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Riassunti di Alberto Presti, Sofia Gorgone, Myriam Russo, Giulia Tarantino, Claudia Candido, Sofia Buffa VIVERE SCIENZE POLITICHE Filosofia politica Supporto appunti viverescienzepolitiche.it Vivere Scienze Politiche

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Riassunti di Alberto Presti, Sofia Gorgone, Myriam Russo, Giulia Tarantino,

Claudia Candido, Sofia Buffa

VIVERE SCIENZE POLITICHE

Filosofia politica

Supporto appunti

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Riassunti del libro “Modelli di Filosofia politica” di S. Petrucciani

1. Capitolo 1: territori e domande della filosofia politica

2. Capitolo 2: l’ordine della polis

3. Capitolo 3: la città dell’uomo e la città di Dio

4. Capitolo 4: il paradigma del contratto

5. Capitolo 5: società civile e Stato

6. Capitolo 6: concetti della teoria politica

7. Capitolo 7: la teoria della giustizia di Rawls

8. Capitolo 8: Questioni per la filosofia politica

VIVERE SCIENZE POLIT ICHE

Indice

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consiglia agli studenti che usufruiscono di questo servizio di integrarli con i testi indicati nelle schede di

trasparenza.

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Capitolo 1: Territori e domande della filosofia politica

La filosofia politica è una forma di sapere che assume a proprio oggetto quello che sembra essere un

aspetto fondamentale dell’esperienza umana: essa si occupa infatti elle interazioni tra gli uomini in

società in quanto esse sono influenzate o regolate da relazioni di potere, che assicurano l’integrazione

tra i diversi attori sociali e ne governano i comportamenti anche attraverso un certo uso della

coercizione, ovvero della possibilità di commissionare sanzioni. In altre parole, si occupa delle

interazioni sociali tra gli uomini in quanto queste si configurano come relazioni di potere, e danno

luogo a discussione o a conflitto circa il modo in cui il potere debba essere distribuito o organizzato.

Assume come suo oggetto centrale, le problematiche del potere. Per potere possiamo intendere, in

prima approssimazione, la capacità che qualcuno ha di controllare, attraverso la propria influenza o

con la minaccia di sanzioni, il comportamento di altre persone, ovvero di vedere obbedite le proprie

sanzioni. La tradizione più canonica della filosofia politica, infatti, si è occupata delle forme di potere

istituzionalizzate, quelle che si depositano nelle leggi e si incorporano nelle istituzioni statali; mentre

sono stati soprattutto i pensatori eterodossi a insistere sul fatto che le relazioni di potere più

fondamentali sono dislocate fuori dai luoghi canonici dello stato e del diritto, nei rapporti di proprietà

o nella microfisica del potere. La filosofia politica ha a che fare prevalentemente con le forme di

potere istituzionalizzate, ovvero il potere statale. Max Weber afferma che “lo stato è, come le

associazioni politiche che storicamente lo precedono, un rapporto di dominio di uomini su uomini

basato sul mezzo della forma legittima”. Per Weber, caratteristica dello stato, oltre a quella di

esercitarsi su un determinato territorio, è che esso detiene il monopolio della forza legittima. Weber

afferma che lo stato è l’organizzazione che detiene il monopolio della forza legittima, ovvero ritenuta

tale.

Potremmo dire quindi che la filosofia politica ha in un certo senso due volti: da una parte, e questo è

il lato di Machiavelli, la filosofia politica si occupa del potere, del conflitto per il potere, della sua

conquista e del suo mantenimento, quindi dei vari aspetti dell’agire politico; dall’altra, a partire

quantomeno dalla Repubblica di Platone, la filosofia politica si pone la questione di quale sia l’ottimo

o il giusto ordinamento politico. La filosofia politica quindi si occupa di quale sia il modo giusto di

organizzare la nostra convivenza, di quali forme di potere siano legittime, di quali diritti debbano

essere riconosciuti ai cittadini.

La filosofia non è, come la fisica, la chimica, la storia, una forma di sapere codificato, che goda di

una legittimità assicurata e incontestata, e che abbia uno statuto che non sia esso stesso oggetto di

discussione. Al contrario, la filosofia è, nel migliore dei casi, una forma di sapere che deve sempre di

nuovo dimostrare la sua, eventuale, legittimità. Ogni filosofia che si rispetti è anche una definizione

di che cosa debba intendersi per filosofia. La specificità della filosofia rispetto ad altre forme di

comunicazione o di significazione sta dunque proprio nel tentativo di costruire argomentazioni e di

cercare di costruire ragionamenti persuasivi. Per altro verso, la peculiarità sta nel fatto che essa cerca

di affrontare con gli strumenti del dialogo razionale quei problemi ai quali le scienze positive sono

costitutivamente impossibilitate a dare risposte. La filosofia politica ha più la natura di una filosofia

ultima che di una filosofia prima; il terreno sul quale essa deve muovere i propri passi è un terreno

sul quale già molte altre discipline, filosofiche non, hanno tracciato strade e percorsi. La filosofia

politica ha quindi connessioni con la filosofia morale ad esempio, perché le questioni intorno a ciò

che è giusto, hanno il loro luogo genetico proprio nella filosofia morale. Proprio perché deve tenere

conto di una complessa rete di ricerche e di riflessioni, che da ogni parte con essa interferisce, la

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filosofia politica occupa, nell’ambito della filosofia una posizione abbastanza peculiare: è più un

punto di arrivo che di partenza.

Norberto Bobbio durante una conferenza del 1970 ha individuato quali sono le quattro domande alle

quali la filosofia politica, nel corso del suo sviluppo, aveva cercati di dare risposte: la questione di

quale sia l’ottima costituzione politica, la domanda sul fondamento dell’obbligo politico, il problema

concernente la natura dell’agire politico e della sua definizione, e infine un’ultima questione che non

analizzeremo, ovvero quella di tipo epistemologico, concernente il metodo e le condizioni di validità

della scienza politica.

