FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore...

56
1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione Antonio Boffa Paolo Corsaro Luigi Agostino Maria Ferrone Domenico Russo Bernardino Zinno Per segnalazioni: [email protected] Editore: Associazione “Foro Salernitano”, con sede in Eboli (SA) alla via Amendola n. 84 Sede di stampa: Grafica Metelliana via Santa Maria del Rovo, Cava dei Tirreni (SA) Iscritto al n. 1149 del registro dei periodici della cancelleria del Tribunale di Salerno in data 15.10.2003 Norme redazionali La collaborazione alla rivista è aperta a tutti i colleghi, i magistrati e gli operatori della giustizia. I contributi dovranno pervenire dattiloscritti e firmati, insieme ad una copia su floppv-disk per PC in formato RTF (Rich Text Format) per Windows. Per l'indicazione di massime e sentenze sarà richiesto il provvedimento in originale. Gli originali, anche se non pubblicati, non verranno restituiti. Gli autori si assumono la responsabilità del contenuto dei propri elaborati, delle opinioni e dei giudizi espressi. I contributi s'intendono ricevuti a titolo gratuito

Transcript of FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore...

Page 1: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

1

F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004

Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione Antonio Boffa Paolo Corsaro Luigi Agostino Maria Ferrone Domenico Russo Bernardino Zinno Per segnalazioni: [email protected] Editore: Associazione “Foro Salernitano”, con sede in Eboli (SA) alla via Amendola n. 84 Sede di stampa: Grafica Metelliana via Santa Maria del Rovo, Cava dei Tirreni (SA) Iscritto al n. 1149 del registro dei periodici della cancelleria del Tribunale di Salerno in data 15.10.2003

Norme redazionali La collaborazione alla rivista è aperta a tutti i colleghi, i magistrati e gli operatori della giustizia. I contributi dovranno pervenire dattiloscritti e firmati, insieme ad una copia su floppv-disk per PC in formato RTF (Rich Text Format) per Windows. Per l'indicazione di massime e sentenze sarà richiesto il provvedimento in originale. Gli originali, anche se non pubblicati, non verranno restituiti. Gli autori si assumono la responsabilità del contenuto dei propri elaborati, delle opinioni e dei giudizi espressi. I contributi s'intendono ricevuti a titolo gratuito

Page 2: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

2

INDICE DIRITTO PENALE Reato continuato – Pena – Reati satellite con minimo edittale più alto del reato più grave – Pena base inferiore a tale minimo – Esclusione. Reato – Remissione tacita di querela – Assenza reiterata del querelante – Configurabilità – Esclusione. (La remissione tacita di querela, nota a cura di Paolo Corsaro) Reato in generale – Cause di estinzione del reato – Prescrizione – Termine prescrizionale – Entità della pena. Reati contro la pubblica amministrazione – Resistenza a un pubblico ufficiale – Compimento di atto di ufficio o di servizio – Mancanza di tale presupposto – Insussistenza. Delitti contro l’amministrazione della giustizia – Falsa testimonianza - Reato di pericolo – Conseguenze. Delitti contro l’amministrazione della giustizia – Falsa testimonianza – Causa di non punibilità ex art. 384 c.p. – Sussistenza. Delitti contro l’assistenza familiare – Violazione degli obblighi di assistenza familiare – Distinzione con il delitto di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice. Delitti contro l’assistenza familiare – Violazione degli obblighi di assistenza familiare – Obbligato lavoratore saltuario e sostegno economico di altri congiunti ai fini della esclusione del reato – Sufficienza - Esclusione. Delitti contro la fede pubblica – Falso materiale commesso dal privato – Errore grossolano del falso – Reato impossibile – Sussistenza – Ragioni. Delitti contro il patrimonio – Tentata truffa ai danni dello Stato – Inesistenza del danno e del profitto per la mancata indicazione di tali elementi costitutivi del reato da parte della pubblica accusa – Carenza della univocità e della idoneità del tentativo – Ragioni. Delitti contro la fede pubblica – Contraffazione dei sigilli – Apposizione su passaporto di visto reingresso falso – Sussistenza. Delitti contro il patrimonio – Tentativo di truffa – Conseguenze di carattere economico – Ragioni. Delitti contro l’economia pubblica – Produzione di mozzarella di bufala con miscela di latte vaccino – Frode alimentare - Tentativo – Configurabilità. Delitti contro la persona – Sequestro di persona – Limitazione della libertà fisica e di agire – Necessità –

Soggezione psicologica ed economica – Insufficienza ai fini della configurabilità del reato. Delitti contro la libertà personale – Sequestro di persona – Concorso con il delitto di rapina – Esclusione – Ragioni. Delitti contro il patrimonio – Estorsione – Minaccia - Criteri di valutazione. Delitti contro il patrimonio – Estorsione – Profitto ingiusto ed altrui danno - Definizione. Delitti contro il patrimonio – Truffa – Mezzo fraudolento – Nuda menzogna ovvero silenzio – Sussistenza del reato. Delitti contro il patrimonio – Usura – Stato di bisogno - Criteri di valutazione. Delitti contro il patrimonio – Usura – Elemento soggettivo. Delitti contro il patrimonio – Ricettazione – Dolo - Criteri di accertamento. Contravvenzioni– Rifiuto di indicazioni sulla propria identità personale – Rifiuto di consegnare un documento di riconoscimento – Esclusione del reato. Contravvenzioni – Detenzione abusiva di armi – Detenzione di balestra medioevale – Insussistenza – Ragioni. PROCEDURA PENALE Procedimento penale - Procedimenti connessi - Determinazione della competenza territoriale - Plurime imputazioni di bancarotta fraudolenta - Competenza del giudice del procedimento in cui sia contestata l'aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità - Ragioni. Costituzione di parte civile – Privato danneggiato dalla falsa testimonianza –Ammissibilità Prove – Chiamata in correità – Criteri di valutazione. Prove – Indizi – Alibi. Prove – Mezzi di prova – Testimonianza della persona offesa – Ammissibilità. Misure cautelari personali – Impugnazioni – Riesame – Procedimento – Trasmissione degli atti al Tribunale – Omissione in parte qua – Effetti Riparazione per ingiusta detenzione - Principio costituzionale di presunzione di non colpevolezza - Rilevanza - Carichi pendenti o sentenze di condanna non definitive gravanti sul soggetto istante - Irrilevanza. Riparazione per ingiusta detenzione - Determinazione - Criteri.

Page 3: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

3

Procedimento penale – Procedimenti speciali – Applicazione della pena su richiesta delle parti – Restituzione in termini per la proposizione della richiesta di patteggiamento. Procedimento penale – Procedimenti speciali – Applicazione della pena su richiesta delle parti – Restituzione in termini per la proposizione della richiesta di patteggiamento – Richiesta di sospensione formulata dal difensore - Ammissibilità. Condanna generica al risarcimento – Distinzione con la domanda proposta in sede civile – Prova dell’effettiva sussistenza del dei danni – Necessità - Esclusione. Esecuzione penale - Provvedimento di esecuzione di pene concorrenti - Inserimento nel cumulo di condanna a pena interamente espiata - Possibilità - Ragioni. LEGGI SPECIALI Armi – Porto illegale in luogo pubblico – Casi. Edilizia ed Urbanistica – Condono edilizio – Opere su aree sottoposte a vincolo - Sospensione del procedimento ex lege Edilizia ed Urbanistica - Pertinenza - Caratteristiche. Indagini preliminari – Termini di durata – Inutilizzabilità degli atti per scadenza del termine – Conseguenze – Nullità del decreto di citazione – Esclusione. Reati contro la moralità pubblica ed il buon costume – Prostituzione – Induzione, favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione – Nozione. DIRITTO CIVILE E PROCESSUALE Fermo amministrativo dei beni mobili registrati – Giurisdizione – Competenza. Opposizione a decreto ingiuntivo – Costituzione del convenuto - Modifica della domanda –Proposizione di domanda riconvenzionale – Ammissibilità - Esclusione. Concordato fallimentare – Preliminare di vendita – Rilascio immobile – Occupazione senza titolo – Opponibilità - Esclusione. Compravendita – Risoluzione e restituzione del bene – Termini – Disciplina applicabile. Termini processuali – Termini ordinatori – Scadenza – Mancata proroga – Conseguenze.

Sentenza di divorzio -Intangibilita' della statuizione sull'assegno di divorzio in relazione alla successiva delibazione di sentenza ecclesiastica di nullita' del matrimonio. FOCUS Introduzione alla studio della criminologia, di Tullio Toriello L’astensione degli avvocati tra regolamentazione provvisoria e autoregolamentazione, di Bernardino Zinno Donazione a nascituri e garanzia per evizione, di Francesco Della Ventura Il procedimento di espulsione dal territorio dello Stato dei cittadini extracomunitari, di Luigi A. M. Ferrone ALLEGATI 1. Contributo unificato. Dichiarazione del valore della causa successiva all'atto introduttivo del giudizio - contributo unificato da versare nell'ipotesi di impugnazione avverso la sentenza emessa nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo e nel giudizio di opposizione avverso la dichiarazione di fallimento pagamento del contributo in caso di riassunzione del giudizio a seguito di sentenza dichiarativa di incompetenza. - notificazione a richiesta dell'ufficio - anticipazione forfettaria ex art. 30 t.u. - registrazione dei decreti emessi in materia di equa riparazione. Nota del 29-09-2003 Dipartimento per gli Affari di Giustizia - Direzione Generale della Giustizia Civile - Ufficio I 2. Riscossione dei diritti di cancelleria per le comunicazioni effettuate ai sensi dell’art. 335, comma 3, c.p.p. 3. Iscrizione nell’elenco degli Avvocati per il patrocinio a spese dello Stato. Delibera sul requisito di anzianità professionale di cui alla lett. c) , art. 81 del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115. Delibera del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati Di Nola. Delibera del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Napoli. * ERRATA CORRIGE. A pag. 52 di FS, l’ordinanza del Tribunale di Salerno del 15.04.03, in tema di fermo amministrativo di beni mobili registrati, è da attribuirsi al G.M. Sergio e non al G.M. Chianese. Ci scusiamo con l’interessato e con i lettori dell’errore.

Page 4: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

4

DIRITTO PENALE @

Tribunale di Salerno, sez. dist. Eboli (G.M. Di Bisceglie), ud. 15 maggio 2003, sentenza n. 313. Reato continuato – Pena – Reati satellite con minimo edittale più alto del reato più grave – Pena base inferiore a tale minimo – Esclusione. (art. 81 c.p.) In tema di continuazione, la pena base non può essere inferiore al minimo edittale più alto previsto per i reati satellite meno gravi, ove detto minimo edittale sia superiore a quello previsto per il reato più grave in astratto. (Nel caso di specie gli imputati rispondevano di ricettazione di un assegno, truffa e falso in scrittura privata commesso da privati; nell’irrogare la pena, il giudice ha così motivato “… il delitto più grave su cui computare la continuazione rimane la ricettazione, seppure nell’ipotesi attenuata” - art. 648, cpv, c.p.- “in quanto la falsificazione di un assegno ad opera di un privato comporta, ai sensi del combinato disposto degli artt. 491, 482 e 476, comma 1°, c.p., che la pena di un anno nel minimo e di sei anni nel massimo di cui a quest’ultima norma debba essere ridotta di un terzo (quindi da mesi 8 ad anni quattro di reclusione) ai sensi dell’art. 482 c.p. e quindi la norma di cui al secondo comma dell’art. 648 c.p. contiene comunque un limite edittale più alto nel massimo ed è quindi il più grave tra i reati accertati a carico degli imputati. Ciò non toglie che la pena base, pur non avendo quest’ultima norma un limite minimo edittale, debba comunque essere determinata in misura non inferiore ai predetti 8 mesi di reclusione che è, infatti, il limite minimo edittale più alto rispetto alla truffa (e, ovviamente, alla stessa ricettazione “attenuata”). (1) (2) (1) Il principio espresso in massima oltre a riprendere un preciso orientamento della giurisprudenza di legittimità (Cass. sez. VI, 19 febbraio 1997, in CP 1998, 820), trova l’autorevole avallo della Corte costituzionale che con ordinanza (C. Cost., 23 gennaio 1997, n.11, in CP 1997, 1660) ha chiarito l’assoluta insussistenza nel nostro ordinamento del principio secondo il quale in caso di continuazione possa irrogarsi una pena inferiore alla pena base corrispondente al minimo previsto dalla legge per uno dei reati unificati. (2) Sul criterio di valutazione del reato più grave in astratto, ossia, legato alla pena edittale più grave prevista dal legislatore per ciascun reato preso in considerazione, v. Cass. Sez. Un., 26 novembre 1997, Varnelli, in CP 1998, 2313, con nota di D. Pitton, “Violazione più grave e pene eterogenee nel reato continuato: un nuovo intervento delle Sezioni Unite”. Nonostante le diverse pronunce in tal senso sull’argomento (v. Cass. Sez. Un., 12 ottobre 1993, Cassata, in CP, 118 ; Cass. Sez. Un., 27 marzo 1992, Cardarilli, in GI 1992, II, 541; pur seguite al mutamento dell’ originario indirizzo, v. Cass Sez. Un.,

16 giugno 1982, Alunni, in CP 1993, 261) le sezioni unite del Supremo Collegio sono intervenute ancora e, affrontando le argomentazioni di chi riteneva applicabile il criterio della gravità in concreto (v., Cass. sez. VI, 23 febbraio 1996, Di Tata, in GD 1996, n. 13, 85; Cass. sez. III, 15 febbraio 1991, Ciullo, in CP 1992, 317) hanno precisato che detto principio, espresso dall’art. 187 delle norme di attuazione del c.p., fosse insuscettibile di applicazione generalizzata e pertanto, andava osservato esclusivamente per la disciplina della continuazione del reato in fase esecutiva per cui era espressamente previsto. (D.R.)

@ Tribunale di Salerno, sez. dist. Eboli (G.M. Ansalone), 11 ottobre 2003, ordinanza. Reato – Remissione tacita di querela – Assenza reiterata del querelante – Configurabilità – Esclusione. (art. 152 c.p.; art. 531 c.p.p.). La reiterata ed ingiustificata assenza del querelante non può costituire accertamento univoco della volontà di questi di voler rinunciare alla punizione del colpevole e non può realizzare una causa di remissione tacita di querela. La remissione tacita di querela. La giurisprudenza di legittimità ha costantemente affermato che la remissione tacita di querela (art. 152 c.p.) deve risultare da un comportamento del tutto incompatibile con la volontà di persistere nella richiesta di punizione del querelato. Tale volontà non può desumersi, tuttavia, da meri comportamenti omissivi, quali la mancata costituzione di parte civile del querelante o l’omessa comparizione in giudizio dello stesso.1 In particolare per quanto riguarda la mancata comparizione, è stato ritenuto che non vi sia remissione tacita della querela neanche qualora il querelante non si sia presentato all’udienza appositamente fissata dal giudice che, con apposito avviso notificato, abbia informato il querelante che la sua assenza avrebbe comportato la remissione della querela. 2 Recentemente la corte di Cassazione è ritornata sul punto affermando un principio completamente opposto: “L'omessa comparizione in udienza del querelante costituisce remissione tacita di querela nella ipotesi in cui essa sia stata preceduta dall'avvertimento, formulato dal giudice, che la sua assenza alla udienza successiva sarebbe stata interpretata in tal modo.” 3,

1 Cass., sez. V, 28 novembre 1997, n. 1452, in CP 1999, 1127; Cass., sez. V, 27 ottobre 999, n. 5191, in CP 2001, 519. 2 Cass., sez. V, 8 marzo 2000, n. 8372, in CP 2001, 2101. 3 Cass., sez. V, 25 giugno 2001, in CP 2002, 1415.

Page 5: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

5

determinando un contrasto in seno alla stessa sezione della Cassazione. 4 Nella giurisprudenza di merito si registra il consolidamento di tale ultimo principio. Secondo il Tribunale di S. Angelo dei Lombardi: “La reiterata assenza del querelante, in presenza di una citazione a comparire come teste con avviso che un’ulteriore mancata comparizione sarebbe stata intesa come fatto incompatibile con la volontà di persistere nella querela, disposta dal tribunale e ritualmente notificata a mani proprie, può essere qualificata dal giudice con ragionevole certezza fatto incompatibile con la volontà di persistere nella querela a norma dell’art. 155 c.p.”. 5 Per il Tribunale di Roma:”La condotta della persona offesa querelante che, pur citata per il dibattimento, non si presenti all’udienza di comparizione e nuovamente citata per la successiva udienza, con l’espresso avviso che la sua assenza sarebbe stata interpretata come tacita remissione di querela, non compaia, integra un’ipotesi di remissione tacita della querela”. 6 Non necessita la reiterata assenza del querelante e l’avviso a comparire per il Tribunale di Fermo: “L’assenza al dibattimento della persona offesa, che rappresenti altresì il principale teste d’accusa, qualora sia totalmente ingiustificata integra un’ipotesi di remissione tacita di querela; in ogni caso fa sorgere un ragionevole dubbio sulla sussistenza di tale causa estintiva del reato”. 7 A proposito di tale ultima pronuncia, è interessante seguire il percorso motivazionale del tribunale nella parte in cui prende consapevolezza di esprimere un principio che contrasta con l’orientamento dominante in sede di legittimità: ”Va ricordato come, in ordine alla individuazione dei fatti sintomatici dai quali possa desumersi la volontà di remissione di querela, tutte le pronunce massimate dalla Corte di Cassazione sono nel senso di escludere la possibilità di attribuire il significato di remissione tacita di querela a questa o a quella specifica condotta. Non risultano, invece, pronunce, in cui sia stato individuato, in positivo, un fatto integrante la fattispecie in questione. Si tratta, in

4 Relazione sul contrasto giurisprudenziale del 5 novembre 2001 n. 65, a cura dell’Ufficio del Massimario. 5 Tribunale di S. Angelo dei Lombardi, 10 maggio 2001, in GM 2001, 821. In senso conforme, Tribunale di Fermo, 2 aprile 2002, in RP 2002, 588; Tribunale di Sanremo, 5 aprile 2002, in www.campensanremo.it. 6 Tribunale di Roma, 10 giugno 2002, in CP 2003, 1336; in DPP 2003, 490. 7 Tribunale di Fermo, 21 maggio 2002, in CP 2003, 1021. decisione che richiama una risalente sentenza di legittimità, laddove si afferma che “l’apprezzamento delle specifiche circostanze di fatto e degli elementi che nelle singole fattispecie possono concretare una remissione tacita di querela, è rimesso alla esclusiva competenza del giudice di merito”, cfr. Cass., sez. VI, 6 luglio 1983, Italiano, in GP, 1984, III, 586.

sostanza, di una sorta di interpretazione abrogativa dell’istituto della remissione di querela.” 8 Il Tribunale di Fermo, inoltre, sostiene che l’istituto in esame deve essere reinterpretato alla luce delle “rilevanti” innovazioni normative che sono intervenute negli ultimi anni, come l’art. 552, c. 3, c.p.p., riformulato dalla l. 479/99, che prevede che il decreto di citazione a giudizio sia notificato anche alla persona offesa, consentendole ogni opportuna e tempestiva valutazione in merito alla posizione processuale da assumere, almeno 60 giorni prima della data fissata per l’udienza; l’art. 111, c. 2 della Costituzione, che prevede il principio della durata ragionevole del processo; l’art. 531, c. 2, c.p.p., secondo cui il giudice dichiara l’estinzione del reato quando vi è un dubbio sull’esistenza di una causa di estinzione dello stesso. In tal senso, particolarmente significativo è l’art 28, c. 3, del D.lg. 28 agosto 2000, n. 274 (in materia di competenza penale del giudice di pace) che ha tipizzato un’ipotesi di remissione tacita di querela nella mancata comparizione delle persone offesa al dibattimento. Continua il Tribunale di Fermo che : “E’ pur vero che tale norma trova un’applicazione diretta limitata, ma la ratio che ne è alla base sembra poterne consentire un’applicazione analogica, e, in ogni caso, conforta la tesi, qui sostenuta, secondo cui l’omessa comparizione del querelante, in uno con altri elementi (la non giustificata assenza, la mancata presenza del suo difensore, il fatto che lo stesso rappresenti la principale fonte di accusa) rappresenta un elemento sintomatico del venir meno della volontà punitiva, tale da far giustificare la pronuncia di estinzione del reato, quanto meno ex art. 531, c. 2, c.p.p.” 9 In dottrina si segnalano orientamenti sostanzialmente conformi. Vi è chi, condividendo la posizione giuridica espressa dal Tribunale di Fermo, si sofferma anche su ragioni di politica del diritto, ritenendo oramai prossima al tramonto la sovranità della volontà del querelante, (tipica espressione della concezione della pena etico-retribuzionistica.) ed emergente la concezione della Folgenorientiering, che propugna un sistema penale moderno orientato a contrastare il crimine e a ridurre gli effetti pericolosi o dannosi da esso prodotti. 10 Altri, invece, pur condividendo il principio per cui se la persona offesa si disinteressa del processo vuol significare che rimette la querela, contestano l’applicazione analogica dell’istituto di cui all’art. 28 del D.lg. 274 del 2000. In questo caso si tratta di una “dichiarazione legalmente tipizzata”. La norma prescrive le conseguenze ricollegate ad una condotta, escludendo l’indagine sulla corrispondenza tra gli effetti e il comportamento, e, quindi, “un’attribuzione legale di significato espressivo predeterminato”. Per questo non può parlarsi di rinuncia tacita nel caso dell’art. 28 citato.

8 La sentenza per esteso è pubblicata in CP 2003, 1022 e ss. 9 Id., 1026 10 Sul punto, G.L. Fanuli, “La remissione tacita di querela. Un istituto da rivisitare.”, in RP 2002, 589 e ss.

Page 6: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

6

“Nella dichiarazione legalmente tipizzata non è ammessa alcuna prova contraria se non quella implicita relativa all’impedimento, mentre nei casi ordinari la persona offesa può dimostrare positivamente di voler persistere nella querela, nonostante non voglia comparire all’udienza (…) Deve quindi ammettersi che il comportamento omissivo ed ingiustificato tenuto dalla persona offesa acquista, salva prova contraria, valenza di remissione tacita. Analogo inquadramento deve essere attribuito alla vicenda caratterizzata dall’espresso avviso notificato dal giudice notificato alla persona offesa assente (…). Attraverso l’avviso di cui si discute il giudice si limita a segnalare alla persona offesa la circostanza che l’omessa ed ingiustificata comparizione è considerata dalla legge come remissione tacita di querela (salvo diverso e positivo riscontro) e che quindi la persona offesa potrà, con comportamento concludente extraprocessuale, determinare la conclusione del processo”. 11 (Paolo Corsaro)

@ Tribunale di Salerno, sez. III (Pres. Pentagallo; est. Bellantoni), ud. 28 febbraio 2003, sentenza n. 402. Reato in generale – Cause di estinzione del reato – Prescrizione – Termine prescrizionale – Entità della pena. (artt. 157-160 c.p.) Per stabilire il termine di prescrizione del reato occorre avere riguardo non alla fattispecie astratta prevista dalla norma incriminatrice, bensì all’illecito nella sua concreta e specifica delineazione finale fatta dal giudice, a seguito dell’applicazione delle circostanze attenuanti ed aggravanti, con il correlativo obbligatorio giudizio di comparazione. (1) (1) Giurisprudenza di legittimità consolidata: ex plurimis, Cass., sez. II, 15 aprile 1997, Castagna, in CP 1998, 2616; Cass., sez. IV, 18 dicembre 1991, Grieco, in GP 1992, II, 356; Cass., sez. IV, 2 dicembre 1986, Paternostro, in RP 1987, 754. Come si è acutamente rilevato, poiché la prescrizione rappresenta un’ipotesi di rinunzia dello Stato alla pretesa punitiva, la sua operatività deve essere verificata con riguardo all’azione penale esercitata per il reato che abbia ricevuto una qualifica definitiva e non già con riferimento al fatto storico che ha determinato la formulazione dell’imputazione. In applicazione di tali principi, si è ritenuto che “nel caso in cui il giudice conceda le attenuanti generiche dichiarando la loro equivalenza con la contestata aggravante, i termini di prescrizione vanno stabiliti con riferimento al reato ritenuto in sentenza e non a quello originariamente contestato: un’operazione da utilizzare non soltanto ai fini dell’individuazione della distanza cronologica concretamente esistente fra 11 A. Laurino, “La remissione tacita della querela per omessa comparizione della persona offesa dopo le leggi sul giusto processo e sulla competenza del giudice di pace”, in CP 2003, 1027 e ss.

tempus commissi delicti e sentenza di condanna, ma anche allo scopo di verificare la susseguente efficacia di un atto interruttivo allorché l’imputazione originaria venga ad essere adottata – ed eventualmente ridotta quanto alla sua valenza antisociale – alle esigenze teleologiche proprie della decisione di merito”(Cass., sez. VI, 7 aprile 1993, Marrazzo, in CP 1994, 2700). (L.A.M.F.)

@ Tribunale di Salerno, sez. dist. di Montecorvino Rovella (G.M. Critelli), ud. 13 gennaio 2003, sentenza n. 1 Reati contro la pubblica amministrazione – Resistenza a un pubblico ufficiale – Compimento di atto di ufficio o di servizio – Mancanza di tale presupposto – Insussistenza. (art. 337 C.P.)

La sentenza così motiva:

“(omissis) Ciò premesso e tenuto conto di quanto è stato possibile ricostruire riguardo alla dinamica dell’accaduto, sorgono dubbi in ordine alla legittimità dell’intervento operato dal pubblico ufficiale, non direttamente motivato dalle circostanze di tempo e di luogo, atteso che l’imputato, per stessa ammissione del M., era intento al consumo personale di uno spinello in un luogo del tutto appartato ed isolato da quello in cui erano in corso i festeggiamenti. E’ quindi da escludere che la richiesta dei documenti personali sia stata determinata dalla necessità di procedere all’identificazione di un soggetto sorpreso in flagranza di reato. Né può dirsi che il P. si fosse reso responsabile del diverso reato di oltraggio in quanto, come riferito dal teste, la risposta offensiva era stata da questi proferita prima ancora che l’agente si fosse qualificato. “(omissis) E’ pertanto comprensibile che il P., portato fuori dal locale ed identificato in presenza di numerosi avventori, tra i quali molti dei suoi amici, abbia avuto una reazione scomposta ed inadeguata, ma che sembra giustificata da un intervento del pubblico ufficiale non legittimato dalla circostanza del caso (omissis) ”. (1) (*) (1) Risulta chiaro in giurisprudenza che, per configurarsi il reato di resistenza a un pubblico ufficiale, elemento pregnante sia senz’altro l’opporsi al compimento di atti di ufficio (Cass., sez. VI, 7 luglio 99, n. 8667, rv 214199). Infatti, non è necessario che la violenza e/o la minaccia siano precipuamente consumate, quanto, invece che tali comportamenti ostacolino l’atto di ufficio medesimo (Cass., sez. VI, 9 marzo 2000, n. 2944, in RP 2000, 819). Nel caso oggetto della sentenza in esame è emerso un comportamento della persona offesa, appartenente alla Polizia di Stato, tendente a far valere la sua qualifica di pubblico ufficiale in un contesto (festa privata ove partecipava in borghese) e in circostanze in cui non doveva svolgere atti del proprio ufficio. La parte lesa, infatti, non riuscendo a far valere le proprie ragioni nel corso di un comune diverbio con

Page 7: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

7

altro partecipante alla festa, reagiva nei confronti dello stesso pretendendo di volerlo identificare. Tale pretesa generava il comportamento ritenuto antigiuridico. Tuttavia, in sentenza ben si evince la necessità del presupposto di un pregresso atto di ufficio in corso, in ogni modo intralciato, per ritenersi integrata la fattispecie di cui all’art. 337 c.p. Venendo meno tale presupposto, ed in assenza di specifica contestazione dei comportamenti lesivi in danno della persona offesa successivi alla circostanza dell’identificazione, appare corretta la decisione di assolvere l’imputato dal reato ascrittogli. (*) Massima e relativa nota rimessa dall’avv. Luigi Spampanato.

@ Tribunale di Salerno, sez. III (G.M. Bellantoni), ud. 13 febbraio 2003, sentenza n. 301. Delitti contro l’amministrazione della giustizia – Falsa testimonianza - Reato di pericolo – Conseguenze. (art. 372 c.p.) Il delitto di falsa testimonianza è un reato di pericolo, che sussiste a prescindere dalla utilizzazione che della falsa deposizione è fatta e che si realizza anche quando l’Autorità di fronte alla quale il reato si è consumato abbia negato credibilità alla deposizione incriminata. (1) (1) In senso conforme, Cass., sez. VI, 18 luglio 2001, Vitobello, in RP 2001, 930; contra, Corte di Appello di Potenza, 5 febbraio 2003, De Cillis, in RP 2003, 637, secondo la quale ai fini della configurabilità del delitto di falsa testimonianza, occorre che le dichiarazioni rese dal testimone in udienza posseggano l’attitudine a deviare il giudice e, conseguentemente, falsare l’accertamento della verità. Secondo Cass., sez. VI, 16 marzo1998, n. 5571, Mezzetti, in CP 1999, 1449, l'art. 372 c.p., nel punire la falsità della testimonianza, tutela l'integrale contenuto conoscitivo della dichiarazione, comprensivo tanto del fatto quanto del modo in cui lo stesso è stato conosciuto dal testimone, con la conseguenza che il reato sussiste anche se il testimone, riferendo un fatto vero, affermi il falso circa le modalità con le quali lo ha appreso (Nel caso di specie il teste aveva affermato di aver conosciuto quanto deposto per averne avuto notizia da persona che non poteva avergli riferito i fatti). Ai fini dell'art. 372 c.p., "testimone" è quel soggetto terzo rispetto alle parti del giudizio che, viene chiamato a deporre innanzi al giudice su quanto a sua conoscenza in ordine a fatti rilevanti ai fini del decidere, e lo fa nel contraddittorio delle parti, rispondendo alla domande a lui rivolte su detti fatti, non senza essere prima avvertito delle responsabilità penali cui va incontro nel caso in cui il contenuto delle sue dichiarazioni non corrisponda a quanto egli effettivamente sa. Pertanto, assume la qualità di testimone, e può quindi rispondere del reato di cui all'art. 372 c.p., anche chi sia chiamato a deporre nell'ambito della fase a cognizione sommaria di un

giudizio possessorio, già disciplinata dal comma 1 dell'abrogato art. 689 c.p.c., Cass., sez. VI, 2 marzo 2000, Bonifacio, in CP 2003, 136. In senso conforme, Cass., sez. I, 7 settembre 2001, Ciampi, CP 2002, 3090, per cui le dichiarazioni assunte dal giudice nel procedimento cautelare civile, ai sensi dell'art. 669 sexies c.p.c., hanno natura di testimonianza e, pertanto, la loro eventuale falsità integra gli estremi del reato di falsa testimonianza previsto dall'art. 372 c.p., pur quando non siano state osservate le formalità dettate dagli art. 244, 251 e 252 c.p.c. per l'assunzione della prova testimoniale, con riguardo, rispettivamente, alla deduzione di detta prova, al giuramento ed alla compiuta identificazione del testimone. Contra, Tribunale di Bari, sez. II, 16 luglio 2002, D’Ambruoso, secondo cui la testimonianza non è equiparabile all’informazione resa nei procedimenti sommari dinanzi al giudice civile, dal momento che il c.d. informatore, diversamente dal testimone, non pronuncia alcuna formula impegnativa che lo obblighi a dire la verità e a non nascondere nulla di quanto è a sua conoscenza. Pertanto, non risponde non risponde del delitto di cui all’art. 372 c.p. il c.d. informatore perché, in forza del principio di legalità, detta norma non è applicabile estensivamente al di là dei casi espressamente previsti. In dottrina, E. Calcagno, “Rilevanza penale delle sommarie informazioni false rese in sede civile”, in DPP 2003, 618 e ss. (P.C.)

@ Tribunale di Salerno, sez. III (G.M. Ansalone), ud. 16 settembre 2003. * (dispositivo di sentenza) Delitti contro l’amministrazione della giustizia – Falsa testimonianza – Causa di non punibilità ex art. 384 c.p. – Sussistenza. (artt. 372, 384 c.p.) Va riconosciuta la causa di non punibilità prevista dall’art. 384 c.p. all’imputato che, sentito in qualità di testimone innanzi al Tribunale per i minorenni, abbia falsamente negato l’acquisto di sostanze stupefacenti. (1) (1) Decisione conforme a quanto statuito di recente da Cass., sez. VI, 23 gennaio 2002, Degrassi, in CP 2003, 524, per cui: “Ai fini dell’applicazione dell’esimente di cui all’art. 384 c.p. per il delitto di falsa testimonianza, è configurabile quale grave ed inevitabile nocumento nella libertà, ed esclude dunque la punibilità del fatto, la prospettiva dell’applicazione delle sanzioni amministrative delineate dall’art. 75 del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, per evitare la quale il testimone abbia negato falsamente l’acquisto di stupefacente destinato al proprio personale consumo”. In dottrina, M.G. Maglio, F. Giannelli, “Problematiche inerenti alla struttura ed alla portata dell'art. 384 c.p.”, in RP 1997, 457; G. Lattanzi, E. Lupo, Codice Penale. Rassegna di dottrina e giurisprudenza, Milano 2000. Secondo Cass., sez. VI, 31 gennaio 2001, Lucente, in RP 2001, 250, l’art. 384 c.p. opera indipendentemente dalla formale assunzione della qualità di coimputato imputato in procedimento connesso nel momento in cui

Page 8: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

8

è resa la testimonianza. In senso conforme, Cass., sez. VI, 30 luglio 1998, Scolesi, in CP 2000, 69; Cass., sez. VI, 26 agosto 1997, Bisio, in CP 1999, 513; Cass., sez. VI, 10 marzo 1998, Russo, in GI 1999, 1279; Cass., sez. VI, 2 marzo 1999, Barra,: “L’imputazione di falsa testimonianza per taluno, per avere egli deposto il falso su fatti in ordine ai quali vi era la possibilità di essere incriminato, con pericolo per la sua libertà, comporta l’applicazione dell’esimente di cui all’art. 384 c.p., la quale va applicata anche a colui che, legittimamente escusso quale teste perché al momento non vi erano a suo carico indizi di reità, acquisti successivamente la qualità d’imputato nel medesimo procedimento.” Per Cass., sez. VI, 13 marzo 2003, Cavalieri, in DPP 2003, 818, l’art. 384 c.p. trova applicazione anche “nell’ipotesi in cui la persona informata sui fatti abbia reso false dichiarazioni al fine di sottrarsi dal pericolo di essere incriminato per i reati in precedenza commessi (calunnia) ed in ordine ai quali, al momento in cui venne assunto come persona informata sui fatti, non vi erano a suo carico indizi di reità e, solo successivamente, assuma la veste di imputato”. Per la sussistenza dell’art. 384 c.p. anche sotto il profilo meramente putativo, Ufficio Indagini Preliminari di Milano, 8 giugno 1999, in FA 2000, 145. Discussa è la natura giuridica dell’istituto in argomento. Secondo una parte della dottrina la norma configura una causa che esclude l’antigiuridicità del fatto, una ipostesi speciale dello stato di necessità. Secondo altra dottrina, l’art. 384 configura un’ipotesi di esclusione della colpevolezza, fondata sull’inesigibilità di un comportamento conforme alla norma. Sul punto in maniera più diffusa, E. Dolcini, G. Marinucci, Codice Penale Commentato, Milano 1999, 2185. La distinzione non è di poco conto. Infatti, chi considera l’art. 384 c.p. alla stregua dello stato di necessità, richiede che la situazione di pericolo in cui deve versare l’agente non sia stata volontariamente causata dallo stesso. La volontarietà della causazione del pericolo è l’argomento che la giurisprudenza dominante adotta per escludere la non punibilità nel caso della falsa testimonianza commessa da chi non si sia avvalso della facoltà di astenersi dal rendere testimonianza dopo essere stato avvisato della relativa facoltà: “Il prossimo congiunto dell’imputato, quando sia stato avvertito della facoltà di astenersi dal deporre e abbia deciso di rinunciarvi, deponendo quindi il falso, non può validamente invocare l’applicazione della norma di cui all’art. 384 c.p.”, Cass., sez. VI, 16 novembre 2000, Re, in RP 2001, 270. In senso cfr. Cass., sez. VI, 16 giugno 1999, Mocerino, ivi 2000, 405; Corte di Appello di Roma, 25 ottobre 2002, ivi 2002, 1089. Recentemente si registra un’inversione di tendenza: “L’art. 384 c.p. può trovare applicazione anche in favore di chi, nella qualità di prossimo congiunto dell’imputato, avrebbe potuto astenersi dal deporre ed abbia, ciononostante, preferito non avvalersi di tale facoltà.”, Cass. sez. VI, 3 dicembre 2001, Mariotti, in RP 2002, 228; Cass., sez. VI, 4 febbraio 2003, Miazza, ivi 2003, 393.

Secondo il Tribunale di Chiavari, 25 giugno 1998, n. 86, la condizione del soggetto incapace a testimoniare in sede civile ex art. 246 c.p.c., in quanto portatore di un potenziale interesse nella causa e che, pur tuttavia, sia stato assunto come testimone, integra, ai sensi dell'art. 384 comma 2 c.p., una situazione di non punibilità in relazione al contestato reato di falsa testimonianza di cui all'art. 372 c.p. (fattispecie in tema di testimonianza in sede civile circa la dinamica di un incidente stradale resa da persona coinvolta nel sinistro quale trasportata di uno dei conducenti i veicoli), in www.penale.it. Cfr. Cass., sez. VI, sentenza 9 aprile 1998, n. 8434, Cirillo, in GD 1998, 34, p. 79, secondo cui "la condizione del soggetto incapace a testimoniare in sede civile in base al disposto di cui all'art. 246 c.p.c. e che, pur tuttavia, sia stato assunto come testimone, integra, ai sensi dell'art. 384 comma 2c.p., e indipendentemente da ogni questione circa la validità della deposizione resa nel giudizio civile, una situazione di non punibilità in relazione al contestato reato di falsa testimonianza di cui all'art. 372 c.p. (nella specie, era stato imputato del reato di falsa testimonianza un soggetto che era stato assunto come testimone nel processo civile nonostante avesse oggettivamente un interesse che poteva legittimare la sua partecipazione al giudizio civile)" (P.C.)

@ Tribunale di Salerno, sez. dist. Eboli (G.M. Di Bisceglie), ud. 5 giugno 2003, sentenza n. 353. Delitti contro l’assistenza familiare – Violazione degli obblighi di assistenza familiare – Distinzione con il delitto di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice. Delitti contro l’assistenza familiare – Violazione degli obblighi di assistenza familiare – Soggetto Obbligato - Lavoratore saltuario e sostegno economico di altri congiunti ai fini della esclusione del reato – Sufficienza - Esclusione. (artt. 388, 570, c.p.)

