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Riassunti di Alberto Presti, Sofia Gorgone, Myriam Russo, Giulia Tarantino,
Claudia Candido, Sofia Buffa
VIVERE SCIENZE POLITICHE
Filosofia politica
Supporto appunti
viverescienzepolitiche.it Vivere Scienze Politiche
Riassunti del libro “Modelli di Filosofia politica” di S. Petrucciani
1. Capitolo 1: territori e domande della filosofia politica
2. Capitolo 2: l’ordine della polis
3. Capitolo 3: la città dell’uomo e la città di Dio
4. Capitolo 4: il paradigma del contratto
5. Capitolo 5: società civile e Stato
6. Capitolo 6: concetti della teoria politica
7. Capitolo 7: la teoria della giustizia di Rawls
8. Capitolo 8: Questioni per la filosofia politica
VIVERE SCIENZE POLIT ICHE
Indice
Supporto appunti
viverescienzepolitiche.it Vivere Scienze Politiche
Gli appunti sono di proprietà di Vivere Scienze Politiche, si prega di rispettare la proprietà intellettua-
le. Il Supporto appunti è un servizio offerto dalla nostra associazione come supporto, è necessario sot-
tolineare che gli appunti non sempre sono sufficienti per superare gli esami con profitto, quindi si
consiglia agli studenti che usufruiscono di questo servizio di integrarli con i testi indicati nelle schede di
trasparenza.
Alberto Presti, Sofia Gorgone, Myriam Russo, Giulia Tarantino, Claudia Candido, Sofia Buffa
Capitolo 1: Territori e domande della filosofia politica
La filosofia politica è una forma di sapere che assume a proprio oggetto quello che sembra essere un
aspetto fondamentale dell’esperienza umana: essa si occupa infatti elle interazioni tra gli uomini in
società in quanto esse sono influenzate o regolate da relazioni di potere, che assicurano l’integrazione
tra i diversi attori sociali e ne governano i comportamenti anche attraverso un certo uso della
coercizione, ovvero della possibilità di commissionare sanzioni. In altre parole, si occupa delle
interazioni sociali tra gli uomini in quanto queste si configurano come relazioni di potere, e danno
luogo a discussione o a conflitto circa il modo in cui il potere debba essere distribuito o organizzato.
Assume come suo oggetto centrale, le problematiche del potere. Per potere possiamo intendere, in
prima approssimazione, la capacità che qualcuno ha di controllare, attraverso la propria influenza o
con la minaccia di sanzioni, il comportamento di altre persone, ovvero di vedere obbedite le proprie
sanzioni. La tradizione più canonica della filosofia politica, infatti, si è occupata delle forme di potere
istituzionalizzate, quelle che si depositano nelle leggi e si incorporano nelle istituzioni statali; mentre
sono stati soprattutto i pensatori eterodossi a insistere sul fatto che le relazioni di potere più
fondamentali sono dislocate fuori dai luoghi canonici dello stato e del diritto, nei rapporti di proprietà
o nella microfisica del potere. La filosofia politica ha a che fare prevalentemente con le forme di
potere istituzionalizzate, ovvero il potere statale. Max Weber afferma che “lo stato è, come le
associazioni politiche che storicamente lo precedono, un rapporto di dominio di uomini su uomini
basato sul mezzo della forma legittima”. Per Weber, caratteristica dello stato, oltre a quella di
esercitarsi su un determinato territorio, è che esso detiene il monopolio della forza legittima. Weber
afferma che lo stato è l’organizzazione che detiene il monopolio della forza legittima, ovvero ritenuta
tale.
Potremmo dire quindi che la filosofia politica ha in un certo senso due volti: da una parte, e questo è
il lato di Machiavelli, la filosofia politica si occupa del potere, del conflitto per il potere, della sua
conquista e del suo mantenimento, quindi dei vari aspetti dell’agire politico; dall’altra, a partire
quantomeno dalla Repubblica di Platone, la filosofia politica si pone la questione di quale sia l’ottimo
o il giusto ordinamento politico. La filosofia politica quindi si occupa di quale sia il modo giusto di
organizzare la nostra convivenza, di quali forme di potere siano legittime, di quali diritti debbano
essere riconosciuti ai cittadini.
La filosofia non è, come la fisica, la chimica, la storia, una forma di sapere codificato, che goda di
una legittimità assicurata e incontestata, e che abbia uno statuto che non sia esso stesso oggetto di
discussione. Al contrario, la filosofia è, nel migliore dei casi, una forma di sapere che deve sempre di
nuovo dimostrare la sua, eventuale, legittimità. Ogni filosofia che si rispetti è anche una definizione
di che cosa debba intendersi per filosofia. La specificità della filosofia rispetto ad altre forme di
comunicazione o di significazione sta dunque proprio nel tentativo di costruire argomentazioni e di
cercare di costruire ragionamenti persuasivi. Per altro verso, la peculiarità sta nel fatto che essa cerca
di affrontare con gli strumenti del dialogo razionale quei problemi ai quali le scienze positive sono
costitutivamente impossibilitate a dare risposte. La filosofia politica ha più la natura di una filosofia
ultima che di una filosofia prima; il terreno sul quale essa deve muovere i propri passi è un terreno
sul quale già molte altre discipline, filosofiche non, hanno tracciato strade e percorsi. La filosofia
politica ha quindi connessioni con la filosofia morale ad esempio, perché le questioni intorno a ciò
che è giusto, hanno il loro luogo genetico proprio nella filosofia morale. Proprio perché deve tenere
conto di una complessa rete di ricerche e di riflessioni, che da ogni parte con essa interferisce, la
Alberto Presti, Sofia Gorgone, Myriam Russo, Giulia Tarantino, Claudia Candido, Sofia Buffa
filosofia politica occupa, nell’ambito della filosofia una posizione abbastanza peculiare: è più un
punto di arrivo che di partenza.
Norberto Bobbio durante una conferenza del 1970 ha individuato quali sono le quattro domande alle
quali la filosofia politica, nel corso del suo sviluppo, aveva cercati di dare risposte: la questione di
quale sia l’ottima costituzione politica, la domanda sul fondamento dell’obbligo politico, il problema
concernente la natura dell’agire politico e della sua definizione, e infine un’ultima questione che non
analizzeremo, ovvero quella di tipo epistemologico, concernente il metodo e le condizioni di validità
della scienza politica.
1. L’approccio normativo. Qual è il giusto ordine politico. Ciò che caratterizza una filosofia
politica normativa orientata è il fatto che in essa il tema della politica viene messo a fuoco
fondamentalmente nella prospettiva del dover essere; l’obiettivo primario non è quello di indagare
i fatti politici così come sono, ma quello di giungere a delineare l’ordine politico come dovrebbe
essere, per poter essere riconosciuto come buono, giusto, legittimo. Nell’orizzonte aristotelico,
per esempio, la norma non viene intesa come qualcosa di separato dalla realtà, ma al contrario
come ciò che corrisponde alla sua più vera natura e al suo fine intrinseco. Per gli antichi questi
valori supremi, in base ai quali un ordine politico deve essere giudicato, sono la giustizia o il bene
comune; mentre per la tradizione più influente del pensiero politico moderno il supremo valore
cui l’ordine politico dovrà essere commisurato sarà quello della libertà. Accanto a costruzioni
politiche che collocano a realizzazione del sommo valore in un mondo totalmente differente come
la Repubblica di Platone o l’Utopia di Thomas More, ve ne sono altre che pensano invece il buon
ordine politico come una rettificazione del’ordine politico già dato, che ne conserva aspetti
fondamentali; si potrebbero intendere ad esempio il liberismo di Hayek e il liberismo egualitario
di Rawls come due proposte per correggere, in opposte direzioni, gli assetti delle odierne società
democratiche e capitalistiche: nel primo caso per proporre argine alla democrazia illimitata a
favore de liberismo economico, nel secondo per porre limite alle diseguaglianze attraverso
principi di giustizia. Più raro è il caso di teorie normative della politica che giungano fino al punto
di identificare l’ordine politico migliore con quello già attuato nel loro tempo storico. Per
concludere questo punto si potrebbe dire quindi che le teorie normative possono certamente
differenziarsi tra loro secondo varie linee, generalmente tre: la modalità ontologica del rapporto
essere/dover essere, la determinazione del dover essere attraverso un certo valore supremo (bene,
giustizia, libertà), il grado di distanza dal modello normativo dalla realtà fattuale (teorie
apologetiche, critiche e utopiche). Le filosofie politiche normative, dunque, si pongono la
domanda circa l’ordine politico giusto; ovvero, quando affrontano questioni più specifiche, si
chiedono se una certa legge, una certa istituzione siano giuste o meno. Azione politica, filosofia
e teoria politica normativa costituiscono tre momenti geneticamente e concettualmente connessi.
2. L’approccio realistico, da Machiavelli a Weber. Che il pensiero politico debba occuparsi dello
stato come deve essere, è proprio la tesi alla quale si contrappone il testo più classico ed
emblematico del realismo politico, il Principe di Machiavelli. Piuttosto che interrogarsi sullo
stato come dovrebbe essere, quindi, il realismo politico nella sua figura machiavelliana si pone
come una riflessione sull’agire politico così come esso è, nella sua aspra realtà effettuale. È
tutt’altro che semplice tracciare quelle che potrebbero essere le coordinate concettuali
dell’approccio realistico alla questione dell’agire politico. Il primo punto che dev’essere fissato,
e che ritroviamo in tutti i grandi pensatori realisti, da Tucidide, a Machiavelli, a Weber, è quello
per cui l’agire politico viene concettualizzato innanzitutto come lotta per il potere. Ciò non vuol
dire, come Weber sottolinea che scopo dell’agire politico debba essere necessariamente il potere
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fine a se stesso, al contrario, quella tesi significa semplicemente che quali che siano i fini, anche
i più alti, nobili o altruistici, che il politico spera di conseguire con la sua azione, essi hanno
bisogno del medium, ovvero il potere, per venire attuati e dunque non vi è politica che a qualche
forma di potere non miri. Il punto di vista del realismo politico però sembra piuttosto
caratterizzato dalla messa a fuoco della dimensione politica come dimensione o ambito
conflittuale, dove agiscono attori in lotta tra loro che si confrontano essenzialmente in ragione
della forza, ovvero del potenziale di costrizione, influenza o minaccia, di cui possono disporre. In
questo senso, la politica viene decifrata come una dimensione dell’agire strategico. Secondo
Weber la forza è il mezzo decisivo di cui l’agire politico non può in nessun caso fare a meno.
Spesso il realismo politico si sposa con una visione cruda o pessimistica della natura umana di
cui spesso gli uomini vengono considerati come per natura avidi di potere e di ricchezza, sempre
più disposti a ingannare e tradire; allora è ovvio che non intendono altra ragione che la forza, e
che solo grazie a essa si possono governare e tenere a freno. In realtà non ci sembra sussista questa
connessione fondativa tra pessimismo antropologico e realismo politico, e si può ben sostenere il
secondo senza far ricorso alle problematiche assunzioni del primo. Secondo Sheldon Wolin la
politica è una forma di attività che è incentrata sulla ricerca di un vantaggio competitivo tra gruppi,
individui e società; è condizionata dal fatto di aver luogo in un ambiente mutevole caratterizzato
da relativa scarsità; è tale che la ricerca di un vantaggio determina conseguenze di portata così
vasta da riguardare l’intera società o una parte sostanziale di essa. Perciò anche senza presupporre
una visione radicalmente negativa della natura umana si può assumere che in ogni società i diversi
attori o gruppi configgano per ridurre i propri costi e massimizzare i propri benefici avvalendosi
dei mezzi di coercizione e pressione di cui dispongono; e se ne può concludere che la dimensione
del conflitto di forze è destinata a restare una dimensione che connota l’agire politico.
La questione del realismo politico si connette perciò strettamente con quella del nesso, o del
conflitto, tra politica e morale. Se chi fa politica è un attore in lotta con altri per il potere, allora
costui deve aspettarsi che i suoi competitori usino, contro di lui, tutti i mezzi che consentano loro
di combattere vittoriosamente la lotta per il potere; quindi chiunque sia in lotta per il potere non
può esimersi dal fare altrettanto, e perciò anche dal ricorrere quei mezzi, come la violenza e
l’inganno, che ogni visione morale della realtà umana da sempre condanna. Machiavelli nel più
incriminato capitolo del Principe (XVIII), asserisce che il politico che si sentisse obbligato al
rispetto della parola data, non farebbe altro che lavorare alla propria rovina, perché chi fa politica
deve sapere che i suoi nemici, se si trovassero al suo posto, si guarderebbero bene dal mantenere
la parola data; e perciò comportarsi, in queste circostanze, in modo morale, sarebbe
semplicemente suicida. Il politico deve avere la capacità e l’ardire di infrangere il comandamento
morale non perché i suoi nemici lo infrangerebbero nei suoi confronti, ma perché il fine
dell’azione politica è il fine supremo, che deve prevalere su ogni altro e rispetto al quale le
considerazioni di giusto ed ingiusto devono passare in secondo piano. Secondo Isaiah Berlin però
non ci troviamo di fronte ad un’insanabile scissione tra etica e politica, ma piuttosto al conflitto
tra due etiche: da un lato un’etica centrata sull’individuo e sulla sua coscienza del bene e del male,
dall’altro un’etica della polis o della virtù repubblicana, dove il valore fondamentale diventa la
partecipazione alla vita della comunità, nella quale l’individuo realizza la sua virtù e afferma la
sua libertà. I pensatori dell’impolitico invece, guardano alla dimensione della politica come una
pura lotta di potere senza redenzione, strutturalmente condannata, proprio per sua natura, a non
attingere mai la dimensione del bene e della giustizia. Secondo Weber invece l’azione morale si
pensa in due modi: se la si intende secondo la prospettiva dell’etica della convinzione, allora essa
non è altro che l’agire conformemente a quello che si ritiene essere il comandamento della morale,
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disinteressandosi delle conseguenze che potranno derivarne; se la morale mi vieta di mentire,
allora, non mentirò neppure all’assassino che va in cerca della sua vittima: l’aver seguito il puro
comandamento della morale mi esime da ogni responsabilità per gli esiti che il corso degli eventi
potrà produrre. Chi agisce secondo l’etica della responsabilità, invece, è colui che si sente in
dovere di rispondere anche delle prevedibili conseguenze della propria azione: l’azione
moralmente giusta non è quella che si limita a corrispondere a un precetto, ma quella che attua
concretamente un bene del mondo, o concretamente impedisce un’ingiustizia. Perciò, dal punto
di vista dell’etica della responsabilità vale il principio che bisogna resistere con violenza al male
altrimenti siamo responsabili del suo prevalere. Il vero politico per Weber non può non essere
sensibile alle ragioni dell’etica della responsabilità; anzi, il grande politico è solo colui che riesce
a riunire in sé ciò che fin qui era apparso antitetico: etica della responsabilità per le conseguenze
ed etica della convinzione, ne senso di fedeltà ai suoi principi. Pertanto l’etica della convinzione
e l’etica della responsabilità non sono assolutamente antitetici, ma complementari, che soltanto
quando sono congiunti formano l’uomo vero, quello che può avere la vocazione alla politica.
3. La dimensione esistenziale della politica. Hannah Arendt. L’indagine che la Arendt svolge
sulla Vita Activa ha proprio come obiettivo quello di mettere in luce come le diverse dimensioni
dell’attività umana corrispondano a diversi aspetti di quella che l’autrice individua come la
condizione dell’uomo. Mentre l’attività lavorativa è resa necessaria dal fatto che l’uomo deve
riprodurre le condizioni materiali della sua vita, la seconda dimensione della vita activa, quella
che Arendt chiama l’operare, risponde al dato per cui l’esistenza umana, a differenza di quella
animale, ha come sua condizione la creazione di un mondo artificiale di cose, permanete e
nettamente distinto dall’ambiente naturale. Da queste due dimensioni si distingue infine quella
nella quale si radica la politica che Hannah Arendt chiama l’azione. L’azione non ha a che fare
con i rapporti uomo/cosa, ma con i rapporti diretti tra gli uomini; essa va compresa a partire da
due aspetti che secondo la Arendt sono fondamentali per intendere la condizione umana, e cioè la
pluralità e la natalità. Che la condizione umana sia caratterizzata dalla pluralità sta a indicare,
nell’orizzonte arendtiano che vivere non solo significa essere tra gli uomini, ma che essere tra
uomini vuol dire al tempo stesso essere tra uguali e diversi: “la pluralità è il presupposto
dell’azione umana perché noi siamo tutti uguali, cioè umani, ma in modo tale che nessuno è mai
identico ad alcun altro che visse, vive o vivrà”. È proprio in questa pluralità che l’azione politica
trova la sua radice. All’idea di pluralità che è al tempo stesso uguaglianza e unicità si interecciano
strettamente gli altri due fili del discorso arendtiano, quello della natalità e quello
dell’immortalità. Proprio perché ogni individuo è irriducibilmente unico, il suo venire al mondo
significa al tempo stesso la capacità di dar luogo a qualcosa di nuovo; in quanto unico l’individuo
possiede la capacità di iscrivere nella realtà qualcosa di inedito, che prima non c’era. È nell’azione
politica che la categoria della natalità trova la sua corrispondenza più diretta. Nell’azione che
fonda un organismo politico nuovo, o che ne rinnova uno esistente, si esprime dunque, tanto la
natalità che caratterizza l’umano, quanto quello che è in qualche modo il suo necessario contro-
polo, il ricordare, perché l’irruzione del nuovo crea al tempo stesso le condizioni per il ricordo e
per la storia. Secondo la Arendt quindi, il concetto della politica è capace di trascendere la
mortalità del singolo uomo per attingere ad una sorta di immortalità: va oltre la caducità
dell’essere umano rivelando una natura divina. La polis costituisce quindi, nella letteratura
arendtiana, uno spazio pubblico dove il singolo può mostrarsi agli altri nella sua irripetibile
singolarità, che sono nel mettersi in scena di fronte a un pubblico, si consolida. È inoltre, al tempo
stesso, la condizione perché ciò che si è compiuto di inedito e di grande possa essere ricordato e
tramandato dalle generazioni che si susseguono, conservandone la memoria.
Alberto Presti, Sofia Gorgone, Myriam Russo, Giulia Tarantino, Claudia Candido, Sofia Buffa
Capitolo 2: L’ordine della polis
La politica è una pratica per la quale possiamo individuare un’origine ben precisa: sia la parola che
la cosa nascono nella Grecia classica, da quella peculiare istituzione chiamata polis. La città- stato,
nasce tra il VII e il VI secolo a.C dalla crisi delle forme tradizionali, regali e sacrali della sovranità.
Il potere non è più un privilegio delle stirpi aristocratiche che dominavano dai loro palazzi fortificati,
ma trapassa idealmente in quello che è il centro simbolico della città: la piazza, l’agorà, lo spazio
comune a tutti i cittadini che, attraverso di esso si riconoscono come comunità e che, intorno ad esso,
stabiliscono le loro dimore e le delimitano attraverso le cinte di mura. La città stato greca, è il luogo
in cui compare per la prima volta quella novità radicale che è la discussione politica nello spazio
pubblico. Grazie ad essa ed insieme ad essa, nasceranno quelle pratiche fondametali nella storia della
civiltà occidentali quali ad esempio il discorso argomentativo, la filosofia, il dibattito politico e il
pensiero politico.
All’interno della polis, la sovranità sempre più laicizzata, diventa oggetto di un dibattere che si svolge
nella sfera pubblica dell’agorà; dunque, il comando, non è più proprietà esclusiva di qualcuno, per
ragioni di stirpe, sacrali o religiose, ma è il risultato di un confronto dialettico in cui si sfidano i
migliori discorsi e le migliori qualità.
Alla città si accompagna anche la nascita della legge scritta la quale è regola comune a tutti ma anche
superiore a tutti e modificabile per decreto. L’uguaglianza dei cittadini comincia dunque a
determinarsi ma non assicura però una perfetta simmetria di diritti in quanto, è sempre vigente la
predominanza sociale degli aristocratici e dei proprietari terrieri.
Il modello classico della polis democratica è quello delle istituzioni politiche di Atene, così come
vengono definite, dalla riforma democratica di Clistene e dalle riforme di Pericle.
L’istituzione nella quale si incarna la sovranità politica è l’Assemblea dei cittadini di pieno diritto,
ovvero l’ecclesia: essa è aperta a tutti i cittadini maschi e liberi che abbiano più di 18 anni; in essa
tutti hanno diritto di parola e le decisioni vengono prese a maggioranza. L’assemblea rappresenta la
più alta autorità decisionale sulle questioni legislative e sulle più importanti questioni di governo.
L’attività amministrativa invece, veniva svolta da una parte più limitata della cittadinanza, il consiglio
dei 500, cosidetto boule. Molte delle principali cariche politiche venivano attribuite per sorteggio, ed
erano retribuite. La politica ateniese si basava dunque su una democrazia priva di un vero e proprio
apparato statale, e nella quale avevano invece un ruolo di primo piano il confronto degli argomenti e
la discussione pubblica.
È proprio nel contesto della città e dei dibattiti che si manifestano le prime forme di pensiero politico:
i sofisti mettono in risalto la convenzionalità del nomos, cioè le leggi degli uomini rispetto ad una
presunta giustizia naturale. (Digressione, fino al V secolo, il rapporto tra legge di natura e legge
umana era dato per scontato. I Greci ritenevano che le leggi della poleis fossero conformi alle leggi
universali. Con la diffusione della democrazia ad Atene e in altre città greche, ci si rese conto che in
realtà le leggi fatte dagli uomini erano il frutto di tante discussioni, dispute e problemi e avevano dei
limiti come tutte le cose fatte dagli uomini. I sofisti distinsero una volta per tutte le leggi naturali
(physis) dalle leggi degli uomini (nomos). Ippia e Antifone furono i primi sofisti a fare questa
distinzione, esaltando la legge di natura; questa, essenso uguale per tutti e sempre valida, è degna di
rispetto, mentre le leggi degli uomini sono parziali, mutevoli e discutibili. La physis è sacra perché
rende gli esseri umani veramente uguali tra loro, mentre il nomos non mette tutti sullo steso piano.
Un altro gruppo di sofisti di estrazione aristocratica attaccò in modo aggressivo il nomos,
sottolineando come in realtà dietro alle leggi umani si nascondano gli interessi dei più forti; i
principali furono Trasimano e Crizia. Trasimaco, rappresentato nel libro I della Repubblica di
Alberto Presti, Sofia Gorgone, Myriam Russo, Giulia Tarantino, Claudia Candido, Sofia Buffa
Platone, demistifica ogni idea di giustizia sostendendo che questa non consiste in altro che nell’utile
del più forte.
Tucidide, narrando dello stermino dei Melii da parte degli ateniesi nella guerra del Peloponneso,
mostra per la prima volta il più duro realismo politico, fautore del dominio senza alternative della
legge della forza.
Il pensiero di matrice oligarchica e aristocratica, sviluppa una critica della democrazia come regime
che porta la ‘’canaglia’’ alla guida dello stato e che, con l’imperialismo ateniese, consente alla
plebaglia di soddisfare i suoi appetiti.
Il sofista Protagora, di contro, legittima la democrazia, sostenendo la tesi secondo cui la capacità di
fare politica non è un talento speciale, di cui solo alcuni sono dotati ma un’attitudine che tutti i
cittadini possono avere o acquistare.
La giovinezza di Platone e la condanna a morte di Socrate, si collocano in una fase in cui la
democrazia ateniese, conosce una fase di profonda crisi. Tali fatti saranno determinanti per la
formazione del pensiero politico del giovane allievo di Socrate, ovvero Platone. Egli nella Lettera
VII, afferma la tesi che costituisce il perno della Repubblica ovvero quella secondo cui ‘’non
sarebbero mai cessate le sciagure delle generazioni umane, se prima al potere politico non fossero
pervenuti uomini veramente e schiettamente filosofi, o i capi politici delle città non fossero divenuti,
per qualche sorte divinità, veri filosofi’’.
Platone sostiene dunque che solo i filosofi potrebbero essere dei buoni reggitori e che, il compito
dell’arte politica, ovvero quella che nel dialogo Il Politico egli definisce come l’arte regia e suprema,
è quello di attuare il bene di ognuno nel bene della comunità. Il vero bene consiste nel coltivare la
perfezione della propria anima e nel seguire la giustizia. La vera arte politica, che realizza il bene
della comunità, deve al tempo stesso, rendere migliori i cittadini: attraverso le buone leggi e il buon
governo al fine di creare dei buoni cittadini. Se però la politica si riduce, come accade troppo spesso
nella città reale, ad una competizione feroce per gli onori e per il potere, essa non potrà che risultare
inadeguata al conseguimento di quelli che sono i suoi autentici fini. Una buona politica, perciò,
potranno farla solo i veri filosofi, perché questi, avendo compreso in che cosa consista il vero bene
‘’non zi azzufferanno, come i ciechi abitanti di un regno di ombre, per la ricchezza, per gli onori e
per il potere, ma al contrario non desidereranno di meglio che allontanarsene, per ricercare quelli
che sono beni più completi e, la loro conquista non costringe a recare ingiustizia ad altri e quindi
non rovina e corrompe’’.
