Filosofia Teoretica - Unità didattica

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRIESTE SCUOLA DI SPECIALIZZAZIONE PER L’INSEGNAMENTO NELLE SCUOLE SECONDARIE CORSO DI FILOSOFIA TEORETICA PRESENTAZIONE DI UN NUCLEO TEMATICO Docente del Corso: Ch.mo Prof. Marco Favento. Specializzando: Stefano Ulliana Classe di abilitazione: A037 (Filosofia e Storia) Corsi Speciali ex lege N. 143/2004, D.M. 85/2005 A.a. 2006 - 2007.

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Globalizzazione e post-modernità. Ideologia e critica.

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SSCCUUOOLLAA DDII SSPPEECCIIAALLIIZZZZAAZZIIOONNEE PPEERR LL’’IINNSSEEGGNNAAMMEENNTTOO

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CORSO DI FILOSOFIA TEORETICA

PPRREESSEENNTTAAZZIIOONNEE DDII UUNN NNUUCCLLEEOO TTEEMMAATTIICCOO

Docente del Corso: Ch.mo Prof. Marco Favento.

Specializzando: Stefano Ulliana Classe di abilitazione: A037 (Filosofia e Storia)

Corsi Speciali ex lege N. 143/2004, D.M. 85/2005

A.a. 2006 - 2007.

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IINNTTRROODDUUZZIIOONNEE Se “il modulo rappresenta una unità formativa autosufficiente in grado di promuovere

saperi molari e competenze che, per la loro alta rappresentatività culturale, e perciò anche tecnico pratica, nel settore specifico di riferimento, siano capaci di modificare significativamente la mappa cognitiva e la rete delle conoscenze precedentemente possedute…” (G.Domenici, 2002) e se la progettazione modulare consente di far affiorare nell’impianto strutturale di ogni disciplina e nella conseguente proposta formativa la struttura reticolare della conoscenza, individuando i nodi concettuali di base, le relazioni che li collegano, alcuni dei possibili percorsi alternativi di apprendimento, allora è possibile stabilire una serie di finalità ed obiettivi formativi, che stabiliscano, definiscano e determinino il progressivo svilupparsi, attraverso i contenuti proposti, i metodi e gli strumenti più adeguati ed opportuni, dell’orizzonte di riferimento della pratica educativa e didattica dell’insegnamento della filosofia nelle classi delle scuole superiori italiane. Costituiti, nelle diverse situazioni concrete, in serie discendente, i Piani Educativi di Istituto, la programmazione di classe in relazione agli obiettivi educativo-didattici trasversali, l’eventuale programmazione di Dipartimento (in questo caso il Dipartimento di Filosofia e Storia), stabilita la programmazione disciplinare (sulla base dell’analisi della situazione iniziale, della definizione delle finalità e degli obiettivi e della loro scansione all’interno dei percorsi didattici, della selezione dei contenuti, con la scelta dei metodi e degli strumenti, della determinazione delle modalità generali di verifica e di valutazione), l’orizzonte della pratica educativo-didattica della filosofia si concentra progressivamente sul rapporto fra le caratteristiche della classe in questione (modalità e stili di apprendimento, variabilità del grado di motivazione ed interesse alla nuova disciplina, presenza in misura diversa di abilità logico-linguistiche) e la proposta del singolo insegnante.

Stabiliti e consolidati i necessari prerequisiti (qui sotto indicati e delineati) richiesti dalla proposta tematica in esame - la trattazione del fenomeno della globalizzazione da un punto di vista teorico-critico, con l’uso di riferimenti diversi alle scuole ed ai pensatori in qualche modo inclusi nella programmazione finale di una quinta classe liceale (vedi <<Programmi Brocca>>) - diventa possibile somministrare una speciale proposta interpretativa storico-filosofica da parte dell’insegnante, appunto ad una terza classe di liceo classico, per la quale si prevedano generali condizioni iniziali di livello medio-alto, sia per quanto riguarda le abilità analitico-sintetiche, che le competenze legate alla individuazione lessicale o alla ricostruzione/rielaborazione personale delle argomentazioni filosofiche. Viene inoltre presupposta una forte motivazione, partecipazione ed interesse alla proposta in esame, che viene ritenuta capace di coinvolgere la classe – sia nella sua parte teorico-critica,

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che in quella storico-critica – alla necessaria ed auspicabile problematizzazione della forma ideologica del mondo contemporaneo, in questo modo attingendo ad una forte curiosità ed aspettativa da parte dei soggetti in formazione per l’inesplorato e il non ancora articolato e fondato (o giustificato).

11.. PPRREERREEQQUUIISSIITTII

Prima di iniziare la proposta di un nucleo tematico sulla globalizzazione, così come

viene indicato dai <<Programmi Brocca>> alla voce La nuova dimensione planetaria dei problemi dell’uomo, vengono riconosciuti alla classe una serie importante di prerequisiti di medio-alto livello conoscitivo: la presenza consapevole e sufficientemente articolata di un orizzonte di comprensione teorico-critico legato al processo storico desumibile dagli sviluppi successivi al secondo conflitto mondiale. Nella disputa fra imperialismi e forme varie di capitalismo sociale e/o burocratico di stato, che procede dalla fine del secolo XIX (1870-5) e che accoglie le forme iper-reattive dei fascismi istituzionalizzati, saper cogliere e riconoscere le forme del conflitto ideologico, così come si è venuto sviluppando dopo la seconda guerra mondiale, sino ai fenomeni della liberazione dal dominio coloniale, ai fermenti degli anni ’60 e ’70 ed al riflusso ideologico degli anni ’80 e ’90 del XX secolo. Saper cogliere la persistenza della spinta ideologizzante del motore economico, politico-istituzionale e sociale, oltre l’apparente caduta della contrapposizione Occidente-Oriente. Saper cogliere, dunque, le reali motivazioni strutturali presenti nella trasformazione del presupposto ideologico fondamentale della civiltà occidentale: come la forma tradizionale dell’Uno, necessario e d’ordine, accolga dentro la propria volontà di potenza la sapienza del conflitto infinito e la dispieghi storicamente nelle forme concrete dell’integrazione o dell’eliminazione dell’Altro (insussistenza dell’Opposizione). In particolare vengono richieste delle conoscenze specifiche, legate alla possibilità di definire e determinare la costruzione progressiva di quell’orizzonte: in special modo lo sviluppo della corrente esistenzialista francese, le nuove teologie della liberazione, gli sviluppi del marxismo e la scuola di Francoforte, la nuova strategia planetaria dell’Impero occidentale (P.N.A.C. e N.A.T.O.).

Nel momento in cui la presenza di questi prerequisiti sia stata assodata nella sua forma ancora iniziale ed in via di sviluppo e formazione – per effetto di un riscontro per esempio proveniente dalla disciplina concorrente della storia – il loro capovolgimento in finalità ed obiettivi perseguiti dall’azione didattica e formativa determinerà la definizione progressiva degli stessi nella formazione, costituzione e materializzazione organica ed organizzata di quell’orizzonte teorico-storico-critico, che si stabilisce da solo come competenza principe

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nella propria stessa istanza. L’autoevidenza di questa istanza porterà quindi a frutto i contenuti particolari di insegnamento, che in precedenza sono stati indicati come condizioni ed obiettivi particolari dell’azione didattica e formativa. Conseguentemente le stesse abilità e competenze verranno richieste, recuperate e sviluppate tramite lo stesso lavoro in classe attraverso le capacità legate alla consapevolezza della presenza ed attività di un orizzonte di natura immaginativo-razionale (di natura e tradizione presocratica), come luogo della propria autorappresentazione dei concetti, in tal modo superando la tradizionale suddivisione e progressiva scansione linguistica ed immobilizzante degli stessi (di natura e tradizione platonico-aristotelica). Questa competenza generalizzata si deve innestare su di un lavoro svolto in precedenza, realizzato in itinere dalla scuola secondaria superiore, teso allo sviluppo delle capacità/abilità analitica, sintetica, rielaborativa e critico-personale. Questo orizzonte generale permette, infatti, la giustificazione e l’integrazione di tutte le possibili abilità particolari e specifiche, di volta in volta richieste dalla programmazione dell’insegnamento filosofico.

22.. FFIINNAALLIITTÀÀ EE OOBBIIEETTTTIIVVII

Stanti le finalità decise dal Collegio Docenti e dal Consiglio di Classe iniziale, gli obiettivi

disciplinari (competenze ed abilità in relazione alla materia filosofica) e quelli metodologici (i diversi contributi che le conoscenze danno all’acquisizione di un metodo personale di rielaborazione critica), gli obiettivi specifici legati alla presentazione e veicolazione del nucleo tematico sulla globalizzazione consisteranno nella trasformazione progressiva dei prerequisiti, nel loro ampliamento e nella loro progressiva integrazione:

a) per l’acquisizione di una competenza teorico-storico critica fondamentale ed essenziale per l’attività del pensare (non secondo modelli o presupposti impliciti), che riesumi un possibile snodo problematico radicale, fondamentale ed essenziale nel modo di pensare occidentale: la differenza fra uno schema immaginativo-razionale creativo e doppiamente dialettico (nato con i Presocratici) e lo schema funzionale della contrapposizione dialettica fra l’ipotesi trascendentista (nata dagli Orfici, Pitagora, Eraclito e Platone) e quella immanentista (nata da Aristotele).

b) In questa competenza, la possibilità di vederne l’interno contenuto, forma e materia, in un presupposto di natura insieme teologica, politica e naturale, che nei due opposti casi considerati assume la struttura dell’Uno aperto ed infinito, motore di una dialettica real-ideale infinita e dialettico-creativa, oppure quella dell’Uno chiuso e limitante, appunto necessario e d’ordine, che contemperi ed integri in sé la diagonalizzazione tradizionale dell’Essere (che si mostra e nasconde nello stesso

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tempo) e l’ordinamento finalistico ed assoluto della sua volontà di potenza, per il tramite dell’organizzazione preventiva dello strumento logico-linguistico-interpretativo e della materializzazione delle sue fasi progressive attraverso l’ideologizzazione dei fini delle proprie classi dominanti (separazione intellettuale ed alienazione della potenza, della volontà e dei saperi).

c) Nella ricostruzione della processualità che ha attraversato le fasi antiche, medievali, moderne e contemporanee dell’ideologizzazione occidentale, saper depositare le acquisizioni dell’ultimo anno di corso nella disciplina filosofica, in modo particolare quelle sollecitate dal nucleo tematico in oggetto (vedi Appendice, interpretazioni suggerite dall’insegnante), integrandole in una prospettiva autonomamente personale e critica.

d) Una ricostruzione progressiva che dovrà portare allo sviluppo ulteriore e conclusivo delle abilità espressive, descrittive ed immaginative (interne ed esterne), dei soggetti in formazione, consentendo in tal modo la costituzione di un autonomo riferimento generale agli apporti provenienti dalle altre discipline presenti nel curriculum scolastico considerato (storia dell’arte, storia delle letterature e delle scienze).

e) Raggiungimento quindi di una competenza generale, costituita dalla consapevolezza della presenza ed azione di un piano e di uno sfondo ad orizzonte razionale e fonte immaginativa e creativa, capace di fondare la generalità degli apprendimenti, passando dal momento generale storico-filosofico e critico a quelli espressivo- letterari e scientifici.

33.. CCOONNTTEENNUUTTII

INTRODUZIONE.

Se la storia della filosofia occidentale può essere valutata complessivamente come

l’itinerario di una civiltà ideologica e della sua relativa civilizzazione concreta, allora diviene imprescindibile prendere in considerazione il momento che per quella stessa tradizione pare costituire l’attimo sorgente, il punto espressivo e la fonte dalla quale tutto sembra avere avuto inizio e fortuna. Questa impostazione, naturalmente e necessariamente, istituisce per se stessa una nascita autonoma ed una relativa considerazione delle relazioni e delle influenze ad essa esterne: se, dunque, la filosofia pare iniziare il proprio cammino letterario ed argomentativo nelle colonie greche della Ionia – con la cosiddetta scuola di Mileto - ecco allora che, subito, la corrente speculativa dominante in quella stessa tradizione – che potremmo definire neoplatonico-aristotelica (cristiana o laica che sia nelle sue

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espressioni proprie) – si accinge immediatamente a qualificarne le origini e gli sviluppi secondo la determinazione, che anima il proprio orizzonte di riferimento e di scopo (la razionalità finalizzatrice e realizzatrice). Ma, come si potrà bene vedere dalle riflessioni e dalle argomentazioni successivamente esposte, da un altro punto di vista altre avrebbero potuto essere le relazioni di sviluppo di un pensiero, che sia stato capace di mediare raggiungimenti speculativo-religiosi e pratico-tecnici da altre civiltà e civilizzazioni concrete e parimenti reali.

La definizione di post-modernità, che è stata rapidamente indicata e delineata a lezione, può forse consentire lo sviluppo di alcune considerazioni generali, con valore preliminare ed aventi la funzione e lo scopo di contestualizzare in modo teorico una possibile critica al suo concetto ed alle sue applicazioni pratiche, in particolar modo in ambito pedagogico.

Identificando l’orizzonte rivoluzionario novecentesco con la realizzazione – negativa e criticata - del socialismo reale – con ciò stabilendo una linea fatalmente determinista di sviluppo del pensiero universalista, che accosta in rapida successione l’illuminismo, l’idealismo ed il marxismo – Jean-François Lyotard sembra accogliere e sviluppare ulteriormente, in La condizione post-moderna (1979), le tesi critiche della Scuola di Francoforte, esposte da Theodor W. Adorno e Max Horkheimer in La dialettica dell’Illuminismo (1947). Considerando l’oggettività come il risultato della forza della produzione moderna ed inserendola all’interno dell’orizzonte trascendente dello Stato, questa posizione congiunge nel pensiero e nell’azione totalitaria sia la fase tetica del capitalismo, sia quella antitetica del socialismo marxiano, leninista e soprattutto stalinista. Entrambe queste fasi sarebbero accomunate dall’emergere e dall’imporsi della violenza costrittiva dell’universale, che prima sottomette l’azione collettiva allo sfruttamento della natura ed al necessario incremento massivo del profitto della classe dei capitalisti mondiali e poi, al contrario, ne rovescia apparentemente le finalità all’accrescimento della potenza comune della società comunista. In un caso e nell’altro si assisterebbe alla manifestazione di una volontà di dominio e di potenza, che si dichiara platealmente in contraddizione con la prospettiva della universale liberazione umana e, nel socialismo, anche naturale. Sarebbe dunque necessario, secondo Lyotard, abbandonare la prospettiva universalista, per ritrovare un contatto molto più saggio e realistico con le situazioni parziali e con i movimenti effettivi che potrebbero governarle. Solamente in questo modo – un modo che avvicina la posizione di Lyotard a quella del materialismo aleatorio di Louis Althusser, o al situazionismo di Guy Debord - si potrebbe rifuggire da quella tentazione veramente diabolica, che finisce per invertire le intenzioni positive iniziali in un risultato globale disastroso e assolutamente contraddittorio e controproducente.

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Seguendo in questo modo la demolizione che Adorno fa della dialettica sistematica hegeliana, che rende necessaria eticamente l’estraniazione del reale a se stesso, dunque impone il capovolgimento dell’alienazione, Lyotard – come del resto lo stesso Althusser – ristabilisce marxianamente il mondo sulle proprie gambe, accettando la non-necessità del capovolgimento come ideale operativo garante di una vera – non totalitaria – liberazione dell’uomo e della natura. La piena razionalità allora non è più costituita dall’orizzonte aperto dall’alienazione, ma al contrario si stabilisce in quel punto produttivo centrale, che solo può garantire l’espressione di una comune gioia e di una felicità collettiva: il possesso del centro produttivo consente che natura ed umanità si identifichino, nel movimento che sviluppa tutte le proprie potenzialità espressive. Ecco allora che la creatività naturale ed umana ridivengono la pietra di paragone dell’intera concezione pratica (politica) esistenziale, mentre il rapporto dialettico uomo-natura e uomo-uomo assurge di nuovo a metodo immediato e spontaneo di ricerca della propria autonomia e della propria libertà. Arte, ecologia e civiltà della tolleranza diventano le forme di autodisciplina dell’umanità, nella lotta per prevenire ed impedire lo scivolamento del mondo intero nella barbarie della distruzione dell’umanità stessa e della vita sul pianeta (cfr. la rivista <<Socialisme ou barbarie>>).

Da questo punto di vista e d’orizzonte la trasformazione che il sistema capitalistico stava forsennatamente spingendo a partire dal secondo dopoguerra doveva essere qualificato come un precipitarsi verso l’autodistruzione apocalittica, camuffato dal gioco sapiente dei media (“pornografia dei media”) e dall’autoreferenzialità del sistema, imposta tramite l’organizzazione ferrea e totalmente pervasiva dell’industria culturale. Se il reale alienato non si realizza, ciò che rischia di confermarsi è solamente una negazione – una auto-negazione – totale e globale, come effetto residuale e vendetta di quella irrealizzazione. Allora è ciò che è stato tradizionalmente considerato come negativo – tutto ciò che non si integra, più o meno consapevolmente, nel sistema – a svelare dentro di sé le potenzialità della vittoria e della riuscita effettiva del progetto di liberazione umana e naturale: non è quindi difficile collegare a questa riflessione, se si vuole ricostruire l’intero ambiente della speculazione critica francese, l’asse portante delle riflessioni di Michel Foucault, Gilles Deleuze e Felix Guattari.1 La libera potenza del desiderio e la sua irriducibilità al discorso alienante del dominio e del controllo preventivo ed autoritario condurranno inevitabilmente alla vittoria quel progetto, a patto che il suo messaggio sia quanto più ampiamente diffuso e riconosciuto, con una sua rapida e radicale diffusione popolare.

1 Michel Foucault, Storia della follia nell’età classica (1961). Gilles Deleuze, Differenza e ripetizione (1968). Gilles Deleuze e Felix Guattari, Anti-Edipo I e II (1972 e 1980).

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Così, come Adorno decapitava nella sua Dialettica negativa (1966) il rovesciamento/capovolgimento nell’astratto e separato metafisico dell’assoluto che si pone, lasciando operare solamente la negazione determinata (di un particolare negativo) come critica dello stesso, Lyotard preferisce utilizzare tutti i proventi critici delle nuove discipline orientate alla liberazione, come strumento pragmatico alla costituzione di un nuovo orizzonte di senso, capace di edificare nuovi significati esistenziali. Negazione dell’assoluto e dell’identico diventano in Lyotard affermazione immediata e spontanea della libertà insita nel particolare esistente, superando perciò le secche pessimistiche del pensiero francofortese, che vedevano l’affermazione dell’esistente solo come esito finale e definitivo di un processo inevitabilmente realizzato da un’entità metafisica. L’altro in generale allora diventa il particolarmente diverso, il dialetticamente e creativamente diverso. Una vera e propria iniezione di vita nel deserto dell’affermazione francofortese (una influenza protestante?). Nel contempo la contraddizione, anziché restare immodificata, viene non solo svelata ma anche fieramente combattuta. La storia del vero e reale si riappropria delle proprie radici terrene, rifiutandosi oramai per sempre di esserne svelta e così isterilita. Il metodo interpretativo e valoriale si reincarna in un progetto soggettivo comune, che riapre il movimento stesso delle realizzazioni storiche verso un’età di pace e di giustizia, di libertà eguale ed amorosa, fra gli uomini e con la natura. Il messianismo allora sostituisce l’apocalittico, per quanto questo resti l’impossibile spazio astratto e separato di un giudizio e di una salvezza discriminati ed uniformi e soprattutto si realizzi attraverso il massimo dell’infinito negativo: la catastrofe finale. L’orizzonte utopico, ricostituito da Adorno tramite l’esemplarità dell’espressione musicale anticlassicista (musica atonale di Schönberg), viene allora riconfermato ed irrobustito nella sua apertura anticonformista ed anticonsumista dalla riaffermazione dell’infinito originario, positivo. Ciò che è intimamente creativo e dialettico prorompe di nuovo a rivitalizzare lo stanco, apatico ed indifferente orizzonte di senso della post-moderna società occidentale.

Lyotard però – e questo è l’aspetto della sua riflessione che merita di essere criticato - valuta solamente l’aspetto per il quale quel principio centrale produttivo esprime delle differenze, delle aperte differenze, senza alcuna possibilità di unificazione. L’atomizzazione che ne deriva vuole essere la giustificazione di un divieto a ciò che viene considerato – forse sotto l’influenza della psicanalisi freudiana - regressivo: il ritorno alla Grande (Dea) Madre infinita e positiva. Lyotard allora resta come intrappolato fra il rifiuto dell’alienazione e il rifiuto della sua negazione, come se avesse stabilito l’irreversibilità del processo linearmente determinativo della società occidentale, processo che ha condotto appunto la medesima alla sua fase ultima e definitiva, quella post-moderna. La fine della storia diventa allora l’inutilità della stessa filosofia, che non ha più un progetto di futuro, ma deve al

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contrario combattere la sua stessa riduzione ad ancella dell’immagine (voluta, certificata ed approvata dal potere). Se l’immagine allora è diventata – così come è diventata nella biopolitica del potere (immagine differenziale)2 - la sua rapida e moltiplicata diffusione, all’interno di mondi reciprocamente confinati, allora la posizione del filosofo francese rischia di non riuscire ad opporre alcuna resistenza al vento della globalizzazione/delocalizzazione neoliberista. Il suo rifugiarsi all’interno di ciascun mondo rischia la deriva dell’autoimprigionamento,3 insieme alla disintegrazione (precarietà) del soggetto (umano e naturale). Proprio nel momento in cui la retorica della buona, aperta ed accogliente, società liberale – Karl Popper, La società aperta e i suoi nemici (1945) - mostra la corda, travolta dalla sostanza e dagli strumenti della sua vera e reale volontà di conquista e di dominio.

La sovrapposizione alla concezione tradizionale del pensiero – di derivazione platonico-aristotelica - dell’attività linguistica ha come unico risultato infatti la fortificazione e l’assolutizzazione dell’immagine, nella sua forma di ragione univoca e nella sua materia di universo chiuso e limitato, senza futuro possibile che non sia la sua ripresa ed il suo approfondimento radicale.

UNA PRIMA PROPOSTA CRITICA

Questa sovrapposizione e la relativa e connessa assolutizzazione dell’immagine è la forma

attraverso la quale la globalizzazione capitalistica pretende di affermarsi definitivamente ed ultimativamente, finalmente realizzando nella storia la metafisica tradizionale dell’identità e della sua presenza eterna come triade di determinazione.

Nello sviluppo storico ed ideale della civiltà occidentale la fase economica ora prevalente della globalizzazione dei capitali e delle merci, con la connessa ripresa ideologica dell’antico motivo - di tradizione platonico-aristotelica - del mondo e del pensiero unico in versione ora neoassolutista e iper-borghese,4 lo sviluppo di reti di comunicazione,

2 Jacques Derrida, La scrittura e la differenza (1967). 3 Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche (1953). 4 In La scuola sotto attacco (http://www.fisicamente.net/index-668.htm) Roberto Renzetti individua subito e

perfettamente le premesse ideologiche e materiali che, storicamente, hanno determinato alla metà degli anni ’90 del secolo XX le condizioni per la definizione di un concetto di società – e quindi di educazione – altamente stratificato e con un altissimo grado di separazione ed esclusione. Nel paragrafo La società 20:80 Roberto Renzetti scrive: “Al Fairmont Hotel di San Francisco, nel settembre 1995, si riunirono 500 persone, l'élite del mondo, il braintrust globale (Bush senior, M. Thatcher, G. Schultz, T. Turner, G. Rifkin - quello de La fine del lavoro, piuttosto che de l’Economia all’idrogeno - D. Packard, J. Gage, Z. Brzezinski, ...), sotto l'egida della Fondazione Gorbaciov, per "decidere delle prospettive del mondo nel nuovo millennio che porta ad una nuova civiltà". Tutti furono d'accordo nel prefigurare un modello di società in cui solo il 20% dei cittadini del mondo sarebbe stata necessaria per mandarlo avanti. Il rimanente 80% sarebbe stata da considerarsi massa eccedente [“surplus people”: questa l’espressione utilizzata]. Si passava quindi dalle pur nere prospettive degli anni Ottanta, la società in cui 1/3 dei cittadini del mondo avrebbe avuto accesso al benessere, ad una società 1/5 con molta massa eccedente. Si prospettavano riforme selvagge ben anticipate da John

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produzione e scambio dei beni e delle materie prime, il movimento generale delle persone e dei lavoratori, sembrano infatti costituire le nuove condizioni per la definizione di un quadro di riferimento strumentale, che svolge la funzione di fissazione e consolidamento sostanziale ed univoco dell’immagine di una società mondiale non ulteriormente modificabile, inalterabile nelle proprie condizioni determinanti, quasi che essa rappresenti il livello ultimo ed insuperabile della intera civiltà umana, il coronamento definitivo dell’intero suo sviluppo storico (dalle prime forme collettive nate nella piana fra il Tigri e l’Eufrate ai moderni grattacieli delle megalopoli occidentali). Senza resistenza, opposizione e divaricazione possibile nelle finalità generali, le istituzioni e gli strumenti persuasivi della comunicazione pubblica paiono focalizzare l’opinione pubblica mondiale verso una realtà astratta e nel contempo effettiva: essi dirigono l’attenzione collettiva verso un concetto ed una prassi che costituisce l’immagine reale della potenza artificiale separata, della potenza umana. Come in una ripresa e rivisitazione dell’impostazione religioso-filosofica che ha enormemente influenzato i cardini fondamentali della civiltà ideologica occidentale –

Gage, dirigente di Sun Microsystem, "assumiamo i nostri operai con il computer, lavorano con il computer e li cacciamo con il computer!" (con lo scavalcamento completo di ogni legge a tutela del lavoro) e, naturalmente, progettando una società senza classe media, ci si poneva il problema di come farla accettare alla massa eccedente. Gage aggiungeva che in futuro si tratterà “to have lunch or be lunch”, di mangiare o essere mangiati. Fu Zbigniew Brzezinski che fornì una prima soluzione per tranquillizzare chi sarebbe stato mangiato: tittytainment, una parola coniata a proposito che sta per tits = tetta (nel senso di dispensatrice di latte) e entertainment = gioco, il panem et circenses della Roma imperiale. Ed a quelli che obiettavano che il circo sarebbe stato insufficiente per chi chiedeva autostima, il moderatore, R. Roy, rispondeva che volontariato, associazioni sportive, ... "potrebbero essere valorizzate con una modesta retribuzione per promuovere l'autostima di milioni di cittadini". I numeri della massa eccedente, continuava Roy, non dovrebbero comunque preoccupare perché, a breve, vi sarà nei Paesi Occidentali, una nuova richiesta di lavori precedentemente rifiutati: pulizia strade, collaborazioni domestiche, ... Intanto occorre iniziare a colpevolizzare questa massa: non si lavora abbastanza, si guadagna troppo, la produttività è bassa, le pensioni vengono erogate troppo presto, sono troppo elevate, si è malati per troppo tempo, troppo assenteismo, la maternità, viviamo al di sopra delle nostre possibilità, servono sacrifici, troppe vacanze, troppi servizi gratuiti, vi è troppo spreco, le società asiatiche della rinuncia devono essere prese ad esempio ... Insomma, “ad un tratto la partecipazione di massa dei lavoratori alla produzione generale di beni e valori economici appare solo come concessione che nel periodo della guerra fredda doveva sottrarre il fondamento all’agitazione comunista”.

In questo scenario (e nell’uso ormai irresponsabile di ogni bene comune) la scuola diventa funzionale a quanto si va delineando. La scuola così come è costa troppo ed è una spesa superflua per i fini che si vogliono conseguire. Occorre pensare una scuola che costi molto meno e che prepari dei cittadini a livello di buoni consumatori in questa società tecnologica. Occorre che i cittadini conoscano, ad esempio: digitale, satellitare, DVD, Laser, Hi Tech, PC, Internet, Provider, CD, masterizzatore, ...; non è invece in alcun modo necessario che conoscano i meccanismi scientifico-tecnologici che sono dietro questi nomi. Per intenderci: occorre che si abbia la preparazione tecnologica sufficiente per essere consumatori ma non tale da essere creatori di scienza e tecnologia. Questo almeno a livello di impegno di scuola pubblica, di quella che è pagata dalla fiscalità generale. Vi è naturalmente necessità di cittadini preparati a livelli superiori, ma è del tutto inutile e soprattutto è un vero spreco di risorse pensare di formare tutti in modo che possano pensare all’accesso a queste superiori specializzazioni. Chi serve per tali fini verrà preparato in scuole speciali. La selezione per accedere a queste scuole la faranno: le stesse scuole private e le imprese. Non ha senso continuare a dissipare denaro nell'istruzione pubblica. Il mercato è buono e gli interventi dello Stato sono cattivi: derergulation anziché controllo statale, liberalizzazione di commercio e capitali, privatizzazione di ogni cosa abbia il sapore del pubblico (Friedman). Questa è la scuola che sta nello sfondo della tre giorni di stringenti dibattiti (due minuti ad intervento) della Fondazione Gorbaciov.”

Di Roberto Renzetti vanno segnalati, pure: Scuola e Mercato nel mondo globalizzato (parte prima), in: http://www.fisicamente.net/index-985.htm. Scuola e Mercato nel mondo globalizzato (parte seconda), in: http://www.fisicamente.net/index-988.htm.

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l’orfismo e le speculazioni filosofiche di Platone ed Aristotele5 – la figura e l’immagine dell’infinito finiente astratto ricompare sulla scena ideologica mondiale come quello strumento razionale, che è capace di portare a determinazione interna le coscienze, componendo insieme la fine del rapporto materiale con il fine strategico del superamento definitivo della dipendenza naturale. La morte con la salvezza nel luogo separato dell’artificiale completo e compiuto. In questo modo la morte diventa lo strumento funzionale generale per la nuova sopravvivenza: dalla morte dell’arte e di Dio si è rapidamente passati alla fine della stessa filosofia, quando la politica stessa, oramai declassata e svilita a strumento amministrativo delle decisioni economiche, predica l’abdicazione generalizzata alle forze economiche animali del libero mercato e del Capitalismo. In una successione quasi fatale la chiusura del primo industrialismo inglese – eclatante e rivelativa fu la critica di Mary P. Shelley nel suo Frankenstein, or the modern Prometheus6 – ebbe infatti il suo immediato riflesso nell’imperialismo di fine secolo XIX, quando vennero abbattute le resistenze critiche del marxismo e dell’immanentismo di stile nietzscheano grazie alle forze distruttive e nello stesso tempo consolidatrici espresse nel primo conflitto mondiale. Il creativo ed il dialettico – orizzontale e verticale (nell’immagine razionale e nella realtà naturale dell’infinito) – vennero poi rapidamente eclissati nelle loro formazioni artistico-politiche e scientifiche d’avanguardia grazie alla ripresa del realismo scientifico, politico e teologico, portando così il mondo intero a confliggere per la seconda volta, nella corsa per la selezione del più adatto a ricoprire il ruolo della nazione egemone e dominante a livello globale. Un realismo che è proseguito nello scontro ideologico fra stato del capitale occidentale e capitale di stato orientale, ma che ha trovato nei movimenti degli anni ’60 e ’70 un argine ideale – sia a livello politico, che teologico e scientifico – anche se momentaneo al successivo sormontare delle forze che premevano per l’assolutizzazione delle potenze economiche del capitale stesso. Assunte al proprio interno la violenza totale della strumentalizzazione assoluta e l’organizzazione formale totalitaria – quasi in una hegeliana riassunzione sintetica delle antitesi antidemocratiche nazi-fasciste e staliniane - il progresso della globalizzazione capitalistica ha forzato in modo definitivo e conclusivo il processo costituente della civilizzazione occidentale – il caposaldo e l’architrave costituiti dal concetto e dalla collegata prassi dell’Uno necessario e d’ordine – forgiando un’immagine reale immodificabile e centralmente terminale. Univocizzando ragione

5 Le argomentazioni presentate in questa tesi devono essere considerate come corollari delle riflessioni presenti nella

tesi elaborata a proposito dei primi pensatori greci, i Presocratici. Allo stesso modo questo lavoro, nelle sue considerazioni generali, fa da contesto, spiegazione e fondamento per le altre tesi sviluppate e relative ai corsi SSISS dell’Università di Trieste (a.a. 2006-2007, ex lege 85/2005).

6 Di grande interesse tematico e prospettico sono le notizie relative al fenomeno generale del Romanticismo inglese ed europeo e della sua ripresa a fine secolo, nel cosiddetto Decadentismo, presenti nel sito: http://it.wikipedia.org/wiki/Romanticismo e http://it.wikipedia.org/wiki/Decadentismo.

