono quindi ben disposti ad assecondare ipreconcetti di attivisti per i diritti umani, anticomunisti e ideologi di destra. Alcuni sopravvissuti rifiutano di parlare ameno che non li si paghi in anticipo e in contanti, altri ripetono aneddoti succosi che hanno sentito raccontare, ma dicui non sono stati personalmente testimoni.

Per quanto Shin mantenesse una certa diffidenza nei miei confronti, rispondeva a qualsiasi domanda sul suopassato io gli rivolgessi. La sua vita può sembrare incredibile, ma riecheggia tanto le esperienze di altri ex prigionieriquanto le descrizioni di molte ex guardie dei campi.

«Tutto quello che ha detto è coerente con le informazioni di cui dispongo sui campi» ha concluso David Hawk,esperto di diritti umani che ha intervistato Shin e altri sessanta prigionieri dei campi di lavoro per The Hidden Gulag,un rapporto che raccoglie i racconti dei sopravvissuti e li confronta con le fotografie satellitari. Pubblicato la primavolta nel 2003 dallo U.S. Committee for Human Rights in North Korea, è stato poi aggiornato mano a mano cheaumentavano le testimonianze e le immagini satellitari ad alta risoluzione. Hawk mi ha detto che poiché Shin è nato ecresciuto in un campo, sa cose che altri sopravvissuti non sanno. La sua storia è stata passata al vaglio anche dagliautori del White Paper on Human Rights in North Korea 2008, della Korean Bar Association, i quali hanno condottointerviste dettagliate con Shin e con altri sopravvissuti dei campi che avevano accettato di parlare. Come ha scrittoHawk, l’unico strumento di cui la Corea del Nord dispone per confutare, contraddire o invalidare le testimonianze diShin e degli altri sopravvissuti è permettere a osservatori stranieri di visitare i campi. Fino a quando questo nonavverrà, dice Hawk, la loro testimonianza è da considerarsi a tutti gli effetti valida.

Se davvero lil regime nordcoreano dovesse crollare, è possibile che i suoi leader facciano esattamente quello cheha predetto Shin, ovvero distruggere i campi prima dell’arrivo degli inquirenti in vista di possibili processi per criminicontro l’umanità. Kim Jong Il lo ha detto chiaramente: «Dobbiamo restare avvolti in una fitta nebbia per impedire ainostri nemici di carpire informazioni sul nostro conto»9.

Per cercare di ricostruire quello che non potevo vedere, ho passato quasi tre anni a scrivere articoli su esercito,leadership, economia, carenza di cibo e violazioni dei diritti umani in Corea del Nord. Ho intervistato dozzine dirifugiati, inclusi tre ex detenuti del Campo 15 e un’ex guardia e autista che ha lavorato in quattro diversi campi. Hoparlato con diversi studiosi ed esperti sudcoreani che si recano regolarmente in Corea del Nord, e ho passato inrassegna il crescente corpus di ricerche accademiche e memoir sui campi. Negli Stati Uniti ho condotto lungheinterviste con i coreani americani che sono diventati i più cari amici di Shin.

Secondo An Myeong Chul, ex guardia ed ex autista, nel valutare la sua storia è necessario tenere conto del fattoche molti altri hanno sopportato sofferenze simili se non peggiori. «Shin ha vissuto una vita relativamenteconfortevole rispetto agli standard degli altri bambini nei campi» ha detto An.

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Tra le bombe nucleari, gli attacchi alla Corea del Sud e la nota indole bellicosa, il governo nordcoreano ha creatonella penisola coreana uno stato di emergenza semipermanente. Le rare volte in cui si concede alla diplomaziainternazionale, il paese riesce sempre a eliminare da qualsiasi tavolo dei negoziati il tema “diritti umani”. È la gestionedella crisi, solitamente incentrata su missili e armi nucleari, a dominare le relazioni dell’America con la Corea delNord; la questione dei campi di lavoro viene sempre rimandata. «È semplicemente impossibile toccare l’argomento»mi ha detto David Straub, che ha lavorato per il Dipartimento di Stato durante la presidenza di Clinton e di Bush comeresponsabile delle politiche verso la Corea del Nord. «Se ci provi, danno di matto».

L’esistenza di queste strutture ha a malapena sfiorato la coscienza collettiva mondiale. Negli Stati Uniti, malgradoi reportage sui giornali, sul tema persiste un’ignoranza diffusa. Per diversi anni, in primavera, una manciata di rifugiatinordcoreani e sopravvissuti dei campi si è data appuntamento al National Mall di Washington per tenere discorsi eorganizzare marce. La stampa però non se n’è quasi accorta. Il motivo era in parte linguistico, dal momento che lamaggior parte di loro parlava solo nordcoreano, ma non si deve sottovalutare un fatto: in una cultura mediatica che sinutre di celebrità, nessuna star del cinema, nessun idolo pop o nessun premio Nobel si è speso per una causa cosìdistante di cui, per giunta, manca una buona documentazione video. «I tibetani hanno il Dalai Lama e Richard Gere, ibirmani hanno Aung San Suu Kyi, i darfuriani Mia Farrow e George Clooney» mi ha detto Suzanne Scholte, un’attivistadi lungo corso che ha portato alcuni sopravvissuti dei campi a Washington. «I nordcoreani non hanno nessuno di anchelontanamente paragonabile».

Shin mi ha detto di non sentirsi in diritto di parlare a nome delle decine di migliaia di persone ancora nei campi. Sivergogna di ciò che ha fatto per sopravvivere e scappare. Ha opposto resistenza all’apprendimento dell’inglese, ancheperché non vuole trovarsi costretto a ripetere continuamente la sua storia in una lingua che potrebbe renderloimportante. Ma vuole disperatamente che il mondo apra gli occhi su ciò che la Corea del Nord ha cercato condiabolica diligenza di nascondere. Il suo è un fardello pesante. Prima di lui nessun altro uomo nato e cresciuto in queicampi è mai riuscito a fuggire per raccontare cosa accadeva lì dentro. Cosa tuttora accade lì dentro.

1 I nomi sudcoreani, a differenza di quelli nordcoreani, sono separati da un trattino.2 Amnesty International, Images Reveal Scale of North Korean Political Prison Camps, 3 maggio 2011, disponibile all’indirizzo

http://tinyurl.com/6df3cub sul sito di Amnesty.3 Kang Chol-hwan e Pierre Rigoulot, L’ultimo gulag. La tragedia di un sopravvissuto all’inferno della Corea del Nord, Mondadori,

Milano 2001, p. 79.4 Questi testimoni oculari, incluso Shin, sono stati intervistati da David Hawk, ricercatore del Committee on Human Rights in North Korea

di Washington DC. Le loro storie e le immagini satellitari dei campi sono raccolte nel suo rapporto The Hidden Gulag: The Lives andVoices of “Those Who are Sent to the Mountains”: la seconda edizione è scaricabile dal sito della commissione, www.hrnk.org.

5 Kim Yong ha raccontato la sua esperienza in Long Road Home, Columbia University Press, New York 2009.6 Korean Bar Association, White Paper on Human Rights in North Korea 2008, Korea Institute for National Unification, Seoul 2008.7 Come un ex presidente, per esempio. Nel 2009 le giornaliste televisive Laura Ling e Euna Lee passarono quasi cinque mesi in carcere in

Corea del Nord dopo essersi introdotte illegalmente nel paese. Furono liberate solo quando l’ex presidente Clinton volò a Pyongyang e sifece fotografare insieme a Kim Jong Il.

8 Si tratta di Escape from Camp 14: Total Control Zone, film di Marc Wiese, presentato al Toronto Film Festival nel 2012. Lo si puòvedere anche su YouTube.

9 Hyun-sik Kim and Kwang-ju Son, Documentary Kim Jong Il, Chonji Media, Seoul 1997, p. 202, citato in Ralph Hassig e Kongdan Oh,The Hidden People of North Korea, Rowman & Littlefield, Lanham 2009, p. 27.

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PRIMA PARTE

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IL BAMBINO CHE RUBAVA IL PRANZO ALLA MADRE

Shin viveva con la madre nel miglior alloggiamento per prigionieri che il Campo 14 avesse da offrire, un “villaggiomodello” vicino a un frutteto e proprio di fronte al campo in cui un giorno lei sarebbe stata impiccata. Ognuno deiquaranta edifici a un piano che componevano il villaggio ospitava quattro famiglie. Lui e la madre dormivano fianco afianco sul pavimento di cemento di una stanza, mentre la cucina, illuminata da un’unica lampadina, era in condivisionecon le altre famiglie. L’elettricità era disponibile solo per due ore al giorno, dalle quattro alle cinque del mattino edalle dieci alle undici di sera. Guardare fuori dalle finestre, fatte di un’opaca resina grigia, era impossibile. Le stanzeerano riscaldate – alla maniera coreana – da un camino a carbone posizionato in cucina con canne fumarie checorrevano sotto il pavimento della camera da letto. Il carbone per il riscaldamento arrivava direttamente dalle minieredel campo.

Non c’erano letti, tavoli o sedie. Niente acqua corrente. Nessuna doccia o vasca da bagno. L’unico modo perlavarsi era, d’estate, provare a sgattaiolare fino al fiume. Una trentina di famiglie condivideva un pozzo per l’acquapotabile e una latrina divisa a metà: gli uomini da una parte, le donne dall’altra. Era obbligatorio defecare e urinare lìdentro perché i rifiuti biologici umani venivano utilizzati come fertilizzante nella fattoria del campo.

Se la madre di Shin raggiungeva la sua quota di produzione giornaliera, poteva portare a casa cibo sufficiente per lasera stessa e il giorno successivo. Alle quattro del mattino preparava la colazione e il pranzo per sé e il figlio. Tutti ipasti erano identici: pasticcio di mais, cavolo in salamoia e zuppa di cavolo; questo di fatto è ciò di cui Shin si ènutrito ogni giorno per ventitré anni, salvo le volte in cui, per punizione, il cibo gli veniva negato.

Quando era troppo piccolo per andare a scuola, la madre lo lasciava spesso a casa da solo fino a mezzogiorno,orario in cui rientrava dai campi per pranzare. Shin era sempre affamato, e il suo pranzo lo consumava già al mattino,appena rimaneva solo. E mangiava anche il pranzo di lei. A mezzogiorno la madre tornava, e se non trovava niente damettere sotto i denti s’infuriava e lo picchiava con una zappa, una pala o qualsiasi altra cosa avesse a portata di mano. Avolte le botte non erano meno violente di quelle che più avanti avrebbe ricevuto dalle guardie. Eppure Shin continuavaa sottrarle quanto più cibo possibile senza mai rendersi conto che, così facendo, le avrebbe fatto soffrire la fame.

Molti anni più tardi, ormai orfano e residente negli Stati Uniti, mi disse sì di averle voluto bene, ma solo dopo averimparato che è questo che ci si aspetta da un bambino civilizzato. All’interno del campo, quando dipendeva da lei pertutti i pasti, quando le rubava il cibo e ne sopportava le botte, la madre era semplicemente una rivale per lasopravvivenza.

Si chiamava Jang Hye Gyung. Shin la ricorda bassa e un po’ robusta, con braccia possenti. Portava i capelli corti,come tutte le donne del campo, ed era tenuta a coprirsi la testa con un fazzoletto bianco legato dietro la nuca. Shin hascoperto la sua data di nascita – 1 ottobre 1950 – da un documento su cui aveva posato gli occhi durantel’interrogatorio nella prigione sotterranea. Lei non gli ha mai parlato del suo passato, della sua famiglia o del perché sitrovasse nel campo, e lui non ha mai fatto domande.

Era venuto al mondo per volere delle guardie, che avevano selezionato lei e l’uomo che sarebbe diventato suopadre come reciproca ricompensa in un matrimonio “premio”.

Gli uomini e le donne non sposati vivevano in dormitori divisi per sesso. L’ottava regola del Campo 14, così comeShin aveva dovuto memorizzarla, diceva: «In caso di contatto fisico di tipo sessuale non preventivamente approvato, iresponsabili verranno fucilati all’istante». Le regole erano simili a quelle di altri campi della Corea del Nord. Un’exguardia e diversi ex prigionieri mi hanno raccontato che se il sesso non autorizzato portava a una gravidanza e ad unanascita, la donna e il bambino venivano uccisi. Le donne che facevano sesso con le guardie nel tentativo di ottenere piùcibo o del lavoro meno faticoso sapevano bene che i rischi erano alti. Se restavano incinte, sparivano.

Un matrimonio premio era l’unico modo sicuro per aggirare il divieto di consumare rapporti sessuali. Venivapresentato ai prigionieri come la ricompensa più ambita, a cui accedere soltanto con il duro lavoro e uno spionaggio

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affidabile. Gli uomini diventavano idonei a venticinque anni, le donne a ventitré. Le guardie annunciavano i matrimonitre o quattro volte l’anno, solitamente in date propizie come l’inizio dell’anno o il compleanno di Kim Jong Il. Né lasposa né lo sposo avevano molta voce in capitolo su chi avrebbero sposato. Se uno dei due trovava il compagnoselezionato vecchio, crudele o brutto in maniera inaccettabile, poteva anche succedere che i piani venissero annullati;in quel caso, però, a nessuno dei due sarebbe mai stata concessa una seconda chance.

Il padre di Shin, Shin Gyung Sub, ha raccontato al figlio che le guardie gli avevano dato Jang come ricompensa perl’abilità dimostrata nell’utilizzo del tornio nell’officina meccanica del campo. La madre invece non gli raccontò maiperché le fosse stato concesso l’onore di un matrimonio, ma per lei, come per molte altre spose nel campo, fu unasorta di promozione: significava un lavoro e una casa leggermente migliori nel villaggio modello, dove c’erano ancheuna scuola e una clinica medica. Poco dopo il matrimonio, infatti, poté lasciare l’affollato dormitorio per sole donnenella fabbrica di vestiti del campo e iniziare un ambito lavoro in una fattoria non lontana dalla nuova casa, dove avrebbepotuto rubare mais, riso e verdure.

Appena sposata, alla coppia fu consentito di dormire insieme per cinque sere consecutive. Di lì in poi, il padre diShin, che continuava a trascorrere le notti in un dormitorio sul luogo di lavoro, poté far visita a Jang solo poche voltel’anno. La loro unione ha dato due figli: il più grande, He Geun, è nato nel 1974, Shin otto anni più tardi.

I due fratelli si conoscevano a malapena. Quando nacque Shin, il maggiore era alla scuola elementare per dieci oreal giorno, e quando lui compì quattro anni l’altro aveva ormai lasciato la casa per trasferirsi in un dormitorio.

Per quanto riguarda il padre, Shin ricorda che a volte compariva all’improvviso di notte e andava via la mattinapresto. Prestava poca attenzione al ragazzo, che a sua volta cresceva del tutto indifferente alla sua presenza. Negli annisuccessivi alla sua evasione, Shin ha scoperto che in molti associano calore, sicurezza e affetto alle parole madre,padre e fratello. Ma quella non era stata certo la sua esperienza.

Le guardie insegnavano ai bambini che se si trovavano lì era per colpa dei “peccati” dei loro genitori, e che perquanto non dovessero mai smettere di provare vergogna per il proprio sangue di traditori, potevano comunque provarea “lavar via” la loro colpa intrinseca ubbidendo agli ordini e rivelando informazioni su di loro.

La decima regola del Campo 14 diceva che ogni prigioniero deve vedere in ogni guardia un maestro. Per Shin lacosa aveva perfettamente senso. Durante tutta l’infanzia e l’adolescenza aveva avuto genitori esausti, distanti e pernulla comunicativi. Era un ragazzino scheletrico, indifferente e fondamentalmente senza amici, le cui uniche certezzederivavano dagli indottrinamenti delle guardie sulla possibilità di una redenzione che passava attraverso unasistematica attività di denuncia. Spesso, però, gli incontri tra sua madre e le guardie complicavano la suacomprensione di cosa fosse giusto o sbagliato.

Quando aveva dieci anni, una sera uscì di casa per andare a cercarla. Era affamato ed era ora che lei preparasse lacena. Camminò fino a un campo di riso non lontano, dove lei lavorava, e chiese a una signora se l’avesse vista.

«Sta pulendo la stanza del bowijidowon» gli rispose la donna, riferendosi all’ufficio della guardia a capo dellarisaia.

Shin si avvicinò e trovò la porta d’ingresso chiusa a chiave. Sbirciò dentro da una finestra laterale: sua madre era inginocchio e puliva il pavimento. Mentre Shin la osservava, entrò in scena il bowijidowon. Si avvicinò da dietro e iniziòa palpare la donna, che non oppose alcuna resistenza. Entrambi si tolsero i vestiti, e Shin rimase lì a guardare mentre idue facevano sesso.

Non chiese mai spiegazioni alla madre su quello che aveva visto, e non ne fece mai parola con il padre.Quello stesso anno, tutti gli studenti della scuola elementare ricevettero l’ordine di collaborare al lavoro dei

genitori, per cui un mattino si unì alla madre per la semina del riso. Lei però non stava bene e rimase indietro. Pocoprima della pausa pranzo il suo ritmo fiacco attirò le attenzioni di una guardia.

«Troia!» le urlò.“Troia” era l’appellativo standard riservato alle donne. Per Shin e per gli altri uomini solitamente si optava per

“figlio di puttana”.«Com’è possibile che tu abbia la forza di mangiare come un porco se non sei neanche in grado di piantare del

riso?».Lei si scusò, ma la guardia era sempre più alterata.«Questa troia va rimessa in riga» urlò, e s’inventò subito una punizione da infliggerle.«Vai a inginocchiarti su quel crinale laggiù e alza le braccia. Non ti muovere fino a quando non ritorno dal pranzo».

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La donna rimase inginocchiata sotto il sole per un’ora e mezza, con le braccia protese verso il cielo. Il bambinorestò al suo fianco, senza sapere cosa dirle.

Al suo ritorno la guardia le ordinò di rimettersi al lavoro, ma lei era talmente debole e affamata che a metàpomeriggio perse i sensi. Shin corse a cercare aiuto mentre altri lavoratori la trascinarono in una zona piùombreggiata, dove riprese conoscenza.

Quella sera andarono insieme alla sessione di lotta ideologica, un incontro di autocritica obbligatorio. Qui lamadre fu di nuovo costretta a inginocchiarsi mentre quaranta suoi compagni di lavoro si unirono al bowijidowon e larimproverarono per non aver raggiunto il livello di produttività desiderato.

Nelle sere d’estate i bambini del villaggio sgattaiolavano in un frutteto poco più a nord del blocco di case dicemento in cui vivevano, dove raccoglievano pere e cetrioli acerbi e li mangiavano il più in fretta possibile. Sevenivano colti sul fatto, le guardie li prendevano a bastonate e per diversi giorni gli impedivano di mangiare a scuola.Alle stesse guardie, però, non importava se Shin e i suoi amici mangiavano ratti, rane, serpenti e insetti, animali spessoabbondanti in un campo che usava pochi pesticidi, concimava con rifiuti organici umani e non metteva a disposizioneacqua per la pulizia delle latrine o per farsi un bagno.

Mangiare ratti non solo riempiva gli stomaci vuoti, ma era essenziale per la sopravvivenza. La loro carne potevacontribuire a prevenire la pellagra, una malattia talvolta fatale che dilagava nel campo, specialmente d’inverno. Iprigionieri che la contraevano, a causa dell’assenza di proteine e niacina nelle loro diete, soffrivano di debolezza,lesioni cutanee, diarrea e demenza. Era una delle principali cause di morte. Catturare e arrostire ratti divenne una verapassione per Shin: li prendeva in casa, nei campi o nella latrina, e la sera si trovava con gli amici nella scuolaelementare per arrostirli su una griglia a carbone. Li scuoiava, li liberava delle interiora, salava quello che rimaneva epoi masticava tutto senza tante distinzioni: carne, ossa, zampe. Imparò anche a usare gli steli della setaria per infilzarecavallette, locuste e libellule, che verso la fine dell’estate e in autunno arrostiva sul fuoco. Nelle foreste sui monti,dove spesso mandavano gruppi di studenti a raccogliere legna, Shin poteva mangiare uva selvatica, uva spina e lamponia volontà.

Durante l’inverno, la primavera e l’inizio dell’estate, però, il cibo a disposizione era assai più scarso. La famespingeva i bambini a usare trucchetti imparati dai prigionieri più anziani, i quali dicevano che avrebbero alleviato ildisagio di uno stomaco vuoto. Consumavano pasti senza acqua e senza brodo, convinti che i liquidi favorissero ladigestione e accelerassero il ripresentarsi dei morsi della fame; cercavano di trattenersi dal defecare, credendo chequesto li avrebbe fatti sentire più pieni e meno ossessionati dal cibo; o ancora imitavano le mucche, rigurgitando unpasto recente per poi mangiarlo di nuovo. Shin ci provò, ma la fame non passò.

L’estate, periodo in cui i bambini venivano mandati nei campi per aiutare con la semina e per strappare le erbacce,era alta stagione per i ratti e i topi di campagna. Shin ricorda che li mangiava ogni giorno. I momenti più sereni eappaganti della sua infanzia erano quelli in cui aveva la pancia piena.

Il “problema alimentare”, come spesso è chiamato in Corea del Nord, non è confinato soltanto ai campi di lavoro,ma se ne vedono le conseguenze anche sui corpi di milioni di persone in tutto il paese. I maschi adolescenti fuggitinell’ultimo decennio sono in media tredici centimetri più bassi e pesano undici chilogrammi in meno rispetto ai lorocoetanei cresciuti in Corea del Sud10.

Secondo il National Intelligence Council, istituto di ricerca che fa parte della United States IntelligenceCommunity, il ritardo mentale causato dalla malnutrizione durante la prima infanzia squalifica circa un quarto deipotenziali militari di leva della Corea del Nord. I suoi rapporti affermano che i deficit intellettivi tra i giovaniavrebbero potuto facilmente compromettere la crescita economica anche se il paese si fosse aperto al mondo esternoo si fosse ricongiunto con il Sud. Fin dagli anni novanta la Corea del Nord non è in grado di coltivare, comprare odistribuire cibo a sufficienza per sfamare la sua popolazione.

La carestia di quegli anni ha ucciso circa un milione di nordcoreani, un tasso di mortalità che negli Stati Unitiequivarrebbe alla perdita di circa dodici milioni di vite.

Il disastro alimentare si è placato alla fine del decennio, quando il governo ha acconsentito a ricevere aiutialimentari internazionali. Gli Stati Uniti, pur rimanendo il nemico più demonizzato, sono diventati il più grandedonatore. Ogni anno la Corea del Nord deve produrre più di cinque milioni di tonnellate di riso e cereali per sfamare

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una popolazione di ventitré milioni di persone; e quasi ogni anno gliene manca circa un milione.Il paese, caratterizzato da lunghi inverni e catene montuose molto aspre, dispone di poco terreno arabile, non

concede incentivi ai contadini e non può permettersi di acquistare carburante o attrezzature agricole moderne. Peranni è riuscito per un soffio a scongiurare la catastrofe alimentare grazie ai sussidi che arrivavano da Mosca, ma dopoil crollo dell’Unione Sovietica i rubinetti si sono chiusi e la sua economia a pianificazione centrale ha smesso difunzionare. Niente combustibile gratis per le sue fabbriche sempre più antiquate, nessun mercato garantito per i suoibeni spesso scadenti e nessun accesso ai fertilizzanti economici di produzione sovietica da cui dipendevano le fattoriedi Stato.

Per molto tempo la Corea del Sud ha arginato il problema donando a Pyongyang mezzo milione di tonnellate difertilizzante all’anno come parte della sua sunshine policy, la “politica del sorriso” inaugurata nel 1998 allo scopo diallentare le tensioni tra Nord e Sud. Quando nel 2008 anche il nuovo governo di Seoul ha chiuso i rubinetti, la Coreadel Nord ha cercato di fare a livello nazionale quello che impone da decenni nei suoi campi di lavoro: produrre toibee,un concime ricavato da cenere mischiata a escrementi umani. Negli ultimi inverni sono stati raccolti rifiuti biologiciumani congelati nei bagni pubblici delle città e dei villaggi di tutto il paese.

Secondo Good Friends, ente di beneficenza buddista con informatori in Corea del Nord, ogni fabbrica, impresapubblica e quartiere ha ricevuto l’ordine di produrre due tonnellate di toibee. Lo si lasciava seccare all’aperto inprimavera e poi lo si trasportava nelle fattorie. Ma i fertilizzanti organici non sono neanche lontanamente riusciti arimpiazzare quelli chimici usati per decenni.

Segregato dietro una recinzione elettrificata per tutti gli anni novanta, Shin non aveva idea che milioni di suoiconnazionali soffrissero la fame. Né lui né i suoi genitori (per quanto potesse saperne) avevano sentito dire che ilgoverno faticava a nutrire l’esercito o che negli appartamenti delle città nordcoreane, inclusa la capitale, si moriva difame. Non sapevano che decine di migliaia di nordcoreani avevano abbandonato le loro case e si erano incamminativerso la Cina in cerca di cibo. E i prigionieri del campo non beneficiavano degli aiuti alimentari del valore di miliardidi dollari che si riversavano all’interno del paese.

In quegli anni caotici, anni in cui gli ingranaggi alla base del governo di Kim Jong Il sembravano in stallo, gruppi diesperti in occidente pubblicavano libri dai titoli apocalittici che annunciavano una ormai imminente “fine della Coreadel Nord”. Di certo, dove viveva Shin la fine non era neanche lontanamente immaginabile: a parte qualche caricooccasionale di sale, il campo era autosufficiente. I detenuti coltivavano il mais e i cavoli di cui poi si nutrivano, ederano anche la manodopera quasi a costo zero che produceva frutta e verdura, allevava pesci e maiali, confezionavadivise, produceva cemento, vasi e oggetti di vetro, e che di fatto teneva in piedi l’economia in disfacimento al di fuoridella recinzione.

Durante la carestia Shin e la madre erano certamente infelici e affamati, ma non più di quanto non lo fossero giàprima. La vita del piccolo proseguiva come sempre: cacciava i ratti, le rubava il cibo e ne sopportava le botte.

10 Intervista dell’autore con Chun Jung-hee, responsabile degli infermieri del centro per il reintegro di Hanawon, in Corea del Sud. Inquesto centro, finanziato dal governo, si raccolgono dati su peso e altezza dei rifugiati nordcoreani fin dal 1999.

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A SCUOLA

L’insegnante annunciò un’ispezione a sorpresa. Frugò nelle tasche di Shin e in quelle degli altri quaranta bambinidella classe. Alla fine tutto ciò che gli rimase in mano erano cinque chicchi di mais, tutti appartenenti a una bimbaesile e bassina e, nei ricordi di Shin, particolarmente graziosa. Ne ha dimenticato il nome, ma ogni altro dettaglio diquel giorno di scuola del giugno 1989 è tuttora nitido nella sua memoria. L’insegnante era già di pessimo umoreall’inizio dell’ispezione, e quando trovò il mais esplose definitivamente.

«Brutta troia, ladra che non sei altro! Vuoi che ti tagli le mani??!».Le ordinò di andare a mettersi in ginocchio di fronte al resto della classe, poi cominciò a picchiarla ripetutamente

con la sua lunga bacchetta di legno. Mentre tutti guardavano in silenzio, sul cranio della piccola iniziarono a formarsidei bozzi, e il naso cominciò a sanguinare.

Poco dopo crollò priva di sensi sul pavimento di cemento. Aiutato da alcuni compagni, Shin la sollevò e la portò acasa, in un allevamento di maiali non lontano dalla scuola. Morì la sera stessa.

Il comma 3 della terza regola del Campo 14 dice: «Chiunque venga sorpreso a rubare o a nascondere cibo saràfucilato all’istante». Ma Shin sapeva che il più delle volte gli insegnanti non lo prendevano troppo seriamente: setrovavano del cibo nelle tasche di uno studente magari gli davano un paio di randellate con un bastone, ma era piùfacile che non facessero nulla. Shin e i compagni sfidavano spesso la sorte; per come la vedeva lui, quella bimbapiccola e graziosa era stata solo sfortunata.

Aveva imparato dalle guardie e dagli insegnanti che le botte erano sempre meritate, per colpa del sangue corrottoricevuto in eredità dai genitori. Per lei non fu diverso: Shin credeva che la sua punizione fosse giusta e non si arrabbiòmai con l’uomo che l’aveva uccisa. Era convinto che tutti gli studenti la pensassero allo stesso modo.

Il giorno dopo, a scuola, nessuno parlò del pestaggio. In classe non cambiò nulla, e con ogni probabilità il maestronon fu mai richiamato per il suo comportamento.

Shin passò tutti e cinque gli anni di scuola primaria nella classe di quell’individuo, un uomo sulla trentina cheindossava una divisa militare e portava sempre una pistola. Negli intervalli tra le lezioni permetteva agli studenti disvagarsi giocando alla morra cinese, e il sabato a volte lasciava che dedicassero un’ora o due a togliersireciprocamente i pidocchi. Non seppe mai il suo nome.

Alle elementari gli insegnarono a stare sull’attenti, a inchinarsi di fronte agli insegnanti e a non guardarli mai negliocchi. Il primo giorno di scuola gli venne consegnata una divisa nera: pantaloni, casacca, canottiera e un paio di scarpe.Queste ultime venivano sostituite ogni due anni, anche se iniziavano a sfasciarsi già dopo un mese o due. A volte,come premio speciale per il duro lavoro, gli allievi ricevevano del sapone; Shin non si distingueva certo per la suadiligenza, quindi non lo vide quasi mai. I suoi pantaloni erano talmente intrisi di sporco e sudore che stavano in piedida soli, e se si grattava la pelle con un’unghia scavava un solco in uno spesso strato di lerciume. Quando faceva troppofreddo per lavarsi nel fiume o sotto la pioggia, i prigionieri puzzavano come animali da fattoria, e d’inverno lasporcizia era tale che quasi tutti andavano in giro con le ginocchia nere. Finché fu in vita, la madre gli preparavabiancheria intima e calze cucendo degli stracci, ma dopo la sua esecuzione la biancheria divenne un ricordo delpassato, e rimediare brandelli di stoffa da mettere dentro le scarpe si rivelò una fatica continua.

La scuola, un agglomerato di edifici facilmente visibili nelle fotografie satellitari, distava circa sette minuti apiedi da casa. Lì le finestre erano di vetro, non di resina grigia, ma questo era l’unico lusso. Come la casa in cui vivevacon sua madre, anche la scuola era un semplice blocco di cemento.

L’insegnante stava su un podio di fronte a un’unica lavagna, mentre gli studenti sedevano ai due lati di un corridoio,i maschi da una parte e le femmine dall’altra. I ritratti di Kim Il Sung e Kim Jong Il – costante irrinunciabile di ogniaula della Corea del Nord – erano del tutto assenti.

Qui i bambini imparavano a malapena a leggere e a contare, venivano indottrinati sulle regole del campo e si

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sentivano ricordare in ogni momento che in loro scorreva sangue sciagurato. Alle elementari si seguivano le lezionicinque giorni a settimana, alle superiori invece sette, con una giornata libera al mese. «Dovete ripulirvi dei peccatidelle vostre madri e dei vostri padri! Dovete spaccarvi la schiena!» urlava il preside durante le assemblee.

Si iniziava alle otto in punto con una sessione chiamata chonghwa: significa “armonia totale”, ma in realtà non erache un momento in cui l’insegnante poteva rimproverare gli studenti per i comportamenti scorretti del giornoprecedente. La frequenza veniva controllata due volte al giorno e non erano ammesse assenze, neanche per malattia. AShin era capitato di accompagnare a scuola qualche compagno indisposto, ma lui, salvo qualche raffreddore, siammalava raramente. Fu vaccinato una volta soltanto, per il vaiolo.

Imparò a leggere e scrivere l’alfabeto coreano esercitandosi su carta ruvida fatta nel campo con i cartocci dellepannocchie. Ogni semestre gli veniva consegnato un quaderno di venticinque pagine, mentre come matita usava spessoun bastoncino di legno appuntito annerito sul fuoco. Le gomme da cancellare non sapeva neanche cosa fossero.

Non erano contemplati esercizi di lettura, dal momento che l’unico libro disponibile era quello dell’insegnante.Come esercizi di scrittura, invece, gli studenti erano tenuti a spiegare perché non fossero stati in grado di lavoraresodo e seguire le regole.

Shin imparò a fare le sottrazioni e le addizioni, ma non le moltiplicazioni e le divisioni. Ancora oggi, quando devemoltiplicare, aggiunge una colonna di numeri.

Educazione fisica significava scorrazzare all’aria aperta e giocare su sbarre di ferro nel cortile della scuola. Soloogni tanto, se dovevano raccogliere lumache per l’insegnante, gli studenti potevano spingersi fino al fiume. Nonesistevano giochi con la palla; il primo pallone da calcio Shin lo ha visto a ventitré anni, dopo la fuga in Cina.

Gli obiettivi a lungo termine che la scuola aveva per gli studenti erano impliciti in quello che gli insegnanti non sipreoccupavano di insegnare. Dicevano a Shin che la Corea del Nord era uno Stato indipendente e gli facevano notarel’esistenza di macchine e treni (non una grande rivelazione, dal momento che aveva già visto guardie alla guida diveicoli e c’era una stazione ferroviaria nell’angolo sud-occidentale del campo), ma non fecero mai riferimento allageografia della Corea del Nord o dei paesi confinanti, alla sua storia o ai suoi leader. Shin non aveva che un’idea deltutto vaga di chi fossero il Grande Leader e il Caro Leader.

A scuola le domande non erano consentite, facevano arrabbiare i maestri e scatenavano furiosi pestaggi. Gliinsegnanti parlavano, gli studenti ascoltavano. A furia di ripeterli in classe, aveva imparato alla perfezione l’alfabeto ela grammatica di base, anche se spesso pronunciava le parole senza avere idea di cosa significassero. L’insegnanteinstillò in tutti loro, a livello istintivo, il terrore di fare domande.

Shin non ebbe mai alcun contatto con compagni nati al di fuori della recinzione. Per quanto ne sapeva, la scuolaera riservata ai bambini come lui, la prole del campo frutto dei matrimoni premio. Gli avevano detto che i bambini natialtrove e portati lì dentro insieme ai genitori non potevano accedervi ed erano confinati nelle sezioni più remote, leValli 4 e 5. Questo significava che gli insegnanti potevano plasmare le menti degli studenti senza mai esserecontraddetti da quei bambini che avrebbero potuto svelare ciò che esisteva oltre il filo spinato.

Il destino che attendeva Shin e compagni non era certo un segreto: la scuola primaria e secondaria li preparava ailavori forzati. D’inverno i bambini spalavano neve, tagliavano alberi e trasportavano carbone per riscaldare la scuola.Per pulire le latrine nel villaggio dove le guardie (i bowiwon) spesso vivevano con mogli e figli, veniva mobilitatol’intero corpo studenti (circa mille persone). Andavano di casa in casa a sminuzzare le feci congelate con le zappe perpoi gettarle a mani nude su delle rastrelliere: non c’erano guanti per i prigionieri del campo. Dopodiché trascinavanogli escrementi nei campi circostanti o se li caricavano sulla schiena. A volte, nei giorni più caldi e felici, dopo lelezioni del pomeriggio andavano a raccogliere cibo ed erbe per le guardie sulle colline e sulle montagne dietro lascuola.

Anche se era contro le regole, spesso si riempivano le divise di osmunda e altre felci, che portavano a casa dalleloro madri perché le cucinassero. Ad aprile raccoglievano funghi prataioli, a ottobre funghi di pino. Durante questelunghe camminate pomeridiane, i bambini potevano chiacchierare tra di loro; la severa segregazione dei sessi siallentava un po’, e maschi e femmine potevano lavorare, ridere e giocare insieme.

Shin iniziò la prima elementare con altri due bambini del suo villaggio: Hong Sung Jo, un maschio, e Moon SungSim, una femmina. Per cinque anni andarono a scuola insieme e sedettero nella stessa classe, e così anche nei cinqueanni che seguirono.

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Per Shin, Hong Sung Jo era l’amico più stretto, quello che tra una lezione e l’altra gli teneva compagnia giocandoal gioco dei cinque sassi. Le loro madri lavoravano nella stessa fattoria, ma nessuno dei due invitava mai l’altro a casasua per giocare; i rapporti di fiducia tra amici erano avvelenati dalla competizione per il cibo e dalla spinta costante altradimento. Nel tentativo di ottenere razioni di cibo extra, i bambini riportavano alle guardie tutto quello chemangiavano, indossavano e dicevano i loro vicini. Anche le punizioni collettive a scuola contribuivano a mettere glistudenti gli uni contro gli altri. Alla classe di Shin veniva spesso assegnata una quota giornaliera di alberi da tagliare odi ghiande da raccogliere; se non riuscivano a soddisfare le aspettative, venivano puniti tutti: dovevano cedere larazione del pranzo (per un giorno o a volte per un’intera settimana) a un’altra classe che, a differenza loro, fosseriuscita a raggiungere la quota. In queste missioni di lavoro Shin di solito era lento, e spesso era l’ultimo.

Una volta cresciuti, le missioni di lavoro (o, come venivano chiamate, gli “sforzi collettivi”) si fecero più lunghe epiù difficili. Durante la “lotta alle erbacce”, che cadeva tra giugno e luglio, gli studenti delle elementari lavoravanodalle quattro del mattino fino al tramonto, strappando erbacce nei campi di mais, di fagioli e di sorgo. Iniziarono lascuola secondaria sapendo a malapena leggere e scrivere, ma a quel punto l’istruzione in classe era da considerarsiormai conclusa, e i maestri si trasformavano in capisquadra. La scuola secondaria non era che un banco di prova per illavoro nelle miniere, nei campi e nelle foreste, nonché, a fine giornata, un luogo di ritrovo per lunghe sessioni diautocritica.

Shin entrò nella sua prima miniera di carbone a dieci anni. Insieme a cinque compagni di classe (in tutto erano trebambini e tre bambine, tra cui Moon Sung Sim) scesero giù per un condotto fino al fronte di scavo. Il loro lavoroconsisteva nel caricare carbone su carrelli da due tonnellate e poi spingerli su per uno stretto binario fino a un’area dismistamento. Per raggiungere la quota giornaliera, dovevano riuscire a portarne in superficie quattro. Solo per i primidue ci voleva tutta la mattina. Dopo un pranzo a base di mais macinato e cavolo salato i bambini, esausti e con i visiricoperti di polvere di carbone, tornavano in quella miniera nera come la pece facendosi luce con delle candele.

Un giorno, spingendo il terzo carrello, Moon Sung Sim perse l’equilibrio e uno dei piedi le scivolò sotto una ruotad’acciaio. Shin, che le stava a fianco, la sentì urlare e cercò subito di aiutarla a togliersi la scarpa; aveva un alluceschiacciato che non smetteva di sanguinare. Un altro studente le legò la stringa di una scarpa intorno alla cavigliacome un laccio emostatico. Aiutato da due compagni, Shin sollevò Moon e la caricò su un carro vuoto. Lo spinserofino all’apertura della miniera e da qui portarono la bambina all’ospedale del campo, dove il dito ferito le fu amputatosenza anestesia e medicato con acqua salata.

Oltre a un carico di lavoro fisico più pesante, gli studenti della scuola secondaria dedicavano più tempo alla criticadi se stessi e degli altri. In preparazione alle sessioni di autocondanna in programma dopo ogni pasto serale,scrivevano appunti sui loro quaderni ricavati dai cartocci delle pannocchie. Ogni sera dieci studenti dovevanoriconoscersi colpevoli di qualcosa. Shin cercava di incontrarsi con i compagni prima delle sessioni per stabilire chiavrebbe confessato cosa, e inventarsi peccati che avrebbero soddisfatto gli insegnanti senza però provocare punizionidraconiane. Ricorda ad esempio di aver confessato il furto di un po’ di mais trovato per terra o di aver fatto unsonnellino in un momento in cui nessuno guardava. Se gli studenti dichiaravano volontariamente un numero sufficientedi trasgressioni, le punizioni si riducevano di solito a uno schiaffo e all’ordine di lavorare più duramente.

Venticinque ragazzi dormivano incuneati uno di fianco all’altro su un pavimento di cemento nel dormitorio dellascuola secondaria. Quelli più forti stavano sdraiati vicino – ma non troppo – a una canna fumaria riscaldata a carboneche correva sotto il pavimento. I più deboli invece, incluso Shin, erano costretti a dormire più lontano, e spessopassavano la notte a battere i denti. Per alcuni poi l’unica soluzione possibile era dormire proprio in corrispondenzadella canna fumaria, rischiando gravi ustioni ogni volta che il riscaldamento si attivava.

Shin ricorda un dodicenne robusto e orgoglioso di nome Ryu Hak Chul, che dormiva sempre dove gli pareva e chefu l’unico tra i ragazzi che ebbe il coraggio di rispondere male a un insegnante.

Un giorno Ryu se ne andò nel bel mezzo di un lavoro, e appena denunciata la scomparsa l’insegnante mandòl’intera classe alla sua ricerca.

«Per quale motivo hai smesso di lavorare e sei corso via?» gli chiese quando ormai l’avevano ritrovato e lo stavanoriportando a scuola.

Con grande sorpresa di Shin, Ryu non si scusò: «Mi è venuta fame e sono andato a mangiare» rispose senzascomporsi.

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L’insegnante rimase di sasso. «Questo figlio di puttana sta forse cercando di rispondermi a tono?» chiesel’insegnante.

Ordinò agli studenti di legarlo a un albero, e loro subito gli tolsero la camicia, presero del fil di ferro eprocedettero.

«Colpitelo fino a quando non ricomincia a ragionare» disse.Senza pensarci due volte, Shin si unì al pestaggio e tutti insieme frustarono Ryu.

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L’ÉLITE

Shin aveva nove anni quando il sistema delle caste nordcoreano lo tramortì con un colpo in piena testa. Laprimavera era iniziata da poco, e insieme a una trentina di compagni stava camminando verso la stazione dei treni, dovel’insegnante li aveva mandati a raccogliere il carbone che era fuoriuscito dai carri durante il carico.

La stazione era vicina al confine sud-occidentale del Campo 14, e per raggiungerla dovevano passare sotto la zonarecintata dove stavano le guardie, arroccata su un promontorio a picco sopra il fiume Taedong. Qui vivevano eandavano a scuola i figli delle guardie, che da quella cima cominciarono a inveire contro Shin e i compagni ad ogniloro passaggio.

«Ma guarda un po’ chi c’è, i reazionari figli di puttana» e giù sassi grandi come pugni che piovevano sulla testa deifigli dei prigionieri, i quali, trovandosi con il fiume da una parte e la scogliera dall’altra, non avevano un posto in cuinascondersi.

Uno dei sassi colpì Shin in pieno volto, appena sotto l’occhio destro, aprendo un taglio profondo. Iniziò a urlare esi rannicchiò sulla strada sterrata in preda al terrore, cercando di proteggersi con le braccia e con le mani, ma unsecondo sasso lo prese proprio in testa, facendolo cadere a terra. Quando le vertigini cessarono, la lapidazione eraterminata.

Come lui, molti altri bambini piangevano e sanguinavano. Moon, la compagna e vicina di casa che in seguitoavrebbe perso l’alluce in miniera, era stata colpita e aveva perso conoscenza. Anche il capoclasse, Hong Joo Hyun, chein teoria avrebbe dovuto essere una sorta di caposquadra per la missione lavorativa del giorno, giaceva a terra svenuto.

All’inizio di quella giornata, a scuola, l’insegnante aveva detto alla classe di avviarsi verso la stazione dei treni e diiniziare a lavorare. Lui li avrebbe raggiunti più tardi. Quando finalmente s’incamminò e lungo la strada trovò i suoistudenti stesi a terra sanguinanti, andò su tutte le furie.

«Cosa diavolo state facendo invece di andare a lavorare??!» sbraitò.Gli studenti chiesero timidamente cosa dovessero fare con i compagni ancora privi di sensi.«Caricateveli sulla schiena e trasportateli» ordinò lui. «C’è solo una cosa che dovete fare: lavorare sodo!».Negli anni a venire, Shin si tenne sempre ben lontano dai figli delle guardie del campo.

I figli delle guardie avevano tutte le ragioni per prendere a sassate quelli come Shin, il cui sangue, in quanto figliodi irrecuperabili peccatori, era macchiato nel peggior modo possibile. Loro, al contrario, provenivano da famiglie lacui stirpe era stata santificata dal Grande Leader.

Per identificare e isolare quelli che percepiva come nemici politici, nel 1957 Kim Il Sung creò una scalagerarchica neofeudale basata sul rispetto di una rigida discendenza genealogica. Il governo classificò, e in buona partesegregò, l’intera popolazione nordcoreana sulla base della presunta affidabilità dei genitori e dei nonni di ogni singoloindividuo. La Corea del Nord si descriveva come il “paradiso dei lavoratori”, ma a dispetto di una millantata lealtà agliideali comunisti di uguaglianza ha creato uno dei più rigidi sistemi di stratificazione gerarchica della società.