Il delitto di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice che concerna l’affidamento di un minore, di cui all’art. 388, co. 2°, c.p., richiedendo nell’elemento oggettivo la “elusione” di un obbligo, non può configurarsi nel mancato esercizio del “diritto di visita”. Pertanto, la stessa condotta dell’imputato che omette di fare visita al figlio minore, come previsto nell’atto di separazione, evidenza il sottrarsi dell’imputato agli obblighi di assistenza verso i più stretti congiunti o comunque nei riguardi del figlio e quindi l’elemento oggettivo sotteso all’ipotesi di reato di cui al primo comma dell’art. 570 c.p.. Non valgono, ad escludere il reato né la circostanza che la madre sia stata comunque in grado di mantenere dignitosamente i figli, provvedendo alle loro esigenze vitali, né, la mancanza di un lavoro dell’obbligato inadempiente (ma con potenzialità di reddito), a meno che, questi non dimostri condizioni, anche di salute, talmente gravi da rendere impossibile la stessa possibilità di procurarselo. (1)

Page 9: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

9

(1) In riferimento alla capacità economica dell’obbligato, la Suprema Corte ha più volte ribadito che non fa venire meno l’obbligo di fornire i mezzi di sussistenza la mera indicazione dello stato di disoccupazione (Cass. sez. VI, 25 giugno 1999, Morfeo, in CP 2001, 2116); vale, invece, ad escludere il reato la totale impossibilità di far fronte all’obbligo, purché sia provata attraverso elementi indicativi di una vera e propria indigenza dell’imputato che si estende a tutto il periodo di tempo cui si riferiscono le inadempienze (Cass. sez. VI, 7 maggio 1998, Giannetti, in CP 1999, 1472) e tale incapacità economica, non sia dovuta a sua colpa (Cass. sez. VI, 23 gennaio 1997, Parisella, in CP 1998, 2024). (D.R.)

@ Tribunale di Salerno, sez. III (G.M. Bellantoni), ud. 25 settembre 2003, sentenza n. 1310. Delitti contro la fede pubblica – Falso materiale commesso dal privato – Errore grossolano del falso – Reato impossibile – Sussistenza – Ragioni. (artt. 49, 61 n. 2., 482, 478 c.p.) Delitti contro il patrimonio – Tentata truffa ai danni dello Stato – Inesistenza del danno e del profitto per la mancata indicazione di tali elementi costitutivi del reato da parte della pubblica accusa – Carenza della univocità e della idoneità del tentativo – Ragioni. (artt. 56, 640 c.p.) La sentenza così motiva: “L’inidoneità dell’azione rilevante a norma dell’art. 49 c.p. si verifica quando l’azione medesima è assolutamente inadeguata ed inefficiente ai fini della realizzazione del proposito criminoso e non sussiste, quindi, neanche la possibilità, anche solo eccezionale, del verificarsi dell’evento. La giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione ha ripetutamente affermato, con argomentazioni del tutto condivisibili, che in tema di falso l’inidoneità dell’azione ricorre nel cosiddetto falso grossolano, “nel falso, cioè, che per essere macroscopicamente rilevabile, non è idoneo a trarre in inganno alcuno” (cfr. Cass. pen., sez. V, 17 agosto 1990, n. 11498, Casarola; conformi: Cass. pen., 24 giugno 1992, n. 7227, Ecora; Cass. pen. sez. VI, 23 febbraio 1991, n. 2456, Sgarlata).

Il verbale di contravvenzione era palesemente falso e tale circostanza era immediatamente evincibile da chiunque, stante la qualità di errori ortografici in esso contenuti. A fronte di quanto emerso nel corso dell’istruttoria, la circostanza che l’ufficio stranieri della Questura di Salerno abbia proceduto ad effettuare degli accertamenti presso la Polizia Municipale di Napoli, non appare elemento sufficiente all’affermazione della penale responsabilità dell’imputato. Ne consegue che F. P. N. deve essere assolto dall’imputazione di cui al capo A) della rubrica, perché non punibile a norma dell’art. 49 c.p. Nel processo eziologico tipizzato dall’art. 640 c.p. possono distinguersi tre distinti momenti: quello iniziale intercorrente tra il mezzo fraudolento e l’altrui

induzione in errore, quello mediano fra l’errore e la disposizione patrimoniale e quello finale fra il danno e il profitto. Il delitto di truffa si consuma con il verificarsi degli eventi del danno e del profitto ingiusto. Il danno deve avere necessariamente contenuto economico e può acquistare rilevanza sia sotto il profilo del danno emergente sia sotto quello del lucro cessante. Il profitto che l’agente o altri traggono dalla condotta delittuosa, a differenza del danno, che deve essere sempre di contenuto patrimoniale, può consistere nel soddisfacimento di qualsiasi interesse, anche solo psicologico o morale, e sussiste tanto nel caso di effettivo accrescimento di ricchezza economica, tanto nel caso di mancata diminuzione del patrimonio. Il carattere dell’ingiustizia, richiesto dall’art. 640 c.p., è attribuito al profitto dalla circostanza di essere stato conseguito sine causa, in assenza di un titolo che lo giustifichi. E allora, a prescindere dalla rilevanza dell’artificio utilizzato, stante la grossolanità del falso di cui al capo A) della rubrica, rileva il Tribunale che l’ufficio della pubblica accusa non ha indicato né il profitto né il danno cui l’agente tendeva con la consumazione della tentata truffa di cui al capo B) della rubrica e ciò esclude la sussistenza del reato contestato. Qualora, poi, dovesse ritenersi che il danno economico che poteva derivare allo Stato dal rilascio del permesso di soggiorno, fosse la possibilità per F. P. N. di godere di assistenza sanitaria e previdenziale, osserva il Giudice che la condotta posta in essere dall’imputato sarebbe priva del requisito della univocità, richiesto dall’art. 56 c.p., unitamente a quello della idoneità, per la configurabilità del delitto tentato, potendo essere diretta alla realizzazione di un’azione lecita – rilascio del permesso di soggiorno – ovvero alla realizzazione di un diverso reato – commissione di un falso ai sensi del combinato disposto degli artt. 48 e 479 c.p. F. P. N. deve, quindi, essere assolto anche dal reato di cui al capo B) della rubrica, perché il fatto non sussiste.” (*) (*) Estratto della sentenza a cura dell’avv. Danilo Laurino.

@ Tribunale di Salerno, sez. II (G.M. Alfinito), ud. 19 marzo 2003, sentenza n. 542. Delitti contro la fede pubblica – Contraffazione dei pubblici sigilli – Apposizione su passaporto di visto reingresso falso – Sussistenza. (art. 468 c.p.) Delitti contro il patrimonio – Tentativo di truffa – Conseguenze di carattere economico – Ragioni. (artt. 56, 640 c.p.) Risponde del delitto di cui all’art. 468 c.p. chiunque utilizzi un passaporto su cui è apposto un visto falso di reingresso nel territorio nazionale. E’ irrilevante accertare, invece, chi sia l’autore del falso, anche perché, pur qualora questi sia stato diverso dal

Page 10: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

10

prevenuto, ha comunque agito nell’interesse di costui. (1) La falsità accertata di cui all’art. 468 c.p., inerente all’apposizione di un visto falso sul passaporto, ha realizzato la condotta di induzione in errore dello Stato. L’imputato, infatti, attraverso la regolarizzazione avrebbe goduto del diritto all’istruzione scolastica per i minori, del diritto all’assistenza sanitaria. Tuttavia, il mancato accertamento relativo all’effettivo godimento, da parte dell’imputato, dei suddetti benefici, fa ritenere configurabile l’ipotesi della tentata truffa, configurabile ogniqualvolta non si verifichi l’effettivo conseguimento del profitto da parte dell’agente con correlativo danno della persona offesa.(2) (1) Cfr, Cass., sez. V, 12 aprile 1991, Franzoni. Per Cass., sez. V, 20 giugno 2001, n. 25004 “Ai fini della sussistenza del reato di cui all'art. 468 del c.p., si richiede che l'autore del fatto contraffaccia su un documento le impronte di una pubblica autenticazione o certificazione mediante uno strumento (precedentemente confezionato recante l'impronta che si vuole riprodurre: timbro, sigillo) che gli consenta una facile riproduzione in serie; ai fini della sussistenza del meno grave reato previsto dall'art. 469 del c.p., invece, si richiede che l'autore del fatto contraffaccia su un documento le impronte di una pubblica autenticazione o certificazione, senza essere dotato del suddetto strumento, e quindi dovendo procedere, di volta in volta, alla falsificazione dell'impronta, con mezzi diversi, quali incisioni, disegni, colorazione. La minore gravità di tale ultimo reato discende proprio dalla minore capacità di danno, conseguente all'impossibilità di una facile riproduzione dell'impronta contraffatta.” Conforme Tribunale di Varese, 23 maggio 2001, in FA 2001, 328. Per Cass., sez. V, 13 novembre 1998, n. 6037, Marucci, in CP 1999, 3404, “Il reato di cui all'art. 468 c.p. si consuma nel momento e nel luogo in cui lo strumento contraffatto viene creato ad opera del suo autore, o di chi per lui, senza che occorra, ai fini della perfezione del reato stesso, che di tale strumento venga fatto uso. L'uso (eventuale) o anche continuato dello strumento, da parte dell'autore della contraffazione, costituisce, pertanto, un post factum non punibile, con la conseguenza che contraffazione ed uso sono previste come condotte alternative e non possono concorrere.” (2) Sulla sussistenza del tentativo di truffa in caso di mancato conseguimento del profitto, Cass., Sez. Un., 24 gennaio 1996, Panigoni. Nel delitto di truffa, mentre il requisito del profitto ingiusto può comprendere in sé qualsiasi utilità, incremento o vantaggio patrimoniale, anche a carattere non strettamente economico, l'elemento del danno deve avere necessariamente contenuto patrimoniale ed economico, consistendo in una lesione concreta e non soltanto potenziale che abbia l'effetto di produrre - mediante la "cooperazione artificiosa della vittima" che, indotta in errore dall'inganno ordito dall'autore del reato, compie l'atto di disposizione - la perdita definitiva del bene da parte della stessa; ne consegue che in tutte quelle situazioni in cui il soggetto passivo

assume, per incidenza di artifici e raggiri, l'obbligazione della dazione di un bene economico, ma questo non perviene, con correlativo danno, nella materiale disponibilità dell'agente, si verte nella figura di truffa tentata e non in quella di truffa consumata, Cass., Sez. Un., 16 dicembre 1998, Cellamare, in RP 1999, 156. L. Fenu, “Truffa ai danni di ente pubblico per assunzione all'impiego. Momento consumativo del reato. Profitto e danno”, in CP 1999, 414. Secondo il Tribunale di Salerno, G.U.P.,sentenza del 10 febbraio 2003, non sussiste il delitto di truffa tentata nel caso di un cittadino straniero che aveva presentato falsa documentazione allo scopo di ottenere il permesso di soggiorno, in quanto il profitto conseguente all’utilizzazione delle prestazioni sanitarie non è collegato direttamente al rilascio del permesso predetto, bensì all’avvio di ulteriori e diverse pratiche amministrative, in FS 2003, 5. (P.C.)

@ Tribunale di Salerno, sez. dist. Eboli (G.M. Gibboni), ud. 9 ottobre 2002, sentenza n. 474. Delitti contro l’economia pubblica – Produzione di mozzarella di bufala con miscela di latte vaccino – Frode alimentare - Tentativo – Configurabilità. (artt. 56, 515 c.p.; art. 5, lett. a) l. 30 aprile 1962, n. 283). La produzione e la detenzione di mozzarella e la contestuale attribuzione alla stessa di qualità e caratteristiche in realtà inesistenti danno certamente luogo ad un’ipotesi di tentativo di frode in commercio. (1) La presenza in percentuale elevata di latte vaccino nel prodotto presentato come “mozzarella di bufala campana” fa sì che o stesso debba essere considerato privato in misura considerevole dei propri elementi nutritivi e comunque trattato in modo da variarne la sua composizione naturale; di qui la configurabilità della contravvenzione di cui all’ art. 5, lett. a) Legge 30 aprile 1962, n. 283. (2) (1) In dottrina, F. Daniela, “Univocità degli atti di frode nell'esercizio del commercio”, in GI, 2001, VIII-IX, 1685. Secondo Cass., Sez. Un., 21 dicembre 2000, Morici, in RP 2001, 158, per la configurabilità del tentativo di frode in commercio è sufficiente che la merce sia esposta per la vendita, indipendentemente da qualsiasi rapporto con un cliente determinato. Sul punto si segnala un contrasto giurisprudenziale. Con decisione assunta nella pubblica udienza del 31 gennaio 2002, n. 212 e depositata il 12 marzo 2002 n. 10145, Della Lena F., rv. 221461, la sez. III penale della Suprema Corte ha affermato questo principio di diritto: "La detenzione all'interno di un ristorante di alimenti surgelati destinati alla somministrazione alla clientela, senza che sulla lista delle vivande messa a disposizione degli avventori sia indicata la detta qualità, configura l'ipotesi di reato di cui agli artt. 56 e 515 c.p., atteso che tale comportamento e' univocamente rilevatore della volontà dell'esercente di

Page 11: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

11

consegnare ai clienti una cosa diversa da quella pattuita" Tale principio si pone in contrasto con quanto in precedenza affermato da sez. III nella udienza del 1 ottobre 1999, deposito 26 ottobre 1999 n. 12204, rv. 215082, Perin, per la quale "La detenzione in un ristorante di cibi surgelati o congelati, senza che di tale stato di conservazione sia fatta menzione nella lista delle vivande destinate ai clienti, non corredata da altri elementi circostanziali, non integra gli estremi del tentativo di frode nell'esercizio del commercio, atteso che occorre che siano individuati e specificati gli atti diretti in modo non equivoco a consegnare o servire concretamente ai clienti cose diverse da quelle dichiarate nella lista dei cibi". Su questa linea si colloca altresì sez. III, 9 aprile 1998, ud. 25 febbraio 1998, Ferreri, rv. 210702, per la quale "La semplice detenzione in un ristorante di prodotti alimentari congelati o surgelati, non corredata da altri elementi circostanziali, non integra, sotto l'ipotesi del tentativo, il delitto di cui all'art. 515 cod. pen., poiché difetta il requisito della univocità degli atti, mancando un inizio di contrattazione con un acquirente determinato". In proposito va osservato come le Sezioni Unite penali siano di recente intervenute su ricorso rimesso dalla Sezione III con ordinanza 29 marzo 2000 n. 1247, che evidenziava il contrasto nella giurisprudenza di legittimità circa la idoneità della semplice detenzione di alimenti per la vendita ad integrare il tentativo di frode in commercio a norma degli artt. 56 e 515 c.p. Più in particolare si evidenziava come fosse controverso se ai fini di tale configurabilita' sia sufficiente la sola messa in commercio della merce, ovvero sia necessario un quid pluris, quale l'instaurarsi di un rapporto con il cliente. In tale occasione le Sezioni Unite si sono limitate ad affermare che "Integra il tentativo di frode in commercio, poiché idonea e diretta in modo non equivoco alla vendita della merce ai potenziali acquirenti, la condotta dell'esercente che esponga sui banchi di vendita o comunque offra al pubblico prodotti alimentari scaduti sulle cui confezioni sia stata alterata o sostituita l'originale indicazione del termine minimo di conservazione" (Sez. Un., 25 ottobre 2000, dep. 21 dicembre 2000 n. 28, Morici, rv. 217295). Sul tema specifico rimane così in parte irrisolto l’annoso contrasto giurisprudenziale, già profilatosi con la decisione del 1980, con la quale, la Corte aveva ritenuto che il fatto di detenere in un ristorante prodotti surgelati non indicati come tali nella lista menù del giorno costituisse tentativo di frode in commercio (nel caso al fine di escludere che il fatto integrasse la diversa ipotesi delittuosa di vendita di sostanze alimentari non genuine come genuine: sez. VI, 24 luglio 1980 n. 9238, D'Anna, rv. 145904). Orientamento confermato, senza particolari integrazioni, da sez. VI, 22 novembre 1983 n. 9942, Vivenzio, rv. 161328, sez. VI, 24 aprile 1985 n. 3976, Carrus, rv. 168885, Sez. VI, 28 maggio 1985 n. 5480, Sarti, rv. 169531, sez. VI, 20 giugno 1985 n. 6204, Travascia, rv. 169843, Sez. VI, 26 settembre 1986 n. 9948, Bertocchi, rv. 173826, Sez. VI, 10 febbraio 1990 n. 1829, Albano, rv. 183273; e ribadito

successivamente con la precisazione della non necessità della instaurazione di un rapporto concreto con il cliente in quanto cio' assumerebbe rilevanza ai fini del delitto consumato e non già del tentativo, non rilevando la distinzione tra atti preparatori ed atti esecutivi, ma l'idoneità degli atti compiuti e la loro univocità (Sez. VI 6 ottobre 1984 n. 8260, Andrielli, rv. 165989, conf. Sez. VI, 15 ottobre 1986 n. 11021, Capalbo, rv. 173991). Con la ulteriore specificazione, atteso che il bene giuridico tutelato dalla disposizione in esame e' l'onesto svolgimento del commercio e non la protezione degli interessi patrimoniali dei singoli acquirenti, che a nulla rileverebbe la mancata identificazione di determinati soggetti passivi e con la conseguenza che il reato, sotto la forma del tentativo, si realizzerebbe anche in assenza di clienti al momento dell'accertamento (Sez. VI, 18 maggio 1984 n. 4663, Casavecchia). Nella giurisprudenza più recente, una volta riaffermato che il delitto previsto dall'art. 515 c.p. si consuma con la consegna materiale della merce all'acquirente, e che pertanto la vendita di prodotti alimentari congelati o surgelati a clienti non resi edotti del metodo di conservazione del cibo configura quella consegna di aliud pro alio integrante il reato di frode in commercio, si e' precisato che la semplice detenzione di cibi della specie in esame, se non corredata da altri elementi circostanziali, non integri, sotto l'ipotesi del tentativo, il delitto de quo. Ciò in quanto difetterebbe il requisito della univocità degli atti in assenza di un inizio di contrattazione con un acquirente determinato (Sez. III, 9 aprile 1998 n. 4291, Ferreri, rv. 210702, citata), inizio di pattuizione che Sez. III, 3 agosto 1998 n. 2038, P.M. in proc. Zannotti, rv. 211807, individua allorché la proposta contrattuale dell'esercente sia stata portata all'attenzione dell'avventore con la effettiva consegna del menù dichiarante merce diversa da quella che, in caso di accettazione, sarebbe stata servita. In aderenza a tale filone giurisprudenziale si e' inoltre specificato che perché possa configurarsi il tentativo di frode in commercio occorre individuare e specificare gli atti, ascrivibili quale condotta all'imputato, diretti in modo non equivoco a consegnare o servire concretamente al cliente cose diverse da quelle dichiarate (Cass. Sez. III 26 ottobre 1999 n. 12204, Perin, rv. 215082, cit.), v. Relazione n. 45 del 26 giugno 2002 del C.E.D. Corte di Cassazione, a cura di A. Montagna. Contrasto che risulta acuito da due recenti decisioni. Secondo Cass., sez. III, 8 novembre 2002, P.g. in c. Silvestro, in DPP 2003, 697, la mera detenzione da parte del ristoratore di prodotti surgelati, non indicati nel menù, non integra un fatto univocamente diretto e ancora troppo distante anche dalla sola presa di contatto con un eventuale cliente; contra, Cass., sez. III, 24 marzo 2003, Papagni, in DPP 2003, 697 (2) Tribunale di Salerno, (est. Carrato), 20 dicembre 1999, sentenza n. 2604, in RP 2000, 799, secondo cui “Il cattivo stato di conservazione di prodotti alimentari integra la violazione penale di cui all’art. 5, lett. b), L. n. 283/62, non rilevando la circostanza che i prodotti medesimi non vengano a trovarsi direttamente nel luogo destinato alla vendita o, comunque, alla

Page 12: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

12

commercializzazione.” (Nella fattispecie si accertava la penale responsabilità del titolare di un ristorante per avere conservato, presso un fatiscente locale adibito a deposito, dei prodotti alimentari di vario genere in un frigo congelatore a pozzetto in stato di ossidazione ed in condizione di promiscuità, al fine di utilizzarli per l’attività di ristorazione del locale pubblico annesso). Produrre e porre in commercio mozzarella di bufala fatta non con il solo latte di tale animale, come si richiede per l'uso della detta denominazione tipica riconosciuta, ma anche con latte di vacca, integra gli estremi del delitto di cui all'art. 9 l. 10 aprile 1954 n. 125, che concorre, per la diversità dei beni giuridici tutelati dalle due norme, con la contravvenzione prevista dall'art. 5 lett. a) l. 30 aprile 1962 n. 283, che mira ad evitare che nella preparazione delle sostanze alimentari i relativi elementi nutritivi siano mescolati a sostanze di qualità inferiore, cfr. Cass., sez. III, 12 giugno 1998, n. 8785, Iemma, in CP 2000, 733. Per Cass., sez. III, 11 novembre 1999, n. 14448, D'Aponte, in CP 2001, 615, in materia alimentare va escluso il concorso materiale delle norme, e quindi il concorso formale dei reati, fra il reato di cui all'art. 9 l. 10 aprile 1954 n. 125 (vendita con una denominazione tipica di formaggio che non abbia i requisiti per l'uso di tale denominazione) e quello di cui all'art. 515 c.p. (vendita di cosa diversa per qualità a quella dichiarata). In tale caso il delitto di frode commerciale resta assorbito nel più grave delitto di cui all'art. 9 l. n. 125 del 1954 (depenalizzato dal d.lg. 30 dicembre 1999, n. 507). In senso conforme, Pret. Crema, 22 gennaio 1999, Langa, in FI 1999, II, 737. Contra, Pret. Salerno, 23 gennaio 1984, Scarmigli, secondo cui non sussiste rapporto di specialità fra i reati previsti dagli art. 515 c. p., 9 l. 10 aprile 1954, n. 125 e 5 lett. g), l. 30 aprile 1962, n. 283, che pertanto, possono fra loro concorrere (fattispecie in tema di vendita di formaggio con caratteristiche non rispondenti ai requisiti previsti dalla legge). (P.C.)

@ Tribunale di Salerno, sez. riesame (Pres. Pellegrino; est. Casale), 1 ottobre 2003, ordinanza. Delitti contro la persona – Sequestro di persona – Limitazione della libertà fisica e di agire – Necessità – Soggezione psicologica ed economica – Insufficienza ai fini della configurabilità del reato. (art. 605 c.p.) Ai fini della realizzazione del reato di cui all’art. 605 c.p., non è sufficiente che la condotta dell’indagato si limiti ad un complesso di comportamenti minacciosi e violenti che comprimano la libertà di scelta di luoghi e di persone da frequentare, con conseguente stato di soggezione psicologica ed economica della vittima. Invero, il bene giuridico tutelato dalla norma citata è la libertà personale intesa come libertà fisica di agire e di movimento nello spazio secondo la libera scelta di ciascuno: pertanto laddove le minacce, le violenze ed i controlli non siano funzionali a limitare specificamente tale diritto, deve escludersi la ricorrenza del reato contestato (nella vicenda in esame il Tribunale ha ritenuto che le minacce fossero volte ad indurre la

vittima alla prostituzione e non anche a limitarne la libertà di movimento).(*)

(*) Massima a cura dell’avv. Valentina Restaino. @ Tribunale di Salerno, sez. III (Pres. Pentagallo; est. Bellantoni), ud. 4 marzo 2003, sentenza n. 419. Delitti contro la libertà personale – Sequestro di persona – Concorso con il delitto di rapina – Esclusione – Ragioni. (artt. 605, 628 c.p.) Il sequestro di persona costituisce una delle modalità di realizzazione della rapina aggravata, quando la vittima è privata della libertà per il tempo strettamente necessario all’esecuzione della rapina, mentre sussiste la fattispecie di cui all’art. 605 c.p. quando la privazione della libertà della vittima si protrae oltre il tempo strettamente necessario alla consumazione della rapina. (Nel caso in esame i rapinatori invitavano le persone presenti a recarsi presso il bagno della banca al solo scopo di portare a termine la rapina) (1) (1) Cass., sez. II, 27 luglio 1990, n. 10788; Cass., sez. II, 7 maggio 1988, n. 5550; Cass., sez. I, 15 aprile 1981, n. 3380 (richiamate nel corpo della motivazione). Più recentemente, Cass., sez. VI, 20 gennaio 2000, n. 321, Ekvelum, in CP 2001, 887; Cass., sez. II, 15 giugno 2000, n. 9387, Pranteddu, CP 2001, 2101; Cass., sez. I, 10 maggio 2001, n. 29432, Natale, in CP 2002, 2122.

@ Tribunale di Salerno, sez. III (Pres. Pentagallo; est. Bellantoni), ud. 28 febbraio 2003, sentenza n. 402. Delitti contro il patrimonio – Estorsione – Minaccia - Criteri di valutazione. Delitti contro il patrimonio – Estorsione – Profitto ingiusto ed altrui danno - Definizione. (art. 629 c.p.) La minaccia quale elemento costitutivo del delitto di estorsione non richiede necessariamente che la coartazione avvenga mediante la prospettazione di un danno irreparabile alle persone ovvero alle cose tale da non lasciare al soggetto passivo libertà di scelta, essendo sufficiente la rappresentazione di un male che, in relazione alle circostanze che l’accompagnano, sia tale da far sorgere nella vittima il timore di un concreto pregiudizio: essa può essere anche indiretta ovvero larvata, a condizione che, in relazione alle condizioni ambientali in cui essa è maturata, la persona offesa sia costretta a subire la volontà del soggetto agente. (1) Per la configurabilità del delitto di estorsione, profitto ingiusto è quello fondato su una pretesa non tutelata dall’ordinamento giuridico, né in via diretta né in via indiretta, concretandosi in un vantaggio che non possa giuridicamente dirsi dovuto all’agente, mentre il danno consiste in una qualsiasi diminuzione patrimoniale subita dall’offeso. (2)

Page 13: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

13

(1) La Corte di Cassazione ha ripetutamente affermato che ai fini della configurabilità del delitto di estorsione, sono indifferenti le forme e modalità della minaccia, potendo quest’ultima essere manifesta o implicita, palese o larvata, diretta o indiretta, reale o figurata, determinata o indeterminata, purché comunque idonea, in relazione alle circostanze concrete, ad incutere timore ed a coartare la volontà del soggetto passivo (Cass., sez. III, 10 aprile 2001, PM in proc. Massaro [rv. 219866]; Cass., sez. II, 15 maggio 1991, Rizzi, in RP 1992, 369; Cass., sez. II, 19 novembre 1985, Fichera, in CP 1987, 547; Cass., sez. II, 8 giugno 1988, Ruggieri, in CP 1989, 1464). La connotazione di una condotta come minacciosa e la sua idoneità ad integrare l’elemento costitutivo del delitto di estorsione debbono essere valutate in relazione ad elementi quali la personalità sopraffattrice dell’agente, le circostanze ambientali in cui lo stesso opera, l’ingiustizia della pretesa, le particolari condizioni soggettive della vittima, vista come persona di normale impressionabilità, a nulla rilevando che si verifichi un’effettiva intimidazione della parte lesa (Cass., sez. VI, 26 gennaio 1999, Savian, in CP 2000, 1957; Cass., sez. II, 12 novembre 1982, Rossetti [rv. 159512]). Ad avviso di parte della giurisprudenza, per la sussistenza del delitto di estorsione non occorre che la volontà della vittima, per effetto della minaccia, sia completamente esclusa, essendo sufficiente che, residuando la possibilità di scegliere fra l’accettare le richieste dell’agente o subire il male ingiusto minacciato, la possibilità di autodeterminazione sia condizionata dal timore di subire il pregiudizio prospettato. Qualora la minaccia si risolvesse in “un costringimento psichico assoluto, ossia in un annullamento di qualsiasi possibilità di scelta, ed il risultato dell’agente fosse il conseguimento di un bene mobile, si configurerebbe un vero e proprio “impossessamento” e, conseguentemente, il diverso reato di rapina”: Cass., sez. II, 17 ottobre 1995, Fierro, in GP 1996, II, 504. (2) La dottrina e la giurisprudenza concordano nel ritenere che il profitto rilevante ai fini dell’integrazione della fattispecie di estorsione può individuarsi in qualunque utilità, anche di natura non patrimoniale, diretta o indiretta, temporanea o definitiva: Conti, Estorsione, in Enciclopedia del Diritto, Milano, 1966, 999; Mantovani, Estorsione, in Enciclopedia Giuridica Treccani, Roma, XIII, 1988, 5; Cass., sez. I, 27 ottobre 1997, Carelli [rv. 208938]; Cass., sez. II, 20 febbraio 1996, Palermo [rv. 206202]. In passato, la Suprema Corte si è spinta a sostenere che il profitto ingiusto può consistere “in qualsiasi situazione abbia rilevanza per il diritto”, e quindi anche nel caso di ingresso gratuito in un locale pubblico per consuetudine di libero accesso ad ora tarda: Cass., sez.II, 19 ottobre 1982, Buttiglieri, in RP, 1983, 910. Concordano ancora dottrina e giurisprudenza allorquando sostengono che il danno deve avere necessariamente contenuto patrimoniale: Antolisei, Manuale di diritto penale, parte speciale, vol. I, Milano, 1994, 362; Fiandaca – Musco, Diritto penale, parte speciale, vol. II - tomo II, Bologna, 1992, 122; Cass.,

sez. VI, 5 febbraio 2001, Brancaccio [rv. 218433]; Cass., sez. I, 27 ottobre 1997, Carelli [208938]; Cass., sez. I, 22 aprile 1993, Pugliesi, in CP 1994, 2072. In applicazione del principio de quo è stata esclusa la realizzazione di una ipotesi estorsiva nel caso di costrizione della persona offesa dal reato di sfruttamento della prostituzione a ritrattare le accuse precedentemente mosse: Cass., sez. I, 29 gennaio 1973, Nazionale [rv. 124228]. (L.A.M.F.)

@ Tribunale di Salerno, sez. III (Pres. Pentagallo; est. Bellantoni), ud. 28 febbraio 2003, sentenza n. 402. Delitti contro il patrimonio – Truffa – Mezzo fraudolento – Nuda menzogna ovvero silenzio – Sussistenza del reato. (art. 640 c.p.)

Elemento costitutivo del delitto di truffa è il mezzo fraudolento, che si concreta in qualsiasi condotta che, generando l’errore nel soggetto passivo, consenta la realizzazione di un ingiusto profitto con altrui danno: per l’integrazione della fattispecie non è richiesta una particolare o subdola messinscena, essendo sufficiente qualsiasi simulazione ovvero dissimulazione – e dunque anche la nuda menzogna od il silenzio – finalizzata all’induzione in errore. (1) (1) Il provvedimento in commento aderisce all’orientamento giurisprudenziale che tende ad ampliare l’area di operatività del delitto di truffa, attribuendo rilevanza alla semplice menzogna, anche se sprovvista dei connotati esteriori dell’ “artifizio” e del “raggiro”: Cass., sez. VI, 10 aprile 2000, Salerno [rv. 216711]; Cass., sez. II, 13 novembre 1997, Fascini [210575]; Cass., sez. VI, 3 aprile 1998, Perina [rv. 210613]; Cass., sez. II, 18 dicembre 1995, P.M. in proc. Capra [204030]. Autorevole dottrina ha osservato che “tale interpretazione non è del tutto aderente alla lettera della legge, ed è anche indiscutibile che lascia un notevole margine al potere discrezionale del giudice” (Antolisei, Manuale di diritto penale, parte speciale, vol. I, Milano, 1994, 316), pervenendosi ad un inammissibile svuotamento dello schema legale della truffa (Cortese, La struttura della truffa, Napoli, 1968, 135). La giurisprudenza più rispettosa dei limiti entro i quali il Legislatore ha configurato il delitto di truffa, ha escluso la sufficienza di “un qualsiasi mendace comportamento o alterazione della realtà da parte dell’agente, (evidenziando la necessità della, n.d.r.) sussistenza di un quid pluris e cioè di un’ulteriore attività, di un particolare accorgimento o di una particolare astuzia, idonei ad eludere le comuni e normali possibilità di controllo da parte del (soggetto passivo, n.d.r.)”: Cass., sez. II, 16 marzo 1989, Di Palo, in RP 1990, 511; Cass., sez. V, 23 gennaio 1984, Ferrara [rv. 163721]. Nello stesso senso è orientata quella parte della dottrina che attribuisce rilievo alla menzogna a condizione che la stessa sia accompagnata da una condotta fraudolenta: Marini, Truffa (dir. pen.), Novissimo Digesto Italiano, XIX, 1973, 873; Sammarco, La truffa contrattuale, Milano, 1988, 190. Ritengono necessario che il mendacio denoti un

Page 14: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

14

apprezzabile grado di pericolosità: Fiandaca – Musco, Diritto penale, parte speciale, vol. II - tomo II, Bologna, 1992, 139,. (L.A.M.F.)

@ Tribunale di Salerno, sez. III (Pres. Pentagallo; est. Bellantoni), ud. 28 febbraio 2003, sentenza n. 402. Delitti contro il patrimonio – Usura – Stato di bisogno - Criteri di valutazione. Delitti contro il patrimonio – Usura – Elemento soggettivo. (art. 644 c.p.) Ai fini dell’integrazione del delitto di usura – nella formulazione vigente prima dell’entrata in vigore della Legge 7.3.1996 n. 108 –, lo “stato di bisogno” non deve essere inteso come una condizione di necessità che escluda del tutto la libertà di scelta del soggetto passivo, ma come un impellente assillo che induca quest’ultimo a ricorrere al credito e ad accettare condizioni usurarie: la circostanza che la situazione di bisogno derivi da cause incolpevoli ovvero da colpe inescusabili della parte lesa deve considerarsi irrilevante rispetto al dettato legislativo. (1) Il dolo necessario per l’integrazione del delitto di usura è costituito dalla consapevolezza dello stato di bisogno in cui versa il datore o promettente degli interessi usurari e dalla parallela volontà di trarre profitto da tale particolare situazione. (2) (1) Giurisprudenza di legittimità costante. Secondo Cass., sez. III, 18 febbraio 1988, Mascioli, in CP 1989, 836, lo stato di bisogno si identifica in una situazione che elimina o comunque limita la volontà del soggetto passivo, il quale si determina a contrattare in una condizione di inferiorità psichica tale da viziarne il consenso. Da tali premesse è stata tratta la conclusione della non configurabilità del delitto di usura nel caso di momentanea difficoltà finanziaria tale da non incidere sulla libertà negoziale del soggetto, come nell’ipotesi in cui si preferisca il prestito privato a quello bancario, ovvero si persegua la finalità di proficui investimenti produttivi, del tutto svincolati da indifferibili esigenze. Nello stesso senso, Cass., sez. II, 23 gennaio 1997, Settineri, in CP 1998, 1121; Cass., sez. II, 24 aprile 1990, Di Rocco, in RP 1991, 817; Cass., sez. II, 22 marzo 1989, Pastore [rv. 181750]. Lo stato di bisogno può essere indifferentemente generato da pericoli, sventure ed altre cause incolpevoli ovvero da vizi, prodigalità od altre colpe inescusabili, in quanto l’art. 644 cod. pen. persegue la finalità di punire l’usuraio quale persona socialmente nociva, la quale non cessa di essere tale quale che sia la natura o la causa del bisogno del debitore: Cass., sez. III, 12 febbraio 1982, Chiari, in GP 1983, II, 133. In senso conforme, Cass., sez. II, 5 maggio 1993, Abrate, in GI 1994, II, 564; Cass., sez. II, 3 marzo 1997, Bizzarro, in CP 1998, 2622.

(2) Il dolo del delitto di usura (cd. dolo generico) presuppone che l’agente si renda conto dello stato di bisogno (e, quindi, di minorata forza contrattuale) in cui versa il soggetto passivo, nonché della natura usuraria degli interessi o degli altri vantaggi che

percepisce, e richieda i predetti interessi ovvero vantaggi quale corrispettivo di una prestazione di danaro o di altra cosa mobile. In questo senso, Cass., sez. II, 21 giugno 1983, Gaiotto, in CP, 1984, 1126; Cass., sez. II, 18 maggio 1978, Dell’Amandola, in GP 1979, II, 368. In dottrina, D’Ambrosio, Delitti contro il patrimonio, in Codice Penale, in Giurisprudenza sistematica di diritto penale diretta da Bricola e Zagrebelsky, parte speciale, II, Torino, 1984, 1352; Luccioli, “Brevi note in tema di usura”, in Cass. Pen. Mass., 1979, 1531. La Suprema Corte ha escluso la punibilità del delitto de quo a titolo di dolo eventuale, rilevando che il dolo indiretto “postula una pluralità di eventi (conseguenti alla azione dell’agente e da questi voluti in via alternativa o sussidiaria nell’attuazione del suo proposito criminoso) che non si verifica nel reato di usura, in cui vi è l’attingimento dell’unico evento di ottenere la corresponsione o la promessa di interessi o vantaggi usurari, in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra cosa mobile”: Cass., sez. II, 21 giugno 1983, Gaiotto, cit. In tema, si veda pure Grosso, Usura (dir. pen.), in Enciclopedia del Diritto, Milano, 1992, 1146. (L.A.M.F.)