Platone nella Repubblica, trae le sue conclusioni, sostenendo che: la maggioranza degli stati sono
oggi e sempre governati da persone ‘’che si battono fra ombre e si disputano il potere, come fosse un
grande bene’’. Ma la verità è un’altra e cioè, solo chi troverà il modo migliore di governare, ovvero
il filosofare, potrà governare ottimamente il suo stato, perché sarà lo stato in cui governeranno le
persone realmente ricche ma non di oro, ma di quella ricchezza che rende l’uomo felice, la vita onesta
e fondata sull’intelligenza. Se invece vanno al potere dei pezzenti, avidi di beni personali e convinti
di dover ricavare il loro bene da lì, il governo è oggetto di contesa e viene danneggiato tutto il resto
dello stato. Al governo devono andare persone che non amino governare, altrimenti la loro rivalità
sfocerà in contesa. Ai discorsi abilmente persuasivi dei sofisti, si può rispondere per Platone, soltanto
con la riaffermazione della vera filosofia e del principio della competenza che rovescia il principio
democratico per cui tutti sarebbero in grado di giudicare gli affari pubblici.
Come la città ha bisogno del filosofo, viceversa, anch’egli ha bisogno della città: egli per poter creare
il suo pensiero filosofico ha la necessità di confrontarsi con gli altri individui e che il suo pensiero
non può svilupparsi in solitudine, senza confrontarsi. Come sosteneva Socrate, nella città ingiusta il
filosofo non può coltivare la filosofia e restare fedele alla giustizia se non al prezzo del massimo
Alberto Presti, Sofia Gorgone, Myriam Russo, Giulia Tarantino, Claudia Candido, Sofia Buffa
sacrificio: quindi, la città ben amministrata ha bisogno dei filosofi così come i filosofi hanno bisogno
di una comunità retta dalla giustizia, solo in essa la filosofia può essere liberamente esercitata.
Platone descrive la città ideale nella Repubblica delineando come, una comunità politica orientata
dall’idea della giustizia, presuppone innanzitutto il confronto con coloro che, come il sofista
Trasimaco, protagonista del primo libro della Repubblica, negano la validità stessa dell’idea di
giustizia. Ciò che in ogni stato viene definito giusto, afferma Trasimaco, è semplicemente ciò che è
utile al potere costituito; e poiché il potere è tale in quanto detiene la forza ne discende che il giusto
è sempre l’utile del più forte. Così come il pastore non si preoccupa del bene delle pecore, ma del
proprio bene, e del bene delle pecore solo in funzione del suo bene, allo stesso modo fa il governante;
il destino dei cosiddetti giusti, che in realtà non sono altro che deboli o ingenui, è quello di subire il
dominio del più forte, cioè di chi è ‘’ingiusto’’. La vita del cosiddetto ingiusto, per Trasimaco, è
migliore di quella del giusto poiché, ad esempio, quando bisogna pagare i tributi, il giusto a parità di
condizioni paga di più, l’altro di meno; e quando c’è da da ricevere, l’uno non guadagna nulla e l’altro
molto. Se poi si tratta di occupare una carica pubblica, l’ingiusto ne trae ricchezza e onori, mentre il
giusto si fa tanti nemici e ci rimette di tasca propria. Conlude Trasimaco dicendo che, presa visione
di questa realtà, si smetta di predicare la giustizia.
Nella Repubblica Platone non ci presenta una confutazione diretta e lineare della tesi d Trasimaco.
La confutazione si articola piuttosto in una serie ampia e intrecciata di ragionamenti e argomentazioni,
che solo nel loro insieme giungono a delineare il quadro di una giusta comunità politica. Innanzitutto,
possiamo dire che la giustizia è la condizione stessa affinché un organismo si mantenga e realizzi il
suo bene. Il ragionamento circa la giustizia dello stato, viene sviluppato da Platone attraverso
l’analogia tra la comunità politica e quella piccola comunità in interiore homine che è l’anima
individuale la quale si divide in tre momenti: c’è un’anima appetiva, che mira alla soddisfazione dei
piaceri del corpo (il mangiare, il bere, il copulare); c’è un’anima razionale, che mira alla conoscenza
e alla verità; e infine c’è il momento volitivo, ovvero il momento in cui l’anima si dirige verso uno o
l’altro dei obiettivi con maggiore o miore determinazione e coraggio; insomma, l’anima
concupiscibile, quella razionale e quella animosa. Giusto è l’individuo in cui le tre parti dell’anima
non sono in lotta tra loro, ma danno luogo ad un ordine armonico, ma ciò è a sua volta possibile, nella
visione platonica, solo se tra gli elementi vige la giusta gerarchia: l’uomo giusto è quello che in cui
la parte razionale, sostenuta da quella animosa, domina sulla parte concupiscibile. Solo quest’ordine
consente all’individuo di attingere il suo vero bene, la sua felicità più autentica. Per comprendere
quale anima deve comandare, basta riflettere sui diversi tipi di piacere verso i quali ogni parte
dell’anima è indirizzata, e ragionare su quali sono quelli che assicurano la felicità più vera. La parte
razionale cerca il piacere di apprendere e di conoscere la verità; quella animosa va in cerca di fama e
di onori; quella concupiscibile è dedita ai diversi piaceri del corpo e del denaro, che consente di
acquistare tutti i mezzi di piacere. Ma quali sono i piaceri che danno maggiore felicità? Non vi è
dubbio che la parte dell’anima che deve governare sulle altre sia quella razionale, perché solo al
governo di essa l’uomo potrà conseguire la sua più compiuta felicità e autorealizzazione. Ma ciò che
è vero per il singolo individuo è vero anche per quella comunità più ampia che è lo stato. Le tre parti
dell’anima, come abbiamo visto, corrispondono a tre tipologie fondamentali di individui: quelli che
ricercano la saggezza, quelli che ambiscono agli onori e quelli che bramano il guadagno. La società
giusta e bene ordinata sarà quella che assicurerà l’appropriato equilibrio tra queste componenti.
La società umana nasce, per Platone, dal bisogno, dal fatto che l’uomo non è in grado di bastare a sé
stesso e per vivere instaura quindi rapporti di collaborazione e scambio con altri. Lo sviluppo sempre
più articolato di questi rapporti, genera una sempre più marcata divisione del lavoro che genera
Alberto Presti, Sofia Gorgone, Myriam Russo, Giulia Tarantino, Claudia Candido, Sofia Buffa
efficienza: ‘’le singole cose riescono meglio e con maggior facilità quando uno faccia una cosa sola,
secondo la propria naturale disposizione e a tempo opportuno, senza darsi pensiero delle altre’’.
A soddisfare le necessità materiali, provvederà la classe dei produttori e dei commercianti, formata
dagli uomini nei quali prevale il desiderio di guadagno. Con l’accrescersi della città e dei suoi bisogni,
questa entrerà in conflitto con le altre comunità e potrà prospettarsi la necessità della guerra; nasce
quindi la necessità di costituire una classe di guardiani i quali provvederanno a proteggere la città e,
tale classe, dovrà essere formata da quelli nel cui petto prevale l’elemento animoso: coraggio,
aggressività e ricerca di gloria. Superiore alla funzione di protezione della città, troviamo la funzione
di governo della città affidata a quei guardiani il senso più alto e perfetto che sono i governanti –
filosofi, cioè coloro nella cui anima prevale il momento razionale e che sono legittimati a governare
poiché possiedono la conoscenza del vero bene. Dunque, la città platonica bene ordinata è quella che
assicura ai diversi tipi di uomini la possibilità di vivere nel mondo in cui il loro temperamento li
indirizza, ma tenendoli entro quei limiti che fanno sì che essi contribuiscano, ciascuno a suo modo,
al bene della città.
In questo modo, gli amanti del denaro, gli uomini acquisitivi, potranno dedicarsi all’attività
economica, che però dovrà essere regolata in modo da non produrre differenze troppo rilevanti tra
ricchezza e povertà: perché se questo accadesse, non si avrebbe più una città, ma due polis, quella dei
ricchi e quella dei poveri, nel cui conflitti si distruggerebbe quel bene primario che è l’unità dello
stato. Gli uomini acquisitivi inoltre, non devono avere accesso al potere politico, perché questo non
può essere esercitato in modo giusto da chi ha come interesse primario quello di accrescere i suoi
possessi.
Proprio per questo motivo, la classe dei reggitori, deve essere tenuta rigorosamente lontana da tutto
ciò che implichi un privato interesse acquisitivo: in quanto custodi del bene pubblico, i custodi del
bene pubblico i governanti devono vivere in modo tale da non avere nemmeno la tentazione di
accrescere i loro beni privati. Essi non devono avere proprietà privata ma, come buoni amici, devono
avere tutto in comune, abitare e mangiare insieme. Non vi è discriminazione tra uomini e donne,
ovvero tutti i ruoli sono accessibili indistintamente. Le unioni vengono combinate attraverso un
complicato sistema di sorteggi, che, in realtà, per Platone, dovrà essere manipolato dai guardiani in
modo che gli accoppiamenti riescano al meglio. I figli saranno considerati tutti come figli della città
e allevati in comune.
Dopo aver tracciato nella Repubblica, il quadro della società bene ordinata, Platone si sofferma sulle
forme di governo degenerate che si discostano dall’ideale e che corrispondono a parti dell’anima che
invece dovrebbero essere sottoposte al governo dell’anima razionale. Le 4 forme di governo
degenerate (timocrazia, oligarchia, democrazia e tirannide) possono essere lette come un processo di
decadimento progressivo a partire dalla corruzione della costituzione ottima. Dapprima, col venire
meno nei governanti dell’egemonia della ragione, prevarrà la parte animosa, e il governo passerà
nelle mani degli individui caratterizzati ‘’dall’ambizione di affermarsi e di ricevere onori’’
(timocrazia); al desiderio degli onori si sostituirà successivamente quello più volgare delle ricchezze,
e si affermerà la costituzione oligarchica, dove la polis è scissa: da una parte i ricchi, dall’altra i poveri
‘’bramosi di una rivoluzione’’. Per Platone dunque, la democrazia si afferma, per un verso, nel
momento in cui prende il potere una certa classe, quella dei nullatenenti; per altro verso si traduce
nell’affermazione del dominio dei demagoghi, che si mostrano ben disposti verso il popolo e i suoi
desideri e, infine, nel rifiuto di qualsiasi obbedienza, che lascia spazio alla ‘’tracotanza, l’anarchia,
la sregolatezza e l’impudenza’’. Dall’insofferenza per l’anarchia si genera infine la tirannide.
Nel V libro della Repubblica Platone ribadisce la sua convinzione che l’istaurazione dello Stato
giusto è pensabile solo se i filosofi diventino governanti o se i governanti diventino filosofi. Ma sa
Alberto Presti, Sofia Gorgone, Myriam Russo, Giulia Tarantino, Claudia Candido, Sofia Buffa
bene quanto ciò sia improbabile, perché, se i filosofi sono quelli che aspirano a un modo di vita
diverso e superiore rispetto al governare, sarà difficile che essi conquistino il potere, e ancor più
difficile che vi siano chiamati da coloro che invece proprio al potere ambiscono. Perciò è necessario
affermare che non si può intendere il progetto della Repubblica come un progetto realisticamente
attuabile. L’ottimo stato, si legge nel libro IX della Repubblica, è uno stato che esiste solo a parole,
ciò che forse più importa è che esso mette in luce uno dei paradossi che sono costitutivi del politico:
uno stato ordinato al Bene sarebbe quello dove fossero al potere coloro che non desiderano, così come
non desiderano la ricchezza che dal potere consegue.
Sebbene il suo pensiero si collochi già nell’epoca del tramonto della polis, anche Aristotele la città
rimane il punto di riferimento privilegiato. Come per Platone, anche per Aristotele l’oggetto primario
della riflessione della politica è il Bene, sia il bene del singolo uomo che il bene della città, perché il
bene dell’individuo, si attua nel contesto della relazione con gli altri, e quindi, il bene il bene ‘’è
amabile anche nella dimensione dell’individuo singolo, ma è più bello e più divino quando concerne
un popolo o delle città’’.
Sebbene il pensiero aristotelico rimanga immutato rispetto alla comunità politica pensata in funzione
del conseguimento del bene degli individui e della comunità, mutano però, profondamente, rispetto a
Platone, le coordinate teoretiche dalle quali la ricerca sul bene per l’uomo viene guidata.
Cambia in primo luogo il modo di intendere lo statuto teorico del sapere pratico, etico e politico: ‘’le
cose moralmente belle e le cose giuste, intorno alle quali verte la politica, hanno molta diversità e
instabilità, a tal punto che si crede esistano soltanto per convenzione e non per natura’’. Proprio in
forza di questa diversità e instabilità, il bene pratico non può essere oggetto di un sapere assolutamente
rigoroso, di una visione epistemica come quella nella quale invece confidava Platone; al contrario,
bisognerà accontentarsi di una verità conosciuta ‘’in maniera approssimativa e a grandi linee’’; il
sapere pratico non potrà mai conseguire il rigore dimostrativo di quello matematico e do quello
teoretico.
Muta in secondo luogo la visione del bene; perché se è vero che, come è stato scritto, ‘’Aristotele non
abbandonò la credenza platonica secondo la quale la comunità platonica avrebbe dovuto mirare al
sommo bene’’, è altrettanto certo che egli sottopone a una critica molto bene argomentata e complessa
la teoria platonica secondo cui vi è un’unica idea di bene, di cui tutti i beni particolari partecipano.
Gli argomenti che Aristotele adduce contro la tesi platonica dell’unità del bene sono molteplici, ma
basterà ricordarne uno dei più importanti e, cioè che se vi fosse un bene unico, vi sarebbe anche una
sola scienza di esso, mentre invece sono molte e diverse le scienze che trattano di quello che, in un
determinato contesto è bene.
Nella complicata e molto discussa struttura della sua politica, Aristotele sviluppa in modo
paradigmatico la tesi del carattere naturale dello stato e, del carattere altrettanto naturale dei rapporti
di comando/obbedienza che fondano la stessa comunità umana. In principio non c’è l’individuo da
solo, ma subito la comunità che unisce da un lato maschio e femmina in vista della riproduzione,
dall’altro colui che, ha natura di capo con chi invece, dotato di una prevalente forza fisica e idoneo
alla fatica, è per natura subordinato o schiavo. La natura dell’uomo è di essere uno zoon politikon
che, partendo dalla più piccola cellula familiare, da vita a comunità via via più ampie, prima di
discendenza, poi di villaggio, e infine alla città dove puà finalmente attingere i beni della vita civile.
Il concetto aristotelico di natura, è un concetto intrinsecamente teologico: la natura di una cosa è il
fine cui tende. La natura non fa niente per caso e se l’uomo possiede la parola e il senso del bene e
del male, del giusto e dell’ingiusto, è perché questi possano essere sviluppati e attuati nella comunità
con i suoi simili. Come, sul piano metafisico, l’atto è anteriore alla potenza, così lo stato è anteriore
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all’individuo e alla famiglia. È evidente dunque che lo stato esiste per natura e che è anteriore a ciscun
individuo: difatti, se non è autosufficiente, ogni individuo separato sarà nella stessa condizione delle
altre parti rispetto al tutto, e quindi chi non è in grado di entrare nella comunità non è parte dello stato,
e di conseguenza è o bestia o dio, ma non certo uomo.
Non meno naturale è per Aristotele il rapporto di subordinazione, e quindi anche quello tra padrone
e schiavo: come nel singolo uomo, l’anima domina sul corpo e l’intelligenza sull’appetito, così gli
uomini più dotati di intelligenza e di capacità di comando dominano su quelli più dotati di forza fisica
e quindi atti a servire come schiavi, come veri e propri strumenti animati.
Anche le famiglie, di cui la comunità politica si compone, sono strutturate secondo questi rapporti di
gerarchia naturale; l’uomo libero, il signore e padrone, comanda ma in modi diversi allo schiavo, alla
femmina e al ragazzo: comanda allo schiavo perché questi non possiede in tutta la sua pienezza la
parte deliberativa dell’anima, alle donne perché essa la possiede senza autorità, al ragazzo perché la
possiede ma non sviluppata (soggetto sottointeso ‘’parte deliberativa dell’anima’’). La base
economica della famiglia è data dalla proprietà e la ricchezza può essere acquistata, accresciuta e
scambiata. Aristotele accetta lo scambio di beni per soddisfare le necessità della vita, ma condanna
come innaturale lo scambio di beni contro denaro finalizzato all’accrescimento illimitato della
ricchezza.
L’ultimo dei difetti della Repubblica di Platone che Aristotele evidenza è quello di aver sacrificato,
in nome dell’unità dello stato, il ruolo della famiglia e della proprietà. Aristotele muove diverse
obiezioni al sistema della proprietà comune: innanzitutto il sistema della comunanza sembra destinato
a generare contrasti tra chi, lavorando poco, ottiene poco, e chi, lavorando poco ottiene molto.
Aristotele, a proposito della proprietà privata dice: chi deve occuparsi personalmente di ciò che è suo,
sicuramente ne avrà maggior cura di quanta ne avrebbe per beni comuni inoltre, l’essere proprietari
di qualcosa è una grande sorgente di felicità, che si collega con il naturale amore pe se stessi. Questo
amore di sé non è un male e non deve essere condannato, a meno che non trapassi in egoismo, e cioè
in un amore eccessivo. Altrettanto può dirsi il denaro: non c’è niente di male nel normale desiderio
di ricchezza, purché non sia eccessivo e smodato. Solo la proprietà, inoltre, consente il godimento
che viene dal lasciare agli amici l’suo dei propri beni, cioè in altre parole consente di coltivare quella
pregevole virtù che è la liberalità. Aristotele conclude quindi che la proprietà privata è preferibile alla
proprietà comune, ma che il sistema migliore è quello dove alla proprietà privata si accompagna anche
un uso largamente comune dei beni privatamente posseduti. È questa la soluzione più equilibrata, che
compenetra il naturale amore di sé con la felicità che deriva dalla generosità, la cura ci ciò che è
proprio con la liberale disponibilità nei confronti degli altri. Il difetto fondamentale della Repubblica
platonica, infatti, è quello di aver esagerato troppo l’unità dello stato, e di aver pensato che la
negazione della proprietà privata producesse la fine delle divisioni tra gli uomini. Le cause di
divisione però, per Aristotele, non nascono solo dalla proprietà, e dalle liti e contese ad esse legate,
ma dalla malvagità degli uomini che, se avessero tutto in comune, disputerebbero tra loro in maniera
ancor più violenta.
Nel IX del Libro III, Aristotele spiega che lo stato non ha per fine quello di facilitare l’attività
economica o garantire la sicurezza. Tutto questo è certamente necessario, ma il fine dello stato
dev’essere collocato più in alto: ‘’lo stato comunanza di famiglie e di stirpi nel vivere bene: il suo
oggetto è un’esistenza pienamente realizzata e indipendente’’; è “il vivere in modo felice e bello”.
Per quanto riguarda la migliore costituzione, Aristotele elabora una tipologia che prevede sei forme
di costituzione: tre tipi di costituzioni giuste (monarchia, aristocrazia e politeia) e tre tipi di
costituzioni degenerate (tirannia, oligarchia e democrazia). Le costituzioni giuste o rette sono quelle
dove il potere di governo viene esercitato per il bene di tutti, in vista di un interesse comune a
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governanti e governati: mentre sono degeneri quelle costituzioni dove i governanti governano solo
per assicurare l’interesse proprio, e non quello die governati. All’interno di queste due grandi
categorie, le forme di governo si distinguono poi a seconda che, a esercitare il potere, siano uno, pochi
o molti. Ma quale sarà il governo migliore, quello di uno, di pochi o di molti? Aristotele presenta
numerose argomentazioni a favore della superiorità del governo dei molti: in primo luogo, anche se
nessuno eccelle per virtù e saggezza, essi nel loro insieme, attraverso il confronto, raggiungeranno
una saggezza che è superiore a quella di ogni singolo isolatamente preso; in secondo luogo, proprio
perché i molti sono tanti di numero, escluderli dal governo dello stato potrebbe essere pericoloso per
la stabilità della costituzione; in terzo luogo, anche se i molti non possiedono l’arte del governo, ciò
non vuol dire che essi non abbiano titolo per giudicare chi governa. Qui Aristotele, propone uno dei
più forti argomenti a favore della democrazia: ‘’ è vero che coloro che partecipano a un banchetto
non possiedono l’arte culinaria come la possiede il cuoco; ma, rispetto al cuoco stesso, essi sono
migliori giudici del risultato che egli ha prodotto e che, dopotutto, a loro deve piacere. La casa deve
andare bene a coloro che ci abitano, non all’architetto che l’ha costruita’’. Infine, è vero che gli
esponenti della moltitudine singolarmente presi non sono particolarmente saggi, e quindi
sembrerebbe sbagliato affidare loro il governo, ma chi governa in questo caso non è mai un singolo,
ma un’assemblea, un gruppo, un comitato (che quindi mette insieme la saggezza di più persone); e
poi, il governo non è propriamente delle persone ma, delle leggi.
Certo, continua Aristotele, se in una città vi fosse un uomo indiscutibilmente superiore agli altri per
saggezza e per virtù, allora sarebbe più saggio affidare a lui il governo e la migliore costituzione
sarebbe la monarchia. Ma poiché questo non è che un caso limite, sarà più appropriato affidarsi al
governo di alcuni o di molti.
Restano dunque l’aristocrazia e la politeia (il cui nome significa costituzione). Ed è proprio
quest’ultima, a essere quella cui Aristotele attribuisce il maggior valore. La politeia è la forma retta
della democrazia; e cioè quella costituzione che, essendo sempre una forma di governo dei molti, non
ha però non ha quelli che sono i difetti della democrazia: e cioè che in essa il numero prevale sul
merito e che si afferma una concezione della libertà per cui ognuno è padrone di fare ciò che più gli
aggrada. La politeia, sebbene sia la forma retta della democrazia, si trova a metà tra il governo dei
molti e il governo di pochi, per esempio: se la democrazia non pone alcun requisito per la
partecipazione alle assemblee, e l’oligarchia lo esige elevato, la politeia porrà dei requisiti di censo,
ma tali che consentano una larga partecipazione del ceto medio. Per quanto riguarda poi le cariche
pubbliche, la democrazia le assegna a sorte e indipendentemente dal censo, l’aristocrazia solo ai ricchi
e per elezione; la politeia accoglie dalla democrazia il principio dell’indipendenza dal censo, e
dall’aristocrazia quello dell’elezione: le cariche sono aperte anche ai non ricchi, ma attraverso un
meccanismo elettivo, che garantisca quell’elemento del merito che invece la forma degenerata e
plebea della democrazia sacrifica. Il pregio della politeia comunque sta per Aristotele, nel fatto che
in essa non governano né i ricchi né i nullatenenti, ma il ceto medio: lo stato migliore è quello dove
tutti i cittadini possiedono sostanze sufficienti ed è anche il più stabile, perché grandi ricchezze e
grandi povertà suscitano i rivolgimenti che portano in ultima istanza alla tirannide.
Al fine del raggiungimento della felicità, è necessario che l’uomo possa disporre dei tre tipi
fondamentali di beni: i beni esteriori, quelli del corpo e quelli dell’anima. Tuttavia, mentre i primi
due tipi di beni debbono essere ricercati senza eccesso, e solo nella misura in cui sono necessari, i
beni dell’anima non hanno limiti e sono quelli che meglio assicurano il conseguimento della felicità.
La felicità per l’uomo consiste essenzialmente, per Aristotele, nell’esercizio delle virtù, sia delle virtù
dianoetiche, che si esplicano nella vita teoretica, sia delle virtù etiche (giustizia, coraggio, temperanza
e amicizia), che si attuano nella vita pratica. Aristotele giunge alla conclusione che la vita felice è
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quella in cui l’esercizio della virtù si esplica in entrambe le direzioni, sia attraverso la vita politica e
pratica, sia quella puramente teorica, e che la città migliore è quella che consente appunto ai cittadini
di estrinsecare in tutte le possibili forme la loro attività secondo virtù. Il fine della polis, è vivere bene
attraverso le varie attività che a questo scopo sono finalizzate; e perciò la polis deve possedere certi
requisiti, come per esempio le giuste dimensioni: affinché i cittadini possano partecipare alla vita
politica, eleggere con consapevolezza e amministrare imparzialmente la giustizia, la polis non deve
essere così grande che essi non possano conoscersi tra loro. Della vita politica sono esclusi coloro i
quali non sono idonei ad esercitare l’attività politica come le donne, gli schiavi, i lavoratori manuali,
i contadini e i mercanti.
Quando Aristotele ancora tesseva l’elogio della polis, questa forma politica era già entrata nella fase
della sua decadenza. Con l’Impero di Alessandro Magno e con le grandi monarchie che a esso faranno
seguito, si affermano nuove forme politiche che, alla limitata comunità della polis, sostituiscono un
orizzonte politico molto più universalistico, e all’interno del quale diventa impensabile quella
partecipazione diretta del cittadino, in cui Aristotele aveva visto la pienezza della vita politica. Ad
eempio, mentre il saggio epicureo inizia a coltivare l’ideale di vivere nascosto e non prende parte alla
vita politica, quello stoico, offre la prospettiva della cosmopolis, ovvero una grande repubblica in cui
popoli diversi possano vivere in pace rispettandosi l’uno l’altro, perché si sottopongono tutti all’unica
e universale legge della ragione. Il saggio stoico è dunque, a differenza di quello epicureo, non si
ritrae dalla politica, ma anzi partecipa alla vita pubblica; l’orizzonte ideale della cosmopolis non gli
impedisce di offrire il suo servizio alla patria.