1. L’approccio normativo. Qual è il giusto ordine politico. Ciò che caratterizza una filosofia

politica normativa orientata è il fatto che in essa il tema della politica viene messo a fuoco

fondamentalmente nella prospettiva del dover essere; l’obiettivo primario non è quello di indagare

i fatti politici così come sono, ma quello di giungere a delineare l’ordine politico come dovrebbe

essere, per poter essere riconosciuto come buono, giusto, legittimo. Nell’orizzonte aristotelico,

per esempio, la norma non viene intesa come qualcosa di separato dalla realtà, ma al contrario

come ciò che corrisponde alla sua più vera natura e al suo fine intrinseco. Per gli antichi questi

valori supremi, in base ai quali un ordine politico deve essere giudicato, sono la giustizia o il bene

comune; mentre per la tradizione più influente del pensiero politico moderno il supremo valore

cui l’ordine politico dovrà essere commisurato sarà quello della libertà. Accanto a costruzioni

politiche che collocano a realizzazione del sommo valore in un mondo totalmente differente come

la Repubblica di Platone o l’Utopia di Thomas More, ve ne sono altre che pensano invece il buon

ordine politico come una rettificazione del’ordine politico già dato, che ne conserva aspetti

fondamentali; si potrebbero intendere ad esempio il liberismo di Hayek e il liberismo egualitario

di Rawls come due proposte per correggere, in opposte direzioni, gli assetti delle odierne società

democratiche e capitalistiche: nel primo caso per proporre argine alla democrazia illimitata a

favore de liberismo economico, nel secondo per porre limite alle diseguaglianze attraverso

principi di giustizia. Più raro è il caso di teorie normative della politica che giungano fino al punto

di identificare l’ordine politico migliore con quello già attuato nel loro tempo storico. Per

concludere questo punto si potrebbe dire quindi che le teorie normative possono certamente

differenziarsi tra loro secondo varie linee, generalmente tre: la modalità ontologica del rapporto

essere/dover essere, la determinazione del dover essere attraverso un certo valore supremo (bene,

giustizia, libertà), il grado di distanza dal modello normativo dalla realtà fattuale (teorie

apologetiche, critiche e utopiche). Le filosofie politiche normative, dunque, si pongono la

domanda circa l’ordine politico giusto; ovvero, quando affrontano questioni più specifiche, si

chiedono se una certa legge, una certa istituzione siano giuste o meno. Azione politica, filosofia

e teoria politica normativa costituiscono tre momenti geneticamente e concettualmente connessi.

2. L’approccio realistico, da Machiavelli a Weber. Che il pensiero politico debba occuparsi dello

stato come deve essere, è proprio la tesi alla quale si contrappone il testo più classico ed

emblematico del realismo politico, il Principe di Machiavelli. Piuttosto che interrogarsi sullo

stato come dovrebbe essere, quindi, il realismo politico nella sua figura machiavelliana si pone

come una riflessione sull’agire politico così come esso è, nella sua aspra realtà effettuale. È

tutt’altro che semplice tracciare quelle che potrebbero essere le coordinate concettuali

dell’approccio realistico alla questione dell’agire politico. Il primo punto che dev’essere fissato,

e che ritroviamo in tutti i grandi pensatori realisti, da Tucidide, a Machiavelli, a Weber, è quello

per cui l’agire politico viene concettualizzato innanzitutto come lotta per il potere. Ciò non vuol

dire, come Weber sottolinea che scopo dell’agire politico debba essere necessariamente il potere

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fine a se stesso, al contrario, quella tesi significa semplicemente che quali che siano i fini, anche

i più alti, nobili o altruistici, che il politico spera di conseguire con la sua azione, essi hanno

bisogno del medium, ovvero il potere, per venire attuati e dunque non vi è politica che a qualche

forma di potere non miri. Il punto di vista del realismo politico però sembra piuttosto

caratterizzato dalla messa a fuoco della dimensione politica come dimensione o ambito

conflittuale, dove agiscono attori in lotta tra loro che si confrontano essenzialmente in ragione

della forza, ovvero del potenziale di costrizione, influenza o minaccia, di cui possono disporre. In

questo senso, la politica viene decifrata come una dimensione dell’agire strategico. Secondo

Weber la forza è il mezzo decisivo di cui l’agire politico non può in nessun caso fare a meno.

Spesso il realismo politico si sposa con una visione cruda o pessimistica della natura umana di

cui spesso gli uomini vengono considerati come per natura avidi di potere e di ricchezza, sempre

più disposti a ingannare e tradire; allora è ovvio che non intendono altra ragione che la forza, e

che solo grazie a essa si possono governare e tenere a freno. In realtà non ci sembra sussista questa

connessione fondativa tra pessimismo antropologico e realismo politico, e si può ben sostenere il

secondo senza far ricorso alle problematiche assunzioni del primo. Secondo Sheldon Wolin la

politica è una forma di attività che è incentrata sulla ricerca di un vantaggio competitivo tra gruppi,

individui e società; è condizionata dal fatto di aver luogo in un ambiente mutevole caratterizzato

da relativa scarsità; è tale che la ricerca di un vantaggio determina conseguenze di portata così

vasta da riguardare l’intera società o una parte sostanziale di essa. Perciò anche senza presupporre

una visione radicalmente negativa della natura umana si può assumere che in ogni società i diversi

attori o gruppi configgano per ridurre i propri costi e massimizzare i propri benefici avvalendosi

dei mezzi di coercizione e pressione di cui dispongono; e se ne può concludere che la dimensione

del conflitto di forze è destinata a restare una dimensione che connota l’agire politico.

La questione del realismo politico si connette perciò strettamente con quella del nesso, o del

conflitto, tra politica e morale. Se chi fa politica è un attore in lotta con altri per il potere, allora

costui deve aspettarsi che i suoi competitori usino, contro di lui, tutti i mezzi che consentano loro

di combattere vittoriosamente la lotta per il potere; quindi chiunque sia in lotta per il potere non

può esimersi dal fare altrettanto, e perciò anche dal ricorrere quei mezzi, come la violenza e

l’inganno, che ogni visione morale della realtà umana da sempre condanna. Machiavelli nel più

incriminato capitolo del Principe (XVIII), asserisce che il politico che si sentisse obbligato al

rispetto della parola data, non farebbe altro che lavorare alla propria rovina, perché chi fa politica

deve sapere che i suoi nemici, se si trovassero al suo posto, si guarderebbero bene dal mantenere

la parola data; e perciò comportarsi, in queste circostanze, in modo morale, sarebbe

semplicemente suicida. Il politico deve avere la capacità e l’ardire di infrangere il comandamento

morale non perché i suoi nemici lo infrangerebbero nei suoi confronti, ma perché il fine

dell’azione politica è il fine supremo, che deve prevalere su ogni altro e rispetto al quale le

considerazioni di giusto ed ingiusto devono passare in secondo piano. Secondo Isaiah Berlin però

non ci troviamo di fronte ad un’insanabile scissione tra etica e politica, ma piuttosto al conflitto

tra due etiche: da un lato un’etica centrata sull’individuo e sulla sua coscienza del bene e del male,

dall’altro un’etica della polis o della virtù repubblicana, dove il valore fondamentale diventa la

partecipazione alla vita della comunità, nella quale l’individuo realizza la sua virtù e afferma la

sua libertà. I pensatori dell’impolitico invece, guardano alla dimensione della politica come una

pura lotta di potere senza redenzione, strutturalmente condannata, proprio per sua natura, a non

attingere mai la dimensione del bene e della giustizia. Secondo Weber invece l’azione morale si

pensa in due modi: se la si intende secondo la prospettiva dell’etica della convinzione, allora essa

non è altro che l’agire conformemente a quello che si ritiene essere il comandamento della morale,