@ Tribunale di Salerno, sez. dist. Eboli (G.M. Gibboni), ud. 17 settembre 2003, sentenza n. 456. Delitti contro il patrimonio – Ricettazione – Dolo - Criteri di accertamento. (art. 648 c.p.) E’ possibile desumere la conoscenza della provenienza illecita di un assegno bancario dal comportamento dell’imputato successivo alla ricezione dello stesso, che si concretizza in un atteggiamento di assoluta non curanza e indifferenza nei confronti delle contestazioni che gli sono state mosse. (1) (1) Decisione conforme a quanto espresso da Cass., sez. II, 27 febbraio 1997, n. 2436, Savic, CP 1998, 827, “Ai fini della configurabilità del reato di ricettazione, la prova dell'elemento soggettivo può essere raggiunta anche sulla base dell'omessa - o non attendibile - indicazione della provenienza della cosa ricevuta, la quale è sicuramente rivelatrice della volontà di occultamento, logicamente spiegabile con un acquisto in mala fede.” Analogamente, Sez. II, 19 settembre 2000, Di Fatta, rv 216778; Cass., sez. fer., 24 agosto 1993, Costanzo, CP 1994, 2705; Cass. , sez. II, 5 luglio 1991, Quadrelli, RP 1992, 751 “Ai fini del reato di ricettazione, la mancata giustificazione del possesso di una cosa proveniente da delitto costituisce prova della conoscenza della sua illecita provenienza.”; Cass., sez. II, 17 aprile 1991, Palazzolo; Cass., sez. II, 29 ottobre 1990, Casarosa, RP 1991, 1070; Cass., 7 marzo 1989, Cantrò, RP 1991, 106; Pretore Eboli, 7 febbraio 1991, Corrado, RP 1992, 61; GM 1992, 409. In senso contrario, Cass., sez. VI, 9 luglio 1993, Bernardelli, CP 1995, 1856, “In materia di ricettazione e di incauto acquisto, il mero rifiuto dell'imputato di rispondere circa la provenienza della res si concreta in un comportamento non esente da incertezze ed

Page 15: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

15

ambiguità, essendo insuscettibile - se interpretato per giungere a conclusioni in senso favorevole all'imputato - anche a segnare il discrimine tra sospetto e certezza quanto alla provenienza delittuosa della cosa e cioè tra l'elemento soggettivo della contravvenzione di cui all'art. 712 c.p. e quello del delitto di ricettazione. (Fattispecie in cui la Corte suprema ha annullato la sentenza di merito che, dopo aver dato atto della provenienza delittuosa della cosa perché oggetto di furto sicuramente avvenuto, ha ritenuto di poter desumere la consapevolezza della provenienza delittuosa della cosa stessa da rifiuto dell'imputato di fornire precisazioni in ordine alle circostanze in cui aveva conseguito il possesso. In tal modo, ha osservato la Corte, il giudice di merito ha contravvenuto, non soltanto al principio nemo tenetur se detegere sancito dall'art. 64 comma 3 c.p.p., ma anche all'obbligo di adeguata e logica motivazione).” Secondo Tribunale Trento, 6 maggio 2002, in GM 2000, 342, “Non è punibile a titolo di ricettazione la condotta di chi acquisti, riceva od occulti monete false, sigilli falsificati o cose riproducenti marchi contraffatti, trattandosi di beni prodotti dal reato, e non provento dello stesso. Infatti, nel delitto di ricettazione, le condotte del reato presupposto devono avere caratteristiche tali per cui la titolarità o la materiale disponibilità del bene risulti trasferita illecitamente da un soggetto ad un altro (es. furto, appropriazione indebita, concussione, ecc...), il bene, cioè, deve essere il provento di un trasferimento illecito.” (P.C.)

@ Tribunale di Salerno, sez. II (G.M. Matarazzo), ud. 5 novembre 2002, sentenza n. 1810. Contravvenzioni– Rifiuto di indicazioni sulla propria identità personale – Rifiuto di consegnare un documento di riconoscimento – Esclusione del reato. (art. 651 c.p.) La contravvenzione di cui all’art. 651 cod. pen. punisce il rifiuto di fornire indicazioni sulla propria identità personale, sul proprio stato o su altre qualità personali, ma non anche il rifiuto di consegnare un documento di riconoscimento. (1) (1) La Suprema Corte ha costantemente sostenuto che “il rifiuto di consegnare il documento di riconoscimento al pubblico ufficiale integra gli estremi del reato di cui all'art. 221 del Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza e 294 del relativo regolamento e non il reato di cui all’art. 651 cod. pen.”: ex multis, Cass., sez. VI, 3 maggio 1993, Scaduto [rv. 195412]; in dottrina, De Vero, “Rifiuto di indicazioni sulla propria identità personale”, in Enciclopedia del Diritto, Milano, 1989, 813. Essendo diversi l’elemento materiale e l’oggetto giuridico tutelato dalle norme incriminatici summenzionate, nel caso in cui un soggetto si rifiuti di fornire indicazioni sulla propria identità personale e di esibire un documento di riconoscimento, la contravvenzione punita dall’art. 651 cod. pen. concorrerà con quella

preveduta dal Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza (Cass., sez. VI, 13 aprile 1989, Poma, in RP 1990, 878). Si è chiarito che l’obbligo di fornire le richieste indicazioni sulla propria identità personale può essere assolto anche mediante esibizione di un documento contenente i dati all’uopo necessari, sempre che lo stesso venga lasciato nella disponibilità del pubblico ufficiale richiedente per il tempo necessario alla identificazione. Risponderà, pertanto, del reato di rifiuto di fornire le proprie generalità il soggetto che, pur avendo esibito un proprio documento di identità, se ne riappropri prima che il pubblico ufficiale abbia avuto il tempo di procedere alla identificazione: Cass., sez. I, 18 giugno 1997, Bernacchia [rv. 208358]. (L.A.M.F.)

@ Tribunale di Salerno, sez. II (G.M. Sessa), ud. 21 novembre 2002, sentenza n. 1954. Contravvenzioni – Detenzione abusiva di armi – Detenzione di balestra medioevale – Insussistenza – Ragioni. (art. 697 c.p.). In tema di armi deve escludersi che la balestra possa qualificarsi tra le armi proprie, per la ragione che tale strumento, di difficile porto e ardua maneggevolezza, non ha più da tempo, quale destinazione naturale, quella di recare offesa alla persone, ma piuttosto funzioni ornamentali, di collezione o, talora, sportive. Ne consegue che non vi è obbligo di denuncia, e il porto fuori dall’abitazione o dalle sue pertinenze, al pari di quello delle relative frecce, se ingiustificato è punito ai sensi dell’art. 4 l. 18 aprile 1975, n. 110 (Nel caso di specie, la balestra fu rinvenuta, a seguito di perquisizione, all’interno dell’abitazione dell’imputato). (1) (1) Decisione che si adegua al principio di cui alla sentenza Cass., sez. I, 11 febbraio 1997, Bassetti, in CP 1998, 923 (Nell'affermare tale principio la Suprema Corte ha altresì precisato che il Ministero dell'Interno, con circolare n. 559 in data 16 dicembre 1995, ha esplicitamente riconosciuto che "le balestre moderne di qualsiasi dimensione ed i relativi dardi vanno considerati nel novero delle armi improprie e sono sottoposte alla disciplina di cui agli articoli 4, comma secondo della legge n. 110/75 e 45, comma secondo del regolamento di esecuzione al testo unico delle leggi di pubblica sicurezza”). Tale indirizzo trova conferma in Cass., sez. I, 18 novembre 1996, Messina, in GI 1998, 552, secondo cui: “Il criterio distintivo tra armi proprie ed improprie è rappresentato dalla destinazione dei singoli strumenti in un determinato ambiente sociale, alla stregua delle usanze, delle esperienze e dei costumi affermati in un certo momento storico. La balestra non può essere classificata tra le armi proprie, ai sensi dell'art. 699 c.p., ma tra quelle improprie, secondo quanto disposto dall'art. 4 l. 18 aprile 1975 n. 110, poiché l'impiego di tale oggetto è limitato a manifestazioni folcloristiche e ad attività sportive”, e in Cass., sez. I, 30 maggio 1994, Moro,

Page 16: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

16

RP., 1995, 1049. A partire da tale ultima decisione è stato superato il precedente orientamento che riteneva configurabile la contravvenzione di cui all’art. 699 c.p. nel porto abusivo di una balestra, cfr. Cass., sez. I, 13 ottobre 1994, Saverino, CP, 1995, 3498; Cass., sez. I, 3 novembre 1995, Dotto, in CP 1996, 3091; Cass., sez. I, 15 novembre 1989, Cenacchi, in CP 1991, 289; Cass., sez. I, 5 maggio 1989, Leccese, in CP 1990, 1568. Analogamente, per l’esclusione della natura di arma propria con riferimento ad un arco sportivo con il relativo armamento di frecce, Pretore. Varese 13 febbraio 1993, FI, 1994, II, 326. (P.C.)

Page 17: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

17

PROCEDURA PENALE

@ Tribunale di Salerno, sez. I (Pres. ed est. Boccassini), ud. 14 luglio 2003, sentenza n. 1173. Procedimento penale - Procedimenti connessi - Determinazione della competenza territoriale - Plurime imputazioni di bancarotta fraudolenta - Competenza del giudice del procedimento in cui sia contestata l'aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità - Ragioni. (artt. 4 e 16 c.p.p.; art. 219, R.D. 16 marzo 1942, n. 267.) Poiché l'art. 16 del codice di rito prescrive che, nell'ipotesi di procedimenti connessi rispetto ai quali più giudici siano ugualmente competenti per materia, per la determinazione della competenza territoriale occorre individuare il luogo di consumazione del reato più grave, che dispiega forza attrattiva nei confronti di tutti gli altri reati. In presenza di plurime imputazioni di bancarotta fraudolenta, la contestazione della circostanza aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità in un procedimento comporta la competenza territoriale del giudice di quest'ultimo, e tanto in applicazione del criterio di cui all'art. 4 c.p.p. che prevede la rilevanza, ai fini della determinazione della competenza, esclusivamente delle circostanze aggravanti speciali o ad effetto speciale (quale deve ritenersi quella suddetta, prevista dell'art. 219, co. 1, L. Fall.). (1) (1) Ai sensi dell'art. 219, co. 1., L. Fall, nel caso in cui i fatti previsti dagli artt. 216, 217 e 218 hanno cagionato un danno patrimoniale di rilevante gravità, le pene da essi stabilite sono aumentate fino alla metà. Sul concetto di gravità del danno di cui all'art. 219 L. Fall. cit, la giurisprudenza di legittimità appare oscillante. Per Cass., sez. V, 18 giugno 1997, n. 7825 (in Rep. Utet 2001) tale concetto "scaturisce dall'intero comportamento commissivo ed omissivo del fallito, ed il danno patrimoniale deve essere valutato con riferimento alla entità del passivo, avuto riguardo alle dimensioni dell'impresa, alla natura delle operazioni, nonché al periodo di tempo nel quale il dissesto si è manifestato". Diversamente invece si pone Cass., sez. V, 3 giugno 1998, n. 8037 (in Rep. Utet, cit.), secondo cui "l'entità obiettiva del danno provocato dai fatti configuranti bancarotta patrimoniale va commisurata al valore complessivo dei beni che sono stati sottratti all'esecuzione concorsuale indipendentemente dalla relazione all'importo globale del passivo". Il danno patrimoniale di rilevante gravità - che nei reati contro il patrimonio lato sensu intesi, costituisce una circostanza aggravante comune (art. 61 n. 7 c.p.) - nei reati fallimentari si atteggia come circostanza aggravante ad effetto speciale, comportando un aumento di pena superiore ad un terzo (arg. art. 63, co. 3, c.p.) e può influire, quindi, eccezionalmente sulla competenza. Su quest'ultimo punto, va infine osservato che il codice di procedura penale del 1930 stabiliva invece che, ai fini della competenza (art. 32), si dovesse tener conto di

tutte le circostanze aggravanti, fatta eccezione per la recidiva e per le circostanze prevedute dal n. 2 dell'art. 61 c.p.. Nessun rilievo, poi, avevano le circostanze attenuanti, "fatta eccezione per l'età" (arg. art. 32, cit.). (A.B)

@ Tribunale di Salerno, sez. III (G.M. Bellantoni), ud. 13 febbraio 2003, sentenza n. 301. Costituzione di parte civile – Privato danneggiato dalla falsa testimonianza – Ammissibilità. (artt. 74 e ss. c.p.p.) Il delitto di falsa testimonianza è un reato contro l’amministrazione della giustizia e, pertanto, parte offesa è innanzitutto lo Stato, senza poter escludere che potenziale danneggiato possa essere anche chi subisca gli effetti della falsa deposizione.(1) (1) Dalla lettura della norma in tema di falsa testimonianza sembrerebbe derivarne, come conseguenza logica, che titolare dell'interesse, e dunque parte offesa, sia lo Stato, e non anche il privato che si ritenga processualmente danneggiato dalla falsa testimonianza. Si è ricorso all'uso del condizionale, poiché in giurisprudenza esigue sono state le pronunce espresse in merito alla possibilità di configurare, quale persona offesa dal reato di falsa testimonianza, esclusivamente lo Stato o, congiuntamente, anche il soggetto privato. Si deve, però, riconoscere che l'orientamento giurisprudenziale maggioritario si è espresso sostanzialmente riconoscendo nel reato una fattispecie criminosa lesiva esclusivamente dell'interesse della collettività al corretto funzionamento della giustizia, relativamente al quale, l'interesse del privato - che, da un esito processuale sfavorevolmente condizionato dalla commissione del predetto reato, possa ricevere pregiudizio - assume rilievo solo riflesso e mediato, tale da non consentire che allo stesso l’attribuzione della qualità di persona offesa. In siffatta maniera si è espressa, in più di un'occasione, la giurisprudenza di legittimità – Cass., sez. V, 8 novembre 2000, n. 4627, in DG 2001, 12, 66; Cass., sez. VI, 28 settembre 1999, n. 2982, in CP 2000, 2639 - deducendo che la fattispecie criminosa descritta nell'art. 372 c.p. non contempla tipicamente altre vittime del reato cui attribuire una posizione qualificata rispetto a qualsiasi danneggiato dal reato, né potendo il privato che si ritiene leso dalla falsa testimonianza dirsi, sia pure implicitamente, titolare o contitolare dell'interesse preso in considerazione dalla stessa disposizione. Di uguale avviso sono anche altre pronunce, sempre di legittimità – Cass., sez. VI, 28 giugno 1999, n. 2432, in GI 2000, 2351; Cass., sez. VI, 8 maggio 1998, n. 1695, in CP 2000, 1671; Cass., sez. VI, 21 gennaio 1998, n. 223, in GP 1998, II, 649; Cass., sez. VI, 1 luglio 1997, n. 2853, in CP 1998, 3071; Cass., sez. VI, 18 febbraio 1997, n. 690; Cass., sez. VI, 21 marzo 1996, n. 1260, in CP 1997, 2049; Cass., sez. VI, 22 maggio 1995, n. 1998, in CP 1996, 3431 - mediante le quali è stato ribadito che la perpetrazione della falsa testimonianza

Page 18: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

18

lede sempre lo Stato e solo eventualmente può danneggiare le situazioni giuridiche di una serie indefinita di persone, non contemplate dalla descrizione normativa. Infatti è stato ormai ampiamente riconosciuto che titolare del bene giuridico immediatamente leso dai reati contro l'amministrazione della giustizia è lo Stato, al quale la Costituzione attribuisce la funzione giurisdizionale come indefettibile componente della sovranità e che a tale soggetto può aggiungersi un'altra vittima esclusivamente quando nella struttura della fattispecie astratta vi sia anche la descrizione dell'aggressione alla sfera giuridica di questa. In tal modo, la sua posizione viene così a differenziarsi da quella di qualsiasi ulteriore danneggiato, a causa della specificazione dell'interesse leso, direttamente operata dal legislatore, aspetto presente unicamente nei cosiddetti reati plurioffensivi - come accade per i delitti di calunnia ("incolpa di reato taluno che egli sa innocente"), di infedele patrocinio ("arreca nocumento agli interessi della parte da lui difesa"), di millantato credito del patrocinatore ("riceve o fa dare o promettere dal suo cliente"). Sempre la Suprema Corte ha rilevato che anche nell'ipotesi in cui il delitto in questione arrechi o possa arrecare danno ad altro soggetto, ciò non vale comunque a trasformare il reato de quo in plurioffensivo, in quanto, a parte il fatto che tale soggetto può anche mancare, per cui la sua tutela penale non muta affatto per la semplice ed eventuale presenza di un soggetto che abbia subito danni, costui assumerà la alternativa veste di danneggiato, sarà titolare di diritti e facoltà autonome, tutte cose, queste, che non consentono, però, di unificare le due figure, che rimangono ben distinte anche dal nuovo codice di rito. Così A. Frigerio, “Costituzione di parte civile: il reato di falsa testimonianza e l'identificazione del soggetto passivo”, in www.filodiritto.com.: “L'unica pronuncia dissonante dalle restanti, e, quindi, l'unica alla quale si potrebbe fare affidamento nel caso di specie, ha stabilito dal canto suo che "il delitto di falsa testimonianza è reato contro l'amministrazione della giustizia e pertanto parte offesa principale va considerato innanzi tutto lo Stato. La norma contenuta nell'art. 372 c.p. tutela però anche l'interesse del privato leso dalla falsa testimonianza. Ne consegue che il richiedente interessato riveste la posizione di persona offesa (secondaria) del reato in parola, tutelata come tale dalle garanzie procedimentali previste dagli art. 408-410 c.p.p., a cominciare dal diritto della notifica dell'avviso della richiesta di archiviazione del p.m." (Cass., sez. VI, 9 giugno 1997, n. 2285, in CP 1998, 1627). Dalla motivazione della medesima pronuncia si può, poi, evincere chiaramente che il delitto di falsa testimonianza è reato contro l'amministrazione della Giustizia e pertanto parte offesa principale va considerata innanzitutto lo Stato, ma la norma contenuta nell'art. 372 c.p. tutela anche, sempre secondo l'orientamento giurisprudenziale preso in considerazione, l'interesse del privato leso dalla falsa testimonianza.” (P.C.)

@ Tribunale di Salerno, sez. III (Pres. Pentagallo; est. Bellantoni), ud. 19 febbraio 2003, sentenza n. 332. Prove – Chiamata in correità – Criteri di valutazione. (art. 192 c.p.p.) Per assurgere al rango di prova, la cosiddetta chiamata in correità necessita di tre requisiti: la attendibilità intrinseca della chiamata, la credibilità del dichiarante e adeguati riscontri esterni. (1) (1) La giurisprudenza ha costantemente evidenziato la legittimità del rigoroso regime che deve presiedere alla valutazione delle chiamate in correità, dal momento che “la fonte presenta elementi di significativo collegamento alla persona dell’imputato ed ai fatti per i quali si procede … cosicché la sua posizione, risultando o comunque potendo essere coinvolta nel tessuto narrativo, finisce per assumere quei connotati di “interesse” che ontologicamente la distinguono dal carattere di “indifferenza” che invece qualifica il ruolo del testimone” (Cass., sez. I, 1 luglio 1999, Arrigo, in GP 2000, III, 390). Le Sez. Un., con sentenza del 21 ottobre 1992, Marino [rv. 192465], hanno interpretato l’art. 192, co. 3, cod. proc. pen. nel senso che l’utilizzazione della chiamata di correo come prova diretta della colpevolezza dell’accusato, è subordinata all’esistenza di tre requisiti: la credibilità del soggetto (il confitente e accusatore); l’attendibilità intrinseca delle dichiarazioni accusatorie; l’esistenza di riscontri esterni dell’affidabilità (definiti dalla norma “elementi di prova che”, valutati unitamente alle dichiarazioni del coimputato, “ne confermano l’affidabilità”). Il Supremo Collegio ha ritenuto che il citato art. 192, co. 3, contenga un’indicazione di metodo per la valutazione della chiamata di correo e dell'accertamento della attendibilità di essa che si articola: a) inizialmente in una verifica della credibilità del dichiarante (confitente e accusatore) in relazione alla sua personalità, al suo passato, alle sue condizioni socio economiche, ai rapporti con il chiamato in correità, alla genesi (remota o prossima) della sua risoluzione; b) in un secondo momento in un controllo logico dell’intrinseca consistenza delle dichiarazioni del chiamante in base alle loro caratteristiche specifiche, quali la verosimiglianza, la precisione, la coerenza, la costanza, la spontaneità, la completezza della narrazione dei fatti; c) da ultimo nell’esame e nella valutazione dei riscontri esterni delle dichiarazioni. La conclusione cui sono pervenute le Sez. Un. è che questo procedimento cognitivo-valutativo deve svolgersi “seguendo l'indicato ordine logico, perché non si può procedere ad una valutazione unitaria della chiamata in correità e degli altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilità se prima non si chiariscono gli eventuali dubbi che si addensino sulla chiamata in sé, indipendentemente dagli elementi di verifica esterni ad essa”. La successiva giurisprudenza della Corte (tra le tante, Cass., sez. I, 5 novembre 1998, Alletto [rv. 211876];

Page 19: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

19

Cass., sez. VI, 22 gennaio 1997, Dominante [rv. 208895]; Cass., sez. I, 3 aprile 1997 [rv. 207788]) si è costantemente attenuta a questa linea interpretativa, subordinando il giudizio positivo dell’attendibilità di una chiamata in correità alla verifica degli indicati requisiti (credibilità soggettiva, attendibilità intrinseca delle dichiarazioni ed esistenza di riscontri esterni) e ribadendo il principio che, verificata la credibilità intrinseca del chiamante, il giudice non può pervenire ad un giudizio definitivo di attendibilità della chiamata sulla base dei riscontri esterni, omisso medio, senza una precedente valutazione positiva della credibilità intrinseca delle dichiarazioni, pena l’indebolimento probatorio di queste ultime e la necessità di ulteriori elementi che confermino il riscontro stesso (Cass., sez. V, 3 settembre 1998, Balbo [rv. 211525]; Cass., sez. VI, 22 gennaio 1997, Dominante [rv. 208895]; Cass., sez. VI, 31 gennaio 1996, P.M. in proc. Alleruzzo [rv. 206592]). I riscontri esterni hanno la sola funzione di confermare l’attendibilità delle dichiarazioni accusatorie del propalatore, che acquistano, a seguito dell’accertamento positivo, il valore specifico di prova diretta ed autonoma della colpevolezza dell’accusato (ex plurimis Cass., sez. VI, 17 febbraio 1996, Cariboni [rv. 204439]; Cass., sez. VI, 22 gennaio 1997, Dominante [rv. 208898]): pertanto, non è necessario che abbiano un’autonoma rilevanza probatoria, né che attengano in modo diretto al thema probandum e possono consistere in elementi di prova di qualsiasi tipo e natura, sia descrittivi che logici, purché idonei a confermare l’attendibilità intrinseca della chiamata di correo (Cass., Sez. Un., 3 febbraio 1990, Belli [rv. 183411]). La giurisprudenza allo stato non si è espressa in maniera esplicita sui meccanismi di interferenza tra il secondo e il terzo comma dell’art. 192 cod. proc. pen., dei quali, il primo contiene una disposizione di carattere generale in materia di prova indiziaria, ed il secondo impone un metodo di valutazione delle dichiarazioni accusatorie (di reità o di correità) provenienti dal coimputato del medesimo reato o da persona imputata in un procedimento connesso, e implicitamente ne stabilisce i criteri. Queste ultime non si differenziano ontologicamente da una qualsiasi altra dichiarazione resa nel processo, se non per la fonte sospetta da cui provengono: per questa ragione con l’art. 192, co. 3, cod. proc. pen. è stata introdotta nel sistema processuale una norma di garanzia, che in teoria avrebbe potuto essere radicalmente interpretata in correlazione con il secondo comma della menzionata norma, attribuendole il significato di una limitazione ex lege della chiamata di correo al mero valore di indizio. Tale esegesi è stata immediatamente scartata dalla giurisprudenza, vuoi facendo riferimento al dato testuale, vuoi per ragioni sistematiche. Quanto al primo, perché la definizione normativa dei riscontri esterni, come “altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità”, qualifica indirettamente le dichiarazioni (oggetto dei riscontri) come elementi di prova e non come indizi, suscettibili di rilevanza probatoria piena, se ne viene confermata

l’attendibilità. Quanto alle ragioni di interpretazione sistematica, perché una diversa lettura non è parsa conciliabile con il principio del libero convincimento del giudice. Igitur, la funzione di garanzia dell’art. 192, co. 3, cod. proc. pen. è stata limitata all’obbligo del giudice di non attribuire piena e autonoma rilevanza probatoria alle dichiarazioni del chiamante in assenza di riscontri esterni di attendibilità (tra le più chiare sul punto, Cass., sez. II, 19 febbraio 1993, Fedele [rv. 193926]; Cass., sez. VI, 18 febbraio 1994, Goddi [rv. 197853]). (L.A.M.F.)

@ Tribunale di Salerno, sez. III (Pres. Pentagallo; est. Bellantoni), ud. 4 marzo 2003, sentenza n. 419. Prove – Indizi – Alibi. (art. 192 c.p.p.) L’alibi falso, cioè quello rivelatosi preordinato e mendace, può essere posto in correlazione con altre circostanze d prova e valutato come indizio, nel contesto delle complessive risultanze probatorie, se appaia finalizzato alla sottrazione del reo alla giustizia. (1) (1) In senso conforme, Cass., 16 ottobre 1990, Andraous, rv 186121; Cass., 6 febbraio 1989, Sposato, in CP 1990, 2176; Cass., 10 febbraio 1995, Cavataio, rv 201331; Cass., 4 luglio 1995 Michelotto, rv 202766. Secondo Corte di Assise di Bari, 20 gennaio 1994, in FI 1995, II, 307, “A differenza dell’alibi rimasto indimostrato (perché non provato o fallito), che non può mai costituire, attesa la sua intrinseca equivocità, elemento di colpevolezza, l’alibi falso o mendace appare sintomatico del tentativo, da parte dell’imputato, di sottrarsi all’accertamento del vero, sicché di esso il giudice ben può tener conto quale elemento indiziante, da valutare, unitamente a tutti gli altri elementi acquisiti, ai fini del conclusivo giudizio sulla responsabilità del soggetto.” La distinzione tracciata dal giudice pugliese ricalca un dato interpretativo pressoché costante in giurisprudenza: un alibi addotto e non provato (Cass. 8 aprile 1991, Lavazza, CP 1992, 2793) ovvero fallito (Cass., Sez. Un., 4 febbraio 1992, Ballan) rappresenta un elemento del tutto agnostico sul piano probatorio e, dunque, non costituente neppure un indizio, stante, peraltro, il canone costituzionale della presunzione di non colpevolezza, che vieta indebite inversioni dell’onere della prova (Cass., Sez. Un., 21 ottobre 1992, Bompressi). L’alibi costruito è indicativo di una maliziosa preordinazione difensiva ed ha una sua valenza indiziante che, a differenza di quello fallito, lo pone tra gli elementi probatoriamente rilevanti: la costruzione dell’alibi non porta alla necessaria conseguenza logica della responsabilità, restando aperta la possibilità del ricorso a tale strumento anche da parte dell’innocente eventualmente a corto di argomenti difensivi (Cass., Sez. Un. 4 febbraio 1992, Musumeci, rv 191231). Non è possibile considerare elemento a carico dell'imputato, e assumere così la rilevanza di indizio idoneo a

Page 20: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

20

sorreggere una dichiarazione indiretta priva di ulteriori riscontri, la mancata coltivazione di un alibi equiparando la stessa alla prova positiva della sua falsità (Cass., sez. V, 19 novembre 1997, Chiazza, in CP 1999, 942). In dottrina, M. Colamussi, “Riflessioni in tema di natura giuridica e rilevanza probatoria dell’alibi”, in CP 1994, 1597 ss.; E.M. Catalano, “La prova d’alibi”, Milano 1998; M. Gianrusso, A. Nappi, Codice di procedura penale. Rassegna di giurisprudenza e dottrina, Milano 2003, 43. (P.C.)

@ Tribunale di Salerno, sez. III (Pres. ed est. Verasani), ud. 7 marzo 2003, sentenza n. 446. Prove – Mezzi di prova – Testimonianza della persona offesa – Ammissibilità. (art. 194 c.p.p.) Il diritto processuale penale non opera alcuna discriminazione in ordine alla capacità a testimoniare della persona offesa dal reato ed alla valenza probatoria delle sue dichiarazioni rispetto a quelle di altre persone: alla luce dell’interesse all’esito del giudizio di cui è portatrice la parte lesa, si impone tuttavia un esame particolarmente vigile ed accurato delle sue propalazioni (Nella specie, il Tribunale ha evidenziato la necessità, da un lato, di operare un raffronto con le ulteriori risultanze probatorie acquisite e, dall’altro, di valutare con estremo rigore la prova testimoniale acquisita allo scopo di individuare ovvero escludere l’esistenza di sottesi motivi utilitaristici). (1)

(1) La Suprema Corte, muovendo dal presupposto che la persona offesa dal reato è “portatrice di interessi in posizione di antagonismo con quelli dell’imputato”, ha più volte ribadito la necessità di sottoporre la testimonianza di quest’ultima “ad un vaglio di attendibilità intrinseca particolarmente rigoroso”: Cass., sez. I, 8 marzo 2000, Di Tella, [rv. 216180]; Cass., sez. VI, 6 ottobre 1999, D’Agostino, in CP 2000, 3392, con nota di Bellini; Cass., sez. II, 13 maggio 1997, Di Candia, in CP 1998, 2425; Cass., sez. III, 26 agosto 1999, Ascani, in CP 2001, 597; Cass., sez. I, 17 dicembre 1998, Kovacs, [rv. 212459]. L’eventuale parziale difetto di memoria del teste – persona offesa non può essere considerato di per sé stesso motivo di inattendibilità del deposto (in questo senso Cass., sez. V, 6 aprile 1999, Tagliapietra, in CP 2000, 2382); allo stesso modo, lo stato di ritardo mentale della parte lesa non esclude che alla testimonianza di quest’ultima sia attribuibile pieno valore probatorio, a condizione che il giudice abbia accertato – dandone congrua motivazione – che la deposizione non è stata influenzata dal deficit psichico (Cass., sez. III, 16 giugno1999, Mattu, in CP 2000, 2382). In caso di estrema necessità “per essere la persona offesa l’unico testimone che abbia avuto percezione diretta del fatto da provare o, comunque, l’unico in grado di introdurre una tale percezione nel processo, anche la sola deposizione di essa può, nell’ambito del libero convincimento del giudice, essere posta a

fondamento del giudizio di colpevolezza dell’imputato; in tal caso il giudice di merito deve valutare con particolare attenzione tutti gli elementi, sia di natura intrinseca che estrinseca, su cui ha basato il suo convincimento di attendibilità e veridicità delle deposizioni della persona offesa, dando conto di tale valutazione con motivazione dettagliata e rigorosa, specificatamente riferita alla detta qualità” (Cass., sez. I, 20 settembre 1989, Testa, rv. 184299). (L.A.M.F.)

@ Tribunale di Salerno, sez. riesame (Pres. Pellegrino; est. Casale), ud. 1 ottobre 2003, ordinanza. Misure cautelari personali – Impugnazioni – Riesame – Procedimento – Trasmissione degli atti al Tribunale – Omissione in parte qua – Effetti (art. 291, 309 c.p.p.) Nel caso di omessa trasmissione al Tribunale del riesame soltanto di alcuni degli atti a suo tempo trasmessi al GIP per l’applicazione della misura, la perdita di efficacia di quest’ultima non è automatica, competendo al Tribunale rilevare ed accertare l’influenza degli atti non trasmessi. Il titolo di reato contestato va sottoposto dal Tribunale ad una prova di resistenza: se i gravi indizi di colpevolezza siano riscontrabili anche in assenza ed a prescindere dall’atto non trasmesso (di cui pertanto il Tribunale deve prendere visione ai fini della decisione de qua) la misura dovrà rimanere in vita; in caso contrario, dovrà affermarsi l’operatività della sanzione di cui al combinato disposto dell’art. 309, commi 5 e 10, c.p.p. (nel caso di specie, il Tribunale ha dichiarato la perdita di efficacia della misura custodiale limitatamente ad uno dei capi della contestazione, cui faceva riferimento l’atto non trasmesso). (*)

(*) Massima a cura dell’avv. Valentina Restaino.

@ Corte di Appello di Salerno (Pres. ed est. Stabile), 14 marzo 2003, ordinanza. Riparazione per ingiusta detenzione - Principio costituzionale di presunzione di non colpevolezza - Rilevanza - Carichi pendenti o sentenze di condanna non definitive gravanti sul soggetto istante - Irrilevanza. Riparazione per ingiusta detenzione - Determinazione - Criteri. (artt. 314, 315 c.p.p.) In applicazione del principio costituzionale di presunzione di non colpevolezza di cui all'art. 27 della Costituzione, nella quantificazione dell'importo da riconoscersi a titolo di indennizzo per l'ingiusta detenzione subita non può tenersi conto né dei carichi pendenti gravanti sul soggetto istante né di sentenze di condanna non definitive pronunciate nei suoi confronti. La riparazione per ingiusta detenzione deve essere improntata ad un criterio di equità, nell'ambito di una valutazione complessiva, non necessariamente ancorata ad elementi rigidi e prefissati ma che, ove possibile, tenga conto delle peculiarità delle singole

Page 21: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

21

fattispecie, avuto riguardo alla durata della carcerazione rapportata alla natura e alla gravità del reato, al pregiudizio subito nell'attività lavorativa e sul piano economico, in genere, agli eventuali ulteriori pregiudizi derivati sul piano psicologico, al discredito ed alle sofferenze morali ed a quant'altro possa assumere rilevanza nelle singole situazioni. (1) (1) La predetta ordinanza è stata emessa dalla Corte di Appello di Salerno quale giudice di rinvio in seguito a sentenza della Corte di Cassazione, con la quale era stata annullata una ordinanza della medesima corte salernitana nella parte in cui aveva decurtato del 45 per cento l'importo riconosciuto a D., a titolo di indennizzo per l'ingiusta detenzione subita, atteso che tale decurtazione non si palesava giustificata sotto un profilo di logica giuridica in relazione al carico pendente gravante sullo stesso D. per un procedimento penale pendente nei suoi confronti per i reati di estorsione, associazione a delinquere e detenzione illegale di armi, in quanto "non appariva né appropriato né legittimo e non inerente alle caratteristiche del procedimento di riparazione introdotto tener conto di detto carico pendente in relazione al principio costituzionale di non colpevolezza di cui all'art. 27 Cost.". Successivamente alla pronuncia della Cassazione, la Corte di Appello, accertato che il suddetto procedimento penale si era concluso con la condanna di D., inflitta con sentenza gravata d'appello, emanava la massimata ordinanza. Va detto che l'affermazione secondo cui i carichi pendenti e le sentenze di condanna non irrevocabili gravanti sul soggetto istante ex art. 314 c.p.p. non incidono sulla determinazione della riparazione per ingiusta detenzione è pienamente condivisibile, costituendo, come anticipato, una chiara applicazione del principio di presunzione di non colpevolezza contenuto nell'art. 27 della Costituzione (l'inosservanza del quale ha reso evidentemente annullabile per illogicità della motivazione l'ordinanza resa in prime cure: cfr. Cass., sez. IV, 10 marzo 2003, n. 10781 - RV 223811, in motivazione: "il controllo sulla congruità della somma liquidata a titolo di riparazione è precluso nel giudizio di legittimità nel quale può soltanto verificarsi se il giudice di merito abbia logicamente motivato il suo convincimento e non certo sindacare la sufficienza, o insufficienza della somma liquidata a titolo di riparazione"). Secondo la giurisprudenza prevalente, alla luce del principio costituzionale di uguaglianza, per la quantificazione nummaria della riparazione in parola, può tenersi conto anche dello stato di incensuratezza del soggetto istante ingiustamente privato della libertà personale (cfr. Cass., sez. I, 28 febbraio 1992, n. 215 - RV 189351) sicché non assumono rilievo, a tal fine le pendenze giudiziarie e le sentenze di condanna non definitive, che non incidono su detto stato. Per quanto concerne, poi, la rilevanza di elementi soggettivi nella determinazione della somma da corrispondere a titolo di riparazione per ingiusta detenzione, anche questo orientamento espresso dalla Corte di Appello si pone in linea con il principio di uguaglianza sostanziale di cui all'art. 3 della Costituzione. Sul punto si è osservato che, nella

liquidazione della somma ex art. 314 c.p.p. "il giudice deve effettuare una valutazione equitativa che riesca a realizzare l'obiettivo di garantire un trattamento oggettivamente identico a tutti gli interessati" (così, Cass. sez. IV, 30 gennaio 2003, n. 4311 - RV 223646), tenendo quindi conto delle concrete peculiarità del caso sottoposto al suo esame ed utilizzando altresì il parametro matematico (in uno con quello equitativo) al quale riferire la citata liquidazione (parametro costituito "dal rapporto tra il tetto massimo dell'indennizzo di cui all'art. 315 c.p.p., comma. 2, e il termine massimo della custodia cautelare, di cui all'art. 304 c.p.p., espressa in giorni, moltiplicato per il periodo, anch'esso espresso in giorni, di ingiusta restrizione subita" - così, Cass. sez. III, 26 febbraio 2003, n. 9056 - RV 223614). Giova ricordare che la riparazione per ingiusta detenzione - a differenza della riparazione dell'errore giudiziario - è stata introdotta nel nostro ordinamento dal nuovo codice di procedura penale (artt. 314 e 315), secondo le previsioni della direttiva n. 100 di cui all'art. 2 della legge delega n. 81/1987 ed in applicazione del più generale disposto del medesimo art. 2, che imponeva al governo, nell'esercizio dei poteri delegati, di attuare i principi della Costituzione e di adeguarsi alle norme internazionali ratificate dall'Italia, relative ai diritti della persona e al processo penale. Invero, il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione - da collegarsi all'art. 24, co. 4, della Costituzione, per il quale la legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari - era già previsto dall'art. 5, paragrafo 5, della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (ratificata in Italia con legge n. 848/1955) nonché dall'art. 9, paragrafo 5 del Patto internazionale sui diritti civili e politici (introdotto in Italia con la l. n. 881/1977). L'istituto previsto dall'art. 314 c.p.p. è caratterizzato da un rapporto di tipo obbligatorio quantificabile come "obbligazione di diritto pubblico" che non assume carattere risarcitorio ma indennitario e che non nasce ex illicito ma "da doverosa solidarietà verso la vittima di un'indebita custodia cautelare, e ha ad oggetto una prestazione consistente nel pagamento di una somma di denaro rivolta a compensare l'interessato (che non vi abbia dato o abbia concorso a darvi causa per dolo o colpa grave) delle conseguenze personali, di natura morale, patrimoniale, fisica e psichica, che la carcerazione abbia prodotto" (così, Cass., Sez. Un., 9 luglio 2003, in motivazione, da www.studiolegalezecca.it). La riparazione a carico dello Stato costituisce una "misura riparatoria e riequilibratrice, e in parte compensatrice della ineliminabile componente di alea per la persona, propria della giurisdizione penale cautelare" (così, Corte Cost., 16 dicembre 1997, n. 446, in motivazione, da www.giuscost.org). La sua entità, a fronte di una originaria previsione codicistica che la conteneva nei cento milioni di lire, può oggi raggiungere il miliardo, ex art. 15, co. 1, lett. a, della L. n. 479/99, somma che certamente meglio si confà alla ratio dell'istituto, che tutela il bene della libertà personale. Attualmente, a seguito di due interventi della Corte Costituzionale in perfetta aderenza alla predetta ratio, il diritto all'equa

Page 22: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

22

riparazione spetta non solo per la custodia cautelare ingiustamente subita, se ricorrono i presupposti dell'art. 314 c.p.p., ma anche per la detenzione ingiustamente patita a causa di erroneo ordine di esecuzione (cfr. Corte Cost., 25 luglio 1996, n. 310, in www.giuscost.org), nonché in caso di arresto in flagranza o di fermo di indiziato di delitto - se il soggetto raggiunto da questi provvedimenti sia poi definitivamente prosciolto con una delle formule di cui all'art. 314,co.1, c.p.p. - o, se si accerti con decisione irrevocabile che erano insussistenti le condizioni per la convalida di detti provvedimenti restrittivi, al prosciolto per qualsiasi causa o al condannato (cfr. Corte Cost., 2 aprile 1999, sent. n109, in www.giurcost.org.). L’indennizzo - che viene giustamente riconosciuto pure al soggetto assolto ai sensi dell'art. 530, co. 2, c.p.p. (così, Cass., sez. IV, 12 aprile 2000, n. 2365 in Rep. Utet 2001) - spetta anche a favore delle persone nei cui confronti siano pronunciati sentenza di non luogo a procedere o provvedimento di archiviazione, sicché ben si comprende la ragione per cui l'art. 409 c.p.p. preveda la notifica del decreto motivato di archiviazione alla persona sottoposta alle indagini, se nel corso del procedimento è stata applicata nei suoi confronti la misura della custodia cautelare. Va sottolineato, ancora, che ai sensi dell'art. 314, co. 4, c.p.p., la riparazione è esclusa per quella parte della custodia cautelare che sia computata ai fini della determinazione della pena e da questo principio "può dedursi anche il principio contrario, e cioè che chi ha ottenuto la riparazione non può ottenere anche la fungibilità in relazione allo stesso periodo di ingiusta detenzione. Infatti, ove così non fosse, si determinerebbe una violazione del principio di uguaglianza, in quanto, a parità di situazioni, verrebbero a stabilirsi trattamenti differenziati tra chi, avendo ottenuto la fungibilità, non potrebbe ottenere la riparazione e chi, avendo ottenuto la riparazione, avrebbe diritto anche alla fungibilità" (così, per tutte, Cass., sez. III, 29 novembre 1999, n. 3488 - RV 214644). Quanto al procedimento per la riparazione ex art. 315 c.p.p. - eventualmente compatibile e cumulabile con l'azione risarcitoria prevista dalla legge n. 117/88, concernente la responsabilità civile dei magistrati, poiché le disposizioni di siffatta legge "non pregiudicano il diritto alla riparazione a favore delle vittime di errori giudiziari e di ingiusta detenzione" (art. 14, L. 117 cit.) - occorre infine dar conto di un interessante stasi giurisprudenziale intervenuta da ultimo sull'argomento. Le sezioni unite della Suprema Corte, con la sentenza del 9 luglio 2003 già sopra riportata, hanno affermato che deve ritenersi priva di alcuna giustificazione normativa la configurazione del procedimento in discorso come un procedimento civile che si svolge innanzi al giudice penale (orientamento espresso tra l'altro da Cass., Sez. Un.., ud. 12 marzo1999, sent.n.8, in Rep.Utet 2001) "trattandosi, invece, di un procedimento penale autonomo (non incidentale) che presuppone definitivamente concluso il rapporto processuale instauratosi per effetto dell'esercizio dell'azione penale, con la conseguenza che la relativa disciplina, ad ogni fine, non può che essere ricercata nell'ambito dell'ordinamento

processuale penale, le cui disposizioni, in assenza di una espressa deroga, debbono trovare in questa materia integrale applicazione" (conforme, sul punto, anche Cass., Sez. Un., n. 14/1997 e ord. n. 22/2001, richiamate nella motivazione della predetta sentenza n. 35760/2003. Si veda, inoltre, in argomento, Enciclopedia del Diritto, voce Errore giudiziario, passim). (A.B.)