Furono create tre ampie classi, con cinquantuno categorie. Ai vertici, i membri della classe privilegiata (il nucleo)potevano ambire a lavori nel governo o nel Partito del Lavoro di Corea, oppure entrare nell’esercito con il grado diufficiale, o ancora nei servizi segreti. Questa classe includeva lavoratori agricoli, familiari di soldati uccisi durante laguerra di Corea, familiari delle truppe che avevano servito sotto Kim Il Sung combattendo contro l’occupazionegiapponese e funzionari del governo.

Il livello successivo era la classe intermedia, o neutrale (i tiepidi), che includeva soldati, tecnici e insegnanti. Infondo c’era la classe degli ostili, i cui membri erano sospettati di opposizione al governo. In questa classe rientravanoproprietari di terre o di immobili, familiari di coreani fuggiti in Corea del Sud, cristiani e tutti coloro che avevanolavorato per il governo coloniale giapponese, che controllava la penisola coreana prima della seconda guerra

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mondiale. I loro discendenti ora lavorano nelle miniere e nelle fabbriche e non hanno diritto di accedere all’università.Oltre a dettare le opportunità di carriera, questo sistema di caste determinava anche il destino geografico dei

cittadini, riservando solo alla classe principale il privilegio di vivere a Pyongyang e dintorni. Molti membri dellaclasse ostile furono trasferiti in province remote vicine al confine con la Cina. I membri della classe intermediapotevano sperare in una piccola scalata sociale arruolandosi nell’Armata Popolare Coreana, distinguendosi per meritidi servizio e riuscendo, con un po’ di fortuna e qualche conoscenza giusta, ad assicurarsi un ruolo minore all’internodel partito al potere. Inoltre, alcuni commercianti della classe vacillante e di quella ostile si arricchirono grazie allarapida crescita dei mercati privati, e grazie ai soldi e alla corruzione raggiunsero standard di vita migliori di alcuniesponenti dell’élite politica11.

Per i ruoli governativi, però, era la storia familiare a decidere di fatto ogni cosa, incluso chi aveva il diritto dilanciare le pietre a Shin. Gli unici nordcoreani considerati abbastanza affidabili da poter diventare guardie nei campiper prigionieri politici erano uomini come An Myeong Chul, figlio di un agente dell’intelligence nordcoreana.

Fu reclutato nella polizia segreta a diciannove anni, dopo due di servizio militare. Parte cruciale del processoprevedeva che venisse accertata la lealtà di tutti i suoi parenti. Gli fu anche richiesto di firmare un documento in cuidichiarava che non avrebbe mai rivelato l’esistenza dei campi di lavoro. Il 60 per cento dei duecento giovani che, comelui, vennero reclutati come guardie, proveniva da famiglie di agenti dell’intelligence.

An lavorò come guardia e come autista in quattro campi diversi (ma non nel Campo 14) per sette anni, tra gli anniottanta e novanta. Fuggì in Cina nel 1994 quando suo padre, responsabile della distribuzione nella regione di derratealimentari, entrò in conflitto con i suoi superiori e si tolse la vita. In un secondo momento riuscì a raggiungere laCorea del Sud, trovò lavoro in una banca di Seoul e sposò una donna sudcoreana. Oggi è padre di due bambini, ed èdiventato un attivista per i diritti umani. Dopo la sua diserzione venne a sapere che il governo nordcoreano avevaimprigionato in un campo la sorella e il fratello, e che quest’ultimo era poi morto.

Ci siamo incontrati nel 2009 in un ristorante cinese a Seoul; An indossava un completo blu scuro, camicia bianca,cravatta a righe e occhiali a mezza montatura. Aveva l’aspetto di una persona distinta e parlava in modo calmo, pesandoogni singola parola, ma la sua fisicità imponente, con mani grandi e spalle larghe, incuteva un certo timore.

Per prepararsi a fare la guardia praticò il taekwondo, imparò le tecniche di repressione delle sommosse e fuistruito a non preoccuparsi se il trattamento inferto ai prigionieri provocasse ferite o persino la morte. Nei campipicchiare chi non soddisfaceva le aspettative produttive diventò ben presto la norma. An ricorda, tra le altre cose, diaver picchiato un prigioniero gobbo.

«I pestaggi erano assolutamente normali» mi disse, spiegando che i suoi istruttori gli avevano insegnato a nonsorridere mai e a pensare ai detenuti come a «cani e maiali. Ci hanno insegnato a non considerarli esseri umani. Gliistruttori ci dicevano di non mostrare pietà. Dicevano: “Se lo fate, diventate voi i prigionieri”».

La pietà era proibita, ma al di là di questo le linee guida da seguire erano ben poche. Questo significava che leguardie erano libere di soddisfare ogni loro appetito ed eccentricità, spesso approfittando delle detenute più giovani eattraenti, che solitamente si concedevano a loro nella speranza di ottenere un trattamento migliore.

«In caso di gravidanza le donne venivano uccise insieme ai loro bimbi» disse An, e aggiunse di aver personalmenteassistito a scene in cui dei neonati furono bastonati a morte con mazze di ferro.

«L’esistenza di quei campi era motivata in teoria da una volontà: eliminare le famiglie dei sovversivi attraverso tregenerazioni. Questo spiega perché è incoerente consentire a una nuova generazione di venire al mondo».

Se le guardie riuscivano a mandare a monte il tentativo di evasione di un prigioniero, potevano esserericompensate con l’ammissione all’università, incentivo su cui i più ambiziosi facevano grande affidamento. An mi haspiegato che lasciavano che i detenuti tentassero la fuga, per poi aprire il fuoco prima che potessero raggiungere lerecinzioni che circondano i campi. Più spesso però l’unica ragione dietro i pestaggi, a volte mortali, era solo la noia oil cattivo umore delle guardie.

Nonostante i carcerieri e i loro figli legittimi appartengano per sangue alla classe principale, rimangono pursempre funzionari confinati per la maggior parte della loro vita lavorativa in quelle gelide campagne “ai confinidell’impero”. La vera élite vive a Pyongyang in grandi appartamenti o ville unifamiliari in quartieri residenziali. Gliosservatori esterni non sanno esattamente quanti siano i membri di questa élite in Corea del Nord, ma si ritiene chesiano ben pochi, con cifre che vanno dai centomila ai duecentomila abitanti su una popolazione complessiva di ventitré

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milioni.Ai membri più fidati e talentuosi, di solito diplomatici o operatori finanziari per società di proprietà dello Stato,

viene periodicamente concesso di lasciare il paese. Nel decennio scorso il governo degli Stati Uniti e le autoritàgiudiziarie di mezzo mondo hanno dimostrato che alcuni di loro erano coinvolti in operazioni illecite volte altrasferimento di denaro contante verso Pyongyang: i reati riconosciuti vanno dalla contraffazione di banconote dacento dollari al cyberterrorismo, dal traffico di sostanze stupefacenti allo spaccio di sigarette di marca contraffatte.Secondo alcuni funzionari dell’ONU questi individui hanno anche venduto missili e tecnologia nucleare a paesi comel’Iran e la Siria, violando di fatto le risoluzioni delle Nazioni Unite.

Uno di loro, con alle spalle molti di questi “viaggi d’affari”, mi ha raccontato come si guadagnasse da vivereassicurandosi al tempo stesso il supporto e l’affetto di Kim Jong Il. Si chiama Kim Kwan Jin, è cresciuto a Pyongyangcome membro dell’élite e ha studiato letteratura inglese all’università intitolata a Kim Il Sung, riservata ai figli degliufficiali di alto grado.

La sua specifica competenza professionale – prima di disertare in Corea del Sud nel 2003 – era il coordinamentodi una truffa assicurativa globale gestita dallo Stato; quest’ultimo incassava centinaia di milioni di dollari da alcunedelle più grandi compagnie di assicurazioni specializzate in risarcimenti per incidenti industriali o disastri naturaliavvenuti all’interno della Corea del Nord, e convogliava la maggior parte dei guadagni verso il Caro Leader. Ogni annoil momento clou di questo intrigo era la settimana che precedeva il compleanno di Kim Jong Il, il 16 febbraio, quandoi dirigenti residenti all’estero della compagnia assicurativa di Stato, che di fatto gestiva la frode, preparavano un“regalo speciale”.

A inizio febbraio 2003, Kim Kwan Jin vide alcuni colleghi del suo ufficio di Singapore intenti a riempire duegrossi borsoni con venti milioni di dollari in contanti per poi inviarli, via Pechino, a Pyongyang. Si trattava di denaroversato dalle compagnie assicurative internazionali, e non fu certo l’unica occasione in cui il Caro Leader ricevette unsimile dono. Kim disse che nei cinque anni trascorsi a Pyongyang nella compagnia assicurativa di Stato, venivanopuntualmente recapitate borse piene di denaro in occasione del compleanno di Kim Jong Il. Arrivavano dalla Svizzera,dalla Francia, dall’Austria o da Singapore.

I soldi, mi disse, venivano consegnati al famigerato Ufficio 39 del comitato centrale del Partito del Lavoro, creatoda Kim Jong Il negli anni settanta per raccogliere denaro contante e garantirsi così una base di potere indipendente dalpadre, all’epoca ancora al comando. Secondo Kim (ma anche secondo decine di altri rifugiati e di rapporti), l’Ufficio39 compra beni di lusso per assicurarsi la lealtà dell’élite nordcoreana e finanzia anche l’acquisto di componenti permissili e altre armi di produzione straniera.

Stando alla spiegazione di Kim, la truffa ai danni delle assicurazioni funzionava così: alcuni dirigenti delmonopolio assicurativo di Stato di base a Pyongyang preparavano polizze che coprivano disastri costosi ma piuttostocomuni in Corea del Nord, come incidenti in miniera, scontri fra treni o perdite dei raccolti dovute alle alluvioni. «Ilfulcro dell’operazione di riassicurazione è che si scommette sul disastro» mi disse. «Ogni incidente si trasformaimmediatamente in una fonte di denaro contante per il governo».

Kim e altri agenti della compagnia di assicurazioni nordcoreana venivano inviati in tutto il mondo per trovarebroker disposti ad accettare lauti premi per assicurare la Corea del Nord contro questi disastri.

La riassicurazione è un settore multimiliardario che distribuisce i rischi assunti da una singola compagnia ad altrein giro per il mondo. Ogni anno, mi ha detto Kim, la Corea del Nord faceva del suo meglio per ridistribuire le sueofferte tra i migliori investitori del settore. «Le facciamo girare. Un anno può essere Lloyd’s of London, quello dopoSwiss Re».

Distribuendo perdite relativamente moderate tra diversi grossi gruppi, la Corea del Nord dissimulava l’effettivaportata del rischio. Il governo preparava richieste di risarcimento molto ben documentate, le faceva approvare in frettae furia dal suo tribunale fantoccio ed esigeva un pagamento immediato. Spesso però impediva alle compagnieriassicurative di inviare periti per verificare le richieste. A detta di un esperto londinese del settore, la Corea del Nordha anche sfruttato l’ignoranza geografica e l’ingenuità politica di alcuni riassicuratori e dei loro broker. Molti eranoconvinti di avere a che fare con una società sudcoreana, mentre altri non avevano la più pallida idea del fatto che laCorea del Nord fosse uno Stato totalitario con tribunali fittizi e senza l’obbligo di rendere conto del proprio operato alivello internazionale.

Con il passare del tempo comunque le compagnie di riassicurazione hanno iniziato a vederci chiaro sui frequenti e

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costosi risarcimenti che coprivano incidenti ferroviari o affondamenti di traghetti su cui era pressoché impossibileindagare. Gli avvocati del gigante tedesco Allianz Global Investors, insieme a quelli dei Lloyd’s di Londra e molti altririassicuratori, intentarono un’azione legale presso un tribunale londinese contro la compagnia di Stato nordcoreana,contestando la richiesta di risarcimento per lo schianto di un elicottero contro un deposito governativo di Pyongyang.Nelle carte processuali le compagnie assicurative sostenevano che l’incidente fosse una messa in scena, che ladecisione del tribunale nordcoreano di ritenere legittima la richiesta facesse parte di una truffa e che la Corea delNord ricorresse spesso a questa strategia fraudolenta al fine di raccogliere soldi per Kim Jong Il.

Le società riassicurative, tuttavia, lasciarono cadere le accuse e accettarono un accordo che rappresentava unavittoria pressoché totale per la Corea del Nord; il motivo, secondo gli analisti legali, era riconducibile al fatto che neicontratti firmati le parti accettavano di sottostare alla legge nordcoreana. Dopo l’accordo, gli avvocati nordcoreaniaffermarono che era «sconvolgente e ingiusto» insinuare che il paese fosse implicato in un’operazione di frodeassicurativa, ma la pubblicità generata dal caso mise sul chi va là gli operatori del settore a livello mondiale, e la frodesi ridimensionò.

Quando aiutò a mandare le borse con i venti milioni in contanti da Singapore a Pyongyang, Kim Kwang Jin midisse che Kim Jong Il ne fu felicissimo. «Ricevemmo una lettera di ringraziamento e non finivamo più di festeggiare»raccontò, sottolineando che Kim Jong Il fece in modo che lui e i suoi colleghi ricevessero in dono arance, mele,lettori dvd e coperte.

Frutta, device elettronici e coperte: questa magra manifestazione di gratitudine dittatoriale è di per sé moltoeloquente. A Pyongyang gli standard di vita della classe agiata sono lussuosi solo secondo i parametri di un paese incui un terzo della popolazione è cronicamente affamata.

Le élite hanno appartamenti relativamente grandi e accesso al riso, nonché la garanzia di essere i primi a metterele mani sui beni di lusso d’importazione, come frutta e liquore. Ma per i residenti di Pyongyang l’elettricità è nelmigliore dei casi disponibile a intermittenza, l’acqua calda è merce rarissima e viaggiare fuori dal paese è difficile ameno di non essere un diplomatico o un uomo d’affari pagato dallo Stato.

«Il tenore di vita di una famiglia appartenente all’élite di Pyongyang non è neanche lontanamente comparabile – intermini di beni materiali, comfort e altri generi di intrattenimento – a quello di una famiglia media di Seoul» mi haspiegato Andrei Lankov, analista politico di origini russe che ha frequentato il college a Pyongyang e che ora insegnaalla Kookmin University di Seoul.

Il reddito medio pro capite della Corea del Sud è quindici volte più alto di quello del Nord (1900 dollari nel2009). Tra i paesi con un reddito pro capite più alto della Corea del Nord ci sono il Sudan, il Congo e il Laos.

L’eccezione, ovviamente, è la dinastia dei Kim. Le immagini satellitari delle sfarzose residenze di famiglia sonoun vero pugno allo stomaco in mezzo alla totale desolazione in cui sorgono. Secondo un ex cuoco e un’ex guardia delcorpo, esistono almeno otto ville di campagna, quasi tutte dotate di cinema, campi da basket e poligoni di tiro. Moltehanno piscine coperte e centri sportivi con piste da bowling e di pattinaggio. Le foto del satellite mostrano anche unapista per le corse dei cavalli, una stazione ferroviaria privata e un parco acquatico.

Vicino alla casa di famiglia a Wonsan, che sorge su una penisola con spiagge di sabbia bianca e che sembra essereuna delle residenze preferite, è stato fotografato uno yacht privato con tanto di piscina di cinquanta metri e duescivoli. L’ex guardia del corpo mi ha detto che Kim Jong Il vi si recava spesso per cacciare caprioli, fagiani e ocheselvatiche. Tutte le sue case sono state arredate con mobili importati dal Giappone e dall’Europa. Gli allevamenti difamiglia sono gestiti da guardie del corpo in una fattoria apposita, e le loro mele provengono da un frutteto biologicoin cui lo zucchero, un bene raro e costoso in Corea del Nord, viene aggiunto al terreno per far sì che la frutta risultipiù dolce12.

All’interno della famiglia Kim i privilegi di sangue sono straordinariamente forti. Kim Jong Il ha ereditato ilcontrollo sulla Corea del Nord dal padre nel 1994: si tratta della prima successione ereditaria all’interno del mondocomunista. La seconda è avvenuta nel dicembre del 2011, dopo la morte di Kim a sessantanove anni. Il figlio minore,Kim Jong Un, è stato prontamente salutato come il leader supremo del partito, dello Stato e dell’esercito. Nonostantefosse poco chiaro se lui o i suoi parenti più anziani avrebbero esercitato un potere reale, i propagandisti hannolavorato giorno e notte per fabbricare un nuovo culto della personalità. Kim Jong Un è stato descritto nel giornale dipartito, “Rodong Sinmun”, come «pilastro spirituale e faro della speranza» per l’esercito e per il popolo.

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L’agenzia di stampa di Stato ha parlato del nuovo leader come di un «intellettuale e un illustre comandante senzaeguali» che avrebbe costituito una «solida base per la prosperità del paese». A parte possedere il “sangue giusto”, lealtre qualifiche del giovane in realtà lasciano parecchio a desiderare. Ha frequentato una scuola di lingua tedesca aLiebefeld, Svizzera, dove faceva il playmaker nella squadra di basket e dove passava ore a fare disegni a matita del suoidolo, Michael Jordan13. A diciassette anni è tornato a Pyongyang per frequentare l’università intitolata a suo nonno, enon si sa quasi niente di cosa abbia studiato lì.

I preparativi per un secondo passaggio di potere da padre a figlio diventarono palesi a Pyongyang poco dopo cheKim Jong Il fu colpito da un ictus nel 2008, evento che lasciò il Caro Leader visibilmente zoppicante e segnò l’uscitadi Kim Jong Un dall’oscurità. Nel 2009, a Pyongyang, in occasioni di alcune lezioni rivolte a un pubblico selezionato,Kim Jong Un fu descritto come un «genio delle arti letterarie» e un patriota che «lavora senza mai concedersi sonno oriposo» per promuovere la Corea del Nord come superpotenza nucleare. Nelle basi militari fu divulgata una canzone dipropaganda, Impronte, per preparare i contingenti all’arrivo di un dinamico Giovane Generale. E in effetti, essendonato nel 1983 o nel 1984, giovane lo era davvero.

Alla festa per il suo debutto in società nel settembre del 2010 il volto del Giovane Generale fu ufficialmentemostrato al mondo per la prima volta: uguale identico al suo defunto nonno, che era sempre stato più amato di KimJong Il. Quella straordinaria somiglianza, ora che Kim Jong Un iniziava a muovere i primi passi per consolidare ilproprio potere dopo la morte del padre, sembrava orchestrata. I vestiti e il taglio di capelli – divise maoiste e un tagliocorto militare rasato ai lati – erano gli stessi del nonno quando prese il comando della Corea del Nord nel 1945.Correva voce in Corea del Sud che la somiglianza fosse stata addirittura “aiutata” da alcuni interventi di chirurgiaplastica volti a trasformare il giovane in una specie di Grande Leader II.

Se il nuovo dittatore vorrà assicurarsi la stessa presa d’acciaio sul paese del padre e del nonno, avrà bisognodell’appoggio dell’opinione pubblica, oltre che del massiccio sostegno dell’esercito. Pur non essendo mai stato moltopopolare, Kim Jong Il aveva avuto circa vent’anni per imparare a dominare chi gli stava intorno. Aveva scelto con curamolti dei generali al comando, e di fatto, nel 1994, alla morte del padre, già guidava il paese. Non ancora trentenne econ meno di tre anni per imparare a controllare la stanza dei bottoni, Kim Jong Un non ha avuto questa possibilità.

11 Interviste dell’autore con rifugiati tra il 2007 e il 2010. Il sistema è anche ben descritto da Andrei Lankov in North of the DMZ,McFarland & Company, Jefferson 2007, pp. 67-69, e da Hassig e Oh in The Hidden People of North Korea, cit., pp. 198-199.

12 Dettagli della vita di Kim Jong Il raccolti da Hassig e Oh, The Hidden People of North Corea, cit., pp. 27-35. Si vedano anche leimmagini di Google Earth commentate da Curtis Melvin sul suo blog, North Korean Economy Watch, all’indirizzohttp://tinyurl.com/oj4lgxu.

13 Andrew Higgins, Who Will Succeed Kim Jong Il, in “Washington Post”, 16 luglio 2009.

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LA MADRE TENTA LA FUGA

Shin era nel dormitorio della scuola e si stava mettendo le scarpe quando si trovò di fronte il suo insegnante. Era il6 aprile 1996, un sabato mattina.

«Esci così come sei» gli ordinò.Disorientato da quella improvvisa convocazione, Shin si precipitò in cortile, dove trovò ad attenderlo tre uomini in

divisa di fianco a una jeep. Lo ammanettarono, lo bendarono con una striscia di stoffa nera, lo spinsero sul sedileposteriore del veicolo e partirono senza dire una parola. Non poteva immaginare dove lo stessero portando né perché,ma dopo mezz’ora di sobbalzi sul retro iniziò a tremare di paura.

Quando la jeep si fermò, lo fecero uscire sollevandolo di peso e lo misero in piedi. Sentì il clangore di unapesante porta di metallo che si apriva e si richiudeva, poi come un rumore di ingranaggi. Le guardie lo spinsero dentroun ascensore, e qui si rese conto che stava scendendo: era entrato in una prigione sotterranea all’interno del campo.

Una volta uscito dall’ascensore gli fecero percorrere un lungo corridoio che si apriva su una stanza vuota e senzafinestre, dove le guardie gli tolsero la benda dagli occhi. Appena li aprì, vide di fronte a sé un ufficiale dell’esercitocon quattro stellette appuntate sull’uniforme. L’ufficiale si mise a sedere dietro una scrivania; in piedi, al suo fianco,altre due guardie in divisa cachi. Gli ordinarono di sedersi.

«Sei Shin In Geun?» chiese l’ufficiale.«Sì» rispose Shin.«Tuo padre si chiama Shin Gyung Sub?».«Sì».«Tuo fratello si chiama Shin He Geun?».«Sì».L’ufficiale lo guardò fisso per circa cinque minuti. Shin non riusciva a immaginare quale piega avrebbe preso

l’interrogatorio.«Sai perché sei qui?» gli domandò infine.«No, non lo so».«Vuoi che te lo dica io?».Shin fece di sì con la testa.«Stamattina all’alba tua madre e tuo fratello sono stati sorpresi mentre cercavano di scappare. È per questo che sei

qui. Capisci? Eri a conoscenza di questo fatto?».«Io… io non lo sapevo…». Era talmente sconvolto dalla notizia che faceva fatica a parlare. Non riusciva a dire con

certezza se fosse sveglio o se stesse sognando. L’ufficiale era sempre più arrabbiato e sospettoso.«Com’è possibile che tu non sappia che tua madre e tuo fratello hanno provato a evadere?» gli chiese. «Se ci tieni

alla tua vita ti conviene sputare il rospo».«No, davvero… non ne so niente» disse Shin.«E tuo padre non te ne ha parlato?».«È da tanto che non torno a casa» rispose. «Quando un mese fa sono andato in visita non ho sentito nulla».«Si può sapere quale rancore ha spinto la tua famiglia a tentare la fuga?» chiese l’ufficiale.«Davvero… non ne so nulla».

Questa era la storia che Shin aveva iniziato a raccontare dopo il suo arrivo in Corea del Sud, alla fine dell’estatedel 2006. La raccontava con coerenza, la raccontava spesso e la raccontava bene. A Seoul i suoi primi approfonditiinterrogatori furono condotti da agenti del National Intelligence Service (NIS) del governo, professionisti di grandeesperienza che facevano colloqui dettagliati con ogni rifugiato nordcoreano e che erano stati addestrati a smascherare

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gli assassini inviati periodicamente al Sud dal governo di Kim Jong Il.Dopo il NIS, Shin raccontò la sua storia agli psicoterapeuti e agli psichiatri di un centro governativo per il

reinserimento, poi ad attivisti per i diritti umani e ad altri rifugiati, e infine agli organi di stampa locali einternazionali. La incluse nella sua autobiografia in lingua coreana e la raccontò anche a me la prima volta che ciincontrammo, nel dicembre del 2008. Nove mesi più tardi, quando a Seoul iniziammo una settimana di interviste cheduravano anche un giorno intero, la arricchì di ulteriori dettagli.

Ovviamente non c’era modo di confermare la sua versione, dal momento che era lui l’unica fonte di informazionedisponibile sulla sua vita di quegli anni. La madre e il fratello erano morti, e il padre, ammesso che fosse vivo, eraancora nel campo. Di certo non ci si poteva aspettare che fosse il governo nordcoreano ad aiutare a far chiarezza, vistoche del Campo 14 nega persino l’esistenza. Eppure era stata confermata dai sopravvissuti di altri campi di lavoro, dagliesperti, dagli attivisti per i diritti umani e dal governo sudcoreano, e a tutti era sembrata verosimile. Io per primo ciavevo creduto e l’avevo riportata tale e quale nel pezzo che avevo pubblicato sul “Washington Post”. Avevo scritto chedal momento che la madre non gli aveva mai parlato di un piano di fuga, Shin «fu molto sorpreso quando ne appresel’esistenza».

Ma a Torrance, in California, in un mattino senza nuvole, Shin corresse la sua storia. Lavoravamo a intermittenza allibro da circa un anno, e avevamo passato la settimana precedente seduti l’uno di fronte all’altro nella mia stanzasemibuia di un hotel Best Western, ripercorrendo uno per uno tutti gli eventi della prima parte della sua vita.

Il giorno prima di questa sessione Shin aveva annunciato di avere qualcosa di nuovo e importante da rivelare. Volleun nuovo interprete, e invitò anche Hannah Song, il suo capo di allora, nonché di fatto la sua tutrice. Song è presidentee amministratore delegato di LiNK, l’associazione per la difesa dei diritti umani che aveva contribuito a portarlo negliStati Uniti. Ventinove anni, coreana americana, lo aiutava a gestire soldi, visti, viaggi, assistenza sanitaria e diversi altriaspetti della vita quotidiana, e diceva scherzosamente che era un po’ come essere sua mamma.

Shin si tolse i sandali e si rannicchiò a piedi nudi sul divano dell’hotel, mentre io preparavo il registratore. Inlontananza, abbastanza attutito, si sentiva il rumore del traffico di Torrance Boulevard. Shin giocherellava con i tastidel suo telefono cellulare.

«E allora? Cosa succede?» gli chiesi. Fu a quel punto che confessò di aver mentito sulla fuga della madre. Avevainventato questa bugia subito prima di entrare in Corea del Sud.

«C’erano molte cose che sentivo il bisogno di nascondere» mi disse. «Avevo paura di scatenare una reazionenegativa nei miei confronti, di sentirmi chiedere “Ma come è possibile che un essere umano commetta similiatrocità?”. È stato un peso tenermi tutto dentro. All’inizio non m’importava un gran che di aver mentito, perché eraesattamente quello che volevo fare. Ora le persone che ho intorno mi fanno desiderare di essere una persona corretta.Ora sento di dover dire la verità. Ora ho amici onesti, e ho iniziato a capire cosa sia l’onestà. E provo un enorme sensodi colpa per tutto. Ero più fedele alle guardie che alla mia famiglia; eravamo le spie gli uni degli altri. So che seracconterò la verità la gente mi guarderà con disprezzo. Chi non c’è mai stato non può capire le dinamiche che sisviluppano dentro un campo di prigionia. La violenza non arriva soltanto dai soldati: sono i prigionieri stessi a nonconoscere nessun tipo di pietà reciproca. Non c’è alcun senso di comunità. E io sono uno di quei meschiniprigionieri».

Shin disse che non si aspettava di essere perdonato per quello che stava per rivelare: lui per primo non era statocapace di perdonarsi. Sembrava che stesse cercando di fare qualcosa di più che espiare una colpa: voleva spiegare, purrischiando di danneggiare la sua credibilità di testimone, come il campo gli avesse distorto il carattere. E aggiunse chese gli altri fossero riusciti a comprendere quello che i campi per i prigionieri politici hanno fatto – e stanno ancorafacendo – ai bambini nati all’interno di quella recinzione… ecco, allora la sua menzogna e la sua stessa vita avrebberopotuto trovare un riscatto.

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LA MADRE TENTA LA FUGA (VERSIONE 2)

Questa storia inizia il giorno prima rispetto a quel sabato: precisamente il pomeriggio di venerdi 5 aprile 1996. Lagiornata di scuola era quasi terminata quando l’insegnante di Shin gli fece una sorpresa: gli disse che non avrebbedovuto passare la notte nel dormitorio e che aveva il permesso di tornare a casa e cenare con sua madre. Era unaricompensa per buona condotta. Dopo due anni nel dormitorio Shin aveva iniziato a capire come funzionavano le cose:raramente si mostrava indolente, raramente veniva picchiato, e sempre più spesso faceva la spia.

Non aveva molta voglia di passare la notte a casa della madre, comunque. Vivere lontani non aveva affattomigliorato il loro rapporto: Shin continuava a pensare che lei non si sarebbe mai presa cura di lui, e lei continuava asembrare a disagio in sua presenza.

Ma l’insegnante gli disse di andare a casa, e Shin non poté che ubbidire.Se il permesso premio era già di per sé del tutto inaspettato, al suo arrivo trovò una sorpresa ancora più grande:

era tornato anche il fratello, He Geun. Lavorava alla fabbrica di cemento all’estremità sudorientale del campo, adiverse miglia di distanza. Shin lo conosceva appena e non lo vedeva quasi mai. Era fuori casa da una decina d’anni, eora ne aveva ventuno.

Tutto quello che sapeva di lui era che non poteva certo definirsi un gran lavoratore, visto che solo di rado gli erastato concesso il permesso di lasciare la fabbrica per vedere i genitori. Trovarlo lì gli fece pensare che avessefinalmente combinato qualcosa di buono. La madre non sembrò particolarmente felice di accogliere il figlio arrivato asorpresa: non gli diede il benvenuto né gli disse che aveva sentito la sua mancanza. «Ah, sei a casa» fu il suo unicocommento.

Poi si mise a cucinare usando la sua razione quotidiana di settecento grammi di farina per preparare il solitopasticcio di mais nell’unica pentola in suo possesso. Armati di ciotole e cucchiai, consumarono il loro pasto sulpavimento, poi Shin andò in camera a dormire.

Fu svegliato dalle voci che provenivano dalla cucina. Sbirciò dalla porta socchiusa della sua stanza per capire cosastessero combinando la madre e il fratello, e la vide intenta a cucinare del riso. Per Shin fu uno schiaffo in pienovolto: a lui aveva servito la solita zuppa di mais annacquata, la stessa brodaglia che aveva mangiato ogni singolo giornodella sua vita, e ora a suo fratello stava offrendo del riso.

È difficile rendere a parole l’importanza che questo alimento riveste nella cultura nordcoreana. È un simbolo diricchezza, evoca il calore della famiglia e consacra ogni pasto che sia degno di questo nome. I prigionieri dei campi dilavoro non lo mangiano praticamente mai, e la sua assenza è un richiamo costante alla normalità che non possonoavere.

Anche al di fuori del campo la cronica difficoltà di reperimento lo ha eliminato dalla dieta quotidiana di moltinordcoreani, specialmente gli “ostili”.

I rifugiati adolescenti approdati in Corea del Sud raccontano agli psicoterapeuti del governo che un loro sognoricorrente è stare seduti intorno a un tavolo con le proprie famiglie a mangiare riso caldo. Tra l’élite di Pyongyang,infatti, uno degli status symbol più ambiti è un cuociriso elettrico.

Mentre osservava la madre che cucinava, Shin immaginò che lo avesse rubato, un chicco alla volta, nella fattoria incui lavorava, per poi nasconderlo in casa.

Fumante di rabbia, continuò ad ascoltare. Era soprattutto il fratello a parlare. Shin venne così a sapere che a HeGeun non era stata concessa una giornata libera: era stato lui ad andarsene senza permesso dalla fabbrica, dove conogni probabilità aveva combinato qualcosa di sbagliato. Capì che il fratello era nei guai e che probabilmente sarebbestato punito non appena le guardie lo avessero scovato. I due stavano confabulando su cosa fosse meglio fare.

Fuggire.La parola lo lasciò sconvolto. Fu il fratello a pronunciarla: stava progettando di evadere e la madre lo stava

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aiutando. La sua preziosa provvista di riso era il sostentamento necessario per il viaggio. La madre non disse mai cheaveva intenzione di seguirlo, ma non cercava nemmeno di convincerlo a restare nonostante sapesse che se fossefuggito, o fosse morto nel tentativo, lei e gli altri membri della famiglia sarebbero stati torturati e probabilmenteuccisi. Tutti i prigionieri conoscevano la prima regola del Campo 14, comma 2: «Ogni testimone che non denunci untentativo di fuga sarà ucciso all’istante».

A giudicare dal tono della voce, la madre non sembrava allarmata. Shin invece lo era eccome, e il cuore gli battevaall’impazzata. Gli faceva rabbia il pensiero che lei mettesse a rischio la sua vita per proteggere il fratello maggiore:aveva paura di essere implicato nella fuga, e quindi fucilato, ed era anche geloso al pensiero che suo fratello stesse permangiare del riso.

Disteso su quel pavimento nella stanza da letto della madre c’era un tredicenne ferito e confuso che riusciva astento a controllare la paura. Alla fine i suoi istinti di prigioniero del campo presero il sopravvento: doveva dirlo a unaguardia. Balzò in piedi, attraversò la cucina e si precipitò fuori dalla porta.

«Dove stai andando?» chiese la madre.«In bagno» rispose lui.Shin tornò di corsa a scuola. Quando entrò nel dormitorio era l’una di notte e il suo insegnante ormai era a casa,

nel villaggio recintato dei bowiwon. A chi poteva dirlo?Nello stanzone affollato in cui dormivano i suoi compagni, trovò il suo amico Hong Sung Jo e lo svegliò. Per

quanto gli fosse possibile fidarsi di qualcuno, Shin si fidava di lui. Gli raccontò cosa stavano architettando la madre eil fratello e chiese consiglio.

Hong gli suggerì di andare dal guardiano notturno della scuola, così si incamminarono insieme verso il suoufficio, nell’edificio principale. Nel frattempo Shin studiava il modo di guadagnare qualcosa dall’informazione chestava per rivelare.

Il guardiano, sveglio e in divisa, li fece entrare.«Devo parlarle di una cosa» disse Shin all’uomo, mai visto prima. «Ma prima di farlo, voglio essere sicuro di

ottenere qualcosa in cambio».Lui l’assicurò che l’avrebbe aiutato.«Voglio che mi sia garantito più cibo».La seconda richiesta fu di essere nominato capoclasse, un ruolo che gli avrebbe consentito di lavorare e di essere

picchiato di meno. Anche in questo caso il guardiano gli assicurò che le sue richieste sarebbero state accolte, efidandosi della sua parola Shin spiegò cosa stavano pianificando la madre e il fratello e dove si trovavano. Il guardianotelefonò ai suoi superiori e disse ai due ragazzi di tornare a dormire: avrebbe pensato a tutto lui.

Il mattino successivo al tradimento di sua madre e suo fratello, alcuni uomini in divisa vennero davvero a prelevareShin nel cortile della scuola. Proprio come scrisse nella sua autobiografia, proprio come raccontò a tutti in Corea delSud, fu ammanettato, bendato, gettato sul sedile posteriore di una jeep e portato, senza una parola, in una prigionesotterranea all’interno del campo. Ma Shin sapeva perfettamente perché era stato convocato, e si aspettava che tutte leguardie del Campo 14 fossero consapevoli del fatto che la soffiata arrivava da lui.

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QUESTO FIGLIO DI PUTTANA VA PUNITO

«Sai perché sei qui?».Shin sapeva cosa aveva fatto: aveva seguito le regole del campo e aveva sventato un tentativo di fuga. L’ufficiale

invece ignorava di trovarsi di fronte a un diligente informatore, o forse, molto più semplicemente, non glieneimportava niente.

«Stamattina all’alba tua madre e tuo fratello sono stati sorpresi mentre cercavano di scappare. È per questo che seiqui. Capisci? Lo sapevi o no? Com’è possibile che tu non sapessi che hanno provato a evadere? Se ci tieni alla tua vitati conviene sputare il rospo».

Shin era talmente confuso e terrorizzato che le parole gli si strozzavano in gola. Era un informatore… perché lostavano interrogando come se fosse un complice?

Più tardi venne a sapere che il guardiano notturno si era preso tutto il merito per aver scoperto il piano dievasione, e che nel denunciarlo ai superiori non aveva mai fatto accenno al suo ruolo. Ma quella mattina, nellaprigione sotterranea, non riusciva a capirci nulla: era solo un ragazzino di tredici anni completamente smarrito.

Per quanto insistessero nel chiedergli spiegazioni sul tentativo di fuga della sua famiglia, lui non riusciva a dirnulla che avesse un senso.

Alla fine, l’ufficiale fece scivolare un documento sul tavolo: «Se le cose stanno così, bastardo, leggi questo emetti l’impronta del pollice lì in fondo».

Era la fedina penale di famiglia, con nomi, età e crimini del padre di Shin e dei suoi undici fratelli. Il maggiore,Shin Tae Sub, era il primo della lista. Di fianco al nome compariva una data: 1951, il secondo anno della guerra diCorea. Di seguito, i crimini che aveva commesso: disturbo della quiete pubblica, atti di violenza e diserzione in Coreadel Sud. Gli stessi reati si leggevano di fianco al nome del suo secondo zio.

Solo molti mesi dopo Shin si rese davvero conto di ciò che gli era stato concesso di vedere: i documentispiegavano perché la famiglia del padre fosse stata rinchiusa nel Campo 14. Il “crimine imperdonabile” che il padre diShin aveva commesso era essere il fratello di due giovani uomini fuggiti al Sud durante una guerra fratricida che avevaraso al suolo gran parte della penisola coreana e separato centinaia di migliaia di famiglie. Il “crimine imperdonabile”di Shin era essere figlio di suo padre, che peraltro di tutto questo non gli aveva mai spiegato nulla.

Solo più avanti gli avrebbe raccontato di quel giorno del 1965 in cui le forze dell’ordine erano andate a prelevarloinsieme a tutta la famiglia. Avevano fatto irruzione prima dell’alba nella casa del nonno nella contea di Mundok,provincia del Sud Pyongan, una fertile area agricola a circa sessanta chilometri a nord di Pyongyang. «Prendete levostre cose» avevano urlato gli uomini armati, senza spiegare perché li stessero arrestando né dove li avrebberoportati. Con le prime luci del mattino era arrivato un autocarro per raccogliere i loro effetti personali, e dopo unviaggio di un giorno intero (una settantina di chilometri su strade di montagna) la famiglia era arrivata al Campo 14.

Come gli era stato ordinato, Shin lasciò l’impronta digitale del pollice sul documento, dopodiché le guardie lobendarono di nuovo, lo portarono fuori dalla stanza degli interrogatori e lo fecero marciare lungo un corridoio.Quando gli tolsero la benda, lesse il numero 7 su una porta. Lo spinsero dentro e gli lanciarono un’uniforme dacarcerato.

«Mettiti questa, figlio di puttana».Era di molte taglie più grande, e sul suo esile corpo ossuto sembrava un sacco di juta.La cella era un quadrato di cemento in cui riusciva a malapena a mettersi sdraiato. Nell’angolo c’erano un

gabinetto e un rubinetto con acqua corrente. Sul pavimento due coperte sottili. Dal soffitto pendeva una lampadina; latrovò accesa quando entrò nella stanza e non fu possibile spegnerla. Non gli portarono niente da mangiare, e nonriusciva a prendere sonno.

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Dopo alcune ore, forse tutta la notte, le guardie aprirono la porta, lo bendarono e lo portarono in una secondastanza per gli interrogatori, dove lo aspettavano altri due ufficiali.

Gli ordinarono di inginocchiarsi e lo misero sotto torchio per costringerlo a spiegare perché la sua famigliavolesse scappare. Quali rancori nutriva sua madre? Di cosa aveva discusso con lei? Quali erano le intenzioni delfratello?

Ma lui continuava a non saper rispondere alle loro domande.«Non sei che un ragazzo» gli disse una delle guardie. «Se confessi puoi tornare là fuori e andare avanti con la tua

vita. Preferisci morire qui dentro?».«Io… davvero, non so nulla».Il terrore cresceva ad ogni istante, e così la fame e lo sconcerto. Possibile che non sapessero che era stato lui a

rivelare tutto?Durante quella che sembrava la mattina del terzo giorno, la porta si aprì di nuovo ed entrarono tre guardie insieme

a uno degli addetti agli interrogatori. Gli misero i ceppi alle caviglie, legarono una corda a un gancio sul soffitto e loappesero a testa in giù. Poi uscirono e chiusero a chiave la porta. Il tutto senza dire neanche una parola.

I piedi toccavano quasi il soffitto, la testa era sospesa a circa sessanta centimetri dal pavimento. Se allungava lebraccia, che le guardie avevano lasciato libere di muoversi, non arrivava a toccare per terra. Si dimenava e si dondolavaper cercare di raddrizzarsi, ma senza riuscirci. Presto si ritrovò con i crampi al collo e le caviglie doloranti, e alla fineperse completamente la sensibilità alle gambe. La testa, irrorata di sangue, faceva male ogni ora di più.

Le guardie non tornarono fino a sera, quando finalmente slegarono il ragazzo e di nuovo se ne andarono senzafiatare. Gli portarono del cibo, ma mangiare era praticamente impossibile, visto che non riusciva neanche a muoverele dita. Le caviglie, scarnificate dalle estremità metalliche dei ceppi, non smettevano di sanguinare.

Il quarto giorno gli aguzzini non indossavano più divise ma abiti civili. Dopo essere stato bendato e portato fuoridalla cella, Shin li incontrò in una stanza del tutto simile a un’officina meccanica, con soffitti alti e luci soffuse. Da unpiccolo argano sul soffitto scendeva una catena. Sulle pareti, dei ganci reggevano un martello, un’ascia, delle pinze emazze di varie forme e dimensioni. Appoggiate su un grande tavolo da lavoro vide un paio di grosse tenaglie, di quelleusate normalmente per afferrare e trasportare pezzi di metallo bollente.

«Come ci si sente ad essere in questa stanza?» gli chiesero.Non riuscì a rispondere.«Te lo chiedo un’ultima volta» disse l’interrogatore capo. «Cosa avevano intenzione di fare tuo padre, tua madre e

tuo fratello, dopo la fuga?».«Non lo so… veramente».«Se dici la verità adesso, ti salvo. Altrimenti ti uccido. Chiaro?».Shin ricorda un senso di confusione paralizzante.«Finora ci sono andato piano con te perché sei solo un moccioso» continuò l’uomo. «Ma non mettere alla prova la

mia pazienza».Di nuovo non fu in grado di dire nulla.«Ora basta… questo figlio di puttana va punito».Gli assistenti lo circondarono e gli tolsero i vestiti. Gli strinsero i ceppi intorno alle caviglie e li fissarono alla

catena appesa sul soffitto. L’argano si mise in moto sollevandolo da terra, e la testa colpì il pavimento con un rumoresordo. Le mani gli vennero legate insieme con una corda fatta passare all’interno di un gancio sul soffitto. Alla fine ilsuo corpo formava una U, il volto e i piedi verso l’alto, la schiena nuda verso il pavimento.

La guardia che conduceva l’interrogatorio continuava a urlare domande, ma Shin ricorda di non essere riuscito adare nessuna risposta coerente. A un certo punto l’uomo disse a uno dei suoi di andare a prendere qualcosa.

Trascinarono sotto di lui una tinozza piena di carboni ardenti, che una guardia si premurava di tenere attizzati conun soffietto.

L’argano calò Shin sulle fiamme.«Tenetelo lì fino a quando si decide a parlare» disse il capo.Shin, folle di dolore, sentiva l’odore della sua stessa carne bruciare e si contorceva nel tentativo di allontanarsi dal

calore. Una delle guardie afferrò un arpione dalla parete e gli perforò il basso ventre, tenendolo fermo così sul fuoco

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fino a quando non perse conoscenza.

Si svegliò nella sua cella. Era stato rivestito con la sua divisa fuori misura, ormai sporca di escrementi e urina.Non aveva idea di quanto tempo fosse rimasto privo di sensi sul pavimento. Aveva la parte bassa della schiena piena dibolle e ricoperta di secrezioni appiccicose, e la pelle intorno alle caviglie completamente scorticata.

Per i primi due giorni riuscì a trascinarsi per la cella e a mangiare le pannocchie cotte al vapore, il pasticcio dimais e la zuppa di cavolo che gli venivano portati. Poi le ustioni si infettarono e iniziò ad avere la febbre, persel’appetito e non fu praticamente più in grado di muoversi.

«Quel nanerottolo è davvero tosto» gridò una delle guardie nel corridoio della prigione alla vista del ragazzorannicchiato sul pavimento.

Prima dell’ultimo interrogatorio passarono circa dieci giorni. Si svolse direttamente in cella, perché Shin eratroppo debole anche solo per alzarsi da terra. Ma non aveva più paura: per la prima volta aveva trovato le parole perdifendersi.

«Sono stato io a denunciare il fatto» disse. «Ho solo fatto il mio dovere».Anche in questo caso non gli credettero, ma invece di minacciarlo e torturarlo gli fecero altre domande. Lui

spiegò tutto quello che aveva sentito a casa della madre e quello che aveva detto al guardiano notturno a scuola. Glidisse di parlare con Hong Sung Jo, il compagno di classe che avrebbe potuto confermare la sua versione dei fatti.Senza promettere nulla, lasciarono la stanza. La febbre peggiorò, le bolle sulla schiena si gonfiarono di pus e nella suacella la puzza era tale che le guardie si rifiutavano di entrarci.