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disinteressandosi delle conseguenze che potranno derivarne; se la morale mi vieta di mentire,

allora, non mentirò neppure all’assassino che va in cerca della sua vittima: l’aver seguito il puro

comandamento della morale mi esime da ogni responsabilità per gli esiti che il corso degli eventi

potrà produrre. Chi agisce secondo l’etica della responsabilità, invece, è colui che si sente in

dovere di rispondere anche delle prevedibili conseguenze della propria azione: l’azione

moralmente giusta non è quella che si limita a corrispondere a un precetto, ma quella che attua

concretamente un bene del mondo, o concretamente impedisce un’ingiustizia. Perciò, dal punto

di vista dell’etica della responsabilità vale il principio che bisogna resistere con violenza al male

altrimenti siamo responsabili del suo prevalere. Il vero politico per Weber non può non essere

sensibile alle ragioni dell’etica della responsabilità; anzi, il grande politico è solo colui che riesce

a riunire in sé ciò che fin qui era apparso antitetico: etica della responsabilità per le conseguenze

ed etica della convinzione, ne senso di fedeltà ai suoi principi. Pertanto l’etica della convinzione

e l’etica della responsabilità non sono assolutamente antitetici, ma complementari, che soltanto

quando sono congiunti formano l’uomo vero, quello che può avere la vocazione alla politica.

3. La dimensione esistenziale della politica. Hannah Arendt. L’indagine che la Arendt svolge

sulla Vita Activa ha proprio come obiettivo quello di mettere in luce come le diverse dimensioni

dell’attività umana corrispondano a diversi aspetti di quella che l’autrice individua come la

condizione dell’uomo. Mentre l’attività lavorativa è resa necessaria dal fatto che l’uomo deve

riprodurre le condizioni materiali della sua vita, la seconda dimensione della vita activa, quella

che Arendt chiama l’operare, risponde al dato per cui l’esistenza umana, a differenza di quella

animale, ha come sua condizione la creazione di un mondo artificiale di cose, permanete e

nettamente distinto dall’ambiente naturale. Da queste due dimensioni si distingue infine quella

nella quale si radica la politica che Hannah Arendt chiama l’azione. L’azione non ha a che fare

con i rapporti uomo/cosa, ma con i rapporti diretti tra gli uomini; essa va compresa a partire da

due aspetti che secondo la Arendt sono fondamentali per intendere la condizione umana, e cioè la

pluralità e la natalità. Che la condizione umana sia caratterizzata dalla pluralità sta a indicare,

nell’orizzonte arendtiano che vivere non solo significa essere tra gli uomini, ma che essere tra

uomini vuol dire al tempo stesso essere tra uguali e diversi: “la pluralità è il presupposto

dell’azione umana perché noi siamo tutti uguali, cioè umani, ma in modo tale che nessuno è mai

identico ad alcun altro che visse, vive o vivrà”. È proprio in questa pluralità che l’azione politica

trova la sua radice. All’idea di pluralità che è al tempo stesso uguaglianza e unicità si interecciano

strettamente gli altri due fili del discorso arendtiano, quello della natalità e quello

dell’immortalità. Proprio perché ogni individuo è irriducibilmente unico, il suo venire al mondo

significa al tempo stesso la capacità di dar luogo a qualcosa di nuovo; in quanto unico l’individuo

possiede la capacità di iscrivere nella realtà qualcosa di inedito, che prima non c’era. È nell’azione

politica che la categoria della natalità trova la sua corrispondenza più diretta. Nell’azione che

fonda un organismo politico nuovo, o che ne rinnova uno esistente, si esprime dunque, tanto la

natalità che caratterizza l’umano, quanto quello che è in qualche modo il suo necessario contro-

polo, il ricordare, perché l’irruzione del nuovo crea al tempo stesso le condizioni per il ricordo e

per la storia. Secondo la Arendt quindi, il concetto della politica è capace di trascendere la

mortalità del singolo uomo per attingere ad una sorta di immortalità: va oltre la caducità

dell’essere umano rivelando una natura divina. La polis costituisce quindi, nella letteratura

arendtiana, uno spazio pubblico dove il singolo può mostrarsi agli altri nella sua irripetibile

singolarità, che sono nel mettersi in scena di fronte a un pubblico, si consolida. È inoltre, al tempo

stesso, la condizione perché ciò che si è compiuto di inedito e di grande possa essere ricordato e

tramandato dalle generazioni che si susseguono, conservandone la memoria.

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Capitolo 2: L’ordine della polis

La politica è una pratica per la quale possiamo individuare un’origine ben precisa: sia la parola che

la cosa nascono nella Grecia classica, da quella peculiare istituzione chiamata polis. La città- stato,

nasce tra il VII e il VI secolo a.C dalla crisi delle forme tradizionali, regali e sacrali della sovranità.

Il potere non è più un privilegio delle stirpi aristocratiche che dominavano dai loro palazzi fortificati,

ma trapassa idealmente in quello che è il centro simbolico della città: la piazza, l’agorà, lo spazio

comune a tutti i cittadini che, attraverso di esso si riconoscono come comunità e che, intorno ad esso,

stabiliscono le loro dimore e le delimitano attraverso le cinte di mura. La città stato greca, è il luogo

in cui compare per la prima volta quella novità radicale che è la discussione politica nello spazio

pubblico. Grazie ad essa ed insieme ad essa, nasceranno quelle pratiche fondametali nella storia della

civiltà occidentali quali ad esempio il discorso argomentativo, la filosofia, il dibattito politico e il

pensiero politico.