@ Tribunale di Salerno, sez. dist. Eboli (G.M. Di Bisceglie), 3 luglio 2003, ordinanza. Procedimento penale – Procedimenti speciali – Applicazione della pena su richiesta delle parti – Restituzione in termini per la proposizione della richiesta di patteggiamento. (art. 446 c.p.p.; art. 5, legge 12 giugno 2003 n. 134) La richiesta di sospensione ai sensi dell’art. 5, comma 2, legge 134/03, se presentata nei termini di cui all’art. 446, comma 1, c.p.p., dal sostituto processuale del difensore, che deposita in copia procura speciale - pur intesa come anticipazione di richiesta di patteggiamento - risulta accoglibile, esclusivamente in relazione alla possibilità di ottenere una sanzione sostituiva più ampia (in relazione, cioè, all’art. 4 legge cit.), atteso che, la fase in cui si trova il procedimento, consentirebbe comunque di accedere all’applicazione della pena concordata a prescindere dalla norma transitoria invocata. (*) (*) ERRATA CORRIGE : per un errore di stampa la massima sopra riportata non è stata pubblicata in FS 2003, 41, sebbene fosse stata indicata nell’indice ed anche ad essa si riferissero le note nr. (1) e (2). Se ne riproduce il testo, scusandoci con i lettori.

@ Tribunale di Salerno, II sez. (Pres. Troiano), 22 settembre 2003, ordinanza. Procedimento penale – Procedimenti speciali – Applicazione della pena su richiesta delle parti – Restituzione in termini per la proposizione della richiesta di patteggiamento – Richiesta di sospensione formulata dal difensore - Ammissibilità. Tribunale di Salerno, seconda sezione penale, riunito in camera di consiglio, omissis vista la richiesta dell’avv…. , difensore di …, di sospensione del processo ex art. 5, comma secondo, l. n. 134/03; preso atto dell’eccezione formulata dal P.M. volta al rigetto della istanza in quanto non proveniente dall’imputato personalmente, ma dal suo difensore non munito di procura speciale,

OSSERVA Rileva il collegio che il tenore letterale dell’art. 5, comma secondo, l. n. 134/03 effettivamente pare legittimare il solo imputato (e, dunque, anche un suo procuratore speciale) a proporre la richiesta di

Page 23: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

23

sospensione del processo per valutare l’opportunità di accedere al patteggiamento come sostenuto dalla disposizione transitoria. Tuttavia il Tribunale, anche nei dubbi interpretativi che stanno accompagnando le prime applicazioni della norma, e considerato che dopo la prima udienza utile successiva all’entrata in vigore della legge l’imputato decadrebbe dalla facoltà di accedere al rito alternativo, ritiene di poter ammettere la richiesta difensiva. A sostegno di tale interpretazione depone senza dubbio l’art. 99 c.p.p. il quale estende al difensore le facoltà e in diritti che la legge riconosce all’imputato, salvo che essi siano riservati personalmente a quest’ultimo: nella specie non vi è dubbio che è la richiesta di patteggiamento a dover provenire all’imputato o dal suo procuratore speciale (cfr art. 446, anche come modificato) mentre l’art. 5 citato in ordine alla richiesta di sospensione fa genericamente riferimento all’“imputato” con la conseguenza che la regola generale rimane quella dell’art. 99 c.p.p. non derogata espressamente dal disposto dell’art. 444 c.p.p., come novellato. Del resto anche in altri casi nei quali il legislatore attribuisce all’“imputato” la legittimazione a proporre richieste incidenti sulla sua posizione processuale, la giurisprudenza – anche di questo Tribunale -, proprio in ossequio al principio di cui all’art. 99 c.p.p., estende al Difensore, che rappresenta l’imputato, tale facoltà: si pensi esemplificativamente all’art. 226 del D. L.VO n. 51/98 che consente al giudice addirittura la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione a seguito dell’applicazione delle circostanze attenuanti o del giudizio di comparazione previsto dall’art. 69 c.p. “se l’imputato e il Pubblico Ministero non si oppongono”; o all’art. 558 settimo comma, c.p.p. il quale, nel corso del giudizio direttissimo, attribuisce all’imputato “la facoltà di chiedere un termine per preparare la difesa”. Peraltro, i detti dubbi interpretativi vanno risolti in favore dell’accoglimento della richiesta difensiva anche tenendo conto della ratio della disciplina novellata la quale ha previsto un ampliamento della possibilità di accesso al patteggiamento finanche nei processi in corso di avanzata istruttoria, pur evitando di trasformare la richiesta di sospensione in uno strumento dilatorio dei tempi nel processo con la ulteriore previsione della sospensione dei termini prescrizionali, e addirittura di quelli di custodia cautelare, per l’imputato che si sia avvalso della norma transitoria di cui all’art. 5, comma secondo, l. n. 134/03. Orbene, appare evidente che la richiesta di patteggiamento si sostanzia di regola in una scelta tecnico – processuale la cui opportunità è rimessa anche al Difensore il quale, soprattutto quando – come nel caso di specie – l’imputato è rimasto contumace o è assente in giudizio, è l’unico soggetto in grado di valutare se lo stato del processo sia tale da consigliare l’accesso al rito alternativo sì da legittimarlo anche ad avanzare l’istanza di sospensione del processo.

p.q.m. letto l’art. 5 comma secondo, legge n. 134/03, sospende il processo penale, con conseguente

sospensione dei termini di prescrizione, limitatamente all’imputato omissis. (1) (1) Analogamente, Tribunale della Spezia in composizione collegiale, 1 luglio 2003, ordinanza, in www.camerapenale.sp.it (anche in riferimento al giudizio abbreviato in corso): “E’ ammissibile la richiesta di sospensione del dibattimento formulata dal difensore in assenza dell’imputato e senza che il primo sia munito della procura speciale in quanto l’art.99 comma 1 c.p.p. riconosce al difensore le facoltà e i diritti che la legge concede all’imputato a meno che gli stessi non siano espressamente riservati personalmente a quest’ultimo e in quanto, per la richiesta di sospensione, l’art. 5 comma 2, a differenza dell’istanza di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p., non richiede la procura speciale. Nella scelta tra diverse interpretazioni il giudice deve optare per quella conforme alla Costituzione e nel caso di specie l’interpretazione appare conforme agli artt.3 comma 1, 24 comma 2 e 111 Cost. E’ ammissibile la richiesta di sospensione del dibattimento formulata nel corso del giudizio abbreviato in quanto l’opposta interpretazione crea evidente disparità di trattamento tra imputati che hanno richiesto il giudizio abbreviato per reati che, prima dell’entrata in vigore della riforma, non consentivano l’accesso all’applicazione della pena su richiesta rispetto agli imputati nei cui confronti si procede con altri riti e per i quali - in tutti i casi – sono stati riaperti i termini per il patteggiamento. Nella scelta tra diverse interpretazioni il giudice deve optare per quella conforme alla Costituzione e nel caso di specie l’interpretazione appare conforme agli artt.3 comma 1, 24 comma 2 e 111 Cost.” In dottrina, “L'interpretazione dell'art. 5 L. 134/2003 in tema di c.d. patteggiamento allargato secondo la giurisprudenza”, di Livia Rossi, in www.foroeuropeo.it , secondo cui: “Va detto che, seppure la norma faccia esplicito riferimento all'imputato quale soggetto legittimato alla richiesta, in tutti i casi in cui il legislatore ha ritenuto necessaria la procura speciale per il difensore lo ha espressamente previsto. In assenza di espressa previsione l'imputato dovrebbe intendersi naturalmente rappresentato dal difensore che dovrebbe poter avanzare la richiesta di sospensione senza bisogno di procura speciale.” Contra, Tribunale di Salerno, sez. I (Pres. Videtta), 14 luglio 2003, ordinanza: “L’art. 5, comma 2, della legge n. 134 del 2003 abilita esclusivamente l’imputato ad avanzare istanza di sospensione del processo, non potendosi al riguardo fare richiamo al disposto dell’art. 99 c.p.p., che estende al difensore i diritti riconosciuti dalla legge all’imputato; ed invero, nel caso di specie, posto che alla richiesta di sospensione è collegata in via automatica la sospensione dei termini di prescrizione del reato contestato all’imputato e dei termini di custodia cautelare, con conseguenti effetti perniciosi sulla posizione processuale dei quest’ultimo, deve ragionevolmente inferirsi che la facoltà riconosciuta dalla citata disposizione sia esercitabile in via esclusiva dall’imputato e non anche dal

Page 24: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

24

difensore sprovvisto di procura speciale.” (Il provvedimento è stato gentilmente rimesso dall’avv. Valentina Restaino). Per un’ipotesi particolare, Tribunale di Salerno, sez. dist. Eboli, (G.M. Ansalone), 25 ottobre 2003, ordinanza: “La nuova normativa non ha ampliato i presupposti per poter accedere al rito speciale della pena patteggiata. Ne consegue che, in sede di giudizio immediato disposto a seguito di opposizione a decreto penale di condanna, non è ammissibile la richiesta ex art. 5, c. 2 l. 134/2003, in quanto l’imputato ha già consumato, in sede di opposizione al decreto penale di condanna, la possibilità di accedere alla pena patteggiata.” Per Cass., Sez. Un., 25 settembre 2003, la disciplina transitoria del "patteggiamento allargato" non si applica al giudizio di cassazione. Accogliendo l’interpretazione sostenuta dalla Sezione II (Cass., Sez. II, 4 luglio 2003, Petrella), le Sezioni Unite penali hanno escluso che la disciplina transitoria dettata dall'art. 5 l. 12 giugno 2003, n. 134 (in DPP, 2003, 1067 ss., con commento di F. Peroni) sia applicabile nel giudizio di cassazione. Le Sezioni Unite hanno infatti formulato il seguente principio di diritto: «la procedura per l’applicazione della pena su richiesta delle parti prevista dall’art. 5 commi 1 e 2 l. 12 giugno 2003, n. 134 non si applica nel giudizio di cassazione». (P.C. e D.R.)

@ Tribunale di Salerno, sez. dist. Eboli (G.M. Di Bisceglie), 5 giugno 2003, sentenza n. 353. Condanna generica al risarcimento – Distinzione con la domanda proposta in sede civile – Prova dell’effettiva sussistenza del dei danni – Necessità - Esclusione. (art. 539 c.p.p.) La peculiare differenza con la domanda di risarcimento proposta nella sede naturale consiste nel fatto che in quest’ultimo caso la mancanza dei presupposti o, meglio, la mancata prova della stessa sussistenza di un danno comporta il suo rigetto mentre nel processo penale è sufficiente accertare la semplice potenzialità di un danno suscettibile di valutazione economica; ferma restando, nel caso di specie, l’ontologica e necessaria sussistenza di un danno morale rilevante e di un sicuro danno materiale, seppure non quantificabile nella sua esatta entità. (Il giudice nel pronunciare condanna generica al risarcimento di tutti i danni patiti dalla persona offesa, anche a titolo di danno morale, tra l’altro, riteneva che “il tecnicismo sotteso alla valutazione già del solo danno materiale emergente pretende che quest’ultima sia riservata al giudice a tal fine specializzato”). (1) (1) E’ opinione costante della Suprema Corte che la condanna generica al risarcimento del danno si concreta in una pronuncia meramente dichiarativa, presupponente il solo accertamento della capacità lesiva del fatto e la mera probabilità della sussistenza del nesso eziologico tra detto fatto illecito ed il danno lamentato, non sussistendo, così, per il giudice di

merito l’obbligo di accertare l’esistenza effettiva del danno (tra le altre, Cass. sez. V, 19 ottobre 2000, Mattioli, in CP 2001, 2457). In una interessante pronuncia (Cass. sez. III, 26 maggio 1994, Pinizzotto, in Dir. e Giu. Agr. 1996, 117) pur in assenza della prova circa l’an debeatur, per la condanna generica, è bastato che il fatto illecito accertato - la violazione di norme antinquinamento penalmente sanzionate - fosse potenzialmente idoneo a produrre danno. (D.R.)

@ Procura Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Salerno (Sost. Zampoli) - Provvedimento di esecuzione di pene concorrenti n. 43/02 RG Cum., del 30/10/02. Esecuzione penale - Provvedimento di esecuzione di pene concorrenti - Inserimento nel cumulo di condanna a pena interamente espiata - Possibilità - Ragioni. (art. 663 c.p.p. - artt. 78-80 c.p.) La condanna a pena interamente espiata prima del provvedimento di esecuzione di pene concorrenti può essere inserita nel cumulo se il reato è stato commesso prima della decorrenza della pena determinata con il cumulo stesso, in quanto, ai fini dell'individuazione del criterio moderatore previsto dall'art. 78 c.p., vanno cumulate tutte le condanne riportate per i reati commessi prima dell'inizio della detenzione. (1) (1) In base al principio riportato in massima, il Sostituto Procuratore Generale, accogliendo l’istanza del difensore, ha rideterminato la pena da eseguire, detraendo dal cumulo già in esecuzione gli anni e i mesi di reclusione inflitti con condanna a pena espiata prima dell'adozione del provvedimento ex art. 663 c.p.p.. Un'analoga istanza presentata in precedenza nell'interesse del condannato era stata, tuttavia, respinta, essendosi ritenuto che la condanna a pena già interamente scontata non poteva essere compresa nel provvedimento di unificazione di pene da eseguire, anche perché, nel momento in cui era stato posto in attuazione il suddetto provvedimento, il soggetto interessato si trovava in libertà. Peraltro, la statuizione riportata in massima - sebbene non affermata unanimemente (contra infatti, in generale, Cass., sez. I, 7 novembre 1997, n. 5846, in motivazione, da Cass. Pen., Utet, 2000) - appare pienamente condivisibile. Invero, l'art. 663 c.p.p. prevede che, quando la stessa persona è stata condannata con più sentenze per reati diversi, il Pubblico Ministero competente determina la pena da eseguirsi in osservanza delle norme sul concorso di pene ovvero - secondo il dictum dell'art. 80 c.p. - utilizzando le norme sul concorso di reati, e quindi anche l'art. 78 c.p. (per il quale, nel caso di concorso di reati che comportano pene detentive temporanee della stessa specie - art. 73 c.p. - la pena da applicare non può comunque eccedere i trent'anni, per la reclusione). Ciò premesso, il criterio moderatore di cui all'art. 78 c.p. è richiamato integralmente in fase di esecuzione (arg. artt. 663 c.p.p. - 80 c.p. cit) e la sua applicazione prescinde, pertanto, sia dall'eventuale già

Page 25: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

25

avvenuta espiazione della pena sia dallo stato (di libero o di internato) del soggetto destinatario del c.d. cumulo. Per tali ragioni, anche la sentenza di condanna a pena già scontata va comunque inserita nel provvedimento ex art. 663 c.p.p. e questa interpretazione trova autorevole conforto sia in dottrina che in giurisprudenza. In merito, si è osservato che se la pena già espiata non fosse calcolata nel cumulo, verrebbero superati i limiti inderogabili posti dall'art. 78 c.p. (cfr. Mario Romano, Commentario sistematico del Codice penale - art. 80 - Milano 1995), sottolineandosi altresì che "in tema di esecuzione di pene concorrenti, deve ritenersi consolidato il principio secondo il quale nel cumulo devono essere inserite non solo tutte le pene che non risultano ancora espiate alla data di commissione dell'ultimo reato, ma anche quelle già espiate, che possono comunque avere un riflesso sul criterio moderatore previsto dall'art. 78 c.p. o sul cumulo materiale ai fini della maturazione dei requisiti temporali per l'ammissione agli eventuali benefici previsti dall'ordinamento penitenziario" (così, Cass., sez. I, 7 agosto 2000, n. 4507, rv 216743). D'altronde, la necessità dell'inclusione nel cumulo di pene già scontate ma relative a reati commessi prima dell'inizio dell'esecuzione penale va ulteriormente ribadita, se si consideri che la posizione del condannato non può certamente essere influenzata da eventi casuali, come le diverse date di irrevocabilità o di esecuzione delle varie sentenze, oppure dai ritardi nella effettuazione del cumulo da parte del P.M. (cfr., Cass., sez. I, 20 maggio 1998, n. 2932, rv 210774 ). (A.B.)

Page 26: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

26

LEGGI SPECIALI

@ Tribunale di Salerno, sez. III (Pres. Pentagallo; est. Bellantoni), ud. 4 marzo 2003, sentenza n. 419. Armi – Porto illegale in luogo pubblico – Casi. (art. 4 l. 18 aprile 1975, n. 110). L’art. 4 della l. n. 110 del 1975 sanziona la condotta di colui che porta fuori dalla propria abitazione o dalle appartenenze di essa, senza giustificato motivo, tutti gli strumenti, la cui destinazione naturale non è l’offesa alla persona, ma che sono tuttavia occasionalmente adatti ad offendere, individuandone specificamente alcuni – mazze, tubi, catene, fionde, bulloni, etc. – e ricomprendendo genericamente gli altri nella categoria degli strumenti non considerai espressamente come arma da punta e taglio, ma chiaramente utilizzabili, per le circostanze di tempo e di luogo, per l’offesa alla persona.(1) (1) “In materia di armi, l'art. 4 comma 2 l. 18 aprile 1975, n. 110 sanziona la condotta di chi porta senza giustificato motivo qualsiasi strumento chiaramente utilizzabile, per le circostanze di tempo e di luogo, per l'offesa alla persona, indipendentemente dalla forma o dalle dimensioni dello strumento stesso. Ai sensi della norma citata, debbono considerarsi armi, sia pure improprie, tutti quegli strumenti, ancorché non da punta o da taglio, che in particolari circostanze di tempo e di luogo possono essere utilizzati per l'offesa alla persona.”, Cass., sez. I, 18 novembre 1998, n. 13542, Di Vita, in CP 1999, 3218; “Il porto di uno strumento da punta o da taglio atto a offendere è da ritenere giustificato soltanto nel caso in cui la circostanza legittimatrice rivesta carattere di attualità rispetto al momento dell'accertamento della condotta altrimenti vietata.” (Fattispecie relativa al porto di un coltello a serramanico con lama di 8 cm., rinvenuto addosso a un autotrasportatore e utilizzato per preparare panini e sbucciare frutta; la Cassazione ha ritenuto ingiustificato il porto per non avere trovato riscontro, nella perquisizione eseguita contestualmente, la giustificazione addotta dall'agente), Cass., sez. I, 14 gennaio 1999, Zagara, in CP 2000, 2743; Cass., sez. V, 5 ottobre 2000, n. 11872, Pirello, in CP 2002, 751. Ai fini della configurabilità del reato previsto dall'art. 4 comma 2 l. 18 aprile 1975 n. 110, costituisce strumento chiaramente utilizzabile, in concreto, per l'offesa della persona, un attrezzo sportivo tipico delle arti marziali e costituito da due cilindri metallici uniti da una catena, denominato "long chang", allorché, per le circostanze di tempo e di luogo, il giudice ne ritenga ingiustificato il porto fuori dell'abitazione, Cass., sez. I, 21 giugno 2000, n. 10524, Dede. (P.C.)

@ Tribunale di Salerno, sez. dist. Eboli (G.M. Crisci), 4 ottobre 2003, ordinanza. Edilizia ed Urbanistica – Condono edilizio – Opere su aree sottoposte a vincolo - Sospensione del procedimento ex lege.

(art. 32, D.L. 30 settembre 2003, n. 269; art. 32, L. 28 febbraio 1985, n. 47).

Il Giudice, - rilevato che con il D.L. 269/03 il Legislatore ha previsto il rilascio dei titoli abitativi in sanatoria delle opere esistenti non conformi alla disciplina vigente e ha a tal fine stabilito che le disposizioni di cui ai capi VI e V della legge 47/85 e successive modificazioni si applicano alle opere abusive ultimate entro il 31 marzo 2003; - che, pertanto, a norma del combinato disposto degli artt. 38 e 44 della legge 47/85 e 32, comma 2, D.L. 269/03 i procedimenti penali in materia edilizia sono sospesi sino alla data del 31.03.2004, termine ultimo fissato dalla legge per la presentazione della domanda relativa alla definizione dell’illecito edilizio; - che, stante la modificazione del dettato normativo dell’art. 32 legge 47/85, il rilascio dei titoli abitativi per le opere eseguite su aree sottoposte a vincolo estingue il reato per la violazione del vincolo e deve, pertanto, ritenersi che rimangono sospesi anche i procedimenti penali instaurati all’esito della violazione di vincoli a qualsiasi titolo sussistenti sull’area interessata dalla costruzione abusiva,

P.Q.M. Visti gli artt. 44 L. 47/85, 32 D.L. 269/03, 159 c.p.

DISPONE La sospensione del presente procedimento.

@ Tribunale di Sala Consilina, (G. M. D'Ambosio), ud. 14 luglio 2003, sentenza n. 295. Edilizia ed Urbanistica - Pertinenza - Caratteristiche. (artt. 3, 10, 16, 22, D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380) Affinché un'opera edilizia possa essere annoverata tra le pertinenze è necessario che l'opera stessa, pur conservando una propria individualità ed autonomia, sia posta in durevole rapporto di subordinazione con altra preesistente, al fine di renderne possibile una migliore utilizzazione ovvero per aumentarne il decoro. (1) (1) Sulla nozione di pertinenza, cfr., per tutte, Cass., sez. III, 27 luglio 2000, n. 8521 (in G.D., dossier mensile n. 8/2000, p. 97): "il concetto di pertinenza (sottratta in quanto tale al regime concessorio ed assoggettata a quello dell'autorizzazione gratuita ai sensi dell'articolo 7, comma 2, lettera a, del decreto legge 23 gennaio 1982 n. 9, convertito dalla legge 25 marzo 1982 n. 94) si riferisce a un'opera autonoma, dotata di propria individualità, che esaurisce la propria destinazione d'uso nel rapporto funzionale con l'edificio principale; come tale, la pertinenza si distingue dalla parte dell'edificio, che è compresa nella struttura di esso ed è, quindi, insuscettibile di considerazione autonoma. Va precisato che il predetto art. 7 del D.l. n. 9/82, conv. dalla L. n. 94/82, è stato abrogato dall'art. 136 del D.P.R. n. 380/2001 (Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di edilizia), entrato in vigore il 30/6/2003.

Page 27: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

27

Attualmente le opere costituenti pertinenze - in quanto intervento edilizio non riconducibile, di regola, all'elenco di cui all'art. 10 (interventi subordinati a permesso di costruire) e all'art. 6 (attività edilizia libera), del D.P.R. n. 380 cit., - sono realizzabili mediante denuncia di inizio di attività, ai sensi dell'art. 22, co. 1, se conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente. Ciò purché non si tratti di opere pertinenziali che le norme tecniche degli strumenti urbanistici, in relazione alla zonizzazione e al pregio ambientale e paesaggistico delle aeree, qualificano come interventi di nuova costruzione, ovvero che comportino la realizzazione di un volume superiore al 20% del volume dell'edificio principale. Per le stesse, infatti, è necessario il permesso di costruire (essendo definite nuove costruzioni dall'art. 3, co. 1, lettera e 6 del sunnominato D.P.R.) oppure, la stessa denuncia di inizio attività (se si tratti di interventi di nuova costruzione compresi nelle sottocategorie di cui all'art. 22, co. 3, lett. b e c, del D.P.R. n. 380 in parola). (A.B.)

@ Ufficio del Giudice di Pace di Eboli, (dr. Rotunno), 7 luglio 2003, ordinanza. Indagini preliminari – Termini di durata – Inutilizzabilità degli atti per scadenza del termine – Conseguenze – Nullità del decreto di citazione – Esclusione. (artt. 16, 20 D.LGS. 28 agosto 2000, n. 274) L’inutilizzabilità degli atti d’indagine compiuti dalla p.g. oltre i termini di cui all’art. 16 comma 3, d.lgs. n. 274/00, non incide sulla validità del decreto di citazione, il cui contenuto, a pena di nullità, è compiutamente indicato nella norma di cui all’art. 20 del d.lgs. citato. (Nel caso di specie, la persona offesa, sentita a sommarie informazioni dalla p.g., a seguito di querela da parte di altra persona offesa, proponeva querela a sua volta e per gli stessi fatti alla fine del verbale di s.i.t.. Ciononostante, veniva avviato e concluso solo il procedimento penale seguito alla prima querela, mentre, su sua ulteriore sollecitazione, l’iscrizione della notizia di reato che la vedeva interessata si aveva solo dopo più di otto mesi dalla proposizione della denuncia-querela. Ebbene, la p.g. citava a giudizio l’imputata indicando quali fonti di prova le due querelanti e la suddetta denuncia-querela, ossia, facendo riferimento a dichiarazioni di due persone offese sentite prima della iscrizione della notizia di reato per cui si procedeva.). (1) (1) Il principio espresso in massima oltre ad essere pienamente conforme al principio di tassatività della nullità come applicabile anche al rito innanzi al giudice di pace -v. artt. 177 c.p.p., 20 d.lgs n. 274/00- appare in linea anche con le statuizioni della giurisprudenza di legittimità. La questione sottesa ed inerente la doppia iscrizione della notizia di reato (a carico della stessa persona, per lo stesso fatto riguardante, però, due diverse persone offese) appare essere indirettamente superata dalla Suprema Corte, quando afferma che

l’omessa annotazione della notitia criminis nell’apposito registro non determina l’inutilizzabilità degli atti compiuti sino al momento dell’effettiva iscrizione nel registro, poiché, il termine di durata massima al cui scadere consegue l’inutilizzabilità degli atti di indagine successivi, decorre per l’indagato dalla data in cui il nome è effettivamente iscritto e non dalla data in cui il p.m. avrebbe dovuto iscriverlo; in tal modo, la tempestività dell’iscrizione, sfornita di sanzione processuale, è sottratta al sindacato del giudice afferendo al campo della valutazione discrezionale del p.m. (v. Cass. Sez. Un., 21 giugno 2000, Tamarro, in CP 2000, 3259). (D.R.)

@ Tribunale di Salerno, sez. III (Pres. ed est. Verasani), ud. 7 marzo 2003, sentenza n. 446. Reati contro la moralità pubblica ed il buon costume – Prostituzione – Induzione, favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione – Nozione. (art. 3, L. 20 febbraio 1958, n. 75) Costituisce induzione alla prostituzione il comportamento di chi agisce sul soggetto destinatario delle proprie attenzioni al fine di persuaderlo a superare le resistenze di ordine morale; costituisce favoreggiamento qualsiasi attività idonea ad agevolare e facilitare l’altrui meretricio; costituisce, infine, sfruttamento qualunque partecipazione parassitaria ai guadagni o alle diverse utilità ricavate dal lenocinio. (1) (1) L’induzione al meretricio include tutti i comportamenti di persuasione, convincimento, determinazione, eccitamento e rafforzamento della decisione di prostituirsi, sia facendo sorgere per la prima volta tale intendimento, sia rafforzando il precedente convincimento, aggiungendovi ulteriori stimoli e motivazioni per riprendere l’attività (Cass., sez. III, 20 maggio 1998, Mimou, in RP 1998, 876; Tribunale di Milano, 18 marzo 1999, in FA 1999, 146). La giurisprudenza ha evidenziato la necessità che la condotta del reo consista in un’attività “positiva”, non bastando la mera inerzia ovvero tolleranza: Cass., sez. II, 15 febbraio 1985, Borrini, in GP 1986, II, 163; Cass., sez. III, 27 gennaio 1984, Canullo, in RP 1984, 783. In dottrina, La Cute, Prostituzione (dir. vig.), in Enciclopedia del Diritto, Milano, 1988, 462). La circostanza che la donna abbia in precedenza esercitato il turpe mestiere non inibisce la configurabilità dell’illecito de quo ogniqualvolta l’agente “ne rafforzi la determinazione … ovvero agisca su di essa per farla persistere nell’ attività dalla quale più volte abbia manifestato la volontà di allontanarsi”: Cass., sez. I, 21 novembre 1989, Silvestrin, in CP 1991, 822; Cass., sez. III, 27 novembre 1987, Curvà, in RP 1988, 610). Secondo la dottrina, dal momento che la norma in esame punisce l’induzione “alla prostituzione”, intesa quale modus vivendi, la fattispecie criminosa in parola si realizza soltanto nel caso in cui il soggetto passivo sia indotto ad avere rapporti sessuali con un numero

Page 28: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

28

indeterminato di soggetti e non anche nell’ipotesi di induzione a singoli episodi di prostituzione: Pavoncello Sabatini, Prostituzione (disposizioni penali in materia di), in Enciclopedia Giuridica Treccani, Roma, XXV, 1991, 6). Di contrario avviso è la prevalente giurisprudenza, la quale ritiene sufficiente “un’attività diretta a far cessare le resistenze di ordine morale che trattengono la donna dal prostituirsi al fine di una qualsiasi utilità economica, anche se l’attività, concreta ed idonea, sia stata svolta per il rapporto con una sola persona”: Cass., sez. I, 13 marzo 1986, Rizzeri, in GP 1987, II, 420; Cass., sez. III, 20 aprile 1983, Traiani, in RP 1984, 36). Lo sfruttamento della prostituzione ricorre nei casi di ricezione dei vantaggi economici dell’altrui meretricio senza giusta causa: La Cute, Prostituzione (dir. vig.), in Enciclopedia del Diritto, Milano, 1988, 468; Pioletti, Prostituzione, in Digesto (discipline penalistiche), Torino, 1995, 289; Cass., sez. III, 17 marzo 2000, Majko [rv. 217199]; Cass., sez. III, 13 ottobre 1998, Contessa [rv. 212362]. Il compenso rilevante ai fini della realizzazione della fattispecie in esame può consistere anche nel “ricevere prestazioni sessuali, … in quanto ciò costituisce un profitto, economicamente valutabile quale mancata spesa di danaro” (Cass., sez. III, 14 marzo 2000, Vorosmarti, in FI 2000, II, 695), ovvero “ottenendo in ospitalità, vestiario, doni sistematici o altro i mezzi necessari per il soddisfacimento dei (propri) bisogni, vizi o piaceri” (Cass., sez. III, 27 febbraio 1981, Inchico, in GP 1982, II, 97; Cass., sez. III, 15 novembre 1983, Inchini, in CP 1985, 1000). La giurisprudenza ha escluso la configurabilità della condotta di sfruttamento in tutti i casi di corresponsione dei proventi del meretricio per giusta causa (Cass., sez. III, 11 novembre 1987, Misi, in RP 1988, 227), dovendo “il guadagno del soggetto attivo … rappresentare effettiva partecipazione ai proventi della turpe attività … (ed essere) svincolato da qualsiasi forma di corrispettività” (Cass., sez. III, 20 ottobre 1982, Fanelli, in CP 1984, 413). La disposizione che punisce il favoreggiamento non fornisce una definizione del favoreggiatore, connotandosi per una formulazione assai lata e generica (La Cute, Prostituzione (dir. vig.), in Enciclopedia del Diritto, Milano, 1988, 465; Calvi, Sfruttamento della prostituzione, Milano, 1970, 66). Secondo l’elaborazione giurisprudenziale, il reato de quo si perfeziona mediante qualsivoglia condotta finalizzata ad agevolare, rendere più semplice e lucroso l’esercizio dell’altrui prostituzione (Cass., sez. III, 31 gennaio 2001, Dovana [rv. 218754]; Cass., sez. III, 13 aprile 2000, Donati [rv. 217080]). La dottrina e la giurisprudenza concordano nel ritenere necessario che l’azione del soggetto attivo debba avere una precisa efficienza causale rispetto all’esercizio della prostituzione: non si ritiene necessario che la condotta si atteggi a conditio sine qua non, essendo sufficiente che l’agente ponga in essere condizioni più favorevoli per lo svolgimento del turpe mestiere: Cass., sez. III, 15 giugno 1981, Carlini, in CP 1983, 422; La Cute, Prostituzione (dir. vig.), in Enciclopedia del Diritto, Milano, 1988, 465; Pioletti, Prostituzione, in

Digesto (discipline penalistiche), Torino, 1995, 288. In applicazione del suindicato principio, è stata esclusa la ricorrenza del reato di favoreggiamento della prostituzione nella condotta del “cliente che riaccompagni con la propria auto la donna nel luogo, ove l'aveva prelevata … giacché si tratta di un comportamento che, pur se accessorio ed ulteriore rispetto al rapporto di meretricio, non concretizza un aiuto nel senso richiesto dalla norma incriminatrice” (Cass., sez. III, 14 febbraio 2001, P.M. in proc. Mazzanti [rv. 218870]). Contra Pavoncello Sabatini, Prostituzione (disposizioni penali in materia di), in Enciclopedia Giuridica Treccani, Roma, XXV, 1991, 6, il quale sostiene che possono venire in considerazione esclusivamente quei comportamenti dotati di efficienza causale decisiva rispetto all’evento prostituzione). (L.A.M.F.)

Page 29: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

29

DIRITTO CIVILE E PROCESSUALE Tribunale di Salerno, sez. III (Pres. Sergio), 15 settembre 2003, ordinanza n. 567. Fermo amministrativo dei beni mobili registrati – Giurisdizione – Competenza. (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602; D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546; D.M. 7 settembre 1998,n. 503; D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80; L. 21 luglio 2000, n. 205; L. 28 dicembre 2001,n. 448) (1). E’ da confermare, anche in sede di reclamo (2), la giurisdizione del giudice ordinario in tema di disapplicazione del fermo amministrativo operato dall’E.TR. S.p.a. in carenza di potere, in quanto non attribuibile né a quella delle Commissioni Tributarie (3) né a quella del giudice amministrativo (4). Tribunale di Salerno, Sez. dist. di Eboli, (G.M. Catalozzi), 18 settembre 2003, ordinanza.

