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1 Filosofia teoretica 2 Richard Davies a.a. 2007-8 Modulo A (24026) primo semestre Istituzioni di filosofia Indicazioni di lettura per frequentanti e per non-frequentanti

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1

Filosofia teoretica 2

Richard Davies

a.a. 2007-8

Modulo A (24026)

primo semestre

Istituzioni di filosofia

Indicazioni di lettura

per frequentanti e per non-frequentanti

2

Indice

IntroduzioneObblighi per frequentanti e non-frequentanti

(1) Obblighi comuni 4

(2) Obblighi e modalità d’esame per i frequentanti 4

(3) Obblighi e modalità d’esame per i non-frequantanti 4

Testi (in ordine cronologico)

Autore testo e parte genere letterario

Parmenide di Elea, La natura, fr. 8 poema argomentativo 6

Platone di Atene Eutrifrone, 2-9 dialogo aporetico 9

Fedro, 274-8 dialogo socratico 19

Gorgia, 482-6 declamazione 26

Immagini della condizione umana (da Platone a Matrix) 31

Teeteto, 169-72 dialogo indiretto 33

Sofista, 256-262 dialogo fantasmatico 38

Aristotele di Stagira Sull’interpretazione, ix trattato 46

Confutazioni sofistiche, xxxiv autocongratulazione intellettuale 50

Fisica I, ii, 185a27-b26 disamina critica 52

Metafisica, IV, iii-iv (part) dimostrazione elenchtica 55

Metafisica, V, xxx lessico 58

Etica nicomachea, I, v raccolta delle cose dette 59

Etica nicomachea, V, i e vii lezione pubblica 61

Un’immagine delle ‘scuole’ filosofiche ad Atene 65

M.T. Cicerone Tuscolane, V, 8-9 monologo terapico 66

T. Lucrezio Caro La natura delle cose II, 218-91 poema didattico 69

Sesto Empirico Schizzi pirroniani, dal lib. I promozionale 72

Luciano di SamosataI filosofi all’asta 20-25 teatrino satirico 76

Diogene Laerzio Vite dei filosofi, VII, 36-48 dossografia 8

Giamblico Vita pitagorica, I, xii, biografia esemplare 84

Sant’Agostino Confessioni, XI, 12-8 confessione spirituale 85

Boezio Consolazione, V, iii dialogo consolatorio 90

3

Sant’Anselmo Proslogion proemio e I, 2-5 dialogo teocentrico 93

Eadmero di Bec Vita di Sant’Anselmo, I 25-6 agiografia 96

San Tommaso Sulla Verità, qu 2, art xii quæstio disputata 98

Thomas Hobbes Leviatano, I, xiii trattato politico ricostruttivo 108

Renato Cartesio Il mondo, 5-7 speculazione fisica 113

Discorso sul metodo, 2 autobiografia stilizzata 126

Meditazioni, I monologo paranoico 133

Benedetto Spinoza Trattato Teologico-Politico, vi esegesi biblica 138

G.W. Leibniz Discorso di metafisica, vi-vii trattato articolato 145

Nuovi saggi, II, xxvii, 1-9 dialogo-commentario 147

J.-J. Rousseau Origine della disuguaglianzasaggio in concorso 154

Immanuel Kant ‘Nota sul genio’ appunti per lezione universitaria 164

P.S. De Laplace Sulla probabilità, ii divulgazione matematica 165

Friedrich Nietzsche ‘Verità e bugie…’ saggio provocatorio 167

J. Cowper Powys Wolf Solent, cap. 5 romanzo 179

A.S. Eddington Natura del mondo fisico divulgazione scientifica 182

Casimir Lewy Significato e modalità, 2 trattato accademico (‘analitico’) 188

Massimo Cacciari ‘L’invenzione dell’individuo’ articolo di rivista intellettuale

(‘continentale’) 196

Letture autonomePercorsi di approfondimento per i non-frequentanti 200

Suggerimenti di lettura

Strumenti di consultazione 201

Introduzioni alla filosofia 202

‘Parafilosofia’ 202

Prontuario per la stesura di una tesina 205

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Introduzione

Obblighi per frequentanti e non-frequentanti

(1) Obblighi comuni, sia per i frequentanti che per i non-frequentanti (5 crediti formativi)

Tutti gli studenti del corso sono tenuti a familiarizzarsi con:

(i) i capitoli 3 e 5 di R. Popkin e A. Stroll, Filosofia per tutti, Net, Milano, 2003 (pp.

139-200 e 239-308)

(ii) i testi contenuti in questa dispensa a pp. 6-199

(2) Obblighi e modalità di esame per i frequentanti (5 CFU)

Per la frequenza effettiva si intende la presenza ad almeno due terzi delle lezioni del modulo.

L’esame orale verterà sugli argomenti discussi in aula e sui testi di cui sopra (‘Obblighi comuni’).

In aggiunta all’esame orale previsto dalla legge, gli studenti hanno l’opzione di due altre modalità di

verifica, che possono concorrere alla valutazione finale.

La prima è un paper scritto a fine modulo. Questo è della durata di due ore e consiste in una

scelta di tre domande delle sei proposte concernente il contenuto delle lezioni. Si presuppone una

conoscenza della lettura delle parti indicate di Popkin e Stroll, ma questo testo non è oggetto

dell’esame.

La seconda modalità alternativa a disposizione dei frequentanti è l’elaborazione di una tesina in

5-10 pagine in linea con le indicazioni fornite più sotto (‘Prontuario per la stesura di una tesina’,

pp.205-12). Gli studenti possono scegliere uno degli argomenti proposti per i non-frequentanti

(‘Percorsi di approfondimento’, pp. 200-1) o proporre un percorso personale inerente ai temi del

corso; in questo secondo caso è vivamente consigliato previo accordo sulle letture e sul titolo con il

docente del corso. Una tesina vale per 5 formativi crediti universitari (CFU).

(3) Obblighi e modalità di esame per i non-frequentanti (5 CFU)

I non-frequentanti devono preparare i testi di cui sopra (‘Obblighi comuni’) e preparare uno degli

approfondimenti proposti più sotto (‘Percorsi di approfondimento’, pp. 200-1). Per la ‘preparazione’

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si intende una lettura accurata e riflessiva, mirata a sostenere un’interrogazione orale sia

sull’argomento scelto sia sui testi di base.

Come preparazione all’esame orale previsto dalla legge, i non-frequentanti possono elaborare

una tesina di 5-10 pagine in linea con le indicazioni fornite più sotto (‘Prontuario per la stesura di

una tesina’ pp. 205-12) o su uno degli argomenti proposti o proponendo un percorso personale

inerente ai temi del corso; in questo secondo caso è vivamente consigliato previo accordo sulle

letture e sul titolo con uno dei docenti del corso. Una tesina vale 5 crediti formativi universitari

(CFU)

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Parmenide di Elea (prima metà V sec. a.C.)

Sulla natura

lingua originale: greco

edizione di riferimento: H. Diels (e poi W. Kranz) Die Fragmente

der Vorsokratiker (Berlino, 1903 ecc.)

tr. it. G. Reale (I presocratici, Bompiani, Milano, 2006)

tema: l’uno-Essere

genere letterario: poema argomentativo

Frammento 8 (desunto da molteplici fonti antiche)

Resta solo un discorso della via:

che «è». Su questa via ci sono segni indicatori

assai numerosi: che l’essere è ingenerato e imperituro,

infatti è un intero nel suo insieme, immobile e senza fine.

5 Né una volta era, né sarà, perché è ora insieme tutto quanto,

uno, continuo. Quale origine, infatti, cercherai di esso?

Come e da dove sarebbe cresciuto? Dal non-essere non ti concedo

né di dirlo né di pensarlo, perché non è possible né dire né pensare

che non è. Quale necessità lo avrebbe mai costretto

10 a nascere, dopo o prima, se derivasse dal nulla?

Perciò è necessario che sia per inte’ro, o che non sia per nulla.

E neppure dall’essere concederà la forza di una certezza

che nasca qualcosa che sia accanto ad esso. Per questa ragione né il nascere

né il perire concesse a lui la Giustizia, sciogliendolo dalle catene,

15 ma saldamente lo tiene. La decisione intorno a tali cose sta in questo:

«è» o «non è». Si è quindi deciso, come è necessario,

che una via si deve lasciare, in quanto è impensabile e inesprimibile,

perché non del vero è la via, e invece che l’altra è, ed è vera.

E come l’essere potrebbe esistere nel futuro? E come potrebbe essere nato?

Parmenide di Elea Poema sulla natura

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20 Infatti, se nacque, non è; e neppure esso è, se mai dovrà essere in futuro.

Così la nascita si spegne e la morte rimane ignorata.

E neppure è divisibile, perché tutto intero è uguale;

né c’è da qualche parte un di più che possa impedirgli di essere unito,

né c’è un di meno, ma tutto intero è pieno di essere.

25 Perciò è tutto intero continuo: l’essere, infatti,si stringe con l’essere.

Ma immobile, nei limiti di grandi legami

è senza un principio e senza una fine, poiché nascita e morte

sono state cacciate lontane e le respinse una vera certezza.

E rimanendo identico e nell’identico, in sé medesimo giace,

30 e in questo modo rimane là saldo. Infatti, Necessità inflessibile

lo tiene nei legami del limite, che lo rinserra tutt’intorno,

poiché è stabilito che l’essere non sia senza compimento:

infatti non manca di nulla, se, invece, lo fosse, mancherebbe di tutto.

Lo stesso è il pensiero e ciò a causa del quale è pensiero,

35 perché senza l’essere nel quale è espresso,

non troverai il pensare. Infatti, nient’altro o è o sarà

all’infuori dell’essere, poiché la Sorte lo ha vincolato

a essere un intero e immobile. Per esso saranno nomi tutte

quelle cose che hanno stabilito i mortali, convinti che fossero vere:

40 nascere e perire, essere e non-essere,

cambiare luogo e mutare luminoso colore.

Inoltre, poiché c’è un limite estremo, esso è compiuto

da ogni parte, simile a massa di ben rotonda sfera,

a partire dal centro uguale in ogni parte, infatti né in qualche modo più grande

45 né in qualche modo più piccolo è necessario che sia, da una parte o da un’altra.

Né, infatti, c’è un non-essere che gli possa impedire di giungere all’uguale,

né è possibile che l’essere sia dell’essere

più da una parte e meno dall’altra, perché è un tutto inviolabile.

Infatti, uguale da ogni parte, in modo uguale sta nei suoi confini.

50 Qui pongo termine al discorso che si accompagna a certezza e al pensiero

Parmenide di Elea Poema sulla natura

8

intorno alla Verità; da questo punto le opinioni mortali

devi apprendere, ascoltando l’ordine seducente delle mie parole.

Infatti, essi stabilirono di dar nome a due forme

l’unità delle quali per loro non è necessaria: in questo essi si sono ingannati.

55 Le giudicarono opposte nelle loro strutture, e stabilirono i segni che le

distinguono,

separatamente gli uni dagli altri: da un lato, posero l’etereo fuoco della fiamma,

che è benigno, molto leggero, a sé medesimo da ogni parte identico,

e rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altro lato, posero anche l’altro per se

stesso,

come opposto, notte oscura, di struttura densa e pesante.

60 Questo ordinamento del mondo, veritiero in tutto, compiutamente ti espongo,

così che nessuna convinzione dei mortali potrà fuorviarti.

9

Platone di Atene (427-347 a.C.)

Eutifrone

lingua originale: greco

edizione di riferimento: Stephanus (Henri Estienne), Ginevra 1578

tr. it. G. Reale, Bompiani, Milano, 2001

tema: la definizione

genere letterario: dialogo aporetico

[Stephanus, vol. I, pag. 2]

Incontro di Socrate con Eutifrone davanti al tribunale

EU. Che c’è di nuovo, Socrate, che hai lasciato i trattenimenti del Liceo per venire oggi a

trattenerti qui intorno al Portico del arconte re? Non credo che anche tu abbia, come

ho io, una causa davanti al re.

SO. Veramente, Eutifrone, questa mia gli Ateniesi non la chiamano una causa, ma

un’accusa.

EU. Che dici? Qualcuno dunque ha sporto un’accusa contro di te? Perché non ti farò il

torto di supporre che tu accusi un altro.

SO. No, di certo.

EU. Ma un altro te?

SO. Precisamente.

EU. E chi è costui?

SO. In coscienza, Eutifrone, neppur io so bene chi egli sia. Deve però essere giovane ed

ignoto. Lo chiamano, se non erro, Meleto, ed è del demo di Pittos. Non hai tu per caso

in mente un Meleto Pitteo, con zazzera, poca barba e naso aquilino?

EU. Non credo di conoscerlo, Socrate. Ma, insomma, di che ti accusa?

L’accusa di empietà e di corruzione dei giovani

SO. Di che? D’un’accusa che rivela un uomo non comune, mi sembra. Perché, così

giovane, intendersi d’una faccenda così grave, non è affare da nulla. Egli difatti, a

Platone, Eutifrone

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quanto afferma, sa in che modo si corrompano i giovani e chi siano quelli che li

corrompono. E dev’essere un sapiente; s’è accorto della mia ignoranza, ha visto che

corrompo i suoi coetanei, e viene ad accusarmi alla città, come ad una madre comune,

mi pare, il solo dei nostri uomini di Stato che cominci bene, giacché è cominciar bene

il prendersi cura prima di tutto dei giovani, in modo che riescano ottimi, come il

dovere d’un buon agricoltore è aver cura prima delle tenere piante e poi delle altre. E

perciò forse anche Meleto [pag. 3] monda il terreno innanzi tutto di noi che

corrompiamo, a suo dire, i germogli dei giovani; e in seguito, quando si sarà messo a

curare i più anziani, procaccerà evidentemente moltissimi e grandissimi beni alla

città, come c’è da aspettarselo da chi comincia a questo modo.

EU. Così fosse, Socrate! Eppure temo assai che non avvenga il contrario. Giacché mi pare

che egli cominci a nuocere alla città dal focolare, quando cerca di far male a te. E, di

grazia, che cosa fai, secondo lui, per corrompere i giovani?

SO. Delle cose enormi, al primo udirle, mio impareggiabile amico. Egli afferma ch’io

sono un facitore di dèi; e perché, com’egli pretende, faccio nuovi dèi e non riconosco

gli antichi, per questo mi ha accusato.

EU. Capisco, Socrate; perché tu dici d’avvertire di tratto in tratto quel tal segno demonico.

Egli dunque immaginandosi che tu voglia introdurre delle nuove credenze religiose,

perciò ha sporto contro te quest’accusa. E viene in tribunale a calunniarti, perché sa

che accuse simili fanno presa facilmente sul volgo. Anche di me, quando

nell’assemblea parlo di religione e predico il futuro, anche di me si ride come d’un

pazzo; e sebbene io non abbia mai detto nulla di men che vero nelle mie predizioni,

tuttavia il volgo è invidioso degli uomini del nostro stampo. Per altro, del volgo non

bisogna darsi pensiero, ma affrontarlo animosamente.

SO. Mio caro Eutifrone, se non si trattasse che d’esser deriso, sarebbe cosa da nulla. Agli

Ateniesi, secondo me, non importa gran fatto se pensano che qualcuno sia un dotto,

purché non si eriga a maestro della propria sapienza. Ma quando sospettano che uno

voglia comunicarla agli altri, oh! allora montano in collera, o per invidia, come tu

dici, o per qualche altro motivo.

EU. Quanto a codesto non desidero per niente sperimentare che cosa essi pensino di me.

Platone, Eutifrone

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SO. Perché forse tu ti metti, mi pare, di rado in evidenza e sei restio ad insegnare la tua

sapienza. Io invece temo di sembrar loro di volere, per la mia grande socievolezza,

prodigare a tutti quel che ho in mente, non solo senza compenso, ma anche

rimettendoci del mio, ove qualcuno provi gusto ad ascoltarmi. E però se, ripeto, si

contentassero di rider di me, come tu dicevi di te, non mi rincrescerebbe affatto passar

qualche ora in tribunale, a scherzare e a ridere. Ma se la piglieranno sul serio, nessuno

può prevedere come andrà a finire, fuorché voi altri indovini.

EU. Probabilmente, Socrate, non avverrà nulla di male; e tu verrai a capo del tuo processo

secondo il tuo desiderio, come io, penso, del mio.

L’accusa di omicidio rivolta da Eutifrone contro il padre

SO. E così, che specie di causa, Eutifrone, è la tua? Ti difendi o persegui?

EU. Perseguo.

SO. E chi? [pag. 4]

EU. Uno che, a perseguirlo, devo sembrarti impazzito.

SO. Oh, che! persegui forse uno che vola?

EU. Ma che volare! E’ un vecchio decrepito.

SO. E chi è?

EU. Mio padre.

SO. Tuo padre, mio eccellente amico?

EU. Mio padre, appunto.

SO. E che cosa gli rimproveri e di che lo accusi?

EU. D’omicidio, Socrate.

SO. Oh, Eracles! la gente, Eutifrone, certo ignora come ciò sia ben fatto, perché non è,

credo, da tutti regolarsi così in un caso simile, ma da uomo assai provetto in fatto di

sapienza.

EU. Sicuro, per Zeus, assai provetto, Socrate.

SO. E sarà senza dubbio uno dei tuoi familiari la vittima di tuo padre, non è vero?

Giacché per un estraneo, penso, non lo accuseresti d’omicidio.

EU. E’ ridicolo, Socrate, il credere da parte tua che faccia qualche differenza se il morto

sia un estraneo o un familiare, e che non si debba tener conto unicamente di questo:

Platone, Eutifrone

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se chi ha ucciso ha ucciso giustamente o no; e se giustamente, lasciarlo andare; se no,

dargli addosso, quand’anche l’uccisore viva sotto il tuo tetto e mangi alla tua mensa.

Perché il contagio ti s’attacca egualmente, ove tu, sapendolo, viva con un uomo

siffatto e non purifichi te e lui, perseguendolo in giudizio. Il morto non era che un mio

colono; e poiché possedevamo delle terre a Nasso, serviva lì da noi dietro compenso.

Un giorno, preso dal vino e montato in collera contro uno dei nostri servi, lo

ammazza; sicché mio padre, fattolo legare mani e piedi e gettatolo in una fossa,

manda qui uno a sentire dall’esegeta che cosa ne dovesse fare. Nell’attesa, egli di

quell’uomo in ceppi non si curava né punto né poco, come d’un omicida, quasi non

importasse nulla se anche moriva. E questo difatti avvenne; che per la fame, per il

freddo e per le catene, morì prima che il messo tornasse dall’esegeta. Ed ora perciò

mio padre e gli altri di casa ce l’hanno con me, perché per un omicida sporgo querela

d’omicidio contro mio padre, che, dicono, non l’uccise, e perché, quand’anche

l’avesse ucciso, dal momento che il morto era un omicida, non bisognava darsi pena

per lui. E sentenziano che è un’empietà da parte d’un figlio sporgere contro il padre

una querela d’omicidio, perché, Socrate, non hanno un’idea precisa di quel che,

secondo il diritto divino è santo o empio.

SO. Sicché tu, Eutifrone, in nome di Zeus, credi di vederci così chiaro nei giudizi divini,

circa quello che è santo o empio, da non temere che, stando i fatti come tu li hai

narrati, con l’accusa contro tuo padre tu non commetta per caso un’azione empia?

EU. Non varrei nulla, Socrate, [pag. 5] né Eutifrone sarebbe dappiù del volgo, s’io non

sapessi a fondo tutte queste cose.

Posizione del problema del dialogo: che cos’è il santo?

SO. Per me dunque, mirabile Eutifrone, il meglio è farmi tuo scolaro, e prima che s’inizi

il dibattimento, invitare Meleto ad un’intesa stragiudiziale. Io gli direi che anche per

il passato tenevo in gran conto la conoscenza delle cose divine, e che ora, dal

momento ch’egli m’accusa d’errare in fatto di religione, perché improvviso e

introduco delle credenze nuove, mi son fatto tuo discepolo. E: ‘Se tu’, direi, ‘Meleto,

riconosci che Eutifrone è sapiente in questo campo, devi pur credere che anch’io

penso rettamente e non chiamarmi in giudizio; se no, intenta un processo a questo

Platone, Eutifrone

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maestro prima che a me, come ad uno che corrompa i vecchi, me e il proprio padre,

me con gl’insegnamenti e il padre con le ammonizioni e col castigo’; e ov’egli non mi

dia retta e non rinunzi alla sua azione, o non quereli te in vece mia, ripeterei davanti

al tribunale quelle medesime cose su cui l’avevo già invitato ad una intesa

preliminare.

EU. Ah! per Zeus, Socrate, se provasse ad accusarmi, saprei ben io, credo, trovare il suo

lato debole, e, assai più che di me, in tribunale si parlerebbe di lui.

SO. Ed è questa la ragione per cui, mio caro amico, desidero di farmi tuo discepolo,

giacché vedo che mentre di te né altri né questo Meleto mostrano d’accorgersi, quanto

a me egli m’ha scorto così addentro e così facilmente da accusarmi d’empietà. Or

dunque, in nome di Zeus, dimmi ciò che asserivi di saper tanto bene: che cosa sia,

secondo te, pio, e che cosa empio, così in fatto d’omicidio, come in qualsiasi altro

caso. O in ogni atto ciò che è santo non è sempre identico a se stesso, e ciò che invece

non santo contrario di tutto ciò che è santo ma sempre però identico a sé, ed

informato, quanto alla non santità, ad un’unica idea di tutto quello che sia per essere

non santo?

EU. Certamente, Socrate.

Prima definizione: Santo è ciò che Eutifrone sta facendo, accusando il padre

SO. Su, dunque, rispondimi: come definisci ciò che è santo e ciò che non è santo?

EU. Ebbene, io dico che la santità è fare quel che io faccio ora: perseguire chi, sia padre

sia madre sia un altro qualunque, operi ingiustamente, commettendo o un omicidio o

un furto sacrilego o qualche altra azione colpevole; l’empietà invece nel non

perseguirlo. Poiché, vedi, Socrate, che prova decisiva ti addurrò che la legge è questa;

prova già da me addotta anche ad altri per dimostrare che si fa bene a far così, a non

avere alcuna indulgenza per l’empio, chiunque egli sia. Quegli stessi infatti, che

tengono Zeus per il migliore e il più giusto tra gli dèi, [pag. 6] ammettono che

anch’egli incatenasse il proprio padre perché divorava ingiustamente i figlioli, e che

quello a sua volta avesse mutilato suo padre per colpe simili; e s’adirano poi con me,

perché chiamo in giudizio mio padre, che ha commesso un reato. E così sono in

contradizione con se stessi nel giudicare gli dèi e me.

Platone, Eutifrone

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SO. Ah! Eutifrone, che la ragione per cui mi son tirato addosso quest’accusa, sia appunto

perché, quando degli dèi si contano delle storie siffatte, io non posso udirle senza

sdegnarmene? E perciò, probabilmente, c’è chi dirà ch’io pecco. Ma ora, poiché ci

credi anche tu, che di queste cose t’intendi assai bene, dovremo per forza, mi pare,

convenirne anche noi. Che potremo infatti opporre noi che siamo i primi a confessare

di non intendercene affatto? Ma dimmi, in nome di Zeus protettore dell’amicizia:

pensi tu davvero che quei fatti siano andati proprio a quel modo?

EU. Anzi ce n’è anche di più sorprendenti che la gente non sospetta nemmeno.

SO. Sicché tu ritieni che ci siano realmente tra gli dèi e guerre intestine e inimicizie

terribili e battaglie e tante altre cose dello stesso genere, che ci si raccontano dai poeti

e di cui sono adorni per mano dei nostri migliori artisti molti luoghi e oggetti sacri,

come, in particolare, di ricamate immagini è pieno quel peplo che nelle grandi

Panatenee si porta su nell’Acropoli? Diremo che questi fatti son veri, Eutifrone?

EU. E non solo codesti, Socrate, ma, come dicevo or ora, degli dèi, se vuoi, ti racconterò

tante altre storie, che a udirle ne rimarrai, lo so bene, addirittura stupito.

Critica metodologica della prima definizione data da Eutifrone

SO. Non ne dubito, ma queste me le racconterai un’altra volta. Per ora provati a spiegarmi

più chiaramente quel che ti chiedevo prima. Io t’avevo domandato che cosa mai fosse

la santità; tu, amico, non m’hai insegnato a dovere, ma mi hai detto che santo è

suppergiù quel che fai ora, perseguendo d’omicidio tuo padre.

EU. E ho detto la verità, Socrate.

SO. Forse. Tuttavia, Eutifrone, d sono molti altri atti che tu chiami santi.

EU. Ci sono di certo.

SO. Ebbene, ti ricorderai ch’io t’avevo pregato d’indicarmi, non uno o due di quei tanti

atti che tu chiami santi, ma precisamente quell’idea per cui tutto ciò che è santo è

santo. Tu devi infatti avermi detto che in forza d’un’unica idea tutti gli atti empi sono

empi e i santi santi. O non te ne rammenti?

EU. Io, sicuro.

Platone, Eutifrone

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SO. Dunque, insegnami precisamente qual è codesta idea, affinché, mirando ad essa e

servendomene come d’un esemplare, io dica santo quello che le somigli tra gli atti

che tu o altri faccia, ed empio quello che non le somigli.

Seconda definizione: Santo è ciò che è caro agli dèi

EU. Ma se desideri così, Socrate, ti risponderò anche così.

SO. Ma lo desidero certo.

EU. Ebbene, quello che è caro agli dèi è santo, [pag. 7] quello che ad essi non è caro,

empio.

SO. Egregiamente, Eutifrone; ora mi hai risposto proprio così come ti pregavo di

rispondermi. Se per altro m’hai risposto in modo conforme al vero, non lo so ancora.

Ma tu senza dubbio mi dimostrerai per giunta che quel che dici è vero.

EU. Indiscutibilmente.

SO. Orsù, vediamo un po’ che cosa diciamo. Ciò che è caro agli dèi e l’uomo caro agli

dèi, è santo; ciò invece che è odioso agli dèi e l’uomo odioso ad essi, empio. E non

sono la stessa cosa; ma il santo è il puro contrario dell’empio. Non è così?

EU. Appunto.

SO. E ti pare che si sia detto bene?

EU. Mi pare Socrate.

Prima critica alla seconda definizione

SO. Però, Eutifrone, s’è anche detto che gli dèi non sono d’accordo, che dissentono gli uni

dagli altri, che c’è dell’inimicizia tra loro?

EU. Difatti s’è detto.

SO. Orbene, mio eccellente amico, inimicizia ed ire sono l’effetto d’un dissenso su che

cosa? Esaminiamo così: se io e tu dissentiamo su un numero, quale dei due sia

maggiore, questo dissenso potrebbe mai renderci nemici e metterci in collera l’uno

contro l’altro? O, fatto il conto, ci troveremmo su un punto simile immediatamente

d’accordo?

EU. Sicuro.

Platone, Eutifrone

16

SO. E così pure, se si dissentisse su una grandezza maggiore o minore, basterebbe

misurare per mettere immediatamente da parte qualunque dissenso?

EU. E’ vero.

SO. E ci basterebbe, credo, pesare per decidere se qualche cosa è più pesante o più

leggera?

EU. E come no?

SO. Ma quali sono allora gli argomenti, per i quali, in mancanza d’un criterio sicuro,

diverremmo nemici tra noi e monteremmo in collera? Forse non hai subito la risposta.

Ma guarda se non siano questi che dico io: il giusto e l’ingiusto, il bello e il brutto, il

buono e il cattivo. Non son forse questi gli argomenti, su cui in caso di dissenso, ove

non si possa ricorrere a un mezzo di giudizio incontestabile, diventiamo tra noi

nemici, quando lo diventiamo, e io e tu e tutti gli altri uomini?

EU. Ma sì, Socrate, è appunto qui il dissenso e su questi argomenti.

SO. E gli dèi, Eutifrone? Se dissentono, non dissentono forse per queste medesime

ragioni?

EU. Necessariamente.

SO. E così, nobile Eutifrone, anche gli dèi, stando alle tue parole, non tutti stimano le

stesse cose o giuste o belle o brutte o buone o cattive. Perché forse non litigherebbero

tra loro, se non dissentissero intorno a questi argomenti. O no?

EU. Hai ragione.

SO. E però quelle cose che ciascun di loro stima buone e giuste, sono appunto quelle che

ama, laddove odia le cose contrarie ad esse?

EU. Certo.

SO. Sono dunque le stesse cose, come tu dici, quelle che alcuni stimano giuste, [pag. 8]

altri ingiuste; e poiché intorno ad esse non sono d’accordo, vengono a liti e a guerre

gli uni con gli altri. Non è così?

EU. Proprio così.

SO. Sicché, le stesse cose, pare, sono odiate e amate dagli dèi, e sarebbero perciò odiose e

care agli dèi.

EU. Parrebbe.

Platone, Eutifrone

17

SO. E per conseguenza, Eutifrone, secondo questo ragionamento, sarebbero sante ed

empie ad un tempo.

EU. Probabilmente.

Ulteriori critiche alla seconda definizione

SO. Dunque, meraviglioso amico, tu non hai risposto a ciò che ti chiedevo. Giacché non ti

chiedevo che sia mai quello che è insieme santo ed empio, poiché, come pare, quel

che è caro agli dèi è anche odioso ad essi. Sicché, Eutifrone, non ci sarebbe affatto da

stupirsi se col fare quel che ora fai, provocando una pena contro tuo padre, tu facessi

cosa cara a Zeus, ma odiosa a Crono e ad Urano, o cara ad Efesto, ma odiosa ad Era,

e che, se ci sono altri dèi che su questo punto dissentano tra loro, avvenisse lo stesso

anche con essi.

EU. Ma, Socrate, su questo punto: che chi ha ucciso ingiustamente qualcuno debba

pagarne la pena, nessuno, credo, tra gli dèi la penserà diversamente da un altro.

SO. E come, Eutifrone? Degli uomini né hai mai udito qualcuno mettere in dubbio che chi

ha ucciso ingiustamente o ha commesso qualche altro atto ingiusto non debba pagarne

la pena?

EU. Veramente è quello che non cessano di mettere in dubbio dappertutto e specie nei

tribunali. E mentre commettono ogni sorta d’ingiustizie, fanno e dicono qualunque

cosa per sottrarsi alla pena.

SO. Ma, Eutifrone, confessano forse d’esser colpevoli e, pur confessandolo, sostengono di

non doverne pagare la pena?

EU. Oh! questo no, davvero.

SO. Dunque, non è esatto che dicano e facciano qualunque cosa, giacché, se non

m’inganno, non hanno il coraggio di dire o mettere in dubbio questo: che, avendo

commesso un’ingiustizia, non debbano pagarne la pena. Ma dicono, credo, di non

aver commesso nessuna ingiustizia. Non è così?

EU. E’ vero.

SO. E quindi non mettono in dubbio che il colpevole debba pagarne la pena; ma piuttosto

questo: chi sia il colpevole e di che e in quali circostanze.

EU. E’ vero.

Platone, Eutifrone

18

SO. E altrettanto non si verifica forse anche tra gli dèi, se litigano del giusto e

dell’ingiusto, secondo il tuo discorso; e gli uni affermano degli altri che hanno colpa,

e gli altri lo negano? Poiché questo, mirabile amico, nessuno né tra gli dèi né tra gli

uomini oserebbe sostenerlo: che il colpevole non debba esser punito.

EU. Sì, Socrate, quel che dici è vero, almeno in generale.

SO. Ma, Eutifrone, quelli che disputano, siano uomini o dèi, posto che gli dèi disputino,

non disputano, mi pare, se non di singoli atti. E, dissentendo su qualche atto, gli uni

affermano che è giusto, gli altri che è ingiusto. Non è così?

EU. Certo. [pag. 9]

Applicazione delle critiche all’azione giudiziaria di Eutifrone

SO. Orsù, caro Eutifrone, insegna anche a me, affinché io divenga più sapiente, che prova

hai tu per credere che tutti gli dèi stimino ingiusta la morte di quel mercenario che,

divenuto omicida e messo in ceppi dal padrone dell’ucciso, sia morto a causa dei

ceppi, prima che colui che ve lo aveva gettato potesse sapere dagli esegeti che cosa

dovesse farne; e che in difesa d’un tale uomo sia ben fatto per un figlio d’accusare e

querelare d’omicidio il proprio padre? Via, procura di mostrarmi chiaramente come

senza alcun dubbio tutti gli dèi tengano per giusta una tale azione. Quando me l’avrai

dimostrato in modo esauriente, non cesserò di predicare le lodi della tua sapienza.

EU. Forse l’impresa non è facile, Socrate; tuttavia potrei dimostrartelo sino all’evidenza.

SO. Capisco; io devo sembrarti più ottuso dei giudici, poiché a questi tu dimostrerai

chiaramente che l’atto di tuo padre è ingiusto e tutti gli dèi lo trovano odioso.

EU. Chiarissimamente, Socrate, purché mi stiano a sentire.

19

Platone di Atene (427-347 a.C.)

Fedro

lingua originale: greco

edizione di riferimento: Stephanus (Henri Estienne), Ginevra 1578

tr. it. G. Reale, Platone: Tutti gli scritti, Rusconi, Milano,

tema: il non-scritto in filosofia

genere letterario: dialogo ‘socratico’

[Stephanus, vol III, pag. 274]

La scrittura non accresce né la sapienza né la memoria degli uomini

SOCRATE - Resta ora da parlare della convenienza dello scritto e della non convenienza,

quando esso vada bene e quando sia invece non conveniente. O no?

FEDRO - Sì.

SOCRATE - Ora sai in quale modo, per quanto concerne i discorsi, si può massimamente

piacere a dio, facendoli oppure parlando di essi?

FEDRO - Proprio no. E tu?

SOCRATE - Io posso narrarti una storia tramandataci dagli antichi; il vero essi lo sanno.

E se noi lo trovassimo da soli, ci importerebbe ancora qualcosa delle opinioni degli

uomini?

FEDRO - La tua domanda è ridicola! Ma narrami questa storia che hai udito.

SOCRATE - Ho udito, dunque, narrare che presso Naucrati d’Egitto c’era uno degli

antichi dèi di quel luogo, al quale era sacro l’uccello che chiamano Ibis, e il nome di

questo dio era Theuth. Dicono che per primo egli abbia scoperto i numeri, il calcolo, la

geometria e l’astronomia e poi il gioco del tavoliere e dei dadi e, infine, anche la

scrittura. Re di tutto quanto l’Egitto a quel tempo era Thamus e abitava nella grande

città dell’Alto Nilo. Gli Elleni la chiamano Tebe Egizia, mentre chiamano Ammone il

suo dio. E Theuth andò da Thamus, gli mostrò queste arti e gli disse che bisognava

insegnarle a tutti gli Egizi. E il re gli domandò quale fosse l’utilità di ciascuna di quelle

arti, e, mentre il dio gliela spiegava, a seconda che gli sembrasse che dicesse bene o

non bene, disapprovava oppure lodava. A quel che si narra, molte furono le cose che,

Platone, Fedro

20

su ciascun’arte, Thamus disse a Theuth in biasimo o in lode, e per esporle sarebbe

necessario un lungo discorso.

Ma quando si giunse alla scrittura, Theuth disse: «Questa conoscenza, o re, renderà gli

Egiziani più sapienti e più capaci di ricordare, perché con essa si è ritrovato il farmaco

della memoria e della sapienza».

E il re rispose: «O ingegnosissimo Theuth, c’è chi è capace di creare le arti e chi è

invece capace di giudicare quale danno o quale vantaggio ne ricaveranno coloro che le

adopereranno.

[pag 275] Ora tu, essendo padre della scrittura, per affetto hai detto pro prio il

contrario di quello che essa vale. Infatti, la scoperta della scrittura avrà per effetto di

produrre la dimenticanza nelle anime di coloro che la impareranno, perché, fidandosi

della scrittura, si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei, e non dal

di dentro e da se medesimi: dunque, tu hai trovato non il farmaco della memoria, ma

del richiamare alla memoria.

«Della sapienza, poi, tu procuri ai tuoi discepoli l’apparenza, non la verità: infatti essi,

divenendo per mezzo tuo uditori di molte cose senza insegnamento, crederanno di

essere conoscitori di molte cose, mentre, come accade per lo più, in realtà, non le

sapranno; e sarà ben difficile discorrere con essi, perché sono diventati portatori di

opinioni invece che sapienti» .

FEDRO - O Socrate, ti è facile narrare racconti egiziani, o di quale altro paese tu vuoi!

SOCRATE - Ma se ci sono stati alcuni, mio caro, che hanno creduto che i primi vaticini di

Zeus Dodoneo venissero dai discorsi di una quercia! Gli uomini di allora, dato che non

erano sapienti come voi giovani, nella loro semplicità, si accontentavano di ascoltare

«una quercia o una rupe», purché dicessero la vec rità; ma per te, forse, fa differenza

chi parla e di dove è; infatti, tu non guardi solamente a questo, se le cose stanno come

egli dice oppure se stanno diversamente.

FEDRO - Hai colpito giusto: anche a me pare che, riguardo alla scrittura, le cose stiano

come dice il re cebano.

SOCRATE - E allora, chi ritenesse di poter tramandare un’arte con la scrittura, e chi la

ricevesse convinto che da quei segni scritti potrà trarre qualcosa di chiaro e saldo,

dovrebbe essere colmo di grande ingenuità e dovrebbe ignorare veramente il vaticinio

Platone, Fedro

21

di Ammone, se ritiene che i discorsi messi per iscritto siano qualcosa di più di un

mezzo per richiamare alla memoria di chi sa le cose su cui verte lo scritto.

FEDRO - Giustissimo.

Lo scritto non sa aiutarsi e ha bisogno del soccorso del suo autore

SOCRATE - Perché, o Fedro, questo ha di terribile la scrittura, simile, per la verità, alla

pittura: infatti, le creature della pittura ti stanno di fronte come se fossero vive, ma se

domandi loro qualcosa, se ne restano zitte, chiuse in un solenne silenzio; e così fanno

anche i discorsi. Tu crederesti che parlino pensando essi stessi qualcosa, ma se,

volendo capire bene, domandi loro qualcosa di quello che hanno detto, continuano a

ripetere una sola e medesima cosa. E una volta che un discorso sia scritto, rotola da per

tutto, nelle mani di coloro che se ne intendono e così pure nelle mani di coloro ai quali

non importa nulla, e non sa a chi deve parlare e a chi no. E se gli recano offesa e a torto

lo oltraggiano, ha sempre bisogno dell’aiuto del padre, perché non è capace di

difendersi e di aiutarsi da solo.

FEDRO - Anche questo che hai detto è giustissimo.

Le ragioni della superiorità dell’oralità sulla scrittura

SOCRATE – [pag. 276] E allora? Vogliamo considerare ora un altro di A scorso, fratello

legittimo di questo? E vogliamo vedere in quale modo nasca, e, per sua natura, quanto

sia migliore e più potente di questo?

FEDRO - Qual è questo discorso, e in quale modo tu dici che nasca?

SOCRATE - E il discorso che viene scritto, mediante la scienza, nell’anima di chi impara,

e che è capace di difendersi da sé e sa con chi deve parlare e con chi deve tacere.

FEDRO - Intendi dire il discorso di colui che sa, il discorso vivente e animato, del quale il

discorso scritto può dirsi, a buona ragione, un’immagine?

Lo scritto come forma di gioco e la serietà dell’oralità

SOCRATE - Sì, appunto. Ora, dimmi un po’ questo: l’agricoltoB re che ha senno, farà sul

serio seminando d’estate nei «giardini di Adone» i semi che gli stanno a cuore e dai

quali vuole che nascano frutti, e si rallegrerà nel vederli crescere belli in otto giorni, o

Platone, Fedro

22

lo farà per gioco e a motivo della festa, se pure lo farà? Invece, i semi dei quali si

preoccupa sul serio li seminerà in luogo adatto, seguendo tutte le regole dell’arte

dell’agricoltura, contento che quanti ne ha seminati giungano al loro termine in otto

mesi?

FEDRO - Così farà, o Socrate, in quest’ultimo caso seriamente, nell’altro non seriamente,

come tu dici.

SOCRATE - E chi ha la scienza del giusto, del bello e del buono, dovremo dire che abbia

meno senno di un agricoltore per le sue sementi?

FEDRO - No, assolutamente.

SOCRATE - E allora, se vorrà fare sul serio, non le scriverà sull’acqua nera, seminandole

mediante la cannuccia da scrivere, facendo discorsi che non sono capaci di difendersi

da soli col ragionamento, e che non sono nemmeno capaci di insegnare la verità in

modo adeguato .

FEDRO - No, almeno non è verosimile.

SOCRATE - No, infatti. Ma i giardini di scritture li seminerà e li scriverà per gioco ,

quando li scriverà, accumulando materiale per richiamare alla memoria se medesimo,

per quando giunga alla vecchiaia che porta all’oblio, se mai giunga, e per chiunque

segua la medesima traccia, e gioirà di vederli crescere freschi. E quando gli altri si

dedicheranno ad altri giochi, passando il loro tempo nei simposi, o in altri piaceri simili

a questi, egli allora, come sembra, invece che in quelli passerà la sua vita dilettandosi

nelle cose che io dico.

FEDRO - Ed è un gioco molto bello, o Socrate, in confronto dell’altro che non vale nulla,

questo di chi è capace di dilettarsi con i discorsi, narrando storie sulla giustizia e sulle

altre cose di cui parli.

SOCRATE - Così è in effetti, o caro Fedro, ma molto più bello diventa l’impegno su

queste cose, credo, quando si faccia uso dell’arte dialettica e con essa, prendendo

un’anima adatta, si piantino e si seminino discorsi con conoscenza, che siano capaci

[pag. 277] di venire in soccorso a sé e a chi li ha piantati, che non restino A privi di

frutto, ma portino seme, dal quale nascano anche in altri uomini altri discorsi, che siano

capaci di rendere questo seme immortale e che facciano felice chi lo possiede, nella

misura più grande che all’uomo sia possibile.

Platone, Fedro

23

FEDRO - Molto più bello è questo che dici.

Chiarezza e compiutezza sono proprie dell’oralità e non dello scritto

SOCRATE - E una volta d’accordo su questo, siamo ora in grado di giudicare, o Fedro, le

questioni di prima.

FEDRO - Quali?

SOCRATE - Quelle che volevamo chiarire e per cui siamo giunti a questo punto, ossia di

esaminare il rimprovero fatto a Lisia circa lo scrivere discorsi, e di esaminare i discorsi

medesimi, quali fossero scritti a norma d’arte e quali fossero invece scritti senza arte.

Quanto a ciò che sia a norma d’arte e quanto a ciò che non lo sia, mi pare che lo

abbiamo chiarito in maniera conveniente.

FEDRO - Sì, mi è parso. Ma ricordami ancora una volta come abbiamo detto.

SOCRATE - Prima bisogna che uno sappia il vero su ciascuna delle cose sulle quali parla

o scrive, e sia in grado di definire ogni cosa in se stessa, e, una volta definita, sappia

dividerla nelle sue specie fino ad arrivare a ciò che non è più ulteriormente divisibile; e

dopo essere penetrato nella natura dell’anima, ritrovando allo stesso modo la specie

adatta per ciascuna natura, bisogna che costruisca e ordini il suo discorso in modo

corrispondente, dando ad un’anima complessa discorsi complessi e comprendenti tutte

le armonie, e ad un’anima semplice discorsi semplici. Prima di questo non sarà

possibile che si tratti con arte, nella misura in cui convenga per natura, il genere dei

discorsi, né per insegnare, né per persuadere, come tutto ciò che si è detto in

precedenza ci ha ricordato.

FEDRO - Su questo punto proprio questo risulta.

SOCRATE - E poi, sulla questione se è bello o brutto pronunciare e scrivere discorsi e

quando il biasimo sia fatto a ragione e quando a torto, non ce l’ha forse chiarito il

discorso che abbiamo fatto poco fa?

FEDRO Che cosa abbiamo detto?

SOCRATE Che se Lisia, o chiunque altro, ha scritto o scriverà su cose di interesse privato

o di interesse pubblico, proponendo leggi, scrivendo opere politiche, nella convinzione

che in queste opere scritte vi sia una grande stabilità e chiarezza, allora questo, per chi

scrive, sarà di grande vergogna, sia che qualcuno lo dica sia che non lo dica. Infatti, il

Platone, Fedro

24

non distinguere la veglia dal sonno per quanto concerne il giusto e l’ingiusto, il male e

il be- E ne, la cosa non può non essere, per davvero, vergognosissima, quand’anche la

moltitudine lo lodi.

FEDRO Non può di certo.

SOCRATE Invece, chi ritiene che in un discorso scritto, qualunque sia l’argomento su cui

verte, vi sia necessariamente molta parte di gioco, e che nessun discorso sia mai stato

scritto in versi o in prosa con molta serietà (e nemmeno sia mai stato recitato, come i

discorsi che vengono recitati dai rapsodi, che senza possibilità di esame e senza nulla

insegnare mirano solamente a persuadere), ma che, [pag. 278] veramente, i migliori di

essi non sono altro A che mezzi per aiutare la memoria di coloro che già sanno; e

ritiene che solamente nei discorsi detti nel contesto dell’insegnamento e allo scopo di

fare imparare, ossia nei discorsi scritti realmente nell’anima intorno al giusto e al bello

e al bene, ci sia chiarezza e compiutezza e serietà; e inoltre ritiene che discorsi di

questo genere debbano essere detti suoi, come se fossero dei figli legittimi, e prima di

tutto il discorso che egli reca in se stesso, se mai lo abbia trovato, e poi quelli che, o

figli o fratelli .a seconda del loro valore, e saluta tutti gli altri e li manda a spasso;

ebbene, o Fedro, appunto un uomo di questo genere è probabile che sia quello che tu ed

io ci augureremmo di diventare.

FEDRO Lo voglio davvero, e mi auguro quel che dici.

Il filosofo non affida le cose di maggior valore alla scrittura ma all’oralità

SOCRATE E per quanto riguarda i discorsi, abbiamo scherzato abbastanza. Ma tu va’ da

Lisia e digli che noi due, discesi alla fonte e al santuario delle Ninfe, abbiamo ascoltato

dei discorsi che ci ordinavano di dire a Lisia e a chiunque altro componga discorsi, e ad

Omero e a chiunque altro abbia composto poesia senza musica o con musica, e, in

terzo luogo, a Solone e a chiunque in discorsi politici, che chiama leggi, ha composto

opere scritte, che se ha composto queste opere sapendo come sta il vero, ed è in grado

di soccorrerle quando viene a difendere le cose che ha scritto, e quando parla sia in

grado di dimostrare la debolezza degli scritti, ebbene, un uomo del genere va chiamato

non col nome che quelli hanno, ma con un nome derivato da ciò cui egli si è dedicato

con verità.

Platone, Fedro

25

FEDRO E quale è questo nome che tu gli dai?

SOCRATE Chiamarlo sapiente, o Fedro, mi pare troppo, e che tale nome convenga

solamente a un dio; ma chiamarlo filosofo, ossia amante di sapienza, o con qualche

altro nome di questo tipo, gli si adatterebbe meglio e sarebbe più adeguato.

FEDRO - E non sarebbe per nulla fuori luogo.

SOCRATE - Invece, colui che non possiede cose che siano di maggior valore rispetto a

quelle che ha composto o scritto, rivoltandole in su e in giù per molto tempo,

incollando una parte con l’altra o togliendo, non lo chiamerai, a giusta ragione, poeta,

E o compositore di discorsi, o scrittore di leggi?

FEDRO - E come no?

SOCRATE - Dì, allora, queste cose al tuo amico!

26

Platone di Atene (427-347 a.C.)

Gorgia

lingua originale: greco

edizione di riferimento: Stephanus (Henri Estienne), Ginevra 1578

tr. it. D. Fusaro (in rete)

tema: natura e convenzione

genere letterario: declamazione

(Socrate ha appena estorto dai suoi altri interlocutori le ammisioni: (i) da Gorgia, che la

retorica non serva a niente; e (ii) da Polo, che sia meglio subire malvagità che commetterla;

Callicle, che è stato presente al dialogo, irrompe sulla scena)

[Stephanus Vol I, pag. 482]

CALLICLE: O Socrate, sembri svolgere i tuoi ragionamenti con giovanile baldanza, come un

vero oratore popolare. E anche in questa occasione parli come un oratore popolare, visto che a

Polo accade la stessa cosa che egli accusava Gorgia di subire nei tuoi confronti. Egli diceva,

infatti, che Gorgia, alla tua domanda se, quando venisse alla sua scuola uno che volesse

imparare la retorica senza conoscere la giustizia, Gorgia gliela avrebbe insegnata, egli si

vergognò e disse che gliela avrebbe insegnata, solo in considerazione dell’usanza che vige fra

gli uomini, di sdegnarsi se uno rifiutasse di farlo. Ebbene, secondo Polo, fu questa sua

ammissione che portò Gorgia a contraddirsi e questo ti riempì di soddisfazione. E allora Polo

si fece beffe di te, e con ragione, secondo me.

Ma ora la stessa cosa accade proprio a lui. E per questa ragione io non ammiro Polo, ossia

per avere ammesso davanti a te che il commettere ingiustizia è più brutto che subirla: infatti,

in seguito a questa sua ammissione, impastoiato nei tuoi ragionamenti, si è trovato

imbavagliato, vergognandosi di dire ciò che pensava.

E questo perché tu, o Socrate, mentre sostieni di cercare la verità, in realtà porti gli altri a

fare affermazioni di questo genere, grossolane e volgari, che non sono belle rispetto alla

natura, ma rispetto alla legge. E queste, vale a dire la natura e la legge, sono nella maggior

parte dei casi opposte. Dunque, quando uno si vergogna e non osa dire le cose che pensa,

finisce necessariamente per contraddirsi. [pag. 483] E tu, imparata questa astuzia, tendi

tranelli nei tuoi ragionamenti, riferendo le tue domande alla natura, quando uno parla

riferendosi alla legge, e facendo riferimento alla legge, quando uno si riferisce alla natura. E

Platone, Gorgia

27

questo è quello che hai appena fatto a proposito del commettere e del subire ingiustizia:

mentre Polo si riferiva a ciò che è più brutto secondo la legge, tu svolgevi il tuo ragionamento

facendo riferimento alla natura.

Secondo natura, infatti, è più brutto tutto ciò che è anche peggiore, vale a dire il subire

ingiustizia; secondo la legge, invece, è più brutto il commettere ingiustizia. Infatti questa

condizione, ossia quella di essere vittima di ingiustizia, non è degna di un uomo, bensì di uno

schiavo qualsiasi, per il quale è meglio essere morto che vivere, e che, quando è vittima di

ingiustizia e viene oltraggiato, non è in grado di portare aiuto a se stesso, né ad altri di cui si

prenda cura.

Ma io credo che ad istituire le leggi siano stati uomini deboli e del volgo. Dunque, per sé e

nel proprio interesse costoro istituiscono leggi, fanno elogi e muovono rimproveri. E per

spaventare gli uomini più forti e capaci dì prevaricare, affinché non abbiano più di loro,

dicono che è brutto e ingiusto prevaricare, e che proprio in questo consiste il commettere

ingiustizia, vale a dire nel cercare di avere più degli altri. Io credo, in effetti, che costoro siano

contenti quando abbiano l’uguaglianza, perché sono meno capaci degli altri. Per queste

ragioni, dunque, per legge si dice che è brutto e ingiusto il cercare di avere più degli altri, ed è

questo ciò che essi chiamano ‘commettere ingiustizia’. Invece, mi pare che la natura stessa

mostri questo, vale a dire che è giusto che chi è migliore abbia più dì chi è peggiore, e chi è

più capace abbia più di chi è meno capace. E che le cose stanno così, lo dimostra in molti casi,

sia nelle altre specie animali, sia in tutte le città e stirpi umane, cioè che il diritto si giudica

con questo criterio: che il più forte comandi sul più debole ed abbia più di lui.

Del resto, avvalendosi di quale diritto Serse mosse guerra alla Grecia, o suo padre agli

Sciti? E si potrebbero citare altri innumerevoli casi di questo genere! Ma io penso che costoro

agiscano così secondo il diritto della natura, e, per Zeus, anche secondo la legge, almeno

quella di natura, e tuttavia, probabilmente, non secondo quella legge che noi istituiamo.

Per plasmare i migliori e i più forti di noi, prendendoli da giovani come si fa con i leoni,

incantandoli e seducendoli, li sottomettiamo, [pag. 484] dicendo loro che bisogna ottenere

l’uguaglianza e che in questo consiste il bello e il giusto. Ma io penso che, se solo nascesse un

uomo dotato di una natura che ne fosse all’altezza, costui, scrollatosi di dosso, fatte a pezzi e

sfuggito a tutte queste cose, calpestati i nostri scritti, incantesimi, sortilegi e leggi, che sono

tutte contro natura, così ribellatosi, il nostro schiavo si rivelerebbe nostro padrone, ed allora

splenderebbe il diritto di natura.

E mi pare che anche Pindaro esprima le stesse cose che io esprimo, in quel carme dove

dice: ‘la legge di tutti regina mortali e immortali...’; ebbene, questa, lui dice, ‘guida,

Platone, Gorgia

28

giustificando l’azione più violenta, con mano potente: lo deduco dalle imprese di Eracle,

poiché ... senza averle comprate...’; dice press’a poco così , perché non so il carme a

memoria. In ogni modo, dice che, senza averle comprate e senza che Gerione gliele avesse

donate, Eracle portò via le vacche, convinto che questo fosse per natura suo diritto, e che

tanto le vacche quanto le altre cose che sono in mano ai peggiori e ai più deboli appartengono

tutte al migliore e al più forte.

E che la verità sia questa, potresti capirlo se, lasciata ormai perdere la filosofia, tu venissi a

cose più grandi. Certo, Socrate, la filosofia è un’amabile cosa, purché uno vi si dedichi, con

misura, in giovane età; ma se uno vi passi più tempo del dovuto, allora essa diventa rovina

degli uomini. Infatti, per quanto uno sia ben provvisto di doti naturali, qualora si attardasse a

filosofare anche quando fosse ormai avanti negli anni, per forza di cose egli diventerebbe

inesperto di tutte quelle cose di cui deve avere esperienza chi intende essere uomo per bene e

onorato.

Infatti, costoro diventano inesperti delle leggi che riguardano la città, di quei discorsi di cui

ci si deve servire quando si hanno faccende da sbrigare con altri uomini, in privato e in

pubblico, dei piaceri e dei desideri umani, e, in generale, diventano del tutto inesperti dei

costumi degli uomini. Quando poi si dedichino a qualche affare, privato o pubblico, si

rendono ridicoli, allo stesso modo in cui, credo, si rendono ridicoli i politici quando si

intromettano nelle vostre dispute e nei vostri ragionamenti. Accade infatti quanto dice

Euripide, ‘che ciascuno brilla in una data cosa, e a questa si sente attratto, dedicando ad essa

la maggior parte del giorno perché lì gli accade di superare se stesso’.

Quella cosa, invece, [pag. 485] in cui uno si ritrovi mediocre, la evita e ne parla male, e

loda l’altra per amor proprio, pensando di lodare in questo modo se stesso. Ma io penso che la

cosa più giusta sia partecipare dell’una e dell’altra cosa: è bello partecipare alla filosofia nella

misura in cui è utile all’educazione spirituale, e non è brutto filosofare finché si è giovani; ma

quando si attardi a filosofare un uomo ormai avanti negli anni, la cosa, o Socrate, si fa

ridicola, ed io provo nei confronti di coloro che fanno i filosofi un sentimento identico a

quello che provo nei confronti di coloro che balbettano e giocano.

Infatti, quando mi capita di vedere un fanciullo, a cui ancora si addice l’esprimersi in

questo modo, cioè balbettando e giocando, ne gioisco e mi pare grazioso, spontaneo, e

confacente alla sua età. Quando invece mi capita di sentire un fanciullo esprimersi con

chiarezza, mi dà l’impressione di essere una cosa acerba, mi infastidisce le orecchie, e mi pare

un modo di fare servile. Se poi ci accade di sentire un uomo balbettare o di vederlo giocare, ci

appare cosa ridicola e poco virile, e pensiamo che meriti di essere preso a botte. Ebbene, lo

Platone, Gorgia

29

stesso sentimento lo provo nei confronti di coloro che fanno i filosofi. Infatti, provo gusto a

vedere la filosofia sulla bocca di un giovane, e mi sembra che gli si addica e penso che costui

sia un uomo libero, mentre considero uomo non libero colui che non coltiva la filosofia, e

penso che non sarà mai all’altezza di cose belle e nobili. Ma quando vedo un uomo già avanti

negli anni che ancora coltivi la filosofia e non sappia separarsene, mi sembra, o Socrate, che

costui abbia bisogno dì essere preso a botte. Infatti, come dicevo poco fa, a quest’uomo, per

quanto sia ben provvisto di doti naturali, toccherà diventare un ignavo, fuggendo il centro

della città e le piazze, dove, come dice il poeta, gli uomini si affermano, e passare il resto

della vita rintanato in un angolo a borbottare con tre o quattro giovanotti, senza mai fare un

discorso degno di uomo libero, elevato e valido.

Ma io, Socrate, nutro per te vera amicizia: rischio di provare nei tuoi confronti quel

sentimento che lo Zeto di Euripide provava nei confronti di Anfione, che ho già menzionato.

Anche a me, infatti, viene di dirti le stesse cose che costui disse al fratello: ‘Tu trascuri,

Socrate, le cose di cui dovresti occuparti, e travesti di una forma puerile la natura così nobile

della tua anima; né ai processi sapresti portare un discorso che regge, né sapresti prendere la

parola in modo da essere ragionevole e persuasivo, né sapresti prendere un consiglio ardito in

favore dì altri’.

Ebbene, caro Socrate, e non prendertela con me, perché io parlo per il tuo bene, non ti pare

che sia sconveniente per te trovarti in questa situazione, in cui io credo che vi troviate tu e gli

altri che si addentrano sempre più avanti nella filosofia? Infatti, supponiamo che ora uno,

arrestato te o un altro qualsiasi di quelli che sono come te, ti trascinasse in carcere dicendo

che tu hai commesso un delitto, benché tu sia innocente: sai bene che tu non sapresti che fare

di te, ma resteresti smarrito e a bocca aperta, non sapendo che dire; e che, una volta messo

piede in tribunale, anche se ti capitasse un accusatore buono a niente e incompetente, potresti

morire, se costui volesse chiedere per te la pena di morte.

Ebbene, o Socrate, come può essere saggia quell’arte che, preso sotto le sue cure un uomo

di buone speranze, lo renda peggiore, e incapace di aiutare se stesso e di salvare dai più grandi

pericoli se stesso o qualsiasi altro uomo, e che lo lasci in balia dei suoi nemici, perché lo

spoglino di ogni suo avere, e lo faccia vivere privato di ogni diritto nella sua città? Un uomo

del genere, anche se l’espressione è piuttosto rozza, si può prendere a schiaffi impunemente!

Ma amico mio, dammi retta, smettila di confutare, e coltiva invece la buona musa delle cose

pratiche, dedicati a quelle cose, grazie alle quali ti farai la reputazione di essere uomo di buon

senso, lasciando ad altri queste sottigliezze, chiacchiere o fandonie che si debbano chiamare,

Platone, Gorgia

30

con le quali finirai per abitare in vuote dimore, ed emulando non gli uomini che stanno a

confutare queste piccolezze, ma coloro che possiedono averi, fama e molti altri beni.

31

L’allegoria della Caverna: Platone, Repubblica, VII, 514a-520

Lo spettatore cartesiano (illustrazione dalla sua Diottrica, 1637)

32

Immagine olandese (?) del Seicento illustrando l’uso della camera obscura

(Cfr. il ‘rispostiglio della mente’ di J. Locke, Saggio, II, ix, 17)

Cypher ‘legge’ il codice in Matrix (fratelli Wachowski 1999)

33

Platone di Atene (427-347 a.C.)

Teeteto

lingua originale: greco

edizione di riferimento: Stephanus (Henri Estienne), Ginevra, 1578

tr. it. G. Giardini, Bompiani, Milano, 2001

tema: l’autoconfutazione del relativismo

genere letterario: dialogo indiretto

(Socrate sta discutendo la natura della scienza e prende in esame la dottrina di Protagora

secondo cui ‘l’uomo è misura di tutte le cose’)

[Stephanus, vol. I, p. 169]

La dottrina di Protagora

SOCRATE: Per prima cosa, dunque, riesaminiamo il problema allo stesso punto di prima e

consideriamo se eravamo malcontenti, a ragione o a torto, biasimando il ragionamento che

presupponeva che ciascuno è autosufficiente a se stesso rispetto alla conoscenza. Ma

Protagora non convenne con noi che quanto alla conoscenza del meglio e del peggio alcuni

si distinguono di gran lunga e questi proprio sono i sapienti. Non è così?

TEODORO: Sì.

SOCRATE: Se dunque egli, essendo presente, ce lo avesse concesso, e non avessimo invece

dovuto ammetterlo noi, prendendo la sua difesa, non ci sarebbe affatto bisogno di

riprendere la questione per renderla consolidata. Ora, forse, qualcuno potrebbe giudicarci

senza diritto di fare questa ammissione in vece sua. Per questo motivo è cosa migliore

concordare in maniera più chiara su questo stesso problema. Infatti non è che cambi poco

se a cosa sta così o in maniera diversa.