All’interno della polis, la sovranità sempre più laicizzata, diventa oggetto di un dibattere che si svolge

nella sfera pubblica dell’agorà; dunque, il comando, non è più proprietà esclusiva di qualcuno, per

ragioni di stirpe, sacrali o religiose, ma è il risultato di un confronto dialettico in cui si sfidano i

migliori discorsi e le migliori qualità.

Alla città si accompagna anche la nascita della legge scritta la quale è regola comune a tutti ma anche

superiore a tutti e modificabile per decreto. L’uguaglianza dei cittadini comincia dunque a

determinarsi ma non assicura però una perfetta simmetria di diritti in quanto, è sempre vigente la

predominanza sociale degli aristocratici e dei proprietari terrieri.

Il modello classico della polis democratica è quello delle istituzioni politiche di Atene, così come

vengono definite, dalla riforma democratica di Clistene e dalle riforme di Pericle.

L’istituzione nella quale si incarna la sovranità politica è l’Assemblea dei cittadini di pieno diritto,

ovvero l’ecclesia: essa è aperta a tutti i cittadini maschi e liberi che abbiano più di 18 anni; in essa

tutti hanno diritto di parola e le decisioni vengono prese a maggioranza. L’assemblea rappresenta la

più alta autorità decisionale sulle questioni legislative e sulle più importanti questioni di governo.

L’attività amministrativa invece, veniva svolta da una parte più limitata della cittadinanza, il consiglio

dei 500, cosidetto boule. Molte delle principali cariche politiche venivano attribuite per sorteggio, ed

erano retribuite. La politica ateniese si basava dunque su una democrazia priva di un vero e proprio

apparato statale, e nella quale avevano invece un ruolo di primo piano il confronto degli argomenti e

la discussione pubblica.

È proprio nel contesto della città e dei dibattiti che si manifestano le prime forme di pensiero politico:

i sofisti mettono in risalto la convenzionalità del nomos, cioè le leggi degli uomini rispetto ad una

presunta giustizia naturale. (Digressione, fino al V secolo, il rapporto tra legge di natura e legge

umana era dato per scontato. I Greci ritenevano che le leggi della poleis fossero conformi alle leggi

universali. Con la diffusione della democrazia ad Atene e in altre città greche, ci si rese conto che in

realtà le leggi fatte dagli uomini erano il frutto di tante discussioni, dispute e problemi e avevano dei

limiti come tutte le cose fatte dagli uomini. I sofisti distinsero una volta per tutte le leggi naturali

(physis) dalle leggi degli uomini (nomos). Ippia e Antifone furono i primi sofisti a fare questa

distinzione, esaltando la legge di natura; questa, essenso uguale per tutti e sempre valida, è degna di

rispetto, mentre le leggi degli uomini sono parziali, mutevoli e discutibili. La physis è sacra perché

rende gli esseri umani veramente uguali tra loro, mentre il nomos non mette tutti sullo steso piano.

Un altro gruppo di sofisti di estrazione aristocratica attaccò in modo aggressivo il nomos,

sottolineando come in realtà dietro alle leggi umani si nascondano gli interessi dei più forti; i

principali furono Trasimano e Crizia. Trasimaco, rappresentato nel libro I della Repubblica di

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Platone, demistifica ogni idea di giustizia sostendendo che questa non consiste in altro che nell’utile

del più forte.

Tucidide, narrando dello stermino dei Melii da parte degli ateniesi nella guerra del Peloponneso,

mostra per la prima volta il più duro realismo politico, fautore del dominio senza alternative della

legge della forza.

Il pensiero di matrice oligarchica e aristocratica, sviluppa una critica della democrazia come regime

che porta la ‘’canaglia’’ alla guida dello stato e che, con l’imperialismo ateniese, consente alla

plebaglia di soddisfare i suoi appetiti.

Il sofista Protagora, di contro, legittima la democrazia, sostenendo la tesi secondo cui la capacità di

fare politica non è un talento speciale, di cui solo alcuni sono dotati ma un’attitudine che tutti i

cittadini possono avere o acquistare.

La giovinezza di Platone e la condanna a morte di Socrate, si collocano in una fase in cui la

democrazia ateniese, conosce una fase di profonda crisi. Tali fatti saranno determinanti per la

formazione del pensiero politico del giovane allievo di Socrate, ovvero Platone. Egli nella Lettera

VII, afferma la tesi che costituisce il perno della Repubblica ovvero quella secondo cui ‘’non

sarebbero mai cessate le sciagure delle generazioni umane, se prima al potere politico non fossero

pervenuti uomini veramente e schiettamente filosofi, o i capi politici delle città non fossero divenuti,

per qualche sorte divinità, veri filosofi’’.

Platone sostiene dunque che solo i filosofi potrebbero essere dei buoni reggitori e che, il compito

dell’arte politica, ovvero quella che nel dialogo Il Politico egli definisce come l’arte regia e suprema,

è quello di attuare il bene di ognuno nel bene della comunità. Il vero bene consiste nel coltivare la

perfezione della propria anima e nel seguire la giustizia. La vera arte politica, che realizza il bene

della comunità, deve al tempo stesso, rendere migliori i cittadini: attraverso le buone leggi e il buon

governo al fine di creare dei buoni cittadini. Se però la politica si riduce, come accade troppo spesso

nella città reale, ad una competizione feroce per gli onori e per il potere, essa non potrà che risultare

inadeguata al conseguimento di quelli che sono i suoi autentici fini. Una buona politica, perciò,

potranno farla solo i veri filosofi, perché questi, avendo compreso in che cosa consista il vero bene

‘’non zi azzufferanno, come i ciechi abitanti di un regno di ombre, per la ricchezza, per gli onori e

per il potere, ma al contrario non desidereranno di meglio che allontanarsene, per ricercare quelli

che sono beni più completi e, la loro conquista non costringe a recare ingiustizia ad altri e quindi

non rovina e corrompe’’.

Platone nella Repubblica, trae le sue conclusioni, sostenendo che: la maggioranza degli stati sono

oggi e sempre governati da persone ‘’che si battono fra ombre e si disputano il potere, come fosse un

grande bene’’. Ma la verità è un’altra e cioè, solo chi troverà il modo migliore di governare, ovvero

il filosofare, potrà governare ottimamente il suo stato, perché sarà lo stato in cui governeranno le

persone realmente ricche ma non di oro, ma di quella ricchezza che rende l’uomo felice, la vita onesta

e fondata sull’intelligenza. Se invece vanno al potere dei pezzenti, avidi di beni personali e convinti

di dover ricavare il loro bene da lì, il governo è oggetto di contesa e viene danneggiato tutto il resto

dello stato. Al governo devono andare persone che non amino governare, altrimenti la loro rivalità

sfocerà in contesa. Ai discorsi abilmente persuasivi dei sofisti, si può rispondere per Platone, soltanto

con la riaffermazione della vera filosofia e del principio della competenza che rovescia il principio

democratico per cui tutti sarebbero in grado di giudicare gli affari pubblici.