Fermo amministrativo dei beni mobili registrati – Giurisdizione – Competenza. (D.P.R. 29 settembre, 1973, n. 602; D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546; D.M. 7 settembre 1998,n. 503; D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80; L. 21 luglio 2000, n. 205; L. 28 dicembre 2001,n. 448). Il debitore al quale è stato applicato il provvedimento di fermo amministrativo è titolare di una situazione giuridica soggettiva qualificabile come interesse legittimo che determina la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo, anziché del giudice ordinario (5) (6). (1) La complessità dell’argomento e l’interesse che assume sulla collettività impongono ulteriori riflessioni in ordine al fermo amministrativo dei beni mobili registrati, già precedentemente affrontato in F.S., 2003, 52 ss. (2) Avverso l’ordinanza emessa dal Tribunale di Salerno, Sez. Dist. di Eboli, G.M. Tritto, 17/7/2003. (3) In quanto l’art. 2 del D.Lgs. 31/12/1992 n° 546, come modificato dalla L. 28/12/2001 n° 448, la esclude per gli atti dell’esecuzione forzata successivi alla notificazione della cartella di pagamento e, ove previsto, dall’avviso di cui all’art. 50 del D.P.R. 29/09/1973 n° 602 e limita la cognizione della pretesa tributaria con specifico riferimento agli atti individuati dall’art. 19 del D.Lgs. cit. (4) Il fermo in questione incide su una posizione soggettiva e cioè sul diritto di proprietà (Cost. art. 42; cod. civ. artt. 832 e ss.) e, per l’effetto, il potere di disapplicazione è attribuito al giudice ordinario dall’art. 5 della L. 20 marzo 1865, n. 2248 All. E (Cfr. sul punto tra le tante, Cass. Sez. Un., 28 dicembre 2001, n° 16218). (5) L’ orientamento del Tribunale di Salerno, non è unanime. L’ordinanza in commento, infatti, sostiene che “alla luce della normativa vigente, l’istituto in esame sembra doversi qualificare, quanto alla sua

natura, quale atto di autotutela esercitato da un soggetto (il Concessionario) titolare di potestà pubbliche, sia pure trasferite, in funzione di garanzia della fruttuosità dell’esecuzione preannunciata con la notifica della cartella di pagamento” ; il provvedimento di fermo “è destinato a produrre effetti provvisori sino all’adozione dell’eventuale provvedimento di revoca ovvero alla notifica dell’atto di pignoramento del bene eseguito nell’ambito del processo esecutivo esattoriale, cui è finalizzato” e che in ordine alla sua natura e alla finalità cautelare, “esso può essere accostato al fermo amministrativo previsto dall’art. 69, ult. comma, r.d. 18 novembre 1923, n. 2440, avente tuttavia natura diversa (cfr. sui caratteri di tale istituto, Cons. Stato, sez. VI, 7 dicembre 2001, n. 6179; Cass. 29 marzo 2000, n. 3796;Cass. 3 settembre 1996, n. 8053)”. L’ordinanza continua evidenziando che il fermo amministrativo “si presenta, in astratto, idoneo ad incidere sui diritti proprietari del contribuente debitore, degradandoli al rango di interessi legittimi, poiché esercizio da parte di un soggetto investito di potestà pubbliche di un potere espressamente attribuitogli dall’ordinamento, richiedente la ponderazione dei diversi interessi confliggenti e il ricorso a scelte dal carattere discrezionale; in proposito, deve distinguersi l’interesse del debitore a contestare la legittimità del provvedimento di fermo sotto il profilo della correttezza dell’azione discrezionale e dell’assenza di profili riconducibili all’eccesso di potere, avente come accennato, consistenza di interesse legittimo, da quello rivolto alla contestazione del diritto a provvedere ad esecuzione forzata o delle modalità mediante le quali l’esecuzione si svolge - distinto e autonomo rispetto al primo e non influenzato dall’eventuale intervento, nel corso del procedimento di riscossione, del fermo amministrativo -, la cui tutela affidata agli strumenti dell’opposizione all’esecuzione e agli atti esecutivi, con le limitazioni di cui all’art. 57, d.P.R. n. 602/73,così come sostituito dall’art. 16, d.lgs. 46/99; il collegamento teleologico esistente tra il provvedimento di fermo e il procedimento di riscossione esattoriale, i cui atti sono affidati al controllo giurisdizionale del giudice ordinario,secondo la preferibile interpretazione sistematica degli artt. 29, 2° comma, d.lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, e 12, 2° comma, l, 28 dicembre 2001, n. 448, non appare idoneo a determinare, in assenza di alcuna espressa disposizione normativa, l’attrazione alla competenza di siffatto giudice anche della cognizione delle controversie attinenti la legittimità dell’adozione del fermo amministrativo”. Il Tribunale di Salerno, Sez. dist. di Eboli, con l’ordinanza del 18 settembre 2003 sostiene, inoltre, che “la titolarità in capo al debitore di una situazione giuridica soggettiva, qualificabile in termini di interesse legittimo determina la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo, anziché quella del giudice ordinario” e tale conclusione “ appare avvalorata anche dal consolidato orientamento della giurisprudenza in materia di fermo amministrativo ex art. 69, r.d. n. 2440/33 che individua nel giudice amministrativo la competenza a conoscere delle azioni promosse per l’annullamento del

Page 30: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

30

provvedimento di fermo e nel giudice ordinario quello competente ad accertare la pretesa sostanziale dell’amministrazione”. L’ordinanza si pone in espresso contrasto con altre pronunce dello stesso Tribunale rese sulla questione in oggetto ritenendo “che non appare condivisibile l’orientamento fatto proprio da diverse pronunce rese da questo Tribunale secondo il quale i provvedimenti di fermo amministrativo … sarebbero tutti emanati in carenza di potere – con conseguente in suscettibilità di degradare i diritti dei destinatari degli atti ad interessi legittimi e individuazione del giudice ordinario quale autorità giudiziaria competente a conoscere le controversie attinenti alla legittimità degli stessi -, in considerazione della mancata adozione, del decreto ministeriale attuativo delle previsioni di cui all’art. 86, d.P.R. n. 607/73” . Secondo tale ordinanza le modifiche apportate al richiamato art. 86 non hanno inciso “né sulla natura del fermo, né sulla sua funzione… rimanendo inalterata sia la sua autonomia rispetto al processo esecutivo, … sia la sua finalità cautelare, di tipo conservativo” e poiché “anche la struttura, la forma e l’esecuzione del provvedimento è rimasta immutata, essendo cambiato solo il soggetto legittimato all’emanazione dello stesso… non appare necessaria l’adozione di un regolamento di attuazione nuovo rispetto a quello adottato con d.m. n. 504 del 1998… in quanto si presenta idoneo a disciplinare le modalità di attuazione dell’istituto in esame, attesa la sostanziale identità di struttura, finalità e funzione di siffatto istituto con quello precedentemente disciplinato”. Così “l’eventuale mancato rispetto da parte della pubblica amministrazione e dei concessionari dei principi di buona amministrazione e di imparzialità, nonché di legalità, trasparenza e ragionevolezza può costituire oggetto di censura da parte dei privati interessati dinanzi al giudice amministrativo, sotto il profilo della violazione di legge ovvero dell’eccesso di potere”. L’ordinanza, invece, concorda, sulla esclusione della giurisdizione della commissione tributaria. (6) Sul punto si segnala anche TAR Puglia – Bari Sez. I, 25/07/2003, n° 3000 (su altalex.it, 2003) che dichiara, in materia di fermo amministrativo la giurisdizione del giudice amministrativo secondo la seguente argomentazione: “… il fermo amministrativo è un provvedimento in senso proprio, in quanto si estrinseca nell’emanazione di un atto unilaterale idoneo ad incidere un modo autoritativo nella sfera giuridico-patrimoniale del destinatario, con la imposizione di un vincolo di indisponibilità del bene che implica nella temporanea privazione del diritto di godimento, e cioè del ius utendi ac fruendi e che si risolve anche in un divieto di utilizzazione del mezzo, la cui violazione espone all’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria e all’asportazione del veicolo affidato in custodia a depositario autorizzato; in quanto provvedimento amministrativo, ed in funzione della chiara lettera della disposizione novellata dell’art. 86 comma, 1, alla sua emanazione corrisponde l’esercizio di un potere amministrativo discrezionale sull’an, ma anche sul quid, poiché il concessionario non soltanto può scegliere se adottare

la misura bensì anche “graduarla” nel suo oggetto; che alla luce dei rilievi che precedono, e dovendosi escludere che il fermo sia atto della procedura esecutiva, mentre deve negarsi la giurisdizione dell’A.G.O., deve riconoscersi quella del G.A., quantomeno nei sensi dell’attrazione delle controversie relative alla legittimità del fermo alla sfera della giurisdizione amministrativa generale di legittimità, se non addirittura nella sfera della giurisdizione amministrativa esclusiva ex art. 33 del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, come sostituito dall’art. 7 della L. 21 luglio 2000, n° 205 relativa alla materia dei pubblici servizi, che comprende, in base al comma 2 della lettera e) anche le controversie riguardanti “… le attività … di ogni genere … rese nell’espletamento di pubblici servizi … “, sotto quest’ultimo profilo non può sfuggire che l’emanazione del fermo amministrativo di cui all’art. 86 comma 1 del D.P.R. n° 602 del 1973 è riconducibile all’attività di un concessionario di pubblico servizio (della riscossione” e che essa non dà logo, ovviamente, a d un “rapporto individuale di utenza”; che sotto altro profilo, non può nemmeno ammettersi la devoluzione dell’impugnativa del fermo alla giurisdizione tributaria, nemmeno nella più ampia sfera disegnata dall’art. 12 comma 2 della L. 28 dicembre 2001, n° 448, che ha sostituito l’art. 2 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n° 546, perché essa riguarda le controversie “aventi ad oggetto i tributi”, e quindi quelle che, con o senza impugnazione di atto dell’accertamento o della riscossione, attengono in via diretta ed immediata all’esistenza dell’obbligazione tributaria e la sua misura, né potendo considerarsi il fermo, ovviamente, una sanzione amministrativa, poiché esso non si correla ad alcuna violazione ed integra invece una misura cautelare, che, prescindendo dalla questione, oggettivamente controvertibile, della perdurante efficacia ed applicabilità del regolamento ministeriale d cui ad D.M. 7 settembre 1998, n° 503, appaiono fondate ed assorbenti le censure di cui ai motivi sub 2 e 3; che, riconosciuta la natura di provvedimento amministrativo del fermo, non può negarsene la discrezionalità, come è dato di evincere sin dalla lettera dell’art. 86 comma 1 D.P.R. n. 602 del 1973, onde è indubitabile che esso debba essere motivato in modo congruo e specifico; motivazione che deve individuare le specifiche esigenze che giustificano l’adozione della misura cautelare in rapporto all’entità del credito tributario e a circostanze concrete, attinenti al debitore, atte a compromettere la garanzia del credito, e che nella specie esula del tutto; che alla stregua delle osservazioni che precedono è evidente l’illegittimità del provvedimento di fermo amministrativo impugnato che va di conseguenza annullato, salvi i successivi adempimenti della società intimata in ordine alla cancellazione dell’iscrizione”. Precedentemente, però, il Tribunale di Bari, G.M. Ruffino, 17/7/2003, ordinanza (in altalex.It, 2003, con nota a cura degli Avv.ti Massimo Melpignano e Antonio Tanza) ha affermato “prima facie la giurisdizione del giudice ordinario” . Si segnala anche Tribunale di Napoli, 25 marzo 2003, in Giur. Napoletana, 2003, 290, secondo cui “in caso di esecuzione esattoriale, il fermo amministrativo dei beni

Page 31: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

31

mobili registrati…costituisce esercizio di potere amministrativo, concretandosi in un provvedimento amministrativo con finalità cautelare di autotutela. Ne discende che mentre il g.o., ove gli sia attribuita la giurisdizione nel merito, ha il potere di valutare l’esistenza del rapporto di credito a tutela del quale è stato emesso il provvedimento di fermo, le contestazioni circa la legittimità formale del medesimo spettano al giudice amministrativo, con l’ulteriore conseguenza che il g.o. non ha il potere di sospendere in via d’urgenza gli effetti derivanti dal provvedimento in oggetto”.

***

Ufficio del Giudice di Pace di Eboli, (Dr.ssa Pellegrino) 30 giugno 2003, ordinanza.

Opposizione a decreto ingiuntivo – Costituzione del convenuto - Modifica della domanda –Proposizione di domanda riconvenzionale – Ammissibilità - Esclusione. ( Artt. 36, 645 e ss. c.p.c.) Nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo solo l’opponente, sostanzialmente convenuto, può proporre domanda riconvenzionali mentre l’opposto, sostanzialmente attore, non può proporre domande diverse da quelle fatte valere con l’ingiunzione (1) (1) L’ordinanza del Giudice di Pace di Eboli offre lo spunto per affrontare la vexata quaestio della proponibilità o meno, in testa all’opposto, convenuto formale ma attore sostanziale nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, di domande riconvenzionali. La comparsa di costituzione e risposta assolve, essenzialmente, ad una funzione definita secondaria, quella cioè di permettere all’opposto di “manifestare la volontà di partecipare attivamente anche alla nuova fase processuale e di replicare alle difese <estintive>, <impeditive> o <modificative> ovverosia, ribadendo le proprie <costitutive>, già svolte nel ricorso monitorio, salvo non voglia avvalersi delle facoltà di innovazione o modificazione del thema decidendum che il codice civile gli attribuisce” (cfr. F.Lazzaro, M Guerrieri, P. D’Avino, Il decreto ingiuntivo nella fase litigiosa, 2003, 81 ss.). Orbene, se la dottrina e la giurisprudenza sono concordi nell’affermare la possibilità dell’opposto di precisare, ma anche rettificare la domanda formulata nel suo ricorso e modificare altresì la causa pretendi, rientrando tale modificazione nei limiti di un’emendatio libelli (Cfr. Cass. Sez. 3, 17 giugno 1977, n. 2524), senza avere la facoltà di una mutatio libelli ( Cass., Sez. 1, 25 febbraio 1980, 1312; Cass. Sez. III, 9 maggio 1987,4298) è fortemente dibattuta la questione della proponibilità di domande riconvenzionali (sul punto A. Valitutti – F. De Stefano, Il decreto ingiuntivo e la fase di opposizione, 2000, p. 266) Il primo contrasto fu composto da Cass. Sez. Un. 18 maggio 1994, 4837, secondo la quale “spettano all’opposto tutti i poteri che il codice di rito ricollega alla posizione processuale di convenuto, compreso

quello di proporre domande riconvenzionali…se sia ravvisabile un collegamento obiettivo tra la domanda principale e domanda riconvenzionale, tale da rendere opportuno.. la celebrazione del simultaneus processus”. Ma già con Cass. Sez.I, 22 marzo 1995, n. 3254, si riafferma il principio contrario, in base al quale “l’opposto non può proporre domande riconvenzionali”. Con Cass. Sez. I, 12 luglio 1996, n. 6332, si ravviva il problema quando si afferma la possibilità della “proposizione da parte dell’opposto di una subordinata di arricchimento senza causa” considerata non come mutatio ma mera ementatio (contra, Cass. Sez. Un., 22 marzo, 1996, 4712). Recentemente, le sentenze del supremo Collegio si sono costantemente attestate sulla non esperibilità di domande riconvenzionali (cfr. Cass. 29 gennaio 1999, n. 813, Cass. Sez. III, 20 novembre 2002, n. 16331), anche se tale principio non può non subire deroghe quando, “per effetto di una riconvenzionale proposta dall’opponente la parte opposta si trova nella posizione processuale di convenuto, al quale non può essere impedito il diritto di difesa rispetto alla nuova o più ampia pretesa della controparte” con la proposizione di una riconventio riconventionis (Cass. Sez. lav., 9 ottobre 2000, n. 13445 e Cass. Sez. I,10 agosto 2001, n. 11053).

*** Tribunale di Salerno, sez. IV, (G.M. De Stefano), 27 maggio 2002, n. 3431.

Concordato fallimentare – Preliminare di vendita – Rilascio immobile – Occupazione senza titolo – Opponibilità - Esclusione. ( Artt. 72, 124 ss. R.D. 16 marzo 1942, n. 267). Una volta ammesso al concordato fallimentare (1), il soggetto precedentemente dichiarato fallito è legittimato (2) a proseguire il giudizio di rilascio di immobile, avviato dalla curatela fallimentare nei confronti del promissario acquirente, quando non si è ritenuto di perfezionare il preliminare ai sensi dell’art. 72 del R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (3) (4). (1) Il concordato fallimentare è un modo di chiusura del fallimento di natura contrattuale, secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalente di merito, pubblicistica, secondo altri autori e la giurisprudenza di legittimità, mista, secondo un terzo orientamento dottrinario. (2) Con il passaggio in giudicato della sentenza che omologa il concordato, si consolidano definitivamente gli effetti dell’omologazione, si chiude la procedura di fallimento e cessa lo stato fallimentare, salve le ipotesi di risoluzione o annullamento (cfr. Cass. 25 marzo 1987, n.2880). Anche se non vengono meno le restrizioni di carattere personale discendenti dall’iscrizione nel registro dei falliti (Cass. 16 aprile 1988, n. 3008) cessano, invece, per il fallito gli altri effetti del fallimento, con tutte le conseguenze di ordine patrimoniale, così che lo stesso viene reintegrato nella disponibilità dei beni e nell’amministrazione del

Page 32: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

32

patrimonio e riacquista la capacità processuale, sia attiva che passiva. (3) Con tale articolo il legislatore si è occupato di regolare gli effetti del fallimento sui rapporti giuridici preesistenti e non ancora, in tutto o in parte, eseguiti ed “ha percorso tutte le strade possibili secondo le caratteristiche delle tipologie dei rapporti: lo scioglimento (ad es. per il mandato), la prosecuzione (ad esempio per l’assicurazione sulle cose), una soluzione intermedia a discrezione degli organi fallimentari (ad esempio per la vendita)” (così Pajardi (a cura di), Codice del Fallimento, 1997, 438). Il contratto preliminare, pur se strumentale alla stipula del definitivo, comporta solo l’obbligo di prestare successivamente il consenso “rientrando nella discrezionalità del curatore e degli organi della procedura, a valutare se subentrare o meno o se chiedere l’esecuzione in forma specifica” (in dottrina, tra gli altri cfr. Bonsignori, Il fallimento, 430). Irrilevante è la circostanza che sia già avvenuto il versamento del prezzo (Cass. 29 marzo, 1989, n. 1497). Il preliminare cui non abbia fatto seguito il contratto definitivo è da assimilare ad un atto di vendita non concluso da alcuna delle parti, così nel caso del fallimento del promittente venditore la domanda del promissario acquirente ex art. 2932 c.c. deve essere respinta nel merito ove il curatore, che ne ha la scelta, eserciti il regresso (Cass. 13 maggio, 1982, n. 3001). C’è da notare che questa soluzione interpretativa è stata recepita dalla recente disciplina in tema di trascrizione del preliminare ( l’art. 72 co. 5° del R.D. 16 marzo 1942, n. 267 è stato inserito dall’art. 3 co. 6° del D.L. 31 dicembre1996, n. 669,convertito nella L. 28 febbraio 1997,n. 30), dalla quale emerge che anche nei casi in cui il contratto preliminare di vendita immobiliare sia stato trascritto (ex art. 2645-bis c.c) anteriormente alla sentenza dichiarativa di fallimento, rimane integra la facoltà del curatore di recedere dal contratto preliminare. Qualora manchi la trascrizione o essa sia successiva alla dichiarazione di fallimento, l’immobile rimane assoggettato alla disciplina fallimentare e il promissario potrà solo insinuare nel fallimento l’eventuale credito (chirografario) alla restituzione del prezzo (Luminoso, Contratto Preliminare, pubblicità e garanzie, in Luminoso e Palermo, La trascrizione del contratto preliminare. Regole e Dogmi., Padova, 1998, 90 ss.), da compensare con l’eventuale controcredito del promittente venditore ai sensi dell’art. 56 R.D. 13 marzo 1942, n. 267 ( cfr. Cass. Sez. Un., 16 novembre 1999, n. 755). (4) Conforme, Tribunale di Salerno, sez. IV, (G.M. Carleo), 18 giugno 2003, n. 2183.

***

Ufficio del Giudice di Pace di Eboli, (Dr.ssa Pellegrino) 19 settembre 2003, n. 1123.

Compravendita – Risoluzione e restituzione del bene – Termini – Disciplina applicabile. ( Artt. 1519 bis e ss. C.c.).

Con l’approvazione del D.Lgs. 2 febbraio 2002, n. 24 (1) sono stati introdotti nel codice civile otto nuovi articoli(2) diretti a garantire una maggiore tutela del consumatore (3). Tali norme hanno prolungato a 2 anni la durata della garanzia di legge ed a 60 giorni il termine per la denuncia dei vizi dei prodotti acquistati ed hanno sancito il diritto del compratore di chiedere la riparazione o la sostituzione del prodotto (4). In caso di inadempimento del venditore l’acquirente potrà chiedere la riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto (5) (6). (1) La disciplina in oggetto – in ottemperanza della direttiva comunitaria 1999/44/CE in materia di garanzia di beni di consumo - non esclude né limita i diritti che sono attribuiti al consumatore da altre norme dell’ordinamento giuridico. (2) Artt. 1519 bis - 1519 nonies c.c.. (3) La normativa introdotta dal D.Lgs. cit. si basa essenzialmente sul presupposto che sussista un difetto di conformità del bene venduto, in quanto il venditore ha l’obbligo di consegnare al consumatore beni di consumo corrispondenti al contratto di vendita. Si considera conforme il bene idoneo all’uso al quale servono abitualmente beni analoghi, quando è conforme alla descrizione fatta dal venditore e presenta qualità e prestazioni abituali di un bene dello stesso tipo ed è idoneo all’uso voluto dal consumatore. (4) Mediante l’assegnazione di un congruo termine per adempiere al venditore. (5) Salvo prova contraria, la legge presume che i difetti di conformità che si manifestino entro sei mesi dalla consegna del bene esistessero già al momento della consegna. (6) La sentenza risulta una delle prime applicazioni della nuova normativa codicistica così come novellata dalla legislazione comunitaria che può considerarsi una vera e propria “rivoluzione copernichiana” nell’ambito dell’annoso rapporto tra consumatori ed imprenditori, soprattutto in relazione alle compravendite mobiliari. La c.d. tutela del consumatore, oramai, può essere considerata come una vera e propria normativa speciale, annoverando innumerevoli leggi che hanno direttamente novellato il codice civile, come quella in commento o la L. 6 febbraio 1996, n. 52 il cui art. 25 ha introdotto il Capo XIV bis (artt. 1469 bis – 1469 sexies c.c.), oppure che hanno regolato singoli rapporti o istituti di portata anche transnazionale, tra le quali: D.P.R.24 maggio 1988, n. 244. Attuazione della direttiva CEE n. 85/374 relativa al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi, ai sensi dell’art. 15 della L. 16 aprile 1987, n. 183; L, 10 aprile 1991, n. 126. Norme per l’informazione del consumatore; D.Lgs. 15 gennaio 1992, n. 50. Attuazione della direttiva n. 85/577/CEE in materia di contratti negoziati fuori dei locali commerciali; D.Lgs. 25 gennaio 1992, n. 74. Attuazione della direttiva 84/450/CEE, come modificata dalla direttiva 97/55/CEE in materia di

Page 33: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

33

pubblicità ingannevole e comparativa; D.Lgs. 25 gennaio 1992, n. 73. Attuazione della direttiva 87/357/CEE relativa al prodotto che, avendo un aspetto diverso da quello che sono in realtà, compromettono la salute o la sicurezza del consumatore; D.Lgs. 17 marzo 1995, n. 111. Attuazione della direttiva 90/314/CEE concernente i viaggi, le vacanze ed i circuiti <tutto compreso>; D.Lgs. 17 marzo 1995, n. 115. Attuazione della direttiva 95/59/CEE relativa alla sicurezza generale dei prodotti; L. 30 luglio 1998, n. 281. Disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti; D.Lgs. 22 maggio 1999, n. 185. Attuazione della direttiva 97/7/CEE relativa alla protezione dei consumatori dei contratti a distanza.

Tribunale di Salerno, Sez. Dist. di Eboli (G.M. Tritto), 4 giugno 2003,ordinanza .

Termini processuali – Termini ordinatori – Scadenza – Mancata proroga – Conseguenze. ( Artt. 154 c.p.c ). Il termine concesso per la ricostruzione di un fascicolo di parte, in mancanza di una espressa previsione, va considerato ordinatorio ex art. 157 c.p.c (1) e, pertanto, non si decade dalla possibilità di integrarla successivamente (2). (1) Il problema della perentorietà o meno dei termini assegnati alle parti per la ricostruzione dei fascicoli è un argomento sempre all’ordine del giorno in tutti i Tribunali italiani. L’ordinanza in oggetto, afferente ad un caso di ricostruzione a seguito di sottrazione di un fascicolo, ha risolto la questione considerando il termine ordinatorio in mancanza di una espressa previsione normativa. Sul punto si osserva, però, che la natura del termine assegnato alle parti dal giudice non comporta che la sua inosservanza sia priva di effetti giuridici, atteso che il rimedio per ovviare alla scadenza del termine è quello della proroga prima del verificarsi di essa, ai sensi dell’art. 154 c.p.c. (2) Cass. Sez. I, 25 luglio 1992, n. 8976 ha precisato, però, che “il decorso del termine ordinatorio senza la previa presentazione di un’istanza di proroga ha gli stessi effetti preclusivi della scadenza del termine perentorio ed impedisce la concessione di un nuovo termine per svolgere la medesima attività”. Cass., sez. I civile (Presidente G. Olla - Relatore F. Felicetti), 23 marzo 2001, Sentenza n. 4202. Sentenza di divorzio - Intangibilita' della statuizione sull'assegno di divorzio in relazione alla successiva delibazione di sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 1. S. G., con ricorso 19 settembre 1997 al Tribunale di Roma, chiedeva la soppressione dell'assegno divorzile di lire 500.000 mensili disposto a favore della sua ex moglie M. C. con sentenza di divorzio del 1991. Esponeva che gli effetti economici di tale sentenza

dovevano ritenersi caducati a seguito della delibazione, da parte della Corte di appello di Roma, con pronuncia del 1996, della sentenza ecclesiastica con la quale era stata dichiarata la nullità del matrimonio intercorso fra le parti. Deduceva altresì che la ex moglie aveva mezzi sufficienti a mantenersi da sola e che aveva rifiutato incarichi lavorativi. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Con il ricorso si denuncia la violazione degli artt. 2909 cod. civ., 324 c.p.c., 129 bis cod. civ. e 8 della legge 28 marzo 1985, n. 121. Si deduce in proposito che l’art. 8 della legge n. 121 del 1985, che ha reso esecutivo l’accordo di revisione del concordato fra lo Stato italiano e la S.Sede del 18 febbraio 1984, condizionando la dichiarazione di efficacia della sentenza ecclesiastica nell’ordinamento italiano all’accertamento della sussistenza delle "condizioni richieste dalla legislazione italiana per la dichiarazione di efficacia delle sentenze straniere" e rinviando all’art. 797 c.p.c., ha abrogato la riserva di giurisdizione all’autorità ecclesiastica in materia di matrimoni concordatari ed ha stabilito il criterio di prevenzione in favore della giurisdizione civile. Ne deriverebbe che una sentenza di divorzio, quale quella che aveva riconosciuto ad essa ricorrente l’assegno di divorzio, passata in giudicato anteriormente alla sentenza di nullità pronunciata dall’autorità ecclesiastica, non può essere posta nel nulla dalla successiva delibazione della sentenza ecclesiastica. La tesi sarebbe suffragata, altresì, dalla previsione, da parte dell’art. 129 bis, cod. civ., di una provvisionale in favore del coniuge più debole, quando non vi sia stata un’anteriore statuizione in sede civile, cioè prima di una sentenza di divorzio. 1. Il motivo è fondato nei sensi appresso indicati. Questa Corte, a SS .UU., con sentenza 13 febbraio 1993, n. 1824, ha affermato il principio secondo il quale, a seguito dell’accordo di revisione del concordato lateranense stipulato il 18 febbraio 1984, ratificato e reso esecutivo con legge 25 marzo 1985, n. 121, è stata abolita la riserva di giurisdizione in favore dei Tribunali ecclesiastici sulle cause di nullità dei matrimoni concordatari, in precedenza stabilita dall’art. 34, comma 4, del concordato del 1929, con la conseguente concorrenza della giurisdizione dei giudici italiani. Le SS. UU. di questa Corte sono pervenute all’affermazione di tale principio attraverso una motivazione complessa ed elaborata, il cui nucleo essenziale è costituito dalla considerazione, per un verso che nell’accordo del 1984 non si rinviene alcuna disposizione che sancisca il carattere esclusivo della giurisdizione ecclesiastica in materia matrimoniale, quale era contenuta nell’art. 34 del concordato del 1929, mentre per altro verso l’art. 13 dell’accordo stabilisce che le disposizioni non riprodotte si intendono abrogate, salvo quanto previsto all’art. 7, n. 6, non concernente la materia matrimoniale. Più specificamente le SS. UU. hanno sottolineato che l’accordo di revisione del 1984 non contiene alcuna disposizione dalla quale la giurisdizione in materia matrimoniale appaia come una prerogativa

Page 34: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

34

dell’ordinamento canonico e non come espressione della sovranità riconosciuta concorrentemente a entrambi gli ordinamenti, né in esso vi è più alcun accenno al recepimento del matrimonio canonico nella sua sacramentalità, con la conseguenza che detta mancata previsione, in correlazione con il disposto dell’art. 13 dell’accordo, abrogativo delle disposizioni non riprodotte, e in correlazione con la disciplina complessivamente dettata sul matrimonio concordatario, implica l’abrogazione della riserva di giurisdizione. Tale interpretazione dell’accordo del 1984 è stata contraddetta dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 421 del 1993, che ha dichiarato la inammissibilità di una questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione alla legge di esecuzione del concordato del 1929 - senza peraltro che la diversa interpretazione appaia correlata né a una diversa esegesi del nuovo accordo, né a motivazioni di ordine costituzionale che la impongano e ad una questione di legittimità costituzionale che, in relazione alla opposta interpretazione, dovrebbe ritenersi fondata - mentre l’interpretazione datane dalle SS.UU. è stata recepita da questa sezione nelle sentenze 18 aprile 1997, n. 3345, 19 novembre 1999, n. 12867 e 16 novembre 1999, n. 12671. In particolare, successivamente alla sentenza delle SS.UU. sopra citata questa sezione, traendo le conseguenze dell’essere venuta meno la esclusività della giurisdizione dei Tribunali ecclesiastici sulle cause di nullità dei matrimoni concordatari, con la citata sentenza 18 aprile 1997, n. 3345 ha ritenuto che, una volta formatosi il giudicato (in quel caso interno) in ordine alla spettanza dell’assegno di divorzio, poiché le parti possono ormai dedurre nel processo per la cessazione degli effetti civili del matrimonio la nullità del vincolo matrimoniale, in forza del principio secondo il quale il giudicato copre il dedotto e il deducibile, la sentenza di divorzio, pur non impedendo la delibazione della sentenza di nullità del matrimonio pronunciata dai Tribunali ecclesiastici, impedisce che la delibazione travolga le disposizioni economiche adottate in sede di divorzio. Questo collegio ritiene che non vi siano ragioni per statuire diversamente, in ordine alla intangibilità delle disposizioni economiche della sentenza di divorzio passata in giudicato, a seguito della successiva delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario. Va precisato che, ove le parti non introducano espressamente nel giudizio di divorzio, attraverso contestazioni al riguardo, questioni sulla esistenza e validità del matrimonio - che darebbero luogo a statuizioni le quali, incidendo sullo stato delle persone, non possono essere adottate incidenter tantum, ma dovrebbero essere decise necessariamente, ex art. 34 c.p.c., con accertamento avente efficacia di giudicato - di regola la esistenza e la validità del matrimonio costituiscono un presupposto della sentenza di divorzio, ma non formano nel relativo giudizio oggetto di specifico accertamento suscettibile di dare luogo al formarsi di un giudicato.

Per questa ragione la sentenza di divorzio - che ha causa petendi e petitum diverse da quelli della sentenza di nullità del matrimonio - ove nel relativo giudizio non si sia espressamente statuito in ordine alla validità del matrimonio (con il conseguente insorgere delle problematiche poste dalla statuizione contenuta nell’art. 8, comma 2, lett. c dell’Accordo del 18 febbraio 1984), non impedisce la delibabilità della sentenza dei Tribunali ecclesiastici che abbia dichiarato la nullità del matrimonio concordatario, in coerenza con gli impegni concordatari assunti dallo Stato italiano e nei limiti di essi. Quanto, invece, ai capi della sentenza di divorzio che contengano statuizioni di ordine economico, si applica la regola generale secondo la quale, una volta accertata in un giudizio fra le parti la spettanza di un determinato diritto, con sentenza passata in giudicato, tale spettanza non può essere rimessa in discussione - al di fuori degli eccezionali e tassativi casi di revocazione previsti dall’art. 395 c.p.c., non dedotti nella specie - fra le stesse parti, in altro processo, in forza degli effetti sostanziali del giudicato stabiliti dall’art. 2909 cod. civ. In proposito va sottolineato che gli impegni assunti dallo Stato italiano con l’accordo del 18 febbraio 1984, si sostanziano, nella materia de qua, secondo la lettera e la ratio dell’art. 8, nell’obbligo per lo Stato italiano - alle condizioni ivi indicate, così come precisate nel protocollo addizionale all’accordo medesimo per un verso di riconoscere gli effetti civili "ai matrimoni contratti secondo le norme del diritto canonico per altro verso di dichiarare efficaci "le sentenze di nullità di matrimonio pronunciate dai Tribunali ecclesiastici, che siano munite del decreto di esecutività del superiore organo ecclesiastico di controllo", facendo venir meno il vincolo matrimoniale in conformità di esse. Resta, invece, rimessa alla competenza sostanziale dello Stato italiano la disciplina dei rapporti patrimoniali fra i coniugi derivanti dai conseguiti effetti civili dei matrimoni concordatari, come si evince dal disposto dell’art. 8, comma 1, che sostanzialmente rimanda in proposito alle disposizioni del codice civile, mentre ogni statuizione riguardo al venire meno di tali effetti, con riferimento alla delibazione delle sentenze ecclesiastiche di nullità dei matrimoni concordatari, è rimessa dall’art. 8, comma 2, ultima parte, esplicitamente alla giurisdizione e implicitamente alla normativa dello Stato italiano. Ne deriva che nessun principio concordatario, a proposito della sopravvenienza - rispetto alla attribuzione con sentenza passata in giudicato di un assegno di divorzio - della delibazione di una sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio, osta alla piena operatività dell’art. 2909 cod. civ. in forza del quale, una volta accertata in un giudizio fra le parti la spettanza di un determinato diritto, con sentenza passata in giudicato, tale spettanza non può essere rimessa in discussione - al di fuori degli eccezionali e tassativi casi di revocazione previsti dall’art. 395 c.p.c. fra le stesse parti. Conseguentemente, una volta accertato nel giudizio con il quale sia stata chiesta la cessazione degli effetti

Page 35: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

35

civili di un matrimonio concordatario, la spettanza a una parte di un assegno di divorzio, ove su tale statuizione si sia formato il giudicato ai sensi dell’art. 324 c.p.c., questo resta intangibile, in forza dell’art. 2909 cod. civ. Non giova dedurre in contrario che in caso di delibazione della sentenza ecclesiastica di annullamento del matrimonio concordatario le conseguenze economiche dell’annullamento sono disciplinate dagli artt. 129 e 129 bis cod. civ., dettando tali articoli una normativa che, in caso di passaggio in giudicato di una sentenza di divorzio prima della delibazione della sentenza ecclesiastica, ai finì della sua applicabilità ne implica il coordinamento con i principi che regolano il giudicato. Né giova dedurre che le sentenze di divorzio vengono emanate "rebus sic stantibus", essendo tale principio correlato al disposto dell’art. 9 della legge n. 898 del 1970 e successive modificazioni, che ne prevedono la modificabilità in relazione alla sopravvenienza di "giustificati motivi", intesi come circostanze che abbiano alterato l’assetto economico fra le parti, o di relazione con i figli, e non come circostanze che sarebbero state impeditive della emanazione della sentenza di divorzio e dell’attribuzione dell’assegno, le quali non sono idonee ad incidere sul giudicato se non nei limiti in cui sono utilizzabili attraverso il rimedio della revocazione. Ne consegue che il ricorso deve essere accolto e la sentenza impugnata cassata, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Roma, che deciderà la causa facendo applicazione del principio di diritto sopra enunciato e statuirà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M. La Corte di cassazione Accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese ad altra sezione della Corte di appello di Roma. (1) (1) Con la sentenza n° 4202, la Corte di Cassazione ha ribaltato il principio sancito da precedenti sentenze di primo e secondo grado, secondo le quali dal momento in cui “ il matrimonio è stato annullato dal Tribunale Ecclesiastico, si ritiene chiuso ogni rapporto esistente tra i coniugi, compreso quello economico. La questione tra C.M. e G.S. risale al settembre del 1997, quando il Tribunale di Roma, accogliendo la richiesta del marito, esonerava quest’ultimo dal versare all’ex moglie l’assegno mensile di £ 500.000 stabilito con la precedente sentenza di divorzio del 1991. Il Tribunale, infatti, ritenne che gli effetti economici della sentenza di divorzio sarebbero venuti meno a seguito della delibazione da parte della Corte d’Appello di Roma della sentenza del Tribunale Ecclesiastico. A seguito di ciò, la Sig.ra C.M. ha proposto ricorso per cassazione sostenendo che l’accordo di revisione del concordato concluso il 18 febbraio 1984 tra lo Stato italiano e la Santa Sede ha abrogato la riserva di giurisdizione dell’Autorità ecclesiastica in materia di matrimoni concordatari. La Suprema Corte (Sezione Prima Civile n. 4202 del 23 marzo 2001, Pres. Olla,

Rel. Felicetti) ha accolto il ricorso, ricordando che le Sezioni Unite, con sentenza del 13 febbraio 1993 n. 1824 hanno affermato il principio secondo cui, a seguito dell’accordo di revisione del concordato lateranense stipulato il 18 febbraio 1984 è stata abolita la riserva di giurisdizione per i tribunali ecclesiastici nelle cause di nullità dei matrimoni concordatari, in precedenza stabilita dall’art. 34 del concordato del 1929. Con l’accordo del 18 febbraio 1984 – ha osservato la Corte – lo Stato italiano si è obbligato per un verso a riconoscere gli effetti civili “ai matrimoni contratti secondo le norme del diritto canonico”, per altro verso a dichiarare efficaci “le sentenze di nullità di matrimonio pronunciate dai Tribunali ecclesiastici, che siano munite del decreto di esecutività del superiore organo ecclesiastico di controllo”, facendo venir meno il vincolo matrimoniale in conformità di esse. Resta, invece, rimessa alla competenza sostanziale dello Stato italiano – ha affermato la Corte - la disciplina dei rapporti patrimoniali fra i coniugi derivanti dai conseguiti effetti civili dei matrimoni concordatari. Conseguentemente, una volta accertata da un Tribunale dello Stato italiano la spettanza di un assegno di divorzio, ove su tale statuizione si sia formato il giudicato per mancata impugnazione, questo resta intangibile in forza dell’art. 2909 cod. civ. (*) (*) Provvedimento e nota rimessi dall’Avv. Cosimo Iannone, dottorando in diritto canonico presso la Pontificia Università della Santa Croce in Roma.