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politica, fede teologica e spiegazione scientifica7 l’ideologizzazione occidentale ha portato infatti a definitivo compimento quel processo di astrazione e separazione, che ha contraddistinto la propria antica genesi, il proprio sviluppo in età medievale e la propria ciclica ripresa in età moderna e contemporanea. Essa ha ora rovesciato definitivamente e capovolto l’immagine originaria di una vita e potenza creativa ed apertamente dialettica nel dispositivo meccanico e strumentale, che assomma a sé ed integra l’aspetto motore distruttivo – l’antico Ares/Marte - con l’apertura apparentemente trasformatrice e produttiva – l’antico connubio fra la capacità di scambio di Hermes e la virtù simulativa di Apollo. La nuova finalizzazione negativa esibita da questo orizzonte egualmente negativo di pensiero ed azione – come nuova Athena – ha così le sembianze e le illusioni positive portate dalla autostrumentalizzazione, che – come novello Atlante – riesce a portare sulle proprie spalle tutto il peso del nuovo mondo che viene aperto e squadernato.8 Dei suoi necessari effetti negativi – il cumulo delle espropriazioni, sfruttamenti ed alienazioni (con il corredo delle relative violenze) – come pure delle aspettative di aperta trasformazione vitale e di felice e collettiva transustanziazione, collegate alle pratiche precedenti.9 In questa circolarità continua – la tradizionale circolarità presente nella concezione occidentale del sacrificio, implementata dalla sua storia evolutiva nella pratica della civilizzazione10 - l’oscura e nascosta potenza divina – l’antica Artemide, separata e distruttiva – viene solo apparentemente rovesciata nella disposizione di un intelletto e di una volontà, che in realtà – come nuovo Apollo e nuovo Zeus – ripropongono un ordine patriarcale al mondo, che ora nella sua nuova versione accosta all’orfico e cristiano tradizionale il tecnologico ed il tecnico della assunzione e della decisione separate (plebiscitarismo alienativo).

In questo contesto - teorico, pratico e produttivo – sorge ad elemento centrale ed imprescindibile l’autostrumentalizzazione: essa consente che l’alienazione che viene compiuta – e che viene necessariamente e continuamente richiesta da un orizzonte politico-culturale che mantiene l’eteronomia e l’eterodirezione quali criteri fondanti e fondamentali – valga come modalità riconosciuta di passaggio e di selezione, di accesso ed integrazione alla stratificazione dei compiti sociali che viene imposta e così realizzata. La necessità dell’alienazione non è dunque vissuta come strumento della propria negazione, ma al

7 Rispettivamente attraverso la costituzione e l’organizzazione imperiale delle Nazioni occidentali (per

trasformazione e perversione del diritto internazionale), la resuscitazione di una forma di consenso religioso integralista e reazionario, una funzionalizzazione immediata dell’esistente e del vivente all’immagine di una produzione inarrestabile ma causata e direzionata.

8 Qui, di nuovo, si inseriscono le schematizzazioni delle relazioni di significato presenti fra le divinità dell’Olimpo greco, analizzate e portate alla luce nel materiale analitico che accompagna la tesi di filosofia sui Presocratici (vedi Appendice relativa).

9 Qui, invece, l’indicazione di una tematica teologico-politica e religiosa tocca gli argomenti e le riflessioni apportate alla tesi di Storia Moderna, dedicata alla Riforma protestante ed al movimento degli Anabattisti.

10 Cfr. Stefano Ulliana, La circolarità del sangue animale nella storia della civiltà occidentale, in: http://www.fisicamente.net/index-1543.htm.

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contrario come viatico salvifico della propria elevazione sociale, in una versione nuovamente laicizzata della tradizionale salvezza religiosa.

Come via laica alla nuova salvezza l’autostrumentalizzazione si accompagna facilmente a quella potenza animale che non può essere eliminata, a pena di pericolosi ed incontrollabili contraccolpi: il riflesso e la paura legati al pericolo comune. L’emergenza di un nemico comune all’ordine ed alla logica del branco garantisce infatti – come ala sinistra – quella necessaria elevazione che viene altrimenti compiuta – grazie all’ala destra della autostrumentalizzazione – in tal modo instaurando un perfetto meccanismo di autovalorizzazione, che vede nell’abiezione alla logica ed all’ordine della schiavitù la più perfetta delle libertà e delle aperte e successive gratificazioni. Nella banalità di un male che viene comunemente riconosciuto nella normalità autopropositiva, o che viene titillato dai sogni di avanzamento e nobilitazione sociale, la fine dell’umanità sopravanza ed oscura quella della natura.

L’altra fine, quella dell’ambiente e delle sue capacità di sostentamento della specie umana e delle altre specie naturali, ci richiederebbe infatti il rivoluzionamento pur anche di quella moderazione etico-politica, che è passata sotto il nome di sviluppo sostenibile. L’uso negativo e cieco del concetto di fine – ché esso ci chiude la visione aperta e consapevole dell’alienazione imposta dal concetto stesso di sviluppo - ci spinge infatti a compattarci, animalescamente, entro quei confini e limiti che già costituiscono la ragione della crisi, non già il suo rovesciamento e la sua soluzione. È infatti l’astratta separatezza del concetto e della relativa prassi dell’artificiale assoluto – sciolto da ogni condizionamento - a costituire la ragione positiva di quell’unità amorfa priva di direzione con la quale si qualifica di solito negativamente la potenza naturale e collettiva. È dunque l’artificiale assoluto a costituire ed imporre la concezione – il concetto e la relativa prassi – della Natura come ente negativo, come massa materiale priva di intelligenza, sin dalle lontane origini religioso-speculative situate nell’orfismo e nel platonismo. Ma è una Natura siffatta che può e deve essere infatti controbilanciata in quella tradizione dalla torsione, che trasforma l’inabilità – il distacco dalla penetrazione nel sacro originario ed il suo sviluppo autocentrato11 - nella massima delle potenze: la potenza a creare immaginosamente e razionalmente. Per questa via il negativo si rovescia e ribalta in positivo: la natura amorfa e collettiva si trasforma in ragione individuante e reciprocamente dialettica. In quest’ottica lo sviluppo è stato sempre sostenibile, in quanto è sempre riuscito a creare un piano di divisione, che ha trasformato e capovolto un negativo pregiudicato in un positivo prospettato. Non esiste dunque alcuno sviluppo insostenibile, in questa logica, perché esso equivarrebbe semplicemente ad una

11 Cfr. Stefano Ulliana, Orfismo e misteri eleusini, in: http://www.fisicamente.net/index-1542.htm.

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assenza di sviluppo, alla mancanza della possibilità di questo piano di divisione (e di sostegno). Senza di esso, infatti, non si instaura né il concetto della Natura come negativo, né quello della Ragione come positivo.

È questo piano a consentire la comunicazione, ovverosia la separazione verticale delle funzioni direttive e di controllo da quelle produttive e materiali, che vengono comunque assunte ed uniformate come parte interna al sistema generale dell’Ente. Non è allora difficile traguardare lo sviluppo delle principali correnti della filosofia occidentale (platonismo ed aristotelismo) – e delle scienze che da essa prendono vita – come una sorta di continuo e progressivo raffinamento della autonegazione e dell’alienazione. Della negazione della potenza originaria della vita infinita - della sua creatività continua e della sua capacità interdialettica egualmente continua – e della sua traslocazione al di là di un piano astratto e separato, capace di garantire e giustificare attraverso un’immagine alienata il potere della specie umana. È la ragione come comprensione a consentire questo passaggio, mentre trasforma e capovolge – traslocandolo – l’infinito originario aperto nel concetto umano chiuso di Dio. Di quell’Uno necessario e d’ordine, che diventa la pietra di paragone della pensabilità, dell’organizzazione e della finalizzazione dell’intero esistente, a lui comunque debitore della nascita così come della morte. Come l’instaurazione civile del divenire attraverso la negazione e l’alienazione edifica Dio attraverso la funzionalizzazione e la strumentalizzazione della morte,12 così il culto originario della grande Dea Madre viene coperto ed annullato, insieme a tutti i residui suoi culti misterici,13 dall’imposizione calata dall’alto dello schema delle divinità olimpiche, che intrecciano nel processo della nuova civilizzazione classica la combinazione fra il motore guerresco (Ares) e la sostituzione della realtà originaria, praticata dalla coppia scambio-simulazione/immaginazione razionale (Hermes/Apollo).14 Da questo momento l’infinito originario – insieme creativo e dialettico (naturale e razionale) – viene prima trasformato in diagonalizzante infinito finiente astratto – è la posizione orfica – per poi ritornare ad essere riconosciuto all’inizio della speculazione filosofica con la filosofia ionica (Talete, Anassimandro ed Anassimene) come immagine razionale di infinito – quindi ancora creativo, ma ora doppiamente dialettico, in senso sia orizzontale che verticale – per poi essere ripreso dalle speculazioni di Anassagora ed Empedocle e venire affrontato e cancellato – almeno alla nuova apparenza ideologica – dall’impostazione prima della filosofia di Platone e poi da quella di Aristotele, che

12 L’offerta della morte è l’inizio del sacrificio al dio. 13 Vedi, per esempio, i cosiddetti misteri praticati ad Eleusi, nella Grecia preclassica. 14 Cfr. il materiale analitico relativo al commento ed interpretazione razionale delle funzioni attribuite alle divinità

olimpiche greche, tratto dalla lettura del testo di W. Burkert, Storia delle religioni – I Greci (1983, 1977¹). Posto in Appendice alla tesi di filosofia sui Presocratici.

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codificano la determinazione definitiva del mondo chiuso e limitato attraverso il principio perfetto e compiuto dell’atto.

È il riferimento superiore al principio perfetto e compiuto dell’atto che stabilisce la costituzione teologica, politica e naturale del mondo post-classico e medievale. Nello stesso tempo, al passaggio che definisce l’apertura della modernità, la razionalizzazione laica di questo medesimo orizzonte (Cartesio) in senso etico, religioso e politico, comporterà l’inserimento e l’intreccio dello strumento fondamentale della chiarificazione – in una ripresa della tradizione orfica – e della distinzione dialettica fra gli enti (res cogitans, res extensa) – di lontane origini platoniche. A questo punto il mondo moderno nella sua dimensione più propriamente umana si scinde dall’impianto naturale, che viene invece riaperto – in modo più o meno consapevole ed in diverso grado – al concetto ed alla prassi dell’infinito (da Giordano Bruno a Spinoza, ai vitalisti del XVII e XVIII secolo). Di nuovo considerato nella sua funzione creativa e fondamentale, esso viene reinglobato nel mondo umano attraverso la ricerca e l’imposizione delle cosiddette leggi di natura. Reincapsulato nella chiusa necessità emanante dal tradizionale concetto dell’Uno – appunto necessario e d’ordine – l’infinito naturale si ritrasforma nella condizione di base per l’affermazione della libertà umana (Kant, Fichte, Schelling, Hegel), in tal modo superando la prospettiva romantica, capace di rinnovare il senso e la prospettiva dell’infinito originario. La lotta fra positivismo e critica marxista e nietzscheana dell’esistente – della sua organizzazione culturale – apre la modernità al triplice parto della contemporaneità: il primo ed il secondo conflitto mondiale, la tensione ideologica successiva fra mondo occidentale capitalista e mondo orientale comunista segnano le tappe del progressivo procedere della globalizzazione verso la propria meta ultima e definitiva. La costituzione di un sistema dell’Essere all’interno del quale possa valere, prima di tutto, una separazione essenziale, fra libertà e necessità. Insieme a questa separazione viene fatto emergere e viene collocato in posizione centrale l’asse che garantisce la trasformazione della seconda nella prima, che consente il suo capovolgimento. Ecco allora che l’unità amorfa e la finalità cieca della Natura – di nuovo spossessata della propria forma e della propria finalità intelligente – diventano la base condizionale dell’elevazione della forma e dell’intelligenza razionale umana. In tal modo la strumentalizzazione della Natura diviene la condizione sine qua non della libertà dell’uomo. Ma la libertà dell’uomo è – nel sistema che storicamente si è venuto costituendo – la definitiva sistemazione ed organizzazione dell’esistente secondo il criterio della massimizzazione del profitto capitale. Il sistema economico che regge la sopravvivenza delle relazioni umane ha bisogno – per continuare a riprodurre se stesso senza soluzione di continuità – del sacrificio continuo e costante, della transustanziazione sostanziale dei beni naturali in merci, determinate nel proprio valore di sostituzione della

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somma integrale dei rapporti umani. Ecco allora che l’antico principio della libertà eguale ed amorosa viene sostituito dal criterio emotivo-razionale che presiede alla logica conformista del branco (corporazione), mentre lo strumento che sempre anticamente presiedeva alla libera affermazione di se stessi – l’autodeterminazione singolare e collettiva – si rovescia e capovolge nella forma della autostrumentalizzazione (gruppo socio-economico etero-finalizzato). L’ordine sociale predeterminato attraverso la stratificazione gerarchica imposta dal Capitale diventa quindi il nuovo principio divino, che consente la realizzazione e la trasformazione della necessità naturale in libertà umana generale.

Naturalmente l’apertura generale di questa libertà umana nasconde ed occulta al suo interno – come un bozzolo oscuro – l’organizzazione appunto stratificata del godimento reale di questa stessa libertà: qui la piramide sociale è altrettanto stretta, ripida e feroce nelle proprie esclusioni quanto apparentemente aperta, benevola ed accogliente essa si dimostra all’esterno, per mere finalità retoriche e persuasive. Che cosa rompe e lacera allora questo velo di Maia, atto a mettere in sicurezza la prosecuzione inalterata della civiltà occidentale? E, come cambia la prospettiva educatrice voluta da questo sistema, a garanzia del proprio mantenimento convinto presso le nuove generazioni? Per rispondere in maniera adeguata a queste domande e per prospettare una soluzione ai problemi intimamente contraddittori e distruttivi imposti dal sistema stesso è necessario aprire una serie opportuna di riflessioni, capaci di rirovesciare – in senso bruniano – il mondo invertito e capovolto costruito ed edificato nella sua storia dal progresso della civilizzazione occidentale.

PER UNA RIVOLUZIONE CULTURALE E PEDAGOGICA

È la guerra – che ora occupa il posto precedentemente conquistato dall’infinito separato ed

astratto (il Dio umano) e che per questo viene correttamente definita infinita e preventiva – a strappare e lacerare definitivamente il velo di Maia della civiltà occidentale. Mentre in precedenza l’uso strumentale della guerra – ricorda la funzione di Ares nella classicità greca – era sì funzionale all’abbattimento ed alla sostituzione della mentalità arcaica, legata alla pratica indissociabile ed immediata della pace e della giustizia collettiva, ma rimaneva confinato, come motore nascosto, dall’intreccio civile sviluppato dal connubio e dall’alleanza dialettica fra le attività di scambio commerciale (Hermes) e le attività di autoglorificazione politica (Apollo), ora la guerra è stata assunta nel cielo del principio egemonico ed assoluto, così imponendo una militarizzazione totale al cosmo ad esso subordinato. L’immagine assoluta della politica come strumento di risoluzione, per lo più pacifica ed adeguata, dei problemi interni ed esterni – immagine cara alla retorica della tradizione classica - si trasforma ed apparentemente si capovolge in quella della

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eliminazione preventiva del nemico, interno od esterno che esso sia. In realtà questa apparente trasformazione non ha nulla di contraddittorio con le sue stesse premesse e con le sue stesse finalità: nata infatti come volontà di dominio e di conquista, la civiltà occidentale ha sin dalle sue lontane radici culturali proceduto a costruire - progressivamente e con una continua ripresa ed arricchimento tematico - un sistema immaginativo e razionale consono all’esclusione e, così, all’eliminazione del nemico o dell’oppositore. Ora la globalizzazione realizza definitivamente queste premesse, comportando però la scissione fra una precedente apparenza ideologica – la retorica della società aperta, inclusiva ed accogliente – e la realtà sostanziale, rappresentata in modo tragicamente efficace ed efficiente dal perseguimento militare dei propri obiettivi totalitari (di subordinazione al proprio sfruttamento capitalistico delle risorse naturali ed umane dell’intero pianeta). È questa scissione fra il grado ancora apparente di quella retorica e l’alta e profonda realtà di questa sostanza a valere come contraddizione insuperabile e genesi prima dei problemi che agitano il sistema educativo dei paesi occidentali, dunque non solo di quello italiano, che viene invece toccato dalla drammaticità di questi effetti per ultimo (insieme ai paesi latino-mediterranei, dove è ancora presente una forte influenza cattolica).

Pertanto la soluzione di questi problemi – bullismo, indisciplina, inaffezione conoscitiva e disimpegno morale – deve essere ritrovata prima di tutto in una rivoluzione culturale e politica, che non può essere condotta fuori dalle nostre aule scolastiche, a pena della sua completa inefficacia e totale sconfitta. Essa deve infatti vertere sulla riconquista della consapevolezza dell’inscindibilità della propria ed altrui libertà ed eguaglianza. E deve essere condotta all’interno delle nostre aule, perché è dal futuro che saremo capaci di costruire ora che dipenderà il futuro prossimo e lontano della vita umana intera e della vita naturale stessa su questo pianeta. Soprattutto, poi, perché è solamente il metodo diretto ed immediato che viene attivato nella riacquisizione spontanea del processo autodeterminativo che costituisce la soluzione vincente del problema generale culturale, politico ed educativo in oggetto e che pertanto impedisce che tale conquista possa – o debba – essere delegata a procedimenti effettuati all’esterno delle nostre aule scolastiche, o immaginare che possa venire calata dall’alto, in modo istituzionale e controllato. Soprattutto perché il controllo esercitato dall’istituzione può essere diretto o verso la mera e semplice conferma – in modo inevitabilmente distaccato e non partecipato – della retorica precedentemente indicata, o perché – e ciò è molto più grave – l’istituzione stessa sta virando verso la giustificazione nascosta e latente della logica brutale, che anima la globalizzazione stessa.

Devono, pertanto, essere analizzate tre diverse proposte di soluzione al problema generale indicato: quella che potrebbe essere definita come la soluzione moderata, tesa a far valere come buona e persuasiva la retorica della società aperta, inclusiva ed accogliente, ma che

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non considera le fonti e le condizioni di base che ne impediscono oggettivamente lo sviluppo; quella che, invece, potrebbe essere definita come la soluzione reazionaria, che accetta invece le limitazioni oggettive precedenti, per procedere ad una selezione brutale (di comportamenti etnico-religiosi o di particolari formazioni di classe); ed, infine, quella che potrebbe essere individuata come la soluzione rivoluzionaria, che prevede il rovesciamento della logica reazionaria ora insistente, attraverso il ristabilimento del principio della comune libertà eguale, attraverso il metodo autonomo dell’autodeterminazione.

LA SOLUZIONE MODERATA APRE A QUELLA REAZIONARIA

La soluzione moderata è quella indicata da quel tipo di orizzonte razionale ed

argomentativo, che non prevede la messa in discussione dell’effettivo motore della trasformazione linearmente determinativa operante all’interno dello sviluppo della civiltà occidentale – l’acquisizione sempre più forzata dei beni naturali e la soggezione sempre più dura, minuziosa ed organizzata delle soggettività umane – né impone la disabilitazione e sostituzione degli strumenti attraverso i quali questa medesima trasformazione si è venuta realizzando – la capacità distruttiva e quella di conquista attraverso la finalizzazione.

In questa ipotesi di soluzione non vengono intaccate né le procedure di alienazione naturale, né quelle di gerarchizzazione e funzionalizzazione sociale: lo Stato mantiene attraverso il dominio esclusivo e separato della forza (interna ed esterna), della monetazione e della formazione culturale quella triangolazione all’interno della quale l’espressione finalizzata della collettività può – così come deve – realizzare e portare a compimento gli ideali di un’eguaglianza astratta e di una libertà apparente. In questo contesto, infatti, l’eguaglianza è la comune sottomissione alla logica accumulativa del capitale, mentre la libertà risiede unicamente nelle capacità e nelle virtù di reciproca individuazione e selezione per merito.

Schemi operativi concreti, che possono essere collocati all’interno di questo vivo quadro pragmatico, sono le formulazioni che accettano e sostengono la fase post-moderna della società e impongono la necessità di uno sviluppo sostenibile.

Mentre la modernità aveva aperto un orizzonte di senso, di motivazione e di significato che era parso concludersi con l’affermazione dell’ideale universale dell’eguaglianza sostanziale (non semplicemente formale e borghese), la post-modernità inverte il valore positivo dell’infinito razionale ed immaginativo, giudicando che la sua separatezza ed astrattezza formale non potesse non determinare in modo negativo la finitezza che era chiamato a definire (chiarificando e distinguendo in modo dialettico). Questo infinito non poteva non esplicarsi se non in un modo violento – totalitario – perché mosso dalla

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concezione chiusa dell’universale. L’universale necessario avrebbe eliminato qualsiasi spiraglio ed apertura di libertà. In questo modo la post-modernità accetta le conclusioni stabilite dalla critica liberale ai sistemi del socialismo reale.15 Ma se questa critica manteneva, pur nella sua funzione eminentemente retorica, l’aspettativa e l’apparenza fenomenica di una libertà indiscussa, la post-modernità pare veramente destinata ad erodere tutte le conquiste civili realizzate grazie al criterio razionale della chiarificazione intellettuale ed al metodo immaginativo della codeterminazione dialettica. La post-modernità annulla, sospende e ribalta l’ideale alla perfetta eguaglianza in un termine regressivo, che impone l’annullamento della chiarificazione intellettuale e la cancellazione della codeterminazione dialettica. Il compromesso politico delle società democratiche occidentali emerse dopo il secondo conflitto mondiale viene eliminato: l’ideale d’eguaglianza viene rovesciato dalla regolazione delle differenze, mentre il motore civile precedentemente legato alla volontà di emancipazione viene collassato da un’apparente indistinzione di ruoli e di prospettive (con una ipertrofica plasticità di adeguazione). Senza una direzione apparente, senza unità nel movimento, la realtà sociale sradica tutte le pulsioni che precedentemente le avevano assicurato la reciproca certezza fra diritto e dovere, per denunciare ogni forma di diritto superiore come forma di coartazione e di dovere illegittimo. Tutti i vettori di socializzazione e d’indirizzo vengono delegittimati a priori. Cade apparentemente la società autoritaria, con tutte le sue istituzioni integrative (scuola, caserma, università), mentre balza agli occhi della considerazione sociale la disintegrazione dei fini e dei mezzi per la propria realizzazione individuale. Tolte di mezzo verità, moralità e giustizia, ciò che resta è la disintegrazione del soggetto e della società, riflesso della disintegrazione funzionale della natura, della sua scomposizione negli elementi utili alla produzione – e riproduzione - capitalistica. L’alienazione viene sostituita da una follia immediatamente consumabile ed autostrumentalizzabile, dove le schegge di ciò che in precedenza costituiva come parti la continuità dell’individuo storico ora divengono gli effetti autoesplosivi di una ben più schiacciante compressione autoritaria. Resta – ed anzi si accentua – infatti la stessa determinazione iper-vincolante del Capitale, che ora si trasforma in vera e propria dittatura immediata. Il passato, che non può passare, della sua accumulazione orienta a sé il futuro, come strato da integrare nelle sue fasce di popolazione mondiale più intimamente vicine ai propri valori di mercificazione assoluta. Il resto della società mondiale – ricorda la nota precedente, che riportava la proporzione 20/80 – viene dichiarato insussistente, se non ancora inesistente: esso viene cancellato dai progetti e dai programmi di un’integrazione, che viene oramai vista come il pericolo maggiore per la

15 Karl Popper, La società aperta e i suoi nemici (1945).

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stabilità del sistema. Il soddisfacimento dei suoi diritti umani e dei relativi beni naturali comporterebbe, infatti, la necessaria trasformazione e la possibile rivoluzione del sistema stesso. In breve e semplicemente, la fine del modello capitalista.

Per questa ragione la teoria dello sviluppo sostenibile – la teoria che accompagna sul versante della immagine naturale la teoria post-moderna, rivolta invece alla nuova immagine dell’umanità - rischia di garantire la sopravvivenza delle sole società occidentali e la preservazione delle sue classi dirigenti neoliberiste. Soprattutto rischia di garantire la conservazione del motore capitalista, nel movimento economico che sottomette a valorizzazione di profitto ogni creatura esistente su questo pianeta e che, con logica e congruente necessità, rirovescia l’apparente sviluppo delle forze mondiali della produzione in una ritrasformazione gerarchica del lavoro e della distribuzione delle ricchezze su scala planetaria.

La teoria dello sviluppo sostenibile prevede16 infatti la necessità di equilibrare il motore che sottrae risorse naturali per trasformarle in beni a disposizione dell’umanità, in modo tale che la loro distribuzione possa soddisfare la platea dei diritti umani basilari - ora e per le future generazioni - e la conservazione del motore e dell’organizzazione economica capitalistica, che ne stabilizza la realizzazione produttiva e commerciale. In modo linearmente determinato quindi – è la linearità di sviluppo della forza e della potenza del Capitale – la conservazione della natura è finalizzata alla conservazione delle basi materiali del sistema produttivo e commerciale che la sottomette a trasformazione, alienando e separando le sue parti organiche secondo finalità oggettive – edificazione di beni e costruzione di oggetti (per la soddisfazione dei bisogni primari e di quelli indotti e per la realizzazione degli strumenti a questa soddisfazione necessari) – che moltiplicano in realtà in continuazione la sottrazione e la spoliazione dei beni e delle sostanze naturali. Tutta la natura deve di conseguenza essere resa disponibile a venire trasformata ed assorbita nelle finalità stabilite dalla produzione capitalista, mentre deve nel contempo e contraddittoriamente restare quale stabile e continua base materiale ed energetica per la sua stessa auto-alienazione. È qui che l’auto-alienazione naturale si unisce, accompagna e fonde con l’auto-alienazione umana, richiesta appunto dalla teoria post-moderna, nella sussunzione d’immagine mossa dall’infinito autoritario della guerra e della militarizzazione globale. Come se il sistema feudale si riprendesse la sua rivincita totale e definitiva sul sistema della borghesia produttiva moderna, è la conservazione della natura imperiale a sostenere la negazione della natura ed, insieme, dell’umanità. La teoria dello sviluppo

16 Cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Sviluppo_sostenibile. I documenti e la legislazione a favore dello sviluppo

sostenibile, preparati dall’Unione Europea, sono disponibili al sito: http://europa.eu/scadplus/leg/it/s15001.htm. Per una critica dello sviluppo sostenibile, vedi: http://it.wikipedia.org/wiki/Decrescita.

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sostenibile vira dunque subito verso la pratica di quello insostenibile, proprio a causa della volontà di mantenere e conservare quel motore sottrattivo, trasformativo e alienativo che viene retoricamente e camuffatamente presentato come motore neutrale e positivo dei beni umani presenti e futuri e della disposizione (conservazione) naturale, attuale e futura. Come la teoria positiva del post-moderno prepara la propria inversione negativa – la realtà diviene simulazione d’immagine – così la teoria dello sviluppo sostenibile prepara la propria inversione negativa nella fine negativa della natura (assoluto dell’artificiale).

Problema energetico, del reperimento sempre più vorticoso ed esclusivo delle materie prime mondiali, della necessità di una loro trasformazione al più basso costo di esercizio, produzione e commercio, sono i termini attraverso i quali la possibile estensione mondiale di una democrazia ecologica viene realmente e drammaticamente abrasa e gettata via dallo scenario pubblico mondiale.17 Il processo di concentrazione della proprietà e la conseguente uniformizzazione dei principali media dominanti (nella cultura accademica e nella disposizione sociologica attuata grazie alle forme urbanistiche, architettoniche, artistiche e più in genere progettuali, nella diffusione cinematografica e giornalistica della cultura popolare) garantisce infatti che un lato dell’attuale potere economico-politico dominante sia preservato, grazie alla riproducibilità continua ed ossessiva dello scambio fra realtà e finzione scenica ed immaginativa dell’esistenza: il gusto con funzioni identificative per la forza e la potenza immediata vengono rappresentati ad ogni livello, insieme alla necessità del loro dominio e controllo, mentre l’intensità e la sensazionalità dell’immagine sostituisce la profondità della commozione materiale (con la desensibilizzazione nei riguardi della vita compare infatti quella, corrispettiva, nei confronti della morte), la proiezione subliminale sostituisce l’immedesimazione e la volontà di trasformazione cosciente.18 L’assoluto

17 Cfr. Guido e Mario Agostinelli (ed altri), Energia, Rinnovabilità, Democrazia (2005/2006). Testo in pdf (allegato).

Domenico de Simone, Un’altra moneta: i Titan, una rivoluzione della finanza. Testo in pdf (allegato). 18 Jean Baudrillard, La società consumistica (1970), Lo specchio della produzione (1973), Lo scambio simbolico e la

morte (1976), Simulazione e simulacri (1981), Strategie fatali (1983), Il crimine perfetto (1995), Lo scambio impossibile (1999), La violenza globale (2003).

In: http://www.filosofico.net/baudrillard2.htm a cura di Mai Saroh Tassinari, si legge: “Collocando la sua analisi dei segni e della vita quotidiana in una cornice storica, Baudrillard sostenne che la transizione da uno stadio precedente di un capitalismo di mercato competitivo allo stadio di un capitalismo di monopolio richiedesse una maggiore attenzione verso il controllo della domanda e del consumo. A questo stadio storico, dal 1920 circa agli anni sessanta, il bisogno di intensificare la domanda dipendeva dall’abbassamento dei costi di produzione e dall’espansione della produzione. In quest’epoca di sviluppo capitalista, la concentrazione economica, le nuove tecniche di produzione e lo sviluppo di nuove tecnologie acceleravano la capacità di produzione di massa e le corporazioni capitaliste si concentravano sull’accresciuta attenzione nei confronti del controllo del consumo e della creazione di bisogni per nuovi beni di lusso, producendo in questo modo il regime di ciò che Baudrillard denominò segno-valore.

Secondo l’analisi di Baudrillard, la pubblicità, la presentazione, l’esposizione, la moda, la sessualità ‘emancipata’, i mass media, la cultura e la proliferazione di prodotti avevano moltiplicato la quantità di segni e prodotto un aumento di segno-valore. D’ora innanzi, dichiarava egli, i prodotti non erano più caratterizzati semplicemente dal valore d’uso e dal valore di scambio, come nella teoria dei beni di Marx, ma il segno-valore – l’espressione e la marca di stile, prestigio, lusso, potere e così via – diventava una parte sempre più importante del prodotto e del consumo. In questa prospettiva, Baudrillard affermava che i prodotti venivano comprati e mostrati tanto per il loro segno-valore che per il loro valore d’uso e che il fenomeno del segno-valore era diventato un elemento essenziale del prodotto e del consumo nella società

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consumistica. Questa posizione era stata influenzata dalla nozione di Veblen di ‘consumo cospicuo’ e di esposizione dei beni analizzata nella sua Teoria della classe del tempo libero che Baudrillard ritenne che si fosse estesa a ogni membro della società consumistica. Per Baudrillard, l’intera società era organizzata attorno al consumo e all’esposizione dei beni, attraverso i quali gli individui acquisivano prestigio, identità e reputazione sociale. In questo sistema, più prestigiosi sono i beni di una persona (case, automobili, vestiti e via dicendo), più è elevata la sua reputazione sociale nell’ambito del segno-valore. Così, proprio come le parole assumono un significato a seconda della loro posizione in un sistema differenziale di linguaggio, allo stesso modo i segni-valore assumono un significato a seconda del loro posto in un sistema differenziale di prestigio e di status sociale.

Ne La società consumistica, Baudrillard concluse decantando le ‘molteplici forme di rifiuto’ delle convenzioni sociali, del consumo cospicuo e del pensiero e del comportamento conformisti, forme che potevano essere riunite in una ‘pratica di cambiamento radicale’ (1998:183). Egli alludeva qui alle aspettative di ‘violente rivolte e di improvvisa disintegrazione che avrebbero distrutto, nella stessa maniera imprevedibile e certa che contraddistinse il maggio del 1968, questa bianca massa’ [di consumo]. Dall’altra parte, Baudrillard descrisse anche una situazione dove l’alienazione era così totale che non poteva esser risolta perché ‘è la struttura stessa della società di mercato’. Secondo lui, in una società dove tutto è un bene che può essere comprato e venduto, l’alienazione è totale. Infatti, il termine ‘alienazione’ originariamente significava ‘vendere’ e in una società completamente commercializzata dove tutto è un bene, l’alienazione è ovunque. Inoltre, Baudrillard postulava ‘la fine della trascendenza’ (una frase presa mutuata da Marcuse) laddove gli individui non potevano né percepire i propri bisogni autentici, né un’altra maniera di vivere (1998:190ff).

… In un certo senso, l’opera di Baudrillard può essere considerata come una descrizione di uno stadio più avanzato di reificazione e di dominazione sociale di quello descritto dalla scuola di Francoforte, che descriveva come gli individui venissero controllati dalle istituzioni e dai modi di pensiero dominanti. Baudrillard si spinse oltre la scuola di Francoforte applicando la teoria semiologica del segno per descrivere come i beni, i media e le tecnologie creassero un universo di illusione e fantasia in cui gli individui diventavano preda di valori consumistici, ideologie mediatiche, modelli da seguire e tecnologie seduttive come i computer che fornivano mondi di ciberspazio. Alla fine, portò questa analisi del dominio dei segni e del sistema degli oggetti a conclusioni addirittura più pessimistiche, nelle quali sosteneva che la tematica della ‘fine dell’individuo’ anticipata dalla scuola di Francoforte aveva raggiunto il suo adempimento con la sconfitta totale della soggettività umana da parte del mondo degli oggetti.