TEODORO: È vero.

SOCRATE: Dunque [pag. 170] non con il concorso di altri, ma del suo ragionamento, nel

modo più breve, cerchiamo di comprendere quello che è il suo assenso.

TEODORO: Come?

SOCRATE: Così: dice egli che quel che pare a ciascuno questo anche è per colui al quale

pare?

TEODORO: Lo dice, sì.

Platone, Teeteto

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L’apparente esclusione dell’opinione falsa

SOCRATE: E dunque, Protagora, anche noi manifestiamo il pensiero di un uomo, o meglio di

tutti gli uomini, quando affermiamo che per certe questioni non c’è nessuno che non

consideri se stesso più sapiente degli altri, per altre questioni invece non stimi gli altri

migliori di sé, e che in mezzo a grandissimi pericoli, come quando sono esposti a guerre e

malattie, al mare in tempesta, come a degli dèi si tengono vicini a quelli che in ciascuna di

queste circostanze hanno il potere, perché sembrano loro dei salvatori, mentre non sono

diversi in altro da loro, se non per il sapere. E ogni condizione umana è piena di persone

alla ricerca dei maestri e comandanti o per sé o per altri esseri viventi, o per iniziative che

intendono compiere, ma lo è di individui che ritengono di essere capaci di insegnare e di

esserlo altrettanto a comandare. E in questi atteggiamenti cosa diremo, se non che gli stessi

uomini pensano che esista, in loro, sapienza e ignoranza?

TEODORO: Niente altro.

SOCRATE: Gli uomini dunque non considerano la sapienza vero pensiero e l’ignoranza

opinione falsa?

TEODORO: Ebbene?

Può Protagora contraddire qualcuno che lo contraddice?

SOCRATE: Dunque, Protagora, che ne faremo del tuo ragionamento? Diciamo dunque che gli

uomini nutrono talvolta opinioni vere e talvolta opinioni false? Da ambedue le ipotesi ne

viene che non sempre gli uomini nutrono opinioni vere, ma vere e false. Considera infatti

tu stesso, Teodoro, se qualcuno dei seguaci di Protagora, o tu stesso, volessi affermare con

forza che nessuno considera un altro ignorante e nutre pure false opinioni?

TEODORO: Ma è incredibile, Socrate.

SOCRATE: Ma giunge a tal punto di necessità chi sostiene che l’uomo è misura di tutte le

cose.

TEODORO: E come?

SOCRATE: Ma quando tu dai un giudizio di per te stesso su una cosa, e poi manifesti a me su

quella stessa cosa il tuo parere, questo per te, secondo il ragionamento di Protagora, sarà

vero, ma per noi e tutti gli altri non è forse possibile divenire giudici, o dobbiamo sempre

giudicare che tu hai opinioni vere? Oppure sono una infinità gli uomini che ogni volta si

contrastano pensandola all’opposto, ritenendo che tu giudichi e pensi il falso.

Platone, Teeteto

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TEODORO: Ma, per Zeus, Socrate, sono ‘migliaia di migliaia’ gli uomini, come dice Omero,

che mi cagionano ogni sorta di difficoltà.

SOCRATE: E dunque, vuoi che diciamo che allora tu per te stesso, hai opinioni vere, ma false

per tutte queste migliaia di uomini?

TEODORO: Pare sia necessario a seguito di questo ragionamento.

SOCRATE: E cosa ne è per Protagora in persona? Se neppure Protagora avesse mai creduto

che l’uomo è misura di tutte le cose, né la maggioranza degli uomini, come del resto non la

pensano neppure, non sarebbe forse necessario che quella “verità” [pag. 171] che egli

delineò non esistesse per nessuno? Se invece egli la credette realmente, ma la maggioranza

degli uomini non la crede, sai bene che quanto più numerosi sono quelli a cui pare rispetto

a quelli cui non pare, tanto più che essa non è rispetto a quelìa che è.

TEODORO: È giocoforza se essa sarà a seconda di ciascuna opinione o non sarà.

La verità per il relativista della tesi anti-relativista

SOCRATE: C’è poi questo secondo punto che è ancor più simpatico: egli, Protagora, rispetto

alla sua opinione siccome ammette come vere anche tutte quelle che pensano gli uomini,

riconosce che sia vera l’opinione di quelli che la pensano in modo opposto al suo e per il

quale pensano che egli abbia affermato il falso.

TEODORO: Proprio così.

SOCRATE: E non concederà dunque che sia falsa la propria opinione, dal momento che

riconosce come vera quella di coloro che pensano che egli abbia sostenuto il falso?

TEODORO: Necessariamente.

SOCRATE: Ma questi altri non ammettono certo con se stessi di nutrire false opinioni.

TEODORO: Certamente no.

SOCRATE: Egli invece Protagora dal canto suo riconosce che sia vera anche questa opinione

in conseguenza di ciò che ha scritto.

TEODORO: Pare.

SOCRATE: Cominciando da tutti questi, dunque, fin dallo stesso Protagora, ci sarà un

dilemma: ancora più quando egli ammette, che chi va predicando il contrario di lui, questo

può nutrire una opinione vera, allora lo stesso Protagora dovrà concedere che né un cane,

né il primo uomo che capita, sia misura neppure di una sola cosa che non abbia imparato.

Non è così?

TEODORO: È così.

Platone, Teeteto

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SOCRATE: Dunque, siccome ci si trova a dubitare da parte di tutti, per nessuno la verità di

Protagora può essere vera, né per alcun altro, né per lui stesso.

TEODORO: Socrate, noi incalziamo anche troppo l’amico mio.

Conseguenze etico-politiche della dottrina di Protagora

SOCRATE: Forse, mio caro, ma non è chiaro se lo incalziamo correttamente. è probabile

però, che lui, dato che è più vecchio, sia anche più saggio di noi. E se di qui,

all’improvviso, balzasse fuori fino al collo, è molto probabile che molte cose avrebbe da

dire contro di me che vado disseminando frottole e contro di te che le accetti, poi,

calandosi giù di nuovo, se ne andrebbe via a gambe levate. Ma per noi, è necessario, io

penso, servirci di noi stessi, così come siamo e ribattere il nostro modo di pensare, sempre

alla stessa maniera. E, anche ora, cos’altro possiamo dire che chiunque riconosce questo,

cioè che uno è più sapiente di un altro, e un altro più ignorante?

TEODORO: A me pare così.

SOCRATE: E possiamo affermare anche che il ragionamento poggia soprattutto su questo

punto che noi abbozzammo, correndo in aiuto a Protagora, che la maggior parte delle cose,

le calde, le aride, le dolci e tutte le altre di questa sorta, quali sembrano, tali sono anche per

ciascuno. Ma se poi si conviene che in certe cose vi è una certa qual differenza tra l’una e

l’altra, come quello che è salutare e nocivo al nostro corpo, Protagora dovrà pur concedere

che non ogni donnetta, o ragazzotto, o animale sono in grado di curare se stessi,

conoscendo bene ciò che è giovevole alla loro salute, ma proprio in queste faccende, se

pure in altre mai, c’è differenza tra l’uno e l’altro.

TEODORO: A me pare così. [pag. 172]

SOCRATE: Parimenti nella sfera politica il bello e il brutto, il giusto e l’ingiusto, il santo e il

non santo, sono quali in ogni città, pensando che siano, pone nelle proprie leggi a suo

beneficio; ed in queste nessuno è più sapiente di un altro, né privato cittadino di cittadino,

né città di città. Ma nel porre una città provvedimenti di legge utili o non utili, in questo

caso Protagora, se in altri mai, concederà ancora una volta che esiste diversità tra

consigliere e consigliere, tra una città e l’altra nella loro valutazione del vero e non avrà

certo il coraggio di sostenere che quei provvedimenti che una città vara, ritenendoli utili a

sé, questi lo dovranno essere a tutti i costi. Ma a proposito di quello di cui parlavo, del

giusto e dell’ingiusto, del santo e del non santo, chi segue Protagora si ostina ad affermare

che non c’è in natura nessuna di queste cose che abbia una sua essenza, ma che la

valutazione che si dà in comune diventa essa appunto vera, proprio allora mentre pare

Platone, Teeteto

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valida e per tutto il tempo in cui lo pare. E quanti non abbiano in maniera assoluta il

ragionamento di Protagora, orientano la propria sapienza un presso a poco così. Ma da un

ragionamento, Teodoro, ci sopravviene un altro ragionamento e, da uno più piccolo, un

altro più grande.

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Platone di Atene (427-347 a.C.)

Il sofista

lingua originale: greco

edizione di riferimento: Stephanus (Henri Estienne), Ginevra, 1578

tr. it. .C. Mazzarelli, Rusconi, Milano, 1991

tema: il non-essere come diverso

genere letterario: dialogo fantasmatico

[Stephanus vol I p. 256]

Il non-essere come «diverso»

STRANIERO - Dunque, per ciascuna delle Forme molto è l’ente, ma infinito, nella sua

molteplicità, è il non-ente.

TEETETO - Pare. [pag. 257]

STRANIERO - Dunque, anche l’ente in sé si deve dire che è diverso dagli altri generi.

TEETETO - Necessariamente.

STRANIERO - Per noi, dunque, anche l’ente non è, per tante volte quanti sono gli altri

generi. Esso, infatti, non essendo quelli, è in sé uno, ma, d’altro canto, non è quegli altri,

che sono infiniti di numero.

TEETETO - Direi che è così.

STRANIERO - Ebbene, neanche per ciò dobbiamo protestare, se è vero che la natura dei

generi ha in sé una comunanza reciproca dell’uno con l’altro. Ma se uno concede questo,

solo se ci avrà convinti per quanto riguarda i nostri discorsi precedenti, potrà passare a

persuaderci di quello che ne segue.

TEETETO - Giustissimo quello che dici.

STRANIERO - Allora vediamo anche questo.

TEETETO - Che cosa?

STRANIERO - Quando diciamo il «non-ente», come sembra, non diciamo qualcosa di

contrario all’ente, ma soltanto qualcosa di diverso.

TEETETO - Come?

STRANIERO - Per esempio, quando diciamo qualcosa «non-grande», ti sembra che in tal

caso noi esprimiamo con questa espressione il piccolo piuttosto che l’uguale?

TEETETO - E come?

Platone, Il sofista

39

STRANIERO - Quando si dica che una negazione significa opposizione, noi non lo

concederemo, ma <ammetteremo> soltanto questo, che le particelle negative, preposte,

indicano qualcosa d’altro rispetto ai nomi che le seguono, o meglio, rispetto alle cose a cui

si riferiscono i nomi pronunciati dopo la negazione.

TEETETO - Proprio così.

STRANIERO - Riflettiamo su questo, se anche tu sei del medesimo parere.

TEETETO - Su che cosa?

STRANI ERO - A me sembra evidente che la natura del diverso sia articolata come la

scienza.

TEETETO - Come?

STRANIERO - Anche quella è in qualche modo una, ma ogni sua parte, distinta per il fatto

che è relativa a un determinato oggetto, ha una sua propria denominazione. È per questo

che si parla di molte arti e di molte scienze.

TEETETO - Certamente.

STRANIERO - Dunque, anche le parti della natura del diverso, che è una, subiscono questo

stesso fatto.

TEETETO - Forse. Ma vogliamo dire come?

STRANIERO - C’è una qualche parte del diverso contrapposta al bello?

TEETETO - C’è.

STRANIERO - Diremo che questa è senza nome, oppure che ha una qualche denominazione?

TEETETO - Ce l’ha. Infatti, ciò che di volta in volta noi diciamo non-bello, questo è diverso

non da un’alta cosa qualsiasi, bensì dalla natura bello.

STRANIERO - Avanti; ora dimmi questo.

TEETETO - Che cosa?

STRANIERO -II non-bello viene così ad essere uno degli enti di un determinato genere, una

cosa separata e poi di nuovo contrapposta ad un altro degli enti?

TEETETO - È così.

STRANIERO - Il non-bello viene ad essere, allora, come pare, una determinata

contrapposizione di ente ad ente.

TEETETO - Giustissimo.

STRANIERO - E allora? Secondo questo discorso, a nostro avviso, il bello è più essere, e il

non-bello meno?

TEETETO - Per niente. [pag. 258]

STRANIERO- Dunque, si deve dire che il non-grande e il grande in sé sono in ugual misura.

Platone, Il sofista

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TEETETO - In ugual misura.

STRANIERO - Dunque, il non-giusto deve essere posto, allo stesso modo del giusto, in

relazione al fatto che uno non è un qualcosa per niente più dell’altro?

TEETETO - Certamente.

STRANIERO - Così, allora, parleremo anche degli altri generi, dal momento che la natura del

diverso appartiene chiaramente agli enti, e, se quella è, è necessario porre che anche le sue

parti sono, e non di meno, enti.

TEETETO - Come no?

STRANIERO - Dunque, come sembra, la contrapposizione di una parte della natura del

diverso e della natura dell’ente, fra di loro antitetiche, non è, se è lecito dirlo, meno realtà

dell’ente in sé, poiché essa significa non un contrario di quello, bensì soltanto un diverso

da quello.

TEETETO - Chiarissimo.

STRANIERO - Come, dunque, la dovremo chiamare?

TEETETO- È. chiaro che il non-ente, che abbiamo cominciato a cercare a motivo del sofista,

è appunto questo.

STRANIERO - Dunque, come tu hai detto, il diverso non è affatto difettose di essere rispetto

a nessuno degli altri generi? E bisogna ormai avere il coraggio di dire che il non-ente

possiede in modo stabile la sua natura. Come il grande era grande, il bello era bello, il non-

grande non-grande e il non-bello non-bello, così anche il non-ente, per la stessa ragione,

era ed è non-ente, ossia un’unica Forma, che rientra nel novero dei molteplici enti? O

abbiamo ancora qualche dubbio, Teeteto, nei confronti di esso?

TEETETO – Nessun dubbio.

STRANIERO - Sai, dunque, che abbiamo disubbidito a Parmenide, andando molto aldilà del

suo divieto?

TEETETO - Perché?

STRANIERO - Noi, spingendoci nella ricerca ancor più avanti di quanto egli ci ha vietato di

indagare, ne abbiamo fornito una dimostrazione.

TEETETO –In che modo?

STRANIERO - Poiché egli dice in un certo luogo: “Inoltre questo non potrà mai imporsi: che

siano le cose che non sono. / Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero”1.

TEETETO - Dice davvero così.

1 Parmenide, fr 7, 1-2 [nota di Davies]

Platone, Il sofista

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Superamento dell’Eleatismo: il non-ente, nel senso di «diverso», è

STRANIERO - Noi, invece, non solo abbiamo dimostrato che i non-enti sono, ma abbiamo

anche mostrato la Forma che è propria del non-ente. Infatti, dopo aver dimostrato che la

natura del diverso è, e che è suddivisa in tutti gli enti che sono fra loro in rapporti reciproci,

abbiamo avuto il coraggio di dire che ciascuna parte di essa che è contrapposta all’ente,

proprio questa è veramente il non-ente.

TEETETO - E, senza dubbio, straniero, mi sembra che noi abbiamo detto cose verissime.

STRANIERO - E allora non si deve dire che noi, mentre dimostriamo il non-ente come

contrario dell’ente, osiamo tuttavia dire che esso è. Noi, infatti, già da un pezzo abbiamo

dato l’addio ad un contrario dell’ente, [pag. 259] sia che esso sia, sia che esso non sia, sia

che se ne possa dare ragione, sia che esso sia del tutto irrazionale. Invece, quanto a ciò che

noi ora abbiamo detto, ossia che il non-ente è, o qualcuno dovrà cercare di persuaderci che

non diciamo bene, confutandoci, oppure, fintanto che non ne sarà capace, bisogna che

anche lui dica come diciamo noi, ossia che i generi si mescolano fra di loro, e che l’ente e

il diverso penetrano attraverso tutti i generi e l’uno nell’altro, e che il diverso, partecipando

dell’ente, non è però, a motivo di questa partecipazione, ciò di cui partecipa, bensì è

diverso; e poiché è diverso dall’ente, è evidentissimo che è necessario che sia non-ente. E

poiché l’ente, dal canto suo, è partecipe del diverso, dovrà essere diverso dagli altri generi;

ma, poiché è diverso da tutti quei generi, non è né ciascuno di essi, né tutti gli altri presi

insieme all’infuori di se stesso. Di conseguenza, l’ente, a sua volta, per innumerevoli cose,

in innumerevoli casi, indiscutibilmente non è, e così anche gli altri generi, ciascuno preso a

sé e tutti insieme, per molti rispetti sono, e, invece, per molti altri non sono.

TEETETO - È vero.

STRANIERO - E se uno ha dei dubbi su queste contrapposizioni, deve indagare di persona, e

deve dire qualcosa di meglio di quello che si è detto ora. Se, pensando che sia un’impresa

difficile, prende gusto a tirare i discorsi ora da una parte ora dall’altra, vuol dire che ha

dedicato la sua attenzione a cose che non sono degne di molta attenzione, come attestano i

nostri attuali discorsi. Scoprire questo non è cosa raffinata ma scoprire quello, sì, è difficile

e insieme bello.

TEETETO - Che cosa?

STRANIERO - Quello che si diceva anche prima: lasciar perdere queste ricerche come

inconcludenti", ed essere in grado di seguire, confutandole una per una, le cose dette, sia

quando uno dica che un ente diverso ín qualche misura è identico, sia quando dica che un

Platone, Il sofista

42

ente identico è diverso, in quel modo e da quel punto di vista in base al quale uno afferma

che l’uno o l’altro di questi subisce l’affezione. Ma dichiarare l’identico in un modo o

nell’altro diverso, ed il diverso identico, il grande piccolo, il simile dissimile, e provar

gusto così ad introdurre sempre i contrari nei discorsi, non è un’autentica confutazione,

questa; anzi, è chiaro che è come un neonato, essendo uno che è a contatto degli enti per la

prima volta.

TEETETO - Esattamente.

Possibilità di opinioni e discorsi falsi

(a) Condizione di possibilità del discorso: il reciproco intreccio delle Forme

STRANIERO - E, infatti, mio caro, cercar di separare tutto da tutto non solo è scorretto, ma è

tipico di un uomo privo dei doni delle Muse, e negato per la filosofia.

TEETETO - Perché?

STRANIERO - Slegare ogni cosa da tutte le altre è il più completo annientamento di ogni

discorso: infatti, è dal reciproco intreccio delle Forme che nasce il nostro discorso.

TEETETO - È vero. [pag. 260]

STRANIERO - Vedi bene come era opportuno poco fa che noi polemizzassimo con uomini di

questo tipo, e li costringessimo a permettere che un genere si mescoli con un altro.

TEETETO - Opportuno rispetto a che rosa?

STRANIERO - Rispetto al fatto che per noi il discorso è uno dei generi degli enti. Se fossimo

privati di esso, saremmo privati –la cosa più grave di tutte – della filosofia. Inoltre, in

questo momento, dobbiamo metterci d’accordo su che cosa è un discorso: se ne venissimo

privati in modo che esso non esistesse affatto, non saremmo in grado di dire più nulla, se

non erro. E ne verremmo privati, se concedessimo che non c’è nessuna mescolanza di

niente con niente.

TEETETO - Questo, almeno, è corretto. Ma non ho capito perché ora dobbiamo metterci

d’accordo sul discorso.

(b) Possibilità di intreccio tra essere e non-essere

STRANIERO - Ma forse lo capiresti molto facilmente se mi seguissi per questa strada?

TEETETO - Per quale?

STRANIERO - Il non-ente ci si è manifestato come un determinato genere che è tra gli altri,

disseminato in tutti gli enti.

TEETETO - È così.

Platone, Il sofista

43

STRANIERO - Dunque, quello che, dopo di ciò, bisogna indagare è se si mescola con

l’opinione, e insieme con il discorso.

TEETETO – Perché?

STRANIERO - Se il non-ente non si mescolasse con opinione e discorso, tutto sarebbe

necessariamente vero, mentre, se si mescola, nascono opinione falsa e discorso falso.

Infatti, opinare o dire i non-enti, questo è, credo, il falso che si genera nel pensiero e quindi

nei discorsi.

TEETETO - È così.

STRANIERO - Se c’è il falso, c’è l’inganno.

TEETETO - Sì.

STRANIERO - E, certo, se c’è l’inganno, è inevitabile che tutte le cose siano ormai !piene di

raffigurazioni, di immagini, di apparenza.

TEETETO - Come no, infatti?

STRANIERO- Ma noi dicevamo che il sofista ha trovato rifugio in questo luogo, se non erro,

ma che nega che esista affatto il falso. Infatti, il non-ente non si può pensare né dire, perché

esso non partecipa per niente, in alcun modo, dell’essere.

TEETETO - Era questo che dicevamo.

STRANIERO - Ora, è evidente che il non-ente partecipa dell’ente, e così, in tal modo, forse,

il sofista non potrà più polemizzare. Probabilmente, però, potrebbe dire che alcune delle

Forme partecipano del non-ente, ed altre invece no, e che discorso e opinione sono di

quelle che non ne partecipano, cosicché potrebbe ribattere, di nuovo, che l’arte della

raffigurazione e dell’apparenza, in cui noi diciamo che egli si trova, assolutamente non è,

dal momento che discorso e opinione non hanno comunione con il non-ente: infatti, il falso

non esiste affatto, se non sussiste questa comunione. Per questi motivi, dunque, bisogna

ricercare, in primo luogo, che cosa siano mai discorso e opinione e apparenza, affinché,

una volta che essi si siano rivelati, [pag. 261] noi possiamo vedere anche la loro

comunione con il non-ente, e, vista questa, possiamo dimostrare che il falso è, e,

dimostrato questo, possiamo legarci dentro il sofista, se è colpevole, oppure, lasciatolo

libero, possiamo cercare all’intemo di un altro genere.

TEETETO - Perfettamente, straniero! Sembra essere vero quello che si è detto del sofista fin

dall’inizio, cioè che questo genere è difficile da catturare. È evidente, infatti, che è pieno di

difese, e che, quando ce ne ha gettata davanti qualcuna, è questa che è innanzi tutto

necessario superare con la nostra lotta, prima di giungere fino a lui. Ora, infatti, a stento

siamo riusciti a superare l’ostacolo che ci ha posto di fronte, cioè che il non-ente non è, ma

Platone, Il sofista

44

ce ne viene posto davanti un altro, e bisogna, allora, dimostrare che il falso è, sia nel

discorso sia nell’opinione; e, dopo questo, forse, un altro, e ancora un altro dopo dí quello.

Un termine, a quanto sembra, non comparirà mai.

STRANIERO - Bisogna avere coraggio, Teeteto, e andare sempre avanti, anche di poco, per

quanto è possibile. Infatti, chi si scoraggia in questi casi, che cosa mai potrà fare in altri, in

cui o non avesse alcun successo, o fosse addirittura ricacciato di nuovo al punto di

partenza? È difficile, credo, per dirla col proverbio, che un uomo del genere possa mai

espugnare una città. Ma ora, da bravo, poiché è stata compiuta l’impresa di cui stai

parlando, è come se fosse stato abbattuto il muro più grande, ed il resto ormai sarà più

facile e dí minor conto.

TEETETO - Dici bene.

(c) Il discorso è intreccio di nomi e verbi

STRANIERO - Come è stato appena detto, prendiamo prima il discorso e l’opinione, per

renderci conto più chiaramente se il non-ente è in contatto con essi, oppure se entrambi

sono assolutamente veri, e né l’uno né l’altra sono mai falsi.

TEETETO –Giusto.

STRANIERO - Orsù, dunque, come dicevamo a proposito delle Forme e delle lettere

dell’alfabeto, di nuovo indaghiamo, allo stesso modo, anche sui nomi. Ciò che ora stiamo

cercando è così, che in qualche modo risulta evidente.

TEETETO - A che cosa bisogna dunque fare attenzione a proposito dei nomi?

STRANIERO - Se tutti si accordano l’uno con l’altro, oppure nessuno; se alcuni ammettono

questo accordo, ed altri invece no.

TEETETO - Chiaro è almeno questo: alcuni lo ammettono ed altri no.

STRANIERO - Forse tu intendi dire che i nomi che sono pronunciati di seguito e indicano

qualcosa si accordano, mentre quelli che nella successione non significano nulla, non si

accordano.

TEETETO - Come? Che cosa intendi dire con questo?

STRANIERO - Quello che credevo che tu già pensassi nel dichiararti d’accordo con me.

Infatti, noi abbiamo, se non erro, un duplice genere di segni che con la voce indicano

l’essere.

TEETETO - Come? [pag 262]

STRANIERO - L’uno è chiamato «nomi», l’altro «verbi».

TEETETO - Descrivi l’uno e l’altro.

Platone, Il sofista

45

STRANIERO - Il segno che si riferisce alle azioni lo chiamiamo «verbo», se non erro.

TEETETO –Sì.

STRANIERO –Il segno, invece, che si riferisce a coloro stessi che compiono quelle azioni si

chiama «nome».

TEETETO - Perfettamente.

STRANIERO - Dunque, da soli nomi pronunciati di seguito non deriva mai un discorso, e

neppure, d’altro canto, da verbi pronunciati senza i nomi.

TEETETO - Questo non l’ho capito.

STRANIERO - È chiaro, infatti, che poco fa ti sei detto d’accordo, ma avevi lo sguardo

rivolto a qualcos’altro. Perché è proprio questo che volevamo dire: questi termini

pronunciati così, di seguito, non sono un discorso.

TEETETO - Come?

STRANIERO - Per esempio: «cammina», «corre», «dorme», e tutti quanti gli altri verbi, che

significano azioni, anche se uno li dicesse tutti di seguito, non per questo costruirebbe un

discorso.

TEETETO - E come, infatti?anche quando si dica «leone», «cervo», «cavallo», e quanti nomi

si possono citare di coloro che compiono le azioni, anche secondo questa successione non

può sussistere ancora un discorso. Infatti, né in questo caso né in quello, le parole

pronunciate non rivelano alcun modo di agire, né l’essere di un ente né quello di un non-

ente, prima che uno abbia unito i verbi con i nomi. Allora si accorderebbero e la prima

connessione subito diventerebbe un discorso, direi il primo ed il più breve dei discorsi".

TEETETO - Che cosa intendi, dunque, con ciò?

STRANIERO - Quando uno dica «l’uomo impara», riconosci che questo è il più breve e

insieme il primo discorso?

TEETETO - Io sì.

STRANIERO - Infatti, esso è già in qualche modo indicativo delle cose che sono o che

divengono, o che sono divenute, o che stanno per essere, e non solo denomina, ma anche

determina, connettendo i verbi con i nomi. Perciò noi diciamo che non solo denomina, ma

anche dice, ed è in particolare a questo intreccio che noi diamo il nome di «discorso».

TEETETO – Giusto.

STRANIERO - Così, dunque, come, delle cose, alcune si accordano fra di loro ed altre,

invece, no, anche per quanto riguarda, dal canto loro, i se gni della voce, alcuni non si

accordano, e quelli di essi che, invece, si accordano, costruiscono un discorso.

TEETETO - Proprio così.

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Aristotele di Stagira (384-22 a.C)

Sull’interpretazione

lingua originale: greco

edizione di riferimento: I. Bekker, Berlino, 1831 ecc.

tr. it. G. Colli, in Aristotele: Opere, Laterza, Bari-Roma, 1973

tema: il futuro indeterminato

genere letterario: trattato di logica

Capitolo ix [Bekker pagina 18a]

Rispetto agli oggetti che sono e a quelli che sono stati, è dunque necessario che tra

l’affermazione e la negazione una risulti vera e l’altra invece falsa: si avrà sempre un giudizio

vero contrapposto ad un giudizio falso, sia riguardo agli oggetti universali, presentati in forma

universale, sia riguardo agli oggetti singolari, come già si è detto.

Riguardo invece agli oggetti universali, che non sono espressi in forma universale, ciò non

risulta necessario, ed in proposito si è pure parlato. D’altro canto, rispetto agli oggetti

singolari che saranno, le cose si presentano diversamente. In effetti, se tra affermazione e

negazione, in ogni caso, una dev’essere vera e l’altra invece falsa, risulta altresì necessario

che ogni determinazione appartenga oppure non appartenga ad un oggetto; di conseguenza,

quando una persona affermi che un oggetto sarà qualcosa ed un’altra neghi questa stessa

attribuzione, è chiaro che una delle due persone deve necessariamente dire la verità, se si

ammette che ogni affermazione sia vera oppure falsa. Entrambe le determinazioni non

potranno infatti appartenere simultaneamente a tali oggetti.

In realtà, se è vero [pag. 18b] dire che un oggetto è bianco, oppure che non è bianco, esso

sarà necessariamente bianco, oppure non sarà bianco, e d’altra parte, se un oggetto è bianco,

oppure non è bianco, era vero affermare oppure negare la cosa. Del pari, se la determinazione

non appartiene all’oggetto, chi l’attribuisce a questo dice il falso, e d’altro canto, se chi

attribuisce la determinazione all’oggetto dice il falso, la determinazione non appartiene

all’oggetto. In tal caso è dunque necessario che tra l’affermazione e la negazione una risulti

vera e l’altra invece falsa. Ed allora, nulla è né diviene per caso, o secondo due possibilità

indifferenti, e nulla potrà essere o non essere; tutte le cose risultano piuttosto determinate per

necessità, e non sussiste alcuna indifferenza tra due possibilità (in effetti, la verità è detta o da

chi afferma o da chi nega), poiché altrimenti qualcosa potrebbe indifferentemente prodursi

Aristotele, Sull’interpretazione

47

oppure non prodursi: ciò che può accadere in due modi indifferenti non è infatti, né sarà, in

una certa situazione piuttosto che nella situazione contrapposta.

Oltre a ciò, se qualcosa è adesso bianco, era vero in precedenza dire che sarebbe poi stato

bianco; di conseguenza, è sempre stato vero dire rispetto a qualsivoglia oggetto prodottosi,

che sarebbe poi stato. E così, se è sempre stato vero dire che un oggetto era o sarebbe poi

stato, non è possibile che questo non fosse o che non fosse poi stato. Ciò che non è possibile,

d’altro canto, che non si sia prodotto, è impossibile che non si sia prodotto; inoltre, ciò che è

impossibile che non si sia prodotto, è necessario che si sia prodotto. Per tutti gli oggetti che

sarebbero poi stati, è dunque necessario che si siano prodotti. Di conseguenza, nulla potrà

essere secondo due possibilità indifferenti, o per caso: se un qualcosa avvenisse infatti per

caso, non sarebbe più determinato per necessità. Neppure certo si può dire che vera non è né

l’affermazione né la negazione, sostenendo ad esempio che un qualcosa né sarà né non sarà.

In tal caso risulterebbe anzitutto necessario che la negazione non sia vera, quando

l’affermazione è falsa, e che l’affeimazione non sia vera, quando la negazione è falsa.

Oltre a ciò, se risulta vero il dire che un oggetto è bianco e grande, è allora necessario che

entrambe le determinazioni appartengano all’oggetto, e se d’altro canto è vero il dire che tali

determinazioni apparterranno domani all’oggetto, esse vi apparterranno domani

necessariamente. Se per contro domani un qualcosa né sarà né non sarà, ciò che può accadere

in due modi indifferenti – ad esempio una battaglia navale – non potrà realizzarsi: si dovrebbe

dire, in effetti, che la battaglia navale né si verifica né non si verifica.

Alle suddette conclusioni assurde, e ad altre consimili, si giunge dunque, se davvero si

vuol sostenere, a proposito di ogni affermazione e di ogni negazione – si riferiscano poi

queste ad oggetti universali, presentati in forma universale, oppure ad oggetti singolari –, che

uno dei due giudizi contrapposti è necessariamente vero, mentre l’altro è falso, e se si vuoi

dire che nulla tra ciò che diviene può sussistere in due modi indifferenti, ma che piuttosto

tutte le cose sono e divengono per necessità. In tal modo, non occorrerebbe più che noi

prendessimo delle decisioni, né che ci sforzassimo laboriosamente, con la convinzione che

compiendo una determinata azione si verificherà un determinato fatto, e che non compiendo

invece una determinata azione non si verificherà un determinato fatto.

Nulla impedisce, in effetti, che un uomo predica anche di diecimila anni la realtà di un

fatto, e che un altro uomo neghi tale affermazione; di conseguenza, si verificherà

necessariamente quella delle due cose, non importa quale, che già all’atto della predizione era

vero dire. Né certo ha alcuna importanza, che delle persone abbiano pronunciato o meno due

giudizi contraddittori: in realtà, è evidente che i fatti sono quelli che sono, anche se un uomo

Aristotele, Sull’interpretazione

48

non ha affermato qualcosa ed un altro uomo non l’ha negato. Non è infatti per la circostanza

di essere stato negato, oppure affermato, [pag. 19a] che un qualcosa sarà o non sarà, e che un

avvenimento si verificherà dopo diecimila anni, piuttosto che non in qualsiasi altro momento

di tempo.

Di conseguenza, se in ogni tempo la situazione delle cose ha fatto sì che fosse allora vero

esprimere l’affermazione oppure la negazione, era così già necessario che questo fatto si sia

prodotto, e tutto ciò che si è prodotto sia sempre in una situazione tale da prodursi per

necessità. Ciò infatti, di cui si è detto secondo verità che sarà, non è possibile che non si

produca; del pari, rispetto a ciò che si produce, è sempre stato vero dire che sarà.

Senza dubbio, bisogna ammettere che queste asserzioni risultano impossibili. Noi vediamo

infatti che gli eventi futuri prendono principio dalle deliberazioni e dalle azioni, e che in linea

generale agli oggetti che non sempre sono in atto tocca indifferentemente il potere di essere o

di non essere; per tali oggetti entrambe le cose sono possibili, sia l’essere che il non essere,

cosicché risultano possibili sia il divenire che il non divenire. E molti oggetti si comportano

evidentemente a questo modo; ad esempio, un determinato mantello ha la possibilità di venir

tagliato in due, eppure non sarà tagliato, ma si logorerà prima di allora. Per tale mantello

sussiste poi ugualmente la possibilità di non venir tagliato in due, dato che esso non

risulterebbe consunto in precedenza, se non fosse davvero in grado di non essere tagliato in

due. Di conseguenza, ciò si dirà pure di tutti gli altri aspetti del divenire, cui va attribuito un

cosiffatto potere.

E dunque evidente che non tutti gli oggetti sono o divengono per necessità; si deve dire,

piuttosto, che alcuni oggetti possono accadere indifferentemente in due modi, caso in cui

l’affermazione non risulta affatto più vera della negazione, e che a riguardo di altri oggetti una

delle due possibilità è preminente e si verifica con maggior frequenza, nonostante che anche

la seconda possibilità possa presentarsi, e non si verifichi allora la prima.

Che ciò che è sia, quando è, e che ciò che non è non sia, quando non è, risulta certo

necessario; non è però necessario che tutto ciò che è sia, né che tutto ciò che non è non sia. In

effetti, l’essere per necessità di tutto ciò che è, quando è, non equivale all’essere per necessità,

assolutamente, di tutto ciò che è. Similmente si dica per ciò che non è. Del pari, lo stesso

discorso vale per i giudizi contraddittori in proposito. Certo, per necessità ogni oggetto è o

non è, come pure, sarà o non sarà, ma non è davvero necessario dire una delle due cose,

separata dall’altra. Con ciò intendo dire, ad esempio, che necessariamente domani vi sarà una

battaglia navale, oppure non vi sarà, ma che non è tuttavia necessario che domani vi sia una

Aristotele, Sull’interpretazione

49

battaglia navale, né d’altra parte è necessario che domani non vi sia una battaglia navale. Ciò

che invece risulta necessario, è che domani avvenga o non avvenga una battaglia navale.

Di conseguenza, dal momento che i discorsi sono veri analogamente a come lo sono gli

oggetti, è chiaro che a proposito di tutti gli oggetti, costituiti così da accadere

indifferentemente in due modi, secondo delle possibilità contrarie, anche la contraddizione si

comporterà necessariamente in maniera simile. E appunto ciò che avviene riguardo agli

oggetti che non sono sempre, oppure a quelli che non sempre non sono. In tali casi è infatti

necessario che una delle due parti della contraddizione sia vera e l’altra invece falsa, ma non è

tuttavia necessario che una determinata parte sia vera oppure falsa; sussiste piuttosto

un’indifferenza tra due possibilità, e quand’anche uno dei due casi risulti più vero, la verità e

la falsità non saranno tuttavia già decise sin da principio. Risulta chiaro, di conseguenza, che

non sempre [pag. 19b], riguardo ad un’affermazione e ad una negazione contrapposte, sarà

necessario che una di esse sia vera e l’altra invece falsa: in effetti, ciò che vale per gli oggetti

che sono non vale allo stesso modo per quelli che non sono ed hanno la possibilità di essere o

di non essere. Le cose stanno piuttosto come si è detto.

50

Aristotele di Stagira (384-22 a.C)

Le confutazioni sofistiche

lingua originale: greco

edizione di riferimento: I. Bekker, Berlino, 1831 ecc.

tr. it. P. Fait, Laterza, Bari-Roma, 2007

tema: l’invenzione della logica

genere letterario: autocongratulazione intellettuale

Capitolo xxxiv [Bekker pag. 183a]

Quante e quali cose diano origine ai paralogismi nelle discussioni, come potremo mostrare

che l’interlocutore dice il falso e fargli enunciare un paradosso, e poi, quante siano le cause da

cui consegue il solecismo, come si debba interrogare e quale debba essere l’ordine delle

domande; e ancora a che cosa siano utili tutte le argomentazioni siffatte, e sulla risposta sia in

generale sia, in particolare, come si debbano risolvere le argomentazioni e i solecismi: su tutte

queste cose sia detto da noi quanto precede. Rimane da dire brevemente, richiamandolo alla

memoria, qualcosa sul proposito stabilito all’inizio e porre un termine alla nostra esposizione.

Ci eravamo proposti di scoprire una certa capacità di sillogizzare su un problema posto a

partire dalle premesse più plausibili a disposizione. Questo è infatti il compito della dialettica

in se stessa e dell’arte esaminatrice. Poiché però si pretende in relazione ad essa, per [pag.

183b] la sua affinità con la sofistica, che non solo sia capace di condurre un esame

dialetticamente ma anche come se sapesse, per questa ragione abbiamo posto quale compito

della trattazione non solo quello detto, il saper chiedere ragione, ma anche che, quando

rendiamo ragione, difendiamo la tesi nello stesso modo, mediante cose quanto più plausibili.

Di questo abbiamo già detto la ragione, dato che è sempre per questo motivo che Socrate

interrogava ma non rispondeva: riconosceva infatti di non sapere.

È stato chiarito nei discorsi precedenti sia riguardo a quante cose sia a partire da quante

premesse si eserciterà tale capacità e donde trarremo queste premesse in abbondanza; in

seguito, come si deve porre e come si deve ordinare ogni domanda, e riguardo alle risposte e

alle risoluzioni relative ai sillogismi. Sono state poi chiarite tutte le altre cose che fanno parte

della stessa indagine metodica delle argomentazioni. Dopo di che si è discusso dei

paralogismi, come abbiamo già detto qui sopra.

Aristotele, Le confutazioni sofistiche

51

Che dunque il nostro proposito sia stato portato a compimento in modo adeguato, è

manifesto, ma non ci deve sfuggire come siano andate le cose con la presente trattazione. In

effetti, in tutte le scoperte, quel che in precedenza è stato da altri faticosamente acquisito

viene poi fatto progredire un po’ per volta dai successori, e le scoperte iniziali apportano di

solito un progresso piccolo, ma molto più utile dell’accrescimento successivo, giacché, come

si dice, il principio è certo la cosa più grande di tutto. Per questo è anche la più difficile,

perché quanto è forte per la capacità, altrettanto è piccola per la grandezza e quindi

difficilissima da scorgere. Una volta trovato quello, è più facile aggiungere e sviluppare ciò

che manca, come è capitato anche per i discorsi retorici, e si può dire per tutte le altre arti.

Coloro che hanno scoperto i principi hanno progredito assolutamente di poco, mentre i

contemporanei oggi rinomati hanno fatto crescere le cose in questo modo perché sono eredi di

molti che progredirono parzialmente un po’ per volta, come in successione: Tisia dopo i

primi, Trasimaco dopo Tisia, Teodoro dopo costui, e molti hanno apportato molti contributi

parziali, perciò non desta sorpresa che l’arte possieda una certa ampiezza. Della trattazione

presente, invece, non è che una parte fosse stata elaborata prima e una parte no: non esisteva

assolutamente nulla. E infatti la formazione che davano i maestri a pagamento riguardo alle

argomentazioni eristiche è simile a quella della trattazione di Gorgia, giacché gli uni davano

da imparare a memoria discorsi retorici e gli altri discorsi per domande, nei quali gli uni e gli

altri ritenevano che per lo più ricadessero le argomentazioni di entrambe le parti in causa.

Perciò l’insegnamento era rapido per i loro allievi ma [pag. 184a] privo di arte. Ritenevano

infatti di formare offrendo non l’arte ma i risultati dell’arte, come se uno che dicesse di

impartire la conoscenza relativa al non soffrire male ai piedi, non insegnasse poi l’arte del cal-

5 zolaio né in che modo sia possibile procurarsi cose di questo tipo, ma fornisse ogni sorta di

calzature. Costui avrebbe fatto fronte alla necessità, ma non avrebbe impartito un’arte.

E sugli argomenti retorici esistevano numerose esposizioni e antiche, mentre riguardo al

sillogizzare prima non avevamo nient’altro da menzionare, se non che noi per lungo tempo ci

siamo affaticati con [pag. 184b] ricerche e tentativi. Se a voi, dopo averla considerata, sembra

che per essere stata costituita a partire da una tale condizione di partenza la nostra indagine

metodica sia soddisfacente rispetto alle altre trattazioni che sono state accresciute dalla

tradizione, resta a tutti voi o s agli ascoltatori il compito di avere comprensione per le lacune

dell’indagine metodica e molta gratitudine per le sue scoperte.

52

Aristotele di Stagira (384-22 a.C)

Fisica

lingua originale: greco

edizione di riferimento: I. Bekker, Berlino, 1831 ecc.

tr. it A. Russo in Aristotele: Opere, Laterza, Bari-Roma, 1973

tema: i paradossi dell’Uno

genere letterario: disamina critica

Libro I capitolo ii [Bekker pag. 184b]

Necessariamente o vi è un solo principio o ve ne sono più. E se ve ne è uno, esso è o

immobile, come vogliono Parmenide e Melisso, o mobile, come vogliono i naturalisti, dei

quali alcuni sostengono che il primo principio è l’aria, altri l’acqua. Se, invece, i principi sono

più, essi sono o finiti o infiniti. Se sono finiti, essi sono sempre più di uno: o due o tre o

quattro o un altro numero qualsivoglia, e se sono infiniti, essi sono o di un solo genere, ma

differenti per figura, come vuole Democrito, o sono differenti per forma, ovvero anche

opposti. Allo stesso modo conducono la loro ricerca anche quelli che studiano quanti siano gli

enti. Infatti, costoro indagano se ciò di cui gli enti primieramente constano sia una sola cosa o

più cose; e se si tratta di più cose, essi ricercano se queste sono finite o infinite; sicché alla

fine, a proposito del principio e dell’elemento, essi tentano di sapere se questi siano uno o

molti.

Esaminare, intanto, se l’essere sia uno e immobile, non fa parte delle ricerche fisiche. [pag.

185a] Come, infatti, il geometra non ha più ragione di disputare con chi gli demolisce i

principi, ma ha bisogno di una scienza o diversa o comune a tutte le altre, così accade anche a

chi studia i principi fisici. Difatti non c’è più un principio, se esso è uno solo e di tal fatta: ché

il principio è tale, se esso è principio di una o di più cose.

Similmente l’indagine sull’uno così concepito porta ad argomentare contro qualsiasi altra

tesi enunciata e messa in discussione — ad esempio contro quella eraclitea o quella che

sostenesse che l’ente è un solo uomo —; e porta anche a demolire il procedimento eristico

insito nelle dottrine sia di Parmenide sia di Melisso: infatti costoro partono da premesse false

e, quindi, giungono a conclusioni sbagliate. Più grossolano è, poi, il pensiero di Melisso e può

esser facilmente dissolto: ché, se si pone una sola assurdità, questa si tira dietro tutto il resto.

E a smantellare un tal pensiero non ci vuol fatica!

Aristotele, Fisica

53

Da parte nostra si ammetta che le cose della natura, o tutte o in parte, sono mosse. Ciò è

evidente mediante l’induzione. Nello stesso tempo si ammetta che non val la pena di demolire

ogni dottrina, ma solo quelle conclusioni che, durante la dimostrazione, si cavano

erroneamente dai princìpi, e non già le altre. Così, ad esempio, è compito del geometra

demolire la quadratura del cerchio eseguita con segmenti, ma non è suo compito demolire

quella fatta da Antifonte. Tuttavia, poiché costoro, anche se non trattano di fisica, agitano

difficili questioni concernenti la fisica, è, forse, bene discuterne un poco: tale considerazione,

infatti, impegna sul piano speculativo.

Il modo più appropriato di cominciare, poiché ‘essere’ si dice in molti sensi, sta nel vedere

cosa voglian dire quelli che sostengono che tutte le cose sono uno: se, cioè, questo tutto sia

sostanza o quantità o qualità, e ancora se questo tutto sia una sostanza, come un uomo o un

cavallo o un’anima, oppure sia una qualità, come bianco e caldo o altro di tal genere. C’è,

infatti, una gran differenza tra tutte queste teorie ed esse non si possono insieme sostenere.

Qualora, invero, il tutto sia e sostanza e qualità e quantità (sian pure queste separate o non

separate tra loro), ne risulterà una molteplicità di esseri. Qualora, al contrario, il tutto sia o

qualità o quantità (ci sia o non ci sia la sostanza), si cadrà nell’assurdo, se per assurdo si deve

intendere ciò che è impossibile. Niente altro, infatti, è separabile tranne la sostanza, giacché

tutte le cose si dicono in riferimento alla sostanza che fa loro da sostrato. Melisso, invece,

dice che l’essere è infinito: ma, in tal caso, l’essere è, in un certo senso, una quantità, e poiché

l’infinito rientra nel concetto di quantità, è impossibile che la sostanza o la qualità o il patire

siano infiniti [pag 185b], se non per accidente, ammesso pure che essi, insieme, siano dei

quanti. Infatti, il concetto di infinito implica la quantità, non la sostanza né la qualità. E

pertanto, se l’essere è sostanza e quantità, esso è due e non uno; se, invece, è solo sostanza,

esso non è infinito né avrà alcuna grandezza, giacché altrimenti sarebbe una quantità.

Inoltre, poiché anche lo stesso ‘uno’, come l’essere, si dice con molti significati, bisogna

esaminare in che senso dicono che il tutto è uno. Si dice, infatti, uno sia il continuo sia

l’indivisibile sia ciò che ha una sola definizione e per cui vi è un solo concetto, come liquido

inebriante e vino.

Pertanto, se l’uno è continuo, l’uno è molti, essendo il continuo divisibile all’infinito.

(V’è, d’altronde, un’aporia a proposito della parte e dell’intero — e forse in relazione non

al presente discorso, ma agli stessi concetti in sé —: se, cioè, la parte e l’intero sono uno o

più, e in che modo sono uno o più; e, se sono più, in che modo sono più. E c’è anche aporia a

proposito delle parti non continue: e se le parti costituiscono col tutto una sola cosa

indivisibile, ne deriva che anche esse tra loro sono indivisibili.)

Aristotele, Fisica

54

Se, invece, l’essere è uno in quanto indivisibile, non vi sarà né qualità né quantità, né

l’essere sarà infinito, come vuole Melisso, né finito, come vuole Parmenide: infatti

indivisibile è il limite, non già il limitato.

Se, poi, per definizione tutti gli enti sono una sola cosa, come vestito e indumento,

bisognerà allora accettare il discorso di Eraclito: saranno, infatti, la medesima cosa bene e

male, e non-bene e bene, come saranno identici bene e non-bene, e uomo e cavallo, e non si

potrà sostenere che gli enti sono uno, bensì che sono nulla, e qualità e quantità saranno una

sola e medesima cosa.

Rimanevano, quindi, perplessi i pensatori di un passato più vicino a noi, del fatto che

risultasse loro che l’uno e i molti fossero identici. Perciò taluni soppressero la parola ‘è’,

come fece Licofrone; altri trasformarono la locuzione, dicendo non ‘ l’uomo è bianco’, ma

‘biancheggia’, e non è ‘in cammino’, ma ‘cammina’, per evitare che l’uno fosse i molti

qualora aggiungessero il verbo ‘è’, in quanto l’uno e l’essere avrebbero avuto significato

univoco. E molti sono gli enti per definizione (ad esempio, altro è esser bianco, altro esser

musico, benché entrambi siano uno stesso uomo) e per divisione, come l’intero e le parti.

Ma, intanto, quelli erano perplessi [pag. 186a], ed erano costretti ad acconsentire che l’uno

è molti, come se non si potesse concedere che lo stesso oggetto sia uno e molti, senza esser

per questo in contraddizione con se stesso.

Eppure, in realtà, c’è l’uno in potenza e l’uno in atto!

55

Aristotele di Stagira (384-22 a.C)

Metafisica

lingua originale: greco

edizione di riferimento: I. Bekker, Berlino, 1831 ecc.

tr. it. G. Reale, Vita e Pensiero, Milano, 1993

tema: la legge di contraddizione

genere letterario: dimostrazione elenchtica

Libro IV (Γ), capitolo iii [Bekker pag. 1005a]

[Alla scienza dell’essere compete anche lo studio degli assiomi e in primo luogo del

principio di non-contraddizione]

Dobbiamo dire, ora, se sia compito di un’unica scienza, oppure di scienze differenti, studiare

quelli che in matematica sono detti «assiomi» e anche la sostanza. Orbene, è evidente che

l’indagine di questi «assiomi» rientra nell’ambito di quell’unica scienza, cioè della scienza del

filosofo. Infatti essi valgono per tutti quanti gli esseri, e non sono proprietà peculiari di

qualche genere particolare di essere, ad esclusione degli altri. E tutti quanti si servono di

questi assiomi, perché essi sono propri dell’essere in quanto essere, e ogni genere di realtà è

essere. Ciascuno, però, si serve di essi nella misura in cui gli conviene, ossia nella misura in

cui si estende il genere intorno al quale vertono le sue dimostrazioni. Di conseguenza, poiché

è evidente che gli assiomi appartengono a tutte le cose in quanto tutte sono esseri (l’essere è,

infatti, ciò che è comune a tutto), competerà a colui che studia l’essere in quanto essere anche

lo studio di questi assiomi.

Per questa ragione, nessuno di coloro che si limitano all’indagine di una parte dell’essere,

si preoccupa di dire qualcosa intorno agli assiomi, se siano veri o no: non il geometra e non il

matematico. Ne parlarono, invece, alcuni fisici, ma ne parlarono a ragione: infatti, essi

ritenevano di essere i soli a fare indagine di tutta quanta la realtà e dell’essere.

D’altra parte, poiché c’è qualcuno che è ancora al di sopra del fisico (infatti la natura è

solamente un genere dell’essere), ebbene, a costui che studia l’universale e la sostanza prima,

competerà anche lo studio degli assiomi. [pag. 1005b] La fisica è, sì, una sapienza, ma non è

la prima sapienza.

Per quanto riguarda, poi, i tentativi, fatti da alcuni di coloro che trattano della verità, di

determinare a quale condizione si debba accogliere qualcosa come vero, bisogna dire che essi

Aristotele, Metafisica, IV, ii-iv

56

nascono dall’ignoranza degli Analitici; perciò, occorre che i miei uditori abbiano una

preliminare conoscenza delle cose dette negli Analitici, e non che le ricerchino mentre

ascoltano queste lezioni.

È evidente, dunque, che è compito del filosofo e di colui che specula intorno alla sostanza

tutta e alla natura di essa, far indagine anche intorno ai principi dei sillogismi. Colui che, in

qualsiasi genere di cose, possiede la conoscenza più elevata, deve essere in grado di dire quali

sono i principi più sicuri dell’oggetto di cui fa indagine; di conseguenza, anche colui che

possiede la conoscenza degli esseri io in quanto esseri, deve poter dire quali sono i principi

più sicuri di tutti gli esseri. Costui è il filosofo. E il principio più sicuro di tutti è quello

intorno al quale è impossibile cadere in errore: questo principio deve essere il principio più

noto (infatti, tutti cadono in errore circa le cose che non sono note) e deve essere un principio

non ipotetico. Infatti, quel principio che di necessità deve possedere colui che voglia

conoscere qualsivoglia cosa non può essere una pura ipotesi, e ciò che necessariamente deve

conoscere chi voglia conoscere qualsivoglia cosa deve già essere posseduto prima che si

apprenda qualsiasi cosa. E evidente, dunque, che questo principio è il più sicuro di tutti.

Dopo quanto si è detto, dobbiamo precisare quale esso sia. È impossibile che la stessa

cosa, ad un tempo, appartenga e non appartenga a una medesima cosa, secondo lo stesso

rispetto (e si aggiungano pure anche tutte le altre determinazioni che si possono aggiungere, al

fine di evitare difficoltà di indole dialettica). E questo il più sicuro di tutti i princìpi: esso,

infatti, possiede quei caratteri sopra precisati. Infatti, è impossibile a chicchessia di credere

che una stessa cosa sia e non sia, come, secondo alcuni, avrebbe detto Eraclito. In effetti, non

è necessario che uno ammetta veramente tutto ciò che dice. E se non è possibile che i contrari

sussistano insieme in un identico soggetto (e si aggiungano a questa premessa le precisazioni

solite), e se un’opinione che è in contraddizione con un’altra è il contrario di questa, è

evidente che è impossibile, ad un tempo, che la stessa persona ammetta veramente che una

stessa cosa esista e, anche, che non esista: infatti, chi si ingannasse su questo punto, avrebbe

ad un tempo opinioni contraddittorie. Pertanto, tutti coloro che dimostrano qualcosa si rifanno

a questa nozione ultima, perché essa, per sua natura, costituisce il principio di tutti gli altri

assiomi.

.

Capitolo iv (solo inizio: l’elenchos continua fino alla fine del libro [pag. 1012b31])

[Dimostrazione per via di confutazione del principio di non-contraddizione]

Ci sono alcuni, come abbiamo detto, i quali affermano che la stessa cosa può essere e non

essere, e, anche, che in questo modo si può pensare. [pag. 1006a] Ragionano in tale modo

Aristotele, Metafisica, IV, ii-iv

57

anche molti dei filosofi naturalisti. Noi, invece, abbiamo stabilito che è impossibile che una

cosa, nello stesso tempo, sia e non sia; e, in base a questa impossibilità, abbiamo mostrato che

questo è il più sicuro di tutti i principi.

Ora, alcuni ritengono, per ignoranza, che anche questo principio debba essere dimostrato:

infatti, è ignoranza il non sapere di quali cose si debba ricercare una dimostrazione e di quali,

invece, non si debba ricercare. Infatti, in generale, è impossibile che ci sia dimostrazione di

tutto: in tal caso si procederebbe all’infinito, e in questo modo, per conseguenza, non ci

sarebbe affatto dimostrazione. Se, dunque, di alcune cose non si deve ricercare una

dimostrazione, io essi non potrebbero, certo, indicare altro principio che più di questo non

abbia bisogno di dimostrazione.

Tuttavia, anche per questo principio, si può dimostrare l’impossibilità in parola, per via dí

confutazione (elenchos): a patto, però, che l’avversario dica qualcosa. Se, invece, l’avversario

non dice nulla, allora è ridicolo cercare una argomentazione da opporre contro chi non dice

nulla, in quanto, appunto, non dice nulla: costui, in quanto tale, sarebbe simile ad un vegetale.

E la differenza fra la dimostrazione per via di confutazione e la dimostrazione vera e propria

consiste in questo: che, se uno volesse dimostrare, cadrebbe palesemente in una petizione di

principio; invece, se causa di questo fosse un altro, allora si tratterebbe di confutazione e non

di dimostrazione.

Il punto di partenza, in tutti questi casi, non consiste nell’esigere che l’avversario dica che

qualcosa o è, oppure che non è (egli, infatti, potrebbe subito obiettare che questo è già un

ammettere ciò che si vuol provare) ma che dica qualcosa che abbia un significato e per lui e

per gli altri; e questo è pur necessario, se egli intende dire qualcosa. Se non facesse questo,

costui non potrebbe in alcun modo discorrere, né con sé medesimo né con altri; se, invece,

l’avversario concede questo, allora sarà possibile una dimostrazione. Infatti, in tal caso, ci

sarà già qualcosa di determinato. E responsabile della petizione di principio non sarà colui che

dimostra, ma colui che provoca la dimostrazione: e in effetti, proprio per distruggere il

ragionamento, quegli si avvale di un ragionamento.

Inoltre, chi ha concesso questo, ha concesso che c’è qualcosa di vero anche

indipendentemente dalla dimostrazione.

58

Aristotele di Stagira (384-22 a.C)

Metafisica

lingua originale: greco

edizione di riferimento: I. Bekker, Berlino, 1831 ecc.

tr. it. G. Reale, Vita e Pensiero, Milano, 1993

tema: la nozione di contingenza

genere letterario: lessico

Libro V (D) capitolo xxx [Bekker pagina 1025a]

Si dice «accidente » ciò che appartiene ad un oggetto e che viene attribuito a questo in modo

conforme a verità, ma, tuttavia, non per necessità né per lo più, come, ad esempio, nel caso

che un uomo, mentre sta scavando una fossa per piantarvi un albero, vi trovi un tesoro.

Trovare il tesoro è un fatto accidentale per colui che scava la fossa, giacché una cosa non

deriva necessariamente dall’altra né è necessariamente posteriore ad essa, né si verifica che

chi sta piantando trovi il più delle volte un tesoro. E anche un musico può essere bianco; ma,

poiché ciò non accade né di necessità né per lo più, noi questo fatto lo chiamiamo accidente.

Di conseguenza, poiché c’è qualcosa che è anche proprietà. di un’altra e poiché alcune di

queste proprietà sono presenti soltanto in un certo luogo e in un certo tempo, si chiamerà

accidente qualsiasi proprietà che sia presente in un oggetto, senza che, però, la sua presenza

faccia in modo che l’oggetto o il tempo o il luogo siano quello che sono ciascuno nella loro

essenza. D’altra parte, l’accidente non ha una causa determinata, ma ha come causa il fortuito,

ossia l’indeterminato. E stato per accidente che un tale è giunto ad Egina, qualora egli vi sia

giunto non perché avesse l’intenzione di giungervi, ma perché è stato spinto da una tempesta

o catturato dai pirati. L’accidente si produce ed esiste, ma non in virtù di se stesso, bensì in

virtù di un’altra cosa: difatti è stata la tempesta a provocare l’arrivo in un luogo verso cui quel

tale non si stava dirigendo [cioè verso Egina].

Ma si usa il termine «accidente » anche in una diversa accezione, cioè per indicare, ad

esempio, le proprietà che una cosa ha di per sé, ma che non rientrano nella sua essenza, come

è proprietà del triangolo avere la somma degli angoli uguale a due angoli retti. E gli accidenti

di questo genere possono essere eterni, ma nessuno degli altri accidenti può esserlo. Ma di ciò

si è discusso in altra sede.

59

Aristotele di Stagira (384-22 a.C)

Etica nicomachea

lingua originale: greco

edizione di riferimento: I. Bekker, Berlino, 1831 ecc.

tr. it. A. Plebe in Aristotele: Opere, Laterza, Bari-Roma, 1973

tema: le cose desiderate per se stesse

genere letterario: raccolta della cose dette (endoxa)

Libro I capitolo v [Bekker pag. 1095b]

Discutiamo dunque la questione donde siamo partiti. Non a torto gli uomini sembrano concepire il

bene e la felicità a seconda del loro genere di vita. La massa e le persone più rozze li trovano nel

piacere: perciò essi prediligono una vita di godimento.

Tre infatti sono i generi di vita più notevoli: quello suddetto, quello che mira alla vita politica,

infine quello contemplativo. I più evidentemente appaiono simili agli schiavi, scegliendosi

un’esistenza degna delle bestie, e trovano una giustificazione nel fatto che molte persone potenti

hanno gli stessi gusti di un Sardanapalo.

Le persone evolute e attive ripongono invece il bene nell’onore. Questo infatti è all’incirca il fine

della vita politica. Ma questo fine sembra esser cosa più superficiale di quel che cerchiamo. Esso

infatti sembra dipendere più da chi conferisce l’onore che da chi è onorato: noi invece riteniamo che

il bene sia qualcosa di individuale e di inalienabile. Inoltre gli uomini sembrano ricercare l’onore

per convincersi di essere buoni: essi infatti aspirano a essere onorati da chi è assennato, e da chi li

conosce, e riguardo alla loro virtù; è evidente dunque che, almeno di fronte a queste persone, la

virtù è un bene superiore. Senz’altro si potrebbe dunque ritenere che essa sia il fine della vita

politica. Ma anch’essa risulta insufficiente: sembra infatti potersi dare il caso che uno, pur

possedendo la virtù, dorma e resti inattivo nel corso della a sua vita, [pag. 1096a] e che inoltre

sopporti nella più gran misura mali e sfortune; ma una persona che vive in tal maniera, nessuno la

riterrebbe felice, se non per amore di tesi. E intorno a quest’argomento basti ciò (infatti a

sufficienza parlai di queste cose nei libri per il grande pubblico).