Dopo un po’ di giorni – anche se gli è difficile stabilire con esattezza quanti, visto che entrava e usciva da statisemincoscienti di delirio – si aprì la porta ed entrarono due prigionieri. Lo sollevarono di peso e lo portarono inun’altra cella in fondo al corridoio, lo adagiarono a terra e se ne andarono.

In questa nuova cella c’era un altro prigioniero.Shin aveva ottenuto una sospensione della pena: Hong aveva confermato la sua versione. Non avrebbe mai più

rivisto il guardiano notturno della scuola.

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IL SOLE SPLENDE ANCHE SOTTOTERRA

Per gli standard del Campo 14, il suo nuovo compagno di cella, che dimostrava una cinquantina d’anni, eradecisamente avanti con l’età. Si rifiutò di spiegargli perché fosse rinchiuso in quella prigione sotterranea, ma gli disseche era lì da molti anni e che gli mancava terribilmente il sole. La pelle pallida e coriacea gli cadeva flaccida su uncorpo che sembrava fatto solo di ossa. Si chiamava Kim Jin Myung, ma chiese di essere chiamato “Zio”.

Per molte settimane Shin non fu in grado di dire praticamente nulla. La febbre lo teneva piegato in due sulpavimento, e si aspettava di morire da un momento all’altro. Non riuscendo a mangiare invitò il compagno di cella aprendere il suo cibo. Lo Zio accettò, ma solo per un po’, fino a quando al ragazzo non tornò l’appetito.

Nel frattempo assunse per lui il ruolo di infermiere a tempo pieno, trasformando i tre pasti quotidiani in veri epropri trattamenti medici. Iniziava sfregandogli un cucchiaio sulle vesciche infette. «Sono piene di pus» gli diceva.«Ora te lo gratto via. Stringi i denti». Poi gli spalmava la zuppa di cavolo salata sulle ferite come disinfettante, e glimassaggiava le braccia e le gambe perché i muscoli non si atrofizzassero. Per evitare che l’urina e le feci entrassero incontatto con le lesioni, gli avvicinava il vaso da notte e lo sollevava per permettergli di usarlo.

Da quel poco che ricorda, queste cure intensive andarono avanti per circa due mesi. A giudicare dalla competenzae dalla calma con cui procedeva, aveva la sensazione che lo Zio avesse già fatto qualcosa di simile in passato.

Di tanto in tanto sentivano le urla e i lamenti di qualche prigioniero che veniva torturato: la stanza con l’argano e lemazze sembrava essere proprio in fondo al corridoio. Le regole della prigione proibivano ai detenuti di parlare traloro, ma in quella stanza, grande appena da permettere ai due di stare sdraiati uno di fianco all’altro, potevanosussurrare. Solo più tardi Shin scoprì che i carcerieri erano a conoscenza di queste conversazioni.

Aveva l’impressione che le guardie trattassero lo Zio con un occhio di riguardo. Gli tagliavano i capelli e gliprestavano le forbici per accorciarsi la barba; gli portavano tazze piene d’acqua; gli dicevano l’ora del giorno ogni voltache la chiedeva; gli portavano cibo extra, gran parte del quale condivideva con Shin.

«Ragazzo, tu hai ancora molti giorni da vivere» gli diceva. «Ricorda, il sole splende anche sottoterra». Furonoquelle cure e quelle parole compassionevoli a tenerlo in vita. La febbre se ne andò, la mente tornò lucida, le ustionidivennero cicatrici.

Era la prima volta in vita sua che si trovava a contatto con così tanta gentilezza prolungata, e non aveva nemmeno leparole per esprimere la gratitudine che provava. Ma al tempo stesso ne era confuso: non si era mai fidato nemmenodella madre e della sua capacità di occuparsi di lui. A scuola, poi, aveva sempre diffidato di tutti – eccezion fatta soloper Hong Sung Jo – e lui stesso era il primo a fare la spia. In cambio non si aspettava altro che altrettanti abusi etradimenti. In quella cella, però, fu costretto a ricredersi.

Il vecchio diceva di sentirsi solo, e sembrava sinceramente felice di condividere il suo spazio e i suoi pasti con unaltro essere umano. Mai, nemmeno una volta, fece arrabbiare o spaventò Shin, o ne compromise in qualche modo laguarigione. Suonerà strano, ma la routine quotidiana in prigione dopo l’interrogatorio e le torture – al netto delle urlache periodicamente riecheggiavano in fondo al corridoio – gli fu di enorme sostegno.

Anche se il cibo non sapeva di niente, le guardie ne portavano abbastanza da garantire la sopravvivenza di entrambi.Niente pericolosi lavori all’aperto, nessuna sfinente quota di produzione da raggiungere. Per la prima volta in vita sua,Shin non era tenuto a svolgere alcun tipo di lavoro fisico.

Oltre a prendersi cura di lui, lo Zio riusciva a ritargliarsi dello spazio per un po’ di svago. Faceva ginnastica ognigiorno, tagliava i capelli al suo compagno di cella e raccontava storie appassionanti. La sua conoscenza della Corea delNord aveva intrigato Shin, soprattutto quando gli episodi di cui parlava avevano a che vedere con la cucina.

«Zio, raccontami qualcosa» gli chiedeva, e il vecchio gli descriveva i cibi che avrebbe potuto trovare al di là dellarecinzione, in tutti i loro profumi e sapori. Stimolato da quelle amorevoli descrizioni di maiali arrostiti, polli bolliti e

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vongole fresche, l’appetito di Shin si ripresentò con gli interessi.Dato il miglioramento delle sue condizioni di salute, le guardie iniziarono a farlo uscire dalla cella. A questo

punto, avendo ormai la certezza che aveva davvero tradito la sua famiglia, lo spingevano a dare informazioni sulvecchio.

«Voi due passate le vostre giornate a parlare, lì dentro» gli disse una guardia. «Cosa ti racconta? Guarda che non ticonviene nasconderci nulla».

E appena tornava dentro, era lo Zio a voler sapere: «Cosa ti hanno chiesto?».Preso tra due fuochi, il suo infermiere e i carcerieri, scelse di dire la verità a entrambi. Rivelò allo Zio che le

guardie gli avevano chiesto di essere un informatore, cosa di cui il vecchio non fu affatto sorpreso. Continuava aintrattenere Shin con lunghi racconti su cibi deliziosi, ma non diceva mai niente di personale su di sé: non parlava maidella sua famiglia e non esprimeva opinioni sul governo.

Considerata la sua padronanza di linguaggio, Shin immaginò che un tempo fosse stato un uomo importante ederudito. Ma era solo una supposizione.

Anche se discutere di una fuga dal Campo 14 era un crimine, non era contro le regole fantasticare su un’ipoteticavita al di fuori se il governo avesse deciso di liberarti. Lo Zio gli diceva che un giorno sarebbero stati entrambi liberi.Fino a quel momento, però, avevano il sacrosanto dovere di essere forti, di vivere il più a lungo possibile e di nonprendere mai in considerazione il suicidio.

«Che dici» gli chiedeva poi lo Zio di tanto in tanto, «credi che anch’io potrò uscire, un giorno?».Shin ne dubitava, ma si guardava bene dal dirlo.Un giorno una guardia aprì la porta e consegnò a Shin la divisa scolastica che indossava il giorno del suo arrivo

nella prigione sotterranea. «Mettiti questa. Sbrigati».Mentre si cambiava, chiese allo Zio cosa sarebbe successo, e lui, ancora una volta, lo rassicurò: sarebbe andato

tutto bene e si sarebbero incontrati di nuovo fuori.«Lascia che ti stringa ancora una volta» gli disse infine, afferrandogli con forza entrambe le mani. Shin non voleva

lasciare la cella. Per la prima volta in vita sua aveva trovato qualcuno di cui potersi fidare, qualcuno a cui voler benedavvero.

Negli anni a venire, il pensiero di quel vecchio incontrato nella prigione sotterranea sarebbe stato ben piùfrequente e affettuoso di quello che avrebbe rivolto ai suoi stessi genitori. Ma dal momento in cui le guardie locondussero fuori dalla cella e richiusero la porta, Shin e lo Zio non si rividero mai più.

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DISTOGLIERE LO SGUARDO

Lo portarono nella stessa stanza spoglia in cui a inizio aprile aveva subito il primo interrogatorio. Era ormai la finedi novembre, lui aveva appena compiuto quattordici anni e da più di sei mesi non vedeva la luce del sole.

Quello che trovò al suo interno lo lasciò a bocca aperta: c’era suo padre, in ginocchio di fronte a due addetti agliinterrogatori seduti dietro le rispettive scrivanie. Erano stati portati nella prigione sotterranea più o meno nello stessomomento; sembrava molto più vecchio e provato di allora.

Inginocchiandosi al suo fianco, Shin notò che la gamba destra del padre si piegava all’infuori in modo innaturale,chiaro segno del fatto che anche Shin Gyung Sub era stato torturato. Le ossa erano state spezzate sotto il ginocchio, esi erano risaldate in maniera innaturale, incidente che avrebbe segnato la fine del suo lavoro relativamenteconfortevole come meccanico e tornitore del campo: da quel momento in poi non avrebbe potuto far altro chetrascinarsi per i cantieri come bassa manovalanza.

Nella prigione sotterranea le guardie avevano detto al padre che era stato il figlio più piccolo a denunciare il pianodi fuga. Tempo dopo, quando per la prima volta ebbero la possibilità di parlarne, la conversazione fu tesa e innaturale;per quanto il padre insistesse nel dire che aveva fatto bene ad avvisare le guardie e a non assumersi il rischio di coprirequella fuga, manteneva un tono caustico ben poco convincente. Era come se sapesse che il primo istinto di suo figliofosse quello di fare la spia.

«Leggete e lasciate l’impronta del pollice» disse uno degli incaricati, facendo scivolare un documento verso diloro. Era un accordo di non divulgazione in cui si stabiliva che non avrebbero mai dovuto rivelare a nessuno quantoaccaduto nella prigione. Se ne avessero fatto parola, diceva il documento, sarebbero stati puniti.

Dopo aver premuto i pollici bagnati d’inchiostro sui rispettivi moduli, furono ammanettati, bendati e fatti salire suun ascensore. Una volta arrivati in superficie, furono caricati sul sedile posteriore di un piccolo veicolo e portati via.

Fu allora che Shin iniziò a pensare che lui e il padre sarebbero semplicemente tornati a far parte della popolazionedel campo; le guardie non li avrebbero obbligati a firmare un accordo di riservatezza se avessero avuto intenzione diucciderli: non avrebbe avuto senso. Ma quando, dopo circa trenta minuti, la macchina si fermò e gli tolsero la benda,entrò nel panico.

Nel campo di mais vicino a casa della madre, dove aveva assistito a due o tre esecuzioni all’anno fin da quando eramolto piccolo, si era riunita una folla di fronte a un patibolo improvvisato e ad un palo di legno conficcato nel terreno.A quel punto ebbe la certezza che lui e il padre sarebbero stati giustiziati. Sentiva distintamente ogni molecola d’ariache gli entrava e gli usciva dai polmoni, quasi sapesse che quelli sarebbero stati gli ultimi respiri della sua vita.

Il panico si allentò quando una guardia gridò il nome del padre: «Gyung Sub, vai a sederti in prima fila!».Al figlio fu ordinato di seguirlo, e a entrambi vennero tolte le manette. Appena si sedettero, l’ufficiale che

supervisionava l’esecuzione iniziò a parlare; nel frattempo vennero trascinati fuori sua madre e suo fratello, che nonvedeva e di cui non aveva notizie dalla notte in cui li aveva traditi.

«Giustiziate Jang Hye Gyung e Shin He Geun, traditori del popolo!» esclamò l’ufficiale superiore.Shin si girò verso suo padre. Stava piangendo in silenzio.

Negli anni, la vergogna che provava per quell’esecuzione non aveva fatto che crescere, resa sempre più pesantedalle bugie che aveva iniziato a raccontare in Corea del Sud.

«Non c’è niente nella mia vita che io possa comparare a questo peso» mi disse quel giorno in California in cuispiegò come e perché avesse raccontato menzogne sul suo passato. Ma il giorno di quelle due esecuzioni non provavavergogna, solo rabbia; odiava la madre e il fratello con la drastica risolutezza tipica di un adolescente offeso e ferito.Tutto quello a cui riusciva a pensare era che il loro piano sciocco ed egoista aveva provocato le torture per cui eraquasi morto e che avevano reso invalido suo padre, e pochi minuti prima di trovarseli davanti aveva creduto che la loro

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sconsideratezza gli sarebbe costata la vita.Quando le guardie trascinarono la madre verso il luogo dell’esecuzione, Shin notò che il suo volto sembrava

gonfio. La fecero stare in piedi su una scatola di legno, la imbavagliarono, le legarono le braccia dietro la schiena e lestrinsero un cappio intorno al collo. Però non la bendarono.

Iniziò a scrutare la folla, e il suo sguardo si posò sul figlio, che si rifiutò di ricambiarlo. Le guardie le spinsero viala scatola da sotto i pieni mentre Shin, che la guardava contorcersi disperatamente, non poteva fare a meno di pensareche quella morte fosse meritata.

Poco dopo legarono il fratello, debole e macilento, al palo di legno. Tre guardie spararono ciascuna tre colpi difucile, e i proiettili fecero saltare la corda che gli teneva la fronte ferma sul palo. Fu un’esecuzione orribile: sangue ebrandelli di cervello che schizzavano da tutte le parti, uno spettacolo che disgustò e terrorizzò Shin. Eppure,nonostante tutto, continuava a pensare che anche il fratello se lo fosse meritato.

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REAZIONARIO FIGLIO DI PUTTANA

Nel Campo 14 non era inusuale che dei genitori venissero giustiziati per aver cercato di evadere. Shin avevaassistito a diverse esecuzioni, prima e dopo l’impiccagione di sua madre. Non era chiaro però cosa succedesse ai figliche restavano. Da quello che poteva vedere, nessuno di questi bambini poteva più andare a scuola. Nessuno, tranne lui.Forse le autorità del campo avevano deciso di farlo rientrare perché era una spia, ma il suo ritorno non fu affattosemplice.

I problemi iniziarono nel momento stesso in cui s’incamminò dal patibolo verso la scuola, dove ebbe un incontroprivato con il suo insegnante. Conosceva quell’uomo da due anni (anche se non ne aveva mai saputo il nome) e pensavache fosse tutto sommato una persona giusta, almeno per gli standard del campo. All’incontro però lo trovò furibondo.Voleva sapere perché avesse dato la soffiata del piano di fuga al guardiano notturno della scuola.

«Perché non sei venuto prima da me?!» gridò.«Era quello che volevo fare, ma non sono riuscito a trovarla» rispose Shin, spiegando che era sera tardi e che in

quanto prigioniero gli era impossibile accedere all’area recintata in cui si trovavano gli insegnanti.«Avresti potuto aspettare fino al mattino» disse lui.L’insegnante non aveva ricevuto nessun riconoscimento da parte dei superiori per aver sventato il piano di fuga.

Incolpava Shin per questa grave ingiustizia e lo avvisò che la sua mancanza gli sarebbe costata cara. Più tardi, tutta laclasse – circa trentacinque studenti – si riunì in aula. Il maestro lo indicò e urlò: «Vieni qui davanti! Inginocchiati!».

Shin rimase in ginocchio sul pavimento di cemento per quasi sei ore; quando provava a ondeggiare avanti e indietroper alleviare il dolore, il maestro lo colpiva con la bacchetta della lavagna.

Il secondo giorno dopo il suo ritorno a scuola, andò insieme al resto della classe in una fattoria del campo perraccogliere i residui della raccolta del granturco da trasportare in un’aia. Era un lavoro relativamente leggero rispettoa spingere vagoni carichi di carbone, ma prevedeva che indossasse una sorta di imbragatura con una cinghia di pelleche sfregava contro le cicatrici ancora fresche sulla zona lombare e sull’osso sacro.

Di lì a poco iniziò a colargli sangue giù per le gambe, inzuppando i pantaloni della divisa scolastica. Ma non osavalamentarsi: l’insegnante l’aveva avvertito che per ripulirsi dei crimini della madre e del fratello avrebbe dovutolavorare più duramente dei suoi compagni.

Sia a scuola sia durante il lavoro nei campi, tutti gli studenti dovevano chiedere il permesso per fare i propribisogni. Quando Shin fece la sua prima richiesta dopo il rilascio dalla prigione, l’insegnante gliela negò. Cercò alloradi imparare a trattenersi per l’intera giornata di scuola, ma un paio di volte a settimana finiva col farsela addosso, disolito quando si trovavano all’aperto. Considerando che era inverno e faceva molto freddo, questo significava lavorarecon i pantaloni ghiacciati.

La maggior parte dei compagni li conosceva da quando, a sette anni, avevano iniziato insieme la scuola elementare.Anche se era sempre stato tra i più piccoli della classe, di solito veniva trattato da pari; ora però, forti dell’esempiodell’insegnante, i suoi compagni iniziarono a schernirlo e maltrattarlo. Gli rubavano il cibo, lo prendevano a pugni e locoprivano di insulti, quasi tutti varianti sul tema “reazionario figlio di puttana”.

Shin non sa dire se i compagni sapessero cosa aveva fatto. Immaginava che Hong, il suo amico d’infanzia, nonl’avesse detto a nessuno. Ad ogni modo, non era certo per quello che lo prendevano in giro; sarebbe statoantipatriottico e molto rischioso, visto che tutti gli studenti avevano l’obbligo di riportare qualsiasi informazione sulleproprie famiglie e sui compagni.

Prima di finire in prigione Shin era riuscito a formare un’alleanza strategica tra i banchi di scuola. Era diventatoamico di Hong Joo Hyun, il capoclasse (ruolo che lui stesso aveva cercato di farsi assegnare la notte del tradimento).Hong supervisionava gli studenti durante i lavori ed era autorizzato a colpire e prendere a calci i compagni che

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considerava lavativi. Era anche l’informatore più fidato dell’insegnante. Hong stesso poteva essere picchiato ocostretto al digiuno se la classe non affrontava il lavoro nei campi con sufficiente impegno o non riusciva araggiungere le quote prefissate.

La sua posizione era simile a quella dei prigionieri adulti noti come jagubbanjang, o capisquadra. Le guardieconcedevano a queste persone, sempre maschi e fisicamente imponenti, un’autorità praticamente illimitata sugli altriprigionieri. Dal momento che spettava a loro rispondere di qualsiasi fallimento da parte della loro squadra, spessoerano più vigili, brutali e spietati delle stesse guardie.

Dopo l’esecuzione della madre e del fratello di Shin, Hong iniziò a osservarlo da vicino. Durante un lavoro diriparazione di una strada, notò che aveva caricato troppe pietre su un unico carretto: per quanto provasse e riprovasse aspostarlo, era decisamente troppo pesante per un ragazzo così gracile.

Nel vedere Hong che si avvicinava con una pala, Shin inizialmente pensò che gli stesse venendo in aiuto, e cheavrebbe ordinato agli altri studenti di dargli una mano. Invece roteò la pala e lo colpì sulla schiena, buttandolo a terra.

«Tiralo come si deve, quel carretto» disse Hong.Gli assestò un calcio sulla testa e gli ordinò di alzarsi. Lui non ci riuscì, al che Hong roteò un’altra volta la pala e

lo colpì sul naso.Dopo quell’episodio, anche gli studenti più giovani e gracili di Shin iniziarono a insultare sua madre, a prenderlo a

pugni e a coprirlo di insulti. Il tutto sempre con il benestare dell’insegnante.I mesi di reclusione nella cella sotterranea gli avevano fatto perdere molta forza e resistenza, e ora, tornato ai

lavori forzati con orari massacranti e pasti insufficienti, era affamato come non mai. Nella mensa della scuola, allaperenne ricerca di zuppa di cavolo rovesciata, affondava le mani nella brodaglia fredda e sporca che trovava per terra esi leccava le dita per ripulirle. Ispezionava pavimenti, strade e campi alla ricerca di chicchi di riso, fagioli e persinoletame, purché contenesse qualcosa di non digerito.

Un mattino di dicembre, un paio di settimane dopo il suo ritorno in classe, Shin scoprì una pannocchia rinsecchitasopra un mucchio di paglia e la divorò. Hong Joo Hyun era nei paraggi. Gli corse incontro, lo afferrò per i capelli e lotrascinò dall’insegnante.

«Maestro, invece di lavorare Shin se ne va in giro a rubare il cibo».Nel momento stesso in cui si buttò in ginocchio per implorare il perdono (umiliazione di routine che eseguiva in

maniera istintiva), l’insegnante lo colpì sulla testa con il bastone da passeggio e chiamò a gran voce il resto dellaclasse perché tutti si unissero al pestaggio. «Venite a prenderlo a schiaffi» disse.

Shin sapeva esattamente cosa stava per succedere: lui stesso aveva preso a schiaffi e pugni molti dei suoicompagni in quelle punizioni collettive. Gli studenti gli si misero di fronte formando una fila: le femmine locolpivano sulla guancia destra, i maschi sulla sinistra. Fecero il giro forse cinque volte, fino a quando l’insegnante nonannunciò che era ora di pranzo.

Prima della reclusione nella prigione segreta e prima che il maestro e i compagni iniziassero a prenderlo di mira,non gli era mai venuto in mente di incolpare qualcuno per essere nato lì dentro. Viveva un’esistenza ottusa, che ruotavaesclusivamente intorno alla ricerca di cibo e al tentativo di evitare i pestaggi. Era indifferente al mondo esterno, aigenitori e alla storia della sua famiglia. L’unica cosa in cui credeva erano i sermoni sul suo peccato originale, che dasempre sentiva recitare: in quanto figlio di traditori, la sua unica possibilità di redenzione, nonché l’unico modo perevitare di morire di fame, era lavorare duramente.

Tornato a scuola, però, traboccava di risentimento. Non era ancora paralizzato dal senso di colpa per la madre e ilfratello; quello sarebbe arrivato solo molto più in là. I mesi trascorsi in cella con lo Zio avevano aperto uno scorcio,seppur minimo, sul mondo che si trovava oltre la recinzione: Shin aveva preso coscienza di ciò che non avrebbe maipotuto mangiare o vedere, e ora la sporcizia, la puzza e la desolazione del campo gli pesavano sull’anima come unmacigno. Una volta acquisito un minimo di consapevolezza di sé, scoprì la solitudine, il rimorso e il desiderio.

Più di ogni altra cosa, era arrabbiato con entrambi i genitori. Il complotto della madre gli era costato terribilitorture, e dava la colpa a lei anche per le violenze e le umiliazioni che gli infliggevano gli insegnanti e i compagni.Disprezzava in pari misura la madre e il padre per essere stati tanto egoisti da mettere al mondo un figlio in un campodi lavoro, per aver generato una prole condannata a morire dietro il filo spinato.

Di fronte al patibolo, negli attimi seguenti all’uccisione della madre e del fratello, il padre aveva provato a

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consolarlo.«Stai bene? Sei ferito? Hai visto tua madre, lì dentro?» gli chiedeva ripetutamente, riferendosi alla prigione

sotterranea.Ma lui era troppo arrabbiato per rispondere. Dopo l’esecuzione, trovava persino di cattivo gusto pronunciarla la

parola padre. Nei rari giorni liberi di cui disponeva – circa quattordici l’anno – era previsto che andasse a trovarlo, madurante le visite spesso si rifiutava di aprire bocca.

Il padre provò a scusarsi. «So che stai soffrendo perché ti sono toccati in sorte i genitori sbagliati» gli diceva. «Seistato sfortunato. Che ci vuoi fare? Le cose sono andate così».

Il suicidio è una tentazione molto forte per i nordcoreani strappati alla loro vita quotidiana e costretti al regimedei campi, fatto di lavori forzati, fame, pestaggi e privazione di sonno.

«Succedeva che alcuni prigionieri si suicidassero» scrive Kang Chol-hwan nella sua autobiografia sul decenniotrascorso nel Campo 15. «Certi nostri vicini avevano scelto quella strada […]. Il più delle volte lasciavano una letterache criticava duramente il regime o perlomeno i suoi organi di sicurezza. […] Anche in assenza di un testamentorivendicativo, la famiglia di un suicida veniva punita. Era una regola che non ammetteva eccezioni. Suicidarsisignificava trasgredire agli ordini del partito: era una scelta individuale, e come tale condannabile».14

Secondo la Korean Bar Association di Seoul, il Dipartimento per la Sicurezza di Stato mette in guardia tutti iprigionieri informandoli che ogni suicidio si tradurrà in pene più lunghe per i parenti ancora in vita.

Nella sua autobiografia sui sei anni trascorsi in due diversi campi, Kim Yong, ex tenente colonnello dell’ArmataPopolare Coreana, spiega che nonostante tutto togliersi la vita è un’alternativa molto attraente. «I prigionieri eranoben oltre la fame e sempre in preda ai deliri» scrive Kim, che racconta di aver passato due anni nel Campo 14 prima diessere trasferito dall’altra parte del fiume Taedong nel Campo 18, una prigione per reati politici dove le guardie eranomeno brutali e i prigionieri leggermente più liberi.

Nel tentativo di metter fine al delirio che lo tormentava nel Campo 14, Kim racconta di essersi buttato giù per ilcondotto di una miniera di carbone. Rimediò un ruzzolone e una brutta ferita, ma in definitiva provò più delusione chedolore: «Mi dispiaceva non essere stato in grado di trovare una maniera migliore per mettere davvero fine a questotormento indescrivibile»15.

Per quanto la vita di Shin fosse miserabile dopo l’esecuzione della madre e del fratello, nel suo caso il suicidionon fu mai più di un pensiero passeggero. Per come la vedeva lui, c’era una fondamentale differenza tra i prigionieriche arrivavano da fuori e quelli che erano nati nel campo: i primi, annichiliti dal contrasto tra un passato confortevolee un terribile presente, spesso non riuscivano a trovare o a mantenere la volontà di sopravvivere. Uno dei beneficiperversi di essere nato nel campo, invece, era una totale mancanza di aspettative, ed è per questo che Shin nonsprofondò mai nella disperazione più totale. Non aveva nessuna speranza da perdere, nessun passato da rimpiangere,nessun orgoglio da difendere. Non trovava degradante leccare la zuppa dal pavimento. Non si vergognava di implorareil perdono di una guardia. La sua coscienza non veniva scossa se tradiva un amico in cambio di cibo. Erano pure esemplici tecniche di sopravvivenza, di certo non ragioni per togliersi la vita.

Gli insegnanti raramente venivano fatti ruotare su altri lavori. Nei sette anni trascorsi dal suo primo giorno discuola ne aveva conosciuti soltanto due. Ma quattro mesi dopo l’esecuzione, Shin visse finalmente un attimo di tregua:un mattino l’insegnante che lo tormentava, e che incoraggiava gli altri compagni a fare altrettanto, sparì.

Il sostituto non dava motivo di credere che sarebbe stato meno violento del suo predecessore. Come praticamenteogni altra guardia del campo, era un uomo sulla trentina senza nome e con l’aria da bullo, che esigeva che gli studentidistogliessero lo sguardo e chinassero la testa ogni volta che gli rivolgevano la parola. Shin lo ricorda freddo, distantee dispotico né più né meno degli altri.

Il nuovo insegnante però non sembrava intenzionato a lasciarlo morire di fame, possibilità quanto mai concreta perShin nel marzo del 1997, più o meno quattro mesi dopo la liberazione dalla prigione sotterranea. Tormentato dagliinsegnanti e dagli altri studenti, non riusciva a trovare nutrimento a sufficienza per mantenere un peso accettabile, leustioni non accennavano a guarire e le cicatrici continuavano a sanguinare. Era sempre più debole e spesso nonriusciva a completare i suoi incarichi lavorativi, il che portava a più botte, meno cibo e più sangue.

Il nuovo maestro invece portava Shin in mensa dopo l’orario dei pasti e gli diceva di mangiare tutti gli avanzi che

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riuscisse a trovare. A volte gli passava del cibo di nascosto, gli assegnava lavori meno faticosi e si assicurava cheavesse sempre un posto caldo in cui riposare sul pavimento del dormitorio. Non da ultimo, impediva ai compagni dipicchiarlo e di rubargli il cibo. Niente più insulti rivolti a sua madre. Hong Joo Hyun, il capoclasse che l’aveva colpitoin faccia con una pala, tornò ad essergli amico. Shin mise su un po’ di peso e le ferite sulla schiena finalmenteguarirono.

Forse l’insegnante provò pena per un ragazzino tanto bersagliato che aveva assistito alla morte della sua stessamadre, ma è anche possibile che le guardie più anziane del campo avessero semplicemente scoperto che un maestrorabbioso stava maltrattando quella che per loro era una spia affidabile. Forse al sostituto era stato ordinato di tenere invita il ragazzo. Shin non seppe mai perché l’insegnante si comportò in quel modo, ma sa per certo che senza il suoaiuto oggi non sarebbe vivo.

14 Kang e Rigoulot, L’ultimo gulag, cit., p. 100.15 Yong, Long Road Home, cit., p. 85.

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AL LAVORO

Ogni giorno arrivavano al cantiere mucchi di mais macinato e tinozze di zuppa di cavolo fumante. Era il 1998 eShin, ormai quindicenne, lavorava insieme ad altre migliaia di prigionieri alla costruzione di una diga idroelettrica sulfiume Taedong, che segna il confine meridionale del Campo 14. Il progetto era abbastanza urgente da far sì che glischiavi venissero rifocillati tre volte al giorno; per di più le guardie permettevano a tutti (cinquemila prigionieri adultie duecento studenti della scuola superiore del campo) di cibarsi dei pesci e delle rane che catturavano nel fiume. Perla prima volta in vita sua Shin mangiò bene per un anno intero.

Il governo nordcoreano aveva deciso che il campo, con la sua recinzione ad alta tensione e le fabbriche cheproducevano a getto continuo divise militari, cristalleria e cemento, aveva bisogno di una fonte di elettricità locale sucui fare affidamento, e in fretta.

«Ehi! Ehi! Ehi! Sta cadendo! Cade!».Shin diede l’allarme. Stava trasportando del calcestruzzo fresco alla sua squadra di lavoro quando notò che un

muro appena posato si era crepato e stava per crollare. Subito sotto, un gruppo di otto persone stava finendo dicostruirne un altro. Erano tre adulti e cinque quindicenni, tre ragazze e due ragazzi. Shin urlò più forte che poté, ma eratroppo tardi; morirono tutti e otto, e molti altri rimasero schiacciati e orribilmente sfigurati. La guardia però noninterruppe i lavori; a fine turno semplicemente ordinò a Shin e ad altri prigionieri di far sparire i corpi.

Le montagne della Corea del Nord sono percorse in lungo e in largo da fiumi impetuosi di varie dimensioni. Illoro potenziale di energia idrica è tale che il 90 per cento dell’elettricità della penisola coreana, prima della divisione,veniva dal Nord16.

Sotto il regime della famiglia Kim, il paese non è però stato in grado di costruire una rete elettrica nazionalecollegata alle dighe idroelettriche, molte delle quali situate in aree remote. Quando all’inizio degli anni novantal’Unione Sovietica tagliò la fornitura di olio combustibile a basso costo, i generatori installati nelle città smisero difunzionare. Le luci si spensero in gran parte del paese, e ancora oggi si accendono solo di rado. Tra la Cina e la Coreadel Sud, tutto quello che si vede dalle immagini satellitari notturne della penisola coreana è un grosso buco nero.

Nel paese l’energia elettrica non basta nemmeno per illuminare Pyongyang, dove idealmente si vorrebbero viziarele élite. Nel febbraio del 2008, quando insieme a una grande delegazione di giornalisti stranieri ho passato tre giorni edue notti nella capitale per seguire un’esibizione della New York Philarmonic, il governo è riuscito ad accendere leluci in quasi tutta la città; ma non appena l’orchestra e la stampa se ne sono andate, è calato di nuovo il buio.

È comprensibile quindi che la costruzione di piccole e medie centrali idroelettriche – capaci di servire l’industrialocale e costruite sfruttando la manovalanza offerta dai campi e una tecnologia primitiva – sia stata una priorità sindagli anni novanta. A suon di lavori forzati, ne sono state costruite migliaia.

Oltre a scongiurare il collasso economico, le dighe rappresentano anche un potente strumento ideologico per lafamiglia che governa il paese. Secondo la versione dei suoi agiografi, il traguardo intellettuale più significativo di KimIl Sung – l’ideologia economicosociale juche – è stato rivendicare che l’orgoglio nazionale debba andare di pari passocon l’autosufficienza.

Il Grande Leader lo ha spiegato con queste parole: «Attenersi al juche significa in poche parole ergersi a maestridella rivoluzione e della ricostruzione nel proprio paese. Significa attenersi strettamente a un ideale di indipendenza,rifiutare di dipendere da altri, utilizzare il proprio cervello e credere nelle proprie forze, affidandosi allo spiritorivoluzionario dell’autonomia per risolvere da soli tutti i problemi, prendendosene la piena responsabilità in ognicircostanza»17.

È ovvio come niente di tutto questo sia neanche lontanamente possibile in un paese malgovernato come la Coreadel Nord, che da sempre dipende dai contributi caritatevoli dei governi stranieri; se questi dovessero finire, con ogni

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probabilità finirebbe anche la dinastia Kim. La Corea del Nord non riuscirebbe a cavarsela da sola neanche nelmigliore degli anni, non solo perché è senza petrolio, ma anche perché non è mai stata in grado di generare abbastanzaricchezza da poter acquistare combustibile o cibo a sufficienza sul mercato mondiale.

Se non fosse stato per i cinesi, che combatterono contro gli Stati Uniti e le altre forze occidentali, il paeseavrebbe perso la guerra di Corea e sarebbe semplicemente sparito.

Per tutti gli anni novanta l’economia nordcoreana è stata di fatto tenuta in piedi dagli aiuti dei russi. Dal 2000 al2008 è subentrata la Corea del Sud, che con ingenti donazioni di cibo e di fertilizzanti e generosi investimenti si ècomprata la possibilità di una coesistenza relativamente pacifica. Da allora, Pyongyang ha iniziato a dipendere sempredi più anche dalle agevolazioni nelle politiche commerciali, dagli aiuti alimentari e dal combustibile dei cinesi. Peravere una misura della crescente influenza cinese, basti pensare che nei mesi precedenti all’ascesa ufficiale di KimJong Un come erede designato, l’anziano e malaticcio Kim Jong Il si è recato due volte a Pechino, dove secondoalcuni diplomatici chiese la benedizione della Cina per il suo piano di successione.

Incurante della realtà dei fatti, la Corea del Nord si è fatta paladina dell’autosussistenza come conditio sine quanon per il pubblicizzatissimo fine di diventare una «nazione grandiosa, prospera e potente» entro il 2012, il centesimoanniversario della nascita di Kim Il Sung.

Per raggiungere tale obiettivo a dir poco utopistico il governo ha impiegato regolarmente la popolazione inoperazioni disgraziate camuffate con nobili slogan. La propaganda sa essere piuttosto creativa: la carestia è statarivenduta come l’“Ardua Marcia”, una patriottica battaglia che i nordcoreani sono stati incoraggiati a vincere al suonodello slogan ispiratore: «Mangiamo due pasti al giorno».

Nella primavera del 2010, mentre la carenza di cibo tornava ad aggravarsi, il governo lanciò una massicciacampagna di ritorno alla terra per convincere gli abitanti delle città a trasferirsi nelle campagne e coltivare i campi. Icittadini avrebbero dovuto essere un rinforzo permanente per l’“Operazione Semina”, il che prevedeva l’utilizzo diimpiegati, studenti e soldati nelle campagne per due mesi in primavera e due settimane in autunno per piantare il riso.D’inverno invece gli abitanti delle città avevano l’incarico di raccogliere le proprie feci (e quelle dei vicini) in vistadella semina primaverile.

Altri compiti urgenti e patriottici di cui i nordcoreani sono stati spinti a farsi carico includono «Alleviamo piùpesce ad alto rendimento!», «Espandiamo l’allevamento di capre e creiamo più terreno da pascolo così come ci chiedeil Partito!» e «Coltiviamo più girasoli!». Il più delle volte queste campagne “esortative” del governo non riscuotevanogrande successo, soprattutto quando chiedevano alla gente di città di andare a spaccarsi la schiena nelle fattorie.

Per un progetto come quello della diga nel Campo 14 invece non c’era bisogno di perdere tempo a motivare ilavoratori. Shin lo provò sulla sua pelle, quando pochi istanti dopo l’annuncio di un nuovo “sforzo collettivo” amigliaia di prigionieri adulti fu ordinato di mettersi in marcia dalle loro fabbriche verso dormitori improvvisati sullariva settentrionale del Taedong: da quel momento in poi avrebbero lavorato, mangiato e dormito al cantiere, a unadecina di chilometri a sud-est del campo.

L’attività di costruzione della diga – che le foto del satellite ritraggono come un’imponente struttura di cementoche taglia in due un grosso fiume, con turbine e sfioratori lungo tutta la riva nord – andava avanti ventiquattr’ore suventiquattro. I camion trasportavano senza sosta calcestruzzo, sabbia e pietre. Shin vide un solo scavatore alimentato agasolio: il grosso degli scavi e delle costruzioni veniva fatto a mani nude, con pale e secchi.

Shin aveva già assistito a diverse morti, nel campo – per fame, malattia o percosse, oppure durante le esecuzionipubbliche –, ma mai come componente routinaria del lavoro. La più grande perdita di vite umane alla diga avvennepoco dopo l’inizio della costruzione vera e propria. Nel luglio del 1998, nel pieno della stagione delle piogge,un’improvvisa alluvione travolse il Taedong portandosi via centinaia di studenti e operai. Shin li vide sparire da unrialzo sulla riva del fiume, dove stava trasportando della sabbia. Fu subito incaricato di confermare l’identità deglistudenti defunti e di seppellirne i corpi. Il terzo giorno dopo l’alluvione ricorda di aver trasportato sulla schiena ilcadavere gonfio di una ragazza che dopo un po’ si irrigidì, braccia tese e gambe divaricate. Per riuscire a farlo entrarein una stretta fossa scavata a mano, fu costretto a spingerle a forza gli arti contro il corpo.

Le acque di piena spogliarono completamente alcuni studenti annegati. Quando Hong Joo Hyun rinvenne uncompagno di classe nudo in mezzo ai detriti post-alluvione, si tolse i suoi e ne coprì il corpo. Questa operazione dipulizia si trasformò in una vera e propria gara a chi trovava più morti: per ogni cadavere seppellito Shin e gli altristudenti venivano ricompensati con una o due porzioni di riso.

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All’altezza del Campo 14, il Taedong era troppo ampio e impetuoso per poter congelare nel rigido invernonordcoreano, il che consentiva ai lavori di proseguire per tutto l’anno. Nel dicembre del 1998 Shin ricevette l’ordinedi guadarne le acque basse per raccogliere dei massi. Il freddo era insopportabile al punto da spingerlo, senza avere ilpermesso delle autorità, a unirsi a un gruppo di studenti che stava cercando di tornare a riva.

«Provate anche solo a uscire dall’acqua e vi faccio morire di fame! Chiaro?!» urlò la guardia.Pur non riuscendo a smettere di tremare, fu costretto a continuare a lavorare.

Gli studenti, impiegati soprattutto come bassa manovalanza, portavano i ferri d’armatura ai lavoratori più anzianiperché li legassero insieme con corde o fil di ferro, mentre la diga si ergeva dal letto del fiume in una scacchiera diblocchi di cemento. Non avevano guanti in dotazione e d’inverno capitava che le mani rimanessero incollate alle barregelate: passare un tondino poteva voler dire strapparsi via la pelle dai palmi e dalle dita.

Shin ricorda che quando un suo compagno, Byun Soon Ho, si lamentò perché aveva la febbre e si sentiva pocobene, la guardia gli diede una bella lezione per fargli vedere cos’è lo stoicismo.

«Soon Ho, tira fuori la lingua» gli disse, ordinandogli di premerla contro una barra gelata. Solo un’ora più tardiSoon Ho, con gli occhi gonfi di lacrime e la bocca piena di sangue, riuscì finalmente a staccarla.

Lavorare alla diga era pericoloso, ma lì Shin trovò qualcosa di esaltante: il cibo. Non che fosse particolarmentesaporito, ma abbondava in qualsiasi periodo dell’anno. Ricorda le ore dei pasti in quel cantiere come i momenti piùfelici della sua vita da adolescente, che gli permisero di riacquistare tutto il peso e l’energia perduti nella prigionesotterranea.

Ora finalmente riusciva a stare al passo con il lavoro e cominciò ad avere fiducia nella proprie capacità disopravvivenza. Vivere nei pressi della diga gli concedeva anche un minimo d’indipendenza. D’estate, per esempio,dormiva sotto una tettoia all’aperto insieme a centinaia di altri studenti, e di giorno, se non lavoravano, potevanocamminare liberamente per tutto il perimetro del campo.

Come ricompensa per il duro lavoro svolto Shin si guadagnò una raccomandazione da parte del capoclasse che gliavrebbe permesso di lasciare il cantiere per trascorrere quattro notti a casa del padre. Ma dal momento che non sierano riconciliati passarono insieme soltanto una notte.

Nel 1999 si concluse il suo percorso scolastico. La sua vita da studente – passata a raccogliere pietre, strappareerbacce e costruire dighe – somigliava più a quella di uno schiavo, ma la fine della scuola significava diventare a tuttigli effetti un adulto, pronto a intraprendere un lavoro permanente nel campo. Aveva sedici anni.

Circa il 60 per cento della sua classe fu assegnato alle miniere di carbone, dove le morti accidentali per frane,esplosioni e avvelenamenti da gas erano all’ordine del giorno. Dopo dieci o quindici anni di lavoro in quellecondizioni molti minatori sviluppavano l’antracosi, e la maggior parte moriva intorno ai quarant’anni, se non prima. Unincarico in miniera, in poche parole, era l’equivalente di una condanna a morte.

La decisione su chi sarebbe andato dove fu presa da quello stesso insegnante che due anni prima gli aveva salvatola vita permettendogli di mangiare cibo extra e fermando gli abusi dei compagni. Distribuiva incarichi senza darespiegazioni, annunciando senza troppe cerimonie il luogo in cui gli studenti avrebbero trascorso il resto della lorovita. Subito dopo le assegnazioni, arrivavano i capisquadra di fabbriche, miniere e fattorie del campo a prelevare glistudenti.

L’insegnante disse a Hong Joo Hyun che sarebbe andato in miniera: da quel momento Shin non lo vide mai più. Laragazza che aveva perso l’alluce a undici anni, Moon Sung Sim, fu invece assegnata alla fabbrica di tessuti. Anche HongSung Jo, l’amico che lo aveva salvato dalle torture confermando che aveva davvero denunciato la madre e il fratello, fumandato in miniera: Shin non lo vide mai più.

Ammesso che ci fosse una logica dietro gli incarichi, non fu mai in grado di comprenderla. Tuttora Shin è convintoche dipendesse dai capricci dell’insegnante, i cui pensieri continuavano a risultargli indecifrabili. Forse Shin glipiaceva, forse ne aveva compassione, o forse aveva solo ricevuto l’ordine di prendersi cura di lui. Non ne ha la piùpallida idea, ma sta di fatto che gli salvò un’altra volta la vita: gli assegnò un lavoro permanente nell’allevamento dimaiali del Campo 14, dove duecento uomini e donne si occupavano di circa ottocento maiali – ma anche di capre,conigli, polli e qualche mucca – e li nutrivano con il foraggio coltivato nei campi circostanti.

«Shin In Geun, tu andrai all’allevamento» annunciò l’insegnante. «Lavora sodo».In nessun altro posto nel Campo 14 c’era così tanto cibo da rubare.

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16 Andrea Matles Savada (a cura di), North Korea: A Country Study, GPO for the Library of Congress, Washington DC 1993.17 Yuk-Sa Li (a cura di), Juche! The Speeches and Writings of Kim Il Sung, Grossman Publishers, New York 1972, p. 157; citato in

“Stanford Journal of East Asian Affairs 1”, n. 1, primavera 2003, p. 105.

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SONNELLINI POMERIDIANI

Shin però non lavorava sodo.A volte i capisquadra picchiavano lui insieme agli altri lavoratori che non davano buoni risultati, ma non si trattava

mai di pestaggi seri come quelli che aveva subito in passato. La fattoria per l’allevamento di maiali era quanto dimeglio avesse conosciuto nel campo, un posto in cui di tanto in tanto riusciva persino a squagliarsela per schiacciareun sonnellino a metà pomeriggio.

Le porzioni dei pasti in mensa non erano più abbondanti rispetto a quelle nelle fabbriche o nelle miniere, e il cibonon era migliore; ma tra un pasto e l’altro Shin poteva servirsi liberamente del mais macinato e destinato ai maialiniche tra novembre e luglio aveva il compito di nutrire. Nei campi, invece, dove da agosto a ottobre strappava le erbaccee si occupava del raccolto, faceva spuntini a base di mais, cavolo e altre verdure. Qui capitava persino che nelle ore dilavoro i capisquadra arrivassero con un pentolone da cui ognuno poteva mangiare fino a saziarsi. L’allevamento erasulle colline, lontano dal fiume e a circa un’ora a piedi dalla sua vecchia scuola e dalla casa in cui aveva vissuto con lamadre. Le donne con bambini facevano avanti e indietro dalle loro abitazioni, ma la maggior parte dei lavoratori sifermava in un dormitorio sul posto. Anche Shin dormiva lì, sul pavimento di una stanza per soli uomini in cui ilbullismo non era un problema e non c’era bisogno di lottare per pochi centimetri di cemento tiepido. In poche parole,dormiva bene.