… Ma nella sua provocazione del 1973, Lo specchio della produzione, Baudrillard attaccò sistematicamente il marxismo classico, dichiarando che non era che uno specchio della società borghese e che poneva la produzione al centro della vita, naturalizzando così l’organizzazione capitalista della società.”

In: http://www.filosofico.net/baudrillard3.htm si legge: “L’espressione ‘scambio simbolico’ deriva dalla nozione di Georges Bataille di un’‘economia generale’, in cui si ritiene che il consumo, la perdita, il sacrificio e la distruzione siano più fondamentali per la vita umana delle economie di produzione e di utilità. Il modello di Bataille era il sole che espande liberamente la sua energia senza chiedere niente in cambio. Egli pensava che se gli individui avessero voluto essere davvero indipendenti (p.es. liberi dagli imperativi del capitalismo) avrebbero dovuto adottare un’‘economia generale’ di consumo, elargizione, sacrificio e distruzione per sfuggire alla determinazione causata dagli imperativi di utilità.” In realtà sacrificio e distruzione sono i capisaldi “olimpici” all’interno dei quali la negazione e l’alienazione edificano prima il mondo classico e poi quello moderno della produzione e del suo assoluto separato ed isolato, “orfico”. Essi quindi capovolgono l’infinito positivo originario (il sole). Diventa facile osservare che la nuova tendenza del filosofo francese rischia di capovolgere le iniziali pulsioni di estrema sinistra verso una radicale affermazione della libertà eguale, in quelle di un orizzonte negativo dove la morte diventa – e non la vita – il fattore causale e di principio, non già del capovolgimento e della rivoluzione del sistema capitalistico, ma bensì dell’accompagnamento e addirittura del sostegno verso i suoi esiti e le sue finalità più autoritarie e perverse. Tutto questo viene sottolineato nella scheda relativa al filosofo francese, quando si osserva: “Il lato oscuro di questo cambiamento nelle realtà teoretiche e politiche era quella valorizzazione del sacrificio e della morte che permea Lo scambio simbolico e la morte (in cui il sacrificio fornisce un’elargizione che inverte i valori borghesi di profitto e autoconservazione).” Ciò che manca a questa posizione – ed è la causa diretta del proprio capovolgimento ideologico - è la consapevolezza della sussistenza ed esistenza naturale e razionale dell’infinito dell’amore, creativo e doppiamente dialettico. Guerra e lavoro continuano invece a restare gli elementi strutturanti e portanti della soggezione e dell’alienazione della civiltà occidentale. Così Baudrillard giunge laddove Lyotard invece non arriva: se questi rimane aperto al livello apparente di rimobilitazione organizzato dalla post-modernità capitalistica, il secondo si precipita lungo le finalità profonde della sua risistemazione gerarchica. Si associa all’eliminazione del creativo e dialettico. Così mentre Lyotard potrebbe essere definito come il semplice testimone di un assassinio – l’oscuramento voluto del progetto di liberazione e rivoluzione - Baudrillard ne è l’esecutore testamentario, l’affermatore in negativo della post-modernità, per quanto il primo ne sia stato semplicemente l’osservatore apparentemente disinteressato. Il simulacro dell’immagine separata ed alienata, nella sua moltiplicazione apparentemente caotica e dissolvente, infatti interviene ed agisce entro l’orizzonte di determinazione e definizione del Capitale finanziarizzato, che spinge per una iper-valorizzazione del lavoro e delle materie prime, non certo per la sua fine o la loro eliminazione. La triade che infatti regge quest’immagine è ancora quella tradizionale e classica, poi moderna e post-moderna, della produzione massima e capitale di una vita dominata e controllata, definitivamente conquistata. In questo modo essa, come oggetto di un soggetto infinitamente autoritario (il detentore di ogni eccezione immaginativa), si manifestava come metafisica negativa (patafisica), che assorbiva e - sì - faceva implodere in se stessa

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dell’artificiale e della relativa e connessa produzione di finalità naturali ed umane trasforma definitivamente lo schema antropologico fondamentale – la necessaria connessione fra l’aspetto teologico, quello politico e quello naturale – mostrando l’infinito della sua potenza nell’atto del suo dominio, della sua conquista, del controllo e della conservazione del territorio mondiale della sua azione e del suo continuo intervento. Non è difficile vedere, quindi, come tale assetto abbia, poi, deleterie e nefaste conseguente sia sul piano psico-sociale generale, che su quello immediatamente educativo. L’anima della politica dominante schiaccia infatti quella della società, che reagisce immediatamente per la sopravvivenza integrandosi allo schema dominante – aprirsi alla necessità della dominazione – e così formando una finalità generale per la volontà collettiva di piena e consapevole (universale) adeguazione. A sua volta l’anima della società proietta questa conformazione univocizzante all’interno delle istituzioni pubbliche – anche sotto la stimolazione continua dei più squallidi esempi mediatici di suscitazione dello spirito comune reazionario – pretendendo l’assoluta eguaglianza di merito e di valutazione degli operatori (culturali, pubblici e civili). Qui finalmente compare il criterio epifenomenico ed ora praticamente indiscusso del merito, nascondendone però totalmente ed assolutamente la sua genesi eteronoma e la sua finalità eterodirezionale. È questo, infatti, l’ultimo dei livelli di nascondimento, generati a partire da quel primo livello di nascondimento, per il quale l’apparenza del positivo viene data in pasto alla voracità della comune attenzione in vece della sua nascosta sussunzione negativa.

Come se ci trovassimo ora nella fase ultima e conclusiva di laicizzazione e materializzazione dell’orizzonte teologico (e politico) moderno, la causa separata dell’accumulo del Capitale ed il fine ultraterreno del suo profitto generale vengono fatti scomparire e ricomparire come causa e fine proprio della politica, della società e delle istituzioni. L’antico merito accampato attorno alla grazia e provvidenza divine viene ora trasformato e transustanziato nella necessità molto calvinista del successo, del successo ad ogni costo (naturale ed umano), immediato e senza resistenze od opposizioni. Attraverso il canone del successo la politica accontenta la società e responsabilizza ed avverte l’istituzione: il merito deve essere riconosciuto, per portare a realizzazione il desiderio e la finalità genitrice ed evolutiva della società stessa. Per questo i figli/discenti delle scuole nei paesi a capitalismo avanzato non possono sfuggire ad una tensione contraddittoria, fra il peso ultimativo del riconoscimento di un merito che viene loro richiesto ed imposto e la

tutti i rapporti e le relazioni orizzontali di esistenza. In tal modo il compito dell’intellettuale rimaneva quello di lasciarsi irretire e intrigare dalle finalità seduttive di un gioco dialettico apparentemente fine a se stesso, in realtà teso ad annullare ogni forzatura laterale o eccesso verticale, che mettesse in questione la pacificazione definitiva del movimento (essere anestetico o inerzia). In questo modo ogni scambio orizzontale diventava impossibile, mentre l’illusione (negativa) diventava realtà (positiva), in uno scambio verticale totalitario per quanto annichilente (virtualità).

Cfr. http://www.filosofico.net/baudrillard4.htm, http://www.filosofico.net/baudrillard5.htm, http://www.filosofico.net/baudrillard6.htm, http://www.filosofico.net/baudrillard7.htm.

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difficile e selettiva, discriminante, liberazione che tale necessità - se riconosciuta, a sua volta, ed interiorizzata - in potenza garantisce. Una tensione veramente sovrumana: una tensione soprattutto continua, che anima negativamente ogni iniziativa (non spontanea, né creativa e dialettica) dei discenti stessi, capitale d’investimento delle aspettative e – molto più spesso – delle trascorse od attuali frustrazioni dei rispettivi genitori.

Qui compare l’opposizione contestuale e di metodo fra la pedagogia del successo e quella che vive della spontaneità creativa e dialettica dei discenti. Sin dalle prime classi scolastiche. La pedagogia del successo – del successo nel successo scolastico – inibisce sin dall’inizio la capacità e la potenza espressiva, naturale e razionale dei discenti, trasformandola nel suo contrario, in un riflesso dell’adeguazione imposta ai genitori stessi: imparate a rendervi strumento nel raggiungimento dei vostri fini. Inizialmente strumento a se stessi, per poi diventare, crescendo, strumento da altro e per altro. In questo la pedagogia del successo apre, con la sua prima fase di alienazione, nelle società capitalistiche alla pedagogia del lavoro, alla preparazione del distacco: del distacco di sé (da sé) e della propria cessione alle cause ed alle finalità superiori ed esterne del mondo degli adulti. È chiaro che questo sé iniziale resta a costituire la possibilità di una nostalgica rievocazione di un tempo di libertà ora impossibile, oppure può diventare la premessa per la ritrasformazione e rivoluzione completa del nostro sistema pedagogico e per la costruzione di una società e di una politica libera e fraternamente eguale, sostanzialmente rispettosa della eguale libertà naturale.

L’infinito originario e positivo, creativo e dialettico, per l’umanità e per la natura stessa, tiene perciò aperta la dimensione dinamica dell’Uno infinito (l’aspetto teologico), perché l’immagine dell’umanità stessa non venga rinchiusa nello schema antropologico della conquista e del dominio, del controllo e della necessaria repressione preventiva (l’aspetto politico), di modo che il movimento d’apertura creativa della natura in generale (l’aspetto naturale) salvaguardi la relazione dialettica, che ne è l’espressione, il principio e la causa (l’aspetto intellettuale e razionale). La relazione dialettica, infatti, regge ed esprime l’apertura dell’originario creativo, la mette in movimento attorno a quel perno alterativo – l’Uno, nel suo essere e non essere - che è immediatamente intelligenza ed orizzonte razionale aperto, non chiuso, liberatore e non opprimente e dominatore. Forse è allora a questo senso e significato dell’universale che l’ultimo Baudrillard – La violenza globale (2003) - chiedeva di essere baluardo insormontabile, contro l’orizzonte cupo e negativo, di chiusura, della globalizzazione capitalista ed imperialista. Forse, ancora, è a questa prospettiva che possono essere rivolte di nuovo - per una riattualizzazione, ampliamento e radicalizzazione – le proposte speculative con valenze pedagogiche di J.J. Rousseau, I.

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Kant, C. Fourier, M. Montessori, W. Reich, H. Marcuse, E. Morin, C. Castoriadis, Don Lorenzo Milani e U. Bronfenbrenner.

In caso contrario l’orizzonte chiuso della globalizzazione agirà secondo una logica negativa, dove la necessità di evitare la possibilità d’intervento repressivo letale porterà come propria immagine reale la dimensione particolare e relativa di una finalità positiva comunque distorta ed ingiusta, anche se dichiarata inevitabile. In questa perversione teo-politica – e di perversione si tratta, in quanto il bene viene raggiunto attraverso un male – l’atto di dominazione e di controllo assoluto delle finalità generali attraverso lo strumento – uno strumento continuamente verificabile e modificabile - diventa essenziale ed imprescindibile. Nella cosiddetta società della conoscenza19 il controllo culturale e la formazione adeguata degli insegnanti diventano, quindi, il primo gradino di un processo, che poi auspicabilmente e in un certo modo prevedibilmente – poste alcune costrizioni legislative - si svolgerà a cascata nei diversi ambiti sottostanti. Preparatore di strumenti o strumento di riferimento per coloro che dovranno trasformarsi in strumenti, il professore accademico e l’insegnante scolastico diventano insieme il perno centrale, autoritario ed autorevole, della formazione dell’intera società. Per la separatezza vigente fra il livello universitario di ricerca e quello scolastico di insegnamento, l’insegnante di scuola diviene il termine di riferimento esclusivo di quell’asse alienativo ed auto-negativo in precedenza indicato, diventando in tal modo il parafulmine di tutte le situazioni negative – di insuccesso, di demotivazione o di amoralità – eventualmente realizzatesi in ambiente scolastico. Questo provoca quel riconosciuto fenomeno dell’autoisolamento dell’insegnante, che ha semplicemente e puramente un valore di difesa vitale, ma che alla lunga determina la sua effettiva spersonalizzazione e la caduta della propria motivazione al lavoro. Come la versione laica del Figlio teologico nei confronti del Padre celeste, l’insegnante di scuola fa la volontà dell’ordinario universitario, per morire sulla croce del mancato riconoscimento da parte dei genitori. Esso si salva e resuscita, quando il successo proprio è immagine e riflesso del successo - immediato o progressivo – dei suoi allievi, a seconda che abbiano o meno imparato ed acquisito la mentalità dell’auto-oblazione e dell’auto-sacrificio. Ricordato a perenne memoria futura, assurge al cielo, grazie allo Spirito dell’annullamento e della mortificazione.

Non diventa allora difficile rovesciare il nostro punto di vista, per cogliere in coloro che non si sottomettono sin dall’inizio – ed in modo (pre)giudicato ribellistico - a questa logica annichilatrice, la speranza di un mondo diverso e migliore. Così le stesse fenomenicità negative, considerate patologiche, presenti nel mondo scolastico potrebbero fornirci delle

19 Cfr. il documento delle decisioni prese presso il Consiglio Europeo di Lisbona del 23-24 marzo 2000. Testo in

formato .rtf (in allegato).

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spiegazioni e degli strumenti – questi sì positivi – per l’edificazione e la costruzione di una società veramente e realmente migliore. L’insuccesso, la demotivazione e l’amoralità (pre)giudicate potrebbero al contrario emergere come negata accettazione del primo processo alienativo, rifiuto e rigetto della propria auto-strumentalizzazione (soprattutto da parte dei genitori), chiusura in un orizzonte di ignoranza ed arroganza (bullismo) come risposta di libertà alla volontà segregatrice ed autoritariamente direttrice dei genitori.

È evidente che nessun insegnante accetterà mai che il bullismo esercitato di solito contro il modello di riferimento della classe possa costituire una soluzione di effettiva libertà ed eguaglianza al problema educativo: però, invece che escludere il bullo ai margini della classe e preoccuparsi di salvaguardare l’incolumità (ma anche la solitudine) dei migliori allievi, l’insegnante utilizzasse tutte le potenzialità positive precedentemente indicate, per attuarle nella verità e bontà di una conoscenza e moralità effettive e non ipocrite (poste in essere perché dovute), forse allora la stessa classe godrebbe della possibilità di riequilibrarsi in una serie di relazioni orizzontali, che abbatterebbero quelle verticali e gerarchiche - edificate e costruite secondo la logica aggressiva, violenta ed escludente a sua volta, del branco – che hanno a capo il bullo stesso. Se in un certo senso è vero che, in modo solo apparentemente paradossale (in realtà voluto), la migliore riuscita dell’educazione tradizionale è proprio la costituzione ed il futuro successo nella vita di questo taglio e determinazione di comportamento e di ragione negativo, allora la persistenza di questi stessi fenomeni nell’ambiente delle classi attuali non può e non deve – come invece viene propagandato in maniera per nulla innocente – essere imputato alla libertà ed all’eguaglianza predicati e praticati a partire dalle rivoluzioni culturali degli anni ‘60 e ‘70, ma proprio ed al contrario alla volontà di neutralizzarne le potenzialità e gli effettivi risultati. All’atto molto concreto e molto presente della loro attuale negazione. Per questo la soluzione neo-autoritaria – od il suo riflesso neo-autorevole (con tutto il bagaglio di derivazione statunitense di schede e pratiche operative) – con la salvaguardia/selezione dei migliori, l’allontanamento e la segregazione dei peggiori dopo un inefficace addestramento e la messa sotto custodia/controllo preventivo (e farmacologico) degli elementi troppo sensibili e/o aggressivi, non causerà certamente la soluzione degli effetti negativi presenti – quelli riconosciuti come tali dai ragazzi stessi – quanto invece ed al contrario quel peggioramento ed oscuramento della qualità delle relazioni inter-dialettiche, che ha nella negazione – reattiva e reazionaria - del creativo spontaneo la sua vera ed effettiva causa patologica e maligna.

In questo modo la soluzione neo-autoritaria – o neo-autorevole – è semplicemente il tentativo di salvaguardare l’organizzazione sistematica e funzionale degli insegnanti e della scuola che si muovono lungo l’asse neo-tradizionale. Un tentativo consapevole in partenza

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della grande massa delle perdite necessarie e della ristrettezza delle riuscite con successo. Del resto: siamo o non siamo in una guerra (competizione) generalizzata?

LA VERA SOLUZIONE È QUELLA RIVOLUZIONARIA

Come, allora, rovesciare questo stato di cose e ripristinare il valore veritativo e morale di

quella creatività, che sola può ristabilire il fondamento e l’asse del pensiero e dell’azione politico-sociale e pedagogica? Come salvaguardare quell’apertura dialettica, senza la quale ogni relazione di libertà ed eguaglianza implode nel più feroce ed ingiustificato degli autoritarismi (ancora politico-sociali e pedagogici)?

La risposta immediata a queste domande è: ripristinando nella coscienza individuale e collettiva il senso e significato di ciò che intendiamo come l’infinito della creatività e del libero movimento dialettico. Solo risalendo attraverso la corrente spontanea di una libertà fraterna ed eguale amplieremo il nostro orizzonte osservativo, intenzionale e pratico, riconoscendo e giustificando un’ampiezza del diritto non antropomorfizzata, né tanto meno feticizzata attorno alla necessaria sopravvivenza del motore economico capitalistico, in tal modo liberando nella viva immagine razionale della molteplicità aperta ed infinita – impredeterminata – il concetto e la prassi che ricostituiscono il senso ed il significato originario del pensiero e dell’azione umana e naturale. Ristabilendo e allargando senza limiti, non già l’eterodeterminazione di una ragione monolitica che sia principio di una volontà di potenza e di dominio assoluta e totale, quanto piuttosto l’apertura di un desiderio che non vuole controllo e conquista, ma reciproca felicità, gioia e liberazione.

Per questa ragione antica è dunque necessario ricapovolgere tutte le direttive, le motivazioni e le giustificazioni giuridiche, politiche, sociali e pedagogiche indicate dalla necessità fatale dello sviluppo patriarcale e capitalistico occidentale, creando una sorta di nuovo manifesto per un nuovo movimento comunista (anticapitalista / femminista / animalista / ecologista) planetario. In questo manifesto dovranno essere tenuti presenti ed attentamente considerati, sviluppati ed intrecciati tutti gli elementi che compongono la tela delle relazioni umane e naturali.

In particolar modo: 11.. per quanto riguarda l’aspetto d’orizzonte fondamentale teologico, sarà necessario

sostituire al dio-moloch dell’Uno necessario e d’ordine un Uno infinitamente aperto, coniugato attorno al concetto ed alla prassi di una libertà amorosa ed eguale, inalienabile, nello stesso tempo naturale e razionale, presente in ogni essere e mobilitante (nobilitante) ogni essere (spirito dell’a-teismo).

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22.. Liberare con questa sostituzione l’organizzazione patriarcale delle società occidentali, demolendo il concetto e la prassi dell’identità assoluta, subordinante e gerarchizzante le volontà soggettive all’intelletto oggettivo di dominio e di conquista (fonte della trasformazione di sé nello strumento, eterodeterminato ed etero-orientato). Questa rivoluzione psico-sociologica, epistemologica e pedagogica dovrà inserire a livello educativo la prassi di una creatività mossa dal libero desiderio, razionalmente attenta non già a che la libertà dell’uno finisca dove inizia quella dell’altro (classico concetto della libertà negativa), ma viceversa pensando ed agendo affinché dove inizia la libertà del primo nasca anche quella – dialettica e complementare - del secondo (libertà dialetticamente positiva). Secondo una pedagogia della relazione, ogni autoritarismo verrà conseguentemente e logicamente anticipatamente eliminato. Implicazione connessa a questa rivoluzione pedagogica è la trasformazione dello stesso piano immaginativo razionale che sorregge la definizione della mente, della sensibilità e dell’azione umana (nuova epistemologia). Conseguenza ulteriore di questa stessa rivoluzione sarà, ancora, la trasformazione del metodo didattico, che dovrà ora essere attento in primo luogo alla delineazione storica dello sviluppo contrapposto esistente fra la visione trascendentista classica e quella immanentista e rivoluzionaria. Per fare un esempio immediato con le discipline scientifiche e filosofiche, si potrà sviluppare in un modo prima sincronico e solo successivamente diacronico l’analisi della serie dei problemi, che si irraggiano a partire da quello fondamentale, della relazione fra costituzione della materia e forma dell’energia; mentre in campo filosofico si potrà dare svolgimento al problema corrispettivo della materia e della forma dello Spirito, appunto secondo la posizione trascendentista o quella immanentista. Le altre discipline letterarie, artistiche o tecniche e tecnologiche potranno avvalersi dell’intreccio fondamentale costituito dalle prime due, per sviluppare sia il loro piano dialettico di evoluzione storica, che quello sincronico dell’intreccio fra le problematiche più attuali e stringenti. Con l’effetto ulteriore di innervare e portare nuova linfa creativa, di dare nuovo movimento, al quadro iniziale – di per sé comunque in movimento secondo l’immagine e la somiglianza al principio teologico-politico e naturale rivoluzionario - costituito dalle prime due discipline ed orientamenti culturali. In questo modo si aprirebbe una nuova concezione didattica, attraverso la costituzione di una serie di unità, che sarebbero nel contempo modulari, tematiche, problematiche e prospettiche. Con la stessa apertura che vitalizza l’esistente, questa concezione svilupperebbe quello spirito critico, senza del quale non vi sarebbe nessun reale movimento e progresso.

33.. Vista la difficoltà della fase di progettazione e di pianificazione didattica precedente, l’elaborazione a livello centrale e nazionale dei piani di intervento didattico dovrebbe

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innestarsi in forme di autogoverno, che non ricadano nella falsa alternativa fra concentrazione o separazione/delocalizzazione dei poteri e delle autonomie gestionali e didattiche dei diversi istituti scolastici. La stessa pianificazione del progetto di un’educazione permanente dovrebbe essere poi connessa con la trasformazione delle modalità stesse, tramite le quali si elabora l’informazione e l’autoformazione democratica, evitando la divaricazione funzionale attuale fra un tipo popolare d’informazione mediatica e l’imposizione dall’alto di una formazione culturale uniforme. Per risolvere questi problemi di coordinamento gli schemi generali, inclusi nei piani di intervento didattico (sino alla cosiddetta formazione permanente), dovrebbero non solo consentire, ma addirittura imporre la massima diffusione delle pratiche di autogoverno e di autoformazione, realizzando l’autodeterminazione nel senso di quella possibilità aperta e reciproca, che unicamente riesce a salvaguardare il senso creativo dello scambio dialettico. Allora il creativo originario si fonderà spontaneamente e liberamente con l’ideale movimento di realizzazione antistrumentale, stabilito da quegli schemi generali. In questo modo lo stesso potere dello Stato si scioglierebbe e diffonderebbe nella vitalità libera ed eguale delle sue comunità democratiche organizzate. La disposizione statuale deputata a questo scioglimento e diffusione del potere vedrebbe poi la necessaria realizzazione di accademie e scuole di indirizzo, pensate ed organizzate su base materiale (regionale/provinciale), secondo finalità di liberazione dallo sfruttamento ed alienazione capitalistica (dunque all’opposto della attuale riforma regionalistica, fondata sulla determinazione aziendal-lavoristica dell’educazione e della formazione). Queste accademie e scuole di indirizzo avrebbero il compito di sviluppare la ricerca generale, connettendo in maniera inscindibile la risoluzione in senso rivoluzionario dei problemi energetici, eco-socio-politici e scientifico-filosofici (in senso lato culturali).

44.. Tolta l’immagine razionale e naturale tradizionale - che ha attraversato l’intera storia ideologica occidentale (da Platone ed Aristotele, a Plotino, a Tommaso d’Aquino, Cartesio, l’idealismo classico tedesco e la recente ripresa neohegeliana in ambiente statunitense dello spirito del mondo), per la quale l’ordine si identificava e si identifica immediatamente e totalmente con la gerarchizzazione subordinante ed alienante, dotata di una dinamica autonoma spinta alla trasformazione ed al capovolgimento (della morte possibile in necessità di vita), attraverso la strumentalizzazione della passione per lo sfruttamento naturale e la giustificazione della violenza e del dolore umano (ché quello naturale veniva preventivamente annullato ed oscurato dalla precedente necessità dello sfruttamento) – la nuova ed antica immagine razionale sorretta dall’infinito aperto, creativo e doppiamente dialettico, apre una nuova concezione psico-sociale, con rivoluzionari effetti nella stessa rideterminazione e ridefinizione delle funzioni interne

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alla mentalità collettiva e singolare.20 In questo modo sarà possibile passare dalle società fondate sull’atto concreto della ricerca, selezione, eliminazione e reintegrazione capovolta del negativo (prima escluso e poi forzatamente invertito), espresso attraverso la funzione classica del capro espiatorio, verso società che rigettano questa forma di mutuo e definitivo autoannullamento. Questa rivoluzione, come si è detto, non potrà non avere degli effetti pratici e teorici a livello teologico: il recinto tradizionale del sacro, l’isolamento e la separatezza assoluta del potere, attraverso i quali la violenza e la conquista umane hanno disciplinato e penetrato l’intero orizzonte dell’essere occidentale esistente, vengono demoliti ed aperti a comprendere l’espressione radicale del reciproco desiderio e della mutua accettazione sociale, allontanando e rigettando qualsiasi pratica di eterodeterminazione o di etero-orientamento. Solo la pratica di forme di democrazia diretta, in ogni ambito delle attività umane (economiche in primis), potrà garantire quell’annullamento dello strumento essenziale alla negazione della libertà – lo scambio dell’ordine con la gerarchia - che ripristinerà un’ideale ed una realtà d’eguaglianza attenta alla più aperta delle diversità.

55.. L’apertura dell’orizzonte immaginativo e razionale orienterà quindi la ricerca, diffondendola in ogni soggetto umano, verso la liberazione di ogni essere esistente, annullando la differenza ed opposizione tradizionale fra umano e naturale. In questo modo essa riuscirà a ricreare i presupposti per il comune e reciproco riconoscimento.21

66..

Sarà dunque necessario far implodere l’organizzazione separata e linearmente determinativa di tradizione verbale-discorsivo-lavorativa, per una rinaturalizzazione della civiltà umana attenta alla singolarità dei processi creativo-dialettici, che nello stesso tempo cerchi di sviluppare un concetto diverso di razionalità, non rigidamente misurante e calcolante, tesa alla strumentalizzazione dell’Essere per la continua accumulazione dei beni e/o capitali. Una razionalità non fondata sulla trasmissione indiscussa del patrimonio e del possesso esclusivo dell’Essere, ma sulla condivisione delle relazioni e sullo scambio eguale con l’aperto esistente.

20 Sensibilità, sentimento, immaginazione, passione e razionalità (intelligenza), teoresi, produzione creativa e pratica

vengono completamente rifondate e ridisegnate, secondo accenni già riscontrabili nelle nuove teorie dell’intelligenza (vedi i lavori di J.P. Guilford sulla struttura dell’intelletto: http://www.tip.psychology.org/guilford.html, o quelli di H. Gardner e R.J. Sternberg: http://www.uciim.sicilia.it/intell_multiple.htm#H.G sulle intelligenze multiple) o nell’importanza assegnata nelle medesime ricerche al principio emotivo (vedi i lavori di: D. Goleman, L’intelligenza emotiva, 1995; Intelligenza sociale, 2006; Martha Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni, 2004; S. I. Greenspan - A. Biavasco - V. Guani, L'intelligenza del cuore. Le emozioni e lo sviluppo della mente, 1998).

21 Cfr. i testi per la liberazione animale presenti all’interno della rivista telematica <<Liberazioni>> (http://www.liberazioni.org). Primo passo per una rivisitazione dei rapporti uomo-donna e umanità-ambiente in senso generale.

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77..

In questo processo di riliberazione della vera e reale potenza vitale dovranno essere utilizzate tutte le più recenti acquisizioni dell’anti-economia22 e di una nuova scienza, completamente slegata dagli interessi del Capitale. Ripresentatosi vittorioso alla fine del secolo XX quale unico soggetto, unico agente ed unico fine per una natura, una realtà ed una ragione sempre ed ancora astratti, l’imperialismo economico, sociale, politico e scientifico del Capitale si va oramai dispiegando mondialmente in modo di nuovo assolutamente totalitario e violento. Identità e necessità unica e d’ordine, incarnata dalla e nella capitalità del profitto – la nuova forma dell’infinito separato – la forma/materia di questo impero trasloca, trasfigura e deporta – avendo acquisito e fatti propri hegelianamente gli strumenti antitetici dei precedenti antagonisti (la violenza nazifascista dell’ordine materiale e la staliniana formalizzazione organica del comando) – la natura al piano astratto della realtà politica e questa al piano separato della direzione e governo economico del mondo. In questo modo la scienza stessa – naturale, biologica, antropologica e teologica – viene ridotta ed adeguata a forme ideologiche funzionali alla conservazione ed al mantenimento integrale della visione e della prassi dell’Uno necessario e d’ordine (ora incarnato definitivamente e molto prosasticamente nella figura istituzionale del presidente degli U.S.A.). La teoria del Big Bang – la forma laica e moderna che meglio si appoggia alla visione creativa tradizionale, dove Dio esprime se stesso nell’universo dal nulla apparente – la teoria della selezione fondata su di un progetto intelligente e predeterminato – dove la vita resta sempre nel dominio separato di un dio astratto, sia per le forme non-umane, che per quelle umane – il concetto di Dio come Identità assoluta – che preclude nella negazione assoluta ogni forma di creatività e rivelazione continua, offrendo il terreno di battaglia privilegiato per le nuove guerre politico-religiose – sono tutte forme ideologizzate di scienza, con o senza la consapevolezza dei suoi attori principali: gli scienziati. All’opposto, quasi a far rinascere anch’esse le antiche forme sapienziali e religiose, stanno le aperture creative e dialettiche svelate dalla nuova fisica delle stringhe,23 dalla biologia ed antropologia evoluzionista24 e dalla teologia della creazione e rivelazione continue.25 Ma il Dio/Dea infinitamente aperto/a viene combattuto nella sua riemergenza dalle forme laiche ed attuali dell’antico olimpismo ed orfismo (o gnosticismo e manicheismo): ora la circolarità globale del sangue animale planetario (materie prime, vegetali, animali, uomini), la sua rinnovata e continua aspersione e dispersione sacralizzata – la guerra infinita – innalza un nuovo

22 Cfr. di nuovo le teorizzazioni di contro-economia elaborate da Domenico de Simone, in Un’altra moneta: i Titan,

una rivoluzione della finanza. Testo in formato .pdf (allegato). 23 Cfr. Alan Woods, Ted Grant, La rivolta della Ragione (1997). 24 Cfr. Rupert Sheldrake, La rinascita della Natura (1993). 25 Cfr. Whitney Bauman, The Problem of a Transcendent God for the Well-Being of Continuous Creation (2007).

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potere assoluto, quando la civiltà pare risorgere a nuova vita, sugli effetti positivi del cumulo di macerie e dei rifiuti negativamente ingenerati. Un nuovo potere assoluto ed una nuova volontà di dominio e di conquista si riaffermano – infiniti – quando la contemporanea accentuazione orfica dell’olimpismo – l’artificiale che si fa assoluto – appoggiandosi, nella persuasione, alla ineluttabilità e necessità del negativo, che essa stessa ha in precedenza causato - chiede la sottomissione o la distruzione – globale e generalizzata – delle nature, delle realtà e delle ragioni, che non si piegano e rimangono creativamente, vitalmente e libertariamente irriducibili alla sua prigionia, al suo soffocamento e alla sua deliberata eliminazione. La scintilla dell’antico credo e la sua potenza immane ed inarrestabile, in una vita infinita, creativa e dialettica, dove il movimento della libertà sia l’eguale amore, apre di nuovo il cammino alla rigenerazione dello spirito concreto, reale e vero. Dello Spirito della e nella relazione.26

88.. Allora solamente le scienze della relazione in ambito fisico-chimico-biologico - con le scoperte e le implicazioni teoriche legate alla cosiddetta fusione fredda27- bio-psico-sociologico - con le teorie della nuova intelligenza naturale ed umana - e socio-politico - con lo sviluppo di nuove tematiche ed impostazioni legate alle nuove forme di produzione energetica,28 all’economia,29 ed all’ecologia,30 per finire con i testi di impostazione altermondialista o quelli della teologia e filosofia della liberazione – potranno ricostituire, prima un argine insormontabile contro l’apocalisse umana e naturale, poi e definitivamente l’apertura di una nuova era di pace e giustizia su questo pianeta.