Il terzo genere di vita è quello contemplativo, intorno al quale dirigeremo la nostra indagine nelle

pagine seguenti. La vita invece dedita al commercio è qualcosa di contro natura, ed è evidente che

Aristotele, Etica nicomachea, I, v

60

la ricchezza non è il bene che ricerchiamo; infatti essa è solo in vista del guadagno ed è un mezzo

per qualcosa d altro. Tanto più dunque si dovrebbero preferire i fini prima elencati: essi infatti sono

desiderati di per se stessi. Ma o è evidente che neppure quelli son sufficienti: benché molte teorie

sian già state esposte su di essi.

61

Aristotele di Stagira (384-22 a.C)

Etica nicomachea

lingua originale: greco

edizione di riferimento: I. Bekker, Berlino, 1831 ecc.

tr. it. A. Plebe in Aristotele: Opere, Laterza, Bari-Roma, 1973

tema: la definizione e le varietà della giustizia

genere letterario: lezione pubblica

Libro V capitolo i [Bekker pag. 1129a]

Dobbiamo ora indagare intorno alla giustizia e all’ingiustizia, determinando con quali azioni esse si

trovano ad essere in rapporto, quale medietà sia la giustizia, e di quali estremi il giusto sia il mezzo.

La nostra indagine si svolgerà secondo lo stesso metodo delle parti precedenti.

Vediamo dunque che tutti vogliono chiamare giustizia quella disposizione di animo, per la quale

gli uomini sono inclini a compiere cose giuste e per la quale operano giustamente e vogliono le cose

giuste: altrettanto è dell’ingiustizia, per la quale gli uomini commettono ingiustizie e vogliono le

cose ingiuste. Perciò questa definizione anzitutto valga per noi come abbozzo generale. Vi è al

proposito differenza tra le scienze e le facoltà da un lato, e le disposizioni dall’altro. Mentre infatti

sembra che vi possano essere una stessa scienza e una stessa facoltà di cose contrarie, invece di cose

contrarie la disposizione contraria non è la stessa: ad esempio dalla salute non possono derivare gli

effetti contrari, bensì solo quelli relativi alla salute; e diciamo infatti che uno cammina in modo

sano, quando cammina come chi è sano. Spesso invero si conosce la disposizione contraria dal suo

contrario, e spesso le disposizioni opposte derivano dalle loro condizioni implicite: così da un lato,

se è noto qual è la buona costituzione fisica, ne diventa nota anche la cattiva, dall’altro la buona

costituzione fisica appare dalle condizioni della salute e queste appaiono da quella.

Ne consegue per lo più che, se di una delle due disposizioni si può parlare in molti sensi, anche

dell’altra si potrà parlare in molti sensi: ad esempio se si parla in molti sensi del giusto, altrettanto

sarà anche per l’ingiusto e l’ingiustizia. Sembra appunto che della giustizia e dell’ingiustizia si parli

in molti sensi, ma essendo questi sensi assai vicini tra loro a causa della loro omonimia, essi

sfuggono e non sono evidenti come invece accade nelle cose lontane tra loro. La differenza infatti è

grande quando riguarda l’idea: ad esempio in greco si chiama egualmente ‘chiave’ sia la clavicola

degli animali sia la chiave con cui si chiudono le porte.

Aristotele, Etica nicomachea, V, i & vii

62

Vediamo dunque in quanti sensi si dice che uno è ingìusto. Sembra che ingiusto sia tanto il

trasgressore della legge, quanto chi vuole avvantaggiarsi, quanto l’iniquo, per cui è evidente che

anche il giusto sarà sia il rispettoso della legge sia l’equo. Perciò ciò che è giusto sarà quel ch’è

legale e quel ch’è imparziale, ciò che è ingiusto sarà quel ch’è illegale e quel ch’è iniquo. [pag.

1129b] E poiché l’ingiusto è anche uomo che vuol avvantaggiarsi, si mostrerà tale intorno ai beni,

ma non intorno a tutti, bensì intorno a quelli in cui v’è buona e cattiva fortuna, i quali in genere

sono sempre beni, ma per qualcuno non lo sono sempre. Gli uomini li desiderano e li inseguono;

però non bisogna fare così, bensì bisogna desiderare che quelli che sono beni in senso assoluto

divengano beni anche per noi stessi e scegliere solo quelli che sono beni per noi. L’uomo ingiusto

poi non sceglie sempre ciò ch’è più del dovuto, bensì sceglie anche il meno nel caso dei mali in

genere: però, poiché sembra che anche il minor male sia in certo modo un bene, e la prepotente

avidità concerne il bene, per questo egli sembra esser uomo che vuole avvantaggiarsi. Ed è anche

iniquo: questo concetto poi abbraccia tutto ciò ed è quindi comune.

Poiché dunque, come s’è detto, il trasgressore della legge è ingiusto, mentre il rispettoso della

legge è giusto, è evidente che tutte le cose legali sono in certo modo giuste: infattì le cose stabilite

dal potere legislativo sono legali, e noi diciamo che ciascuna di esse è giusta. Le leggi poi si

pronunziano su ogni cosa, mirando o all’utilità comune a tutti o a quella di chi primeggia o per

virtù, o in qualche altro modo simile; perciò con una sola espressione definiamo cose giuste quelle

cose che procurano o salvaguardano la felicità o parti di essa alla comunità civile. La legge poi

comanda anche di operare da uomo coraggioso, ad esempio di non abbandonare le file, di non

fuggire e di non gettare lo scudo; e da uomo moderato, ad esempio di non compiere adulterio e

oltraggio; e da uomo mansueto, ad esempio di non percuotere e di non far maldicenza; e parimenti

secondo le altre virtù e colpe, prescrivendo alcune cose e vietandone altre. È retta poi la legge

stabilita rettamente, peggiore quella improvvisata.

Questa giustizia è dunque una virtù perfetta, ma non di per sé, bensì in relazione ad altro. E per

questo spesso la giustizia sembra essere la più importante delle virtù, e che né la stella della sera né

quella del mattino siano cosi ammirabili; e, nel proverbio, diciamo:

Nella giustizia è insieme compresa ogni virtù.

Essa è una virtù sommamente perfetta, perché il suo uso è quello di una virtù perfetta; cíoè è

perfetta, perché chi la possiede può servirsi di questa virtù anche nei riguardi di un altro e non solo

di se stesso; infatti molti nelle proprie cose possono servirsi della virtù, ma non possono servirsene

Aristotele, Etica nicomachea, V, i & vii

63

nelle cose che concernono altri. [pag. 1130a] E per questo sembra esser giusto il detto di Biante

che ‘è la carica che fa conoscere l’uomo’: infatti chi esercita una carica è già in rapporto con altri e

partecipa alla società. Proprio per questo poi la giustizia è la sola delle virtù che sembra essere un

bene altrui, in quanto riguarda gli altri: essa infatti compie ciò che è utile ad altri, sia ai capi, sia alla

società. È dunque l’uomo peggiore colui che diventa reo verso se stesso e verso gli amici; mentre il

migliore non è chi fa uso della virtù riguardo a se stesso, bensi riguardo ad altri: e questo è opera

difficile.

Questa giustizia dunque non è una virtù parziale, bensi è virtù completa, e l’ingiustizia che le si

oppone non è un vizio parziale, ma è vizio completo. (In che cosa differisce poi la virtù da questa

giustizia, è chiaro da ciò che s’è detto: entrambe infatti coincidono, ma la loro essenza non è la

stessa, bensì in quanto essa riguarda gli altri è giustizìa, in quanto invece è una tal disposizione, in

sé, è virtù.)

-–ooOoo–-

tr. it. C. Mazzarelli, Bompiani, Milano, 2001

Capitolo vii [Bekker pag. 1134b]

Del giusto in senso politico, poi, ci sono due specie, quella naturale e quella legale: è naturale il

giusto che ha dovunque la stessa validità, e non dipende dal fatto che venga o non venga

riconosciuto; legale, invece, è quello che originariamente è affatto indifferente che sia in un modo

piuttosto che in un altro, ma che non è indifferente una volta che sia stato stabilito. Per esempio, che

il riscatto di un prigioniero sia di una mina, che si deve sacrificare una capra e non due pecore, e

inoltre tutto quello che viene stabilito per legge per i casi particolari, per esempio, il sacrificio in

onore di Brasida, e le norme derivate da decreti popolari.

Alcuni ritengono che tutte le norme appartengano a questo secondo tipo di giustizia, perché ciò

che è per natura è immutabile ed ha dovunque la stessa validità (per esempio, il fuoco brucia qui da

noi come in Persia), mentre essi vedono che le norme di giustizia sono mutevoli. Ma questo non è

vero in senso assoluto, bensì solo in un certo senso: anzi, almeno tra li dèi, certamente, non è affatto

vero, mentre tra noi uomini c'è una specie di giusto per natura, benché sia tutto mutevole; pur

tuttavia, c'è un tipo di giusto che si fonda sulla natura ed uno che non si fonda sulla natura. Ora, tra

le norme che possono essere anche diverse, è chiaro quale sia per natura e quale non sia per natura

Aristotele, Etica nicomachea, V, i & vii

64

ma per legge, cioè per convenzione, se è vero che sia la natura sia la legge sono mutevoli. La

medesima distinzione è adatta anche negli altri casi: per natura, infatti, la mano destra è più forte,

eppure è possibile per chiunque diventare ambidestro.

Le norme di giustizia stabilite per convenzione e per fini utili [pag. 1135a] sono simili alle

misure: infatti, le misure per il vino e per il grano non sono uguali dappertutto, ma dove si compra

all'ingrosso sono più grandi, dove si rivende sono più piccole. Parimenti, anche le norme di giustizia

che non derivano dalla natura ma dall'uomo non sono le stesse dappertutto, perché non sono le

stesse le costituzioni, ma una soltanto è dappertutto la migliore per natura.

Ciascun tipo di norma giuridica, cioè di legge, è come l'universale nei riguardi del particolare; le

azioni compiute, infatti, sono molte, ma ciascuna delle norme è una: la norma è un universale. C'è

differenza, poi, tra atto e cosa ingiusta e atto e cosa giusta: giacché una cosa è ingiusta o per natura

o per una prescrizione di legge. Questa stessa cosa, quando è stata tradotta in azione, è un atto

ingiusto, ma, prima di essere compiuta, non è ancora un atto ingiusto, bensì una cosa ingiusta. Lo

stesso vale anche per l'atto di giustizia: in senso generale si chiama piuttosto "azione giusta", mentre

"atto di giustizia" si chiama l'atto che corregge un atto di ingiustizia. Ma su ciascun tipo di legge,

sulla natura e sul numero delle loro forme e sulla natura dei loro oggetti si dovrà indagare in

seguito.

65

Le ‘Scuole’ di Atene: immagine della loro disposizione intorno all’anno 300 a.C. (disegno di Candace Smith riprodottoin A.A. Long, D.N. Sedley The Hellenistic Philosophers, Cambridge University Press, Cambridge, 1987)

In cima a sinistra: il Liceo fondato da Aristotele nel 335 a.C.In cima a destra: l’Acropoli, centro religioso e giudiziario della cittaAl centro l’Agora, il mercato e punto di incontro, luogo prediletto di Socrate

sul lato nord dell’Agora, il Portico dipinto (Stoa poikile) dove Zenone di Cizio apre lascuola stoica nel 301 a.C.

Lungo la strada il giardino (Kepos) di Epicuro, aperto nel 306 a.C.In basso l’Accademia, che Platone fondò nel 387 a.C.

66

Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.)

Disputazioni tuscolane (c. 45 a.C.)

lingua originale: latino

edizione di riferimento: G. Fohlen, J. Humbert, Parigi, 1931

tr. it. L.Z. Clerici, Rizzoli, Milano, 1996

tema: le ‘tre vite’ e l’invenzione della filosofia

genere letterario: monologo terapico

Libro V, capitolo III

[7] E pur osservando che la filosofia è antichissima, riconosciamo tuttavia che il nome è

recente. Difatti, per quanto riguarda la sapienza in sé, chi potrebbe negare che essa sia

antica non solo di fatto, ma anche di nome? Nel l’antichità essa riceveva questo suo

bellissimo nome dal fatto di conoscere sia le cose divine e umane, sia gli inizi e le cause di

ognuna. Così, stando alla tradizione, furono sapienti, e tali furono considerati, sia quei

famosi sette che dai Greci erano considerati e chiamati sofoi, da noi ‘sapienti’ sia, molti

secoli prima, Licurgo, di cui si dice che visse come il suo contemporaneo Omero pri ma

della fondazione di Roma; sia ancora, nei tempi eroici, Ulisse e Nestore.

[8] D’altronde non sarebbe nata la leggenda di Atlante che sostiene il cielo o di Prometeo

inchiodato al Caucaso o di Cefeo trasformato in costel lazione insieme con la moglie, il

genero e la figlia, se la loro divina conoscenza dell’astronomia non avesse con segnato il

loro nome al simbolismo del mito. In seguito, tutti coloro che seguendo le loro orme si

dedicavano con passione all’indagine della natura erano considerati e chia mati sapienti, e

tale nome si usò fino al tempo di Pitagora. Stando alla tradizione riportata da Eraclide

Pontico, discepolo di Platone, uomo di straordinaria cultura, Pitagora si era recato a

Fliunte dove aveva discusso con grande dottrina ed eloquenza alcune questioni con

Leonte, principe dei Fliasi; Leonte allora, ammirato per il suo ingegno e la sua eloquenza,

gli chiese quale arte soprat tutto professasse e si sentì rispondere che egli non conosceva

nessuna arte in particolare, ma era un filosofo. Leonte, stupito della novità del nome,

chiese chi mai fossero i filosofi e quale differenza ci fosse tra loro e gli altri.

Cicerone, Tuscolane, V

67

[9] Pitagora allora rispose che, secondo il suo modo di vedere, c’era un’analogia tra la vita

degli uomini e quel tipo di fiere che si tengono con grandissimo apparato di giochi davanti

a un pubblico che accorre da tutta la Grecia. Infatti, come là c’è chi cerca di ottenere la

gloria e la celebrità della corona con l’allenamento atletico, e chi vi giunge con l’intento

di fare buoni affari comperando e vendendo, ma c’è anche una categoria di persone, ed è

di gran lunga la più nobile, che non cerca né il plauso né il lucro, ma vi si reca solo per

vedere e osservare attentamente ciò che succede e come succede, lo stesso vale per noi

uomini: come la gente parte da una città per recarsi a una fiera affollata, così noi, giunti in

questa vita dopo essere parti ti da una vita e da una natura diversa, ci troviamo a servi re

chi la gloria, chi il denaro; ci sono alcuni, ma sono rari, che senza tenere in alcun conto

tutto il resto, si dedica no con passione allo studio della natura, e questi - diceva Pitagora -

si chiamano amanti della sapienza, cioè filosofi; e come alla fiera il comportamento più

nobile è quello dell’osservatore disinteressato, così nella vita l’indagine e la conoscenza

della natura sono attività di gran lunga superiori a tutte le altre.

Capitolo IV

[10] Pitagora però non si limitò a inventare il nome, ma ampliò anche il campo stesso

della filosofia. Infatti, giunto in Italia dopo la conversazione di Fliunte cui ho accennato,

egli diede onore a quella che fu poi chiamata Magna Grecia con le mirabili arti e

istituzioni che realizzò sia nella sua vita privata sia in quella pubblica. Forse ci sarà

un’altra occasione per parlare della sua dottri na. Ma i filosofi antichi fino a Socrate, che

aveva ascol tato le lezioni di Archelao, discepolo di Anassagora, si occupavano dei

numeri e dei movimenti, dell’origine e della dissoluzione delle cose, e studiavano con

grande impegno le grandezze, le distanze, i moti delle stelle e tutti i fenomeni celesti.

Socrate fu il primo a far scendere la filosofia dal cielo, a collocarla nelle città, a introdurla

nelle case e a costringerla a occuparsi della vita e dei costumi, del bene e del male.

[11] Il suo articolato metodo di discussione, la varietà degli argomenti, l’altezza

dell’ingegno, consacrati alla memoria dei posteri dagli scritti di Platone, diedero origine a

più scuole filosofiche in contrasto tra loro; tra queste io mi sono attenuto soprattutto al me

todo che, a mio avviso, era quello seguito da Socrate, e che consiste nel sospendere il

proprio giudizio personale, liberare gli altri dall’errore, cercare in ogni argomento la

Cicerone, Tuscolane, V

68

massima verosimiglianza. E poiché questo procedimento è stato applicato da Carneade

con grande acutezza ed eloquenza, anch’io ho cercato di impostare la discussione

seguendo tale metodo, sia in molte occasioni passate, sia recentemente a Tuscolo. Il testo

scritto dei discorsi tenuti nei primi quattro giorni è riportato nei libri che ti ho dedicato; il

quinto giorno, dopo esserci seduti nello stesso luogo, l’argomento della discussione fu

deciso così: [12] ‘Non mi sembra che a virtù possa bastare per vivere felici’.

69

Tito Lucrezio Caro (c. 98-c. 54 a.C.)

Sulla natura delle cose

lingua originale: latino

edizione di riferimento: M.F. Smith, Cambridge Ma., 1975.

tr. it. F. Giancotti (Garzanti, Milano, 1994)

tema: la deriva atomica

genere letterario: poema didattico

Libro II

216 A tale proposito desideriamo che tu conosca anche questo:

che i corpi primi, quando in linea retta per il vuoto son tratti

in basso dal proprio peso, in un momento affatto indeterminato

e in un luogo indeterminato, deviano un po' dal loro cammino:

220 giusto quel tanto che puoi chiamare modifica del movimento.

Ma, se non solessero declinare, tutti cadrebbero verso il basso,

come gocce di pioggia, per il vuoto profondo,

. ne sarebbe nata collisione, ne urto si sarebbe prodotto

tra i primi principi: così la natura non avrebbe creato mai nulla:

225 Ma, se per caso qualcuno crede che i corpi più pesanti;

I più celermente movendosi in linea retta per il vuoto,

cadano dall'alto sui più leggeri e così producano urti

capaci di provocare movimenti generatori,

forviato si discosta lontano dalla verità.

230 Difatti tutte le cose che cadono per le acque e l'aria sottile,

esse, sì, bisogna che accelerino le cadute in proporzione dei pesi,

perché il corpo dell'acqua e la tenue natura dell'aria

non possono egualmente ritardare ogni cosa,

ma più celermente cedono se son vinti da cose più pesanti.

235 Per contrario, da nessuna parte e in nessun tempo.

lo spazio vuoto può sussistere quale base sotto alcuna cosa,

senza continuare a cedere, come esige la sua natura:

perciò attraverso l'inerte vuoto tutte le cose devono muoversi

Lucrezio Sulla natura delle cose, II

70

con eguale velocità, quantunque siano di pesi non eguali.

240 Giammai, dunque, le più pesanti potranno cadere dall'alto

sulle più leggere, ne potranno per se stesse generare urti

che mutino i movimenti con cui la natura compie le sue operazioni.

Perciò, ancora e ancora, occorre che i corpi primi declinino

un poco; ma non più del minimo possibile, perché non sembri

245 che immaginiamo movimenti obliqui: cosa che la realtà confuterebbe.

Infatti ciò vediamo che e alla portata di tutti e manifesto:

e che i corpi pesanti, per quanto e in loro,

non possono muoversi obliquamente,

250 quando precipitano dall'alto, almeno fin dove e dato scorgere.

Ma, che essi non declinino assolutamente dalla linea retta

nella loro caduta, chi c'e che possa scorgerlo?

Infine, se sempre ogni movimento e concatenato

e sempre il nuovo nasce dal precedente con ordine certo,

255 né i primi principi deviando producono qualche inizio

di movimento che rompa i decreti del fato,

sì che causa non segua causa da tempo infinito,

donde proviene ai viventi sulla terra questa libera volontà,

donde deriva, dico, questa volontà strappata ai fati,

260 per cui procediamo dove il piacere guida ognuno di noi

e parimenti deviamo i nostri movimenti, non in un tempo determinato,

ne in un determinato punto dello spazio,

ma quando la mente di per sé ci ha spinti?

265 Difatti senza dubbio in ognuno dà principio a tali azioni

la sua propr ia volontà, e di qui i movimenti si diramano per le membra.

Non vedi anche come, nell'attimo in cui i cancelli del circo

sono aperti, non possa tuttavia la bramosa forza dei cavalli

270 prorompere così di colpo come la mente stessa desidera?

Tutta infatti, per l’intero corpo, la massa della materia

deve animarsi, sì che, una volta animata, per tutte le membra

segua con unanime sforzo il desiderio della mente.

Quindi puoi vedere che l'inizio del movimento si crea dal cuore,

2 7 5 e dalla volontà dell'animo esso procede primamente,

Lucrezio Sulla natura delle cose, II

71

e di là si propaga poi per tutto il corpo e gli arti.

Né ciò e simile a quel che accade quando procediamo spinti da un urto

per la forza possente e la possente costrizione di un altro.

Infatti allora è evidente che tutta la materia dell'intero corpo

si muove ed e trascinata contro il nostro volere,

finché non l'abbia raffrenata per le membra la volontà.

Non vedi dunque ora che, sebbene spesso una forza esterna

molti spinga e costringa a procedere senza che lo vogliano,

e a lasciarsi trascinare a precipizio, tuttavia c'è nel nostro petto

280 qualcosa che può lottar contro ed opporsi?

E pure a suo arbitrio che la massa della materia

è costretta talora a piegarsi per le membra, per gli arti,

e nel suo slancio è raffrenata, e torna indietro a star ferma.

Perciò anche negli atomi occorre che tu ammetta la stessa cosa,

285 cioè che, oltre agli urti e ai pesi, c'e un'altra causa

dei movimenti, donde proviene a noi questo innato potere,

giacché vediamo che nulla può nascere dal nulla.

Il peso infatti impedisce che tutte le cose avvengano per gli urti,

quasi per una forza esterna. Ma, che la mente stessa,

290 non abbia una necessità interiore nel fare ogni cosa,

né, come debellata, sia costretta a sopportare e a patire,

ciò lo consegue un'esigua declinazione dei primi principi,

in un punto non determinato dello spazio e in un tempo non determinato.

72

Sesto Empirico (c. 180-c. 220 d.C)

Schizzi pirroniani

lingua originale: greco

edizione di riferimento: R.G. Bury, Cambridge, Ma., 1933

tr. it. R. Davies

tema: la sospensione del giudizio

genere letterario: promozionale

Libro I Capitolo iv: ‘La natura dello Scetticismo’

Lo scetticismo è una capacità o atteggiamento mentale che contrappone le apparenze ai

giudizi in qualunque modo, con il risultato che, in forza dell’equipollenza degli oggetti e le

ragioni così contrapposti, siamo portati in primo luogo ad uno stato di sospensione mentale e

dopo ad uno stato di imperturbabiltà. Ora, parliamo di una ‘capacità’ non in un senso astruso

ma semplicemente come l’essere in grado. Con le ‘apparenze’ intendiamo gli oggetti di

percezione sensoriale, per cui li contrapponiamo agli oggetti del pensiero o ai ‘giudizi’. La

frase ‘in qualunque modo’ può qualificare o la parola ‘capacità’, in modo tale da rendere il

senso semplice della parola ‘capacità’ di cui abbiamo detto, o alla frase ‘contrapponendo le

apparenze ai giudizi’, perché nella misura in cui contrapponiamo questi in vari modi – le

apparenze alle apparenze, i giudizi ai giudizi e vice versa le apparenze ai giudizi – per

includere tutte le contrarietà possibili, utilizziamo la frase ‘in qualunque modo’. Oppure,

aggiungiamo la frase ‘in qualunque modo’ a ‘apparenze e giudizi’ per non dover indagare

come appaiono le apparenze o come vengono giudicati gli oggetti dei giudizi, ma invece per

poter prendere questi termini nel loro senso più semplice. Non utilizziamo la frase ‘giudizi

opposti’ solo nel senso di negazioni ed affermazioni, ma semplicemente come ‘giudizi

contraddittori tra loro’. Per ‘equipollenza’ intendiamo quella uguaglianza in fatto di

probabilità o improbabilità che indica che nessun giudizio ha la precedenza rispetto ad un

altro per quanto riguarda la credibilità. ‘Sospensione’ è uno stato di quiete mentale grazie al

quale non neghiamo e non affermiamo niente. L’’imperturbabilità’ è una condizione calma e

tranquilla dell’anima. Il modo in cui l’imperturbabilità sorge nell’anima in conseguenza della

sospensione, lo spiegheremo nel capitolo sul fine <dello scetticismo (cap xii)>.

Capitolo v: ‘Dello scettico’

Sesto Empirico, Schizzi pirroniani

73

Nella definizione del sistema scettico, includiamo anche il filosofo pirroniano: è colui che

partecipa della capacità.

Capitolo vi:’ Dei princìpi dello Scetticismo’

Diciamo che il principio dello scetticismo è la speranza di arrivare all’imperturbabilità.

Uomini di grande talento, che erano turbati dalle contraddizioni nelle cose e in dubbio

riguardo all’alternativa da accettare, sono stati portati ad indagare sulla verità delle cose nella

speranza di arrivare all’imperturbabilità. Il principio basilare dello scetticismo è quello di

contrapporre ad ogni ragionamento un ragionamento dello stesso peso, perché ci sembra che,

come risultato di questo, finamo per cessare di essere dogmatici.

-–ooOoo–-

Capitolo xii: ‘Qual è il fine dello Scetticismo’.

A quanto abbiamo detto dovrebbe seguire l’esposizione del fine dell’indirizzo scettico. Per

fine intendiamo ciò a cui si riferisce tutta la nostra attività pratica o teoretica, mentre esso non

si riferisce a nulla. Oppure: il fine è il termine del1e cose appetibili. Diciamo fin d’ora che il

fine dello scetticismo è l’imperturbabilità nelle cose opinabili e la moderazione nelle affezioni

che sono per necessità. Avendo, infatti, lo scettico cominciato a filosofare circa la maniera di

comprendere e distinguere quali delle apparenze sensibili fossero vere, quali false, in modo da

conseguire la imperturbabilità, s’abbatté a un disaccordo di ragioni contrarie di ugual peso, e,

non riuscendo a dirimerlo, ha sospeso il proprio giudizio; e a questa sua sospensione casuale

tenne dietro la imperturbabilità nelle cose opinabili. Chi, infatti, crede nell’esistenza di

qualche cosa che sia bene o male per natura, si conturba continuatamente, e quando non

possiede quello ch’egli ritiene esser bene, e quando crede d’essere perseguitato da quello che

ritiene essere male per natura, e persegue i beni, come egli li considera. I quali se egli

consegue, crescono i suoi turbamenti, e perché s’imbaldanzisce fuor di ragione e misura, e

perché, temendo un cambiamento, fa di tutto per non perdere quelli ch’egli considera beni.

Chi, invece, dubita se una cosa sia bene o male per natura, né fugge né persegue nulla con

ardore: perciò è imperturbato. Pertanto allo scettico è accaduto quello che si narra del pittore

Apelle. Dicono che Apelle, dipingendo un cavallo, volesse ritrarne col pennello la schiuma.

Non riuscendovi in nessun modo, vi rinunciò, e scagliò contro il dipinto la spugna, nella quale

Sesto Empirico, Schizzi pirroniani

74

puliva il pennello intinto di diversi colori. La spugna, toccato il cavallo, vi lasciò un’impronta

che pareva schiuma. Anche gli scettici speravano di conseguire la imperturbabilità dirimendo

la disuguaglianza che si trova tra le apparenze del senso e quelle della ragione; ma non

potendo riuscirvi, hanno sospeso il giudizio, e a questa sospensione, come per caso, ne è

conseguita la imperturbabilità, quale l’ombra al corpo. Non, perciò, riteniamo che lo scettico

vada del tutto esente da turbamenti, ma diciamo che egli è turbato da fatti che sono per

necessità, giacchè ammettiamo che talora egli soffra il freddo e la fame e simili affezioni. Ma

in questi fatti il volgo soffre doppiamente, e per le affezioni stesse e, nello stesso tempo,

perché questi stati penosi giudica mali per natura. Lo scettico, invece, sopprimendo

quell’opinamento che gli altri aggiungono all’affezione, cioè che ciascuno di questi stati è un

male per natura, se ne libera con turbamento minore. Per questo, dunque, diciamo che il fine

dello scettico è la imperturbabilità nelle cose opinabili e la moderazione nelle affezioni che

sono per necessità. Alcuni scettici degni di considerazione, hanno aggiunto a queste due cose

la sospensione del giudizio nelle investigazioni.

-–ooOoo–-

Capitolo xxvii: ‘Della frase “ad ogni ragionamento si contrappone un altro di ugual peso”’

Quando diciamo ‘ad ogni ragionamento si contrappone un altro di ugual peso’ intendiamo ‘ad

ogni ragionamento’ da noi indagato, e la parola ‘ragionamento’ la utilizziamo non nel suo

senso semplice, ma per indicare uno che sostiene un dogma, vale a dire, che ha a che fare con

le cose non-evidenti, e che lo sostiene in qualsiasi modo e non necessariamente in termini di

premesse e conclusioni. Diciamo ‘uguale’ in rapporto alla credibilità o incredibilità, e

utilizziamo la parola ‘contrapposto’ nel senso di ‘contraddittorio’, a cui aggiungiamo

mentalmente ‘a quanto mi pare’. Quindi, quando dico ‘ad ogni ragionamento si contrappone

un altro di ugual peso’ quello che voglio dire è ‘ad ogni ragionamento da me indagato che

sostiene una tesi dogmaticamente, mi sembra che ci sia un altro, volto a sostenere una tesi

dogmaticamente, che è di ugual peso al primo per quanto riguarda la credibilità o la

incredibilità’; in questo modo, il proferimento di questa frase non è dogmatico, ma l’annuncio

dello stato mentale umano della persona che lo vive.

Ma altri <scettici> proferiscono l’espressione nella forma, ‘ad ogni ragionamente è da

contrapporre un altro di ugual peso’, intendendo l’ingiunzione, ‘contrapponiamo ad ogni

Sesto Empirico, Schizzi pirroniani

75

ragionamento che sostiene una tesi dogmatica un altro che indaga dogmaticamente, che di

ugual peso al primo per quanto riguarda la credibilità e l’incredibilità, e che risulta in conflitto

con esso’; perché indirizzano le loro parole ad uno scettico nonostante usino la forma infinita

‘da contrapporre’ invece di quella imperativa ‘contrapponiamo’. E rivolgono questa

ingiunzione allo scettico per evitare che egli venga fuorviato dal dogmatico a cessare

l’indagine scettica e, a causa della fretta, a perdere quella imperturbabilità che gli scettici

approvano e che – come abbiamo detto – suppongono sia effetto della sospensione universale

di giudizio.

76

Luciano di Samosata (c. 115 – dopo 180 d.C.)

I filosofi all’asta

lingua originale: greco

edizione di riferimento: A.M.Harmon (et al.), Cambridge, Ma., 1913 (ecc)

tr. it. C. Ghirga (Rizzoli, Milano, 2003)

tema: i sofismi

genere letterario: teatrino satirico

[Il dialogo si svolge nel mercato di Atene, dove Ermes, un mercante di schiavi, sta tentando di

sbolognare rappresentanti delle varie scuole filosofiche; si sono già esibiti Pitagora, Socrate e

Diogene il cinico. Zeus è l’organizzatore dell’asta.]

[20] ZEUS Chiamane un altro, quello rasato di fresco e tutto serioso, quello della Stoà.

ERMES Hai ragione, se la tira proprio come se lo stesse aspettando quella gran folla che di solito

gli va incontro al foro Vendo la virtù personificata, la perfezione fatta uomo. Chi vuole essere il

solo a sapere tutto?

COMPRATORE Cosa stai dicendo?

ERMES Che costui è il solo saggio, il solo bello, il solo giusto, coraggioso, re, oratore, ricco,

legislatore.. e chi più ne ha più ne metta.

COMPRATORE Ehi, carissimo, non è per caso che sei anche il solo cuoco, calzolaio, fabbro,

eccetera, eccetera?

ERMES Così sembra.

[21] COMPRATORE Vieni qui, bello mio, e di’ al tuo compratore che tipo sei, e prima di tutto, se

non ti scoccia essere venduto e vivere in schiavitù.

CRISIPPO Assolutamente no! Queste cose non dipendono da noi, e tutto ciò che non dipende da

noi succede che sia indifferente.

COMPRATORE Non capisco, cosa intendi dire?

CRISIPPO Come dici? Non capisci che di queste cose indifferenti alcune siano preferite, e altre al

contrario respinte?

COMPRATORE Non capisco neanche adesso.

Luciano di Samosata, I filosofi all’asta

77

CRISIPPO Naturale, non sei abituato alla nostra terminologia e non possiedi la rappresentazione

comprensiva. Le persone serie, però, che hanno fatto studi di logica, non solo sanno queste cose,

ma conoscono anche gli accidenti e i sovraccidenti, quali siano e quanto siano diversi tra loro.

COMPRATORE In nome della cultura, dimmi subiti cosa sono accidente e sovraccidente! Non so

perché, ma sono stato colpito dal suono di queste parole.

CRISIPPO Subito. Ammettiamo che un tizio zoppo vada ad urtare contro una pietra proprio con il

piede claudicante e si procuri inavvertitamente una ferita. Costui, aveva il difetto di zoppicare

come accidente e si è procurato la ferita come sovraccidente.

[22]COMPRATORE Però, che cervello fino! E che altro dici di conoscere in particolare?

CRISIPPO I lacci delle parole con cui incastro i miei interlocutori, li imbavaglio e tappo loro la

bocca con una museruola vera e propria. Il nome di questa mia arte è il tanto decantato

sillogismo.

COMPRATORE Per dio! Si tratta di un’arte davvero violenta!

CRISIPPO Fai attenzione: hai un figlio?

COMPRATORE Perché?

CRISIPPO Ammettiamo che un coccodrillo lo trovi mentre va a zonzo lungo il fiume e poi te lo

rapisca e ti prometta di restituirtelo solo nel caso in cui indovinassi che cosa lui ha deciso

riguardo alla restituzione del bambino. Che cosa dirai che ha deciso?

COMPRATORE La questione che mi poni è molto ardua. Non so che risposta dare per prima per

riavere il bambino. Ma tu, per dio, rispondi e salvami il pargolo, prima che me lo divori!

CRISIPPO Su, coraggio, te ne insegnerò altri ancora più straordinari.

COMPRATORE Quali?

CRISIPPO Il Mietitore, il Signore, l’Elettra e l’Incappucciato.

COMPRATORE Cosa sono questo Incappucciato e questa Elettra di cui parli?

CRISIPPO Elettra, quella famosa, la figlia di Agamennone, quella che contemporaneamente sa e

non sa la medesima cosa. Infatti quando le sta di fronte Oreste, che ancora non ha riconosciuto,

sa di Oreste, che è suo fratello, ma non sa che quello che ha di fronte è Oreste. E ora ascolterai

l’Incappucciato, che è altrettanto straordinario. Rispondimi: conosci tuo padre?

COMPRATORE Sì.

CRISIPPO Ebbene, se io ti presentassi un tipo incappucciato e ti chiedessi: «Conosci questo tipo?»,

cosa diresti?

COMPRATORE Sicuramente di non conoscerlo.

Luciano di Samosata, I filosofi all’asta

78

[23] CRISIPPO Eppure il tipo era proprio tuo padre, così se non conosci lui è chiaro che non

conosci tuo padre.

COMPRATORE Certo che no! Ma una volta tolto il capuccio scoprirò la verità. Ma tornando a noi,

qual è il fine a cui tendi con le tue conoscenze, o meglio, che farai una volta giunto alla più alta

vetta della virtù?

CRISIPPO Per quanto attiene ai valori primari, e mi riferisco alla ricchezza, alla salute ac similia,

vivrò secondo natura. Prima, però, necessità vuole che mi stravolga fino a rovinarmi la vista su

libri scritti in piccolo, raccogliendo scoli e facendo il pieno di solecismi e parole rare. Ma, cosa

fondamentale, non è lecito divenire sapienti se non si beve l’elleboro tre volte di seguito.

COMPRATORE Che discorso da grande eroe che hai fatto! Ma che dire del fatto che sei un avido

usuraio - e questa infatti è la tua natura a quanto pare; è caratteristica di chi ha già bevuto

l’elleboro ed è la virtù personificata?

CRISIPPO Proprio così, e ti dirò di più: sarebbe giusto che solo il sapiente prestasse a interesse.

Infatti, poiché è proprio del sapiente giocare coi sillogismi, ed il giocare sugli interessi sembra

simile al giocare coi sillogismi, sarebbe compito del solo virtuoso sia questo che quello; e non

solo prendere gli interessi semplici ma anche quelli doppi. O forse ignori che tra gli interessi

esistono i primi e i secondi, che sono come discendenti dai primi? Del resto tu vedi cosa dice il

sillogismo: se prenderà il primo interesse, prenderà anche il secondo; ma prenderà il primo, ergo

prenderà anche il secondo.

[24] COMPRATORE Allora non dovremmo dire la stessa cosa anche del compenso che percepisci

dai giovani per la tua sapienza? Non è forse chiaro che solo l’uomo perbene percepirà un

compenso per la sua virtù?

CRISIPPO Vedo che capisci, infatti non lo prendo per me, ma per il bene di chi me lo dà. Poiché

esistono i prodighi e i risparmiatori, io esercito me stesso a essere risparmiatore, e il discepolo a

essere prodigo.

COMPRATORE Eppure dovrebbe essere il contrario: il giovane dovrebbe essere risparmiatore, e

tu, il ricco tra i due, prodigo.

CRISIPPO Ma tu mi prendi in giro! Bada che non ti lanci la freccia del sillogismo indimostrabile!

COMPRATORE E cosa ne verrebbe di terribile da questa freccia?

CRISIPPO Imbarazzo, silenzio, sconvolgimento cerebrale.

[25] Ma la cosa più importante è che se vorrò ti trasformerò subito in pietra.

COMPRATORE Come in pietra? non mi sembra che tu sia Perseo, bello mio!

Luciano di Samosata, I filosofi all’asta

79

CRISIPPO Più o meno così: la pietra è un corpo?

COMPRATORE Sì.

CRISIPPO Allora, l’essere vivente non è un corpo?

COMPRATORE Sì.

CRISIPPO Tu sei un essere vivente?

COMPRATORE Sembrerebbe.

CRISIPPO Dunque essendo un corpo sei una pietra.

COMPRATORE Neanche per sogno! Ma liberami, per dio, e rendimi di nuovo uomo!

CRISIPPO Non è difficile. Torna ad essere uomo in questo modo: dimmi, ogni corpo è vivo?

COMPRATORE No.

CRISIPPO Ebbene, la pietra è viva?

COMPRATORE No.

CRISIPPO Tu sei un corpo?

COMPRATORE Sì.

CRISIPPO Ed essendo un corpo, sei vivo?

COMPRATORE Sì.

CRISIPPO Ergo, essendo vivo non sei una pietra.

COMPRATORE Ben fatto! Le mie gambe erano già diventate fredde e dure come quelle di Niobe.

Comunque ti comprerò. Quanto devo pagare per lui?

ERMES Dodici mine.

80

Diogene Laerzio (prima metà III sec. d.C.)

Le vite dei filosofi

lingua originale: greco

edizione di riferimento: H. Frobenius, Basilea, 1533

tr. it. M. Gigante, TEA, Milano, 1991

tema: le suddivisioni della filosofia

genere letterario: dossografia

Libro VII

[36] Dei molti discepoli di Zenone uno dei più famosi fu Perseo figlio di Demetrio nato a Cizio,

che secondo alcuni fu alunno ed amico, secondo altri uno dei domestici mandatigli da Antigono per

il servizio bibliografico: egli era stato istruttore di Alcioneo, figlio di Antigono. Una volta Antigono

volle metterlo alla prova e gli fece annunziare la falsa notizia che i suoi campi erano stati

saccheggiati dai nemici. Perseo divenne scuro in volto e Antigono: «Vedi ? La ricchezza non è cosa

indifferente».

Gli si attribuiscono le seguenti opere: Del regno, La costituzione degli Spartani, Delle nozze,

Dell’empietà, Tieste, Degli amori, Protrettici, Diatribe <in quattro libri>, Aneddoti, in quattro libri;

Commentari, Sulle « Leggi» di Platone, in sette libri.

[37] Altri discepoli illustri furono: Aristone figlio di Milziade, nato a Chio, che introdusse la

dottrina dell’indifferenza. Erillo di Calcedonia che definì fine la scienza. Dionisio detto l’Apostata

che si fece sostenitore della teoria edonistica, perché per la sua grave malattia agli occhi non ebbe

più la forza di affermare che il dolore è cosa indifferente. Dionisio era nato ad Eraclea. Sfro del

Bosforo. Cleante figlio di Fania nato ad Asso che fu successore nello scolarcato. Zenone era solito

paragonarlo a quelle tavolette spalmate di dura cera su cui è faticoso scrivere, ma che conservano a

lungo quel che v’è stato scritto. Sfero fu poi alunno di Cleante, dopo la morte di Zenone; e di lui

parleremo nella seguente Vita di Cleante.

[38] Ippoboto cataloga fra i suoi alunni anche Filonide di Tebe Callippo di Corinto, Posidonio di

Alessandria, Atenodoro di Soli, Zenone di Sidone .

In questa Vita di Zenone mi è parso opportuno dare un resoconto generale di tutta insieme la

dottrina stoica, per il fatto che Zenone fu il fondatore della scuola stoica. Abbiamo già dato la lista

dei suoi numerosi scritti, in cui parlò come nessun altro stoico. Le opinioni comuni a tutti gli Stoici

Diogene Laerzio, Vita di Zenone di Cizio

81

sono queste: esponiamole sommariamente, attuando il medesimo solito criterio che abbiamo

applicato agli altri filosofi. Gli Stoici dividono la filosofia in tre parti: Fisica, Etica, Logica.

[39] Questa distinzione fece per primo Zenone di Cizio nel libro Sulla Logica, poi Crisippo nel

primo libro Sulla Logica e nel primo libro Sulla Fisica e Apollodoro l’Efelo nel primo libro

dell’Introduzione alla dottrina ed Eudromo nell’Esposizione dei principi elementari di Etica e

Diogene di Babilonia e Posidonio.

Queste parti Apollodoro chiama luoghi, Crisippo ed Eudromo specie, altri chiamano generi.

[40] Gli Stoici paragonano la filosofia ad un essere vivente: alle ossa ed ai nervi corrisponde la

Logica, alle parti carnose l’Etica, all’anima la Fisica. Oppure la paragonano ad un uovo: la parte

esterna, il guscio, è la Logica, la parte seguente, il bianco, è l’Etica, la parte più interna, il tórlo, è la

Fisica. Oppure la paragonano ad un fertile campo: la siepe esterna è la Logica, il frutto è l’Etica, la

terra o gli alberi la Fisica. Oppure la paragonano ad una città ben munita di mura e razionalmente

amministrata. E nessuna parte è separata dall’altra, come pur dicono alcuni Stoici, ma sono tutte

piuttosto strettamente congiunte fra loro. Anche l’insegnamento veniva trasmesso congiuntamente e

non separatamente. Altri danno il primo posto alla Logica, il secondo alla Fisica, il terzo all’Etica:

tra costoro è Zenone nel libro Sulla Logica, oltre a Crisippo, Archedemo ed Eudromo.

[41] Diogene di Tolemaide a sua volta comincia dall’Etica, Apollodoro pone al secondo posto

l’Etica, Panezio e Posidonio cominciano dalla Fisica, come afferma Fania, discepolo di Posidono,

nel primo libro delle Lezioni di Posidonio. Cleante poi distingue sei parti: Dialettica, Retorica,

Etica, Politica, Fisica, Teologia. Altri riferiscono questa partizione non alla Logica, ma alla stessa

filosofia. Così per esempio Zenone di Tarso. Alcuni distinguono la parte logica del sistema in due

scienze: Retorica e Dialettica; altri le attribuiscono l’ufficio di definire e di fornire canoni e criteri ;

altri tuttavia le eliminano l’officio della definizione.

[42] Si servono dei canoni e criteri per trovare la verità perché in essa stabiliscono le regole per

la distinzione delle rappresentazioni, ed analogamente si servono delle definizioni per riconoscere la

verità, perché la realtà si apprende per mezzo di concetti. Definiscono la Retorica la scienza di dire

bene su argomenti pianamente ed unitariamente esposti, e la Dialettica la scienza di discutere

rettamente su argomenti per domanda e risposta. Perciò danno anche quest’altra definizione: la

scienza di ciò che è vero e di ciò che è falso, e di ciò che non è né vero né falso.

Dividono la Retorica in tre parti: deliberativa, forense, encomiastica

Diogene Laerzio, Vita di Zenone di Cizio

82

[43] La Retorica è costituita dai seguenti elementi: invenzione degli argomenti, loro espressione

in parole, loro disposizione e viva rappresentazione. Costituiscono il discorso retorico le seguenti

parti: il proemio, la narrazione dei fatti, la confutazione della parte avversa e l’epilogo.

La Dialettica abbraccia due campi: l’uno delle cose significate e l’altro dell’espressione o parola.

Il campo delle cose significate comprende da una parte la dottrina della loro viva

rappresentazione e dall’altra la dottrina degli elementi che la costituiscono, proposizioni enunciate

sia indipendenti sia semplici predicati, e termini simili attivi o passivi, generi e specie, e così pure

parole, tropi, sillogismi e sofismi determinati dal linguaggio o dall’argomento.

[44] Le varie specie di sofismi sono: il mentitore, il veritiero, il negante, il sorite e simili a

questo, il mancante, l’insolubile, il concludente, il velato, il cornuto, l’utide (il nessuno), il

mietitore.

Abbiamo or ora detto che l’altro particolare campo della Dialettica riguarda la dottrina della

lingua stessa. Questa dottrina si occupa della parola rappresentata in lettere, studia quali siano le

parti del discorso e tratta del solecismo, del barbarismo, della dizione poetica, delle anfibolie,

dell’eufonia e della musica e, secondo alcuni, anche delle definizioni, delle divisioni e degli stili.

[45] Gli Stoici affermano che è straordinariamente utile lo studio della teoria dei sillogismi.

Questa insegna il metodo dimostrativo, che molto contribuisce alla formulazione corretta dei

giudizi, alla loro disposizione e al loro ricordo, ed insegna altresì a possedere con salda sicurezza le

cognizioni scientifiche.

Il ragionamento stesso consiste di premesse e conclusione: il sillogismo è un ragionamento

conclusivo fondato su questi elementi. La dimostrazione è un ragionamento che per mezzo di

nozioni più chiare spiega nozioni meno chiare su ogni argomento.

La rappresentazione è un’impressione nell’anima: è qui adottato in senso traslato un termine

proprio in quanto propriamente l’impressione è l’effetto delle impronte che l’anello col sigillo

imprime nella cera.

[46] Di rappresentazioni ve ne sono due: l’una (comprensiva) che coglie immediatamente la

realtà, l’altra (non comprensiva) che coglie la realtà con scarsa o nessuna distinzione. La prima, che

essi definiscono criterio della realtà, è determinata dall’esistente , conforme all’esistente stesso ed è

impressa e stampata nell’anima. L’altra non è determinata dall’esistente oppure se procede

dall’esistente non è determinata conforme all’esistente stesso: non è quindi né chiara né distinta.

Essi dicono che la Dialettica stessa è necessaria ed è una virtù che abbraccia altre virtù speciali o

particolari: la tempestività ci insegna con scientifica sicurezza il momento in cui dobbiamo dare o

Diogene Laerzio, Vita di Zenone di Cizio

83

negare il nostro assenso; la cautela è la forza della ragione contro la semplice verisimiglianza, così

da non cedere ad essa; [47] l’inconfutabilità è il vigore nel ragionamento così da non lasciarci trarre

da esso al contrario; la serietà o assenza di leggerezza è la capacità di riportare le rappresentazioni

alla retta ragione.

La stessa scienza essi definiscono o una comprensione sicura (apprensione) oppure una facoltà di

ricevere le rappresentazioni, che non può essere scossa dalla ragione. Solo con lo studio della

Dialettica il sapiente potrà ragionare senza cadere in errore: infatti per mezzo della Dialettica si

distingue il vero dal falso e si discerne ciò che è persuasivo da ciò che è espresso ambiguamente.

Inoltre senza la Dialettica non è possibile interrogare e rispondere metodicamente.

[48] La precipitosa temerità nelle affermazioni estende il suo effetto anche su ciò che accade

nella realtà , sì che coloro che non hanno rappresentazioni bene disciplinate cadono nel disordine e

nell’irriflessione. Non altrimenti il sapiente apparirà acuto e perspicace e soprattutto abile nelle

argomentazioni. Ché è proprio del sapiente rettamente parlare e rettamente pensare, discutere le

questioni proposte e rispondere alle domande: tutti questi requisiti possiede chi è scaltrito nella

Dialettica.

Questi sommariamente esposti sono i princìpi fondamentali della logica stoica.

84

Giamblico (c. 240-325 d.C.)

La vita pitagorica

lingua originale: greco

edizione di riferimento: L. Deubner, U. Klein, Lipsia, 1937

tr. it. M. Giangiulio, Rizzoli, Milano, 1991

tema: le ‘tre vite’ e la figura del filosofo

genere letterario: biografia esemplare

Capitolo XII

Si racconta che Pitagora sia stato il primo a dare a se stesso il nome di «filosofo». Ma non soltanto

adottò un nuovo nome; in più fornì preventivamente utili spiegazioni circa il contenuto della

nozione, che era a lui peculiare. A suo dire gli uomini arrivano alla vita allo stesso modo in cui la

folla va alle solenni riunioni festive. Infatti lì si recano persone di ogni genere, ognuna con un

diverso scopo: uno per vendere la propria merce e guadagnar denaro, un altro a far mostra del suo

vigore fisico, in cerca di gloria; c’è poi un terzo genere di persone, che è il più nobile di tutti, che si

raduna in quelle occasioni per vedere i luoghi, le belle opere, i detti e gli atti eccellenti che nelle

riunioni festive è consuetudine vengano mostrati, Ebbene, allo stesso modo anche nella vita. le

persone dalle più diverse aspirazioni si radunano nello stesso luogo: alcuni sono presi dalla brama

di denaro e di lussuosa mollezza, altri sono dominati dal desiderio di potere e di comando, nonché

da folli ambizioni di gloria. Mentre il tipo d’uomo più puro è quello che ha scelto la contemplazione

delle cose più nobili: è quest’uomo che Pitagora chiamava filosofo. Bello è contemplare l’intera

volta celeste e bello riconoscere l’ordine degli astri che si muovono in essa; ciò deriva dal fatto che

il mondo partecipa del Primo, che è anche l’Intelligibile. E il Primo, per lui, era la natura del

numero e della proporzione, che pervade tutte le cose e secondo la quale l’universo è

armonicamente composto e convenientemente ordinato. E la sapienza era un reale sapere

concernente il Bello, il Primo, il Divino e ciò che è esente da mistione e sempre identico a se stesso:

di tutto questo ogni altra cosa che può dirsi bella è partecipe. Mentre la filosofia era per lui la

ricerca di tal genere di contemplazione. Era dunque nobile anche questo sforzo di formazione

spirituale, che contribuiva, insieme al suo operato, al miglioramento del genere umano.

85

Sant’Agostino di Ippona (354-430)

Confessioni (396-8)

lingua originale: latino

edizione di riferimento: i padri Maurini, Parigi, 1679-1700

tr. it. C. Vitali, Rizzoli, Milano, 1999

tema: il rapporto tra Dio e il tempo

genere letterario: confessione spirituale

Libro XI Capitolo xii: IDDIO PRIMA DELLA CREAZIONE

Ed eccomi a rispondere a chi domanda: «Che cosa faceva Iddio prima di creare il cielo e la terra?».

Non darò la risposta di quel tale che, per eludere con un motto di spirito la difficoltà della domanda,

disse: «Preparava l’inferno per coloro che vogliono scrutare il cielo».

Altra cosa è comprendere, altra cosa scherzare. Non è dunque quella la mia risposta. Preferirei

dire: «Non so», se non so, al cavarmela con un motto che metta in ridicolo chi fa una domanda

profonda e dia lode a chi dà una risposta sbagliata.

Invece, affermo che Tu, o nostro Iddio, sei il creatore di tutta quanta la creazione: e se con le

parole cielo e terra si intende tutto ciò che è stato creato, affermo francamente: «Prima di creare il

cielo e la terra, Iddio non faceva nulla». Se avesse fatto qualche cosa, che cosa poteva essere se non

una creatura? E almeno avessi io la stessa certezza delle altre nozioni che sarei contento di

conoscere, come ho la certezza che prima della creazione non esisteva alcuna creatura!

Capitolo xiii: IL TEMPO È NELL’ORDINE DELLE COSE CREATE

Se poi qualcuno, leggiero di mente, vuol risalire a ritroso le immagini dei tempi, e si maraviglia che

Tu, Dio onnipotente, onnicreante, onnireggente, artefice del cielo e della terra, ti sii astenuto per

secoli innumerevoli dal por mano ad un’opera così grandiosa, apra bene gli occhi e si convinca che

la sua maraviglia manca di base.

Donde avrebbero potuto incominciare a scorrere quegli innumerevoli secoli, che Tu non avresti

fatto, Tu, autore e principio di tutti i secoli? Potevan forse esistere tempi non creati da Te? Come

avrebbero potuto passare se non erano mai esistiti?

Se dunque sei Tu l’artefice di tutti i tempi, se esistettero tempi prima della creazione del cielo e

della terra, come sí può dire che eri inoperoso? Proprio quei tempi Tu li avevi creati, né potevano

passare tempi prima che Tu li avessi fatti. Se poi prima del cielo e della terra il tempo non esisteva,

Sant’Agostino, Confessioni

86

a qual titolo si domanda che cosa facevi allora? Non esistendo il tempo, non esisteva nemmeno un

«allora».

E nemmeno si può dire che Tu precedi i tempi nel tempo: ché non avresti preceduto tutti i tempi.

Invece, precedi tutto il passato nell’immensità della eternità sempre presente, domini tutto il futuro,

il quale appunto perché futuro, appena arrivato, sarà passato: ma «Tu rimani lo stesso, i tuoi anni

non avranno fine». Essi non vanno, non vengono: questi nostri vanno e vengono, perché vengano

tutti. Gli anni tuoi sono tutti in un punto perché immobili, né quelli che passano sono spinti via dai

sopravvenienti, perché non passano: i nostri saranno tutti quando non saranno più. Gli anni tuoi

sono un giorno solo, e il tuo giorno non è l’ogni giorno, ma l’oggi, perché il tuo oggi non si annulla

nel domani, come non succede ad un ieri. Il tuo oggi è l’eternità, e quindi coeterno generasti colui a

cui hai detto: «Io ti ho generato oggi». Tu hai creato tutti i tempi e tutti li precedi: non si può parlare

di tempo quando il tempo non esisteva.

Capitolo xiv: NATURA DEL TEMPO

Non si può dunque parlare di un tempo in cui Tu sia rimasto inoperoso, perché il tempo l’hai creato

Tu: e non si può parlare di tempi coeterni con Te, perché Tu permani, ed essi, se permanessero, non

sarebbero più tempi. Che cosa è infatti il tempo? Chi potrebbe darne una breve e facile definizione?

Chi ne capirà tanto, almeno con il pensiero, da poterne poi far parola? Ed invece, vi ha una nozione

più familiare, più nota, nel parlare comune, del tempo? Certo, quando ne parliamo, sappiamo che

cosa intendiamo, e lo sappiamo anche quando ne sentiamo parlare gli altri.

Che cosa è, allora, il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se dovessi spiegarlo a chi me ne

chiede, non lo so: eppure posso affermare con sicurezza di sapere che se nulla passasse, non

esisterebbe un passato; se nulla sopraggiungesse, non vi sarebbe un futuro: se nulla esistesse, non vi

sarebbe un presente.

Passato e futuro: ma codesti due tempi in che senso esistono, dal momento che il passato non

esiste più, che il futuro non esiste ancora? E il presente, alla sua volta, se rimanesse sempre presente

e non tramontasse nel passato, non sarebbe tempo, ma eternità. Se dunque il presente, perché sia

tempo, deve tramontare nel passato, in che senso si può dire che esiste, se sua condizione

all’esistenza è quella di cessare dall’esistere; se cioè non possiamo dire che in tanto il tempo esiste

in quanto tende a non esistere?

Capitolo xv: MISURAZIONE DEL TEMPO

Sant’Agostino, Confessioni

87

Con tutto ciò, noi parliamo di tempo lungo e di tempo breve, ma sempre riguardo al passato e al

futuro. Così, per esempio, diciamo lungo un tempo passato da cento anni; come diciamo lungo un

tempo futuro che sarà fra cento anni: breve tempo passato, diremo, quello di dieci giorni fa, e così

per il futuro. Ma come può essere lungo o breve quello che non è? Il passato non è più, il futuro non

è ancora. Non si dica più dunque: «È lungo»; ma si dica: «Fu lungo», per il passato, e: «Sarà

lungo», per il futuro.

O mio Signore e mia luce, anche qui, forse, la tua verità si fa beffe dell’uomo? Un tempo

passato, che diciamo lungo, fu lungo quando era già passato o quando era ancora presente? perché

non poteva essere lungo se non in quanto esisteva qualche cosa che potesse essere lunga: ma il

passato, come tale, non esisteva; non poteva dunque essere lungo.

Non è, quindi, esatto dire: «Quel tempo passato fu lungo», non trovandosi in esso niente che

fosse suscettibile di essere lungo. Una volta passato, non è più. Dovremmo dire invece: «fu lungo

quel tempo presente», poiché era lungo solo in quanto presente. Non era ancora passato al non

essere; c’era possibilità che fosse lungo: ma una volta passato, cessò di essere lungo, avendo cessato

di esistere.

Vediamo un po’ ora, o anima umana, se possa essere lungo il tempo presente; hai ricevuto infatti

il potere di sentire e di misurare la durata. Che cosa mi risponderai? Cento anni presenti son forse

un tempo lungo? Esamina prima se possano essere presenti cento anni. Se sta passando il primo di

essi, questo è presente, ma gli altri novantanove sono futuri, dunque non esistono ancora; se si tratta

dell’anno numero due, uno è passato, il secondo è presente, tutti gli altri futuri. Così è per tutti gli

anni intermedi; qualunque tu prenda, da una parte stanno quelli passati, dall’altra i futuri. Dunque

cento anni non possono essere presenti.

Vedi un po’ se almeno dell’anno in corso si possa dire che è presente. Se siamo nel primo mese,

tutti gli altri sono futuri; se nel secondo, il primo è nel passato, tutti gli altri nel futuro. Neanche

dell’anno che sta passando si può dire che è tutto presente: se non è presente tutto, l’anno non è

presente. I suoi mesi sono dodici, e ciascuno di essi mentre è in corso è presente; gli altri sono

passati o futuri.

Del resto, nemmeno quando sta passando, si può dire di un mese che è presente: presente è un

giorno; se è il primo, futuri gli altri, se l’ultimo, passati gli altri; se intermedio, tra passati e futuri.

Ed ecco: quel tempo presente, il solo a cui possa convenire il termine di «lungo», è ridotto alla

durata di una sola giornata. Ma sottoponiamo ad esame anche questa, perché neanche di un giorno

si può dire’ che sia presente tutto. Esso è formato, tra giorno e notte, di ventiquattro ore: per la

Sant’Agostino, Confessioni

88

prima tutte le altre sono future, per l’ultima tutte le altre sono passate, per l’intermedia un po’ sono

passate, un po’ future. Ed anche l’ora si svolge in istanti fuggitivi; quello volato via è passato,

quello che gli resta è futuro. Se possiamo farci un’idea del tempo, quel solo punto si può chiamare

presente che non si può più suddividere in particelle, per quanto piccolissime: ma anche quel punto

trasvola così rapido dal futuro al passato, da non avere estensione alcuna di durata. Ché, se l’avesse,

sarebbe divisibile in passato e in futuro: il presente invece non ammette estensione.

Dove è, allora, un tempo che si possa chiamare lungo? Il futuro, forse? Ma per esso noi usiamo

tale espressione, perché non esiste ancora ciò che può essere lungo: diciamo, invece: «Sarà lungo».

Quando sarà lungo? Quando sarà ancora futuro? No, perché non esiste ancora quello che dovrebbe

essere «lungo». O quando dal futuro — che non è ancora — ha incominciato e sia diventato

presente? Da quanto si è detto sopra, il presente proclama di non poter essere un tempo lungo.

Capitolo xvi: SI PUÒ MISURARE SOLTANTO IL PRESENTE

Eppure, Signore, noi possiamo distinguere gli intervalli dei tempi e paragonarli tra loro; e diciamo

che alcuni sono più lunghi, altri più brevi. Misuriamo pure quanto questo o quel tempo sia più lungo

o più breve: e rispondiamo che quello è il doppio o il triplo, questo semplice o tanto quanto quello.

Ma noi possiamo misurare il tempo che passa, e lo misuriamo per la percezione che ne abbiamo.

Ora, chi può misurare il passato, che non esiste più, o il futuro che non esiste ancora? A meno che

uno osi affermare che si può percepire e misurare il non esistente. Dunque si può aver la percezione

e misurare il tempo quando sta passando, ma quando è passato non è possibile, perché non esiste.

