f.m. peter brook - turindamsreview.unito.it · L’amore libera dalla magia, come voleva Goethe?...

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Peter Brook e l’aura della Zauberflöte Milano Piccolo Teatro Strehler Due mesi fa mi telefona un amico, storico del Settecento, raccontandomi di aver visto a Parigi il Flauto magico di Peter Brook. «Lo vedrò il 6 Marzo a Milano», gli rispondo, sperando che non aggiunga altro; e invece: «sta tranquillo non dico niente. Ma penso che non ti piacerà». Mi ha detto tutto. Ma la prima volta che lo rivedo dovrò deluderlo e dirgli che si era sbagliato. Non per il gusto di contraddirlo o perché “piacere” sia la parola giusta, ma per qualcosa che cercherò di spiegare, con poche parole, se mi riesce. Per prima cosa, non è una messa in scena del Flauto Magico di Mozart con la regia di Peter Brook. Chi lo ha visto con questi occhi ne è uscito profondamente insoddisfatto. La storia c’è, quasi tutta, pur con molte licenze; e c’è molta musica, quasi tutta anche questa, ma ci si deve accontentare di un pianoforte e di una riduzione drastica della partitura. Non si pensi però a una trascrizione dall’orchestra. Rispetto a quella è un’altra cosa, più sciolta, più inventiva, con qualche interpolazione, ma limpida e piena di ironia, nei luoghi deputati. Lo smilzo foglietto illustrativo non dice niente, non fa nomi, ma sarebbe giusto sapere chi l’ha fatta, per complimentarsi. Sul piano musicale, compreso il pianista che la esegue, è l’unica cosa che si fa apprezzare; tra l’altro, col pregio in più di sollevare in bella vista la vocazione liederistica del Flauto magico. Perchè i cantanti, almeno quelli che sopravvivono ai tagli, visto che mancano sia le tre dame che i tre fanciulli, sono tutti modesti, uno più dell’altro. Ma poco importa, se ritorniamo alla premessa: non è la Zauberflöte. Anzi, non si potrebbe dire nemmeno che cantino: presi www.turindamsreview.unito.it

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Peter Brook e l’aura della Zauberf lö t e

Milano Piccolo Teatro Strehler

Due mesi fa mi telefona un amico, storico del Settecento, raccontandomi di aver visto a Parigi il Flauto

magico di Peter Brook. «Lo vedrò il 6 Marzo a Milano», gli rispondo, sperando che non aggiunga altro; e

invece: «sta tranquillo non dico niente. Ma penso che non ti piacerà». Mi ha detto tutto. Ma la prima

volta che lo rivedo dovrò deluderlo e dirgli che si era sbagliato. Non per il gusto di contraddirlo o

perché “piacere” sia la parola giusta, ma per qualcosa che cercherò di spiegare, con poche parole, se mi

riesce.

Per prima cosa, non è una messa in scena del Flauto Magico di Mozart con la regia di Peter Brook.

Chi lo ha visto con questi occhi ne è uscito profondamente insoddisfatto. La storia c’è, quasi tutta, pur

con molte licenze; e c’è molta musica, quasi tutta anche questa, ma ci si deve accontentare di un

pianoforte e di una riduzione drastica della partitura. Non si pensi però a una trascrizione dall’orchestra.

Rispetto a quella è un’altra cosa, più sciolta, più inventiva, con qualche interpolazione, ma limpida e

piena di ironia, nei luoghi deputati. Lo smilzo foglietto illustrativo non dice niente, non fa nomi, ma

sarebbe giusto sapere chi l’ha fatta, per complimentarsi. Sul piano musicale, compreso il pianista che la

esegue, è l’unica cosa che si fa apprezzare; tra l’altro, col pregio in più di sollevare in bella vista la

vocazione liederistica del Flauto magico. Perchè i cantanti, almeno quelli che sopravvivono ai tagli, visto

che mancano sia le tre dame che i tre fanciulli, sono tutti modesti, uno più dell’altro. Ma poco importa,

se ritorniamo alla premessa: non è la Zauberflöte. Anzi, non si potrebbe dire nemmeno che cantino: presi

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per mano dai tempi rapidi e sbrigativi di chi li accompagna, si direbbe piuttosto che “canticchiano”.

Senza con questo volerli schernire. Perché proprio qui c’è una chiave interpretativa dell’intero

spettacolo e forse la sua vera chiave di lettura.