Page 36: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

36

# F O C U S

Introduzione alla studio della criminologia Negli ultimi anni si sente sempre più spesso parlare di criminologia, sembra, infatti, che anche in Italia sia cresciuta l’attenzione per questa disciplina. L’aumento dell’interesse è legato senza dubbio ad un maggiore approfondimento nell’ambito scientifico, nonché ad una maggiore sensibilità dell’opinione pubblica verso i crimini più efferati; ciò comporta, programmi tv legati a temi criminologici, la presenza nei vari talk show di un criminologo, ed una spettacolarizzazione mediatica di attività investigative e di processi, peraltro con esiti non sempre apprezzabili. Si ha voglia di capire il perché di un delitto e le oscure motivazioni che spingono a compiere crimini aberranti. Comunque una cosa è certa, la criminologia ha fatto il suo ingresso sia nella cultura giuridica che nel vivere comune. Tuttavia, se da un lato in tanti professano la loro passione per questa disciplina, dall’altro in pochi in Italia possono “ a ragione” definirsi criminologi e la mancanza di un reale approfondimento ha favorito, negli ultimi tempi, il proliferarsi di corsi universitari, master e convegni. Prima di passare all’analisi relativa a cosa debba intendersi oggi per criminologia, è bene operare una introduzione di carattere storico partendo dal periodo illuministico. L’introduzione di un metodo scientifico, in ambito criminologico, si ebbe, infatti, intorno al 1700, quando si pose fine all’oscurantismo del periodo medioevale, che nell’ambito giuridico significava pene corporali, torture eseguite pubblicamente e processi in cui era spesso il Giudice a qualificare i fatti come reati. Nel 1764 Cesare Beccaria parlava di dignità umana e di certezza della pena nel suo libro “Dei Delitti e delle Pena”, in cui si afferma l’importanza di utilizzare, nella risposta al crimine, i principi illuministici. L’introduzione nel diritto penale della concezione retributiva della pena si ebbe per operato e per merito dei fondatori della scuola Classica tra cui ricordiamo Carrara, Pessina, Carmignani e Rossi. Ferri, Garofano e l’austriaco Von Lizt furono, invece, tra i principali formulatori del pensiero positivistico, secondo cui, nell’applicare la pena, bisogna tener presente la pericolosità sociale di un individuo. Sarà proprio questa idea, del criminale come soggetto pericoloso, a giustificare il sistemo del doppio binario e l’introduzione delle misure di sicurezza nel codice Rocco del 1930. Tra i fautori della scuola positiva vi è anche Cesare Lombroso che, per il peso assunto nella criminologia, merita una citazione separata. Viene, infatti, considerato come il padre della antropologia criminale e, nella sua opera principale

”L’uomo delinquente” sostiene che nel criminale vi è un arresto dello sviluppo ontogenetico, con istinti atavici tipici dell’uomo primitivo. L’erede scientifico di Lombroso è stato Di Tullio, tra i cui meriti vi è anche quello di aver fondato la Società Internazionale di Criminologia. Di Tullio, inoltre, gettò le basi per un approccio interdisciplinare, infatti, pur mantenendo come basilare l’approccio medico, operò un apertura nei confronti della metodologia sociologica. Nel 1957 nacque a Genova la Società Italiana di Criminologia, non più all’ombra dell’ Istituto di Medicina Legale, bensì presso quello di Criminologia e Psichiatria Forense, permettendo, in tal modo, un distacco dalle scienze mediche ed un autonoma definizione, non più antropologia Criminale, ma Criminologia. Detto ciò è necessario ora porsi una domanda; cosa deve intendersi oggi per criminologia? La criminologia è una scienza interdisciplinate e multisciplinare, in quanto richiede molteplici conoscenze ed attinge e si alimenta da tutte quelle scienze che hanno per oggetto lo studio del crimine (psichiatria forense, psicologia, sociologia, biologia, vittimologia, criminalistica, ed il diritto penale). Unitamente a queste concorre a formare le cd Scienze criminali, da ciò ne consegue che il criminologo utilizzerà metodi tipici di queste discipline nell’ analisi del crimine. È necessario pertanto avere conoscenze in settori che hanno in comune solo l’oggetto del loro studio, ma che differisco in modo sostanziale nella metodologia utilizzata. Per quanto attiene il diritto penale, esso rappresenta lo strumento che una comunità utilizza per garantire il rispetto delle norme sociali, e per ristabilire l’ordine nel caso in cui vi tali regole vengano violate Tale finalità ha da sempre interessato il pensiero criminologico, basti considerare che già dai suoi albori, ossia intorno alla fine del 1700, furono effettuati i primi studi sulla delinquenza in Europa ponendosi la domanda di come rispondere e di quali sanzioni applicare in caso di violazione delle regole. Il problema di individuare le norme da seguire e di come intervenire in caso di trasgressione è un problema che accompagna l’uomo, visto che il concetto di “contratto sociale” si evolve e si sviluppa correlativamente allo sviluppo della collettività. Essere culturalmente e professionalmente aggiornati significa, pertanto, approfondire tutte quelle discipline che con il diritto penale interagiscono. Inoltre innovazioni legislative, come l’introduzione nel codice di procedura penale delle norme che consentono di svolgere indagini difensive, determinano l’esigenza, per il difensore, di familiarizzare con i nuovi strumenti della moderna criminalistica come il criminal profiling o, ancora, conoscere nuove figure criminali, per il cui riconoscimento è tuttora in corso un dibattito parlamentare, come lo stalking. Vi sono poi altre motivazioni che spingono ad approfondire gli studi criminologi, infatti agire come difensore o accusatore significa conoscere, oltre i

Page 37: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

37

fenomeni delinquenziali, anche i fattori di criminogenesi che ne determinano i mutamenti. Il nucleo familiare, ad esempio, è di sicuro uno tra i principali fattori che incidono sul cambiamento delle condotte criminali. La famiglia viene, a ragione, considerata come il contesto naturale in cui un individuo comincia a ricevere e a capire che vi sono delle regole che bisogna rispettare. Può essere, pertanto, considerata come una micro-società dove ci si “allena” a convivere con dei precetti e delle sanzioni, per poi in età adulta inserirsi nella società civile. È innegabile che la famiglia sta vivendo un momento di profonda crisi, una crisi sulle cui motivazioni non è facile dare una risposta, ciò che è certo è il venir meno, almeno in parte, della sua funzione naturale: contesto sociale in cui si trasmettono e recepiscono valori necessari per la convivenza tra individui. La crisi consequenziale di ideali contribuisce alla crescita della cultura della devianza, soprattutto in quelle zone depresse economicamente, dove le associazioni criminali hanno vita facile nel reclutare la giovane manovalanza. Altro fattore di criminogenesi è individuato dal terrorismo, che ha causato nel nostro Paese, intorno agli anni 70’, anni di terrore e di forte tensione sociale. A livello internazionale l’attentato alle Torri Gemelle di New York ha sconvolto gli equilibri mondiali, coinvolgendo il popolo americano nelle lotta ad un fenomeno per loro sostanzialmente nuovo. Vi è poi la criminalità legata ad internet: il computer crimes. L’evento dell’ informatica ha cambiato le nostre abitudini, basti pensare a come si siano ridotte le distanze tra le persone e al ventaglio di possibilità che si possono trovare nella “Rete”, dove si offre di tutto. Quanto detto può sembrare banale, ma oltre i pirati informatici ( hackers) che agiscono per contestare l’attuale sistema economico e che, pertanto, utilizzano l’informatica, i crimini legati ad internet sono spesso commessi da persone che non hanno precedenti penali e che mai avrebbero immaginato di compiere reati. Questo si verifica per alcuni ordini di motivi, tra cui, verosimilmente, il più importante è individuato dal fatto che si rimane a casa propria, non pensando di commettere azioni delittuose. Inoltre manca l’interazione con altri individui, circostanza che solitamente induce, chi non ha mai avuto condotte delinquenziali, a recedere dagli intenti criminali. In sostanza perdendo aderenza con la realtà, vengono meno gli input sociali che spingono una persona a non avere comportamenti sanzionabili. Infine altro fattore che ha determinato un cambiamento della società e delle condotte delinquenziali è rappresentato dai flussi migratori. È un fenomeno che solo negli ultimi anni sta interessando il nostro Paese, le condizioni di povertà spingono le popolazioni, soprattutto del nord dell’ Africa, a spostarsi per cercare condizioni migliori di vita.

Portano con sé il loro bagaglio culturale, i loro usi, i loro costumi nelle zone in cui si insediano, ciò comporta non pochi problemi di integrazione con le popolazioni locali, la diversità, infatti, in qualsiasi forma si manifesti crea tensione e timore per ciò che non si conosce, arrivando a considerare l’immigrazione come una delle cause dell’ aumento della criminalità. Tuttavia studi scientifici negli Stati Uniti hanno dimostrato che il tasso della criminalità dei neo-immigrati è inferiore o pari a quello delle popolazioni locali. Vero è, invece, che l’immigrazione può comportare una modifica della tipologia dei reati, basti considerare che le popolazioni del sud Italia, spostandosi nelle zone economicamente più sviluppate, hanno determinato un aumento di reati poco consumati nel nord Italia come i delitti d’onore e gli accoltellamenti. Alla luce di quanto affermato risulta evidente come l’operatore giuridico si trovi innanzi a fattori che favoriscono i cambiamenti continui della società, i cui effetti si riverberano sulla identificazione delle condotte delinquenziali. Il crimine è diventato, pertanto, un fenomeno complesso e per la sua conoscenza è necessario adottare anche gli strumenti di altre scienze che con il diritto penale interagiscono in modo quasi naturale. Chiaramente tutto questo richiede un adeguato approfondimento ed uno studio interdisciplinare, cercando di evitare improvvisazioni ed analisi superficiali, ciò andrebbe, infatti, a ledere il peso e l’importanza che le scienze criminali hanno assunto, a fatica, nella nostra cultura giuridica. *Tullio Toriello, cultore in scienze criminologiche L’astensione degli avvocati tra regolamentazione provvisoria e autoregolamentazione. Le recenti agitazioni che hanno nuovamente interessato il mondo dell’avvocatura spingono a porre all’attenzione del lettore l’excursus formativo del (dei) codice (codici) di regolamentazione dell’astensione dalle udienze degli avvocati. Tutto nacque nell’ormai lontano 1996, quando la Corte Costituzionale, con la sentenza 16-27 maggio 1996, n. 171 (in Cons. Stato, 1996, I, 873; Giur. Cost. 1996, 1552, con osservazioni di Di Filippo; Fisco (il) 1996, 5808; Mass. Giur. Lav. 1996, 464, con nota di Santoni; CP. 1996, 2872; Giust. Civ. 1996, I, 2181 con nota di Pera; Rass. Forense, 1996, 341; ANPP., 1996, 710; DPP, 1996, 803; Giust. It. , 1996, I, 543,con nota di Pizzi; GP 1996, I, 326) statuì che” il riconoscimento che la Costituzione assicura all’autonomia di singoli e gruppi ed all’insieme delle libertà di associazione e di attività sindacale, inclusa l’astensione dal lavoro, per difendere interessi collettivi di categoria non soltanto economici e per garantire un corretto esercizio dell’attività professionale,vale anche per l’astensione dal lavoro di qui professionisti che, come avvocati e procuratori, svolgono la propria attività in condizione di indipendenza; pertanto, se tale astensione non si può configurare come diritto di sciopero e non ricade sotto

Page 38: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

38

la protezione dell’art. 40 cost., essa tuttavia si riconduce al “favor libertatis” che ispira la prima parte della carta costituzionale e costituisce fondamentale criterio di garanzia delle libertà delle formazioni sociali, seppur postulando, nel contempo, la concorrente tutela degli alti valori di rango costituzionale”. Tale sentenza ha chiarito che l’astensione degli avvocati non può essere considerata un vero e proprio sciopero, esprimendo comunque un principio di libertà costituzionalmente tutelato in quanto anche la difesa è un diritto inviolabile che trova fondamento nella Carta Suprema e, di conseguenza, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 2 commi 1 e 5 della L. 12 giugno 1990, n. 146 (Norme sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. Istituzione della Commissione di garanzia dell’attuazione della legge) nella parte in cui “non prevede, nel caso dell’astensione collettiva dell’attività giudiziaria degli avvocati [e dei procuratori] l’obbligo di un congruo preavviso e di un ragionevole limite temporale dell’astensione e non prevede, altresì, gli strumenti idonei ad individuare ed assicurare le prestazioni essenziali, nonché le procedure e le misure conseguenziali nell’ipotesi di inosservanza”. La legge 12 giugno 1990, n. 146 si basa sul concetto di “servizio pubblico essenziale” (art. 1 c. 1) e cioè quello volto a garantire il godimento dei diritti della persona, costituzionalmente tutelati, alla vita, alla libertà sociale ed alla sicurezza etc.. Allo scopo di contemperare l’esercizio del diritto di sciopero, con il godimento dei diritti della persona, la legge dispone le regole da rispettare e le procedure da seguire (art. 1c.2) in molteplici servizi, tra cui l’amministrazione della giustizia, con particolare riferimento a provvedimenti restrittivi della libertà personale ed a quelli cautelari ed urgenti, nonché ai processi penali con imputati in stato di detenzione (art. 1 c. 2, lett. a). Inoltre, i soggetti che promuovono lo sciopero con riferimento a tali servizi o che vi aderiscano, sono tenuti all’attuazione delle prestazioni indispensabili, nonché al rispetto delle modalità e delle procedure di erogazione (art. 2 c. 3). A seguito di ciò divenne “improcrastinabile l’individuazione di regole e limiti per cautelare il cittadino mediante la presenza, formale e sostanziale, del suo difensore tecnico” (così in Codice dell’Avvocato, Napoli, 2000, 349, a cura di G.Granturco). Con tale sentenza la Corte Costituzionale ha invitato il legislatore ad adeguare la normativa, stante la delicatezza della questione e gli interessi in gioco, predisponendo direttamente la disciplina o rimandando all’autoregolamentazione, purché unitaria e nazionale. La prima risposta venne con il deliberato del 19 gennaio 1996 dell’Organismo Unitario dell’Avvocatura Italiano (O.U.A.) che elaborò il “codice di autoregolamentazione dello stato di agitazione dell’avvocatura”. Tale documento venne trasmesso alla Commissione di Garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali con nota del 3 aprile 1996 e venne valutata non idonea con delibera del 11 luglio 1996, n. 231/5.1. Subì identica sorte il codice deliberato

dall’Unione delle Camere Penali (U.C.P.) nel febbraio del 1996. Così, su sollecitazione ministeriale per evitare di intervenire autoritativo in così delicata materia, venne redatto un altro “codice di autoregolamentazione delle astensioni forensi dalle attività giudiziarie”, approvato congiuntamente dalle giunte dell’U.O.A. e dalla U.C.P. il 6 giuugno 1997, inviato alla Commissione in data 11 giugno 1997. Tale documento ottenne un primo giudizio di idoneità, ma fu poi ritrasmesso, con delibera n. 97/447 del 12 giugno 1997, invitando le associazioni in parola a “rivederlo ed integrarlo”. In data 23 ottobre 2000 le associazioni ritrasmisero ulteriore copia del predetto codice del 6 giugno 1997, integrato il 30 marzo 2000, (vedi allegato 1) ma tali revisioni ed integrazioni non coglievano le censure mosse dalla Commissione – ed in particolare sul contenuto delle prestazioni indispensabili – e, pertanto, anche tale codice venne ritenuto non idoneo. Nelle more, venne emanata la L. 11 aprile 2000, n. 83, il cui art. 2 ha modificato la L. 12 giugno 1990, n. 146, inserendo l’art. 2-bis. il quale espressamente prevede che “l’astensione collettiva dalle prestazioni, ai fini di protesta o di rivendicazione di categoria, da parte di .. professionisti … che incide sulle funzionalità dei servizi pubblici di cui all’art. 1 è esercitatile nel rispetto di misure dirette a consentire l’erogazione delle prestazioni indispensabili di cui al medesimo articolo. A tal fine la Commissione promuove l’adozione, da parte delle associazioni o degli organismi di rappresentanza delle categorie interessate, di codici di autoregolamentazione che realizzino le finalità della legge. Se tali codici mancano o se sono valutati inidonei… la Commissione, sentite le le parti interessate nelle forme dell’art. 13, comma 1 let. a) delibera la provvisoria regolamentazione”. L’art. 2 comma 2 della L. 80/2000 prevedeva che “decorsi 6 mesi dalla data di entrata in vigore della legge, qualora i codici di cui alla L 146/1990 non siano ancora adottati, vi provvederà la Commissione. Scaduti i sei mesi, la Commissione convocò l’U.O.A. e l’U.C.P. con l’avvertenza che in mancanza avrebbe attivato la procedura di cui all’art. 13 comma 1 lett. a), formulando proposte “sull’insieme delle prestazioni, procedure e misure da considerare indispensabili” e, se del caso, ad una provvisoria regolamentazione (Cfr. delibera n. 02/78 del 2 maggio 2002). Dopo una riunione interlocutoria, la Commissione formulò, nella seduta del 23 maggio 2002, ai sensi dell’art. 2 bis, coma 1 e dell’art. 13 comma 1, lett. a) della L. 146/1990, nonché ai sensi dell’art. 2 comma 2 della L. 83/200, una proposta sull’insieme delle prestazioni, procedure e misure da considerare indispensabili, avvertendo le associazioni interessate che, in caso di mancata pronuncia da parte loro avrebbe adottato con propria delibera la prevista provvisoria regolamentazione, comunicandola alle parti interessate “che sono tenute ad osservarla, agli effetti dell’art. 2 comma 3 fino al raggiungimento”, nel caso di un codice di autoregolamentazione valutato idoneo. Tale proposta fu notificata all’U.O.A. ed all’U.C.P. in data 28–29 maggio 2002, e comunicata altresì alle Organizzazioni dei Consumatori e degli Utenti ai sensi della L. 281/1998. Solo quest’ultima organizzazione

Page 39: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

39

espresse parere favorevole mentre l’U.C.P. comunicò, con lettera del 24 giugno 202 di aver deliberato, “allo stato ed anche per i motivi già espressi di non pronunciarsi sulla proposta medesima e di rinunciare alle audizioni previste della L. 146/1990”; anche l’O.U.A., con lettera del 26 giugno 2002, rese noto che “non intendeva modificare il proprio codice di autoregolamentazione, ritenendolo conforme ai principi generali e ritenendo sussistere quelle motivazioni politiche che hanno indotto anche l’O.U.A. a contestare la competenza della Commissione”, rinunciando ai successivi incontri. La Commissione, preso atto di ciò ed alla luce sia dei principi fondamentali della L. 146/1990, che di quelli emersi dalla Corte Costituzionale - la quale ha riaffermato l’esigenza del rispetto, nel caso di astensioni collettive degli avvocati dalle attività giudiziarie e di udienza, di un congruo preavviso e di un ragionevole limite temporale, nonché di strumenti idonei ad individuare (e assicurare) le prestazioni essenziali durante l’astensione - ha emanato la “regolamentazione provvisoria dell’astensione collettiva degli avvocati dall’attività giudiziaria”, con delibera n. 02/136 del 4 luglio 2002 e riportata in Gazzetta Ufficiale, Serie Gen. n. 171 del 23 luglio 2002 (Vedi allegato 2). La regolamentazione provvisoria fa espresso richiamo (art. 6) sia delle sanzioni disciplinari del Consiglio dell’Ordine che quelle previste dagli artt. 2 bis e 4 comma 4 della L. 146/1990. In pratica, soggiacciono alla sanzione amministrativa pecuniaria da €. 2.582,28 a €. 25.822,84 le associazioni e gli organismi rappresentativi dei professionisti o i loro rappresentanti, in solido con i singoli avvocati che, aderendo alla protesta, si siano astenuti dalle prestazioni, in caso di violazione dei codici di autoregolamentazione di cui all’art. 2 bis o della regolazione provvisoria della Commissione di garanzia e in ogni altro caso di violazione di cui all’art. 2 comma 3. La sanzione - che deve tener conto della gravità della violazione, dell’eventuale recidiva, dell’incidenza di essa sull’insorgenza o sull’aggravamento di conflitti e del pregiudizio eventualmente arrecato agli utenti – viene applicata con ordinanza-ingiunzione della Direzione provinciale del lavoro. Si lascia al lettore la comparazione tra i due codici, quello di autoregolamentazione e quello di regolamentazione provvisoria.

ALLEGATO 1.

Autoregolamentazione dell’astensione collettiva degli avvocati dall’attività’ giudiziaria

(Regole approvate in via di urgenza dalle Giunte dell’Organismo unitario e dell’Unione delle Camere penali il 6 giugno 1997 e dalle stesse congiuntamente integrate il 30 marzo 2000, con l’adesione ed approvazione dell’A.N.F., dell’U.I.F., dell’A.I.G.A. e dell’Unione delle Camere Civili)

Articolo 1

La presente normativa disciplina le modalità dell’astensione collettiva degli avvocati dall’attività

giudiziaria, di seguito denominata astensione, al fine di garantire il godimento dei diritti della persona, la libertà e la dignità dell’avvocatura, nonché il diritto di azione e di difesa tutelato dall’art. 24 della Costituzione e di assicurare le prestazioni indispensabili di cui al successiva art. 4

Articolo 2

1. L’astensione è proclamata con un congruo

preavviso di almeno dieci giorni prima dell’inizio della stessa e con l’indicazione della sua durata, al fine di consentire ai titolari degli uffici giudiziari di predisporre le misure che si rendessero necessarie.

2. Della proclamazione è data immediata notizia al Presidente della Corte d’appello e ai Presidenti degli uffici giudiziari amministrativi e tributari interessati nonché, anche quanto l’astensione riguardi un singolo distretto o circondario, al ministro o ai ministri competenti.

3. Non dovrà essere dato alcun preavviso allorché l’astensione venga proclamata in difesa dell’ordine costituzionale ovvero per gravi attentati ai diritti fondamentali dei cittadini e alle garanzie essenziali del processo.

Articolo 3

1. Nel processo civile, amministrativo e tributario, se

taluna delle parti costituite che non stanno in giudizio personalmente non compare nell’udienza fissata durante lo svolgimento della astensione, la parte interessata chiederà al giudice di fissare una nuova udienza immediatamente successiva allo scadere dell’astensione.

2. Nell’ambito del processo penale il difensore che non intende aderire alla astensione proclamata deve comunicare prontamente la sua non adesione.

3. Per le udienze che possono celebrarsi anche in assenza del difensore questi, qualora intenda astenersi, deve darne comunicazione all’autorità procedente.

4. Il diritto di astensione può essere esercitato in ogni stato e grado del processo sia dal difensore di fiducia che da quello di ufficio.

5. Nel processo civile, amministrativo e tributario l’avvocato che non aderisca alla astensione deve informare preventivamente gli altri difensori costituiti o di cui conosca la presenza nel processo e, ove questi aderiscano alla astensione, è tenuto a non compiere atti pregiudizievoli per le altre parti in causa.

Articolo 4

L’astensione non è consentita in riferimento alla materia penale: a) nei procedimenti per reati la cui prescrizione maturi

durante il periodo di astensione o nei successivi 45 giorni;

b) nei procedimenti in cui l’imputato si trovi in stato di custodia cautelare i cui termini scadono nel periodo di astensione o nei successivi trenta giorni;

Page 40: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

40

c) nelle indagini preliminari quando debba procedersi al compimento di atti non differibili per il loro carattere di massima urgenza ovvero perché appaiono necessari ai fine della decisione sulla libertà personale;

d) nelle udienze di convalida dell’arresto e del fermo, negli interrogatori ex art. 294 cod. proc. pen. nonché nelle udienze afferenti misure cautelari;

e) nei processi a carico di detenuti nel caso in cui l’imputato chieda espressamente che sia celebrata l’udienza; in assenza del difensore di fiducia, l’obbligo di non astenersi ricade sul difensore d’ufficio.

Articolo 5

1. L’astensione non è consentita in riferimento alla

materia civile, nei procedimenti relativi:

a) a provvedimenti cautelari, allo stato e alla capacità delle persone, ad alimenti, alla comparizione personale dei coniugi in sede di separazione o di divorzio e all’affidamento dei minori;

b) alla dichiarazione o alla revoca dei fallimenti; c) alla convalida di sfratto, alla sospensione

dell’esecuzione, alla sospensione o revoca dell’esecutorietà di provvedimenti giudiziali.

2. L’astensione non è consentita in riferimento alla materia amministrativa e tributaria: a) nei procedimenti cautelari e urgenti; b) nei procedimenti relativi a questioni elettorali

Articolo 6 1. I comportamenti individuali con i quali si attua

l’astensione debbono rigorosamente essere conformi alla deontologia professionale e alle prescrizioni fissate negli atti che l’hanno proclamata.

2. La violazione delle disposizioni concernenti la proclamazione e l’attuazione dell’astensione è valutata dai Consigli dell’Ordine per l’eventuale esercizio dell’azione disciplinare.

Articolo 7

1. E’ istituita una Commissione di garanzia al fine di

assicurare il rispetto delle norme del presente codice di autodisciplina inerenti la proclamazione dell’astensione e le disposizioni relative alla sua attuazione.

2. La Commissione esercita esclusivamente il controllo di legittimità.

3. La Commissione è composta da tre membri nominati dal Consiglio Nazionale Forense e scelti tra ex Giudici della Corte Costituzionale, professori universitari di diritto costituzionale, diritto civile, diritto penale, diritto amministrativo, diritto processuale civile, procedura penale, non esercenti attività forense ovvero tra personalità appartenenti o appartenute ad altre libere professioni organizzate in ordini. Non possono far parte della Commissione i parlamentari, coloro che rivestano o abbiano

rivestito cariche in partiti politici, gli appartenenti o coloro che siano appartenuti all’ordine giudiziario.

4. La Commissione è nominata per un biennio e i suoi membri possono essere confermati una sola volta.

5. La Commissione elegge al suo interno un Presidente e stabilisce con regolamento le modalità del proprio funzionamento.

6. La Commissione ha sede presso il Consiglio Nazionale Forense, che ne assicura il funzionamento per gli aspetti finanziari e organizzativi.

Articolo 8

La Commissione:

a) su segnalazione del Ministro della Giustizia o dei

Presidenti di Corte d’Appello ovvero anche di propria iniziativa, valuta il rispetto delle norme del presente codice sull’astensione collettiva degli avvocati dalle attività giudiziarie e delle prescrizioni relative alla sua attuazione; ove rilevi l’inosservanza di tali norme o prescrizioni, valuta i comportamenti di coloro che hanno proclamato l’astensione o vi aderiscono e, considerati anche i motivi che l’hanno determinata, ne fa segnalazione ai Consigli dell’Ordine competenti per territorio, per quanto è previsto dal comma secondo dell’articolo

ALLEGATO 2.

Gazzetta Ufficiale N. 171 del 23 Luglio 2002 Commissione di garanzia per l'attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali Regolamentazione provvisoria dell'astensione collettiva degli avvocati dall'attivita' giudiziaria adottata dalla Commissione di garanzia con deliberazione n. 02/136 del 4 luglio 2002, ai sensi dell'art. 13, lettera a), della legge n. 146/1990 come modificata dalla legge n. 83/2000.

Art. 1. 1. La presente normativa disciplina le modalità dell'astensione collettiva degli avvocati dall'attività giudiziaria, di seguito denominata "astensione", al fine di garantire il godimento dei diritti della persona, la libertà e la dignità dell'avvocatura, nonché il diritto di azione e di difesa tutelato dall'art. 24 della Costituzione e di assicurare le prestazioni indispensabili di cui ai successivi articoli 4 e 5.

Art. 2. 1. L'astensione e' proclamata con congruo preavviso di almeno dieci giorni prima dell'inizio della stessa e con l'indicazione delle specifiche motivazioni e della sua durata, al fine di consentire ai titolari degli uffici giudiziari di predisporre le misure che si possano rendere necessarie. 2. Della proclamazione e della specifica motivazione dell'astensione e' data immediata notizia al Presidente della Corte d'appello e ai presidenti degli uffici giudiziari civili, penali, amministrativi e tributari interessati, nonché - anche quando l'astensione riguardi un singolo distretto o circondario – al Ministro della

Page 41: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

41

giustizia ed agli altri Ministri eventualmente competenti. I soggetti sindacali proclamanti sono inoltre tenuti a darne pubblica comunicazione, nelle forme adeguate, almeno cinque giorni prima dell'inizio dell'astensione. 3. Potrà non essere rispettato l'obbligo di preavviso ai sensi anche dell'art. 2, comma 7, della legge n. 146/1990 come modificata ed integrata dalla legge n. 83/2000, nei soli casi in cui l'astensione venga proclamata in difesa dell'ordine costituzionale ovvero per gravi attentati ai diritti fondamentali dei cittadini e alle garanzie essenziali del processo. 4. L'astensione, anche in caso di successive proclamazioni da parte del medesimo o di altro soggetto sindacale, non può protrarsi nel medesimo ambito per cui e' proclamata per oltre trenta giorni consecutivi ovvero calcolati nell'arco di un trimestre. Superato tale termine, una nuova astensione riguardante il medesimo ambito di riferimento e' consentita, quale che sia il soggetto sindacale proclamante, e qualora sia riferita, in misura esclusiva o prevalente, alla medesima motivazione, per la stessa durata massima, soltanto decorsi ulteriori novanta giorni. In ogni caso, la prima astensione, quale ne sia la motivazione, non può eccedere sette giorni. Tali limitazioni non si applicano nei casi in cui e' prevista la proclamazione dell'astensione senza preavviso.

Art. 3. 1. Nel processo civile, amministrativo e tributario, se taluna delle parti costituite che non stanno in giudizio personalmente non compare nell'udienza fissata durante lo svolgimento dell'astensione, le parti o una di esse potranno chiedere al giudice di fissare una nuova udienza immediatamente successiva allo scadere dell'astensione. 2. Nell'ambito del procedimento penale, il difensore che non intende aderire alla astensione proclamata deve comunicare prontamente tale sua decisione all'autorità procedente ed agli altri difensori costituiti. 3. Nel processo civile, amministrativo e tributario, l'avvocato che non aderisca alla astensione deve informare preventivamente gli altri difensori costituiti o di cui conosca la presenza nel processo e, ove questi aderiscano alla astensione, e' tenuto a non compiere atti pregiudizievoli per le altre parti in causa. 4. Per le udienze che possono celebrarsi anche in assenza del difensore, questi, qualora intenda astenersi, deve darne comunicazione all' autorità procedente. 5. Il diritto di astensione può essere esercitato in ogni stato e grado del processo sia dal difensore di fiducia che da quello di ufficio.

Art. 4. 1. L'astensione non e' consentita nella materia penale in riferimento: a) alle udienze di convalida dell'arresto e del fermo, a quelle afferenti misure cautelari, agli interrogatori ex art. 294 del codice di procedura penale, all'incidente probatorio, al giudizio direttissimo e al compimento degli atti urgenti di cui all'art. 467 del codice di procedura penale, nonché ai procedimenti e processi concernenti reati la cui prescrizione maturi durante il periodo di astensione, ovvero, se pendenti nella fase delle indagini preliminari, entro trecentosessanta

giorni, se pendenti in grado di merito, entro centottanta giorni, se pendenti nel giudizio di legittimità, entro novanta giorni; b) nei procedimenti e nei processi in relazione ai quali l'imputato si trovi in stato di custodia cautelare o di detenzione, ove l'imputato chieda espressamente, analogamente a quanto previsto dall'art. 420-ter, comma 5 (introdotto dalla legge n. 479/1999), del codice di procedura penale, che si proceda malgrado l'astensione del difensore. In tal caso il difensore, di fiducia o d'ufficio, non si considera legittimamente impedito ed ha l'obbligo di non astenersi. 2. Tuttavia, anche quando l'imputato sottoposto a custodia cautelare o a detenzione non formuli l'espressa richiesta di cui al com-ma 1, lettera b), l'astensione sarà consentita, se riferita in via esclusiva o prevalente alla stessa motivazione, per non più di tre udienze consecutive per ogni grado del giudizio e, in ogni caso, soltanto per una volta nel corso di ciascuna astensione ritualmente proclamata.

Art. 5. 1. L'astensione non e' consentita, in riferimento alla materia civile, nei procedimenti relativi: a) a provvedimenti cautelari, allo stato e alla capacità delle persone, ad alimenti, alla comparizione personale dei coniugi in sede di separazione o di divorzio e all'affidamento di minori; b) alla repressione della condotta antisindacale, nella fase di cognizione sommaria prevista dall'art. 28 della legge n. 300/1970, ed ai procedimenti aventi ad oggetto licenziamenti individuali o collettivi ovvero trasferimenti, anche ai sensi della normativa di cui al decreto legislativo n. 165/2001; c) a controversie per le quali e' stata dichiarata l'urgenza ai sensi dell'art. 92, comma 2, del regio decreto n. 12/1941 e successive modificazioni ed integrazioni; d) alla dichiarazione o alla revoca dei fallimenti; e) alla convalida di sfratto, alla sospensione dell'esecuzione, alla sospensione o revoca dell'esecutorietà di provvedimenti giudiziali. 2. L'astensione non e' consentita, in riferimento alla materia amministrativa e tributaria: a) nei procedimenti cautelari e urgenti; b) nei procedimenti relativi a questioni elettorali.

Art. 6. 1. I comportamenti individuali con i quali si attua l'astensione debbono essere rigorosamente conformi alla deontologia professionale e alle prescrizioni fissate negli atti che l'hanno proclamata, in quanto compatibili con la presente regolamentazione. 2. Rimane ferma, quanto alle violazioni delle disposizioni concernenti la proclamazione e l'attuazione dell'astensione, oltre a quanto previsto dagli articoli 2-bis e 4, comma 4, della legge n. 146/1990 così come riformulati dalla legge n. 83/2000, anche l'eventuale valutazione dei Consigli dell'Ordine in sede di esercizio dell'azione disciplinare. Bernardino Zinno

Page 42: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

42

Donazione a nascituri e garanzia per evizione. La problematica relativa alla donazione a nascituri, disciplinata dall'art. 784 cod. civ., rappresenta forse in dottrina uno degli aspetti più controversi ed aperti a qualsiasi soluzione. E' appena il caso di rilevare che le più disparate soluzioni della dottrina al problema sono il frutto di un mancato raccordo della normativa di settore. Il nostro contributo alla figura della donazione a nascituri si limiterà all'esame dell'amministrazione del bene donato, ed in particolare, nella fattispecie, di un bene immobile locato, e precisamente al terzo comma, prima parte dell'art. 784 cod. civ., il quale così dispone: " Salvo diversa disposizione del donante, l'amministrazione dei beni donati spetta al donante o ai suoi eredi, i quali possono essere obbligati a prestare idonea garanzia ". Non vi sono dubbi che il donante abbia il potere di compiere tutti gli atti di ordinaria amministrazione necessari o utili per la conservazione e il miglioramento dei beni donati al nascituro.

Dubbi, invece, sussitono se il donante possa compiere atti di straordinaria amministrazione.

Su tale punto la dottrina ha elaborato diversi orientamenti.

Prima di passare all'esame delle teorie più importanti, vale la pena precisare che la donazione a favore di nascituro determina uno stato di sospensione giuridica, come è confermato dall'art. 1 cod. civ., il quale, premesso che la capacità giuridica si acquista al momento della nascita, soggiunge che i diritti riconosciuti dalla legge a favore del concepito sono subordinati a tale evento, cioè al momento in cui viene considerato come soggetto di diritto. La legge parla di concepito, ma altrettanto ed a più forte ragione si deve ammettere per il non concepito.12 In altri termini, mentre il negozio viene perfezionato prima della nascita, rientrando quest'ipotesi nel concetto della rappresentanza di un soggetto futuro 13, l'acquisto invece avverrà solo al momento in cui il donatario verrà ad esistenza. Per giustificare 14 quest'ultima considerazione, si è ritenuto che, in attesa della nascita, il bene donato è temporaneamente senza soggetto, per cui l'amministrazione spetterebbe al donante, non per effetto del diritto di proprietà, ormai perduto a seguito della donazione, bensì in forza di un potere di

1 Così CAPOZZI, Successione e donazione, Milano, 809; vedi anche BIONDI, La donazione, Tratt. Vassalli, Torino, 1961. 2 Il fenomeno della rappresentanza di un soggetto futuro non è nuovo nel nostro diritto, in quanto è previsto espressamente in tema di società nell'art. 2331 cod. civ., il quale riconosce la validità della iscrizione nel registro delle imprese, cioè in nome della società futura, e dispone che in tal caso sono illimitatamente e solidalmente responsabili verso i terzi coloro che hanno agito, così testualmente CAPOZZI, o.u.l.c., 808. 14 BIONDI, op. cit., 257.

amministrazione autonomamente concesso dalla legge ai sensi dell'art. 784 cod. civ.

In sostanza, analogamente a quanto avviene per l'istituzione dei nascituri, si avrebbe un centro autonomo di interessi che la legge ritiene meritevole di conservazione e tutela, assegnando provvisoriamente l'amministrazione del bene donato al donante o ai suoi eredi che potranno riacquistarlo se i nascituri non venissero ad esistenza. In contrario si obietta 15 che il ricorso al centro autonomo di interessi costituisce una necessità in caso di istituzione di nascituri per la morte del dante causa, ma non ha ragione d'essere in caso di donazione a nascituri, in quanto il donante è ancora in vita per cui il bene donato è di proprietà dello stesso. Tuttavia, per effetto della donazione, il donante non può conservare quella titolarità piena che prima gli competeva, ma la proprietà rimane in lui affievolita, vale a dire subordinata risolutivamente all'evento della nascita. In altri termini, il difetto di un elemento essenziale della fattispecie della donazione, cioè l'esistenza del donatario, impedisce la produzione dell'effetto traslativo. Orbene, ritornando al tema della strordinaria amministrazione del donante, una parte della dottrina 16 sostiene che la proprietà del bene donato resta al donante anche se risolutivamente condizionato all'evento della nascita. In altre parole, il donante conserva il possesso e l'amministrazione del bene donato e potrà alienare liberamente il suo diritto condizionato facendo proprio il corrispettivo. Questa tesi ritiene anche che al nascituro compete un diritto sul bene, subordinato alla condizione sospensiva della nascita, vale a dire l'aspettativa 17. I genitori, non potendo disporre in alcun modo di tale aspettativa prima della nascita non possono prestare alcun consenso all'alienazione, per cui non è possibile l'alienazione del diritto pieno, ma è possibile solo acquistare dal donante la proprietà risolubile 18.