Come la città ha bisogno del filosofo, viceversa, anch’egli ha bisogno della città: egli per poter creare

il suo pensiero filosofico ha la necessità di confrontarsi con gli altri individui e che il suo pensiero

non può svilupparsi in solitudine, senza confrontarsi. Come sosteneva Socrate, nella città ingiusta il

filosofo non può coltivare la filosofia e restare fedele alla giustizia se non al prezzo del massimo

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sacrificio: quindi, la città ben amministrata ha bisogno dei filosofi così come i filosofi hanno bisogno

di una comunità retta dalla giustizia, solo in essa la filosofia può essere liberamente esercitata.

Platone descrive la città ideale nella Repubblica delineando come, una comunità politica orientata

dall’idea della giustizia, presuppone innanzitutto il confronto con coloro che, come il sofista

Trasimaco, protagonista del primo libro della Repubblica, negano la validità stessa dell’idea di

giustizia. Ciò che in ogni stato viene definito giusto, afferma Trasimaco, è semplicemente ciò che è

utile al potere costituito; e poiché il potere è tale in quanto detiene la forza ne discende che il giusto

è sempre l’utile del più forte. Così come il pastore non si preoccupa del bene delle pecore, ma del

proprio bene, e del bene delle pecore solo in funzione del suo bene, allo stesso modo fa il governante;

il destino dei cosiddetti giusti, che in realtà non sono altro che deboli o ingenui, è quello di subire il

dominio del più forte, cioè di chi è ‘’ingiusto’’. La vita del cosiddetto ingiusto, per Trasimaco, è

migliore di quella del giusto poiché, ad esempio, quando bisogna pagare i tributi, il giusto a parità di

condizioni paga di più, l’altro di meno; e quando c’è da da ricevere, l’uno non guadagna nulla e l’altro

molto. Se poi si tratta di occupare una carica pubblica, l’ingiusto ne trae ricchezza e onori, mentre il

giusto si fa tanti nemici e ci rimette di tasca propria. Conlude Trasimaco dicendo che, presa visione

di questa realtà, si smetta di predicare la giustizia.

Nella Repubblica Platone non ci presenta una confutazione diretta e lineare della tesi d Trasimaco.

La confutazione si articola piuttosto in una serie ampia e intrecciata di ragionamenti e argomentazioni,

che solo nel loro insieme giungono a delineare il quadro di una giusta comunità politica. Innanzitutto,

possiamo dire che la giustizia è la condizione stessa affinché un organismo si mantenga e realizzi il

suo bene. Il ragionamento circa la giustizia dello stato, viene sviluppato da Platone attraverso

l’analogia tra la comunità politica e quella piccola comunità in interiore homine che è l’anima

individuale la quale si divide in tre momenti: c’è un’anima appetiva, che mira alla soddisfazione dei

piaceri del corpo (il mangiare, il bere, il copulare); c’è un’anima razionale, che mira alla conoscenza

e alla verità; e infine c’è il momento volitivo, ovvero il momento in cui l’anima si dirige verso uno o

l’altro dei obiettivi con maggiore o miore determinazione e coraggio; insomma, l’anima

concupiscibile, quella razionale e quella animosa. Giusto è l’individuo in cui le tre parti dell’anima

non sono in lotta tra loro, ma danno luogo ad un ordine armonico, ma ciò è a sua volta possibile, nella

visione platonica, solo se tra gli elementi vige la giusta gerarchia: l’uomo giusto è quello che in cui

la parte razionale, sostenuta da quella animosa, domina sulla parte concupiscibile. Solo quest’ordine

consente all’individuo di attingere il suo vero bene, la sua felicità più autentica. Per comprendere

quale anima deve comandare, basta riflettere sui diversi tipi di piacere verso i quali ogni parte

dell’anima è indirizzata, e ragionare su quali sono quelli che assicurano la felicità più vera. La parte

razionale cerca il piacere di apprendere e di conoscere la verità; quella animosa va in cerca di fama e

di onori; quella concupiscibile è dedita ai diversi piaceri del corpo e del denaro, che consente di

acquistare tutti i mezzi di piacere. Ma quali sono i piaceri che danno maggiore felicità? Non vi è

dubbio che la parte dell’anima che deve governare sulle altre sia quella razionale, perché solo al

governo di essa l’uomo potrà conseguire la sua più compiuta felicità e autorealizzazione. Ma ciò che

è vero per il singolo individuo è vero anche per quella comunità più ampia che è lo stato. Le tre parti

dell’anima, come abbiamo visto, corrispondono a tre tipologie fondamentali di individui: quelli che

ricercano la saggezza, quelli che ambiscono agli onori e quelli che bramano il guadagno. La società

giusta e bene ordinata sarà quella che assicurerà l’appropriato equilibrio tra queste componenti.

La società umana nasce, per Platone, dal bisogno, dal fatto che l’uomo non è in grado di bastare a sé

stesso e per vivere instaura quindi rapporti di collaborazione e scambio con altri. Lo sviluppo sempre

più articolato di questi rapporti, genera una sempre più marcata divisione del lavoro che genera

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efficienza: ‘’le singole cose riescono meglio e con maggior facilità quando uno faccia una cosa sola,

secondo la propria naturale disposizione e a tempo opportuno, senza darsi pensiero delle altre’’.

A soddisfare le necessità materiali, provvederà la classe dei produttori e dei commercianti, formata

dagli uomini nei quali prevale il desiderio di guadagno. Con l’accrescersi della città e dei suoi bisogni,

questa entrerà in conflitto con le altre comunità e potrà prospettarsi la necessità della guerra; nasce

quindi la necessità di costituire una classe di guardiani i quali provvederanno a proteggere la città e,

tale classe, dovrà essere formata da quelli nel cui petto prevale l’elemento animoso: coraggio,

aggressività e ricerca di gloria. Superiore alla funzione di protezione della città, troviamo la funzione

di governo della città affidata a quei guardiani il senso più alto e perfetto che sono i governanti –

filosofi, cioè coloro nella cui anima prevale il momento razionale e che sono legittimati a governare

poiché possiedono la conoscenza del vero bene. Dunque, la città platonica bene ordinata è quella che

assicura ai diversi tipi di uomini la possibilità di vivere nel mondo in cui il loro temperamento li

indirizza, ma tenendoli entro quei limiti che fanno sì che essi contribuiscano, ciascuno a suo modo,

al bene della città.