Inoltre, un apporto importante allo sviluppo del pensiero politico occidentale, è stato dato da
Cicerone, il quale conferisce centralità al concetto di diritto. Per Cicerone vi è una legge di natura o
legge di ragione, che è eterna e immutabile e vale per tutti gli uomini. Essa incarna la giustizia ed è
superiore a tutte le leggi umane positive. La res pubblica, ovvero la comunità politica, è un0unione
tra uomini che si associano per la loro utilità comune vincolandosi sotto una certa legge cui danno il
loro consenso. La comunità è vista come una società di uomini che è tenuta insieme dal vincolo del
diritto; è solo grazie al diritto che si realizza l’uscita dalla barbarie primordiale e l’accesso alla
comunità civile. Il compito del magistrato, ossia di chi detiene il potere di governo, è quello di mettere
in opera il diritto: egli è la legge che parla, ed è nella legge che vive la res pubblica. Si afferma in tal
modo una nuova concezione che pensa lo stato e la politica a partire dalla centralità delle categorie
giuridiche, e che sarà determinante per tutto lo sviluppo del pensiero politico fino alla modernità
contrattualista.
Capitolo 3: La città dell’uomo e la città di Dio
Il carattere rivoluzionario del messaggio cristiano consiste nella trasvalutazione (cambiamento di
stima del sistema dei valori) dell’eguaglianza di tutti gli uomini come creature aventi valori infiniti
perché create da Dio. Come conseguenza, decadono le distinzioni sociali (padroni e schiavi). Ne
Lettera ai Galati, S. Paolo dice: tutti siamo una persona in Gesù Cristo. I valori della società vengono
ribaltati dal cristianesimo: al posto della forza e della potenza si predica la carità e la fratellanza, al
posto della ricchezza la povertà. Ci si volge con misericordia verso i poveri, gli umili, i peccatori.
Malgrado ciò, la rivoluzione cristiana non è pensata come una rivoluzione politica, e non vuole
esserlo. Infatti, non esorta i servi alla ribellione, ma all’obbedienza, e ai padroni consiglia di
comandare nel modo giusto. Ciò ci fa capire che i cristiani non aspirano a fondare un nuovo regno, e
questo perché Cristo insegna che il suo regno non è in questo mondo. Detto questo però, sappiamo
che una predicazione così radicale non poteva non minare le basi degli ordinamenti politici del tempo.
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Esempio: il detto “dare a Cesare quel che è di Cesare” significava rispetto per l’imperatore, ma anche
che non deve essergli dato più di quanto gli spetta. Inoltre, la fedeltà è anche a Dio, anzi, è prima a
Dio e poi a Cesare. La rottura con il concetto di polis è ormai netta: col Cristianesimo è posta la
distinzione fra ciò che è dovuto allo stato e ciò che invece non gli appartiene, come la dimensione
spirituale dell’individuo. È importante ricordare che il Cristianesimo fu perseguitato finché
Costantino non si convertì. Bisogna concentrarsi sulla legittimità del potere politico nel cristianesimo.
Vediamo la posizione di Paolo ne La lettera ai Romani nella quale afferma che i cristiani devono
obbedienza all’autorità politica perché questa autorità proviene da Dio, e quindi opporsi a questa
equivale mettersi contro un ordine legittimato da Dio. L’obbedienza che i cristiani devono al potere
pubblico non può essere motivata sola dal timore della punizione, ma è anche un obbligo di coscienza.
Dopo la conversione di Costantino, quando il cristianesimo acquista piena cittadinanza nell’impero,
i problemi politici e dottrinali diventano molto più complessi (es: potere spirituale e temporale devono
coesistere). Quello che veramente importa nella storia dell’uomo non è la grandezza degli imperi, ma
la lotta fra la civitas Dei e la civitas terrena. Le due città si identificano rispettivamente con la Chiesa
e con lo Stato, ma designano due opposti modi di vivere: la città terrena è un’unione che nasce per
soddisfare il desiderio di gloria, l’ambizione; è governata dall’amore di sé, spinto fino all’indifferenza
nei confronti di Dio. Invece, la città celeste è governata dalla legge dell’amore, dell’umiltà, del
sacrificio del sé. Il dualismo fra le città terminerà solo nella fine escatologica (relativo alla parte della
teologia riguardante il destino ultimo dell'uomo e dell'universo), quando si instaurerà la città di Dio
e con essa la perfetta concordia. A partire da questo orizzonte, Agostino pensa i rapporti fra la Chiesa
e lo stato cristiano, cioè quello stato che processa la vera fede. Ognuno dei due poteri ha la sua sfera
autonoma di azione:
• Lo Stato si occupa dell’uomo nella sua dimensione naturale
• La Chiesa cura gli interessi spirituali
La sfera spirituale è considerata superiore perché la sua giurisdizione non è limitata nello spazio e nel
tempo, la Chiesa è al di sopra del tempo, infatti, si situa nella prospettiva escatologica della città
celeste.
Tutta la storia del Medioevo è attraversata dal rapporto fra il sacro potere del pontefice e quello
politico del re e degli imperatori. Le loro funzioni sono diverse, e per questo devono rimanere poteri
distinti, ma il vero problema è se si debbano considerare entrambi come derivanti direttamente da
Dio, e quindi posti su un piano di cooperazione malgrado ognuno rimanga nella sua sfera di
competenza, o se, partendo dal fatto che il potere della Chiesa si colloca spiritualmente su un piano
più alto, si debba porre una supremazia del pontefice e far discendere da lui anche la legittimazione
del potere politico. La dottrina del primato del potere papale su quello secolare verrà sostenuta dalla
Chiesa con sempre maggiore energia nei secoli che seguono la morte di Agostino. Si parlerà di
“agostinismo politico”, anche se tale visione si allontana dalle originarie tesi agostiniane, e troverà in
papa Gregorio Magno (fine VI secolo) uno dei suoi primi sostenitori. Nell’800, con l’incoronazione
di Carlo Magno a Roma da parte di Leone III, si instaura una sorta di alleanza fra Chiesa e imperatori,
mentre, con il successivo regno di Ottone I di Germania, il potere imperiale accrescerà, tanto che
Ottone II pretenderà di esercitare il proprio controllo anche sul papato, scegliendo lui stesso i vescovi-
conti. La Chiesa e il potere papale riacquisteranno autonomia da Papa Gregorio VII nel 1073:
l’imperatore cercò di depositare papa Gregorio, ma egli rispose scomunicando l’imperatore,
umiliandolo. L’imperatore infatti dovette implorare il perdono dal pontefice. In modo ancora più
netto, la superiorità del potere papale sarà riaffermata da Innocenzo VI contro Federico II, con la cui
sconfitta crollerà il sogno degli imperatori tedeschi di restaurare la monarchia universale.
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Alla metà del XIII secolo, con la diffusione delle traduzioni delle opere di Aristotele, il pensiero
cristiano dà luogo ad un grande rinnovamento, segnato dalla figura di Tommaso d’Aquino. Mentre
in Agostino la riflessione sulla politica partiva da un’antropologia pessimistica (tutti gli uomini sono
peccatori), Tommaso, anche in seguito alla ricezione del pensiero politico di Aristotele, introduce il
concetto di legge naturale: essa prescrive tutto ciò che giova a conservare la vita dell’uomo, mentre
proibisce ciò che va contro questo fine. Gli uomini però devono essere educati alla disciplina della
virtù, di modo che le passioni e le cattive abitudini non li condizionino. La funzione delle leggi umane
è assicurare che tra gli uomini regni la pace, che siano bandite le ingiustizie reciproche, grazie al
timore del castigo che queste stesse leggi minacciano ai trasgressori. Le leggi umane hanno il loro
fondamento nella legge di natura, che non devono mai contraddire. Si attua un’importante distinzione:
• Diritto naturale: quello che deriva dalla natura stessa delle cose;
• Diritto positivo: deriva o da un accordo privato, o da un patto pubblico, o da ciò che è stabilito
dal principe.
Seguendo l’impianto della politica di Aristotele, Tommaso considera il vivere in società come
conforme alla natura dell’uomo (zoon politikon): l’uomo fa parte della famiglia, la famiglia della città,
e il bene del singolo non è fine ultimo. Il bene è quello comune. Il potere politico, quello che si esercita
sugli uomini liberi (no su servi o schiavi) è una necessità per la convivenza umana, che non dipende
dal fatto che la natura umana sia stata corrotta dal peccato originale. Tommaso sostiene che anche
nello stato di innocenza servirebbe il potere politico. È importante ricordare che il bene comune non
è in conflitto con quello del singolo. Vediamo la distinzione di Tommaso dei vari tipi di ingiustizia:
• Se il comando del principe si scontra con quello di Dio, gli uomini non sono tenuti a obbedire. Il
comando di Dio è superiore;
• Caso delle leggi inique: esse attentano al bene comune, ma possono essere ingiuste in vari sensi:
o perché mirano solo a soddisfare il bene del principe, o perché escono da limiti di competenza
di chi le emana, o perché impongono ai sudditi oneri in modo iniquo. Queste leggi, poiché
ingiuste, possono anche non essere seguite, però, Tommaso scrive che, per evitare scandali, può
essere consigliabile rispettarle comunque. Esempio: il governo tirannico è legge iniqua. Secondo
Tommaso, che in generale condanna la ribellione come peccato, non considera la resistenza al
despota come tale, a meno che, non sfoci in mali peggiori di quelli che i cittadini subivano sotto
il potere tirannico. Infatti, secondo Tommaso non è lecito uccidere il tiranno.
Per quanto riguarda la migliore forma di governo, anche qui Tommaso segue la Politica di Aristotele.
Nella Summa Teologica, Tommaso sostiene che la forma migliore di regime politico sia una forma
“mista” che riassuma in sé i vantaggi delle tre forme pure di governo: il potere di comando deve
essere detenuto da un’autorità unica, che però è affiancata da un ampio corpo di cittadini qualificati,
scelti dal popolo stesso. Per quanto riguarda il rapporto tra potere politico e potere religioso,
Tommaso ribadisce che il potere spirituale del pontefice sia superiore a quello secolare; quest’ultimo
però è soggetto alle intromissioni del primo solo in ciò che tocca il fine della beatitudine eterna (e
non la felicità terrestre).
Nel 1517 Lutero affigge sulla porta del castello di Wittenberg 95 tesi contro il commercio delle
indulgenze e, tre anni dopo, brucia la bolla di scomunica che era stata emessa contro di lui da papa
Leone X. La riforma distrugge la struttura gerarchica della Chiesa: per Lutero, infatti, non c’è più uno
specifico ruolo del sacerdozio come intermediario tra dio e i fedeli: egli sostiene la dottrina del
sacerdozio universale dei credenti, e riduce il numero dei sacramenti riconoscendone solamente tre
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(eucaristia, battesimo e penitenza). Afferma il principio del libero esame, per cui ogni credente può
rapportarsi direttamente al testo sacro e interpretarlo, senza la mediazione dell’autorità ecclesiastica.
A questo fine traduce la Bibbia in tedesco e ne sollecita la diffusione fra i credenti. Alla negazione
dell’autorità ecclesiastica gerarchicamente strutturata però, corrisponde in Lutero un’altrettanta forte
insistenza sul dovere dell’obbedienza alle autorità politiche vigenti, che lo porterà ad appoggiare la
repressione da parte dei principi tedeschi della rivolta dei contadini. Vediamo dunque che Lutero
radicalizza la tesi agostiniana delle due città, e sostiene che il regno di Dio sia regno di grazia e di
misericordia che l’uomo non può guadagnarsi con le opere. Egli crede nella predestinazione: la grazia
è un puro e gratuito dono divino. Invece, il regno terreno è irrimediabilmente segnato dal disordine
della natura umana. Per Lutero non vi è mediazione fra i due regni, e quello terreno, spogliato di ogni
intrinseco valore e positività, si oppone polarmente a quello della grazia e della misericordia. Si nota
come tale scissione consegni il mondo dell’uomo a una pura malvagità e immanenza, priva di una
regola finalistica, che pone alcuni dei presupposti culturali per la modernità politica come sarà pensata
a partire da Hobbes, nel suo orizzonte di pessimismo antropologico e radicale individualismo.
Capitolo 4: Il paradigma del contratto
Modello classico: pensa l’ordine politico come finalizzato al vivere bene nella comunità. Modello
contrattualista: nasce con Hobbes, e continua fino a Kant, salvo poi riproporsi, in una nuova
declinazione, nel tardo XX secolo. L’interesse si focalizza sulla problematica della legittimità
dell’ordine statale, ovvero del carattere vincolante dell’obbligo politico che a esso ci lega. Perciò, il
modello contrattualista è un metodo per dare una risposta razionale alla domanda: come deve essere
organizzato uno stato legittimo in cui tutti i cittadini sono tenuti a dare il loro assenso? Se si risponde
a partire dallo schema del contratto, diremo: l’ordine politico legittimo è quello che deciderebbero di
darsi individui che non vivessero già in uno stato costituito, ma si trovassero invece a vivere in una
condizione prepolitica e prestatale (stato di natura), privi di rapporti di subordinazione reciproca
quindi in una condizione di sostanziale libertà ed eguaglianza. Il valore rivoluzionario del pensiero
contrattualista sta nel definire l’ordine politico legittimo come quello che meriterebbe in consenso
razionale da parte di individui liberi ed eguali che si trovassero a scegliere come organizzare la loro
convivenza a partire dallo stato di natura. L’idea contrattualistica non esprime una verità storica. Gli
argomenti contrattualisti, nelle loro differenti visioni, mostreranno innanzitutto che:
• Se gli individui si trovassero a vivere in una condizione prepolitica, essi sceglierebbero di dare
vita allo stato;
• Il pensiero contrattualista, partendo da un’ipotetica situazione iniziale di scelta, ci mostra quali
situazioni gli individui si sarebbero dati;
Tra il 1618 e il 1648 la guerra dei trent’anni insanguinò l’Europa. Anche l’Inghilterra fu teatro di
feroci lotte sociali, politiche e religiose; in particolare, lo scontro fra aristocrazia e borghesia nascente
condusse il Paese ad una lunga guerra civile tra i sostenitori della monarchia assoluta e i difensori
delle prerogative del parlamento. La guerra iniziata nel 1642 portò, sette anni più tardi, alla
decapitazione di Carlo I Stuart e alla nascita della Repubblica. I liberal-costituzionali però videro
Oliver Cromwell, loro principale sostenitore, abbandonare la nuova politica per instaurare un regime
autocratico. Con la morte di Cromwell si ebbe la restaurazione della monarchia con Carlo II Stuart
nel 1660 che, dopo qualche anno, regnò senza più convocare il parlamento.
Alberto Presti, Sofia Gorgone, Myriam Russo, Giulia Tarantino, Claudia Candido, Sofia Buffa
Thomas Hobbes nacque a Maimesbury il 5 aprile 1588. Tra il 1610 e il 1637 compì viaggi in Francia
e in Italia per approfondire la propria cultura. Nel 1640 scrisse Elementi di legge naturale e politica.
Tra il 1640 e il 1652, durante la guerra civile, visse a Parigi e nel 1642 pubblicò il De Cive e, nel
1651, il Leviatano. Scrisse altre opere, la più importante e nota di quegli anni considerati “della
vecchiaia” è il Behemot del 1668. Morì il 4 dicembre del 1679 a 91 anni.
La rivoluzione di Hobbes è innanzitutto quella di smentire la premessa dalla quale Aristotele partì per
giustificare la sua concezione politica, ovvero il fatto che, per natura, alcuni uomini sono più saggi di
altri, e quindi che alcuni uomini sono predestinati al comando e altri all’obbedienza. Le due tesi
principali di Hobbes sono:
• Tesi della naturale eguaglianza degli uomini;
• Tesi della naturale conflittualità degli uomini;
Ciò porta il filosofo a pensare gli uomini eguali nel senso che anche le diseguaglianze che pur
sussistono (forza fisica, facoltà mentali) non alterano questa fondamentale parità, e quindi non
potrebbero mai giustificare la naturale sottomissione degli uni agli altri. Hobbes si chiede: perché gli
uomini entrano in conflitto? Ecco le due ragioni principali:
• Per diffidenza: nessuno ha la certezza di non venir aggredito e ucciso da altri, perciò ciascuno
dovrebbe a sua volta aggredire e uccidere per evitare quella stessa fine;
• Per quella passione che il filosofo chiama “gloria”: gli uomini provano soddisfazione a compararsi
con gli altri e nel veder affermata la loro superiorità; ma se ognuno vuol essere superiore, il
confronto non potrà che trasformarsi in conflitto.
A questo Hobbes aggiunge la teoria della necessità del conflitto dello stato di natura: se si ammette
che ogni uomo ha per natura diritto ad auto-conservarsi, e a usare tutti i mezzi atti a tale scopo, allora
ne consegue che ognuno è il solo giudice di ciò che è necessario alla propria conservazione. Questo
porta a considerare che, finché non vi è una legge comune, ognuno ha diritto a tutto. Il fatto che “tutti
hanno diritto a tutto” porta gli individui al conflitto, a vivere in uno stato di guerra. Bisogna però
notare che la radice più profonda di tale clima conflittuale sta proprio nell’eguaglianza fra gli uomini:
poiché gli uomini sono eguali, nessuno accetterà “naturalmente” di sottomettersi all’altro. Lo Stato
di natura è uguale allo stato di guerra di tutti contro tutti. Diremo allora che lo stato prepolitico di
natura è uno stato di pericolo, di insicurezza e di morte da cui gli individui non possono che desiderare
di uscire. Ogni uomo, per prima cosa, desidera conservarsi in vita, ed è questa la ragione che muove
l’uomo alla ricerca del conseguimento della pace. Vediamo ora se le leggi di natura, ovvero quelle
regole di condotta che, secondo Hobbes, se fossero seguite da tutti gli uomini, assicurerebbero loro
una convivenza pacifica. La legge di natura è una regola scoperta dalla ragione, ha carattere generale,
e vieta ad un uomo di fare ciò che lede alla sua vita. Tutti quei comportamenti che costituirebbero un
torto nei confronti della vita degli altri sono da evitare. Inoltre, per Hobbes, i comportamenti “giusti”
corrispondono a quelli che per gli uomini sono più convenienti. Le leggi di natura sono i precetti di
una morale razionale della reciprocità che, se fosse seguita da tutti gli uomini, consentirebbe loro di
vivere bene e in pace. Il problema è che, finché manca un potere comune, le leggi di natura non sono
realmente vincolanti, perché, nello stato di natura, non c’è garanzia del fatto che gli altri non
uccideranno. Per uscire da questa situazione, gli uomini devono stringere tra di loro un patto di forza
nel quale ognuno di loro rinuncia, a condizione che gli altri facciano altrettanto, a tutti i diritti che
aveva nello stato di natura e li trasferisce a un sovrano, sotto il quale tutti i torti saranno puniti, e si
potrà vivere sicuri. Fatto ciò la moltitudine così unita in una sola persona viene chiamata civitas.
Attraverso il patto:
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• Gli uomini istituiscono un potere sovrano;
• La legge naturale viene sostituita dalla legge civile o positiva, cioè da quella che il sovrano riterrà
giusto emanare;
• Il potere che gli uomini hanno ceduto ad uno solo è assoluto, in quanto non è soggetto a limiti.
Esso infatti non è limitato né dal patto grazie al quale è nato (il patto è stipulato fra individui, non
fra individui e sovrano), né dalle leggi positive. Ciò significa che il sovrano è legibus solutus,
sopra la legge. Infine, il potere sovrano non può essere limitato da un altro potere, perché, se così
fosse, ci sarebbe un potere superiore al sovrano stesso.
Tali condizioni però non implicano che i sudditi non godano della giusta libertà. Per Hobbes “libertà”
significa mancanza di impedimenti (egli è infatti un teorico della libertà negativa). Perciò, la libertà
dei sudditi si esplica in tutti quelle azioni che il sovrano omette di regolare. È chiaro che il sovrano
non può commettere abusi, salvo il suo personale rapporto con le leggi naturali e divine, ma, sostiene
il filosofo, anche la più dura sovranità assoluta è preferibile alla condizione misera e incerta dello
stato di natura. Malgrado questo Hobbes afferma che, se il sovrano non garantisse più pace e
sicurezza, i sudditi non sarebbero più in alcun modo tenuti all’obbedienza. Vediamo ora i problemi
rimasti aperti nella teoria hobbesiana, affrontati in un’ampia discussione che si è sviluppata
soprattutto a partire dalla seconda metà del Novecento:
• La prima grande questione è l’interpretazione hobbesiana dello stato di natura: Rousseau
rimprovererà Hobbes di avere illegittimamente proiettato, nello stato di natura prepolitico, quelle
istanze conflittuali e quella brama di autoaffermazione e di superiorità che sono sostanzialmente
estranee all’uomo naturale e che invece caratterizzano il clima di uomo
• La seconda questione sono le modalità dall’uscita dello stato di natura e le motivazioni, di tipo
egoistico-utilitario, su cui essa si fonda: se gli uomini hobbesiani sono calcolatori razionali, perché
è necessario lo strumento del patto per assicurarsi l’autoconservazione? Non esistono strumenti
diversi?
• La terza questione è rappresentata dal fatto che Hobbes pensa il rispetto all’obbligo politico come
se fosse basato su motivazioni utilitarie, e cioè sul timore del Leviatano (forza pubblica). È
Howard Warrender, uno dei più grandi interpreti novecenteschi di Hobbes, che si domanda: se i
cittadini obbediscono per timore della forza pubblica, su cosa di baserà la loro fedeltà? Ciò ci
porta a dire che, per quanto riguarda la nascita del corpo politico, sia per quanto concerne il suo
mantenimento, la pura razionalità strategica non sembra essere sufficiente
Il punto numero tre ci porta a considerare nuove interpretazioni, che parlano di un fondamento di
moralità nella genesi e nel mantenimento del corpo politico, e quindi si rapportano più intensamente
con le leggi naturali. In questa prospettiva, l’uscita dallo stato di natura conflittuale può essere pensata
non più come dettata da ragioni utilitarie, ma da una più complessa struttura morale: gli uomini,
proprio attraverso l’esperienza dura e catastrofica del conflitto, arrivano a riconoscersi come eguali
e, da tale consapevolezza, muovono per instaurare il contratto.
La quarta ed ultima questione riguarda il carattere assoluto del potere sovrano che con il patto si
verrebbe a istituire: Rousseau si chiederà: consegnarsi a un sovrano rinunciando ai propri diritti
significa davvero garantirsi la sicurezza, o non vuol dire passare da un’insicurezza ad un’altra? A tale
problema si connette quello della natura del potere sovrano, cioè se debba trattarsi di un potere
sovrano monarchico/aristocratico/democratico. Le preferenze di Hobbes sono tutte a favore del potere
monarchico, però, tale scelta non sembra inserirsi in modo coerente nella prospettiva contrattualista:
se gli individui devono spogliarsi del proprio potere su di sé, perché dovrebbero cederlo a un
individuo particolare, e non (come sosterranno Spinoza e Rousseau) alla collettività democratica di
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tutti i cittadini? Questa difficoltà era avvertita dallo stesso Hobbes che, negli Elements aveva
sostenuto, a differenza di quanto poi dirà nel Leviatano, che la democrazia precede tutte le altre
istituzioni di governo. A motivare il cambio di scelta di Hobbes nei confronti della democrazia sono:
da un lato la terribile attualità della guerra civile, e dall’altro la consapevolezza della forza dirompente
delle passioni.
Lo stato di natura secondo Spinoza: in esso il diritto e la potenza coincidono, e il diritto di ognuno si
estende proprio fin dove arriva la sua potenza. Non ci sono leggi vincolanti per tutti, ed è per questo
che nella situazione prepolitica dello stato di natura ciascun individuo ha pieno diritto a tutto ciò che
è in suo potere. Le conseguenze sono che:
• Nello stato di natura non esiste il peccato, non c’è né bene né male, neppure il giusto e l’ingiusto,
ciò significa che lo stato di natura spinoziano non dà luogo ad alcun giudizio morale. Bene e male
esistono solo quando vengono stabiliti da leggi civili che esprimono una volontà comune;
• Come sostiene Hobbes, anche Spinoza afferma che non è piacevole rimanere nello stato di natura,
perciò gli uomini devono rinunciare al diritto su tutto per cederlo alla collettività, stringendo con
tutti gli altri un patto sociale. In tal modo nasce lo stato: da questo momento in poi l’autorità
statale ha il diritto di imporre leggi e punire.
Come deve essere organizzato lo Stato? Egli sostiene la democrazia, poiché è quella forma di governo
che maggiormente rispetta la libertà che la natura ha concesso a ognuno: con essa infatti nessuno
trasferisce ad altri il proprio naturale diritto in modo così definitivo da non poter essere più consultato
ma lo deferisce alla maggior parte della società di cui è membro.
Un’altra differenza sostanziale tra Hobbes e Spinoza sta nel patto: per Spinoza esso non è irrevocabile.
Gli uomini che lo hanno sottoscritto, lo hanno fatto per il loro utile, ma se la società non attua quella
“utilità comune” che è la vera ragione del patto, esso non ha più motivo di esistere, e dunque può
essere annullato e distrutto. Inoltre, l’autorità sovrana intesa da Spinoza non ha potere assoluto sui
sudditi; ciò significa che la rinuncia ai diritti naturali non è totale. Rinunciare a tutti i diritti naturali
equivale, per Spinoza, a rinunciare di essere uomo. Esistono diritti inalienabili, come quello della
libertà di pensiero, parola e insegnamento (salvo che non costituiscano un pericolo per l’esistenza
dello stato). Ogni cittadino ha diritto al libero esercizio della sua ragione, anche se, se ne serve per
criticare i decreti dello stato; ciò che allo stato deve interessare è il comportamento del cittadino, non
le sue idee.