44.. MMEETTOODDOOLLOOGGIIEE,, SSTTRRUUMMEENNTTII,, MMAATTEERRIIAALLII

La somministrazione del nucleo tematico relativo alla globalizzazione seguirà le linee

guida indicate dalla proposta interpretativa dell’insegnante, accompagnate dalle letture dei contributi di H. Marcuse, W. Reich, G. Deleuze, C. Castoriadis e A. Badiou, così come sono

26 Le recenti critiche di Papa Benedetto XVI si appuntano proprio contro questo concetto e prassi dello Spirito, della

e nella relazione, riduttivamente concepito come relativismo di natura materiale ed ideale ateistico. Cfr. Stefano Ulliana, Oltre l'apparente opposizione fra relativismo e universalismo. La disputa giocosa fra ragione e fede. In: www.dialettico.it (sezione opinioni) In: www.rifondazione.org/article.php3?id_article=457 In: http://www.alteracultura.org/outputris.php?ID=523 In: <<Foglio di Comunità>> - Luglio/Agosto 2005, Associazione Viottoli, Comunità cristiana di base di Pinerolo (Torino), www.viottoli.it

27 Cfr. la video-conferenza di Emilio Del Giudice e Getullio Talpo sulle influenze in campo biologico (conferma delle teorie omeopatiche e della creazione di elementi all’interno degli organismi animali) della fusione fredda, in: http://www.arcoiris.tv/modules.php?name=Unique&id=5417.

28 Ne sono un esempio le applicazioni dell’energia solare, eolica e della cosiddetta free-energy (www.infinite-energy.com, www.onne.it, www.progettomeg.it).

29 Cfr. il testo già citato di Domenico de Simone. Vedi anche i testi di economia e politica presenti in: http://www.zmag.org/Italy.

30 Cfr. il testo già citato di Guido e Mario Agostinelli.

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presentate in Appendice. Altri materiali storico e filosofico-critici presi in considerazione saranno la Storia della Globalizzazione di S. Latouche; Economie, Imperi, mondi di T. Detti; Percezioni e realtà dell’ineguaglianza globale di G. Gozzini. Sull’altro ed opposto versante potranno essere considerate parti selezionate del Progetto per un Nuovo Secolo Americano (P.N.A.C. 2000), elaborato dal gruppo teo-con statunitense gravitante attorno ai presidenti U.S.A. Bush; l’analisi critica delle forme prese dal riorientamento in fase e finalità offensive mondiali della N.A.T.O. (North Atlantic Treaty Organization).

Ogni contributo filosofico-critico proposto sarà accompagnato da una breve ripresa o ricerca di approfondimento delle posizioni espresse dalla Scuola di Francoforte, dagli sviluppi critici della scuola marxista in Europa, sino alle posizioni più radicali e libertarie. In questo caso riprese ed approfondimenti si serviranno all’inizio del manuale scolastico in uso, per esempio Il Nuovo Protagonisti e Testi della Filosofia (a cura di G. Fornero; Milano, Paravia, 2007): nel caso della Scuola di Francoforte (Horkheimer, Adorno, Marcuse) le pagg. 669-684 (con un’eventuale oculata scelta dei relativi testi antologici); nel caso di J. F. Lyotard le pagg. 1139-1142. Nei casi rappresentati dal pensiero di W. Reich, di G. Deleuze, di C. Castoriadis e di A. Badiou verranno utilizzate le fonti ipertestuali, schematiche e sintetiche, adoperate dallo stesso insegnante per la formulazione della propria traccia interpretativa, alle pagine corrispettive dei siti http://it.wikipedia.org e http://www.filosofico.net. Altri siti di informazione filosofica, dai quali è possibile scaricare testi e documenti (anche audio e video) possono essere: www.filosofia.it; www.portadimassa.net (con testi e documenti audio e video sulla globalizzazione); www.filosofico.net (con schede sui singoli pensatori); www.fisicamente.net (con lavori ragionati di Roberto Renzetti sui rapporti fra globalizzazione ed educazione); www.ilgiardinodeipensieri.eu (con materiale diverso).

Dopo una lezione introduttiva (1 ora), tesa a dimostrare la permanenza durante l’intero secolo XX e all’inizio del XXI dell’orizzonte generale della volontà di potenza occidentale, attraverso l’espansione della modalità di produzione-riproduzione socio-economica alienante e negativa del Capitale (sia nella versione liberale, che in quella burocratico-democratica o burocratico-socialista), si procederà nella lezione successiva (1 ora) alla esplicitazione della prima forma di critica razionale a tale sistema (con gli esponenti della Scuola di Francoforte: Adorno e, soprattutto, Marcuse). L’approfondimento radicale e rivoluzionario di questa impostazione vedrà trattare poi molto brevemente nella terza lezione (1 ora) gli apporti di W. Reich, di G. Deleuze e di C. Castoriadis, mentre la forme moderate di J. F. Lyotard, che paiono accettare le contro-trasformazioni del Capitale e decretare la fine delle ideologie (post-modernismo), verranno accostate come fenomeno di iniziale contro-reazione. Lo sviluppo radicale di forme di dittatura armata del Capitale (con

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le posizioni reazionarie teo-con statunitensi e neoliberali europee) e la risposta dei movimenti no-global internazionali sarà alla fine il tema della quarta lezione (1 ora), che utilizzerà gli apporti storico-critici presentati in Appendice, o registrati sul DVD allegato. Qui numerosi potranno essere gli apporti video (tratti dalla televisione libera e gratuita domiciliata presso il sito http://www.arcoiris.tv), dedicati ai temi e problemi più diversi legati alla globalizzazione, che verranno selezionati per una effettiva fruizione collettiva in classe (quinta lezione: 2 ore). La sesta lezione (1 ora) vedrà, finalmente, attuare la prova di verifica delle acquisizioni raggiunte.

Per realizzare, dunque, gli obiettivi stabiliti per la programmazione del nucleo tematico, si attuerà un confronto diretto con i testi degli autori considerati e/o i commenti svolti a proposito dall’insegnante (qui posti in Appendice), con un grande uso di mappe concettuali (all’inizio, durante le spiegazioni frontali e/o dialogate, alla fine come guida per il riepilogo od il recupero). Questo confronto diretto sarà attuato in ogni lezione successiva a quella iniziale, nella sua seconda metà oraria. Le lezioni vedranno, quindi, alternarsi brevi spiegazioni e contestualizzazioni iniziali e un immediato riscontro con i dati interpretativi offerti dai testi (primari o secondari), sviluppando un metodo di lavoro comune basato sullo scambio dialettico e sulla problematizzazione (lezione dialogata). In modo più definito il momento analitico vedrà l’individuazione dei termini, dei concetti e delle idee fondamentali, la segmentazione/paragrafazione/titolazione dei testi offerti, la ricomposizione schematica e la produzione finale di opportune ed adeguate mappe concettuali (come guida per l’esposizione orale o scritta). Invece il momento legato all’acquisizione delle competenze vedrà stabilire un momento finale di discussione plenaria, dove alla fine dell’ultima lezione e prima della verifica finale le acquisizioni precedenti verranno discusse ed integrate, nel tentativo di costruire uno schema generale di spiegazione del processo storico che attraversa l’intero secolo XX, una mappa concettuale generale quanto più ricca, precisa ed articolata possibile, che possa consentire sia una traccia adeguata per un’eventuale esposizione orale, sia la compilazione di un tema storico, in preparazione dell’Esame di Stato finale (vedi qui Verifiche e Valutazione).

55.. VVEERRIIFFIICCHHEE EE VVAALLUUTTAAZZIIOONNEE

Obbedendo alle indicazioni dei cosiddetti <<Programmi Brocca>>, le prove di verifica

saranno costruite per misurare l’acquisizione degli obiettivi specifici legati al nucleo tematico considerato e per impostare, eventualmente, un lavoro di recupero/potenziamento delle conoscenze/abilità/competenze precedentemente individuate ed esplicitate.

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Si darà così spazio, più che a tests di domande a risposta multipla od aperta (tipologia d’esame A), all’eventuale produzione di un breve saggio formulato sulla base di un’adeguata documentazione (tipologia B), come approfondimento individuale; o all’elaborazione di un tema ad impronta storica (tipologia C). In questo modo le tre fasi della:

a) individuazione e spiegazione dei termini, dei concetti e delle idee fondamentali degli autori considerati e delle fasi nelle quali si scandisce il nucleo tematico (la serie già indicata delle lezioni);

b) della fase analitico-sintetica legata alle abilità, all’individuazione delle strategie argomentative e delle finalità presenti nei testi degli autori considerati o nelle fasi di cui sopra;

c) dello sviluppo delle competenze, della valutazione in sede di discussione plenaria e dialogata degli apporti individuali, sino all’approfondimento in una interrogazione individualizzata;

verranno tutte convogliate nella predisposizione ed elaborazione di una mappa concettuale e di uno schema che presenti per via problematica gli snodi e le possibili alternative dialettiche considerate e sviluppate nel nucleo tematico. La mappa e lo schema verranno poi utilizzati per la scrittura di un saggio breve o di un tema storico (a libera scelta dell’allievo).

La valutazione dello scritto terrà poi conto della pertinenza, congruenza, organicità ed articolazione dei contenuti (punti da 1 a 5). Vaglierà l’apporto delle fonti e la loro interpretazione, secondo il grado dell’eventuale complessità o semplificazione del materiale utilizzato (punti da 1 a 5). Considererà l’adeguazione alle interpretazioni offerte o la rielaborazione personale e creativa delle stesse (punti da 1 a 5).

35

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SSOOMMMMAARRIIOO

INTRODUZIONE.............................................................................................................2

1. PREREQUISITI............................................................................................................3

2. FINALITÀ E OBIETTIVI ............................................................................................4

3. CONTENUTI................................................................................................................5

Introduzione. .................................................................................................................5

Una prima proposta critica ............................................................................................9

Per una rivoluzione culturale e pedagogica ................................................................16

La soluzione moderata apre a quella reazionaria ........................................................18

La vera soluzione è quella rivoluzionaria ...................................................................27

4. METODOLOGIE, STRUMENTI, MATERIALI.......................................................32

5. VERIFICHE e VALUTAZIONE................................................................................34

Sommario ............................................................................................................................36

APPENDICE.......................................................................................................................37

INTERPRETAZIONI, TESTI E DOCUMENTI ...........................................................37

ALCUNE INTERPRETAZIONI PROPOSTE DALL’INSEGNANTE.........................38

Un importante contributo di H. Marcuse ....................................................................38

I contributi di W. Reich e G. Deleuze.........................................................................40

Per un nuovo fondamento ed un nuovo orizzonte. I contributi di C. Castoriadis e A. Badiou ............................................................................................................................44

STORIA DELLA GLOBALIZZAZIONE......................................................................51

ECONOMIE, IMPERI, MONDI: PERCORSI DI UNA STORIA GLOBALE..............62

PERCEZIONI E REALTÀ DELL’INEGUAGLIANZA GLOBALE: UNA VISIONE DI LUNGO PERIODO ......................................................................................................82

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AAPPPPEENNDDIICCEE IINNTTEERRPPRREETTAAZZIIOONNII,, TTEESSTTII EE DDOOCCUUMMEENNTTII

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AALLCCUUNNEE IINNTTEERRPPRREETTAAZZIIOONNII PPRROOPPOOSSTTEE DDAALLLL’’IINNSSEEGGNNAANNTTEE

UN IMPORTANTE CONTRIBUTO DI H. MARCUSE Influenzata dal pensiero speculativo di G.W.F. Hegel e dalle analisi psico-sociologiche di

S. Freud la riflessione di Herbert Marcuse,31 inserita nella linea critica elaborata dalla Scuola di Francoforte, può essere utilizzata – per la parte che qui interessa ed ha valore – soprattutto per la critica avanzata nei confronti del primato progressivamente acquisito ed assunto nella civiltà ideologica occidentale dalla ragione di tipo strumentale. Il mondo moderno, nato in virtù del progresso della scienza e sviluppatosi grazie all’applicazione delle conoscenze scientifiche nella rivoluzione industriale, rapidamente costruisce ed edifica un orizzonte concettuale pratico all’interno del quale il potere economico-politico borghese concentra a se stesso e predispone strumenti per il controllo dei movimenti e delle finalità sociali ed individuali, costituendo in breve un’organizzazione politico-amministrativa tesa alla stabilizzazione della divisione di classe, con effetti duraturi sulla stratificazione sociale da essa derivata. Di contro il pensiero critico di Herbert Marcuse rivaluta invece tutte le pulsioni liberamente creative e dialettiche dell’individuo, destinate alla elevazione di una rete di relazioni sociali ideali capace di riumanizzare l’intera vita sociale stessa (famiglia, lavoro, tempo libero, educazione). La resa universale dell’autenticità personale poteva essere allora subito raggiunta ed acquisita solo attraverso la rivoluzione del mondo capovolto e repressivo della borghesia, delle sue istituzioni economiche, sociali, politiche ed educativo-informative. Attraverso la rimobilitazione e rinobilitazione del desiderio in generale il piacere, il bisogno e le necessità ideali avrebbero dovuto ricostituire un orizzonte positivo di aspettative e di richieste sociali, che avrebbe a sua volta sostituito e fatto decadere l’orizzonte separato ed astratto dei valori e delle imposizioni convenzionali borghesi. Così la negazione della sensibilità, del desiderio e del piacere ad essi collegato, sarebbe stata ricapovolta nella loro riaffermazione: una riaffermazione che avrebbe avuto – grazie all’eliminazione dell’alienazione e della repressione - il valore della ricostituzione di una felicità sociale generale. In questo orizzonte tutto sarebbe stato liberato: famiglia, lavoro, educazione e tempo libero avrebbero perduto le caratteristiche proprie della subordinazione gerarchica e della negazione di sé, per ottenere in loro vece una piena e completa vita democratica. Una vita nella quale potesse finalmente realizzarsi il sogno e l’ideale rivoluzionario di una dialettica fra libertà ed eguaglianza mossa dalla reciproca fraternità. Questa dialettica orizzontale avrebbe quindi smascherato la finta dialettica

31 Cfr. http://www.filosofico.net/marcuse.htm, http://it.wikipedia.org/wiki/Herbert_Marcuse.

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verticale fra astratto della infinitezza e concreto della finitezza, in realtà un portato religioso tradizionale implementato dalla forte e ferra costituzione dei valori borghesi. L’apertura dell’illimitato originario sarebbe riuscita a rioccupare il suo posto, all’interno dell’immagine razionale e naturale dell’umanità intera. L’infinito originario si sarebbe così alla fine ricostituito, a livello naturale, sociale e politico. Se, invece, al principio astratto di realtà si continua a congiungere e a combinare la finalità produttiva - egualmente astratta e necessaria - disposta grazie al principio di prestazione (nel contesto economico capitalista od in quello del cosiddetto socialismo reale), allora la società nella sua interezza e totalità non riuscirà mai a liberarsi da un valore ed un giudizio di merito completamente eteronomi ed eterodirezionati. La vita intera resterà in mano alle decisioni della classe borghese o a quelle dei funzionari organizzati di partito.32 La dimensione del passato negherà l’apertura del futuro, mentre la stessa apparenza di democrazia (o di socialismo) decretata dal sistema tenderà a desviare le prospettive di liberazione verso l’ossessione consumistica e produttivistica, attraverso il controllo dei media e del tempo libero (o verso la costruzione di un’alienazione di massa).

In questa prospettiva il richiamo all’antiautoritarismo e ad una società che si autorganizza aveva – ed ha – nella società occidentale immediati riflessi e riscontri sul piano delle finalità e degli obiettivi educativi, come pure degli effetti concreti ed immediati sulla capacità di facilitare la propensione all’idealizzazione identificativa, presente nel periodo adolescenziale. Il principio rivoluzionario dell’immaginazione al potere consente infatti, se attualizzato, l’immediato rispetto pedagogico verso le potenzialità espressive e creative di un soggetto, che può ora operare autonomamente un ben preciso piano e progetto di autoeducazione, dove la finalità obiettiva dell’educazione stessa sia riconosciuta in primis dal soggetto stesso, ora in grado di ristabilire una dialettica cooperativa di livello orizzontale con i propri compagni di classe ed una dialettica verticale non astratta e separata con l’insegnante della classe stessa. In questo contesto di reciproco attaccamento l’opera formativa dell’insegnante non si riduce alla trasmissione dei contenuti scientifici della propria disciplina, ma si potenzia e si arricchisce della comune esperienza di ricerca, della progressiva chiarificazione e definizione dei termini della ricerca stessa, aprendo la mentalità del discente stesso verso quell’attitudine alla permanenza del movimento razionale ed immaginativo, che dovrebbe contraddistinguere l’ideale civile, sociale e

32 Cfr. Ibidem. Scrive Diego Fusaro: “Questa repressione è connessa alle restrizioni imposte dal dominio sociale e alla stratificazione della società secondo le prestazioni, ossia il lavoro fornito da vari individui all'apparato complessivo della società. I canali di produzione della repressione addizionale sono indicati da Marcuse nella struttura familiare patriarcale e monogamica, nella canalizzazione della sessualità in direzione della genitalità e soprattutto della divisione gerarchica del lavoro e nell'amministrazione collettiva dell'esistenza privata. In questa situazione la società tende a essere totalitaria, ossia a rendere impossibile ogni opposizione.”

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politico di un nuovo cittadino democratico planetario, ora resosi finalmente autonomo dalle prassi sovradeterminatrici espresse da ogni tipo di potere tradizionale (economico, sociale e politico).

I CONTRIBUTI DI W. REICH E G. DELEUZE

Ma per attuare la rivoluzione d’orizzonte precedentemente indicata e delineata, è

necessario mantenere vivo il motore di questa attiva processualità: è necessario mantenere vivo il desiderio e la sua intrinseca libertà. Come sottolineava Wilhelm Reich,33 solo la libertà del desiderio consente quella apertura di possibilità, che ha nell’infinito pratico il senso stesso della libertà nella sua propria realizzazione. È la liberazione del desiderio, infatti, che consente la rottura ed il rovesciamento di tutte le corazze imposte e sovrapposte dal processo di civilizzazione ideologica occidentale, per consentire la fuoriuscita progressiva dello spirito autentico della realtà, insieme naturale e razionale. Con il concetto energetico di orgone Wilhelm Reich offre quindi un senso ed un significato iniziale allo sviluppo delle proprie ricerche, capaci di coinvolgere gli strati apparentemente più disparati della conoscenza scientifica umana (astronomia, biologia, psicologia, ecologia e sociologia). Una conoscenza scientifica naturalmente essa stessa rivoluzionata dallo scoperchiamento e rovesciamento dei propri presupposti oggettivo-cosali di derivazione classica e moderna.34 In quest’ambito l’autore galiziano procede rapidamente ad una fondazione veramente rivoluzionaria del pensiero e dell’azione umana e naturale: l’energia a livello cosmico e biologico gli consente di presupporre un’energia equivalente a livello psicologico, capace appunto di rovesciare ed aprire in positivo le chiusure ed i blocchi fisico-psicologici (corazze), presenti all’interno dell’individuo per effetto della repressione culturale. Come una serie di successivi inviluppi negativi la serie progressiva dei traumi psicologici - dovuti all’addestramento attraverso sofferenze ripetute e prolungate o intense - riempiono lo spazio delle emozioni alienate (represse), indurendo ed irrigidendo le diverse stratificazioni organiche e funzionali corporali ed impedendo gli opportuni scambi energetici (tensione, scarica, distensione). Si crea così sì una zona di difesa anteriore (la funzione di scudo della corazza), ma a prezzo di un’oscura e caotica zona profonda di instabilità ed infelicità. L’individuo viene pertanto schiacciato fra una negatività esterna, che deve essere capace di padroneggiare ed una fonte negativa intima e nascosta, che deve rimanere inconscia. Un individuo normale, facilmente preda degli eccessi violenti della follia esplosiva,

33 Cfr. http://www.filosofico.net/wilhelmreich.htm, http://it.wikipedia.org/wiki/Wilhelm_Reich.

34 Cfr. Il documento video indicato nella Bibliografia e Sitografia, relativo alle applicazioni della fisica dei quanti e delle stringhe alla biologia. Cfr. http://www.arcoiris.tv/modules.php?name=Unique&id=5417. In questo lavoro cfr. il modello del doppio massimo e del doppio minimo.

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nell’universo-macchina delle società totalitarie (cfr. Psicologia di massa del fascismo, 1933).35

Gilles Deleuze36 - insieme a Felix Guattari37 - sembra quasi riprendere in un senso più filosofico e non rigidamente scientifico (con una critica esplicita alla posizione materiale e dialettica) le principali acquisizioni teoriche di Wilhelm Reich, quando sottolinea la funzione repressiva esercitata dalla stessa psicoanalisi tradizionale freudiana. Come per Herbert Marcuse o Wilhelm Reich, anche per Gilles Deleuze – e Felix Guattari – la prospettiva della generale liberazione rivoluzionaria dell’umanità doveva assolutamente sbarazzarsi dell’impostazione freudiana (Anti-Edipo, 1972; Mille piani, 1982), per poter mostrare un’opposta apertura immaginativa e razionale.38 Questa apertura (rizoma o piega)

35 Cfr. http://www.filosofico.net/wilhelmreich.htm. Scrive ancora Diego Fusaro: “La lettura dello scritto di Engels sull’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, la critica serrata condotta da Malinowski contro la pretesa universalità del complesso edipico, agevolano Reich nel consolidare questi suoi orientamenti. In linea generale, egli conclude che la funzione repressiva svolta dalla famiglia si inserisce in un ordinamento sociale come quello capitalistico, interessato a imporre alle classi subalterne non soltanto il dominio materiale ed economico della classe egemonica, ma anche la propria ideologia, quale puntello essenziale di quello stesso dominio. L’introiezione di massa dell’ideologia sessuofobica favorisce infatti la formazione di individui passivi, acritici, disposti ad essere piegati e sottomessi senza opporre resistenza: questo è quanto si può ricavare dalla teoria di Reich sul carattere, quale viene tratteggiata nell’opera Analisi del carattere, in cui Reich sostiene che ogni individuo possiede una sorta di natura caratteriale mediante la quale si difende dagli stimoli provenienti dal mondo esterno o dal proprio inconscio. Essa, indotta dalla struttura sociale in cui una persona si trova a vivere, ne limita più o meno gravemente la mobilità psichica: l’arduo compito della terapia analitica sarà allora quello di aprirvi dei varchi, onde liberarne le energie imprigionate dell’uomo. L’armatura caratteriale è formata da più strati, fungenti da linee di difesa inconsce nei confronti degli impulsi non tollerati dalla società, e che irrigidiscono entro modelli stereotipati la condotta della persona: uno superficiale, che rende disponibile l’individuo nei confronti del ruolo e della responsabilità che riveste nella vita sociale, un secondo sottostante, corrispondente al rimosso freudiano, costituito dagli impulsi aggressivi e perversi conseguenti all’azione repressiva della società. Nel profondo si nasconde il nucleo biologico costitutivo della natura originaria dell’uomo, soffocato dalle strutture sovrastanti.” 36 Cfr. http://www.filosofico.net/deleuze.htm, http://it.wikipedia.org/wiki/Deleuze. 37 Cfr. http://www.filosofico.net/guattari.htm, http://it.wikipedia.org/wiki/F%C3%A9lix_Guattari. 38 Cfr. http://www.filosofico.net/deleuze2.htm. In relazione alla piega del pensiero-del-fuori di M. Foucault e M. Blanchot, si può ribadire ed osservare criticamente che l’Altro è tale quando è creduto tale, per la pressione del sistema (che porta allo sdoppiamento). Se l’Altro è la derivazione ultima di un processo lontano – dal punto di vista della storia ideologica del sistema platonico-aristotelico occidentale – allora la restituita e ricostituita consapevolezza della sostituzione dell’originario con la divisione fra immagine e realtà ricompone il soggetto dal suo imposto sdoppiamento. E l’Altro come tale – l’Altro come divenire dell’alterità che è processo di alterazione (parricidio platonico di Parmenide) - scompare. Questa è, dunque, una possibile critica al pensiero di Deleuze, al suo intrappolamento entro le coordinate classiche dell’oggettivo-oggettuale, e quindi un possibile superamento della sua stessa posizione. La posizione di Deleuze sembra infatti ancora limitata dall’accettazione iniziale e fuorviante della negazione/alienazione platonica (poi riattualizzata nel contesto storico-ideologico della contemporaneità occidentale dall’impostazione hegeliana), per la quale il soggetto si scinde restando in se stesso sdoppiato, fra il soggetto naturale ed empirico ed il soggetto razionale ed intellettualmente artefice e produttivo. Questa divaricazione è all’origine della definizione hegeliana dello Spirito della Natura e costituisce l’architrave del rovesciamento nell’astratto della libera potenza del desiderio, che diviene parte scissa ed alienata della determinazione intellettuale (ragione astratta). È la scissione apparente in sé dell’Altro come determinante e dell’altro come fattore di organizzazione, regolazione e direzione a costituire quella relazione diadica, che trasforma ed altera il soggetto vivente inalienabile, naturale e razionale, in soggetto sottoposto alla relazione ed al confronto con l’altro, ora figura dello spaesamento nei confronti di un’oggettività determinante ormai solo tecnologica (Heidegger) od immagine della pericolosità sociale (Heidegger, Sartre). La contrapposizione resta, dunque, come del resto aveva avvertito lo stesso Deleuze, fra una presenza della modificazione eterna (divenire senza alienazione) ed una contemporaneità priva di qualunque fattore proiettivo, senza immaginazione e senza ragione, continuamente presa nel gioco dialettico negativo e reciprocamente distruttivo dell’affermazione della propria singola identità (schizofrenia collettiva). Se un errore deve essere attribuito alla posizione deleuzeiana è quello per il quale – molto probabilmente a causa del suo rigetto dell’impostazione materialistico-dialettica – la sua riflessione non ascende all’universale dell’infinito originario, per rimanere piegata in

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viene qualificata attraverso il concetto della differenza e del suo divenire, della stabile e naturale posizione di contrapposizione dell’individuo alle mosse ed alle sovradeterminazioni del potere sociale, economico e politico (l’Altro nella sua continua moltiplicazione e riduzione per somiglianza, nella sua terminalità ideale, dove il movimento di reciproca distinzione è subordinato ad una rappresentazione predeterminata).39 Insieme a Laing, Cooper e Basaglia, Deleuze e Guattari costituirono infatti quel movimento internazionale dell’antipsichiatria, tramite il quale cercarono di rovesciare sul mondo della norma e della normalità le cause e la genesi dei fattori da quello stesso mondo giudicati quali eziopatogeni delle forme di devianza e di anormalità (criminalità, follia). Accostandosi in questo lavoro alle posizioni di Michel Foucault, Deleuze e Guattari svilupparono il concetto di una potenza eternamente resistente, creativa e libera nella propria espressione e continua nella propria riproposizione storica: la potenza libera, liberatrice ed emancipatrice del desiderio. Essa continua a far ruotare e muovere – a far divenire in modo naturalmente polimorfo – la vita del soggetto umano, soggettuale e non soggettivo, facendolo penetrare e scontrare con tutte le reti di relazione precostituite dal potere, in senso lato potere amministrativo e di controllo (sociale, politico, economico). Nello scontro inevitabile fra la libertà del soggetto e la determinazione necessitante del sistema la risposta alla negazione totale di sé è la riaffermazione totale di sé della cosiddetta schizofrenia. Qui l’essere ed il pensiero vengono salvati nella totale fantasticheria. Un altro può però essere il modo –

una concretezza ed in un particolarismo che, nelle intenzioni del suo autore, vuole combattere l’astratto e sterile accademismo della scienza e della filosofia contemporanea, ma per questo manca di costruire per se stesso e per l’umanità intera armi molto più importanti ed essenziali – esiziali per la tradizione occidentale del potere – per la conservazione in vita dell’umano e del naturale su questo pianeta. Così la sconfitta finale e tragicamente personale di Deleuze rischia molto di essere stata determinata proprio dalla sua preferenza per la differenza, anziché per la dialettica. Così, ancora, il pensiero rischia la dogmaticità di un alterità separata (eterogeneità), inquestionabile ed insuperabile, totalmente scettica nella sua apparente complessità e quindi totalmente ininfluente, facile persino allo stesso irretimento accademico ed alla sua cooptazione all’interno del sistema. In questo modo, poi, lo stesso essere diviene eterogeneo all’apparente eterogeneo, con il rischio finale che è proprio quello di statuire la perdita di comprensione della vita in generale. Allora l’irrazionale del razionale rischia di fondersi con l’irrazionale dell’essere, per spiantare definitivamente ogni possibilità di ricomposizione ed accettare in tal modo – o addirittura imporre (magari dall’alto di una nuova cattedra accademica) – la necessaria divaricazione ed opposizione fra razionalità e vita. Tra l’altro entrambe estranee oramai alla coscienza del soggetto, affinché questi possa rimanere tranquillo di fronte al loro (ed al proprio) naufragio (od inutilità). L’infinito originario non ha invece territorio, né confini: non si assoggetta ad alcuna determinazione estrinseca o ad alcun governo, regolamento e direzione eterodeterminata. Non vede, né sopporta negazioni od alienazioni, perché vive proprio senza di esse. Al contrario la posizione di Deleuze rischia di reificare in modo assoluto l’Altro, che diventa fattore di un pensare e di un agire altrimenti, dotato della medesima separatezza goduta o criticata dal o al sapere accademico. Una contrarietà per partito preso poco razionale, perché scissa dal proprio reale ed autentico (rivoluzionario) fondamento. In questo modo il decretato attraversamento esperienziale e sperimentale del filosofo rischia semplicemente di tramutarsi nel camuffamento di un nuovo tragitto linearmente determinativo. Con l’esito finale di costruire un’oggettività critica posticcia ed abborracciata ed una nuova corporeità d’opera completamente bislacca e senza senso. Di qui, appunto, l’utilizzazione strumentale del non-senso, per ricondurre all’apertura astratta del non-essere platonico. Il non si costruisce allora uno spazio superiore piccolo e ridotto (la piega nella sua versione astratta), dal quale può ancora impartire le proprie lezioni esemplari, di esistenza e di vita, mentre il caso e la contingenza annullano qualsiasi parvenza ed emergenza razionale dalla e nella vita, con il rischio di presentare terapeuticamente situazioni problematiche come fattori di soluzione alle contraddizioni determinate presenti. 39 Cfr. http://www.filosofico.net/deleuze4.htm.

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cosciente, consapevole e razionale – per reagire alla sopraffazione operata dal sistema stesso: e Deleuze, insieme all’amico Guattari, impegna la propria attività teorica di smontaggio e rimontaggio creativo, filosofico, proprio nell’intento positivo e realistico di costruire un possibile edificio razionale, che valga come strumento di liberazione non-estrema e dolorosa (come forma estrema e dolorosa era la strategia scelta dallo schizofrenico). Da questo punto di acquisizione molteplici furono, quindi, gli apporti e le discipline investigate e rivoltate da Deleuze - arte, letteratura, filosofia, cinema, storia – apporti che la logica di questo lavoro non richiede di sintetizzare e riportare. Forse però un unico principio può essere desunto dall’insieme della sua opera e dalla pluriformità delle sue attività, un principio che può avere valenza proprio pedagogica.

La libertà della potenza del desiderio, la sua creatività spontanea e polimorfa, sempre plurale, così come ci è stata descritta dai lavori, sia di W. Reich che di G. Deleuze e F. Guattari, ci deve mettere all’erta circa il problema se la spinta ideale presente nel momento di forte pulsione adolescenziale per una forte identificazione di sé (attraverso l’etero e l’auto-riconoscimento), non rischi tramite una altrettanto forte determinazione del sistema economico, sociale e politico attuale – proprio nella sua forma di grande costrizione/pressione e nella sua finalità di elevato conformismo – di separare ed astrarre una personalità individuale tesa all’autoeliminazione e/o autoeradicazione della fonte della diversità da se stessa, dunque della propria stessa autonoma scelta di libertà. Se, dunque, la pulsione attuale del sistema per la ricodifica assoluta del tema della necessità di un’identità essa stessa assoluta non riesca fatalmente – ma in realtà scientemente – nella costruzione di un individuo attivamente ed autonomamente passivo, perfetto consumatore e produttore e perfetto suddito con volontà – con volontà negativa rivolta prima verso se stesso e poi verso gli altri - del nuovo villaggio (Impero) globale. Tutti i fenomeni di autoeliminazione della diversità da se stessi diventano quindi – come lo stesso W. Reich aveva lucidamente analizzato – fenomeni dell’eliminazione della diversità dagli altri, con l’inevitabile acquiescenza verso la spinta stigmatizzante ed oggettificante del sistema stesso verso la criminalizzazione etnica, sociale ed individuale. Non è allora difficile osservare come le forme di violenza scolastica (es. il bullismo) non siano altro che forme reattive facilitate dalla logica e dalla realtà del sistema, forme indirizzate verso le figure classiche del capro espiatorio e finalizzate alla conservazione reattiva dell’ordine del sistema stesso. L’insegnante si trova di fronte, quindi, proprio perché sollecitato dalla necessaria integrazione dei ragazzi provenienti da ambienti diversi e lontani, alla necessità ed alla possibilità di far valutare positivamente la differenza, come fattore di creatività dialettica e motore di sviluppo e crescita del senso di umanità e dignità reciproco. Di fronte a questo compito l’insegnante deve essere consapevole che la spinta del sistema occidentale gli è

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avversa ed è tale – anche per le influenze che riesce istituzionalmente a far penetrare all’interno della vita scolastica – da combattere in anticipo le proprie valorizzazioni democratiche, proprio in quanto e per quanto sobilli l’attenzione, la concentrazione e l’immedesimazione dei discenti verso la riproposizione necessaria di un orizzonte di necessitazione obiettivo, regolato e causato dal concetto tradizionale dell’Uno necessario e d’ordine. Per fare fronte, allora, alla riproposizione del principio di derivazione platonica dell’Identità assoluta, l’insegnante deve rivolgersi a quei pensatori che ultimamente hanno tematizzato la necessità e la possibilità di fuoriuscire dall’orizzonte prescrittivo di quella Identità, per riaprire al contrario l’orizzonte infinito dell’Uno infinito, infinitamente creativo e doppiamente dialettico (cfr. l’orizzonte del doppio massimo e la logica del doppio minimo).