«Noi ascoltiamo solo noi», scrive Ernst Bloch nello Spirito dell’Utopia, e «in che modo ci ascoltiamo,

dapprima? Come in un incessante canticchiare». Un cantarsi dentro, isolati dall’esterno, ricordando un

suono originario, già una volta ascoltato, ma divenuto ormai vago, fluttuante, incorporeo. Come se

Peter Brook ripercorresse la partitura da cima a fondo, riascoltandola nella memoria, canticchiandola

internamente e ripassandone le vicende attraverso le proprie visioni. Che sono altre e diverse da quelle

di Mozart.

Un momento prima che Tamino e Papageno accedano alle prove dell’acqua e del fuoco –ed è già un

tradimento: non ci sono prove per Papageno, nella Zauberflöte-, li si priva degli strumenti magici e si fa

loro la promessa che li riavranno solo dopo il superamento del percorso iniziatico. Con un tradimento

ancora più clamoroso, se è vero che nell’opera un istante prima delle prove, Tamino e Pamina

pronunciano le parole più celebrate del testo di Schikaneder: «con la potenza del suono attraversiamo

lieti la notte tetra della morte». Questo tema è ripreso alla fine dell’opera: il mondo crolla alla sconfitta

della Regina della notte e di Monostatos, ma sono loro stessi a ricostruirlo, Regina in prima fila, mentre

il pianista accenna alla musica senza trionfalismi, senza l’esaltazione del binomio Bellezza e Saggezza

che sigilla l’opera, ma in tempo lento e in un fare concentrato. Così, non ci sono separazioni, non ci

sono sconfitti. Avanza in proscenio una sorta di deus ex machina, un attore nero (mentre qui, invece, è

bianco Monostatos) prende fra le sue mani il flauto di Tamino e lo fa scomparire.

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L’amore libera dalla magia, come voleva Goethe? Non è solo questo, che in fondo ci sarebbe già anche

nella Zauberflöte. Il gesto con cui Peter Brook chiude la sua visione del Flauto magico ricorda quello di

Prospero al chiudersi della Tempesta : «Ma questa mia primitiva arte, ecco io abiuro…spezzerò la mia

bacchetta, lo seppellirò alquante tese sotto terra, e getterò in mare il mio libro così che scenda molto

più a fondo di quanto mai sia sceso uno scandaglio» (tr. di G.Baldini). L’abiura di Peter Brook, e il suo

scandaglio, non aspettano la fine dell’opera: in favore di un umanesimo che si condensa nell’ideale di un

ricostruire, di un riedificare il mondo col concorso di tutti, degli innocenti e dei colpevoli, si possono

sacrificare, oltre al potere della musica, anche le ultime luci dell’Illumismo sopravvissute al disegno

sociale della Zauberflöte; e insieme ad esse parte della materia da cui nasce, del suo radicarsi nel tempo

della storia.

Si salvano però due luoghi topici dell’opera di Mozart: il sentimento dell’amore e il sentimento della

morte. L’emozione del «Tamino mein, o welch ein Glück», l’immortale incontro della giovane coppia,

possiede un’intensità e una naturalezza incomparabili a quanto non si veda nelle consuete recite

dell’opera; la scena delle prove, coi suoi effetti di luce, e due semplici tizzoni in mano agli uomini in

armi, sfiora il mistero della morte in modi sconosciuti agli allestimenti più sofisticati.

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Naturalmente s’impone il confronto col Don Giovanni visto e applaudito qualche anno fa. La stessa

riduzione al minimo degli elementi scenici: qui tutto è risolto con un buon numero di pertiche di legno

disposte a simulare luoghi, foreste, anfratti, porte, colonnati, e la stessa meravigliosa capacità nel

simulare i più diversi spazi per puro sortilegio. Ma rispetto a quella celebratissima messa in scena, che

aveva un’orchestra, un direttore come Abbado (poi Harding), cantanti-attori eccellenti, messi a punto

dopo mesi di prove, questa fa un po’ l’effetto di uno spettacolo quasi dilettantesco. Eppure, mentre nel

Don Giovanni, con tutta la sua perfezione, con la sua penetrazione nelle zone più riposte di una

drammaturgia osservata in profondità fino all’essenza, l’aura del Don Giovanni correva il rischio di

svaporare, qui l’aura della Zauberflöte ci circonda e si afferma, malgrado tutto, sino alle ultime battute.

Anche perché non credo che Peter Brook abbia una fede smisurata nell’opera in musica, mi resta un

piccolo dubbio se questo sia merito solo di Mozart e della Zauberflöte o almeno in parte anche suo.

ernesto napolitano

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