Nell’allevamento c’era un mattatoio in cui due volte l’anno si macellavano circa cinquanta maiali, a beneficioesclusivo delle guardie e delle loro famiglie. Ai prigionieri non era concesso mangiare carne di maiale o di qualsiasialtro animale allevato nella fattoria, ma qualche volta riuscivano a rubarne un po’. Per evitare che l’odore di maialearrostito allertasse le guardie, provocando pestaggi e settimane di razioni dimezzate, la carne rubata la mangiavanocruda.

Se c’era una cosa che Shin non faceva lì dentro era pensare al mondo fuori dalla recinzione. Non ne parlava mai, nélo sognava. Lì nessuno menzionava il piano di fuga che aveva portato all’esecuzione della madre e del fratello, e leguardie non lo spingevano a denunciare gli altri lavoratori. La rabbia che lo aveva travolto subito dopo la morte di leilasciò il posto a una sorta di piatto torpore. Prima di essere torturato, rinchiuso nella prigione sotterranea ed espostoai racconti dello Zio sul mondo oltre la recinzione, l’unica cosa cui Shin era interessato era il pasto successivo; e cosìtornò ad essere all’allevamento di maiali. Per descrivere quel periodo, che durò dal 1999 al 2003, usa l’aggettivorilassante.

Ma fuori da campo la vita nella Corea del Nord di quegli anni era tutto fuorché rilassante. La carestia e le alluvionidella metà degli anni novanta ne avevano praticamente distrutto l’economia a pianificazione centrale, e il Sistema diDistribuzione Pubblica del governo, che a partire dagli anni cinquanta aveva sfamato il grosso della popolazione, eracollassato. Il panico generato dalla fame e dalla carestia aveva portato a un rapido dilagare del sistema del baratto e adun incontrollato aumento dei mercati privati. Per sopravvivere, nove famiglie su dieci praticavano lo scambio e unnumero sempre maggiore di nordcoreani varcava illegalmente il confine con la Cina in cerca di cibo, lavoro epossibilità commerciali, e per fuggire in Corea del Sud18. Non sono mai stati rilasciati dati ufficiali, ma le stime vannoda qualche decina di migliaia a quattrocentomila persone.

Nel tentativo di tenere la situazione sotto controllo, il governo di Kim Jong Il creò una nuova rete di centri didetenzione per i commercianti che si spostavano senza autorizzazione. Spesso però per corrompere poliziotti esoldati affamati e comprarsi così la libertà erano sufficienti dei cracker o qualche pacchetto di sigarette. Presto lestazioni dei treni, i mercati all’aperto e i vicoli nascosti delle città più grandi iniziarono a straripare di vagabondiaffamati e di piccoli orfani, i cosiddetti “passeri erranti”.

Shin ancora non lo sapeva, ma questa forma primitiva di capitalismo, il commercio vagabondo e la corruzionedilagante stavano aprendo crepe sempre più larghe nello stato di polizia che circondava il Campo 14. Se da un lato gli

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aiuti alimentari americani, giapponesi e sudcoreani attenuarono gli effetti della carestia verso la fine degli anninovanta, dall’altro favorirono – seppur in maniera indiretta e accidentale – l’attività di venditori ambulanti eimprenditori girovaghi, fonte imprescindibile di nutrimento, riparo e informazioni durante la fuga di Shin verso laCina.

A differenza di ciò che accade nel resto del mondo quando un qualsiasi altro governo riceve aiuti alimentari,quello nordcoreano insistette per avere il controllo totale sulla gestione logistica del cibo donato. La richiesta feceinfuriare gli Stati Uniti, il principale donatore, e ostacolò le procedure di monitoraggio che il Programma AlimentareMondiale delle Nazioni Unite aveva sviluppato per tener traccia degli aiuti e assicurarsi che raggiungessero chieffettivamente ne aveva bisogno, cioè la popolazione affamata.

Ma vista la gravità della situazione, e visto un così alto tasso di mortalità, l’occidente ingoiò il proprio disgusto etra il 1995 e il 2003 consegnò alla Corea del Nord cibo per un valore superiore al miliardo di dollari. Durante queglianni i rifugiati nordcoreani fuggiti in Corea del Sud raccontarono agli ufficiali del governo di aver visto riso, grano,mais, olio vegetale, latte scremato in polvere, fertilizzante, medicine, vestiti invernali, coperte, biciclette e altriarticoli donati in vendita nei mercati privati. Esistono testimonianze foto e video che mostrano sacchi di grano con lascritta «Dono degli americani».

Stando alle stime di esperti e agenzie di aiuti internazionali, burocrati, funzionari di partito, ufficiali dell’esercitoe altri membri delle élite governative si appropriarono del 30 per cento circa degli aiuti. Li vendevano acommercianti, spesso in cambio di dollari o euro, e consegnavano i beni trasportandoli su veicoli del governo. Senzavolerlo, i ricchi paesi donatori contribuirono non poco ad alimentare la spregevole realtà del commercio di stradanordcoreano. La maggior parte degli esperti vede proprio nei mercati privati, che oggi forniscono quasi tutto il cibo dicui si nutrono i nordcoreani, il motivo fondamentale per cui difficilmente si verificherà di nuovo una carestia simile aquella degli anni novanta.

I mercati, però, non sono neanche lontanamente riusciti a risolvere il problema della fame o della malnutrizione, eanzi sembrano persino aver inasprito le disuguaglianze, scavando un baratro tra chi ha capito come approfittare diquesto commercio e chi no.

Nel 1998, qualche mese prima che Shin venisse destinato all’allevamento di maiali, il Programma AlimentareMondiale aveva condotto un sondaggio sulla nutrizione infantile che copriva il 70 per cento del territorionordcoreano. Ne emerse che circa i due terzi dei bambini esaminati erano rachitici o sottopeso, il doppio di un paesecome l’Angola, che all’epoca era alla fine di una lunga guerra civile. Quando quei dati furono resi pubblici, il regimenordcoreano andò su tutte le furie.

Dieci anni più tardi, quando i mercati privati erano ormai avviati e vendevano qualsiasi cosa, da fruttad’importazione a lettori cd di fabbricazione cinese, i problemi legati all’alimentazione negli istituti statali per bambinie anziani erano stati risolti solo in parte, secondo un rapporto del Programma Alimentare Mondiale che il governo fucostretto a tollerare come condizione per ricevere altri aiuti. «I bambini erano molto tristi ed emaciati. Un’immaginestraziante» mi ha detto una nutrizionista che aveva lavorato al sondaggio del 2008; aveva preso parte ad altri progettisimili alla fine degli anni novanta, ed era giunta alla conclusione che la fame cronica e la malnutrizione in Corea delNord perduravano nonostante la diffusione dei mercati. I rapporti hanno anche rivelato una forte disomogeneitàgeografica: le malattie legate a fame e malnutrizione sono da tre a quattro volte più diffuse nelle province abitate dagliostili che non a Pyongyang e dintorni.

Come Shin ebbe modo di scoprire nel campo di lavoro, il posto più sicuro in cui un nordcoreano come lui potessevivere in tempi di fame cronica era una fattoria. Tutti i dati confermano che nelle fattorie (salvo disastri legati allealluvioni) la crisi è stata fronteggiata molto meglio che non nelle città. Anche se i raccolti delle cooperative agricoleerano di fatto proprietà dello Stato, chi ci lavorava riusciva comunque a metterne via una parte per sé e a venderequalcosa in cambio di denaro, vestiti o altri beni di prima necessità. Dopo la carestia, dopo il collasso del suo sistemadi distribuzione alimentare e dopo l’ascesa dei mercati privati, al governo non restava molta scelta: dovette garantireuna paga più alta ai contadini e aumentare gli incentivi alla produzione. Nel 2002 fu legalizzata la coltivazione privatadi piccoli appezzamenti di terra. Questo permise un incremento degli scambi tra i coltivatori e i mercati, il chesignificava più potere ai commercianti e maggiore autonomia per i produttori.

Kim Jong Il, però, non vide mai di buon occhio questa riforma: il regime la definiva «il dolce veleno». «È

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importante stroncare sul nascere ogni minimo accenno capitalista e non socialista» scrisse il “Rodong Sinmun”, ilgiornale di regime di Pyongyang. «Se si inizia a tollerare l’avvelenamento causato dall’ideologia e dalla culturaimperialista, anche la fede più incrollabile sarà destinata a sgretolarsi come un muro di fango bagnato».

Questo nuovo capitalismo che stava fiorendo nelle città e nei villaggi nordcoreani indebolì la presa di ferro delgoverno sulla vita quotidiana, e contribuì ben poco ad arricchire le casse dello Stato. Kim Jong Il se ne lagnavapubblicamente: «La verità è che lo Stato è al verde mentre i singoli individui dispongono dell’equivalente di due annidi budget»19. Era tempo di passare al contrattacco.

Coerentemente con la politica del “prima l’esercito”, inaugurata ufficialmente nel 1999, l’Armata PopolareCoreana, con più di un milione di soldati da sfamare tre volte al giorno, passò alle maniere forti e iniziò a confiscareuna parte considerevole dei prodotti coltivati nelle cooperative agricole.

«Nel periodo del raccolto i soldati arrivano nelle fattorie con i loro autocarri, e in poche parole… si servono» miha detto a Seoul Kwon Tae-jin, vicepresidente del Korean Rural Economic Institute, ente finanziato dal governosudcoreano. Sempre secondo Kwon, nell’estremo nord, area in cui la disponibilità di cibo è storicamente scarsa e icontadini sono considerati politicamente ostili, l’esercito confisca un quarto dell’intera produzione cerealicola. Inaltre zone del paese invece ne prende dal 5 al 7 per cento. Per assicurarsi che i militari non vengano imbrogliati,l’esercito piazza soldati in tutte le fattorie per l’intera stagione dei raccolti. Anche le decine di migliaia di abitantidelle città impiegati come rinforzo per il raccolto autunnale sono tenuti sott’occhio per evitare che rubino cibo. I furtinon sono tollerati.

Alla fine però il risultato di questo imponente dispiegamento di milizie nelle campagne è stato solo un aumentodella corruzione; i responsabili delle fattorie corrompono i soldati, spiega Kwon, e questi in cambio chiudono unocchio sul furto di cibo rivenduto poi nei mercati privati. Stando ai resoconti di alcuni rifugiati e di alcuneassociazioni umanitarie, le dispute tra diversi gruppi di soldati corrotti si risolvono spesso in zuffe e sparatorie. Nel2009 Good Friends ha riportato che in una fattoria di Stato un militare è stato accoltellato con una falce durante unoscontro scoppiato per del mais.

Rinchiuso nell’allevamento di maiali, Shin non sapeva nulla del commercio di strada, della corruzione e dei viaggiillegali tra le principali città che in meno di due anni lo avrebbero aiutato a fuggire. In quella tana sperduta tra i monti,una specie di campo nel campo, trascorse i suoi ultimi anni da adolescente senza incidenti particolari, tenendo semprela testa bassa, la mente vuota e tutte le energie concentrate sul furto di cibo. Il suo ricordo più vivido di quegli anni è ilgiorno in cui fu colto in flagrante mentre arrostiva budella di maiale rubate: fu picchiato, costretto al digiuno per tregiorni e gli furono dimezzate le razioni in mensa per tre mesi.

Compiuti i vent’anni lì dentro, credeva di aver trovato il posto in cui sarebbe invecchiato e poi morto.Ma questo interludio terminò bruscamente nel marzo del 2003. Per ragioni mai svelate, Shin fu trasferito nella

fabbrica d’indumenti del campo: un posto affollato, caotico e stressante dove duemila donne e cinquecento uominilavoravano alla produzione di divise militari. Qui la vita tornò a complicarsi: la pressione per raggiungere le quoteproduttive era costante, e di nuovo ci si aspettava che i prigionieri facessero la spia. Le guardie, affamate di sesso, siaggiravano tra le sarte come animali predatori.

In fabbrica Shin incontrò un prigioniero, un uomo istruito di Pyongyang che aveva studiato in Europa e vissuto inCina, e che gli avrebbe aperto gli occhi su tutto quello che si stava perdendo.

18 Stephan Haggard e Marcus Noland, Famine in North Korea, Columbia University Press, New York 2007, p. 175.19 Wonhyuk Lim, North Korea’s Economic Futures, Brookings Institution, Washington DC 2005.

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CUCIRE E TRADIRE

Il compito delle sarte, circa un migliaio, era cucire divise militari su turni di dodici ore. Shin era responsabile diuna cinquantina di macchine per cucire a pedali e delle prigioniere che le manovravano: quando si rompevano, cosache capitava spesso, toccava a lui ripararle.

Se ogni giorno non veniva raggiunta la quota di uniformi prevista, Shin e le sarte venivano costretti al “lavoro dellavergogna”, ovvero due ore extra nel reparto produzione, solitamente dalle dieci a mezzanotte. Le lavoratrici piùesperte sapevano come prendersi cura delle proprie macchine, ma quelle nuove, quelle meno capaci o quellegravemente malate no. Ogni volta che si guastavano Shin e gli altri addetti dovevano caricarsele sulla schiena etrasportarle in un’officina per le riparazioni al piano di sopra. Venivano costruite in una fonderia del Campo 14, ederano fatte di ghisa.

Capitava spesso che il lavoro extra facesse imbestialire qualche riparatore, che si sfogava con le sarte tirandoleper i capelli, sbattendole contro il muro e prendendole a calci. In quelle occasioni, i capisquadra della fabbrica,prigionieri appositamente selezionati per la loro durezza, facevano finta di non vedere; l’idea, spiegavano a Shin, erache il terrore stimolasse la produttività.

Per quanto fosse ancora piccolo e ossuto, Shin non era più un bambino passivo, malnutrito e traumatizzato dalletorture, e nel suo primo anno in fabbrica ne diede prova a se stesso e ai colleghi affrontando a muso duro Gong JinSoo, un riparatore noto per essere una testa calda. Un giorno, sotto gli occhi di Shin, aveva perso il controllo e preso acalci in pieno volto, facendola collassare a terra, una sarta che aveva rotto l’asse di una macchina per cucire. Quandopretese un trasportatore – un pezzo fondamentale delle macchine che controlla la misura del punto regolando lavelocità con cui il tessuto scorre sotto l’ago – da una sarta che lavorava con Shin, questa cortesemente rifiutò.

Sotto i suoi occhi, Gong le diede un pugno che le fece sanguinare il naso.A quel punto, sorprendendo tanto se stesso quanto le sue sarte, Shin perse le staffe. Prese una grossa chiave

inglese e lo colpì con tutte le sue forze cercando di fracassargli il cranio. L’attrezzo lo ferì sull’avambraccio, cheaveva sollevato appena in tempo per proteggersi la testa.

Gong emise un urlo di dolore e cadde a terra. Il capoturno si precipitò sul posto e trovò Shin con lo sguardoallucinato e la chiave inglese stretta in pugno, ancora addosso a Gong, sul cui braccio insanguinato era spuntato unbozzo grande come un uovo.

Gli tirò uno schiaffo e gli strappò via l’attrezzo. Le sarte tornarono a cucire. Da quel momento Gong si mantenne adebita distanza.

La fabbrica di vestiti è un esteso agglomerato di sette grandi edifici, tutti ben visibili nelle fotografie satellitari. Sitrova nei pressi fiume Taedong, all’ingresso della Valle 2, non lontano dalla diga idroelettrica e dagli stabilimenti cheproducono articoli di vetro e porcellana.

I dormitori ospitavano duemila sarte e cinquecento uomini che si occupavano della riparazione delle macchine, deldisegno degli abiti, della manutenzione dell’officina e delle spedizioni. Il sovrintendente della fabbrica era l’unicobowiwon sul sito. Tutti gli altri capisquadra, incluso il chongbanjang, o capofficina, erano prigionieri.

Per Shin lavorare lì dentro significava trovarsi quotidianamente a stretto contatto con diverse centinaia di donne:adolescenti, ventenni e trentenni. Ce n’erano di molto attraenti, e la loro sessualità era causa di tensioni in officina. Inparte era colpa delle divise fuori misura che erano costrette a indossare, senza reggiseni e il più delle volte senzabiancheria intima. Non potendo usare neanche gli assorbenti, spesso i loro abiti erano macchiati di sangue mestruale.

In mezzo a tutte queste donne, Shin, ventenne ancora vergine, si sentiva nervoso. Certo, ne era attratto; ma avevaanche paura della regola del campo che prevedeva la morte per tutti i prigionieri che avessero rapporti sessuali nonapprovati, per cui faceva attenzione a mantenere un certo distacco e a non lasciarsi mai coinvolgere da nessuna di loro.

Com’è facile immaginare, l’obbligo di astenersi dai rapporti non aveva il benché minimo valore per il

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sovrintendente, così come per quella manciata di prigionieri privilegiati che lavoravano come capisquadra. Il primo,una guardia sulla trentina, si aggirava tra le sarte come un compratore a un’asta di bestiame. Ogni due o tre giornisceglieva una ragazza diversa e le ordinava di pulirgli la stanza, che si trovava all’interno della fabbrica. Tutte quelleche non erano state chiamate a svolgere tale compito si trasformavano automaticamente in un lecito bersaglio per ilcapofficina e gli altri prigionieri con compiti di sorveglianza.

Per le donne concedersi era l’unica opzione disponibile, e in ogni caso avevano anche loro qualcosa daguadagnarci, almeno nel breve termine: se compiacevano il sovrintendente o uno dei capisquadra potevano aspettarsimeno lavoro e più cibo, ed evitare di essere picchiate se rompevano una macchina.

Una sarta che puliva regolarmente la stanza del sovrintendente era Park Choon Young, che Shin conosceva dallascuola secondaria e che lavorava con una macchina di cui lui curava la manutenzione. Aveva ventidue anni ed era moltobella. Trascorreva i pomeriggi lì dentro da quattro mesi quando Shin apprese da un altro ex compagno di scuola che eraincinta. La gravidanza fu tenuta segreta fino a quando il pancione non iniziò a spuntare dall’uniforme. La ragazzascomparve.

Shin imparò a riconoscere il possibile guasto di una macchina dal rumore che faceva, ma quando si trattava ditrasportare quegli aggeggi ingombranti in officina non poteva dirsi altrettanto abile. Nell’estate del 2004, mentresaliva una rampa di scale portandone una sulla schiena, gli scivolò dalle mani, rotolò giù e si sfasciò completamente.

Nel vedere la macchina ormai irrecuperabile, il caposquadra – che si era mostrato paziente nei suoi confrontimentre prendeva dimestichezza con il lavoro – prima lo prese a schiaffi e poi corse a riferire il danno ai suoisuperiori. Le macchine per cucire erano considerate più preziose dei prigionieri: rovinarle era un’offesa grave.

Pochi minuti dopo l’incidente Shin fu convocato nell’ufficio del sovrintendente dello stabilimento, insieme alcapofficina e al caposquadra che aveva denunciato l’incidente.

«Dove ce l’hai la testa?» gli urlò il sovrintendente. «Vuoi morire? Com’è possibile che tu sia così debole daperdere la presa se non fai altro che ingozzarti di cibo?».

«Potrei ucciderti, ma la macchina per cucire resterebbe comunque fuori uso» aggiunse poi. «Il problema è la tuamano. Tagliategli un dito!».

Il capofficina gli afferrò la mano destra e la tenne ferma sulla scrivania del sovrintendente; con un coltello dacucina gli tagliò il dito medio appena sopra la prima falange. Subito dopo fu scortato fuori dall’ufficio e fatto rientrarenel reparto produzione.

Più tardi, quella sera stessa, il caposquadra lo portò alla clinica del campo, dove un prigioniero che lavorava comeinfermiere gli immerse il dito in acqua salata, lo suturò e lo bendò con del tessuto. Quella medicazioneapprossimativa non fu sufficiente a evitargli un’infezione, ma ricordandosi che nella cella sotterranea lo Zio glimassaggiava le ferite con la zuppa di cavolo salata, durante i pasti cominciò a immergere il dito nella zuppa.L’infezione non arrivò all’osso, e di lì a tre mesi il dito mozzato guarì.

Per due giorni il caposquadra decise di sostituirlo nel reparto produzione, una premura del tutto inaspettata che glipermise di ristabilirsi. Quel caposquadra gentile, però, non durò a lungo: pochi mesi dopo l’incidente sparì insieme asua moglie. Secondo alcuni riparatori il motivo fu proprio lei, in quanto aveva accidentalmente assistito aun’esecuzione segreta in una gola fra i monti durante un turno di lavoro nei boschi. Prima di sparire il caposquadraportò a Shin un regalo: «È farina di riso. Tuo padre vuole che tu la prenda».

Nel sentir nominare il padre Shin si arrabbiò: per quanto avesse cercato di reprimerlo, il risentimento che provavanei confronti della madre e del fratello non aveva fatto che crescere, dopo la loro morte, e aveva avvelenato anche isuoi sentimenti per il padre. Non voleva avere niente a che fare con lui.

«Mangiatelo tu» disse Shin.«Ma è per te» replicò il caposquadra, perplesso. «Perché non lo vuoi?».Nonostante la fame, Shin rifiutò.

Dato l’alto numero di prigionieri che lavoravano a stretto contatto, la fabbrica era un vero e proprio laboratorionaturale per i tradimenti. A Shin toccò un paio di settimane dopo l’incidente della macchina per cucire.

A fine turno la sua squadra non era riuscita a raggiungere la quota produttiva giornaliera, per cui fu costretta allavoro della vergogna. Shin e altri tre riparatori non tornarono al dormitorio fin dopo la mezzanotte; affamati come

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non mai, decisero di razziare l’orto della fabbrica, dove avrebbero trovato cavoli, insalata, cetrioli, melanzane eravanelli. Era una notte piovosa e senza luna, per cui immaginavano che le possibilità di esser scoperti fossero basse.Uscirono di soppiatto, si riempirono le braccia di verdure e tornarono nelle loro stanze, dove mangiarono e siaddormentarono.

Al mattino, i quattro furono convocati nell’ufficio del sovrintendente: qualcuno aveva denunciato il loro spuntinodi mezzanotte.

Il sovrintendente prima li colpì in testa uno per uno con il suo bastone, poi disse a uno dei quattro, Kang Man Bok,che poteva lasciare la stanza. Un traditore sa riconoscere un altro traditore: Shin capì istintivamente che era statoKang a fare la soffiata.

Il sovrintendente ordinò che le razioni dei tre uomini rimasti venissero dimezzate per le due settimane a venire ediede loro qualche altra bastonata in testa. Di ritorno alla fabbrica, Shin notò che Kang evitava di incrociare il suosguardo.

Presto gli fu chiesto esplicitamente di iniziare a spiare i colleghi: il sovrintendente lo chiamò nel suo ufficio e glidisse che per lavare via i peccati della madre e del fratello avrebbe dovuto denunciare chiunque commettesse azioniillecite. Gli ci vollero due mesi ma poi, finalmente, nel bel mezzo di una notte insonne, vide Kang Chul Min (uncompagno di stanza impiegato nei trasporti, non ancora trentenne) alzarsi e iniziare a ripararsi i pantaloni.

Per rammendare il buco usò un campione di stoffa delle divise militari, che evidentemente aveva rubato nelreparto produzione.

Il mattino seguente Shin andò dal sovrintendente.«Maestro, ho visto un pezzo di tessuto rubato».«Davvero? Chi ce l’aveva?».«Kang Chul Min, nella mia stanza».Quella sera Shin lavorò fino a tardi in fabbrica, e tra i riparatori fu uno degli ultimi ad arrivare, alle dieci, a un

incontro di lotta ideologica.Vide subito Kang Chul Min in ginocchio e incatenato, la schiena nuda coperta dai segni delle frustate. La sua

fidanzata segreta, una sarta di cui Shin aveva più volte sentito parlare, era inginocchiata al suo fianco, anche leiincatenata. Rimasero così, in silenzio, per tutti i novanta minuti dell’incontro, al termine del quale ognuno deilavoratori ricevette l’ordine di schiaffeggiare entrambi prima di lasciare la stanza. Shin non si tirò indietro.

Venne poi a sapere che furono obbligati a restare in ginocchio su un pavimento di cemento per molte altre ore. Idue non scoprirono mai chi li avesse denunciati.

Shin fece del suo meglio per evitare di guardarli negli occhi.

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DECIDERE DI NON FARE LA SPIA

Il sovrintendente aveva un altro “compito” per Shin, un nuovo e importante prigioniero di nome Park Yong Chul.Era un uomo basso e robusto con una folta chioma canuta: aveva vissuto all’estero ed era sposato con una donna dibuona famiglia con contatti importanti nel governo. Shin avrebbe dovuto insegnargli a riparare le macchine per cuciree guadagnare la sua fiducia, per poi riportare qualsiasi informazione sul suo passato, la sua attività politica e la suafamiglia.

«Vogliamo che confessi» gli disse il sovrintendente. «Ci sta nascondendo qualcosa».Nell’ottobre del 2004 i due iniziarono a passare quattordici ore al giorno insieme nella fabbrica di vestiti. Park

ascoltava con estrema cortesia tutte le istruzioni sulla manutenzione delle macchine, e con altrettanta cortesia evitavadi rispondere alle domande sul suo passato. Shin scoprì ben poco.

Poi un giorno, dopo quattro settimane di silenzio pressoché totale, Park lo sorprese con una domanda personale.«Signore, la sua casa dov’è?».«La mia… casa? La mia casa è qui».«Io vengo da Pyongyang, signore» disse lui.Gli parlava usando appellativi formali e desinenze verbali, che nella lingua coreana stavano a indicare l’esperienza

e la superiorità di Shin, “il maestro”, su Park, “l’apprendista”. La pedanteria linguistica di quel dignitosoquarantacinquenne lo irritava e imbarazzava allo stesso tempo.

«Sono più giovane di te» gli disse. «Per favore, lascia perdere queste formalità».«Va bene, lo farò» rispose Park.«Tra l’altro» continuò Shin, «dov’è Pyongyang?».Questa domanda lo lasciò di sasso, ma non rise né condannò la sua ignoranza; piuttosto, sembrò incuriosito. Gli

spiegò con pazienza che Pyongyang si trovava a un’ottantina di chilometri a sud del Campo 14, ed era la capitale dellaCorea del Nord, la città in cui vivevano tutti i potenti del paese.

L’ingenuità di Shin aveva rotto il ghiaccio: Park iniziò a parlare di sé. Disse che era cresciuto in un appartamentoampio e confortevole e che aveva seguito il percorso scolastico privilegiato delle élite nordcoreane, studiando nellaGermania dell’Est e in Unione Sovietica.

Tornato a casa era diventato direttore di un centro sportivo della capitale dedicato al taekwondo, un lavoro di altoprofilo che gli aveva permesso di incontrare molti degli uomini che governavano il paese.

«Con questa mano ho stretto quella di Kim Jong Il» gli disse poggiando la mano destra sporca d’olio su unamacchina per cucire.

Aveva il fisico di un atleta, mani grandi e piene e una forza impressionante, nonostante fosse un po’ abbondante sulgiro vita. Ma ciò che più colpiva Shin era la sua delicatezza. Senza mai farlo sentire uno stupido, cercavapazientemente di descrivergli la vita fuori dal Campo 14 e dalla Corea del Nord, dando così inizio a una specie diseminario individuale che nel giro di un mese gli avrebbe cambiato la vita per sempre.

Mentre camminavano verso l’officina, gli raccontò che il gigantesco paese lì accanto si chiamava Cina e che i suoiabitanti si stavano rapidamente arricchendo. A sud, invece, esisteva un’altra Corea, dove erano già tutti ricchi. Glispiegò il concetto di denaro; gli parlò dell’esistenza della televisione e dei computer e dei telefoni cellulari; glispiegò che la terra è rotonda.

Soprattutto all’inizio, Shin fece fatica a capire, credere o interessarsi alla maggior parte delle cose che Park gliraccontava. Non gli importava granché di come funzionasse il mondo. Quello che gli piaceva veramente, e che non sistancava mai di ascoltare, erano i racconti sul cibo, in particolar modo se avevano per protagonista la carne grigliata.Erano queste le storie che lo tenevano sveglio la notte a fantasticare su una vita migliore, e non solo perché il lavoromassacrante, con pasti scarsi e turni infiniti, gli provocava un appetito perenne: c’era qualcosa di più profondo,

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qualcosa che era rimasto sepolto nella sua memoria da quando, a tredici anni, lottava per guarire dalle ustioni nellaprigione sotterranea. Lo Zio aveva acceso la sua immaginazione con favolosi racconti di pasti squisiti e abbondanti, el’aveva spinto ad avere il coraggio di sognare, un giorno, di uscire dal campo e mangiare qualsiasi cosa desiderasse. Lalibertà, nella testa di Shin, non era che un sinonimo di carne alla griglia.

Se il vecchio compagno di cella gli aveva descritto le delizie culinarie della Corea del Nord, ora Park potevaoffrirgli avventure gustative su scala globale. Gli descrisse gli incanti del pollo, del maiale e del manzo in Cina, HongKong, Germania, Inghilterra e nella ex Unione Sovietica, e più Shin ascoltava più cresceva in lui la voglia di andarseneda lì. Desiderava un mondo in cui un individuo insignificante come lui avrebbe potuto entrare in un ristorante eriempirsi lo stomaco di riso e carne. Sognava una fuga, perché voleva mangiare come Park.

Inebriato da ciò che sentiva dal prigioniero che avrebbe dovuto tradire, Shin prese forse la prima decisione liberadella sua vita: scelse di non farlo. Questo segnò uno spostamento enorme nei suoi calcoli per la sopravvivenza.L’esperienza gli aveva insegnato che fare la spia pagava; lo aveva salvato dai boia che avevano ucciso la madre e ilfratello, e dopo la loro esecuzione era forse la ragione per cui l’insegnante della scuola secondaria si era assicuratoche avesse sempre del cibo. Inoltre aveva messo fine alle vessazioni e gli aveva permesso di ottenere un lavoro tuttosommato comodo nell’allevamento di maiali.

Ad ogni modo, la decisione di tenere per sé le confidenze di Park non era frutto di una nuova comprensione delconcetto di giusto o sbagliato. Ripensando a quel periodo, Shin si rende conto di quanto il suo comportamento siastato in realtà fondamentalmente egoista: se avesse rivelato le informazioni fornitegli da Park, avrebbe sì potutoguadagnarsi una porzione di cavolo extra, o magari essere promosso a caposquadra con tanto di “permesso speciale”per approfittarsi delle sarte, ma niente era più prezioso dei suoi racconti. Erano ormai una dipendenza, eccitante einsostituibile, che aveva rivoluzionato le sue aspettative sul futuro. E che l’aveva spinto a fare progetti.

Era convinto che se non avesse più potuto ascoltarli sarebbe impazzito.Al cospetto del sovrintendente Shin si trovò a raccontare una bugia meravigliosamente liberatoria: Park non aveva

nulla da dire.

Una decina di anni prima, nella prigione sotterranea, il suo anziano compagno di cella aveva avuto l’ardire diparlargli del cibo al di fuori del campo, ma non aveva mai detto una parola su di sé o sulla politica. Era cauto,sospettoso e trattenuto, e vedendo in Shin un potenziale informatore non si era mai fidato davvero di lui. Dal cantosuo, Shin non se l’era affatto presa, e lo considerava un comportamento del tutto normale: la fiducia, dopo tutto, eraun ottimo modo per farsi fucilare.

Questa volta le cose andarono diversamente: superata la reticenza iniziale, Park non si dimostrò mai sospettoso, enell’apparente convinzione che Shin fosse tanto affidabile quanto ignorante gli regalò la storia della sua vita.

Gli disse che aveva perso il posto di direttore del centro di taekwondo nel 2002 dopo uno scontro con unfunzionario di medio livello che, a quanto pare, aveva riportato informazioni sul suo conto alle alte sfere del governo.Senza più un lavoro, Park si era diretto verso il confine settentrionale insieme alla moglie, da lì entraronoillegalmente in Cina e laggiù vissero con uno zio per diciotto mesi. L’intenzione era di tornare a Pyongyang, doveavevano lasciato un figlio adolescente che viveva con i nonni paterni.

In Cina ascoltava tutti i giorni le trasmissioni radio della Corea del Sud concentrandosi in maniera particolaresulle notizie relative a Hwang Jang Yop, uno dei principali ideatori dell’ideologia nordcoreana nonché l’ufficiale di piùalto grado ad aver mai disertato. Hwang, fuggito nel 1997, era diventato una celebrità a Seoul.

Durante i turni in fabbrica Park spiegò a Shin che Hwang aveva criticato Kim Jong Il per aver trasformato la Coreadel Nord in un corrotto stato feudale; nel 2010 alcuni agenti al servizio di Kim furono incaricati di trovarlo eucciderlo, ma furono arrestati a Seoul e Hwang morì quello stesso anno per cause naturali, a ottantasette anni.

Park lasciò la Cina e tornò in Corea del Nord nell’estate del 2003, insieme alla moglie e a un nuovo figlio: volevatornare a Pyongyang in tempo per partecipare alle elezioni d’agosto per l’Assemblea Popolare Suprema, il parlamentofantoccio della Corea del Nord.

Le elezioni nordcoreane non sono che dei vuoti rituali, con candidati scelti dal Partito dei Lavoratori di Corea chesi presentano senza nessuna opposizione. Park però temeva che se fosse mancato all’appuntamento il governo avrebbenotato la sua assenza, dichiarato che era un traditore e spedito l’intera famiglia in un campo di lavoro. Anche se il votonon è obbligatorio, il governo controlla da vicino chiunque non si presenti alle urne.

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Al confine le autorità nordcoreane lo trattennero insieme alla sua famiglia. Lui cercò di convincerli di non essereun rifugiato: aveva semplicemente fatto visita a dei parenti in Cina e stava tornando a casa per votare. Non fu creduto evenne accusato di essere un convertito al cristianesimo e una spia della Corea del Sud; dopo vari interrogatori Park, lamoglie e il figlio vennero internati nel Campo 14. Lui fu assegnato alla fabbrica di tessuti nell’autunno del 2004.

Quando Shin lo incontrò, era furioso con se stesso per aver deciso di tornare in Corea del Nord. La sua stupiditàgli era costata la libertà e presto gli sarebbe costata anche la moglie, che ora voleva il divorzio. Veniva da una famigliaillustre di Pyongyang con forti agganci all’interno del partito, spiegò Park, e stava cercando di convincere le guardiedel campo di essere sempre stata una moglie fedele e remissiva, inconsapevole di aver sposato un criminale politico.

Per quanto fosse arrabbiato con il suo paese, con la moglie e con se stesso, Park mostrava sempre un grandecontegno, soprattutto all’ora dei pasti. Shin lo trovava stupefacente: era completamente diverso dagli altri prigionieridel campo, che di fronte al cibo si trasformavano in bestie impazzite. Quando Shin catturava qualche ratto in fabbrica,Park lo convinceva ad aspettare a mangiarlo fino a quando non avessero trovato un forno o un fuoco, per cuocerlo adovere. Ogni tanto Park si concedeva qualche momento di spensieratezza, anche se per i gusti di Shin si lasciavaprendere un po’ troppo la mano.

Per esempio, quel “brutto vizio” di cantare. Una notte, nel bel mezzo di un turno in officina, Park lo spaventò conun vocalizzo improvviso.

«Ma cosa diavolo stai facendo?» gli chiese, temendo che qualche caposquadra potesse sentire.«Sto cantando» rispose lui.«Smettila immediatamente!».Shin non aveva mai cantato una canzone in vita sua e le uniche melodie che avesse mai sentito erano le musiche

marziali trasmesse nell’allevamento dagli altoparlanti degli autocarri, mentre i prigionieri strappavano le erbacce. Glisembrava qualcosa d’innaturale e follemente rischioso.

«Perché non ti unisci a me?» chiese Park.Shin scosse la testa, cercando di farlo tacere.«Chi potrà mai sentirmi a quest’ora? Dai, canta con me una volta soltanto».Di nuovo rifiutò.Park gli chiese perché avesse così paura di un’innocua canzone, mentre era avido di storie sediziose su quanto

Kim Jong Il fosse disonesto e la Corea del Nord un inferno.Il motivo, ribatté Shin, era che se non altro quelle cose aveva il buon senso di sussurrarle. «Vorrei che evitassi di

cantare» concluse.Park sul momento acconsentì, ma qualche notte più tardi, all’improvviso, intonò di nuovo un motivo di cui si offrì

di insegnargli il testo. Pur restando sospettoso e spaventato, questa volta Shin ascoltò e cantò insieme a lui, sottovoce.Il testo di Canzone del solstizio d’inverno, che gli ultimi rifugiati dicono essere la sigla di un popolare

programma della televisione di Stato nordcoreana, parla di compagni di viaggio che sopportano insieme avversità edolori.

Nel lungo, lungo cammino della vita,saremo sempre compagni di viaggio,uniti contro le sferzate del vento e della pioggia.Su quel cammino incontreremo gioie e dolorima insieme li supereremo; sopporteremo tuttele tempeste della vita.

Ancora oggi questa è l’unica canzone che conosce.A novembre, non molto dopo l’arrivo di Park alla fabbrica di tessuti, quattro bowiwon fecero una visita a sorpresa

all’incontro serale di autocritica dei prigionieri. Due di loro non avevano volti familiari, per cui Shin immaginò chenon fossero del campo.

Terminata la sessione, la guardia al comando decise di affrontare il tema dei pidocchi, un problema cronico neicampi. Chiese a chi li aveva di fare un passo avanti.

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Un uomo e una donna, responsabili dei rispettivi dormitori, dissero che nelle loro baracche la situazione era fuoricontrollo, al che le guardie consegnarono a entrambi un secchio pieno di un liquido torbido che puzzava, secondoShin, di prodotto chimico per l’agricoltura.

Per testarne l’efficacia chiesero a cinque uomini e cinque donne dei dormitori infetti di usarlo per lavarsi. Shin ePark ovviamente li avevano, ma a loro non fu concessa l’opportunità di sperimentare questo nuovo trattamento.

Nell’arco di una settimana tutti e dieci i detenuti che si erano lavati con il liquido in questione avevano sviluppatodelle bolle sulla pelle, che dopo qualche settimana aveva iniziato a putrefarsi e a squamarsi. Avevano la febbre alta enon erano più in grado di lavorare. Vennero caricati su un autocarro, e da quel momento Shin non li rivide mai più.

Fu allora, a metà dicembre del 2004, che decise di averne abbastanza.E fu allora che iniziò a pensare alla fuga.Era stato Park a rendere possibili simili pensieri, ad aver cambiato il suo modo di relazionarsi con il prossimo; la

loro amicizia aveva rotto uno schema lungo una vita, e che affondava le proprie radici nel rapporto ostile che avevasempre avuto con la madre, fatto di diffidenza e tradimento. Non più in balia dei suoi carcerieri, era convinto di averfinalmente trovato qualcuno che lo avrebbe aiutato a sopravvivere.

Per molti versi il loro rapporto ricorda il legame di fiducia e protezione reciproca che manteneva in vita e sani dimente i prigionieri dei campi di concentramento nazisti. Si è infatti scoperto che in quei campi l’“unità base disopravvivenza” era la coppia, non l’individuo. «Era nelle coppie che i prigionieri preservavano una parvenza diumanità» sostiene Elmer Luchterhand, sociologo di Yale che ha intervistato cinquantadue sopravvissuti ai campi pocodopo la liberazione20.

Le coppie rubavano cibo e vestiti l’uno per l’altro, si scambiavano piccoli doni e facevano progetti per il futuro. Seuno dei due sveniva per la fame di fronte a un ufficiale delle SS, l’altro lo afferrava e lo rimetteva in piedi. «Lasopravvivenza, lungi dall’essere un traguardo individuale, era possibile solo in quanto obbiettivo condiviso» ha scrittoil partigiano belga Eugene Weinstock, ebreo di origini ungheresi deportato a Buchenwald nel 194321.

Spesso la morte di uno dei due condannava l’altro. Alcune donne che conobbero Anna Frank nel campo di Bergen-Belsen hanno raccontato che non furono la fame o il tifo a uccidere la bambina che sarebbe diventata la più famosadiarista dell’epoca nazista. Anna avrebbe perso la voglia di vivere dopo la morte della sorella, Margot22.

Come i campi di concentramento nazisti, i campi di lavoro della Corea del Nord sfruttano la reclusione, la fame ela paura per creare una sorta di camera di condizionamento di Skinner, uno spazio chiuso e regolato in cui le guardierivendicano un controllo assoluto sui prigionieri. Se Auschwitz è esistito per “soli” tre anni, il Campo 14 è invece unacamera di Skinner vecchia cinquanta, un esperimento ininterrotto di repressione e manipolazione della mente in cui leguardie allevano prigionieri che controllano, isolano e scagliano gli uni contro gli altri fin dal giorno della loronascita. Il vero miracolo dell’amicizia tra Shin e Park è la rapidità con cui è riuscita a far saltare quel meccanismo. Lospirito dell’uomo, la sua dignità e le sue incendiarie informazioni diedero a Shin qualcosa che era al tempo stessoaffascinante e impossibile da sopportare: un contesto, uno strumento per fantasticare sul futuro.

All’improvviso Shin capì dove si trovava e cosa si stava perdendo. Il Campo 14 non era più la sua casa: era unagabbia ripugnante.

Ma il suo amico giramondo dalle spalle larghe avrebbe potuto aiutarlo ad andarsene.

20 Elmer Luchterhand, Prisoner Behavior and Social System in the Nazi Camp, in “International Journal of Psychiatry”, 13, 1967, pp.245-264.

21 Eugene Weinstock, Beyond the Last Path, Boni and Gaer, New York 1947, p. 74.22 Ernest Schable, A Tragedy Revealed: Heroines’ Last Days, in “Life”, 18 agosto 1958, pp. 78-144; citato da Shamai Davidson in Human

Reciprocity Among the Jewish Prisoners in the Nazi Concentration Camps, in The Nazi Concentration Camps, Yad Vashem,Gerusalemme 1984, pp. 555-572.

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SECONDA PARTE

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PREPARARSI A FUGGIRE

Il loro piano era semplice, e follemente ottimistico.Shin conosceva il campo. Park conosceva il mondo. Shin avrebbe fatto in modo che superassero la recinzione,

Park che raggiungessero la Cina, dove suo zio avrebbe offerto a entrambi accoglienza, denaro e aiuto per proseguire ilviaggio in Corea del Sud.

Fu Shin ad avere l’idea di evadere insieme, ma prima di sollevare l’argomento fu nervoso per giorni al pensieroche Park potesse essere un informatore, che gli fosse stata tesa una trappola e che sarebbe stato giustiziato come suamadre e suo fratello. Anche quando Park accolse la proposta, la paranoia non accennò ad andarsene: se lui era statocapace di tradire la sua stessa madre, perché mai quest’uomo non avrebbe dovuto fare lo stesso con lui?

Il piano di fuga comunque iniziò a prendere forma, e alla fine l’entusiasmo prevalse sulla paura. Si svegliava diottimo umore dopo sogni di carne grigliata lunghi una notte intera, e all’improvviso trasportare macchine per cucire sue giù per le scale della fabbrica non gli sembrava più così logorante. Per la prima volta in vita sua Shin aveva qualcosa acui guardare con impazienza. Dal momento che a Park era stato ordinato di seguirlo dappertutto, le giornate lavorativesi trasformarono in maratone di preparativi di fuga sussurrati e resoconti motivanti a proposito dell’ottima cucina cheli aspettava in Cina.

Decisero che se le guardie li avessero sorpresi alla recinzione, Park li avrebbe sgominati con le sue mosse ditaekwondo; nonostante fossero armate, i due si convinsero a vicenda di possedere buone possibilità di farcela.

Le loro aspettative erano assurde sotto tutti i punti di vista. Nessuno era mai fuggito dal Campo 14; anzi, pare chesoltanto due persone siano mai riuscite a fuggire da uno qualsiasi dei campi per prigionieri politici della Corea delNord e a raggiungere l’occidente. Uno di questi è Kim Yong, l’ex tenente colonnello con agganci nelle alte sfere delgoverno, il quale, però, non dovette oltrepassare una recinzione perché fuggì grazie a quella che ha chiamato«un’opportunità del tutto miracolosa». Nel 1999, infatti, sfruttando le falle nella sicurezza si nascose sotto unpannello di metallo sul fondo di un vagone fatiscente su cui stavano caricando del carbone; quando il treno lasciò ilCampo 18, Kim, che conosceva bene le campagne circostanti, lo lasciò con lui, e una volta al confine sfruttò i suoicontatti personali per introdursi in sicurezza in Cina.