Capitolo xvii: PASSATO E FUTURO ESISTONO

Ed ora, qui, o Padre, non affermo, vado cercando:, o mio Dio, assistimi, sorreggimi.

C’è chi voglia dimostrarmi che non esistono tre forme del tempo, come abbiamo imparato da

fanciulli e come abbiamo insegnato ai fanciulli, e cioè il passato, il presente, il futuro, ma che solo il

presente sia tempo, poiché gli altri due non esistono? O forse esistono anch’essi, e il tempo, quando

da futuro diventa presente esce da qualche occulto recesso, per ritirarsi in qualche occulto recesso

quando da presente diventa passato? E quelli che hanno preannunziato avvenimenti futuri dove li

videro se non esistevano ancora? Quello che non c’è, non si può certo vedere. E quelli che narrano

avvenimenti passati non racconterebbero cose vere, se non le vedessero con la loro mente: e non

potrebbero assolutamente essere viste, se non esistessero.

Esistono dunque anche il passato e il futuro.

Sant’Agostino, Confessioni

89

Capitolo xviii: CONOSCENZA DEL PASSATO E DEL FUTURO

Permettimi di approfondire alquanto le mie ricerche, o Signore, mia speranza; fa’ che in questo mio

proposito io non mi lasci sviare.

Se futuro e passato esistono, vorrei sapere dove hanno sede. Se per ora non ci riesco, so però che,

dovunque siano, non vi sono come futuro e passato, ma come presente; perché se anche là sono

come futuro o come passato, o non vi sono ancora o non vi sono più. Quindi, dovunque siano,

comunque siano non vi sono che in forma di presente. Però, quando si raccontano avvenimenti

passati veri, non si tiran fuori dalla memoria gli avvenimenti in se stessi, ma espressioni formate

dalle loro immagini che si sono impresse a guisa di orme nell’animo per mezzo dei sensi. Così, la

mia fanciullezza non esiste più se non in un tempo passato, che non esiste più; ma, quando la

rievoco e ne parlo, io ne vedo l’immagine nel presente, perché essa è ancora nella mia memoria.

Devo invece confessare, o mio Dio, che proprio non so se nella predizione del futuro, il

fenomeno si svolga nello stesso modo; se, cioè, le immagini delle cose non ancora esistenti siano

presentate come già tali. So tuttavia che noi di solito pensiamo prima a nostre azioni future; che

codesta anticipazione di pensiero è presente, mentre l’azione premeditata non esiste ancora, perché

futura: quando invece vi ci saremo applicati e realizzeremo quanto avevamo pensato, quell’azione

non sarà più futura, allora, ma presente.

In qualunque modo avvenga codesto arcano presentimento del futuro, è certo che non si può

vedere se non quello che esiste. Ma ciò che esiste è il presente, non il futuro. Perciò quando si dice

che si vede il futuro, non si vede il futuro in se stesso, che non esiste ancora, ma si vedono forse

cause o indizi suoi, già esistenti; non il futuro, dunque, ma il presente appare alla nostra vista, e

grazie ad esso possono venire preannunziate cose future, concepite con lo spirito: forme concepite

che già esistono, e chi predice il futuro le intravede come presenti.

Mi aiuterò con un esempio, scelto fra i tanti.

Io vedo l’aurora: preannuncio il levar del sole: ciò che vedo è presente, ciò che preannuncio è

futuro; non il sole è futuro: esso esiste già; ma il suo sorgere, che è futuro; sorgere però che io, se

non ne avessi l’immagine nell’animo, non potrei certo predire. Ma nemmeno l’aurora che vedo in

cielo è il sorgere del sole, quantunque lo preceda, e nemmeno lo è l’immagine del mio animo:

ambedue sono visti nel presente perché si possa preannunciare, il futuro. Il futuro dunque non c’è

ancora; se non c’è ancora, non esiste; se non esiste, non si può assolutamente vedere; ma si può

preannunciarlo dai segni presenti che già esistono e si possono vedere.

90

Anicio Manlio Severino Boezio (475-524)

La consolazione della filosofia (524)

lingua originale: latino

edizione di riferimento: L. Bieler, Turnhout, 1967

tr. it. O. Dallera, Rizzoli, Milano, 1977

tema: la prescienza divina

genere letterario: dialogo consolatorio

Libro V, capitolo iii

Allora io: ‘Ecco – dissi – mi sento di nuovo confondere da una perplessità ancora più tormentosa.

E qual’è mai – chiese lei1 – codesta tua perplessità? Ma immagino già da quali idee tu sia

turbato.

Mi sembra – dissi – che ci sia un’insanabile contraddizione nell’affermazione che, da una parte,

Dio conosce in anticipo tutte le cose e che, dall’altra, per la nostra libertà sussiste una qualche

possibilità di scelta. Infatti, se Dio vede in anticipo tutte le cose e in nessun modo può sbagliare, è

inevitabile che si verifichi quello che la divina provvidenza ha previsto che debba verificarsi. Di

conseguenza, se preconosce dall’eternità non soltanto le azioni umane, ma anche i disegni e i voleri,

non vi sarà libertà di decisione; perché non può esistere alcun altro fatto o volere, quale che sia, se

non quello di cui la provvidenza divina, immune da errori, abbia già avuto in anticipo conoscenza.

Se, infatti, le cose possono orientarsi diversamente da come sono state previste, non ci sarà una

sicura prescienza del futuro, ma piuttosto un’opinione incerta, cosa, questa, che ritengo empio

credere nei confronti di Dio.

E non posso poi approvare quel ragionamento per mezzo del quale certuni credono di poter

risolvere il nodo della questione. Dicono infatti che non già una cosa si verifica per il fatto che la

provvidenza ha previsto che essa si verificherà, ma, al contrario piuttosto, per il fatto che una cosa

avverrà non può sfuggire alla provvidenza divina; in tal modo la necessità andrebbe a ricadere sulla

parte opposta. Secondo costoro, dunque, non è fatale che accadano quelle cose che sono previste,

ma è fatale che siano previste quelle cose che devono succedere; quasi che il problema tormentoso

fosse, a questo punto, di sapere quai sia il rapporto delle cause: se cioè la prescienza sia la causa.

della necessità delle cose future, o se la necessità delle cose future sia la causa della prescienza; e

1 L’interlocutrice del narratore è la personficazione della Filosofia [nota di Davies]

Boezio, Consolazione

91

non ci sforzassimo invece di far luce su quest’altro punto, e cioè che, in qualunque rapporto stiano

tra di loro le cause, è fatale che si verifichino le cose previste, anche se la prescienza non sembra

imporre alle cose future la necessità di avverarsi.

E infatti, posto che qualcuno stia seduto, è logico che sia vera l’opinione per la quale si ritiene

che egli sta seduto e, reciprocamente, posto che sia vera l’opinione secondo cui uno sta seduto, è

logico che egli stia davvero seduto. In ambedue i casi, dunque, c’è necessità logica; in quest’ultimo:

dello star seduto, nel primo caso: della verità. Ora, non è che uno stia seduto per il fatto che è vera

l’opinione al proposito, ma, piuttosto, questa è vera perché è stata preceduta dal fatto che quello

stesse seduto. Così, per quanto la causa della verità derivi da questa seconda parte, c’è tuttavia in

ambedue una medesima necessità. È chiaro che gli stessi ragionamenti si possono fare a proposito

della provvidenza e delle cose future; infatti, anche se esse sono previste per il fatto che devono

accadere e non si verificano invece per il semplice fatto di essere previste, non è meno logico,

tuttavia, che da Dio siano previste le cose che avverranno, e che le cose previste avvengano in

quanto previste, il che, da solo, è sufficiente a sopprimere completamente ogni libértà di

determinazione. Giacché, quale controsenso logico sarebbe mai il dire che l’avverarsi delle cose

temporali è causa dell’eterna prescienza! E che differenza c’è mai tra il credere che Dio preveda le

cose future per il fatto che accadranno e il pensare che le cose già accadute nel passato siano causa

di quella somma preveggenza? Inoltre, allo stesso modo che, quando so che una cosa è, risulta

logico che quella cosa sia, così, quando conosco che una cosa avverrà, è fatale che quella cosa

avvenga; ne deriva, dunque, che non si possa evitare l’avverarsi di una cosa prevista.

Infine, se qualcuno ritiene che qualcosa stia diversamente da come sta in realtà, questo

pregiudizio non solo non è scienza, ma è opinione fallace e ben diversa dalla verità della scienza.

Perciò, se qualcosa potrà avverarsi in modo tale che il suo avverarsi non sia certo e necessario,

come si potrà conoscere in anticipo che quella cosa avverrà? Come, infatti, la scienza, in sé, non

contiene nessun elemento di falsità, così ciò che da essa è concepito non può essere diverso da come

è concepito. La causa, appunto, per cui la scienza è immune da errore consiste nel fatto che ogni

cosa, per logica necessità, sta in quel modo in cui la scienza conosce che essa sta. E dunque? In che

modo Dio conosce in anticipo questi futuri incerti? Se, infatti, ritiene che inevitabilmente

avverranno cose che possono anche non avvenire, si sbaglia, cosa, questa, che è sacrilego non

soltanto pensare, ma anche solo enunciare. Ma se le cose, così come sono, egli le vede proiettate nel

futuro, in modo, cioè, da conoscere che esse possono indifferentemente avverarsi o non avverarsi,

Boezio, Consolazione

92

che tipo di prescienza sarebbe mai questa che non racchiude nulla di sicuro, nulla di determinato? E

in che cosa differisce tutto questo da quel ridicolo vaticinio di Tiresia

Tutto quel che io dico, o avverrà o non avverrà?2

E in che cosa la prescienza divina sarebbe superiore al modo di pensare umano, se, come gli

uomini, giudica incerte quelle cose il cui avverarsi è incerto? Ma se presso quella fonte certissima di

tutte le cose non ci può essere nulla di incerto, risulta allora certo l’avverarsi di quelle cose di cui ha

decisamente previsto che accadranno. Non sussiste perciò libertà alcuna per le decisioni e le azioni

umane, poiché la divina mente, tutto prevedendo senza possibilità d’errore, le vincola e circoscrive

a un ben preciso risultato.

Una volta accettata questa conclusione, ogni valore umano è evidentemente destinato a

eclissarsi. E privo di senso, infatti, fissare premi o castighi per buoni e cattivi, quando

nessun’attività libera e volontaria dello spirito li ha meritati. E apparirebbe iniqua al massimo grado

quell’esigenza che ora è sentita come giustissima, cioè che i malvagi siano puniti e gli onesti

rimunerati, mentre a orientarli nell’uno o nell’altro senso non è la loro personale volontà, ma vi

sono costretti dalla forza necessitante che determina il futuro. E non ci sarebbero più, per nessun

verso, vizi e virtù, ma piuttosto una inestricabile, disordinata confusione di valori e, cosa di cui

nulla si può immaginare di più empio, avverrebbe che, derivando l’intero ordine universale dalla

provvidenza e nulla essendo consentito alla decisione umana, anche i nostri vizi si dovrebbero

attribuire all’autore di tutti i beni. A questo punto non ha più nessun senso sperare o pregare; cosa

mai, infatti, uno dovrebbe sperare o pregare, quando le cose• su cui si può esercitare il desiderio

risultano concatenate tra li loro secondo una successione rigorosa? Verrà, dunque, eliminato

quell’unico rapporto possibile tra uomini e Dio, che consiste appunto nello sperare e nel pregare, se

è vero che noi, in premio di un doveroso riconoscimento della nostra bassezza, meritiamo

l’inestimabile contraccambio della grazia divina, che è la sola via per cui sembra che gli uomini

possano entrare in colloquio con Dio e congiungersi con quella inaccessibile luce, grazie all’atto

stesso della preghiera, prima ancora di essere stati esauditi. Ora, se, ammesso il carattere

necessitante del futuro, tutto questo appare privo di efficacia, a quale altro mezzo ricorreremo per

poterci congiungere e restare uniti al supremo signore delle cose? Sarà perciò inevitabile che il

genere umano, come poco fa dicevi tu nei tuoi versi, sradicato e dissociato dalla sua fonte,

sprofondi nel nulla.

2 La fonte è il poeta latino Orazio (Sermones, II, 5) [nota di Davies]

93

Sant’Anselmo (1033-1109)

Proslogion (1077-8)

lingua originale. latino

edizione di riferimento: F.S. Schmitt, Seckau, 1938

tr. it. I. Sciuto, Rusconi, Milano, 2001

tema: la dimostrazione dell’esistenza di Dio

genere letterario: dialogo teocentrico

Proemio

Dopo aver pubblicato, per le pressanti preghiere di alcuni confratelli, un opuscolo’ come esempio di

meditazione sulla razionalità della fede, mettendomi nella posizione di chi, ragionando

silenziosamente dentro di sé, ricerca ciò che non conosce, considerando che quell’opuscolo era

costruito con la concatenazione di molti argomenti, ho cominciato a chiedermi se per caso fosse

possibile trovare un argomento unico, tale che per essere dimostrato non avesse bisogno di altro, ma

solo di se stesse e che fosse da solo sufficiente a stabilire che Dio esiste veramente, che è il sommo

bene di nessun altro bisognoso e di cui tutte le cose hanno bisogno per essere e per ben-essere, e

tutto ciò che crediamo della divina sostanza.

Rivolgevo spesso e con impegno il mio pensiero su questo punto e talvolta mi sembrava di poter

già afferrare quanto cercavo, talvolta invece sfuggiva del tutto all’acume della mia mente; alla fine,

privo di speranza, volli cessare la ricerca di una cosa che sembrava impossibile trovare. Ma quando

volevo escludere completamente da me quel pensiero, affinché non impedisse alla mia mente,

occupandola inutilmente, di impegnarsi in altri pensieri nei quali potessi fare progressi, proprio

allora quel pensiero cominciò sempre più ad imporsi, con una certa importunità, a me che non lo

volevo e lo respingevo. Mentre dunque, un giorno, fortemente mi affaticavo nel resistere alla sua

insistenza, nel conflitto stesso dei pensieri mi si presentò ciò di cui avevo disperato, sì da farmi

applicare con passione a quel pensiero che mi ero preoccupato di respingere.

Ritenendo poi che quanto gioivo di avere trovato, se fosse stato scritto, sarebbe piaciuto a

qualche lettore, us questo e su altri argomenti ho scritto il seguente opuscolo, mettendomi nella

posizione di chi tenta di innalzare la sua mente a contemplare Dio e cerca di comprendere ciò che

crede. E poiché giudicavo che né questo opuscolo né quello che sopra ho ricordato fossero degni del

nome di libro o di portare il nome dell’autore, ma pensavo tuttavia che non si dovessero pubblicare

senza un titolo qualsiasi col quale invitassero alla lettura, in qualche modo, colui nelle cui mani

Sant’Anselmo, Proslogion

94

fossero pervenuti, diedi a ciascuno il suo titolo, chiamando il primo Esempio di meditazione sulla

ragione della fede e il successivo La fede che cerca l’intelletto.

Ma quando l’uno e l’altro erano già stati trascritti da molti con questi titoli, molti mi

sollecitarono (specialmente il reverendo arcivescovo di Lione, di nome Ugo, legato apostolico in

Gallia, che me l’ordinò con autorità apostolica) a scrivere il mio nome su di essi. Per fare ciò più

adeguatamente, ho dunque intitolato il primo opuscolo Monologion, cioè soliloquio, e questo invece

Proslogion, cioè colloquio.

Parte prima: DIMOSTRAZIONE DELL’ESISTENZA DI DIO

-–ooOoo–-

2. Dio esiste veramente.

Dunque, o Signore, tu che dai l’intelligenza alla fede, concedimi di comprendere, per quanto sai che

mi possa giovare, che tu esisti come crediamo e che sei quello che noi crediamo.

E davvero noi crediamo che tu sia qualcosa di cui non si possa pensare nulla di più grande. O

forse non vi è una tale natura, perché «disse l’insipiente in cuor suo: Dio non esiste»? Ma

certamente quel medesimo insipiente, quando ascolta ciò che dico, cioè «qualcosa di cui non si può

pensare nulla di più grande», comprende ciò che ode; e ciò che comprende è nel suo intelletto,

anche se egli non intende che quella cosa esista. Altro, infatti, è che una cosa sia nell’intelletto, e

altro è intendere che quella cosa esista. Quando il pittore, infatti, prima pensa a ciò che sta per fare,

ha certamente nell’intelletto ciò che ancora non ha fatto, ma non intende ancora che questo esista.

Quando invece lo ha già dipinto, non solo ha nell’intelletto ciò che ha già fatto, ma intende anche

che esso esista. Anche l’insipiente, dunque, deve convenire che, almeno nell’intelletto, vi sia

qualcosa di cui non si può pensare nulla di più grande, perché quando sente questa espressione la

intende, e tutto ciò che si intende è nell’intelletto.

Ma, certamente, ciò di cui non si può pensare qualcosa di più grande non può essere nel solo

intelletto. Se infatti è almeno nel solo intelletto, si può pensare che esista anche nella realtà, il che è

maggiore. Se dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore è nel solo intelletto, quello stesso di

cui non si può pensare il maggiore è ciò di cui si può pensare il maggiore. Ma evidentemente questo

non può essere. Dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore esiste, senza dubbio, sia

nell’intelletto sia nella realtà.

3. Non si può pensare che Dio non esista.

Sant’Anselmo, Proslogion

95

Tutto ciò è talmente vero, che non si può neppure pensare che Dio non esista. Infatti si può pensare

che vi sia qualcosa di cui non si possa pensare che non esiste; e questo è maggiore di ciò che si può

pensare non esistente. Quindi, se ciò di cui non si può pensare il maggiore può essere pensato non

esistente, quello stesso di cui non si può pensare il maggiore non è ciò di cui non si può pensare il

maggiore; ma questo è contraddittorion. Dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore esiste

così veramente che non si può neppure pensare non esistente.

E questo sei tu, Signore Dio nostro. Dunque tu esisti così veramente, Signore Dio mio, che non

puoi neppure essere pensato non esistente. E giustamente. Se infatti una qualche mente potesse

pensare qualcosa migliore di te, la creatura si eleverebbe al di sopra del Creatore e sarebbe giudice

del Creatore; il che sarebbe grandemente assurdo. In verità, di tutto ciò che è, all’infuori di te solo,

si può pensare che non sia. Tu solo dunque hai l’essere nel modo più vero, e perciò massimo,

rispetto a tutte le cose, perché qualsiasi altra cosa non è in modo così vero e, quindi, ha un essere

minore. Perché dunque «l’insipiente ha detto in cuor suo: Dio non esiste», quando è così evidente

ad una mente razionale che tu sei più di tutte le cose? Per quale motivo, se non perché è stolto e

insipiente?

4. In che modo l’insipiente ha detto in cuor suo ciò che non si può pensare.

Ma in quale modo l’insipiente ha detto in cuor suo ciò che non ha potuto pensare, o in che modo

non ha potuto pensare ciò che ha detto in cuor suo, dato che è la stessa cosa dire nel cuore e

pensare? Se poi veramente, anzi poiché veramente sia lo pensò perché lo disse in cuor suo, sia non

lo disse in cuor suo perché non poteva pensarlo, non in un modo soltanto si dice nel cuore o si pensa

qualcosa. In un modo, infatti, una cosa è pensata quando si pensa la parola che la significa; in un

altro modo, quando si comprende ciò che la cosa è. Nel primo modo, pertanto, si può pensare che

Dio non sia, ma nel secondo assolutamente no. Perciò nessuno, il quale comprenda ciò che Dio è,

può pensare che Dio non esista, sebbene dica in cuor suo queste parole, non dando loro alcun

significato o dandogliene uno estraneo. Dio, infatti, è ciò di cui non si può pensare il maggiore. Chi

comprende bene questo, comprende certamente che egli esiste in modo tale che neppure nel

pensiero può non essere. Chi dunque comprende che Dio è così, non può pensare che egli non

esista.

Ti ringrazio, buon Signore, ti ringrazio perché ciò che prima ho creduto per un tuo dono, ora per

la tua illuminazione lo comprendo in modo tale che, se non volessi credere che tu esisti, non potrei

non comprenderlo.

96

Eadmero di Bec (1060-c.1124)

Vita di Anselmo (inizio XII sec.)

lingua originale. latino

edizione di riferimento: R.W. Southern, Oxford, 1972

tr. it. I. Biffi, Jaca Book, Milano, 1987

tema: la scoperta (e scampata perdita) di un ragionamento

genere letterario: agiografia

Libro I

25. In questo periodo1, scrisse tre trattati, il De veritate, il De libertate arbitrii e il De casu diaboli;

da essi appare chiaramente dove fissasse la sua attenzione benché nel trattare tali argomenti non

esulasse affatto da quelli di interesse generale. Ne scrisse anche un quarto che intitolò De

grammatico; è un’opera sottoforma di dialogo tra lui ed un discepolo a cui propone, risolvendole,

molte questioni dialettiche e gli dà ragguagli ed anche istruzioni sul modo in cui debbano essere

considerate le sostanze e gli accidenti.

Compose pure una breve dissertazione a cui diede il titolo di Monologion perché in essa si

rivolge solo a se stesso e, senza mai rifarsi all’autorità della Sacra Scrittura, ma indagando con la

sola forza della ragione, scoprì quale fosse la natura di Dio e fornì prove ed argomentazioni

inconfutabili sul fatto che ciò che la fede autentica sente riguardo a Dio non può essere che verità.

26. In seguito gli venne in mente di cercare se fosse possibile dimostrare con un’unica breve

trattazione, quello che si crede e si predica a proposito di Dio, cioè che è eterno, immutabile,

onnipotente, onnipresente in tutte le cose, incomprensibile, giusto, pio, misericordioso, verace,

verità, bontà, giustizia e così via e come il tutto sia in Lui una cosa sola.

Secondo quanto riferiva, questo intento gli procurava qualche disagio. Il riflettervi gli toglieva

infatti da un lato la voglia di mangiare, di bere e di dormire, dall’altro, ed era la sua angustia

maggiore, gli turbava la concentrazione che avrebbe dovuto prestare al Mattutino ed agli altri uffici

divini. Quando se ne accorse ed ancora non riusciva a comprendere pienamente quello che cercava,

si convinse che quei pensieri fossero una tentazione del diavolo e si sforzò di allontanarli dalla sua

mente. Ma per quanto si affannasse, essi lo perseguitavano con insistenza sempre maggiore. Ma

ecco che una notte, durante una veglia di preghiera, la grazia di Dio illuminò il suo cuore e l’intera

1 Gli anni 1080-5 [nota di Davies]

Eadmero, Vita di Anselmo

97

questione apparve chiara al suo intelletto riempiendogli di gioia e di esultanza ogni intimo recesso

dell’anima. Considerando poi fra sé che anche altre persone avrebbero potuto apprezzare la sua

conclusione, se ne fossero state messe a conoscenza, senza provare alcuna forma d’invidia la

trascrisse immediatamente sopra delle tavolette cerate e le affidò ad uno dei confratelli del

monastero perché le custodisse con ogni riguardo.

Dopo alcuni giorni richiese le tavolette a chi le aveva in consegna. Furono cercate nel luogo in

cui erano state riposte ma non si trovarono. Si domandò ai monaci se per caso qualcuno le avesse

prese, ma invano. E finora non è venuto fuori nessuno che abbia ammesso di saperne qualcosa.

Anselmo riprodusse un ulteriore scritto sullo stesso tema sopra altre tavolette e le consegnò al

medesimo monaco con l’impegno di una salvaguardia più scrupolosa. Costui le sistemò nell’angolo

più segreto del suo letto ed il giorno dopo, senza avere il sospetto di alcun misfatto, le ritrovò sparse

sul pavimento davanti al letto con i pezzi di cera che le ricoprivano sparpagliati qua e là. Si

raccolsero le tavolette, la cera fu ripresa e portarono le une e l’altra ad Anselmo. Egli giustappose i

pezzetti di cera e, con una certa fatica, recuperò la scrittura. Ma nel timore che per qualche

negligenza queste andassero definitivamente perdute, nel nome di Dio ordinò che venissero

ricopiate su della pergamena.

Compose poi un volume di modeste proporzioni ma di rilevante consistenza per le proposizioni

espresse e la finezza speculativa, e lo intitolò Proslogion. In quest’opera si rivolge ora a se stesso

ora a Dio. Essa venne nelle mani di un tale che, non essendosi trovato molto d’accordo con una

delle argomentazioni, aveva pensato che fosse insostenibile e nell’intenzione di confutarla compose

una replica in opposizione e la sistemò in appendice a quel medesimo testo. Quando uno dei suoi

amici gliela fece recapitare ed Anselmo la vide, ne fu felice, espresse il proprio ringraziamento a chi

gli aveva mosso quelle critiche e gli inviò la sua risposta in merito scrivendola in fondo all’opuscolo

che gli era stato mandato; poi lo ritornò all’amico che gliel’aveva fatto pervenire. Aveva agito così

nel desiderio che altre persone oltre a quella, meritevoli di avere quell’operetta, la richiedessero a

lui perché alla fine vi aggiungesse la critica alla sua argomentazione e la sua risposta alla critica.

98

San Tommaso d’Aquino (1224/5-1274)

Sulla Verità (1256-9)

lingua originale. latino

edizione di riferimento: S.E. Fretté, M.Maré Vivès (et al.),

Polyglot, Vaticano (1882 ecc., ‘edizione Leonina’), vol XXII

tr. it. F. Fiorentino, Bompiani, Milano, 2005

tema: Dio e i futuri contingenti

genere letterario: quæstio disputata

Questione 2: La conoscenza di Dio

Articolo 12: Se Dio conosca i futuri contingenti

OBIEZIONI

1. Per dodicesimo ci si chiede se Dio conosca i futuri contingenti singolari. E sembra di

no. Infatti, si può conoscere solo il vero, com’è detto nel libro I degli Analitici Posteriori;

ora, nei singolari contingenti e futuri non c’è una determinata verità, com’è detto nel libro

Della interpretazione; dunque, Dio non ha scienza dei singolari futuri e contingenti.

2. Inoltre. Ciò cui segue l’impossibile è impossibile; ora, al fatto che Dio conosca il

singolare contingente e futuro segue l’impossibile, ossia che la scienza di Dio sia fallibile;

dunque, è impossibile che [Dio] conosca il singolare futuro contingente. Prova della

minore: ammettiamo per ipotesi che Dio conosca un certo futuro contingente singolare,

per es. che Socrate siede. Ora, o è possibile che Socrate non sieda oppure è impossibile.

Se non è possibile che Socrate non sieda, dunque, è impossibile che Socrate non sieda;

dunque, è necessario che Socrate sieda; ma era stato ammesso per ipotesi che [ciò] fosse

contingente. Invece, se è possibile che non sieda, ciò ammesso, non deve seguire nulla di

sconveniente, però segue che la scienza di Dio sia fallibile; dunque, non sarà impossibile

che la scienza di Dio sia fallibile.

3. Ma diceva che il contingente, in quanto esiste in Dio, è necessario. IN CONTRARIO.

Ciò che è in sé contingente non è necessario in rapporto a Dio, se non secondo che esiste

in lui; ma secondo che esiste in lui, non è distinto da lui; dunque, se non è conosciuto da

Dio se non secondo che è necessario, esso non sarà conosciuto da lui secondo che è

costituito nella propria natura, secondo la qual cosa è distinto da Dio.

San Tommaso, Sulla verità

99

4. Inoltre. Secondo [quanto dice] il Filosofo nel libro I degli Analitici primi, da una

premessa maggiore [la cui predicazione è] necessaria e da una premessa minore [la cui

predicazione è] d’inerenza segue una conclusione necessaria; ora, questa proposizione:

Ogni cosa conosciuta da Dio è necessario che esista, è vera; infatti, se non esistesse ciò

che Dio sa che esiste, la sua scienza sarebbe fallibile; dunque, se qualche essere è

conosciuto da Dio, è necessario che esso esista. Ora, nessun contingente è necessario che

esista; dunque, Dio non conosce nessun contingente.

5. Ma diceva che quando si dice: Ogni cosa conosciuta da Dio è necessario che esista,

non si introduce una necessità dal lato della creatura, ma solo dal lato di Dio che conosce.

IN CONTRARIO. Quando si dice: Ogni cosa conosciuta da Dio è necessario che esista,

la necessità è attribuita al soggetto della proposizione; ora, il soggetto della proposizione è

Ciò che è conosciuto da Dio, non lo stesso Dio che conosce; dunque, non si introduce con

ciò la necessità se non dal lato della cosa conosciuta.

6. Inoltre. Quanto più una conoscenza, in noi, è certa tanto meno essa può riguardare le

cose contingenti: infatti, la scienza non è che delle cose necessarie, poiché è più certa

dell’opinione che può riguardare le cose contingenti; ora, la scienza di Dio è certissima;

dunque, non può essere se non di cose necessarie.

7. Inoltre. In ogni condizionale vera, se l’antecedente è assolutamente necessario, anche il

conseguente sarà assolutamente necessario; ora, questa condizione è vera: Se una cosa è

stata conosciuta da Dio, essa esisterà. Dunque, poiché questo antecedente: Questa cosa è

stata conosciuta da Dio è assolutamente necessario, anche il conseguente sarà

assolutamente necessario; dunque, tutto ciò che è conosciuto da Dio è assolutamente

necessario che esista. Ora, che [l’enunciato] Questa cosa è stata conosciuta da Dio è

assolutamente necessario, lo provava così: questo è un enunciato che riguarda il passato;

ora, ogni enunciato riguardante il passato, se è vero, è necessario, poiché ciò che è stato è

impossibile che non sia stato; dunque, esso è assolutamente necessario. Inoltre, ogni realtà

eterna è necessaria; ora, tutto ciò che Dio ha conosciuto, lo ha conosciuto sin dall’eternità;

dunque, che egli abbia conosciuto è cosa assolutamente necessaria.

8. Inoltre. Ogni cosa come si rapporta all’essere così si rapporta al vero; ora, i futuri

contingenti non hanno l’essere; dunque, neppure la verità; dunque, non ci può essere

scienza di essi.

San Tommaso, Sulla verità

100

9. Inoltre. Secondo [quanto dice] il Filosofo nel libro IV della Metafisica, chi non conosce

una cosa determinata non conosce nulla; ora, il futuro contingente, soprattutto se è in

potenza a due alternative contrarie, non è in nessun modo determinato né in se stesso né

nella sua causa; dunque, in nessun modo ci può essere scienza di esso.

10. Inoltre. Ugo di S. Vittore, nel libro Sui sacramenti, dice che «Dio, che ha tutto dentro

di sé, non conosce nulla al di fuori di sé»; ora, nulla è contingente se non [ciò che esiste]

al di fuori di lui: infatti, in lui non c’è niente di potenziale; dunque, egli in nessun modo

conosce il futuro contingente.

11. Inoltre. Tramite il medio necessario non si può conoscere qualcosa di contingente,

poiché, se il medio è necessario, anche la conclusione [è] necessaria; ora, Dio conosce

tutte le cose tramite il medio, che è la sua essenza; dunque, poiché tale medio è

necessario, sembra che non possa conoscere qualcosa di contingente.

IN CONTRARIO

1. C’è che nei Salmi è detto: «Chi plasmò uno ad uno i loro cuori vede in tutte le loro

opere»; ora, le opere degli uomini sono contingenti, poiché dipendono dal libero arbitrio;

dunque, Dio conosce i futuri contingenti.

2. Inoltre. Ogni cosa necessaria è conosciuta da Dio; ora, ogni contingente, secondo che si

riferisce alla conoscenza divina, è necessario, come dice Boezio nel libro V della

Consolazione della filosofia; dunque, ogni contingente è conosciuto da Dio.

3. Agostino, nel libro VI della Trinità, dice che Dio conosce immutabilmente le cose

mutevoli; ora, una cosa è contingente per il fatto che è mutevole, in quanto si dice

contingente ciò che può essere e non essere; dunque, Dio conosce le cose contingenti in

modo immutabile.

4. Inoltre. Dio conosce le cose in quanto ne è causa; ora, Dio non solo è causa delle cose

necessarie, ma anche di quelle contingenti; dunque, egli conosce tanto le cose necessarie

quanto quelle contingenti.

5. Inoltre. Dio in tanto conosce le cose, in quanto c’è in lui l’esemplare di tutte le cose;

ora, l’esemplare divino delle cose contingenti e mutevoli può essere immutabile, come

anche l’esemplare delle cose materiali è immateriale e delle cose composte è semplice;

dunque, sembra che, come Dio conosce le cose composte e materiali, pur essendo

San Tommaso, Sulla verità

101

immateriale e semplice, così conosce le cose contingenti, anche se in lui non c’è

contingenza.

6. Inoltre. Avere scienza è conoscere la causa di una cosa; ora, Dio conosce la causa di

tutte le cose contingenti: infatti, egli conosce se stesso, che è causa di tutto; dunque, egli

conosce le cose contingenti.

RISPONDO,

dicendo che riguardo alla presente questione si sono commessi diversi errori. Infatti,

alcuni, volendo giudicare la scienza divina alla stregua della nostra scienza, dissero che

Dio non conosce i futuri contingenti: ma questo è impossibile, poiché, se fosse vero, [Dio]

non potrebbe provvedere alle vicende umane, che accadono in maniera contingente.

Perciò altri dissero che Dio ha scienza di tutte le cose future, che però accadono tutte in

maniera necessaria, altrimenti la scienza di Dio riguardo ad esse sarebbe fallibile. Ma

anche questo è impossibile, poiché, se fosse vero, verrebbe meno il libero arbitrio, non

sarebbe necessario consigliarsi e non sarebbe neanche giusto infliggere delle pene o

premiare per dei meriti, poiché tutto sarebbe compiuto per necessità. Perciò bisogna dire

che Dio conosce tutte le cose future e che questa conoscenza non impedisce che alcune

cose accadano in maniera contingente.

Perché ciò sia evidente bisogna sapere che in noi ci sono alcune potenze e [alcuni] abiti

conoscitivi in cui non ci può mai essere la falsità, quali il senso, la scienza e l’intelligenza

dei primi princìpi; invece, [ce ne sono altre] in cui ci può essere il falso, come

l’immaginazione, l’opinione e il giudizio. Ora, c’è falsità in qualche conoscenza per il

fatto che le cose non stanno in realtà così come [le] si conoscono. Perciò, se c’è una

potenza conoscitiva tale che in essa non ci sia mai la falsità, occorre che il suo oggetto di

conoscenza non venga mai meno da ciò che di esso il soggetto conoscente apprende. Ora,

non si può impedire che il necessario esista, neanche prima di prodursi, giacché le sue

cause sono immutabilmente ordinate alla sua produzione, cosicché per mezzo di tali abiti,

che sono sempre veri, si possono conoscere le cose necessarie anche quando sono future,

come conosciamo un’eclissi futura o il sorgere del sole con scienza vera. Invece, il

contingente può essere impedito prima che sia prodotto nell’essere, poiché in questo caso

esiste solo nelle sue cause, alle quali può sopraggiungere un impedimento che non le fa

San Tommaso, Sulla verità

102

pervenire al [proprio] effetto. Ma dopo che il contingente è stato ormai prodotto

nell’essere, non [lo] si può più impedire e quindi riguardo al contingente, secondo che

esiste al presente, ci può essere un giudizio di quella potenza o abito, nella quale non si

trova mai la falsità, come il senso [il quale] giudica che Socrate sta seduto, quando sta

seduto. Da ciò è evidente che il contingente, in quanto è futuro, non può essere conosciuto

per mezzo di nessuna conoscenza, che non possa andar soggetta alla falsità. Perciò, dato

che la scienza divina non è soggetta alla falsità né può andarvi soggetta, sarebbe

impossibile che Dio avesse scienza dei futuri contingenti se li conoscesse come futuri.

Pertanto, una cosa è conosciuta in quanto futura allorquando tra la conoscenza di chi

conosce e l’accadere della cosa si riscontra un ordine del passato al futuro; ora, non si può

riscontrare quest’ordine tra la conoscenza divina e qualsiasi cosa contingente, ma l’ordine

della conoscenza divina ad una qualsiasi cosa è come l’ordine del presente al presente,

cosa che si può certamente intendere nel modo che segue. Se uno vedesse molte persone

passare per una sola via l’una dopo l’altra e per un certo tempo, nei singoli intervalli di

tempo vedrebbe come presenti alcuni di quelli che passano, di modo che in tutto il tempo

della sua visione vedrebbe come presenti tutti quelli che passano. Però non li vedrebbe

tutti insieme come presenti, poiché il tempo della sua visione non è tutto simultaneo.

Invece, se la sua visione potesse avvenire tutta nello stesso tempo, [li] vedrebbe come

presenti tutti insieme, anche se non passano tutti insieme al presente. Perciò, dato che la

visione della scienza divina è misurata dall’eternità, la quale è tutta insieme e comunque

include tutto il tempo e non è assente in nessuna parte del tempo, segue che essa vedrebbe

non come futuro ma come presente qualsiasi cosa si compia nel tempo. Infatti, ciò che è

visto da Dio è certamente futuro per quella cosa, alla quale succede nel tempo, ma per la

visione divina, che non è nel tempo ma al di fuori del tempo, non è futuro, bensì presente.

Così, dunque, noi vediamo il futuro come futuro, poiché è futuro per la nostra visione,

dato che la nostra visione è misurata dal tempo, ma non è futuro per la visione divina, che

è al di fuori del tempo, come anche colui che fosse nella fila di coloro che passano

vedrebbe coloro che passano ordinatamente in un modo - cioè non vedrebbe se non quelli

che sono davanti a lui - mentre chi fosse al di fuori della fila di coloro che passano li

vedrebbe in un altro modo - cioè vedrebbe tutti insieme quelli che passano.

San Tommaso, Sulla verità

103

Dunque, come la nostra vista non s’inganna mai quando vede le cose contingenti nel

momento in cui sono presenti e comunque ciò non esclude che queste cose avvenganoin

modo contingente, così Dio vede in maniera infallibile tutte le cose contingenti sia quelle

che, per noi, sono presenti sia quelle che sono passate sia quelle che sono future, poiché

per lui non sono future ma le vede esistere allorquando esistono, cosicché ciò non esclude

che esse accadano in maniera contingente. In queste cose la difficoltà sorge a causa del

fatto che non possiamo parlare della conoscenza divina se non secondo il modo della

nostra conoscenza, ossia esplicitando contemporaneamente le differenze dei tempi. Infatti,

se parlassimo della scienza di Dio così com’essa è, dovremmo dire che Dio sa che questa

cosa esiste invece di dire che Dio sa che [questa cosa] esisterà, poiché per lui le cose non

sono mai future, ma sempre presenti. Perciò, come dice anche Boezio nel libro V della

Consolazione, la sua conoscenza riguardante le cose future «è più propriamente detta

provvidenza che previdenza, poiché le vede stando lontano sulla vedetta dell’eternità».

Tuttavia la si può chiamare anche previdenza per l’ordine che ciò che da lui è conosciuto

ha con le altre cose per le quali esso è futuro.

RISPOSTE ALLE OBIEZIONI

1. Alla prima, dunque, bisogna rispondere che, benché il contingente non sia determinato

per tutto il tempo in cui è futuro, tuttavia dal momento in cui è stato realizzato nella natura

ha una determinata verità ed è in questo modo che la visione della conoscenza divina si

porta su di esso.

2. Alla seconda bisogna rispondere che, com’è stato detto, il contingente si rapporta alla

conoscenza divina nella misura in cui si pone che esiste nella natura; ora, sin dal momento

in cui esso esiste, non può non esistere nel tempo in cui esiste, poiché «ciò che è, è

necessario che sia quando è», com’è detto nel libro I Della interpretazione; tuttavia, non

segue che sia, in assoluto, necessario, né che la scienza di Dio sia fallibile, così come

anche la mia vista non è fallibile, quando vedo che Socrate sta seduto, benché ciò sia

contingente.

3. Alla terza bisogna rispondere che in tanto si dice che il contingente è necessario in

quanto è conosciuto da Dio, poiché da Dio è conosciuto in quanto è già presente; tuttavia,

in quanto è futuro, non deriva da questo fatto una certa necessità a tal punto che si possa

San Tommaso, Sulla verità

104

dire che accade necessariamente: l’accadere, infatti, appartiene solo a ciò che è futuro,

poiché ciò che già è non può ancora accadere; tuttavia è vero che esso è accaduto e che è

accaduto è necessario.

4. Alla quarta bisogna rispondere che quando si dice che Tutto ciò che Dio conosce è

necessario, questa proposizione ha un duplice significato, in quanto può riguardare o

l’enunciato o la cosa. Se riguarda l’enunciato, in tal caso la proposizione è composta ed è

vera e il [suo] senso è il seguente: l’enunciato [nel quale si dice che] Ogni cosa che Dio

conosce esiste è necessario, poiché è impossibile che Dio conosca che qualcosa esiste e

che esso non esista. Se riguarda la cosa, allora [la proposizione] è divisa e falsa e il [suo]

senso è il seguente: ciò che è conosciuto da Dio è necessario che esista. Infatti, le cose

conosciute da Dio non per questo accadono necessariamente, com’è evidente dalla cose

dette. E se si obietta che questa distinzione ha luogo solo nelle forme, che possono

avvicendarsi in un soggetto, come la forma del bianco o la forma del nero, e che invece

non può accadere che qualcosa sia conosciuto da Dio e poi non [più] conosciuto - e in tal

caso la distinzione predetta qui non ha luogo - bisogna dire che, quantunque la scienza di

Dio sia invariabile ed è sempre nello stesso modo, tuttavia la disposizione secondo la

quale la cosa si rapporta alla conoscenza di Dio non si rapporta ad essa sempre nello

stesso modo: infatti, la cosa si rapporta alla conoscenza di Dio secondo che essa esiste al

presente; ora, l’esistenza al presente della cosa non sempre conviene ad essa; per

conseguenza la cosa può essere assunta con tale disposizione oppure senza di essa e così,

per conseguenza, può essere assunta nel modo in cui si rapporta alla conoscenza di Dio

oppure in altro modo e, in base a ciò, ha luogo la predetta distinzione.

5. Alla quinta bisogna rispondere che, se la predetta proposizione riguarda la cosa, è vero

che la necessità è posta nei riguardi di ciò che è conosciuto da Dio; ma se riguarda

l’enunciato, la necessità non è posta nei riguardi della cosa stessa, ma nei riguardi

dell’ordine della scienza alla cosa conosciuta.

6. Alla sesta bisogna rispondere che come la nostra scienza non può riguardare i futuri

contingenti, così neppure la scienza di Dio e ancor meno se li conoscesse come futuri;

invece li conosce come presenti per lui, però come futuri per gli altri e quindi

l’argomentazione non conclude.

San Tommaso, Sulla verità

105

7. Alla settima bisogna rispondere che riguardo a ciò ci sono opinioni diverse. Infatti,

alcuni dicono che questo antecedente: Questa cosa è stata conosciuta da Dio è

contingente, per il fatto che, pur riferendosi al passato, comporta tuttavia un ordine al

futuro e quindi non è necessario, nello stesso modo in cui si dice: Questa cosa stava per

accadere: questa cosa passata non è necessaria, poiché ciò che stava per accadere poteva

non accadere, com’è detto nel libro II Della Generazione: «Chi sta per camminare

potrebbe non camminare». Ma ciò poco importa, poiché, quando si dice: Questa cosa sta

per accadere oppure [Questa cosa] stava per accadere, si designa l’ordine che esiste

nelle cause di questa cosa, per la sua produzione. Ora, benché le cause che sono ordinate

ad un certo effetto potrebbero [anche] essere impedite, di modo che l’effetto non consegua

da esse, tuttavia non si può impedire che un tempo siano state ad esso ordinate; per

conseguenza, quantunque ciò che sta per accadere potrebbe non accadere, tuttavia è

impossibile che ciò non sia stato per accadere.

E quindi altri dicono che questo antecedente è contingente, poiché e composto di

necessario e di contingente. Infatti, la scienza di Dio è necessaria, ma ciò che egli conosce

è contingente cd entrambe le cose sono incluse nel predetto antecedente, L otn’é

contingente anche questo enunciato: Socrate è un uomo bianco oppure Socrate è un

animale e corre. Ma, ancora una volta, anche questo poco importa, poiché la verità della

proposizione non cambia per il fatto che la necessità e la contingenza sono incluse

materialmente nell’enunciato, ma soltanto per la congiunzione principale, su cui si fonda

la verità della proposizione, cosicché in entrambe queste proposizioni: Penso che l’uomo è

un animale e Penso che Socrate corre c’è la stessa ragione di necessita e di contingenza.

E quindi, poiché l’atto principale, espresso in questo antecedente: Dio sa che Socrate

corre, è necessario, quantunque ciò che e materialmente affermato sia contingente, con

ciò non si impedisce che il predetto antecedente sia necessario.

E perciò altri ammettono semplicemente che sia necessario, però sostengono che da un

antecedente assolutamente necessario non occorre che segua un conseguente

assolutamente necessario, se non quando l’antecedente è causa prossima del conseguente:

infatti, se la causa fosse remota, la necessità dell’effetto potrebbe essere impedita dalla

contingenza della causa prossima, nello stesso modo in cui, benché il sole sia causa

necessaria, tuttavia la fioritura dell’albero, che è il suo effetto, è contingente, poiché la sua

San Tommaso, Sulla verità

106

causa prossima, vale a dire la forza germinativa della piante, e mutevole. Ma anche questa

tesi non sembra sufficiente, poiché non è per la natura della causa e del causato che

dall’antecedente necessario segue un conseguente necessario, ma piuttosto per l’ordine del

conseguente all’antecedente, poiché il contrario dell’antecedente non è in nessun modo

compatibile con l’antecedente, cosa che accadiebbe se da un antecedente necessario

potesse seguire un conseguente contingente: cosicché ciò è necessario che accada in

qualsiasi proposizione condizionale, se essa e vera, sia che l’antecedente sia effetto e sia

che sia causa prossima o remota: e se ciò non fosse riscontrabile nella proposizione

condizionale, in nessun modo sarà vera. Perciò anche questa condizionale è falsa: Se il

sole si muove, l’albero fiorirà.

E quindi bisogna dire altrimenti: [cioè] che l’antecedente è, in assoluto, necessario e

che il conseguente è assolutamente necessario nel modo in cui segue all’antecedente.

Infatti, un conto sono quelle cose che si attribuiscono di per sé ad una cosa, un altro conto

sono quelle che ad essa si attribuiscono secondo che è conosciuta. Infatti, quele cose che

si attribuiscono ad essa di per sé ad essa convengono secndo il suo modo [di essere],

nvece quelle che si attribuiscono ad essa, o che ad essa conseguono in quanto è

conosciuta, sono secondo il modo [di essere] del soggetto conoscente. Perciò, se

nell’antecedente è espresso qualcosa ch dovrebbe appartenere alla conoscenza, occorre

che il conseguente sia assunto secondo il modo [di essere] del soggetto conoscente e non

secondo il modo della cosa conosciuta. Per es., se dicessi Se cnosco qualcosa, questo

qualcosa è immateriale, non occorre che ciò che è conosciuto sia immateriale, se non

nella misura in cui è conosciuto. E similmente, quando dico Se Dio conosce qualcosa,

questo qualcosa sarà, il conseguente deve essere intesto non secondo la disposizione della

cosa in se stessa, ma secondo il modo [di essere] del soggetto conoscente, ora benché la

cosa in se stessa sia futura, tuttavia secondo il modo di chi conosce è presente. E quindi

bisogna dire: Se Dio conosce qualcosa, questo qualcosa è, piuttosto che [Se Dio conosce

qualcosa,] questo qualcosa sarà. Perciò, il giudizio Se Dio conosce qualcosa, questo

qualcosa sarà è uguale a questo Se vedo Socrate correre, Socrate corre: entrambi sono

necessari nel momento in cui si verificano.

8. All’ottava bisogna rispondere che, quantunque il contingente, nel momento in cui è

futuro, non abbia [ancora] l’essere, tuttavia a partire dal momento in cui è presente ha

San Tommaso, Sulla verità

107

l’essere e la verità e quindi soggiace alla visione divina, benché dio conosca l’ordine di

una cosa ad un’altra e, quindi, conosca che una cosa è futura rispetto ad un’altra; ma se è

così, non è sconveniente ritenere che Dio conosca che qualcosa futura non accadrà, in

quanto cioè sa che alcune cause sono inclini ad un certo effetto, che non si produrrà;

infatti, ora non stiamo parlando della conoscenza del futuro, in quanto è visto da Dio nelle

sue cause, ma in quanto è conosciuto in se stesso; in questo modo è conosciuto, infatti,

come presente.

9. Alla nona bisogna rispondere che in quanto il futuro è conosciuto da Dio, esso è

presente e quindi è determinato ad un’alternativa, quantunque, finché resta futuro, si

rapporti a entrambe le alltrnative.

10. Alla decima bisogna rispondere che Dio non conosce nulla al di fuori di sé, se

l’espresione al di fuori si riferisce a ciò con cui conosce; invece, consosce qualcosa al di

fuori di sé se si riferisce a ciò che conosce e di ciò sid è discusso sopra.

11. All’undicesima bisogna rispondere che duplice è il medio di conoscenza: uno, che è il

medio della dimostrazione e questo deve essere proporzionato alla conclusione, di modo

che, una volta che questo sia stato posto, è posta [anche] la conclusione – e Dio non è un

medio di conoscenza del genere rispetto alle cose contingenti; l’altro medio della

conoscenza è la somiglianza della cosa conosciuta e l’essenza divina è un tale mdeio della

conoscenza, [che] tuttavia non [è] adeguato ad alcunché, pur essendo appropriato alle cose

singole, come sopra è stato detto.

108

Thomas Hobbes (1588-1679)

Leviatano (1651)lingua originale: inglese

edizione di riferimento: R. Tuck, Cambridge University Press, Cambridge, 1991

tr. it. G. Micheli, Nuova Italia, Firenze, 1976

tema: lo stato di natura

genere letterario: trattato politico ricostruttivo

Libro I, capitolo xiii: Della condizione naturale dell’umanità per quanto concerne la sua

felicità e la sua miseria

LA NATURA ha fatto gli uomini cosi uguali nelle facoltà del corpo e della mente che,

sebbene si trovi talvolta un uomo manifestamente più forte fisicamente o di mente più

pronta di un altro, pure quando si calcola tutto insieme, la differenza tra uomo e uomo non

è così considerevole, che un uomo possa di conseguenza reclamare per sé qualche

beneficio che un altro non possa pretendere, tanto quanto lui. Infatti riguardo alla forza

corporea, il più debole ha forza sufficiente per uccidere il più forte, o con segreta

macchinazione o alleandosi con altri che sono con lui nello stesso pericolo.

E quanto alla facoltà della mente (lasciando da parte le arti fondate sulle parole, e

specialmente quell’abilità di procedere sulla base di regole generali e infallibili, chiamata

scienza, che molto pochi hanno e solo in poche cose, non essendo una facoltà naturale,

nata con noi, ne conseguita, come la prudenza, mentre ci si occupa di qualcos’altro) io

trovo tra gli uomini una eguaglianza ancora più grande di quella della forza. Infatti la

prudenza non è che esperienza, ed un tempo eguale la conferisce in egual misura a tutti gli

uomini, in quelle cose in cui si applicano in egual misura. Ciò che può forse rendere

incredibile una tale eguaglianza non è che un vano concetto della propria saggezza, che

quasi tutti gli uomini pensano di avere in un grado maggiore del volgo, cioè di tutti gli

uomini, tranne se stessi e pochi altri che approvano per la loro fama, o perché concordano

con essi. Tale è infatti la natura degli uomini, che, per quanto possano riconoscere che

molti altri sono più saggi o più eloquenti, o più dotti, pure difficilmente crederanno che ci

siano molti saggi tanto quanto lo sono essi, poiché vedono il loro ingegno da vicino e

Hobbes, Leviatano

109

quello degli altri uomini a distanza. Ma questo prova che gli uomini sono eguali in quel

punto, piuttosto che diseguali. Infatti ordinariamente non c’è segno più grande di egual

distribuzione di qualcosa, del fatto che ogni uomo è contento della propria parte.

Da questa eguaglianza di abilità sorge l’eguaglianza nella speranza di conseguire i nostri

fini. E perciò, se due uomini desiderano la stessa cosa, e tuttavia non possono entrambi

goderla, diventano nemici, e sulla via del loro fine (che è principalmente la loro propria

conservazione, e talvolta solamente il loro diletto) si sforzano di distruggersi o di

sottomettersi l’un l’altro. Onde accade che dove un aggressore non ha più da temere che il

potere singolo di un altro uomo, se uno pianta, semina, costruisce o possiede un fondo

conveniente, ci si può probabilmente aspettare che altri, preparatisi con forze riunite,

vengano per spossessarlo e privarlo non solo del frutto della sua fatica, ma anche della sua

vita o della libertà. E l’aggressore è di nuovo in un pericolo simile a quello in cui era

l’altro.

Da questa diffidenza delluno verso l’altro non c’è via così ragionevole per ciascun uomo

di assicurarsi, come l’anticipazione, cioè il padroneggiare con la forza o con la furberia

quante più persone è possibile, tanto a lungo, finché egli veda che nessun altro potere è

abbastanza grande per danneggiarlo; e questo non è più di ciò che la propria

conservazione richiede, ed è generalmente concesso. Inoltre, per il fatto che ci sono alcuni

che prendono piacere nel contemplare il proprio potere in atti di conquista, che essi

spingono più lontano di quanto richieda la loro sicurezza, se gli altri, che diversamente

sarebbero lieti di starsene quieti entro modesti limiti. non accrescessero con l’aggressione

il loro potere, non sarebbero in grado, con lo stare solo sulla difensiva. di sussistere a

lungo. Di conseguenza, tale aumento di dominio sugli uomini, essendo necessario per la

conservazione dell’uomo, deve essergli concesso.

Ancora, gli uomini non hanno piacere (ma al contrario molta afflizione) nello stare in

compagnia, ove non ci sia un potere in grado di tenere in soggezione tutti. Ogni uomo

infatti bada che il suo compagno lo valuti allo stesso grado in cui egli innalza se stesso; e

ad ogni segno di disprezzo o di scarsa valutazione, naturalmente si sforza, per quanto osa

(e ciò tra coloro che non hanno alcun potere comune che li tenga quieti, è di gran lunga

sufficiente a far sì che si distruggano l’un l’altro) di estorcere una valutazione più grande,

da quelli che lo disprezzano arrecando loro danno e dagli altri con l’esempio.

Hobbes, Leviatano

110

Cosicché nella natura umana troviamo tre cause principali di contesa: in primo luogo, la

competizione, in secondo luogo, la diffidenza, in terzo luogo l’orgoglio.

La prima fa sì che gli uomini si aggrediscano per guadagno, la seconda per sicurezza, e la

terza per reputazione. Nel primo caso gli uomini usano violenza per rendersi padroni delle

persone di altri uomini, delle loro donne, dei loro figli, del loro bestiame; nel secondo

caso per difenderli; nel terzo caso per delle inezie, come una parola, un sorriso,

un’opinione differente, e qualunque altro segno, di scarsa valutazione, o direttamente nei

riguardi delle loro persone, o di riflesso nei riguardi della loro parentela, dei loro amici,

della loro nazione, della loro professione o del loro nome.

Da ciò è manifesto che durante il tempo in cui gli uomini vivono senza un potere comune

che li tenga tutti in soggezione, essi si trovano in quella condizione che è chiamata guerra

e tale guerra è quella di ogni uomo contro ogni altro uomo. La GUERRA, infatti, non

consiste solo nella battaglia o nell’atto del combattere, ma in un tratto di tempo, in cui è

sufficientemente conosciuta la volontà di contendere in battaglia; perciò la nozione del

tempo va considerata nella natura della guerra, come lo è nella natura delle condizioni

atmosferiche. Infatti, come la natura delle condizioni atmosferiche cattive non sta solo in

un rovescio o due di pioggia, ma in una inclinazione a ciò di parecchi giorni insieme, così

la natura della guerra non consiste nel combattimento effettivo, ma nella disposizione

verso di esso che sia conosciuta e in cui, durante tutto il tempo, non si dia assicurazione

del contrario. Ogni altro tempo, è GUERRA.

Perciò tutto ciò che è conseguente al tempo di guerra in cui ogni uomo è nemico ad ogni

uomo, è anche conseguente al tempo in cui gli uomini vivono senz’altra sicurezza di

quella che la propria forza e la propria inventiva potrà fornire loro. In tale condizione non

c’è posto per l’industria, perché iI frutto di essa è incerto, e per conseguenza non v’è

cultura della terra, né navigazione, né uso dei prodotti che si possono importare per mare,

né comodi edifici, né macchine per muovere e trasportare cose che richiedono molta

forza, né conoscenza della faccia della terra, né calcolo del tempo, né arti, né lettere, né

società, e, quel che è peggio di tutto, v’è continuo timore e pericolo di morte violenta, e la

vita dell’uomo è solitaria, misera, sgradevole, animalesca e breve.

Può sembrare strano a chi non abbia bene ponderato queste cose che la natura abbia così

dissociato gli uomini e li abbia resi atti ad aggredirsi e distruggersi l’un l’altro e perciò,

Hobbes, Leviatano

111

non fidandosi di questa inferenza, tratta dalle passioni, può desiderare forse che gli sia

confermata dall’esperienza. Perciò, consideri tra sé che, quando intraprende un viaggio, si

arma e cerca di andare bene accompagnato; che quando va a dormire, chiude le porte; che

anche quando è nella sua casa, chiude i forzieri e ciò quando sa che ci sono leggi e

pubblici ufficiali armati per vendicare tutte le ingiurie che gli dovessero essere fatte; quale

opinione egli ha dei suoi consudditi, quando cavalca armato; dei suoi concittadini, quando

chiude le porte; dei suoi figli e dei suoi servitori, quando chiude i forzieri. Non accusa egli

l’umanità con le sue azioni, come faccio io con le mie parole? Ma nessuno di noi accusa

in ciò la natura dell’uomo. I desideri e le altre passioni dell’uomo, in se stessi, non sono

peccato. Neppure lo sono le azioni che procedono da quelle passioni, finché non si

conosce una legge che le vieta; tali leggi, finché non si sono fatte, non possono essere

conosciute, e non si può fare alcuna legge, finché non ci si è accordati sulla persona che la

deve fare.

Si può per avventura pensare che non vi sia mai stato un tempo né una condizione di

guerra come questa, ed io credo non ci sia mai stata generalmente in tutto il mondo, ma ci

sono parecchi luoghi ove attualmente si vive così. Infatti. in parecchi luoghi dell’America,

i selvaggi, se si eccettua il governo di piccole famiglie la cui concordia dipende dalla

concupiscenza naturale, non hanno affatto un governo, e vivono, oggigiorno, in quella

maniera brutale che ho detto prima. Comunque, si può percepire quale maniera di vita ci

sarebbe ove non ci fosse il timore di un potere comune, dalla maniera di vita in cui sono

usi degenerare gli uomini che già hanno vissuto sotto un governo pacifico, una guerra

civile.

Ma anche se non ci fosse mai stato un tempo in cui gli individui fossero in condizione di

guerra l’un contro l’altro, tuttavia in tutti i tempi, i re e le persone dotate di autorità

sovrana., a causa della loro indipendenza, si trovano ad avere continue gelosie, e ad essere

nello stato e nella posizione dei gladiatori che stanno con le armi puntate e gli occhi fissi

l’uno sull’altro, cioè, con forti, guarnigioni e cannoni alle frontiere dei loro regni e con

spie continuamente nei territori che sono vicini a loro; ciòè una posizione di guerra. Ma

per il fatto che così essi sostengono l’industria dei loro sudditi, non segue da ciò quella

miseria che accompagna la libertà degli individui.

Hobbes, Leviatano

112

A questa guerra di ogni uomo contro ogni altro uomo, consegue anche questo, che

niente può essere ingiusto. Le nozioni di ciò che è retto e di ciò che è torto della giustizia

e dell’ingiustizia non hanno luogo qui. Dove non c’è potere comune, non c’è legge; dove

non c’è legge, non c’è ingiustizia. La forza e la frode sono in guerra le due virtù cardinali.

La giustizia e l’ingiustizia non sono facoltà né del corpo né della.mente. Se lo fossero,

potrebbero essere in un uomo che fosse solo al mondo, così come i suoi sensi e le sue

passioni. Esse sono qualità che sono relative agli uomini in società, non in solitudine.

Consegue anche alla medesima condizione che non ci sia né proprietà né dominio, né un

mio e un tuo distinti, ma che ogni uomo abbia solo quello che può prendersi e per tutto il

tempo che può tenerselo. E ciò basti per quel che riguarda la triste condizione in cui è

effettivamente posto l’uomo dalla pura natura, benché egli abbia una possibilitá di

uscirne: essa si trova in parte nelle passioni e in parte nella sua ragione.

Le passioni che inclinano gli uomini alla pace sono il timore della morte, il desiderio di

quelle cose che sono necessarie per condurre una vita comoda, e la speranza di ottenerle

mediante la loro industria. La ragione poi suggerisce convenienti articoli di pace su cui gli

uomini possono essere tratti ad accordarsi. Questi articoli sono quelli che vengono

altrimenti chiamati leggi di natura; di esse parlerò più particolarmente nei due capitoli

seguenti.