15 In questo senso TORRENTE, La donazione, Milano, 1956, 363; CAPOZZI, Op. cit., 809; DE ROSA, Patria potestà, Noviss. Dig. Ital., Torino, 299 obietta che, se il nascituro nulla può acquistare prima della nascita, non si vede perché l'art. 320 cod. civ. abbia attribuito ai genitori la legale rappresentanza e l'amministrazione dei diritti a lui riservati. 16 DE ROSA, op. cit., 319. 17 Avverso tale tesi, il SANTARCANGELO, La volontaria giurisdizione nell'attività negoziale, vol. III, Milano, 443, nota 116, ritiene che il nascituro non acquisti nulla, neppure l'aspettativa, in quanto non è un diritto che entra nel suo patrimonio, ma è una situazione giuridica creata dall'ordinamento per la tutela dei beni del nascituro. 18 La tesi è avversata da SANTARCANGELO, op. cit., 445, in quanto, in alcuni casi, l'alienazione del bene si può presentare necessaria o utile per la conservazione del bene medesimo o per il migioramento dell'oggetto della donazione, per cui non si può escludere a priori l'ammissibilità dell'alienazione della piena proprietà: Si ritiene anche che si vengono a pregiudicare i diritti del

Page 43: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

43

Di contrario avviso è altra parte della dottrina 19 la quale ritiene che il donante non ha il potere di disposizione della piena proprietà avendolo perduto per effetto dell'irrevocabilità della donazione a seguito dell'accettazione da parte dei genitori del nascituro, mentre questi ultimi possono, con le debite autorizzazioni, sciogliere il donante dal vincolo determinato dalla donazione così che il donante possa procedere all'alienazione. In sostanza, acché il donante possa liberamente vendere il bene donato, i genitori e il donante stesso devono preventivamente stipulare un contratto di mutuo dissenso opportunamente autorizzato dal giudice tutelare, in modo che il donante riacquista la piena proprietà del bene e possa disporne 20. Questa tesi, invero, non trova conforto nel testo della legge, la quale non prevede questa surrogazione del bene donato con il corrispettivo ricevuto dall'alienazione, ma attribuisce al donante o ai suoi eredi l'amministrazione dei beni donati, senza distinzione tra atti di ordinaria amministrazione o straodinaria amministrazione. Secondo altri autori 21, nella fattispecie, ricorre una ipotesi di ufficio di diritto privato analoga a quella che ricorre in tema di sostituzione fedecommissaria, nel senso che il donante, anche dopo la donazione, resta titolare di un diritto proprio, cioè del diritto relativamente condizionato alla nascita del donatario. In altri termini, il donante può liberamente disporre del proprio diritto, come può disporne ogni titolare di un diritto relativamente condizionato, ma il donante è anche, nello stesso tempo, titolare di un ufficio di diritto privato e in tale qualità amministra il diritto pieno. Ne consegue che il donante o i suoi eredi possono, in caso di necessità ed utilità evidente, alienare la piena proprietà del bene donato, e hanno l'obbligo di reimpiego. Questa operazione giuridica integra un'ipotesi di surrogazione reale, vale a dire una modificazione solo

nascituro, perché la proprietà risolubile ha un valore economico inferiore alla proprietà piena e, inoltre, difficilmente trova acquirenti. 19 TORRENTE, La donazione,cit., 367; SANTARCANGELO, op. cit., 447. 20 Questa tesi è stata recentemente perfezionata dal SANTARCANGELO, op. cit., 447, il qualke ritiene che il giudice tutelare può autorizzare lo scioglimento consensuale della donazione solo se esso corrisponde ad un apprezzabile interesse del nascituro. In altri termini, non vi può essere semplice scioglimento della donazione, ma scioglimento della donazione con trasferimento del vincolo su un altro bene, nel senso che se il nascituro viene ad esistenza, egli non diventa titolare del bene alienato, ma acquista il denaro ricavato dalla vendita o l'altro bene in cui è stato investito. Pertanto, illegale rappresentante del nascituro, opportunamente autorizzato, interviene nell'atto di vendita per prestare ilproprio consenso allo scioglimento del vincolo e controllare che il prezzo della vendita sia accantonato a vantaggio del nascituro. 21 CAPOZZI, op. cit., 810; IANNUZZI, Manuale della volontaria giurisdizione, Milano, 1984, 110.

qualitativa dell'oggetto che lascia, per il resto, il rapporto immutato 22. In sintesi, i predetti soggetti hanno, per così dire, una doppia amministrazione: libera, per ciò che riguarda il loro diritto condizionato relativamente; vincolata, per ciò che riguarda il diritto pieno che attende il nascituro. Per quanto riguarda, infine, il problema dell'eventuale autorizzazione del giudice per gli atti di straordinaria amministrazione, si ritiene che, in mancanza di un'espressa previsione legislativa e in omaggio ai principi della libertà contrattuale, il donante possa compiere gli atti di disposizione senza l'intervento del giudice: l'atto eventualmente dannoso per il nascituro non è invalido, ma comporta solo una responsabilità del donante-amministratore. Tale tesi, invero, troverebbe conforto nello stesso diritto positivo, il quale prevede, proprio in tema di donazione, la possibilità di compiere atti eccedenti l'ordinaria amministrazione liberamente, ossia senza chiedere l'autorizzazione al giudice. Infatti, l'art. 356 cod.civ. attribuisce espressamente al donante la facoltà di nominare un curatore speciale per l'amministrazione dei beni donati, consentendo a costui, che può essere lo stesso donante, di compiere atti di straordinaria amministrazione senza osservare le forme abilitative di cui agli artt. 374 e 375 cod. civ. Il richiamo, inoltre, all'art. 356 cod. civ. trova un fondamento nello stesso art. 784 cod. civ. nella parte in cui dispone " Salvo diversa disposizione del donante ... " 23. Tale tesi, comunque, non urta contro il principio di cui all'art. 1361 cod. civ., nè con quello dell'art. 1357 cod. civ. Non agevole, malgrado l'apparente chiarezza, è l'interpretazione della norma contenuta nel primo comma dell'art. 1361 cod. civ. che sancisce la " invalidità degli atti di amministrazione " compiuti da chi ha l'esercizio del diritto. La nozione di " atti di amministrazione ", benchè sia di uso comune, non può considerarsi sufficientemente determinata. Infatti, l'attività di amministrazione è ogni attività compiuta da chi è titolare di un rapporto patrimoniale in relazione a tale rapporto. Di solito tale attività viene contrapposta a quella di disposizione, ma nell'amministrazione possono rientrare anche atti di disposizione, come nell'ambito dell'attività di disposizione, rientra anche quella di amministrazione. La verità è che la norma contenuta nel primo comma 22 Così testualmente CAPOZZI, op. cit., 810. 23 Tale tesi non è condivisa dal SANTARCANGELO, op. cit., 446, il quale ritiene che l'art. 784 cod. civ., quando disciplina l'amministrazione dei beni donati a nascituri, intende riferirsi agli atti di ordinaria amministrazione, così come è confermato dall'analoga disposizione contenuta nell'art. 1361 cod. civ., il quale dispone che l'avveramento della condizione non pregiudica la validità degli atti di amministrazione compiuti dal soggetto al quale, inpendenza della condizione, spettava l'esercizio del diritto. Per atti di amministrazione ci si deve riferire agli atti di conservazione e non a quelli di disposizione, contemplati dall'art. 1357 cod. civ. e i cui effetti sono subordinati alla stessa condizione.

Page 44: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

44

dell'art. 1361 cod. civ., è priva di sostaziale contenuto normativo; con essa non si fa altro che riaffermare il principio, già enunciato nell'art. 1360 cod. civ., che ogni atto compiuto da chi ha l'esercizio di un diritto, che è stato oggetto di un negozio condizionale, qualora pregiudichi l'interesse dell'altra parte, non può essere a questa opposto; nonchè argomentando a contrario, il principio enunciato nell'art. 1359 cod. civ., nel senso che l'avveramento della condizione per causa imputabile non pregiudica gli interessi della controparte. E' errato, dunque, limitare l'applicabilità dell'art. 1361 cod. civ. ai criteri addotti per distinguere l'ordinaria dalla straordinaria amministrazione. Invero, chi compie l'atto è titolare, pienamente capace, del rapporto, e la sua attività è limitata soltanto all'obbligo dell'osservanza degli interessi di colui, nei confronti del quale egli ha assunto un impegno negoziale sottoposto a condizione. In definitiva, solo gli atti che pregiudicano la posizione giuridica dell'altra parte sono a questa opponibili, non però in base alla norma dell'art. 1361, primo comma, cod. civ., bensì per la retroattività della condizione 24. E' inesatto, poi, ritenere che la tesi innanzi esposta urti contro il principio dell'art. 1357 cod. civ. per il quale gli effetti degli atti di disposizione compiuti da un soggetto titolare di un diritto condizionato sono subordinati alla stessa condizione, in quanto in tal modo si confonde il diritto condizionato, di cui il donante è titolare in proprio, con il diritto pieno rispetto al quale egli è soltanto amministratore, quale titolare di un ufficio di diritto privato. La teoria che attribuisce al donante la libera amministrazione trova conforto in un'ulteriore considerazione, e precisamente interpretando l'inciso " ... i quali possono essere obbligati a prestare idonea garanzia " di cui al terzo comma dell'art. 784 cod. civ. alla luce della normativa dell'art. 797 cod. civ. in tema di garanzia per evizione. Il problema, come è stato precedentemente osservato, in realtà, è vedere se il donante può disporre del diritto pieno o solo del diritto condizionato. A mio avviso, il problema potrebbe essere risolto in riferimento alla diversa interpretazione dell'inciso " ... i quali possono essere obbligati a prestare idonea garanzia ". Non si comprende, infatti, se con questo inciso il legislatore abbia voluto tutelare la posizione del nascituro o quella dell'acquirente del bene donato. In effetti, se consideriamo la posizione dell'acquirente, allora il donante disporrebbe solo del diritto condizionato, in quanto quell'inciso sta a significare che il donante o i suoi eredi possono essere obbligati dal terzo acquirente a prestare idonea garanzia ( art. 1179 cod. civ. ), nell'ipotesi del verificarsi dell'evento della nascita, e che nelle more il donante o i suoi eredi siano divenuti insolvibili, una volta restituito il bene. Se, invece, consideriamo la posizione del nascituro-donatario, allora il donante disporrebbe del diritto di

24 In tal senso cfr. MIRABELLI, Dei contratti in generale, Comm. al codice civile, Torino 1980, 256.

alienare la piena proprietà del bene, e ciò lo si potrebbe evincere dall'interpretazione dell'art. 797 cod. civ. Prima di affrontare quest'argomento, appare necessario chiarire se l'ultimo inciso del terzo comma dell'art. 784 cod. civ. si riferisce esclusivamente agli eredi ovvero anche al donante. La dottrina 25 che si è occupata del problema ha, con una certa fretta, ritenuto che l'inciso " ... i quali possono essere obbligati a prestare idonea garanzia " si riferisce esclusivamente agli eredi, e non anche al donante . In sostanza, si ritiene che l'amministrazione dei beni donati spetta al donante e, qualora questi venga a morte prima della nascita del donatario, viene attribuita agli eredi del donante e quest'ultimi, - poichè potrebbero non garantire a sufficienza gli interessi del nascituro, - possono essere obbligati dall'autorità giudiziaria a prestare idonea garanzia. Tale tesi non sembra cogliere il reale significato della ratio dell'inciso di cui al terzo comma, ultima parte, dell'art. 784 cod. civ. Invero, l'orientamento dottrinale precedentemente esaminato, urta contro due considerazioni l'una di natura morfologica, l'altra di natura giuridica. Invero, l'inciso " ... i quali possono essere obbligati a prestare idonea garanzia " costituisce nel contesto del periodo di cui al terzo comma dell'art. 784 cod. civ., una proposizione subordinata relativa, congiunta alla proposizione principale dalla quale dipende. La proposizioe pricipale ( ... l'amministrazione dei beni donati spetta al donante o ai suoi eredi ), inoltre, è caratterizzata dalla disgiuntiva " o ", la quale disgiunge solo gli elementi della proposizione principale, vale a dire il donante o i suoi eredi, non la proposizione stessa, per cui la proposizione relativa che segue è subordinata e congiunta all'intera proposizione principale. In definitiva, l'inciso di che trattasi, da un punto di vista morfologico, si riferisce non solo agli eredi ma anche al donante, i quali costituiscono elementi dell'intera proposizione principale 26. Seguire, poi, l'orientamento innanzi esaminato significa snaturare da un punto di vista giuridico il significato della ratio della garanzia. In effetti, l'art. 784 cod. civ. prevede una diversa disposizione del donante nel senso che costui potrebbe disporre che dopo la sua morte l'amministrazione dei beni donati spetti a persona di sua fiducia, diversa dagli eredi. Ritenere, quindi, che la garanzia può essere imposta solo agli eredi significa svuotare di contenuto la medesima, nel caso che l'amministrazione venga attribuita a persone diverse dagli eredi. In sostanza, se la ratio della garanzia è quella di tutelare l'interesse del nascituro-donatario da interessi contrapposti, di cui gli eredi possono essere portatori, non si comprende come tale tutela possa trovare attuazione nel caso di amministrazione affidata a terze

25 Cfr. GIANNATTASIO, Delle successioni, Comm. al codice civile, Torino 1980, 265. 26 PALAZZI, Il governo delle parole, Milano-Messina 1969, 221-249.

Page 45: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

45

persone qualora la garanzia non possa essere imposta a questi ultimi. In realtà la tutela dell'interesse del nascituro-donatario da interessi contrari sarebbe effettiva solo nell'ipotesi in cui la garanzia possa essere imposta non solo agli eredi, ma anche alle persone estranee, nominate dal donante nell'amministrazioe del bene donato. Orbene, se la ratio dell'ultimo inciso del terzo comma dell'art. 784 cod. civ. è quella di tutelare l'interesse del nascituro-donatario da altri interessi con esso confliggenti, a maggior ragione tale tutela deve avvenire nei confronti dello stesso donante. Se il donante, infatti, ha la titolarità piena del bene donato, nonostante la irrevocabilità della donazione a seguito dell'accettazione da parte dei rappresentanti legali del nascituro, egli è portatore in fieri di un interesse contrario a quello del nascituro, in quanto in ogni momento potrebbe disporre del bene donato, sicchè anche al donante potrebbe essere imposta una idonea garanzia. La garanzia che può essere imposta al donante è la garanzia per evizione, esplicitamente ammessa nella donazione dall'art. 797 cod. civ., in ipotesi tassativamente elencate. Nel nostro ordinamento la garanzia per evizione è dettata per esteso per il contratto di compravendita (art. 1483 cod. civ. ). L'art. 1476, n. 3 cod. civ., in particolare, ascrive la garanzia tra le obbligazioni principali del venditore unitamente alle obbligazioni di consegnare la cosa al compratore e di fargli acquistare la proprietà della cosa o il diritto ( se l'acquisto non è effetto immediato del contratto ). Si è molto discusso in dottrina sulla natura e sul fondamento della garanzia nella vendita 27. In ogni caso è opinione prevalente, se non pacifica, che la giustificazione della garanzia risieda nella corrispettività del contratto, secondo il principio della correlatività delle prestazioni 28. Tale impostazione, però, trascura il profilo della unitarietà del fondamento della garanzia rispetto a tutti i negozi in cui essa è prevista dall'ordinamento. Nella donazione, infatti, manca una qualsiasi corrispettività tra le situazioni dei partecipanti. Soccorre a questo punto una costruzione della garanzia per evizione che ribalta o comunque muta profondamente la prospettiva della responsabilità contrattuale del venditore. 27 Una parte della dottrina riconosce il fondamento della garanzia per evizione nella irregolarità dell'attribuzione patrimoniale che viene così ad essere assimilata alla sanzione, cfr. in tal senso RUBINO, La compravendita, Milano 1971, 629. Altra dottrina ritiene, invece, che la garanzia per evizione consiste in una responsabilità che l'ordinamento giuridico addossa in linea obiettiva al venditore in caso di mancata attuazione del contratto di vendita in quanto contratto con effetti reali, vedi DE MARTINI, Evizione ( diritto civile ), in Nuovissimo dig it., VI, Torino 1964, 1055 e, ivi, bibliografia. 28 RUBINO,La compravendita, op. cit.,641; GRECO e COTTINO, Della vendita, in Comm. al codice civile a cura di SCIALOJA E BRANCA, Libro IV, Delle obbligazioni, artt. 1470-1547, Bologna-Roma, 1964, 104.

Invero, la responsabilità del venditore non discende da un rapporto obbligatorio, ma dalla " insoddisfazione di quell'interesse che doveva essere soddisfatto per il semplice e normale operare dei meccanismi giuridici e non in virtù di attività e comportamenti umani specifici " 29. La responsabilità così descritta è responsabilità per inattuazione dell'effetto reale.

Pertanto sono da superare le costruzioni che individuano nell'inadempimento il fondamento della garanzia per evizione, poichè manca ogni tramite obbligatorio rispetto al contratto che fa capo, per la propria attuazione, esclusivamente all'effetto reale ( art. 1376 cod. civ. ). Tale orientamento ha il pregio di consentire una visione unitaria del fondamento della garanzia per evizione, che si attagli anche alla donazione. Esso, infatti, prescinde dalla sinallagmaticità del contratto, la quale può soltanto rendere più colorita la responsabilità contrattuale. Va anche precisato, inoltre, che la considerazione che la rottura del sinallagma funzionale non sia un requisito essenziale della garanzia, è dimostrato dalla circostanza che l'ordinamento la prevede espressamente per la donazione, che è un contratto gratuito o meglio un atto a titolo di liberalità. A prescindere, comunque, dall'orientamento innanzi enunciato, vale a dire il fondamento unitario della garanzia per evizione, si deve ritenere che al donante può essere imposta la garanzia in virtù dell'art. 797 cod. civ. che rappresenta un'eccezione alla non obbligatorietà della garanzia in tema di donazione. Pertanto, resta da stabilire in quale caso previsto dall'art. 797 cod. civ. rientra la garanzia che può essere imposta al donante in forza dell'inciso del terzo comma dell'art. 784 cod. civ. Alla luce della teoria che attribuisce al donante la libera amministrazione del bene donato, il donante, nonostante la irrevocabilità della donazione, può, per un fatto proprio, alienare il bene donato pur essendo a conoscenza del pregiudizio che arrecherebbe al nascituro-donatario. Tale consapevolezza, nonchè il comportamento del donante, fa rientrare la garanzia per evizione, che può essere imposta al donante, nell'ipotesi di cui al n. 2 dell'art. 797 cod. civ. e precisamente " ... dal fatto personale di lui ". La disposizione è analoga a quella dell'art. 1487, secondo comma, cod. civ., in tema di vendita, nella quale l'obbligo del venditore di garantire il compratore comprende non soltanto il fatto altrui, ma anche il fatto proprio 30.

Il fatto personale del donante, dunque, non è altro che il fatto doloso, vale a dire quello compiuto dopo la donazione con la consapevolezza di nuocere al donatario.31

29 Il passo è di RUSSO, La responsabilità per inattuazione dell'effetto reale, Milano 1965, 5. 30 GIANNATTASIO, Delle successioni, cit, 303; cfr. anche Cass. 14.3.1956 n. 2864, in Mass. Giust. Civ., 1956,904. 31 In tal senso BIONDI, Le donazioni, cit., 554.

Page 46: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

46

Da tutte le siffatte considerazioni possiamo affermare che la tesi che attribuisce al donante la libera amministrazione del bene donato, può trovare fondamento giuridico nella possibilità da parte dei rappresentanti legali del nascituro-donatario di obbligare il donante a prestare garanzia verso il donatario, per l'evizione che questi può soffrire dalle cose donate. In effetti, se i genitori del nascituro-donatario, nella loro qualità di rappresentanti legali, possono obbligare il donante o i suoi eredi a prestare la garanzia per evizione in favore del nascituro, ciò sta a significare che il terzo acquirente acquista la piena proprietà del bene, cioè non un diritto sottoposto a condizione risolutiva, per cui argomentando a contrario, il donante disporrebbe della piena proprietà del bene 32. Nell'ipotesi, dunque, che si verifichi l'evento della nascita, il donatario che ha subito l'evizione avrà solo il diritto di pretendere dal donante-venditore la restituzione in suo favore del prezzo ricavato, che egli avrà eventualmente reimpiegato. Nell'ambito della problematica affrontata, uno degli aspetti di natura processuale che potrebbero discendere dalla stessa è quello relativo alla possibilità concreta di sottrarre il bene immobile alle garanzie del credito nel caso che il donante fosse debitore nei confronti di terzi. Invero, con la donazione del bene a nascituro, il donante avrebbe esclusivamente l'amministrazione del bene, ma non anche la proprietà dello stesso che, in effetti, resterebbe definitivamente in capo al nascituro-donatario con la conseguenza che il bene non potrebbe essere aggredito da potenziali creditori del donante, a prescindere da eventuali azioni di conservazione del credito di dubbia efficacia pratica e di difficile attuazione per mancanza, nella fattispecie, dei presupposti necessari per accedere alla garanzia. Analoga sorte spetterebbe ai canoni locativi in caso di locazione del bene donato a nascituro in quanto gli stessi devono essere comunque reimpiegati in favore del nascituro-donatario, anche se non ancora concepito, e, quindi, sottratti alla disponibilità del donante debitore e alle pretese dei creditori. Tale orientamento sembra emergere dalla interpretazione del terzo comma, ultima parte, dell'art. 784 cod. civ. Invero, nel caso in cui la donazione del bene immobile locato venga fatta a favore di un nascituro già concepito, i frutti maturati prima della nascita di quest'ultimo sono direttamente riservati al donatario, per cui sono direttamente gestiti ed amministrati dai rappresentati legali del medesimo. Nel caso, invece, che la donazione venga fatta a favore di un non concepito, i frutti sono riservati al donante, il quale può amministrarli, con obbligo di reimpiego, sino al momento della nascita del donatario, ovviamente per le

32 Tale tesi sembra trovare fondamento ance nelle formule della donazione a nascituri di cui al formulario degli atti notarili, a cura di LOVATO-AVANZINI, Torino 1990, 214, qualora si esonera il donante a prestare garanzia, per cui implicitamente si ammette che la garanzia possa essere imposta anche al donante.

analoghe ragioni svolte in tema di alienazione del bene donato. Per quanto riguarda l'amministrazione del bene donato a nascituro, non appare revocabile in dubbio che la stessa appartenga al donante, il quale, nell'ambito dell'amministrazione ordinaria, può disporre del bene e, dunque, locare lo stesso a terzi, con l'obbligo eventuale di reimpiegare le somme in favore del donatario-nascituro ricavate dalla locazione del bene. Tuttavia, in tema, deve evidenziarsi anche la circostanza che mentre per il donante la locazione può essere direttamente stipulata senza alcuna autorizzazione trattandosi di un'amministrazione diretta che trova fondamento nella stessa legge per le considerazioni giuridiche innanzi esposte; per converso, in caso in cui la locazione venga stipulata dai rappresentanti legali del donatario, trattandosi di un atto non rientrante nell'ordinaria amministrazione, come esplicitamente disposto dalla seconda parte del primo comma dell'art. 320 cod. civ., il contratto deve essere compiuto congiuntamente dagli stessi ed, in caso di disaccordo, autorizzato dal giudice ai sensi dell'art. 316 cod. civ. Tale particolare disposizione trova, altresì, conferma in tema di comunione legale dei coniugi di cui al secondo comma dell'art. 180 cod. civ. 33 Peraltro, potrebbe anche verificarsi l'ipotesi di un conflitto tra il donante ed i rappresententi legali del nascituro, i quali potrebbero contestualmente disporre del bene e locarlo a terzi. Invero, per l'assunzione della qualità di locatore non è necessario essere proprietario della cosa locata, per cui chiunque abbia la disponibilità di fatto di una cosa in base a titolo non contrario, a norme di ordine pubblico, può validamente concederla in locazione, in comodato o costituirvi altro rapporto obbligatorio ed è, di conseguenza, legittimato a richiederne la restituzione allorché il rapporto venga a cessare. Ebbene, in caso di conflitto in tema di locazione del bene immobile donato a nascituro, è indubbio che il conflitto venga risolto in forza della disposizione normativa contenuta nell'art. 1380 cod. civ., il quale così recita: " Se, con successivi contratti, una persona concede a diversi contraenti un diritto personale di godimento relativo alla stessa cosa, il godimento spetta al contraente che per primo lo ha conseguito. Se nessuno dei contraenti ha conseguito il godimento, è preferito quello che ha il titolo di data certa anteriore. Sono salve le norme relative agli effetti della trascrizione ". Di conseguenza, in virtù della citata disposizione, applicabile al caso in esame attraverso una interpretazione estensiva, ai fini della risoluzione del conflitto non ha rilevanza la buona o mala fede dell'uno o dell'altro contraente.

33 In particolare si è ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità che il genitore munito del prescritto provvedimento di autorizzazione può disporre dei beni donati ai suoi figli nascituri, anche se non ancora concepiti, in tal senso vedi Cass. 8.9.1952 n. 2864, FI, 1953,298; in senso contrario, invece, cfr. App. Salerno 19.4.1973, RFI, 1974, voce Donazione, n. 22.

Page 47: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

47

Il principio secondo il quale la norma dell'articolo citato astrae dallo stato di buona o mala fede dell'uno o dell'altro contraente va inteso nel senso che il contraente il quale sia secondo nel conseguire il godimento della cosa deve in ogni caso restituirla al primo e non può esimersene allegando di essere stato in buona fede, ma non anche nel senso di escludere che questi, se abbia contratto in mala fede o con colpa grave, si sottragga a responsabilità per danni. Non può negarsi al contraente assistito dalla priorità la facoltà di preferire alla restituzione dell'idem corpus la riparazione per equivalente. Peraltro, mentre l'azione di reintegrazione è legittimamente esperita contro il nuovo detentore quale che sia il suo atteggiamento subiettivo, l'azione risarcitoria postula sempre l'accertamento degli estremi, obiettivo e subiettivo, senza i quali non può sussistere responsabilità per danni, e dato il carattere extracontrattuale della relativa responsabilità, la prova degli estremi predetti incombe all'attore ( in tema vedi Cass. 20.4.1960 n. 955 ). Ulteriore considerazione da svolgere, in conclusione, nell'ambito del complesso discorso affrontato involge l'aspetto diretto alla legittimazione ad agire nell'ipotesi che si voglia ottenere la disponibilità dell'immobile locato donato a nascituro. L'esame del caso particolare deve tenere distinte le ipotesi in cui l'immobile locato sia stato donato a nascituro concepito ovvero ad un non concepito. Invero, nel primo caso, vale a dire di locazione di immobile donato ad un nascituro già concepito, la legittimazione del donante ad avere la disponibilità dell'immobile locato perde di attualità rispetto alla durata della locazione, dacché con l'evento della nascita, la legittimazione non può che appartenere sostanzialmente ai rappresentanti legali del nascituro, i quali faranno valere i diritti del medesimo. In tale ipotesi, è esclusa la necessità dell'autorizzazione per promuovere il giudizio, in quanto l'azione è diretta esclusivamente a realizzare l'intento pratico delle parti negli stessi termini contemplati e presupposti dall'autorizzazione già rilasciata per l'accettazione della donazione e, dunque, per compiere il relativo atto sostanziale ( per uno spunto, in questo senso, obiter dicta, cfr. Cass. 14.3.1968 n. 814; idem, in modo specifico controlla Cass. 30.1.1982 n. 599 ). Nel caso, invece, che la locazione venga effettuata su un immobile donato ad un nascituro non concepito, è indubbio che il donante conservando l'amministrazione del bene immobile, resta investito dei più ampi poteri per porre in essere la domanda di rilascio dell'immobile locato. Un'ipotesi del tutto particolare potrebbe verificarsi nel caso in cui la locazione del bene immobile locato e donato a nascituro venga posta in essere dai rappresentanti legali del medesimo nell'ambito di un titolo non contrario a norme di ordine pubblico, laddove quest'ultimi hanno accettato, con le prescritte autorizzazioni di cui agli artt. 316 e 320 cod. civ., la donazione del bene immobile e, tra l'altro, il donante, nelle more della locazione, procede alla alienazione ad un terzo del bene stesso.

In altri termini, si pone il problema se la legittimazione alla domanda di rilascio del bene locato spetti al terzo proprietario ovvero ai rappresentanti legali del nascituro che rivestono la qualità di locatore. E' indubbio che in questa ipotesi il terzo proprietario non ha alcuna legittimazione a porre in essere una domanda di rilascio dell'immobile nei confronti del conduttore, spettando tale azione esclusivamente al locatore ( in tal senso, fra tante, vedi Cass. 6.12.1963 n. 3098; Cass. 22.10.1969 n. 3455 ). Tuttavia, il proprietario non locatore nei confronti del conduttore avrà l'azione reale a tutela del proprio diritto assoluto per conseguire la disponibilità dell'immobile, qualora il rapporto di locazione " inter alios " non gli sia opponibile 34. Francesco della Ventura Il procedimento di espulsione dal territorio dello Stato dei cittadini extracomunitari (Luigi A. M. Ferrone) Il D. Lgs. 25.7.1998 n. 286, come modificato dalla L. 30.7.2002 n. 189 (c.d. Testo Unico sull’immigrazione), disciplina tre diverse tipologie di espulsione: amministrativa (art. 13), a titolo di misura di sicurezza (art. 15) ed a titolo di sanzione sostitutiva o alternativa alla detenzione (art. 16). 1. L’espulsione ministeriale L’art. 13, co. 1, D. Lgs. 25.7.1998 n. 286 contempla l’espulsione per atto del Ministro dell’Interno: essa può essere disposta “per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato … (previa comunicazione) al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro degli Affari Esteri”. Il provvedimento de quo può essere pronunziato tanto nei confronti di stranieri clandestini quanto nei confronti di coloro i quali siano entrati legalmente nel territorio dello Stato, che siano titolari di permesso di soggiorno valido e non scaduto o addirittura di carta di soggiorno (“… espulsione dello straniero anche non residente nel territorio dello Stato …”: art. 13, co. 1, citato). L’espulsione ministeriale si caratterizza per l’ampia discrezionalità in ordine alla valutazione dei presupposti che la legittimano (ordine pubblico e sicurezza dello Stato), fermi restando i divieti sanciti dall’art. 19 D. Lgs. 25.7.1998 n. 286 per le ipotesi in cui lo straniero “possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione”.

34 In questo senso vedi BUCCI, MALPICA, REDIVO, Manuale delle locazioni, Padova1989, 20, ove si è prevista anche l'ipotesi del c.d. mandato fiduciario, laddove l'immobile venga locato in nome proprio da altra persona. In argomento vedi anche Cass. 28.2.1983 n. 1508; Cass. 5.12.1985 n. 6098.

Page 48: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

48

2. L’espulsione prefettizia L’espulsione per decreto prefettizio è regolata dall’art. 13, co. 2, D. Lgs. 25.7.1998 n. 286. Il Legislatore ha previsto in primis (lett. a) che il potere di espulsione debba essere esercitato nei confronti dello straniero che sia entrato nel territorio nazionale sottraendosi ai controlli di frontiera e non sia stato respinto ai sensi dell'articolo 10 D. Lgs. 25.7.1998 n. 286. (35) In secundis, il decreto di espulsione deve essere pronunziato nei confronti del cittadino extracomunitario che non abbia richiesto il permesso di soggiorno entro otto giorni lavorativi dall’ingresso in Italia (36) ovvero si sia trattenuto sul territorio nazionale con permesso di soggiorno revocato o annullato o scaduto da oltre sessanta giorni (lett. b)(37). L’ipotesi de qua concerne sostanzialmente tutti gli stranieri che, pur essendo entrati legalmente in Italia, risultano privi di un valido titolo di permanenza sul territorio dello Stato. In tertiis, il potere di espulsione potrà essere esercitato nei confronti dello straniero che “appartiene a taluna

35 Secondo Cass., sez. I, 7 luglio 2000, n. 9079, Leocadia del Carmen c/ Prefetto di Vercelli [rv. 538958], “in tema di espulsione amministrativa dello straniero extracomunitario, l’ipotesi di introduzione nel territorio dello Stato “sottraendosi ai controlli di frontiera”, contemplata dall'art. 13, co. 2 – lett. a) D. Lgs. 25.7.1998 n. 286, trova applicazione non solo quando lo straniero si sia introdotto nel territorio dello Stato senza passare per i valichi di frontiera, ma altresì quando, attraversando i valichi di frontiera consentiti, abbia esibito agli agenti preposti ai controlli documenti idonei a trarli in inganno” 36 “Il previsto termine di otto giorni dalla data di ingresso in Italia, assegnato allo straniero extracomunitario per avanzare formale richiesta di permesso di soggiorno all’autorità di pubblica sicurezza, non è da considerare perentorio, con la conseguenza che il suo mancato rispetto non può comportare di per sé l’espulsione dello straniero inadempiente dal territorio dello Stato, allorché questi abbia nel frattempo instaurato in Italia una normale condizione di vita e sia comunque in possesso degli altri requisiti richiesti dalla legge per il soggiorno nel territorio nazionale”: Cons. Stato, sez. IV, 30 marzo 1999, n. 870, Szalkowska c/ Ministero dell’Interno ed altri, in GD, 1999, n. 27, 90, con nota di G. Manzi 37 Ad avviso di Cass., Sez. Un., 3 aprile 2003, n. 7892, Jeyakumar c/ Prefetto di Palermo, in GD 2003, n. 23, 32, con nota di M. Noci, “la spontanea presentazione della domanda di rinnovo del permesso di soggiorno oltre il termine di sessanta giorni dalla sua scadenza non consente l’espulsione “automatica” dello straniero, la quale potrà essere disposta solo se la domanda sia stata respinta per la mancanza originaria o sopravvenuta dei requisiti richiesti dalla legge per il soggiorno dello straniero sul territorio nazionale, mentre la sua tardiva presentazione potrà costituirne solo indice rivelatore nel quadro di una valutazione complessiva della situazione in cui versa l’interessato”.

delle categorie indicate nell’art. 1 della L. 27.12.1956 n. 1423, come sostituito dall’art. 2 della L. 2.8.1988 n. 327, o nell’art. 1 della L. 31.5.1965 n. 575, come sostituito dall’art. 13 della L. 13.9.1982 n. 646” (lett. c). Si tratta delle categorie di persone nei cui confronti può essere richiesta l’applicazione di misure di prevenzione, ossia: 1) coloro che risultano, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi; 2) coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con proventi di attività delittuose; 3) coloro che per il loro comportamento debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che sono dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica; 4) gli indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, camorristico o ad altre associazioni, comunque localmente denominate, che perseguono finalità o agiscono con metodi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso. Come acutamente rilevato, si tratta di ipotesi di sospetto molto generiche che devono essere corroborate da elementi di riscontro gravi, precisi e concordanti, essendo necessaria una rigorosa valutazione in ordine alla “abitualità ed all’attualità delle condotte contestate”(38). 3. L’immediata esecutività del decreto di espulsione La ricorrenza delle suindicate condizioni legittima l’emissione del decreto di espulsione da parte dell’autorità amministrativa. Secondo la disciplina dettata dal D. Lgs. 25.7.1998 n. 286 – prima delle modifiche introdotte dalla c.d. Legge Bossi-Fini – l'espulsione consisteva in un’intimazione a lasciare il territorio nazionale entro quindici giorni, salvo specifici casi di accompagnamento alla frontiera. Al contrario, la L. 30.7.2002 n. 189 statuisce il principio generale della immediata esecutività del decreto di espulsione(39): “l'espulsione è disposta in ogni caso con decreto motivato immediatamente esecutivo, anche se sottoposto a gravame o impugnativa da parte dell’interessato” (art. 13, co. 3, D. Lgs. 25.7.1998 n. 286, come modificato dall’art. 12 L. 30.7.2002 n. 189)(40).

38 Cass., sez. I, 7 ottobre 2002, n. 12721, in www.altalex.it. Analogamente, Cass., sez. V, 17 marzo 2000, n. 1520, Cannella, in CP 2001, 1327; Cass., sez. VI, 22 marzo 1999, n. 950, Riela, in CP 2000, 1778; Cass., sez. VI, 2 marzo 1999, n. 803, Morabito, in CP 2000, 2778 39 Secondo la Relazione al disegno di legge, la generalizzazione dell’accompagnamento si è resa necessaria in quanto “la maggior parte degli intimati in realtà non ottempera all’ordine di lasciare il territorio nazionale” 40 L’impugnazione del decreto di espulsione è regolata dall’art. 13 D. Lgs. 25.7.1998 n. 286. A mente del comma 8, avverso il decreto prefettizio può essere

Page 49: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

49

Quanto all’esecuzione dei provvedimenti di espulsione, la regola è quella dell'accompagnamento dello straniero alla frontiera a mezzo della forza pubblica (art. 13, co. 4, D. Lgs. 25.7.1998 n. 286, come modificato dall’art. 12 L. 30.7.2002 n. 189). Nel caso in cui lo “straniero si (sia) trattenuto nel territorio dello Stato quando il permesso di soggiorno è scaduto da più di sessanta giorni (senza averne) chiesto il rinnovo, l’espulsione contiene l’intimazione a lasciare il territorio nazionale entro il termine di quindici giorni”: nell’evenienza de qua l’accompagnamento immediato alla frontiera può essere disposto dal Questore solamente nell’ipotesi in cui “il Prefetto rilevi il concreto pericolo che quest’ultimo si sottragga all’esecuzione del provvedimento” (art. 13, co. 5, D. Lgs. 25.7.1998 n. 286, come modificato dall’art. 12 L. 30.7.2002 n. 189). Il decreto del Questore di accompagnamento alla frontiera deve essere comunicato entro quarantotto ore dalla sua adozione al Tribunale in composizione monocratica territorialmente competente, il quale, entro le successive quarantotto ore, verificata la sussistenza dei requisiti normativi, è chiamato alla convalida della misura (art. 13, co. 5 bis, D. Lgs. 25.7.1998 n. 286, introdotto dall’art. 2 D. L. 4.4.2002 n. 51, convertito, con modificazioni, in L. 7.6.2002 n. 106)(41). 4. L’espulsione dello straniero sottoposto a procedimento penale Il decreto – ministeriale ovvero prefettizio – di espulsione perde il carattere dell’immediata esecutività

presentato unicamente ricorso – entro sessanta giorni dalla comunicazione del provvedimento – al Tribunale in composizione monocratica del luogo in cui ha sede l’autorità che ha disposto l’espulsione. Il comma 11 dispone che contro il decreto ministeriale può essere proposto ricorso al T.A.R. del Lazio, sede di Roma. Per un più approfondito esame delle modifiche introdotte dalla c.d. Legge Bossi-Fini in materia di espulsione, si veda altresì F. Fiorentin, “Le nuove regole sull’espulsione dei cittadini stranieri dal territorio dello Stato”, in www.diritto.it; P. Balbo, “La giurisprudenza in itinere derivante dalla normativa sugli stranieri”, in www.diritto.it 41 L’intervento del Legislatore si è adeguato all’interpretazione fornita dalla Consulta all’istituto dell’accompagnamento coattivo (10 aprile 2001, n. 105, in DPP 2001, 711): invero, la Corte Costituzionale ha ritenuto il provvedimento in parola limitativo della libertà personale garantita ex art. 13 Cost., “salvando” la costituzionalità della disciplina previgente sul presupposto che l’accompagnamento coattivo fosse successivo a provvedimenti di espulsione collegati a decreti di trattenimento, i quali, per effetto della necessità della convalida, consentivano il riesame del merito del provvedimento e quindi pure dei requisiti dell’accompagnamento che ne conseguiva. In dottrina, si veda P. Dubolino, “L’accompagnamento coattivo alla frontiera dopo l’intervento della Corte Costituzionale”, in Riv. Polizia, 2001, 542

nel caso in cui il cittadino extracomunitario sia sottoposto a procedimento penale. In tal caso, l’art. 13, co. 3, D. Lgs. 25.7.1998 n. 286, come modificato dall’art. 12 L. 30.7.2002 n. 189, subordina l’esecuzione dell’espulsione al rilascio di nulla osta da parte dell’autorità giudiziaria procedente (42). Il nulla osta de qua (al quale è equiparato il silenzio-assenso dell’autorità giudiziaria, che si forma una volta decorsi quindici giorni dal ricevimento della richiesta) non può essere rilasciato nei seguenti casi espressamente previsti dalla legge: a) la sottoposizione alla misura della custodia cautelare in carcere ovvero in luogo di cura. L’art. 13, co. 3 ter, D. Lgs. 25.7.1998 n. 286, come modificato dall’art. 12 L. 30.7.2002 n. 189, deferisce al giudice il compito di decidere “sul rilascio del nulla osta all’esecuzione dell’espulsione” al momento della revoca ovvero estinzione della misura cautelare custodiale (43). E’ importante sottolineare che la sottoposizione a misure cautelari diverse dalla custodia in carcere (e dunque, anche gli arresti domiciliari) non impedisce il rilascio del nulla osta. Come argutamente rilevato, vi è da chiedersi come potrà essere materialmente eseguita l’espulsione da parte dell’autorità amministrativa, una volta conseguito il prescritto nulla osta, in costanza di misura cautelare personale, senza cioè che il giudice abbia provveduto alla sua revoca. In proposito, da un canto, il Legislatore ha previsto il divieto di rilascio di nulla osta per il solo caso in cui lo straniero sia sottoposto alla misura cautelare custodiale in carcere, e, dall’altro, non ha indicato all’autorità giudiziaria che rilasci il nulla osta in menzione in che modo provvedere con riferimento all’eventuale diversa misura cautelare personale pendente. Palese è il vuoto normativo, dovendo essere assolutamente esclusa “la possibilità che il rilascio di nulla osta integri una revoca implicita delle misure anzidette”(44). b) la pendenza di un procedimento penale per uno dei gravi delitti previsti dall’art. 407, co. 2 – lett. a), cod. proc. pen. ovvero per uno dei delitti contemplati dall’art. 12 del Testo Unico (art. 13, co. 3 sexies, D. Lgs. 25.7.1998 n. 286, come modificato dall’art. 12 L. 30.7.2002 n. 189).