L’altra evasa è Kim Hye Sook, anche lei dal Campo 18. Vi fu imprigionata per la prima volta insieme alla famiglianel 1975, a tredici anni. Le autorità la liberarono nel 2001, ma poco dopo la rispedirono dentro; riuscì infine aevadere in maniera definitiva, e nel 2009 lasciò la Corea del Nord per la Corea del Sud, attraverso Cina, Laos eThailandia.

La prigione da cui era scappato Kim Yong non era neanche lontanamente blindata come quella da cui Shin e Parkstavano ora programmando di andarsene. Come scrisse nella sua autobiografia, Long Road Home, fuggire dal Campo14 sarebbe stato impossibile perché «le guardie si comportavano come se fossero su un fronte di guerra»23. Avevatrascorso due anni lì dentro prima di essere trasferito nel campo da cui sarebbe poi evaso, e nel libro ne descrive lecondizioni di vita come «talmente dure che una fuga non era possibile neanche immaginarla».

Shin e Park non conoscevano Kim Jong, né quello che aveva fatto, e non avevano modo di valutare obiettivamentele probabilità di scappare dal Campo 14 o di trovare un passaggio sicuro per la Cina; Park però credeva alletrasmissioni radiofoniche di Seoul che aveva sentito quando viveva al di là del confine, a tutti quei servizi che siconcentravano sui fallimenti e le debolezze del governo nordcoreano. Raccontò a Shin che le Nazioni Unite avevanoiniziato a criticare le violazioni dei diritti umani che avvenivano nei campi di lavoro, e disse anche di aver sentito chein un futuro non troppo distante quegli stessi campi sarebbero spariti24.

Nonostante avesse molto viaggiato in Corea del Nord e in Cina, Park gli confidò di sapere ben poco dellemontagne scoscese, nevose e deserte al di là della recinzione; né aveva una chiara idea di quali strade avrebbero potuto

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condurli sani e salvi fuori dal paese.Shin conosceva la struttura del campo grazie alle infinite giornate trascorse a far legna e raccogliere ghiande, ma

non aveva idea di come scavalcare o passare attraverso la recinzione ad alta tensione che lo circondava. Non sapeva seil contatto con i fili metallici l’avrebbe ucciso, anche se il pensiero lo preoccupava. E non poteva fare a meno dipensare, nelle settimane e i giorni prima della fuga, a quel che era successo a sua madre e suo fratello.

Non era senso di colpa, ma paura: paura di fare la loro stessa fine. La sua mente continuava a tornare alle immaginidella loro uccisione; si vedeva di fronte a un plotone d’esecuzione o su una scatola di legno con un cappio intorno alcollo.

Con un calcolo basato più sul desiderio di andarsene che non sulle effettive informazioni in suo possesso, siconvinse di avere il novanta per cento di probabilità di oltrepassare la recinzione e un dieci per cento di esserefucilato.

I preparativi pre-fuga consistettero principalmente nel rubare scarpe nuove e abiti caldi a un altro prigioniero. Ilmalcapitato dormiva nello stesso stanzone di Shin, e nella fabbrica di vestiti era impiegato come tagliatore, un lavoroche gli permetteva di accumulare scampoli di tessuto che barattava poi con cibo e altri beni. Essendo particolarmentemeticoloso, era l’unico prigioniero in tutto il campo ad essere riuscito a mettere insieme un intero set di ricambio discarpe e indumenti invernali.

Shin non aveva mai rubato i vestiti a un altro prigioniero, ma da quando aveva smesso di fare la spia sopportavasempre meno chi continuava a comportarsi da traditore. E disprezzava in particolar modo proprio il tagliatore, chedenunciava qualsiasi piccolo furto dall’orto della fabbrica; tutto sommato, pensava Shin, meritava di essere derubato.

Dal momento che i detenuti non disponevano di armadietti o di qualsiasi altro mezzo per mettere al sicuro i proprieffetti personali, si trattava semplicemente di aspettare che lasciasse la stanza per poi sottrargli scarpe e vestiti enasconderli fino al momento della fuga; quando non trovò più le sue cose, i suoi sospetti non caddero su Shin. Lescarpe rubate non erano della misura giusta (nel campo non lo erano quasi mai), ma erano relativamente nuove.

I vestiti venivano distribuiti solo ogni sei mesi. A fine dicembre, quando i due iniziarono a orchestrare la loro fuga,i pantaloni invernali di Shin avevano buchi sulle ginocchia e sul sedere.

Non avendo un cappotto, un berretto o dei guanti che lo proteggessero dal freddo pungente, Shin decise che quelgiorno avrebbe indossato i suoi vecchi abiti sotto quelli rubati.

Pianificare un’evasione significava aspettare una missione lavorativa che li portasse fuori dalla fabbrica e chefornisse loro una scusa per avvicinarsi alla recinzione. L’occasione si presentò il primo dell’anno, un raro momento difesta in cui i macchinari per due giorni si fermano: Shin venne a sapere a fine dicembre che il 2 gennaio, il secondogiorno di chiusura, la sua squadra di riparatori e alcune sarte avrebbero lasciato la fabbrica e sarebbero stati scortatisulla cresta di un monte all’estremità orientale del campo, dove avrebbero trascorso la giornata a potare alberi eaccatastare legna. Avendo già lavorato lassù, sapeva che era vicino alla recinzione che correva lungo il crinale.

Informato di tutto, Park concordò che il giorno della fuga fosse fissato per il 2 gennaio 2005. Quando lostabilimento chiuse i battenti, il primo di gennaio, con una certa riluttanza Shin decise di fare un’ultima visita al padre.

Il loro rapporto, da sempre distaccato, si era ulteriormente raffreddato; nei rari giorni in cui non doveva lavorarealla fattoria o in fabbrica, non aveva quasi mai approfittato delle regole del campo che gli consentivano di andare atrovarlo. Trascorrere del tempo con lui era diventato un’angoscia.

Non capiva con chiarezza cosa glielo facesse odiare così tanto, neppure lui riusciva a spiegarselo. Era stata lamadre a mettere a rischio la sua vita progettando una fuga quando lui aveva tredici anni, ed erano stati lei e il fratello ascatenare la serie di eventi che avevano portato al suo arresto, alle torture e alle angherie subite alla scuola secondaria;il padre era semplicemente un’altra vittima.

Ma era vivo, e sperava in una riconciliazione: nella logica impietosa che governa i rapporti tra padri distanti e figlicolmi di risentimento, questo era un motivo sufficiente per giustificare il disprezzo di Shin nei suoi confronti.

In un refettorio sul luogo di lavoro del padre condivisero una cena del primo dell’anno – tutt’altro che serena ecordiale – a base di farina di granturco e zuppa di cavolo. Shin si guardò bene dal menzionare il suo piano: mentre eraper strada si era ripetuto che qualsiasi manifestazione di emozioni, qualsiasi velata allusione a un ultimo addio avrebbepotuto mettere a rischio l’intero progetto. Non si fidava del tutto di lui.

Il padre aveva provato, dopo l’uccisione della moglie e del figlio maggiore, a mostrarsi più premuroso. Si era

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scusato per essere stato un cattivo genitore e per aver esposto il ragazzo alla ferocia del campo, e l’aveva persinoincoraggiato, se mai ne avesse avuto l’occasione, a «vedere com’è fatto il mondo»; ma forse quella tiepidamanifestazione di appoggio era stata appena accennata, perché neanche il padre si fidava completamente di lui.

Dopo la sua assegnazione alla fabbrica di vestiti, dove le occasioni di trovare o rubare cibo extra eranoparticolarmente magre, l’uomo era riuscito con enorme fatica a procurarsi la farina di riso e a mandargliela in dono.Shin l’aveva accolta con disprezzo e, nonostante la fame, l’aveva rifiutata.

Ora, seduti insieme in mensa, nessuno dei due toccò l’argomento, e quando quella sera il ragazzo se ne andò non cifu nessun addio speciale. Shin non aveva dubbi sul fatto che non appena le guardie avessero saputo della fuga sarebberoandate a prendere il padre e l’avrebbero portato un’altra volta nella prigione sotterranea; ed era quasi certo che l’uomonon avesse la benché minima idea di quello che di lì a poco sarebbe successo.

23 Yong, Long Road Home, cit., p. 106.24 Park peccava di eccessivo ottimismo. Le Nazioni Unite, che nel 2004 nominarono uno special rapporteur per i diritti umani in Corea del

Nord, non sono riuscite in nessun modo a influenzare il governo di Pyongyang, né hanno avuto molto successo nell’incrementare laconsapevolezza internazionale sui campi. La Corea del Nord si rifiutò fermamente di far entrare il rappresentante delle Nazioni Unite per idiritti umani nel paese e condannò i suoi rapporti annuali come complotti per rovesciare il governo. Questi rapporti sono ottime e incisiveanalisi della crisi dei diritti umani in Corea del Nord. Nel 2009, alla fine dei suoi sei anni come rapporteur, Vitit Muntarbhorn dichiarò: «Losfruttamento della gente comune […] è diventata la tragica prerogativa dell’élite al potere». E aggiunse che «[l]a situazione dei dirittiumani nel paese resta spaventosa a causa della natura repressiva della base del potere: al tempo stesso isolata, controllata e crudele».

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LA RECINZIONE

All’alba del giorno successivo un caposquadra guidò Shin, Park e un’altra ventina di prigionieri su per la montagna.Si misero al lavoro vicino a una scarpata di sessanta metri. Il cielo era limpido e il sole splendeva su una spessa coltredi neve, ma faceva freddo e tirava vento. Alcuni tagliavano con piccole asce i rami degli alberi abbattuti, altriaccatastavano la legna.

La missione lavorativa del giorno era stata uno straordinario colpo di fortuna, che li portò molto vicini allarecinzione che correva lungo la cresta del monte.

Il tratto da percorrere per raggiungerne l’estremità più lontana era parecchio ripido, ma comunque affrontabile apiedi; una volta arrivati lì, la vegetazione che cresceva rigogliosa poco distante avrebbe offerto loro riparo. Circaquattrocento metri più a nord rispetto al punto in cui erano impegnati a spaccar legna svettava una torre di guardia.

I soldati, in fila per due, pattugliavano il perimetro interno della recinzione, ma Shin notò lunghe pause tra un girodi ricognizione e l’altro. Anche il caposquadra responsabile del gruppo di lavoro era un prigioniero, per cui non eraarmato; negli intervalli tra i pattugliamenti non c’era nessuno nei paraggi che potesse aprire il fuoco contro di loro.Avevano deciso in precedenza che avrebbero aspettato fino al tramonto, quando sarebbe stato più difficile seguire leloro impronte sulla neve.

Nell’attesa Shin meditava su come gli altri detenuti fossero indifferenti alla recinzione e alle opportunità al di là diessa; erano come mucche, pensava, passivi ruminanti rassegnati a vivere in gabbia. Prima di conoscere Park, lui eraesattamente come loro.

Intorno alle quattro, con il sole che iniziava a calare, i due si avvicinarono con cautela alla recinzione, senza maismettere di potare gli alberi. Nessuno sembrò accorgersene. Presto Shin se la trovò di fronte; era alta circa tre metri.

Nel punto in cui si era fermato la neve gli arrivava fino alle ginocchia, ma poco più in là le guardie di pattuglial’avevano schiacciata con il loro passo pesante formando una specie di sentiero. Oltre il sentiero c’era un’ordinatastriscia di sabbia che avrebbe rivelato le impronte di chiunque l’avesse calpestata, e ancora più in là la recinzione:sette o otto trefoli di filo spinato ad alta tensione a circa trenta centimetri l’uno dall’alto, fissati su pali molto alti.

Secondo Kwon Hyuk, un rifugiato che lavorava come caposquadra nel Campo 22, appena oltre i reticolati elettricidi alcuni campi ci sono fossati pieni di spuntoni messi apposta per trafiggere e uccidere.

Shin, però, non vide né fossati né spuntoni.Lui e Park si erano detti che se fossero riusciti a passare senza toccare i fili metallici sarebbe andato tutto bene,

ma non avevano una chiara idea di come evitarli. Eppure, con l’avvicinarsi dell’orario concordato, Shin fu sorpreso nelconstatare che non provava alcuna paura.

Lo stesso non si poteva dire di Park, che appariva distratto.Dopo il passaggio delle guardie per il pattugliamento del tardo pomeriggio, Shin si accorse che la paura gli

spezzava la voce.«Non so se ce la faccio» sussurrò. «Non possiamo provarci un’altra volta?».«Ma che stai dicendo??» gli rispose Shin. «Se non lo facciamo adesso non ci sarà un’altra volta».Temeva che sarebbero passati mesi, persino anni, prima che avessero di nuovo la possibilità di trovarsi fuori dalla

fabbrica, al crepuscolo, vicino a una sezione di recinzione non visibile da una torre di guardia.Non avrebbe potuto – né voleva – sopportare un’ulteriore attesa.“Corriamo!” urlò.Afferrò la mano di Park e lo costrinse a seguirlo. Per un paio di secondi Shin dovette letteralmente trascinare lo

stesso uomo che aveva instillato in lui il desiderio di scappare, ma presto anche Park iniziò a correre.Il piano prevedeva che fosse Shin a guidare la corsa fino al superamento della recinzione, ma scivolò e cadde in

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ginocchio sul sentiero di pattuglia gelato. Fu quindi Park ad arrivare per primo: si inginocchiò e infilò braccia, testa espalle tra i due fili più bassi.

Pochi secondi dopo Shin vide delle scintille e sentì odore di carne bruciata.La maggior parte delle recinzioni elettrificate costruite a fini di sicurezza respingono gli intrusi con un impulso di

corrente doloroso ma brevissimo: non sono progettate per uccidere, ma per spaventare persone e animali. Quelleletali, invece, usano una corrente continua che tiene le vittime attaccate al filo, provocando contrazioni muscolariinvolontarie, paralisi e infine la morte.

Prima che Shin potesse rimettersi in piedi, Park aveva smesso di muoversi. Forse era già morto. Il peso del suocorpo portò giù con sé il trefolo più basso, bloccandolo al terreno innevato e creando così un piccolo varco nellarecinzione.

Senza pensarci due volte Shin passò sul corpo dell’amico, come se si trattasse di una sorta di tappetino isolante.Sentì la corrente attraversargli il corpo, simile a tanti aghi che gli perforavano le piante dei piedi. Era quasi fuoriquando le gambe gli scivolarono dal torso di Park venendo a contatto diretto, attraverso le due paia di pantaloni cheindossava, con il trefolo più basso. L’alta tensione gli provocò, dalle caviglie alle ginocchia, delle brutte ustioni cheavrebbero sanguinato per settimane; passarono un paio d’ore, però, prima che riuscisse a rendersi conto della lorogravità.

Il ricordo più vivido di quel momento è che il corpo di Park puzzava di carne bruciata.

Il corpo umano è imprevedibile quando si tratta di condurre elettricità. Per motivi non ancora del tutto chiari, lacapacità di sopportare e sopravvivere a una scarica elettrica varia molto da un individuo a un altro. Non è questione dicorporatura o forma fisica: le persone robuste non mostrano una resistenza maggiore rispetto a quelle più gracili.

La pelle umana può essere un discreto isolante, se asciutta; e il freddo chiude i pori, riducendo la conduttività.Anche strati multipli di vestiti possono fare la loro parte. Detto ciò, mani sudate e vestiti bagnati possono facilmentesconfiggere la naturale resistenza della pelle alla corrente. Nel momento in cui penetra un corpo ben ancorato a terra(scarpe bagnate su terreno innevato), i liquidi e i sali presenti nel sangue, nei muscoli e nelle ossa si trasformano ineccellenti conduttori. Si sa di persone morte folgorate insieme, mentre si tenevano per mano. A conti fatti, lasopravvivenza di Shin a una recinzione concepita per uccidere è da vedersi come una questione di fortuna sfacciata.Che Park invece non ebbe.

Se Shin non fosse scivolato nella neve si sarebbe avventurato per primo e con ogni probabilità sarebbe morto. Luinon lo sapeva, ma per passare in sicurezza aveva bisogno di qualcosa che deviasse il flusso di corrente dalla recinzionea terra; e il corpo di Park, disteso sul terreno bagnato sopra la treccia più bassa di filo spinato, servì perfettamente alloscopo.

Con Park a deviare la corrente convogliandola verso terra, il voltaggio a cui Shin fu esposto mentre strisciava sullaschiena dell’amico probabilmente non era più letale. Anche gli strati di vestiti extra che indossava potrebbero averfatto la loro parte.

Una volta fuori non aveva la più pallida idea di dove andare; dalla cima della montagna l’unica direzione che glisembrò naturale prendere era giù, verso valle. Per un po’ camminò zigzagando tra gli alberi, ma ben presto si trovò inmezzo al nulla, perso tra campi e pascoli alpini debolmente illuminati da una mezzaluna che si intravedeva appena dadietro le nuvole.

Corse per circa due ore, sempre in discesa, fino a raggiungere una vallata di montagna, dove trovò granai e casesparse. Non sentì allarmi, né spari né urla. Da quello che gli sembrava, non c’era nessuno sulle sue tracce.

Con l’adrenalina della fuga che iniziava a venir meno, per la prima volta si accorse di avere le gambe dei pantaloniappiccicose. Arrotolandole scoprì le ferite e si rese conto della gravità delle ferite. Anche i piedi sanguinavano; avevacalpestato dei chiodi, probabilmente in prossimità della recinzione. Faceva molto freddo, la temperatura era ben al disotto dei 12 gradi sotto zero, e non aveva un cappotto.

Park, morto sulla recinzione, non gli aveva detto come fare a trovare la Cina.

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RUBARE

Dopo una corsa in discesa nel buio del crepuscolo attraverso le stoppie dei campi di mais, Shin s’imbatté nelcapanno di un contadino che faceva capolino dal fianco del colle. La porta era chiusa a chiave; non vedendo altre casenei dintorni, ruppe la serratura con il manico di un’ascia trovato per terra. Al suo interno avvistò subito tre pannocchiesecche e le divorò. Solo in quel momento si rese conto di quanto fosse affamato.

Aiutato dal chiaro di luna, passò in perlustrazione il capanno alla ricerca di altro cibo, ma trovò solo un vecchiopaio di scarpe di cotone e una divisa militare dismessa.

In Corea del Nord, la società più militarizzata al mondo, le divise sono dappertutto. L’arruolamento è praticamenteuniversale: gli uomini servono per dieci anni, le donne per sette. Di fatto, il 5 per cento della popolazione (ovvero unmilione di soldati circa) indossa la divisa; negli Stati Uniti, tanto per fare un esempio, la percentuale è dello 0,5 percento. Altri cinque milioni di persone prestano servizio come riserve per gran parte della loro vita adulta. L’esercito è«la gente, lo Stato e il partito», dice il governo, che non si descrive più come uno Stato comunista. Il suo principiofondante, secondo la costituzione, è «prima l’esercito».

I soldati in divisa pescano frutti di mare e lanciano missili, raccolgono mele e costruiscono canali d’irrigazione, sioccupano del commercio di funghi e supervisionano l’esportazione di copie abusive di giochi della Nintendo.

Inevitabilmente, le divise finiscono in granai e capannoni. I pantaloni e la casacca trovati da Shin eranodecisamente troppo grandi per lui, così come le scarpe di cotone, ma avere un cambio di vestiti meno di tre ore dopoessere fuggito dal campo e prima che qualcuno potesse notarlo fu un colpo di fortuna straordinario.

Finalmente poté liberarsi delle scarpe che aveva addosso, gelide e bagnate, e delle due paia di pantaloni, induritidalle ginocchia in giù a causa del sangue e della neve. Cercò di fasciarsi le ferite sulle gambe con le pagine di un librotrovato nella baracca, ma gli rimasero incollate sugli stinchi lacerati. Indossò la divisa, logora ed enorme, e si mise lescarpe di cotone.

Non più immediatamente riconoscibile come prigioniero in fuga, diventò semplicemente l’ennesimo nordcoreanomalnutrito, malvestito e senza calzature adatte; in un paese in cui un terzo della popolazione soffriva cronicamente lafame, in cui i mercati locali e le stazioni ferroviarie erano affollati di sudici venditori ambulanti e in cui quasichiunque aveva servito nell’esercito, non avrebbe fatto fatica a mimetizzarsi.

Fuori dal capannone imboccò una strada che lo portò fino a un villaggio a fondo valle, buio e deserto. Qui, con suasorpresa, vide il fiume Taedong; per quanto avesse corso, era soltanto a tre chilometri dal Campo 14.

La notizia della sua fuga non aveva ancora raggiunto il villaggio. Shin attraversò un ponte e si diresse a est lungouna strada parallela al corso d’acqua. Si nascose dai fari quando un’auto gli passò di fianco, poi si arrampicò su unastrada ferrata che sembrava abbandonata e continuò a camminare.

A tarda sera aveva percorso una decina di chilometri ed era entrato nella periferia di Bukchang, villaggio minerariodi diecimila abitanti subito a sud del fiume. In giro c’era qualche passante, ma Shin non ebbe la sensazione che la suapresenza potesse suscitare particolari attenzioni. Dal momento che c’erano in zona una fabbrica di alluminio, minieredi carbone e una grossa centrale elettrica, gli abitanti evidentemente erano abituati a vedere i lavoratori del turno dinotte che si aggiravano per le strade a tutte le ore. Avvistò un porcile, un’immagine familiare e confortante; entròscavalcando il cancello e trovata della paglia di riso si sistemò per la notte.

Per i due giorni successivi si aggirò nei sobborghi di Bukchang mangiando qualsiasi cosa riuscisse a raccogliereper terra o nei cumuli d’immondizia. Non aveva idea di cosa fare o dove andare. La gente per strada sembravaignorarlo. Aveva male alle gambe, fame e freddo, ma al tempo stesso era elettrizzato: si sentiva come un alieno cadutosulla terra.

Nei mesi e negli anni a venire avrebbe scoperto tutte le meraviglie della modernità, dai video in stream-streaming,

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ai blog, ai viaggi aerei internazionali. Avrebbe ascoltato i consigli di psicologi e consulenti per l’impiego, conosciutopredicatori che gli avrebbero mostrato come pregare per Gesù Cristo e amici che gli avrebbero insegnato a lavarsi identi, pagare con il bancomat e usare uno smartphone. Grazie alle letture ossessive su internet, avrebbe presodimestichezza con la politica, la storia e la geografia delle due Coree, della Cina, del Sudest asiatico, dell’Europa edegli Stati Uniti.

Niente di tutto questo, però, avrebbe trasformato la sua comprensione di come funziona davvero il mondo, e dicome interagiscono tra loro gli esseri umani, più di quei primi giorni fuori dal campo. Fu uno shock vedere inordcoreani occuparsi delle proprie faccende quotidiane senza dover prendere ordini dalle guardie: quando avevano latemerarietà di ridere insieme in pubblico, o indossare abiti dai colori sgargianti, o trattare sul prezzo in un mercatoall’aperto, si aspettava che da un momento all’altro sarebbero intervenuti uomini armati a dar loro una bella lavata dicapo e metter fine a quella pazzia.

La parola che Shin usa in continuazione per descrivere quei primi giorni è proprio shock: per lui non aveva laminima importanza che la Corea del Nord nel cuore dell’inverno fosse brutta, sporca e buia, o più povera del Sudan, oche nel suo insieme fosse considerata dalle organizzazione per i diritti umani come la più grande prigione del mondo.Veniva da ventitré anni vissuti in una gabbia all’aria aperta, gestita da uomini che avevano impiccato sua madre, fucilatosuo fratello, azzoppato suo padre, assassinato donne incinte e picchiato a morte dei bambini; uomini che lo avevanoeducato a tradire la famiglia e torturato sul fuoco. Si sentiva libero, magnificamente libero, e da quello che vedevacontinuava a non avere nessuno alle calcagna.

Era comunque indebolito dalla fame; vagando per le strade iniziò a cercare una casa vuota in cui rifugiarsi permangiare e riposare. Ne trovò una al fondo di un vicolo e ci si intrufolò rompendo una finestra sul retro. In cucinatrovò tre ciotole di riso cotto, preparato forse da qualcuno che di lì a poco sarebbe rientrato. Dal momento che non sisentiva sicuro all’idea di mangiare o dormire lì dentro, mise il riso in una busta di plastica insieme a una cucchiaiata dipasta di soia che trovò su una mensola.

Ispezionando il resto della casa trovò un paio di pantaloni invernali appoggiati su un attaccapanni e un altro paio discarpe. Trovò anche uno zaino e un cappotto militare marrone scuro, decisamente più caldo di qualsiasi altro cappottoavesse mai indossato. Aprì un ultimo cassetto in cucina e trovò un sacco di riso da quasi cinque chilogrammi; infilòanche quello nello zaino e se ne andò.

Vicino al centro di Bukchang una venditrice ambulante lo chiamò: voleva sapere cosa ci fosse nello zaino e seavesse qualcosa da vendere. Cercando di mantenere la calma, le rispose che aveva del riso. Lei si offrì di comprarloper quattromila won nordcoreani, l’equivalente di circa quattro dollari secondo i tassi di cambio del mercato nero.

Shin aveva scoperto l’esistenza dei soldi da Park. Prima dell’incontro con quella donna aveva osservato conmeraviglia l’utilizzo di questi piccoli pezzi di carta – immaginava si trattasse di soldi – per comprare cibo e altri beni.

Non aveva idea se quattromila won fossero un giusto prezzo per il suo riso rubato, ma fu felice di venderlo, e conquei soldi si comprò dei cracker e dei biscotti. Il resto lo mise in tasca e si allontanò a piedi dalla cittadina; era direttoin Cina, anche se continuava a non sapere dove si trovasse.

Sulla strada incontrò diversi uomini dall’aria esausta e origliò le loro conversazioni: cercavano lavoro, erano acaccia di cibo, vagavano da un mercato di strada a un altro e facevano il possibile per stare alla larga dalla polizia. Auno di questi, che gli chiese da dove venisse, rispose di essere cresciuto nell’area di Bukchang, informazione almenoin parte veritiera che sembrò soddisfare la loro curiosità.

Shin si rese presto conto che molti di questi uomini non si conoscevano tra loro; ma aveva paura a fare troppedomande, perché non voleva sentirsi obbligato a parlare di sé.

Le persone che vagavano per la Corea del Nord a quell’epoca erano soprattutto braccianti disoccupati e agricoltoriin rovina, come emerso da un sondaggio condotto in Cina tra la fine del 2004 e il 2005 che ha preso in considerazionepiù di milletrecento rifugiati nordcoreani25. Tra loro anche studenti, soldati, tecnici e alcuni ex funzionari governativi.Lo studio mostra che erano per strada principalmente per ragioni economiche, nella speranza di trovare lavoro opossibilità commerciali in Cina.

Avevano alle spalle vite estremamente difficili e rapporti tesi con il governo: quasi un quarto degli uomini e il 37per cento delle donne hanno avuto almeno un familiare morto per la fame, più di un quarto era stato arrestato in Coreadel Nord, e il 10 per cento ha detto di aver scontato un periodo in prigione, dove fame, torture ed esecuzioni

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sommarie erano all’ordine del giorno. Per andarsene dal paese, più della metà dei rifugiati ha ammesso di avercorrotto ufficiali o comprato l’aiuto di contrabbandieri esperti.

Shin si unì a questi vagabondi, immaginando che in loro compagnia sarebbe stato più al sicuro che viaggiando dasolo. Cercò di adattare il proprio comportamento a quello degli uomini che incontrava per strada. Non fu difficile:come lui, erano sporchi, trasandati e maleodoranti, ed erano alla disperata ricerca di cibo.

Essendo uno Stato di polizia, la Corea del Nord non tollera questo genere di vagabondaggi. Le leggi proibisconocategoricamente ai cittadini di spostarsi da una città all’altra senza apposita autorizzazione, ma nel periodoimmediatamente successivo alla carestia, con l’economia di Stato al collasso, la crescita dei mercati privati ecommercianti e trafficanti di ogni genere che in tutto il paese smerciavano beni importati illegalmente dalla Cina, leleggi venivano spesso ignorate. La polizia si lasciava facilmente corrompere; anzi, molti agenti vivevano proprio diquello. Insomma, qualsiasi vagabondo con in tasca un po’ di denaro contante poteva lasciare il paese senza attiraretroppa attenzione.

Non esistono cifre affidabili sulle fughe in Cina o sugli spostamenti di persone all’interno della Corea del Nord.Le probabilità di evitare un arresto e attraversare il confine sembrano cambiare da stagione a stagione; dipende daquando sia stato promosso l’ultimo giro di vite in fatto di sicurezza, dalla scrupolosità delle autorità cinesi nelrimpatriare i rifugiati, dalla disponibilità delle guardie di frontiera a farsi corrompere e dalla disperazione deifuggiaschi. Il governo nordcoreano ha messo su nuovi campi di lavoro per trattenere commercianti e viaggiatoritroppo poveri o troppo sfortunati per riuscire ad avanzare verso nord sfruttando la leva della corruzione. In ogni casola tendenza è chiara: il numero di nordcoreani in cerca di asilo al Sud è cresciuto quasi ogni anno dal 1995. Nel 1995erano quarantuno, nel 2009 quasi tremila.

Sono più i rifugiati approdati in Corea del Sud tra il 2005 e il 2011 di quante siano le persone fuggite dal Nord daquando è finita la guerra di Corea nel 1953. Nel 2012 al Sud se ne contavano circa ventiquattromila.

Quando Shin s’incamminò verso il confine, nel gennaio del 2005, le condizioni necessarie al compimento dellasua impresa sembravano essere relativamente buone: lo dimostra il grande numero di nordcoreani – circaquarantacinquemila – arrivati in Corea Sud nel 2006 e nel 2007. Perché riescano a raggiungerla dalla Cina, di solito, civogliono un anno o due.

In genere la “permeabilità” del confine nordcoreano migliora quando le guardie di frontiera e gli ufficiali delposto sanno che non andranno incontro a punizioni draconiane qualora cedessero alla corruzione.

«Come mai prima d’ora, dipende tutto dai soldi» ha detto Chun Ki-won, ministro di Seoul che tra il 2000 e il 2008ha aiutato più di seicento nordcoreani a introdursi in Cina e aprirsi un varco verso il Sud.

Quando Shin sgusciò fuori dalla recinzione del campo, la rete di trafficanti di esseri umani era ormai consolidata eaffondava i suoi tentacoli nel cuore del paese.

Chun e diversi altri funzionari di Seoul mi hanno detto che dietro giusto compenso avrebbero potuto far uscirepraticamente chiunque.

I broker di Seoul offrivano “fughe programmate” sfruttando il passaparola. La versione low budget costava meno diduemila dollari, comprendeva mesi se non anni di viaggio attraverso la Cina, passando per la Thailandia o il Vietnam,fino a Seoul, e poteva richiedere guadi di fiumi, marce massacranti su sentieri pericolosi e settimane d’attesa inqualche malsano campo thailandese per rifugiati. Una fuga programmata di prima classe invece, con tanto dipassaporto cinese contraffatto e biglietto d’aereo da Pechino a Seoul, arrivava a costare diecimila dollari, se non dipiù; sia i broker sia i rifugiati dicono che con questa opzione l’intero processo poteva essere concluso in appena tresettimane.

Furono alcuni pastori attivisti delle chiese sudcoreane a inventarsi il business della fuga tra fine anni novanta einizio duemila, quando iniziarono ad ingaggiare agenti di frontiera che ungevano le guardie nordcoreane con i contantidonati dai parrocchiani di Seoul. Quando Shin intraprese il suo viaggio, erano invece i rifugiati stessi, tra cui molti exmilitari nordcoreani e agenti di polizia, ad avere il controllo di tali, lucrose, operazioni.

Questa nuova tipologia di broker riceveva spesso pagamenti anticipati in contanti da famiglie sudcoreanebenestanti o di ceto medio che speravano nella liberazione di un parente. A volte accettavano pagamenti rateali,prendendo poco o nulla a titolo di acconto; ma quando i rifugiati che si erano serviti di questa soluzione arrivavano aSeoul e mettevano finalmente le mani su una parte dei quarantamila dollari che il governo sudcoreano dona ai nuovi

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arrivati dal Nord, spesso pretendevano molti più soldi di quanti ne prevedesse l’accordo iniziale.«Il mio boss è disposto a sborsare tutto il denaro necessario a pagare le tangenti per far uscire qualcuno» ha detto

un broker attivo a Seoul, ex ufficiale militare nordcoreano coinvolto in un’operazione cinese di traffico umano. «Mauna volta arrivato a destinazione, dovrai pagare il doppio».

Nel 2008 molti rifugiati nordcoreani avevano accumulato un tale debito nei confronti dei trafficanti che il governosudcoreano dovette modificare il metodo di erogazione degli aiuti: anziché effettuare un pagamento in un’unicasoluzione, i soldi vennero dilazionati nel tempo, con incentivi per chi si trovava e manteneva un lavoro. Circa un quartodella cifra totale veniva destinata alla casa, eliminando così ogni possibilità che potesse finire nelle tasche sbagliate.

Usando i loro contatti personali e istituzionali nel Nord, i broker assumevano guide per scortare i fuggiaschi dalleloro abitazioni in Corea del Nord fino al confine con la Cina, dove venivano poi consegnati a guide di lingua cineseche li accompagnavano in macchina all’aeroporto di Pechino. Ho conosciuto nei pressi di Seoul una fuggiascanordcoreana che nel 2002 aveva pagato dodicimila dollari per far uscire suo figlio undicenne. «Non immaginavo chesarebbe successo così in fretta» mi ha detto la donna, che ha chiesto l’anonimato perché all’epoca, insieme ai fratelli,stava pagando un altro broker per far uscire la madre. «Ci sono voluti solo cinque giorni perché mio figlio venisseprelevato e portato al di là del fiume, in Cina. Quando alcuni funzionari mi hanno chiamata dall’aeroporto di Seoul perdirmi che mio figlio era qui, sono rimasta di sasso».

Sia al confine sia dentro il paese, il governo nordcoreano cerca da sempre di stroncare queste operazioni. Eperiodicamente ci riesce. «Vengono fermati in molti» mi ha detto Lee Jeong Yeon, ex ufficiale di frontiera. «L’ordinedall’alto è di giustiziare senza eccezione chiunque venga sorpreso a collaborare alle fughe. Ho assistito personalmentea molte di queste esecuzioni. I broker di successo sono persone esperte con buoni contatti nell’esercito, e visto che leguardie vengono fatte ruotare spesso, ci sono sempre persone nuove da corrompere».

Lee, la cui identità è stata confermata da agenti dell’intelligence sudcoreani, ha lavorato per tre anni lungo ilconfine tra la Cina e la Corea del Nord, e ha fatto da supervisore ad agenti sotto copertura che fingevano di esserebroker e guide per infiltrarsi e porre fine a questi traffici. Dopo aver disertato lui stesso, Lee mi ha detto di aver usatoi suoi contatti nordcoreani per aiutare trentaquattro persone a fuggire verso la libertà.

Shin non aveva la consapevolezza, i soldi o i contatti per sfruttare simili reti, e di certo non aveva nessuno fuori dalpaese disposto ad assoldare professionisti per occuparsi di lui. Ma tenendo la bocca chiusa e gli occhi ben aperti eraentrato nel giro di contrabbando e corruzione che costituiva la vera economia post-carestia della Corea del Nord.

I commercianti gli mostravano pagliai in cui dormire, quartieri con case in cui irrompere e mercati in cuiscambiare beni rubati con qualcosa da mangiare. La sera, quando si stringevano tutti intorno al fuoco sul ciglio dellastrada, Shin condivideva spesso il cibo con loro.

Quel giorno, mentre lasciava Bukchang con addosso il suo cappotto rubato e il suo piccolo bottino di biscotti, siunì a un gruppo di commercianti che per puro caso era diretto a nord.

25 Yoonok Chang, Stephan Haggard e Marcus Noland, Migration Experiences of North Korean Refugees: Survey Evidence from China,Peterson Institute, Washington DC 2008, p. 1.

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VERSO NORD

Shin temeva che se non fosse riuscito ad allontanarsi, e in fretta, presto sarebbe stato preso.Camminò per quasi quindici chilometri fino a Maengsan, un piccolo villaggio di montagna; lì i suoi compagni di

viaggio gli dissero che vicino al mercato centrale avrebbero trovato un camion che, dietro piccolo compenso, liavrebbe potuti portare alla stazione dei treni di Hamhung, la seconda città più grande della Corea del Nord.

La sue competenze geografiche erano ancora troppo vaghe per sapere dove si trovasse Hamhung, ma non gliimportava: avrebbe fatto di tutto pur di trovare un mezzo di trasporto alternativo alle sue gambe doloranti. Eranopassati tre giorni da quando aveva attraversato la recinzione elettrica, e si era allontanato dal Campo 14 sì e no diventicinque chilometri.

Dopo aver aspettato il camion in coda insieme ai commercianti, riuscì a salire e a stringersi sul retro. Lecondizioni della strada erano pessime e il viaggio di cento chilometri fino ad Hamhung durò tutto il giorno e buonaparte della notte. Nel retro del veicolo un paio di uomini gli chiesero da dove venisse e dove fosse diretto. Nonsapendo bene chi fossero né perché volessero saperlo, finse confusione e non disse nulla; dal canto loro, gli altripersero interesse e lo ignorarono.

Non poteva saperlo, ma si era messo in viaggio con un tempismo eccellente: prima sarebbe stato impossibilespostarsi da una città all’altra senza un apposito permesso di viaggio allegato al “certificato di cittadinanza”, undocumento grande quanto un passaporto modellato sul vecchio documento d’identificazione sovietico. Ai prigionierinati nei campi non veniva rilasciato, ed essendone sprovvisti era molto difficile che potessero ottenere un permessodi viaggio, in genere concesso per ragioni lavorative o eventi familiari (come un matrimonio o un funerale) previaconferma da parte di un funzionario di partito.

La polizia però aveva smesso di controllare sistematicamente questi documenti nel 1997, fatta eccezione per iviaggiatori diretti a Pyongyang o verso aree ad accesso limitato26. Le maglie dei controlli si allentarono nel momentoin cui la carestia iniziò a portare la gente in strada alla ricerca di cibo: da allora, le tangenti versate dai commercianti apolizia e altre forze di sicurezza fecero sì che questi ultimi non si curassero di far rispettare la legge. In parole povere,fu l’ingordigia degli ufficiali nordcoreani affamati di denaro a rendere possibile il lungo viaggio di Shin.

Con ogni probabilità, il camion su cui era salito era un veicolo militare convertito al trasporto di persone a scopodi lucro. Il sistema, conosciuto come servi-cha, o mezzo di servizio, fu inventato alla fine degli anni novanta dalleélite governative e militari per succhiare denaro ai commercianti che avevano bisogno di spostarsi, insieme ai lorobeni, all’interno dei confini del paese; faceva parte di un nuovo sistema di trasporti che dailynk.com, sito web di Seoulcon informatori nel Nord, descrive come il principale mezzo di trasporto e forse il fattore che più di tutti haalimentato la crescita dei mercati privati27.

Nella Corea del Nord i veicoli non sono proprietà privata ma appartengono al governo, al partito e all’esercito.All’interno di questi organismi, alcuni scaltri faccendieri dirottavano i camion e si accordavano con i contrabbandieriper importare macchine, furgoni e autobus di seconda mano dalla Cina: dopo aver registrato i veicoli a nome di entistatali, assumevano autisti privati e offrivano un passaggio economico ai vagabondi come Shin in gran parte del paese,senza fare troppe domande.

Il governo nordcoreano, terrorizzato da simili focolai di capitalismo ribelle e incontrollabile, temeva di scivolarelungo la china che avrebbe portato al cambio di regime e quindi alla catastrofe, ma punire chi si lasciava corrompere,limitare le attività di scambio, impedire la circolazione dei veicoli servi-cha e confiscare il denaro contante erasempre più difficile.

A non collaborare erano soprattutto funzionari statali sottopagati, il cui sostentamento dipendeva dal denaro che,forti della propria autorità, riuscivano a spillare a questi “capitalisti rampanti”. Per obbligarli a pagare, le forze di

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sicurezza nordcoreane inventarono un nuovo utilizzo per i campi di lavoro come quello in cui era nato Shin: invece ditrattenere i prigionieri politici a vita, venivano rinchiusi per un breve periodo – e occasionalmente torturati – icommercianti che non pagavano le dovute tangenti agli ufficiali di sicurezza. I funzionari di tanto in tanto facevanoirruzione nei mercati e li arrestavano facendo leva su una legislazione ambigua che criminalizzava le operazioni dicompravendita; le tangenti erano l’unico strumento di cui i commercianti disponevano per non finire nei campi dilavoro.

L’esistenza di questi campi, che il governo iniziò a costruire prima della fuga di Shin, fu rivelata per la prima voltain Economic Crime and Punishment in North Korea, un rapporto che raccoglie dati da più di milleseicento rifugiatiintervistati in Cina e in Corea del Nord tra il 2004 e il 2008. Le forze di sicurezza usavano i campi come “strumentodi ricatto”, mi ha spiegato Marcus Noland, economista di Washington co-autore del rapporto: «Sembra davvero l’operadi una gang, una specie di “Stato Soprano”».

In base alle informazioni fornite dai rifugiati, pare che circa i due terzi di coloro che venivano rinchiusi al lorointerno tornassero a casa entro un mese; si trattava di campi piccoli, con poche guardie e poche recinzioni, ma duranteil loro breve “soggiorno” molti nordcoreani raccontano di aver personalmente assistito a delle esecuzioni, e che lemorti per tortura o per fame fossero all’ordine del giorno. L’effetto di questa incarcerazione “mordi e fuggi” percrimini economici ha rappresentato una paura diffusa tra coloro che si guadagnavano da vivere grazie al commercio.

«Il governo nordcoreano assegna alla polizia il compito di limitare le attività di scambio; ma l’ordine viene spessoignorato, visto che poliziotti e altre autorità ne approfittano per arricchirsi» ha detto Jiro Ishimaru, direttore di“Rimjin-gang”, periodico giapponese che pubblica rapporti di testimoni oculari, foto e video fatti uscire di nascostoda reporter anonimi. «La gente non se ne rende conto, ma in questo momento la Corea del Nord sta vivendo unperiodo di drastico cambiamento».

Shin arrivò di notte vicino alla stazione dei treni di Hamhung, città costiera di circa settecentocinquantamilaabitanti, la maggior parte dei quali impiegata nelle fabbriche prima che chiudessero per mancanza di energia elettrica ematerie prime: qui il sistema di distribuzione di Stato collassò del tutto durante la carestia degli anni novanta,lasciando di fatto i lavoratori senza alcun mezzo di sostentamento. I resoconti dei rifugiati ci dicono che la fame e lacarestia colpirono duramente la città più di qualsiasi altra28. Alcuni giornalisti occidentali in visita nel 1997 notaronoche le colline intorno ad Hamhung erano disseminate di tombe molto recenti: secondo i racconti di alcunisopravvissuti, il dieci per cento della popolazione è morto, mentre un altro dieci per cento è emigrato in cerca di cibo.Nel 2005, quando Shin arrivò in città, quasi tutte le fabbriche erano chiuse, ma il grosso del traffico ferroviario danord a sud continuava a passare dalle sue stazioni di smistamento.

Protetti dal buio della notte, Shin e i suoi compagni di viaggio si spostarono verso un’area dello scalo ferroviarioin cui si assemblavano i treni merci prima della spedizione.

Notò qualche guardia nei paraggi, ma non controllavano i documenti d’identità e non facevano nulla per tenere icommercianti lontani dai vagoni. Shin salì su un carro merci coperto con destinazione Chongjin, la città più popolosadell’estremo nord del paese, nonché porta di ingresso per le linee ferroviarie dirette al confine cinese. Il treno lasciòla stazione prima dell’alba per un viaggio di circa trecento chilometri. Se tutto fosse andato per il verso giusto, cisarebbe voluto un giorno, forse due.

Shin imparò in fretta quello che qualsiasi altro nordcoreano sapeva da anni: i treni, ammesso che funzionino, vannomolto piano. Nei tre giorni successivi percorse meno di centocinquanta chilometri. Sul carro merci fece amicizia conun ragazzo che diceva di essere diretto a casa, a Gilju, città di sessantacinquemila abitanti che si trova lungo la lineaferroviaria principale. Gli spiegò che stava tornando dopo aver cercato, invano, un lavoro; non aveva cibo, né soldi, néun cappotto invernale, ma offrì a Shin di fermarsi qualche giorno nell’appartamento della sua famiglia, dove avrebberopotuto riscaldarsi e mangiare.

Shin aveva un gran bisogno di riposo: era esausto e affamato, il cibo che aveva comprato a Bukchang era finito e leferite sulle gambe continuavano a sanguinare. Con grande riconoscenza accettò l’offerta.

Quando scesero dal treno alla stazione di Gilju era tardo pomeriggio, faceva freddo e stava iniziando a nevicare.Sotto consiglio del suo nuovo amico, che conosceva posti economici in cui mangiare, prima di arrivareall’appartamento si fermarono a comprare dei noodles caldi da un venditore ambulante. Shin pagò il pasto con quelloche gli restava dei soldi che aveva ricevuto in cambio del riso rubato.