PER UN NUOVO FONDAMENTO ED UN NUOVO ORIZZONTE.

I CONTRIBUTI DI C. CASTORIADIS E A. BADIOU Di fronte all’esplosività continua e generalizzata a livello psico-sociale causata dal

dissidio infinito fra necessità subordinante e possibilità apparentemente autonoma, deve essere ricercata quella soluzione che rovescia questa apparenza – che è apparenza di scissione – in una ricostituzione sostanziale. In questa ricostituzione l’identità universale ed infinita deve essere vista in senso proiettivo ed aperto, a generare ed elevare un orizzonte di possibilità che sostituisca l’orizzonte di potenza della tradizione d’alienazione occidentale. Secondo questo orizzonte di possibilità generale la libertà – e non la necessitazione - diventa fonte del movimento genetico ed esistenziale degli esseri esistenti, mentre la finalità pratica attraverso la quale questa libertà orienta se stessa alla propria realizzazione diviene l’ideale reale d’eguaglianza. L’ideale reale d’eguaglianza rende reale la libertà come libertà attraverso un’apparenza di duplice differenziazione: naturale e razionale. In questo modo l’ampia ed impregiudicata diversità dei fini naturali si unisce all’aperta ed impredeterminata scelta degli scopi razionali, che accomunano tutte le realtà esistenti (umane e non umane). La libertà umana può, infatti, e deve suscitare la libertà naturale, affinché questa proceda alla vera ed autentica rivoluzione delle forme di chiusura psico-sociale e politica costituitesi con la nascita della civilizzazione.

Scrive Francesca Esposito nella scheda su Cornelius Castoriadis,40 preparata per il sito La Filosofia e i suoi Eroi:41

40 Cfr. http://www.filosofico.net/ccastoriadis.htm, http://it.wikipedia.org/wiki/Castoriadis. 41 Cfr. http://www.filosofico.net/filos.html.

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“Il ritorno a sé sarà ciò a cui mirerà la psiche a partire dalla rottura del suo essere monade, sottraendosi ad una totale alterazione/deformazione ad opera della società e attraverso ciò che essa istituisce. Ciò, ancora una volta, pone l’accento sulla polarità non componibile, non di individuo e società, bensì di psiche e società. Unico contraltare dell’istituzione sociale è la psiche, in virtù della radicalità della sua immaginazione.”

Appare dunque evidente che la posizione del filosofo turco – almeno come era stata già in precedenza tratteggiata nella medesima pagina dalla stessa curatrice – punti sul valore centrale e determinante, irriducibile, di quella immaginazione radicale e collettiva, che certamente costituisce il lascito più famoso delle riflessioni in molteplici campi d’esperienza razionale effettuate da Cornelius Castoriadis (che fu psicoanalista, filosofo, linguista, economista). La tesi personale, proposta attraverso la serie argomentata di questi capitoli, utilizza la bontà di alcune delle analisi e delle indicazioni realizzate e prospettate dal filosofo greco, cercando nel contempo di rigorizzarne la critica storico-ideologica, per mostrare una possibile traccia di evoluzione – o se si vuole di involuzione progressiva - nella storia della civiltà occidentale, a partire dalla cancellazione/sostituzione operata dalla concezione della finitezza determinata nei confronti della concezione dell’infinito originario, inalienabile, creativo e nel contempo dialettico. La consapevolezza storica di questa avvenuta cancellazione/sostituzione – e delle storicamente reiterate reazioni rivoluzionarie di riacquisizione e ricomposizione alle quali ha dato motivazione – diventa quindi un criterio per la sottoposizione a liberazione critica dei limiti e delle energie depositate all’interno della posizione speculativa – di pensiero e d’azione – del filosofo turco. Diventa soprattutto un monito ulteriore alla prosecuzione ed all’incremento della necessaria autocritica della posizione ideologica occidentale, così come prospettata del resto da un grande estimatore della riflessione di Castoriadis: Edgar Morin.42 Un monito critico con fortissime valenze psico-sociologiche e nello stesso tempo pedagogiche, con effetti particolari proprio su quel momento fortemente autoformativo che è l’adolescenza.

Scrive Francesca Esposito, all’inizio della scheda citata: “Il lavoro critico di Castoriadis ha assunto il significato di una ricerca mai paga, mai definitiva di un

pensiero rivoluzionario, di un pensiero altro da quello ereditato, tradizionale, sia nell’ambito della teoria politica che in quello della teoria filosofica, di un pensiero rivolto al progetto di autonomia individuale e collettiva.

Nel proponimento di delucidare i limiti e le aporie di quella che egli ha definito la logica-ontologia ereditata, con cui ha inteso l’intero quadro del pensiero filosofico ereditato, Castoriadis ha sviluppato la categoria di psiche e ha operato, tra il 1965 e il 1968, la rielaborazione della psicoanalisi. Frutto maturo di questo percorso è l’opera intitolata L’istituzione immaginaria della società (1975).”

L’evoluzione del lavoro culturale di Castoriadis viene così brevemente descritta:

42 Cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Edgar_Morin.

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“Gli anni che precedettero la stesura de L’istituzione immaginaria della società, furono per Castoriadis molto fervidi. In una prima fase egli è stato impegnato nella elaborazione del concetto di sociale-storico, contenuta nella prima parte de L’istituzione immaginaria della società, intitolata "Marxismo e teoria rivoluzionaria" (1964-1965); tale elaborazione ha avuto luogo attraverso un’attenta rilettura critica dell’economia e della teoria marxiste. In una seconda fase egli ha compiuto prima, tra il 1968 e il 1971, un’ampia riflessione sul linguaggio, e poi, tra il 1971 e il 1974, un vasto ripensamento della filosofia tradizionale.”

La scoperta della trasformazione effettuata dalla sostituzione/cancellazione realizzata grazie alla diade determinante e determinata immagine/realtà viene così codificata nella propria derivazione ed evoluzione storica:

“L’influenza che la società greco-occidentale ha esercitato sugli schemi cognitivi dell’umanità ha fatto sì

che venisse disconosciuto, innanzitutto, il ruolo primario che rivestono l’immaginario, nella società, e l’immaginazione, nella psiche individuale. Infatti ciascuno di essi è stato ridotto a mera immagine speculare del reale.”

Di un reale astratto e separato, isolato e prioritario, trasfigurazione del luogo politico per eccellenza nella codificazione platonica, poco intaccata del resto dalla successiva posizione aristotelica, che in realtà porta a compimento la volontà di potenza – direbbe F. Nietzsche – implicita nella posizione platonica, predisponendo il primato dell’essere in atto e della sua finalità reale sull’essere in potenza. E Castoriadis riconosce la necessità di rirovesciare il rovesciamento iniziale, stabilito dalla speculazione della coppia Platone-Aristotele, portando in primo piano l’atto della potenza creativa dell’immaginazione vitale e razionale:

“In verità, come scrive Castoriadis, <<l’immaginario di cui parlo non è immagine di. È creazione incessante ed essenzialmente indeterminata

(sociale-storica e psichica) di figure/forme/immagini, a partire da cui soltanto si può parlare di "qualche cosa".>> [Prefazione all’edizione originale ne L’istituzione immaginaria della società, Bollati Boringhieri, Torino 1995, Traduzione di Fabio Ciaramelli e Fabrizio Nicolini, Introduzione di Pietro Barcellona, pp. XXXVII-XXXVIII.]

Elaborare la nozione di immaginario radicale, significa, per Castoriadis, riconoscere come fondamento ultimo di individuo e società la "creatività", intesa come capacità di creare forme e figure che non esistevano precedentemente e riconoscere, altresì, nelle istituzioni sociali e in tutti i prodotti del soggetto psichico come dell’individuo sociale, delle creazioni immaginarie.

La nozione di immaginario radicale ritorna in tutta la riflessione filosofica di Castoriadis come un’idea quasi ossessiva, funzionale alla necessità di sottrarla al disconoscimento/occultamento che di essa ha operato la filosofia occidentale nell’affrontare le tematiche che vertono sulla società, sul mutamento o divenire storico, sul linguaggio, sulla psiche, inconscia e conscia.”

Contro il paradigma funzionalista Castoriadis sovverte l’economico responsabile della scissione/sostituzione/cancellazione iniziali e così ristabilisce l’immaginario vitale e razionale originario. La struttura dell’economico viene così svelata – contro le spiegazioni del paradigma strutturalista - per la sua reale caratterizzazione di sovrastruttura originale della civiltà ideologica occidentale. L’apertura ideale e creativa che il filosofo turco

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contribuisce in tal modo a riaprire consente che le spinte e le direzioni rivoluzionarie – nel rinnovamento culturale e nell’azione politico-sociale - mantengano sempre quale proprio motore e propria finalità l’orizzonte infinito della libertà, rovesciando in tal modo la stessa visione progressivo-necessitarista di derivazione socialdemocratica. La differenza rivoluzionaria dell’originario viene riscoperta e reindicata, all’azione politica ed anche a quella pedagogica.

Contro l’orizzonte simbolico, che coopta necessariamente il significato all’interno di una rete precostituita di significanti preorganizzati, la stessa posizione espressivo-linguistica adottata da Castoriadis riapre il terreno molteplice delle differenze e delle divaricazioni. La formalizzazione iniziale e generale dei bisogni primari dell’umanità – il primo strato naturale-culturale – rischia però di mostrare – con la sua applicazione combinata dei principi di identità e di non-contraddizione – l’originario appunto come fine da perseguire, anziché come causa originaria con la quale immedesimarsi e prevalere. L’accettazione della logica scientifica tradizionale comporta, insomma, per la posizione espressa da Castoriadis un brutto ed inavvertito primo sdoppiamento, nei suoi stessi tempi riparabile, non appena ci si fosse rivolti alla ricerca di nuove logiche antiaristoteliche, allora in rapida formazione e formalizzazione.43 La costituzione di senso, razionale e/o reale, portata dalla società istituente, rischia così di rimanere intrappolata nella riduzione e nella separazione ideologica imposta dalla tradizione platonico-aristotelica, assumendo per la propria variabilità creativa una modesta funzione non certamente rivoluzionaria, quanto piuttosto accomodante e mediativa. Una variabilità limitata, insomma, fortemente condizionata proprio dalla forma e dalla finalità di quel primo strato naturale-culturale. Per questo diventa sommamente importante la ricerca verso nuove logiche, che consentano l’espressione della potenza rivoluzionaria dell’originario.44 Nel modo stabilito da Castoriadis invece si rischia di far valere un orizzonte sociale ancora astratto, legato ancora alle modificazioni storiche progressive, che l’evoluzione della civiltà occidentale ha contribuito a far nascere e sviluppare. Insomma si rischia che la necessità ideologica, negata razionalmente, si ripresenti sul piano storico. Mentre il sapere incondizionato rischia, a propria volta, di ritrasformarsi e capovolgersi in un sapere condizionato (storico-sociale). In questo modo il movimento rivoluzionario si trasforma e capovolge esso stesso nel rivolgimento continuo operato dal progetto di stabilizzazione della civiltà occidentale, che rivede in continuazione nella propria storia evolutiva i risultati dei propri raggiungimenti e li ricalibra secondo finalità che rispondano, riadeguate, alle nuove necessità storiche, esse stesse proiettate in modo stabilmente ideologico. Si svela, allora, per lo meno, il mistero per il quale tanti

43 Cfr. le logiche della cosiddetta paraconsistenza e la loro storia, in: http://alemore.club.fr/ZXHome.html. 44 Cfr. ibidem.

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esponenti del trotzkismo internazionale abbiano poi aderito a posizione radicali di destra (cfr. gli sbandamenti e le vere e proprie oscillazioni di Baudrillard o le conversioni dei neo-con statunitensi, un tempo su posizioni radicali di sinistra).45 Diventa inevitabile, quindi, che la soluzione rivoluzionaria prospettata da Castoriadis possa essere accusata di essere un progetto ingenuo e dalla forte fiducia istituzionale, e quindi difficilmente attuabile (se non altro per l’inerzia autoreferenziale del potere stesso):

“A che possa realizzarsi il progetto rivoluzionario – che altro non è se non il progetto di autonomia

individuale e collettiva – è necessario, sul piano individuale, che si realizzi l’avvento del "soggetto" umano, inteso come istanza riflessiva e deliberante, mentre sul piano della collettività, che si realizzi una fondamentale auto-alterazione dell’istituzione tale da permettere la sua messa in discussione da parte degli individui che vi appartengono e che entrambe si realizzino simultaneamente.”

Se prevale sempre, infatti, la società istituita, nella sua opera di determinazione del soggetto, allora il soggetto stesso non recupererà mai la propria potenza di libertà ed autonomia, ma resterà invece sempre soggiogato dalle direttive e dalle convenzioni stabilite indipendentemente dalla sua volontà e dal suo desiderio. Il soggetto non si libererà affatto: tutt’al più si adeguerà alle riforme proposte dal sistema, senza però perdere tutte le forme di richiesta sociale motivate dal bisogno, dalla necessità o dal puro e semplice desiderio (forme indotte socialmente). È questo il caso attuale, dove forme di richiesta sociale indotte implicitamente dalle strutture dominanti – ora economico-culturali – si fanno strada dalle famiglie sino agli allievi nelle diverse istituzioni scolastiche, ma con una scarsa forma di pensiero critico e consapevole.

Se il linguaggio recupera al soggetto la potenza creativa, questa si eleva come abilità istituente vitale, quando la finalità espressiva e pratica tengono insieme un luogo distaccato, privilegiato, dal quale può procedere lo sviluppo della società stessa. In questo la posizione assunta da Castoriadis si accosta a quella dei linguisti pragmatici, quando distingue fra la potenza raggiunta dalla differenziazione organizzata dal capitale razionale e l’atto di indicazione intuitivo/intellettuale. Nella propria insiemistica socio-individuale Castoriadis depone tutta la possibile strumentazione dell’ingegno umano, resa viva dalla persistenza di un’apertura superiore di indeterminatezza ed illimitatezza (magma) funzionale alla conservazione della capacità e della potenza libera della creatività umana. L’Essere espresso e posto in relazione è, quindi, l’Essere della tradizione greco-occidentale (platonico-aristotelica), oggetto del pensiero/linguaggio determinativo. Non già, quindi, l’Essere/Pensiero della posizione arcaica e strettamente immanente, pronunciata secondo un orizzonte completamente diverso dalla riflessione di Parmenide. In questo modo la civiltà

45 Una critica alla posizione finale espressa da J. Baudrillard è presente nella Tesi di Pedagogia Generale.

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occidentale ha – secondo Castoriadis - creato un linguaggio, che non sa dire la dialettica creativa, orizzontale e verticale.46 È questo nuovo dire, allora, che deve – come avrebbe sostenuto lo stesso F. Nietzsche – essere creato. L’orizzonte della libertà infinita ricompare nella sua apertura.

Non più oggetto chiuso, ma magma aperto, l’Essere/Pensiero/Linguaggio è movimento stabilmente infinito. Giordano Bruno avrebbe detto: è moto metafisico, consentito dall’infinito privativo (dialettico) e da quello perfettivo (finale).47 Castoriadis non si accorge, però, che l’ordine simbolico cancella la possibilità sempre presente di essere dentro l’Essere stesso, senza avere la necessità di conformarlo. E che il simbolo sostituisce l’indeterminatezza dell’Uno infinito con la determinatezza, quale criterio ordinante e di disposizione (a costituire l’orizzonte e lo schema della finitezza).

È, così, alla critica dell’orizzonte e dello schema della finitezza – l’io come ragione cosciente e volontà libera – che Castoriadis accompagna la critica dell’impostazione psicanalitica tradizionale (freudiana), per permettere che l’indeterminato della libertà sostituisca la determinatezza della tradizione ideologica occidentale. Per consentire che la soggettualità sostituisca la soggettività. Riflessività e deliberazione diventano, allora, gli obiettivi di un capovolgimento della tradizionale eteronomia umana, un progetto per la conquista dell’autonomia. Non è difficile allora traguardare questo scopo e depositarlo nell’attività scolastica dedicata agli adolescenti, in particolar modo utilizzando proprio le abilità e la capacità formativa della disciplina filosofica, che dovrebbe pertanto essere estesa - quale disciplina portante – in ogni diverso indirizzo della scuola superiore.

In questo modo – come la relazione analista-paziente – anche la relazione insegnante-discente si trasforma, disponendosi su di un piano paritario, dove l’uno trae dall’altro la potenza per la successione della ricerca, in un circolo dove le reciproche libertà favoriscono lo scambio e la reciproca integrazione (emotiva e razionale). Come sosteneva il Socrate platonico: non vorresti discutere di filosofia, per diventare amici? Come la monade psichica, che può sì essere premuta da una necessità esterna o da un bisogno interno e profondo, non abbandona mai il radicamento nella propria potenza creativa, così il soggetto adolescente non abbandona, non separa (scinde), la propria potenza di intendere e volere, ma conserva intelligenza e volontà per se stesso, per la propria immaginazione e razionalizzazione del mondo e delle sue relazioni. Senza la necessità di estrinsecare la propria potenza, per allocarla in toto nella rete di significazioni sociali voluta – ed imposta - dalla società

46 Qui è notevole il parallelo, anche terminologico, che può essere stabilito fra la struttura verticale di C. Castoriadis (Caos, Abisso, Senza-Fondo) e quella quasi omonima del pensiero di Giordano Bruno, nella Lampas triginta statuarum (1587): Caos, Orco e Notte, affiancati come parti oscure alle parti teologiche luminose del Figlio, dello Spirito e del Padre. 47 Giordano Bruno, De gl’Eroici furori, 1585.

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istituita, l’adolescente mantiene sempre la libertà di porre la propria rete di significazioni, in interrelazione con i propri coetanei e con l’ambiente sociale che vive ed attraversa. Dolore e sofferenza – con tutte le successive conseguenze della reazione di abbandono o di violenza (eventualmente ripetute e confermate) - nascono solamente dove si pretenda una totale allocazione.

Contro il residuo dell’Altro e la confusione che ingenera nello stesso Castoriadis fra piano dell’intervento modificativo della società e radice irrappresentabile della psiche – forse un residuo tradizionale nella scuola filosofica francese – Alain Badiou48 spinge al limite il pensiero complesso e critico: il pensiero come Eros diviene l’infinito creativo e dialettico che rovescia la reductio ad unum del molteplice. Qui materialismo dialettico, logica dell’apparire dei fenomeni (matematicamente strutturata) e inserzione dell’apertura radicale delle differenze compongono un quadro molto simile a quello già personalmente delineato grazie al modello dell’orizzonte del doppio massimo e dalla logica del doppio minimo, con tutte le conseguenze psico-sociologico e pedagogiche già evidenziate (anche a riguardo del periodo adolescenziale).

48 Cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Alain_Badiou, http://en.wikipedia.org/wiki/Alain_Badiou. Alain Badiou, Oltre l’Uno ed il molteplice, 2007.

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SSTTOORRIIAA DDEELLLLAA GGLLOOBBAALLIIZZZZAAZZIIOONNEE.. Apoteosi e crisi

dell'occidentalizzazione del mondo

Serge Latouche Università di Parigi XI

Modena, 8 settembre 2005

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MODENA 2005

Storia della globalizzazione. Apoteosi e crisi dell'occidentalizzazione del mondo

da Serge Latouche, Università di Parigi XI

La caduta del muro di Berlino nel 1989 sembrava annunciare la fine della

menzogna e delle illusioni totalitarie. Per alcuni anni il mondo occidentale si è messo a sognare la pace perpetua che avrebbe portato di colpo alla estinzione rapida su tutto il pianeta dell'economia di mercato, dei diritti dell' uomo, delle tecnoscienze e della democrazia.

Questo sarebbe l'apoteosi dell'occidentalizzazione del mondo. Oggi, 16 anni dopo, chiaramente l'incubo é seguito al sogno. Già nel mio libro,

l'Occidentalizzazione del mondo, uscito in Francia anche in 1989, mettevo in guardia contro l'ascesa di un terrorismo che disponeva di strumenti tecnologici sempre più sofisticati, votato a un bel futuro a causa dell'aumento delle disuguaglianze fra Nord e Sud e della crescita delle frustrazioni e dei risentimenti. Ora l'occidentalizzazione è diventata la mondializzazione/globalizzazione e le mie previsioni più sinistre si sono purtroppo realizzate. Ci troviamo di fronte a una grande crisi.

Tuttavia, non si disinnescherà la bomba che minaccia di farci saltare, e non si toglierà la sete di rivincita agli emarginati, mettendo la testa sotto la sabbia come fanno gli struzzi o accontentandosi di belle parole sul preteso avvento di una società multietnica e multiculturale a livello planetario. Senza dubbio, è meglio prendere la misura dell'ingiustizia globale e del fallimento del nostro universalismo "tribale" per affrontare lucidamente il pericolo della globalizzazione.

I Apoteosi dell'occidentalizzazione. Che cos'è la globalizzazione? Più che di mondializzazione dei mercati in questa

impresa si tratta di "mercatizzazione/mercificazione" del mondo, ed è proprio questo che è nuovo e pericoloso.

Sin dall’origine, il funzionamento del mercato è sovranazionale se non addirittura mondiale. II trionfo recente del mercato non è altro che il trionfo del tout marché (tutto è mercato). Si tratta dell’ultima metamorfosi di una lunghissima storia mondiale.

Si può considerare che la prima mondializzazione, per non risalire alle crociate o al impero di Alessandro, porta la data della conquista dell’America (1492), quando l’Occidente prese coscienza della rotondità della terra per scoprirla e imporre le proprie conquiste. Quando, secondo la formula di Paul Valery, “comincia il tempo del mondo finito”. Questa prima mondializzazione è stata forse più determinante delle successive. Con la conquista europea delle Americhe, sono stati accelerati gli scambi di piante, di animali, ma anche di malattie. Per l'Africa quella ha significato la tratta dei negri...

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Una seconda mondializzazione risalirebbe alla Conferenza di Berlino e alla spartizione dell’Africa fra il 1885 ed il 1887. Per l'Africa, quella ha significato la colonizzazione totale. Per alcuni studiosi (Baldwin e Martin, Berger, Williamson, per esempio), quella sarebbe la prima nel senso che si trovino quasi tutte le caratteristiche dell'attuale globalizzazione : l'era del imperialismo.

Una terza sarebbe cominciata con la decolonizzazione e l’era degli “sviluppi”. Per l'Africa, quella ha significato la creazione di stati mimetici e "nazionalitari" (Kourouma "En attendant le vote des bêtes sauvages"), una deculturazione senza precedente, elefanti bianchi e inquinamento.

L'attuale sarebbe la quarta. É l'era del libero scambio integrale e dell'integralismo del liberismo.

La cosi detta "globalizzazione" è un processo al medesimo tempo économico e culturale.

A - la mondializzazione tecno-economica, vale a dire quella dei processi compresi di solito sotto questa espressione (l'emergere dominante delle imprese transnazionali, la sconfitta della politica e la minaccia di una tecnoscienza incontrollata), ci mostra quello che lo sviluppo è stato e che non abbiamo mai voluto vedere. É lo stadio ultimo dello imperialismo dell'economia. Ricordiamo la cinica formula di Henry Kissinger : “La mondializzazione non è che il nuovo nome della politica egemonica americana”. Cause e conseguenze della mondializzazione dei mercati, le multinazionali si presentano come i "nuovi signori del mondo". Il potere finanziario dà loro i mezzi per comprare e mettere al proprio servizio gli Stati, i partiti, le Chiese, i sindacati, le Ong, i mass-media, gli eserciti, le mafie, eccetera.

Ma allora qual era il vecchio nome? Era semplicemente lo sviluppo economico lanciato da Harry Truman nel 1949 per permettere agli Stati Uniti d'impadronirsi dei mercati degli ex-imperi coloniali europei ed evitare ai nuovi stati indipendenti di cadere nell'orbita sovietica. E prima cos'era l'impresa sviluppista? Il più vecchio nome dell'occidentalizzazione del mondo era semplicemente la colonizzazione e il vecchio imperialismo. Se lo sviluppo, infatti, non è stato che il proseguimento della colonizzazione con altri mezzi, la nuova mondializzazione non è che il proseguimento dello sviluppo con altri mezzi.

Così la mondializzazione, sotto l’apparenza di una constatazione neutra del fenomeno, è anche, invece, uno slogan che incita e orienta ad agire in vista di una trasformazione considerata come auspicabile per tutti. II termine, che non è affatto “innocente”, lascia anzi intendere che ci si trova di fronte ad un processo anonimo e universale benefico per l’umanità : l'occidentalizzazione del mondo.

B - Mondializzazione e americanizzazione sono dei fenomeni intimamente legati ad un processo più vecchio e complesso : l'occidentalizzazione.

Oggi l'Occidente è una nozione molto più ideologica che geografica. Nella geopolitica contemporanea, il mondo occidentale designa un triangolo che chiude l'emisfero nord del pianeta con l'Europa occidentale, il Giappone e l'America del Nord. La Trilaterale simboleggia bene questo spazio difensivo e offensivo. Il G7/G8, questo vertice periodico dei rappresentanti dei sette/otto paesi più ricchi e più sviluppati (Stati Uniti, Inghilterra, Francia, Germania, Italia, Giappone, Canada e Russia) tiene luogo di esecutivo provvisorio dell'insieme.

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Tuttavia, la tesi della riduzione dell'Occidente a un'autoaffermazione dell'economia non è totalmente soddisfacente. É soltanto al termine di una lunga Odissea che l'ideologia e la cultura occidentali generarono l'economicizzazione della vita. É vero che questo processo si è spinto al massimo negli Stati Uniti, terra nuova dove il peso della storia era quasi inesistente. L’occidentalizzazione del mondo è oggi più un’americanizzazione che una europeizzazione. L’uniformizzazione planetaria si realizza sotto il segno dell’american way of life. La maggior parte dei simboli esteriori della “cittadinanza” mondiale sono made in USA. Gli Stati Uniti sono ormai l’unica superpotenza mondiale. La sua egemonia politica, militare, culturale, finanziaria e anche economica è incontestabile. Le principali imprese transnazionali sono nordamericane. Esse detengono la supremazia sulle nuove tecnologie e sui servizi avanzati. Il mondo è una grande fabbrica, ma il comando resta americano. Molto più della vecchia Europa, l’America incarna la realizzazione quasi integrale del progetto della modernità. Società giovane, artificiale e senza radici, essa si è realizzata con la fusione degli apporti più differenti. L’organizzazione razionale, funzionale e utilitarista che ha presieduto alla sua costituzione è veramente universalista e fonda il suo unilateralismo. Se la cosa è diventata palese con G. W. Bush, il progetto imperiale è molto più vecchio. In uno saggio al titolo rivelatore, "In Praise of Cultural Imperialism?" pubblicato nella rivista Foreign policy, David Rothkopf, vecchio responsabile dell'amministrazione Clinton, scrive : "Per gli Stati Uniti, l'obiettivo centrale di una politica estera dell'età dell'informazione deve essere vincere la battaglia dei flussi dell'informazione mondiale, dominante le onde, cosi come l'Inghilterra dominava in passato sui mari". Aggiunge: "L'interesse economico e politico degli Stati Uniti è assicurarsi che, se il mondo adotta una lingua comune sia l'inglese, che se ci si orienta verso norme comuni in materia di telecomunicazioni, di sicurezza e di qualità, tali norme siano americane. Che se le differenti parti del mondo sono collegate dalla televisione, dalla radio e dalla musica, i programmi siano americani e che se si elaborano dei valori comuni siano dei valori nei quali gli americani si riconoscono". E chiaro per lui che ciò che è buono per gli Stati Uniti è buono per il mondo. "Gli americani, conclude, non devono negare il fatto che, di tutti i popoli nella storia del mondo, è il loro che è il più giusto, il più tollerante, il più desideroso di rimettersi in questione e di migliorarsi in permanenza, ed è il modello migliore per l'avvenire".

Ma questo trionfo del imperialismo culturale del impero sarebbe anche colui del multiculturalismo di cui il melting pot americano offre precisamente l'esempio.

Per i turiferari della "mondializzazione felice", il trionfo su scala planetaria dell' economia di mercato e del pensiero unico, lungi dallo "stritolare le culture nazionali e regionali", comporterebbe un'impareggiabile "offerta" di diversità, corrispondente a una crescente domanda di esotismo. La società globale si realizzerebbe conservando i valori fondamentali della modernità : i diritti dell'uomo e la democrazia. In effetti, nelle grandi metropoli il libero cittadino può apprezzare tutte le cucine del mondo nei ristoranti etnici ; ascoltare musiche molto diverse (folk, afro-cubana, afro-americana...) ; partecipare alle cerimonie religiose di svariati culti ; incrociare persone di tutti i colori con abbigliamenti talvolta caratteristici. Questa "nuova" diversità culturale mondializzata si arricchisce ulteriormente delle commistioni e

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degli incroci incessanti provocati dalla mescolanza delle differenze. Da ciò consegue l'apparizione di nuovi prodotti, e tutto ciò in quel clima di grande tolleranza che, in linea di principio, sarebbe autorizzato da uno Stato di diritto laico. "L'offerta culturale - proclamava Jean-Marie Messier, il bulimico rappresentante francese delle transnazionali del multimediale (Vivaldi-Universal) - non è mai stata così ampia e diversificata. (...) Per le generazioni future, la prospettiva non sarà la superproduzione americana, e nemmeno l'eccezione culturale alla francese, bensì la differenza delle culture, accettata e rispettata"49. Curiosamente, questa posizione si riallaccia a quella di certi antropologi, come Franco La Cecla (Il malinteso) e più ancora Jean-Loup Amselle, secondo cui, "piuttosto che denunciare il predominio americano ed esigere quote che garantiscano l'eccezione culturale, è meglio comprendere che la cultura americana è diventata un operatore di universalizzazione in cui le nostre specificità possono riformularsi senza essere perdute. Il vero pericolo non è l'uniformazione: se esiste un effetto inquietante nell'attuale mondializzazione, esso va individuato nel ripiegamento e nella balcanizzazione delle identità"50. Così, dall'inconfutabile constatazione che le culture non sono mai "pure, isolate e chiuse" ma vivono, al contrario, di scambi e di apporti continui ; che peraltro un'americanizzazione totale è destinata all'insuccesso; che anche in un mondo anglicizzato e "mcdonaldizzato" le diversità di linguaggio e di alimentazione si ricostituirebbero, ne deduce, a nostro avviso affrettatamente, che il timore dell'uniformizzazione planetaria è infondata. L'invenzione di nuove sotto-culture locali e l'emergere di "tribù" nelle nostre periferie eliminerebbero gli effetti dell'imperialismo culturale. Questa posizione di fronte a una situazione nuova si ritrova parzialmente anche nei libri recenti di alcuni amici51.

II La crisi Come il capitale al quale è intimamente legata, la mondializzazione è in realtà un

rapporto sociale di dominio e di sfruttamento nella scala planetaria. Dietro l’anonimato del processo, si è trascinati in una impresa, auspicata da certe persone, per i loro interessi, impresa che presenta rischi enormi e pericoli considerevoli per tutti, particolarmente per i popoli del Sud del mondo. La mondializzazione non è positiva per tutto il mondo. Ci sono dei beneficiari e delle vittime, i padroni e gli schiavi.

La crisi della società globalizzata si manifesta in modo indissociabile sui piani economico-sociale e politico-culturale.

A - Con la deregulation in tutti i paesi del mondo, con lo smantellamento delle regolamentazioni nazionali, non vi è più alcun limite alla riduzione dei costi e al circolo vizioso suicida. É un vero e proprio gioco al massacro tra individui e tra popoli, a spese della natura. Gli effetti perversi del libero scambio sono soprattutto 49Jean-Marie Messier, président-directeur général de Vivendi Universal, "Vivre la diversité culturelle" Le Monde du 10/04/2001. 50Telle est du moins la lecture réductrice de Nicole Lapierre, "L'illusion des cultures pures" compte rendu de l'ouvrage de Jean-Loup Amselle "Branchements. Anthropologie de l'universalité des cultures" (Flammarion, 2001), Le Monde du 4 mai 2001. 51Penso a "Eccessi di culture" di Marco Aime (Giulio Einaudi editore, Torino 2004) e a Henri Panhuys, "La fin de l'occidentalisation du monde", non a caso sottotitolato : "De l'unique au multiple", L'Harmattan, Paris, 2004.

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sensibili nei paesi del Sud. I paesi meno avanzati (P.M.A.: Pays pas moyen avancer comme on dit au Bénin...) hanno tutto da perdere all'apertura senza precauzione dei loro mercati. Ne risultano disuguaglianze e ingiustizie insopportabile. Se esiste un impero, si tratta del impero del "caos" (Ramonet, Joxe).