In questo modo, gli amanti del denaro, gli uomini acquisitivi, potranno dedicarsi all’attività

economica, che però dovrà essere regolata in modo da non produrre differenze troppo rilevanti tra

ricchezza e povertà: perché se questo accadesse, non si avrebbe più una città, ma due polis, quella dei

ricchi e quella dei poveri, nel cui conflitti si distruggerebbe quel bene primario che è l’unità dello

stato. Gli uomini acquisitivi inoltre, non devono avere accesso al potere politico, perché questo non

può essere esercitato in modo giusto da chi ha come interesse primario quello di accrescere i suoi

possessi.

Proprio per questo motivo, la classe dei reggitori, deve essere tenuta rigorosamente lontana da tutto

ciò che implichi un privato interesse acquisitivo: in quanto custodi del bene pubblico, i custodi del

bene pubblico i governanti devono vivere in modo tale da non avere nemmeno la tentazione di

accrescere i loro beni privati. Essi non devono avere proprietà privata ma, come buoni amici, devono

avere tutto in comune, abitare e mangiare insieme. Non vi è discriminazione tra uomini e donne,

ovvero tutti i ruoli sono accessibili indistintamente. Le unioni vengono combinate attraverso un

complicato sistema di sorteggi, che, in realtà, per Platone, dovrà essere manipolato dai guardiani in

modo che gli accoppiamenti riescano al meglio. I figli saranno considerati tutti come figli della città

e allevati in comune.

Dopo aver tracciato nella Repubblica, il quadro della società bene ordinata, Platone si sofferma sulle

forme di governo degenerate che si discostano dall’ideale e che corrispondono a parti dell’anima che

invece dovrebbero essere sottoposte al governo dell’anima razionale. Le 4 forme di governo

degenerate (timocrazia, oligarchia, democrazia e tirannide) possono essere lette come un processo di

decadimento progressivo a partire dalla corruzione della costituzione ottima. Dapprima, col venire

meno nei governanti dell’egemonia della ragione, prevarrà la parte animosa, e il governo passerà

nelle mani degli individui caratterizzati ‘’dall’ambizione di affermarsi e di ricevere onori’’

(timocrazia); al desiderio degli onori si sostituirà successivamente quello più volgare delle ricchezze,

e si affermerà la costituzione oligarchica, dove la polis è scissa: da una parte i ricchi, dall’altra i poveri

‘’bramosi di una rivoluzione’’. Per Platone dunque, la democrazia si afferma, per un verso, nel

momento in cui prende il potere una certa classe, quella dei nullatenenti; per altro verso si traduce

nell’affermazione del dominio dei demagoghi, che si mostrano ben disposti verso il popolo e i suoi

desideri e, infine, nel rifiuto di qualsiasi obbedienza, che lascia spazio alla ‘’tracotanza, l’anarchia,

la sregolatezza e l’impudenza’’. Dall’insofferenza per l’anarchia si genera infine la tirannide.

Nel V libro della Repubblica Platone ribadisce la sua convinzione che l’istaurazione dello Stato

giusto è pensabile solo se i filosofi diventino governanti o se i governanti diventino filosofi. Ma sa

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bene quanto ciò sia improbabile, perché, se i filosofi sono quelli che aspirano a un modo di vita

diverso e superiore rispetto al governare, sarà difficile che essi conquistino il potere, e ancor più

difficile che vi siano chiamati da coloro che invece proprio al potere ambiscono. Perciò è necessario

affermare che non si può intendere il progetto della Repubblica come un progetto realisticamente

attuabile. L’ottimo stato, si legge nel libro IX della Repubblica, è uno stato che esiste solo a parole,

ciò che forse più importa è che esso mette in luce uno dei paradossi che sono costitutivi del politico:

uno stato ordinato al Bene sarebbe quello dove fossero al potere coloro che non desiderano, così come

non desiderano la ricchezza che dal potere consegue.

Sebbene il suo pensiero si collochi già nell’epoca del tramonto della polis, anche Aristotele la città

rimane il punto di riferimento privilegiato. Come per Platone, anche per Aristotele l’oggetto primario

della riflessione della politica è il Bene, sia il bene del singolo uomo che il bene della città, perché il

bene dell’individuo, si attua nel contesto della relazione con gli altri, e quindi, il bene il bene ‘’è

amabile anche nella dimensione dell’individuo singolo, ma è più bello e più divino quando concerne

un popolo o delle città’’.

Sebbene il pensiero aristotelico rimanga immutato rispetto alla comunità politica pensata in funzione

del conseguimento del bene degli individui e della comunità, mutano però, profondamente, rispetto a

Platone, le coordinate teoretiche dalle quali la ricerca sul bene per l’uomo viene guidata.

Cambia in primo luogo il modo di intendere lo statuto teorico del sapere pratico, etico e politico: ‘’le

cose moralmente belle e le cose giuste, intorno alle quali verte la politica, hanno molta diversità e

instabilità, a tal punto che si crede esistano soltanto per convenzione e non per natura’’. Proprio in

forza di questa diversità e instabilità, il bene pratico non può essere oggetto di un sapere assolutamente

rigoroso, di una visione epistemica come quella nella quale invece confidava Platone; al contrario,

bisognerà accontentarsi di una verità conosciuta ‘’in maniera approssimativa e a grandi linee’’; il

sapere pratico non potrà mai conseguire il rigore dimostrativo di quello matematico e do quello

teoretico.

Muta in secondo luogo la visione del bene; perché se è vero che, come è stato scritto, ‘’Aristotele non

abbandonò la credenza platonica secondo la quale la comunità platonica avrebbe dovuto mirare al

sommo bene’’, è altrettanto certo che egli sottopone a una critica molto bene argomentata e complessa

la teoria platonica secondo cui vi è un’unica idea di bene, di cui tutti i beni particolari partecipano.

Gli argomenti che Aristotele adduce contro la tesi platonica dell’unità del bene sono molteplici, ma

basterà ricordarne uno dei più importanti e, cioè che se vi fosse un bene unico, vi sarebbe anche una

sola scienza di esso, mentre invece sono molte e diverse le scienze che trattano di quello che, in un

determinato contesto è bene.