113

Renato Cartesio (1596-1650)

Il mondo (ca 1630)

lingua originale: francese

edizione di riferimento: C. Adam e P. Tannery, (1910 ecc.)

Œuvres de Descartes, (13 voll.) ed. riveduta, Vrin, Parigi, 1964-74

tr. it. M. Garin, Laterza, Bari-Roma, 1967

tema: il formarsi di un mondo

genere letterario: speculazione fisica

Capitolo quinto: DEL NUMERO DEGLI ELEMENTI E DELLE LORO QUALITÀ

I filosofi affermano che al disopra delle nubi c’è un’aria molto più sottile della nostra, che

non si compone come questa dei vapori della Terra, ma costituisce un elemento a parte.

Affermano pure che al disopra di quest’aria c’è un altro corpo ancora, molto più sottile,

che chiamano l’elemento del fuoco. Aggiungono inoltre che questi due elementi si

mescolano con l’acqua e la Terra nella composizione di tutti i corpi inferiori. Quindi, non

faccio che attenermi alla loro opinione se dico che quest’aria più sottile e questo elemento

del fuoco riempiono gl’intervalli che si trovano tra le parti di quell’aria grossolana che

respiriamo: sicché questi corpi tra loro intrecciati formano una massa tanto solida quanto

un corpo può esserlo.

Ma per farvi meglio intendere il mio pensiero in proposito, e perché non abbiate a

sospettare che voglia obbligarvi a credere tutto ciò che i filosofi ci vengono dicendo sugli

elementi, devo descriverveli a modo mio.

Concepisco il primo, che possiamo chiamare l’elemento del fuoco, come il fluido più

sottile e penetrante che ci sia al mondo. E, in base a quanto si è detto prima della natura

dei corpi fluidi, immagino le sue parti molto più piccole e molto più veloci nel muoversi

di tutte quelle degli altri corpi. O meglio, per non trovarmi costretto ad ammettere che in

natura c’è il vuoto, non attribuisco alle parti di questo fluido né grandezza né forma

determinata, ma sono convinto che il suo movimento impetuoso basti a far sì che si trovi a

esser diviso in tutti i modi e in tutti i sensi nello scontrarsi con gli altri corpi e che le sue

parti mutino continuamente la propria forma per adattarsi a quella dei luoghi in cui

penetrano; dimodoché fra le parti degli altri corpi non vi sia passaggio tanto stretto o

Cartesio, Il mondo

114

angolo tanto piccolo che le parti di questo elemento non possano penetrarvi senza la

minima difficoltà riempiendone perfettamente lo spazio.

Quanto al secondo elemento, che possiamo considerare come l’elemento dell’aria,

secondo me, paragonato al terzo, è senz’altro un fluido molto sottile; ma, paragonandolo

al primo, bisogna attribuire a ciascuna delle sue parti una certa grandezza e forma e

immaginarle quasi perfettamente rotonde ed unite fra loro come granellini di sabbia o dí

polvere. Dimodoché, per quanto si concatenino o si stringano l’una all’altra, resteranno

sempre attorno ad esse parecchi piccoli intervalli, in cui è molto più facile al primo

elemento di penetrare che non a esse mutar forma apposta per colmarli. Perciò sono

convinto che in nessun luogo del mondo si può trovare questo secondo elemento a uno

stato così puro da non includere ín sé un po’ della materia del primo.

Dopo questi due elementi ne ammetto solo un terzo, cioè quello della Terra, le cui

parti, secondo me, a paragone di quelle del secondo, sono di tanto più grandi e meno

rapide nel muoversi di quanto le parti del secondo lo sono a paragone di quelle del primo.

E credo che basti concepirlo come una grande massa — una o più — le cui parti hanno

solo un minimo di movimento, o addirittura mancano di movimento che produca

mutamenti nella loro disposizione reciproca.

Se vi pare strano che, per spiegare questi elementi, io non mi serva, come i filosofi,

delle qualità chiamate caldo, freddo, umidità, secchezza, vi rispondo che, secondo me,

queste qualità stesse hanno bisogno di spiegazione, e, se non m’inganno, non solo queste

quattro qualità, ma anche tutte le altre, e persino tutte le forme dei corpi inanimati si

possono spiegare senza bisogno di supporre nella materia dei corpi stessi nient’altro che il

movimento, la grandezza, la forma, la disposizione delle parti. E ora mi sarà facile farvi

intendere perché non ammetto altri elementi oltre i tre che ho descritto: perché la

differenza che deve sussistere fra questi e gli altri corpi detti dai filosofi misti o composti,

consiste nel fatto che le forme dei corpi misti includono sempre qualità tra loro

contrastanti che si nuocciono a vicenda o per lo meno non tendono alla reciproca

conservazione; mentre le forme degli elementi devono essere semplici e aver solo qualità

che si armonizzino così perfettamente da tendere ciascuna alla conservazione di tutte le

altre.

Cartesio, Il mondo

115

Ora, oltre le tre che ho descritto, non riesco a trovare al mondo altre forme rispondenti

a tali requisiti. Quella infatti che ho attribuito al primo elemento consiste nel fatto che le

sue parti si muovono con una tale velocità e sono così piccole da non trovare corpo capace

di fermarle; inoltre esse non richiedono né grandezza, né figura, né posizione determinata.

La forma del secondo consiste nel fatto che le sue parti hanno un movimento e una

grandezza di media entità: tanto che, se ci sono al mondo parecchie cause capaci di

aumentarne il movimento e diminuirne la grandezza, ce ne sono esattamente altrettante

capaci di fare l’opposto: in tal modo le parti del secondo elemento restano sempre come in

equilibrio in questa loro condizione intermedia. E la forma del terzo consiste nell’essere le

sue parti tanto grandi o talmente unite fra loro da essere sempre capaci di resistere ai

movimenti degli altri corpi.

Soffermatevi quanto volete a esaminare tutte le forme che i vari movimenti, le varie

figure e grandezze, la diversa disposizione delle parti della materia possono dare ai corpi

composti,e sono certo che non ne troverete nessuna dove manchino qualità tendenti a farla

cambiare riducendola nel mutamento a qualcuna delle forme degli elementi.

La fiamma, per esempio, la cui forma, come si è detto prima, richiede parti che si

muovano rapidissime e che al tempo stesso posseggano una certa grandezza, non può

durare a lungo senza corrompersi; infatti, o la grandezza delle sue parti, rendendole capaci

di agire contro gli altri corpi, determinerà una diminuzione del loro movimento; oppure la

violenza della loro agitazione, facendole infrangere nell’urto coi corpi che incontrano,

determinerà una perdita di grandezza; sicché, un po’ alla volta, potranno ridursi alla forma

del terzo elemento, o a quella del secondo, e in qualche caso persino a quella del primo.

Di qui potete apprendere la differenza tra questa fiamma, ossia il comune fuoco che

troviamo tra noi, e l’elemento del fuoco che ho descritto. E dovete anche sapere che

neppure gli elementi dell’aria e della terra, cioè il secondo e il terzo elemento, somigliano

all’aria grossolana che respiriamo o alla terra che calpestiamo; ma, in genere, tutti i corpi

che si vedono attorno a noi sono misti, o composti e soggetti a corrompersi.

Tuttavia non si deve perciò credere che gli elementi manchino, nel mondo, di luoghi

destinati particolarmente a loro dove possano conservare in perpetuo la loro naturale

purezza. Al contrario, poiché ogni parte di materia tende sempre a ridursi a qualcuna delle

loro forme e dopo essercisi ridotta non tende mai ad abbandonarla, quand’anche Dio, in

Cartesio, Il mondo

116

origine, avesse creato solo corpi misti, tuttavia, dall’origine del mondo in poi, tutti questi

corpi avrebbero avuto modo di abbandonare le loro forme assumendo quelle degli

elementi. Sicché ora è molto probabile che tutti i corpi abbastanza grandi per essere

annoverati fra le parti più importanti dell’universo, abbiano semplicemente la forma di un

elemento; e che solo sulla superficie di questi grandi corpi possano esservi corpi misti. Ma

qui devono esserci di necessità; infatti, essendo gli elemeni per natura in grande contrasto

reciproco, due di essi non possono incontrarsi senza agire l’uno contro la superficie

dell’altro dando così alla materia che vi si trova le forme diverse dei corpi misti.

A questo proposito, se consideriamo in generale tutti i corpi di cui l’universo si

compone, ne troveremo solo di tre sorta che possano essere chiamati grandi e annoverati

fra le sue parti principali: al primo genere appartengono il Sole e le stelle fisse; al secondo

i cieli; al terzo la Terra coi pianeti e le comete. Perciò abbiamo buone ragioni di pensare

che il Sole e le stelle fisse non abbiano altra forma se non quella del primo elemento nella

sua assoluta purezza; i cieli quella del secondo; la Terra, coi pianeti e le comete, quella del

terzo.

Metto i pianeti e le comete con la Terra perché, vedendoli, come la Terra, resistere alla

luce e rifletterne i raggi, non ci noto nessuna differenza. Metto d’altra parte il Sole con le

stelle fisse, e attribuisco loro una natura del tutto opposta a quella della Terra, perché la

sola azione della loro luce basta a rivelarmi che i loro corpi sono di materia molto sottile e

agitata.

Ai cieli, non potendo percepirli coi sensi, ritengo ragionevole attribuire una natura

intermedia fra quella dei corpi luminosi di cui avvertiamo l’azione, e quella dei corpi

solidi e pesanti di cui avvertiamo la resistenza.

Infine non percepiamo corpi misti se non sulla superficie della Terra, e se consideriamo

che tutto lo spazio che li contiene, tra le più alte nuvole e le più profonde cavità che

l’avidità umana abbia aperto per trarne i metalli, è di un’estrema esiguità a paragone della

Terra e dell’immensa distesa del Cielo, ci sarà facile immaginare che questi corpi misti

nel loro insieme non siano altro che una scorza formatasi alla superficie della Terra perché

la materia del cielo che la circonda si agita e si mescola ad essa.

Così ci accadrà di pensare che, non solo nell’aria che respiriamo, ma anche in tutti gli

altri corpi composti, fino alle pietre più dure e ai metalli più pesanti, ci siano parti

Cartesio, Il mondo

117

dell’elemento dell’aria mescolate a quelle della Terra, e quindi anche parti dell’elemento

del fuoco, perché sempre se ne trovano nei pori dell’elemento dell’aria.

Ma va rilevato che, se anche in tutti i corpi ci sono parti dei tre elementi mescolate fra

loro, tuttavia, propriamente parlando, a comporre tutti i corpi che vediamo intorno a noi

sono solo quelle parti che, per la loro grandezza e la loro difficoltà a muoversi, si possono

riportare al terzo elemento: infatti le parti degli altri due sono troppo sottili perché i nostri

sensi possano percepirle. E ci si possono rappresentare tutti questi corpi come spugne, in

cui la presenza di molti pori o forellini sempre pieni d’aria, o di acqua, o di altro simile

fluido, non ciporta tuttavia a ritenere che tali fluidi rientrino nella composizione della

spugna.

Molte cose ancora mi restano da spiegare, e molto volentieri aggiungerei qualche altro

argomento rivolto a rendere le mie opinioni più verosimili. Ma perché il mio lungo

discorso non diventi troppo noioso ho deciso di esporne una parte sotto forma di favola,

sperando che la verità ne traspaia con sufficiente vigore e in forma non meno gradevole

che se la proponessi nella sua nudità.

Capitolo sesto: DESCRIZIONE DI UN NUOVO MONDO E DELLE QUALITÀ DELLA

MATERIA CHE LO COMPONE

Lasciate dunque che per un poco il vostro pensiero esca da questo mondo per venirne a

vedere un altro, nuovissimo, che farò nascere in suo cospetto negli spazi immaginari. I

filosofi ci insegnano che questi spazi sono infiniti e, dato che sono stati loro a crearli,

dobbiamo credere a ciò che dicono. Ma per non essere impediti e impacciati da

quest’infinità rinunciamo al tentativo di toccarne il termine; penetriamovi solo quanto

basta a farci perder di vista tutte le creature create da Dio cinque o seimila anni fa; e dopo

esserci fermati in un certo punto, supponiamo che Dio crei di nuovo attorno a noi tanta

materia che, ovunque la nostra immaginazione si stenda, non scorga più alcun luogo

vuoto.

Benché il mare non sia infinito, chi ci si trova in mezzo su una nave ha l’impressione di

poter stendere la vista all’infinito; tuttavia al di là di ciò che vede, c’è ancora altra acqua.

Così, anche se la nostra immaginazione sembra potersi stendere all’infinito, pur non

supponendo infinita questa nuova materia, possiamo tuttavia benissimo supporre che essa

Cartesio, Il mondo

118

riempia spazi molto più grandi di quelli che avremo immaginato. Anzi, perché in tutto

‘ciò non possiate trovar nulla a ridire, vietiamo alla nostra immaginazione di spingersi fin

dove potrebbe; tratteniamola ad arte in uno spazio determinato, che, per esempio, non

superi in grandezza la distanza tra la Terra e le, principali stelle del firmamento, e

supponiamo che la materia creata da Dio si estenda da ogni lato molto di più, fino a una

distanza indefinita. Infatti è molto più verosimile e molto più conforme alle nostre

capacità porre dei limiti all’azione del nostro pensiero che non alle opere di Dio.

Ora, a questa materia immaginata dal libero giuoco della nostra fantasia, attribuiamo,

se volete, una natura in cui non vi sia niente che non risulti da chiunque conoscibile col

massimo della perfezione. A tal fine supponiamo espressamente che essa non abbia la

forma né della terra, né del fuoco, né dell’aria, né altra forma più particolare, per esempio

del legno, di una pietra, di un metallo; e nemmeno qualità, come caldo o freddo, secco o

umido, leggero o pesante; oppure sapore, odore, suono, colore, luce o altra qualità simile,

nella cui natura possa riscontrarsi qualcosa che non sia evidentemente conosciuto da tutti.

E non pensiamola d’altra parte come quella materia prima dei filosofi dove, a furia di

spogliarla di tutte le sue forme e qualità, non è rimasto nulla che si possa chiaramente

intendere. Concepiamola come un vero corpo perfettamente solido che riempie allo stesso

modo tutte le lunghezze, larghezze e profondità del grande spazio in mezzo a cui ci siamo

fermati col pensiero; sicché ognuna delle sue parti occupa sempre una parte di questo

spazio così esattamente commisurata alla sua grandezza che non potrebbe né riempirne

una più grande, né restringersi in una più piccola, né consentire di trovarvi

contemporaneamente posto a nessun’altra parte di materia.

Supponiamo inoltre che questa materia possa venir divisa in tutte le parti e secondo

tutte le forme immaginabili; e che ognuna di queste parti possa ricevere in sé tutti i

movimenti da noi concepibili. E supponiamo ancora che Dio la divida davvero in

parecchie di tali parti, più grosse le une, più piccole le altre; queste d’una forma, quelle

d’un’altra, come ci piacerà di immaginarle. Ma che non le separi perciò l’una dall’altra in

modo da lasciarvi un vuoto frammezzo; supponiamo che le distingua solo per la diversità

dei movimenti che ricevono da lui, in modo che, dall’istante in cui le crea, le une

comincino a muoversi da un lato, le altre da un altro; le une a muoversi più rapide, le altre

più lente (o, se credete, a non muoversi affatto), persistendo in seguito nel loro movimento

Cartesio, Il mondo

119

secondo le leggi ordinarie della natura. Dio infatti ha sì mirabilmente stabilito queste leggi

che se, per ipotesi, non creerà nulla più di quanto ho detto, senza neppure portarvi ordine e

proporzione, facendone il più confuso e ingarbugliato caos che i poeti possano descrivere,

basteranno le leggi di natura a far sì che le parti del caos arrivino a districarsi da sé,

disponendosi in bell’ordine, così da assumere la forma di un mondo perfettissimo, dove si

potranno vedere, non solo la luce, ma anche tutte le altre cose, generali e particolari, che

compaiono in questo mondo reale.

Ma prima che io mi addentri in più diffuse spiegazioni, soffermatevi ancora un poco a

considerare questo caos e notate che contiene solo cose a voi perfettamente note, al punto

che neppure potreste fingere di ignorarle. Infatti le qualità che gli ho attribuito, se ci avete

fatto attenzione, le ho supposte attenendomi alle vostre possibilità immaginative. E la

materia di cui l’ho composto è ciò che di più semplice e di più facile a conoscersi vi sia

nelle creature inanimate; e la sua idea è compresa in modo tale in tutte quelle che la nostra

immaginazione può formare, che dovete necessariamente concepirla a meno che non

immaginiate mai nulla.

Tuttavia, essendo i filosofi tanto sottili da scoprire difficoltà nelle cose che agli altri

uomini sembrano estremamente chiare, e potendo il ricordo della loro materia prima, che

essi sanno ben difficile da concepire, allontanarli dal conoscere quella di cui parlo, a

questo punto devo dir loro che, se non mí sbaglio, tutte le loro difficoltà a proposito della

materia prima vengono dal volerla distinguere dalla sua quantità e dalla sua estensione

esteriore, cioè dalla sua proprietà di occupare un certo spazio. Lascio tuttavia che in

questo credano di aver ragione, perché non intendo soffermarmi a contraddirli. Ma essi

non devono, dal canto loro, trovare strano se io suppongo che la quantità della materia da

me descritta non differisca dalla propria sostanza più di quanto il numero differisca dalle

cose numerate, e se considero la sua estensione, cioè la sua proprietà di occupare spazio

non come un accidente, ma come la sua vera forma e la sua essenza; essi non potrebbero

infatti negare che a questo modo non sia facilissimo concepirla. E il mio intento non è di

spiegare, come loro, le cose che in effetti si trovano nel mondo vero, ma solo di fingere un

mondo a piacere, dove non sia niente che gli spiriti più grossolani non siano capaci di

concepire, e che possa tuttavia esser creato proprio come l’avrò immaginato.

Cartesio, Il mondo

120

Se ci mettessi la minima cosa oscura, in questa oscurità potrebbe celarsi qualche

contraddizione che mi è sfuggita; quindi, senza rendermene conto, supporrei una cosa

impossibile; mentre, potendo distintamente immaginare tutto ciò che ci metto, certamente,

anche se non vi fosse nulla di simile nel vecchio mondo, Dio potrebbe tuttavia crearlo in

un mondo nuovo: perché è certo che egli può creare tutte le cose che noi possiamo

immaginare.

Capitolo settimo: DELLE LEGGI NATURALI DI QUESTO NUOVO MONDO

Ma non voglio tardare ancora a dirvi come la natura da sola potrà districare la confusione

del caos dí cui ho parlato, e quali sono le leggi che Dio le ha imposto.

In primo luogo, pertanto, dovete sapere che per natura non intendo qui una qualche

divinità, o altra sorta di potenza immaginaria; ma mi servo del termine per indicare la

materia stessa in quanto la considero con tutte le qualità che le ho attribuito, prese nel loro

insieme, e sottoposta a questa condizione: che Dio continui a conservarla nella stessa

maniera in cui l’ha creata. Perché, dal solo fatto che continui a conservarla così, seguono

necessariamente nelle sue parti parecchi mutamenti che, non potendo — mi pare — essere

attribuiti propriamente all’azione divina, che è immutabile, attribuisco alla natura; e

chiamo leggi di natura le norme che regolano questi movimenti.

Lo capirete meglio ricordando che, fra le qualità della materia da noi supposte, c’era

che le sue parti avessero ricevuto nel momento della loro creazione movimenti diversi, e,

inoltre, che fossero da ogni lato in contatto fra loro, senza alcun vuoto frammezzo. Ne

consegue, necessariamente, che, da quel momento, cominciando a muoversi hanno anche

cominciato a mutare e a diversificare i loro movimenti per l’urto reciproco: sicché, se Dio

continua a conservarle nel medesimo modo in cui le ha create, non le conserva però nel

medesimo stato: Dio, cioè, agisce sempre allo stesso modo e produce quindi, in sostanza,

il medesimo effetto; ma in quest’effetto, come per accidente, si riscontrano parecchie

diversità. È facile credere che Dio essendo, come tutti devono sapere, immutabile, agisca

sempre allo stesso modo. Ma, senza addentrarmi di più in queste considerazioni

metafisiche, fisserò qui due o tre delle principali regole secondo le quali è da ritenere che

Dio faccia agire la natura del nuovo mondo, sufficienti, credo, per farvi conoscere tutte le

altre.

Cartesio, Il mondo

121

La prima è: che ogni parte della materia in particolare persiste nel medesimo stato

finché l’urto delle altre non la costringe a mutarlo. Ossia: se ha una certa grandezza, non

diventerà mai più piccola a meno che le altre non la dividano; se è rotonda o quadrata, non

muterà mai forma senza che le altre ce la costringano; se è ferma in qualche luogo, non se

ne allontanerà mai se le altre non la cacciano; e, se avrà cominciato a muoversi,

continuerà sempre con ugual forza, finché le altre non la faranno fermare o rallentare.

Tutti ammettono che la medesima regola, a proposito della grandezza, della forma,

della quiete e di mille altre simili cose, viga anche nel vecchio mondo; ma i filosofi ne

hanno eccettuato il movimento: la cosa che invece io desidero comprendervi più di ogni

altra. Non dovete perciò credere che io voglia contraddirli: il movimento di cui parlano è

così diverso da quello che concepisco io da consentire senz’altro che quanto è vero per

l’uno non sia vero per l’altro.

Sono essi i primi a confessare che la natura del loro movimento è ben poco nota, e, per

renderla in qualche modo intelligibile, non hanno trovato spiegazione più chiara della

formula: Motus est actur entis in potentia, prout in potentia est, termini per me tanto

oscuri da costringermi a mantenerli qui nella loro lingua perché di tradurli non sarei

capace. (Infatti queste parole: ‘il movimento è l’atto di un Essere in potenza, in quanto è

in potenza’, per il fatto di essere tradotte, non risultano più chiare.) Al contrario, la natura

del movimento di cui intendo parlare è tanto facile da conoscersi che perfino i geometri, i

più impegnati fra gli uomini a concepire in modo ben distinto le cose da loroconsiderate,

l’hanno ritenuta più semplice ed intelligibile di quella delle loro superfici e delle loro

linee; come hanno dimostrato spiegando la linea col movimento del punto e la superficie

con quello della linea.

I filosofi suppongono anche parecchi movimenti che secondo loro possono avvenire

senza lo spostamento di nessun corpo, come quelli che chiamano motus ad formam, motus

ad calorem, motus ad quantitatem (movimento verso la forma, movimento verso il calore,

movimento verso la quantità) e mille altri. Io, invece, ne conosco uno solo, più facile da

concepirsi delle linee dei geometri, che fa passare i corpi da un luogo all’altro occupando

successivamente tutti gli spazi intermedi.

Inoltre, al meno rilevante dei movimenti attribuiscono un essere molto più saldo e più

vero che non alla quiete: questa, a quel che dicono, è solo privazione di movimento. Io

Cartesio, Il mondo

122

invece concepisco la quiete come una qualità da attribuirsi alla materia finché staziona in

un posto, proprio come il movimento è una qualità che le viene attribuita quando si sposta.

Infine il movimento di cui parlano ha natura sì strana che, mentre tutte le altre cose

hanno come fine la propria perfezione e tendono solo a conservarsi, esso ha come unico

fine la quiete e, contro tutte le leggi naturali, tende a distruggere se stesso. Al contrario, il

movimento da me supposto segue le medesime leggi di natura, come fanno, in genere,

tutte le disposizioni e tutte le qualità che si trovano nella materia: quelle che i dotti

chiamano modos et entia rationis cum fundamento in re (modi ed esseri di ragione con

fondamento nella cosa), e le cosiddette qualitates reales (qualità reali) in cui confesso

candidamente di non trovare più realtà che nelle altre.

Suppongo come seconda regola che, quando un corpo ne spinge un altro, non possa

comunicargli alcun movimento senza perderne contemporaneamente altrettanto del

proprio; né sottrarglielo senza aumentare il proprio nella stessa misura. Questa regola,

unita alla precedente, si accorda benissimo con tutte le esperienze in cui vediamo

cominciare o cessare il movimento di un corpo perché un altro corpo lo spinge o lo ferma.

Infatti, per la regola precedente, siamo liberi dall’imbarazzo in cui si trovano i dotti

quando vogliono dar ragione del fatto che un sasso continua a muoversi per qualche

tempo dopo essere uscito dalla mano che lo ha scagliato: ci si dovrebbe chiedere piuttosto

perché non continua a muoversi sempre. Ma è facile spiegarlo. Infatti chi potrebbe negare

che l’aria in cui il sasso si muove faccia una certa resistenza? Quando il sasso la fende la

sentiamo fischiare; e muovendo nell’aria un ventaglio o un altro corpo molto leggero ed

ampio si potrà anche avvertire, dal peso della mano, che l’aria ne impedisce il movimento,

anziché favorirlo, come taluni hanno voluto affermare. Ma se, per spiegare l’effetto della

sua resistenza, non si ricorre alla nostra seconda regola e si ammette che, quanto più un

corpo può opporre resistenza tanto più, come si potrebbe credere in un primo momento, è

capace di impedire il movimento degli altri; ci si troverà di nuovo in gravi difficoltà nello

spiegare perché il movimento del sasso si attenui più per l’urto con un corpo molle,

capace di resistere moderatamente, che non per l’urto con un corpo più duro, che gli

oppone maggior resistenza. E neanche sarà facile dire perché, subito dopo aver esercitato

un piccolo sforzo contro quest’ultimo, il sasso torna, per così dire, sui propri passi,

anziché fermarsi e interrompere il proprio movimento. Mentre, accettando la nostra

Cartesio, Il mondo

123

regola, ogni difficoltà sparisce: essa c’insegna che, quando un corpo ne urta un altro, il

movimento del primo non vien rallentato in proporzione della resistenza del secondo, ma

nella misura in cui il secondo cede: il secondo, nel cedergli, accoglie in sé la forza di

muoversi che l’altro perde.

Ora, benché nella maggior parte dei movimenti che vediamo nel mondo vero non

possiamo avvertire, all’inizio o alla fine del moto dei corpi, la spinta o l’arresto dovuti ad

altri corpi, non per questo abbiamo motivo di credere che le due regole suddette non vi

abbiano piena validità. È certo infatti che spesso questi corpi possono derivare la loro

agitazione dai due elementi dell’aria e del fuoco che, come si è detto dianzi, ci si trovano

sempre mescolati senza poter essere percepiti, o anche dall’aria più grossolana, che, del

pari, non si può percepire; e possono trasferirla ora a quest’aria più grossolana, ora

all’intera massa della Terra, dove, disperdendosi, non può, a sua volta, essere percepita.

Ma, anche se la nostra intera esperienza sensibile nel vero mondo apparisse in

manifesto contrasto rispetto al contenuto di queste due regole, la ragione che me le ha

dettate mi sembra così salda che continuerei a credere di essere obbligato a supporle nel

nuovo mondo che vi descrivo. Infatti, anche nel caso di una scelta del tutto libera, qual

fondamento più fermo e più saldo della fermezza e immutabilità che è in Dio potremmo

prendere a base di una verità?

Ora le due regole derivano evidentemente solo da questo: che Dio è immutabile e che,

con l’agire sempre alla stessa maniera, produce sempre lo stesso effetto. Infatti,

supponendo che nell’atto stesso di crearla, Dio abbia posto in tutta la materia in generale

una certa quantità di movimenti, a meno di negare che egli agisca sempre allo stesso

modo, bisogna ammettere che ne conservi sempre la stessa quantità. Supponendo pure che

da quel primo istante le diverse parti della materia in cui i movimenti si sono trovati

variamente distribuiti abbiano cominciato a conservarli o a trasmetterli dall’una all’altra, a

seconda della loro forza, bisogna necessariamente concludere che Dio le fa continuare

sempre allo stesso modo. Le due regole vogliono dire questo.

Ne aggiungerò una terza: che quando un corpo si muove, benché il suo movimento

avvenga per Io più secondo una curva e ogni movimento, come si è detto prima, sia

sempre in qualche modo circolare, tuttavia, le sue parti, singolarmente prese, tendono

Cartesio, Il mondo

124

sempre a continuare il loro ín linea retta. Quindi la loro azione, ossia la loro inclinazione a

muoversi, è diversa dal loro effettivo movimento.

Se, per esempio, si fa girare una ruota intorno al proprio asse, per quanto tutte le sue

parti si muovano in cerchio perché, essendo unite fra loro, non potrebbero far

diversamente, tuttavia la loro inclinazione è a procedere in linea retta, come si vede

chiaramente quando una si distacca dalle altre; infatti, appena libera, smette di muoversi

in cerchio e continua in linea retta.

Allo stesso modo, quando si fa rotare un sasso in una fionda, non solo il sasso corre in

linea retta appena ne parte, ma, anche stando nella fionda, preme sul centro facendo

tendere la corda; e così mostra chiaramente che la sua inclinazione è sempre a muoversi in

linea retta e che si muove in cerchio solo perché costretto.

Questa regola poggia sullo stesso fondamento delle altre due e dipende solo dal fatto

che Dio conserva ogni cosa mediante un’azione continua, quindi, non come può essere

stata un po’ prima, ma esattamente com’è nell’istante in cui la conserva. Ora, il

movimento rettilineo è il solo che sia perfettamente semplice e la cui natura sia

completamente contenuta in un istante. Infatti per concepirlo basta pensare un corpo in

azione per muoversi verso una certa direzione, il che si verifica in ognuno degli istanti

determinabili nel tempo in cui si muove. Mentre, per concepire il movimento circolare, o

un altro qualunque movimento, bisogna considerare almeno due dei suoi istanti, o meglio

due delle sue parti, e il loro mutuo rapporto.

Ma perché i filosofi, o meglio i sofisti, non trovino qui un’occasione all’esercizio delle

loro sottigliezze superflue, osservate che io non affermo con questo che il movimento

rettilineo possa avvenire in un istante; dico solo che tutti i requisiti necessari a produrlo si

trovano nei corpi in ogni istante determinabile nel loro movimento; mentre non vi si

trovano tutti i requisiti necessari a produrre il moto circolare […].

Secondo questa regola dunque dobbiamo dire che solo Dio è l’autore di tutti i

movimenti che sono al mondo, in quanto sono e in quanto sono rettilinei; mentre a

renderli irregolari e a curvarli sono le diverse disposizioni della materia. Allo stesso modo

i teologi c’insegnano che Dio è l’autore di tutte le nostre azioni, in quanto sono, e ín

quanto sono in qualche misura buone, mentre sono le diverse disposizioni della nostra

volontà che possono renderle viziose.

Cartesio, Il mondo

125

Potrei aggiungere qui parecchie regole per determinare, in particolare, quando e come e

di quanto il movimento di ciascun corpo può venir deviato, aumentato o diminuito

dall’urto con gli altri corpi; questa sarebbe una trattazione sommaria di tutti gli effetti

della natura. Ma mi limiterò ad avvertirvi che, oltre le tre leggi da me spiegate, non voglio

supporne altre all’infuori di quelle che derivano necessariamente dalle verità eterne che i

matematici prendono come fondamento abituale delle loro dimostrazioni più certe ed

evidenti: parlo delle verità secondo cui Dio stesso ci ha insegnato di avere ordinato tutte le

cose in base a numero, peso e misura; la loro conoscenza è talmente connaturata all’anima

nostra che, quando le concepiamo distintamente, non potremmo negarne l’immancabile

validità, né ammettere che, se Dio avesse creato più mondi, esse non sarebbero in tutti

altrettanto vere quanto nel nostro. Sicché chi saprà esaminare a sufficienza le conseguenze

di tali verità e delle nostre regole potrà conoscere gli effetti dalle cause; e, per usare i

termini della Scuola, potrà avere dimostrazioni a priori di tutto ciò che può essere

prodotto in questo nuovo mondo.

E perché non vi siano eccezioni a fare ostacolo, aggiungiamo pure, se volete, alle

nostre supposizioni che nel nuovo mondo Dio non farà mai miracoli, e che le intelligenze

o anime ragionevoli che in seguito potremo supporvi non turberanno in nessun modo il

corso ordinario della natura.

Con questo, tuttavia, non vi prometto di offrirvi dimostrazioni esatte di tutte le cose che

dirò; basterà se vi aprirò la strada perché possiate trovarle da voi stessi, quando vi

impegnerete a cercarle. La mente, per lo più, perde il gusto delle cose presentate in modo

troppo facile; e per comporre un quadro che vi risulti attraente, oltre ai colori vivi, devo

impiegare anche l’ombra. Mi contenterò dunque di proseguire la descrizione iniziata come

se mi proponessi soltanto di raccontarvi una favola.

126

Renato Cartesio (1596-1650)

Discorso del metodo (1637)

lingua originale: francese

edizione di riferimento: C. Adam e P. Tannery, (1910 ecc.)

Œuvres de Descartes, (13 voll.) ed. riveduta, Vrin, Parigi, 1964-74

tr. it. M. Garin, Laterza, Bari-Roma, 1967

tema: rifondare le scienze con metodo

genere letterario: autobiografia stilizzata

SECONDA PARTE

Mi trovavo allora in Germania, richiamatovi dalle guerre che ancora non sono finite;

mentre tornavo all’esercito dall’incoronazione dell’imperatore, fui bloccato dall’inverno

in un quartiere dove, in mancanza di qualunque conversazione che mi distraesse, e per

fortuna anche di preoccupazioni o passioni che mi turbassero, me ne stavo tutto il giorno

da solo, chiuso in una stanza riscaldata, e là avevo tutto il tempo di restare immerso nei

miei pensieri. In primo luogo fui tratto a considerare come spesso nelle opere composte di

parecchie parti, e realizzate dalla mano di diversi artefici, ci sia meno perfezione che non

in quelle alle quali ha lavorato uno solo. Così vediamo che le grandi costruzioni, iniziate e

compiute da un solo architetto, sono, di solito, più belle e armoniose di quelle che

parecchi hanno cercato di ristrutturare valendosi di vecchi muri costruiti con altre finalità.

Perciò le città antiche che, nate da semplici borgate, sono divenute un po’ alla volta grandi

città, per lo più sono così disarmoniche in confronto a quelle, rispondenti a criteri di

regolarità, che un ingegnere, seguendo la sua ispirazione, traccia in una pianura. E se

anche i singoli edifici, presi uno ad uno, rivelano spesso pregi artistici non minori, o

addirittura più grandi, tuttavia, a vedere come sono disposti, qui uno grande, là uno

piccolo, e come rendono curve e irregolari le strade, si direbbero messi li a quel modo dal

caso piuttosto che dalla volontà di uomini ragionevoli. Considerando poi che sempre vi

sono stati dei funzionari incaricati di sovraintendere all’edilizia privata ai fini del pubblico

decoro, ci si renderà conto di quanto sia difficile realizzare cose pienamente soddisfacenti

lavorando solo sulle opere altrui. Immaginavo quindi che i popoli giunti un po’ alla volta

alla civiltà partendo da una condizione semiselvaggia, avendo fatto le loro leggi via via

che vi erano costretti dal disagio provocato dai delitti e dalle liti, non potessero avere un

Cartesio, Discorso sul metodo

127

assetto paragonabile a quello delle popolazioni che fin dalle origini si sono attenute alla

costituzione di qualche saggio legislatore. Come è ben certo che l’ordinamento della vera

religione, di cui solo Dio ha dettato i comandamenti, deve essere incomparabilmente

migliore di tutti gli altri. E, per restare nell’ambito delle cose umane, credo che Sparta sia

stata un tempo così in auge, non per la bontà delle sue singole leggi, a volte molto strane e

addirittura contrarie ai buoni costumi, ma perché, essendo tutte opera di un solo

legislatore, convergevano tutte verso un medesimo fine m. Allo stesso modo pensai che le

scienze dei libri, almeno quelle che si fondano solo su ragioni probabili e che non

risultano suscettibili di venire dimostrate, nate e sviluppate un po’ alla volta dalle opinioni

di parecchie persone diverse, si accostino alla verità meno dei semplici ragionamenti che

un uomo può fare valendosi del suo naturale buon senso a proposito dei casi che gli si

presentano. Pensavo pure che prima di essere uomini siamo stati tutti bambini e abbiamo

dovuto vivere a lungo sotto il dominio dei nostri istinti e dei nostri precettori, che spesso

erano in contrasto fra di loro e che non sempre, forse, né gli uni né gli altri, ci

consigliavano per il meglio. Perciò è quasi impossibile che i nostri giudizi siano così

genuini e così solidi come se fin dal momento della nascita avessimo posseduto l’intero

uso della nostra ragione, e sempre l’avessimo avuta come unica guida.

Non vediamo, è vero, demolire tutte le case di una città solo per rifarle diversamente,

rendendone più belle le strade; ma senz’altro si vede che molti buttano giù le loro per

ricostruirle, e a volte ci sono anche costretti, quando minacciano di crollare e quando le

fondamenta sono poco stabili. Per analogia mi persuadevo che non sarebbe affatto

ragionevole che un privato formulasse un piano di riforma dello Stato, mutandovi tutto

dalle fondamenta e rovesciandolo per poi rimetterlo in piedi, e nemmeno che si

proponesse di riformare il corpo delle scienze, o l’ordine stabilito nelle scuole per

insegnarle; ma, per tutte le opinioni cui fino a quel momento avevo fatto credito, la

miglior cosa che potevo fare era di volgermi una buona volta a rimuoverle per sostituirle

in seguito con altre migliori, o per accoglierle, ma dopo averle ricondotte al livello della

ragione. Ed ebbi la ferma certezza che, a questo modo, sarei riuscito a dirigere la mia vita

molto meglio che costruendo solo su vecchie fondamenta e appoggiandomi su principi di

cui in gioventù mi ero lasciato persuadere senza aver mai controllato se erano veri.

Infatti,’ benché rilevassi in questo diverse difficoltà, esse, tuttavia, non erano senza

Cartesio, Discorso sul metodo

128

rimedio, e non erano paragonabili a quelle che si trovano a riformare le più piccole cose

che riguardano lo Stato. Quei grandi corpi sono troppo difficili da rimettere in piedi

quando sono stati abbattuti, o anche da sostenere quando sono scossi, e la loro caduta è

inevitabilmente un grande disastro. Inoltre le loro imperfezioni, se ne hanno — e basta, a

dimostrare che molti ne hanno, la semplice diversità degli uni dagli altri — sono state

senza dubbio molto raddolcite dall’uso che, addirittura, ne ha eliminato e corretto

insensibilmente una quantità con un’efficacia superiore a qualunque saggezza; infine,

quasi sempre, si tratta di cose più sopportabili di un loro mutamento; allo stesso modo le

grandi strade che girano intorno alle montagne, a forza di essere frequentate, diventano un

po’ alla volta così lisce e così comode da rendere molto più comodo seguirle, che non

cercare di andar più diritti arrampicandosi sulle rocce e scendendo fino in fondo ai

precipizi.

Per questo non riuscirei in nessun modo a consentire con quegli spiriti turbolenti ed

inquieti che, pur non essendo chiamati ad occuparsi degli affari pubblici né dalla nascita

né dal censo, non si stancano mai di apportarvi con la mente qualche nuova riforma. Se

potessi pensare che nel presente scritto ci fosse il minimo appiglio per sospettarmi di

questa follia, sareimolto pentito di averne permesso la pubblicazione. Mai il mio disegno è

andato più in là del tentativo dí riformare i miei propri pensieri e di costruire su un terreno

che mi appartiene in esclusiva. E se, abbastanza soddisfatto della mia opera, ve ne mostro

qui il piano, non per questo voglio consigliare a nessuno di imitarlo. Quelli a cui Dío è

stato più largo dei suoi doni, formuleranno forse disegni più elevati; ma ío temo che per

molti sia già troppo ardito questo. La semplice decisione di abbandonare tutte le opinioni

a cui si è fatto in precedenza credito è un esempio che non tutti devono seguire; anzi, le

persone di questo mondo rientrano quasi sempre in due categorie a cui non conviene

affatto. La prima si compone di coloro che, sopravvalutando le proprie capacità, non

possono astenersi dal dare giudizi precipitati, né avere abbastanza pazienza da svolgere

ordinatamente il corso di tutti i loro pensieri; quindi, se una volta si prendessero la libertà

di rifiutare i principi che hanno accolto, e di scostarsi dal comune cammino, non

potrebbero mai più seguire il sentiero che bisogna prendere per procedere senza tortuose

deviazioni e per tutta la vita resterebbero degli sbandati. La seconda categoria comprende

coloro che, abbastanza assennati e modesti da giudicarsi meno capaci di discernere il vero

Cartesio, Discorso sul metodo

129

dal falso in confronto ad altri da cui possono imparare, devono contentarsi di seguire le

opinioni di questi altri piuttosto che cercarne per proprio conto di migliori.

E io sarei stato senza dubbio nel numero di questi ultimi, se avessi avuto un solo

maestro, o se avessi ignorato le differenze che, ín ogni tempo, ci sono state tra le opinioni

dei più dotti. Ma già dall’epoca del collegio avevo imparato che niente di così strano e

poco credibile si può immaginare, che non sia stato sostenuto da qualche filosofo; e poi,

viaggiando, mi ero reso conto che non tutti quelli che la pensano molto diversamente da

noi sono perciò barbari e selvaggi, anzi, molti di loro fanno uso della ragione quanto noi e

anche di più; e avevo considerato quanto lo stesso uomo, con le stesse possibilità, allevato

fino dall’infanzia tra Francesi o Tedeschi risulti diverso da quel che sarebbe se avesse

sempre vissuto fra Cinesi o cannibali; e come, fino alle mode dell’abbigliamento, la stessa

cosa che dieci anni fa ci è piaciuta, e che forse tornerà a piacerci fra meno di dieci, ci

sembri ora stravagante e ridicola; sì che il costume e l’esempio esercitano su di noi molto

più efficace persuasione di qualunque conoscenza certa; tuttavia la maggioranza dei

suffragi non è prova attendibile per le verità alquanto difficili da scoprirsi, perché è molto

più verosimile che le abbia scoperte un uomo solo piuttosto che un intero popolo. Per tutte

queste ragioni non potevo scegliere nessuno le cui opinioni mi sembrassero da preferirsi a

quelle degli altri, e mi trovavo in certo modo costretto a cercare di trovare una guida in me

stesso.

Ma, come un uomo che procede da solo nelle tenebre, decisi di camminare così piano,

e di essere in tutto così circospetto che, pur avanzando pochissimo, almeno avrei evitato

senz’altro di cadere. Anzi, non volli cominciare col rifiutare del tutto nessuna di quelle

opinioni che in passato avevano potuto insinuarsi nella mia fiducia senza l’avallo della

ragione; volevo prima dedicarmi abbastanza a lungo al progetto dell’opera cui ponevo

mano, e a cercare vero metodo per giungere alla conoscenza di tutte le cose accessibili

alla mia intelligenza.

Quando ero più giovane mi ero dedicato un po’, fra le parti della filosofia, alla logica,

e, fra quelle della matematica, all’analisi dei geometri e all’algebra. Erano tre arti o

scienze che pareva dovessero dare qualche contributo al mio disegno. Ma sottoponendole

a esame mi accorsi che, per quanto riguarda la logica, i suoi sillogismi e la maggior parte

delle sue regole servono a spiegare agli altri le cose che si sanno, o addirittura, come l’arte

Cartesio, Discorso sul metodo

130

di Lullo, a parlare senza discernimento di quelle che non si sanno, piuttosto che a

impararle. E, benché contenga di fatto molti precetti verissimi e ottimi, a questi tuttavia se

ne mescolano tanti nocivi o superflui che operare una separazione è difficile quasi come

trarre una Diana o una Minerva da un blocco di marmo non ancora sbozzato. Quanto poi

all’analisi degli antichi e all’algebra dei moderni, a parte il fatto che il loro campo è

limitato a questioni molto astratte e che appaiono prive di utilità, la prima è sempre così

legata alla considerazione delle figure che può giovare all’esercizio dell’intelligenza solo

a prezzo di un grande sforzo dell’immaginazione; e, per quel che concerne la seconda, ci

siamo lasciati irretire da certe formule e da certe cifre fino al punto da farne un’arte

confusa e oscura, un ostacolo per la mente, anziché una scienza volta a coltivarne le

capacità. Da questo fui tratto a pensare che bisognava cercare un altro metodo che avesse i

pregi dei tre precedenti restando immune dai loro difetti. E come la molteplicità delle

leggi offre spesso una scusa ai vizi, dimodoché uno Stato risulta molto meglio organizzato

quando, avendone pochissime, le vede osservate col massimo scrupolo; così, in luogo

della congerie di regole di cui la logica si compone, ritenni che mi sarebbero bastate le

quattro seguenti, purché prendessi la ferma e costante decisione di non mancare di

osservarle neppure una volta.

La prima era di non accogliere mai come vera nessuna cosa che non conoscessi

evidentemente per tale; ossia evitare con cura la precipitazione e la prevenzione,

giudicando esclusivamente di ciò che si presentasse alla mia mente in modo così chiaro e

distinto da non offrire alcuna occasione di essere revocato in dubbio.

La seconda era di dividere ciascuna delle difficoltà che esaminavo in quante più parti

era possibile, in vista di una miglior soluzione.

La terza di imporre ai miei pensieri un ordine, cominciando dagli oggetti più semplici e

più facili da conoscersi per risalire un po’ alla volta, come per gradi, alla conoscenza dei

più complessi, supponendo un ordine anche tra quelli tra cui non vige nessuna precedenza

naturale.

L’ultima era di fare, in ogni occasione, enumerazioni tanto complete, e rassegne così

generali da essere sicuro dí non dimenticare nulla.

Quelle lunghe catene di ragioni, affatto semplici e facili, di cui i geometri si servono

abitualmente per portare in fondo le loro dimostrazioni più difficili, mi avevano fatto

Cartesio, Discorso sul metodo

131

immaginare che tutte le cose suscettibili di cadere sotto la conoscenza umana si

susseguano allo stesso modo e che, se solo ci si astenga dall’accoglierne per vera qualcuna

che non lo sia, e si mantenga sempre il debito ordine nel dedurre le une dalle altre, non

possono esservene di tanto lontane da non essere alla fine raggiunte, né di tanto riposte da

non essere scoperte. Né ebbi molto da stentare per stabilire da quali dovevo cominciare:

sapevo già che dovevo partire dalle più semplici e facili da conoscersi; e considerando che

fra quanti prima d’ora hanno cercato la verità nelle scienze solo i matematici hanno potuto

trovare qualche dimostrazione, ossia qualche ragione certa ed evidente, non dubitavo di

dover cominciare dalle stesse questioni che essi hanno esaminato; e questo senza sperare

di trarne altra utilità all’infuori di un’abitudine della mia intelligenza a pascersi di verità e

a non contentarsi di,false ragioni. Non per questo mi proposi di cercare di apprendere tutte

le scienze particolari che si chiamano comunemente matematiche, ma vedendo che, pur

avendo oggetti diversi, tutte concordano in quanto negli oggetti considerano solo i diversi

rapporti o proporzioni che vi si riscontrano, pensai che era preferibile esaminassi solo

queste proporzioni in generale, supponendole soltanto negli oggetti che servirebbero a

facilitarmene la conoscenza, ma senza affatto collegarvele, in modo da poterle meglio

applicare in seguito a tutti i casi a cui convenissero. Poi, essendomi reso conto che per

conoscerle avrei avuto bisogno qualche volta di considerarle ciascuna in particolare, e

qualche volta soltanto di tenerle a mente o di abbracciarne parecchie insieme, pensai che

per meglio considerarle in particolare dovevo immaginarle sotto forma di linee, perché

non trovavo nulla di più semplice né di più adatto a venir rappresentato distintamente alla

mia immaginazione e ai miei sensi; ma per tenerle a mente, o per abbracciarne parecchie

in una volta, dovevo esprimerle con cifre, le più compendiose che fosse possibile; con

questo mezzo avrei preso tutto il meglio dell’analisi geometrica e dell’algebra, e avrei

corretto con l’aiuto dell’una tutti i difetti dell’altra.

In effetti oso dire che l’esatta osservanza di queste poche regole da me scelte mi rese

così facile risolvere tutte le questioni che rientrano in queste due scienze da far sì che nei

due o tre mesi durante i quali le esaminai, partendo dalle più semplici e generali ed

assumendo ogni verità che scoprivo come una regola che mi serviva in seguito a scoprirne

altre, non solo venni a capo di parecchie che in precedenza avevo giudicato difficilissime,

ma mi sembrò pure, verso la fine, di poter determinare, anche per quelle che ignoravo, con

Cartesio, Discorso sul metodo

132

che mezzi e fino a che punto era possibile trovare una soluzione. E forse non mi

accuserete di presunzione se terrete conto del fatto che, essendovi una sola verità per

ciascuna questione, chi la scopre ne sa quanto è possibile saperne; e che, per esempio, un

bambino che ha imparato certe nozioni aritmetiche, quando ha fatto un’addizione secondo

le regole, può essere sicuro di aver trovato, a proposito della somma che esaminava, tutto

ciò che lo spirito umano vi potrebbe trovare. Perché infine il metodo che insegna a seguire

il vero ordine e a enumerare esattamente tutte le circostanze di ciò che cerchiamo,

contiene tutto quel che conferisce certezza alle regole dell’aritmetica.

Ma ciò che più mi appagava ín questo metodo era che, per suo mezzo, avevo la

sicurezza di fare uso in tutto della mia ragione, se non in modo perfetto, per lo meno nel

modo migliore che fosse in mio potere; inoltre, mettendolo in pratica, sentivo che la mia

mente si abituava un po’ alla volta a concepire i suoi oggetti in modo più netto e distinto e

che, non avendole imposto di dedicarsi a nessuna materia particolare, potevo

ripromettermi di applicarla alle difficoltà delle altre scienze con la stessa utilità che ne

avevo tratto applicandola a quelle dell’algebra. Non per questo osai volgermi senz’altro a

esaminare tutte quelle che potevano presentarsi; sarebbe già stato un contravvenire

all’ordine che il mio metodo mi prescriveva. Ma, essendomi reso conto che i principi

scientifici dovevano dipendere tutti dalla filosofia, pensai che, in primo luogo, dovevo

cercare di stabilire in essa dei principi certi che ancora non vi trovavo; e poiché questa era

la cosa più importante in assoluto, e la più esposta ai rischi della precipitazione e della

prevenzione, non dovevo tentare di venirne a capo prima di aver raggiunto un’età ben più

matura dei ventitré anni che avevo allora, e di essermi in precedenza impegnato in una

lunga preparazione, sia sradicando dalla mia mente tutte le opinioni errate che vi avevo

accolto per l’addietro, sia raccogliendo una messe di esperienze che sarebbero state poi

oggetto dei miei ragionamenti; e, tutto ciò, persistendo nel costante esercizio del metodo

che mi ero prefisso, in modo da rafforzarmici sempre di più.

133

Renato Cartesio (1596-1650)

Meditazioni di prima filosofi a (1641)

lingua originale: latino

edizione di riferimento: C. Adam e P. Tannery, (1910 ecc.)

Œuvres de Descartes, (13 voll.) ed. riveduta, Vrin, Parigi, 1964-74

tr. it. A. Tilgher, Laterza, Bari-Roma, 1967

tema: gli inganni delle apparenze

genere letterario: monologo paranoico

PRIMA MEDITAZIONE

DELLE COSE CHE SI POSSONO REVOCARE IN DUBBIO

Già da qualche tempo mi sono accorto che, fin dai miei primi anni, avevo accolto come vere una

quantità di false opinioni, onde ciò che in appresso ho fondato sopra princìpi così mal sicuri, non

poteva essere che assai dubbio ed incerto; di guisa che m’era d’uopo prendere seriamente una volta

in vita mia a disfarmi di tutte le opinioni ricevute fino allora in mia credenza, per cominciare tutto

di nuovo dalle fondamenta, se volevo stabilire qualche cosa di fermo e di durevole nelle scienze.

Ma poiché quest’impresa mi sembrava grandissima, ho atteso di aver raggiunto un’età così matura,

che non potessi sperarne dopo di essa un’altra più adatta; il che mi ha fatto rimandare così a lungo,

che, ormai, crederei di commettere un errore, se impiegassi ancora a deliberare il tempo che mi

resta per agire.

Ora, dunque, che il mio spirito, è libero da ogni cura, e che mi son procurato un riposo sicuro in

una pacifica solitudine, mi applicherò seriamente e con libertà a una distruzione generale di tutte le

mie antiche opinioni. E non sarà necessario, per arrivare a questo, provare che esse sono tutte false,

della qual cosa, forse, non verrei mai a capo; ma in quanto la ragione mi persuade già che io non

debbo meno accuratamente trattenermi dal prestar fede alle cose che non sono interamente certe e

indubitabili, che a quelle le quali ci appaiono manifestamente false, il minimo motivo di dubbio che

troverò basterà per farmele tutte rifiutare. E perciò non v’è bisogno che io le esamini ognuna in

particolare, il che richiederebbe un lavoro infinito; ma, poiché la ruina delle fondamenta trascina

necessariamente con sé il resto dell’edificio, io attaccherò dapprima i princìpi sui quali tutte le mie

antiche opinioni erano poggiate.

Cartesio, Meditazioni

134

Tutto ciò che ho ammesso fino ad ora come il sapere più vero e sicuro, l’ho appreso dai sensi, o

per mezzo dei sensi: ora, ho qualche volta provato che questi sensi erano ingannatori, ed è regola di

prudenza non fidarsi mai interamente di quelli che ci hanno una volta ingannati.

Ma, benché i sensi c’ingannino qualche volta, riguardo alle cose molto minute e molto lontane, se

ne incontrano forse molte altre, delle quali non si può ragionevolmente dubitare, benché noi le

conosciamo per mezzo loro: per esempio, che io son qui, seduto accanto al fuoco, vestito d’una

veste da carnera, con questa carta fra le mani; ed altre cose di questa natura. E come potrei io negare

che queste mani e questo corpo sono miei? a meno che, forse, non mi paragoni a quegl’insensati, il

cervello dei quali è talmente turbato ed offuscato dai neri vapori della bile, che asseriscono

costantemente di essere dei re, mentre sono dei pezzenti; di essere vestiti d’oro e di porpora, mentre

son nudi affatto; o s’immaginano di essere delle brocche, o d’avere un corpo di vetro. Ma costoro

son pazzi; ed io non sarei da meno, se mi regolassi sul loro esempio.

Tuttavia debbo qui considerare che sono uomo, e che per conseguenza, ho l’abitudine di dormire

e di rappresentarmi nei sogni le stesse cose, e alcune volte delle meno verosimili ancora, che

quegl’insensati quando vegliano. Quante volte m’è accaduto di sognare, la notte, che io ero in

questo luogo, che ero vestito, che ero presso il fuoco, benché stessi spogliato dentro il mio letto? È

vero che ora mi sembra che non è con occhi addormentati che io guardo questa carta, che questa

testa che io muovo non è punto assopita, che consapevolmente di deliberato proposito io stendo

questa mano e la sento: ciò che accade nel sonno non sembra certo chiaro e distinto come tutto

questo. Ma, pensandoci accuratamente, mi ricordo d’essere stato spesso ingannato, mentre dormivo,

da simili illusioni. E arrestandomi su questo pensiero, vedo così manifestamente che non vi sono

indizi concludenti, né segni abbastanza certi per cui sia possibile distinguere nettamente la veglia

dal sonno, che ne sono tutto stupito; ed il mio stupore è tale da esser quasi capace di persuadermi

che io dormo.

Supponiamo, dunque, ora, che noi siamo addormentati, e che tutte queste particolarità, cioè che

apriamo gli occhi, moviamo la testa, stendiamo le mani, e simili, non siano se non delle false

illusioni; e pensiamo che forse le nostre mani e tutto il nostro corpo non siano quali noi li vediamo.

Tuttavia bisogna almeno confessare che le cose, le quali ci sono rappresentate nel sonno, sono come

dei quadri e delle pitture, che non possono essere formate se non a somiglianza di qualche cosa di

reale e di vero; e che così, almeno, queste cose generali, cioè degli occhi, una testa, delle mani, e

tutto il resto del corpo, non sono cose immaginarie, ma vere ed esistenti. E, a dir vero, gli stessi

pittori, anche quando si sforzano con il maggior artificio di rappresentare Sirene e Satiri in forme

Cartesio, Meditazioni

135

bizzarre e straordinarie, non possono tuttavia attribuire loro forme e nature interamente nuove, ma

fanno soltanto una certa mescolanza e composizione delle membra di diversi animali; ovvero, se per

avventura la loro immaginazione è abbastanza stravagante da inventare qualche cosa di così nuovo,

che mai noi non abbiamo visto niente di simile, in modo tale che la loro opera ci rappresenti una

cosa puramente finta ed assolutamente falsa, certo almeno i colori di cui la compongono debbono,

essi, essere veri.

E per la stessa ragione, benché queste cose generali, cioè degli occhi, una testa, delle mani, e

simili, possano essere immaginarie, bisogna tuttavia confessare che vi sono cose ancora più

semplici e più universali, le quali sono vere ed esistenti; dalla mescolanza delle quali, né più né

meno che dalla mescolanza di alcuni colori veri, tutte queste immagini delle cose, che risiedono nel

nostro pensiero, siano esse vere e reali, siano finte e fantastiche, sono formate. Di questo genere di

cose è la natura corporea in generale e la sua estensione; e così pure la figura delle cose estese, la

loro quantità o grandezza, e il loro numero; come anche il luogo dove esse sono, il tempo che

misura la loro durata, e simili.

Per questo, forse, noi non concluderemo male, se diremo che la fisica, l’astronomia, la medicina e

tutte le altre scienze, che dipendono dalla considerazione delle cose composte, sono assai dubbie ed

incerte; ma che l’aritmetica, la geometria e le altre scienze di questo tipo, le quali non trattano se

non di cose semplicissime e generalissime, senza darsi troppo pensiero se esistano o meno in natura,

contengono qualche cosa di certo e d’indubitabile. Perché, sia che io vegli o che dorma, due e tre

uniti insieme formeranno sempre il numero cinque, ed il quadrato non avrà mai più di quattro lati; e

non sembra possibile che delle verità così manifeste possano essere sospettate di falsità o

d’incertezza.

Tuttavia è da lungo tempo che ho nel mio spirito una certa opinione, secondo la quale vi è un Dio

che può tutto, e da cui io sono stato creato e prodotto così come sono. Ora, chi può assicurarmi che

questo Dio non abbia fatto in modo che non vi sia niuna terra, niun cielo, niun corpo esteso, niuna

figura, niuna grandezza, niun luogo, e che, tuttavia, io senta tutte queste cose, e tutto ciò mi sembri

esistere non diversamente da come lo vedo? Ed inoltre, come io giudico qualche volta che gli altri

s’ingannino anche nelle cose che credono di sapere con la maggior certezza, può essere che Egli

abbia voluto che io m’inganni tutte le volte che fo l’addizione di due e di tre, o che enumero i lati di

un quadrato, o che giudico di qualche altra cosa ancora più facile, se può immaginarsi cosa più

facile di questa. Ma forse Dio non ha voluto che io fossi ingannato in tal guisa, perché di lui si dice

che è sovranamente buono. Tuttavia, se repugna alla sua bontà l’avermi fatto tale che io m’inganni

Cartesio, Meditazioni

136

sempre, sembrerebbe esserle contrario anche il permettere che io m’inganni qualche volta; e tuttavia

io non posso mettere in dubbio che egli lo permetta.

Vi saranno forse qui delle persone, che preferirebbero negare l’esistenza di un Dio così potente,

piuttosto che credere incerte tutte le altre cose. Ma per adesso non resistiamo loro, e supponiamo, in

loro favore, che tutto ciò che è detto qui di Dio sia una favola. Tuttavia, in qualunque maniera essi

suppongano che io sia pervenuto allo stato e all’essere che possiedo, sia che l’attribuiscano a

qualche destino o fatalità, sia che lo riferiscano al caso, sia che sostengano che ciò accade per un

continuo concatenamento e legame delle cose, è certo che, poiché errare ed ingannarsi è una specie

d’imperfezione, quanto meno potente sarà l’autore che essi attribuiranno alla mia origine, tanto più

probabile sarà che io sia talmente imperfetto da ingannarmi sempre. Alle quali ragioni io non ho

certo nulla da rispondere, ma sono costretto a confessare che, di tutte le opinioni che avevo altra

volta accolte come vere, non ve n’è una della quale non possa ora dubitare, non già per

inconsideratezza o leggerezza, ma per ragioni fortissime e maturamente considerate: di guisa che è

necessario che io arresti e sospenda oramai il mio giudizio su questi pensieri, e che non dia loro più

credito di quel che darei a cose, che mi paressero evidentemente false, se desidero di trovare

alcunché di costante e di sicuro nelle scienze.

Ma non basta aver fatto queste osservazioni, bisogna che io prenda anche cura di ricordarmene;

perché quelle antiche e ordinarie opinioni mi ritornano ancora spesso nel pensiero, poiché il lungo e

familiare uso dà loro il diritto di occupare il mio spirito contro il mio volere, e di rendersi quasi

padrone della mia credenza. Ed io non mi disabituerò mai di aderire loro e di aver confidenza in

esse, finché le considererò quali sono in effetti, cioè in qualche modo dubbie, come testé ho

mostrato, e tuttavia probabilissime, di guisa che si ha molto più ragione di credervi che di negarle.