John Locke è considerato il fondatore del contrattualismo liberale, a causa del ruolo centrale che
svolgono nel suo pensiero i temi:
• Dei diritti naturali;
• Dei limiti che i diritti naturali impongono allo Stato;
• Il concetto di proprietà: carattere sacro e inviolabile;
Il potere politico è definito: come il diritto di formulare leggi che contemplino la pena di morte e, di
conseguenza, tutte le pene minori, in vista di una regolamentazione e conservazione della proprietà;
di usare la forza della comunità per rendere esecutive tali leggi e per difendere lo Stato da attacchi
esterni. Per Locke, gli uomini si assoggettano ad un governo per salvaguardare la loro proprietà
(mentre per Hobbes la proprietà privata è una conseguenza del patto, prima non esiste. Per Grozio e
Pufendorf essa esiste anche prima del patto, ma solo se vi è un tacito consenso di tutti gli individui).
Anche per Locke, come per Hobbes, gli uomini sono per natura eguali, e il potere monarchico non
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deriva né da quello divino né da quello paterno. Vediamo lo stato di natura del pensiero lockiano: è
come quello di Hobbes, infatti la legge di natura è quella regola il cui rispetto assicura la pace. La
differenza è che per Locke essa è per tutti vincolante. Però, il problema sul quale egli si concentra è
come funziona concretamente la punizione di chi non rispetta la legge di natura, ovvero il problema
dell’amministrazione della giustizia. Mentre Hobbes distingueva fra stato di natura e stato di guerra,
spiegando che quello di natura è uno stato di pericolo che può degenerare in guerra, come può
accadere anche allo stato civile; Locke sostiene che lo stato di natura è pacifico, infatti avviene quando
gli uomini vivono insieme secondo ragione senza un sovrano comune, ma col potere di giustificarsi
fra loro. Per allontanare il rischio di ricadere continuamente nel clima di guerra, scrive Locke, gli
uomini scelgono il patto, istituendo così un giudice comune e imparziale che gestisca le controversie.
Un altro tema fondamentale, come si è già detto, è quello della proprietà privata e, soprattutto, del
legame che Locke ha tessuto fra essa e la libertà individuale. Le proprietà dell’individuo sono per il
filosofo: libertà, vita e averi. Ma come si appropria l’individuo della terra? L’appropriazione privata
non è una condizione originaria, ma deriva dalla proprietà comune. La legittimità della proprietà
privata si basa su un assunto: l’uomo è proprietario della sua persona. Da tale base si sviluppa tutta
l’argomentazione lockiana: se l’uomo è proprietario di sé stesso, lo è anche del suo lavoro e di ciò
che il suo lavoro produce (il lavoro legittima l’individuo). Ciò significa che, per Locke, l’uomo ha
diritto di appropriarsi della terra che lavora, a condizione che resti materia lavorabile anche per gli
altri, altrettanta e altrettanto buona. Questo assunto porta il filosofo a criticare la teoria del consenso;
se chi si appropria della materia da lui lavorata non toglie nulla a nessuno, perché sarebbe necessario
il consenso? L’uomo acquisisce la proprietà sui prodotti e sulla terra che egli produce con il proprio
lavoro, però, vi sono dei limiti: ognuno può prendere tanto quanto può consumare. Finché non c’era
il denaro, scrive Locke, non si poteva accumulare più di tanto, perché i prodotti si deterioravano,
mentre con l’introduzione del denaro diventa possibile un’accumulazione illimitata. La legittimità di
questa disuguaglianza non riposa su un patto, ma sulla scelta condivisa dagli individui di utilizzare il
denaro; ciò comporta per il filosofo l’accettazione dell’eventualità dell’accumulazione illimitata. Il
valore dei beni secondo Locke è dato molto più dal lavoro fatto per ottenerli che dalla materia prima,
e quindi, chi ci mette il lavoro ha più diritto su un bene del proprietario della materia prima (il valore
della quale, se non lavorata, tende a zero). Questa è la teoria valore-lavoro che sarà utilizzata anche
dall’economia politica classica fino a Marx. La prova di questo primato del lavoro la forniscono i
popoli dell’America che, malgrado le enormi risorse naturali, sono poverissimi. Si nota come Locke
giustifichi il capitalismo inteso come accumulazione illimitata e fine a sé stessa. Vediamo i punti
deboli evidenziati dalla critica:
a) Il concetto della proprietà di sé non sembra del tutto convincente, perché nessun uomo può
legittimamente vendersi come invece può vendere le sue proprietà;
b) Le abilità di qualcuno non gli appartengono in modo esclusivo perché egli le ha apprese da altri
che gliele hanno insegnate e quindi anche nel suo lavoro il contributo propriamente individuale è
una piccola parte;
c) Il problema delle generazioni: perché chi arriva dopo, quando tutto è diventato proprietà privata
di qualcuno, dovrebbe accettare il fatto che con il denaro si sia resa possibile la proprietà senza
limiti? Locke risponderà che: anche il più povero bracciante inglese sarà più ricco di qualunque
re dei selvaggi, e quindi in ogni caso non ha nulla di cui lamentarsi. Tale risposta e il pensiero che
la anima daranno luogo ad una ripresa del pensiero liberale che da Adam Smith si muoverà fino
a John Rawls. Tale risposta può essere infatti messa in crisi da una semplice domanda: preferireste
essere un bracciante o un re?
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Passiamo ad un nodo cruciale della teoria di Locke. Egli insiste sul fatto che, associandosi con lo
Stato, gli individui istituiscono un giudice che è legittimato a risolvere i contrasti in quanto è al di
sopra dei contraenti. Ma se questa è l’essenza del passaggio dallo stato di natura a quello civile, allora
ne consegue che la sovranità non può essere, come invece aveva sostenuto Hobbes, assoluta (deve
esserci qualcuno che sia al di sopra del sovrano). Questo pensiero diventerà una delle tesi
fondamentali del liberalismo moderno: non si esce veramente dallo stato di natura se non c’è una
salvaguardia nei confronti del potere sovrano. Vediamo ora le caratteristiche del patto politico:
• È sottoscritto dagli individui liberamente;
• Chi vuole può non aderirgli;
• Chi aderisce si impegna a formare un solo corpo politico che rispetta le decisioni prese dalla
maggioranza;
• Lo scopo è quello, non solo di sopravvivere, ma di vivere bene nella pace reciproca, assicurandosi
il godimento della proprietà e una maggiore protezione nei confronti di coloro che a quella società
non appartengono.
Il potere legislativo (emanare leggi e risolvere le controversie) è per Locke obbligato a sottostare ad
alcuni vincoli:
• Diritti inalienabili: esso deve muoversi nell’ambito fissato dalla legge di natura, e nel rispetto dei
diritti inalienabili che da essa discendono;
• Principio di legalità: il potere deve governare attraverso leggi generali certe e non attraverso
decreti estemporanei o ad personam;
• Intangibilità della proprietà: il potere supremo non può togliere a un uomo una parte della sua
proprietà senza il suo consenso (le tasse per mantenere lo stato devono avere il consenso dei
sudditi);
• Il legislativo non deve trasferire ad altri potere di legiferare, né affidarlo a mani diverse da quelle
cui l’ha affidato il popolo.
Locke afferma che le migliori forme di governo sono democrazia, monarchia e oligarchia. Ma come
si può garantire che il potere legislativo rimanga in questi limiti? La risposta è da ricercarsi nella
teoria dell’articolazione dei poteri. Bisogna distinguere chiaramente il potere legislativo da quello
esecutivo: il primo deve riunirsi solo periodicamente, e non in permanenza, per legiferare, mentre il
secondo deve assicurare coattivamente l’obbedienza dei cittadini alle leggi. Chi dispone della
coazione non dispone della legge, e anzi, a essa è vincolato, mentre chi legifera non ha alcun potere
diretto di coazione. Il potere legislativo è quello supremo, ma la coazione spetta a quello esecutivo.
Se però il potere legislativo non si attenesse alle regole previste, Locke argomenta la sua
(problematica) teoria del diritto di resistenza: mancando di un giudice superiore cui appellarsi, il
popolo ha diritto di appellarsi ad una legge superiore a quella positiva.
Con Rousseau tutta la problematica del contrattualismo hobbesiano e lockiano viene sottoposta a un
rovesciamento critico radicale: il contrattualismo cessa di porsi come un orizzonte entro il quale si
legittimano i poteri vigenti, per trasformarsi in leva di un pensiero tendenzialmente rivoluzionario.
Rousseau prende le mosse dalla premessa del contrattualismo: esso ha posto alla radice del patto
sociale uomini liberi ed eguali, eppure tale eguaglianza originaria è schiacciata da quelle strutture di
dominio e di oppressione che, secondo il filosofo, segnano e inquinano ogni società civile moderna.
“L’uomo è nato libero, ma dappertutto è in catene”. Rousseau si distingue poiché non solo fa della
disuguaglianza sociale oggetto di denuncia, ma essa è compresa nella sua razionale necessità.
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Dunque, con la nascita della società civile l’eguaglianza non si conserva, bensì si rovescia, diventando
disuguaglianza. Il primo compito della teoria diventa quello di svelare come le strutture inegualitarie
del dominio abbiano potuto sorgere, e godere perfino del consenso degli oppressi. Innanzitutto
partiamo dallo stato di natura. Rousseau contesta quello hobbesiano, dicendo che il limite di fondo
della teoria di Hobbes è che lo stato di natura è popolato da uomini avidi, orgogliosi, desiderosi di
opprimersi l’un l’altro. Secondo Rousseau quello che Hobbes sta descrivendo è l’uomo civilizzato,
corrotto e rovinato da una civiltà malsana. Diversa è la critica per lo stato di natura lockiano: egli
incorre in un peccato di apologia, a causa della sua visione continuistica fra stato di natura e stato
civile. Per Rousseau invece, lo stato di natura (visione scientifica) non è uno stato di guerra per il
semplice motivo che è uno stato di isolamento. L’uomo naturale è un uomo solo che abita una natura
ostile, ma con essa non ha difficoltà nel soddisfare i suoi limitati bisogni. Lo stato di natura non è
affatto una condizione miserabile, anzi, Rousseau lo definisce “il più adatto alla pace, il più
conveniente al genere umano”. Non vi è quindi alcuna necessità che costringe l’uomo a uscire dallo
stato di natura (semmai il problema è come se ne sia usciti, visto il suo carattere pacifico e stabile);
inoltre, il passaggio allo stato civile è determinato solo da cause esterne fortuite che potevano anche
non verificarsi. Come si costituisce l’ineguaglianza che caratterizza la società civile? Il tutto, secondo
Rousseau, ruota attorno al concetto di proprietà: il primo che, cintato un terreno, pensò di affermare,
questo è mio, e trovò abbastanza persone ingenue da credergli, fu il vero fondatore della società civile.
Il discorso lockiano viene così criticato: la proprietà non è un’acquisizione legittima, ma una sagace
impostura. L’ineguaglianza delle proprietà è il vero stigma della società corrotta, è la rottura maggiore
nel fatale percorso storico verso la società borghese.
Il processo degenerativo di cui Rousseau tratta, ponendosi così anche fra i fondatori della moderna
scienza antropologica e sociale, si ricollega alla dimensione della socialità che soppianta
quell’originaria solitudine. Quando l’uomo si unisce ad una comunità, sviluppa subito quel
sentimento che è l’amor proprio, quella stima della propria superiorità che è la radice prima dello
sviluppo dell’ineguaglianza. Sulla scia di Hobbes, Rousseau afferma che la passione dell’orgoglio
spinge l’uomo a competere con i suoi simili per superarli, ma tale sentimento non appartiene all’uomo
dello stato di natura, bensì a quello socializzato. La socialità è, in questo contesto, definita come un
moto che spinge l’uomo al confronto e a dipendere dall’opinione altrui.
Dunque l’uomo selvaggio che passa ad uno stato civile acquisisce tale sentimento in forma “leggera”
e inizia così l’ineguaglianza, ma questo stadio è definito embrionale dal filosofo. È stato lo sviluppo
delle tecniche, dell’agricoltura, del lavoro, e la differenza di talenti, di proprietà, a spianare la strada
dell’ineguaglianza nel suo sviluppo senza limiti: perché la proprietà nasce dal lavoro, come in Locke,
ma, poiché gli uomini hanno diversa forza, capacità e talento, il lavoro di alcuni procura loro maggior
proprietà di quanto non accada ad altri. È così completamente spianata la via verso la corruzione,
verso una società divisa in padroni e servi, dove l’apparire grandi, ricchi e superiori agli occhi degli
altri diventa più importante di ciò che davvero si è. È qui allora, nella società non ancora politicamente
organizzata, e non nello stato di natura, che si ha lo stato di guerra. E da esso gli uomini sono usciti
con un patto politico che è stato proposto dai ricchi ai poveri. Esso è un patto iniquo e che i poveri
accettano solo per ingenuità, perché, mentre distruggeva la libertà naturale, legittimava la legge della
proprietà e della diseguaglianza. Secondo Rousseau: per appropriarsi di ciò che eccedeva la necessità,
un uomo avrebbe dovuto “avere il consenso espresso ed unanime di tutto il genere umano”.
Anche il patto descritto da Locke è considerato iniquo, perché non è razionale che i nullatenenti
accettino di lasciare la loro libertà naturale sottomettendosi alla legge civile, senza pretendere che
venga rimessa in discussione anche la distribuzione della proprietà. In esso i ricchi ci guadagnano
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troppo, e i poveri troppo poco rispetto a ciò che cedono. (Se anche il patto fosse fatto, sarebbe
comunque nullo).
Importante è sottolineare un punto di passaggio nel pensiero di Rousseau. Il Rousseau che fin qui
abbiamo descritto è quello del Discorso sull’ineguaglianza, testo nel quale la socialità si configura
come una dimensione di caduta e alienazione, ma è attraverso una visione più complessa e meno
negativa dei rapporti sociali che il filosofo giunge a porre le condizioni per delineare il quadro di quel
patto equo e razionale designato nel Contratto Sociale. In esso Rousseau considera gli uomini come
di fatto siano, nella loro conflittuale particolarità, e leggi come possono essere, in modo da poter
associare la giustizia all’utilità, dunque, ciò che il diritto permette con ciò che l’interesse prescrive. I
punti di partenza fondamentali della concezione rousseuiana non sono lontani da quelli di Hobbes e
Locke:
• L’ordine sociale non è dato per natura, ma è un ordine artificiale che deve essere istituito da
uomini originariamente liberi ed eguali;
• Non sono accettate le teorie che vedono il potere sovrano come derivazione di quello patriarcale,
o come scaturente da una superiore natura di uno rispetto ad altri;
• Il potere legittimo non può essere pensato, dice Rousseau polemizzando soprattutto con Grozio,
come il risultato di un patto di sottomissione in cui il popolo allena la sua libertà nei confronti di
un sovrano diventandone suddito.
Prima abbiamo visto come il patto di stampo lockiano non è razionale secondo Rousseau e che, anche
se fosse fatto, viene considerato nullo. Vediamo le ragioni:
• È irrazionale che i sudditi si spoglino della libertà per ottenere in cambio una sicurezza non
garantita, oltretutto sotto il comando di un sovrano che può dichiarare guerra a suo piacimento;
• Un patto nel quale una parte cede qualcosa in cambio senza ottenere nulla è nullo;
• Nessuna generazione di uomini può allenare la libertà delle generazioni successive, perché essa
non le appartiene;
• La libertà è qualcosa che non si può allenare (inteso come “cedere”) come accade per una
proprietà. Se ciò fosse considerato vero, significherebbe negare all’uomo la responsabilità delle
sue azioni. Esempio: se un uomo ordinasse ad un altro di commettere un crimine, l’assassino non
sarebbe dispensato dalla sua responsabilità, perché il crimine rimarrebbe suo;
• Come sosteneva Pufendorf, perché un popolo possa darsi a un re è necessario che questo si sia
prima costituito come popolo: un pactum subjectonis non può darsi se non si presuppone un
anteriore pactum unionis. Per poter decidere qualcosa, tutti devono prima aver deciso,
all’unanimità, di unirsi e di sottomettersi a ciò che la maggioranza deciderà.
Poste queste premesse, affrontiamo il problema di trovare una forma di associazione legittima.
Rousseau propone come soluzione il seguente patto: gli individui rinunciano ad autogovernarsi,
dunque, alienano totalmente i loro diritti in favore di un corpo politico comune. In tal modo
l’individuo accetta che gli altri abbiano diritto su di lui, ma al tempo stesso acquisisce un diritto sugli
altri; e quindi non perde nulla della sua libertà. Ora la libertà è messa in comune, l’individuo riottiene
ciò che cede, e in più acquista la certezza di poter godere della libertà che ha (cosa che nello stato di
natura non avveniva poiché la forza di altri poteva negarla). Sebbene Rousseau critichi il potere
assoluto assunto da Hobbes, quando si tratta di descrivere la clausola del patto egli segue la sua scia,
allontanandosi radicalmente da Locke: il sovrano ora è la comunità, dunque, i diritti contro il sovrano
non sono presi in considerazione; esso è infatti formato da privati che non possono avere interessi
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contrari a loro. In rapporto ai membri della comunità, lo Stato è padrone di tutti i loro beni, ma ciò
non significa che i beni debbano passare di mano, piuttosto che il diritto di ciascun privato sul suo
terreno è sempre subordinato al diritto della comunità su tutto. Il compito del patto sociale è quello
di rinforzare l’uguaglianza naturale nella forma di un’eguaglianza morale e legittima. (I governi
“cattivi” offrono un’eguaglianza solamente apparente).
Lo stato rousseriano è una costituzione dell’eguaglianza, dove “eguaglianza” non significa che si
debba essere identici, piuttosto che nessun cittadino dev’essere in grado di imporre la sua volontà a
un altro se non in forza delle leggi, e che nessuno dev’essere abbastanza ricco da poter comprare un
altro e, ancora, nessuno tanto povero da essere costretto a vendersi. L’eguaglianza è una condizione
di uno stato che abbia di mira il bene comune ma, più in profondità, è condizione della libertà stessa.
Tuttavia è la stessa “forza delle cose” che tende a distruggere l’eguaglianza: malgrado vi sia un
interesse comune, la comunità politica di Rousseau diventa il terreno di una lacerazione drammatica,
perché, là dove vi è società, vi sono individui con interessi particolari. L’arte politica ha il difficile
compito di governare la società a partire da questo interesse, di cui la volontà generale è voce, senza
lasciarsi travolgere dalla spinta centrifuga degli interessi antagonisti. La volontà generale può
divergere dalla volontà di tutti che, invece, è una semplice somma di interessi particolari; e il popolo
può essere ingannato. È importante ricordare che Rousseau è il fondatore della democrazia moderna.
Come in Hobbes, anche in Kant la riflessione sulla politica prende le mosse da un presupposto
antropologico: la “insocievole socievolezza” dell’uomo. Kant sostiene, come Hobbes, che l’uomo è
lupo per l’altro uomo, ma pone la questione in modo più articolato: l’uomo ha una naturale
inclinazione ad associarsi, perché solo nella società con gli altri può sviluppare al meglio le sue
disposizioni naturali/qualità, ma l’uomo ha altrettanto fortemente una tendenza a dissociarsi, poiché
è caratterizzato dalla proprietà insocievole di voler condurre tutto secondo il suo proprio interesse.
Inoltre, l’uomo si aspetta che anche gli altri facciano lo stesso, e quindi, in questo senso, è sempre in
guerra con loro. L’uomo kantiano è quindi sociale, ma anche egoista e antisociale, e i due momenti
non si possono separare, perché per prevalere sugli altri bisogna porsi in relazioni a essi. Citazione:
da un legno così storto, come è quello di cui è fatto l’uomo, non si può fare nulla di completamente
diritto.
Kant però compie una valutazione altamente positiva dell’insocievolezza dell’uomo, poiché essa
genera competizione, desiderio di prevalere, e spinge i talenti dell’uomo a emergere: ciò non sarebbe
possibile nella perfetta concordia. Se l’uomo non fosse abitato dall’insocievolezza, non
comprenderebbe il valore superiore della sua esistenza e delle sue potenzialità, ma, come scrive Kant,
sarebbe una pecora mansueta. Bisogna però sottolineare il fatto che la competizione non è un valore
per il filosofo, ma un mezzo attraverso il quale si produce ciò che ha valore, e cioè lo sviluppo della
razionalità, della cultura, della scienza, della ricchezza. A causa di questo presupposto, Kant non può
introdurre il tema dell’eguaglianza liberale (cioè delle opportunità): per lui, è tollerabile una
diseguaglianza anche considerevole delle condizioni economiche a patto che a nessuno sia impedito
di riuscire con il proprio merito/talento ai più alti gradi della gerarchia sociale.
Vediamo ora la concezione kantiana dello stato di natura. Essa presenta due aspetti:
• Il primo aspetto lo avvicina a Hobbes, lo stato di natura è uno stato di guerra, anche se non sempre
comporta lo scoppio delle ostilità, ma piuttosto la minaccia di esse. Lo stato di pace deve dunque
essere istituito (infatti l’astenersi dalle ostilità non è ancora sicurezza). Tuttavia, lo stato di natura,
sebbene costituisca uno stato di guerra quantomeno potenziale, può essere definito uno stato non
giuridico solo in un certo senso: esso è tale perché non si è ancora costituita l’unione civile che
dà luogo al passaggio giuridico, ma, in un altro senso, non è del tutto non giuridico, poiché in esso
Alberto Presti, Sofia Gorgone, Myriam Russo, Giulia Tarantino, Claudia Candido, Sofia Buffa
sono già vigenti dei rapporti di diritto privato tra gli individui, che Kant definisce provvisori:
mentre nello Stato civile sono indicate le condizioni che assicurano le esecuzioni delle leggi dello
stato di natura, in esso ciò non avviene, ma questa è l’unica differenza, perché anche nello stato
di natura abbiamole proprietà, un “mio” e un “tuo” attorno ai quali ruotano le discordie. Ciò
comporta, per Kant, il doveroso passaggio alla creazione di uno stato giuridico. Egli non parla di
necessità, ma di dovere, poiché i diritti esistenti nello stato di natura, senza una legittimazione,
rimarrebbero ineffettuabili. Ovviamente, l’uscita dallo stato di natura risponde anche agli interessi
degli uomini, costretti ad entrare in quello stato di coazione che è la pena.
• Il secondo aspetto lo allontana da Locke; mentre per Locke la decisione di spogliarsi della libertà
naturale è autonoma e che non aderisce resta nello stato di natura, per Kant gli uomini hanno il
dovere di costringere coloro che si rifiutano di fare parte dello stato civile. Il punto è di estrema
rilevanza, perché, mentre per Locke e il liberalismo più generale, la legittimità dell’ordine politico
dipende dal consenso di fatto che gli individui hanno dato ad esso, per Kant la legittimità dipende
invece dal consenso che gli individui sono tenuti a dare, perché rifiutarsi ad esso vorrebbe dire
scegliere di rimanere in uno stato di ingiustizia, mentre l’adesione non è altro che l’adesione
doverosa a una legge della ragione, e non ha nulla a che vedere con una preferenza che gli
individui possono dare o meno. Tale pensiero si colloca oltre il problema di motivare l’adesione
al patto, ma si spinge nell’ambito normativo.
Abbiamo visto che costituire l’unione statale è un dovere, ma chiediamoci: è un dovere normativo o
morale?
La risposta è articolata. Certamente costituire lo stato è qualcosa che somiglia molto ad un dovere
morale, tuttavia diciamo che il dovere di uscire dallo stato di natura è giuridico in senso preciso,
perché, da parte degli altri individui, vi è il diritto di costringere i riottosi (coloro che sono restii a
sottomettersi) a entrare nello stato civile. L’osservanza di questo dovere viene garantita dalla
coalizione che, appunto, è un dovere giuridico. La coalizione è un dovere giuridico non nel senso del
diritto positivo, che è appunto ciò che deve essere costituito, ma nel senso del diritto naturale/di
ragione. Si può affermare che in Kant è proprio il diritto naturale (o di ragione), a costituire il tramite
fra lo stato di natura e quello civile.
Il fatto che gli altri individui possano obbligare i restanti a passare allo stato civile è ammesso poiché
la legge naturale è anteriore a quella positiva. C’è un obbligo anche se non c’è il legislatore. Da
ricordare la seguente distinzione in Kant:
• Leggi esterne: appartengono al diritto e non alla morale, sono leggi naturali, e possono essere
riconosciute a priori dalla ragione;
• Leggi positive: sono leggi che, senza una vera legislazione, non obbligano per nulla.
Il criterio del giusto secondo Kant può essere formulato come segue: qualsiasi azione è conforme al
diritto quando per mezzo di essa, o secondo la sua massima, la libertà dell’arbitrio di ognuno può
coesistere con la libertà di ogni altro secondo una legge universale.