Nella complicata e molto discussa struttura della sua politica, Aristotele sviluppa in modo

paradigmatico la tesi del carattere naturale dello stato e, del carattere altrettanto naturale dei rapporti

di comando/obbedienza che fondano la stessa comunità umana. In principio non c’è l’individuo da

solo, ma subito la comunità che unisce da un lato maschio e femmina in vista della riproduzione,

dall’altro colui che, ha natura di capo con chi invece, dotato di una prevalente forza fisica e idoneo

alla fatica, è per natura subordinato o schiavo. La natura dell’uomo è di essere uno zoon politikon

che, partendo dalla più piccola cellula familiare, da vita a comunità via via più ampie, prima di

discendenza, poi di villaggio, e infine alla città dove puà finalmente attingere i beni della vita civile.

Il concetto aristotelico di natura, è un concetto intrinsecamente teologico: la natura di una cosa è il

fine cui tende. La natura non fa niente per caso e se l’uomo possiede la parola e il senso del bene e

del male, del giusto e dell’ingiusto, è perché questi possano essere sviluppati e attuati nella comunità

con i suoi simili. Come, sul piano metafisico, l’atto è anteriore alla potenza, così lo stato è anteriore

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all’individuo e alla famiglia. È evidente dunque che lo stato esiste per natura e che è anteriore a ciscun

individuo: difatti, se non è autosufficiente, ogni individuo separato sarà nella stessa condizione delle

altre parti rispetto al tutto, e quindi chi non è in grado di entrare nella comunità non è parte dello stato,

e di conseguenza è o bestia o dio, ma non certo uomo.

Non meno naturale è per Aristotele il rapporto di subordinazione, e quindi anche quello tra padrone

e schiavo: come nel singolo uomo, l’anima domina sul corpo e l’intelligenza sull’appetito, così gli

uomini più dotati di intelligenza e di capacità di comando dominano su quelli più dotati di forza fisica

e quindi atti a servire come schiavi, come veri e propri strumenti animati.

Anche le famiglie, di cui la comunità politica si compone, sono strutturate secondo questi rapporti di

gerarchia naturale; l’uomo libero, il signore e padrone, comanda ma in modi diversi allo schiavo, alla

femmina e al ragazzo: comanda allo schiavo perché questi non possiede in tutta la sua pienezza la

parte deliberativa dell’anima, alle donne perché essa la possiede senza autorità, al ragazzo perché la

possiede ma non sviluppata (soggetto sottointeso ‘’parte deliberativa dell’anima’’). La base

economica della famiglia è data dalla proprietà e la ricchezza può essere acquistata, accresciuta e

scambiata. Aristotele accetta lo scambio di beni per soddisfare le necessità della vita, ma condanna

come innaturale lo scambio di beni contro denaro finalizzato all’accrescimento illimitato della

ricchezza.

L’ultimo dei difetti della Repubblica di Platone che Aristotele evidenza è quello di aver sacrificato,

in nome dell’unità dello stato, il ruolo della famiglia e della proprietà. Aristotele muove diverse

obiezioni al sistema della proprietà comune: innanzitutto il sistema della comunanza sembra destinato

a generare contrasti tra chi, lavorando poco, ottiene poco, e chi, lavorando poco ottiene molto.

Aristotele, a proposito della proprietà privata dice: chi deve occuparsi personalmente di ciò che è suo,

sicuramente ne avrà maggior cura di quanta ne avrebbe per beni comuni inoltre, l’essere proprietari

di qualcosa è una grande sorgente di felicità, che si collega con il naturale amore pe se stessi. Questo

amore di sé non è un male e non deve essere condannato, a meno che non trapassi in egoismo, e cioè

in un amore eccessivo. Altrettanto può dirsi il denaro: non c’è niente di male nel normale desiderio

di ricchezza, purché non sia eccessivo e smodato. Solo la proprietà, inoltre, consente il godimento

che viene dal lasciare agli amici l’suo dei propri beni, cioè in altre parole consente di coltivare quella

pregevole virtù che è la liberalità. Aristotele conclude quindi che la proprietà privata è preferibile alla

proprietà comune, ma che il sistema migliore è quello dove alla proprietà privata si accompagna anche

un uso largamente comune dei beni privatamente posseduti. È questa la soluzione più equilibrata, che

compenetra il naturale amore di sé con la felicità che deriva dalla generosità, la cura ci ciò che è

proprio con la liberale disponibilità nei confronti degli altri. Il difetto fondamentale della Repubblica

platonica, infatti, è quello di aver esagerato troppo l’unità dello stato, e di aver pensato che la

negazione della proprietà privata producesse la fine delle divisioni tra gli uomini. Le cause di

divisione però, per Aristotele, non nascono solo dalla proprietà, e dalle liti e contese ad esse legate,

ma dalla malvagità degli uomini che, se avessero tutto in comune, disputerebbero tra loro in maniera

ancor più violenta.

Nel IX del Libro III, Aristotele spiega che lo stato non ha per fine quello di facilitare l’attività

economica o garantire la sicurezza. Tutto questo è certamente necessario, ma il fine dello stato

dev’essere collocato più in alto: ‘’lo stato comunanza di famiglie e di stirpi nel vivere bene: il suo

oggetto è un’esistenza pienamente realizzata e indipendente’’; è “il vivere in modo felice e bello”.

Per quanto riguarda la migliore costituzione, Aristotele elabora una tipologia che prevede sei forme

di costituzione: tre tipi di costituzioni giuste (monarchia, aristocrazia e politeia) e tre tipi di

costituzioni degenerate (tirannia, oligarchia e democrazia). Le costituzioni giuste o rette sono quelle

dove il potere di governo viene esercitato per il bene di tutti, in vista di un interesse comune a