Le ingiustizie più evidenti sono le ingiustizie sociali e le ingiustizie ecologiche 1) Ingiustizie sociali Le disuguaglianze crescenti tanto tra il Nord e il Sud, quanto all’interno di ciascun

paese sono sintomi dell'ingiustizia globale. La polarizzazione della ricchezza tra le regioni e tra gli individui raggiunge infatti livelli insoliti. Secondo l’ultimo rapporto del PNUD, se la ricchezza del pianeta si è moltiplicata di sei volte dopo il 1950, il reddito medio degli abitanti di 100 dei 174 paesi censiti è in piena regressione e anche l’aspettativa di vita. Le tre persone più ricche del mondo hanno una fortuna superiore al PIB totale dei 48 paesi più poveri! Il patrimonio dei 15 individui più fortunati supera il PIB di tutta l’Africa subsahariana. Infine, i beni delle 84 persone più ricche supera il PIB della Cina con il suo 1miliardo e 200 milioni di abitanti!

2) Ingiustizie ecologiche La nostra sovracrescita economica supera già largamente la capacità di carico della

terra. Se tutti gli abitanti del mondo consumassero come l’americano medio, i limiti fisici del pianeta sarebbero largamente superati14. Se si prende come indice del “peso” ambientale del nostro stile di vita “l’impronta” ecologica di questo sulla superficie terrestre necessaria, si ottengono risultati insostenibili sia dal punto di vista dell’equità rispetto ai diritti di prelievo sulla natura, sia da quello della capacità di rigenerazione della biosfera. Se si considerano i bisogni di materiali e di energia necessari per assorbire i rifiuti e gli scarti della produzione e dei consumi, e a ciò si aggiunge l’impatto ambientale e delle infrastrutture necessarie, i ricercatori che lavorano per il World Wide Fund (WWF) hanno calcolato che lo spazio bioproduttivo dell’umanità è di 1,8 ettari a testa, mentre un cittadino degli Stati Uniti consuma in media 9,6 ettari, un canadese 7,2, un europeo medio 4,5. Siamo dunque molto lontani dall’uguaglianza planetaria è più ancora da uno stile di civilizzazione sostenibile che dovrebbe limitarsi a 1,4 ettari, ammesso che la popolazione attuale resti stabile15. Queste cifre si possono discutere, ma esse sono sfortunatamente confermate da un numero considerevole di indici (che d’altra parte sono serviti a stabilirle).

Queste disuguaglianze e ingiustizie globali sono il terreno più favorevole allo sviluppo del terrorismo.

B Non si deve nascondersi il fallimento completo della globalizzazione culturale e

del progetto universalistico occidentale. Dopo cinquant'anni di occidentalizzazione economica e culturale del mondo, è ingenuo e in malafede recriminare sui suoi effetti perversi. Dovunque nel mondo si massacra allegramente e gli stati si disfano in nome della purezza della razza o della religione.

14 Si troverà una bibliografia esaustiva dei rapporti e dei libri... sul tema dopo il famoso rapporto del Club di Roma, in Andrea Masullo Il pianeta di tutti - Vivere nei limiti perché la terra abbia un futuro - Bologna 1998. 15Gianfranco Bologna - Italia capace di futuro, Bologna 2001, pp. 86-88.

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Ci sono tutte le ragioni per pensare che questo effetto di ritorno dell'etnocentrismo dal Sud e dall'Est é in fondo rigorosamente proporzionale alla segreta violenza implicita nella imposizione della norma universalista occidentale. Come se, dietro l'apparente neutralità del mercato, delle immagini e del formalismo giuridico, numerosi popoli percepissero di riflesso un etnocentrismo paradossale, un etnocentrismo universalista, l'etnocentrismo del Nord e del Ovest, tanto più devastante in quanto consiste in una negazione ufficiale radicale di ogni pertinenza delle differenze culturali. E che non vede nella cultura se non il segno di un passato da abolire definitivamente.

"Basta dare un'occhiata sulla stampa quotidiana occidentale per rendersi conto dell'etnocentrismo feroce dell' 90% di tutte le notizie, non solo attraverso i servizi giornalistici ma anche negli articoli di fondo52."

Ci si è cosi chiusi in un manicheismo sospetto e pericoloso: etnicismo o etnocentrismo, terrorismo identitario o universalismo cannibale.

Questo dibattito sull'etnocentrismo è tanto più attuale quanto più i problemi di diritto da dirimere fanno irruzione nella nostra quotidianità, dal "chador" o velo islamico all'escissione, dal montare del razzismo alla ghettizzazione delle periferie.

Regoliamo le orologi. «La mondializzazione, come osserva la Vandana Shiva - non comporta la fecondazione incrociata delle diverse civiltà. É l'imposizione agli altri di una cultura propria, quella del Occidente e più ancora quella dell'America del Nord»53.

Questo imperialismo culturale finisce il più delle volte per non sostituire all'antica ricchezza altro che un tragico vuoto. Si è potuto a ragione parlare, a proposito dei paesi del Sud, di una «cultura del vuoto». Si tratta di questo disincanto del mondo, così bene analizzato da Max Weber. "Il treno funziona, certe cose producono certi effetti, ma non sappiamo più dov'è il nostro dovere, perché viviamo, perché moriamo"54. Le riuscite dei meticciati culturali sono piuttosto felici eccezioni, spesso fragili e precarie. Risultano più di reazioni positive alle evoluzioni in corso che dalla logica globale.

L'irruzione delle rivendicazioni identitarie invece costituisce il ritorno del rimosso. La megamacchina spiana tutto ciò che sporge dal suolo, abbatte le sovrastrutture, ma lascia le fondamenta, al meno questa aspirazione incrollabile : l'aspirazione a una identità. Al di sotto dell'uniformizzazione planetaria, si possono ritrovare le radici delle culture umiliate che attendono solo il momento favorevole per rispuntare, talvolta deformate e mostruose. In mancanza dello spazio necessario e di un legittimo riconoscimento, le culture calpestate risorgono ovunque in maniera esplosiva, pericolosa o violenta

Dato che l'universalismo del secolo dei Lumi non è stato che il particolarismo della «tribù occidentale» (Rino Genovese), ha lasciato dietro di sé sopravvivenze, ha suscitato resistenze, ha favorito ricomposizioni ed ha prodotto formazioni ibride, strane o pericolose. 52Pace e interculturalità, op. cit. p. 51. 53Ethique et agro-industrie. Main basse sur la vie, L'Harmattan, Paris 1996, p. 97. 54Bien résumé ainsi par Christian Laval, L'ambition sociologique. La découverte/MAUSS, 2002. p. 427.

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Le reazioni difensive di fronte allo scacco del mancato sviluppo, le volontà di affermazione delle proprie identità, le resistenze all'omogeneizzazione universale, stanno assumendo forme diverse, più o meno aggressive, o più o meno creative e originali.

Nelle società più deculturate come l'Europa e l'America, la cultura si riduce al riciclaggio delle "sopravvivenze immaginarie" e delle aspirazioni frustrate :(ciò che l'economista dello sviluppo Jacques Austruy chiama del “inutile condiviso”)55. Queste sopravvivenze culturali servono anche purtroppo da "banche di dati" per alimentare i conflitti identitari esasperati che emergono sulla base dell'indistinzione e della perdita di senso.

I ripiegamenti identitari provocati dall'uniformizzazione planetaria e la messa in concorrenza esacerbata degli spazi e dei gruppi sono tanto più violenti quanto la base storica e culturale è più fragile (o anche inesistente, come nel caso limite della Padania). Va detto che l'identità culturale è un'aspirazione legittima, ma anche pericolosa, se privata della necessaria presa di coscienza della situazione storica. Si tratta tuttavia di un concetto che non si può strumentalizzare impunemente. Innanzitutto, quando una collettività comincia a prendere coscienza della propria identità culturale, c'è da scommettere che quest'ultima sia già irrimediabilmente compromessa. L'identità culturale esiste in sé nei gruppi vivi ; quando diventa per sé è già il segno di un ripiegamento di fronte ad una minaccia e corre per ciò il pericolo di orientarsi verso la chiusura o addirittura l'impostura. Prodotto della storia, in gran parte inconscia, in una comunità viva, è sempre aperta e plurale. Le appartenenze sono sempre plurali. Al contrario, se strumentalizzata, si chiude e diventa esclusiva, monolitica, intollerante, totalizzatrice e a rischio di totalitarismo. La «pulizia etnica», a questo punto, non è molto lontana. A ragione, allora Maxime Rodinson la stigmatizza come "peste comunitaria"...

I paesi dell'Islam, agli quali non si può impedire di pensare oggi, a lungo tentati dal progetto nazionalista, oggi sembrano esserlo sempre più da quello fondamentalista. Paradossalmente, la deculturazione scaturita dall'Occidente (industrializzazione, urbanizzazione, nazionalitarismo) offre condizioni insperate ad un rinnovamento religioso. L'individualismo, o più esattamente "l'individuazione", scatenato come non mai, dà senso al progetto di ricomposizione del corpo sociale sulla sola base del legame religioso astratto, cancellando ogni altra appartenenza territoriale. Si tratta di un islamismo politico inventato da Hassan el Bana (Le monde). La religione diventa la base per un progetto di ricostruzione della comunità. Essa si vede attribuire il ruolo di assumere la totalità del legame sociale. I movimenti fondamentalisti si insediano innanzitutto nelle città e nelle bidonvilles (baraccopoli) dei paesi in cui la tradizione ha maggiormente patito di progetti industriali : l'Iran della «rivoluzione bianca», l'Egitto post-nasseriano, l'Algeria «socialista», il Pakistan o l'Indonesia di dopo Sukarno e Suharto. I loro animatori non sono notabili di campagna o spiriti retrogradi, ma ingegneri, medici e scienziati formati nelle università. La religione, che canalizza le frustrazioni degli esclusi e dei delusi dai progetti modernisti del nasserismo, del Baath o del socialismo arabo, è una fede astratta, rigorosa,

55Jacques Austruy, Le scandale du développement (1968) rééd Clairefontaine, Genève-Paris, 1987.

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universalista. L'universalismo occidentale si trova cosi confrontato ad un universalismo altrettanto forte e reattivo. Non si tratta comunque di una strada davvero diversa.

L'antioccidentalismo di questa corrente è esibita, ma non arriva ad una messa in causa radicale del capitalismo. Il funzionamento teocratico dello stato è più una perversione della modernità che un progetto differente. Implica certo un rigetto della metafisica materialista del Occidente ma ha bisogno di conservare la "base matériale" e in particolare la tecnologia. Questi movimenti anti-occidentali si adeguano perfettamente alla tecnica e, il più spesso, all'economia di mercato (la modernizzazione senza la modernità). Senza essere totalmente vuoto, il contenuto specifico de ciò che è chiamato l'economia islamica rimane molto limitato : le banche e la finanza islamica, e un volontarismo etico abbastanza debole. Non esclude neanche un liberismo quasi-totale. Le néo-libérism, dal suo lato, si accomoda abbastanza bene dei comunitarismi che condividono la fede nel libero-scambio, la libera impresa e la proprietà privata. "La legge del mercato può essere declinata, osserva Geneviève Azam, in rapporto alle differenze culturali assolutizzate, strumentalizzate e mercificate. Le rivendicazioni identitarie che ne derivano rafforzano il discorso neoliberista : di fronte a fratture considerate come assolute solo le regole oggettive e neutre del libero-scambio e dello scambio mercantile possono assicurare la pace"56. La minaccia di una deriva totalitaria di questi movimenti demagogiche e teocratiche non è tuttavia trascurabile.

In realtà, questo progetto è quello di un universalismo concorrente da quello occidentale. É il progetto di un'altra globalizzazione, una globalizzazione islamica.

(La quale, stranamente, É del tutto ignorata dagli "altermondialisti". Al Forum sociale europeo di Saint Denis, nel suo intervento tanto discusso, l'intellettuale musulmano ginevrino Tariq Ramadan non mirava tanto a scoprire (e meno ancora a incorporare) quest'altra mondializzazione, quanto a esortare a non isolare i contestatori musulmani del Nord, a integrarli nella nostra globalizzazione. )

Nel suo recente libro "Fino alla fine della fede" Naipaul descrive abbastanza bene questo progetto di islamizzazione della modernità. Come Lenin definiva il socialismo con l'equazione "i soviet più l'elettricità", così gli ingegneri islamisti, indonesiani o pakistani che siano, definiscono il loro progetto con l'equazione: "tecnoeconomia più sharia". Si capisce subito che questa è una falsa alternativa. "I neofondamentalisti - osserva Olivier Roy, sono quelli che hanno saputo islamizzare la globalizzazione, vedendo in essa le premesse della ricostituzione di una comunità musulmana universale, ovviamente a condizione di detronizzare la cultura dominante : l'occidentalismo nella sua forma americana. Ma in questo modo essi costruiscono nient'altro che un universale speculare all'America, sognando qualcosa come un McDonald hallal piuttosto che il ritorno alla cucina dei grandi califfi del passato (...) La umma immaginaria dei neofondamentalisti è assai concreta ; un mondo globale, in cui l'omologazione dei comportamenti avvenga o sotto il modello dominante

56Genevève Azam, Libéralisme et communautarisme, Politis du jeudi 20 novembre 2003.

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americano (anglofonia e McDonald) oppure attraverso la ricostruzione di un modello dominante immaginario (djellaba bianca, barba e... anglofonia)"57.

Il cuore della globalizzazione non è rimesso in discussione, e inoltre si basa su una dimensione culturale che non tutti sono disposti ad accettare, così come non tutti accettano i valori occidentali-cristiani. Per loro, l'altra mondializzazione socialdemocratica dagli "altermondialisti" è fallace quanto se non più di quella di Bush. E se l'altra mondializzazione è una sfida per l'Islam, l'Islam è una sfida all'altra mondializzazione...

Conclusione: arringa per un "pluriversalismo" Di fatto, il trionfo dell'immaginario della mondializzazione ha permesso e permette

una straordinaria opera di delegittimazione anche del più moderato discorso relativista. Con i diritti dell'uomo, la democrazia, e naturalmente l'economia (per grazia del mercato), le invariabili transculturali hanno invaso la scena e non sono più discutibili. Si assiste a un autentico ritorno dell'etnocentrismo occidentale e anti-occidentale. L'arroganza dell'apoteosi del tutto-mercato è essa stessa una forma nuova di etnocentrismo.

Gli avversari della globalizzazione liberista dell'Occidente o dell'Islam dovrebbero trarne la lezione e preservarsi di cadere nella trappola a loro tesa dell'etnocentrismo. Si dovrebbe ciononostante sapere che non esistono valori che siano trascendenti rispetto alla pluralità delle culture per la semplice ragione che un valore esiste come tale solo in un contesto culturale dato. Ora anche le critiche più decise alla mondializzazione restano esse stesse, per la maggior parte, chiuse nell'universalismo dei valori occidentali. Rari sono quelli che cercano di uscirne. E tuttavia, non si scongiureranno le catastrofi del mondo unico della merce restando chiusi nel mercato unico delle idee. É senza dubbio essenziale alla sopravvivenza dell'umanità, e precisamente per moderare le attuali e prevedibili esplosioni di etnicismo, difendere la tolleranza e il rispetto dell'altro, non al livello di principi universali vaghi e astratti, ma interrogandosi sulle forme possibili di regolazione di una vita umana plurale in un mondo singolarmente ristretto.

Non si tratta di immaginare una cultura dell'universale, che non esiste, si tratta di conservare sufficiente consapevolezza e distanza perché la cultura dell'altro dia senso alla nostra. Certo, è illusorio pretendere di sfuggire all'assoluto della propria cultura e dunque a un certo etnocentrismo. Questa è la cosa più condivisa al mondo. La questione comincia a diventare inquietante quando lo si ignora o lo si nega; perché questo assoluto è certamente molto relativo.

Attraverso i suoi persiani, Montesquieu tentava di far prendere coscienza all'Europa della relatività dei suoi valori. Solamente in un mondo unico, dominato da un pensiero unico, non ci sono più persiani ! In breve, sarebbe necessario forse sognare di sostituire il sogno universalista, tanto deturpato dalle sue realizzazioni ineluttabilmente totalitarie, con un "pluriversalismo" necessariamente relativo ciò è

57Olivier Roy, "Au pied de la lettre" in Manière de voire N° 64 Juillet-Août 2002.

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una vera "democrazia delle culture" (nel quale i persiani e gli altri conservano tutta la loro legittimità se non tutto il loro posto).

Al fine di evitarne lo "choc" (secondo la sinistra previsione di Samuel Huttington che il governo americano tenta con tutti i mezzi di rendere "autoréalisatrice"...), è tempo d'iniziare un autentico dialogo (dialogale) tra le civiltà, e per l'Occidente questo passa per un disarmo culturale.

Come ha detto il teologo indo-catalano Raimon Panikkar: “É l’Europa che deve collaborare alla deoccidentalizzazione del mondo e sono gli Europei che devono paradossalmente prenderne l’iniziativa presso le élites occidentalizzate di altri continenti, che, come nuovi ricchi, si mostrano più papiste del Papa…L’Europa, avendo l’esperienza della sua cultura ed avendo compreso i propri limiti, ha le carte in regola per realizzare questa metanoia (pentimento), molto più di coloro i quali vorrebbero arrivare a godere dei beni della civilizzazione europea.”58

58 Méditation européenne après un demi-millénaire, in 1492-1992, Conquête et évangile en Amérique Latine. Questions pour l'Europe aujourd'hui, Acte du colloque de L'université catholique de Lyon, Profac, Lyon 1992. p.50.

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EECCOONNOOMMIIEE,, IIMMPPEERRII,, MMOONNDDII:: PPEERRCCOORRSSII DDII UUNNAA SSTTOORRIIAA GGLLOOBBAALLEE

Tommaso Detti

Università di Siena

Modena, 7 settembre 2005

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La storia è di tutti. Nuovi orizzonti e buone pratiche nell’insegnamento della storia – Modena, 7 settembre 2005

Economie, imperi, mondi: percorsi di una storia globale TOMMASO DETTI, UNIVERSITÀ DI SIENA

L’argomento di questa relazione chiama in causa questioni così vaste, complesse e di

lungo periodo, che da parte mia è stato sicuramente incauto propormi di svolgerlo. Le mie competenze sono infatti quelle di breve periodo della storia contemporanea, né sono uno studioso di storia economica. Se ho deciso affrontare i rischi che si corrono quando si esce dal proprio campo di studi, è perché sono mosso da alcune convinzioni. Mi perdonerete se per brevità le enuncio in una forma troppo assertiva.

1. Negli ultimi tre o quattro decenni il mondo ha conosciuto una serie di trasformazioni tanto accelerate, profonde e diffuse, da fare di tale periodo una cesura storica di grande rilievo. L’insieme di queste trasformazioni, che si configurano come la fase (per adesso) culminante dei cambiamenti sempre più rapidi che hanno attraversato l’età contemporanea, può essere riassuntivamente rubricato sotto la voce «globalizzazione».

2. Ciò impone agli storici, la cui funzione è di rileggere incessantemente il passato alla luce dei problemi del presente, di aggiornare le proprie categorie interpretative generali. Si tratta in sostanza di abbandonare la prospettiva eurocentrica, ma più spesso italocentrica se non proprio nazionalistica, dominante nella storiografia italiana per entrare in una dimensione di storia globale.

3. Nella gran parte dei casi, invece, in Italia la ricerca e la didattica della storia continuano a usare quadri di riferimento ristretti e irrimediabilmente datati: quelli di un «secolo breve» finito ormai da quindici anni. Anziché interrogare il passato a partire dal presente, produciamo così letture del passato basate sul passato. Nasce in buona parte da qui la «crisi della storia» che tutti da tempo lamentiamo.

4. Adottare un approccio di storia globale non significa porre la storia europea sullo stesso piano di quella degli altri continenti, ma ricontestualizzarla assumendo una

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prospettiva planetaria e di periodo tanto più lungo, quanto più è accelerato il cambiamento nel mondo contemporaneo. Ciò non richiede una pari padronanza di tutte epoche della storia, né che diveniamo tutti sinologi o islamisti: basta leggere (o rileggere) un po’ di libri.

Sebbene la globalizzazione contemporanea sia il mio punto di partenza, non passerò in rassegna i molti significati di questa parola passepartout; avverto soltanto che la uso in due accezioni particolari: quella che si riferisce all’unificazione economico-finanziaria del pianeta e quella che guarda ai movimenti di uomini e merci attraverso le frontiere. Va da sé che con gli uomini viaggiano non solo merci, ma anche culture, tecnologie, modelli di organizzazione sociale e statale ecc. Ciò significa porre al centro della scena i contatti e gli scambi tra le varie civiltà.

Intitolando The Human Web una loro recente sintesi di storia mondiale, John e William McNeill (2003) hanno scritto che per loro un web è un set di connessioni che unisce un popolo all’altro. Può trattarsi di scambi economici o ecologici, di rapporti d’amicizia, rivalità, cooperazione politica, competizione militare e così via. Lo scambio e la diffusione di informazioni, beni, tecnologie, idee, malattie, assieme alle risposte che i popoli danno loro – concludono gli autori – «è ciò che forma la storia».

Giacché della storia della globalizzazione parleranno Latouche e Gozzini, io mi limiterò a spigolare qualche libro, ripercorrendo alcune tappe di una riflessione che riguarda da presso il fenomeno, ma si è avviata molto prima che il concetto entrasse nel vocabolario degli storici. Mi riferirò anche a opere tutt’altro che nuove perché penso che rileggerle oggi serva a correggere una tendenza negativa del dibattito storiografico, che con una piccola forzatura definirei come «amnesia strutturale». È noto che questa espressione fu usata dall’antropologo Jack Goody (1977) per designare l’attitudine delle culture orali a dimenticare il passato o a ricordarlo come se fosse presente. Per chiarire in che senso la ritengo applicabile alla storiografia mi servirò di un esempio.

Un anno fa, e poi ancora il 21 agosto 2005, «La Repubblica» ha pubblicato due articoli di Federico Rampini dedicati ai viaggi che tra il 1405 e il 1433 l’ammiraglio cinese Zheng He effettuò nell’Oceano indiano, spingendosi fino alle coste orientali dell’Africa con

decine di grandi navi su cui erano imbarcate migliaia di uomini. Questa storia pone un problema: perché da allora i cinesi abbandonarono la navigazione oceanica, lasciando che fossero i portoghesi a doppiare il Capo di Buona Speranza e gli europei a dominare i mari?

Fig. 1 – I viaggi di Zheng He – 1405-1433

Fonti: < http://www.chinapage.com/zhenghe.html >

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Se la domanda è di grande rilievo, colpisce però che essa possa apparire come una scoperta non solo al grande pubblico, ma anche ad alcuni studiosi. Essa ricorre infatti

non soltanto negli studi specialistici, o in quella world history che in Italia stenta ancora ad acquisire cittadinanza accademica, ma anche in opere generali centrate sulla storia del

capitalismo europeo, alcune delle quali apparse e tradotte da decenni: da Il mondo attuale e Civiltà materiale, economia e capitalismo di Fernand Braudel (1963, 1979) a Il sistema mondiale

dell’economia moderna di Immanuel Wallerstein (1974-80), da Il miracolo europeo di Eric Jones (1981) fino al più recente La ricchezza e la povertà delle nazioni di David Landes (1998). Vero è che alcune di esse sbrigano la questione in poche righe, facendo pensare che

ciò non dipenda da diffidenza per le ipotesi controfattuali ma da giudizi altrimenti acquisiti sulla superiorità dell’Occidente tra XV e XVI secolo. E chi sa che non dipenda da questo se il classico Vele e cannoni di Carlo M. Cipolla (1965) neppure ne parla. Ciò conferma tuttavia la necessità di contrastare l’amnesia strutturale che ci fa ripartire ogni volta da capo. Essendo la storia una forma di conoscenza tipicamente cumulativa, non espungere gli studi del passato dalle bibliografie non è meno necessario che aggiornarle.

L’esempio di Zheng He ci introduce anche al tema centrale del mio intervento, che è appunto quello delle origini della supremazia planetaria dell’Occidente. Affrontandolo, è appena il caso di ricordare che la ragnatela delle interdipendenze che avvolge il mondo contemporaneo non ha ridotto le disuguaglianze tra le sue parti; al contrario, il loro accentuarsi è una buona sintesi del predominio economico, finanziario, tecnologico e militare occidentale. Non potendomi soffermare su questo problema, ho affidato a qualche immagine la rappresentazione di alcuni suoi aspetti significativi:

Fig. 2 – PIL pro capite nei paesi sviluppati e in via di sviluppo 1700- 1998 (dollari internazionali 1990)

0

5.000

10.000

15.000

20.000

25.000

1700 1820 1913 1950 1998

Paesi sviluppati Paesi in via di sviluppo

Fonte: A. Maddison, The World Economy. A Millennial Perspective, 2001

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Fig. 3 – PIL pro capite di alcune parti del mondo, 1500-2001 (dollari internazionali 1990)

0

5000

10000

15000

20000

25000

30000

1500 1600 1700 1820 1870 1913 1950 1973 2001

Europa occ.UsaGiapponeAsiaAmerica L.AfricaEx Urss

Fonte: A. Maddison, L’économie mondiale. Statistiques historiques, 2003

Fig. 4 –

L’ineguaglianza globale, 1800-2000

Fonte: A.M. Taylor, Globalization, Trade, and Development, 2002, p. 36 < http:/nber.org/papers/w9326 >

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Page 68: Filosofia Teoretica - Unità didattica

Fig. 5 – La delocalizzazione delle industrie, 1960-90

Variazione delle quote percentuali dei diversi paesi sul totale mondiale

Fonte: International Labour Organization, Labour Statistics Database <http://laborsta.ilo.org >

Fig. 6 – La terziarizzazione dell’Occidente, 1990 Dati %, popolazione attiva = 100

Fonte: International Labour Organization, Labour Statistics Database < http://laborsta.ilo.org >

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Fig. 7 – Influenza delle multinazionali nei singoli paesi, 2000 Quantità di investimenti diretti ricevuti nel 2000 in percentuale sul PIL

5 10 20 30

Fonte: Atlante di Le Monde diplomatique / Il Manifesto, 2003, p. 30

Fig. 8 – Paesi d’origine delle maggiori multinazionali, 2002

Fonte: Unctad, Rapporto sugli investimenti nel mondo 2002 Riproduzione da Atlante di Le Monde diplomatique / Il Manifesto, 2003, p. 31

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Fig. 9 – Il digital divide, 2002 Numero di «internauti» nel settembre 2002 (cifre assolute)

Riproduzione da Atlante di Le Monde Diplomatique / Il Manifesto, 2003, p. 10

Fig. 10 – La povertà nel mondo, 2000 Indicatore di sviluppo umano: speranza di vita media alla nascita, prodotto nazionale pro

capite, tassi di alfabetizzazione e scolarizzazione (valori da 0 a 1)

Fonte: U.N. Development Programme, Human Development Report 2000

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Fig. 11 - L’ineguaglianza nel mondo, 1996

Fonte: < http://www.monde-diplomatique.fr/cartes/ > Nato in Europa, il capitalismo ha insomma conquistato il mondo. Dopo la fine del

comunismo, inoltre, solo da poco si sono profilati dei potenziali antagonisti, la cui eventuale sfida non riguarda peraltro il capitalismo, ma l’egemonia dell’Occidente. Quando, come e perché si sia instaurata tale egemonia è dunque «il problema essenziale della storia del mondo moderno» (Braudel, 1979, II, 105).

Quando (e se) Per Braudel, che conia il concetto di economia-mondo e lo usa al plurale per indicare

una molteplicità di spazi economici relativamente chiusi ed autonomi, se nel XVI secolo le regioni popolate del globo sono «alla pari o quasi», a fine Settecento il capitalismo europeo ha acquisito una chiara superiorità, estendendosi fino a configurare una economia mondiale unitaria e accingendosi a porla sotto il proprio dominio. È grosso modo a questa periodizzazione che si attiene la maggior parte degli studiosi, e tra essi Immanuel Wallerstein.

La larga identità di vedute tra la sua opera e quella di Braudel non deve peraltro far trascurare il mutamento di prospettiva introdotto da Wallerstein: questi riprende infatti il concetto di economia-mondo, ma lo declina al singolare e pone più decisamente l’Europa al centro della scena, erigendola a «sistema-mondo» sin dalla sua fase costitutiva tra il 1450 e il 1640 e seguendone gli sviluppi fino alla trasformazione di tale sistema in un fenomeno globale nel XIX secolo.

In questo senso può considerarsi anzitutto wallersteiniano lo schema teorico dello

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sviluppo del capitalismo mondiale elaborato da Giovanni Arrighi in Il lungo XX secolo (1994), Richiamandosi alla concezione braudeliana del capitalismo come economia di mercato governata centralmente da una potenza egemone che si avvale del proprio primato statale e militare, oltre che economico, egli delinea una successione di paesi guida egemonici a scala planetaria: le repubbliche italiane e in particolare Genova nel «lungo XVI secolo» di Braudel, l’Olanda tra Sei e Settecento, la Gran Bretagna nel «lungo Ottocento», gli Stati Uniti nel Novecento.

Fig. 12 – I cicli dello sviluppo del capitalismo

G. Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, 1994

Sia pure con alcune differenze, questi autori collocano alle origini dell’ economia capitalistica mondiale l’espansione dell’economia-mondo europea iniziatasi tra Quattro e Cinquecento. Questa interpretazione non è peraltro accolta da tutti gli studiosi. Senza contare quelli che Jones ha chiamato Little Englanders, che individuano una «grande discontinuità» unicamente nella rivoluzione industriale, alcuni hanno ad esempio contestato che prima di allora i contatti fra le diverse parti del globo non fossero tali da configurare un sistema-mondo.

Tra essi Janet L. Abu-Lughod, che nel suo Before European Hegemony (1989) ne ha ravvisato uno nel periodo 1250-1350, articolato in otto circuiti e centrato in aree extraeuropee, del quale i commerci e la divisione del lavoro facevano un sistema economico globale sviluppato. Critica dell’eurocentrismo più o meno accentuato di Wallerstein e Braudel, Abu-Lughod non nega però la successiva ascesa dell’economia-mondo europea.

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Fig. 13 – Gli otto circuiti del sistema mondiale del XIII secolo

J.L. Abu-Lughod, Before European Hegemony, 1989, p. 34

Ben più radicale la critica di altri autori, e in particolare di Andre Gunder Frank. In un

libro dal significativo titolo ReOrient. Global Economy in the Asian Age (1998), Frank retrodata addirittura di alcuni millenni l’esistenza di un sistema economico mondiale, al cui centro pone l’Asia – e in particolare la Cina – fino al 1800 ed oltre. Dato che il suo assunto è costituito dal recente sviluppo di paesi come la Cina e l’India, l’egemonia europea viene così a ridursi ad una breve, temporanea parentesi, dovuta per di più alle ricchezze del Terzo Mondo drenate dalla Gran Bretagna nel XIX secolo.

Tanto provocatorie, quanto discutibili e contestate, le tesi di Frank mi sembrano interessanti soprattutto per l’invito a quel riorientamento storiografico in senso antieurocentrico, al quale allude il titolo del suo libro. Sul finire del Novecento alcuni aspetti sono stati tuttavia suffragati da altri studiosi, sollecitati dalla recente ascesa economica dell’Asia orientale, le cui dimensioni sono chiarite en passant da qualche immagine evocativa:

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Fig. 14 - Tassi di sviluppo economico pro capite, 1985-1995

Fonte: < http://www.worldbank.org/depweb/beyond/beyondco/beg_04.pdf >

Fig. 15 - Tassi di sviluppo economico della Cina, 1993-2002

0

2

4

6

8

10

12

14

16

18

20

%

1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 20020

200

400

600

800

1000

1200

1400

BillionsUS $

Real GDP Nominal GDP

Fonte: APEC - Asia-Pacific Economic Cooperation, China Economy Report 2003

< http://www.apec.org/apec/member_economies/economy_reports/china.html >

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Fig. 16 - La bilancia commerciale della Cina nel 2002

Fonti: P. Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze, 1987; P. Bairoch, Storia economica e sociale del mondo. vittorie e insuccessi dal

XVI secolo a oggi, II, 1997; A. Maddison, The World Economy: a Millennial Perspective, 2001; Id., L’économie mondiale. Statistiques historiques, 2003

< http://mondediplo.com/maps/commercialpower > Nella sua Storia economica e sociale del mondo (1997), Paul Bairoch adduce ad esempio dati

secondo i quali nel 1750 spettava all’Europa il 23,2% della produzione manifatturiera mondiale, mentre Cina e India ne coprivano il 57,3%, con tassi di produttività e un PIL pro capite pure superiori. Come suggerisce la Fig. 17, che elabora anche dati di Paul Kennedy e Angus Maddison, ne risultano due sistemi-mondo invece che uno e il sistema manifatturiero e commerciale asiatico non appare affatto inferiore a quello occidentale.