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Finito di mangiare, il giovane disse che la sua famiglia abitava proprio dietro l’angolo, ma che il pensiero disalutare i genitori con indosso abiti logori lo imbarazzava. Gli chiese di prestargli il cappotto per qualche minuto: unavolta reso omaggio alla famiglia sarebbe tornato alla bancarella e lo avrebbe portato con sé nell’appartamento, doveavrebbero potuto riscaldarsi e dormire.

Fin dal giorno della fuga Shin ce l’aveva messa tutta per capire quali comportamenti dei nordcoreani fossero daconsiderarsi normali, ma dopo appena una settimana non aveva imparato un granché: prestare un cappotto a un amicoche aveva bisogno di salvare la faccia con il padre e la madre gli sembrò normale, quindi glielo diede e restò adaspettarlo.

Passarono ore, la neve continuava a cadere e dell’amico neanche l’ombra. Shin non aveva pensato di seguirlo pervedere in quale condominio fosse diretto. Iniziò a cercarlo per le strade lì intorno ma non ne trovò nessuna traccia.Dopo diverse ore, infreddolito e confuso, si avvolse in un telone sporco trovato per terra e decise di aspettare ilmattino.

Trascorse i venti giorni successivi vagando per Gilju. Senza cappotto, soldi, contatti, e senza nessuna idea di doveandare, restare in vita era di per sé un compito arduo: la temperatura media di gennaio è di -8 gradi, ben oltre il gelo.

Solo una cosa lo salvò – oltre alla dura scuola di sopravvivenza: la compagnia dei senzatetto della città, molti deiquali appena adolescenti. Li trovava nei pressi della stazione dei treni, dove chiedevano l’elemosina, chiacchieravano eda dove periodicamente partivano in branco alla ricerca di cibo. Il gruppo a cui si unì Shin era specializzatonell’estrarre daikon, un grosso ravanello bianco tipico dell’Asia orientale a forma di carota con cui si fa il kimchi,condimento piccante a base di verdure fermentate che costituisce anche il più popolare piatto nordcoreano. Perevitare che il raccolto autunnale di daikon congeli durante l’inverno, a volte i nordcoreani li conservano sotto cumulidi terra.

Durante il giorno Shin seguiva bande di ladri adolescenti nelle periferie cittadine, alla ricerca di case isolate conmucchi di terra rivelatori nei giardini. Dopo una giornata trascorsa a estrarre e a mangiare daikon crudi, Shin tornavain città portandone con sé più che poteva, li vendeva nei mercati e si comprava del cibo. Quando non riusciva a rubaredaikon, rovistava nella spazzatura. Di notte seguiva i senzatetto in posti semi-riparati vicino a edifici riscaldati, dovepotevano riposare; capitava anche che dormisse in pagliai o intorno a falò messi insieme alla bell’e meglio. Non feceamicizia con nessuno e continuò a evitare di parlare di sé.

A Gilju, come in tutto il resto della Corea del Nord, vide fotografie di Kim Jong Il e Kim Il Sung campeggiare inogni dove, dalle stazioni dei treni alle piazze cittadine, alle case in cui talvolta s’intrufolava. Ma nessuno, nemmeno ivagabondi o i senzatetto, osava criticare o prendersi gioco dei propri leader. I racconti di recenti rifugiati in Cinahanno confermato che si tratta di una paura endemica, pressoché universale.

Per Shin la sfida più grande restava procacciarsi cibo a sufficienza per non morire di fame, ma non era certol’unico a razziare le città in cerca di cibo. «I furti erano un problema costante» ha scritto Charles Robert Jenkins nelsuo libro sui quarant’anni trascorsi nel paese. «Se non tenevi d’occhio le tue cose, c’era sempre qualcuno che nonvedeva l’ora di fregartele»29.

Jenkins era un sergente dell’esercito americano, uomo rozzo e depresso che nel 1965, mentre prestava servizio inCorea del Sud, si convinse che l’erba più verde si trovasse a Nord. Tracannò dieci birre, varcò il confine piùmilitarizzato al mondo e consegnò il proprio M14 a degli sbigottiti soldati nordcoreani. «Sono stato così stupido…»mi ha detto; aveva disertato dall’esercito per auto-rinchiudersi in una «gigantesca prigione, folle e totalmente priva disenso».

Tuttavia, in quanto disertore americano, Jenkins non fu trattato come un semplice prigioniero: il governonordcoreano fece di lui un attore, intrappolandolo nel ruolo del crudele caucasico nei film di propaganda anti-americani.

Gli ufficiali di sicurezza gli consegnarono anche una giovane donna giapponese e lo spinsero ad abusare di lei. Ilrapimento della ragazza, avvenuto il 12 agosto 1978 nella sua città natale in Giappone, faceva parte di una praticaconsolidata – ma da sempre tenuta segreta – che prevedeva il sequestro di giovani giapponesi da diverse localitàcostiere. Hitomi Soga fu catturata al tramonto, vicino a una spiaggia, da tre agenti nordcoreani che la chiusero in unsacco di plastica nero e la caricarono su una nave; alla fine la donna s’innamorò di Jenkins e lo sposò. Ebbero duefiglie, entrambe iscritte a una scuola di Pyongyang votata alla formazione di spie multilingue.

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Jenkins iniziò a intravedere la fine delle sue assurde avventure nordcoreane nel 2002, quando il primo ministrogiapponese di allora, Junichiro Koizumi, volò a Pyongyang per un incontro straordinario con Kim Jong Il. Inquell’occasione il dittatore nordcoreano ammise che durante gli anni settanta e ottanta i suoi agenti avevano rapitotredici civili giapponesi, inclusa la moglie di Jenkins, a cui fu immediatamente concesso di lasciare il paese sull’aereodella delegazione in visita.

Nel 2004, dopo un secondo viaggio del primo ministro giapponese in Corea del Nord, anche Jenkins e le suefiglie ottennero il permesso di andarsene. Quando l’ho intervistato viveva insieme alla famiglia sulla remota isolagiapponese di Sado, lo stesso posto in cui la moglie era nata ed era stata poi rapita dagli agenti nordcoreani. In Coreadel Nord, invece, abitava in una casa in campagna con un grande orto che contribuiva al sostentamento della famiglia. Ilgoverno gli garantiva anche un pagamento mensile in contanti, una cifra sufficiente a permettergli di non soffrire lafame durante la carestia. Per sopravvivere, però, lui e la famiglia dovevano riuscire a difendersi dai continui furti divicini e soldati. «Appena il mais maturava, dovevamo stare di guardia per tutta la notte per evitare che l’esercito ciportasse via tutto». Il periodo peggiore per i furti fu durante la carestia degli anni novanta, quando bande di giovanisenzatetto – tra cui molti orfani – iniziarono a ritrovarsi nelle stazioni dei treni in città come Gilju, Hamhung eChongjin.

Il libro di Barbara Demick, Nothing to Envy, ne illustra le abitudini e la disperazione, e spiega come la gentecomune sia riuscita a sopravvivere agli stenti di quei terribili anni. Alla stazione dei treni di Chongjin, scrive, appenaun viaggiatore passava i bambini gli strappavano il cibo dalle mani. Con un abile lavoro di squadra i più grandirovesciavano le bancarelle e sfidavano i venditori a rincorrerli; a quel punto entravano in scena i più piccoli, pronti araccogliere il cibo caduto per terra. Ancora, con bastoni appuntiti foravano i sacchi di mais impilati su treni e carrimerci in transito30.

Demick racconta anche che durante la carestia gli addetti alle pulizie della stazione giravano con un carretto dilegno spinto a mano per raccogliere i cadaveri che giacevano sul pavimento. Correvano voci insistenti su presuntiepisodi di cannibalismo, secondo cui alcuni bambini della stazione venivano drogati, uccisi e macellati, per essere poimangiati. Per quanto non fosse una pratica diffusa, Demick è giunta alla conclusione che queste voci non fossero deltutto infondate: «Dalle mie interviste con i rifugiati si evince che ci sono stati almeno due casi di arresti ed esecuzionilegati all’accusa di cannibalismo».

Quando Shin era fermo a Gilju, nel gennaio del 2005, il problema del cibo era meno grave. Nel 2004 i raccoltierano stati relativamente buoni in tutto il paese, e la Corea del Sud provvedeva a fornire aiuti alimentari e fertilizzantegratis. Nelle casse dello Stato si riversavano anche gli aiuti alimentari della Cina e del Programma AlimentareMondiale, una parte dei quali andava a finire nei mercati di strada. I senzatetto alla stazione dei treni erano affamati,ma per le strade di Gilju a Shin non capitò mai di vedere gente morire di fame o assiderata: ai mercati cittadinioffrivano abbondanti provviste di cibo, secco, fresco o trattato. Si vendeva riso macinato, tofu, cracker, torte e carne,ma anche vestiti, utensili da cucina e dispositivi elettronici. Ogni volta che Shin si presentava con i suoi daikon rubati,trovava sempre qualche venditrice ambulante disposta a comprarglieli pagando in contanti.

A Gilju la fuga in Cina gli passò di mente. I senzatetto a cui si era unito avevano altri piani: a marzo sarebberoandati a piantare patate in una fattoria di Stato, lavoro che avrebbe garantito pasti regolari per tutti. Non avendo dimeglio da fare né altri contatti, Shin decise di seguirli, ma dopo una giornata di furti molto produttiva, i suoi pianicambiarono di nuovo.

Stavano lavorando in campagna, alla periferia della città; il resto del gruppo era impegnato in un orto quando lui siallontanò, e sgattaiolò da solo nel retro di una casa vuota penetrandovi attraverso una finestra. Qui trovò abiti invernali,un cappello militare di lana e un sacco di riso da sette chilogrammi. Si mise subito addosso i vestiti più caldi, infilò ilriso nello zaino e lo portò a un mercante di Gilju, che lo acquistò per seimila won, più o meno sei dollari.

Con il suo nuovo gruzzolo in tasca, utile non solo per comprare il cibo ma anche come strumento di corruzione, laCina tornò ad essere un orizzonte plausibile.

Shin s’incamminò verso la stazione di Gilju, e si arrampicò su un carro merci diretto a nord.

26 Lankov, North of the DMZ, cit., p. 180-183.27 Per una descrizione dettagliata del sistema dei servi-cha e di un altro intervento del governo per cercare di contrastarlo, si veda il “Daily

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NK”, 25 ottobre 2010, all’indirizzo http://tinyurl.com/lbrx9c2.28 Andrew S. Natsios, The Great North Korean Famine, United States Institute for Peace Press, Washington DC 2001, p. 218.29 Charles Robert Jenkins, The Reluctant Communist, University of California Press, Berkeley 2008, p. 129.30 Barbara Demick, Nothing to Envy, Spiegel & Grau, New York 2009, pp. 159-172.

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IL CONFINE

Il Tumen, che copre circa un terzo del confine tra la Corea del Nord e la Cina, è un fiume stretto e poco profondoche in genere gela d’inverno; ciò significa che è possibile attraversarlo a piedi in pochi minuti. La vegetazioneabbondante sulla sponda cinese offre una discreta protezione, e le guardie di frontiera su quel lato non sono mai tante.

Shin sentì parlare per la prima volta del Tumen dai commercianti sul treno, ma non aveva informazioni precise sulpunto in cui fosse meglio attraversarlo o su come corrompere le guardie nordcoreane che ne pattugliano la rivameridionale. Così si mise in viaggio su un carro merci da Gilju a Chongjin, e poi fino a Gomusan, un nodo ferroviarioa circa quaranta chilometri dal confine, e iniziò a far domande agli abitanti del posto.

«Salve! Fa un po’ freddo, vero?» disse a un anziano signore accovacciato sugli scalini della stazione di Gomusan.Gli offrì dei cracker.

«Oh, grazie mille» disse l’uomo. «Posso chiederti da dove vieni?».Shin si era preparato una risposta vaga ma veritiera: raccontò di aver lasciato la sua casa nella provincia del Sud

Pyongan (la stessa del Campo 14) perché soffriva la fame e doveva far fronte a condizioni di vita difficili.L’uomo gli disse di aver conosciuto una vita migliore quando era in Cina: lì sì che era facile trovare cibo e lavoro.

Ma otto mesi prima la polizia cinese lo aveva arrestato e rispedito in Corea del Nord, costringendolo a scontarequalche mese in un campo di lavoro. Chiese a Shin se avesse mai considerato la possibilità di attraversare il confine.

«Si può fare davvero?» chiese Shin, cercando di trattenere curiosità ed entusiasmo.Sembrava quasi che l’anziano signore non aspettasse altro: gli parlò della Cina per più di mezza giornata,

spiegandogli dove attraversare il Tumen e come comportarsi ai posti di blocco vicino al confine. La maggior partedelle guardie, disse, era facile da corrompere. Questi i suoi consigli: se ti chiedono un documento di identità dagliqualche sigaretta, un pacchetto di cracker e un po’ di denaro. Digli che sei un soldato e che stai andando a far visita aqualche parente.

Il giorno seguente, di primo mattino, Shin salì su un treno che trasportava carbone diretto a Musan, villaggiominerario sul confine: sapeva che lì avrebbe trovato parecchi soldati, per cui saltò giù dal treno mentre rallentava perentrare in stazione e si diresse a piedi verso sud. Camminò tutto il giorno – una trentina di chilometri – cercando untratto del Tumen che fosse poco profondo e facile da attraversare. Non avendo documenti, sapeva che se le guardieavessero fatto il loro dovere l’avrebbero arrestato al confine; e già al primo checkpoint gli fu chiesto di esibirli. Fortedel fatto che i vestiti e il cappello di lana rubati a Gilju fossero dello stesso verde scuro delle divise militari, fece delsuo meglio per non mostrarsi impaurito, e disse di essere un soldato di ritorno a casa.

«Ecco, fumi queste» disse Shin consegnando alla guardia due pacchetti di sigarette. La guardia li prese e gli fececenno di passare.

Al secondo posto di blocco un altro incaricato gli chiese i documenti; di nuovo, Shin rispose con sigarette e unpacchetto di cracker. Proseguendo il cammino incontrò una terza guardia di confine, poi una quarta. Erano ragazzigiovani, scheletrici e affamati e gli chiedevano sigarette e cibo – ma non i documenti – prima ancora che potesse direuna parola.

Senza una massiccia dose di fortuna Shin non sarebbe mai stato in grado di fuggire dalla Corea del Nord: il caso havoluto che la fine di gennaio del 2005 – proprio quando, corrompendo le guardie, riuscì ad aprirsi un varco verso nord– fosse un momento particolarmente favorevole per un attraversamento illegale del confine. Il governo nordcoreanoera stato costretto (in seguito alla drammatica carestia degli anni novanta e soprattutto per via del massiccio invio diderrate alimentari cinesi per il sostentamento della popolazione) a tollerare che le maglie al confine con la Cina siallargassero un po’.

La tolleranza si trasformò in una politica semiufficiale nel 2000, quando la Corea del Nord promise clemenza achi avesse lasciato il paese in cerca di cibo: era un riconoscimento tardivo del fatto che decine di migliaia di

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nordcoreani colpiti dalla carestia vivessero già in Cina, e che il paese dipendesse sempre più dai suoi aiuti.Inoltre, nel 2000, migliaia di commercianti avevano iniziato a viaggiare da una parte all’altra trasportando cibo da

vendere nei mercati, che di fatto avevano rimpiazzato il sistema di distribuzione pubblico del governo.In seguito al decreto emanato da Kim, i trasgressori arrestati con l’accusa di aver attraversato il confine furono

rilasciati dopo qualche giorno d’interrogatorio o, al massimo, qualche mese nei campi di lavoro, a meno che nonsaltasse fuori che in Cina avevano avuto contatti con sudcoreani o missionari31. Il governo nordcoreano iniziò anche ariconoscere l’operato dei commercianti, fondamentale per il sostentamento della popolazione. Dopo mesi difarraginosi passaggi burocratici tesi alla verifica dei precedenti penali, gli ufficiali governativi (soprattutto sedebitamente “ricompensati”) potevano rilasciare certificati che permettevano ai commercianti di entrare e uscirelegalmente dalla Cina32.

Tale politica più permissiva cambiò la vita di molti: i viaggiatori che regolarmente si recavano nelle zone ruralidella Corea del Nord notarono che sempre più persone indossavano caldi cappotti invernali, e che i mercati privativendevano televisori cinesi usati e videoregistratori, insieme a copie pirata di videocassette e video cd (che offronouna risoluzione di gran lunga peggiore rispetto ai dvd; ma in Corea del Nord i lettori cd erano più economici di quellidvd, e quindi più accessibili).

I rifugiati nordcoreani arrivati a Seoul raccontano che se hanno potuto ascoltare emittenti cinesi e sudcoreane, maanche Radio Free Asia e Voice of America, è solo grazie alle radio a transistor di produzione cinese. Molti, poi,riportano una passione sfrenata per i film hollywoodiani e le soap opera sudcoreane. «Chiudevamo le tende eabbassavamo il volume ogni volta che guardavamo un film di James Bond» mi ha detto una casalinga nordcoreanafuggita dal suo villaggio di pescatori insieme al marito e al figlio. «Quei film mi hanno aiutato a capire cosa succedenel resto del mondo; è merito loro se la gente ha iniziato a rendersi conto che il governo di Kim Jong Il non avevadavvero a cuore il bene del suo popolo».

Il figlio mi raccontò di essersi innamorato degli Stati Uniti, dove un giorno sperava di vivere, guardando il telefilmCharlie’s Angels.

Dalla piccola goccia che era, questa moda dei video stranieri divenne presto un fiume in piena, e spinseun’allarmata polizia nordcoreana a ideare nuove tattiche per arrestarne i fruitori: tagliavano l’elettricità a intericondomini e poi facevano irruzione nei singoli appartamenti per controllare quali nastri e dischi fossero rimastibloccati nei lettori.

Più o meno nel periodo in cui Shin e Park stavano elaborando il loro piano di fuga, il governo nordcoreano fossegiunto alla conclusione che la porosità del confine fosse decisamente eccessiva e rappresentasse una minaccia allasicurezza del paese; a far infuriare Pyongyang era soprattutto la volontà delle autorità sudcoreane e americane diaiutare i rifugiati nordcoreani approdati in Cina a proseguire più agevolmente il viaggio e stabilirsi in occidente.

Nell’estate del 2004, nella più grande fuga di massa mai registrata, la Corea del Sud trasferì via cielo 468nordcoreani dal Vietnam a Seoul; l’operazione fu pubblicamente condannata dall’agenzia di stampa di Stato come«adescamento, rapimento e atto di terrorismo premeditato».

Più o meno nello stesso periodo, il Congresso degli Stati Uniti approvò una legge che consentiva l’insediamentodei rifugiati nordcoreani negli Stati Uniti, legge che per la Corea del Nord non era altro che un aperto tentativo dirovesciare il suo governo, con il pretesto di promuovere la democrazia.

Per tutte queste ragioni nel 2004 le regole alla frontiera cambiarono e la Corea del Nord annunciò una politica piùsevera nei confronti degli attraversamenti illegali, che prevedeva fino a cinque anni di reclusione per i trasgressori.Nel 2006 Amnesty International ha intervistato sedici persone che erano riuscite a superare il confine: il giro di viteera effettivamente iniziato e le autorità nordcoreane avevano tutte le intenzioni di punire con almeno un anno dicarcere chi venisse fermato anche al primo tentativo. Per garantire il rispetto delle regole fu implementata lasorveglianza elettronica e fotografica, fu srotolato molto più filo spinato e vennero costruite nuove barriere dicemento33. Da parte sua, anche la Cina potenziò le misure di sicurezza alla frontiera nella speranza che i nordcoreaninon tentassero l’ingresso nel periodo immediatamente precedente alle Olimpiadi del 2008.

Alla fine di gennaio 2005, quando Shin s’incamminò verso la Cina armato di cibo e sigarette, il periodo propiziostava volgendo al termine, ma fu fortunato: gli ordini dall’alto non erano ancora arrivati a quei quattro soldatimalandati, e così facilmente corruttibili, in cui s’imbatté nelle stazioni di guardia lungo il Tumen.

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«Sto morendo di fame, qui» gli disse l’ultimo dei quattro. Avrà avuto sì e no sedici anni. «Non avresti qualcosa damagiare?».

Il suo posto di guardia era vicino a un ponte che portava in territorio cinese. Shin gli consegnò salsiccia di soia,sigarette e un sacchetto di caramelle.

«Sono in molti a entrare in Cina?» domandò Shin.«Sicuro. Attraversano con il benestare dell’esercito, e tornano dopo aver fatto dei bei soldoni».Nel Campo 14 Shin aveva spesso discusso con Park di quello che avrebbero fatto una volta passati dall’altra parte:

avevano in programma di farsi ospitare dallo zio di Park, e in quel momento gli venne in mente proprio lui.«Potrei far visita a uno zio che vive in un villaggio dall’altra parte del fiume?» chiese Shin, pur non avendo la

minima idea di dove davvero vivesse l’uomo. «Tornerò con una bella ricompensa».«Certo, passa pure» rispose la guardia. «Ma sono di turno solo fino alle sette di stasera, per cui vedi di rientrare

prima, ok?».La guardia lo guidò attraverso una foresta fino a un punto del fiume da cui, gli disse, avrebbe potuto attraversare in

sicurezza. Era già pomeriggio inoltrato, ma Shin promise di tornare in tempo e di portargli del cibo.«Il fiume è gelato?» chiese Shin. «Andrà tutto bene? Sarò al sicuro?».La guardia lo rassicurò dicendogli che se anche il ghiaccio si fosse rotto, l’acqua gli sarebbe arrivata soltanto alle

caviglie. «Andrà tutto bene».Il fiume era largo circa novanta metri; Shin iniziò a camminare lentamente sul ghiaccio, che però a metà strada si

ruppe lasciandolo con le scarpe a mollo nell’acqua gelata. Tornò sulla superficie ghiacciata con un balzo e percorsel’ultimo tratto che lo separava dalla Cina strisciando. Raggiunta l’altra sponda, si mise in piedi e si voltò per dareun’ultima occhiata alla Corea del Nord. Si chiese se intanto suo padre fosse stato ucciso.

La giovane guardia di frontiera nordcoreana aveva osservato ogni singolo passo della sua avanzata. Stava facendosegno con le mani a Shin, come a dirgli che doveva sbrigarsi e sparire nei boschi.

31 Human Rights Watch, Harsher Policies Against Border-Crossers, marzo 2007.32 Lankov, North of the DMZ, cit., p. 183.33 Intervista dell’autore a Seoul con funzionari di Good Friends, organizzazione no profit buddista con informatori all’interno della Corea

del Nord.

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CINA

Shin si allontanò di corsa dal fiume e per un po’ restò nascosto tra gli alberi, con i piedi bagnati che iniziavano agelare. Stava facendosi buio; quella giornata al freddo l’aveva sfinito. Avendo destinato i suoi pochi contanti allesigarette e al cibo per le guardie, negli ultimi giorni aveva mangiato pochissimo. Per riscaldarsi e lasciarsi il fiumealle spalle salì su una collina e seguì una strada che attraversava dei campi ammantati di neve oltre cui riusciva ascorgere un gruppo di case. Tra lui e gli edifici vi erano due uomini fermi in mezzo alla strada: impugnavano delletorce e indossavano giubbotti con caratteri cinesi stampati sul retro.

Come avrebbe poi scoperto, si trattava di soldati di pattuglia sulla frontiera cinese: dal 2002, quando centinaia dinordcoreani che chiedevano asilo politico avevano messo in imbarazzo la Cina precipitandosi nelle ambasciatestraniere, i soldati avevano iniziato a intercettare chi attraversava illegalmente il confine e a rimpatriarne forzatamentedecine di migliaia34.

I due soldati che vide Shin però se ne stavano con il naso all’insù, come se stessero contando le stelle. La suapresenza non sembrava interessarli minimamente, per cui proseguì a passo spedito verso le case.

Il suo piano per sopravvivere in Cina non stava in piedi, proprio come quello per la fuga. Non aveva idea di doveandare o chi contattare; voleva solo allontanarsi il più possibile dal confine. Era approdato in una parte della provinciacinese del Jilin particolarmente povera, montuosa e scarsamente popolata. Il villaggio più vicino era Helong, circacinquanta chilometri a nord rispetto al punto in cui aveva attraversato il fiume. La sua unica speranza erano leinformazioni che aveva raccolto dai commercianti in Corea del Nord: forse le minoranze coreane che vivevano nellaregione cinese di confine avrebbero potuto offrigli accoglienza, e magari un lavoro. Appena messo piede nel cortile diuna delle case scatenò un’esplosione di latrati. Riuscì a contare sette cani, un numero sorprendente per gli standardnordcoreani, dove gli animali da compagnia erano stati decimati dai vagabondi affamati, tra cui molti orfani, che neglianni della carestia li rubavano, scuoiavano e arrostivano35.

Quando la porta d’ingresso si aprì, Shin implorò qualcosa da mangiare e un posto in cui dormire. Un uomo cinesecoreano gli disse di andarsene: proprio quella mattina la polizia gli aveva intimato di non offrire aiuto ai nordcoreaniin fuga. Proseguì verso una vicina casa di mattoni, dove chiese di nuovo aiuto e dove di nuovo fu respinto in malomodo. Shin stava morendo di freddo. Vide quel che restava di un barbecue all’aperto, estrasse tre ceppi da sotto lacenere e li portò in una foresta di larici lì vicino; ripulì un pezzo di terra dalla neve, trovò dei legnetti e riuscì adaccendere un fuoco. Si tolse le scarpe e i calzini bagnati per farli asciugare al calore delle fiamme, e quasi senzarendersene conto si addormentò.

All’alba il fuoco era spento. Shin aveva il volto coperto di brina e il freddo gli era penetrato nelle ossa. Si rimise icalzini e le scarpe, ancora bagnati, e camminò tutta la mattina seguendo stradine secondarie che sperava lo portasserolontano dal confine. Intorno a mezzogiorno vide in lontananza un posto di blocco della polizia: abbandonò il sentiero,trovò un’altra casa e bussò alla porta.

«Per favore, può aiutarmi?» implorò.Un signore, cinese coreano, si rifiutò di farlo entrare dicendogli che la moglie soffriva di un qualche disturbo

mentale, ma se non altro gli offrì due mele.Per evitare i posti di controllo e allontanarsi ulteriormente dal confine seguì un sentiero tortuoso su per le

montagne, che percorse per la maggior parte del giorno. Shin non sa dire con esattezza dove abbia camminato quelprimo giorno in Cina: le immagini di Google Earth della regione vicino al confine mostrano montagne dallavegetazione rigogliosa e qualche casa qua e là.

Al tramonto tentò la sorte in una fattoria di recente costruzione, fatta di blocchi di calcestruzzo e circondata daporcili. Cinque cani abbaiarono appena mise piede nel cortile.

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Il volto tozzo di un uomo di mezza età fece capolino dalla porta d’ingresso.«Vieni dalla Corea del Nord?» domandò.Shin annuì, esausto.L’uomo, un allevatore cinese che parlava un po’ di coreano, lo invitò a entrare e ordinò a una giovane di preparare

del riso. Disse che una volta aveva dato lavoro a due rifugiati nordcoreani che gli erano stati di grande aiuto. Gli offrìcibo, alloggio e cinque yuan al giorno – circa sessanta centesimi – se fosse stato disposto a prendersi cura dei maiali.

Prima ancora di aver consumato il suo primo pasto caldo in Cina, Shin aveva già un lavoro e un posto in cuidormire: era stato un prigioniero, una spia, un fuggiasco, un ladro, ma mai un lavoratore dipendente. Questo lavoro eraun ottimo inizio, nonché un enorme sollievo dopo un mese estenuante di fuga al freddo e al gelo. Nel giro di un istantepoté lasciarsi alle spalle una vita intera di schiavitù.

Nel corso del mese successivo la cucina dell’uomo gli offrì finalmente tutto il cibo che desiderava. Si riempiva lostomaco tre volte al giorno con quella carne arrostita su cui tante volte aveva fantasticato con Park nel Campo 14.Faceva il bagno con sapone e acqua calda. I pidocchi, suoi compagni fin dalla nascita, lo abbandonarono. L’allevatoregli comprò antibiotici per curare le ustioni sulle gambe, caldi abiti invernali e stivali da lavoro, e Shin poté liberarsidei vestiti fuori misura che aveva rubato e che lo identificavano istantaneamente come nordcoreano.

Aveva una stanza tutta per sé: dormiva sul pavimento sotto il calore di diverse coperte. Poteva riposare anche dieciore di fila, un lusso fino ad allora inimmaginabile. La giovane donna di casa – che scoprì essere l’amante del padrone –cucinava per lui e gli insegnava i rudimenti della lingua cinese. Per guadagnarsi i suoi sessanta centesimi giornalierilavorava dall’alba fino alle sette o alle otto di sera. Oltre ad accudire i maiali accompagnava l’allevatore a caccia dicinghiali nelle montagne circostanti: lui li uccideva, e Shin trascinava le carcasse fuori dal bosco per la macellazione ela vendita.

A volte il lavoro era massacrante, ma qui nessuno lo minacciava né lo picchiava. La paura pian piano svanì, e grazieal cibo e al riposo poté riacquistare le forze perdute.

Quando la polizia fece visita alla fattoria, l’allevatore gli disse di far finta di essere muto; si assunse lui laresponsabilità di garantire per il ragazzo, e la polizia se ne andò.

Nonostante tutto, Shin sapeva benissimo di essere il benvenuto in quella casa solo in quanto manodopera a buonmercato.

La capacità della zona di confine cinese di assorbire nordcoreani in fuga è significativa e piuttosto sottostimata aldi fuori del nordest asiatico: per i migranti di lingua coreana l’area non è poi così aliena né ostile. Quando i fuggiaschiattraversano il confine con la Cina, i primi “stranieri” che incontrano sono di solito persone di etnia coreana cheparlano la loro stessa lingua, mangiano cibo simile e in parte condividono i medesimi valori culturali.

Con un po’ di fortuna possono, come Shin, trovare un lavoro e una sistemazione, e sentirsi più o meno al sicuro.Questa situazione dura dalla fine degli anni sessanta dell’Ottocento, quando la Corea del Nord fu colpita da unacarestia e i contadini affamati fuggirono nella Cina nord-orientale attraverso i fiumi Tumen e Yalu. Più tardi, ilgoverno imperiale cinese reclutò contadini coreani per fare da cuscinetto contro l’espansione russa, e la dinastiacoreana Joseon li lasciò liberi di partire legalmente.

Prima della seconda guerra mondiale i giapponesi che occuparono la penisola coreana e la Cina nordorientalespinsero decine di migliaia di contadini coreani al di là del confine per indebolire il controllo cinese sulla zona.

Oggi la minoranza coreana nelle tre province nordorientali dalla Cina conta quasi due milioni di persone, con lapiù alta concentrazione nella provincia di Jilin, dove era capitato Shin dopo aver attraversato il fiume gelato: qui laCina creò la Prefettura Autonoma Coreana di Yanbian, in cui il 40 per cento della popolazione è di etnia coreana e ilgoverno sovvenziona scuole e pubblicazioni in lingua coreana.

I coreani della Cina nord-orientale hanno anche avuto un ruolo chiave, anche se non riconosciuto, nelcambiamento culturale all’interno del Nord.

Con le loro antenne paraboliche fai-da-te guardavano le soap opera sudcoreane, le registravano su video cd dibassa qualità e ne introducevano illegalmente centinaia di migliaia di copie al di là del confine, in Corea del Nord,dove secondo “Rimjin-gang” si potevano acquistare per appena quindici centesimi.

Le soap sudcoreane – in cui fanno bella mostra di sé macchine le veloci, le case opulente e la crescente sicurezzaeconomica e sociale della Corea del Sud – sono classificate come “materiale audiovisivo impuro” e guardarle nelNord è considerato illegale. Nonostante questo hanno un notevole seguito a Pyongyang e in altre città, dove pare che

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gli agenti di polizia incaricati di confiscare i video siano i primi a guardarli, e dove gli adolescenti imitano leinflessioni melliflue della lingua coreana parlata dalle sofisticate star di Seoul36. Questi programmi televisivi hannodemolito decenni di propaganda nordcoreana, che voleva un Sud povero, represso, infelice e smanioso di riunirsi conil Nord sotto la paterna protezione della dinastia Kim.

Negli ultimi cinquant’anni le forze di sicurezza cinesi e nordcoreane hanno collaborato per assicurarsi chel’infiltrazione saltuaria di coreani oltre confine non si trasformasse in un vero e proprio flusso. Secondo il governosudcoreano, all’inizio degli anni sessanta i due paesi firmarono un accordo segreto sulla sicurezza di frontiera. Unsecondo accordo ratificato nel 1986 vincolava la Cina a rispedire in patria i rifugiati nordcoreani, che spessosarebbero andati incontro ad arresto, torture e mesi (o anni) di lavori forzati.

Impedendo ai propri cittadini di lasciare il paese, la Corea del Nord infrange un accordo internazionale che si èimpegnata a onorare, un trattato del 1966 secondo cui «tutti devono essere liberi di lasciare qualsiasi paese, incluso ilproprio»37. Dal canto suo, la Cina – che etichetta i rifugiati nordcoreani come «rifugiati economici» e li restituisce aun paese che li perseguiterà – va contro gli obblighi sanciti da una convenzione internazionale del 1951 sui rifugiati, dicui è firmataria. Pechino non permette a queste persone di reclamare il proprio diritto di asilo, e impedisce all’AltoCommissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati di lavorare lungo il confine con il Nord: di fatto gli interessistrategici della Corea del Nord e della Cina hanno avuto la meglio sulla legge internazionale. Un esodo di massa dalNord potrebbe causare un drastico declino demografico nel paese, comprometterne del tutto la capacità, giàinadeguata, di produrre cibo e indebolire, se non addirittura rovesciare, il governo.

Il rischio di un esodo aumenta nel momento in cui l’economia cinese accelera sempre di più mentre quellanordcoreana cola a picco, e la voce che la vita appena al di là del confine sia migliore si sparge.

Per il governo cinese un’affluenza incontrollata di rifugiati coreani in miseria sarebbe tutt’altro che desiderabile,per varie ragioni: non solo provocherebbe un aumento consistente della povertà nelle tre province nord-orientali dellaCina, che già non hanno beneficiato della ricchezza generata dal boom economico, ma potrebbe accelerare la cadutadel regime nordcoreano, portando a un’unificazione sotto il governo di Seoul, notoriamente vicino agli Stati Uniti.Nel processo, la Cina perderebbe una zona cuscinetto chiave tra una delle sue regioni più povere e una Corea unita,ricca e filo-occidentale; e ciò, a sua volta, potrebbe risvegliare sentimenti nazionalisti tra le minoranze coreane delleterre di confine cinesi. Agricoltori, capireparto delle fabbriche e altri datori di lavoro delle province cinesi nord-orientali sono ben consapevoli dell’avversione di Pechino verso i rifugiati nordcoreani, avversione confermata dagliatteggiamenti della polizia e dei soldati di frontiera: ma, come scoprì Shin di persona, non fanno troppa fatica aignorare le direttive nazionali quando si trovano di fronte un operoso nordcoreano disposto a tenere la bocca chiusa ea lavorare sodo per sessanta centesimi al giorno. Tra l’altro sono anche liberi di imbrogliare, maltrattare o liberarsi deiloro aiutanti in qualsiasi momento.

Difatti, nell’arco di un mese l’accordo tra Shin e l’allevatore prese una brutta piega: Shin era andato a prenderedell’acqua in un torrente vicino alla fattoria quando s’imbatté in altri due rifugiati nordcoreani, affamati e assetati, cheavevano trovato rifugio in una baracca abbandonata non distante. Shin chiese all’allevatore di aiutarli; lui lo fece, macon una certa riluttanza e maturando un rancore di cui Shin si rese pienamente conto solo dopo un po’.

Uno dei fuggiaschi era una donna sulla quarantina che tempo addietro aveva già attraversato il confine; aveva un exmarito cinese e un figlio che vivevano lì vicino, voleva contattarli e l’allevatore le permise di usare il telefono. Non sifermarono più di un paio di giorni, ma l’idea di aver offerto riparo a tre nordcoreani fu causa di grande fastidio perl’allevatore. Questi disse a Shin che anche lui se ne sarebbe dovuto andare; sapeva di un altro posto su nelle montagnein cui avrebbe potuto lavorare badando al bestiame, e si offrì di accompagnarlo in macchina. Dopo aver guidato perdue ore su sentieri in salita, lo fece scendere al ranch di un amico, non lontano da Helong, una città di circaottantacinquemila abitanti: se avesse lavorato duro, gli disse, sarebbe stato generosamente compensato.

Solo quando se ne fu andato Shin si rese conto che nel ranch nessuno parlava la sua lingua.

34 Chang et al., Migration Experiences of North Korean Refugees, cit., p. 9.35 Demick, Nothing to Envy, cit., p. 163.36 Rimjin-gang: News from Inside North Korea, a cura di Jiro Ishimaru, Asia Press International, Osaka 2010, pp. 11-15.37 United Nations International Covenant on Civil and Political Rights, articolo 12 (2), all’indirizzo http://tinyurl.com/66d4ep.

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ASILO

Nei dieci mesi successivi Shin rimase lì dove lo aveva lasciato l’allevatore di maiali: di giorno badava al bestiamenei pascoli di montagna, di notte dormiva sul pavimento dell’edificio principale insieme a due burberi mandrianicinesi. Era libero di andarsene quando voleva, ma non sapeva dove dirigersi o cos’altro fare; del suo futuro, nei pianiiniziali, se ne sarebbe dovuto occupare Park. Quando ancora si trovavano nel campo quest’ultimo aveva assicurato aShin che una volta arrivati in Cina avrebbe pensato a predisporre il passaggio al Sud: grazie all’aiuto di suo zioavrebbero avuto soldi, documenti e contatti. Ma Park era morto e la Corea del Sud sembrava irraggiungibile.

Non potersi muovere aveva comunque i suoi vantaggi: le gambe finalmente guarirono e il tessuto cicatriziale coprìle ustioni lasciate dalla recinzione elettrica. Dai bovari e dal gestore del ranch imparò qualche rudimento di cinese eper la prima volta in vita sua ebbe accesso a una specie di generatore di sogni elettrico: una radio. Shin armeggiava conquella rotellina quasi ogni mattina, passando in rassegna la dozzina di stazioni in lingua coreana che trasmettevanoquotidianamente in Corea del Nord e nella Cina nord-orientale: si tratta di emittenti finanziate da Corea del Sud, StatiUniti e Giappone, e offrono notizie dall’Asia e dal resto del mondo con un taglio estremamente critico nei confrontidel Nord e della dinastia Kim. Si concentrano sulla mancanza cronica di cibo, sulle continue violazioni dei dirittiumani, sulle provocazioni militari, sul programma nucleare e sulla dipendenza del paese dalla Cina. Viene ancheconcesso notevole spazio al racconto delle vite confortevoli, almeno secondo gli standard nordcoreani, di chi èriuscito a fuggire al Sud, dove il governo di Seoul offre a tutti una sistemazione e aiuti di vario tipo.

Sono proprio i rifugiati a gestire alcune delle stazioni (con l’assistenza finanziaria, tra gli altri, degli Stati Uniti),aiutati da reporter che operano all’interno della Corea del Nord. Questi cronisti, che usano telefoni cellulari e fannofuoriuscire registrazioni audio e video su minuscole chiavette USB, hanno rivoluzionato l’informazione sulla Coreadel Nord: se nel 2002 ci sono voluti mesi perché il mondo venisse a conoscenza delle riforme economiche che hannoallentato le restrizioni sui mercati privati nordcoreani, sette anni più tardi (quando il governo di Pyongyang ha avviatouna disastrosa riforma monetaria che ha impoverito e fatto infuriare decine di migliaia di commercianti) la Free NorthKorea Radio ha riportato la notizia nel giro di poche ore.

Anche se nel Nord ascoltare queste stazioni può costare molto caro – dieci anni di reclusione in un campo dilavoro – negli ultimi anni si è registrata una vera e propria invasione di radio da tre dollari importate illegalmente dallaCina e, stando ai dati raccolti da rifugiati, commercianti e altre persone che hanno attraversato il confine, moltissiminordcoreani vi si sintonizzano ogni giorno38. In molti hanno raccontato che ascoltare la radio straniera harappresentato una spinta decisiva per lasciare il paese39.

In quello sperduto ranch cinese, Shin provava conforto nel sentire voci che parlavano una lingua a lui familiare; efurono proprio quelle voci a dargli l’elettrizzante notizia, anche se vecchia di un anno, che diverse centinaia di rifugiatinordcoreani erano stati trasportati via aereo dal Vietnam a Seoul. Prestava attenzione soprattutto ai servizi cheriguardavano le condizioni di attraversamento del confine, le rotte preferite dai fuggiaschi per passare dalla Cina allaCorea del Sud, e le vite che conducevano una volta arrivati.

Ma la maggior parte delle cose che sentiva alla radio, in realtà, Shin faticava a comprenderle; le trasmissioni eranorivolte a nordcoreani istruiti e cresciuti con i mezzi d’informazione di Stato, i quali venerano la saggezza e il poteredivino della dinastia familiare dei Kim e mettono in guardia verso i complotti americani, sudcoreani e giapponesi perimpadronirsi dell’intera penisola coreana. Il Campo 14 l’aveva tagliato fuori da questo circuito propagandistico, e oraascoltava la contropropaganda occidentale con le orecchie di un bambino curioso, confuso, a volte annoiato, masempre sprovvisto di un contesto sociale o culturale qualsiasi. Nelle quattro settimane passate a istruirlo su comefunzionasse il resto del mondo Park era stato molto critico nei confronti del governo nordcoreano, ma Shin, a parte imomenti in cui si parlava di cibo, non lo aveva davvero ascoltato; era dunque disorientato da gran parte dei servizi sulla

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Corea del Nord che sentiva alla radio. Sapeva poco della famiglia Kim, e ancor meno della sua reputazione nel restodel mondo, e anche quando sentiva qualche notizia ghiotta sulle vite dei rifugiati in Cina o in Corea del Sud non avevanessuno con cui condividerla. Senza una lingua che gli permettesse di comunicare, in quel ranch finì col sentirsiancora più solo che nel campo.

Verso la fine del 2005, mentre l’inverno arrivava ad avvolgere le montagne, Shin decise di fare la sua mossa. Allaradio aveva sentito che a volte le chiese coreane in Cina aiutavano i fuggiaschi. Abbozzò quindi un piano: avrebbeviaggiato verso sudovest mettendo quanta più distanza possibile tra sé, la Corea del Nord e i soldati che pattugliavanola frontiera; dopodiché avrebbe cercato il supporto di qualche coreano benevolo per trovare un impiego stabile nellaCina meridionale e costruirsi una vita di basso profilo. Aveva abbandonato qualsiasi speranza di raggiungere la Coreadel Sud.

Ormai parlava abbastanza bene il cinese da poter dire al gestore del ranch perché avesse deciso di andarsene. Glispiegò che se avesse continuato a vivere sul confine sarebbe stato arrestato dalla polizia e rimpatriato. Senza troppigiri di parole l’uomo gli consegnò seicento yuan, circa settantadue dollari: meno di venticinque centesimi al giorno,calcolati sui dieci mesi passati a badare al bestiame. Basandosi sui sessanta che guadagnava all’allevamento di maiali,Shin si aspettava di ricevere almeno il doppio. Era stato imbrogliato, ma come tutti i nordcoreani che lavoravano inCina non era nella posizione di protestare. Come regalo di addio l’uomo gli diede una cartina geografica e loaccompagnò alla stazione degli autobus nella vicina Helong.

Rispetto alla Corea del Nord viaggiare in Cina gli sembrò semplice e sicuro. Indossava vestiti di produzione locale(dono dell’allevatore), che quindi attiravano poca attenzione. Viaggiando da solo, e facendo ben attenzione a tenere labocca chiusa, scoprì ben presto di avere aspetto e modi che non ne tradivano l’identità di nordcoreano in fuga. Si reseanche conto, parlando con gente di etnia coreana a cui si rivolgeva per chiedere cibo, soldi o lavoro, e a cui diceva divenire dal Nord, di non suscitare alcun interesse speciale: una lunga fila di rifugiati era venuta a fare l’elemosina primadi lui, e per la maggior parte delle persone un nordcoreano non era motivo né di allarme né di interesse. Ne avevanovisti fin troppi. Ne avevano abbastanza.

Nessuno gli chiese i documenti a Helong, quando comprò un biglietto per il viaggio in autobus di quasi duecentochilometri che l’avrebbe portato a Changchun, la capitale della provincia di Jilin, o quando salì su un treno per copriregli ottocento chilometri che lo separavano da Pechino, o ancora quando percorse più di milleseicento chilometri inautobus per arrivare a Chengdu, una città di cinque milioni di abitanti nella Cina sud-occidentale.

Non appena mise piede a Chengdu, destinazione scelta a caso alla stazione degli autobus di Pechino, iniziò acercare lavoro. In un ristorante coreano trovò una rivista che elencava i nomi e gli indirizzi di alcune piccole chiese;bussò alle porte di ognuna di esse e chiese di parlare con il pastore, spiegando di essere un nordcoreano bisognosod’aiuto. I pastori di etnia coreana gli diedero denaro, l’equivalente di quindici dollari in yuan, ma nessuno gli offrì unlavoro o un tetto, e a volte addirittura lo allontanarono. Era illegale, dicevano, aiutare un rifugiato.