Ecco perché io penso di farne un uso più prudente, se, prendendo un partito contrario, impiego tutte

le mie cure ad ingannare me stesso, fingendo che tutti questi pensieri siano falsi e immaginari;

finché, avendo talmente posto in. equilibrio i miei pregiudizi, che essi non possano fare inclinare il

mio parere più da un lato che da un altro, il mio giudizio non sia più oramai dominato da cattivi usi

e distolto dal retto camtnino che può condurlo alla conoscenza della verità. Io sono sicuro, infatti,

che non può esserci pericolo né errore in questa via, e che non saprei oggi conceder troppo alla mia

diffidenza, poiché ora non si tratta d’agire, ma solo di meditare e di conoscere.

Io supporrò, dunque, che vi sia, non già un vero Dio, che è fonte sovrana di verità, ma un certo

cattivo genio [genium aliquem mal ignum], non meno astuto e ingannatore che possente, che abbia

impiegato tutta la sua industria ad ingannarmi. Io penserò che il cielo, l’aria, la terra, i colori, le

Cartesio, Meditazioni

137

figure, i suoni e tutte le cose esterne che vediamo, non siano che illusioni e inganni, di cui egli si

serve per sorprendere la mia credulità. Considererò me stesso come privo affatto di mani, di occhi,

di carne, di sangue, come non avente alcun senso, pur credendo falsamente di aver tutte queste cose.

Io resterò ostinatamente attaccato a questo pensiero; se, con questo mezzo, non e in mio potere di

pervenire alla conoscenza di verità alcuna, almeno è in mio potere di sospendere il mio giudizio.

Ecco perché baderò accuratamente a non accogliere alcuna falsità, e preparerò così bene il mio

spirito a tutte le astuzie di questo grande ingannatore, che, per potente ed astuto ch’egli sia, non mi

potrà mai imporre nulla.

Ma questo disegno è penoso e laborioso, ed una certa pigrizia mi riporta insensibilmente nel

corso della mia vita ordinaria. E a quel modo che uno schiavo, il quale godeva in sogno d’una

libertà immaginaria, quando comincia a sospettare che la sua libertà non è che un sogno, teme

d’essere risvegliato, e cospira con quelle illusioni piacevoli, per esserne più lungamente ingannato,

così io ricado insensibilmente da me stesso nelle mie antiche opinioni, ed ho paura di risvegliarmi

da quest’assopimento, per tema che le veglie laboriose che succederebbero alla tranquillità di questo

riposo, invece di portarmi qualche luce e qualche rischiaramento nella conoscenza della verità, non

abbiano ad essere insufficienti per illuminare le tenebre delle difficoltà che sono state agitate testé.

138

Benedetto Spinoza (1632-1677)

Trattato teologico-politico (1670)

lingua originale: latino

edizione di riferimento: C. Gerhardt, Opera, Heidelberg, 1925

tr. it. A. Dini, Mondadori, Milano, 2001

tema: l’empietà della credenza nei miracoli

genere letterario: esegesi biblica

CAPITOLO VI: Dei miracoli (inzio)

Così come si sono abituati a chiamare divina quella scienza che supera la capacità umana, allo

stesso modo gli uomini si sono abituati a chiamare divino, cioè opera di Dio, un fatto la cui causa è

sconosciuta al volgo.

Il volgo, infatti, ritiene che la potenza e la provvidenza di Dio risultino nella maniera più chiara

quando vede accadere in natura qualcosa di insolito e in contrasto con l’opinione che egli per

consuetudine ha della natura, soprattutto se ciò sia riuscito a suo guadagno o vantaggio. E da

nessuna cosa gli uomini del volgo ritengono si possa dimostrare più chiaramente l’esistenza di Dio

se non da questo: che la natura, come ritengono, non conservi il proprio ordine. E perciò il volgo

crede che tolgano di mezzo Dio, o almeno la sua provvidenza, tutti coloro i quali spiegano, o

cercano di intendere, le cose e i miracoli per mezzo di cause naturali: il volgo ritiene cioè che Dio

non faccia niente fintantoché la natura agisce secondo il solito ordine, e, al contrario, che la potenza

della natura e le cause naturali restino oziose fintantoché Dio agisce.

Gli uomini immaginano dunque due potenze numericamente distinte l’una dall’altra, cioè la

potenza di Dio e la potenza delle cose naturali, sebbene questa sia in un certo modo determinata o

(come oggi la maggior parte preferisce ritenere) creata da Dio. Che cosa poi intendano per l’una e

l’altra potenza, e che cosa per Dio e natura, lo ignorano del tutto, a meno che non immaginino la

potenza di Dio come il potere di qualche maestà regia e quella della natura come forza e impulso.

Il volgo, dunque, chiama «miracoli», ossia opere di Dio, i fatti insoliti della natura, e, un po’ per

devozione, un po’ per la voglia di contrastare coloro che coltivano le scienze naturali, desidera non

conoscere le cause naturali delle cose, e arde dal desiderio di sentir parlare soltanto di quelle cose

che soprattutto ignora e che, perciò, soprattutto ammira. Ciò è evidente, perché in nessun altro

modo, se non togliendo le cause naturali e immaginando le cose fuori dell’ordine naturale, il volgo

può adorare Dio e riferire tutte le cose al suo potere e alla sua volontà, e non ammira la potenza di

Dio se non in quanto immagina la potenza della natura come sottomessa a Dio.

Spinoza, Trattato teologico-politico

139

Ciò sembra abbia tratto origine dai primi giudei, i quali, per convincere i pagani del loro tempo

che adoravano divinità visibili – vale a dire il sole, la luna, la terra, l’acqua, l’aria ecc. –, e per

mostrare loro che quelle divinità I erano deboli e instabili, ossia mutevoli, e soggette al potere del

Dio invisibile, raccontavano i propri miracoli, con i quali si sforzavano inoltre di mostrare che tutta

la natura era diretta dal potere del Dio che essi adoravano a loro esclusivo vantaggio. E ciò riuscì

tanto gradito agli uomini che fino ai nostri giorni costoro non hanno cessato di fingere miracoli per

farsi credere più graditi a Dio degli altri e causa finale per la quale Dio ha creato e continua a

dirigere tutte le cose.

Che cosa il volgo, nella sua stoltezza, non attribuisce a sé, dato che non ha un retto concetto né di

Dio né della natura, confonde i voleri di Dio con i voleri degli uomini e, infine, immagina la natura

limitata fino al punto di credere che l’uomo sia la parte più importante di essa!

Con queste cose ho esposto abbastanza ampiamente le opinioni e i pregiudizi del volgo riguardo

alla natura e ai miracoli. Tuttavia, per trattare con ordine l’argomento, mostrerò che:

1. Niente accade contro la natura, ma questa conserva in eterno un ordine fisso e immutabile; e,

insieme, mostrerò che cosa si debba intendere per «miracolo».

2. Per mezzo dei miracoli noi non possiamo conoscere né l’essenza né l’esistenza di Dio e, di

conseguenza, nemmeno la sua provvidenza, ma tutte queste cose possono essere percepite assai

meglio dall’ordine fisso e immutabile della natura.

3. Sulla base di alcuni esempi tratti dalla Scrittura, mostrerò che la stessa Scrittura per «decreti e

volizioni» di Dio, e di conseguenza per «provvidenza», non intende altro che l’ordine stesso della

natura, il quale segue necessariamente dalle leggi eterne di Dio.

4. Infine, tratterò del modo di interpretare i miracoli della Scrittura e delle cose che

principalmente devono essere notate circa le narrazioni dei miracoli.

Queste sono le cose principali che esporrò nel presente capitolo, e che ritengo siano di non poca

utilità per l’obiettivo a cui mira quest’opera nel suo complesso.

Quanto al primo punto, esso si dimostra facilmente da ciò che abbiamo esposto nel capitolo IV

riguardo alla legge divina, vale a dire: tutto ciò che Dio vuole — ovvero determina – implica eterna

verità e necessità.

Dal fatto che l’intelletto di Dio non si distingue dalla sua volontà, infatti, abbiamo mostrato che

dire: Dio vuole qualcosa, e dire: Dio intende questa stessa cosa, sono due affermazioni identiche.

Perciò, con la stessa necessità con la quale dalla natura e dalla perfezione divina segue che Dio

intende una cosa come essa è, da quella medesima natura e perfezione segue che Dio vuole quella

Spinoza, Trattato teologico-politico

140

stessa cosa come essa è. E poiché niente è necessariamente vero se non per il solo decreto divino, ne

segue nella maniera più chiara che le leggi universali della natura I non sono se non decreti di 83

Dio che seguono dalla necessità e dalla perfezione della natura divina.

Se dunque in natura avvenisse qualcosa che ripugna alle sue leggi universali, ciò ripugnerebbe

necessariamente al decreto, all’intelletto e alla natura di Dio; ovvero, se qualcuno affermasse che

Dio opera qualcosa contro le leggi della natura, costui sarebbe, insieme, costretto ad affermare pure

che Dio agisce contro la propria natura, – cosa della quale niente è più assurdo.

La medesima cosa potrebbe essere facilmente dimostrata anche dal fatto che la potenza della

natura è la stessa potenza e virtù di Dio, e che la potenza divina, d’altra parte, coincide con

l’essenza stessa di Dio; ma per ora preferisco tralasciare questo argomento.

Niente accade dunque in natura che ripugni alle sue leggi universali; ma neppure niente che non

convenga con quelle leggi o non segua da esse: tutto ciò che avviene, infatti, avviene per la volontà

e l’eterno decreto di Dio, ossia, come abbiamo già mostrato, avviene secondo leggi e regole che

implicano eterna necessità e verità.

La natura, pertanto, osserva sempre leggi e regole che implicano eterna necessità e verità, anche

quando non ci siano tutte quante note, e osserva perciò un ordine fisso e immutabile.

E non c’è nessuna buona ragione per attribuire alla natura una potenza e una virtù limitata, e per

affermare che le sue leggi sono idonee a certe cose e non a tutte. Infatti, poiché la virtù e la potenza

della natura sono la stessa virtù e potenza di Dio, e poiché le leggi e le regole della natura sono gli

stessi decreti di Dio, si deve senz’altro ritenere che la potenza della natura sia infinita e che le sue

leggi siano talmente ampie da estendersi a tutte le cose concepite dallo stesso intelletto di Dio; se

così non è, infatti, non si stabilisce nient’altro se non che Dio ha creato una natura così impotente e

le ha dato leggi e regole così sterili da essere costretto a soccorrerla di nuovo più volte, se vuole che

essa sia conservata, e per fare in modo che le cose succedano come è desiderabile, – cosa che

giudico del tutto estranea alla ragione.

[1. Il miracolo è un fatto riferito da chi non sa spiegarsene la causa naturale]

Perciò da queste cose – cioè, in natura non accade niente che non segua dalle sue leggi; le sue leggi

si estendono a tutte le cose concepite dallo stesso intelletto di Dio; infine, la natura conserva un

ordine fisso e immutabile –, segue chiarissimamente che il nome «miracolo» non può essere inteso

se non rispetto alle opinioni degli uomini, e non significa nient’altro che un fatto del quale non

Spinoza, Trattato teologico-politico

141

possiamo 84 spiegare la causa naturale sull’esempio di un’altra cosa consueta, o almeno non può

spiegarla colui che scrive o racconta il miracolo.

Potrei dire, invero, che miracolo è ciò la cui causa non può essere spiegata sulla base dei princìpi

delle cose naturali noti con il lume naturale. Ma, poiché i miracoli avvennero rispetto alla capacità

del volgo, il quale ignorava completamente i principi delle cose naturali, è certo che gli antichi

ritennero miracolo ciò che non potevano spiegare nel modo in cui il volgo è solito spiegare le cose

naturali, ricorrendo cioè alla memoria, al fine di ricordarsi di un altro fatto simile che è solito

immaginare senza ammirazione; il volgo ritiene infatti di intendere sufficientemente qualcosa solo

quando non la ammira. Gli antichi quindi, e quasi tutti fino ad oggi, non hanno avuto altra norma

del miracolo all’infuori di questa.

Perciò non c’è dubbio che nella Sacra Scrittura siano narrati come miracoli molti fatti le cui

cause possono essere facilmente spiegate sulla base dei principi noti delle cose naturali, come già

accennato nel capitolo II, quando abbiamo parlato dell’arresto del sole al tempo di Giosuè e della

sua retrocessione al tempo di Achaz. Ma di questo tratterò più a lungo tra poco, cioè quando mi

occuperò dell’interpretazione dei miracoli, che ho promesso di trattare nel presente capitolo.

[2. È l’ordine fisso e immutabile della natura, e non l’evento miracoloso, a consentire all’uomo di

conoscere l’essenza, l’esistenza e la provvidenza di Dio]

Qui è ormai tempo che io passi al secondo punto, cioè a mostrare che dai miracoli noi non possiamo

intendere né l’essenza né l’esistenza né la provvidenza di Dio, ma, al contrario, queste cose possono

essere percepite assai meglio dall’ordine fisso e immutabile della natura. Per dimostrarlo, procedo

nel modo seguente.

Poiché l’esistenza di Dio non è nota per sé, essa deve essere conclusa necessariamente da

nozioni la cui verità è così salda e indiscutibile da non potersi dare né concepire alcuna potenza

dalla quale possano essere mutate. Così devono apparirci tali nozioni, almeno dal momento in cui

da esse abbiamo concluso l’esistenza di Dio, se da esse stesse vogliamo concludere tale esistenza

all’infuori di ogni rischio di dubbio: infatti, se potessimo concepire che quelle stesse nozioni

possono essere mutate da una potenza, qualunque essa sia, allora dubiteremmo della loro verità e, di

conseguenza, anche della nostra conclusione, cioè dell’esistenza di Dio, e non potremo essere più

certi di nulla.

Inoltre, sappiamo che niente conviene con la natura o ripugna ad essa se non ciò che conviene

con questi principi o ripugna ad essi. Perciò, se potessimo concepire che in natura da una potenza

Spinoza, Trattato teologico-politico

142

(qualunque essa sia) può essere fatto qualcosa che ripugni alla natura, ciò ripugnerà altresì a queste

prime nozioni, e quindi deve essere respinto come assurdo, oppure si deve dubitare delle prime

nozioni (come abbiamo or ora mostrato) e, di conseguenza, di Dio e di tutte le cose percepite in

qualsiasi modo.

Dunque, i miracoli, in quanto per essi intendiamo fatti che ripugnano all’ordine della natura,

sono ben lontani dal mostrarci l’esistenza di Dio, e ci fanno invece dubitare di essa, mentre senza i

miracoli possiamo esserne certi in assoluto, una volta saputo che tutte le cose della natura seguono

un ordine fisso e immutabile.

Ma poniamo che sia miracolo ciò che non può essere spiegato per mezzo di cause naturali. Cíò lo

si può intendere in due modi: o che esso ha cause naturali, le quali tuttavia non possono essere

ricercate dall’intelletto umano; oppure che non ammette nessuna causa all’infuori di Dio, ossia della

volontà di Dio. Ora, poiché tutte le cose che avvengono per cause naturali avvengono pure per la

sola potenza e volontà di Dio, bisogna infine necessariamente giungere a questo: il miracolo, abbia

o no cause naturali, è un fatto che non può essere spiegato per mezzo della causa, cioè un fatto che

supera la capacità umana; ma da un fatto, e in assoluto da ciò che supera la nostra capacità, noi non

possiamo intendere nulla.

Tutto ciò che intendiamo in maniera chiara e distinta, infatti, deve essere a noi noto per sé oppure

per qualcos’altro che è inteso per sé in maniera chiara e distinta. Per la qual cosa, dal miracolo,

ossia da un fatto che supera la nostra capacità, noi non possiamo intendere né l’essenza né

l’esistenza di Dio, né in assoluto alcunché di Dio e della natura; mentre al contrario, sapendo che

tutte le cose sono determinate e stabilite da Dio, che le operazioni della natura seguono dall’essenza

di Dio, e che le leggi della natura sono decreti eterni e volizioni di Dio, bisogna senz’altro

concludere che noi tanto più conosciamo Dio e la sua volontà, quanto più conosciamo le cose

naturali e intendiamo chiaramente in che modo esse dipendono dalla loro prima causa e operano

secondo le leggi eterne della natura.

Perciò, in rapporto al nostro intelletto, i fatti che intendiamo in maniera chiara e distinta hanno di

gran lunga più diritto ad essere chiamati opere di Dio, e ad essere riferiti alla sua volontà, di quei

fatti che ignoriamo del tutto (per quanto questi riempiano completamente l’immaginazione e attirino

su di sé l’ammirazione rapita degli uomini), dal momento che soltanto quelle operazioni della

natura che intendiamo in maniera chiara e distinta danno una più elevata conoscenza di Dio e

mostrano nella maniera più chiara la volontà e i decreti di Dio. Vogliono dunque proprio scherzare

Spinoza, Trattato teologico-politico

143

coloro che, quando ignorano qualcosa, ricorrono alla volontà di Dio: un modo senz’altro ridicolo di

riconoscere la propria ignoranza.

D’altra parte, anche se potessimo trarre qualche conclusione dai miracoli, in nessun modo

potremmo concluderne l’esistenza di Dio. Infatti, poiché il miracolo è un fatto limitato e non

esprime mai se non una certa e limitata potenza, è certo che noi da tale effetto non possiamo

concludere l’esistenza di una causa la cui potenza sia infinita, ma al massimo l’esistenza di una

causa la cui potenza sia maggiore; – dico «al massimo» poiché da molte cause che concorrono

insieme può anche conseguire un fatto la cui forza e la cui potenza siano minori della potenza di

tutte le cause messe insieme, ma di gran lunga maggiore della potenza di ciascuna causa.

Invece le leggi della natura, poiché (come abbiamo già mostrato) si estendono a infinite cose e

sono da noi concepite sotto una certa specie di eternità, e poiché la natura, in conformità ad esse,

procede secondo un ordine certo ed immutabile, ci mostrano in qualche modo perfino l’infinità,

l’eternità e l’immutabilità di Dio.

Concludiamo dunque dicendo che noi, per mezzo dei miracoli, non possiamo conoscere

l’esistenza e la provvidenza di Dio, ma le concludiamo molto meglio dall’ordine fisso e immutabile

della natura.

In questa conclusione parlo del miracolo in quanto per esso non s’intende altro se non un fatto

che supera la capacità umana o si crede che la superi. Infatti, se si ammettesse che esso distrugge o

interrompe l’ordine della natura, oppure che ripugna alle sue leggi, allora non solo non potrebbe

darci alcuna conoscenza di Dio, ma ci toglierebbe addirittura quella che abbiamo naturalmente e ci

farebbe dubitare di Dio e di tutto.

Né io qui riconosco una qualche differenza tra un fatto contro la natura e un fatto sopra la natura

(il quale, come dicono alcuni, sarebbe un fatto che non ripugna alla natura, e che tuttavia non può

essere prodotto o reso effettivo da essa). Infatti, poiché il miracolo non avviene fuori della natura,

ma nella stessa natura, allora, per quanto lo si giudichi sopra la natura, è tuttavia necessario che

interrompa l’ordine della natura, che invece concepiamo fisso ed immutabile sulla base dei decreti

di Dio.

Se dunque in natura avvenisse qualcosa che non segue dalle sue leggi, ciò ripugnerebbe

necessariamente all’ordine che Dio ha stabilito I in eterno per mezzo delle leggi 87 universali della

natura, e sarebbe perciò contro la natura e le sue leggi, e, di conseguenza, ci farebbe dubitare di

tutto e ci porterebbe all’ateismo.

Spinoza, Trattato teologico-politico

144

E con questo ritengo di aver dimostrato con ragioni abbastanza valide ciò che mi proponevo al

secondo punto, per cui possiamo concludere di nuovo che il miracolo, sia esso contro la natura sia

esso sopra la natura, è una pura assurdità. E proprio per questo nella Sacra Scrittura per «miracolo»

non può essere inteso altro che un’opera della natura che, come abbiamo detto, supera o si crede

superi la capacità umana.

145

Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716)

Discorso di metafisica (1686)

lingua originale: francese

edizione di riferimento: C.I. Gerhardt,

Philosophischen Schriften (7 voll.) Berlino, 1875-90

tr. it. M. Mugnai, Laterza, Bari-Roma, 1986

tema: l’incoerenza dei miracoli

genere letterario: trattato articolato

6. Le volontà, o azioni, di Dio si sogliono dividere in ordinarie e straordinarie: ma è bene tener

presente che Dio non fa nulla fuori dell’ordine. Ciò che passa per straordinario, è tale solo rispetto a

qualche ordine particolare stabilito tra le creature; quanto all’ordine universale, tutto è conforme ad

esso. Ciò è tanto vero che, non soltanto nel mondo non capita nulla che sia assolutamente irregolare,

ma neppure ci si riesce a fingere qualcosa di simile. Supponiamo, ad esempio, che qualcuno segni

una quantità di punti sulla carta, del tutto a caso, come fanno coloro che esercitano la ridicola arte

della geomantica: affermo che è possibile trovare una linea geometrica, la cui nozione sia costante e

uniforme secondo una certa regola, in modo che detta linea passi attraverso tutti quei punti, e nello

stesso ordine in cui la mano li ha segnati. Se qualcuno tracciasse una linea continua che sia ora

dritta, ora curva, ora d’un’altra natura, è ancora possibile trovare una nozione o regola, o equazione

comune a tutti i punti di detta linea, in base alla quale proprio quei mutamenti si debbono verificare.

E non c’è volto il cui contorno non faccia parte di una linea geometrica, e non possa essere tracciato

d’un sol tratto con un certo movimento secondo una regola. Ma quando una regola è molto

complessa, ciò che le è conforme è creduto irregolare. Così possiamo dire che in qualsiasi modo

Dio avesse creato il mondo, questo sarebbe sempre stato regolare, e racchiuso in un certo ordine

generale. Ma Dio ha scelto il più perfetto, cioè quello che è, al tempo stesso, più semplice quanto a

ipotesi, e più ricco dí fenomeni: come potrebbe essere una linea geometrica la cui costruzione sia

facile, e le cui proprietà ed effetti molto interessanti ed estesi. Mi servo di questi paragoni per dare

uno schizzo imperfetto della saggezza divina, tale che possa almeno elevare il nostro spirito a

concepire in qualche modo ciò che non si può esprimere sufficientemente: ma con ciò non pretendo

di spiegare questo grande mistero da cui dipende tutto l’universo.

Leibniz, Discorso di metafisica

146

7. Poiché dunque non si può fare nulla che non sia nell’ordine, possiamo dire che anche i miracoli

non sono meno nell’ordine che le operazioni naturali, chiamate cosi perché conformi a talune regole

subordinate, che chiamiamo natura delle cose. Di questa natura si può dire che non è altro che

un’abitudine di Dio, di cui egli si può dispensare in vista di una ragione più forte di quella che l’ha

spinto a servirsi di quelle regole. Quanto al carattere generale o particolare della volontà, si può

dire, a seconda di come consideri la cosa, che Dio fa tutto secondo la sua volontà più generale, che è

conforme all’ordine perfettissimo da Lui scelto, oppure anche che Egli ha volontà particolari, che

sono eccezioni a quelle regole subordinate di cui si è detto: perché la più generale de leggi di Dio,

che regola il tutto dell’universo, non soffre eccezioni. Sí può dire, anche, che Dio vuole tutto ciò

che è oggetto della sua volontà particolare, quanto invece agli oggetti della sua volontà generale

quali le azioni delle altre creature, e particolarmente, di quelle ragionevoli, a cui Dio vuole

cooperare, occorre distinguere: se l’azione è buona in se stessa, si può dire che Dio la vuole e la

comanda comunque, che quando essa non si verifichi; ma se essa è cattiva in se stessa, e non

diviene buona che per accidente (perché il seguito degli avvenimenti, e in particolare, il castigo e il

premio, correggono la sua malvagità e ne compensano il male a usura, per cui alla fine si trova

maggiore perfezione nell’insieme che se tutto quel male non fosse accaduto) allora si deve dire che

Dio la permette, non che la vuole, nonostante che vi cooperi attraverso le leggi di natura che ha

stabilite, e in quanto sa trarne un bene maggiore.

147

Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716)

Nuovi saggi (1703-5)

lingua originale: francese

edizione di riferimento: C.I. Gerhardt,

Philosophischen Schriften (7 voll.) Berlino, 1875-90

tr. it. M. Mugnai, Editori Riuniti, Roma, 1982

tema: la nozione di identità

genere letterario: dialogo-commentario

Libro II, capitolo xxvii: Che cos’è identità o diversità

§ 1. FILALETE1. « Un’idea relativa delle piú importanti è quella dell’identità o della diversità. Noi

non troviamo mai, e neppure possiamo concepire che sia possibile, che due cose della medesima

specie esistano nel medesimo tempo nel medesimo luogo. È per questo chequando domandiamo

se una cosa è la medesima o no, ci riferiamo ‘sempre a una cosa che in un dato tempo esiste in

un dato luogo. Dal che deriva che una cosa non può avere due cominciamenti di esistenza, né

due cose un solo cominciamento, in rapporto al tempo e al luogo. »

TEOFILO. Bisogna sempre che, oltre la differenza del tempo e del luogo, vi sia un principio interno

di distinzione, e nonostante vi siano molte cose della medesima specie, è tuttavia vero che non ve

ne sono mai di perfettamente simili. Cosí, benché il tempo e il luogo (vale a dire il rapporto a ciò

che è esterno) ci servano a distinguere le cose che non distinguiamo bene per se medesime, le

cose non cessano di essere distinguibili in se stesse. La determinazione dell’identità e della

diversità non consiste dunque nel tempo e nel luogo, benché sia vero che la diversità delle cose è

accompagnata da quella del tempo o del luogo, poiché essi portano seco differenti impressioni

sulla cosa. Per non dire che è piuttosto mediante le cose che occorre discernere un luogo o un

tempo dall’altro: poiché di per sé questi ultimi sono perfettamente simili, ma non sono certo

sostanze o realtà complete. La maniera di distinguere che voi sembrate proporre qui come unica

nelle cose della medesima specie, è fondata sul presupposto che la compenetrabilità non è

conforme alla natura. Una tale supposizione è ragionevole, ma l’esperienza medesima fa vedere

che non vi si resta affatto legati, quando si tratta di distinzione. Vediamo, per esempio, due

ombre o due raggi di luce, che si penetrano, e potremmo inventarci un mondo immaginario in cui

1 Il nome ‘Filalete’ significa in greco ‘colui che ama la dimenticanza’, e la figura rappresenta il filosofo inglese JohnLocke (1632-1704), il cui Saggio sull’intendimento umano (1690) fornisce le citazioni che costituiscono l’oggetto dellacritica da parte di Teofilo (‘colui che ama Dio’), che fa da portavoce per Leibniz. I capitoli dei Nuovi saggi leibnizianiseguono pari passo quelli del Saggio e ne costiuiscono una sorta di commentario [nota di Davies].

Leibniz, Nuovi saggi

148

i corpi facessero lo stesso. Con ciò tuttavia non tralasciamo di distinguere un raggio dall’altro

mediante il loro percorso, anche quando si incrociano.

§ 3. FILALETE. « Ciò che si chiama principio di individuazione nelle Scuole, ove ci si tormenta

tanto per saper cosa sia, consiste nell’esistenza medesima, che fissa ciascun essere a un tempo

particolare e a un luogo incomunicabile a due esseri della medesima specie. »

TEOFILO. Il principio di individuazione si riconduce negli individui al principio dí distinzione di

cui ho parlato adesso. Se due individui fossero perfettamente simili ed eguali e (in una parola)

indistinguibili di per sé, non vi sarebbe principio di individuazione; e addirittura oso dire che a

tale condizione non ví sarebbero affatto né distinzione individuale né differenti individui. È per

questo che la nozione degli atomi è chimerica e non deriva se non dalle concezioni incomplete

degli uomini. Poiché, se vi fossero atomi, vale a dire corpi perfettamente duri e perfettamente

inalterabili o incapaci di mutamento interno, che non potessero differire tra loro se non per

grandezza e figura, è chiaro che allora, potendo avere la medesima figura e grandezza, ve ne

sarebbero di indistinguibili in sé i quali potrebbero essere distinti solo mediante denominazioni

esteriori senza fondamento interno: questo però è contro i piú grandi principi della ragione. Ma

la verità è che ogni corpo è alterabile e che è sempre alterato attualmente, in modo che differisce

in sé stesso da ogni altro. Mi ricordo che una grande principessa dotata di uno spirito sublime,

disse un giorno, passeggiando nel suo giardino, di non credere che vi fossero due foglie

perfettamente simili. Un gentiluomo di spirito che prendeva parte alla passeggiata, credette fosse

facile trovarne: ma benché cercasse molto, fu convinto dai suoi occhi che vi si poteva sempre

osservare qualche differenza. Si vede da queste considerazioni, trascurate finora, quanto nella

filosofia ci si è allontanati dalle nozioni piú naturali, e quanto ci si è allontanati dai grandi

principi della vera metafisica.

§ 4. FILALETE. « Ciò che costituisce l’unità (identità) di una medesima pianta è l’avere una tale

organizzazione delle parti in un solo corpo che partecipa a una vita comune, la quale dura finché

la pianta sussiste, nonostante che essa muti nelle sue parti. »

TEOFILO. L’organizzazione o configurazione priva di un principio di vita sussistente da me

chiamato monade, non basterebbe per far rimanere idem numero, o il medesimo, un individuo.

La configurazione infatti può rimanere specificamente, senza restare individualmente: quando un

ferro di cavallo si muta in rame in una speciale acqua minerale d’Ungheria, rimane la medesima

figura in specie, ma non la medesima in individuo. Infatti il ferro si scioglie e il rame, di cui

l’acqua è impregnata, precipita, e si mette impercettibilmente al suo posto: ora, la figura è un

Leibniz, Nuovi saggi

149

accidente che non passa da un soggetto all’altro (de subjecto in subjectum). Cosí bisogna dire

che i corpi organizzati, altrettanto bene di altri corpi, non restano i medesimi che in apparenza, e

non a rigor di termini. È all’incirca come un fiume che cambia sempre acqua, o come la nave di

Teseo che gli Ateniesi riparavano sempre. Ma quanto alle sostanze che hanno in se stesse una

vera e reale unità sostanziale alla quale possono appartenere le azioni vitali propriamente dette; e

quanto agli esseri sostanziali, quae uno spiritu continentur, come si esprime un antico

giureconsulto, che cioè sono animati da un certo spirito indivisibile, si ha ragione di dire che

rimangono perfettamente il medesimo individuo in virtú di quell’anima o spirito che costituisce

l’io in coloro che pensano.

§ 5. FILALETE. « Il caso non è molto differente nei bruti » e nelle piante.

TEOFILO. Se i vegetali e i bruti non hanno anima, la loro identità non è che apparente, ma se ce

l’hanno, l’identità individuale ce l’hanno davvero in senso rigoroso, benché i loro corpi

organizzati non la conservino.

§ 6. FILALETE. « Ciò mostra ulteriormente in cosa consista l’identità del medesimo uomo, vale a

dire in questo solo: che egli gode della medesima vita, continuata da particelle di materia che

sono in un flusso perpetuo, ma che in questa successione sono vitalmente unite al medesimo

corpo organizzato ».

TEOFILO. Ciò si può intendere anche secondo il mio punto di vista. In effetti il corpo organizzato

non è il medesimo al di là di un momento: esso non è che equivalente. E se non ci si riferisce

all’anima, non si avrà piú la medesima vita né unione vitale. Cosí tale identità non sarebbe che

apparente.

FILALETE. « Chiunque connetterà l’identità dell’uomo a qualche altra cosa che non sia un corpo

ben organizzato in un certo istante, e che da allora continui in questa organizzazione vitale

mediante una successione di diverse particelle di materia che sono unite ad esso, avrà difficoltà a

far sí che un embrione e un uomo adulto, un folle e un saggio, siano il medesimo uomo senza che

consegua da tale supposizione che è possibile che Seth, Ismaele, Socrate, Pilato, Sant’Agostino

siano un solo e medesimo uomo. La qual cosa si accorderebbe ancora peggio con le nozioni di

quei filosofi che riconoscono la trasmigrazione, e credono che le anime degli uomini possano

essere immesse, per punire la loro dissolutezza, in corpi di bestie. Poiché credo che nessuno che

fosse certo che l’anima di Eliogabalo fosse stata in un porco vorrebbe dire che un tale porco era

un uomo e il medesimo uomo che Eliogabalo. »

Leibniz, Nuovi saggi

150

TEOFILO. Vi è qui una questione concernente il nome e una questione concernente la cosa. Quanto

alla cosa, l’identità di una medesima sostanza individuale non può essere mantenuta che

mediante la conservazione della medesima anima, poiché il corpo è in un flusso continuo e

l’anima non abita ín certi atomi a lei destinati, né come il Luz dei rabbini in un piccolo osso non

flessibile. Tuttavia non vi è trasmigrazione per la quale l’anima lasci interamente il proprio corpo

e passi in un altro. Essa conserva sempre, anche nella morte, un corpo organizzato, parte del

precedente, benché ciò che essa conserva sia sempre soggetto a dissiparsi impercettibilmente e a

ricostituirsi, e anche a subire in certo tempo un grande mutamento. Cosí, invece di una

trasmigrazione dell’anima, si ha trasformazione, involuzione o sviluppo e infine flusso del corpo

di tale anima. Van Helmont figlio credeva che le anime passassero di corpo in corpo, ma sempre

nella loro specie, in modo da lasciar sempre inalterato il medesimo numero di anime di una

medesima specie, e di conseguenza il medesimo numero di uomini e di lupi; e che i lupi, se

fossero stati diminuiti e estirpati in Inghilterra, avrebbero dovuto aumentare in misura

corrispondente in altro luogo. Certe meditazioni pubblicate in Francia sembravano arrivare

ugualmente a questo. Se la trasmigrazione non è presa in senso rigoroso, vale a dire se qualcuno

credesse che le anime, rimanendo nel medesimo corpo sottile, mutano solamente il corpo piú

grosso, essa sarebbe possibile anche col passaggio della medesima anima in un corpo di

differente specie, secondo il parere dei bramini e dei pitagorici. Ma tutto ciò che è possibile, non

per questo è conforme all’ordine, delle cose. Nondimeno, ammesso che Caino, Cam e Ismaele

avessero tutti, come credono i rabbini, la medesima anima (qualora una tale trasmigrazione fosse

vera), la questione se meriterebbero di esser detti il medesimo uomo non concerne che il nome. E

ho visto che il celebre autore di cui avete sostenuto le opinioni lo riconosce e lo spiega molto

bene. L’identità di sostanza vi sarebbe, ma qualora non vi fosse alcuna connessione di ricordo tra

i differenti personaggi cui darebbe luogo la medesima anima, non vi sarebbe sufficiente identità

morale per dire che si tratterebbe di una medesima persona. E se Dio volesse che l’anima umana

finisse nel corpo di un porco dimenticando l’uomo e non esercitando alcun atto razionale, essa

non costituirebbe un uomo. Ma se nel corpo della bestia avesse ancora i pensieri di un uomo, e

addirittura dell’uomo che animava prima del mutamento, come l’asino d’oro di Apuleio,

qualcuno forse non incontrerebbe difficoltà nel dire che il medesimo Lucio venuto in Tessaglia

per vedere i suoi amici, rimase sotto la pelle dell’asino, dove Fotide l’aveva messo suo malgrado,

e passò di padrone in padrone, finché le rose mangiate gli resero la sua forma naturale.

Leibniz, Nuovi saggi

151

§ 8. FILALETE. « Credo di poter affermare arditamente che chi di noi vedesse una creatura, fatta e

formata come lui stesso, anche se non avesse mai fatto trasparire maggior ragione di un gatto o

di un pappagallo, non esiterebbe a chiamarla uomo. Oppure, se intendesse un pappagallo

discorrere razionalmente e da filosofo, non lo ‘chiamerebbe o non lo crederebbe che pappagallo,

e direbbe del primo di questi animali che è un uomo rozzo, stupido e privo di ragione, e

dell’ultimo che è un pappagallo pieno di spirito e di buon senso. »

TEOFILO. Sarei piú d’accordo sul secondo punto che sul primo, benché vi sia ancora qualcosa da

dire a questo proposito. Pochi teologi sarebbero abbastanza audaci da concludere subito e

assolutamente a favore del battesimo di un animale che avesse figura umana, ma senza

apparenza di ragione, se lo si prendesse da piccolo in un bosco. E qualche prete della Chiesa

romana direbbe forse condizionalmente: se sei uomo, io ti battezzo, poiché non si saprebbe se

fosse di razza umana, e se un’anima razionale albergasse in lui. Potrebbe essere infatti un orang-

outang, scimmia assai vicina all’uomo nell’aspetto esteriore, come quella di cui ci parla Tulpius

per averla vista, e quella di cui un dotto medico ha pubblicato l’anatomia. È certo (lo riconosco)

che l’uomo può diventare tanto stupido quanto un orang-outang, ma l’intimo dell’anima

razionale vi rimarrebbe, nonostante la sospensione dell’esercizio della ragione, come ho spiegato

piú sopra: e pertanto è questo il punto del quale non si potrebbe giudicare secondo le apparenze.

Quanto al secondo caso, niente impedisce che vi siano animali ragionevoli di una specie

differente dalla nostra, come quegli abitanti del poetico regno degli uccelli del Sole, dove un

pappagallo venuto da questo mondo dopo la morte, salvò la vita al viaggiatore che gli aveva fatto

del bene qui sulla Terra. Nondimeno, se accadesse, come accade nel paese delle fate o di Ma

mère l’oie, che un pappagallo fosse qualche figlia di re trasformata, e si facesse riconoscere per

tale parlando, senza dubbio il padre e la madre la carezzerebbero come loro figlia, che essi

penserebbero di avere sotto una tale strana forma. Non mi opporrei pertanto a chi dicesse che

nell’asino d’oro è rimasto vuoi l’io o l’individuo, a causa del medesimo spirito immateriale, vuoi

Lucio o la persona, a causa dell’appercezione di tale io, senza però che sia piú un uomo; sembra

in effetti che sia necessario aggiungere alla definizione dell’uomo qualcosa riguardo alla figura e

costituzione del corpo, quando si dice che è un animale razionale, altrimenti i geni, secondo il

mio modo di vedere, sarebbero anch’essi uomini.

§ 9. FILALETE. « La parola persona comporta un essere pensante e intelligente capace di ragione e

di riflessione, che può considerare se stesso come il medesimo, come una medesima cosa che

pensa in tempi differenti e in luoghi differenti; cosa che egli fa unicamente in virtú del senso che

Leibniz, Nuovi saggi

152

ha delle proprie azioni. E tale conoscenza accompagna sempre le nostre sensazioni e le nostre

percezioni presenti » quando sono sufficientemente distinte, come ho notato piú d’una volta piú

sopra. « Ed è per mezzo di ciò che ciascuno è per se stesso quello che chiama se stesso. Non si

considera, in questo caso, se il medesimo io è continuato nella medesima sostanza o in diverse

sostanze, poiché, dal momento che la coscienza (consciousness, consciosité) accompagna sempre

il pensiero, ed è proprio ciò a far sí che ciascuno sia quello che egli chiama se stesso e per cui si

distingue da ogni altra cosa pensante, è dunque soltanto in ciò che consiste l’identità personale,

ossia ciò che fa sí che un essere razionale sia sempre il medesimo. E quanto lontano può

estendersi questa coscienza sulle azioni o sui pensieri già passati, altrettanto lontano si estende

l’identità di tale persona, e l’io è nel presente il medesimo di allora ».

TEOFILO. Sono anch’io dell’opinione che la consciosità o il sentimento dell’io sia prova di

un’identità morale o personale. Ed è a questo proposito che distinguo l’incessabilità dell’anima

di una bestia, dall’immortalità dell’anima dell’uomo: sia l’una che l’altra concernono l’identità

fisica e reale, ma per quello che concerne l’uomo è conforme alle regole della divina

provvidenza che l’anima conservi anche l’identità morale e che sia manifesta a noi stessi per

costituire la medesima persona capace, di conseguenza, di sentire i castighi e le ricompense.

Sembra però che riteniate, signore, che questa identità manifesta si possa conservare

quand’anche non ve ne fosse una reale. Credo che ciò possa avvenire forse in virtú della potenza

assoluta di Dio, ma secondo l’ordine delle cose l’identità che è manifesta alla persona che si

sente la medesima, presuppone l’identità reale a ogni passaggio prossimo accompagnato da

riflessione o da sentimento dell’io, poiché una percezione intima e immediata non può ingannare

naturalmente. Se l’uomo non potesse essere che una macchina e avere ciononostante della

consciosità, bisognerebbe essere del vostro parere, signore; ma ritengo che un tal caso non sia

possibile, almeno secondo l’ordine naturale. D’altro canto non vorrei neppur dire che l’identità

personale e anche l’io non rimangano in noi, e che io non sono lo stesso me di quando ero in

culla, col pretesto che non ricordo piú niente di quel che ho fatto allora. Per trovare dí per se

stessi l’identità morale è sufficiente vi sia un legame medio di consciosità tra uno stato vicino, o

anche un po’ lontano, e un altro, quando ví si mescoli qualche salto o intervallo dimenticato.

Cosí, se una malattia avesse interrotto la continuità del legame di consciosità, in modo che io non

sapessi come fossi giunto nello stato presente, nonostante mi ricordassi delle cose piú lontane, la

testimonianza degli altri potrebbe riempire il vuoto della mia coscienza. Sulla base di tale

testimonianza mi si potrebbe anche punire, se arrivassi a far qualcosa di male deliberatamente, in

Leibniz, Nuovi saggi

153

un intervallo di tempo del quale poi mi dimenticassi subito, a causa della malattia. E se arrivassi

a dimenticare tutte le cose passate, sarei costretto a farmi insegnare di nuovo perfino il mio

nome, e perfino a leggere e scrivere. In tal caso potrei sempre apprendere dagli altri la vita

passata nel precedente stato, cosí come avrei conservato i miei diritti, senza che fosse necessario

dividermi in due persone, e farmi erede di me stesso. Tutto ciò è sufficiente per mantenere

l’identità morale che fa la medesima persona. È vero che se gli altri si mettessero d’accordo per

ingannarmi (allo stesso modo che potrei venire ingannato da me stesso, mediante qualche

visione, sogno o malattia, credendo che ciò che ho sognato mi sia accaduto), l’apparenza sarebbe

falsa; ma vi sono casi in cui sulla base della testimonianza altrui si può essere moralmente certi

della verità: e rispetto a Dio, il cui legame di società con noi costituisce il punto principale della

moralità, l’errore non potrebbe aver luogo. Per ciò che riguarda il sé, sarà bene distinguerlo

dall’apparenza del sé e dalla consciosità. Il sé fa l’identità reale e fisica, e l’apparenza di sé,

accompagnata dalla verità, vi aggiunge l’identità personale. Cosi, non volendo dire che l’identità

personale non si estende piú lontano del ricordo, dirò ancor meno che il sé o l’identità fisica ne

dipende. L’identità reale e personale si prova nel modo piú certo possibile in materia di fatto,

mediante la riflessione presente e immediata. Essa si prova sufficientemente, di solito, mediante

il nostro ricordo dell’intervallo, o mediante la testimonianza concorde degli altri. Ma se Dio

cambiasse in maniera extra-ordinaria l’identità reale, quella personale rimarrebbe, purché l’uomo

conservasse le apparenze di identità sia interne (vale a dire la coscienza) sia esterne, come quelle

che consistono in ciò che appare agli altri. Cosí la coscienza non è il solo mezzo per costituire

l’identità personale; e il giudizio altrui, oppure altri segni, possono supplirvi: ma vi è difficoltà se

si trova qualche contraddizione tra queste diverse apparenze. La coscienza può tacere come

nell’oblio, ma se dicesse chiaramente cose contrarie alle altre apparenze, si sarebbe imbarazzati

nella decisione, e come sospesi talvolta fra due possibilità: quella dell’errore del nostro ricordo, e

quella di qualche inganno nelle apparenze esterne.

154

Jean-Jacques Rousseau (1712-78)

Discorso sull’origine della disuguaglianza (1755)

lingua originale: francese

edizione di riferimento: G.Gagnebin, M. Raymond,

Œuvres complètes, Gallimard, Parigi, (1959-95)

tr. it. F. Di Risio, La Ginestra, L’Aquila, 2001

tema: la condizione presociale dell’uomo

genere letterario: saggio in concorso

DISCORSO SULL’ORIGINE ED I FONDAMENTI DELLA DISUGUAGLIANZA TRA GLI

UOMINI.

È dell’uomo che devo parlare, e l’argomento che sto per esaminare m’insegna che io parlerò ad

uomini, perché non ci se ne propongono di simili quando si teme di onorare la verità. Difenderò

quindi con fiducia la causa dell’umanità davanti ai dotti uomini che m’invitano a farlo, e non sarò

scontento di me stesso se mi renderò degno dell’argomento e dei miei giudici. Io concepisco nella

specie umana due generi di disuguaglianza; l’una che chiamo naturale o fisica, perché è stabilita

dalla natura, e che consiste nella differenza d’età, delle condizioni di salute, delle forze del corpo e

delle qualità dello spirito o dell’anima, l’altra che si può chiamare disuguaglianza morale o politica,

perché dipende da una specie di convenzione, e che è stabilita, o almeno autorizzata, dal consenso

degli uomini. Questa consiste nei diversi privilegi, di cui alcuni godono, a danno degli altri, come

l’essere più ricchi, più onorati, più potenti di loro, o anche capaci di farsi obbedire. Non si può

chiedere quale sia l’origine della diseguaglianza naturale, perché la risposta si troverebbe esposta

nella semplice definizione del termine. Ancor meno si può cercare se non ci sia qualche legame

essenziale tra le due diseguaglianze; perché questo sarebbe chiedere, in altre parole, se quelli che

comandano valgano necessariamente di più di quelli che obbediscono, e se la forza del corpo o

dello spirito, la saggezza, o la virtù si trovino sempre negli stessi individui, in proporzione della

potenza o della ricchezza; questione adatta forse ad essere dibattuta tra schiavi ascoltati dai loro

padroni, ma che non si addice ad uomini ragionevoli e liberi che cercano la verità.

Di che cosa si tratta dunque esattamente in questo Discorso? Di rilevare nel progresso delle cose

il momento in cui, succedendo il diritto alla violenza, la natura fu sottomessa alla legge; di spiegare

per quale susseguirsi di prodigi il forte potè risolversi a servire il debole, ed il popolo a comprarsi

una pace fittizia, al prezzo di una felicità reale. I filosofi che hanno esaminato i fondamenti della

Rousseau, Disuguaglianza

155

società hanno tutti sentito la necessità di risalirvi fino allo stato di natura, ma nessuno di essi vi è

arrivato. Gli uni non hanno esitato a supporre nell’uomo in tale stato la nozione del giusto e

dell’ingiusto, senza curarsi di mostrare che egli dovesse avere questa nozione e neppure che essa gli

fosse utile. Altri hanno parlato del diritto naturale che ciascuno ha di conservare quello che gli

appartiene, senza spiegare ciò che intendevano per appartenere; altri, col dare dapprima al più forte

l’autorità sul più debole, hanno fatto nascere immediatamente il governo, senza pensare al tempo

che dovette trascorrere prima che il senso dei termini di autorità e governo potesse esistere tra gli

uomini. Infine tutti, parlando continuamente di bisogno, di avidità, di oppressione, di desideri e

d’orgoglio, hanno trasportato nello stato di natura quelle idee che avevano recepite nella società.

Parlavano dell’uomo selvaggio e descrivevano l’uomo civile. Non è nemmeno venuto in mente alla

maggior parte dei nostri di dubitare che lo stato di natura fosse esistito, mentre è evidente, dalla

lettura dei Libri Sacri, che il primo uomo, avendo ricevuto direttamente da Dio lumi e precetti, non

era lui stesso in questo stato, e che, aggiungendo agli scritti di Mosè la fede, a loro dovuta da ogni

filosofo cristiano, bisogna negare che, anche prima del diluvio, gli uomini si siano trovati mai nel

puro stato di natura, a meno che non vi siano ricaduti per qualche evento straordinario. Paradosso

molto difficile da difendere e completamente impossibile da provare. Cominciamo dunque con lo

scartare tutti i fatti, perché essi non riguardano la questione. Non bisogna considerare le ricerche, in

cui ci si può trovare riguardo a questo argomento, per delle verità storiche, ma soltanto per dei

ragionamenti ipotetici e condizionali, più adatti a chiarirci la natura delle cose che a mostrarcene la

vera origine, e simili a quelli che i nostri fisici fanno tutti i giorni sulla formazione del mondo. La

religione ci ordina di credere che, avendo Dio stesso tratto gli uomini dallo stato di natura,

immediatamente dopo la creazione, essi sono disuguali perché Egli ha voluto che lo fossero; ma non

ci impedisce di formulare delle ipotesi tratte dalla sola natura dell’uomo e degli esseri che lo

circondano su quello che avrebbe potuto diventare il genere umano, se fosse rimasto abbandonato a

se stesso. Ecco ciò che mi si domanda e che io mi propongo di esaminare in questo Discorso. Dal

momento che il mio argomento riguarda l’uomo in generale, cercherò di usare un linguaggio adatto

a tutte le nazioni, o piuttosto, dimenticando i tempi ed i luoghi, per non pensare che agli uomini ai

quali parlo, immaginerò di trovarmi nel Liceo d’Atene, ripetendo le lezioni dei miei maestri, avendo

i Platoni e i Senocrati come giudici, ed il genere umano come ascoltatore.

O uomo, di qualunque contrada tu sia, quali che siano le tue opinioni, ascolta. Ecco la tua storia,

quale ho creduto leggere, non nei libri dei tuoi simili, che sono menzogneri, ma nella natura che non

Rousseau, Disuguaglianza

156

mente mai. Tutto ciò che verrà da lei, sarà vero. Di falso non ci sarà che quello che vi avrò

mescolato di mio senza volerlo. I tempi di cui parlerò sono ben lontani.

Come sei cambiato da quello che eri! E’ per così dire la vita della tua specie che io descriverò,

cominciando dalle qualità che hai ricevute, che la tua educazione e le tue abitudini hanno potuto

corrompere, ma non distruggere. C’è, lo sento, un’età alla quale l’individuo vorrebbe fermarsi; tu

cercherai l’età a cui vorresti che la tua specie si fosse fermata. Insoddisfatto del tuo stato presente,

per ragioni che annunciano ai tuoi infelici posteri insoddisfazioni ancora maggiori, forse vorresti

poter tornare indietro; e questo sentimento deve fare l’elogio dei tuoi primi antenati, la critica dei

tuoi contemporanei e il terrore di quelli che avranno la sfortuna di vivere dopo di te.

PRIMA PARTE (solo parte)

Per quanto importante sia, per poter bene giudicare dello stato naturale dell’uomo, considerarlo fin

dalla sua origine ed esaminarlo, per così dire, nel primo embrione della specie, io non seguirò la sua

organizzazione attraverso i successivi sviluppi. Non mi fermerò a ricercare nel mondo animale

quello che esso potè essere all’inizio per diventare infine quello che ora è; non esaminerò se, come

pensa Aristotele, le sue unghie allungate furono inizialmente artigli uncinati, se egli era villoso

come un orso, e se, camminando a quattro zampe, con lo sguardo rivolto a terra, e limitato ad un

orizzonte di pochi passi, non fossero insieme marcati il carattere ed i limiti delle sue idee. Non

potrei formarmi su questo essere che congetture vaghe e quasi immaginarie. L’anatomia comparata

ha fatto ancora troppo pochi progressi, le osservazioni dei naturalisti sono ancora troppo incerte,

perché si possa stabilire su simili fondamenti la base di un solido ragionamento; così, senza essere

ricorsi alle conoscenze soprannaturali che noi abbiamo su questo punto, e senza avere riguardo ai

cambiamenti che sono dovuti sopraggiungere nella conformazione, tanto interiore che esteriore

dell’uomo, man mano che egli impiegava le sue membra a nuove funzioni, e che si nutriva di nuovi

alimenti, io lo supporrò sempre conforme nei tempi, come lo vedo oggi, che cammina su due piedi,

si serve delle mani come facciamo noi delle nostre, volgendo il suo sguardo su tutta la natura e

misurando con gli occhi la vasta distesa del cielo. Spogliando questo essere, così costituito, di tutti i

doni soprannaturali che egli ha potuto ricevere e di tutte le facoltà artificiali che non ha potuto

acquisire, se non grazie ad un lungo progresso, considerandolo, in una parola, quale egli è dovuto

uscire dalle mani della natura, io vedo un animale meno forte di alcuni, meno agile di altri, ma tutto

sommato, organizzato più vantaggiosamente di tutti. lo lo vedo che può riposarsi sotto una quercia,

Rousseau, Disuguaglianza

157

dissetarsi al più vicino ruscello, trovare un letto ai piedi dello stesso albero che gli ha fornito il cibo,

ed ecco soddisfatti i suoi bisogni.

La terra, abbandonata alla sua naturale fertilità, e coperta di foreste immense che la scure non ha

mai mutilato, offre ad ogni passo riserve di cibo e tane agli animali di ogni specie. Gli uomini, tra

essi mescolati, osservano, imitano la loro operosità e giungono così all’istinto delle bestie, ma con

questo vantaggio: che ogni specie non ha che quello ad essa proprio, mentre l’uomo, non avendone

forse alcuno specifico che gli appartenga, si appropria di tutti, si nutre allo stesso modo della

maggior parte dei diversi alimenti che gli altri animali si dividono e trova di conseguenza i mezzi

per la sua sussistenza più facilmente di quanto qualunque di essi possa fare. Abituati dall’infanzia

alle intemperie del clima ed al rigore delle stagioni, esercitati alla fatica, e costretti a difendere, nudi

e disarmati la loro vita e la loro preda contro le altre bestie feroci, o di sfuggir loro correndo, gli

uomini si formano una costituzione robusta e quasi inalterabile. I bambini, venendo al mondo con la

straordinaria costituzione dei loro padri, e fortificandola con gli stessi esercizi che l’hanno prodotta,

acquistano così tutto il vigore di cui la specie umana è capace. La natura si comporta con loro

esattamente come la legge di Sparta con i figli dei cittadini; essa rende forti e robusti quelli che sono

ben formati e lascia perire tutti gli altri; differenziandosi in ciò dalle nostre società, dove lo Stato,

rendendo i figli di peso ai padri, li uccide indistintamente prima della nascita.

Poiché il corpo dell’uomo selvaggio è il solo strumento che egli conosca, lo impiega per diversi

usi, di cui, per mancanza d’esercizio, i nostri sono incapaci ed è la nostra operosità che ci toglie la

forza e l’agilità che la necessità obbliga lui ad acquisire. Se egli avesse avuto un’ascia, forse che la

sua mano spezzerebbe dei rami così robusti? Se avesse avuto una fionda, lancerebbe conla mano un

sasso con tanta energia? Se avesse avuto una scala, si arrampicherebbe forse con tanta agilità su un

albero? Se avesse avuto un cavallo, sarebbe così veloce nella corsa? Lasciate all’uomo civilizzato il

tempo di radunare intorno a sé tutte le sue macchine, non si può dubitare che egli superi facilmente

l’uomo selvaggio; ma se volete vedere un combattimento ancora più impari, metteteli nudi e

disarmati l’uno di fronte all’altro e riconoscerete subito quale sia il vantaggio di avere sempre tutte

le proprie forze a disposizione, di essere sempre pronti ad ogni evento e di portarsi, per così dire,

sempre tutto intero con sé.

Hobbes sostiene che l’uomo sia naturalmente intrepido e che non cerchi altro che attaccare e

combattere. Un filosofo illustre pensa in maniera diversa, ed anche Cumberland e Pufendorff

l’assicurano, che non c’è nulla di più timoroso dell’uomo allo stato di natura e che esso è sempre

tremante, e pronto a fuggire al minimo movimento di cui si accorge. Può essere così per gli oggetti

Rousseau, Disuguaglianza

158

che non conosce, ed io non dubito che esso non sia spaventato da tutti i nuovi spettacoli che gli si

offrono, tutte le volte che non può distinguere il bene ed il male fisico che se ne deve aspettare, né

paragonare le sue forze con i rischi che ha da correre; circostanze rare nello stato di natura, dove

tutto procede in una maniera così uniforme, ed in cui la faccia della terra non è soggetta a questi

cambiamenti bruschi e continui, che vi causano le passioni e l’incostanza dei popoli riuniti. Ma

l’uomo selvaggio, vivendo sperduto tra gli animali, e trovandosi ben presto nella necessità di

misurarsi con essi, ben presto vi si paragona e, sentendo che li supera tutti in scaltrezza, più di

quanto essi non lo superino in forza, impara a non temerli più. Mettete un orso o un lupo alle prese

con un selvaggio robusto; agile, coraggioso come lo sono tutti, armato di pietre e di un buon

bastone, e vedrete che il pericolo sarà almeno reciproco, e che, dopo parecchie esperienze simili, le

bestie feroci, che non amano attaccarsi tra loro, attaccheranno poco volentieri l’uomo, che avranno

trovato feroce come loro. Riguardo agli animali che hanno realmente più forza di quanta scaltrezza

egli abbia, è pari ad altre specie più deboli, che non mancano tuttavia di sussistere, con questo

vantaggio per l’uomo che, non meno disposto di loro alla corsa, e trovando sugli alberi un rifugio

quasi assicurato, può accettare o rifiutare lo scontro ed ha la scelta di fuggire o di combattere.

Bisogna aggiungere che sembra che nessun animale faccia naturalmente guerra all’uomo, tranne

che per la propria difesa o spinto da una fame terribile, né dimostra contro di lui quelle violente

antipatie che sembrano annunciare che una specie è destinata dalla natura a servire da cibo all’altra.

Altri nemici più temibili, e verso i quali l’uomo non ha gli stessi mezzi per difendersi, sono le

infermità naturali, l’infanzia, la vecchiaia e le malattie d’ogni specie; tristi segni della nostra

debolezza, dei quali i primi due sono comuni a tutti gli animali, mentre l’ultimo è proprio dell’uomo

che vive in società. Io noto pure, riguardo all’infanzia, che la madre, portando dovunque il figlio

con sé, ha molta più facilità a nutrirlo di quanta ne abbiano le femmine di parecchi animali, che

sono costrette ad andare e venire continuamente, con molta fatica, da una parte per cercare il

nutrimento, e dall’altra per allattare o nutrire i loro piccoli. E’ vero che, se la donna muore, il figlio

rischia gravemente di morire con lei; ma questo rischio è comune a cento altre specie, i cui piccoli

non sono in grado per molto tempo di andare a cercarsi da soli il cibo; e se l’infanzia per noi dura

più a lungo, essendo più lunga anche la vita, tutto è ancora pressochè uguale su questo punto,

sebbene vi siano altre regole, sulla durata della prima età e sul numero dei piccoli, che non

riguardano il mio discorso. Per i vecchi, che si muovono e sudano poco, il bisogno di cibo

diminuisce con la capacità di procurarsene; e poichè la vita allo stato selvaggio allontana da loro la

gotta e i reumatismi, e la vecchiaia è tra tutti i mali quello che i soccorsi umani possono meno

Rousseau, Disuguaglianza

159

alleviare, essi si spengono infine, senza che ci si accorga che cessano di vivere, e quasi senza che

essi stessi se n’accorgano. Riguardo alle malattie, non ripeterò le false e vane esclamazioni, che

contro la medicina fa la maggior parte della gente in buona salute; ma chiederò se ci sia qualche

concreta osservazione dalla quale si possa concludere che nei paesi dove questa arte è più

trascurata, la vita media dell’uomo sia più corta che in quelli dove tale arte è coltivata con maggior

cura; e come questo potrebbe avvenire se ci creiamo più mali di quanti rimedi la medicina ci possa

fornire! La grandissima diversità nel modo di vivere, l’ozio eccessivo degli uni, l’eccessiva attività

degli altri, la facilità di eccitare e soddisfare i nostri appetiti e la nostra sensualità, i cibi troppo

ricercati dei ricchi, intrisi di condimenti che riscaldano e appesantiscono la digestione, il cattivo

nutrimento dei poveri, che spesso addirittura manca loro, e la cui scarsità li porta a sovraccaricare

avidamente lo stomaco, quando se ne presenta l’occasione, le veglie, gli abusi di ogni genere,

l’esaltazione eccessiva di tutte le passioni, le fatiche, lo sfinimento dello spirito, gli affanni e le pene

innumerevoli che si provano in tutte le condizioni sociali e da cui le anime sono continuamente

rose. Ecco le funeste prove che la maggior parte dei nostri mali sono opera nostra, e che li avremmo

quasi tutti evitati, se avessimo conservato la maniera di vivere semplice, uniforme e solitaria che ci

era stata proposta dalla natura. Se essa ci ha destinati ad essere sani, oso quasi assicurare che lo

stato di riflessione è contro natura e che l’uomo che medita è un animale degenerato. Quando si

pensa alla buona costituzione dei selvaggi, almeno di quelli che non abbiamo rovinati con i nostri

forti liquori, quando si sa che essi non conoscono quasi altre malattie se non le ferite e la vecchiaia,

si è molto portati a credere che si farebbe facilmente la storia delle malattie dell’uomo seguendo

quella delle società civili. Questo è almeno il parere di Platone che giudica, riguardo a certi rimedi

usati o approvati da Podalirio e Macaone nell’assedio di Troia, che diverse malattie, che questi

rimedi dovevano curare, non erano allora ancora conosciute tra gli uomini. Avendo così poche

cause di malattie, l’uomo, nello stato di natura, non ha dunque quasi bisogno di medicine, ancor

meno di medici; la stirpe umana non è, a questo riguardo, in peggiori condizioni di tutte le altre, ed

è facile sapere dai cacciatori se nei loro percorsi trovano molti animali in cattive condizioni di

salute. Essi ne trovano parecchi che hanno ricevuto notevoli ferite molto ben cicatrizzate, che hanno

avuto ossa ed anche degli arti rotti e che si sono ripresi senza altro intervento chirurgico che quello

del tempo, senza altro regime che la loro vita consueta, e che non sono tuttavia guariti meno

perfettamente, per non essere stati tormentati con incisioni, intossicati da droghe o estenuati da

digiuni. Infine, per quanto possa essere utile tra noi la medicina ben praticata, è sempre sicuro che,

se il selvaggio malato, abbandonato a sé stesso, non deve sperare niente se non dalla natura, d’altra

Rousseau, Disuguaglianza

160

parte egli non ha niente da temere, tranne il suo male, cosa che rende spesso la sua situazione

preferibile alla nostra. Stiamo dunque attenti a non confondere l’uomo selvaggio con gli uomini che

abbiamo sotto gli occhi. La natura tratta tutti gli animali abbandonati alle sue cure con una

predilezione che sembra mostrare come essa sia gelosa di questo diritto. Il cavallo, il gatto , il toro,

lo stesso asino hanno per lo più una costituzione più grande e più robusta, più vigore, più forza e

coraggio quando vivono nelle foreste che quando diventano domestici; essi perdono la metà di quei

vantaggi in questo caso, e si direbbe che tutte le nostre cure rivolte a trattare bene ed a nutrire questi

animali non riescano che ad imbastardirli. E’ così anche dell’uomo; divenendo socievole e schiavo,

diventa debole, timoroso, strisciante, e la sua maniera di vivere molle ed effeminata finisce di

snervare insieme la sua forza ed il suo coraggio. Si aggiunga che, tra la condizione selvaggia e

quella domestica, la differenza da uomo a uomo dev’essere ancora più grande di quella da bestia a

bestia; perché essendo stati trattati l’animale e l’uomo dalla natura alla stessa maniera, tutte le

comodità, che l’uomo si concede in più rispetto agli animali che addomestica, sono altrettante cause

particolari che lo fanno degenerare più sensibilmente. Non è dunque una grande sventura per questi

primi uomini, né soprattutto un così grande ostacolo per la loro sopravvivenza, la nudità o la

mancanza di abitazioni e la privazione di tutte quelle cose inutili che noi crediamo così necessarie.