42 Come argutamente sottolineato in dottrina, “le nuove disposizioni cercano di attuare un contemperamento tra la pretesa punitiva, le garanzie costituzionali di difesa e l’interesse all’espulsione, in una mediazione non sempre raggiunta, né invero compiutamente realizzabile”: AA.VV., La nuova legge sull’immigrazione, Milano, 2002, 60 43 Tale disposizione – sì come l’art. 13, co. 3 bis, Testo Unico – ha destato perplessità in dottrina nella parte in cui sembra imporre al giudice di decidere d’ufficio sul nulla osta con l’ordinanza di revoca o di dichiarazione di estinzione della custodia cautelare in carcere: cfr, infra, par. 6 44 AA.VV., Il nuovo diritto dell’immigrazione, Milano, 2003, 234

Page 50: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

50

La normativa vigente nulla prevede in ordine alle informazioni dovute dall’autorità giudiziaria a quella amministrativa circa il venir meno di tali situazioni ostative all’esecuzione dell’espulsione. Difatti, nulla è statuito per il caso in cui, modificata l’imputazione nel corso del procedimento penale, venga meno il titolo di delitto ostativo all’esecuzione dell’espulsione. Parimenti, quanto alla custodia cautelare in carcere, il menzionato art. 13, co. 3 ter, impone al giudice di decidere sul rilascio del nulla osta all’esecuzione dell’espulsione contestualmente alla revoca ovvero dichiarazione di estinzione della misura, ma non obbliga l’autorità giudiziaria a comunicare all’autorità amministrativa l’intervenuta cessazione dello stato di custodia cautelare carceraria(45). 5. Il rilascio del nulla osta In difetto delle condizioni summenzionate, l’autorità giudiziaria che procede a carico di un cittadino extracomunitario può negare il rilascio del nulla osta esclusivamente qualora sussistano “inderogabili esigenze processuali valutate in relazione all’accertamento della responsabilità di eventuali concorrenti nel reato o imputati in procedimenti per reati connessi, e all’interesse della persona offesa” (art. 13, co. 3, D. Lgs. 25.7.1998 n. 286, come modificato dall’art. 12 L. 30.7.2002 n. 189). Il previgente art. 13, co. 3, D. Lgs. 25.7.1998 n. 286 prevedeva genericamente l’impossibilità di rilascio del nulla osta in presenza di non meglio precisate “inderogabili esigenze processuali”(46). Il Legislatore ha oggi “specificat(o) e limitat(o)”(47) le inderogabili esigenze processuali de quibus, che debbono concernere l’interesse della persona offesa dal reato (si pensi all’ipotesi in cui, eseguita l’espulsione del convivente, la persona offesa dal reato resti priva di sufficienti mezzi di sostentamento) ovvero la necessità di acquisizione di prove a carico di terzi(48).

45 AA.VV., Il nuovo diritto dell’immigrazione, Milano, 2003, 236 46 Sul punto, si veda A. Callaioli – M. Cerase, “Il Testo Unico delle disposizioni sull’immigrazione e delle norme sulla condizione dello straniero: una legge organica per la programmazione dei flussi. Il contrasto e la lotta alla discriminazione”, in Leg. Pen., 1999, 275 47 O. Forlenza, “Efficacia immediata per i provvedimenti di espulsione”, in GD, 2002, n. 34, 108 48 Il pieno esercizio del diritto di difesa spettante allo straniero espulso è garantito dall’art. 17 del Testo Unico, il quale contempla il rilascio, a cura del Questore, di un’autorizzazione al rientro in Italia “per il tempo strettamente necessario per l’esercizio del diritto di difesa, al solo fine di partecipare al giudizio o al compimento di atti per i quali è necessaria la sua presenza”. Cfr. AA.VV., La nuova legge sull’immigrazione, Milano, 2002, 60. Nella giurisprudenza di legittimità, Cass., sez. I, 16 novembre 2000, n. 14853, Agyekum Issaak c/ Min. Interno, in Giust. Civ. Mass., 2000, 2343; Cass., sez. I, 12 luglio 2002, n. 10145, Nitu c/ Prefetto di Bologna [rv. 555682]

In presenza delle predette esigenze, l’autorità giudiziaria avrà l’onere di emettere un esplicito provvedimento di diniego al fine di impedire la formazione del silenzio-assenso (art. 13, co. 3, D. Lgs. 25.7.1998 n. 286, come modificato dall’art. 12 L. 30.7.2002 n. 189)(49). Al momento del venir meno delle esigenze processuali in parola – alla cui comunicazione è obbligata l’Autorità Giudiziaria a mente dell’art. 13, co. 3, D. Lgs. 25.7.1998 n. 286, come modificato dall’art. 12 L. 30.7.2002 n. 189 – l’autorità amministrativa sarà legittimata a richiedere il prescritto nulla osta e potrà procedere all’esecuzione dell’espulsione a mezzo di accompagnamento alla frontiera (art. 13, co. 4, D. Lgs. 25.7.1998 n. 286, come modificato dall’art. 12 L. 30.7.2002 n. 189)(50). 6. Il rilascio del nulla osta nell’udienza di convalida dell’arresto o del fermo Il procedimento di rilascio del nulla osta nel caso di arresto in flagranza ovvero di fermo dello straniero trova una disciplina particolare dettata dall’art. 13, co. 3 bis, D. Lgs. 25.7.1998 n. 286, come modificato dall’art. 12 L. 30.7.2002 n. 189. In tale ipotesi, “il giudice rilascia il nulla osta all’atto della convalida, salvo che applichi la misura della custodia cautelare in carcere … o che ricorra una delle ragioni per le quali il nulla osta può essere negato ai sensi del comma 3”. Come acutamente rilevato dalla dottrina, nel caso de quo, viene omesso “ogni riferimento alla richiesta, lasciando intuire che il giudice sia tenuto a decidere d’ufficio sul nulla osta. Se così è, dunque, il giudice dell’udienza di convalida deciderà, il più delle volte, sul nulla osta senza che esso sia stato preceduto da un decreto di espulsione. In altre parole, dovrà, in ogni caso, stabilire se la sottoposizione dell’indagato a procedimento penale sia o no ostativa all’esecuzione di un decreto di espulsione non ancora emanato”(51). La disposizione in esame desta notevoli perplessità. Invero, da un canto, è possibile prevedere che il giudice dell’udienza di convalida, considerato lo stato iniziale del procedimento penale, difficilmente potrà affermare con sicurezza l’insussistenza di esigenze processuali ostative al rilascio del nulla osta, determinandosi conseguentemente per il diniego; dall’altro, la stessa natura “preventiva” del nulla osta crea imbarazzo, dal

49 In attesa della decisione sulla richiesta di nulla osta, il Questore potrà adottare la misura del trattenimento presso un centro di permanenza temporanea ex art. 14 Testo Unico: AA.VV., La nuova legge sull’immigrazione, Milano, 2002, 70 50 E’ importante sottolineare che il Legislatore non ha previsto l’obbligatorietà della richiesta di nulla osta nell’ipotesi in cui lo straniero assuma lo status di persona offesa dal reato, nonostante, come immediatamente intuibile, la sua espulsione potrebbe determinare notevoli problemi in ordine alle attività di indagine e di formazione della prova 51 R. Bricchetti, “Sull’espulsione degli stranieri sotto processo le ombre dell’illegittimità costituzionale”, in GD, 2002, n. 38, 109

Page 51: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

51

momento che tale provvedimento, per sua stessa natura, presuppone che un’espulsione sia stata ordinata e che di essa sia stata notiziata l’autorità giudiziaria(52). 7. Rilascio del nulla osta e conseguenza dell’espulsione nel procedimento penale Acquisita la prova dell’avvenuta espulsione del cittadino extracomunitario, se non è stato emesso il decreto dispositivo del giudizio, il giudice pronunzia sentenza di non luogo a procedere, ordinando, se del caso, la confisca delle cose indicate nell’art. 240, co. 2, cod. pen. (art. 13, 3 quater, D. Lgs. 25.7.1998 n. 286, come modificato dall’art. 12 L. 30.7.2002 n. 189)(53). Secondo la tesi proposta dalla maggioranza degli studiosi, “le genericità della locuzione induce a ritenere che la pronuncia della sentenza di non luogo a procedere sia dovuto solo qualora l’acquisizione della prova della avvenuta espulsione avvenga: - nella fase delle indagini preliminari prima dell’eventuale emanazione del decreto di citazione a giudizio; - nella fase dell’udienza preliminare prima dell’eventuale emanazione del decreto che dispone il giudizio; - dopo la richiesta di giudizio immediato e prima dell’eventuale pronuncia del relativo decreto da parte del giudice per le indagini preliminari; - dopo la richiesta di patteggiamento ex art. 447 cod. proc. pen. e prima della pronunzia dell’eventuale sentenza”(54). In ogni caso, l’espulsione non ha il valore di totale rinunzia al perseguimento penale dello straniero che abbia commesso reati Difatti, l’art. 13, co. 3 quinquies, D. Lgs. 25.7.1998 n. 286, come modificato dall’art. 12 L. 30.7.2002 n. 189, stabilisce che, in caso di reingresso illegale prima del decorso del termine di dieci anni ovvero prima che siano decorsi i termini prescrizionali dell’illecito (se superiori a dieci anni), il cittadino extracomunitario sia sottoposto a procedimento penale per il reato

52 M. Pavone, “Problemi di controllo giurisdizionale della espulsione amministrativa del cittadino straniero”, in www.filodiritto.com 53 Nell’ipotesi in esame, si è ritenuto che l’espulsione sia inquadrabile tra le condizioni di procedibilità, sicché l’avvenuto allontanamento dal territorio dello Stato impedisce l’esercizio dell’azione penale: R. Bricchetti, “Sull’espulsione degli stranieri sotto processo le ombre dell’illegittimità costituzionale”, in GD, 2002, n. 38, 110; M. Pavone, “Questioni di legittimità dell’espulsione dello straniero”, in www.filodiritto.com 54 AA.VV., Il nuovo diritto dell’immigrazione, Milano, 2003, 242. Ad avviso di R. Bricchetti, se è vero che la sentenza di non luogo a procedere non può essere pronunziata in costanza di giudizio, essa non può essere mai emessa nelle ipotesi di giudizio direttissimo: “Sull’espulsione degli stranieri sotto processo le ombre dell’illegittimità costituzionale”, in GD, 2002, n. 38, 110

commesso in precedenza e sia chiamato a rispondere della contravvenzione di inosservanza del divieto di reingresso ex art. 13, co. 13 (55). 8. L’espulsione a titolo di misura di sicurezza L’art. 15, co. 1, D. Lgs. 25.7.1998 n. 286 – non modificato dalla c.d. Legge Bossi-Fini – statuisce che “fuori dei casi previsti dal codice penale, il giudice può ordinare l’espulsione dello straniero che sia condannato per taluno dei delitti previsti dagli articoli 380 e 381 cod. proc. pen., sempre che risulti socialmente pericoloso”(56). L’emissione del provvedimento di custodia cautelare ed il passaggio in cosa giudicata di una sentenza di condanna a pena detentiva nei confronti di uno straniero proveniente da Paesi extracomunitari devono essere tempestivamente comunicati al Questore ed alla competente autorità consolare al fine di avviare la procedura di identificazione dello straniero e consentire, in presenza dei requisiti di legge, l’esecuzione della espulsione subito dopo la cessazione del periodo di custodia cautelare o di detenzione (art. 15, co. 1 bis, D. Lgs. 25.7.1998 n. 286, come modificato dall’art. 12 L. 30.7.2002 n. 189). 9. L’espulsione a titolo di sanzione sostitutiva L'espulsione come sanzione sostitutiva è regolamentata dall’art. 16, co. 1-4, D. Lgs. 25.7.1998 n. 286, come

55 Le istanze punitive che hanno guidato l’intervento normativo del 2002 in materia di immigrazione hanno scelto la via della tutela rafforzata del meccanismo di espulsione attraverso l’inasprimento della incriminazione della violazione al divieto di reingresso nel territorio dello Stato e mediante la possibilità di una “nuova” espulsione con accompagnamento coattivo alla frontiera a mezzo della forza pubblica. Come detto, il divieto di reingresso ha una durata ordinaria pari a dieci anni, salva la possibilità che il Prefetto, valutata la complessiva condotta dell’interessato, ritenga di dover fissare un termine inferiore. Il termine in parola inizia a decorrere dalla data di esecuzione dell’espulsione, attestata dal timbro di uscita dal territorio nazionale ovvero “da ogni altro documento comprovante l’assenza dello straniero dal territorio dello Stato” (art. 19 D.P.R. 31.8.1999 n. 394. L’antigiuridicità della condotta è esclusa nel caso in cui il rientro prima del termine stabilito avvenga a seguito di speciale autorizzazione del Ministero dell’Interno o di autorizzazione del Questore per l’esercizio del diritto di difesa nel procedimento penale. In argomento, amplius, M. De Giorgio, “Prime (dis)applicazioni della Legge “Bossi-Fini”, in www.diritto.it 56 La norma in esame amplia le ipotesi di espulsione a titolo di misura di sicurezza già previste dal codice penale e da leggi speciali: si pensi all’art. 235 cod. pen., che contempla l’espulsione dello straniero, anche comunitario, condannato alla pena della reclusione non inferiore a dieci anni, ed all’art. 86 D.P.R. 30.10.1990 n. 309, che impone l’espulsione dello straniero, anche comunitario, condannato per uno dei delitti previsti dal Testo Unico in materia di stupefacenti e sostanze psicotrope

Page 52: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

52

modificato dall’art. 12 L. 30.7.2002 n. 189 (57): essa può essere disposta dal giudice (58), in occasione di una condanna per un reato non colposo oppure in occasione di una sentenza ex artt. 444 ss. cod. proc. pen. pronunziata nei confronti di uno straniero che si trovi in taluna delle situazioni indicate nell’art. 13 del Testo Unico, quando deve essere applicata una pena detentiva entro il limite di due anni e non ricorrono le condizioni per applicare la sospensione condizionale della pena (59). La sanzione sostitutiva della pena non può essere disposta nel caso in cui non sia possibile eseguire immediatamente l’espulsione (per prestazioni di soccorso allo straniero, accertamenti supplementari sulla sua identità o nazionalità, mancanza dei documenti per il viaggio o mancanza di un vettore o altro mezzo di trasporto idoneo) (art. 14, co. 1, D. Lgs. 25.7.1998 n. 286, come richiamato dall’art. 16, co. 1, D. Lgs. 25.7.1998 n. 286)60. La durata dell’espulsione “sostitutiva” non può essere inferiore a cinque anni. Secondo parte della dottrina, la disposizione de qua “non si raccorda ora al nuovo termine decennale previsto per il divieto di reingresso, in conseguenze dell’espulsione amministrativa in senso

57 Perplessità sull’istituto sono state manifestate da G. Locatelli, “Osservazioni sull’espulsione sostitutiva alla detenzione”, in DPP, 1999, 1035 58 A differenza di quanto si vedrà appresso in ordine all’espulsione come misura alternativa alla detenzione, il giudice ha il potere di decidere se ordinare o meno l’espulsione 59 Cass., sez. IV, 2 giugno 1999, n. 1471, Bregu, in CP, 2001, 316 ha ritenuto rigettato “la questione di legittimità costituzionale dell’art. 16 D. Lgs. 25.7.1998 n. 286, nella parte in cui non prevede la espulsione dello straniero a titolo di sanzione sostitutiva anche nei confronti degli stranieri muniti di regolare permesso di soggiorno; rientra infatti nel legittimo esercizio della discrezionalità legislativa prevedere che, nel caso di straniero in posizione irregolare, l’interesse dello Stato alla espulsione possa, entro un determinato limite di pena e previa valutazione del giudice, prevalere sull’interesse alla pretesa punitiva, escludendosi invece una tale possibilità nel caso di straniero regolarmente soggiornante in Italia” 60 Ad avviso di alcuni commentatori, “è arduo ritenere che “le cause ostative indicate nell’art. 14, co. 1” siano effettivamente tutte quelle indicate in tale disposizione, tra le quali vi è anche, come causa dell’impossibilità di eseguire immediatamente l’espulsione, la necessità di procedere al soccorso dello straniero ovvero di acquisire i documenti per il viaggio o ancora l’indisponibilità di vettore o altro mezzo di trasporto idoneo; è difficile, invero, pensare che il potere del giudice possa essere paralizzato da situazioni che non dipendono dallo straniero, come ad esempio l’indisponibilità di un mezzo di trasporto idoneo o, in ogni caso, che il giudice debba farsi carico di accertamenti difficilmente compatibili con il suo compito”: AA.VV., Il nuovo diritto dell’immigrazione, Milano, 2003, 244

stretto. Sembra anzi che tale tipo di espulsione giudiziaria sia irragionevolmente più vantaggiosa e non si comprende perché il Legislatore non abbia provveduto ad allineare la durata dell’obbligatorio periodo di lontananza dal territorio nazionale, in via giudiziale, a titolo di sanzione sostitutiva alla detenzione”61. La sanzione de qua è eseguita dal Questore, anche se la sentenza – di condanna ovvero di applicazione della pena su richiesta delle parti – non è irrevocabile, secondo le modalità fissate dall’art. 13, co. 4, D. Lgs. 25.7.1998 n. 286, come modificato dall’art. 12 L. 30.7.2002 n. 189. La violazione del divieto di reingresso è penalmente sanzionata con la reclusione da uno a quattro anni (art. 13, co. 13 bis, D. Lgs. 25.7.1998 n. 286, come modificato dall’art. 12 L. 30.7.2002 n. 189)62 ed è prevista la revoca della sanzione sostitutiva ad opera del giudice competente (art. 16, co. 4, D. Lgs. 25.7.1998 n. 286, come modificato dall’art. 12 L. 30.7.2002 n. 189). 10. L’espulsione a titolo di misura alternativa alla detenzione La misura alternativa alla detenzione dell’espulsione può essere applicata nei confronti dello straniero, identificato e detenuto, che debba espiare una pena (anche residua) inferiore a due anni, nel caso in cui: 1. ricorrano le condizioni ex art. 13, co. 2, Testo Unico per procedere all’espulsione in via amministrativa; 2. la condanna non abbia ad oggetto uno dei delitti previsti dall’art. 407, co. 2 – lett. a), cod. proc. pen. ovvero uno dei delitti previsti dal Testo Unico (art. 16, co. 5, D. Lgs. 25.7.1998 n. 286, come modificato dall’art. 12 L. 30.7.2002 n. 189)63.

61 AA.VV., La nuova legge sull’immigrazione, Milano, 2002, 79 62 Nel caso in cui il cittadino extracomunitario rientri in Italia dopo la caducazione della sentenza che aveva applicato la sanzione sostitutiva, non potrà ritenersi integrata la fattispecie di trasgressione del divieto di reingresso. Al contrario, qualora esso avvenga prima della caducazione della anzidetta sentenza, l’eventuale successiva caducazione non inciderà in alcun modo sul procedimento penale in corso per la violazione del divieto di reingresso, ma determinerà il venir meno delle eventuali misure cautelari in essere o dello stato di detenzione. In tal senso, M. Pavone, “Brevi riflessioni sul trattamento sanzionatorio della nuova normativa per l’immigrazione”, in www.filodiritto.com 63 Secondo parte della dottrina, è censurabile la scelta legislativa di subordinare l’esecuzione dell’espulsione all’unico presupposto della pronunzia di una condanna a pena inferiore a due anni, “senza arricchire la previsione normativa di ulteriori parametri valutativi collegati alla meritevolezza dello straniero interessato al provvedimento (come avviene nelle altre ipotesi di modificazione qualitativa della pena: misure alternative alla detenzione; sanzioni sostitutive alla detenzione)”: F. Fiorentin, “E’ davvero costituzionale la disciplina dell’espulsione dello straniero?”, nota a Tribunale di

Page 53: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

53

Risulta evidente l’intenzione del Legislatore di assicurare una “tutela rafforzata” al Testo Unico e rafforzare il rispetto dei provvedimenti amministrativi di regolamentazione del fenomeno migratorio64. Analogamente a quanto stabilito in tema di espulsione “sostitutiva”, è prevista la revocabilità del beneficio ed il conseguente ripristino della pena detentiva nel caso in cui lo straniero rientri nel territorio nazionale prima della scadenza del termine di dieci anni dall’esecuzione dell’allontanamento (art. 16, co. 4, D. Lgs. 25.7.1998 n. 286, come modificato dall’art. 12 L. 30.7.2002 n. 189). L’autorità giudiziaria competente a decidere in ordine all’espulsione come misura alternativa alla detenzione è il Magistrato di Sorveglianza, “che decide con decreto motivato, senza formalità, acquisite le informazioni degli organi di polizia sull’identità e sulla nazionalità dello straniero”65. Il provvedimento è comunicato all’interessato, il quale, entro il termine di dieci giorni, può proporre opposizione dinanzi al Tribunale di Sorveglianza, che è tenuto a decidere nei successivi venti giorni (art. 16, co. 6, D. Lgs. 25.7.1998 n. 286, come modificato dall’art. 12 L. 30.7.2002 n. 189)66.

Sorveglianza di Torino, 15 gennaio 2003, in www.diritto.it 64 AA.VV., La nuova legge sull’immigrazione, Milano, 2002, 79 65 Sussistendo le condizioni di legge, l’espulsione come misura alternativa alla detenzione è un atto dovuto e non già discrezionale: si veda nota 24. Il Magistrato di Sorveglianza di Cagliari, 21 gennaio 2003, in www.diritto.it, ed il Magistrato di Sorveglianza di Alessandria, 10 dicembre 2002, in www.diritto.it, hanno sollevato questione di legittimità costituzionale con riguardo all’art. 16, co. 5 e ss. Testo Unico, rilevando che “la misura della espulsione dal territorio dello Stato è certamente priva di contenuto e finalità rieducativi” e che “certamente essa non può … ontologicamente assimilarsi né ad una pena, né ad una misura alternativa”. In argomento, si veda altresì M. Niro, “L’espulsione come “sanzione alternativa alla detenzione”: note critiche”, in www.diritto.it; F. Fiorentin, “Le nuove regole sull’espulsione dei cittadini stranieri dal territorio dello Stato”, in www.diritto.it 66 Secondo la tesi di F. Fiorentin, “elemento distonico della fattispecie di espulsione in esame con il sistema dell’esecuzione penale e con il principio della garanzia defensionale sancito dall’art. 24, co. 2, Cost. è costituito dalla mancata previsione di un contraddittorio immediato in sede di applicazione della misura … l’istituto si pone in contrasto con quel progressivo e garantistico processo di giurisdizionalizzazione della fase dell’esecuzione penale, che postula la tutela del contraddittorio pieno (con la possibilità dunque per l’interessato di interloquire fin dall’inizio della procedura con il giudice)” (“E’ davvero costituzionale la disciplina dell’espulsione dello straniero?”, nota a Tribunale di Sorveglianza di Torino, 15 gennaio 2003, in www.diritto.it)

L’esecuzione dell’espulsione67 viene differita ex lege al decorso del termine per proporre opposizione ovvero, nell’ipotesi di presentazione del ricorso, all’esito del procedimento dinanzi al Tribunale di Sorveglianza (art. 16, co. 7, D. Lgs. 25.7.1998 n. 286, come modificato dall’art. 12 L. 30.7.2002 n. 189). La pena residua da espiare si estingue nel termine di dieci anni, salvo che lo straniero contravvenga al divieto di reingresso.

67 Il Questore del luogo di detenzione del cittadino extracomunitario esegue l’espulsione con le modalità dell’accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica ex art. 16, co. 7, D. Lgs. 25.7.1998 n. 286, come modificato dall’art. 12 L. 30.7.2002 n. 189

Page 54: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

54

ALLEGATO N. 1 Contributo unificato - Dichiarazione del valore della causa successiva all'atto introduttivo del giudizio - contributo unificato da versare nell'ipotesi di impugnazione avverso la sentenza emessa nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo e nel giudizio di opposizione avverso la dichiarazione di fallimento.pagamento del contributo in caso di riassunzione del giudizio a seguito di sentenza dichiarativa di incompetenza. - notificazione a richiesta dell'ufficio - anticipazione forfettaria ex art. 30 t.u. - registrazione dei decreti emessi in materia di equa riparazione. Nota del 29-09-2003 Dipartimento per gli Affari di Giustizia - Direzione Generale della Giustizia Civile - Ufficio I Testo Unico spese di giustizia, DPR 115/02. Risposte a quesiti. Con riferimento alla materia di cui all'oggetto, avuto riguardo ai dubbi interpretativi sollevati da taluni uffici giudiziari, si reputa opportuno fornire gli indicati chiarimenti. Dichiarazione del valore della causa successiva all'atto introduttivo del giudizio. E' stato chiesto di conoscere se possa considerarsi valida, ai fini del pagamento del contributo unificato, la dichiarazione di valore della causa resa successivamente al deposito dell'atto introduttivo del giudizio. In merito, si osserva che l'art 14, comma 2 del Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia (D.P.R. n. 115 del 30 giugno 2002) prevede che "il valore dei processi, determinato ai sensi del codice di procedura civile, deve risultare da apposita dichiarazione resa dalla parte nelle conclusioni dell'atto introduttivo, anche nell'ipotesi di prenotazione a debito". In mancanza di tale dichiarazione il processo "si presume" di valore superiore ad euro 516.457 e, dunque, soggetto al pagamento del contributo unificato nella misura massima, pari ad euro 930 (art. 13, comma 6 T.U.). Orbene, deve ritenersi che, seppure l'art. 14 T.U. faccia espresso riferimento alla "dichiarazione resa nelle conclusioni dell'atto introduttivo", possa considerarsi valida la dichiarazione di valore del procedimento resa al di fuori dell'atto introduttivo, purché la medesima sia antecedente all'iscrizione a ruolo della causa e sia sottoscritta dal difensore. Ciò, in considerazione del fatto che, come si evince anche dalla relazione all'art. 13 T.U. - che determina gli importi del contributo unificato - la ratio della norma è quella di determinare "la misura del contributo unificato in relazione al valore dei processi"; conseguentemente, sembra evidente che l'effetto sanzionatorio della presunzione di valore di cui all'art. 13, comma 6 T.U. si riferisca soltanto alle ipotesi in cui non venga presentata, sia pure successivamente all'atto introduttivo, alcuna dichiarazione sul valore della causa.

Diversamente, la precisazione sul valore della causa formulata successivamente all'atto introduttivo, purché sottoscritta dal difensore e presentata al momento dell'iscrizione a ruolo, deve considerarsi come una formale integrazione dell'atto introduttivo del giudizio e, come tale, validamente preordinata ad individuare lo scaglione di valore del processo al fine di determinare l'importo del contributo unificato da versare. La predetta dichiarazione deve, ovviamente, essere inserita nel fascicolo d'ufficio (art. 168 c.p.c.). Contributo unificato da versare nell'ipotesi di impugnazione avverso la sentenza emessa nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo e nel giudizio di opposizione avverso la dichiarazione di fallimento. E' stato chiesto di conoscere se la riduzione del contributo unificato prevista per i processi speciali di cui al libro IV, titolo I, compresi il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo e di opposizione alla dichiarazione di fallimento (art. 13, comma 3 del T.U.), debba essere operata anche nei confronti dei procedimenti di impugnazione delle sentenze che decidono sulle predette opposizioni. Al riguardo, si ritiene che la specialità dei giudizi di opposizione, sia avverso il decreto ingiuntivo sia avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, si esaurisca con il procedimento di primo grado. Conseguentemente, l'impugnazione avverso la sentenza che conclude i predetti procedimenti assume le forme di un ordinario giudizio di appello per il quale non è applicabile la riduzione del contributo unificato prevista dall'art. 13, comma 3 cit. Pagamento del contributo in caso di riassunzione del giudizio a seguito di sentenza dichiarativa di incompetenza. Sono stati chiesti chiarimenti in merito al pagamento del contributo unificato in caso di riassunzione del giudizio già pendente innanzi ad altro giudice e definitosi con sentenza dichiarativa di incompetenza. Al riguardo occorre preliminarmente osservare che l'art 9 T.U. prevede che il contributo unificato di iscrizione a ruolo è dovuto "per ciascun grado del giudizio". Il Dipartimento per gli Affari di Giustizia, con la circolare n. 3 del 13 maggio 2002, ha affermato in proposito che non deve essere pagato "un nuovo contributo unificato in tutte quelle ipotesi di riattivazione del processo che tuttavia non comportano il suo passaggio ad un grado diverso dal primo. Così, ad esempio, nell'ipotesi di prosecuzione di un processo sospeso o interrotto o cancellato dal ruolo". Si precisa che tale affermazione intendeva limitare l'esclusione del pagamento del contributo alle sole ipotesi di prosecuzione o riassunzione del giudizio presso il giudice originariamente adito. Pertanto, nel caso di riassunzione del processo davanti ad altro giudice, instaurandosi una nuova fase processuale con conseguente iscrizione a ruolo del nuovo giudizio, il contributo unificato deve essere nuovamente corrisposto.

Page 55: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

55

Notificazione a richiesta dell'ufficio – anticipazione forfettaria ex art. 30 t.u. Numerosi quesiti sono pervenuti dagli uffici dei tribunali per i minorenni in ordine all'applicazione dell'anticipazione forfettaria per le notificazioni eseguite d'ufficio ex art. 30 T.U., nell'ambito delle procedure civili relative a minori. In particolare è stato chiesto di conoscere se, in considerazione di quanto disposto dall'art 10, comma 2, T.U. - che esenta dal contributo unificato "il processo, anche esecutivo, di opposizione e cautelare in materia di assegni per il mantenimento della prole, e quello comunque riguardante la stessa" - l'importo forfettizzato di cui all'art. 30 T.U. debba o meno essere percepito. In merito deve ritenersi che l'esenzione dal pagamento del contributo unificato, prevista dall'art. 10, comma 2, del citato T.U. per i procedimenti civili riguardanti la prole, non sia estensibile anche all'anticipazione forfettaria di cui all'art. 30 T.U. L'art 10, comma 2, T.U. prevede infatti, in maniera espressa, l'esenzione dal pagamento del contributo unificato per i procedimenti civili aventi comunque ad oggetto la prole senza fare alcun riferimento all'anticipazione forfettaria ex art. 30 T.U. Inoltre, si rileva come lo stesso articolo 30 T.U., nel prevedere, in generale, le ipotesi in cui i diritti e le indennità di trasferta e le spese di spedizione per le notificazioni a richiesta d'ufficio debbono essere anticipate dalla parte, esenta espressamente dal predetto versamento soltanto i processi di cui all'articolo unico della legge 2 aprile 1958, n. 319, come sostituito dall'art. 10 della legge 11 agosto 1973, n. 533. Relativamente ad altre ipotesi dubbie, si rammenta che il Dipartimento per gli Affari di Giustizia, con la circolare n. 6 dell'8 ottobre 2002, ha ritenuto che non devono ritenersi soggetti alla predetta anticipazione tutti quei procedimenti disciplinati da norme speciali, non abrogate dal T.U., per i quali è prevista in maniera chiara ed inequivoca l'esenzione da ogni tipo di tributo e spesa. A titolo di esempio, in materia di adozione, l'art. 82 della legge 4 maggio 1983, n. 184 stabilisce l'esenzione dal pagamento di "imposte di bollo e di registro e da ogni spesa, tassa e diritto dovuti ai pubblici uffici": è evidente che, in tal caso, dal dettato della norma emerge chiaramente la volontà del legislatore di ritenere esente il citato procedimento da ogni spesa e quindi anche dai diritti di notifica ex art. 30 T.U. Analogo criterio deve essere seguito per gli altri procedimenti civili aventi comunque ad oggetto la prole. Ancora, per le medesime ragioni, deve ritenersi che per i procedimenti in materia di equa riparazione pur se esenti dal pagamento del contributo unificato, ai sensi dell'art. 10, comma 1 del T.U., sono soggetti alla anticipazione forfettaria di cui all'art. 30 ed al pagamento dei diritti di copia. Registrazione dei decreti emessi in materia di equa riparazione. Taluni uffici giudiziari hanno chiesto di conoscere il trattamento fiscale dei decreti emessi in materia di equa

riparazione ed, in particolare, se i medesimi siano soggetti all'obbligo della registrazione con pagamento dell'imposta ovvero alla registrazione a debito ex art. 59 del T.U. delle disposizioni concernenti l'imposta di registro approvato con D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131. In merito si rappresenta che l'Agenzia delle Entrate, interpellata da questo Ufficio, con la nota prot. n. 2003/50865 del 30 maggio 2003, ha ritenuto che tali decreti siano soggetti all'imposta di registro. Per ciò che concerne le modalità di registrazione dei predetti decreti la medesima Agenzia ha puntualizzato che "la formalità è eseguita a debito, vale a dire senza il contemporaneo pagamento delle imposte dovute, ai sensi dell'art. 59, lettera a) del testo unico sull'imposta di registro, considerato che in questi procedimenti è sempre parte un'amministrazione statale" e che "il cancelliere è l'organo tenuto a richiedere la registrazione a debito con le modalità previste dall'art. 60 del testo unico sull'imposta di registro". Legge 7 aprile 2003, n. 63 – contributo unificato. A seguito dell'entrata in vigore della legge 7 aprile 2003, n. 63, che ha elevato ad euro 1.100 il limite di esenzione per il pagamento del contributo unificato (precedentemente determinato in euro 1.033 dall'art. 10, comma 4 e dall'art. 13 lettera a) del DPR 115/02 – T.U. sulle spese di giustizia) numerosi uffici del giudice di pace hanno chiesto di conoscere se il procedimento civile di valore superiore ad euro 1033, ma inferiore ad euro 1.100, sia assoggettabile alle altre imposte, tasse, diritti e spese. In merito si osserva quanto segue. La legge 7 aprile 2003, n. 63 ha modificato l'art 10, comma 4, e l'art. 13 lettera a) del DPR 115/02 – T.U. sulle spese di giustizia – elevando il limite di esenzione previsto per il contributo unificato da euro 1.033 ad euro 1.100. Nessun riferimento è stato invece fatto in ordine all'esenzione "dall'imposta di bollo e di registro e da ogni spesa, tassa o diritto di qualsiasi specie e natura" prevista dall'art. 46 della legge 374/91 per gli "atti e provvedimenti relativi alle cause ovvero alle attività conciliative in sede non contenziosa il cui valore non eccede la somma di euro 1.033". Pertanto, deve ritenersi che la modifica introdotta dalla legge 7 aprile 2003, n. 63, sia da riferirsi esclusivamente all'esenzione prevista per il contributo unificato e non anche ad altri tributi, diritti e spese che restano, quindi, generalmente dovuti per atti e provvedimenti relativi alle cause ovvero alle attività conciliative in sede non contenziosa il cui valore eccede la somma di euro 1.033. 29-09-2003 IL DIRETTORE GENERALE - Francesco

Page 56: FORO SALERNITANO N1 corretto1 · 2020-02-05 · 1 F O R O S AL E R N I T A N O N. 1- 2004 Direttore scientifico Rocco Pecoraro Direttore Responsabile Massimiliano Lanzotto Redazione

56

ALLEGATO N. 2

Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli. VII Reparto – XI Sezione.

Oggetto: riscossione dei diritti di cancelleria per le comunicazioni i sensi dell’art. 335, comma 3, c.p.p. Letta la nota Prot. 1/8781/4403 del 24.06.2003, con la quale il Direttore Generale – dott. F. Mele- del Ministero di Grazia e Giustizia, Dipartimento per gli Affari di Giustizia ha osservato che “La comunicazione prevista dall’art. 335, comma 3, c.p.p. non può essere assimilata alle certificazioni vere e proprie, per le quali è richiesta la riscossione del diritto di cui all’art. 273 T.U.”

D I S P O N G O Con effetto immediato, che le comunicazioni di cui all’oggetto siano rilasciate senza riscossione di diritti. Napoli, 29.07.2003 ALLEGATO N. 3

Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Nola. In www. iussit.it

Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Nola, nella riunione dell’11 febbraio 2003, ha deliberato di recepire il protocollo d’intesa sottoscritto dai Presidenti dei Consigli dell’Ordine degli Avvocati del Distretto della Corte d’Appello di Napoli, che ha statuito, ai fini dell’ammissione nell’Elenco degli avvocati per il patrocinio a spese dello Stato, di considerare anche l’anno di iscrizione nell’Elenco Speciale dei Praticanti abilitati al patrocinio. Pertanto, sono sufficienti cinque anni d’iscrizione all’Albo degli Avvocati ed uno a quello dei Praticanti abilitati al patrocinio per soddisfare il requisito dell’anzianità professionale richiesto dall’art. 81, II comma, lett. c), del DPR 115/02. Nola, 7.4.2003 Il Presidente Avv. Salvatore De Sarno Il Consigliere Segretario Avv. Agostino Di Tuoro

Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli.

Il C.O.A. di Napoli

rilevato Che la disposizione di cui alla lett. c) dell’art. 81 D.P.R. 115/02 è apparsa iniqua nei confronti della giovane avvocatura che, a seguito della citata disposizione, risulta penalizzata nell’accesso concreto alla professione in modo indiscriminato attraverso una generalizzata bocciatura ex post non giustificata neanche da criteri selettivi meritocratici ad personam;

considerato

- che il Legislatore, anche a seguito di molteplici doglianze provenienti dall’associazionismo forense, ha già proposto la modifica di tale disposizione, riducendo d sei anni a due anni l’anzianità professionale necessaria per l’iscrizione negli elenchi per il patrocinio a spese dello stato; - che allo stato la vigente normativa richiede esplicitamente il requisito dei “sei anni di anzianità professionale” e non già di “iscrizione all’albo”; che con conseguimento dell’abilitazione il praticante avvocato espleta l’attività professionale innanzi al tribunale in composizione monocratica e che pertanto per il requisito di anzianità professionale può essere compreso il periodo di prestazione professionale esplicato in qualità di praticante abilitato, sia pur limitatamente al solo ultimo anno immediatamente connesso con il superamento dell’esame di abilitazione all’esercizio dell’abilitazione forense; - che peraltro vi è anche un diverso orientamento interpretativo giurisprudenziale e forense finalizzato a ritenere il mancato inserimento del difensore nell’elenco suddetto non preclusivo dell’esercizio de