Sulla stessa linea si muovono altri due studi degli stessi anni, quelli di R. Bin Wong, China Transformed (1998) e Kenneth Pomeranz, La grande divergenza (2000). Uniti da tesi analoghe e da un approccio comparativo tendente a guardare l’Europa dalla Cina anziché il contrario come ha sempre fatto la storiografia occidentale, anch’essi sostengono che fino al XIX secolo «siamo in presenza di un mondo policentrico senza un centro dominante». Per Pomeranz, ad esempio, sorprendenti similitudini caratterizzano fino al 1750 il reddito pro capite, la produzione manifatturiera, la disponibilità di capitali e l’ampiezza dei mercati delle più avanzate aree europee e asiatiche, e in particolare della Gran Bretagna e della regione del delta dello Yangze, comparabile per dimensioni e con una popolazione più numerosa.

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Fig. 17 - «Quando l’est era il centro manifatturiero del mondo»

Fonti: cfr. figura precedente < http://mondediplo.com/maps/china16th >

Fig. 18 – Il Delta dello Yangtze

Fonte: < http://www.friesian.com/sangoku.htm#china-era > È nel XIX secolo, insomma, che la produzione dei due giganti asiatici crolla per effetto

del vantaggio tecnologico e produttivo dato all’Europa dall’industrializzazione e dello scambio ineguale da essa imposto con le armi. L’ascesa europea si spiega insomma con il carbon fossile inglese e soprattutto con la colonizzazione del Nuovo Mondo, che fornì al

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vecchio continente una riserva inesauribile delle risorse di cui scarseggiava (terra, energia, l’argento che prendeva la via dell’Asia) e uno sbocco per quelle che aveva in eccesso, come la popolazione.

Come Con ciò – lasciando volutamente aperta ogni conclusione – dal quando e dal se siamo

passati al come, ossia ai fattori che determinarono l’ascesa dell’Europa. Ciò significa anzitutto domandarsi perché un’economia di mercato si sviluppa dappertutto ma, come scrive Braudel, la costruzione del capitalismo riesce in Europa e non giunge a termine altrove. Le risposte date a questo interrogativo sono molte e mai monocausali, cosicché è solo per comodità espositiva che è possibile distinguere quelle che pongono in primo piano il ruolo svolto da fattori culturali da quelle che insistono su altre motivazioni, di volta in volta ambientali, ecologiche o politico-istituzionali.

Rileggendo in successione William McNeill, si nota ad esempio come il suo pionieristico The Rise of the West (1963) insistesse in primo luogo sugli scambi culturali tra le diverse civiltà come fattore di progresso, attribuendo un ruolo cruciale agli uomini di frontiera (commercianti, soldati, avventurieri, missionari). Secondo lui tra il 1000 e il 1500 l’epicentro dell’ecumene eurasiatico si trova in Cina, all’epoca la civiltà più progredita, e il «passaggio del testimone» avviene attraverso l’esportazione di alcune sue innovazioni, come la bussola e la polvere da sparo, di cui gli europei fanno un uso militare ed espansionistico. La scoperta dell’America sposta poi a occidente il baricentro dei commerci internazionali ed è nei secoli successivi che il rapporto tende ad invertirsi.

In La peste nella storia (1976) McNeill aggiunge la variabile costituita dalle malattie: più immunizzati perché concentrati e già bersagliati da un maggior numero di epidemie, gli europei marcano un vantaggio competitivo nello scambio di malattie con altre popolazioni, specie quelle americane. In Caccia al potere (1982) sottolinea infine il ruolo dall’ interazione verificatasi in Europa tra potere politico e militare, con una tendenza alla statalizzazione e alla burocratizzazione degli eserciti destinata a sboccare nel complesso militare-industriale dell’età dell’imperialismo.

Ambiente e malattie sono anche centro di Imperialismo ecologico (1986) di Alfred Crosby, che affronta il problema della creazione delle cosiddette neo-Europe, cioè America, Australia e Nuova Zelanda. La loro conquista non si deve solo alla superiorità militare degli europei e alle loro capacità marinare, ma anche al fatto che questi paesi non avevano forti tradizioni statali che permettessero loro di resistere agli europei e soprattutto che il loro clima temperato consentiva di creare colonie di insediamento.

È questa sua tesi principale: ogni popolazione si adatta all’ecosistema in cui vive, ma non dispone di difese immunitarie efficaci contro i germi patogeni a lei sconosciuti. Ben più delle armi da fuoco di Cortès e di Pizzarro, fu infatti il vaiolo (assieme a malattie per gli europei banali, come il morbillo) a distruggere le civiltà degli aztechi e degli incas: le popolazioni precolombiane ne vennero distrutte, secondo alcune stime, in una misura superiore al 90%. A invadere e colonizzare quelle terre, inoltre, furono anche le piante e gli animali portati dagli europei, che le colonizzarono sistematicamente. In Il miracolo europeo (1981) Eric Jones sviluppa invece un’analisi comparata dei quattro grandi sistemi politici esistenti nell’Eurasia: l’impero ottomano (XIV sec.-1918); quello

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indiano dei Moghul (1526-1858); quello cinese dei Manchu (1644-1911); il sistema degli Stati europei. Su queste basi il «miracolo» viene attribuito a due fattori fondamentali: l’ambiente e la politica, ovvero le più stabili condizioni ambientali dell’Europa e il fatto che vi esistesse più di uno Stato.

Fig. 19 – I grandi sistemi politici dell’età moderna

Fonte: < http://www.hyperhistory.com/online_n2/History_n2/a.html >

Sebbene l’assorbimento di risorse necessario per controllare il proprio sistema

idraulico e un’alta incidenza delle calamità ambientali determinassero in Asia una minore propensione agli investimenti, uno sviluppo economico, culturale e tecnologico vi era peraltro iniziato prima che in Occidente. Esso fu però bloccato dalle invasioni dei popoli nomadi dell’ Asia centrale, che instaurarono grandi imperi autoritari i quali fermarono la crescita del continente.

In Europa la produttività agricola era più bassa, ma le calamità erano meno gravi, mentre la scarsità e la distanza delle aree fertili favorì una differenziazione interna del continente, stimolando la crescita dei commerci a vasto raggio. La marginale posizione geografica che pose l’Europa al riparo dalle invasioni dei popoli asiatici favorì infine lo sviluppo di più Stati, meno dispotici perché in concorrenza tra loro e articolati in strutture feudali. Ne derivarono una propensione al commercio e all’innovazione, lo sviluppo di un’economia di mercato e lo sfruttamento delle risorse oltremare rese disponibili dalle esplorazioni geografiche.

È insomma al suo centralismo che si deve se la Cina – all’avanguardia secondo Joseph Needham (1954-9) sul piano tecnologico – non sviluppò le proprie armi da fuoco e bloccò la navigazione oceanica, entrambe ritenute pericolose per la stabilità di un impero, la cui salvaguardia esigeva di non sottrarre risorse alla difesa delle frontiere nordoccidentali. Su questa spiegazione, che in Uomini e parassiti (1979) McNeill esprime nei termini di una «abdicazione» della Cina, esiste una larga concordanza.

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Il problema, peraltro, si presta bene anche ad esemplificare il ruolo attribuibile ai fattori culturali: in larga misura, infatti, l’isolazionismo della Cina fu dovuto anche all’ideologia confuciana della corte, timorosa che i contatti con altre civiltà minassero la stabilità interna di un paese ritenuto il centro del mondo. Se nella critica al conservatorismo del confucianesimo che portò la Cina a chiudersi in se stessa concordano molti studiosi, non tutti ne traggono motivo per rilanciare l’antico tema della superiorità culturale dell’Occidente, assegnando magari alla sua religione un ruolo di spicco e ponendola alla base di un autoesplicativo modello di sviluppo sul cui metro misurare le altre civiltà.

Lo storico che con maggior vigore anche polemico si è mosso in questa direzione è David Landes nel suo libro su La ricchezza e la povertà delle nazioni (1998). Sostenendo che l’Occidente si è sviluppato grazie a una società aperta in grado di favorire il lavoro e la conoscenza, innalzando così la produttività e incrementando il progresso tecnologico, Landes riprende tra l’altro le tesi weberiane sul rapporto tra etica protestante e sviluppo del capitalismo, sin quasi a far derivare il secondo dalla prima, ciò che lo stesso Weber non aveva fatto.

Non potendo abusare oltre della vostra pazienza, pur rendendomi conto che la mia esposizione ha trascurato questi aspetti della questione, rinuncio comunque a entrare nel merito. Approfitto invece degli accesi dibattiti sollevati dalla contemporanea pubblicazione dei libri di Landes, Frank, Wong, Pomeranz e altri ancora che non ho menzionato per provare a tirare le fila del mio discorso.

Tali e tante sono le implicazioni dei grandi problemi di cui non ho passato in rassegna che alcuni aspetti, riferendomi a un ristretto numero di autori, che non mi sembra opportuno né utile trarre delle conclusioni di merito. Non perché non abbia alcune opinioni personali, ma perché sostenerle non era il mio obiettivo. La curiosità e il progresso della conoscenza non riposano sull’enunciazione di verità che si pretendono oggettive, quale per forza di cose rischierebbe di apparire una conclusione, ma passano attraverso una costante tensione fra diverse interpretazioni.

Sul piano del metodo mi auguro soltanto di esser stato abbastanza convincente nella mia sottolineatura della necessità di poggiare un’analisi degli sviluppi recenti del dibattito storiografico su quella di opere magari datate, ma non meno utili delle più aggiornate ricerche degli ultimi anni. Vorrei però spendere ancora qualche parola in una critica del manicheismo e dell’ideologismo riscontrabili anche nei dibattiti tra gli studiosi quando sono in questione temi che – come quello della supremazia dell’ Occidente – presentano implicazioni di stringente attualità.

Le ineguaglianze che caratterizzano il predominio mondiale dell’ Occidente e la violenza che ha segnato l’espansione europea sono indiscutibili. Sarebbe ben strano, tuttavia, se ad esprimere giudizi di valore negativi su di esse fossero i soli oppositori del sistema capitalistico e se per questo dovessero negare la supremazia occidentale, riducendola a un tenace mito eurocentrico costruito dai vincitori. Altrettanto singolare sarebbe se i sostenitori del sistema capitalistico dovessero negare o minimizzare quella violenza e quelle ineguaglianze, deducendo dall’acquisita supremazia dell’Occidente dovessero dedurre la superiorità della sua cultura o della sua religione.

Scriveva Arnold J. Toynbee nel 1953: «Nell’incontro fra il mondo e l’Occidente, in corso ormai da quattro o cinque secoli, la parte che ha vissuto un’esperienza significativa è stata finora il resto del mondo non l’Occidente. Non è stato l’Occidente che ha colpito

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il mondo; è il mondo che è rimasto colpito – e duramente colpito – dall’Occidente». È una affermazione sottoscrivibile, ma a condizione che l’impatto dell’Europa sul resto del mondo venga valutato in tutti i suoi aspetti, negativi e positivi.

Non sarò io a sostenere che la storia possa essere ancora concepita teleologicamente come lo svolgersi di un disegno di progresso. Se non altro sul piano della scienza, della tecnologia e delle condizioni di vita, tuttavia, il progresso esiste, ha una storia e come tale deve essere valutato.

L’affermazione del capitalismo europeo e occidentale è stata legata all’ opera di individui senza scrupoli ed è stata pagata con inenarrabili sofferenze da generazioni di lavoratori occidentali e da interi popoli sfruttati o ridotti in schiavitù. Essa però ha prodotto livelli crescenti di ricchezza e di benessere che, sia pure con profonde e anch’esse crescenti ineguaglianze, non sono andati ad esclusivo vantaggio dei vincitori. Con alcune eccezioni – prima fra tutte quella macroscopica dell’Africa subsahariana – anche le condizioni di vita di quello che un tempo era il Terzo Mondo sono sensibilmente migliorate.

Riconoscere queste antinomie e porle al centro di una riflessione critica non semplicistica mi sembra indispensabile per evitare facili polarizzazioni che possono produrre soltanto una storia in bianco e nero, laddove questa abbonda di sfumature e contraddizioni, non ammettendo spiegazioni monocausali.

Al termine della sua magistrale analisi dell’incontro fra la civiltà dei conquistadores, che praticano il massacro, e quella degli aztechi, che praticano il sacrificio umano, Tzvetan Todorov scrive: «Come oggi ben sappiamo, il progresso tecnologico non comporta una superiorità sul piano dei valori morali e sociali (né una condizione di inferiorità). Le società dotate di scrittura sono più avanzate di delle società prive di scrittura; ma è dubbio che fosse necessario scegliere fra società del sacrificio e società del massacro».

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Nota Ho rifuso qui alcuni punti di una lezione su Contemporaneità e lunga durata. L’uovo e la gallina,

ovvero: sulle origini della supremazia dell’Occidente, tenuta il 13.12.2004 alla SSIS di Firenze (riprendendone anche qualche figura) e ho fatto riferimento alla mia relazione Per una prospettiva di storia globale svolta al convegno su «L’insegnamento della storia nei licei», organizzato il 25.06.2005 a Bologna da «Reti Medievali», SIS – Società italiana delle storiche, SISEM – Società italiana per lo studio dell’età moderna e SISSCO – Società italiana per lo studio della storia contemporanea. Entrambe sono reperibili in rete, rispettivamente in http://192.167.112.148/detti/SSISFi2004/ e in http://www.sissco.it/ariadne/loader.php/it/www/sissco/attivita/mantra.html/Insegnamento/Detti.pdf.

Riferimenti bibliografici [Sono citate le sole opere a cui ho fatto riferimento nel testo e nelle figure. Le immagini della

prima pagina sono tratte da http://www.kbr.be/america/fr/9.htm e da http://www.cybergeography.org/atlas/cables.html ]

Abu-Lughod J.L., 1989. Before European Hegemony. the World System A. D. 1250-1350, New York Arrighi G., 1994. Il lungo XX secolo. Potere, denaro e le origini del nostro tempo, Milano 1996 Bairoch P., 1997. Storia economica e sociale del mondo. Vittorie e insuccessi dal XVI secolo a oggi, 2 voll., Torino 1999 Bin Wong R., 1997. China Transformed: Historical Change and the Limits of European Experience, Ithaca Braudel F., 1963. Il mondo attuale, Torino 1966 Braudel F., 1977. La dinamica del capitalismo, Bologna 1981 Braudel F., 1979. Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII), 3 voll., Torino 1981-2 Cipolla C.M., 1965. Vele e cannoni, Bologna 1983 Crosby A., 1986. Imperialismo ecologico. L'espansione biologica dell'Europa, 900-1900, Roma-Bari 1988 Frank A.G., 1998. ReOrient: Global Economy in the Asian Age, Berkeley Goody J., 1977. L’addomesticamento del pensiero selvaggio, Milano 1981. Jones E., 1981. Il miracolo europeo. Ambiente, economia e geopolitica nella storia europea e asiatica, Bologna 2005 (nuova ed. 2003) Kennedy P., 1987. Ascesa e declino delle grandi potenze, presentazione di G.G. Migone, Milano 1999 Landes D.S., 1999. La ricchezza e la povertà delle nazioni. perché alcune sono così ricche e altre così povere, Milano 2002 Maddison A., 2001. The World Economy. A Millennial Perspective, Paris. Maddison A., 2003. L’économie mondiale. Statistiques historiques, Paris. McNeill J.R., McNeill W.H., 2003. The Human Web. A Bird’s-Eye View of World History, New York-London McNeill W.H., 1963. The Rise of the West: a History of the Human Community, Chicago McNeill W.H., 1976. La peste nella storia. Epidemie, morbi e contagio dall'antichità all'età contemporanea, Torino1981 McNeill W.H., 1979. Uomini e parassiti. Una storia ecologica, Milano 1993 McNeill W.H., 1982. Caccia al potere. Tecnologia, armi, realtà sociale dall’anno Mille, Milano 1984 Needham J., 1954-9. Scienza e civiltà in Cina, con la collaborazione di W. Ling, 3 voll., Torino 1981-6 Pomeranz K., 2000. La grande divergenza. La Cina, l’Europa e la nascita dell’economia mondiale moderna, Bologna 2004 Taylor A.M., 2002. Globalization, Trade, and Development: Some Lessons from History, < http:/nber.org/papers/w9326 >

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Todorov T, 1982. La conquista dell’America. Il problema dell’«altro», nota introduttiva di P.L. Crovetto, Torino 1992 Toynbee A.J., 1953. Il mondo e l’Occidente, con una nota di L. Canfora, Palermo 1992 Wallerstein I., 1974-80. Il sistema mondiale dell’economia moderna, 2 voll., Bologna 19782-82

Tommaso Detti (Firenze, 1946) insegna Storia contemporanea alla Facoltà di Lettere e

Filosofia dell'Università di Siena, della quale è stato preside dal 1995 al 2001. Dal 2003 è presidente della SISSCO – Società italiana per lo studio della storia contemporanea.

Principali pubblicazioni: Serrati e la formazione del Partito comunista italiano. Storia della frazione terzinternazionalista 1921-1924, Roma 1972; Il socialismo riformista in Italia, Milano 1981; Fabrizio Maffi. Vita di un medico socialista, Milano 1987; Salute, società e Stato nell'Italia liberale, Milano 1993; Storia contemporanea, I. L'Ottocento, II. Il Novecento, Milano 2000, 2002 (con G. Gozzini).

Ha curato Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico 1853-1943, 6 voll., Roma 1975-79 (con F. Andreucci); i voll. 3-6 del manuale per le scuole superiori La società moderna e contemporanea, Milano 1997 (con N. Gallerano e G. Gozzini); N. Gallerano, Le verità della storia. Scritti sull'uso pubblico del passato, Roma 1999 (con M. Flores); Ernesto Ragionieri e la storiografia del dopoguerra, Milano 2001 (con G. Gozzini).

Alcuni saggi: Storia politica e storia sociale nella storiografia sul movimento operaio, in L'Italia unita nella storiografia del secondo dopoguerra, a cura di N. Tranfaglia, Milano 1980; Ipotesi sulle origini di una provincia rossa: Siena fra Ottocento e Novecento, «Ventesimo secolo», 1991, n.1; Lo storico e il computer: approssimazioni, in Storia & computer. Alla ricerca del passato con l’informatica, a cura di S. Soldani e L. Tomassini, Milano 1996; Le famiglie nobili senesi fra Settecento e Ottocento, «Bollettino di demografia storica», 1994, n. 21, (con C. Pazzagli): http://www.storia.unisi.it/pagine/ testi/dettipazzagli1.pdf; I crimini della storia. Lo storico, la verità e la memoria del passato, «I viaggi di Erodoto», 1999, n. 38-39 (con M. Flores); La struttura fondiaria del Granducato di Toscana alla fine dell’ancien régime. Un quadro d’insieme, «Popolazione e storia», 2000 (con C. Pazzagli): http://www.storia.unisi.it/pagine/testi/detti pazzagli2.pdf; La storia in vetrina nell’Italia di oggi, «Contemporanea», 2002: http://www.sissco.it/attivita/sem-set-2001/abstracts/detti-relazione.doc; Fascismo, antifascismo e democrazia in Italia tra XX e XXI secolo, «I viaggi di Erodoto», 2002, n. 43-44; Tra storia delle donne e «storia generale»: le avventure della periodizzazione, «Storica», 2004.

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PPEERRCCEEZZIIOONNII EE RREEAALLTTÀÀ DDEELLLL’’IINNEEGGUUAAGGLLIIAANNZZAA GGLLOOBBAALLEE:: UUNNAA VVIISSIIOONNEE DDII LLUUNNGGOO PPEERRIIOODDOO

Giovanni Gozzini Università di Siena

Modena, 8 settembre 2005

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Page 85: Filosofia Teoretica - Unità didattica

Posizione del problema La globalizzazione contemporanea aumenta o riduce l’ineguaglianza nel mondo?

Ormai da anni politici, economisti, sociologi cercano per strade diverse risposte a questa domanda.

Ma, come spesso accade, è difficile che pervengano a conclusioni pacificamente condivise. Chi

sostiene le ragioni di una piena integrazione nel commercio mondiale come leva di sviluppo

destinata a diminuire e, in prospettiva, a cancellare le sacche di povertà ed emarginazione sociale, si

appoggia a dati empirici rilevanti. A partire dalla rinascita dell’economia giapponese nel secondo

dopoguerra, infatti, nell’Asia sudorientale si è verificato un «miracolo» – così almeno lo definisce la

Banca Mondiale59 – che si è esteso prima a Corea del sud, Taiwan, Hong Kong e Singapore per poi

contagiare Malaysia, Thailandia, Vietnam, fino alla crescita recente e accelerata del gigante cinese.

In ciascuno di questi paesi un’espansione economica trainata dalle esportazioni ha prodotto risultati

significativi sul fronte della lotta alla povertà: tra 1981 e 2001 le persone che in questa zona del

mondo vivono con meno di un dollaro al giorno calano da un miliardo e 200 milioni (54% sul totale

degli abitanti) a 700 milioni (23%).60

Tuttavia le ragioni e l’evidenza empirica di supporto non mancano neppure a chi mette in luce il rovescio di questa medaglia. Il Rapporto sullo sviluppo umano compilato dalle Nazioni Unite nel 1999 afferma:

La povertà è dappertutto. Le differenze tra i popoli e gli stati più ricchi e più poveri hanno continuato ad allargarsi. Nel 1960 il 20% della popolazione mondiale che abitava nei paesi più ricchi aveva un reddito 30 volte superiore a quello del 20% più povero. La proporzione è aumentata a 60 volte nel 1990 e a 74 nel 1997 […] Continua così una tendenza di fondo che dura da quasi due secoli. Alcuni avevano previsto una convergenza ma il decennio passato ha mostrato una crescente concentrazione del reddito fra le persone, le grandi aziende e le nazioni del mondo.61

59 Cfr.World Bank, The East Asian Miracle: Economic Growth and Public Policy, Oxford University Press, New York 1993 che prende in esame oltre al Giappone, Corea del sud, Hong Kong, Taiwan, Singapore, Malaysia, Thailandia, Indonesia. 60 Cfr.World Bank, World Development Indicators 2004, World Bank, Washington DC 2004, p.3. Per quattro quinti la riduzione dei poveri in Asia si concentra in Cina (cui si aggiungono risultati significativi in Indonesia, Pakistan, Sri Lanka). Più controversa appare la situazione in India, dove ancora nel 2000 i poveri con meno di un dollaro al giorno rappresentano il 35% su un miliardo circa di abitanti: cfr.ivi, p.65 e T.Callen-P.Reynolds-C.Tover (a cura di), India at the Crossroads: Sustaining Growth and Reducing Poverty, International Monetary Fund, Washington DC 2001; G.Datt-M.Ravallion, Is India Economic Growth Leaving the Poor Behind?, «Journal of economic perspectives», 16, 2002, n.3, pp.89-108. I dati sulla povertà della World Bank sono confermati dai dati sulle denutrizione di Food and Alimentation Organization of the United Nations, The State of Food Insecurity in the World, Fao, Roma 2004: tra 1990-92 e 2000-02 il numero di persone denutrite nel mondo è calato da 823 milioni a 815, in Asia da 569 a 519 (in Cina da 193 a 142), in America latina da 59 a 53, mentre è aumentato in Africa da 195 a 243 e nei paesi ex-comunisti da 23 a 28 milioni. 61 United Nations Development Programme, Human Development Report 1999, Oxford University Press, New York 1999, pp.3 e 36. Per una tra le più citate formulazioni accademiche di questo punto di vista, cfr.L.Pritchett, Divergence, Big Time, «Journal of economic perspectives», 1997, 11, n.3, p.3: «la divergenza tra livelli relativi di produttività e livelli di vita costituisce l’aspetto dominante della storia economica contemporanea. Nel corso dell’ultimo secolo i redditi nei paesi ‘sottosviluppati’ (o eufemisticamente ‘in via di sviluppo’) si sono allontanati di molto da quelli dei paesi ‘sviluppati’, sia in valori percentuali che in cifre assolute. La mia stima è che tra 1870 e 1990 il quoziente tra i redditi procapite dei paesi più ricchi e quelli dei paesi più poveri si sia moltiplicato grosso modo per cinque e che la differenza di reddito tra il paese più ricco e tutti gli altri si sia raddoppiata».

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Come vedremo meglio, povertà e ineguaglianza rappresentano due aspetti della realtà che non

possono essere confusi né assimilati. Esistono paesi – come per l’appunto l’Italia – con poca

ineguaglianza e molta povertà relativa:62 non necessariamente tra le due variabili sussistono

rapporti di proporzione diretta e la povertà può benissimo ridursi mentre contemporaneamente

cresce l’ineguaglianza. Proprio la Cina incarna in modo emblematico questa contraddizione. La

contrazione vistosa di enormi sacche di miseria (da 600 a 200 milioni di persone) si accompagna

infatti a una crescita di aree di benessere da cui prende origine una tendenza ormai pluridecennale

all’aumento dell’ineguaglianza del tutto paradossale per un paese comunista: tra 1980 e 1998 la

forbice dei redditi familiari si allarga progressivamente (soprattutto tra zone rurali ed urbane) fino a

raggiungere livelli non troppo distanti da quelli degli Stati Uniti.63 Al tempo stesso, se si esclude dal

computo la Cina, i poveri della Terra aumentano negli ultimi vent’anni da 845 a 888 milioni, con

una crescita significativa nei paesi ex comunisti (da 1 a 18 milioni), in America latina (da 36 a 50) e

soprattutto nell’Africa subsahariana (da 164 a 314).64 Almeno per il momento, dunque, la

«miracolosa» ricetta asiatica non sembra suscettibile di applicazioni efficaci in altre parti del

mondo: punto sul quale concorda anche la Banca Mondiale.65 Ma le cose possono essere viste

anche al contrario, come la dimostrata inefficacia di alternative in senso protezionistico

all’integrazione nel mercato mondiale: «non si danno casi di vittorie antiglobali nel Terzo Mondo

dopo il 1945».66

Rimane tuttavia il fatto che proprio la nozione di «Terzo mondo», intesa come un tutto unico e

indifferenziato, non riesce più a dar conto delle complessità e delle dinamiche che agitano oggi sia i

paesi in via di sviluppo sia quelli in transizione dal comunismo al libero mercato. Nella stessa

Africa subsahariana le percentuali di poveri che vivono con meno di un dollaro al giorno spaziano

dal 70% della Nigeria al 25% della Mauritania, al 10% della Costa d’Avorio. Coniato nel 1952 dal

62 In Italia il rapporto tra reddito del quinto di popolazione più ricco e quinto più povero nel 1998 è pari a 4,2 (contro il 5,6 della Francia, il 6,5 del Regno Unito, il 4,7 della Germania, il 5,4 della Spagna) mentre la percentuale di popolazione che vive con meno della metà del reddito medio è pari al 12,8% (contro l’8,4% di Francia, 10,6% del Regno Unito, 5,9% di Germania, 9,1% di Spagna): cfr.Human Development Report 2000, p.172. 63 Il rapporto tra il reddito del quinto della popolazione più ricco e quinto più povero passa da 4,6 nel 1980 a 7,9 nel 1998 (quello degli Usa è pari a 8,9) mentre per esempio in India passa da 7,0 nel 1975 a 5,7 nel 1998: cfr.World Bank, World Development Indicators 2004 cit; Human Development Report 2000, p.170. Per una critica e una decomposizione dei dati forniti dallo Statistical Yearbook del National Bureau of Statistics della Cina popolare, cfr.M.Ravallion-S.Chen, China’s (Uneven) Progress against Poverty, Policy research working paper 3408, World Bank, Washington DC 2004; C.Wan-M.Lu-Z.Chen, Global and Regional Income Inequality: Evidence from within China, Discussion paper 2004/10, United Nations University-World Institute for Development Economics Research, Helsinki 2004. 64 In America latina il tasso medio annuo di incremento dei poveri nell’ultimo ventennio (+1,9%) è simile al ritmo medio di incremento demografico (+1,9%) mentre è nettamente superiore in Africa (+4,6% contro +2,8%) e anche (ma su cifre assolute e da un punto di partenza assai inferiori) nei paesi ex comunisti (+85% contro +0,3%). 65 Cfr.World Bank, The East Asian Miracle cit., p.6 che riassume in 5 gli ingredienti del miracolo: alti tassi di investimento, scolarizzazione, protezionismo + impulso alle esportazioni, rapporti corporativi tra stati autoritari ed élite economiche, burocrazia pubblica efficiente. 66 P.H.Lindert-J.G.Williamson, Does Globalization Make the World More Unequal?, in M.D.Bordo-A.M.Taylor-J.G.Williamson (a cura di), Globalization in historical Perspective, University of Chicago Press, Chicago 2003, p.252.

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demografo ed economista francese Alfred Sauvy, il termine di Terzo mondo appartiene interamente

all’orizzonte ideologico eurocentrico della guerra fredda. Il Tiers (e non troisième) Monde si

definiva per assonanza con il Tiers État della Rivoluzione francese, come un nuovo soggetto

politico (di lì a poco formalizzato dalla conferenza dei paesi non allineati tenuta a Bandung nel

1955) contro gli equilibri bipolari imposti al pianeta dai primi due mondi rappresentati dalle

superpotenze atomiche di Stati Uniti e Unione Sovietica. Ma già nel 1974 era ancora Sauvy a

sottolinearne «l’arcaicità».67 «Diventato arcaico nella sua forma singolare per il mondo

contemporaneo – scrive Paul Bairoch – il termine necessita il plurale anche in riferimento al XIX

secolo. Risulta invece anacronistico, sia al plurale sia al singolare, se ci si colloca nel XVIII secolo,

ossia prima della rivoluzione industriale».68

Per chi si affanna sui dati statistici dell’attualità, il punto di vista dello storico economico e sociale

provoca un inevitabile e comprensibile effetto di spaesamento: cosa c’entra il Settecento con le

economie e i mercati di oggi?

Costretti per forza di cose ad analisi approfondite nel breve periodo, economisti e sociologi

finiscono per avere una visione dello sviluppo dei paesi poveri inevitabilmente schiacciata sul

periodo coloniale e sullo sforzo di modernizzazione istituzionale e civile immediatamente

successivo. Il problema è che spesso questo approccio si trova di fronte a retaggi che risalgono alla

storia precedente e tuttavia dimostrano una insospettabile e «perturbante» vitalità: identità etniche in

conflitto, magari abilmente sfruttate dai regimi coloniali come nel caso di Hutu e Tutsi nel Congo

Belga, logiche tribali di fazione e clientelismo che si sovrappongono allo sviluppo della macchina

statale e innalzano a livelli insopportabili la corruzione della burocrazia pubblica, inerzie e

resistenze delle comunità locali nei confronti dei processi di industrializzazione e

commercializzazione dell’agricoltura pianificati dal centro, appartenenze religiose capaci di

condizionare e stravolgere i meccanismi della rappresentanza elettiva, instabilità cronica di governi

e istituzioni. In Asia, Africa, America latina la storia passata e recente è costellata di esempi

variamente classificabili entro queste diverse casistiche. E quando vi si trova di fronte, lo sguardo

proteso al futuro prossimo di economisti e sociologi è spesso portato ad assimilare queste fastidiose

realtà a una sorta di genius loci dell’arretratezza: anacronistiche resistenze destinate prima o poi ad

essere spazzate via dal progresso economico e civile. Il rischio e la tentazione – in qualche modo

riverberati anche dal corrispettivo e simmetrico approccio «senza tempo» delle ricerche

etnografiche – sono quelli di applicare al «Terzo Mondo» la stessa visione che Hegel aveva

dell’Africa come spirito non sviluppato, senza storia, ancora avvolto nelle condizioni naturali: «il

67 Cfr.A.Sauvy, Trois mondes, une planète, «L’Observateur», 14 agosto 1952; Id., Feu Tiers-Monde, «Actuel dévellopement», maggio-giugno 1974, pp.5-7. Per un inquadramento storico-culturale del termine cfr.P.Worley, The Three Worlds: Culture and World Development, Weidenfeld & Nicholson, London 1984. 68 P.Bairoch, Storia economica e sociale del mondo. Vittorie e insuccessi dal XVI secolo ad oggi, v.1, Einaudi, Torino 1999, p.655.

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paese dell’oro, concentrato dentro di sé, è il paese dell’infanzia, avvolto nel colore nero della notte,

al di qua del giorno, al di qua della storia cosciente di sé».69

Eppure, come vedremo, la storia recente dell’«economia dello sviluppo», delle ricette che i paesi

ricchi hanno via elaborato nel corso del XX secolo per risolvere i problemi dei paesi poveri, è anche

la storia delle sconfitte che quei retaggi e quelle resistenze riemersi da un passato ritenuto ormai

lontano hanno saputo infliggere ai progetti modernizzanti elaborati dall’Occidente. La razionalità

dell’homo oeconomicus o dell’homo politicus si trova costretta a scendere a patti con logiche,

identità e credenze diverse, legate a contesti culturali «altri», dove quei modelli di comportamento

elaborati in Europa o sono assenti o sono presenti in forme spurie o quanto meno sono capaci di una

forza di richiamo e di attrazione più tormentata e minore di quella che siamo abituati ad attribuirgli.