Quali sono le leggi giuste? Secondo il filosofo esse non sono frutto di una volontà arbitraria, ma
devono essere conformi alla ragione. La legittimità di una legge non deriva semplicemente dal
contratto o dal consenso dei cittadini, ma dal contratto originario come idea della ragione, alla quale
tanto il legislatore quanto i cittadini devono sentirsi vincolati. Una legge è ingiusta quando sarebbe
impossibile che tutto un popolo desse ad essa il consenso. D’altra parte, la legge alla quale tutto il
popolo “potrebbe” dare consenso è una legge razionale e universale, ispirata all’unico principio di
garantire il rispetto della libertà di ciascuno. Con il suo repubblinanismo, Kant tenta di conciliare il
momento liberale dei diritti individuali con quello della volontà generale rousseauiana: la legge giusta
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è quella cui la volontà generale del popolo potrebbe dare il suo assenso (e perciò fondamento della
legittimità è la volontà generale), ma la legge cui ognuno potrebbe dare il suo assenso non può
accogliere alcun principio particolare che differisca dall’unico principio universale e razionale, che è
quello di garantire la eguale libertà di tutti. In tal modo Kant costituisce un punto di riferimento
essenziale per un pensiero politico che voglia unire in modo coerente il principio liberale
dell’autonomia dell’individuo e quello democratico della sovranità del corpo collettivo dei cittadini.
Secondo Kant, il diritto riguarda il rapporto tra le libertà che i diversi individui hanno di agire nel
mondo esterno, quindi, come già detto, è una legge esterna. La funzione del diritto è regolare le
relazioni fra gli uomini senza prescrivere loro i fini cui debbano adeguarsi, ma soltanto ordinando il
modo della loro coesistenza, affinché ognuno possa esplicare il proprio arbitrio senza compromettere
quello altrui. In forza di questo, si nota che il diritto è inseparabile dalla coazione: se qualcosa è mio
di diritto, ciò vuol dire al tempo stesso che io ho diritto a costringere gli altri a rispettarlo.
Chiediamoci ora quale sia il giusto ordinamento giuridico secondo Kant, innanzitutto nel saggio Sul
detto comune, egli stila un elenco di principi a priori dello stato giuridico:
a) La libertà:
▪ I diritti inalienabili che concernono l’uso pubblico della propria ragione: fra i diritti
inalienabili, Kant inserisce la libertà di religione, di pensiero e quella di critica pubblica,
perché l’uomo ha diritto di fare uso pubblico della propria ragione in tutti i campi;
▪ Il diritto di ognuno di ricercare la propria felicità come meglio crede, purché non pregiudichi
l’altrui diritto di fare altrettanto. Ne consegue che il compito dello stato non è quello di
promuovere il bene dei sudditi, ma quello di garantire le condizioni perché ognuno possa
ricercare il suo benessere e la sua felicità come meglio crede. Da un lato quindi lo stato deve
lasciare gli individui liberi di perseguire i fini che preferiscono, dall’altro deve essere retto
non in modo arbitrario, ma secondo leggi, ovvero, deve essere stato di diritto;
b) L’uguaglianza: di fronte alla legge e non come accesso ai beni. Tale principio richiede la
negazione dei privilegi ecclesiastici, feudali e nobiliari;
c) L’indipendenza: i cittadini che devono obbedire alle leggi hanno il diritto di esserne gli autori,
però, il potere legislativo è solo di coloro che, non solo vivono sotto la giurisdizione di uno stato
ma sono anche indipendenti nella vita economica, cioè che possiedono un capitale (si escludono
i lavoratori a giornata, il servo domestico e la donna). Questo perché, secondo il filosofo, non
sono pienamente cittadini coloro che, se dovessero esprimersi politicamente, finirebbero per
esprimere la volontà di coloro da cui dipendono.
d) Per quanto riguarda le forme di governo, Kant esegue una distinzione seguendo il “come” si debba
governare e con il “chi”. Si deve governare o secondo leggi (stato repubblicano) o secondo arbitrio
(come accade nel dispotismo). Perché un governo non sia dispotico è necessario che la funzione
legislativa sia distinta da quella giudiziaria.
Capitolo 5: Società civile e stato
Il liberalismo postrivoluzionario mantiene la connessione con il 1789, ma al tempo stesso riflette sui
rischi e pericoli della sovranità popolare. Il rischio in primo luogo, è quello che la sovranità popolare
si trasformi, come era accaduto nella fase giacobina della rivoluzione, nella dittatura popolare, o
meglio esercitata da coloro che pretendono di rappresentare il popolo. Ancora di più, il rischio è che
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l’uguaglianza politica dei cittadini, voglia trovare la sua coerente prosecuzione nell’uguaglianza
sociale. La questione che la Rivoluzione Francese ha aperto, dunque, è se l’eguaglianza politica non
debba necessariamente dar luogo all’eguaglianza sociale, perché se la maggioranza vive in condizioni
economiche di depravazione e di disagio ha accesso ai diritti politici, è evidente che li utilizzerà per
far leggi che portino alla redistribuzione della proprietà e alla garanzia pubblica del diritto al lavoro,
e infine alla instaurazione progressiva dell’eguaglianza sociale. Su questo sfondo di problemi
assolutamente comune ragionano tanto i liberali quanto i loro nemici: i primi nella ricerca di un
equilibrio che consenta di mantenere il principio moderno e rivoluzionario dell’eguaglianza politica
ma al tempo stesso di confinarlo entro ben precisi limiti, e impedirgli di straripare nel senso di una
trasformazione rivoluzionaria di tutta la società. Proprio quello che invece, rivendicano nella logica
di una coerenza ugualitaria, i secondi. Per i liberali non porre limiti alla sovranità popolare significa
spianare la strada a un potere dittatoriale, e quindi rinnegare i principi di libertà della Rivoluzione,
per gli altri, invece, le libertà della Rivoluzione devono essere attuate concretamente, facendo sì che
ognuno disponga delle risorse per esercitarle effettivamente. Nell’epoca post-rivoluzionaria, il
problema è piuttosto come una struttura solida sia capace di tenere produttivamente dentro di sé tanto
il principio moderno dell’eguaglianza politica, quanto quello dei diritti dell’individuo, comprensivi
delle sue libertà private e della libertà di comprare e vendere sul mercato le merci non meno che il
lavoro. Le grandi tensioni di questo periodo si basano sul dilemma di limitare lo stato per lasciare
spazio al libero dispiegamento della società civile o invece di forzare la contraddizione tra i due
termini.
Il percorso di pensiero di Benjamin Constant muove i suoi primi passi proprio nel fuoco dei conflitti
della Rivoluzione francese, ai quali egli prende pure parte quando arriva a Parigi. Il Termidoro (27
luglio 1794) ha posto fine alla dittatura giacobina, cercando di porre termine alla Rivoluzione ma in
realtà inaugurando una fase di lotte e di incertezza che si concluderà con il colpo di stato di Napoleone
del 18 brumaio 1799. Constant si schiera a favore della difesa dei principi di libertà ed eguaglianza
della Rivoluzione, che si sviluppa attraverso una polemica su due fronti: da un lato contro i giacobini,
che hanno stravolto i principi dell’89 istaurando una dittatura arbitraria e violenta, dall’altro contro i
nostalgici della monarchia, che proprio dagli eccessi del giacobinismo traggono argomenti per
perorare il ritorno al vecchio ordine. Ma è nel periodo napoleonico che Constant elabora i fondamenti
teorici del suo pensiero politico, al cui centro è la inderogabile necessità di limitare il potere politico,
affinché esso non possa trasformarsi in dispotismo. I Principi di Politica del 1806 prendono le mosse
proprio dall’analisi critica de pensiero di Rousseau. Rousseau ha perfettamente ragione, secondo
Constant, quando individua, attraverso la pur insostenibile volonté général, nella volontà dei cittadini
l’unica fonte dalla quale può nascere un’autorità politica legittima, e cioè fondare la sua legittimità
sul consenso di coloro che a esso devono sottoporsi. Una volta determinata la fonte dell’autorità,
restano da stabilire i suoi compiti, ovvero i limiti del suo esercizio. L’errore fatale di Rousseau, allora,
concerne proprio questo punto: egli afferma infatti che la costituzione del corpo politico presuppone
l’alienazione totale, da parte degli individui, di tutti i loro diritti, e dà luogo pertanto a un potere che,
anche se esercitato dalla collettività, risulta, come quello hobbesiano, assoluto ovvero privo di limiti.
Dunque Constant finisce in sostanza per attaccare lo stesso concetto di volonté général rousseauiana.
Non è vero, conclude Constant, che l’individuo cedendo i suoi diritti al corpo comune in realtà li
conserva; perché chi esercita di fatto l’autorità non è mai il corpo comune nel suo insieme, ma una
parte di esso, che può anche farne un uso arbitrario. Il potere illimitato è quindi sempre dispotico,
anche quando esso sia nelle mani non di individui particolari, ma della totalità dei cittadini. La
riflessione sui limiti del potere si articola, per Constant, in due direzioni: in primo luogo si può
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ragionare sulla limitazione del potere tramite divisione e articolazione, partendo dal principio che un
potere non può essere limitato che da un altro potere; è questa la via del costituzionalismo, che tenta
di elaborare un assetto dei poteri dove essi si controllino a vicenda. La limitazione reciproca dei poteri
però secondo Constant, è ancora insufficiente a impedire il dispotismo. Ciò che è essenziale, invece,
è stabilire con nettezza gli ambiti nei quali il potere politico può esercitare la propria competenza, e
quelli invece che esso deve lasciare fuori, perché le libere scelte degli individui regnino incontrastate.
Il potere deve limitarsi strettamente a quelle funzioni che sono indispensabili per l’esistenza stessa
della società civile: la sicurezza dei cittadini e dei loro averi e l’organizzazione di una forza armata;
queste due funzioni richiedono inoltre una certa tassazione sulla proprietà, senza la quale esse non
potrebbero venir finanziate. Ogni estensione dell’autorità dello stato oltre questi limiti è illegittima.
E dove l’autorità statale finisce comincia lo spazio dei diritti individuali che essa non può limitare,
ma solo proteggere dalle eventuali interferenze di altri. Una attenzione particolare Constant dedica
alla difesa dell’opinione pubblica e del suo strumento principe, la libertà di stampa: essa costituisce
un indispensabile presidio dei diritti degli individui perché, se non vi fosse, le violazioni dei diritti,
potrebbero essere perpetrare più facilmente, non potendo venir denunciate pubblicamente. Il potere
legislativo detenuto dai rappresentanti del popolo dovrà essere esercitato dentro limiti rigorosamente
fissati e, affinché non invada quella sfera della vita individuale e sociale che non sono di competenza
della politica. Proprio per evitare questo rischio, però, i diritti politici, e ciò innanzitutto il diritto di
votare per scegliere i propri rappresentanti, non potranno essere estesi a tutti i cittadini. Per essere
cittadini si devono conoscere i propri interessi: si deve quindi disporre di una cultura, del tempo libero
per coltivarla, delle proprietà che sono la condizione per godere di questi agi. E perciò, conclude
seccamente Constant “solo la proprietà rende gli uomini capaci dell’esercizio dei diritti politici; solo
i proprietari possono essere cittadini”. E un proprietario, non è semplicemente chi possiede qualcosa,
ma chi detiene un reddito fondiario sufficiente a mantenersi durante l’anno senza essere obbligato a
lavorare per altri. I diritti politici devono essere limitati a coloro che godono di questa sovrana
condizione di indipendenza. In quanto strettamente connessa alla libertà dell’individuo, la proprietà
viene a godere della protezione che a questa spetta di diritto, e che trova ulteriore giustificazione nel
fatto che la proprietà privata è, per Constant, condizione di ogni progresso e benessere sociale; mentre
la sua soppressione, distruggerebbe ogni possibilità di avanzamento spirituale e intellettuale, di cui
tutta la società raccoglie poi i benefici. Questo principio non comporta però una divisione della società
in classi e ordini rigidamente distinti, come accadeva nell’ancien régime: perché la proprietà è per
sua natura mobile, e può essere tanto facilmente persa quanto acquistata da chi ne abbia i meriti e le
capacità: le leggi non devono far nulla per limitare questa salutare circolazione. La tesi di Constant
nel Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni del 1819, è che la libertà
può intendersi in due sensi fondamentalmente diversi. Nel senso degli antichi, la libertà, così come
viene indicata nella polis, consiste essenzialmente nella partecipazione diretta al potere politico: è la
libertà come autogoverno, una libertà collettiva. La libertà nel senso dei moderni, al contrario, è
fondamentalmente libertà dell’individuo privato: il diritto di non essere sottoposto che alle leggi, di
non poter essere né arrestato, né messo a morte, né maltrattato in alcun modo a causa dell’arbitrio di
uno o più individui; il diritto di riunirsi, il diritto di influire sul potere politico e amministrativo con
l’elezione dei rappresentanti. La conclusione è netta: il fine degli antichi era la divisione del potere
sociale fra tutti i cittadini di una stessa patria, era questa che essi chiamavano libertà. Il fine dei
moderni è la sicurezza dei godimenti privati; ed essi chiamano libertà le garanzie accordate dalle
istituzioni a questi godimenti. Senza libertà politica non c’è perfezionamento e progresso morale. Sul
rapporto tra le due libertà, dunque, la riflessione di Constant resta in qualche modo aporetica: per un
verso egli si rende conto che, senza la partecipazione politica, l’intero assetto delle libertà rischia di
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crollare; ma, per altro verso, come tener viva la partecipazione politica, se l’individuo moderno è
prevalentemente concentrato sulla dimensione politica?
Alexis de Tocqueville è un discepolo di Constant che però finisce quasi per rovesciarne gli esiti,
recuperando il valore di quella libertà politica che in Constant era rimasta comunque subordinata alla
libertà privata. Tocqueville esprime la sua analisi della democrazia all’interno dello scritto La
democrazia in America, e la basa sull’eguaglianza delle condizioni. Questa eguaglianza è un
concetto dai contorni strettamente definiti, che sta a indicare in sostanza che per Tocqueville è una
caratteristica di fondo della mentalità democratica: il non riconoscere alcuna superiorità di rango o di
altro genere, e il collocare tutti gli individui su un medesimo terreno. La democrazia americana è
caratterizzata da un grande divario tra ricchezza e povertà, ma questo non implica una divisione
antropologica, perché la proprietà e le ricchezze sono altamente mobili e l’individuo può trovarsi ad
occupare, in breve spazio di tempo, posizioni molto diverse nella scala sociale. Tocqueville vuole
mettere in guardia dai costi che lo sviluppo della democrazia comporta, ovvero la tirannide della
maggioranza. Secondo Tocqueville se la minoranza non è tutelata al suo diritto al dissenso, siamo in
presenza di una tirannide della maggioranza. I malesseri che porta questa degenerazione, sono
l’estremizzazione del concetto di sovranità popolare, che diventa un dogma e quindi si crea l’idea che
tutto è lecito al popolo e a conseguenza ritenuta più temibile ovvero l’individualismo. È il risultato
dell’apatia, nel momento in cui non viene tutelato il mio diritto a dissentire, si diventa apatici.
L’individualismo è presente fortemente in Europa, poiché manca lo spirito associativo. Questo è il
quadro che si realizza attraverso la degenerazione della democrazia. Usa il termine tirannide della
maggioranza, perché viene descritto come un potere assoluto non di un solo uomo, ma di una
maggioranza che si ritrova a monopolizzare i tre poteri. Tutti i poteri sono espressione della
maggioranza, e questo spinge l’individualismo, la ruggine della democrazia, che ci fa disinteressare
da una partecipazione attiva alla cosa pubblica. Il socialismo diventa il concentrato di tutti quei mali
che Tocqueville aveva visto minacciare il futuro della società democratica: “La Rivoluzione francese
non ha avuto la pretesa ridicola di creare un potere sociale che assicurasse di per se stesso la fortuna,
il benessere, l’agiatezza di ogni cittadino …”. Proprio ciò che invece vuole fare i socialismo quando,
reclamando il diritto al lavoro, chiede che lo stato si costituisca alla previdenza individuale, si
intrometta nelle industrie, imponga a esse dei regolamenti, si faccia insomma paternalisticamente
carico del benessere di tutti.
John Stuart Mill dà luogo a quello che si potrebbe chiamare liberalismo radicale, caratterizzato per
un verso dall’apertura nei confronti del socialismo e per l’altro da una difesa della libertà e
dell’anticonformismo individuale molto più netta di quella che era stata propria dei pensatori liberali
classici. La sua visione progressiva e umanistica, portò Mill a guardare con molta simpatia al
movimento socialista e cartista, e a concedere ampio spazio alla critica socialista della proprietà
privata nel suo scritto Principi di economia politica del 1848. Una delle tesi più caratteristiche del
Mill economista è che, mentre le leggi che governano la produzione della ricchezza sono assimilabili
a delle verità fisiche, del tutto indipendenti dalla volontà umana, la distribuzione della ricchezza,
invece, dipende dalle leggi e dalle consuetudini della società, ed è quindi modificabile attraverso
l’intervento cosciente degli uomini. Mill critica, perciò il modo in cui la ricchezza è distribuita nella
società del suo tempo; e sostiene che, se la conseguenza di un ordinamento sociale fondato sulla
proprietà privata è che la ricchezza venga distribuita in proporzione quasi inversa al diretto contributo
lavorativo, allora questo ordinamento dev’essere modificato, forse anche sostituendo ad esso un
sistema comunistico. Egli sostiene che la divisione del genere umano in due classi ereditarie, datori
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di lavoro e lavoratori, non possa essere eternamente conservata. C’è da aspettarsi piuttosto che questa
divisione venga sostituita da nuove forme associative e cooperative. Mill critica quindi del
capitalismo il fatto che esso si basi su una distribuzione ineguale delle proprietà che è il sedimento di
passate sopraffazioni, mentre difende il principio della libera concorrenza con la sola eccezione della
concorrenza tra i lavoratori. Egli però non crede che lo sviluppo, l’accumulazione e quindi la stessa
lotta concorrenziale debbano continuare all’infinito, anzi ritiene che sia inevitabile giungere a uno
stato stazionario, con il quale l’umanità si lascerà finalmente alle spalle la continua corsa
all’accrescimento del guadagno.
Il volumetto On liberty si propone di determinare i limiti che il potere pubblico e la legislazione non
possono varcare, ovvero quelle sfere di libera azione individuale che alla formazione statale debbono
restare comunque sottratte. Lo stato non può vietare alcuna azione dell’individuo che non rechi danno
ad altri. Il potere politico che pretendesse di vietare la pubblica espressione di opinioni che l’autorità
o la maggioranza ritengono perniciose, deleterie o semplicemente sbagliate, commetterebbe, sostiene
Mill, un torto non tanto contro i sostenitori di quelle opinioni, quanto contro l’umanità in generale,
contro gli uomini viventi e ancor più contro quelli che verranno. Sostiene Mill: “Se l’opinione è
giusta, essi vengono privati dell’opportunità di abbandonare l’errore per la verità; se è sbagliata,
perdono un beneficio quasi altrettanto grande: la percezione più chiara e più viva della verità,
prodotta dal contrasto con l’errore”. L’esigenza di mantenere sempre una apertura fallibilista è
rafforzata dal fatto che molte idee ritenute certissime in epoche passate si sono rilevate, in seguito,
non solo false, ma persino assurde. Il ragionamento che vale per le opinioni si applica anche agli stili
di vita e ai comportamenti: se non vi fosse la possibilità per gli individui di sperimentare modi di vita
eterodossi, sgraditi al conformismo dei più e al potere dello stato, sarebbe impedito agli uomini di
conoscere ciò che forse potrebbe portarli a una via più realizzata e più felice. La possibilità per
l’individuo di svilupparsi autonomamente, seguendo i propri impulsi più personali e spontanei e
sottraendosi alla tirannia conformistica della maggioranza, non è solo uno dei principali fattori della
felicità umana, ma quello sicuramente più essenziale al progresso individuale e sociale. Deriva da ciò
la critica del paternalismo, ovvero della pretesa di obbedire agli individui comportamenti che, senza
recare danno ad altri, sembrano però contrari al loro stesso bene: nessuna persona o gruppo di persone
è autorizzato a dire a un’altra persona matura che per il suo bene non può fare della sua vita quel che
sceglie di farne. Qui arriviamo alla punta più radicale, e anche controversa, del liberalismo milliano.
In primo luogo, non è facile distinguere un comportamento che reca danno ad altri da uno che non lo
fa. In secondo luogo, se ammettiamo che sia lecito, o magari anche doveroso, impedire a un individuo,
anche con la forza, di gettarsi in un fiume per annegarsi, che obiezione ci può essere, per esempio,
alla proibizione di far uso di sostanze che danneggiano, in modo accertato, la salute, la vita e la
lucidità mentale dell’individuo stesso? Alla plausibilità di queste obiezioni Mill oppone una serie di
argomenti che sono rilevanti: il singolo è la persona più interessata al proprio benessere, più di quanto
non lo sia la società; la società ha avuto in ogni caso il modo, con l’educazione, di prevenire nel
singolo i comportamenti sgraditi; se non si ponessero dei limiti all’ingerenza del pubblico sui
comportamenti privati, questo finirebbe per punire, come è successo infinite volte nella storia, non
ciò che è provatamente dannoso per i singoli stessi, ma tutto ciò che va contro le sue preferenze e
soprattutto le sue superstizioni. Insomma, non si può conferire alla società un potere che essa ha
sempre dimostrato, di non sapere usare bene. Vi sono però delle eccezioni: è lecito proibire agli
individui di vendersi come schiavi, anche se lo volessero, perché il principio di libertà non può essere
usato per legittimare la rinuncia alla libertà stessa. Così come non è una violazione della libertà,
l’istruzione obbligatoria.
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In quanto fautore di un avanzamento culturale e intellettuale di tutti gli uomini, Mill pensa che questo
sarebbe senz’altro favorito dalla partecipazione alla politica attraverso il suffragio universale
democratico. D’altra parte, egli, come i suoi predecessori liberali, è ben consapevole di vivere in una
società fondamentalmente divisa in classi, e dove la maggioranza della popolazione appartiene alla
classe più povera. Perciò, nel suo saggio Sul governo rappresentativo, sostiene che il suffragio
universale applicato secondo la regola un uomo/un voto porrebbe il potere legislativo nelle mani della
maggioranza più povera. A questi inconvenienti Mill pensò che si potesse porre rimedio non
eliminando il suffragio universale ma piuttosto introducendo il correttivo del voto plurimo, in modo
tale che tutti avessero a disposizione un voto, ma che le persone più istruite, esperte e qualificate ne
avessero più di uno. Sempre pensando a una democrazia dell’intelligenza egli ritiene che le leggi non
dovrebbero essere elaborate dal Parlamento, ma da una commissione ristretta e qualificata, mentre il
Parlamento dovrebbe limitarsi a discuterle, approvarle o respingerle.
Anche la filosofia politica di Hegel si costruisce intorno alla centralità del tema moderno della libertà.
La filosofia del diritto hegeliana si articola in tre grandi parti dedicate rispettivamente al diritto
astratto, alla moralità e all’eticità. Nella visione di Hegel, la libertà dell’individuo non consiste
compiutamente né nella sua facoltà di operare come persona giuridica, e neppure nella sua capacità
di autodeterminarsi come persona morale capace di scegliere in base alla ragione senza lasciarsi
dominare dalle inclinazioni. Entrambe questi modi di intendere la libertà, colgono il significato della
libertà solo in modo astratto e parziale: la libertà infatti, secondo Hegel, deve essere compresa come
il fruire di quelle condizioni e di quei rapporti oggettivi che consentano all’individuo la sua
autorealizzazione, che gli assicurino le condizioni per esplicare la sua libera personalità. La libertà
concreta, non può essere pensata come mera capacità di autodeterminazione individuale; essa viene
ricostruita piuttosto come l’insieme di quegli istituti nel contesto dei quali gli individui possono
godere, a diversi livelli, delle condizioni per la loro autorealizzazione. Rispetto al liberalismo, egli
mostra, in primo luogo, che non si può pensare lo stato come il risultato di un patto tra individui
privati. Per Hegel, lo stato, cioè l’organismo politico, è il momento che precede gli altri: non ci sono
individui capaci di autodeterminarsi liberamente senza l’unità politica che di tutto ciò costituisce la
condizione. Per Hegel, lo stato è scopo finale, fine in se stesso, mentre il supremo dovere dei singoli
è innanzitutto quello di essere componenti dello stato. Il primo istituto all’interno del quale gli
individui trovano le condizioni della loro autorealizzazione è la famiglia, che ha la sua determinazione
nell’amore e nell’unità tra i componenti. L’ambito della società civile è invece quello in cui si afferma
la separazione degli individui, come persone private dedita al soddisfacimento dei loro bisogni e
interessi egoistici. Si tratta, per Hegel, di una dimensione fondamentale: lo sviluppo dell’individuo,
infatti, presuppone la sua separazione dall’unità immediata, la conquisti dell’autonomia. È sul terreno
della società civile, però, che si generano il progresso e la civiltà. Nella visione hegeliana, però, le
conquiste della società civile generano a loro volta problemi che essa non è in grado di risolvere con
i suoi stessi strumenti, cioè confidando semplicemente nelle virtù della mano invisibile e della
concorrenza. La dinamica spontanea della società civile, infatti, tende per Hegel a generare da un lato
la più straordinaria accumulazione di ricchezza, dall’altro la concentrazione di povertà e
deprivazione, la formazione della plebe. È questo paradosso a rendere necessarie all’interno della
società civile, istituzioni aventi il precipuo scopo di operare nel senso del bene comune e della
solidarietà. Si tratta di istituti che in Hegel vanno sotto il nome di polizia e di corporazione. La prima
ha il compito di regolare diversi aspetti della vita sociale ed economica sottraendoli alla loro
accidentalità, svolgendo per i poveri quelle funzioni che la famiglia non può adempiere. La seconda
invece, riunisce gli appartenenti a un determinato ceto o professione, è per Hegel quasi una seconda
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famiglia, nel senso che, oltre a porre dei limiti al libero mercato, ripropone, al livello più complesso
della società civile, quelle funzioni di solidarietà che in un primo tempo erano state proprie della
famiglia.