Se non hanno la pelliccia, essi non ne hanno alcun bisogno nei paesi caldi, e sanno presto, nei paesi

freddi, appropriarsi di quella delle bestie da loro vinte; se non hanno che due gambe per correre,

essi hanno due braccia per provvedere alla loro difesa ed alle loro necessità; i loro figli camminano

forse tardi ed a fatica, ma le madri li portano con facilità; vantaggio che manca alle altre specie, in

cui la madre, essendo inseguita, si vede costretta ad abbandonare i suoi piccoli, o a regolare il suo

passo con il loro. Infine, a meno di ammettere quel concorso singolare e fortuito di circostanze, di

cui parlerò in seguito, e che potrebbero benissimo non verificarsi, è chiaro, riguardo alla questione,

che il primo che si fece dei vestiti o un alloggio si concesse perciò delle cose poco necessarie, dal

momento che ne aveva fatto a meno fino ad allora e che non si capisce perché non avrebbe potuto

sopportare, diventato adulto, un genere di vita che sopportava fin dall’infanzia. Solo, ozioso, e

sempre vicino al pericolo, l’uomo selvaggio deve amare il sonno, ed averlo leggero come gli

animali che, pensando poco, dormono, per così dire, tutto il tempo che non pensano. Essendo la

propria conservazione quasi la sua unica cura, le sue facoltà più esercitate devono essere quelle che

hanno per oggetto principale l’attacco e la difesa, sia per assoggettare la preda, sia per assicurarsi di

non essere quella di un altro animale: al contrario, gli organi che si perfezionano solo con la

mollezza e la sensualità devono restare in uno stato di grossolanità, che esclude in lui ogni genere di

Rousseau, Disuguaglianza

161

delicatezza; ed essendo i suoi sensi a questo punto discordi, egli avrà il tatto ed il gusto di

un’estrema rudezza, mentre la vista, l’udito e l’odorato della più grande sensibilità. Tale è in

generale la condizione degli animali, ed è così, secondo il rapporto dei viaggiatori, quella della

maggior parte dei popoli selvaggi. Perciò non bisogna meravigliarsi se gli Ottentotti del capo di

Buona Speranza scoprono a vista dei vascelli in alto mare, così da lontano quanto gli Olandesi

possono fare solo con dei cannocchiali, né che i selvaggi dell’America sentissero gli Spagnoli al

fiuto, come avrebbero potuto fare i migliori cani, né che tutte queste popolazioni barbare tollerino

tranquillamente la loro nudità, acuiscano il gusto a forza di pepe e bevano liquori europei come

l’acqua. Io non ho considerato fin qui che l’uomo fisico. Preoccupiamoci di considerarlo ora dal

lato metafisico e morale. Io non vedo in ogni animale che una macchina ingegnosa, a cui la natura

ha dato dei sensi per ricomporsi da sola e per tutelarsi fino ad un certo punto, da tutto ciò che tende

a distruggerla o a danneggiarla. Io scorgo esattamente le stesse cose nella macchina umana, con

questa differenza: che la natura da sola fa tutto nelle operazioni delle bestie, mentre l’uomo

partecipa alle sue, in qualità di libero agente. Le prime scelgono o respingono per istinto , il secondo

per un atto di libertà; ciò che fa la bestia non può allontanarsi dalla regola che le è stata imposta

anche quando sarebbe vantaggioso farlo, mentre l’uomo se ne allontana spesso a suo piacere. E’

così che un piccione morirebbe di fame, vicino ad un vassoio pieno delle migliori carni, ed un gatto

su dei mucchi di frutta o di grano, sebbene sia l’uno che l’altro potrebbe benissimo nutrirsi del cibo

che disdegna, se gli fosse capitato di assaggiarne. E’ così che gli uomini dissoluti si abbandonano a

degli eccessi, che causano loro malattie e morte; perché lo spirito corrompe i sensi e la volontà parla

ancora quando la natura tace. Ogni animale ha delle idee perché ha dei sensi, e combina anche le

sue idee fino ad un certo punto, e l’uomo non differisce che più o meno dalla bestia, a questo

riguardo. Alcuni filosofi hanno anche sostenuto che ci sia più differenza tra questo o quell’uomo

che tra quel determinato uomo e quella determinata bestia; non è dunque tanto l’intelligenza che

distingue tanto gli animali dall’uomo, quanto la sua qualità di agente libero. La natura comanda a

tutti gli animali e le bestie obbediscono. L’uomo prova la stessa impressione, ma egli si riconosce

libero di obbedire o di resistere; ed è soprattutto nella consapevolezza di questa libertà che si mostra

la spiritualità della sua anima: perché la fisica spiega in qualche maniera il meccanismo dei sensi e

la formazione delle idee; ma nella capacità di volere o piuttosto di scegliere, e nella consapevolezza

di questa capacità non si trovano che atti puramente spirituali, di cui non si spiega niente con le

leggi della meccanica. Ma, anche quando le difficoltà che circondano tutte queste questioni

lasciassero qualche spazio per discutere su questa differenza tra l’uomo e la bestia, c’è un’altra

Rousseau, Disuguaglianza

162

qualità ben specifica che li distingue e sulla quale non può esserci contestazione, cioè la facoltà di

perfezionarsi; facoltà che, con l’aiuto delle circostanze, sviluppa successivamente tutte le altre ed è

insita in noi tanto nella specie che nell’individuo, mentre un animale è, dopo qualche mese, ciò che

sarà per tutta la sua vita, così come la sua specie, dopo mille anni, sarà come era all’inizio di quei

mille anni. Perché soltanto l’uomo è soggetto a diventare imbecille? Non è perché egli ritorna così

nel suo stato primitivo, e che, mentre la bestia, che non ha appreso nulla e che non ha nulla di più da

perdere, resta sempre con il suo istinto, l’uomo, riperdendo con la vecchiaia o a causa di altri

accidenti, tutto quello che la sua perfettibilità gli aveva fatto acquistare, ricade così più in basso che

la bestia stessa? Sarebbe triste per noi essere costretti a convenire che questa facoltà distintiva e

quasi illimitata sia l’origine di tutte le disgrazie dell’uomo; che è questa che lo trae, col passar del

tempo, dalla sua condizione originaria, nella quale trascorrerebbe giorni tranquilli e senza colpa;

che è questa che, facendo emergere nel corso dei secoli, la sua intelligenza ed i suoi errori, i suoi

vizi e le sue virtù, lo rende alla fine il tiranno di se stesso e della natura. Sarebbe spaventoso essere

obbligati a lodare come un essere benefico colui che per primo suggerì all’abitante delle rive

dell’Orinoco l’uso di quelle assi che egli applica sulle tempie dei suoi figli, e che assicurano loro

almeno una parte della loro imbecillità e della loro felicità originaria. L’uomo selvaggio, affidato

dalla natura al suo solo istinto, o piuttosto danneggiato da quello che forse gli manca, dalle facoltà

capaci di supplirvi dapprima e di elevarlo in seguito molto al disopra di quella, comincerà dunque

dalle funzioni puramente animali: il suo primo stato consisterà nel percepire e nel sentire e questo lo

avrà in comune con tutti gli altri animali. Volere e non volere, desiderare e temere, saranno le prime

e quasi le uniche operazioni della sua anima, fino a quando delle nuove circostanze non vi

provocheranno dei nuovi sviluppi. Qualunque cosa ne dicano i moralisti, l’intelletto umano deve

molto alle passioni che, per riconoscimento comune, anch’esse gli devono molto: è con la loro

attività che la nostra ragione si perfeziona; noi non cerchiamo di conoscere se non perché

desideriamo gioire, e non è possibile concepire perché, chi non avesse né desideri né timori,

dovrebbe darsi la pena di ragionare. Le passioni, a loro volta, traggono la loro origine dai nostri

bisogni, ed il loro progresso dalle nostre conoscenze; perché non si possono desiderare o temere le

cose se non in base alle idee che se ne possono avere, o per il semplice impulso della natura; e

l’uomo selvaggio, privo di ogni sorta di lumi, non prova che le passioni di questa ultima specie; i

suoi desideri non vanno oltre i suoi bisogni fisici; i soli beni che egli conosca al mondo sono il cibo,

una femmina ed il riposo; i soli mali che egli teme sono il dolore e la fame; dico il dolore e non la

Rousseau, Disuguaglianza

163

morte; perché mai l’animale saprà che cosa significhi morire, e la conoscenza della morte e dei suoi

terrori è uno dei primi acquisti che l’uomo ha fatto, allontanandosi dalla condizione animale.

164

Immanuel Kant (1724-1804)

Enciclopedia filosofica (1767-82)

lingua originale: tedesco

edizione di riferimento: Edizione della Reale Accademia Prussica (e successori),

de Gruyter, Berlino, 1900 (ecc.: ancora in corso)

tr. it. L. Balbiani, Bompiani, Milano, 2003

tema: la natura della filosofia

genere letterario: appunto per lezione universitaria

Nota sul genio

Genio e talento sono due cose distinte. Talvolta si definisce il talento genio a causa della sua

somiglianza al genio. Il genio è il talento originario di molti: è il talento scevro di finalità.

Il talento di cui necessita la filosofia è diverso da quello necessario per la matematica, come si è

detto in precedenza. Il matematico è un grande architetto. Attraverso l’ordine egli può essere molto

utile alla filosofia, ma non l’arricchirà di nuovi concetti: Quanto bisogna costruire un conetto, il

matematico può fare meraviglie, ma con i conetti discorsivi non cmbinerà neull, a meno che non

abbia anche una mente filosofica. – Del talento filosofico sono propri l’arguzia e la facoltà di

considerare sia il generale nel concreto sia il particolare nell’astratto.

Si può imparare la filosofia? A questa domanda si è già risposto prima. – Bisogna però imparare

a filosofare? – Ciò che ha un’utilità così grande come il filosofia non ha bisogno di essere

raccomandato; le lodi sono superflue quando i vantaggi saltano all’occhio in modo così evidente.

Carattere della filosofia. Filosofico significa:

1. libero dall’imitazione

2. libero dall’affezione.

La filosofia fa entrambe le cose. Il molto sapere rende tronfi, la filosofia invece modera la superbia

ed è l’unica cura contro di essa. Quando giunge fin dove è possibile agli uomini, là la filosofia fissa

i confini e mostra la scarsa utilità di molte conoscenze. La filosofia dovrebbe servire a riconoscere

qualcosa come buono in sé e non perché lo vogliono gli altri o perché esse viene richiesto. Bisogna

cercare di essere saggi e non di accumulare soltanto conoscenze speculative, perché il sapere lascia

un grande vuoto.

165

Pierre Simon, marchese De Laplace (1749-1827)

Un saggio filosofico sulle probabilità (1795)

lingua originale: francese

edizione di riferimento: Œuvres completes, (14 voll.) Parigi, 1878-1912

tr. it. R. Davies

tema: le leggi di natura

genere letterario: divulgazione matematica

Capitolo. II: Sulla probabilità

Tutti gli eventi, persino quelli che, a causa della loro irrilevanza, non sembrano seguire le grandi

leggi della natura, ne sono i risultati tanto necessariamente quanto le rivoluzioni intorno al Sole.

Nella nostra ignoranza dei legami che uniscono tali eventi al sitema intero dell’universo, li abbiamo

attribuito a cause finali o all’azzardo, a seconda del modo in cui succedono e si ripetono

regolarmente oppure appaiono senza ordine; queste cause immaginarie comunque si sono ritirate

gradualmente con l’espandersi della conoscenza e spariscono del tutto davanti a una filosofia solida,

che vede in esse solo un’espressioine della nostra ignoranza.

Gli eventi presenti sono connessi con quelli precedenti da un legame basato sul principio

evidente che una cosa non può succedere senza una causa che la produca. Questa assioma, nota

come il Principio di Ragion Sufficiente, si estende anche alle azioni che vengono considerate

indifferenti; la volontà più libera che ci sia non è in grado di farli nascere senza un motivo

determinativo; se supponiamo due posizioni con circostanze esattamente uguali e troviamo che la

volontà è attiva in una e inattiva nell’altra, diciamo che la sua scelta è un effetto senza causa. In

quel caso, is tratta, come dice Leibniz, il caso cieco degli epicurei1. L’opinione contraria è

un’illusine della mente che, perdendo di vista le ragioni sfuggenti del libero arbitrio in vicende

indifferenti, crede che la scelta si determina da sé e senza motivi.

Dobbiamo dunque considerare lo stato presente dell’universo come l’effetto dello stato

predcedente e come la causea di quello successivo. Ammessa per un istante un’Intelligenza in grado

di comprendere tutte le forze che animano la natura e le rispettive circostanze di tutte le cose che la

1 Questo doppio rimando è al filosofo tedesco G.W. Leibniz che, nella sua Quinta Risposta del dibattito epistolare conil fisico inglese Samuel Clarke (1675-1729), scrive che ‘il caso epicureo non è necessità ma qualcosa di indifferente’(ad 18, §70) ; e alla dottrina della deriva esposta nel brano di Lucrezio nella dispensa a pp. 69-71. [nota di Davies]

Nietzsche ‘Verità e bugie…’

166

compongono – un’Intelligenza sufficientemente vasta da sottoporre questi dati ad analisi – allorra

Essa abbraccerebbe in una stessa formula i movimenti dei più grandi corpi dell’universo insieme a

quelli dell’atomo più leggero; per Essa, niente sarebbe incerto, e il futuro, come il passato, sarebbe

presente ai suoi occhi. Nella perfezione raggiunta nell’astronomia, la mente umana ci offre una

debole idea di questa Intelligenza. Le sue scoperte in meccanica e geometria, aggiunte a quella della

gravitazione universale, l’hanno permessa di comprendere in espressioni analitiche gli stati passati e

futuri del sistema del mondo. Con l’applicazione dello stesso metodo ad alcuni altri oggetti della

sua conoscenza, è riuscita a riferire alle leggi generali i fenomeni osservati e a prevvedere quelli che

dovrebbero verificarsi in determinate circostanze. Tutti questi sforzi nella ricerca della verità

tendono a riportarla alla vasta Intelligenza appena menzionata, ma da cui rimarrà per sempre

infinitamente distante. Questa tendenza, peculiare alla razza umana, è quella che ci rende superiori

agli animali; e il nostro progresso in questa ricerca distingue le nazioni e le epoche, e ne costituisce

la loro vera gloria.

[…]

La curva che descrive una semplice molecola di aria o di vapore è regolata in maniera altrettanto

certa quanto le orbite planetari; l’unica differenza tra di loro deriva dalla nostra ignoranza.

La probabilità è relativa, in parte a questa ignoranza e in parte alla nostra conoscenza. Sappiamo

che, di tre o più eventi, uno solo deve succedere; ma niente ci induce a credere che uno di loro,

invece degli altri, sarà quello che succederà. In questo stato in indecisione, siamo impossibilitati di

annunciare l’esito con certezza. Rimane comunque probabile che uno di questi eventi, scelto a

volontà, non succederà perché vediamo diversi casi ugualmente possibili che ne escludono il

succedersi, mente sono un caso lo favorisce.

La teoria della probabilità consiste nel ridurre tutti gli eventi dello stesso genere a un certo

numero di casi ugualmente possibili, vale a dire tali per cui possiamo rimanere ugualmente indecisi

riguardo alla loro esistenza, e nel determinare il numero dei casi favorevoli al esito di cui si cerca la

probabilità. La proporzione tra quella cifra e tutti i casi possibili costituisce la misura di questa

probabilità, che è così una semplice frazioine di cui il numeratore è il numero di casi favorevoli e il

denominatore è il numero di tutti i casi possibili.

167

Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900)

‘Su verità e menzogna in senso extramorale’ (1873)

lingua originale: tedesco

edizione di riferimento: G. Colli, M. Montinari, Sämtliche Werke,

Taschenbuch Verlag, Monaco di Baviera, 1988

tr. it. G. Colli, Adelphi, Milano, 1970

tema: gli autoinganni del desiderio di conoscenza

genere letterario: saggio provocatorio

1

In un angolo remoto dell’universo scintillante e diffuso attraverso infiniti sistemi solari c’era una

volta un astro, su cui animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e più

menzognero della «storia del mondo»: ma tutto ciò durò soltanto un minuto. Dopo pochi respiri

della natura, la stella si irrigidì e gli animali intelligenti dovettero morire. – Qualcuno potrebbe

inventare una favola di questo genere, ma non riuscirebbe tuttavia a illustrare sufficientemente

quanto misero, spettrale, fugace, privo di scopo e arbitrario sia il comportamento dell’intelletto

umano entro la natura. Vi furono eternità in cui esso non esisteva; quando per lui tutto sarà

nuovamente finito, non sarà avvenuto nulla di notevole. Per quell’intelletto, difatti, non esiste una

missione ulteriore che conduca al di là della vita umana. Esso piuttosto è umano, e soltanto chi lo

possiede e lo produce può considerarlo tanto pateticamente, come se i cardini del mondo ruotassero

su di lui. Se noi riuscissimo a intenderci con la zanzara, apprenderemmo che anch’essa nuota

attraverso l’aria con questo pathos e si sente il centro – che vola – di questo mondo. Non vi è nulla

di abbastanza spregevole e scadente nella natura, che con un piccolo e leggero alito di quella forza

del conoscere non si gonfi senz’altro come un otre. E come ogni facchino vuole avere i suoi

ammiratori, così il più orgoglioso fra gli uomini, il filosofo, crede che da tutti i lati gli occhi

dell’universo siano rivolti telescopicamente sul suo agire e sul suo pensare.

È degno di nota che tutto ciò sia prodotto dall’intelletto, il quale è concesso – unicamente come

aiuto –agli esseri più infelici, più delicati e più transitori, allo scopo di trattenerli per un minuto

nell’esistenza, onde essi altrimenti, senza quell’aggiunta, avrebbero ogni motivo di sfuggire tanto

rapidamente quanto il figlio di Lessing. Quell’alterigia connessa col conoscere e col sentire, sospesa

come nebbia abbagliante dinanzi agli occhi e ai sensi degli uomini, li inganna dunque sul valore

dell’esistenza, portando in sé la più lusinghevole valutazione riguardo al conoscere. Il suo effetto

Nietzsche ‘Verità e bugie…’

168

più universale è l’inganno, ma anche gli effetti più particolari portano in sé qualcosa del medesimo

carattere.

L’intelletto, come mezzo per conservare l’individuo, spiega le sue forze principali nella finzione.

Questa infatti è il mezzo con cui gli individui più deboli e meno robusti si conservano, in quanto a

essi è preclusa una lotta per l’esistenza da condursi con le corna o con gli aspri morsi degli animali

feroci. Nell’uomo quest’arte della finzione raggiunge il suo culmine: qui l’illudere, l’adulare, il

mentire e l’ingannare, il parlar male di qualcuno in sua assenza, il rappresentare, il vivere in uno

splendore preso a prestito, il mascherarsi, le convenzioni che nascondono, il far la commedia

dinanzi agli altri e a se stessi, in breve il continuo svolazzare attorno alla fiamma della vanità

costituisce a tal punto la regola e la legge, che nulla, si può dire, è più incomprensibile del fatto che

fra gli uomini possa sorgere un impulso onesto e puro verso la verità. Essi sono profondamente

immersi nelle illusioni e nelle immagini del sogno, il loro occhio scivola sulla superficie delle cose,

vedendo «forme», il loro sentimento non conduce mai alla verità, ma si accontenta di ricevere

stimoli e, per così dire, di accarezzare con un giuoco tattile il dorso delle cose. Oltre a ciò, di notte

l’uomo si lascia ingannare nel sogno, per tutta la vita, senza che il suo sentimento morale cerchi mai

di impedire ciò; devono invece esistere uomini che con la forza di volontà hanno eliminato il

russare. In senso proprio, che cosa sa l’uomo su se stesso? Forse che, una volta tanto, egli sarebbe

capace di percepire compiutamente se stesso, quasi si trovasse posto in una vetrina illuminata?

Forse che la natura non gli nasconde quasi tutto, persino riguardo al suo corpo, per confinarlo e

racchiuderlo in un’orgogliosa e fantasmagorica coscienza, lontano dall’intreccio delle sue viscere,

dal rapido flusso del suo sangue, dai complicati fremiti delle sue fibre? La natura ha gettato via la

chiave, e guai alla fatale curiosità che una volta riesca a guardare attraverso una fessura dalla cella

della coscienza, in fuori e in basso, e che un giorno abbia il presentimento che l’uomo sta sospeso

nei suoi sogni su qualcosa di spietato, avido, insaziabile e, per così dire, sul dorso di una tigre. In

una tale costellazione, da quale parte del mondo sorgerà mai l’impulso verso la verità?

In quanto l’individuo, di fronte ad altri individui, vuole conservarsi, esso utilizza per lo più

l’intelletto, in uno stato naturale delle cose, soltanto per la finzione: ma poiché al tempo stesso

l’uomo, per bisogno o per noia, vuole esistere socialmente come in un gregge, egli è spinto a

concludere la pace, e tende a far scomparire dal suo mondo almeno il più rozzo bellum omnium

contra omnes1. Questo trattato di pace porta in sé qualcosa che si presenta come il primo passo per

1 Cfr. la guerra di tutti contro tutti descritta da Hobbes nel capitolo dal Leviatano rirpodotto nella dispensa a pp. 108-12[nota di Davies]

Nietzsche ‘Verità e bugie…’

169

raggiungere quell’enigmatico impulso alla verità. A questo punto viene fissato ciò che in seguito

dovrà essere la «verità»; in altre parole, viene scoperta una designazione delle cose uniformemente

valida e vincolante, e la legislazione del linguaggio fornisce altresì le prime leggi della verità. Sorge

qui infatti, per la prima volta, il contrasto tra verità e menzogna. Il mentitore adopera le

designazioni valide, le parole, per fare apparire come reale ciò che non è reale. Egli dice per

esempio: «io sono ricco», mentre per il suo stato la designazione esatta sarebbe proprio «povero».

Egli fa cattivo uso delle salde convenzioni, scambiando arbitrariamente, o addirittura invertendo i

nomi. Quando egli fa questo in modo egoistico, che può d’altronde recare danno, la società non si

fiderà più di lui e così lo escluderà da sé. Nel far ciò gli uomini cercano di evitare, non tanto l’essere

ingannati, quanto l’essere danneggiati dall’inganno: anche su questo piano essi in fondo non odiano

l’inganno, bensì le conseguenze brutte e ostili di certe specie di inganni. In tale senso limitato,

l’uomo vuole soltanto la verità: egli desidera le conseguenze piacevoli – che preservano la vita –

della verità, è indifferente di fronte alla conoscenza pura, priva di conseguenze, mentre è disposto

addirittura ostilmente verso le verità forse dannose e distruttive. Oltre a ciò come stanno le cose

rispetto alle suddette convenzioni del linguaggio? Sono forse prodotti della conoscenza, del senso

della verità, forse che le designazioni e le cose si sovrappongono? Il linguaggio è dunque

l’espressione adeguata di tutte le realtà?

Solo attraverso l’oblio l’uomo può giungere a credere di possedere una «verità» nel grado sopra

designato. Quando egli non si accontenta della verità in forma di tautologia, ossia non si appaga di

gusci vuoti, baratterà sempre verità e illusioni. Che cos’è una parola? Il riflesso in suoni di uno

stimolo nervoso. Ma il concludere da uno stimolo nervoso a una causa fuori di noi è già il risultato

di una applicazione falsa e ingiustificata del principio di ragione. Se nella genesi del linguaggio la

verità fosse risultata decisiva, se nelle designazioni fosse stato decisivo unicamente il punto di vista

della certezza, come potremmo ancora dire: la pietra è dura, quasi che «duro» ci fosse noto anche

altrimenti, e non soltanto come uno stimolo del tutto soggettivo? Noi dividiamo le cose in generi,

designiamo l’albero come maschile e la pianta come femminile: quali trasposizioni arbitrarie! Che

distacco dal canone della certezza! Noi parliamo di un «serpente»: la designazione non riguarda

altro se non la tortuosità, e potrebbe quindi spettare altresì al verme. Quali delimitazioni arbitrarie,

quali preferenze unilaterali, accordate ora all’una ora all’altra proprietà di una cosa! Le diverse

lingue, poste l’una accanto all’altra, mostrano che nelle parole non ha mai importanza la verità, né

un’espressione adeguata. In caso contrario non esisterebbero infatti così tante lingue. La «cosa in

sé» (la verità pura e priva di conseguenze consisterebbe appunto in ciò) è d’altronde del tutto

Nietzsche ‘Verità e bugie…’

170

inafferrabile per colui che costruisce il linguaggio, e non è affatto degna per lui di essere ricercata.

Egli designa soltanto le relazioni delle cose con gli uomini e ricorre all’aiuto delle più ardite

metafore per esprimere tali relazioni. Uno stimolo nervoso, trasferito anzitutto in un’immagine:

prima metafora. L’immagine è poi plasmata in un suono: seconda metafora. Ogni volta si ha un

cambiamento completo della sfera, un passaggio a una sfera del tutto differente e nuova. Si può

immaginare un uomo che sia completamente sordo e non abbia mai avuto una sensazione del suono

e della musica: allo stesso modo che costui, per esempio, si meraviglia di fronte alle figure

acustiche di Chladni, disegnate sulla sabbia, trova le loro cause nelle vibrazioni della corda ed è

disposto a giurare di sapere ormai che cosa sia ciò che gli uomini chiamano «suono», così avviene a

tutti noi riguardo al linguaggio. Noi crediamo di sapere qualcosa sulle cose stesse, quando parliamo

di alberi, di colori, di neve e di fiori, eppure non possediamo nulla se non metafore delle cose che

non corrispondono affatto alle essenze originarie. Come il suono si presenta in quanto figura nella

sabbia, così l’enigmatico x della cosa in sé ora si presenta come stimolo nervoso, ora come

immagine, ora infine come suono. In ogni caso il sorgere della lingua non segue un procedimento

logico, e l’intero materiale su cui e con cui più tardi lavorerà e costruirà l’uomo della verità,

l’indagatore, il filosofo, proviene, se non da una Nefelococcigia, certo però non dall’essenza delle

cose.

Soffermiamoci ancora particolarmente sulla formazione dei concetti. Ogni parola diventa

senz’altro un concetto, per il fatto che essa non è destinata a servire eventualmente per ricordare

l’esperienza primitiva, non ripetuta e perfettamente individualizzata, ma deve adattarsi al tempo

stesso a innumerevoli casi più o meno simili, cioè – a rigore – mai uguali, e quindi a casi

semplicemente disuguali. Ogni concetto sorge con l’equiparazione di ciò che non è uguale. Se è

certo che una foglia non è mai perfettamente uguale a un’altra, altrettanto certo è che il concetto di

foglia si forma mediante un arbitrario lasciar cadere queste differenze individuali, mediante un

dimenticare l’elemento discriminante, e suscita poi la rappresentazione che nella natura, all’infuori

delle foglie, esiste un qualcosa che è «foglia», quasi una forma primordiale, sul modello della quale

sarebbero tessute, disegnate, circoscritte, colorate, increspate, dipinte – ma da mani maldestre –

tutte le foglie, in modo tale che nessun esemplare risulterebbe corretto e attendibile in quanto copia

fedele della forma originale. Noi chiamiamo un uomo «onesto». Perché costui si è comportato oggi

così onestamente? – domandiamo. La nostra risposta è di solito: a causa della sua onestà. L’onestà!

Ciò significa nuovamente: la foglia è la causa delle foglie. Non sappiamo assolutamente nulla di

una qualità essenziale che si chiami l’onestà; e conosciamo invece numerose azioni individuali, e

Nietzsche ‘Verità e bugie…’

171

quindi disuguali, che noi equipariamo tra loro, lasciando cadere ciò che vi è di disuguale, e che

allora designiamo come azioni oneste. Partendo da esse formuliamo infine una qualitas occulta, con

il nome: l’onestà.

Il trascurare ciò che vi è di individuale e di reale ci fornisce il concetto, allo stesso modo che ci

fornisce la forma, mentre la natura non conosce invece nessuna forma e nessun concetto, e quindi

neppure alcun genere, ma soltanto una x, per noi inattingibile e indefinibile. Altresì la nostra antitesi

tra individuo e genere è infatti antropomorfica e non sgorga dall’essenza delle cose, anche se non

osiamo dire che tale antitesi non corrisponde a tale essenza. Questa sarebbe infatti un’asserzione

dogmatica, e come tale altrettanto indimostrabile quanto la sua contraria.

Che cos’è dunque la verità? Un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi, in

breve una somma di relazioni umane che sono state potenziate poeticamente e retoricamente, che

sono state trasferite e abbellite, e che dopo un lungo uso sembrano a un popolo solide, canoniche e

vincolanti: le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria, sono metafore che si

sono logorate e hanno perduto ogni forza sensibile, sono monete la cui immagine si è consumata e

che vengono prese in considerazione soltanto come metallo, non più come monete. Sinora noi non

sappiamo onde derivi l’impulso verso la verità; sinora infatti abbiamo inteso parlare soltanto

dell’obbligo imposto dalla società per la sua esistenza: essere veritieri, cioè servirsi delle metafore

usuali. L’espressione morale di ciò è dunque la seguente: sinora abbiamo inteso parlare soltanto

dell’obbligo di mentire secondo una salda convenzione, ossia di mentire come si conviene a una

moltitudine, in uno stile vincolante per tutti. Senza dubbio l’uomo si dimentica che le cose stanno a

questo modo; egli mente dunque nella maniera suddetta, incoscientemente e per una abitudine

secolare, giungendo al sentimento della verità proprio attraverso questa incoscienza, proprio

attraverso questo oblio. Con il sentimento di essere obbligati a designare una cosa come rossa,

un’altra come fredda, una terza come muta, si risveglia un sentimento morale riferentesi alla verità.

Fondandosi sul contrasto dell’uomo menzognero, di cui nessuno si fida e che tutti evitano, l’uomo

dimostra a se stesso che la verità è degna di rispetto e di fiducia, e altresì utile. Come essere

razionale, egli pone ora il suo agire sotto il controllo delle astrazioni; non ammette più di essere

trascinato dalle impressioni istantanee e dalle intuizioni, generalizza tutte queste impressioni,

traendone concetti scoloriti e tiepidi, per aggiogare a essi il carro della sua vita e della sua azione.

Tutto ciò che distingue l’uomo dall’animale dipende da questa capacità di sminuire le metafore

intuitive in schemi, cioè di risolvere un’immagine in un concetto. Nel campo di quegli schemi è

possibile cioè qualcosa che non potrebbe mai riuscire sotto il dominio delle prime impressioni

Nietzsche ‘Verità e bugie…’

172

intuitive: costruire un ordine piramidale, suddiviso secondo caste e gradi, creare un nuovo mondo di

leggi, di privilegi, di subordinazioni, di delimitazioni, che si contrapponga ormai all’altro mondo

intuitivo delle prime impressioni come qualcosa di più solido, di più generale, di più noto, di più

umano, e quindi come l’elemento regolatore e imperativo. Mentre ogni metafora intuitiva è

individuale e risulta senza pari, sapendo perciò sempre sfuggire a ogni registrazione, la grande

costruzione dei concetti mostra invece la rigida regolarità di un colombario romano e manifesta

nella logica quel rigore e quella freddezza che sono propri della matematica. Chi è ispirato da

questa freddezza difficilmente crederà che il concetto – osseo come un dado, spostabile e munito di

otto vertici come questo – sussista unicamente come il residuo di una metafora, e che l’illusione del

trasferimento artistico di uno stimolo nervoso in immagini, se non è la madre, sia tuttavia l’antenata

di ogni concetto. In questo concettuale giuoco di dadi si chiama peraltro «verità» il servirsi di ogni

dado secondo la sua designazione, il contare con esattezza i punti segnati su ogni faccia, il costruire

rubriche giuste e il non turbare mai l’ordinamento di caste e la serie gerarchica delle classi. Come i

Romani e gli Etruschi dividevano il cielo con rigide linee matematiche e in ciascuna di queste

caselle, come in un templum, relegavano un dio, così ogni popolo trova sopra di sé un siffatto ciclo

concettuale suddiviso matematicamente, e per esigenze della verità intende il ricercare ogni dio

concettuale unicamente nella sua sfera. Senza dubbio si può a questo proposito ammirare l’uomo

come un potente genio costruttivo, che riesce – su mobili fondamenta, e per così dire, sull’acqua

corrente – a elevare una cupola concettuale infinitamente complicata; certo, per raggiungere una

stabilità su siffatte fondamenta, occorrerà una costruzione fatta di ragnatele, tanto tenue da non

essere trascinata via dalle onde e tanto solida da non essere spazzata via al soffiare di ogni vento.

Come genio costruttivo, l’uomo si innalza a questo modo al di sopra delle api: queste costruiscono

con la cera che raccolgono ricavandola dalla natura, mentre l’uomo costruisce con la materia assai

più tenue dei concetti che egli deve fabbricarsi da sé. In ciò egli è degno di grande ammirazione,

non già tuttavia a causa del suo impulso verso la verità e la conoscenza pura delle cose. Se qualcuno

nasconde qualcosa dietro un cespuglio, se lo ricerca nuovamente là e ve lo ritrova, in questa ricerca

e in questa scoperta non vi è molto da lodare: eppure le cose stanno a questo modo riguardo alla

ricerca e alla scoperta della «verità», entro il territorio della ragione. Se io formulo la definizione

del mammifero, e in seguito, vedendo un cammello, dichiaro: «ecco un mammifero», in tal caso

viene portata alla luce senza dubbio una verità, ma quest’ultima ha un valore limitato, a mio avviso;

è completamente antropomorfica e non contiene neppure un solo elemento che sia «vero in sé»,

reale e universalmente valido, a prescindere dall’uomo. L’indagatore di queste verità in fondo cerca

Nietzsche ‘Verità e bugie…’

173

soltanto la metamorfosi del mondo nell’uomo, si sforza di comprendere il mondo come una cosa

umana e nel caso migliore riesce a raggiungere il sentimento di una assimilazione. Allo stesso modo

in cui l’astrologo considerava le stelle al servizio degli uomini e in collegamento con la loro felicità

e con i loro dolori, così un tale indagatore considera il mondo intero come connesso con l’uomo,

come l’eco infinitamente ripercossa di un suono originario, cioè dell’uomo, come il riflesso

moltiplicato di un’immagine primordiale, cioè dell’uomo. Il suo metodo considera l’uomo come

misura di tutte le cose: nel far ciò tuttavia egli parte da un errore iniziale, credere cioè che egli abbia

queste cose immediatamente dinanzi a sé, come oggetti puri. Egli dimentica così che le metafore

originarie dell’intuizione sono pur sempre metafore, e le prende per le cose stesse.

Solo quando l’uomo dimentica quel primitivo mondo di metafore, solo quando la massa

originaria di immagini – che sgorgano con ardente fluidità dalla primordiale facoltà della fantasia

umana – si indurisce e irrigidisce, solo quando si crede, con una fede invincibile, che questo sole,

questa finestra, questo tavolo siano verità in sé: in breve, solo quando l’uomo dimentica se stesso in

quanto soggetto, e precisamente in quanto soggetto artisticamente creativo, solo allora egli può

vivere con una certa calma, sicurezza e coerenza. Se egli potesse uscire soltanto per un attimo dalle

mura segregatrici di questa fede, la sua «autocoscienza» si dissolverebbe allora d’un tratto. Già gli

costa molta fatica l’ammettere che l’insetto o l’uccello percepiscono un mondo del tutto differente

da quello umano, e che la questione di determinare quale delle due percezioni del mondo sia la più

giusta è del tutto priva di senso, poiché una misura in proposito dovrebbe essere stabilita in base al

criterio della percezione esatta, cioè in base a un criterio che non esiste. In generale poi la

percezione esatta – il che significherebbe l’espressione adeguata di un oggetto nel soggetto – mi

sembra un’assurdità contraddittoria: in effetti tra due sfere assolutamente diverse, quali sono il

soggetto e l’oggetto, non esiste alcuna causalità, alcuna esattezza, alcuna espressione, ma tutt’al più

un rapporto estetico, intendo dire una trasposizione allusiva, una traduzione balbettata in una lingua

del tutto straniera, il che richiederebbe in ogni caso una sfera intermedia e una capacità intermedia

che fossero capaci di poetare e di inventare liberamente. La parola apparenza contiene molte

tentazioni, e perciò la evito per quanto è possibile: non è infatti vero che l’essenza delle cose appaia

nel mondo empirico. Un pittore, cui manchino le mani e che voglia esprimere con il canto

l’immagine che gli sta di fronte, lascerà indovinare, con questo scambio di sfere, più di quanto il

mondo empirico non lasci indovinare riguardo all’essenza delle cose. Persino il rapporto tra uno

stimolo nervoso e l’immagine prodotta non è in sé affatto necessario: ma quando la medesima

immagine viene prodotta milioni di volte e viene trasmessa ereditariamente attraverso molte

Nietzsche ‘Verità e bugie…’

174

generazioni umane, apparendo infine a tutta quanta l’umanità ogni volta come conseguenza della

medesima occasione, essa in conclusione acquista per l’uomo il medesimo significato che le

spetterebbe se fosse l’unica immagine necessaria, e se quel rapporto fra l’originario stimolo nervoso

e l’immagine prodotta fosse un rigido rapporto di causalità. Allo stesso modo un sogno,

eternamente ripetuto, sarebbe sentito e giudicato interamente come realtà. Ma l’indurirsi e,

l’irrigidirsi di una metafora non offre assolutamente alcuna garanzia per la necessità e per l’autorità

esclusiva di questa metafora.

Ogni uomo cui tali considerazioni siano familiari ha senza dubbio sentito una profonda

diffidenza verso ogni idealismo cosiffatto, ogni volta che egli si sia convinto con grande chiarezza

dell’eterno rigore, dell’onnipresenza e dell’infallibilità delle leggi naturali. Egli è giunto alla

seguente conclusione: in questo campo – sin dove possiamo giungere, verso l’altezza del mondo

telescopico e verso la profondità del mondo microscopico – tutto è sicuro, costruito, infinito,

conforme a leggi e senza lacune; la scienza potrà eternamente scavare questi pozzi con successo, e

tutto ciò che sarà trovato risulterà concordante e non contraddittorio. Tutto ciò assomiglia davvero

poco a un prodotto della fantasia: se tale fosse il caso, difatti, da qualche parte dovrebbe trasparire

l’illusione e l’irrealtà. Invece occorre dire: se ciascuno di noi, per sé, avesse una differente

sensazione, se noi stessi potessimo percepire ora come uccelli, ora come vermi, ora come piante,

oppure se uno di noi vedesse il medesimo stimolo come rosso e un altro lo vedesse come azzurro, se

un terzo udisse addirittura tale stimolo come suono, nessuno potrebbe allora parlare di una tale

regolarità della natura, ma la intenderebbe unicamente come una creazione estremamente

soggettiva. Oltre a ciò, che cos’è per noi, in generale, una legge della natura? Essa ci è nota non già

in sé, bensì soltanto nei suoi effetti, cioè nelle sue relazioni con altre leggi naturali, che a loro volta

ci sono note soltanto come somme di relazioni. Tutte queste relazioni rimandano perciò sempre

l’una all’altra, e nella loro essenza risultano per noi perfettamente incomprensibili: in tutto ciò ci è

realmente noto soltanto quello che noi stessi aggiungiamo, il tempo, lo spazio, ossia rapporti di

successione e numeri. Peraltro l’intero elemento miracoloso –proprio quello che ammiriamo nelle

leggi naturali –che esige una nostra spiegazione e potrebbe indurci a diffidare dell’idealismo

consiste proprio unicamente nel rigore matematico e nell’inviolabilità delle rappresentazioni di

tempo e spazio. Queste, tuttavia, noi le produciamo in noi, traendole da noi stessi con quella

necessità con cui il ragno tesse la sua tela ; se siamo costretti a comprendere tutte le cose

unicamente in base a queste forme, non c’è allora più da meravigliarci che in tutte le cose noi

possiamo appunto comprendere, propriamente, soltanto queste forme: tutte quante debbono infatti

Nietzsche ‘Verità e bugie…’

175

portare in sé le leggi del numero e il numero è appunto l’elemento più stupefacente che esista nelle

cose. Ogni conformità a leggi, la quale ci fa talmente impressione nel corso degli astri e nei processi

chimici, coincide in fondo con quelle proprietà che noi stessi introduciamo nelle cose, cosicché

siamo noi che facciamo impressione a noi stessi. Da ciò risulta senza dubbio che quella formazione

artistica di metafore, con cui comincia in noi ogni sensazione, presuppone già quelle forme, ossia

viene compiuta in esse; è soltanto la salda permanenza di- queste forme originarie, che può spiegare

la possibilità della susseguente costituzione, in base alle metafore stesse, dell’edificio dei concetti.

Tale edificio è infatti un’imitazione dei rapporti temporali, spaziali e numerici sul terreno delle

metafore.

2

Alla costruzione dei concetti lavora originariamente, come abbiamo visto, il linguaggio, e in epoche

posteriori la scienza. Come l’ape costruisce le sue celle e al tempo stesso le riempie di miele, così la

scienza lavora incessantemente a quel grande colombario dei concetti – cimitero delle intuizioni –

costruisce in quell’edificio piani nuovi e più alti, consolida, ripulisce, rinnova le antiche celle, e

soprattutto si sforza di riempire quella costruzione a scomparti, innalzata a un livello eccelso, e di

ordinarvi l’intero mondo empirico, ossia il mondo antropomorfico. Se già l’uomo di azione lega la

sua vita alla ragione e ai concetti razionali, per non essere trascinato via dalla corrente e per non

perdersi, all’indagatore poi spetta addirittura di costruire la sua capanna a ridosso della torre della

scienza, per poter contribuire alla sua edificazione e per poter trovare egli stesso un riparo ai piedi

del baluardo già costruito. E di protezione egli ha bisogno, poiché esistono forze terribili che

premono continuamente su di lui, contrapponendo alla «verità» scientifica altre «verità» di natura

del tutto diversa e munite dei più svariati stemmi.

Quell’impulso a formare metafore, quell’impulso fondamentale dell’uomo da cui non si può

prescindere neppure per un istante, poiché in tal mòdo si prescinderebbe dall’uomo stesso, risulta in

verità non già represso, ma a stento ammansito, dal fatto che con i suoi prodotti evanescenti, i

concetti, sia stato costruito per lui un nuovo mondo, regolare e rigido, come roccaforte. Tale

impulso si cerca allora un nuovo campo di azione, un altro alveo per la sua corrente, e trova tutto

ciò nel mito, e in generale nell’arte. Confonde continuamente le rubriche e gli scomparti dei

concetti, presentando nuove trasposizioni, metafore, metonimie; continuamente svela il desiderio di

dare al mondo sussistente dell’uomo desto una figura così variopinta, irregolare, priva di

conseguenze, incoerente, eccitante ed eternamente nuova, quale è data dal mondo del sogno. In sé,

Nietzsche ‘Verità e bugie…’

176

anzi, l’uomo desto trae una chiara convinzione di essere sveglio unicamente dalla rigida e regolare

ragnatela dei concetti, e talvolta è portato a credere di sognare, appunto perché quella ragnatela

concettuale in certe occasioni viene strappata dall’arte. Pascal ha ragione quando sostiene che, se

ogni notte ci si presentasse il medesimo sogno, noi ci occuperemmo altrettanto di esso quanto delle

cose che vediamo ogni-giorno: «se un artigiano fosse sicuro di sognare ogni notte, per dodici ore

filate, di essere re, io credo allora» dice Pascal «che egli sarebbe altrettanto felice quanto un re che

sognasse tutte le notti, per dodici ore, di essere un artigiano». La veglia di un popolo — per esempio

degli antichi Greci — ispirato miticamente risulta, a causa dei miracoli continuamente operanti

quali sono accolti dal mito, realmente più simile al sogno che non alla veglia del pensatore

scientificamente disincantato. Quando ogni albero può avere l’occasione di parlare, nascondendo

una ninfa, quando sotto la figura di un toro un dio può trascinar via le vergini, quando la stessa dea

Atena viene vista improvvisamente, su un bel cocchio, attraversare le piazze di Atene in compagnia

di Pisistrato — e tutto ciò è creduto dai buoni Ateniesi – allora in ogni momento tutto è possibile,

come nel sogno, e tutta la natura si agita attorno all’uomo, quasi fosse unicamente una mascherata

degli dèi, contenti di fare uno scherzo all’uomo con ogni specie di metamorfosi ingannevoli.

L’uomo stesso peraltro ha un’invincibile tendenza a lasciarsi ingannare ed è come incantato di

felicità, quando il rapsodo gli racconta come vere delle favole epiche, o quando nel dramma l’attore

fa la parte del re in modo ancora più regale di quanto sia mostrato dalla realtà. L’intelletto, maestro

di finzione, è libero e sottratto al suo normale servizio da schiavo, sintanto che può ingannare senza

recare danno, e celebra allora i suoi Saturnali. In nessun’altra occasione esso è più esuberante, più

ricco, più orgoglioso, più abile e più audace: con gusto creativo mescola le metafore e sposta i

confini dell’astrazione, cosicché per esempio designa il fiume come la mobile strada che porta

l’uomo là dove di solito egli giunge camminando. Esso ha ormai gettato via da sé il segno della

soggezione: un tempo preoccupato, con triste operosità, di mostrare la via e gli strumenti a un

povero individuo che ha un ardente desiderio di vivere, un tempo pronto a rapinare e a predare

come lo è un servo per il suo padrone, ora invece è divenuto padrone e può cancellare dal suo volto

l’espressione della miseria. Tutto ciò che fa adesso, a confronto con le sue azioni precedenti, porta

in sé il segno della finzione, così come ciò che aveva fatto in precedenza portava in sé il segno della

caricatura.

Ora copia la vita umana, ma la prende come una cosa buona e sembra davvero contentarsi di

essa. Quella enorme impalcatura e travatura di concetti, aggrappandosi alla quale il misero uomo

riesce a salvarsi lungo la sua vita, costituisce, per l’intelletto divenuto libero, soltanto un’armatura e

Nietzsche ‘Verità e bugie…’

177

un trastullo per i suoi audaci artifici. E se manda in frantumi tutto ciò, se lo mescola, lo ricompone

ironicamente, accoppiando le cose più estranee e separando le cose più affini, con ciò esso fa vedere

di non aver bisogno di quei ripieghi della miseria e di essere ormai guidato, non già da concetti,

bensì da intuizioni. Non esiste una strada regolare, che partendo da queste intuizioni conduca nella

terra degli schemi spettrali, delle astrazioni: la parola non è fatta per le intuizioni, e l’uomo

ammutolisce quando si trova dinanzi a esse, oppure parla unicamente con metafore proibite e con

inauditi accozzamenti di concetti, per adeguarsi creativamente – almeno con la distruzione e la

derisione delle vecchie barriere concettuali – all’impressione della possente intuizione attuale.

Vi sono epoche in cui l’uomo razionale e l’uomo intuitivo stanno l’uno accanto all’altro, il primo

con la paura dell’intuizione, il secondo con il disprezzo per l’astrazione. Quest’ultimo è altrettanto

non razionale, quanto il primo è non artistico. Entrambi desiderano di dominare sulla vita: l’uomo

razionale, in quanto sa affrontare i più importanti e i più impellenti bisogni con la previdenza, la

prudenza e la regolarità; l’uomo intuitivo, in quanto non vede – come «eroe supremamente

giocondo» – quei bisogni e considera come reale soltanto la vita trasformata dalla finzione in

parvenza e in bellezza. Se l’uomo intuitivo – come è avvenuto nell’antica Grecia – sa usare le sue

armi più vittoriosamente e più potentemente dell’avversario, può configurarsi, in caso favorevole,

una civiltà e può fondarsi il dominio dell’arte sulla vita: quella finzione, quel rinnegamento della

miseria, quello splendore delle intuizioni metaforiche, e in generale quell’immediatezza

dell’inganno accompagnano tutte le manifestazioni di una siffatta vita. Né l’abitazione, né

l’andatura, né l’abbigliamento, né l’orcio d’argilla lasciano scorgere di essere stati inventati da un

bisogno impellente. Sembra quasi che attraverso tutte queste cose debba esprimersi una sublime

felicità, una serenità olimpica, e per così dire un giocare con ciò che è serio. Mentre l’uomo guidato

dai concetti e dalle astrazioni non riesce per mezzo loro che a respingere l’infelicità, senza riuscire

egli stesso a procurarsi la felicità dalle sue astrazioni, mentre cioè egli si sforza per quanto è

possibile di liberarsi dal dolore, l’uomo intuitivo invece, ergendosi in mezzo a una civiltà, raccoglie

dalle sue intuizioni, oltre che una difesa dal male, un’illuminazione, un rasserenamento, una

redenzione, che affluiscono incessantemente. Senza dubbio egli soffre più violentemente, quando

soffre: egli soffre anzi più spesso, poiché non sa imparare dall’esperienza e cade sempre di nuovo

nel medesimo pozzo in cui era caduto una volta. Nel dolore poi è tanto irrazionale quanto nella

felicità: egli grida forte e non trova consolazione. Quanto diverso è il comportamento, di fronte a

un’eguale sventura, dell’uomo stoico, ammaestrato dall’esperienza, il quale si domina con l’aiuto

dei concetti! Lui, che altrimenti cerca soltanto la rettitudine, la verità, la libertà dagli inganni e la

Nietzsche ‘Verità e bugie…’

178

difesa dalle sorprese seducenti, ora invece, nella sventura, mette in mostra il capolavoro della

dissimulazione, come quell’altro aveva fatto nella felicità: egli non rivela un volto umano mobile e

vibrante, ma per cosa dire una maschera, con un dignitoso equilibrio nei tratti; egli non grida e non

cambia nemmeno la sua voce. Se un nuvolone temporalesco si rovescia su di lui, egli si avvolge nel

suo mantello e se ne va a lento passo sotto il temporale.

179

John Cowper Powys (1872-1963)

Wolf Solent (1929)

lingua originale: inglese

edizione originale: Jonathan Cape, Londra

tr. it. R. Davies

tema: l’irrealtà dei sistemi filosofici

genere letterario: romanzo

[dal capitolo 5]

Wolf approfittò dell’assenza di Christie per avvicinarsi alla libreria che l’aveva già incuriosito. La

prima cosa ad attirare la sua attenzione fu un’edizione dell’Hydriotaphia ossia Il seppellimento

nelle urne di Sir Thomas Browne. Egli tolse questo libro dallo scaffale, e lo sfogliava distattamente

quando rientrò la ragazza con in mano un bicchiere di chiaretto. Rimettendo il volume al suo posto

in fretta, e alzando il vino alle labbra, non potè resistere alla voglia di commentare alcuni degli altri

più impegnativi volumi che si trovavano nella libreria.

“Vedo che lei legge Leibniz, Signorina Malakite,” disse. “Non trova quelle sue «monadi» di

difficile comprensione? Vedo anche che ha per di più Hegel. Mi sono sempre sentito molto attratto

da lui – nonostante sarei in imbarazzo se dovessi dire il perché.”

Si rimise a sedere sulla sedia di vimini, con il bicchiere di vino in mano.

“Lei si diverte con la filosofia?” aggiunse, guardandola sornione ma amichevole. I suoi

sopraccigli folti si contrassero, e i suoi occhi divennero stretti e piccoli.

Christie si sedette vicino a lui sul sofa e, pensierosa, spianò con le mani la sua gonna marrone.

Fu evidente la sua ansia di rispondere a questa domanda importante con la dovuta meticolosità […]

“Non capisco la metà di quello che leggo,” esordiò, parlando con estrema precisione. “Tutto ciò

che so è che ognuno di quei libri vecchi ha per me il proprio atmosfera.”

“Atmosfera?” chiese Wolf.

“Suppongo che sia buffo parlare in questo modo,” continuò Christie, “ma tutte quelle strane

astrazioni non-umane, come la «sostanza» di Spinoza, e le «monadi» di Leibniz, e le «idee» di

Hegel, non rimangono dure e logiche per me. Sembrano sciogliersi.” Si fermò e guardò Wolf con

un sorriso, come per scusare la sua pedanteria estrema.

“Cosa intende per «sciogliersi»?” egli mormorò.

Cowper Powys, Wolf Solent

180

“Intendo quello che dico,” rispose, con un tocco di fastidio, come se l’atto di pronunciare le

parole le fosse difficile e lei aspetasse che il suo interlocutore fosse in grado di cogliere il loro

significato a prescindere. “Intendo che esse diventano ciò che io chiamo «atmosfera».”

“Il tono del pensiero che le aggrada di più, suppongo?” egli suggerì.

Christie lo guardò come se egli avesse lanciato un bastone alla bolla di sapone che lei stava

soffiando.

“Mi dispiace di essere così incapace di esprimere me stessa,” disse. “Non credo di pensare per

niente alla filosofia in termini di «verità».”

“Come la concepisce, allora?”

Christie Malakite sospirò: “Ce ne sono così tante!” mormorò.

“Così tante?”

“Così tante verità. Ma lei non deve farsi problemi nel seguire i miei modi goffi di mettere le

cose, Signor Solent.

“La sto seguendo con il massimo interesse,” disse Wolf.

“Ciò che sto cercando di dire è,” proseguì, buttando fuori le parole quasi con ferocia, “io

concepisco ciascuna filosofia, non come la «verità», bensì solo come un particolare paese, in cui

posso viaggiare – paesi con la loro luce peculiare, i loro edifici gotici, i loro tetti inclinati, i loro

viali alberati – ma temo di annoiarla con tutto questo!”

“Vada avanti, per l’amor del Cielo!” implorò. “È esattamente ciò che voglio sentire.”

“Voglio dire, si tratta del modo di sentire le cose,” spiegò, “quando si sente la pioggia fuori dalla

finestra mentre stai leggendo un libro. Mi capisce? O, non riesco a metterlo in parole! Quando ti

viene quella subitanea sensazione della vita che sta procedendo fuori … anche lontano da dove stai

seduto … in tratti vasti di paesaggio … come se stessi viaggiando in una carozza e tutte le cose che

passavi fossero … la vita stessa … i parapetti dei ponti con le foglie morte che li coprono … gli

alberi agli incroci … le inferriate dei parchi … le luci delle lampade riflesse nei laghetti … non

intendo, ben inteso, che la filosofia è identica alla vita … ma – O non vede ciò che intendo?” Si

fermò con un gesto di stizzo.

Wolf si morse la labbra per sopprimere un sorriso. In quel momento fu quasi disposto a

coccolare la piccola figura nervosa davanti a lui.

“Io so perfettamente ciò che intende,” disse alacramente. “La filosofia per lei, e anche per me

stesso, non è affatto scienza! È piuttosto la vita stessa, purificata ed esaltata. È l’essenza della vita

colta in volo. È la vita incorniciata, incorniciata dalla finestra di una stanza … di una carozza …

Cowper Powys, Wolf Solent

181

dagli specchi … nei nostri momenti di malinconia … quando alziamo gli occhi da un libro

coinvolgente … nei nostri sogni a occhi aperti – certo che io so perfettamente ciò che intende!”

Christie si spostò sul sofà e girò la testa in modo tale che lui potesse vedere solo un profilo

delicato del suo viso, un profilo che, in quella posizione particolare gli sovvenne un ritratto del

filosofo Cartesio!

182

Arthur Eddington (1882-1944)

La natura del mondo fisico (1928)

lingua originale: inglese

edizione originale:Routledge, Londra

tr. it. L. Gialanella, C. Cortesi De Bosis, Laterza, Bari, 1935

tema: il divario tra scienza moderna e senso comune

genere letterario: divulgazione scientifica

INTRODUZIONE

Mi sono posto al lavoro per scrivere questo libro ed ho avvicinato le sedie alle mie due tavole. Due

tavole! Sì; intorno a me ogni oggetto è in doppio esemplare: due tavole, due sedie, due penne.

Questo veramente non è un esordio profondo per un corso che dovrebbe raggiungere i livelli

trascendentali della filosofia scientifica. Ma non possiamo immediatamente venire al sodo;

dobbiamo prima grattare un poco la superficie delle cose. E ogni volta che comincio, la prima cosa

che tocco è... questa duplice tavola.

L’una mi è stata familiare fin dai primissimi anni. È un oggetto comune di quell’ambiente che io

chiamo il mondo. Come la descriverò? Ha estensione; è relativamente stabile; è colorata; soprattutto

è sostanziale. Per sostanziale io non intendo semplicemente che non si sfascia quando mi ci

appoggio, ma intendo che è costituita di sostanza, e con questa parola cerco di comunicarvi una

qualche idea della sua natura intrinseca. È una cosa; non come lo spazio, che è una mera negazione;

non come il tempo, che è... Dio sa cosa! Ma ciò non vi aiuterà a intendermi, perchè caratteristica

distintiva di una «cosa» è l’avere questa sostanzialità e non credo che essa si possa descrivere

meglio che col dire che è la qualità naturale posseduta da una tavola ordinaria. E così giriamo in

circoli chiusi. Dopo tutto, se voi siete un semplice uomo di buonsenso, non troppo preoccupato da

scrupoli scientifici, sarete certamente capace di capire la natura d’una tavola ordinaria. Ho perfino

sentito di uomini semplici convinti che avrebbero potuto capir meglio il mistero della propria natura

se gli scienziati avessero scoperto il modo di spiegarla nei termini della natura facilmente

comprensibile di una tavola.

La tavola n. 2 è la mia tavola scientifica. Si tratta d’una conoscenza più recente e non mi riesce

ugualmente familiare. Non appartiene al mondo sopra citato, quel mondo che mi appare

spontaneamente all’intorno quando apro gli occhi, benchè qui io non distingua quanto di esso sia

oggettivo e quanto soggettivo. È parte di un mondo che per molte vie traverse si è imposto alla mia

Eddington, Il mondo fisico

183

attenzione. La mia tavola scientifica è in gran parte «vuoto». Sparpagliate radamente in questo

vuoto vi sono numerose cariche elettriche che si muovono in tutte le direzioni con grande velocità;

ma il loro volume complessivo rappresenta meno d’un bilionesimo del volume della tavola stessa.

Nonostante questa sua strana costruzione, essa appare però come una tavola interamente efficiente.

Sostiene la carta su cui scrivo in modo ugualmente soddisfacente che la tavola n. I; perchè, quando

appoggio su di essa la carta, le piccole particelle elettriche di cui la tavola è composta, muovendosi

con le loro enormi velocità, ne percuotono in continuazione la faccia inferiore, di modo che il foglio

si sostiene, come nel giuoco del volano, a un livello press’a poco costante. Se poi mi appoggio ad

essa, non c’è pericolo che l’attraversi: per dire anzi con maggiore esattezza, la possibilità che il mio

gomito «scientifico» attraversi la mia tavola «scientifica» è talmente piccola che nella vita pratica si

può del tutto trascurare. Se esaminiamo le proprietà delle due tavole una alla volta, pare che non vi

sia nulla che per gli scopi ordinari faccia preferire l’una all’altra; ma in occasione di eccezionali ed

anormali circostanze la mia tavola scientifica è quella che fa la miglior figura. Se la casa si incendia

la mia tavola scientifica si dissolverà nel modo più naturale in fumo «scientifico», mentre la mia

tavola familiare subirà una metamorfosi della sua natura sostanziale che posso considerare solo

come miracolosa.