Le percentuali così diverse di poveri nei paesi dell’Africa subsahariana di oggi corrispondono anche

a un vero e proprio mosaico storico di definizioni del povero nei diversi idiomi di quelle terre e

delle diverse tradizioni di assistenza e soccorso che ne sono conseguite nel corso del tempo.70 Ecco

che allora il recupero di una dimensione storica di lungo e talvolta «lunghissimo» periodo, può

rivelarsi uno strumento aggiuntivo e importante di conoscenza, in grado di restituire una profondità

di prospettiva al problema dell’ineguaglianza globale odierna. Ma non solo. Come anche questi

minimi cenni introduttivi sottolineano con forza, la questione dell’ineguaglianza e del sottosviluppo

è questione di statistiche, di accertamento della realtà secondo moduli di misurazione condivisi e

comparabili: il che corrisponde a uno sforzo tuttora in progress di miglioramento dei metodi, degli

strumenti, delle categorie utilizzati dalle agenzie internazionali che vi sono preposte e dei governi

nazionali che sono – chi più, chi meno – tenuti ad adeguarvisi. Anche questo sforzo ha alle spalle

una storia, ormai non così breve e a tutta vista significativa, che si intreccia con la storia delle

scienze sociali e del pensiero scientifico così come con mutamenti più generali del clima politico e

civile. Ma nello stesso tempo, ineguaglianza e sottosviluppo sono per definizione concetti relativi,

fondati sul confronto, largamente aperti alla penetrazione delle percezioni soggettive: dei giudizi e

pregiudizi individuali e collettivi che insieme formano il modo di guardare alla propria esperienza e

a quella degli altri. A differenza (forse) di economisti e sociologi, gli storici non dovrebbero

spaventarsi eccessivamente di una tale commistione di piani, tra l’oggettivo e il soggettivo; se non

altro perché dovrebbero avere confidenza con tempi e luoghi dove i confini tra statistiche esatte e

bias di vario tipo sono molto meno chiari, meno rigidi, meno univoci. Di fronte alla scoperta

dell’ineguaglianza, la «piccola» storia delle scienze statistiche si intreccia con la «grande» storia

della coscienza europea ed occidentale posta a confronto con gli «altri», la realtà alla sua

percezione. Quando, come e perché il problema dell’ineguaglianza tra paesi poveri e paesi ricchi si

69 G.W.F.Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, Laterza, Roma-Bari 2003, p.80. Su questo punto si veda G.Calchi Novati, Africa: la storia ritrovata. Dalle prime forme politiche alle indipendenze nazionali, Carocci, Roma 2005, p.29. 70 Cfr.J.Iliffe, The African Poor. A History, Cambridge Universiy Press, Cambridge 1987.

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pone all’attenzione dei primi e dei secondi? Quale ruolo gioca la parentesi coloniale nelle

dinamiche odierne dei paesi in via di sviluppo? In che misura comportamenti e strategie di

sopravvivenza dei poveri di tutto il mondo affondano le proprie radici in tradizioni e consuetudini

ancora più antiche dell’arrivo degli occidentali ma sopravvissute intrecciandosi attraverso

adattamenti e riconversioni al loro dominio? Come sono cambiati nel tempo i paradigmi di diagnosi

e terapia dell’arretratezza socioeconomica? E come è cambiato l’atteggiamento di élite e masse dei

paesi poveri nei confronti dell’Occidente? Nemmeno gli storici, naturalmente, hanno risposte

univoche a queste domande. Già la telegrafica ricostruzione degli ultimi tre secoli schematizzata da

Bairoch emerge da una controversia tuttora in corso, che trae alimento proprio dai fenomeni odierni

di globalizzazione. Bairoch colloca infatti al centro del quadro la rivoluzione industriale, come

fattore determinante nei processi di ineguaglianza globale.

La storia universale tra rivoluzione neolitica e rivoluzione industriale è stata costellata da numerose fratture importanti che hanno sconvolto la lenta marcia del tempo. Ciò nondimeno nessuna di queste fratture ha avuto conseguenze altrettanto profonde e generalizzate di quelle della rivoluzione industriale, la madre del mondo attuale, dell’opulenza e nello stesso tempo della miseria attuali; poiché anche il problema angoscioso del Terzo Mondo è, in gran parte, un portato della rivoluzione industriale.71

Sono tuttavia molti gli storici che alle spalle di questo spartiacque decisivo collocano processi

culturali di lungo periodo che occupano almeno i quattro-cinque secoli precedenti e danno alimento

a una «ascesa dell’Occidente» sul piano del dominio dei mari, del pensiero scientifico, della

tecnologia applicata, della supremazia economica, della potenza militare. L’ineguaglianza globale

odierna rappresenta allora l’effetto di una gerarchia del mondo ordinata da rapporti di forza: nella

classica formulazione di Wallerstein, fino dal XVI secolo si delineano i confini di una «economia-

mondo» capitalistica che, a differenza degli imperi precedenti e coevi, si configura come un sistema

multistatale organizzato sulla base di una divisione internazionale del lavoro e retto da un centro

localizzato in Europa (contraddistinto da lavoro salariato e stati forti) che egemonizza una periferia

(caratterizzata da lavoro coatto e stati deboli) e anche una semiperiferia (governata da patti agrari

misti come la mezzadria).72 Diversi sono i fattori che gli storici chiamano in causa per spiegare

l’origine della differenza tra centro e periferia: il diritto privato di proprietà e di sfruttamento

economico (in contrapposizione al dispotismo politico esercitato dai grandi imperi extraeuropei), un

ambiente vivibile (in contrapposizione alle catastrofi naturali tipiche della fascia tropicale del

pianeta e al clima psicologico di insicurezza e soggezione che ne deriva) insieme a un sistema

frastagliato di stati (cinquecento nel XVI secolo), la vivacità di un ceto commerciale in perenne

lotta per la propria autonomia contro il potere politico feudale, l’individualismo dell’etica

protestante weberiana, la felice collocazione geografica sulle rotte commerciali atlantiche, una

71 P.Bairoch, Storia economica e sociale cit., pp.48-9. 72 Cfr.I.Wallerstein, Il sistema mondiale dell’economia moderna, 3 vv., il Mulino, Bologna 1982-95 (ed or.1974-89).

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particolare concatenazione sequenziale di innovazioni tecnologiche e organizzative (dal vapore alle

società per azioni).73 In una delle formulazioni più conseguenti e ambiziose di questo approccio (a

partire dal titolo che riecheggia il classico Wealth of Nations di Adam Smith), David Landes

sistematizza le chiavi culturali esplicative della «vittoria» occidentale: la tradizione giudeo-cristiana

di sottomissione umana della natura (in contrapposizione all’animismo e all’idea di armonia

naturale delle altre confessioni), lo spirito di libertà personale e di spinta attivistica della Riforma

protestante, ma anche la tolleranza cattolica nei confronti dello schiavismo (condizione

indispensabile per lo sfruttamento delle colonie americane).74

Non possono sfuggire le implicazioni di stretta attualità che un simile approccio racchiude e che la

fine della guerra fredda non ha mancato di sottolineare. Da un lato, la presentazione della storia

occidentale come felice eccezione nel panorama della storia universale e, insieme, come polo

espansivo e potenzialmente attrattivo per una nuova convergenza globale. Il processo di

modernizzazione delle società di massa assume le vesti di un modello di sviluppo lineare ed

univoco, legato all’industrializzazione e alla crescita dei consumi di massa, visti in necessaria

concatenazione con il libero mercato e la democrazia parlamentare, che viene proposto ai paesi in

via di sviluppo come immagine normativa del loro avvenire, per dirla con le parole di Marx.75

Dall’altro lato, le civiltà che popolano la Terra si caratterizzano come entità organiche, compatte,

sostanzialmente chiuse ed immobili: i loro sistemi di valori, sintetizzati dalle grandi confessioni

religiose, si confrontano in una competizione globale che in linea di principio rifugge dagli intrecci,

dalle contaminazioni, dalle collaborazioni negoziali.76

Quasi diametralmente opposto è l’approccio degli storici che traggono spunto proprio dai fenomeni

odierni di globalizzazione per guardare al mondo come a un sistema globale di relazioni e di

interdipendenze reciproche, naturalmente portato a valicare i confini formali degli stati nazionali.77

73 Per queste diverse sottolineature di un fattore rispetto agli altri cfr.nell’ordine D.C.North-R.P.Thomas, The Rise of Western World: A New Economic History, Cambridge University Press, Cambridge 1973; E.L.Jones, Il miracolo europeo. Ambiente, economia e geopolitica nella storia europea e asiatica, il Mulino, Bologna 1984 (ed.or.1981); D.Gress, From Plato to Nato: The Idea of the West and Its Opponents, Free Press, New York 1998; D.Lal, Unintended Consequences: The Impact of Factor Endowments, Culture, and Politics in Long-Run Economic Performance, Mit Press, Cambridge MA 1998; J.M.Blaut, The Colonizer’s Model of the World: Geographical Diffusionism and Eurocentric History, Guilford, New York 1993; N.Rosenberg-L.E.Birdzell, Come l’Occidente è diventato ricco. Le trasformazioni economiche del mondo industriale, il Mulino, Bologna 1988 (ed.or.1986); A.Inkeles, One World Emerging? Convergence and Divergenze in Industrial Societies, Westview, Boulder CO 1998. 74 Cfr.D.S.Landes, La ricchezza e la povertà delle nazioni. Perché alcune sono così ricche e altre sono così povere. Garzanti, Milano 2000 (ed.or.1998). 75 Per una formulazione precoce ed autorevole di questo punto di vista cfr.W.W.Rostow, The Stages of Economic Growth: A Non-Communist Manifesto, Cambridge University Press, New York 1960; per una formulazione più recente e «militante» cfr.L.E.Harrison-S.P.Huntington (a cura di), Culture Matters: How Values Shape Human Progress, BasicBooks, New York 2000. Il riferimento è a K.Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, Prefazione alla prima edizione, Editori riuniti, Roma 1978, p.5: «il paese industrialmente più sviluppato non fa che mostrare a quello meno sviluppato l’immagine del suo avvenire». 76 Cfr.S.P.Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 1997. 77 Per una formulazione precoce di questo tipo di approccio nel campo delle scienze politiche, cfr.R.Keohane-J.Nye, Power and Interdependence: World Politics in Transition, Little Brown, Boston 1977.

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L’abbandono di un punto di vista eurocentrico conduce così a mettere in risalto l’esistenza di

diverse «economie-mondo» preindustriali, la preminenza tecnologica dell’impero cinese almeno

fino al XVI secolo, le capacità competitive dei sistemi produttivi e commerciali asiatici fino

all’epoca della rivoluzione industriale. Quest’ultima mantiene il proprio carattere di spartiacque

storico decisivo all’origine della «grande divergenza» ma rappresenta, anziché l’esito necessario di

una diversa civiltà, il frutto di vantaggi particolari e contingenti non particolarmente «civili»: la

disponibilità di carbone (necessario per l’estrazione di energia dal regno minerale) sul suolo inglese,

il rifiuto dello «stato sociale» cinese di proteggere i ceti mercantili a scapito dei ceti contadini, il

contributo fornito dal commercio di schiavi allo sviluppo occidentale.78

Prima del XIX secolo, e forse non molto prima, gli europei ritenevano che alcuni paesi attualmente sottosviluppati, in particolare la Cina e alcune parti dell’India, fossero molto più avanzati dell’Europa; e a quel tempo il reddito pro capite di detti paesi non poteva essere superiore a quello di cui disponevano i paesi attualmente sviluppati. Se così è, il reddito pro capite in questi originari leader economici, attualmente sottosviluppati, è fortemente diminuito; oppure, cosa più probabile, il reddito pro capite dei paesi europei e dei loro insediamenti oltreoceano è aumentato fortemente prima dell’industrializzazione. Tali considerazioni sottolineano la necessità di analizzare le fasi preindustriali dei paesi oggi sviluppati e, parallelamente, di individuare gli effetti che su molti paesi attualmente sottosviluppati ha avuto il retaggio di una precedente superiorità economica; superiorità intesa in termini di popolazione e di meccanismi sociali che, per quanto efficienti in passato, non rispondono alle esigenze odierne ed anzi ostacolano l’introduzione della tecnologia moderna, economica e sociale.79

78 Cfr. Cfr.J.Abu Lughod, Before the European Hegemony: The World System 1250-1350, Oxford University Press, New York 1989 che individua 8 circuiti commerciali (ciascuno con propri centri e periferie): Europa continentale, Mediterraneo e Mar Nero, via della seta, Asia del Pacifico, Oceano Indiano orientale, Oceano indiano occidentale, Medio oriente, Mar Rosso; R.Bin Wong, Cina Transformed: Historical Change and the Limits of European Experience, Cornell University Press, Ithaca 1997; K.Pomeranz, The Great Divergence: Europe, China, and the Making of the Modern World Economy, Princeton University Press, Princeton 2000; A.Gunder Frank, ReOrient: Global Economy in the Asian Age, University of California Press, Berkeley 1998. Si veda anche il forum Asia and Europe in the World Economy, «American historical review», 2002, 107, n.2, pp.419-80 e il dibattito tra D.Landes e A.Gunder Frank tenutosi il 2 dicembre 1998 al World History Center della Northeastern University: www.whc.neu.edu/whc/seminar/pastyears/frank-landes. 79 S.Kuznets, Verso una teoria dello sviluppo economico (1955), in Id., Sviluppo economico e struttura, Il Saggiatore, Milano 1969 (ed.or.1965), pp.31-2. Per rilievi analoghi sull’Africa cfr.B.Davidson, The Search for Africa: History in the Making, Currey, London 1994, p.43: «gli europei del XVI secolo credevano di aver trovato forme di civiltà che spesso erano paragonabili alle loro, per quanto diversamente e variamente atteggiate e modellate. Un’epoca successiva avrebbe poi preferito dimenticarsene e avrebbe sostenuto che l’Africa non aveva conosciuto altro che una selvaggia barbarie davvero senza speranza. Faremmo bene a ricordare che un diffuso atteggiamento di disprezzo degli europei per gli africani […] fu un atteggiamento nato dalla tratta atlantica degli schiavi dopo il 1650 circa e, in seguito, dalle culture del capitalismo europeo. Prima di allora e fino a metà del XVII secolo praticamente non esisteva e divenne comunemente accettato solo nel Settecento». Si veda anche P.D.Curtin, The Image of Africa. British Ideas and Action 1780-1850, University of Wisconsin Press, Madison 1964, p.35: «il modo africano di fare le cose poteva apparire strano o fastidioso, ma gli individui africani venivano rappresentati con capacità, colpe e virtù nelle stesse proporzioni degli Europei. I mercanti sulle coste dell’Africa (a differenza dei proprietari di piantagioni nelle Indie Occidentali) commerciavano con partner africani - forse non ritenuti paritetici o preferibili dagli Inglesi, ma nondimeno uomini facoltosi le cui opinioni non potevano essere tranquillamente ignorate. Così l’immagine degli Africani in Africa era radicalmente diversa dallo stereotipo dell’Africano servo, preponderante nelle Americhe». Una rapida rassegna di testimonianze analoghe su Asia, America latina e Medio Oriente tra XIII e XIX secolo in P.Bairoch, Economia e storia mondiale. Miti e paradossi, Garzanti, Milano 1996, p.136 sgg. mentre un case-study che sottolinea l’assenza di una percezione di economie divergenti prima del 1800 è W.J.Barber, British Economic Thought and India 1650-1858: A Study in the History of Development Economics, Clarendon, Oxford 1975.

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Le parole di Simon Kuznets, una delle voci più autorevoli tra gli scienziati sociali che si occupano

di storia dello sviluppo economico, tornano dunque a sottolineare i nessi tra presente e passato. E in

effetti mettono in luce una eventuale contraddizione nell’approccio culturalista di Landes e degli

altri studiosi legati a una visione eccezionalista dell’egemonia occidentale: se la «cultura conta», se

i diversi percorsi di civiltà esercitano un peso determinante nell’approdo a una moderna società di

massa, come è possibile poi proporre a quei paesi «diversi» la stessa identica ricetta di industria,

democrazia, diritti umani che l’Occidente ha escogitato per se stesso? Può darsi invece che nella

critica del «retaggio di precedenti superiorità economiche» preindustriali, paesi come India e Cina

possano trovare la chiave di una crescita prossima ventura più efficace proprio perché non

esclusivamente imitativa dei moduli occidentali? Esiste una strada intermedia tra l’indifferente

relativismo culturale (per cui ognuno a casa sua fa quello che gli pare) e il colonialismo anche

involontario di chi propone il modello occidentale come l’unico possibile, tra l’indispensabile presa

d’atto della dimostrata superiorità economica e civile di quest’ultimo e l’altrettanto indispensabile

presa d’atto dei limiti, delle difficoltà, delle contaminazioni che l’esportazione di questo modello in

altre parti del mondo sembra incontrare? Una risposta positiva a queste domande viene non

casualmente dal pensiero post-coloniale: da quelle correnti di studio che, a partire dagli anni ottanta,

tentano di «decostruire» il condizionamento culturale esercitato dalla dominazione occidentale nel

passato dei propri paesi.

Il pensiero europeo è insieme indispensabile e inadeguato nell’aiutarci a ripensare le esperienze della modernità politica in nazioni non occidentali e provincializzare l’Europa diventa il compito di esplorare come questo pensiero – che oggi è eredità di ciascuno e tutti ci influenza – possa essere rinnovato da e per i suoi margini.80

«Provincializzare l’Europa», spostare il punto di vista e guardare dalla «periferia» verso il «centro»

può rivelarsi fonte di notevoli sorprese. Fuori da ogni relativismo culturale (terzomondista o

decostruzionista che sia) e da ogni atavismo nazionalistico di ritorno, l’approccio postcoloniale

contribuisce a svelare un concetto più mosso, meno deterministico e meno monolitico di Occidente.

Le civiltà acquistano una fisionomia meno immobile, meno stratificata, meno meccanicistica, meno

separata. Il presunto modello occidentale di sviluppo industriale e democratico mette in luce

significative varianti interne – dal capitalismo welfare «nippo-renano» a quello stock market

anglosassone – con implicazioni decisive sul terreno dei sistemi di assistenza sociale, dei valori

civici di fondo, forse anche delle strategie di politica estera.81 Non esiste, insomma, un’unica strada

da proporre ai paesi in via di sviluppo. D’altra parte, come esemplifica bene il caso della Cina

comunista (con tratti che possono estendersi anche a diversi altri paesi dell’Asia orientale),

80 D.Chakrabarty, Provincializing Europe. Postcolonial Thought and Historical Difference, Princeton University Press, Princeton 2000, p.16. 81 Cfr.S.Berger-R.Dore (a cura di), Differenze nazionali e capitalismo globale, il Mulino, Bologna 1998; R.Dore, Capitalismo di borsa o capitalismo di welfare?, il Mulino, Bologna 2001; R.Kagan, Paradiso e potere. America ed Europa nel nuovo ordine mondiale, Mondadori, Milano 2003.

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l’apertura al capitalismo non necessariamente (o quanto meno non immediatamente) si traduce in

una parallela apertura alla democrazia e al rispetto dei diritti umani e sociali. Ma anche sul piano

più strettamente economico, le deviazioni dalla «giusta via» liberistica appaiono rilevanti: in Cina e

in molti paesi asiatici un developmental state – più vicino a quello occidentale degli anni trenta del

Novecento, che non a quello più liberista e leggero del 2000 – esercita un ruolo economico attivo,

che si viene spostando dalle sfere tradizionali della pianificazione produttiva e dell’accumulazione

dei capitali verso quelle dell’attrazione degli investimenti stranieri, del controllo dei flussi migratori

interni e internazionali, del sostegno alle esportazioni.82

Come si vede, è nuovamente la storia a tornare in primo piano. In parallelo allo spostamento nello

spazio dal centro verso le periferie, anche lo spostamento all’indietro nel tempo del punto di vista

contribuisce a relativizzare e a mettere in prospettiva il presente. Per fare un esempio sul quale

ovviamente tornerò, le politiche di aggiustamento strutturale proposte ai paesi poveri dal Fondo

Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale come condizioni vincolanti all’erogazione di

prestiti finanziari – politiche fatte, com’è noto, di rigore di bilancio, tagli alla spesa pubblica,

stabilizzazione delle valute – provengono da un mutamento di paradigma relativamente recente

della teoria economica occidentale: quella svolta monetarista e neoliberista che all’inizio degli anni

ottanta inverte un ciclo diametralmente opposto di fiducia nel ruolo dello stato di sostegno alla

domanda interna e nel patto sociale che ne consegue, per molti versi legato al nome di Keynes.83

Dal punto di vista storico non può non apparire quantomeno azzardato attribuire a quelle politiche il

valore di verità universale, indipendente dalle condizioni dello spazio e del tempo. Una cautela che

dovrebbe essere ulteriormente rafforzata dalla semplice constatazione che ineguaglianza e povertà

sono problemi che l’Occidente non è ancora riuscito a risolvere presso di sé: come vedremo, quella

stessa svolta teorica degli anni ottanta si accompagna a un riacutizzarsi delle differenze sociali in

molti paesi occidentali, primi fra tutti gli Stati Uniti e la Gran Bretagna.

Eppure questa tendenza alla assolutizzazione culturale delle proprie conquiste rappresenta una

costante negli incontri e nei rapporti dell’Occidente con il resto del mondo. Si pensi, per esempio,

alla concezione monetizzata del tempo o alla parità delle donne, spesso sbandierati, ancora ai giorni

nostri, come inequivocabile certificato al contrario dell’arretratezza connaturata, difficilmente

superabile, di molti popoli extraeuropei. Mentre rappresentano anche per l’Occidente – come la

storia appunto ci insegna – il frutto di tormentati itinerari, se non addirittura traguardi relativamente

recenti e tuttora oggetto di contesa. Suonano insomma ancora attuali le conclusioni di un classico

studio sull’Africa precoloniale, luogo esemplificativo di tali distorsioni: «l’immagine dell’Africa

82 Cfr.L.C.Thurow, Il futuro del capitalismo. Regole, strategie e protagonisti dell’economia di domani, Mondadori, Milano 1997, p.58 sgg.; P.Tiberi Vipraio, Dal mercantilismo alla globalizzazione. Lo sviluppo industriale trainato dalle esportazioni, il Mulino, Bologna 1999, particolarmente p.254 sgg. 83 Cfr.D.J.Forsyth-T.Notermans, Regimi di politica macroeconomica e regolazione finanziaria in Europa 1931-1996, «Stato e mercato», 16, 1996, n.48, pp.367-408.

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che si venne a creare in Europa serviva in larga misura a soddisfare bisogni europei, talvolta

materiali ma più spesso di ordine culturale».84 Proprio il XIX secolo – aperto dalla rivoluzione

industriale e chiuso dal colonialismo – rappresenta un cruciale laboratorio di discussione in tempo

reale, aperto a posizioni tutt’altro che univoche ma decisivo nel costruire stereotipi di larga

diffusione e perdurante radicamento su una presunta «indole» dei popoli in via di sviluppo.

I viaggiatori andavano in Africa conoscendo i rapporti dei loro predecessori e le conclusioni teoriche da essi raggiunte. Erano perciò sensibili ai dati che sembravano confermare i loro pregiudizi europei e meno sensibili a quelli che potevano contraddirli. I loro rapporti passavano quindi attraverso un doppio sistema di filtri positivi e negativi, per essere poi ulteriormente filtrati al momento della loro ricezione in Inghilterra. I dati che non si adattavano all’immagine già esistente spesso venivano semplicemente ignorati. Di conseguenza l’idea britannica dell’Africa rispondeva in modo molto debole ai dati nuovi di ogni genere. Rispondeva molto più da vicino ai cambiamenti del clima intellettuale inglese. I viaggiatori (e ancor più gli analisti in patria) assumevano la Weltanschauung europea come il proprio punto di partenza. Non si chiedevano «com’è l’Africa e che tipi di esseri umani ci vivono» bensì «come fa l’Africa e come fanno gli Africani a adattarsi a quanto già sappiamo sul mondo?». In questo senso, l’immagine dell’Africa era molto più europea che africana.85

Le molte ricostruzioni del dibattito culturale precoloniale convergono largamente nel sottolineare

come il problema dell’ineguaglianza subisca nel corso dell’Ottocento una serie di slittamenti di

senso. Prima si trasforma in problema del ritardo lungo una presunta strada fissata dall’Occidente;

quindi se ne cerca la motivazione strutturale in incroci tra condizionamenti culturali e vincoli

climatico-ambientali (temperature tropicali, siccità, deserti, foreste, distanze); col risultato finale di

una accezione meramente negativa della diversità, intesa come incapacità-impossibilità a

raggiungere determinati livelli di progresso e civiltà.86 Proprio alla fine di quel periodo William

Cunningham, economista e viaggiatore scozzese, nel suo Saggio sulla civiltà occidentale

sistematizza un’architettura concettuale del problema dell’ineguaglianza destinata a duratura

fortuna: il miglioramento di qualità della vita introdotto dal modo di produzione industriale, la

missione di esportazione nel mondo che ne compete al Regno Unito per mettere a frutto tutte le

terre sottoutilizzate del pianeta, ma soprattutto un gioco di parallelismi tra ascesa delle masse

operaie in Occidente e inclusione dei popoli extraeuropei nel mercato mondiale, entrambe viste

nella comune prospettiva di un mondo più unito e più equo.

Capitalisti intraprendenti sono pronti ad aprirsi una via in qualunque parte del mondo, dove vi sia la prospettiva di sviluppare risorse naturali che rendano proficue le loro imprese. I miglioramenti meccanici e l’organizzazione capitalistica dell’industria (che è associata a quelli) stanno prendendo il posto delle arti primitive e dei tipi antichi di vita economica in ogni regione conosciuta del globo […] I popoli civili insistono affinché le risorse della terra siano utilizzate in tutta la loro estensione; e non ammettono che alcun popolo barbaro o semi-civile pretenda conservare un territorio che non si cura di sfruttare […] Molti credono che questi mutamenti siano funesti e guardano al futuro coi più cupi presentimenti. Essi credono che ogni passo del progresso significhi che una parte sempre più grande della popolazione del globo sia costretta a

84 P.D.Curtin, op.cit., p.480. 85 Ivi, p.479. 86 Oltre al saggio citato di Curtin cfr. …

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una lotta più dura per l’esistenza […] Per quanto possiamo giudicare, il grado di benessere di un esperto artigiano in America e in Inghilterra è più alto che non sia stato in alcun periodo anteriore della storia del mondo e le classi lavoratrici in questi paesi hanno tanto potere politico che i loro sforzi per mantenere o accrescere quel grado di benessere non saranno facilmente frustrati […] Vi è però una condizione necessaria ugualmente in tutti i paesi; se si vuol controllare il giuoco delle forze economiche in modo da ridurre al minimo i danni che accompagnano i cambiamenti industriali, vi dev’essere un potere politico abbastanza forte da imporsi […] Soltanto sotto l’egida di un forte potere politico si possono fare concessioni territoriali ai popoli primitivi e tentativi di promuovere il loro miglioramento […] L’espansione della civiltà occidentale ha portato in stretto contatto le varie razze del mondo, con differenze di usi e costumi apparentemente irreconciliabili; vi è stato molto spietato sterminio ovunque si sono incontrati i civili e i semibarbari, e vi sono crescenti invidie razziali tra popoli civili di razze diverse. Non si possono sopprimere antagonismi profondamente radicati, ma si possono modificare in modo che cessino di essere un pericolo; essi cessano di esserlo quando noi, non soltanto riconosciamo che il fatto che razze diverse sono adatte per condizioni diverse di clima e di suolo costituisce in se stesso un diritto all’esistenza, ma cerchiamo gradatamente d’innalzare le razze inferiori a ideali più alti di vita, così che l’introduzione delle macchine moderne e dell’organizzazione moderna non sia in se stessa una maledizione. Soltanto quando noi e loro potremo avere una base comune, accettando gli stessi ideali e cercando di attuarli, vi potrà essere uno sviluppo armonico delle attività di tutta la razza umana.87

Come vedremo, molte delle argomentazioni di Cunningham costituiscono l’esito di un lungo

processo di secolarizzazione delle motivazioni e delle spinte coloniali, che tende a spogliare il

«fardello dell’uomo bianco» – per usare la celebre immagine di Kipling88 – dei suoi contenuti civili

e religiosi, per assumere quelli economici e tecnologici. Al tempo stesso tale supremazia laica

dell’Occidente fonda un nesso tra sviluppo e potere politico «forte», che continua a muoversi

ambiguamente sul crinale tra razza e razze riducendo, in buona sostanza, la storia passata delle altre

civiltà a ostacolo da rimuovere sulla strada del progresso. Ma sulla possibilità che i popoli meno

sviluppati possano seguire le orme di quelli più sviluppati cresce, lungo tutto l’arco del secolo, un

corpus di studi che spesso è opera dei diretti operatori in campo coloniale e anche (ma più tardi e in

misura minore) dei loro interlocutori presenti nelle élite dei paesi colonizzati. Questo dibattito

rappresenta un antecedente significativo delle elaborazioni che nel corso del secolo successivo –

soprattutto a partire dalla crisi del ‘29 – si vengono raccogliendo fino ai giorni nostri attorno al tema

dello sviluppo e del sottosviluppo. Anche in questo caso si tratta di una storia particolare, ancora

non moltissimo indagata,89 le cui svolte periodizzanti accompagnano momenti salienti della storia

mondiale: la fine della seconda guerra mondiale e la costituzione dell’Onu, la decolonizzazione, il

Sessantotto, la rivoluzione neoliberale degli anni Ottanta, il crollo dei regimi comunisti. Ciascuna di

queste svolte corrisponde all’enfatizzazione di un fattore causale (e di una conseguente ricetta

87 W.Cunningham, Saggio sulla civiltà occidentale nei suoi aspetti economici, Vallecchi, Firenze 1973, pp.335-6, 341, 351-2 (ed.or.Cambridge 1898-1900). 88 Cfr.J.R.Kipling, The White Man’s Burden (1899) in Poesie, Mursia, Milano 1970, p.99: «addossatevi il fardello del Bianco-/mandate i migliori della vostra razza-/andate, costringete i vostri figli all’esilio/per servire ai bisogni dei sottoposti/per custodire in pesante assetto/gente irrequieta e sfrenata-/popoli truci, da poco soggetti/mezzo demoni mezzo bambini». Sulla diffusione di questo testo nei manuali scolastici inglesi cfr.O.Barié, Idee e dottrine imperialistiche nell’Inghilterra vittoriana, Laterza, Bari 1953, pp.293-4. 89 Fra le rare eccezioni cfr.H.W.Arndt, Economic Development. The History of an Idea, University of Chicago Press, Chicago 1987.

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diagnostica) rispetto agli altri: l’ambiente, la cultura, lo stato… Su questa base si fondano paradigmi

interpretativi dell’ineguaglianza che, talvolta in maniera sorprendente, riprendono da vicino non

solo tematiche e posizioni maturate nel corso del XIX secolo, ma anche contrapposizioni tipiche del

dibattito storiografico sui processi di industrializzazione e sull’ascesa dell’Occidente. È a questo

punto che il mestiere di storico – almeno quello più abituato a spaziare nei diversi ambiti delle

scienze sociali – viene quasi a trovarsi in posizione privilegiata per restituire spessore e profondità a

questo dibattito. E lo può fare, credo, a un doppio livello. Il primo è quello di rintracciare nel

passato, sia prossimo sia remoto, le radici delle traduzioni che le parole d’ordine occidentali sulla

crescita economica subiscono nei diversi contesti geografici: laddove agli imprenditori si affiancano

le comunità di villaggio, allo stato costituzionale le appartenenze etniche, ai diritti di proprietà

quelli consuetudinari. Con il risultato, che mi pare non indifferente, di delineare positivamente

queste realtà «altre» rispetto all’Occidente non più soltanto come zone d’ombra da rimuovere, bensì

come intrecci costitutivi di nuovi, inediti, percorsi verso la modernità; non cause strutturali e

tendenzialmente inamovibili di povertà e sottosviluppo, bensì risorse ed opportunità da esplorare

nella direzione del bene comune. «La modernità in generale non esiste – ha scritto uno storico della

cultura prenazista, in polemica con quanti dipingono il caso tedesco come un Sonderweg, una

deviazione dalla via maestra del capitalismo liberale – esistono società nazionali ciascuna delle

quali diventa moderna a modo suo».90

Il secondo livello cui si può utilmente collocare il contributo degli storici mi sembra quello di una

«decostruzione» del discorso occidentale su arretratezza e sottosviluppo, non già allo scopo di

ingenerare confusione tra realtà e percezione negando valore euristico alle analisi di economisti e

sociologi; quanto piuttosto – ed è cosa ben diversa – per rintracciare i filoni di pensiero (spesso

insospettabilmente antichi) che stanno alle spalle anche delle indagini più recenti, volutamente più

«fredde» e statistiche, sul tema dell’ineguaglianza globale.

90 J.Herf, Il modernismo reazionario. Tecnologia, cultura e politica nella Germania di Weimar e del Terzo Reich, il Mulino, Bologna 1988, p.3. Per la critica di un’accezione univoca e deterministica della rivoluzione borghese europea cfr.G.Eley, Alla ricerca della rivoluzione borghese: le particolarità della storia tedesca, «Passato e presente», 7, 1988, n.16, pp.55-80.

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