L’individuo che, nella compagine statale, realizza i suoi interessi particolari, comprende che il bene
del tutto è la condizione primaria della sua soggettiva autorealizzazione, e assume quindi l’interesse
della generalità come suo proprio interesse cosciente. La mediazione di universale e particolare è
possibile, in Hegel, perché già nella stessa società civile se ne dà la preparazione: questa è sì il mondo
degli interessi conflittuali e della polarizzazione di ricchezza e povertà, ma al tempo stesso contiene
la possibilità di superare le sue lacerazioni; sia attraverso gli istituti della polizia e della corporazione,
sia perché non è un mondo puramente atomistico, ma è invece organicamente strutturato
nell’articolazione delle tre classi o ceti che la compongono: il ceto sostanziale, ovvero i proprietari
terrieri; il ceto industriale; e il ceto generale, ovvero i funzionari dello stato, che ha come compito la
cura degli interessi generali. E su questa base si eleva quell’organismo compiuto, che è lo stato. La
struttura costituzionale dello stato, a sua volta, si dispiega nell’articolazione dei tre poteri che non
devono essere pensati nella logica della separazione, ma piuttosto come momenti e determinazioni di
uno intero: il potere sovrano, che detiene la decisione ultima e che compete al monarca costituzionale;
il potere governativo, che deve eseguire e applicare le decisioni; e il potere legislativo, al quale
concorrono tanto i due poteri quanto l’elemento dei ceti. Che il potere legislativo venga da Hegel
strutturato attraverso una rappresentanza dei ceti e delle corporazioni è un passaggio fondamentale
per tutta la sua costruzione. La rappresentanza per ceti costituisce non solo l’elemento che media tra
popolo e governo, ma soprattutto la concreta possibilità di saldatura tra gli interessi, organicamente
articolati in cerchie, che si fanno valere nella società civile.
Nella prospettiva di Marx, il limite della filosofia hegeliana è quello di aver ricercato una soluzione
illusoria di questa contraddizione, reintroducendo all’interno della separazione tra società civile e
stato politico elementi di mediazione che provengono dall’ordine antico, come ad esempio la
rappresentazione per ceti. Per Marx la società civile è il regno degli individui privati, che perseguono,
nel quadro di una economia di mercato, i loro interessi particolari: essa è quindi caratterizzata
dall’esistenza di ampie diseguaglianze di denaro, di proprietà, di cultura, di posizione sociale. Ma ciò
che caratterizza il moderno è che queste diseguaglianze di condizione, perdono il loro significato
politico; nella società moderna tutti i cittadini sono politicamente uguali, la rivoluzione borghese non
sopprime l’ineguaglianza sociale, ma sono i suo significato politico. Il problema fondamentale del
Marx filosofo politico è come bisogna pensare il rapporto tra l’ineguaglianza sociale e l’eguaglianza
politica. La contraddizione tra questi due elementi si può superare solo con l’eliminazione di entrambi
i termini contrapposti e complementari: e cioè, attraverso una democrazia integrale che non sia più
soltanto politica, cioè che instauri la comunità umana a partire dal livello del lavoro e della effettiva
riproduzione della vita, e non solo in un ambito politico, astratto e posto accanto alle ineguaglianze
reali, contro le quali non ha nessun potere. La rivoluzione come la pensa Marx, dunque, sopprime
l’antitesi tra società civile e stato politico, per rifondare la comunità umana a partire dalla libera
associazione dei produttori; e ciò implica l’estinzione del potere politico come dimensione separata
da quella in cui si attua l’effettiva riproduzione della vita degli individui. Nel Manifesto del partito
comunista del 1848, il proletariato si impadronisce del potere politico e lo usa come leva per
sopprimere la proprietà capitalistica dei mezzi di produzione e quindi le differenze di classe. Una
volta che queste, dopo una fase di conflitti e di interventi dispotici, saranno superate, e la produzione
sarà tornata nelle mani degli individui associati, il potere pubblico perderà il carattere politico;
superata la contrapposizione tra le classi, di un potere politico separato dalla società non ci sarà più
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bisogno. Per Marx il proletariato partecipa alla rivoluzione democratica e la sostiene con la sua forza,
ma il suo programma è quello di non consentire che la rivoluzione si arresti, bensì di renderla
permanente, proseguendo la rivoluzione democratica nella rivoluzione sociale. Nella prima fase della
società collettivista, fondata sulla proprietà comune dei mezzi di produzione, la distribuzione dei beni
avverrà secondo il principio “a ciascuno secondo il suo lavoro”; nella fase più matura della società
comunista, invece, la società potrà finalmente lasciar spazio a un principio più libero e più elevato
“da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”. L’importanza della teoria
marxista è da vedersi quindi non tanto negli esiti cui essa mette capo, quanto nella domanda di fondo
che essa con forza e radicalità pone, e che concerne appunto il rapporto tra la democrazia politica e
la sua base economica e sociale.
Capitolo 6: Concetti della teoria politica
Nel pensiero politico emergono tre grandi concetti politici sviluppatosi durante l'ottocento e il
novecento: liberalismo, democrazia e socialismo. Questi tre concetti, hanno un forte contenuto
normativo e ancora oggi sono presenti nella discussione pubblica delle società democratiche. Essi
hanno formato la modernità per due motivi: si sono sviluppati a partire dall'epoca delle rivoluzioni
borghesi e in secondo luogo, hanno un un'unica radice comune ovvero il principio dell'eguale libertà.
Quest'ultimo sta alla base delle moderne Dichiarazioni dei diritti. La modernità politica si fonda
sull'assunto che non vi sono rapporti di subordinazione naturale tra gli uomini, ovvero rapporti di
signoria e servitù e quindi, eguaglianza e libertà si legano.
Il concetto di libertà politica non coincide con quello di libertà inteso in senso metafisico perché la
libertà politica indica il modo in cui l'uomo è libero nell'ordine politico e sociale. Bisogna fare una
distinzione tra libertà negativa e libertà positiva. La definizione che privilegia il senso negativo la
troviamo nel pensiero di Hobbes, per il quale la libertà consiste nell'assenza di impedimenti esterni
che ostacolino un uomo nel fare ciò che vuole. L'uomo che paga un debito per non finire in prigione,
secondo Hobbes, compie un'azione libera, perché nessun impedimento fisico gli vietava di trattenere
per sé ciò che doveva ad altri. Quindi, Hobbes afferma che poiché le leggi regolano necessariamente
una parte delle azioni dei sudditi e non la totalità, la libertà sta nell'agire a proprio piacimento in tutte
le cose che la legge ha volutamente omesso di regolare. I teorici della libertà positiva, invece,
concentrano la loro riflessione su aspetti che la concezione negativa non tratta. Una definizione è stata
data da Rousseau: essere liberi significa non godere degli spazi d'azione che le norme ci lasciano, ma,
essere autori di tali norme e quindi non obbedire ad altre leggi se non a quelle che noi stessi ci siamo
dati. E' da qui che si sviluppa quindi la teoria democratica. Ma è possibile formulare un secondo
concetto di libertà positiva: essere positivamente liberi significa disporre dei mezzi e delle risorse che
ci consentano di godere effettivamente delle libertà che la legge ci attribuisce. Questo concetto lo
ritroviamo nelle teorie socialiste. Infine, possiamo distinguere anche un terzo concetto: essere liberi
significa non solo obbedire a norme che noi stessi ci siamo dati, ma a norme che siano espressione
della nostra volontà razionale. La distinzione più solida concettualmente si può rendere ancora più
chiara così: la libertà negativa richiede che sia ampio lo spazio che le leggi lasciano agli individui per
decidere da soli; la liberta positiva richiede che, delle leggi, gli individui siano autori e quindi che
attuino loro le decisioni.
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Bisogna fare una distinzione di significato tra liberalismo e liberismo. L'importanza di tale distinzione
fu rivendicata da Benedetto Croce in una famosa discussione con l'economista liberale e liberista
Luigi Einaudi. Croce affermò che mentre il liberismo è una dottrina che si situa sul terreno economico,
per affermare le virtù del libero scambio e criticare i limiti che a esso si vogliano imporre, il
liberalismo si colloca su in terreno diverso, etico e politico. Comune a tutte le posizioni liberali è
l'idea che la funzione fondamentale dello stato sia quella di garantire i diritti degli individui che,
hanno però un primato rispetto alle scelte della politica e alle decisioni della democrazia. Vi sono
posizioni liberali che ritengono che una società libera possa formarsi anche in assenza di democrazia
mentre, ve ne sono che altre che invece accolgono la democrazia lasciando da parte le riserve
"liberali" contro di essa. Per quanto riguarda gli assetti economico-sociali, da un lato troviamo coloro
che hanno meno fiducia nella democratizzazione e quindi credono decisamente in una società di
mercato; dall'altro lato troviamo quelli che hanno meno riserve nei confronti della democrazia e che
spesso sono gli stessi che considerano irrinunciabili i diritti di giusta ripartizione sociale. Sulla base
di tutto ciò si può affermare che il liberalismo è formato da tutte quelle posizioni che condividono la
tesi del primato e la centralità dei diritti, visti come limiti a ciò che lo stato o la democrazia possono
imporre ai cittadini. I diritti sono considerati: innati, inalienabili o inviolabili nel senso che gli
individui non potrebbero rinunciare a essi neanche se lo volessero e che le leggi pubbliche devono
assumere come un limite invalicabile. Nel liberalismo quindi la società politica nasce per confermare
e assicurare i diritti imprescrittibili dell'individuo: libertà della persona, di religione, di pensiero. Il
sovrano però non può essere più pensato come colui che sta al di sopra delle leggi, che è legibus
solutus, ma l'esercizio del potere deve essere sottoposto alla legge così come lo sono i comportamenti
di ogni cittadino. Lo stato viene visto come una sorta di male necessario: esso implica che l'individuo
debba obbedire a un poter estraneo e la partecipazione politica non è un bene in sé, ma ha il suo valore
nell'essere strumento per garantire e osservare le libertà private.
Il socialismo ha una lunga storia prima del marxismo e dopo di esso, è il suo nucleo essenziale. Il
socialismo allo "stato nascente", è una critica di ispirazione morale della proprietà privata e della
ineguaglianza sociale che a essa si accompagna. Inizialmente, possiamo dire che non vi è una
differenza tra socialismo e comunismo. Il punto di partenza del socialismo è che tutti gli uomini sono
eguali nei diritti; talenti e capacità non costituiscono un titolo per appropriarsi di una quota maggiore
di beni o risorse. L'individuo quindi ha dei doveri nei confronti della società e deve ispirarsi ad ideali
solidaristici. I socialisti dell'epoca premarxiana enunciarono alcune indicazioni di fondo comuni: essi
proposero l'abolizione della proprietà privata e la generalizzazione del diritto al lavoro, la
pianificazione coordinata della vita sociale ed economica e il superamento dell'anarchia del mercato.
Successivamente, Marx e Engels nel "Manifesto del Partito Comunista" rivolgono a esse il
rimprovero di utopismo. Marx infatti, prova a mostrare come si possa giungere a una società giusta
oltre il capitalismo concentrandosi sullo studio scientifico di esso. Egli intende con il termine
socialismo, una società collettivistica basata sulla proprietà comune dei mezzi di produzione e sul
principio "a ciascuno secondo il suo lavoro". Con il revisionismo, l'opzione socialista viene presentata
in una nuova chiave di ispirazione kantiana: il socialismo si caratterizza sul rifiuto di una rivoluzione
come atto violento e puntuale, mentre si incentra su un cooperativismo. Il socialismo non è riuscito a
liberare gli uomini rinunciando così a tutti i suoi obiettivi più ambiziosi di trasformazione sociale per
porsi come l'ala sinistra della democrazia. Nonostante sia fallita l'ambizione che l'uomo potessero
prendere in mano le sorti della sua storia, i movimenti socialisti e comunisti hanno inciso non solo
nelle strutture sociali ma anche nelle idee e nelle ideologie più diffuse.
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Il concetto di democrazia è molto chiaro: mentre il liberalismo richiede l'uguaglianza di
autorealizzazione e benessere, il principio della democrazia è l'eguaglianza politica entro una
comunità (demos), ovvero l'eguale partecipazione di tutti i cittadini adulti alle decisioni politiche
vincolanti per tutti. La democrazia rovescia l'idea che solo alcuni uomini, abbiano diritto di prendere
le decisioni politiche. Alla democrazia si associa il principio di maggioranza perché esso massimizza
il numero di coloro che devono obbedire alle leggi cui non hanno dato il loro consenso. Nei grandi
stati, a questo principio si aggiunge quello parlamentare che, costituisce un compromesso necessario
tra l'esigenza della libertà come autogoverno e una indispensabile divisione del lavoro.
L'idea di democrazia come metodo sta alla base della definizione di democrazia proposta da Norberto
Bobbio nel suo saggio "Il futuro della democrazia". Per Bobbio si ha democrazia quando vengono
soddisfatte le seguenti condizioni: alle decisioni collettive partecipano in modo diretto o indiretto un
numero molto alto di cittadini; sono vigenti regole per decidere, a cominciare dalla regola di
maggioranza; i cittadini hanno la possibilità di scegliere tra alternative reali e dispongono di quelle
libertà necessarie. Nel pensiero del Novecento, il maggior teorico della democrazia è stato Hans
Kelsen, il quale sostiene che la democrazia implica, la fine della credenza in una verità assoluta o in
un bene assoluto: essa presuppone il relativismo ed è un metodo di creazione dell'ordine sociale.
Come forma di stato invece la democrazia si basa sull'idea rousseauiana della libertà come
autogoverno. Ma, Kelsen afferma che la democrazia negli stati moderni è più difficile da attuare
rispetto all'idea di democrazia come autogoverno. Le decisioni politiche devono comunque essere
volontà dei cittadini, proprio per questo Kelsen delinea un modello di democrazia con caratteristiche
precise: primato del parlamento rispetto all'esecutivo; sistema proporzionale; le decisioni come
compromesso tra maggioranza e minoranza.
Le teorie propriamente realiste tendono a pensare la democrazia sul modello del mercato. Schumpeter
afferma che: la volontà del cittadino si riduce a poco più che un fascio confuso di impulsi vaghi,
operanti su slogans e impressioni equivoche. Le scelte politiche sono sempre nelle mani di piccoli
gruppi che hanno il potere di prendere decisioni ma, la democrazia si caratterizza per il fatto che tra
questi piccoli gruppi si instaura una competizione simile alla lotta concorrenziale degli imprenditori
per conquistare consumatori. Proprio perché la funzione del voto popolare adesso è quella di favorire
una determinata leadership, è inutile utilizzare un sistema proporzionale ma è più utile un
maggioritario. La funzione dei partiti è quella di conquistare il consenso di un elettore medio che
quando si esprime sul terreno politico, dà luogo a comportamenti infantili e primitivi. A differenza di
Schumpeter, Robert Dahl invece sottolinea il carattere pluralistico della democrazia: si deve a lui
l'introduzione del termine "poliarchia", con il quale si riferisce alle democrazie esistenti in numerosi
paesi dell'Occidente, e caratterizzate dalla diffusione dei diritti politici, dalla libertà di associazione.
Ma il problema è se effettivamente la poliarchia sia così democratica e di come si possa costruire una
democrazia più soddisfacente, che vada oltre i limiti della poliarchia.
La democrazia tradisce sé stessa quando la volontà politica non va più dal basso verso l'alto ma
dall'alto verso il basso, e i cittadini diventano l'oggetto delle strategie stesse messe in atto da parte
delle elites politiche per conquistarne il consenso. John Dewey sostiene che bisogna tener sempre
presenti due aspetti: la democrazia come idea sociale e la democrazia politica come sistema di
governo. Per attuarsi deve influire su tutti i modi di associazione umana, sulla famiglia, la scuola,
l'industria, la religione quindi, essa è un ideale di società. Uno dei pericoli che minacciano la
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democrazia, secondo Dewey è l'eclisse del pubblico, ovvero il fatto che i cittadini si riducano a quei
consumatori passivi di offerte politiche che vengono rappresentati nella teoria di Schumpeter. Le
teorie dinamiche della democrazia costituiscono il polo opposto rispetto alle teorie realistiche.
Capitolo 7: La teoria della giustizia di Rawls
La teoria della giustizia di Rawls ha riportato al centro della discussione filosofico-politica
l’approccio normativo; la sua teoria ha anche stimolato il liberalismo di Robert Nozick e le teorie
comunitarie. Il tema specifico della teoria Rawlsiana è la “giustizia sociale”; egli la definisce come
“un’associazione più o meno autosufficiente di persone che riconoscono come vincolanti certe norme
di comportamento e che agiscono in accordo con esse”. La società dunque, può essere considerata
come un sistema di cooperazione teso ad avvantaggiare coloro che vi partecipano. La società è
caratterizzata sia dal conflitto che da identità di interessi: vi è l’identità di interessi perché la
cooperazione sociale rende possibile per gli individui una vita migliore; vi è un conflitto di interessi
perché, secondo Rawls, ognuno preferisce avere per sé una quota di benefici maggiore rispetto ai
doveri. Ma quali sono, dunque, i principi su cui dovrà essere strutturata la società e, quindi, la
ripartizione dei costi e benefici della cooperazione sociale. Rawls, per rispondere a questa domanda,
riparte dalla teoria del contratto sociale secondo cui i principi di giustizia sono quelli che sarebbero
oggetto di un accordo originario, ovvero quelli sui quali si metterebbero individui liberi, eguali e
razionali. Non possono essere considerati giusti principi quelli che scaturirebbero da un contratto
concluso tra individui reali, portatori di dotazioni differenti di forza, intelligenza ecc. Se si partisse
da una situazione di questo tipo, il contratto che le parti sottoscriverebbero, risentirebbe di questa
ineguaglianza di partenza. Per dare vita ad un contratto giusto, bisogna che vi siano dei giusti principi
su cui basarsi: è necessario che le risorse non siano né abbondanti né scarse, in modo affinché la
cooperazione non risulti superflua, né gli individui siano condannati al fallimento. Secondo Rawls, il
vincolo che deve essere imposto alle parti è il “velo dell’ignoranza”, ovvero quel principio secondo
cui le parti devono scegliere i principi di giustizia disponendo di informazioni generali sulla società
umana e ciascuno deve ignorare quelle che sono le qualità o abilità personali; dal momento che
nessuno conosce i propri interessi specifici, tutti avranno interesse a tutelare gli interessi di tutti. Ciò
serve a spiegare che un contratto giusto è quello che verrebbe sottoscritto da contraenti imparziali
poiché le parti sottoscriveranno solo accordi che tutelino in pari misura gli interessi di ciascuno. I
principi su cui entrambe le parti idealizzate da Rawls si accorderebbero sono: ogni persona ha un
eguale diritto al più ampio sistema totale di eguali libertà fondamentali compatibilmente con un simile
sistema di libertà per tutti.
Le ineguaglianze economiche e sociali devono essere: per il più grande beneficio dei meno
avvantaggiati; collegate a cariche e posizioni aperte a tutti in condizione di equa eguaglianza di
opportunità.
I principi di una società giusta vertono su due questioni basilari: le libertà fondamentali liberali e le
ineguaglianze economico-sociali. Le parti contraenti in posizione originaria sono tutte interessate a
massimizzare la propria dotazione di beni principali; essi, quindi, stabiliscono che ricchezze e redditi
siano ripartiti n modo eguale tra tutti i cooperanti; non gli importa quale sarà la dotazione degli altri
e non nutre invidia, quindi, nel caso in cui una distribuzione ineguale senta di aumentare la dotazione
di beni principali di cui gode ognuno, anche chi riceve di meno non avrà motivi per non accettarla.
L’ineguaglianza Rawlsiana, un’ineguaglianza che produce vantaggi per tutti, unita ad eguali
opportunità, appare preferibile all’eguaglianza perfetta poiché il principio di differenza di Rawls
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appare superiore rispetto a quello di intransigente uguaglianza. Confrontando il principio di Rawls
con quello meritocratico (secondo Rawls, tutte le possibili qualità che un individuo ha, gli sono state
date da una SORTE fortunata e che quindi i benefici ottenuti da ciò non sono meritati e che quindi
risiede anche in questo principio un’ineguaglianza) o quello utilitarista possiamo notare quanto il
primo sia frutto di una scelta più cauta poiché, in esso, anche chi avrà di meno, avrà comunque di più
rispetto ad una situazione di uguaglianza; le parti rawlsiane scelgono il principio di differenza
facendosi guidare dal principio del maxi-min (si sceglie quella distribuzione in cui è migliore la
situazione di chi sta peggio). Sarebbe ragionevole, dunque, abbandonare una situazione di
uguaglianza se si ha la certezza di stare meglio. Una critica, infatti, viene mossa al principio
meritocratico: principio in forza del quale l’ineguaglianza è legittima anche se non migliora le
prospettive dei meno avvantaggiati e le parti, dato il velo dell’ignoranza, non saprebbero quali siano
le loro doti e rischierebbero di darsi la zappa sui piedi se si assumessero il rischio di optare per la
meritocrazia. Dunque, il principio di differenza di Rawls dovrebbe essere accettato dai meglio dotati,
prescindendo dal velo, poiché essi devono cooperare nella società con i meno dotati, e hanno bisogno
che questi ultimi accettino una distribuzione sociale ineguale. Potrà essere accettata soltanto se da
questa ineguaglianza si avrà un miglioramento anche per gli svantaggiati. Il principio di differenza
risiede nell’idea che le istituzioni collettive sono instituite al fine di una cooperazione e nell’idea che
sia un principio di reciproco beneficio.
La teoria Rawlsiana della giustizia sociale costituisce anche una prospettiva all’interno della quale si
possono giustificare normativamente gli interventi redistributivi dello stato sociale del benessere:
l’ineguaglianza nei redditi è giustificabile solo in quanto contribuisce al miglioramento della
situazione di tutti; ciò avviene per mezzo delle tassazioni statali nei confronti dei redditi più alti che
vengono utilizzate per i servizi o sussidi che migliorano la situazione di ciascuno, soprattutto dei più
svantaggiati (Robin Hood).
Per quanto riguarda la moralità all’interno di una società, Rawls si trova ad affrontare un problema:
se si prende sul serio il pluralismo, ovvero la molteplicità di religioni o ideologie, come si può pensare
che i principi di giustizia che devono regolare la cooperazione sociale siano l’espressione di un’unica
visione morale nella quale tutti i cittadini si riconoscerebbero? Si tratta, dunque, di dare una
giustificazione puramente politica e non dell’assunzione di una teoria morale, e sia, quindi, ricevibile
da ogni persona ragionevole, quali che siano gli ideali morali o religiosi. Con il liberalismo politico,
Rawls dimostra che i suoi principi di giustizia sono tali da poter essere accettati da tutte le persone
ragionevoli, ovvero coloro che intendono ricercare principi di cooperazione sociale che siano
accettabili per tutti. Se si vuole dare vita ad una cooperazione equa, allora questi principi devono
essere scelti dal punto di vista della posizione originaria che non privilegia nessuno e realizzare un
consenso per intersezione, ovvero un’adesione da parte di coloro che, non solo condividono una
visione liberale, ma anche di chi giunge attraverso le loro ragioni a condividere i medesimi principi.
Rawls, infine, riflette sui principi che dovrebbero regolare la convivenza tra popoli, in particolare
quelli liberali e quelli che, avendo idee di giustizia differenti, possono essere definiti popoli gerarchici
decenti. Tra i principi che verrebbero scelti, in una posizione originaria, vi sono: il principio che i
popoli sono tenuti ad onorare i diritti umani; i popoli hanno il dovere di assistere altri popoli che
versano in posizioni sfavorevoli tali da impedire loro di avere un regime sociale e politico giusto e
decente.
Il punto di partenza della riflessione di Nozick sono gli individui con i loro diritti, concepiti
lockianamente come diritti che appartengono a essi prima e a prescindere dall’istituzione dello stato.
La nascita dello stato legittimo si può spiegare secondo una logica di mercato: per garantirsi la
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sicurezza, gli individui cominceranno dapprima a costruire associazioni di mutua protezione, e poi,
con la divisione del lavoro, ad acquistare protezione da compagnie costituite da altri individui-
imprenditori per vendere questo servizio. I problemi derivanti dall’esistenza di una pluralità di
compagnie di protezione avranno come conseguenza che, prima o poi, resterà una sola compagnia
dominante. Per garantire ai propri clienti la sicurezza e corrette procedure di risoluzione dei conflitti,
la compagnia di protezione dominante dovrà proibire agli indipendenti di farsi giustizia
autonomamente. Si giunge così alla genesi dello stato minimo che è considerato legittimo poiché
nasce senza violare i diritti di nessuno (coloro che non possono farsi giustizia da soli, vengono risarciti
con l’elargizione gratuita di protezione). Nozick, dunque, vuole dimostrare che è possibile dar luogo
alla costituzione di uno stato (minimo) legittimo anche senza passare per un contratto. Il passo
successivo è quello che riguarda la teoria della proprietà: “se io sono libero, ovvero sono padrone di
me stesso, sono padrone anche dei miei talenti e delle mie capacità e di ciò che, grazie a essi, riesco
a produrre o a guadagnare; dunque, se uno stato minimo mi impone di pagare tasse per finanziare
servizi sanitari o educativi, o sussidi per i disoccupati, esso dà luogo ad una violazione dei miei diritti
di auto appartenenza; dunque, tanto è legittimo è lo stato minimo, quanto illegittimo è uno stato che
vuole assumersi compiti che vanno oltre la garanzia della sicurezza e che impone tasse ai suoi
cittadini per questo scopo”. L’unica teoria valida della giustizia, secondo Nozick, è la “teoria del
titolo valido”: ognun possiede legittimamente ciò che ha acquisito o attraverso una giusta acquisizione
iniziale, o attraverso un libero trasferimento del bene da qualcuno a qualcun altro. Nozick critica
fortemente le politiche egualitarie o redistributive come quelle presentate da Rawls e afferma che nel
caso di proprietà e ricchezze attualmente possedute queste siano il risultato di acquisizioni iniziali
giuste e di conseguenti legittimi trasferimenti.