La mia seconda tavola non ha nulla di sostanziale. È pressoché tutto spazio vuoto — spazio

pervaso, è vero, da campi di forza — ma questi debbono assegnarsi piuttosto alla categoria delle

«influenze», anzichè a quella delle «cose». Perfino nei riguardi della minuscola parte che non è

«vuoto» non è necessario trasportarvi la vecchia nozione di sostanza. Considerandola materia

composta di cariche elettriche ci siamo allontanati di molto da quel suo quadro che per primo diede

origine al concetto di sostanza, ed anzi il significato di quel concetto — se mai ne ebbe uno — s’è

completamente perduto durante il cammino. La generale tendenza delle moderne vedute scientifiche

è quella di abbattere le categorie separate di «cose», «influenze», «forme», ecc., e sostituirle con il

substrato comune a tutte le esperienze.

Se prendiamo a studiare un oggetto materiale, un campo magnetico, una figura geometrica o una

durata di tempo, tutte le nostre indagini scientifiche si risolvono in misure che noi compiamo; ma nè

l’apparecchio di misura usato nè il modo di adoperarlo fa pensare che vi sia qualche cosa di

essenzialmente differente in ognuno di questi problemi. Le misure stesse non forniscono la materia

per una classificazione per categorie. Si sente pertanto la necessità di concedere un qualche

substrato alle misure — un mondo esterno; ma gli attributi di questo mondo (salvo per quanto sono

riflessi nelle misure) sono al di fuori di ogni indagine scientifica. La scienza si è finalmente rifiutata

Eddington, Il mondo fisico

184

di unire l’esatta cognizione contenuta in queste misure ad una serie tradizionale di concetti che non

dànno nessuna autentica informazione di questo substrato e introducono invece cose estranee nello

schema della conoscenza.

Qui non insisterò più a lungo sulla non-sostanzialità degli elettroni, poichè questo è appena

necessario al nostro ragionamento. Concepiteli sostanzialmente quanto più vi piace, vi sarà sempre

una grande differenza fra la mia tavola scientifica, con la sua sostanza (se pur ce 1’ha) minutamente

sparpagliata in una regione in massima parte vuota, e la tavola usuale d’ogni giorno che noi

consideriamo come il tipo della realtà solida — [una protesta materializzata contro il soggettivismo

berkeleiano]. C’è invero una differenza enorme se la carta che mi sta davanti è tenuta in equilibro

come se fosse posata su uno sciame d’api, sostenuta come nel gioco del volano da una serie di

leggeri colpi dallo sciame sottostante, o se è sostenuta invece perchè sotto di essa vi è della sostanza

[è l’impenetrabilità la proprietà intrinseca della sostanza]; ma questa differenza è solo concettuale e

teorica, dato che non ve n’è certamente alcuna per il mio còmpito pratico di scrivere sulla carta.

Non occorre vi dica che la fisica moderna mi ha assicurato con delicata esperienza e logica

inesorabile che la mia seconda tavola scientifica è la sola veramente esistente — [a parte il vero

significato di «esistere»]. D’altronde non ho bisogno di dirvi che la fisica moderna non riuscirà mai

a esorcizzare quella prima tavola — strano complesso di natura esterna, di visioni della mente e di

pregiudizi ereditari — visibile ai miei occhi, tangibile alla mia mano. Ma dobbiamo darle un addio

per il momento perchè stiamo per trasportarci dal mondo familiare a quello scientifico rivelato dalla

fisica. Questo è, o dovrebbe essere, un mondo interamente esterno.

«Voi parlate paradossalmente di due mondi. Non sono essi piuttosto due aspetti o due

interpretazioni di un unico stesso mondo?»

Sì, senza dubbio, essi sono in ultima analisi identici per un certo verso; ma il processo per il

quale il mondo esterno della fisica è trasformato nella coscienza umana in un mondo di conoscenza

familiare non rientra nell’àmbito della fisica stessa. E così il mondo studiato secondo i metodi della

fisica resta staccato da quello familiare della coscienza, finchè il fisico non abbia finito di lavorarvi

sopra. Provvisoriamente, dunque, consideriamo la tavola che è l’oggetto della ricerca fisica

interamente separata dalla tavola familiare, senza pregiudicare la questione della loro definitiva

identificazione. È vero che l’intera ricerca scientifica parte dal mondo familiare e deve alla fine

tornare al mondo familiare; ma la parte del viaggio spettante al fisico si compie in un campo del

tutto estraneo.

Eddington, Il mondo fisico

185

Fino a poco tempo fa v’era un legame molto più stretto; il fisico era solito chiedere in prestito la

materia prima del suo mondo al mondo familiare. Ora non è più così. Le sue materie prime sono

etere, elettroni, quanti, potenziali, funzioni hamiltoniane, ecc., e oggi egli sta scrupolosamente

attento nel difenderle dalla contaminazione di concetti presi in prestito da quell’altro mondo. Vi è

una tavola familiare parallela alla tavola scientifica, ma non vi è un elettrone, un quanto, un

potenziale familiare, parallelo all’elettrone, al quanto, al potenziale scientifico. Nè pensiamo a

fabbricare un corrispondente familiare di queste cose o, come diremmo comunemente, «spiegare»

l’elettrone. Soltanto dopo che il fisico avrà interamente finito la sua costruzione del mondo, sarà

permesso stabilire un legame od una identificazione, poichè si è trovato che i tentativi prematuri di

collegamento sono completamente pericolosi.

La scienza mira alla costruzione di un mondo che sarà il simbolo del mondo di esperienza

comune; nè è affatto necessario che ogni simbolo adoperato rappresenti qualche cosa

nell’esperienza comune od anche qualche cosa spiegabile con i termini di tale esperienza. L’uomo

comune domanda sempre una spiegazione concreta delle cose di cui si occupa la scienza; ma

purtroppo egli deve necessariamente essere deluso. È come la nostra esperienza nell’imparare a

leggere: quanto è scritto in un libro è il simbolo d’una storia nella vita reale. L’intero scopo del libro

è che un lettore identifichi definitivamente qualche simbolo, per es., PANE, con uno dei concetti

della vita familiare. Ma è dannoso tentare prima del tempo tali identificazioni, prima cioè che le

lettere si consolidino in parole e le parole in frasi. Il simbolo A non è il corrispondente d’una cosa

della vita familiare. Per un bimbo la lettera A parrebbe orribilmente astratta; così gli diamo insieme

con essa un concetto familiare: «A è un’arancia appesa ad un albero». Ciò l’aiuta a superare la sua

difficoltà immediata; ma egli non può fare serii progressi con costruzioni di parole come Arance,

Bastoni, Capitani, danzanti intorno alle lettere. Le lettere sono astratte, e presto o tardi dovrà

accorgersene. In fisica noi abbiamo scavalcato le definizioni dei simboli fondamentali. Se ci vien

chiesto di, spiegare che cosa veramente si pensi che sia un elettrone, possiamo rispondere soltanto:

«È parte dell’abicì della fisica».

Il mondo esterno della fisica è così divenuto un mondo di fantasmi. Allontanando le nostre

illusioni abbiamo allontanato la sostanza, perchè infatti abbiamo visto che la sostanza è una delle

nostre più grandi illusioni. Più tardi forse potremo chiederci se nel nostro zelo di tagliar via tutto ciò

che è irreale non si sia adoperato il coltello troppo spietatamente. Forse la realtà è una creatura che

non può sopravvivere senza la sua nutrice illusione. Ma se così è, ciò ha poca importanza per lo

Eddington, Il mondo fisico

186

scienziato che ha ragioni buone e sufficienti per perseguire le sue ricerche nel mondo delle ombre e

s’accontenta di lasciare determinare al filosofo i suoi rapporti esatti con la realtà.

Nel mondo della fisica assistiamo alla rappresentazione del dramma della vita familiare fatta da

fantasmi. L’ombra del mio gomito riposa sull’ombra della tavola, come l’ombra dell’inchiostro

scorre sull’ombra della carta. È tutto simbolico, e per il fisico rimane tale. Allora interviene la

Mente alchimista che opera la trasmutazione dei simboli. Gli sparsi nuclei di forza elettrica

divengono un solido tangibile; la loro irrequieta agitazione diviene il calore dell’estate; la gamma

delle vibrazioni eteree diviene un magnifico arcobaleno. Nè l’alchimia si ferma qui. Nel mondo

trasmutato sorgono nuovi significati che a mala pena si possono rintracciare nel mondo dei simboli;

di modo che diviene un mondo di bellezza e di utilità, e, ahimè !, di sofferenza e di male.

Il franco riconoscimento che la fisica lavora su di un mondo di ombre è fra i recenti progressi

uno dei più significativi. Non intendo dire che i fisici siano in qualche modo preoccupati delle

conseguenze filosofiche di ciò. Dal loro punto di vista non è tanto un abbandono di tesi insostenibili

quanto un’asserzione di libertà per uno sviluppo autonomo. Per ora insisto sul carattere simbolico e

vago del mondo della fisica, non perchè influisca sulla filosofia, ma perchè il distacco dai concetti

familiari sarà ben palese nelle teorie scientifiche che dovrò descrivere. Se non foste preparati a

questo distacco potrebbe darsi che non provereste alcuna simpatia per le moderne teorie

scientifiche, e potreste anche trovarle ridicole, come, immagino, accade a molte persone.

È difficile abituarsi a trattare il mondo fisico quale un mondo puramente simbolico. Ricadiamo

sempre; mescoliamo con i simboli concetti incongrui presi dal mondo della coscienza. Senza aver

appreso nulla da una lunga esperienza, allunghiamo la mano per afferrare l’ombra, invece

d’accettare la sua natura d’ombra. In verità, a meno di limitarci esclusivamente al simbolismo

matematico, è molto difficile evitare di vestire i nostri simboli con abiti illusori.

Quando penso a un elettrone si presenta alla mia mente una palla piccola, dura, rossa; il protone

similmente è d’un grigio neutro. Naturalmente il colore è assurdo — d’altronde forse non più

assurdo del concetto — ma io sono incorreggibile. Posso ben capire che le menti più giovani

trovino queste immagini troppo concrete e si sforzino a costruire il mondo secondo i simboli e le

funzioni hamiltoniane, così lontane da ogni umana concezione da non ubbidire neppure alle leggi

dell’aritmetica ortodossa. Per conto mio trovo qualche difficoltà ad innalzarmi a quel livello di

pensiero; ma sono convinto che quel livello di pensiero dovrà prevalere.

In queste conferenze mi propongo la discussione di alcuni risultati dello studio moderno del

mondo fisico da cui il pensiero filosofico riceve maggior alimento. Ciò comprenderà nuove

Eddington, Il mondo fisico

187

concezioni nella scienza e anche nuove conoscenze. In ambo i casi siamo portati a pensare

l’universo materiale in un modo molto diverso da quello che prevaleva al finire dello scorso secolo.

Nè qui io perderò di vista il problema di porre queste scoperte, puramente fisiche, in relazione agli

aspetti più vasti della natura umana. Queste relazioni non hanno’potuto sottrarsi ad un

cambiamento, dato che l’intera nostra concezione del mondo fisico è radicalmente cambiata.

Io sono convinto che un giusto apprezzamento del mondo fisico, quale lo si intende oggi, porta

con sè la disposizione a più vasti significati, che trascendono le operazioni di misura scientifica;

disposizione che avrebbe potuto sembrare del tutto illogica una generazione fa. Nelle ultime

conferenze proverò di chiarire quel senso e mi sforzerò, benchè poco capace, a cercare dove esso

conduce. Ma sarei sleale verso la scienza se non insistessi nel dire che il suo studio è fine a se

stesso. Il sentiero della scienza lo si deve perseguire per amore della scienza, senza riguardo al

panorama di un paesaggio- più vasto che essa potrebbe offrire; secondo questo spirito dobbiamo

seguire la nostra strada, sia che conduca alla vetta della luce o alla grotta dell’oscurità. Perciò,

finchè l’ultima tappa non sia raggiunta, vi dovete accontentare di percorrere con me il sentiero

battuto dalla scienza, nè rimproverarmi troppo severamente se mi attarderò fra i fiori che lo

fiancheggiano. Dev’esserci fra noi questo accordo. Vogliamo metterci in cammino?

188

Casimir Lewy (1919-90)

Significato e modalità (1976)

lingua originale: inglese

edizione originale:Cambridge University Press, Cambridge

tr. it. R. Davies

tema: verità e significato

genere letterario: trattato accademico (‘analitico’)

Capitolo 2: Proposizioni e verità

Nel capitolo precedente ho distinto tra proposizioni della forma:

(A) La proposizione che … è vera

e proposizioni della forma:

(B) La proposizione espressa dalla frase “…” è vera

E ho fatto notare che proposizioni della forma (A) non implicano, e non vengono implicate da, le

corrispettive proposizioni della forma (B).1

Orbene, spesso si dice che la verità presuppone significato; e adesso siamo nelle condizioni di

spiegare il senso in cui questo è vero e il senso in cui è falso. È vero se significa che proposizioni

della forma (B) implicano le proposizioni corrispettive della forma:

(C) La frase “…” è significativa (vale a dire, esprime una proposizione)

È falso se significa che proposizioni della forma (A) implicano le corrispettive proposizioni della

forma (C).

Inoltre, si dice, come ha detto ad esempio F.P. Ramsey, che la nozione di verità è ridondante (o

superflua) per il fatto che “p è vero” significa la stessa identica cosa di “p”.2

Siamo anche nelle condizioni di spiegare il senso in cui questo è vero e il senso in cui è falso. È

vero se significa che proposizioni della forma (A) sono equivalenti a proposizioni della forma.

(D) …,

dove la stessa frase viene sostiuita per “…” in (D) come in (A).

1 Ma vedi la nota precedente [non inclusa nella dispensa: aggiunta di Davies].2 F.P. Ramsey, “Facts and Propositions”, Aristotelian Soc. Suppl. Vol. 7 (1927), ristampato in F.P. Ramsey,TheFoundations of Mathematics and Other Logical Essays (Londra, 1931), pp. 142-3.

Lewy, Significato e modalità

189

Ma la tesi di Ramsey è falsa se significa che proposizioni della forma (B) sono logicamente

equivalenti alle corrispettive proposizioni della forma (D).

La distinzione tra le proposizioni della forma (A) e le proposizioni della forma (B) è assai

fondamentale, e la sua mancata osservanza ha portato a errori gravi.

Procedo a discutere alcune delle conseguenze di questa distinzione. Facendo così discuteremo in

effetti un numero di problemi che sono in se stessi di una certa importanza.

Nella sua Introduzione alla semantica, Carnap dice:

Si aggiunga un commento riguardo al modo di usare il termine ‘vero’ in queste discussioni…Qui noi usiamo il termine in tal senso che asserire che una frase è vera significa la stessaidentica cosa che asserire la frase stessa; ad esempio, i due enunciati “La frase ‘La luna èsferica’ è vera” e “La luna è sferica” non sono altro che due formulazioni della stessaasserzione.3

Un po’ più avanti nella stessa pagina Carnap afferma che naturalmente questo non costituisce

una definizione del termine “vero”, bensì un criterio con il quale giudichiamo l’adeguatezza di una

definizione di verità, vale a dire se essa si accorda o meno con le nostre intenzioni. E egli procede a

dire che, se una definizione di un predicato Pri viene proposta come una definizione di verità, noi la

accetteremo come una definizione adeguata se e solo se, in base a questa definizione, Pri soddisfa

la summenzionata condizione, vale a dire che essa produce frasi come ““La luna è sferica” è … se e

solo se la luna è sferica’, dove Pri (ad esempio “vero”) viene messo al posto di “…”.4

Risulta dunque chiaro che Carnap interpreta il “se e solo se” della condizione di adeguatezza di

Tarski nel senso almeno di “strettamente implica ed è strettamente implicato da”. In realtà lo

interpreta in un senso ancora più forte, quello in cui le proposizioni:

La frase “La luna è sferica” è vera

e:

La luna è sferica

sono identiche. Ma io non prendo atto di questo e lo interpreterò nel senso dell’interpretazione

meno impegnativa indicata sopra.5

Implicitamente Quine adotta la stessa identica interpretazione nella sua recensione nel Journal of

Symbolic Logic a un articolo di E.J. Nelson.6 Quine dice:

3 R. Carnap, Introduction to Semantics (Cambridge, Mass., 1942), p. 26.4 Chiamerò questa condizione ‘la condizione di adeguatezza per una definizione di verità di Tarksi’ o, per brevità, ‘lacondizione di adeguatezza di Tarksi’.5 Discuteremo più avanti la tesi di Tractatus-Carnap secondo cui equivalenza stretta è una condizione sufficiente (oltreche necessaria) per l’identità di proposizioni.

Lewy, Significato e modalità

190

In esordio a questo intervento, ho dimostrato che non è necessario permettere l’inferenza a ‘aesiste’ a partire da ‘fa’ e da ‘~fa’. Ci risulta una direzione di pensiero, alquanto curiosa etangenziale a questo punto, che merita di essere menzionata in conclusione. È la seguente: anchese non si può desumere ‘a esiste’ a partire da ‘fa’ e da ‘~fa’, si può desumere ‘‘a’ èsignificativo’, e non è che questo risuscita il problema originale sotto un’altra forma?7 Unarisposta possibile è che ‘‘a’ è significativo’, se vero, è analitico, in modo tale che ‘fa’ e ‘~fa’possono coumnque essere contraddittori; ma prima di accontentarmi di una risposta simile avreivoluto un’analisi soddisfacente della significatività. Una risposta alternativa è quella secondo cuinon si può desumere ‘‘a’ è significativo’ a partire da ‘fa’, ma solo a partire da ‘‘fa’ èsignificativo’. Ma rimane la contro-risposta che ‘‘fa’ è significativo’ consegue da ‘‘fa’ è vero’, e‘‘fa’ è vero’ consegue da ‘fa’. Paradossi che sorgono intorno alla parola ‘vero’ non sono, però,una novità.

Per chiarire meglio questa vicenda, prendiamo un esempio specifico.

Consideriamo:

(1) La luna è sferica

(2) La parola “sferica” è significativa

(3) La frase “La luna è sferica” è significativa

(4) “La luna è sferica” è vera

Il paradosso di Quine è dunque il seguente:

(A) (1) → (4);8

(B) (4) → (3);

(C) (3) → (2).

Per la transitività di →, dunque,

(D) (1) → (2)

Ma (D) è paradossale. Naturalmente, come faccio spesso anche io, Quine usa “paradossale” in

questo contesto nel senso di “in conflitto con le intuizioni”. (Questo è un uso comune, legittimo e

persino importante della parola. Naturalmente a coloro ai quali mancano di intuizioni filosofiche,

non piace usare la parola in questo senso.)

6 W.V.O. Quine, Review of E.J. Nelson, “Contradiction and the Presupposition of Existence”, Journal of SymbolicLogic, vol. 12 (1947), . 55.7 Il ‘problema orginale’, che non discuteremo, verteva sulla questione se ‘fa’ e ‘~fa’ siano contraddittori o meno.Langford ha affermato che non lo sono adducendo il fatto che entrambi implicano “(∃x). fx ∨ ~fx” e “a esiste”, che nonsono necessari.8 [Lewy usa un segno grafico, noto come “lenza di pesce” e qui reso (per comodità dei font) con “→”, per“implicazione stretta”, che si definisce “necessariamente non (p e non q)” o “se p allora, necessariamente, q”. Ildibattito sull’analisi dei periodi condizionali è un topos della logica sin dalla Grecia antica che a tutt’oggi sembra nontrovare consenso. Nota di Davies]

Lewy, Significato e modalità

191

In un articolo pubblicato sulla rivista Analysis,9 ho sostenuto che ci sono due interpretazioni (o

sensi) della frase (4). Nello specfico, c’è un senso in cui (A) è vero ma (B) è falso, e un senso in cui

(B) è vero ma (A) è falso. Non c’è però un senso di (4) in cui sia (A) che (B) sono veri. Perciò, ho

concluso che il paradosso di Quine è risolto.

Per esprimerlo in modo più completo

Senso 1 Senso 2

(A) (1) → (4) (A) (1) Ω (4)

(B) (4) Ω (3)10 (B) (4) → (3)

(C) (3) → (2) (C) (3) → (2)

(Do per scontato che (C) sia vero.)

Ora, nella raccolta dei suoi articoli Da un punto di vista logico,11 Quine si riferisce al mio

articolo e, in effetti, concede che non ci sia paradosso qui e che egli si sia sbagliato (pp. 137n , 164).

Non si esprime in modo molto chiaro in proposito, e io proporrò la sua opinione con parole mie. Ma

se ho capito bene, adesso ritira (A) e adotta quella che ho chiamato la seconda interpretazione (o

senso) di (4): Vale a dire, egli rinuncia al passo secondo cui (1) → (4), ma maintiene il passo

secondo cui (4) → (3).

In altre parole, egli ammette che il “se e solo se” della condizione di adeguatezza di Tarski non

va interpretato nel modo in cui lui stesso e Carnap l’hanno interpretato. In effetti, egli dice “non è

necessario affermare” che enunciati della forma:

“––” è vero-in-L se e solo se ––,

dove un unico enunciato qualunque viene scritto al posto dei trattini, sono analitici (p. 137n). Ma

non dice che una volta egli stesso ha affermato tanto!12

Ciononostante, Quine sembra rimanere restio nell’accettare la mia prima interpretazione di (4). E

così sembra indicare che, nell’affermare (A) ha semplicemente commesso un errore. Io penso che,

in questo, manca di giustizia nei suoi propri confronti, e forse anche nei confronti del mio articolo

su Analysis.

9 C. Lewy, “Truth and Signification”, Analysis vol. 8 (1947). In realtà, l’esempio usato è diverso, ma non tanto dainfluire sul punto centrale.10 “Ω ” significa “non implica strettamente”.11 W.V.O. Quine, From a Logica Point of View (Cambridge, Mass., 1953; 2a edizione rivista, New York e Evanston,1961).12 In comune con molti altri, Quine usa “analitico” qui (e nella sua recensione originale) per significare “logicamentenecessario”. Tornermo più avanti a discutere il rapporto tra queste due nozioni.

Lewy, Significato e modalità

192

Per vedere perché le cose stanno così, ci chiediamo: Come va interpretato il “se e solo se” nella

condizione di adeguatezza di Tarski? Tarksi,13 e adesso anche Quine, lo interpreta nel senso

dell’equivalenza materiale (ossia della bicondizionale verofunzionale). Ne discutiamo.

Prendiamo la seguente proposizione:

(α) La proposizione espressa dalla frase italiana “La neve è bianca” è vera ≡ la neve è bianca14

Ho fomulato (α) usando la formula “la proposizioine espressa dalla frase italiana “…”” anziché la

formula “la fase italiana “…””. Ho fatto così in parte perché mi sembra questa la formulazione più

giusta, e anche in parte perché voglio evitare l’obiezione – che non è pertinente in questa sede – che

è improprio parlare di frasi come vere o false. Chi, d’altro canto, preferisce parlare di frasi come

vere o false rimane libero di riformulare (α) di conseguenza.

A me sembra chiaro che (α) sia vera; ma in che cosa consiste la sua verità? O, per metterla in

termini più generali, perché la condizione di Tarksi (interpretando il “se e solo se” come ≡) è un

criterio per l’adeguatezza di qualsiasi definizione di verità? Sicuramente, la condizione non va

considerata come arbitraria!

Per discutere di questo, consideriamo le seguenti proposizioni:

(1) La proposizione espressa dalla frase italiana “La neve è bianca” è la proposizioneche la neve è bianca;

(2) La proposizione che la neve è bianca è vera;

(3) La proposizione espressa dalla frase italiana “La neve è bianca” è vera;

(4) La neve è bianca.15

Dunque

(A) [(1) & (2)] → (3);

(B) [(1) & (3)] → (2);

13 Cr. A. Tarski, “The Semantic Conception of Truth”, Philosophy and Phenomenological Research, vol. 4 (1944). Ladefinizione di verità per i linguaggi formalizzati viene proposta in A. Tarksi Pojecie Prawdy w Jezykach NaukDedukcyjnich (Varsavia, 1933). Traduzione tedesca (con nuova Nachwort) in Studia Philosophica, vol. 1 (1936).Traduzione inglese (basata sul testo tedesco) in A. Tarksi, Logic, Semantics, Metamathematics (Oxford, 1956). Nientedi quanto detto in questo capitolo va interpretato come volto a sminuire l’importanza della monografia di Tarksi comecontributo alla logica pura. Mi sembra giusto affermare questo a chiare lettere.14 Uso “≡” per l’equivalenza materiale, “⊃” per implicazione materiale, “&” per la congiunzione e “∨” per ladisgiunzione.15 Chi lo preferisce può rifomulare (1)-(3) come segue:(1´) La frase italiana “La neve è bianca” significa che la neve è bianca (e nient’altro);(2´) Che la neve è bianca è vero;(3´) La frase italiana “La neve è bianca” è vera.

Lewy, Significato e modalità

193

(C) Se (A), allora (1) → [(2) ⊃ (3)];

(D) Se (B), allora (1) → [(3) ⊃ (2)].16

Da (A), (B), (C) e (D), arriviamo a

(E) (1) → [(3) ≡ (2)]

Ma (1) è vero; e da (1) e (E), arriviamo a

(F) (2) ≡ (3)

(F) è ovviamente equivalente a

(3) ≡ (2)

a cui applico, per motivi che si chiariranno tra poco, l’etichetta (γ).

Se posso permettermi una nota a margine, si noti che il fatto che non è vero che (3) ↔ (2)

dimostra definitivamente che (1) non è logicamente necessario. Se (1) fosse logicamente necessario,

sarebbe vero che (3) ↔ (2). Questo perché, ovviamente

[( P & Q) → R] & ~◊~P ⊃ (Q → R).17

E questo è un’ovvietà lampante se la mettiamo nella forma equivalente;

[( P → (Q ⊃ R] & ~◊~P ⊃ (Q → R).

Poiché è ovvio che qualunque cosa strettamente implicata da una proposizione necessaria è essa

stessa necessaria. Quindi, opinione assurda di A.R: White, B.H. Medlin e J.J.C. Smart, secondo cui

proposizioni come (1) sono logicamente necessaria, può essere definitivamente scartata.

Torniamo al filo del ragionamento.

Si noti che (γ) non è ancora ciò che (α) – che non è altro che un esempio specifico della

condizione di adeguatezza di Tarksi – afferma. Ciò che (α) afferma è che (3) ≡ (4). Come arriviamo

a (α) a partire da (γ)? Ovviamente, dobbiamo aggiungere

(β) (2) ≡ (4)

In altre parole:

(γ) (3) ≡ (2)

(β) (2) ≡ (4)

16 (C) e (D) si basano naturalmente sul principio modale secondo cui se (P & Q) → R, allora P → (Q … R).17 [Lewy usa il simbolo “◊” per “è possibile che”; quindi la formula “~◊~P” è da intendersi come “non è possibile chenon-P”, che è equivalente a “è necessario che P”. Nota di Davies.]

Lewy, Significato e modalità

194

quindi

(α) (3) ≡ (4)

Vale a dire,

[(γ) & (β)] → (α);

quindi

(β) → [(γ) ⊃ (α)]

Orbene, se (β) non fosse logiamente necessario sarebbe vero solo che

(γ) ⊃ (α)

mentre è chiaramente vero anche che

(γ) → (α)

Quindi (β) è logicamente necessario.

In altre parole, la proposizione seguente è anche vera:

(β´) (2) ↔ (4)

Ed è questo che Quine aveva intravvisto quando ha detto che ““fa” è vero” consegue da “fa”,

vale a dire quando ha affermato ciò che, nel mio esempio, è la premessa (A) del presunto paradosso.

Se non fosse che egli non accetta questo, e quindi non accetta la mia prima interpretazion della frase

““La luna è sferica” è vera”, poiché questo lo impegnerebbe a distinguere tra il significato della

frase “la proposizione che …” e il significato della frase “la proposizione espressa dalla fase “…””.

Quali sono le conseguenze di tutto ciò? Penso che le principali consequenze sono come segue.

1. La concezione “semantica” di verità presuppone una concezione “non-semantica” di verità – una

concezione di verità, cioè, in cui “vera” si applica direttamente alle proposizioni e non alle frasi. In

altri termini, dobbiamo distinguere tra “la proposizione che … è vera” e “la proposizione espressa

dalla fase “…” è vera”.

2. Di conseguenza, dobbiamo riconoscere la distinzione tra il significato della frase:

La proposizione che …

e il significato della frase:

La proposizione espressa dalla frase “…”.

Lewy, Significato e modalità

195

3. È chiaramente la proposizione necessaria (β) che costituisce la condizione di adeguatezza per

quella che Tarksi chiama la concezione “classica” (ossia di corrispondenza) di verità, e non la

proposizione contingente (α).

4. Nozioni modali sono chiamate in causa dal paradosso di Quine, e vanno riconosciute come tali,

nonostante le proteste di Quine.

196

Massimo Cacciari (1944-)

‘L’invenzione dell’individuo’ (1996)

lingua: italiano

edizione originale: Micro-Mega, poi ristampato in Dialogo sulla solidarietà

con il cardinale C.M. Martini, Edizioni Lavoro, Roma, 1997

tema: l’appartenenza ad un’unità sociale

genere letterario: saggio di rivista intellettuale (‘continentale’)

Enseña el Cristo: a tu prójimo

amarás como a ti mismo,

mas nunca olvides que es otro1

Antonio Machado

Ricordiamo, per iniziare, alcune utili banalità. Essere politai nella polis non ha nulla a che fare con

l’essere cives nella civitas; essere cittadini di un moderno Stato non ha nulla a che vedere con le due

forme precedenti, e si potrebbe discutere se le diverse forme di dominio nelle quali si esprime la

moderna forma-Stato non producano, a loro volta, forme completamente distinte di cittadinanza.

Credo, inoltre, che la critica delle «soggettività forti», delle declinazioni «totalitarie» della

soggettività politica, potrà portare ormai ben poco lontano. Siamo usciti dolorosamente dalla

colpevole illusione che fossero i «grandi conglomerati tirannici» a produrre guerra, intolleranza,

inimicizia, aggressività, e che una volta, appunto, dissolti, sarebbe stato finalmente possibile

inaugurare un’epoca di pace, di convivenza, di reciproca comprensione.

Per pensare il termine «comunità», in modo storicamente determinato, al di fuori di vuoti dover-

essere, sarà necessario ripartire dalla considerazione dell’individuo, più precisamente:

dall’invenzione dell’individualità contemporanea, intorno a cui ruota ogni contemporaneo rapporto

di dominio, inteso (e così dev’essere, simmelianamente, inteso) come scambio, interazione (anche

quando appare come pura sopraffazione del dominante sul soggetto dominato).

Questa «invenzione» è stata spietatamente analizzata da Tocqueville, ed è a lui che è necessario

sempre fare ritorno per ogni discorso realistico, disincantato sulla democrazia.

1 Nonostante la pletora di parole straniere – greche, latine, francesi e tedesche – contenute nel saggio, Cacciari offreuna traduzione di questo facilissimo testo spagnolo (che, peraltro nella ristampa contempla un’errore tipografico) [Notadi Davies].

Cacciari, ‘L’invenzione dell’individuo’

197

Una «specie umana del tutto nuova» s’impone sulla scena europea. Essa è sì l’irresistibile

prodotto dell’intera storia dello spirito europeo, eppure, nello stesso tempo, ne è anche

l’oltrepassamento; ne costituisce l’inveramento e il compimento. Si tratta dell’homo democraticus.

Intollerante di ogni dipendenza, dogmaticamente certo della «naturale bontà» dei propri appetiti

(come la «scienza» economica gli certifica), egli è però anche, in uno, costantemente bisognoso di

protezione, incapace di vera solitudine, pronto perciò, non appena i suoi «diritti» gli appaiano

minacciati, a trasformarsi in massa. La sua pretesa di integrale «libertà», che significa volontà di

porre il proprio particolare interesse immediatamente come l’universale, conduce necessariamente

all’organizzazione di tali interessi, alla «palude delle consorterie», che affermano legittimo soltanto

quel potere che immediatamente li rappresenta – e che conducono perciò alla distruzione dell’idea

stessa di rappresentanza. Ma poiché una democrazia diretta, prodotto di una disgregazione

individualistica, è impossibile, ovvero conduce alla catastrofe dello stesso interesse individuale,

ecco che l’homo democraticus richiederà allora difesa, protezione, tutela con la stessa inarrestabile

forza con cui rivendicava la propria individua («empia» la chiama Tocqueville) libertà, e in termini

perfettamente indifferenti alla forma del regime politico.

L’homo democraticus di Tocqueville – affine, per tanti aspetti, all’«ultimo uomo» di Nietzsche,

e, per altri, all’«uomo del sottosuolo» dostoevskijano – rimane il grande assente nel dibattito

politico e politologico attuale. Se ne ignorano, o se ne «epochizzano», i tratti, e «si rimuove» così il

fatto che tutti i sistemi di potere contemporanei si fondano sull’ «interazione», sullo «scambio» con

questa figura – che tutti i «condottieri» contemporanei sono stati anche «condotti» dal suo

inarrestabile («terrificante» per Tocqueville) avanzare. Tocqueville riteneva che soltanto

l’assuefazione ad abitudini, costumi, «sentimenti» di giustizia e amicizia potesse bilanciarne gli

effetti o, almeno, ritardarli, potesse cioè «trattenere» il dilagare planetario di questa «specie», che

percepisce tutti i propri diritti come assoluti e che perciò, per implacabile eterogenesi dei fini, è

sempre anche disponibile ad esiti totalitari.

Ma l’appello a questi «valori», la riaffermazione di «collanti» etici o etico-religiosi, anche

quando non si mistifichino in reazionarie ideologie aristocratiche, che cosa possono nei confronti

dell’individuo estraneo in sé ad ogni foedus, che non sia visto in funzione della gelosa tutela della

propria stessa individualità? Quale patto fondamentale, quale «giuramento» può valere per

l’individuo disposto a misurarne l’efficacia esclusivamente sul metro della indifferibilità del proprio

scopo? E la democrazia contemporanea neppure sarebbe concepibile senza l’«invenzione» di tale

individuo... Da qui le aporie in cui è sempre di nuovo coinvolto il discorso democratico; da qui il

Cacciari, ‘L’invenzione dell’individuo’

198

fatto stesso che le proposte di modifica o di riforma dei suoi ordinamenti (e la democrazia è

comunque processo, mai sistema) appaiono «meccanismi di contenimento» rispetto ad una

«energia» destinata sempre a trascenderli. Da qui i balbettanti tentativi di «validazione assiologica»

(Sartori) di cui essa è in grado di disporre.

(Si noti come queste aporie non si risolverebbero neppure presupponendo, fantasticamente, una

perfetta competenza-razionalità da parte dell’homo democraticus. Egli infatti potrebbe esser

convinto al differimento delle sue «spettanze» soltanto sulla solida base della fede in programmi

che ne prevedano la massimizzazione. Soltanto la fede che l’illimitato progredire tecnologico

garantirà comunque il soddisfacimento dei propri interessi potrebbe spingere, ad esempio, l’homo

democraticus ad «astenersi» dall’esponenziale crescita del suo consumo di risorse non rinnovabili).

All’individuo contemporaneo – idiotes, e perciò stesso comune, e perciò stesso formante sempre

una «massa» di individui «uguali» – non è forse oggi possibile contrapporre configurazioni pratico-

politiche. Il «contraccolpo» alla sua storia non appare «progettabile». Se è vero che essa è figura del

compimento, necessariamente non potrà essere «superata» da altre potenze a tale storia immanenti.

E questa la fatale contraddizione di tutte le ideologie rivoluzionarie del «secolo breve»: pretendere

di «oltrepassare» l’homo democraticus attingendo sostanzialmente a dinamiche, energie, idee che

appartengono al suo stesso destino. Tantomeno potremmo contrapporgli nostalgie regressive per

«comunità organiche» – che in tanto avrebbero senso, in quanto affermassero il primato dell’ethos-

daimon (la divinità dell’ethos) rispetto al «carattere» dell’individuo. Le idee contemporanee di

«comunità» si reggono invece sulla stessa antropologia positiva che fonda l’individualismo

corporato attuale, e perciò contrastano violentemente con quelle classiche della polis.

Non può esservi continuità dialettica tra individuo contemporaneo e il pensiero del suo «oltre»;

intorno a tale consapevolezza andrebbe fatta ruotare una «giusta» interpretazione dello stesso

rapporto tra «ultimo uomo» e (Über-mensch in Nietzsche, inquanto figura della dépense radicale

(contraccolpo della volontà di potenza, giunta al suo culmine, su se stessa; figura della

Gelassenheit) – o anche della relazione tra etico e religioso in Kierkegaard. Ma è certo che tali

figure, pur trascurando le loro interne aporie, non permettono di pensare ad alcuna «comunità».

Esse esprimono, per così dire, singolarità assolute. Da qui l’ulteriore difficoltà: proprio quelle idee

che sembrano aver più profondamente affrontato e criticato l’homo democraticus appaiono le più

indisponibili ad esser trattate politicamente-praticamente. Lo sguardo più dissacrante sull’idolatria

dell’individuo non ha affatto come scopo la costruzione né di respublicae, né di civitates, né di

poleis, né di Gemeinschaften ma piuttosto l’elaborazione di una «teoria critica» di queste stesse

Cacciari, ‘L’invenzione dell’individuo’

199

forme politiche. Da tale opera di dissoluzione critica sembrano potersi «salvare» soltanto

declinazioni dichiaratamente «deboli», artificiali, convenzionalistiche dell’idea di «comunità».

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Letture autonome

Nota: nella misura del possibile, tutti i libri e articoli segnalati sono a disposizione o nellebiblioteca di Facoltà in Sant’Agostino o presso la Biblioteca Civica «Angelo Maj» in PiazzaVecchia. In caso di difficoltà, si contatti il docente.

Percorsi di approfondimento per i non-frequentanti

Oltre ai testi indicati nell’‘Introduzione’ sotto la voce ‘Obblighi comuni’ (p. 4), ai non-

frequentanti è richiesto l’approfondimento di un tema a scelta inerente ai testi di base. In

questa sezione, indichiamo alcune letture pertinenti a due degli argomenti centrali discussi a

lezione: la nostra conoscenza del mondo esterno e la natura del tempo.

Studenti intenzionati a proporre un percorso personale devono comunque leggere il

materiale di obbligo comune e, in base ad esso, consultare con il docente del corso prima di

procedere all’elaborazione della loro alternativa.

1. La nostra conoscenza del mondo esterno

I testi più pertinenti della dispensa (oltre alle immagini riprodotte a pp. 31-2 – con testi

annessi) sono il brano dal Teeteto di Platone, i capitoli da Sesto Empirico, la prima

Meditazione di Cartesio e le selezioni da Nietzsche e da Eddington.

Letture (almeno 3 a scelta)

M. L. Chiesara, Storia dello scetticismo greco, Einaudi, Torino, 2003, pp. vii-xii e 159-201;

E. Spinelli, ‘L’antico intrecciarsi degli scetticismi’ in M. De Caro, E. Spinelli (a cura di)

Scetticismo, Carocci, Roma, 2007, pp. 17-38;

R. Popkin, Storia dello scetticismo, (1960), Il mulino, Bologna, 1995 cap. II e IX-X;

E. Scribano, Guida alla lettura delle Meditazioni metafisiche di Descartes, Laterza Bari-

Roma, 1997, pp. 3-58;

R. Nozick, Spiegazioni filosofiche, (1981), Il saggiatore, Milano 1987, cap. 3, § II;

H. Putnam, Ragione, Verità e Storia (1981), Il saggiatore, Milano, 1985, cap. 1.

2. La natura del tempo

I testi della dispensa su cui concentrarsi sono quello di Parmenide, i capitoli dal

Sull’interpretazione e dalla Fisica aristotelici, e le discussioni di Sant’Agostino, di Boezio e

di San Tommaso.

Letture autonome

201

Letture (scegliendo uno dei percorsi )

(i) fatalismo e determinismo causale (si riferisca anche al brano di Spinoza, al Discorso di

Leibniz e al capitolo di Laplace)

D. Hume, Ricerca sull’intelletto umano, I, 8;

I. Kant, Critica della ragion pura, ‘Dialettica trascendentale’, Libro II, cap. ii (‘L’antinomia

della ragion pura’) terza antinomia (pp. A444-51; B 473-9);

M. De Caro, Il libero arbitrio, Laterza, Bari-Roma, 2004, pp. 3-86

G. Ryle, Dilemmi, (1954) Ubaldini, Roma 1986, lezione II;

(ii) la realtà del tempo

J. E. McTaggart, ‘L’irrealtà del tempo’ (1908) e cap. xxxiii della Natura dell’esistenza (1927)

nel suo (a cura di L. Cimmino) L’irrealtà del tempo, Rizzoli, Milano, 2006, pp. 121-42 e

187-213;

M. Dummett, ‘Una difesa della prova di McTaggart’ (1960) nel suo Verità e altri enigmi

(1978) Il saggiatore, Milano, 1996.

Strumenti di consultazione (anche per la stesura di una tesina)

Il materiale indicato in questa sezione non è obbligatorio per gli scopi del corso, ma può

essere utile per chi voglia orientarsi nella filosofia e costruirsi un percorso proprio.

Gli studenti che hanno fatto filosofia alle superiori avranno studiato un manuale che può,

nei migliori dei casi (e quindi non tutti), offrire spunti bibliografici per approfondimento. Tra

questi possiamo segnalare:

N. Abbagnano, G. Fornero, Itinerari di filosofia: protagonisti, testi, temi e laboratori,

Paravia, Torino, 2002 (e poi rielaborato).

Anche dello stesso Abbagnano sono:

Storia della filosofia, (8 voll) iniziata nel 1946 e ripubblicata dalla TEA, Torino, in edizione

economica nel 1995;

e il suo dizionario dei concetti filosofici esposti nel loro sviluppo storico:

Dizionario di filosofia (1960), UTET, Torino, 1993.

Fornero, in collaborazione con Salvatore Tassinari ed altri, ha aggiornato gli ultimi volumi

della Storia fondata da Abbagnano e ha prodotto

Le filosofie del novecento (2 voll.), Mondadori, Milano, 2002, in edizione economica dal

2004.

Letture autonome

202

Altri dizionari, quali

Dizionario di filosofia (2° ed. 1993) a cura di G. Vattimo (et al.), Garzanti, Milano, 1999; e

Dizionario di filosofia, (1960) a cura di D.G. Runes, Mondadori, Milano, 1972,

forniscono informazioni anche su individui, scuole e movimenti oltre a definizioni di termini

tecnici. Per notizie su singole opere, con un breve riassunto e indicazioni sulla disponibilità di

versioni italiane, vedi

Dizionario delle opere filosofiche, (1988) a cura di F. Volpi, Mondadori, Milano, 2000.

Va notato che l’uso esteso di materiale desunto/copiato da queste fonti è facilmente

riscontrabile e conta come plagio (vedi sotto ‘Originalità’ nel ‘Prontuario’ a p 000).

Introduzioni

A differenza dei manuali italiani, che privilegiano lo sviluppo storico (o dossografico) della

disciplina, esiste un approccio alternativo, e dominante nel mondo anglofono, che inizia con ‘i

problemi’. Tra questi a disposizione in italiano, segnaliamo:

B. Russell, I problemi della filosofia, (1912), Feltrinelli, Milano, 1959 (un – forse il – classico

del genere);

S. Law e D. Postgate, Filosofia per tutti, (2000) Fabbri, Milano, 2001 (un libro che si

pubblicizza come ‘per tutte le età’, perché illustrato con vignette)

S. Blackburn, Pensa, (1999), Il Saggiatore, Milano, 2001;

N. Warburton, Il primo libro di filosofia, (1991), Einaudi Torino, 1998; e

T. Nagel, Una brevissima introduzione alla filosofia, Il saggiatore, Milano 1996

Dello stesso Nagel sono i saggi un po’ più impegnativi, ma altrettanto stimolanti raccolti in,

T. Nagel, Questioni mortali, (1979), Il Saggiatore, Milano, 1986.

‘Parafilosofia’

Con la non-parola ‘parafilosofia’ s’intendono testi in due categorie.

In primo luogo, ci sono quelli che parlano sì di filosofi e delle loro dottrine, ma cercando di

evitare la pesantezza del discorso scolastico/accademico. Forse l’esempio più di successo di

questo genere è il romanzo:

J. Gaarder, Il mondo di Sofia, (1990), Bompiani, Milano, 1993,

che introduce la protagonista (per l’appunto una ragazza di nome Sofia) ai vari momenti della

storia della filosofia come incontri personali, e che poi fornisce il punto di partenza per il

Letture autonome

203

carteggio (genuino, a quanto pare) tra una ragazza undicenne e un professore universitario di

filosofia:

Nora K. e V. Hösle, Aristotele e il dinosauro (1996), Einaudi, Torino, 1999.

Un percorso simile viene tracciato in modi diversi (motivo per cui riportiamo i rispettivi

sottotitoli) da

W. Weischedel, La filosofia dalla scala di servizio: i grandi filosofi tra pensiero e vita

quotidiana, (1966), Cortina, Milano, 1996; e

E. Bencivenga, Platone, amico mio: i filosofi rispondono alle grandi domande della nostra

vita, Mondadori, Milano, 1997.

Dello stesso Bencivenga possiamo anche segnalare:

La filosofia in trentadue favole, Mondadori, Milano, 1991.

Negli ultimi anni sono apparsi diversi libri che adottano un formato simile a quello della

favola, in cui si passa velocemente da un argomento filosofico all’altro tramite l’uso di casi

immaginari o di attualità, cercando di esplicitare il loro contenuto concettuale. Esempi di

questo genere sono:

R. Casati, A. Varzi, Le semplicità insormontabili: 39 storie filosofiche, Laterza, Bari-Roma,

2004;

J. Baggini, Il maiale che vuole essere mangiato e altri 99 esperimenti mentali, (2005) Cairo,

Milano, 2006,

A. Masserenti, Il lancio del nano e altri esercizi di filosofia minima (2006), ripubblicato da Il

Sole 24 Ore, Milano, 2007.

Il che ci porta alla seconda categoria di ‘parafilosofia’, costituita da scritti la cui ispirazione

deriva da temi o problemi filosofici, ma che li presenta in modi più o meno stravagante. Di

questo genere sono senz’altro i classici I viaggi di Gulliver (1726) di Jonathan Swift e

Candido (1759) di Voltaire. I testi Alice nel paese delle meraviglie (1865) e Alice attraverso

lo specchio (1872) di Lewis Carroll. Mentre gli scritti di Lewis Carroll (pseudonimo di un

matematico di professione) sono prevalentemente imperniati su paradossi logici, tanti dei

racconti del Padre Brown di G. K. Chesterton vertono sulle varie forme di fraintendimento e

di fragilità umana.

Il grande argentino Jorge Luis Borges scrisse molte parabole che illustrano tematiche

metafisiche, logiche e morali con un tocco sempre leggero ed icastico (perché, diceva, era

troppo pigro per scrivere romanzi), e che sono disponbili in varie traduzioni e collezioni

Letture autonome

204

italiane. Anche divertenti sono i racconti di Achille Campanile e i saggi brevi (spesso redatti

in un primo momento per la rubrica ‘La bustina di Minerva’ sull’Espresso e poi ripubblicati

in vari volumi editi da Bompiani) di Umberto Eco.

Indichiamo come ultimo esempio di ‘parafilosofia’ il libro:

D. Adams, Guida galattica per gli autostoppisti, (1980), Mondadori, Milano, 1996,

che, dopo un inizio un po’ lento e macchinoso, sviluppa un’esilarante serie di gag spaziali su

temi filosofici; di questo è apparso anche un film nel 2005.

205

Prontuario per la stesura di una tesina

ValoreUna tesina vale 5 crediti formativi universitari (CFU).

Presentazione

La tesina va redatta dallo studente stesso in lingua italiana in unica copia dattiloscritta e consegnata

con almeno quindici giorni di anticipo rispetto alla data dell’appello in cui si vuole sostenere

l’esame relativo al corso.

La rilegatura della tesina è a scelta dello studente: qualsiasi metodo (dal graffetto alla rilegatura

come brossura) è accettato purché assicuri l’integrità del testo.

La pagina di copertina, che non conta come pagina del lavoro, deve contenere le seguenti

informazioni:

cognome e nome dello studente;

numero di matricola;

titolo del lavoro;

il titolo del modulo per cui viene presentato (con codice);

numero arrotondato delle parole; e

data prevista della sessione di esame.

Se la tesina è articolata in paragrafi o sezioni, un sommario o indice può apparire insieme al

materiale di titolo e non venir contato nel totale del lavoro.

Conteggio delle parole

L’indicazione (pp. 4-5 sopra) di lunghezza di ‘5-10 pagine’ si traduce nella realtà come segue.

Una pagina è un foglio di carta A4. Il testo va stampato in spazio 1,5 o 2 in un font leggibile di

almeno 12pt con margini di intorno ai 2,5 centimetri in alto e basso e su entrambi i lati (di più a

sinistra se richiesto dalla rilegatura).

Con queste dimensioni, il numero delle battute a pagine è approssimativamente 2,000, e il

numero delle parole intorno alle 400. Quindi, il totale dello scritto va dalle 10,000 battute (2,000

parole) alle 20,000 battute (4,000 parole); ogni programma di word processing ha la capacità di

contare i caratteri e le parole; chi redige il lavoro con una macchina da scrivere manuale può

stimare il totale in base ad una campione del testo.

Prontuaro per la tesina

206

Come già detto, la pagina di copertina è esclusa dal conteggio. In modo simile, la lista di letture

e altri rimandi, che si trova in fonda al testo, non va contato. Tuttavia, le note sono incluse.

Originalità

Come insieme, il testo esprime il pensiero del suo autore e non va copiato o parafrasato da qualsiasi

altra fonte senza le dovute indicazioni, pena il reato (non solo accademico ma anche legale) di

plagio.

La punizione accademica per plagio varia dall’insufficienza in caso di una tesina molto vicina a

un testo pubblicato alla riduzione del voto nonostante la sua apparente qualità. Lo studente è sempre

libero di contestare un’accusa di plagio, così come il docente è libero di sostenerla. Se lo studente

non è disposto ad accettare la valutazione del docente, può sostenere l’esame con un altro membro

della commissione d’esame.

Citazioni

La parafrasi è lecita quando chi scrive estrae il succo o la parte pertinente di un altro testo e dà

un’indicazione del punto da dove viene. La citazione è la prassi di prendere in prestito le parole

esatte di un altro testo e di riconoscerne la proprietà.

Esempio di parafasi1:

Nel capitolo XXVII del suo libro, Beccaria osserva come la pena di morte non sia efficace come

deterrente. Questo ragionamento dipende ...

Il rimando è sufficientemente preciso per gli scopi: la deterrenza è oggetto del intero capitolo in

questione e sappiamo che il libro è Dei delitti e delle pene. La parafrasi non riporta le parole esatte

del testo originale: la parola ‘efficace’ appare nel capitolo citato; la parola ‘deterrente’ non ci

appare, ma è utile come riassunto.

Esempio di citazione:

Beccaria osserva come, ‘[n]on è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno

scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di

1 Gli esempi vengono presentati attorniati da una ‘scatola’ allo scopo di distinguerli dai commentiche se ne fanno. Questa prassi NON è da copiare nella stesura della tesina.

Prontuaro per la tesina

207

servigio, ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte contro i

delitti’15. Questo ragionamento dipende ...

Notiamo una serie di aspetti di questa operazione.

Primo, le parole citate vanno messe tra virgolette; queste possono essere singole (‘...’), doppie

(“...”) o a lisca di pesce («...»).

Secondo, sono le parole esatte così come appaiono nel libro da cui si cita. L’iniziale ‘n’ nella

citazione corrisponde all’inizio di una frase e quindi, nell’originale è in maiuscolo. Ma, nella

citazione, appare in mezzo a una frase; quindi l’ingerenza tipografica va segnalata con parentesi,

preferibilmente, per distinguerli da parentesi già presenti nel testo, quelle quadre ([ e ]) o increspate

( e ); se una parte della frase beccariana, ad esempio da ‘divenuto’ a ‘che è il freno’, è da

tralasciare, inseriamo tre punti di sospensione tra parentesi quadre (o increspate) per indicare

l’omissione ([…] o …). Se vogliamo enfatizzare una parola o una frase, si usa corsivo

(sottolineatura per chi non dispone di una stampante a getto d’inchiostro o laser) e si aggiunge in

nota ‘corsivo nostro’; qualora il testo citato contenga un’enfasi, si aggiunge ‘corsivo originale’.

Terzo, questo è un brano relativamente lungo e, di solito, quelli di oltre 30 parole vanno messi con

un rientro al margine sinistro con una riga bianca prima e dopo e senza virgolette. Quindi, se si

tolgono le parole come sopra, il risultato sarebbe:

Beccaria osserva come, ‘[n]on è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno

scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che [...] è il freno più forte

contro i delitti’15. Questo ragionamento dipende...

Mentre, con testo intero, si ha:

Beccaria osserva come,

[n]on è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e stentato

esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio, ricompensa colle sue fatiche

quella società che ha offesa, che è il freno più forte contro i delitti15.

Questo ragionamento dipende...

Prontuaro per la tesina

208

Quarto, c’è un rimando ad una nota (‘15’). Tutti i programmi di word processing sono in grado

di generare automaticamente note a piè di pagina; chi non dispone di tali attrezzature può

raccogliere le note in fondo al testo, numerate in sequenza.

Note

Le note a piè di pagine raccolgono i dati bibliografici e di solito appaiono (automaticamente) in un

corpo due punti più piccolo di quello del testo. Si scoraggia l’uso delle note per commenti ulteriori:

o la controversia è rilevante e deve trovare il suo posto nello sviluppo del ragionamento all’interno

del testo, o non è rilevante e va soppressa.

I dati bibliografici si presentano, nei limiti del possibile, uniformamente. Per gli scopi del corso,

ci sono tre categorie di materiale a stampa da prendere in considerazione: (i) testi primari (ii) altri

libri; e (iii) articoli da riviste e miscellanee (volumi che raccolgono scritti di più autori). Siti internet

vengono citati riportando l’URL.

(i) Per la maggior parte dei testi classici esiste già un sistema di riferimento standardizzato. Ad

esempio, la paginazione, con quadrante o colonna pagine, più le righe, di Platone risale all’edizione

dello Stephanus (Henri Estienne) in tre volumi del 1578, e di Aristotele a quella di Bekker del 1831-

6. Questi sistemi, consolidati e utilizzati da tutti commentatori, vengono riportati in quasi tutte le

edizioni e traduzioni moderne, e sono da privilegiare rispetto alla numerazione delle pagine del

testo che si ha in mano. Testi, come L’etica di Spinoza, che sono suddivisi in piccole sezioni, o,

come il Sulla natura delle cose di Lucrezio, che sono articolati in libri e hanno righe numerate,

possono essere citati con il numero fornito nel testo. È comunque da segnalare quale edizione o

traduzione è stata adottata.

(ii) I rimandi a libri vanno organizzati nell’ordine:

autore;

titolo in corsivo;

nel caso, data di prima pubblicazione tra parentesi;

nel caso, nome/i del/i curatore/traduttore/i;

casa editrice;

città di pubblicazione;

anno di pubblicazione; e

pagina/e.

Prontuaro per la tesina

209

Per la nota alla citazione fatta sopra, questo risulta come segue:

15 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, (1764), a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino, 1965, pp. 63-

4.

Se la successiva citazione è alla stessa opera, il rimando può prendere la forma o

16 Beccaria, op. cit., p. 64.

togliendo l’iniziale dell’autore già citato (‘op. cit.’ significa ‘opera citata’) o

16 Op. cit., p. 64.

Se due citazioni di seguito fanno riferimento alla stessa pagina, possono apparire così:

8 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, (1764), a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino, 1965, p. 62.

9 Loc. cit..

oppure

9 Ibid..

(dove ‘loc. cit.’ significa ‘luogo citato’ e ‘ibid.’ significa ‘lo stesso posto nel testo’). Talvolta si usa

‘ivi’ al posto di ‘ibid.’. Se, dopo aver citato un’altra fonte, si ritorna a un testo già citato, si può

avere una sequenza di questo genere:

15 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, (1764), a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino, 1965, pp. 63-

4.

16 C. Cantù, Beccaria e il diritto penale, Sansoni, Firenze, 1862, p. 12.

Prontuaro per la tesina

210

17 Beccaria, op. cit., p. 65.

O, invece di ‘op. cit.’, un titolo abbreviato (‘Dei delitti’) può servire come indicazione utile a chi

legge.

(iii) I rimandi ad articoli vanno organizzati nell’ordine:

autore;

titolo del articolo tra virgolette;

nel caso, data di prima pubblicazione tra parentesi;

titolo della rivista o miscellanea in corsivo (o tra virgolette a lisca di pesce: questa forma è

normale solo in Italia);

nel caso di una miscellanea, nome del curatore;

nel caso di una miscellanea, casa editrice;

nel caso di una miscellanea, città di pubblicazione;

nel caso di una rivista, l’anno e il numero;

anno di pubblicazione (nel caso di una rivista, messo tra parentesi); e

pagina/e.

Esempio di un rimando in nota ad un articolo di rivista:

2 M. Isnardi Parente, ‘Simplicio, gli stoici e le categorie’, Rivista di Storia della Filosofia, XLI,

(1986), p. 14.

che era poi ripubblicato in una collezione degli interventi della stessa studiosa:

2 M. Isnardi Parente, ‘Simplicio, gli stoici e le categorie’, (1986), nel suo Filosofia e scienza nel

pensiero ellenistico, Bibliopolis, Napoli, 1991, p. 153.

Supponiamo anche (in questo caso, fantasiosamente) che, come un ‘pezzo da antologia’, lo stesso

saggio viene raccolto in una miscellanea; in quel caso il rimando avrebbe la seguente forma:

Prontuaro per la tesina

211

2 M. Isnardi Parente, ‘Simplicio, gli stoici e le categorie’, (1986), in Logica ellenistica, a cura di

A.M. Ioppolo, Laterza, Bari-Roma, 2010, p. 97.

Per un articolo pubblicato per la prima volta in una miscellanea, in questo caso gli atti di un

convegno, si ha:

3 C. Natali, ‘Attività di Dio e attività dell’uomo nella Metafisica di Aristotele’, in Aristotele: Perché

la metafisicsa, a cura di A. Bausola e G. Reale, Vita e Pensiero, Milano, 1994, pp. 190-1.

Bibliografia

In fondo alla tesina, cominciando su una nuova pagina, va messa una lista dei testi citati e

effettivamente consultati. Oltre alle letture indicate (ai frequentanti) o obbligatorie (per i non-

frequentanti), tutto l’altro materiale utilizzato nella stesura della tesina va elencato: ricerche

bibliografiche intraprendenti sono viste di buon occhio. Come già detto, l’elenco bibliografico è

escluso dal conteggio delle parole.

L’ordine della lista è quello alfabetico per l’iniziale del cognome dell’autore. E il formato

corrisponde a quello delle note con poche varianti:

(i) nel caso di un testo che ha il proprio sistema di rimandi, come Platone e Aristotele, l’edizione o

traduzione usata va citata con indicazioni del tipo di pubblicazione; se si citano più di un testo,

tutti vanno elencati;

(ii) il cognome dell’autore viene prima del nome o iniziale per osservare l’ordine alfabetico;

(iii) non si ripete il nome dello stesso autore che viene citato più di una volta, ma per il secondo

testo si mette un trattino sulla nuova riga;

(iv) nel caso di un’opera in più volumi, si indica il numero di volumi tra parentesi prima della casa

editrice;

(v) nel caso di un articolo, le pagine di inizio e di fine;

(vi) per motivi puramente estetici, si mette un rientro (di mezzo centimetro = 18pt) sulle righe

successive se il rimando si estende su più di una riga.

Così, abbiamo, ad esempio,

Prontuaro per la tesina

212

Aristotele, Etica Nicomachea, trad. it. con testo greco a fronte, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano,

1992.

–– Etica Nicomachea, trad. it. A. Plebe in vol. III di Opere, a cura di G. Giannantoni, (4 volumi),

Laterza, Bari-Roma, 1973.

–– Metafisica, trad. it. con testo greco a fronte, a cura di G. Reale, (3 volumi), Vita e pensiero,

Milano, 1993.

Berti, E., Aristotele nel Novecento, Laterza, Bari-Roma, 1992.

Jaeger, W., ‘Genesi e ricorso dell’ideale filosofico della vita’, (1928), appendice al suo Aristotele,

(1923) trad. it. A. Calogero, Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 557-617.

Natali, C., ‘Attività di Dio e attività dell’uomo nella Metafisica di Aristotele’, in Aristotele: Perché

la metafisicsa, a cura di A. Bausola e G. Reale, Vita e Pensiero, Milano, 1994, pp. 187-214.