Ogni volta che chiedeva aiuto in Cina Shin stava attento a non rivelare troppe informazioni personali: non dissemai di essere fuggito da un campo di lavoro per prigionieri politici, perché temeva che qualcuno sarebbe stato tentatodi consegnarlo alla polizia. Cercava di evitare conversazioni lunghe e si teneva alla larga da alberghi e pensioni, dovecon ogni probabilità gli avrebbero chiesto un documento d’identità. Trascorse invece molte notti in un PC Bang,l’onnipresente internet cafè dell’Asia orientale in cui uomini, per lo più giovani e non sposati, giocano al computer enavigano notte e giorno; lì dentro, almeno, poteva trovare informazioni e un po’ di riposo. Sembrava uno dei tantiragazzi disoccupati senza meta che passano lì il proprio tempo, e nessuno gli chiese i documenti.

Dopo essere stato respinto da otto chiese di Chengdu, Shin affrontò l’ennesimo, lungo e infausto viaggio inautobus e se ne tornò a Pechino, dove per dieci giorni si rimise a cercare lavoro presso i ristoranti coreani. A volte iproprietari o i gestori gli davano del cibo o qualche soldo, ma nessuno di loro gli offrì un impiego. Nonostante questonon si lasciò prendere dal panico, né si scoraggiò: per lui il cibo significava molto di più di quanto non significhi perla maggior parte delle persone, e in Cina, dovunque andasse, ne trovava in abbondanza. Scoprì con suo grande stuporeche si trattava di un paese in cui persino i cani sembravano ben nutriti, e quando non aveva contanti per comprarsi damangiare poteva sempre fare affidamento sull’elemosina; i cinesi gli davano sempre qualcosa.

Si fece strada in lui la convinzione che non sarebbe mai morto di fame, un pensiero che da solo bastava a calmargli

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i nervi e a dargli speranza; non avrebbe più avuto bisogno di irrompere nelle abitazioni altrui per trovare cibo, soldi ovestiti.

Shin lasciò Pechino e percorse un centinaio di chilometri in autobus fino a Tianjin, dove di nuovo tentò la sortecon le chiese coreane; anche questa volta i pastori gli offrirono qualche spicciolo, ma niente lavoro, né alloggio.Prese allora un altro autobus verso sud, questa volta diretto a Jinan, dove trascorse cinque giorni passando in rassegnaaltre chiese coreane. Di nuovo, niente lavoro.

Proseguì ancora verso sud. Il 6 febbraio 2006 – un anno e una settimana dopo aver attraversato il Tumen gelato perentrare in Cina – arrivò a Hangzhou, sul delta del Fiume azzurro. Nel terzo ristorante coreano in cui entrò, ilproprietario gli offrì un lavoro. L’Haedanghwa Korean Cuisine era un posto frenetico, e Shin lavava i piatti esparecchiava i tavoli senza sosta per molte ore di seguito. Dopo undici giorni decise che ne aveva abbastanza; silicenziò, incassò la paga e salì su un autobus diretto a Shanghai, centocinquanta chilometri più a sud. Alla stazionedegli autobus di Shanghai sfogliò una rivista in coreano, trovò un elenco di ristoranti coreani, e partì di nuovo allaricerca di un impiego.

«Potrei parlare con il proprietario?» chiese a una cameriera nel primo ristorante della lista.«Perché me lo chiedi?» rispose lei.«Vengo dalla Corea del Nord, sono appena sceso da un autobus e non ho un posto dove andare» disse Shin.

«Pensavo che forse avrei potuto lavorare in questo ristorante».La cameriera disse che il proprietario non era disponibile.«Non c’è proprio nulla che potrei fare qui?» implorò Shin.«Non abbiamo lavori da offrire… ma vedi quell’uomo laggiù? Dice di essere coreano; forse dovresti parlargli».La cameriera indicò un cliente seduto da solo a un tavolo.«Mi scusi, vengo dalla Corea del Nord e sto cercando un lavoro» disse Shin. «Per favore, può aiutarmi?».Dopo essersi soffermato qualche istante a studiare il suo volto, l’uomo gli chiese quale fosse la sua città natale:

lui rispose che veniva da Bukchang, il villaggio vicino al Campo 14 dove aveva rubato il suo primo sacco di riso.«Vieni davvero dalla Corea del Nord?» chiese l’uomo, tirando fuori un taccuino e iniziando a prendere appunti.Shin si era imbattuto in un giornalista, corrispondente da Shanghai per un’importante società di informazione

sudcoreana.«Perché sei venuto a Shanghai?».Shin ripeté quello che aveva appena detto: cercava lavoro e aveva fame. Il giornalista annotò tutto. Questo non era

il genere di conversazione a cui Shin era abituato; non aveva mai incontrato un giornalista, e cominciò a preoccuparsi.Dopo un lungo silenzio l’uomo gli chiese se avesse intenzione di andare in Corea del Sud, domanda che non fece

che peggiorare il suo stato di ansia.Aveva abbandonato da tempo qualsiasi speranza di poter proseguire verso il Sud, per cui disse al giornalista che

non poteva andarci perché non aveva soldi.L’uomo gli propose di uscire insieme dal ristorante. Per strada fermò un taxi, disse a Shin di salirci e si sedette al

suo fianco; solo dopo qualche minuto gli annunciò che erano diretti al consolato sudcoreano.Il disagio di Shin si trasformò in vero e proprio panico quando il giornalista gli spiegò che, una volta scesi dal taxi,

avrebbero potuto incorrere in qualche pericolo: se qualcuno lo avesse afferrato, si raccomandò, avrebbe dovutoscrollarselo di dosso e correre via.

Avvicinandosi al consolato videro macchine della polizia e agenti in divisa di pattuglia all’ingresso. Fin dal 2002 ilgoverno di Pechino aveva cercato – con notevole successo – di impedire ai nordcoreani di precipitarsi nelleambasciate e nei consolati esteri in cerca di asilo. Fino a quel momento Shin era riuscito a tenersi alla larga dallapolizia cinese: nel timore di essere arrestato e rispedito in Corea del Nord, non aveva mai osato introdursi nelleabitazioni private in cerca di cibo o vestiti. Aveva fatto del suo meglio per essere invisibile, e finora ci era riuscito.Ora un estraneo lo stava portando in un edificio iper-sorvegliato, e gli stava consigliando di scappare se la poliziaavesse cercato di arrestarlo.

Quando il taxi si fermò di fronte al palazzo, su cui sventolava la bandiera sudcoreana, Shin sentì come un peso sulpetto. Aveva paura di non farcela nemmeno a camminare. Il giornalista gli disse di sorridere, gli poggiò un bracciosulla spalla, lo tirò a sé e così si avvicinarono al cancello del consolato. In cinese, il giornalista disse ai poliziotti chelui e il suo amico avevano delle faccende da sbrigare lì dentro.

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Loro aprirono il cancello e fecero cenno di entrare.Ormai erano dentro, potevano rilassarsi. Ma Shin non capiva di essere al sicuro; nonostante le ripetute

rassicurazioni dei dipendenti del consolato, non poteva credere di essere davvero sotto la protezione del governosudcoreano. Il concetto d’immunità diplomatica gli era completamente estraneo.

Il consolato era un posto confortevole, i funzionari erano disponibili e lì dentro trovò un altro rifugiatonordcoreano con cui parlare. Per la prima volta in vita sua, Shin poté lavarsi tutti i giorni e indossare vestiti nuovi ebiancheria fresca. Era riposato, ripulito e si sentiva sempre più al sicuro; non restava che aspettare che venisseroconcluse tutte le operazioni burocratiche che gli avrebbero consentito di partire per il Sud.

Apprese dai funzionari del consolato che il giornalista che l’aveva aiutato (e che ancora oggi vuole mantenerel’anonimato) era finito nei guai con le autorità cinesi.

Dopo sei mesi trascorsi lì dentro, Shin prese finalmente un volo per Seoul, dove il National Intelligence Servicesudcoreano dedicò al suo caso un’attenzione speciale. Durante gli interrogatori, che durarono circa due settimane,Shin raccontò agli agenti del NIS tutta la sua storia, cercando di essere quanto più preciso possibile.

Quando gli agenti sudcoreani ebbero finito con lui, fu la volta degli americani: tale procedura è un’eredità dellaguerra di Corea, un accordo ormai vecchio di decenni che permette all’intelligence statunitense di avere informazionidi prima mano sulla Corea del Nord. Il sergente Matthew E. McMahon, la persona deputata all’interrogatorio, parlòcon Shin per un’ora e mezza in un ospedale militare. Rimase parecchio colpito da quanto il rifugiato che gli sedeva difronte sembrasse fragile e traumatizzato. «Era davvero turbato. Un uomo a pezzi, nonostante non tradisse la minimaemozione mentre mi parlava. Non credo si rendesse pienamente conto di cosa gli stesse succedendo o di dove sitrovasse. Era come se prima d’allora non avesse mai parlato con un bianco».

Diversamente dagli altri rifugiati interrogati da McMahon, Shin non sapeva nulla delle condizioni di vita in Coreadel Nord né di Kim Jong Il: raccontò invece una storia che a McMahon sembrò credibile, anche se lo lasciòletteralmente senza parole. Shin non fece il minimo cenno al tradimento della madre e del fratello. Terminatol’interrogatorio, l’agente americano scrisse un lungo e dettagliato rapporto che si guadagnò subito l’attenzionedell’intelligence statunitense, fino a quel momento non particolarmente interessata ai campi di prigionia nordcoreani.

38 Lee Gwang Baek, Impact of Radio Broadcasts in North Korea, intervento all’International Conference on Human Rights, 1 novembre2010, reperibile sul sito di NKnet (http://tinyurl.com/l39urwo).

39 Peter M. Beck, North Korea’s Radio Waves of Resistance, in “Wall Street Journal”, 16 aprile 2010.

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TERZA PARTE

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K’UREDIT K’ADUS

Terminato l’interrogatorio, Shin fu accolto ad Hanawon, che in coreano significa “casa dell’unità”. È un centrogovernativo arroccato su colline verdeggianti, a una sessantina di chilometri a sud di Seoul, tentacolare megalopolicon più di venti milioni di abitanti. La struttura fa pensare a un ospedale psichiatrico ben finanziato e molto bensorvegliato: edifici di mattoni rossi su tre piani circondati da un’alta recinzione costellata di videocamere e pattugliatada guardie armate. Hanawon è stato costruito nel 1999 dal Ministero dell’Unificazione per ospitare i rifugiatinordcoreani, e per prepararli ad adattarsi e sopravvivere nella cultura capitalista ultracompetitiva del Sud.

A tale scopo nel centro lavora uno staff di psicologi, consulenti per l’orientamento professionale, docenti – che sioccupano di tutto, dalla storia mondiale all’educazione stradale – dottori, infermieri e dentisti. Nei tre mesi disoggiorno, i rifugiati imparano a conoscere i loro diritti in base alla legge sudcoreana e partecipano a uscited’istruzione in centri commerciali, banche e stazioni della metropolitana.

«Tutti i fuggiaschi hanno problemi di adattamento» mi ha detto Ko Gyoung-bin, direttore generale di Hanawon,quando sono stato in visita.

All’inizio Shin sembrò cavarsela meglio di altri. Queste uscite non lo sorprendevano né lo spaventavano: avevaattraversato da solo alcune delle più grandi e fiorenti città della Cina, ed era già abituato a grandi assembramenti dipersone, palazzi altissimi, macchine vistose e gadget elettronici.

Nel suo primo mese ad Hanawon ricevette documenti e foto identificative che certificavano la sua cittadinanzasudcoreana, concessa automaticamente a tutti coloro che fuggono dal Nord. Seguì anche lezioni in cui venivanodescritti i numerosi benefit governativi e i programmi offerti ai rifugiati, che includevano un appartamento gratuito euno stipendio di insediamento pari a 800 dollari al mese per due anni, che potevano arrivare fino a un totale di 18.000dollari per chi avesse proseguito con la formazione lavorativa o l’istruzione superiore.

Seduto in un’aula, Shin scoprì che la guerra di Corea era iniziata quando, il 25 giugno 1950, l’esercitonordcoreano aveva invaso a sorpresa il Sud. È una lezione di storia che lascia di stucco la maggior parte dei nuoviarrivati, a cui fin dalla prima infanzia il regime aveva insegnato che era stata la Corea del Sud a dare inizio al conflittocon l’appoggio e il supporto armato degli Stati Uniti. Ad Hanawon molti rifugiati si rifiutano categoricamente dicredere che questo pilastro della storia nordcoreana sia in realtà una menzogna, e si arrabbiano. È un po’ comepotrebbe reagire un americano se gli si dicesse che la seconda guerra mondiale è iniziata nell’oceano Pacifico dopoun attacco americano a sorpresa a un porto di Tokyo.

Ma dal momento che a Shin non era stato insegnato praticamente nulla nel Campo 14, una storia radicalmenterivista della penisola coreana era ben poco rilevante per lui; era più interessato alle lezioni in cui poteva imparare ausare un computer e trovare informazioni in rete.

Verso la fine del suo primo mese ad Hanawon, proprio mentre iniziava a prendere confidenza con la struttura,iniziò ad avere degli incubi. Vedeva sua madre impiccata e il corpo di Park sulla recinzione, e immaginava le tortureinflitte al padre dopo la sua fuga. La situazione si aggravò al punto che fu costretto a ritirarsi da un corso di riparazionimeccaniche; abbandonò le lezioni di guida, smise di mangiare e iniziò a soffrire d’insonnia. Il senso di colpa lo stavapraticamente paralizzando.

Quasi tutti i rifugiati arrivano ad Hanawon mostrando i tipici sintomi clinici della paranoia: parlano con un filo divoce, si azzuffano, hanno paura di rivelare nome, età o luogo di nascita e hanno modi che possono facilmenteoffendere i sudcoreani, non dicendo per esempio né «grazie» né «scusa». Le domande dei cassieri che incontranodurante le uscite dedicate all’apertura di un conto in banca spesso li terrorizzano; dubitano dei fini di chi ricopre unaqualsiasi posizione di autorità; si sentono in colpa per le persone che si sono lasciati alle spalle; si tormentano, ailimiti del panico, per la propria inferiorità scolastica e finanziaria; provano vergogna per il proprio modo di vestire,

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parlare, persino per il modo in cui portano i capelli.«In Corea del Nord la paranoia era un comportamento istintivo naturale, e li aiutava a sopravvivere» mi ha spiegato

Kim Hee-kyung, psicologa che ho incontrato ad Hanawon. «Ma nel Sud impedisce una reale comprensione di ciò cheli circonda. È uno dei maggiori ostacoli all’integrazione».

Gli adolescenti fuggiti dal Nord trascorrono dai due mesi ai due anni nella scuola media e superiore Hangyoreh,un collegio di recupero finanziato dal governo e affiliato ad Hanawon; è stato costruito nel 2006 per aiutare i nuoviarrivati, la maggior parte dei quali non è adatta a frequentare la scuola pubblica sudcoreana. Quasi tutti hanno problemicon l’alfabetizzazione di base, per non parlare in alcuni casi delle difficoltà cognitive causate dalla malnutrizionecronica. Anche per i giovani più brillanti la comprensione della storia mondiale è inestricabilmente legata alleleggendarie storie personali del Grande Leader, Kim Il Sung, e del figlio, Kim Jong Il.

«Quello che si impara in Corea del Nord è del tutto irrilevante per vivere al Sud» mi ha detto Gwak Jong-moon,preside di Hangyoreh. «Quando il problema è la fame, l’istruzione passa in secondo piano tanto per i ragazzi quantoper gli insegnanti. Molti dei nostri studenti si sono nascosti in Cina per anni senza mai mettere piede in una scuola. InCorea del Nord sono cresciuti mangiando la corteccia degli alberi e pensando che fosse normale». Durante le uscited’istruzione al cinema, all’abbassarsi delle luci capita spesso che i rifugiati vengano colti dal panico, nel timore chequalcuno possa rapirli.

Il coreano parlato nel Sud, contaminato com’è da americanismi tipo syop’ing (shopping) o k’akt’eil (cocktail), lidisorienta, e trovano incredibile che i soldi siano custoditi in piccole k’uredit k’adus di plastica.

Hanno problemi a digerire pizza, hot dog e hamburger, piatti forti nella dieta dei giovani sudcoreani, e lo stessoaccade se esagerano col riso, che un tempo, prima che la carestia lo trasformasse in cibo per ricchi, era il cardinedell’alimentazione nordcoreana. Ad Hangyoreh un adolescente fece i gargarismi con l’ammorbidente scambiandoloper collutorio, un altro usò il detersivo in polvere per il bucato al posto della farina. Molti si spaventano a morte laprima volta che sentono il rumore di una lavatrice.

Oltre ad essere paranoici, confusi e a tratti tecnofobici, i rifugiati di solito soffrono di malattie prevenibili edisturbi che nel Sud praticamente non esistono. Chun Jung-hee, che negli ultimi dieci anni è stato capo-infermiere diHanawon, mi ha detto che molte donne nordcoreane soffrono di infezioni ginecologiche croniche e cisti, che in moltiarrivano affetti da una tubercolosi mai curata con antibiotici, e che sono anche comuni problemi digestivi cronici edepatite B.

Anche i disturbi più comuni sono spesso difficili da diagnosticare, mi spiegò l’infermiere, perché i rifugiati non sifidano dei medici, figure per loro del tutto inusuali che fanno domande personali e prescrivono farmaci. Uomini,donne e bambini hanno seri problemi ai denti a causa della malnutrizione e di una dieta priva di calcio: non è un casoche ogni anno metà della spesa complessiva per le cure mediche di Hanawon sia destinata a trattamenti odontotecnici.

Molti dei rifugiati ospiti della struttura, se non praticamente tutti, sono fuggiti con l’aiuto di broker che operavanonel Sud. Questi “intermediari” aspettano con impazienza che i loro clienti concludano il percorso nel centro direintegro e inizino a percepire lo stipendio mensile del governo, in modo da poter reclamare i soldi. L’ansia legata aidebiti è un enorme tormento per gli ospitati ad Hanawon, mi ha spiegato Chun Jung-hee.

Shin non doveva preoccuparsi dei broker, e le sue condizioni di salute, dopo sei mesi di riposo e pasti regolari nelconsolato a Shanghai, erano relativamente buone. Ma gli incubi non gli davano pace, e anzi si facevano sempre piùfrequenti e inquietanti. Non riusciva a riconciliare questa vita comoda e l’abbondanza di cibo con le immaginiraccapriccianti del Campo 14 che si rincorrevano nella sua testa. La sua salute mentale si stava deteriorando; lo staffmedico di Hanawon capì che aveva bisogno di cure speciali, e lo trasferì nel reparto psichiatrico di un vicino ospedaleper due mesi e mezzo – incluso un periodo di isolamento – dove gli vennero somministrati farmaci che lo aiutavano amangiare e dormire.

Nel consolato sudcoreano di Shanghai aveva iniziato a tenere un diario; ora, nel reparto psichiatrico, i dottori loincoraggiarono a continuare a scrivere: faceva parte della cura per quella che avevano identificato come sindromepost-traumatica da stress. Shin ricorda ben poco del periodo trascorso in ospedale, se non che gli incubi poco a pocodiminuirono. Una volta dimesso, si trasferì in un piccolo appartamento acquistato per lui dal Ministero perl’Unificazione. Si trovava a Hwaseong, una città di mezzo milione di abitanti nella parte centrale della penisolacoreana, vicino al Mar Giallo, a una cinquantina di chilometri da Seoul.

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Passò quasi tutto il primo mese rintanato in casa a osservare dalle finestre la vita che gli scorreva davanti. Poi,finalmente, si decise ad avventurarsi in strada. Shin paragona questa evoluzione alla lenta crescita di un’unghia. Non sabene come sia successo né perché: è successo e basta.

Dopo aver esplorato un po’ la città, decise di provare a prendere la patente, ma fu bocciato due volte all’esamescritto per colpa del suo vocabolario limitato. Faticava a trovare lavori che gli interessassero o a mantenere quelli chegli venivano offerti: raccolse rottami di metallo, fabbricò vasi d’argilla e lavorò in un negozio di alimentari ecasalinghi.

I consulenti per l’orientamento professionale di Hanawon dicono che la maggior parte dei nordcoreani va incontroa esperienze simili. Spesso si affidano al governo sudcoreano per risolvere qualsiasi tipo di problema, e non sono ingrado di prendersi la responsabilità per le loro cattive abitudini lavorative. Altrettanto spesso i rifugiati lasciano ilavori che il governo ha trovato loro per avviare attività che puntualmente falliscono. Alcuni sono disgustati dalladecadenza e dalla disuguaglianza che riscontrano nello stile di vita del Sud. Per trovare datori di lavoro disposti atollerare queste spigolosità, il Ministero per l’Unificazione versa alle imprese fino a 1800 dollari all’anno seaccettano di assumersi il rischio di impiegare un rifugiato.

In quel suo monolocale, dove passava molte ore in compagnia soltanto di se stesso, Shin si sentiva disperatamentesolo. Cercò di rintracciare il suo più vecchio zio, Shin Tae Sub, la cui fuga al Sud dopo la guerra di Corea avevaprovocato la reclusione dell’intera famiglia nel Campo 14. Ma non aveva che un nome, su cui il governo sudcoreanogli disse di non possedere informazioni: il Ministero per l’Unificazione poteva soltanto cercare persone che avesseromanifestato il desiderio di ricongiungersi con i membri della famiglia perduti. Shin abbandonò le ricerche.

Uno degli psichiatri che si era preso cura di lui in ospedale lo mise in contatto con un consulente del DatabaseCenter for North Korean Human Rights, organizzazione non governativa di Seoul che raccoglie, analizza e pubblicainformazioni sugli abusi commessi in Corea del Nord. Il consulente lo incoraggiò a trasformare il suo diario inun’autobiografia che lo stesso Database Center pubblicò in lingua coreana nel 2007. Mentre lavorava al libro, Shininiziò a passare quasi tutto il suo tempo nell’ufficio di Seoul del Database Center e fece amicizia con i redattori e glialtri membri dello staff. Gli offrirono anche un posto in cui dormire.

A Seoul, non appena si sparse la voce della presenza di quest’uomo nato in un blindatissimo campo di lavoro da cuiera poi riuscito a scappare, Shin incontrò molti dei principali attivisti per i diritti umani del Sud ed entrò in contattocon varie associazioni di rifugiati. La sua storia fu esaminata attentamente da ex prigionieri e guardie dei campi, cosìcome da avvocati specializzati in diritti umani, giornalisti sudcoreani e vari altri esperti. Le sue dettagliate descrizionidel funzionamento della struttura, il corpo martoriato e lo sguardo spaurito erano molto convincenti, per cui furiconosciuto all’unanimità come il primo nordcoreano ad essere arrivato al Sud dopo essere evaso da una prigione perdetenuti politici.

An Myeong Chul, guardia e autista di quattro campi del Nord, disse all’“International Herald Tribune” che nonc’erano dubbi sul fatto che Shin avesse vissuto in una zona a regime duro. Quando si incontrarono, An notò alcunisegni inequivocabili: non lo guardava mai negli occhi e aveva le braccia piegate ad arco per il lavoro che era statoobbligato a svolgere da bambino40.

«All’inizio facevo fatica a credergli perché nessuno prima di lui era mai riuscito nell’impresa» mi disse nel 2008Kim Tae Jin, presidente del Democracy Network Against North Korean Gulag e rifugiato egli stesso, rilasciato dopoun decennio nel Campo 1541. Ma dopo aver incontrato Shin, sia Kim sia altre persone che disponevano di informazionidi prima mano sui campi hanno concluso che la sua storia fosse tanto straordinaria quanto inoppugnabile.

Anche fuori dai confini della Corea del Sud gli esperti di diritti umani iniziarono ad accorgersi di lui. Nellaprimavera del 2008 gli fu proposto un tour in Giappone e Stati Uniti; fu invitato alla University of California, aBerkeley, e alla Columbia University, e parlò di fronte agli impiegati di Google. Grazie all’amicizia di persone checapivano e riconoscevano quello che aveva sopportato, acquisì sicurezza e iniziò a impegnarsi per colmare le enormilacune nella comprensione della sua terra natia, divorando le notizie sulla Corea del Nord che trovava su internet e suigiornali sudcoreani, e raccogliendo informazioni sulla storia della penisola coreana, la reputazione della dittaturafamiliare dei Kim e lo status di paria internazionale di cui godeva il suo paese.

Al Database Center, dove i membri dello staff lavoravano con rifugiati nordcoreani ormai da anni, Shin era

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considerato una sorta di prodigio. «In confronto agli altri rifugiati lui imparava velocemente e rispondeva bene alloshock culturale» ha detto Lee Yonghoo, uno dei team leader del centro.

Seguendo i suoi nuovi amici, Shin iniziò ad andare in chiesa la domenica mattina, ma aveva grossi problemi acomprendere il concetto di un Dio amorevole e clemente.

Nel campo i bambini che facevano domande venivano puniti dagli insegnanti, e per istinto Shin continuava asentirsi a disagio all’idea di chiedere qualsiasi cosa. Anche a Seoul, per quanto fosse circondato da amici premurosi einformati, pensare di farsi aiutare era praticamente impossibile. Leggeva con voracità ma non contemplava l’idea dicercare i vocaboli sconosciuti sul dizionario, né tantomeno chiedeva mai a un amico di spiegargli un concetto che glisfuggiva. Ignorando di fatto tutto quello che non riusciva a capire subito, i suoi viaggi a Tokyo, New York e inCalifornia non suscitarono in lui nessun senso di meraviglia o emozione. Sapeva che stava compromettendo lapossibilità di adattarsi alla sua nuova vita; ma sapeva anche che non avrebbe potuto forzarsi a cambiare.

40 Choe Sang-hun, Born and Raised in a North Korean Gulag, in “International Herald Tribune”, 9 luglio 2007.41 Blaine Harden, North Korean Prison Camp Escapee Tells of Horrors, in “Washington Post”, 11 dicembre 2008

(http://tinyurl.com/56n9s8).

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AI SUDCOREANI NON IMPORTA UN GRANCHÉ

Nel Campo 14 si celebravano soltanto due compleanni: quello di Kim Jong Il e quello di Kim Il Sung, due giornidi festa nazionale in Corea del Nord durante i quali persino ai prigionieri di un campo come quello veniva concesso dinon lavorare. Per quanto riguarda il compleanno di Shin, invece, nessuno ci aveva mai badato, nemmeno lo stesso Shin.

Ma tutto questo cambiò il giorno in cui compì ventisei anni, quando quattro amici gli organizzarono una festa asorpresa al T.G.I. Friday’s in centro a Seoul.

«Mi sono commosso» disse quando ci incontrammo per la prima volta nel dicembre del 2008, pochi giorni dopol’evento. Ma erano occasioni rare e, nonostante la festa, in Corea del Sud Shin non era felice. Si era licenziato da unlavoro part time in un pub, non aveva idea di come avrebbe fatto a pagare l’affitto della minuscola stanza che occupavain un appartamento in condivisione in centro, non percepiva più lo stipendio mensile di 800 dollari dal Ministero perl’Unificazione e il conto in banca era ormai prosciugato.

Iniziava a temere che avrebbe fatto la stessa fine dei senzatetto che vedeva alla stazione centrale di Seoul. La vitasociale non andava molto meglio; ogni tanto condivideva qualche pasto con i suoi coinquilini, ma non aveva unafidanzata o un amico vero, e si rifiutava di socializzare o lavorare con altri nordcoreani reduci dai campi di lavoro. Daquesto punto di vista non era diverso da molti altri rifugiati, i quali ci mettono molto tempo a stringere rapporti espesso evitano ogni contatto col prossimo per due o tre anni dopo il loro arrivo al Sud42. La sua autobiografia era stataun flop: solo circa cinquecento copie vendute su una tiratura di tremila. Shin mi disse di non aver guadagnato nulla dallibro.

«Alla gente semplicemente non interessa» ha dichiarato al “Christian Science Monitor” Kim Sanghun, direttoredel Database Center, dopo la pubblicazione. «L’indifferenza della società sudcoreana per il “problema nordcoreano” èqualcosa di davvero terribile»43.

Shin non fu certo l’unico sopravvissuto ai campi ad essere salutato con uno sbadiglio collettivo dal pubblicosudcoreano. Kang Chol-hwan passò un decennio nel Campo 15 con la famiglia prima di venir dichiarato “recuperabile”e rilasciato nel 1987, ma anche la sua storia straziante, scritta insieme al giornalista Pierre Rogoulot e pubblicata perla prima volta in francese nel 2000, ricevette scarsa attenzione fino a quando non fu tradotta in inglese con il titoloThe Aquariums of Pyongyang44. Una copia arrivò fin sulla scrivania del presidente George W. Bush, che invitò Kangalla Casa Bianca per discutere della Corea del Nord e che avrebbe poi descritto Aquariums come «uno dei libri chepiù mi hanno colpito durante la mia presidenza»45.

«Non è mia intenzione criticare questo paese» mi disse Shin il giorno del nostro primo incontro, «ma tra tutti isudcoreani direi che solo lo 0,001 per cento nutre un reale interesse per il Nord. Il loro stile di vita fa sì che nonriescano a pensare a ciò che sta al di là del confine. Per loro è come se lassù non esistesse nulla».

Shin forse esagerava, ma non aveva tutti i torti. È in effetti una questione che lascia perplessi i gruppi per i dirittiumani, locali e internazionali. Le prove schiaccianti delle atrocità commesse nei campi di lavoro in Corea del Nordnon sono bastate per scuotere l’opinione pubblica sudcoreana. Come ha osservato la Korean Bar Association, «isudcoreani, che in pubblico esaltano la virtù dell’amore fraterno, sono come sprofondati in una palude diindifferenza»46.

Quando il presidente sudcoreano Lee Myungbak fu eletto nel 2007, solo il 3 per cento dei votanti identificò laCorea del Nord come una preoccupazione primaria, mentre tutti gli altri informarono i sondaggisti che il loroprincipale interesse era percepire stipendi più alti. Se si parla di far soldi, la Corea del Nord è solo una gran perdita ditempo. L’economia del Sud è 38 volte più ricca di quella del Nord, con un volume commerciale 224 volte superiore47.

Le frequenti manifestazioni di belligeranza del Nord sono comunque un motivo di rabbia a Seoul, e lo furono

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soprattutto nel 2010, quando il Nord sferrò un attacco sottomarino che uccise quarantasei marinai sudcoreani,affondò la Cheonan, una nave da guerra che navigava nelle acque territoriali sudcoreane, e bombardò una piccola isolasudcoreana, uccidendo quattro persone. Detto questo, qualsiasi intenzione di vendetta manifestata dal Sud tendesempre a smorzarsi in fretta. Quando gli investigatori internazionali confermarono che un siluro nordcoreano avevaaffondato la Cheonan, gli elettori sudcoreani si rifiutarono di stringersi attorno al presidente Lee, secondo cui ilgoverno nordcoreano avrebbe dovuto «essere punito». Non c’è mai stata una versione sudcoreana dell’effetto “undicisettembre”, che aveva spinto gli americani a impegnarsi nelle guerre in Afghanistan e in Iraq. Al contrario, il partito diLee fu sconfitto alle successive elezioni, che mostrarono che i sudcoreani erano più interessati a preservare la pace eproteggere il loro stile di vita che non a dare una lezione al Nord.

«Se scoppia una guerra, calda o fredda che sia, non ci guadagna nessuno» mi ha detto Lim Seung-youl, ventisetteanni, che lavora nel settore dell’abbigliamento. «La nostra nazione è più ricca e assennata della Corea del Nord; perquesto dobbiamo preferire la ragione allo scontro».

I sudcoreani hanno passato decenni a perfezionare la loro idea di “ragione”, come risposta a una confinantedittatura che ha dispiegato circa l’80 per cento della propria potenza di fuoco militare in un raggio di cento chilometridalla famigerata zona demilitarizzata, la striscia di confine iper-sorvegliata che separa le due Coree, e che ha più volteminacciato di ridurre Seoul (situata a soli cinquanta chilometri dalla ZDC) a un «mare di fuoco». In un modo onell’altro gli attacchi a sorpresa del Nord si ripetono ogni dieciquindici anni, dal raid di un commando omicida che nel1968 cercò di assassinare il presidente sudcoreano all’abbattimento nel 1987 di un aereo civile della Korean Air,all’infiltrazione sottomarina fallita dei reparti delle truppe speciali nel 1997, fino all’affondamento della nave daguerra e al bombardamento dell’isola nel 2010.

Gli attacchi hanno causato la morte di centinaia di sudcoreani, ma non sono bastati a far sì che l’elettoratopretendesse una presa di posizione forte del governo, né hanno impedito al sudcoreano medio di continuare adarricchirsi, istruirsi e vivere in case sempre migliori in quella che è diventata la quarta maggiore economia dell’Asia el’undicesima del mondo.

I sudcoreani hanno prestato molta attenzione al prezzo che ha dovuto pagare la Germania dopo l’unificazione. Inproporzione, come dimostrato da alcuni studi, il carico sulla Corea del Sud sarebbe due volte e mezzo superiorerispetto a quello che è gravato sulla Germania dell’Ovest dopo l’unificazione con l’ex Germania dell’Est. Un processosimile potrebbe avere un costo superiore ai 200 miliardi di dollari nell’arco di trent’anni, provocare un aumento delletasse per sessant’anni e far sì che nel prossimo futuro il 10 per cento del prodotto interno lordo del Sud venga spesonel Nord.

I sudcoreani la vogliono una riunificazione con il Nord, ma non subito. Molti si augurano anzi che non avvengafinché sono in vita, soprattutto perché il costo sarebbe troppo elevato.

Shin e molti altri rifugiati si lamentano, e a ragione, che i sudcoreani li considerino gente rozza, incolta emalvestita che viene da un paese che dà più guai che altro. Che la società sudcoreana non agevoli l’inserimento èormai un dato di fatto: il tasso di disoccupazione dei nordcoreani che vivono al Sud è quattro volte più alto della medianazionale, e il tasso di suicidi è due volte e mezzo superiore. Ma i sudcoreani stessi fanno una fatica enorme a trovareil proprio posto in questa cultura così ossessionata dal successo, dallo status e dall’istruzione. Shin stava cercando ditrovare la sua strada in un paese schiacciato dal peso dell’eccessivo lavoro, un paese insicuro e stressato. Secondo idati rilasciati dall’OCSE, i sudcoreani lavorano di più, dormono di meno e si tolgono la vita con maggior frequenzarispetto ai cittadini di qualsiasi altro paese sviluppato. Anche tra di loro, i sudcoreani si guardano con occhioferocemente critico. Il valore individuale viene misurato in base all’ammissione a un numero ristretto di universitàfortemente selettive e all’accesso a lavori prestigiosi e molto remunerativi in grosse aziende come Samsung, Hyundaie LG.

«Questa è una società che non perdona: implacabile e iper-competitiva» mi ha detto Andrew Eungi Kim,professore di sociologia alla Korea University, una delle scuole più prestigiose del paese. «Se i giovani nonraggiungono gli obiettivi di studio e lavorativi che si sono prefissati – e che sono stati prefissati per loro – si lascianotravolgere dal pessimismo, convinti che il fallimento gli impedirà di costruirsi una vita. La pressione a eccellere neglistudi, per quanto possa sembrare incredibile, comincia a farsi sentire in quarta elementare, ed entro la seconda mediadiventa un aspetto fondamentale della vita di tutti gli studenti».

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La ricerca del successo ha sovraccaricato le spese per l’istruzione. Tra i paesi ricchi, la Corea del Sud si colloca alprimo posto per spesa pro capite rivolta all’insegnamento privato, che include tutor personali, sessioni intensive dipreparazione agli esami e corsi d’inglese, in patria e all’estero. Quattro studenti su cinque, dalle elementari allesuperiori, frequentano corsi in orario extrascolastico. Circa il 6 per cento del prodotto interno lordo del paese vienespeso in istruzione, più del doppio di Stati Uniti, Giappone e Gran Bretagna.

Questa ossessione ha portato a enormi vantaggi, spingendo gli economisti occidentali a descrivere la Corea delSud come l’esempio più significativo di quello che libero mercato, democrazia e olio di gomito possono fare pertrasformare una piccola economia rurale in una potenza globale. Ma il costo umano di una tale improvvisa ricchezza èaltrettanto sconvolgente.

Nonostante il tasso di suicidi nella maggior parte degli altri paesi ricchi abbia raggiunto il culmine nei primi anniottanta, in Corea del Sud continua ad aumentare, e rispetto a quindici anni fa è addirittura raddoppiato. Nel 2008 eradue volte e mezzo superiore rispetto a quello degli Stati Uniti e nettamente più alto del vicino Giappone, dove ilsuicidio è profondamente radicato nella cultura. Sembra essersi diffuso come una specie di malattia infettiva che sialimenta del logorio provocato da ambizione, ricchezza, disintegrazione della famiglia e solitudine.

«Quando siamo depressi tendiamo a non chiedere aiuto. L’idea di venir presi per matti ci spaventa moltissimo» miha detto Ha Kyoo-seob, psichiatra del Seoul National University College of Medicine e capo della KoreanAssociation for Suicide Prevention. «È questo il lato oscuro del nostro improvviso sviluppo».

Anche se gli stress legati al benessere contribuiscono molto a spiegare l’indifferenza della Corea del Sud neiconfronti di figure come Shin, bisogna considerare un altro importante fattore: lo scisma nell’opinione pubblica sucome gestire i rischi legati alla prossimità con un paese come la Corea del Nord. A seconda di come soffia il vento inpolitica, i cittadini e il governo oscillano tra l’ottusa conciliazione e il cauto confronto.

Dall’inizio del suo mandato nel 2008, il presidente Lee e il partito al potere hanno inasprito la posizione delgoverno nei confronti del Nord, tagliando quasi tutti gli aiuti e imponendo condizioni per la cooperazione in materiadi disarmo nucleare e diritti umani. Questa politica ha portato ad anni di grande nervosismo, con attacchi missilistici,accordi economici bloccati, sparatorie al confine e periodiche minacce di una “guerra totale” da parte del Nord.

Prima di Lee, l’approccio della Corea del Sud era stato diametralmente opposto. Conformemente alla politica diapertura e distensione, i presidenti Kim Dae-jung e Roh Moo-hyun partecipavano a summit con Kim Jong Il aPyongyang, approvavano massicce spedizioni di cibo e fertilizzante e firmavano generosi accordi economici. Questapolitica di fatto ignorava l’esistenza dei campi di lavoro e non faceva nessuno sforzo per controllare dove andassero afinire realmente gli aiuti concessi, ma è valsa a Kim-Dae-jung il premio Nobel per la pace.

Di tanto in tanto la schizofrenia del Sud nella gestione dei rapporti con il Nord si esprime in una sorta di teatrokabuki al confine tra le due Coree, da dove i rifugiati lanciano palloni aerostatici diretti alla madrepatria con messaggiche offendono Kim Jong Il. I volantini lo descrivono come un bevitore di costoso vino d’importazione, un seduttore didonne altrui, un assassino, uno schiavista, e lo descrivono come “il diavolo”.

Ho partecipato personalmente a uno di questi lanci e ho visto la polizia del governo di Lee far fatica a proteggereun rifugiato di nome Park Sang Hak da sindacalisti arrabbiati e universitari, secondo cui l’unico comportamentoammissibile era un confronto pacifico con il governo di Kim. Prima che fosse tutto finito Park colpì uno deicontestatori con un calcio in testa, un rumore simile a quello di una mazza su una palla da baseball. Ad altri sputòaddosso. Estrasse dalla giacca un candelotto lacrimogeno e lo lanciò in aria prima che la polizia riuscisse astrapparglielo di mano. Non fu in grado di impedire ai suoi avversari di distruggere la maggior parte delle buste checontenevano volantini contro la Corea del Nord. Alla fine il gruppo di Park riuscì a lanciare solo uno dei dieci palloniaerostatici, e decine di migliaia di volantini rimasero sparsi a terra.

Io e Shin ci incontrammo per la prima volta il giorno dopo quella débacle. Lui non aveva partecipato, lemanifestazioni di strada non facevano per lui. Si era messo a guardare vecchi film sulla liberazione dei campi diconcentramento nazisti da parte delle forze alleate, in cui si vedevano bulldozer intenti a dissotterrare i cadaveri che ilTerzo Reich, ormai crollato, aveva cercato di nascondere. «È solo questione di tempo» mi disse Shin, prima che laCorea del Nord decida di distruggere i campi. «Spero che la pressione e la persuasione che gli Stati Uniti sono ingrado di esercitare convincano il regime nordcoreano a non uccidere tutta la gente rinchiusa lì dentro».

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Shin non aveva ancora capito come pagare le bollette, guadagnarsi da vivere o trovarsi una fidanzata in Corea delSud, ma aveva deciso cosa voleva fare per il resto della sua vita: sarebbe diventato un attivista per i diritti umani eavrebbe contribuito ad accrescere la consapevolezza internazionale sull’esistenza dei campi di lavoro nordcoreani. Perpoterlo fare voleva lasciare la Corea del Sud e trasferirsi negli Stati Uniti. Aveva accettato un’offerta da Liberty inNorth Korea, l’organizzazione no profit che sponsorizzò il suo primo viaggio americano. Si sarebbe trasferito inCalifornia.

42 Suh Jae-jean, North Korean Defectors: Their Adaptation and Resettlement, in “East Asian Review”, 14, 3, autunno 2002, p. 77.43 Donald Kirk, North Korean Defector Speaks Out, in “Christian Science Monitor”, 6 novembre 2007.44 In Italia è stato pubblicato da Mondadori nel 2001, con il titolo L’ultimo gulag. La tragedia di un sopravvissuto all’inferno della Corea

del Nord. [N.d.T.]45 George W. Bush, Decision Points, Crown, New York 2010, p. 422.46 Korean Bar Association, White Paper on Human Rights in North Korea 2008.47 Moon Ihlwan, North Korea’s GDP Growth Better Than South Korea’s, in “Bloomberg Businessweek”, 30 giugno 2009.

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AMERICA

In una fresca sera di fine estate, in un sobborgo di Los Angeles affacciato sull’oceano, Shin si trovava di fronte auno sparuto pubblico di adolescenti coreani americani. Maglietta rossa, jeans e sandali, sembrava rilassato e sorridevadolcemente a quei ragazzi così attenti seduti su sedie di plastica. Era stato invitato a parlare alla Torrance FirstPresbiterian Church, e come faceva sempre nelle apparizioni pubbliche avrebbe raccontato la sua esperienza nelCampo 14.

Da più di un anno i responsabili di LiNK lo spingevano a partecipare a questo genere di eventi, e insistevanoperché preparasse interventi appropriati. Si aspettavano da lui un discorso incisivo, strutturato e potente sotto ilprofilo emotivo, possibilmente in inglese, capace di scuotere le coscienze del pubblico americano, motivarepotenziali volontari e magari raccogliere fondi per la causa dei diritti umani in Corea del Nord. Come mi ha detto unodi loro, «Shin potrebbe essere una risorsa incredibile per noi e per il nostro movimento. Gli diciamo sempre chepotrebbe essere il volto della Corea del Nord».

Shin però non ne era così convinto. Quella sera a Torrance non aveva preparato nulla. Dopo essere stato presentatoda un membro dello staff di LiNK, salutò gli studenti in coreano e chiese, tramite un interprete, se avessero delledomande. Quando una ragazza del pubblico gli chiese di spiegare come fosse scappato, il suo volto si contrasse in unasmorfia di dolore. «È una questione molto personale e delicata» disse. «Cerco di parlarne il meno possibile».

Senza nascondere una certa riluttanza, raccontò una storia breve, approssimativa, incompleta e di fattoincomprensibile per chiunque non conoscesse tutti i dettagli della sua vita. «La mia storia può essere davverostraziante» disse poi, chiudendo l’incontro dopo appena un quarto d’ora. «Non ho intenzione di deprimervi».

Il pubblico era annoiato e disorientato. Un ragazzo, che evidentemente non era ben informato né su chi fosse né sucosa avesse fatto in Corea del Nord, gli rivolse un’ultima domanda: com’era stato prestare servizio nell’esercitonordcoreano? Shin lo corresse, non aveva mai prestato servizio nell’Armata Popolare Coreana: «Non ne ero degno».

Dopo aver assistito al suo intervento in chiesa, gli domandai cosa stesse succedendo: «Perché vuoi essere unattivista per i diritti umani se fai così fatica a parlare in pubblico di quello che succedeva nel campo? Perché ometti leparti della tua storia che potrebbero davvero colpire la gente che ti ascolta?».

«Quello che ho passato appartiene solo a me» rispose, senza guardarmi negli occhi. «So che la maggior parte dellepersone non potrebbe mai capire».

Gli incubi – come le immagini dell’impiccagione della madre – continuavano a perseguitarlo nel sonno. Le suegrida svegliavano gli altri inquilini della casa di Torrance che condivideva con i volontari di LiNK. Rifiutaval’assistenza gratuita degli psicoterapeuti di lingua coreana, non voleva saperne di iscriversi a corsi per ottenere undiploma di scuola superiore né tantomeno intendeva prendere in considerazione l’idea di iscriversi all’università.