Nozick si sofferma anche sul concetto di “comunitarismo”: obbiettivo polemico delle impostazioni
comunitarie è, in primo luogo, la tesi liberale della priorità del giusto sul bene; esistono molte
concezioni del bene o visioni della vita buona in disaccordo tra loro, non vi sono ragioni specifiche
per cui se ne dovrebbe scegliere una rispetto ad un’altra e inoltre, bisogna ricordare che il compito
della società è esclusivamente quello di garantire che ciascuna ricerca individuale della vita buona
possa svilupparsi al meglio e senza danneggiare gli altri. La politica liberale pretende di essere ispirata
solo da regole che devono essere neutrali rispetto a insiemi di credenze rivali e concorrenti intorno
alla migliore maniera di condurre una vita umana. Questa neutralità delle istituzioni politiche rispetto
alle diverse visioni del bene o della vita buona è realizzabile? Sendel, ad esempio, è negativo: alle
volte nascono delle controversie normative troppo forti per poter essere neutrali; ogni formazione
implica scelte che inevitabilmente privilegiano l’una o l’altra delle visioni del bene alternative. La
tesi Rawlsiana riguardo la priorità del giusto sul bene viene completamente rovesciata: la scelta di
norme giuste non può pretendere di restare neutrale fra visioni controverse del bene. Nella visione di
Sandel, gli individui non sono neppure in condizione di scegliere in senso proprio, quasi fossero
soggetti astratti e disincarnati da legami e impregni normativi, tra visioni alternative di quello che la
vita è buona per loro. Per Sandel, l’identità dell’io riflette la visione del proprio bene e che l’individuo
può cambiare a seconda delle proprie esperienze ma dalla quale non può distanziarsi ed assumere un
punto di vista esterno.
Il comunitarismo contrappone a una visione del giusto astratta e neutrale una visione del bene
sostanziale e situata: essa si radia in quella imprescindibilità del legame di comunità sociale grazie al
quale esistiamo come soggetti; all’individualismo liberale si contrappone la consapevolezza del
carattere costitutivo che il nesso sociale ha per le personalità individuali. L’ideale liberale della
neutralità non è attingibile: anche se fosse attingibile non sarebbe desiderabile dato che gli individui
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non sarebbero capaci di giudicare in modo razionale e non ci sarebbe nulla di male se la società,
dunque, esercitasse una funzione di guida attraverso norme ispirate da una visione sostantiva del bene
comune. La tesi secondo la quale ogni giudizio normativo è formulato dall’interno di una tradizione
dà adito a risultati paradossali: se la tesi della intrascendibilità delle tradizioni appartiene essa stessa
ad una tradizione e quindi non è riconosciuta da tutti; se invece trascende le tradizioni ponendosi
come tesi universalmente valida, allora smentisce il suo stesso assunto contestualista.
Se assai debole è la parte costruttiva, altrettanto non può dirsi per la parte critica: è difficile evitare di
prendere posizione tra visioni controverse del bene o di cosa sia la vita buona per l’uomo; ciò vale
principalmente per quanto riguarda i problemi di giustizia distributiva.
Nella prospettiva rawlsiana questo difficile problema si risolve con il ricorso alla teoria dei beni
principali. I beni primari costituiscono strumenti necessari per il perseguimento di tutti gli scopi
umani: essi includono la libertà di base, la libertà di movimento e la libera scelta del tipo di
occupazione, il potere e le prerogative delle cariche e delle posizioni di responsabilità, il reddito e la
ricchezza e, in fine, le basi sociali del rispetto di sé. I beni primari non sono le cose che qualcuno
potrebbe desiderare di più in base alla sua dottrina comprensiva, ovvero alla sua visione del bene.
Secondo Rawls deve avere la funzione di criterio accettabile da tutti per giustificare le richieste in
conflitto dei cittadini tra loro. Esistono due modi per cui qualcuno può essere svantaggiato da una
distribuzione anche eguale di beni primari: può esserlo in quanto la sua personale ricerca della vita
buona può giovarsi meno del paniere di beni messo a sua disposizione, per motivi attinenti alla
dottrina comprensiva nella quale egli si riconosce. Qualcuno, però, potrebbe essere svantaggiato
anche perché, a parità di dotazione dei beni primari, ottiene acquisizioni inferiori, ad esempio perché
è portatore di una qualche forma di disagio; chi è costretto ad affrontare spese ingenti per cure
mediche avrà minori possibilità di condurre una vita soddisfacente. Il punto sul quale Sen insiste è
che vi sono molte condizioni personali e sociali che influenzano la conversione di redditi e risorse in
qualità della vita. Sen introduce due concetti che sono caratteristici per la sua riflessione, quelli di
funzionamento e capacitazione: il concetto di funzionamento (essere nutrito abbastanza, non soffrire
di malattie evitabili ecc…) riguarda ciò che una persona può desiderare, in quanto gli dà valore di
fare o di essere.
La capacitazione di una persona è una specie di libertà: la libertà sostanziale di realizzare più
combinazioni alternative di funzionamenti. Secondo Sen, la società desiderabile non è quella che
massimizza la dotazione di beni primari per gli individui, ma quella che massimizza la loro libertà
sostanziale. Non tutti i funzionamenti hanno la stessa importanza: l’etica e la teoria politica devono
occuparsi anche della questione di quali siano i funzionamenti da includere nell’elenco delle cose
importanti da realizzare. La qualità della vita delle persone, secondo Sen, può non essere colta bene
attraverso una misura standardizzata come quella del reddito. Bisogna entrare nel campo dei giudizi
di valore, ovvero della discussione pubblica su quali siano i funzionamenti che consideriamo più
essenziali. Il problema del bene rientra in primo piano nella riflessione di teoria politica; questo
accade in modo ancor più deciso nella riflessione di Martha Nussbaum, che riabilita un approccio di
tipo aristotelico e una teoria del bene. La teoria di un approccio giusto e del bene possono
compenetrarsi reciprocamente, nel senso che una teoria della giustizia stabilisce come e perché tutti
devono avere accesso ai beni fondamentali, mentre una teoria dei beni si occupa esclusivamente della
natura di questi. La riflessione politica di Habermas si radica fortemente all’interno dell’orizzonte di
teoria morale elaborato dallo stesso Habermass e da Karl-Otto Apel, nella chiave di un’etica del
discorso. Alla base della teoria democratica che Habermas costruisce in fatti e norme vi è un principio
che definisce cosa debba intendersi per norma valida: principio del discorso. Nell’ambito della
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filosofia pratica bisogna distinguere fra due tipi di norme d’azione: le norme morali e le norme
giuridiche. Il principio del discorso deve essere specificato e differenziato per divenire idoneo a
generare norme dei due diversi tipi. Da esso discendono un principio morale di universalizzazione e
un principio concernente le norme giuridiche legittime, ovvero il principio democratico (secondo
Habermas): possono pretendere validità legittima solo le leggi approvabili da tutti i consociati in un
processo discorsivo di statuizione a sua volta giuridicamente costituito. Il principio della democrazia
è quindi il punto d’incontro tra lo strumento del diritto e il principio dell’accordo discorsivo di tutti
gli interessati, sul quale può fondarsi la validità di norme pratiche. Secondo Habermas, dunque, le
norme giuridiche che governano la nostra convivenza sociale devono essere il risultato di processi
discorsivi precisamente e rigorosamente istituzionalizzati, capaci di generare un diritto legittimo: è il
compito delle istituzioni della democrazia. Habermas ritiene che la democrazia debba essere pensata
a partire da un rapporto di complementarietà tr4a l’autonomia liberale dell’individuo e l’autonomia
pubblica dei cittadini: diritti individuali e sovranità popolare non stanno in conflitto ma si integrano
e si presuppongono reciprocamente. I diritti degli individui sono condizionati da un processo
democratico e ne sono anche il risultato, poiché i diritti sono anche quelli che i cittadini si auto
attribuiscono. I diritti fondamentali che definiscono l’assetto di uno stato democratico devono essere
pensati come quei diritti che i cittadini si riconoscono reciprocamente al fine di regolare
legittimamente la loro convivenza con strumenti giuridici: i diritti, dunque, non esistono a prescindere
dalla comunità politica ma la comunità politica non prescinde dai diritti. Il compito del filosofo
politico è quello di indicare le categorie di diritti che devono essere presenti in un legittimo stato
democratico:
• I diritti liberali, ovvero quelli che tutelano le pari libertà individuali;
• I diritti che definiscono lo status di membro associato;
• Diritti ad agire in giudizio per la tutela dei propri diritti;
• Diritti ad esercitare l’autonomia politica (diritti democratici);
• Diritti di ripartizione sociale, ovvero godere di condizioni di vita che consentono, mediante pari
opportunità, l’utilizzo di tutti i diritti già elencati.
Per Habermas, i diritti formano un sistema ed include i diritti sociali che non sono fini a sé stessi
rappresentano delle precondizioni per il pieno esercizio di tutti gli altri diritti; secondo lui il fine della
società non è la giustizia sociale ma, questa, è una condizione imprescindibile della democrazia.
La democrazia, per come viene pensata da Habermas, è strutturalmente aperta a due esiti ben diversi:
i titolari dei diritti possono accogliere l’invito a misurarsi con gli altri sul terreno del discorso e a
confrontarsi ricercando gli argomenti migliori, oppure possono usare i loro diritti di comunicazione
e di partecipazione esclusivamente come strumento per perseguire strategicamente i propri interessi
egoistici. Perché si mantenga viva la comunicazione democratica è necessario che il Parlamento sia
sempre stimolato e controllato dal discorso libero e informale che si svolge nella sfera dell’opinione
pubblica. La sovranità popolare necessita della deliberazione formale in sedi istituzionalizzate e del
dibattito informale dell’opinione pubblica e che venga, inoltre, arginata l’invadenza di quei poteri
sociali che manipolano i mezzi di comunicazione costituendo una minaccia per la comunicazione
democratica.
“A stretto rigore – scrive Habermas – questo potere comunicativo nasce dall’interazione che si crea
tra formazione della volontà istituzionalizzata come stato di diritto e sfere pubbliche, culturalmente
mobilitate. Queste sfere poggiano sulle associazioni di una società civile egualmente separata sia
dallo stato che dall’economia”
Alberto Presti, Sofia Gorgone, Myriam Russo, Giulia Tarantino, Claudia Candido, Sofia Buffa
Una delle principali difficoltà che caratterizzano la teoria democratica di Habermas è quella di
comprendere il rapporto che in essa si stabilisce tra gli aspetti normativi e quelli descrittivi. I processi
di intesa discorsiva, invece, sono radicati nelle strutture dei mondi vitali moderni, che si riproducono
anche grazie ad essi; la razionalità del discorso è per molti versi già attiva e operante nelle
articolazioni della società moderna: “irrealistica è l’ipotesi che ogni comportamento sociale possa
essere pensato come agire strategico e dunque spiegato in termini di calcolo egocentrico e
utilitaristico”. Questo rifiuto di una visione puramente strategica dell’agire politico induce Habermas
a incorrere nell’errore: nelle democrazie reali, il potenziale di razionalità discorsiva può essere ridotto
o neutralizzato se l’opinione pubblica viene manipolata dai grandi strumenti di comunicazione di
massa ed anche la politica democratica del discorso pubblico rischia di dover fare i conti con la
questione dei poteri che si sottraggono alla mediazione comunicativa.
Uno dei rimproveri che più frequentemente si muove alle teorie normative è proprio quello di non
avere occhi per la dimensione del potere e, dunque, la forza che caratterizzerebbe la dimensione
politica.
Secondo Carl Schmitt la politica non è nient’altro che un conflitto senza quartiere: il realismo politico
schmittiano sta alla radice di un altro tipo di esito, ovvero quello messianico-escatologico: se il diritto
è, quanto alla sua stessa costituzione, violenza, allora non ha senso ragionare intorno al buon ordine
giuridico; si tratta piuttosto di collocarsi nell’orizzonte del suo trascendimento messianico. La tesi
politica o del diritto come puro potere o pura forza si presenta quindi nel pensiero del Novecento
come suscettibile alle curvature tra loro radicalmente antitetiche: il mondo degli uomini è
destinatamente assegnato a un orizzonte di violenza e di peccaminosità, che è tanto poco
razionalmente dicibile, quanto fortemente segnato da più o meno espliciti presupposti teologici.
Michel Foucault, invece, imprime alla riflessione sul potere una svolta che costituisce una vera e
propria rottura. Secondo il filosofo il potere è tanto coestensivo con la realtà umana e sociale quanto
irriducibile ai modi tradizionali attraverso i quali è stato rappresentato: il potere non è qualcosa che
si concentri nella istituzione statale ma vive in un insieme di pratiche che attraversano la società in
ogni suo aspetto: si tratta di costruire una “microfisica del potere”, tracciarne le mappe partendo dai
luoghi della reclusione fino alle forme di controllo sul corpo degli individui e sulla sessualità.
Tra potere e sapere, tra potere e forme del discorso, vi è una interconnessione molto più intrinseca e
profonda di quanto a prima vista non appaia: il potere non condiziona il sapere, essi sono intrecciati:
“non si può configurare un elemento del sapere se non è conforme ad un insieme di regole e
costrizioni proprio di un certo tipo di discorso scientifico; viceversa, nulla può funzionare come
meccanismo di potere se non si afferma con procedure, strumenti, mezzi, obbiettivi che possono
essere convalidati in sistemi più o meno coerenti di sapere”. Secondo Foucault, il potere non può
essere più rappresentato come qualcosa che semplicemente opprime o reprime gli individui, il potere
li costituisce poiché ha natura produttiva e non repressiva, dunque li costituisce.
Esso struttura e codifica le soggettività e i comportamenti. Nella sua prospettiva, la critica non è
qualcosa che faccia appello ad un principio o criterio razionale che trascende il potere, ma è tutta
interna all’intreccio conflittuale di strategie di potere cui nella realtà sociale nulla è sottratto: “si
necessita di un atteggiamento morale e politico, ovvero l’arte di non essere eccessivamente
governati”. La rinuncia alla riflessione sul potere legittimo, motivata dal sospetto che questi criteri
mettano capo in fondo alla legittimazione dei poteri esistenti, lascia spazio solo per una politica critica
intesa come resistenza o destabilizzazione; una linea di fuga che resta consegnata, al di là dei suoi
discutibili presupposti teorici, a una sorta di cattiva infinità, di circolo senza uscita tra
governamentalità e decostruzione.
Alberto Presti, Sofia Gorgone, Myriam Russo, Giulia Tarantino, Claudia Candido, Sofia Buffa
Un’altra critica che viene mossa alla politica è la questione della supremazia sociale del sesso
maschile su quello femminile. Sviluppata già alla fine del 700, la critica del patriarcato come uno
degli assi portanti della civiltà occidentale, diventa il centro di sofisticate elaborazioni teoriche. Una
delle autrici più influenti è Luce Irigary che intraprende una critica del modo in cui viene compresa e
rappresentata la donna e la sua sessualità. L’autrice basa la sua teoria sul pensiero freudiano secondo
cui la donna è fondamentalmente non-maschio, colei che non possiede e invidia l’organo sessuale
maschile: la differenza sessuale è dunque vista come mera privazione.
Questa svalutazione femminile è la caratteristica principale del potere patriarcale che assume il sesso
maschile come paradigma dell’intero genere umano.
“Visto che sugli uomini si modella il genere umano per eccellenza, il differire delle donne dagli
uomini diventa una differenza che corrisponde a una mancanza o inferiorità”. L’ordine simbolico
patriarcale si struttura come un sistema a economia binaria, duale e gerarchica, dove il maschile
rappresenta il polo positivo e dominante, mentre il femminile rappresenta il polo negativo e dominato.
Nell’ordine simbolico patriarcale il maschile si identifica con l’universale, mentre la donna è
privazione, umanità incompleta. Per quanto riguarda la politica, in un primo tempo vi partecipavano
soltanto gli uomini, mentre le donne venivano escluse; nel corso del Novecento, invece, l’eguaglianza
politica si spinge a includere tutti gli individui, senza differenza di sesso; ma questa uguaglianza
nasconde, però, un paradosso: “prima coerentemente escluse, le donne vengono poi incluse
attraverso una logica di omologazione che prescinde dal fatto che sono donne e non uomini”. Si
consente alle donne di diventare uguali agli uomini, mentre però esse restano donne, e si vuole che
tali restino, a tutti gli effetti pratici e simbolici.
Una tappa fondamentale che segna l’opinione sulla differenza di sesso all’interno della società è stata
marcata da Carol Gilligan che sviluppa una critica della psicologia morale evolutiva di Lawrence
Kohlberg; nei suoi studi di psicologia evolutiva distingue diversi livelli di sviluppo della coscienza
morale: da uno studio preconvenzionale, in cui il bambino apprende le nozioni di giusto e sbagliato
soltanto in termini di punizioni e ricompense che ne derivano, si passa ad uno studio convenzionale,
dove il buon comportamento è quello conforme alle regole date dalla famiglia e dalla società, e infine
a uno studio postconvenzionale, dove i dilemmi morali non vengono risolti col riferimento alle regole
di fatto vigenti, ma richiamandosi a principi o valori morali di tipo universali. La riflessione della
Gilligan parte dal fatto che le ragazze tendevano a collocarsi ai livelli più bassi, senza raggiungere
quello considerato da Kohlberg come lo stadio più elevato di consapevolezza morale. Gilligan
propone un’interpretazione alternativa: il fatto che le donne tendano in generale a non risolvere i
dilemmi morali in base a principi astratti e universali non significa che non abbiano raggiunto un
completo sviluppo della competenza morale ma, piuttosto, è indice del fatto che l’etica femminile si
lascia guidare da orientamenti diversi che appaiono come inferiori: nelle donne si osserva un
approccio alla morale non inferiore, ma diverso da quello più congeniale ai maschi, infatti le scelte
giuste non si ricavano da principi universali ma dai rapporti e dai legami preesistenti, dalle aspettative
di chi attende che ci si prenda cura di lui. Le donne sono indotte a prendere sul serio sempre e solo
altri particolari, altri concreti, cioè caratterizzati da bisogni che chiedono risposte; è proprio questo
l’orientamento morale che le donne hanno nei confronti del mondo. Propria della donna è l’etica della
cura che si distingue dall’etica universalistica dei principi e si indirizza alla persona concreta che
esprime un bisogno. Per le donne, dunque, non vi è un unico parametro di pensiero morale, un’unica
concezione del giusto: a un’etica maschile dei principi fa da contraltare un’etica femminile della cura.
Questa affermazione della differenza femminile, però, pone un problema che la stessa teoria
femminista ha messo subito a fuoco: sostenere la specificità femminile nel senso di un’etica della
cura significa iscriversi ancora una volta nell’orizzonte binario dell’ordine simbolico patriarcale: “la
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donna come natura è precisamente ciò che l’uomo posiziona come altro da sé e per sé”. Il gesto
femminile di cambiare il segno della dicotomia donna/natura in donna/altruismo, contro il valore
negativo di uomo/tecnologia e uomo/egoismo, più che dissolvere l’ordine patriarcale lo legittima.
Susan Moller Okin sviluppa, dal punto di vista delle donne, una critica stringente di alcune prospettive
influenti della teoria politica contemporanea: se si accetta l’assioma liberista secondo il quale
ciascuno è proprietario di sé e di ciò che produce il suo lavoro e la sua fatica, allora se ne dovrebbe
trarre la conseguenza assurda che i figli sono proprietà delle donne. Al comunitarismo, Okin fa notare
che le tradizioni di pensiero etico e di riflessione sulla vita buona che questo vorrebbe valorizzare
prevedono per le donne un ruolo irrimediabilmente subalterno, e quindi non sono tradizioni alle quali
il pensiero etico femminile si possa richiamare.
Secondo Okin, Rawls ha il merito di aver messo nel giusto ruolo di risalto la famiglia che, nella
società, è un fattore che condiziona e determina le opportunità di cui gli individui possono giovarsi
ma gli critica il fatto di non aver tratto, dai principi che egli pone alla base della sua costruzione, tutte
le conseguenze che se ne sarebbero potute ricavare; se si approfondisse, ad esempio, l’dea del velo
dell’ignoranza, assumendo che le parti in posizione originaria non conoscono il proprio sesso, allora
se ne trarrebbe la conseguenza che le parti in posizione originaria dovrebbero preoccuparsi di
estendere anche alla sfera familiare e ai rapporti di genere i principi di giustizia, ma anche una
riconsiderazione del modo in cui i rapporti di genere sono strutturati nelle nostre società. Alla teoria
di Okin sono state mosse delle osservazioni critiche esattamente opposte a quelle indirizzate alla
Gilligan: concentrando tutta l’attenzione sulla giustizia all’interno della famiglia e nei rapporti di
genere, la Okin trascurerebbe l’importanza della differenza femminile e l’esigenza di politiche sociali
differenti. La Okin, dunque, conclude il dialogo con la femminista MacKinnon afferma che “non
possiamo in alcun modo sapere quanto e come donne e uomini siano diversi, fino a quando non
potremo vederli in una situazione di eguaglianza”.
Capitolo 8: Questioni per la filosofia politica
La visione di Rawls lascia aperto il problema di come si debbano determinare i confini del
ragionevole: se questi confini vengono stabiliti sullo stesso terreno del ragionevole, allora lo scotto
che si paga per rispettare il pluralismo delle dottrine comprensive è la rinuncia a una costruzione
teorica che possa dirsi basata su solidi fondamenti razionali; se invece i confini del ragionevole
fossero determinati da una precisa teoria filosofica, allora la politica dipenderebbe da una dottrina
comprensiva, e si ricadrebbe nella posizione che il Liberalismo politico di Rawls voleva superare.
“più si procede in una direzione, più si arretra dall’altra”. La pretesa di sganciare la teoria politica
dalla sua dipendenza da una giustificazione morale sembra per un verso facilitare, ma per un altro
verso rendere più difficile la giustificazione razionale della teoria politica stessa. Anche nel pensiero
di Habermas ci sono delle incoerenze interne: egli rifiuta di far dipendere i principi del giusto ordine
politico da una prospettiva morale, alla quale la politica finirebbe per essere gerarchicamente
subordinata. Egli fa derivare il principio della democrazia dal principio del discorso, in forza del quale
sono valide quelle norme che potrebbero meritare il consenso da parte di tutti i partecipanti a un
discorso pratico. Appare assai convincente l’obiezione secondo la quale, nel principio del discorso, è
già contenuto il nucleo di quello che verrà poi articolato come moralità: ma se questo è vero, ne
consegue che la teoria della democrazia dipende sostanzialmente da assunti di teoria morale, anche
se nega questa dipendenza rifiutando la subordinazione gerarchica del diritto democraticamente
statuito alla morale. L’esigenza che sta alla base della riflessione di Rawls e di Habermas su questo
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punto è che per un verso si vuole mantenere un qualche nesso tra teoria politica e teoria morale, per
un altro verso si ritiene che il riconoscimento del pluralismo e dell’autonomia del momento politico
esigano che questo non dipenda da teorie morali specifiche. Ma né Rawls né Habermas riescono a
soddisfare insieme le due esigenze delle quali si fanno portatori. Per quanto riguarda la questione del
nesso tra giustificazione morale e giustificazione politica, appare più coerente una linea che si ispiri
alle osservazioni di Karl-Otto Apel: sembra chiaro che la ricerca intorno al giusto ordine politico non
può tagliare il cordone che la lega a una concezione della giustizia che si basa su una teoria morale;
chiarito questo punto, si tratta di capire quale teoria morale sia in grado sia di fornire una sufficiente
giustificazione razionale di sé medesima, sia di costruire lo sfondo per una costruzione politica che
non sacrifichi la fondamentale istanza del pluralismo. L’ipotesi più percorribile potrebbe essere quella
di assumere come punto di partenza una teoria morale che per un verso è in grado di fornire solide
argomentazioni a proprio sostegno, e per un altro non sembra meno pluralistica della visione di
Rawls: si tratta, dunque, di un’etica il cui nucleo è la disponibilità ad ascoltare tutte le voci e tutte le
istanze umane, e che quindi lascia fuori solo coloro che non sono disposti a sentire le ragioni degli
altri. Un’etica del discorso o del dialogo non è soltanto profondamente pluralista ma è anche in grado
di mostrare perché ogni individuo razionale la dovrebbe accettare o perché non potrebbe trovare
argomenti validi per rifiutarla. Supponiamo di intraprendere una discussione teorica intorno al
problema: prima di rispondere, chiunque si ponga seriamente il problema, dovrebbe disporsi
nell’atteggiamento di chi è pronto a dare ascolto a tutti gli argomenti che gli verranno proposti. Non
appena si cominci a esaminare un problema, si accetta già quella che potremmo chiamare la
fondamentale norma della discussione critica, che impone di sottoporre ogni tesi al confronto
discorsivo, ma l’ascolto e il rispetto che si devono a tutti gli argomenti non possono non estendersi
anche alle persone e perciò dalla norma discende anche una più impegnativa norma morale, che
appunto prescrive di prestare ascolto alle esigenze di tutte le persone. Apel dice: “nell’apriori
dell’argomentazione è insita la pretesa di giustificare non solo tutte le affermazioni della scienza, ma
tutte le pretese umane (comprese quelle implicite che sono contenute nelle istituzioni). Chi argomenta
riconosce implicitamente tutte le possibili pretese di tutti i membri della comunità della
comunicazione che si possono giustificare tramite argomenti razionali e si impegna a giustificare
razionalmente tutte le pretese che si hanno nei confronti degli altri individui”. Il principio di un ‘etica
del discorso prescrive fondamentalmente il rispetto e l’ascolto delle ragioni degli altri; egli afferma,
inoltre, che la giusta risoluzione dei conflitti che potrebbero insorgere tra esigenze in contrasto è
quella che risulterebbe dal dialogo argomentativo e paritario tra tutti gli interessati impegnati in co-
responsabilità solidale nella ricerca di soluzioni che soddisfino gli interessi di tutti.
Dal principio etico che prescrive il rispetto di tutte le persone consegue anche la giustificazione di un
ordine giuridico-politico che garantisca l’eguaglianza di diritti, ovvero l’eguale libertà e dignità di
tutte le persone. La necessità di superare la mera moralità in un ordine giuridico ha la sua radice nella
moralità stessa: essa mi prescrive di rispettare le altre persone ma non può impormi ciò finché io non
abbia la garanzia che anche gli altri si comporteranno allo stesso modo nei miei confronti. “Perciò,
il principio del dialogo non è soltanto il principio della persuasione disarmata ma è anche il principio
della coercizione giuridico-politica, cioè della difesa efficace di coloro che rispettano la sua regola
da coloro che invece non intendono rispettarla”. Il principio etico in forza del quale le esigenze di
tutte le persone hanno diritto a pari considerazione e rispetto deve costituire il filo conduttore per
individuare le linee di fondo di un ordine giuridico legittimo. Fermo restando, naturalmente, che la
comunità giuridicamente organizzata dei cittadini di uno stato non può essere in alcun modo
assimilata a una comunità etica: questa sarebbe il regno di individui che si regolano nei rapporti
reciproci secondo quanto prescrive il punto di vista morale. La comunità politica conferisce agli
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individui dei diritti il cui fine è quello di assicurare a essi eguale libertà e dignità ma che possono
comunque servirsi dei loro diritti fondamentalmente per scopi di autoaffermazione; dunque la
comunità politica non attuerà mai compiutamente quell’ideale di eguale rispetto per tutte le persone
che pure ne deve ispirare gli istituti fondamentali e al quale essa si deve sempre commisurare. Se
proviamo a spiegarci in termini contrattualistici, si potrebbe dire che gli istituti di un ordine giuridico
legittimo sono quelli che si darebbero nell’atto di costruire una comunità politica, individui che si
rispettano giuridicamente in modo reciproco; la finzione contrattualistica è un buon metodo per fare
ciò, ma deve essere chiaro che è un patto i cui autori sono individui eguali e imparziali. Se mettiamo
a confronto i principi di giustizia di Rawls e il sistema dei diritti democratici di Habermas possiamo
giungere ad alcune conclusioni: mentre in Rawls la struttura di una società giusta si basa su una dualità
i principi, in Habermas viene proposta un’articolazione più ampia, i cui punti fondamentali sono i
diritti di libertà, i diritti democratici e i diritti sociali. In Habermas, però, il tema della giustizia sociale
ha una rilevanza inferiore rispetto a Rawls poiché secondo il primo questi sono “diritti di ripartizione
sociale” e non costituiscono un fine in sé, ma sono strumentali al godimento degli altri diritti. Se si
riparte dal fondamentale assunto critico circa la pari dignità degli interessi di tutte le persone, la più
promettente da seguire sembra quella che si colloca tra Habermas e Rawls: i diritti e gli istituti nei
quali si traduce l’istanza dell’eguaglianza o della giustizia sociale non possono essere visti come
sostanzialmente funzionali agli altri diritti; devono essere assunti come diritti fondamentali a pari
titolo dei diritti di libertà individuale e dei diritti democratici. Con Habermas è opportuno distinguere
chiaramente tra i diritti di libertà individuale e i diritti democratici. Solo attraverso una siffatta
articolazione, il sistema dei diritti può effettivamente costituire un quadro all’interno del quale sia
assicurato il pieno e concreto rispetto per tutte le persone. Si tratta di capire meglio come le tre
dimensioni dei diritti di libertà, diritti democratici e dei diritti sociali debbano essere pensate ciascuna
per sé e, al tempo stesso, nel nesso che le unisce. I diritti di libertà individuale costituiscono la
garanzia di base perché ognuno sia non solo tutelato nella sicurezza e nella persona, ma possa
sviluppare la sua ricerca del proprio bene, e possa far valere liberamente le proprie istanze e i propri
punti di vista: essi tutelano l’insopprimibile esigenza dell’individuo di disporre di uno spazio di scelte
squisitamente personali, di cui egli solo si assume la responsabilità. I diritti democratici assicurano
che gli interessati concorrano attraverso il dibattito pubblico e le appropriate procedure di
rappresentanza e di deliberazione. I diritti sociali hanno la finalità di assicurare a ciascuno le
condizioni per il più ampio sviluppo possibile della sua personalità umana, ovvero dei suoi
funzionamenti e delle sue capacitazioni. Per molti versi, i diritti fanno sistema, in quanto si
presuppongono reciprocamente: i diritti democratici, per esempio, presuppongono come condizioni
precedenti i diritti di libertà e i diritti sociali; questi altri due tipi di diritti presuppongono i diritti
democratici in quanto è solo nell’esercizio dell’autolegislazione che i contenuti più determinati dei
diritti di libertà e dei diritti sociali possono essere legittimatamente fissati: essi hanno bisogno della
sovranità popolare per la loro determinazione ed esplicitazione, così come questa ha bisogno dei diritti
di libertà e dei diritti sociali come sue precondizioni. Questa idea del reciproco presupporsi si può far
valere per tutti i tipi di diritti: quelli di libertà richiedono quelli democratici per la loro garanzia e
quelli sociali per le risorse che consentono il concreto esercizio. I diritti sociali, senza i diritti di libertà
e i diritti democratici non potrebbero conferire agli individui quelle condizioni che essi stessi devono
in ultima istanza giudicare come funzionali allo sviluppo della loro individualità. Anche se si assume
la tesi che un sistema dei diritti così concepito costituisca una delle strutture portanti di una
democrazia non apparente, è necessario mettere a fuoco anche un altro aspetto: tra i diversi tipi di
diritti non regna nessuna armonia prestabilita, nel senso che il gioco degli equilibri tra di essi include
necessariamente tensioni o frizioni, che solo nel concreto della pratica democratica si possono
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sciogliere. Una volta stabilito il principio della presupposizione reciproca di autonomia privata e
autonomia pubblica, i precisi confini tra le due sfere devono essere determinati mediante l’agire
politico e mutano con le circostanze storiche. Secondo Habermas, per un verso la democrazia
presuppone i diritti di libertà e i diritti sociali che ne sono precondizioni; per altro verso questi diritti
vengono stabiliti nel processo democratico, che li reinterpreta e ricodifica. Quello che si può sostenere
dal punto di vista della teoria è che, se la democrazia intesa come l’insieme sinergico dei diritti di
libertà, sociali e politici, è una questione di gradi: tanto più si attua e si espande, quanto più rende
giustizia a tutte le sue dimensioni, da quella della libertà alle grandi tradizioni liberale, democratica
e socialista.
La tesi della priorità del giusto sul bene deve essere ricalibrata; non per andare nella direzione
comunitaria di una priorità del bene sul giusto, ma piuttosto in quella di un più bilanciato equilibrio
tra queste due dimensioni. Il punto risalta in tutta la sua evidenza se ci si sofferma sulla questione dei
diritti sociali, ovvero dell’eguaglianza di risorse: mentre il primato del giusto impone a Rawls di
fermarsi all’idea, anche la distribuzione dei beni primari deve essere quanto più possibile eguale, le
critiche mosse portano alla conclusione che una società ben ordinata non può fare a meno di operare
delle scelte circa quelli che si considerano i funzionamenti o le capacità più importanti per gli
individui, da promuovere e garantire. La politica non può non lasciarsi guidare da concezioni di ciò
che è bene per gli individui che devono essere elaborate e verificate nel dibattito pubblico. Tanto in
Rawls quanto in Habermas prevale l’dea che le questioni concernenti il bene, a differenza di quelle
concernenti il giusto, non siano suscettibili di un’argomentazione tanto rigorosa quanto quella che si
può applicare alle questioni morali. Sebbene questa tesi non sia priva di una sua plausibilità, essa non
può essere assunta in senso troppo rigido; la riflessione teorica su quali siano i beni più importanti
per l’uomo è terreno di argomentazione razionale non meno di quanto lo sia la riflessione sulla
giustizia. Dal punto di vista della filosofia sociale e politica, si aprono ampi spazi non solo per la
ricerca di quelli che potremmo considerare come gli “elementi necessari a un funzionamento
autenticamente umano”, ma anche per una riconsiderazione dell’importantissimo tema dei beni
comuni, cioè di quei temi, come l’ambiente sano, la cultura, il cui valore non sta solo negli effetti
positivi che generano, ma anche nel fatto che si tratta di beni che sono goduti senza che questo
implichi privazione per qualcun altro; sono, invece, beni cui noi godiamo solo in quanto anche gli
altri ne godono. Essi, perciò, dovrebbero essere oggetto di particolare attenzione in una società
orientata verso lo sviluppo di tutti. La teoria normativa ci parla di una società giusta, di una
democrazia come dovrebbe essere; alcuni ritengono che la teoria normativa non sia altro che un
esercizio sterile, un trastullo per anime belle che niente ha che vedere con la dura realtà di forza e
conflitto che caratterizza la politica nella sua verità di fatto. Questo atteggiamento è riduttivo perché
non si avvede che, per quanto severa sia la politica, questioni di giustizia in essa sempre si pongono,
argomenti si discutono, e pertanto il momento normativo è anch’esso radicato e presente nella verità
dei fatti: negarlo significherebbe accreditare una visione della politica troppo unilaterale, molto poco
realistica. Quel modo di vedere per cui sembra che la teoria normativa possa quasi descrivere la
politica così com’è realmente è insoddisfacente; che non sia così, ovvero che tra norma e fatto sussista
una forte tensione è un punto cui lo stesso Habermas è ben consapevole: l’assunto proprio della teoria
normativa è che “non esistono impedimenti di principio a un ordinamento egualitario dei rapporti
interpersonali ma, naturalmente, le nostre società sono profondamente segnate sia dalla violenza
manifesta, sia da una violenza strutturale. Esse sono attraversate dal micropotere di repressioni
occulte e deformate da dispotismo, emarginazione e sfruttamento. Ma di ciò non potremmo indignarci
se non sapessimo che questi rapporti potrebbero anche configurarsi altrimenti”. La critica dei
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rapporti di fatto, quindi, è possibile a partire dall’assunto che esige che a tutte le persone spetti un
eguale status normativo e che tutte devono darsi reciproco riconoscimento. Anche Rawls considera il
consenso intorno ai principi di giustizia come qualcosa che rientra nel gruppo delle possibilità; quindi
il vero problema delle teorie normative è quello di comprendere come la scissione tra fatto e norma
possa essere migliorata ma non superata:
• la tensione tra fatto e norma è il tema proprio con cui un agire politico che si lasci guidare da
principi di libertà e di giustizia si deve misurare. Il terreno dell’agire politico è quello di sfidare
le istituzioni e le situazioni che negano il simmetrico e reciproco riconoscimento, che impongono
condizioni di dominio, di non-libertà. Suo obiettivo polemico sono tutte le forme di privilegio
socialmente e politicamente consolidato, dal privilegio di classe al dominio di genere, e proprio
quando si trova davanti a situazioni di consolidato vantaggio o privilegio, l’agire politico non può
fare a meno di situarsi sul terreno del conflitto: si avvale dei buoni argomenti e del dibattito
pubblico, ma anche della messa in movimento di forze e interessi la cui pressione è necessaria per
scuotere privilegi di vecchia data. L’agire politico è quindi pratica altamente complessa e
innovativa: che incrocia il terreno comunicativo non solo con quello strategico, ma anche con
quello simbolico, identitario e talvolta anche mitico; questo deve anche essere capace di tenere
insieme interessi e valori se vuole conseguire i propri obiettivi. Ma proprio in questo suo
poliformismo hanno radice anche le inaggirabili aporie dell’agire politico: la politica non è
riducibile alla contrapposizione amico-nemico, quindi al conflitto ed è proprio in ciò che si radica
l’inevitabile aporia di ogni politica che voglia incidere sui rapporti vigenti: per vincere nella
situazione data, anche una politica critica deve rendersi conforme a essa, ma ciò significa che
rischia di trovarsi a sua volta in tensione con i principi ai quali si richiama. È l’aporia che si può
illustrare perfettamente con un aforisma della dialettica dell’illuminismo: anche la propaganda
per le idee migliori le tradisce nel momento stesso in cui le diffonde: perché fa del linguaggio uno
strumento di manipolazione degli uomini, della verità un mezzo per acquisire seguaci. “Dà per
scontato che il principio secondo cui la politica deve nascere da una comprensione comune non
sia un modo di dire e che la propaganda alteri la verità già nell’atto di formularla”. Horkheimer
e Adorno trovano una conclusione “impolitica”: anche la migliore politica si fa nel mondo com’è
e ne porta su di sé i segni; la politica ha sempre a che fare con queste aporie, non può scrollarsele
di dosso, deve conviverci criticamente nella consapevolezza che l’idea per che per cambiare il
mondo ci si debba adeguare ad esso non può che essere contraddittoria e che, quindi, è senz’altro
più attendibile l’idea opposta, e cioè che chi vuole cambiare il mondo deve cominciare dal saper
cambiare se stesso. Nel mondo globalizzato che si delinea dopo la caduta del muro di Berlino e
l’ingresso nel terzo millennio dell’era cristiana, le prospettive realistiche di una democrazia
comunicativa ed espansiva sembrano trovarsi di fronte a difficoltà molto diverse da quelle con le
quali dovevano confrontarsi nel mondo bipolare. Gli aspetti fondamentali del processo di
globalizzazione sono:
• sul terreno economico assistiamo allo sviluppo di un mercato mondiale che ormai copre tutto il
pianeta;
• sul terreno politico molti sostengono la tesi che saremmo ormai entrati nell’età postwestfaliana,
poiché la fase attuale non vede più come attore decisivo lo stato nazionale dotato di chiare
prerogative sovrane su un territorio definito ma ci troviamo nello spazio di un ordine
posthobbesiano, dove al sistema di stati autonomi sovrani si sostituisce una molteplicità di livelli
normativi sovra e transnazionali, di regimi regionali (UE) che configurano una sorta di multilevel
govenance;
Alberto Presti, Sofia Gorgone, Myriam Russo, Giulia Tarantino, Claudia Candido, Sofia Buffa
• lo sviluppo delle tecnologie dell’informazione e delle reti globali fino alla dimensione di una
comunicazione-mondo che trasforma le forme del lavoro, i modi di vita e di consumo e la modalità
politica;
• molta attenzione è stata dedicata agli stili di vita: i media elettronici e le migrazioni di massa
potenziano anche l’impatto sulle strutture e sui poteri del sistema-mondo.
Nel loro insieme, queste trasformazioni corrodono le basi della democrazia sostanziata da importanti
contenuti sociali che si era sviluppata nell’Europa occidentale dopo la 2° guerra mondiale. La
pressione della competizione globale destruttura uno dei fattori di spinta dei processi di
democratizzazione e delle politiche sociali del dopo guerra: il movimento operaio organizzato, con i
suoi partiti e sindacati. La fine della società del lavoro e una maggiore individualizzazione degli stili
di vita sembrano minare le basi della democrazia instaurata nei decenni passati: i diritti sociali del
Welfare sembrano troppo onerosi rispetto agli imperativi della competizione globale e poco aderenti
alle nuove figure del lavoro “flessibile” e di una soggettività sempre più idealizzata, oggi le facce dei
leader soppiantano il dibattito pubblico e il cittadino attivo è rimpiazzato dallo spettatore dei talk-
show.
Le difficoltà cui vanno incontro le politiche tradizionali di democrazia e di giustizia sociale si fondono
con le problematiche che oggi si pongono sul terreno di una giustizia globale. Tra le conseguenze
della globalizzazione vi è quella per cui le arene democratiche (domestiche) subiscono una
progressiva perdita di importanza poiché cresce il numero di decisioni prese all’esterno da esse, e il
restringersi dello spazio-mondo fa sì che i singoli stati subiscano le conseguenze di processi che si
svolgono altrove. La veloce mobilità dei capitali finanziari a livello planetario condiziona le politiche
economiche degli stati, mentre cresce il potere decisionale di molteplici istituzioni di governo
sovranazionale. Gli ampi flussi migratori e la crescente mobilità della popolazione rendono sempre
più incerta la determinazione dei confini del demos; con il rischio che la cittadinanza si riduca a
statuto privilegiato di una parte della popolazione, dalla quale restano esclusi molti che pur vivono e
lavorano nel territorio dello stato. Dopo il crollo del mondo bipolare, sembra delinearsi nel sistema-
mondo una struttura di tipo imperiale, dove i singoli stati-nazione potrebbero ridursi tutti alla
condizione di stati e sovranità limitata, e i più deboli alla condizione di quasi-stati. Gli scenari della
globalizzazione, dunque, pongono con forza i problemi di cosa possano significare i diritti, giustizia
e democrazia a scala mondiale; “le potenze capaci di agire sul piano globale non si muovono più
entro lo stato di natura teorizzato dal diritto internazionale classico, bensì dinamicamente come un
insieme di interferenze e interazioni tra processi politivi che seguono logiche specifiche sul piano
globale; in questo modo vediamo aprirsi una prospettiva per una politica mondiale anche senza un
governo del mondo”. Ma come è pensabile una legittimazione democratica delle decisioni che vada
al di là dello schema organizzativo dello stato? A quali condizioni l’autocomprensione degli attori
globali può trasformarsi nel senso di indurre stati e regimi sopranazionali a intendersi
progressivamente quali membri comunitari per cui non esista altra alternativa se non di prendere
reciprocamente in considerazione i propri interessi e rispettare gli interessi generai? La decisione da
parte di stati di intendersi come membri di una comunità disposti a trattare su una base di reciprocità
presuppone la condivisione di un certo insieme di principi comuni, relativi tanto alle procedure
democratiche di decisione, quanto ai diritti degli individui. Presuppone insomma un consenso di
fondo ce vada molto oltre quello che Rawls pone alla base della sua società dei popoli, in un orizzonte
teorico che resta molto più ancorato alla sovranità statale nelle sue forme tradizionali. Ma
l’affermazione dei principi condivisi in tema di diritti dell’uomo e di democrazia, appare difficile e
soggetta a resistenze di vario genere: non mancano sul piano mondiale stati che sollevano riserve che
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non sono totalmente ingiustificate: per un verso si sostiene che i diritti dell’uomo non possono essere
assunti sic et simpliciter (così e semplicemente) da culture diverse da quelle dell’occidente, che sono
molto diverse dalla nostra. In secondo luogo si afferma che è piuttosto singolare che l’occidente
voglia oggi dare lezioni di diritti dell’uomo e di democrazia a paesi i cui diritti sono stati calpestati
dallo stesso occidente. Si può, però, contrapporre legittimamente a quella occidentale una via asiatica
ai diritti, la cui differenza sta nel sottolineare il primato degli interessi della collettività e dello stato
rispetto a quelli dei singoli individui. Vi sono buone ragioni per affermare che la modernizzazione
economica e la integrazione nel mercato globale costringano, in qualche modo, anche i paesi che
vorrebbero rifiutarla ad aprirsi a una concezione più secolarizzata e individualistica del diritto. Lo
scontro però non nasce tanto tra lo scontro di civiltà, quanto dal fatto che l’occidente pretende di
presentarsi come il difensore dei valori universali di libertà, diritti e democrazia, mentre per altro
verso non intende né può rinunciare alla sua smisurata superiorità economica, militare, tecnologica e
mediatica; è proprio questo paradosso che dà fiato e conferisce una parvenza di legittimità a regimi
integralisti e nemici dei diritti e che rende più difficile la battaglia di coloro che si oppongono ad essi.
Perciò è possibile affermare che la possibilità di costruire un più vasto consenso intorno ai principi
dei diritti e della democrazia dipende anche dal fatto che l’occidente sia capace a sua volta di
riconoscere i diritti dei popoli altri, deboli, poveri e che non li veda solo come una questione di ordine
pubblico ma, al contrario, sia capace di costruire politiche che vadano nella direzione di un governo
politico della globalizzazione economica che esige che le potenze capaci di agire si impegnino
partecipando attivamente. In mancanza di prospettive di giustizia tra i popoli e di lotta alle
disuguaglianze su scala globale vivremo in un mondo sempre più ingiusto e sempre più esposto a
minacce. Una politica che sappia resistere alla tentazione di risolvere i problemi manu militari,
un’apertura dei mercati ed un governo democratico della globalizzazione sembra, oggi, molto lontana
e difficile da raggiungere, ma lo sarebbe di meno se si comprendesse che, su una Terra che diviene
sempre più piccola, una della politica co-responsabilità solidale non risponde solo a ragioni morali
ma anche alla difesa intelligente e interessi dei cittadini del Nord ricco del mondo.
Se le sfide della globalizzazione pongono alla politica problemi inediti e molto complessi, essa rischia
di venir spiazzata dagli impressionanti salti in avanti della scienza e della tecnologia. Ad esempio,
come devono rapportarsi le società democratiche e pluralistiche con le pratiche di manipolazione del
vivente che presto diventeranno possibili e che in buona misura già lo sono? Mettendo da parte la
questione su un piano religioso, approfondiamo il pensiero laico che, all’interno dello stesso gruppo,
presenta opinioni contrastanti: dal punto di vista della filosofia, le questioni si possono discutere più
specificatamente in termini di diritti o divieti: come si legittima il divieto di determinate pratiche?
Quali nuovi diritti possono essere introdotti per dar forza all’avanzamento tecnologico e attribuirgli
legittimità? I sostenitori di una politica ragionevolmente limitativa o “proibizionista”, tra cui lo stesso
Habermas, adducono argomenti che possono essere formulati in termini di difesa dell’individuo.
Habermas propone di distinguere tra un’ingegneria genetica di tipo terapeutico e una di tipo
migliorativo; la prima non sembra implicare una violazione dei diritti degli individui che dagli
embrioni si svilupperanno, perché può presumersi che essi darebbero agli interventi terapeutici, il
loro consenso. Nel secondo caso, invece, il fatto che qualcuno possa intervenire sul patrimonio
genetico di qualcun altro implica, per Habermas, una asimmetria di diritti tra gli individui che è
incompatibile con l’eguale rispetto che si deve ad ognuno di essi. A partire da queste considerazioni
si potrebbe addire che si debba garantire a ciascuno il diritt a un’identità genetica non predeterminata
da altri (i genitori che intervengono, ad esempio), come condizione dell’unicità irripetibile del
singolo; questo tipo di diritto costituirebbe un ostacolo tanto per gli interventi di ingegneria genetica
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migliorativa, quanto per la clonazione riproduttiva. A proposito della clonazione riproduttiva si è
sostenuto anche che essa violerebbe il diritto ad avere un’identità unica e il diritto all’ignoranza sul
proprio futuro. Il vero problema è quello che nasce dalla violazione di rapporti di reciproco e
simmetrico rispetto tra gli individui: il clone è un individuo la cui identità genetica gli è stata imposta
da un altro a sua immagine e che quindi subisce le scelte che un altro ha fatto per lui. È vero che
chiunque nasce è portatore di caratteristiche che non ha scelto e che i genitori gli hanno trasmesso
ma, nel momento in cui queste diventassero oggetto di scelta, c’è da chiedersi a chi debba essere
legittimamente attribuito il potere di esercitare queste opzioni; se l’individuo non può ancora
esprimerle, perché i genitori dovrebbero avere questo diritto? Ma allora dovrebbero essere consentite
anche tutte le manipolazioni genetiche che sono volte a migliorare il corredo genetico degli individui;
nessuno negherebbe, se fosse in grado di esprimersi, il proprio consenso ad esse. Ci sono, ad esempio,
piccoli difetti fisici che alla fine possono rivelarsi dei vantaggi; chi si arrogasse il diritto di eliminarli,
modificherebbe il patrimonio genetico in un modo irreversibile e non è detto che sia positivo. Si tratta
di questioni che pongono problemi inediti e complicati: da una parte c’è il diritto dell’individuo a non
essere strumentalizzato da altri; dall’altra c’è l’esigenza insopprimibile dell’uomo del sondare tutte
le possibilità per vivere meglio e allontanarsi dalla morte e dalle malattie. L’unico orientamento di
fondo dal quale si può partire per affrontare terreni inesplorati è l’idea di una complementarità
sinergica dei diritti individuali e della democrazia; i termini e la concreta formazione di questi rapporti
tra cittadini liberi ed eguali non possono essere dedotti da alcuna norma trascendente, ma debbono
essere frutto del dibattito pubblico libero, paritario e informato tra i cittadini stessi.