Durante le nostre lunghe settimane di interviste ha parlato varie volte di un “punto morto” dentro di sé che gliimpediva di provare qualsiasi tipo di emozione. A volte fingeva di essere felice, diceva, per vedere le reazioni deglialtri, ma più spesso non ci provava neanche. Per Shin non era stato affatto semplice adattarsi alla sua nuova vitaamericana.

Poco dopo essere arrivato in California, nella primavera del 2009, aveva iniziato ad avvertire ricorrenti mal ditesta. I colleghi di LiNK temevano che soffrisse ancora di sindrome post-traumatica da stress, ma si scoprì invece chei mal di testa erano i sintomi di una carie. Un dentista lo operò al canale radicolare, e i mal di testa scomparvero.

Quella guarigione tutto sommato semplice però è un’eccezione. Adattarsi alla vita fuori dal campo non è per luisemplice né veloce – non lo è tuttora e non lo sarà in futuro – che si tratti degli Stati Uniti o della Corea del Sud. Isuoi amici ne sono ben consapevoli, e lo è anche Shin.

«È ancora un prigioniero» mi ha detto Andy Kim, un giovane coreano americano che ha lavorato a LiNK, e che per

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un periodo è stato il suo amico più fidato. «Non riesce a godersi la vita sapendo che c’è gente che soffre nei campi.Per lui felicità è sinonimo di egoismo».

Andy e Shin sono più o meno coetanei, e spesso pranzavano insieme al Los Chilaquiles, un ristorante messicanoeconomico in un piccolo centro commerciale non lontano dagli uffici di LiNK, in una zona industriale di Torrance.Shin aveva una passione smodata per il cibo, e mi ha detto di aver fatto le sue chiacchierate migliori proprio inristoranti coreani e messicani. Per vari mesi Andy ha incontrato Shin per un’ora a settimana per discutere di come sela stesse cavando negli Stati Uniti.

Alcuni progressi erano visibili a occhio nudo. In ufficio, per esempio, era diventato loquace e giocoso. Un giornolasciò di sasso Andy e gli altri colleghi entrando nelle varie stanze e annunciando di “voler bene” a tutti. Il più dellevolte, però, quando quelle stesse persone gli offrivano i loro consigli, reagiva male e aveva problemi a distinguere unacritica costruttiva da un’offesa personale. Sul fronte economico i progressi tardavano ad arrivare, e Shin continuava aspendere più di quanto non si potesse permettere in cene o biglietti aerei per gli amici. A volte tra le lacrime diceva aAndy di non essere altro che «inutile spazzatura».

«Ci sono momenti in cui guarda se stesso attraverso gli occhi della sua nuova vita; altre in cui si osserva con quellidelle guardie del campo» dice Andy. «È come se una parte di lui fosse ancora là dentro».

Quando chiesi a Shin se fosse davvero così, lui annuì. «Sono come un animale in via di evoluzione» disse, «ma è unprocesso lento, molto lento. A volte provo a ridere e a piangere come tutti gli altri, solo per vedere se sento qualcosa.Ma le lacrime non arrivano, e nemmeno le risate».

Il suo comportamento corrispondeva a un modello comune tra i sopravvissuti ai campi di concentramento di tuttoil mondo, che spesso convivono con quella che la psichiatra di Harvard Judith Lewis Herman chiama «identitàcontaminata». «Soffrono non solo della classica sindrome post-traumatica ma anche di profonde alterazioni nelle lororelazioni con Dio, gli altri e se stessi» scrive Herman nel suo libro Guarire dal trauma, un’indagine delleconseguenze del terrorismo politico. La maggior parte dei sopravvissuti può soffrire «per la vergogna, per il disgustodi sé e per un senso di fallimento»48.

Poco dopo il suo arrivo in California, Kyung Soon Chung, figlia di un pastore nata a Seoul, iniziò a cucinare perlui, coccolarlo come una madre e controllare il suo adattamento alla vita americana. La prima volta che si presentò acasa sua per cena, Kyung gli andò incontro per abbracciarlo, ma lui non glielo permise: si sentiva a disagio all’idea diessere toccato. Gli inviti a cena continuava ad accettarli, però, anche perché andava pazzo per la sua cucina. Avevaanche fatto amicizia con i figli di Kyung, entrambi ventenni: Eunice, un’attivista per i diritti umani che avevaincontrato a Seoul, e il fratello minore, David, da poco laureato a Yale e anch’egli interessato alla questione dei dirittiumani. La famiglia, che ha stretto rapporti con diversi immigrati nordcoreani, vive a Riverside, a un centinaio dichilometri da Torrance. Kyung e il marito, Jung Kun Kim, gestiscono una piccola associazione pastorale cristiana, laIvy Global Mission.

Fu così che Shin conobbe una famiglia coreana aperta, accogliente e piena d’amore. Era geloso dell’intensità concui si prendevano cura l’uno dell’altro – e di lui – e ne era sopraffatto. Per quasi due anni, ogni due sabati ha condivisocon loro la cena, ha passato la notte nella stanza degli ospiti e la domenica mattina li ha accompagnati in chiesa.Kyung, che mastica pochissimo inglese, iniziò a parlare di Shin come del suo figlio maggiore, e lui iniziò prima atollerare e poi a ricambiare i suoi abbracci. Scoprì che le piaceva lo yogurt gelato, quindi prima di presentarsi a casasua si fermava al supermercato per comprarglielo. Lei lo stuzzicava chiedendogli: «Quando mi porti a conoscere mianuora?». Lui la lusingava dicendole che stava dimagrendo e che sembrava più giovane. Parlavano per ore, loro due dasoli.

«Perché sei così buona con me?» le chiese un giorno Shin, scuro in volto. «Ma tu lo sai cosa ho fatto?». Parlò aKyung del disgusto che provava per sé, degli incubi ricorrenti sulla morte della madre, del senso di colpa per averabbandonato il padre e di quanto si odiasse per aver strisciato sopra il corpo di Park.

Disse anche di provare vergogna per il riso e i vestiti rubati a poveri nordcoreani mentre era in fuga dal paese.Kyung è convinta che il senso di colpa di Shin non avrà mai fine. Ma gli diceva spesso che aveva una coscienza e uncuore buono, e che rispetto agli altri nordcoreani aveva un vantaggio: non era stato contaminato dalla propaganda e dalculto della personalità che circonda la dinastia Kim.

«In Shin c’è una certa purezza» mi disse lei. «Non ha mai subito alcun lavaggio del cervello».

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Dopo un paio d’anni in California i suoi figli notarono che era molto meno insicuro e che le sue capacitàrelazionali erano migliorate: era meno timido, sorrideva più facilmente ed era molto meno restio a concedereabbracci. Prima e dopo alcune delle nostre interviste in California ha abbracciato anche me.

«All’inizio con i miei amici della chiesa si sentiva in imbarazzo» disse Eunice. «Ora invece fa battute e ride digusto».

David concordava: «Shin mostra una sincera empatia nei confronti del prossimo. Questa cosa che chiamiamoamore… sono convinto che ne abbia davvero tanta, lì dentro».

L’autovalutazione di Shin invece era decisamente più negativa. «Ora che sono circondato da gente buona, cerco dicomportarmi come loro» mi ha detto. «Ma è davvero difficile. Non è un istinto naturale».

In California iniziò ad attribuire tutto il merito per la fuga dal Campo 14, per essere riuscito a lasciare la Corea delNord e per essere arrivato in Cina a Dio. Questa sua fede nascente, però, mal si adattava con la sequenza cronologicadella sua vita. Aveva scoperto l’esistenza di Dio quando per la madre, il fratello e Park era ormai troppo tardi, edubitava che quello stesso Dio avesse protetto suo padre dalla vendetta delle guardie.

Nel Campo 14 non era mai stato sfiorato dal senso di colpa. Da adolescente era furioso con la madre per tutte lebotte che gli dava, per aver rischiato una fuga e per essere stata la causa delle sue torture, e quando fu impiccata nonprovò alcun dolore. Ma ora era un sopravvissuto adulto, e con l’aumentare del suo distacco emotivo dal campo l’iralasciava spazio al rimorso e al disprezzo di sé. «Sono queste le emozioni che lentamente hanno iniziato a crescermidentro» ha detto. Avendo visto con i suoi occhi come si comportano le famiglie amorevoli, non riesce a sopportare ilricordo del figlio che è stato.

L’accordo con LiNK che l’aveva portato a Torrance prevedeva che lavorasse con i volontari e intervenisse aglieventi; in cambio gli veniva fornita una casa e un rimborso spese, ma non un salario. Con l’aiuto dell’associazioneottenne un visto di dieci anni a entrata multipla, che gli permetteva di rimanere negli Stati Uniti fino a sei mesi pervolta. Le leggi americane sull’immigrazione rivolgono ai rifugiati nordcoreani un’attenzione speciale, el’eccezionalità della situazione di Shin, nato e cresciuto in un campo di prigionia per reati politici, era un presuppostoeccellente perché potesse ottenere facilmente la residenza negli Stati Uniti. Ma non fece mai domanda per una greencard. Non riusciva a decidere dove voleva vivere.

Per lui era difficile dedicarsi con impegno a qualsiasi cosa; si iscrisse a un corso di inglese a Torrance, ma dopotre mesi lo lasciò. Passava la maggior parte del tempo negli uffici di LiNK a leggere notizie sulla Corea del Nord suinternet e a chiacchierare con lo staff di lingua coreana. Di tanto in tanto non gli dispiaceva spazzare il pavimento,mettere a posto scatole e spostare mobili. Diceva ad Hannah Song, la direttrice del centro, che non voleva untrattamento diverso rispetto al resto dello staff, ma quando gli venivano assegnati certi compiti sbuffava e si lasciavaprendere da scatti di rabbia. Ogni sei mesi poi, quando tornava in Corea del Sud per qualche settimana, il suo lavoro siinterrompeva.

LiNK spinge i nordcoreani con cui lavora negli Stati Uniti a fare un “piano di vita” poco dopo il lorotrasferimento. Si tratta di una lista di obiettivi raggiungibili e molto concreti che possono aiutare i nuovi arrivati acostruirsi una vita stabile e produttiva; di solito la lista include una buona competenza linguistica, formazione allavoro, supporto psicologico e imparare a gestire i soldi. Shin si rifiutò di farlo, e Song ammette che lei e gli altrimembri di LiNK glielo permisero. «La sua storia è così potente» disse Song. «Si sentiva in diritto di rappresentareun’eccezione, e noi glielo concedemmo. Finì col passare tutto il suo tempo a vagare senza meta per Torrance. Ha ungran bisogno di capire ed elaborare le ragioni della sua sopravvivenza al campo, e non credo ci sia ancora riuscito».

Fuori dalla penisola coreana non c’è posto migliore dell’area metropolitana di Los Angeles per un nordcoreanoche voglia vagabondare liberamente senza dover imparare un’altra lingua, considerando i più di trecentomila coreaniamericani che si sono stabiliti in quella zona. A Torrance e nelle cittadine adiacenti Shin poteva mangiare, comprare,lavorare e pregare in coreano. Aveva imparato abbastanza inglese per riuscire a ordinare hamburger e cibo messicano,e per parlare di baseball o del tempo con i suoi coinquilini. Dormiva su un letto a castello in una casa con quattrostanze in cui andavano e venivano fino a sedici tra stagisti e volontari. Quando andai a trovarlo notai un cartello sullalavastoviglie in cucina che diceva: «Per favore, non aprirmi. Sono rotta e non ho un buon odore». I mobili eranomalconci, il tappeto sbiadito, e l’ampio portico all’ingresso era invaso da scarpe da ginnastica, sandali e infradito. Shin

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condivideva una stanzina angusta con tre volontari di LiNK.Questo cameratismo un po’ caotico da dormitorio era perfetto per lui. Anche se i suoi coinquilini nati in America

a volte erano rumorosi, parlavano pochissimo coreano e non si fermavano mai a lungo: preferiva la loro vivacetransitorietà alla solitudine. Era uno strascico della vita che aveva conosciuto nel Campo 14: dormiva meglio e il cibogli sembrava più buono se era circondato da altre persone, anche se estranee. Quando faticava a prendere sonno oquando si svegliava in preda agli incubi, strisciava fuori dal letto a castello e tornava a dormire come faceva nelcampo: sul pavimento, con una coperta.

Shin andava al lavoro in bici pedalando per una ventina di minuti attraverso Torrance, una cittadina industriale esoleggiata popolata da un mix di culture diverse. Situata a trenta chilometri a sud-ovest di Los Angeles, ha un bel trattodi spiaggia sulla baia di Santa Monica, dove qualche volta Shin andava a passeggiare. I suoi ampi viali furono concepitiun secolo fa da Frederick Law Olmsted Jr., che aveva contribuito al progetto del National Mall di Washington. Lefacciate della scuola superiore di Torrance ha fatto da sfondo alle serie tv Beverly Hills 90210 e Buffyl’ammazzavampiri. C’è anche una raffineria della ExxonMobil, da cui arriva gran parte della benzina della Californiameridionale.

Prima della casa in condivisione, Shin trascorse gran parte del suo primo anno negli Stati Uniti in un vecchio esovraffollato appartamento di tre stanze al piano terra che LiNK affittava vicino a un grande deposito di stoccaggio diprodotti petroliferi, il Conoco-Phillips/Torrance Tank Farm. LiNK si era trasferita a Torrance da Washington, pertrovare affitti più bassi e riuscire a creare un solido movimento di base. Considerava la California un posto miglioreper reclutare e alloggiare giovani volontari, i cosiddetti “nomadi”, che qui vengono formati per viaggiare in tutti gliStati Uniti e, grazie alle loro presentazioni, informare sugli abusi perpetrati in Corea del Nord.

Alla fine della seconda estate di Shin in California, uno degli ultimi arrivati tra questi “nomadi” da formare eraHarim Lee, una ragazza slanciata e molto attraente nata a Seoul e trasferitasi negli Stati Uniti con la famiglia a quattroanni. Aveva frequentato una scuola superiore a Seattle, e quando vide per la prima volta Shin in un video su YouTube eraal secondo anno di sociologia alla University of Washington. Lui era in un auditorium di Mountain View, in California,e stava rispondendo alle domande sulla sua vita che gli rivolgevano gli impiegati di Google. Aveva anche letto il miopezzo sul “Washington Post”, in cui Shin diceva che gli sarebbe piaciuto avere una fidanzata ma non sapeva cometrovarla. Harim, che è bilingue, era tornata per un breve periodo in Corea del Sud per lavorare come interprete per unaONG che si occupava della Corea del Nord. Dopo il terzo anno di università decise di lasciare gli studi per dedicarsi atempo pieno alla questione nordcoreana. Scoprì il programma di formazione dell’associazione su internet, e non sirese conto che Shin viveva proprio a Torrance fino a due settimane prima di lasciare Seattle per iniziare a collaborarecon LiNK. Sul volo per Los Angeles non riusciva a smettere di pensare a lui; lo considerava quasi una celebrità esull’aereo pregava che potessero intrecciare un rapporto. Una volta a Torrance, lo vide mentre arrivava negli uffici diLiNK in bicicletta e fece in modo di conoscerlo e parlargli. Si piacquero subito. Lui aveva ventisette anni, leiventidue.

LiNK ha una politica ferrea che impedisce a rifugiati nordcoreani e stagisti, molti dei quali sono poco più cheventenni e lontani da casa, di allacciare relazioni sentimentali. La regola ha lo scopo di proteggere tanto gli stagistiquanto i rifugiati, nonché di facilitare la gestione del programma. Shin e Harim la ignorarono, e quando furono invitatia smettere di vedersi fino a quando lei non avesse terminato il tirocinio, si arrabbiarono entrambi. Harim minacciò diandarsene. «Abbiamo fatto tutto il possibile per dimostrare che secondo noi quella regola è sbagliata» mi ha detto lei.Shin viveva questo ammonimento come un insulto personale. Era convinto che stessero applicando due pesi e duemisure: lui veniva trattato come un individuo di serie B quando invece il suo amico Andy Kim frequentava proprio unastagista. «Avevano un’opinione così bassa di me» mi ha detto Shin. «Pensavano di poter decidere della mia vitaprivata».

Dopo un viaggio in Corea del Sud e vari mesi passati a riflettere sul da farsi, Shin lasciò l’associazione. La suarelazione con Harim non era l’unico motivo della rottura. Hannah Song era frustrata dal fatto che a volte Shin nonsvolgeva il proprio lavoro, si aspettava un trattamento speciale e faceva pochissimi sforzi per imparare l’inglese, il chelimitava la sua utilità come portavoce della causa nordcoreana negli Stati Uniti. Ci fu anche un problema dicomunicazione a proposito della sistemazione. Secondo la versione di Shin, LiNK non gli avrebbe più fornito un postoin cui vivere; Song dice invece di avergli semplicemente ricordato che prima o poi avrebbe dovuto trovarsi una casa

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tutta sua.Lo strappo probabilmente era inevitabile, e non era certo la prima volta che capitava. In Corea del Sud è del tutto

normale che i rifugiati nordcoreani lascino il lavoro affermando di essere oggetto di persecuzione. Ad Hanawon iconsulenti per l’impiego dicono che sul posto di lavoro paranoia e dimissioni burrascose sono all’ordine del giornoper i rifugiati che cercano di adattarsi a una nuova vita mentre convivono con la costante sensazione di esserecircondati da gente che li vuole tradire. Molti di loro non riescono mai a superare questo conflitto interiore.

E negli Stati Uniti le cose non sono diverse. Cliff Lee, un americano nato in Corea che vive ad Alexandria,Virginia, negli ultimi anni ha offerto alloggio a vari nordcoreani e ha notato alcune regolarità nei loro problemi diadattamento: «Sanno che tutto quello che gli era stato raccontato in Corea del Nord era una menzogna, e una volta inAmerica fanno molta fatica a credere alle promesse fatte dalle organizzazioni per cui lavorano».

Quando Song venne a sapere che Shin aveva intenzione di andarsene le si spezzò il cuore. Si dava la colpa per nonaver preteso fin dall’inizio che si assumesse le sue responsabilità. Ciò che la preoccupava di più, diceva, era nonsapere cosa Shin avrebbe voluto fare per il resto della sua vita.

48 Judith Lewis Herman, Guarire dal trauma. Affrontare le conseguenze della violenza, dall’abuso domestico al terrorismo, EdizioniMa.Gi., Roma 2005, pp. 127-129 (ed. orig. Trauma and Recovery, 1997).

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EPILOGO: SENZA VIA D’USCITA

Nel febbraio del 2011, pochi giorni dopo lo strappo con LiNK, Shin risalì la costa ovest e arrivò nello Stato diWashington: sarebbe andato a vivere con Harim e i suoi genitori a Sammamish, un sobborgo di Seattle ai piedi dellaCatena delle Cascate.

Questo trasferimento improvviso mi colse di sorpresa. Anch’io, come i suoi amici di Los Angeles, temevo chestesse prendendo decisioni affrettate, e che si stesse chiudendo tutte le porte alle spalle. Certo, tutto questosemplificava la logistica dei nostri incontri, visto che anch’io sono originario dello Stato di Washington, e dopo averlasciato Tokyo e il “Washington Post” mi ero trasferito di nuovo a Seattle per lavorare a questo libro.

Quando Shin mi telefonò a casa e mi disse, nel suo inglese stentato, che adesso eravamo vicini, lo invitai da meper un tè. Il nostro lavoro insieme era quasi terminato, e lui aveva mantenuto la parola data, concedendomi di esploraregli angoli più bui del suo passato. Ma mi mancava ancora qualcosa, volevo capire meglio le sue intenzioni per il futuro.Era seduto insieme ad Harim sul divano del mio soggiorno quando gli chiesi se avrei potuto andarli a trovare a casa.Volevo conoscere i genitori di lei.

Shin e Harim erano troppo cortesi per dire di no, per cui risposero che la casa era in disordine; avremmo dovutoaspettare un momento migliore, mi avrebbero fatto sapere. Senza dirlo esplicitamente, mi fecero capire che nonvedevano l’ora che questo mio lunghissimo interrogatorio si concludesse. Insieme ad Harim aveva messo su una ONGdi cui erano gli unici membri, la North Korea Freedom Plexus, e speravano di riuscire a finanziarla con le donazioni ei discorsi che lui aveva intenzione di tenere. La loro (ambiziosa) missione consisteva nel mettere in piedi strutture ingrado di accogliere i rifugiati che varcavano il confine con la Cina e introdurre pamphlet antiregime in Corea delNord.

Shin raccontò di essersi già avventurato due volte nelle zone di confine tra Cina e Corea del Nord, e aveva inprogramma di farlo di nuovo. Quando gli chiesi se non avesse paura di essere catturato in Cina, dove è noto che agentinordcoreani rintracciano e sequestrano i rifugiati, disse di avere la protezione di un passaporto sudcoreano e di farecomunque sempre molta attenzione. Questa risposta però non bastava a rassicurare gli amici, che insistevano perchése ne tenesse ben lontano.

Lowell e Linda Dye – la coppia di Columbus che aveva letto il mio primo articolo su Shin nel 2008 e aveva inparte pagato il suo viaggio negli Stati Uniti – rimasero delusi e preoccupati quando scoprirono che aveva lasciatoLiNK e si era trasferito a Seattle. Sia i Dye sia la famiglia Kim di Riverside, in California, erano convinti che metterein piedi una nuova ONG fosse un progetto rischioso: avrebbe potuto fare molto di più se avesse continuato a lavorarecon un’organizzazione solida e ben finanziata.

Shin è molto legato ai Dye, li chiama “genitori” e prende molto seriamente le loro preoccupazioni. Dopo iltrasferimento a Seattle accettò il loro invito a raggiungerli a Columbus per passare un paio di settimane insieme aloro, mentre Harim restò a casa a Seattle. I Dye volevano aiutarlo a fare un piano per gestire il suo futuro. Lowell,consulente di direzione aziendale, è convinto che gli servisse un agente, qualcuno che lo seguisse nella gestione deisoldi e un avvocato. Ma a Columbus i due non riuscirono a discuterne seriamente, in parte perché Shin, che avevamantenuto il fuso orario di Seattle, si alzava tardi al mattino e stava in piedi la notte per parlare con Harim su Skype.«Ci disse di essere davvero innamorato di Harim» disse Lowell. «È molto preso da questa storia. Lei lo rende felice».

Al suo ritorno a Seattle incontrai entrambi una seconda volta. Casa loro era ancora troppo in disordine perchépotessi andare a trovarli, così prendemmo un caffè da Starbucks. Quando chiesi come stesse procedendo la lororelazione, Harim arrossì, sorrise e rivolse a Shin uno sguardo amorevole. Shin invece non sorrise: non voleva parlarne.Provai a insistere, ricordandogli che mi aveva spesso detto di non considerarsi in grado di amare, né tantomeno dipoter prendere in considerazione un matrimonio. Aveva forse cambiato idea?

«Prima di tutto dobbiamo concentrarci entrambi sul lavoro» rispose lui. «Poi speriamo di poter fare qualche

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progresso».La relazione però non funzionò. Sei mesi dopo essere andato a vivere con lei, Shin mi chiamò per dirmi che si

stavano lasciando, ma non volle spiegarmi il perché. Il giorno dopo volò in Ohio per andare a vivere con la famigliaDye. Non aveva le idee chiare su cosa fare dopo: forse sarebbe tornato in Corea del Sud.

Mentre si trovava ancora a Seattle, mi invitò in una chiesa pentecostale coreana americana nella periferia norddella città; avrebbe fatto un discorso, e sembrava tenerci particolarmente ad avermi tra il pubblico. Era una domenicasera fredda e piovosa; arrivai con qualche minuto di anticipo e lo trovai lì ad aspettarmi. Strinse la mia mano nelle sue,mi guardò negli occhi e mi disse di sedermi in uno dei banchi davanti. Non l’avevo mai visto con abiti così formali:completo grigio, camicia blu elegante con il colletto aperto e mocassini neri lucidi. La chiesa era piena.

Dopo un inno e una preghiera del pastore, Shin procedette con passo deciso verso il pulpito e prese le redini dellaserata. Senza appunti, senza il minimo accenno di nervosismo, parlò per un’ora intera. Per iniziare, scaldò il suopubblico di immigrati coreani, accompagnati dai figli ormai adulti cresciuti in America, affermando che Kim Jong Ilera peggio di Hitler: mentre quest’ultimo attaccava i suoi nemici, spiegò Shin, Kim sfruttava alla morte la manodoperadel suo popolo in posti come il Campo 14. Catturata l’attenzione dell’assemblea, proseguì presentando se stessocome un predatore educato a tradire famiglia e amici senza provare alcun rimorso. «L’unica cosa a cui pensavo era chese volevo sopravvivere dovevo approfittare degli altri».

Quando il suo insegnante picchiò a morte una compagna di sei anni a cui aveva trovato in tasca dei chicchi di mais,Shin confessò di non esserne stato particolarmente toccato. «Non sapevo cosa fossero compassione e tristezza»spiegò. «È così che ci hanno cresciuti: non eravamo in grado di provare le più normali emozioni umane. Ora che sonofuori sto imparando a scoprire che cos’è l’emotività. Ho imparato a piangere, e sento che sto finalmente diventando unessere umano». Ma precisò che aveva ancora molta strada da fare. «Sono fuggito fisicamente» disse, «ma nonpsicologicamente».

Verso la fine del discorso descrisse il momento cruciale della fuga, quando strisciò sopra il corpo senza vita diPark. Le ragioni che lo spinsero a lasciare il campo, disse, non erano nobili. Non era assetato di libertà o dirittipolitici: era solo affamato di carne.

Rimasi a bocca aperta. In confronto all’oratore diffidente e sconclusionato che avevo visto sei mesi prima inCalifornia, Shin era irriconoscibile. Aveva preso in mano il disprezzo che provava per se stesso e l’aveva trasformatoin un’arma d’accusa verso lo Stato che gli aveva avvelenato il cuore e ucciso l’intera famiglia. Il suo discorso, appresipoi, era il risultato di un lavoro molto duro. Shin si era reso conto che le sue sessioni di domande e risposte senzacapo né coda facevano addormentare il pubblico, per cui si era deciso ad ascoltare i consigli a cui da anni opponevaresistenza: buttava giù una traccia, la adattava a seconda del pubblico e memorizzava quello che voleva dire. In unastanza, da solo, ripeteva il discorso.

Quella lunga preparazione diede i suoi frutti. La gente nel pubblico non riusciva a star ferma nei banchi: negliocchi si leggevano disagio, disgusto, rabbia, shock. Alcuni volti erano rigati di lacrime. Alla fine del discorso, quandoShin disse che un solo uomo che decida di non tacere può contribuire alla liberazione di decine di migliaia di personeancora prigioniere, la chiesa esplose in un applauso.

Magari non ancora nella sua vita, ma almeno in quel discorso Shin aveva preso il controllo del suo passato.

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APPENDICE

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LE DIECI REGOLE DEL CAMPO 14

Shin ha dovuto memorizzare queste regole nella scuola del campo e recitarle quando richiesto dalle guardie.

1. Non provare a scappareChiunque venga sorpreso a tentare una fuga verrà fucilato all’istante.Ogni testimone che non denunci un tentativo di fuga verrà fucilato all’istante.Chiunque assista a un tentativo di fuga deve avvisare immediatamente una guardia.È vietato formare gruppi di due o più persone per escogitare un piano o provare a scappare.

2. È vietato formare gruppi di più di due prigionieriChiunque venga sorpreso in compagnia di uno o più prigionieri senza il permesso di una guardia verrà fucilato

all’istante.Chiunque si introduca nel villaggio delle guardie o danneggi la proprietà pubblica verrà fucilato all’istante.È vietato superare in uno stesso gruppo il numero di prigionieri stabilito dalla guardia al comando.Fuori dal lavoro, i prigionieri non possono formare alcun tipo di gruppo senza permesso.Durante la notte tre o più prigionieri non possono spostarsi insieme senza l’autorizzazione della guardia al comando.

3. Non rubareChiunque venga sorpreso a rubare o in possesso di armi verrà fucilato all’istante.Chiunque non denunci o aiuti un prigioniero che abbia rubato o possieda armi verrà fucilato all’istante.Chiunque venga sorpreso a rubare o a nascondere cibo verrà fucilato all’istante.Chiunque danneggi di proposito il materiale utilizzato nel campo verrà fucilato all’istante.

4. Agli ordini delle guardie bisogna obbedire incondizionatamenteChiunque si comporti in modo astioso nei confronti di una guardia o la aggredisca fisicamente verrà fucilato

all’istante.Chiunque non dimostri di attenersi totalmente alle istruzioni delle guardie verrà fucilato all’istante.Non è permesso rispondere o lamentarsi con le guardie.Di fronte alle guardie bisogna inchinarsi in segno di rispetto.

5. Chiunque avvisti un fuggitivo o una figura sospetta è tenuto a denunciarlo immediatamenteChiunque offra copertura o protegga un fuggitivo verrà fucilato all’istante.Chiunque conservi o nasconda gli averi di un fuggitivo, cospiri con lui oppure ometta di denunciarlo verrà fucilato

all’istante.

6. I prigionieri devono tenersi sotto controllo a vicenda e denunciare immediatamente qualsiasicomportamento sospettoOgni prigioniero è tenuto a controllare gli altri ed essere sempre vigile.Bisogna controllare da vicino le parole e la condotta degli altri prigionieri. Se qualcosa desta sospetti, è necessario

avvisare immediatamente una guardia.I prigionieri devono partecipare con convinzione agli incontri di lotta ideologica e censurare sé e gli altri.

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7. Ogni prigioniero deve portare a termine tutto il lavoro che gli viene assegnato quotidianamenteSe i prigionieri trascurano il lavoro quotidiano o non riescono a raggiungere la quota di produzione desiderata, si

penserà che nutrano del risentimento e per questo verranno fucilati all’istante.Ogni prigioniero è unicamente responsabile della propria quota di produzione.Raggiungere la propria quota di produzione equivale a purgarsi dei propri peccati e ricompensare lo Stato per la

clemenza mostrata.La quota di produzione stabilita da una guardia non può essere discussa.

8. Fuori dal luogo di lavoro non è ammessa interazione tra persone di sesso diverso per motivi personaliIn caso di contatto fisico di tipo sessuale non preventivamente approvato, i responsabili verranno fucilati all’istante.Fuori dal luogo di lavoro, prigionieri di sesso diverso possono comunicare solo se autorizzati.È vietato introdursi nei bagni destinati all’altro sesso se non autorizzati.Senza una ragione speciale, due persone di sesso opposto non possono tenersi per mano o dormire una di fianco

all’altra.I prigionieri possono recarsi negli alloggiamenti per membri del sesso opposto solo se autorizzati.

9. I prigionieri devono pentirsi sinceramente dei propri erroriChi non ammette i propri crimini e anzi li nega o li interpreta in maniera deviante verrà fucilato all’istante.È necessario riflettere profondamente sui crimini commessi contro il proprio paese e la propria società, e sforzarsi di

purgarsene.Solo dopo aver riconosciuto i propri peccati e averci riflettuto a lungo un prigioniero può ricominciare da capo.

10. I prigionieri che violano le regole e i regolamenti del campo verranno fucilati all’istanteOgni prigioniero deve vedere in ogni guardia un maestro, e attenendosi alle dieci regole del campo piegarsi al duro

lavoro e alla disciplina per potersi ripulire degli errori passati.

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POSTFAZIONE

Shin ha lasciato gli Stati Uniti per tornare a Seoul, dove ha comprato un piccolo appartamento. Si sentiva più a suoagio in Corea del Sud: merito della lingua, del cibo e della compagnia di un piccolo gruppo di giovani attivisti per idiritti umani. Insieme a loro ha messo in piedi un programma trasmesso solo online a cadenza settimanale, in cui gliultimi rifugiati arrivati dal Nord raccontavano le condizioni di vita nel paese e spiegavano le ragioni della loro fuga.Con un paio di occhiali alla moda che gli davano l’aria di un accademico d’avanguardia, Shin è diventato co-conduttoredi Inside NK: alcuni episodi si possono vedere su YouTube, con tanto di sottotitoli in inglese.

Di fronte alle telecamere Shin era posato, amabile e curioso. Il programma non era incentrato su di lui, ma di tantoin tanto si lasciava andare a commenti personali improntati a un’aspra critica politica. Una volta, per esempio, ha dettoche i dittatori nordcoreani «hanno un solo modo per sperare di salvarsi: riconoscere le brutalità commesse eimplorare perdono a testa bassa».

Quando negli Stati Uniti è uscita l’edizione originale di Fuga dal Campo 14, i giornalisti hanno iniziato acercarlo. Volevano sapere di sua madre: perché l’aveva tradita? Perché aveva mentito? E perché invece nel libro avevascelto di dire la verità? Shin sapeva che queste domande sarebbero arrivate, e fece del suo meglio per spiegare leproprie ragioni.

«Prima pensavo come il prigioniero di un campo di lavoro; non capivo concetti basilari come l’amicizia o lafamiglia» ha detto ad Evan Ramstad e Soo-ah Shin, giornalisti del “Wall Street Journal”. «È stato molto dolorosoripensare a quei momenti, ma l’unico modo per andare avanti è affrontare la realtà, non nascondere nulla. Ho iniziato asentirmi responsabile per la morte di mia madre, a considerarla un mio peccato personale, e ho voluto chiederle scusaanche se è già morta. Confessare è stato il mio modo di implorare il suo perdono»49.

Una settimana dopo la pubblicazione del libro, Shin è andato a Washington per intervenire a una conferenzainternazionale sui campi di prigionia50. In una stanza piena di professori universitari, giornalisti e funzionarigovernativi americani e sudcoreani, ha spiegato un’altra ragione per cui si è sempre descritto come il figlio dal cuoredi pietra che aveva tradito la madre: il mondo deve rendersi conto che la Corea del Nord continua a far nascerebambini schiavi in prigioni come il Campo 14 e a sottoporli sistematicamente al lavaggio del cervello, e che questibambini, come lui, non conoscono le più elementari emozioni umane. La platea è rimasta attonita, senza parole.

Shin è riuscito a raggiungere un pubblico molto più vasto di quanto avesse mai osato sperare. Fuga dal Campo 14è diventato un best seller internazionale tradotto in diciannove lingue, incluso coreano e cinese. Alcuni estratti sonoapparsi sul “Guardian”, sul “Wall Street Journal”, sull’“Atlantic”, su “Le Monde” e su “Der Spiegel”; BBC Radio 4 hadedicato al libro un reading di una settimana. Shin si è sottoposto a un estenuante giro di interviste, anche sette in ungiorno, con quotidiani, radio e canali televisivi di tutto il mondo. Nonostante lo abbia trovato in più occasioniumiliante e faticoso, è diventato il volto dei gulag nordcoreani, e il suo nome è ormai sulla bocca di diversi personaggiimportanti. L’allora segretario di Stato Hillary Clinton lo ha nominato in un discorso allo US Holocaust MemorialMuseum, dicendo che sta «dedicando la sua vita a far conoscere al resto del mondo le condizioni del suo paese»51.

Il presidente sudcoreano Lee Myung-bak ha detto ai legislatori statunitensi che gli abusi dei diritti umani in Coreadel Nord sono più importanti dei missili o delle armi nucleari52. Citando la storia di Shin, il procuratore capo che haprocessato per crimini di guerra il dittatore serbo Slobodan Milošević ha chiesto al Consiglio di Sicurezza dell’ONUdi autorizzare un’indagine sui crimini contro l’umanità commessi in Corea del Nord53.

L’“Economist” si è rimproverato, e ha rimproverato al mondo intero, di non aver preso seriamente la questionenordcoreana. «Forse la portata delle atrocità è tale da anestetizzare l’indignazione» si legge in un editoriale uscito inoccasione della pubblicazione del libro. «È molto più facile ridicolizzare il regime e le pazzie dei suoi leaderpiuttosto che affrontare realmente la sofferenza che quel regime infligge (l’“E-conomist” si dichiara colpevole).

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Eppure sappiamo di omicidi, schiavitù, spostamenti forzati di popolazione, torture, stupri: la Corea del Nordcommette praticamente ogni atrocità che rientri nella categoria “crimine contro l’umanità”»54.

Mentre il volume trovava il suo posto nelle librerie di tutto il mondo, Shin viaggiava da un paese all’altro perraccontare la sua esperienza nel campo e ricordare che quei posti esistono ancora, e al loro interno continuano acrescere bambini-schiavi educati al tradimento. Quasi ogni giorno i giornalisti gli hanno chiesto se non avesse paurache la Corea del Nord cercasse di ucciderlo; domanda tutt’altro che banale, visto che in almeno tre diverse occasioniPyongyang ha inviato dei sicari per uccidere i rifugiati che parlavano troppo. Due tentativi sono falliti, ma secondo ilgoverno sudcoreano Lee Han Young – nipote di un’ex moglie di Kim Jong Il e fortemente critico del regime – è statoassassinato a Seoul nel 1997 proprio da agenti nordcoreani55.

Poco dopo la pubblicazione del libro, la Corea del Nord ha iniziato a condannare sempre più duramente chiunquesi mostrasse critico in materia di diritti umani. «L’esercito e il popolo nordcoreani non lasceranno che gli Stati Unitidistruggano l’inviolabile sistema socialista con il pretesto dei diritti umani» ha dichiarato l’agenzia stampa di Statonordcoreana56, che è poi passata alle minacce affermando che il paese si sarebbe vendicato con rifugiati e attivisti:«Chiunque osi mettere in dubbio o criticare i vertici nordcoreani sappia che, dovunque si trovi, non è al sicuro, e deveaspettarsi una punizione spietata»57.

Ma Shin non si è mai scomposto di fronte alle domande sulla sua sicurezza personale. Non ha avuto paura. Hadetto che non smetterà di parlare di quello che gli è successo nel Campo 14 fino a quando i gulag della Corea delNord non saranno smantellati e i prigionieri liberati.

49 Evan Ramstad e Soo-Ah Shin, A Conversation with Shin Dong-hyuk, in “The Wall Street Journal”, 26 marzo 2012.50 Hidden Gulag Second Edition: Political Prison Camps Conference, Committee for Human Rights in North Korea, Washington DC, 10

aprile 2012. La conferenza si è tenuta al Peterson Institute for International Economics.51 Hillary Rodham Clinton, Remarks at the U.S. Holocaust Memorial Museum Forward-Looking Symposium on Genocide Prevention,

Washington DC, 24 luglio 2012, all’indirizzo http://tinyurl.com/d3dme9n.52 Lee says N. Korea Human Rights More Urgent Than Nukes, Agence France-Presse, 23 maggio 2012, all’indirizzi http://bit.ly/Jdcd9L.53 Geoffrey Nice e William Schabas, Put North Korea on Trial, in “The New York Times”, 25 aprile 2012.54 Never Again?, in “The Economist”, 21 aprile 2012.55 Choe Sang-hun, South Korea Arrests 2 From North in Alleged Assassination Plot, in “The New York Times”, 21 aprile 2010.56 KCNA Urges U.S. to Mind Its Own Serious Human Rights Issues, Korean Central News Agency, 15 maggio 2012, all’indirizzo

http://tinyurl.com/negl9jc.57 DPRK Will Take Corresponding Measures Against Terrorism, Korean Central News Agency, 31 luglio 2012, all’indirizzo

http://tinyurl.com/oxvzl8c.

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RINGRAZIAMENTI

Questo libro ovviamente non sarebbe mai stato scritto senza il coraggio, l’intelligenza e la pazienza di Shin Dong-hyuk. Per due anni, e in due diversi continenti, ha trovato il tempo e sopportato il dolore di raccontare la sua storia intutti i suoi terribili dettagli.

Ringrazio anche Lisa Colacurcio, membro del comitato dello US Commitee for Human Rights in North Korea,che per prima mi ha parlato di Shin. Kenneth Cukier, corrispondente dell’“Economist”, mi ha detto che la storia diShin aveva bisogno di un libro in inglese e mi ha offerto consigli utili su come scriverlo. Non parlando coreano, il miolavoro dipendeva da quello degli interpreti; per questo vorrei ringraziare Stella Kim e Jennifer Cho a Seoul. Sempre aSeoul, Yoonjung Seo e Brian Lee mi hanno aiutato con la stesura, così come Akiko Yamamoto a Tokyo, fondamentaleanche per la logistica. In California, David Kim è stato un interprete eccellente, nonché un amico per me e per Shin, ei suoi consigli sul manoscritto sono stati preziosi. A Liberty in North Korea (LiNK) a Torrance, Hannah Song e AndyKim mi hanno aiutato a capire le difficoltà di inserimento di Shin negli Stati Uniti. Song ha anche dedicato molte oredel suo tempo a risolvere problemi logistici miei e di Shin. A Seattle, Harim Lee mi è stata d’aiuto. A Columbus,Ohio, Lowell e Lynda Dye, che hanno aiutato Shin e che lui considera genitori, mi hanno regalato prospettiva econsiglio.

Per avermi guidato nel mio tentativo di comprendere cosa accade in Corea del Nord, ringrazio Marcus Noland,vice direttore e professore associato del Peterson Institute for International Economics di Washington. È statogeneroso nel mettere a disposizione il suo tempo e la sua competenza. La ricerca sulla Corea del Nord che hacondotto insieme a Stephen Haggard è stata per me una risorsa chiave. Le conversazioni con Kongdan Oh, ricercatriceall’Institute for Defense Analyses di Alexandria, Virginia, mi hanno aiutato a capire i racconti di Shin e di altrinordcoreani. I libri che ha scritto insieme al marito, Ralph Hassig, studioso della Corea del Nord, sono stati diinestimabile valore. A Seoul, Andrei Lankov, docente di studi nordcoreani alla Kookmin University, si è sempremostrato felice di condividere le sue idee. Due infaticabili blogger, Joshua Stanton di One Free Korea e Curtis Melvindi North Korean Economy Watch, sono stati fonte di informazioni e analisi utili e aggiornate su economia, leadership,esercito e politica in Corea del Nord. L’ottimo libro di Barabra Demick è stato fondamentale per capire il modo dipensare dei cittadini nordcoreani. Ci tengo a ringraziare soprattutto il Database Center for North Korean HumanRights di Seoul, che ha pubblicato l’autobiografia in lingua coreana di Shin e che l’ha generosamente incoraggiato acollaborare con me. Il White Paper on Human Rights in North Korea 2008 della Korean Bar Association è statoun’altra valida risorsa. David Hawk, forse in assoluto la persona che più ha contribuito a far conoscere l’esistenza e ledinamiche dei campi, ha condiviso con me la sua esperienza e le sue ricerche. I miei ringraziamenti vanno anche aSuzanne Scholte, che ha condotto campagne in tutto il mondo a favore dei diritti umani in Corea del Nord. A Seattle,Blaise Aguera y Arcas mi ha offerto i suoi acuti suggerimenti, e Sam Howe Verhovek mi ha consigliato sulla stesura.

Il mio agente, Raphael Sagalyn, ha reso possibile questo libro grazie al suo magistrale lavoro. Kathryn Court diViking ha sposato il mio progetto e mi ha offerto consigli che hanno migliorato in maniera significativa ilmanoscritto, così come anche Tara Singh, la sua assistente.

David Hoffman, il redattore esteri del “Washington Post” che mi ha mandato in Asia, mi ha spinto ad approfondirela mia conoscenza della Corea del Nord. Quando ho esitato, lui ha insistito. Quando ho fatto fatica, lui mi haincoraggiato. Anche i corrispondenti del “Post” Doug Jehl e Kevin Sullivan sono stati esigenti e di supporto. Ognivolta che sono riuscito a scrivere qualcosa d’interessante sulla Corea del Nord, Donald G. Graham, presidente dellaWashington Post Company e molto attento alla questione nordcoreana, si è sempre premurato di farmelo sapere.

Infine, mia moglie, Jessica Kowal, ha giocato un ruolo cruciale nella scrittura di questo libro. Oltre ad essersiimpegnata nella lettura e nella revisione, è stata lei a convincermi che raccontare la storia di Shin fosse la cosamigliore che potessi fare. I miei figli, Lucinda e Arno, hanno fatto un sacco di (ottime) domande sulla vita di Shin.

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Non erano in grado di comprendere le crudeltà della Corea del Nord, ma riconoscevano in lui una personastraordinaria. Lo stesso vale per me.

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Indice

Frontespizio 3Colophon 4

exlibris 2Epigrafe 5Dedica 6Prefazione. Un momento educativo 9Introduzione. Mai sentito la parola amore 12Prima parte 18

Il bambino che rubava il pranzo alla madre 19A scuola 23L’élite 27La madre tenta la fuga 32La madre tenta la fuga (versione 2) 34Questo figlio di puttana va punito 36Il sole splende anche sottoterra 39Distogliere lo sguardo 41Reazionario figlio di puttana 43Al lavoro 47Sonnellini pomeridiani 51Cucire e tradire 54Decidere di non fare la spia 57

Seconda parte 61Prepararsi a fuggire 62La recinzione 65Rubare 67Verso nord 71Il confine 76Cina 79Asilo 82

Terza parte 86K’uredit K’adus 87Ai sudcoreani non importa un granché 91America 95

Epilogo: senza via d’uscita 100Appendice. Le dieci regole del Campo 14 103Postfazione 105Ringraziamenti 107

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