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governanti e governati: mentre sono degeneri quelle costituzioni dove i governanti governano solo

per assicurare l’interesse proprio, e non quello die governati. All’interno di queste due grandi

categorie, le forme di governo si distinguono poi a seconda che, a esercitare il potere, siano uno, pochi

o molti. Ma quale sarà il governo migliore, quello di uno, di pochi o di molti? Aristotele presenta

numerose argomentazioni a favore della superiorità del governo dei molti: in primo luogo, anche se

nessuno eccelle per virtù e saggezza, essi nel loro insieme, attraverso il confronto, raggiungeranno

una saggezza che è superiore a quella di ogni singolo isolatamente preso; in secondo luogo, proprio

perché i molti sono tanti di numero, escluderli dal governo dello stato potrebbe essere pericoloso per

la stabilità della costituzione; in terzo luogo, anche se i molti non possiedono l’arte del governo, ciò

non vuol dire che essi non abbiano titolo per giudicare chi governa. Qui Aristotele, propone uno dei

più forti argomenti a favore della democrazia: ‘’ è vero che coloro che partecipano a un banchetto

non possiedono l’arte culinaria come la possiede il cuoco; ma, rispetto al cuoco stesso, essi sono

migliori giudici del risultato che egli ha prodotto e che, dopotutto, a loro deve piacere. La casa deve

andare bene a coloro che ci abitano, non all’architetto che l’ha costruita’’. Infine, è vero che gli

esponenti della moltitudine singolarmente presi non sono particolarmente saggi, e quindi

sembrerebbe sbagliato affidare loro il governo, ma chi governa in questo caso non è mai un singolo,

ma un’assemblea, un gruppo, un comitato (che quindi mette insieme la saggezza di più persone); e

poi, il governo non è propriamente delle persone ma, delle leggi.

Certo, continua Aristotele, se in una città vi fosse un uomo indiscutibilmente superiore agli altri per

saggezza e per virtù, allora sarebbe più saggio affidare a lui il governo e la migliore costituzione

sarebbe la monarchia. Ma poiché questo non è che un caso limite, sarà più appropriato affidarsi al

governo di alcuni o di molti.

Restano dunque l’aristocrazia e la politeia (il cui nome significa costituzione). Ed è proprio

quest’ultima, a essere quella cui Aristotele attribuisce il maggior valore. La politeia è la forma retta

della democrazia; e cioè quella costituzione che, essendo sempre una forma di governo dei molti, non

ha però non ha quelli che sono i difetti della democrazia: e cioè che in essa il numero prevale sul

merito e che si afferma una concezione della libertà per cui ognuno è padrone di fare ciò che più gli

aggrada. La politeia, sebbene sia la forma retta della democrazia, si trova a metà tra il governo dei

molti e il governo di pochi, per esempio: se la democrazia non pone alcun requisito per la

partecipazione alle assemblee, e l’oligarchia lo esige elevato, la politeia porrà dei requisiti di censo,

ma tali che consentano una larga partecipazione del ceto medio. Per quanto riguarda poi le cariche

pubbliche, la democrazia le assegna a sorte e indipendentemente dal censo, l’aristocrazia solo ai ricchi

e per elezione; la politeia accoglie dalla democrazia il principio dell’indipendenza dal censo, e

dall’aristocrazia quello dell’elezione: le cariche sono aperte anche ai non ricchi, ma attraverso un

meccanismo elettivo, che garantisca quell’elemento del merito che invece la forma degenerata e

plebea della democrazia sacrifica. Il pregio della politeia comunque sta per Aristotele, nel fatto che

in essa non governano né i ricchi né i nullatenenti, ma il ceto medio: lo stato migliore è quello dove

tutti i cittadini possiedono sostanze sufficienti ed è anche il più stabile, perché grandi ricchezze e

grandi povertà suscitano i rivolgimenti che portano in ultima istanza alla tirannide.

Al fine del raggiungimento della felicità, è necessario che l’uomo possa disporre dei tre tipi

fondamentali di beni: i beni esteriori, quelli del corpo e quelli dell’anima. Tuttavia, mentre i primi

due tipi di beni debbono essere ricercati senza eccesso, e solo nella misura in cui sono necessari, i

beni dell’anima non hanno limiti e sono quelli che meglio assicurano il conseguimento della felicità.

La felicità per l’uomo consiste essenzialmente, per Aristotele, nell’esercizio delle virtù, sia delle virtù

dianoetiche, che si esplicano nella vita teoretica, sia delle virtù etiche (giustizia, coraggio, temperanza

e amicizia), che si attuano nella vita pratica. Aristotele giunge alla conclusione che la vita felice è

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quella in cui l’esercizio della virtù si esplica in entrambe le direzioni, sia attraverso la vita politica e

pratica, sia quella puramente teorica, e che la città migliore è quella che consente appunto ai cittadini

di estrinsecare in tutte le possibili forme la loro attività secondo virtù. Il fine della polis, è vivere bene

attraverso le varie attività che a questo scopo sono finalizzate; e perciò la polis deve possedere certi

requisiti, come per esempio le giuste dimensioni: affinché i cittadini possano partecipare alla vita

politica, eleggere con consapevolezza e amministrare imparzialmente la giustizia, la polis non deve

essere così grande che essi non possano conoscersi tra loro. Della vita politica sono esclusi coloro i

quali non sono idonei ad esercitare l’attività politica come le donne, gli schiavi, i lavoratori manuali,

i contadini e i mercanti.

Quando Aristotele ancora tesseva l’elogio della polis, questa forma politica era già entrata nella fase

della sua decadenza. Con l’Impero di Alessandro Magno e con le grandi monarchie che a esso faranno

seguito, si affermano nuove forme politiche che, alla limitata comunità della polis, sostituiscono un

orizzonte politico molto più universalistico, e all’interno del quale diventa impensabile quella

partecipazione diretta del cittadino, in cui Aristotele aveva visto la pienezza della vita politica. Ad

eempio, mentre il saggio epicureo inizia a coltivare l’ideale di vivere nascosto e non prende parte alla

vita politica, quello stoico, offre la prospettiva della cosmopolis, ovvero una grande repubblica in cui

popoli diversi possano vivere in pace rispettandosi l’uno l’altro, perché si sottopongono tutti all’unica

e universale legge della ragione. Il saggio stoico è dunque, a differenza di quello epicureo, non si

ritrae dalla politica, ma anzi partecipa alla vita pubblica; l’orizzonte ideale della cosmopolis non gli

impedisce di offrire il suo servizio alla patria.

Inoltre, un apporto importante allo sviluppo del pensiero politico occidentale, è stato dato da

Cicerone, il quale conferisce centralità al concetto di diritto. Per Cicerone vi è una legge di natura o

legge di ragione, che è eterna e immutabile e vale per tutti gli uomini. Essa incarna la giustizia ed è

superiore a tutte le leggi umane positive. La res pubblica, ovvero la comunità politica, è un0unione

tra uomini che si associano per la loro utilità comune vincolandosi sotto una certa legge cui danno il

loro consenso. La comunità è vista come una società di uomini che è tenuta insieme dal vincolo del

diritto; è solo grazie al diritto che si realizza l’uscita dalla barbarie primordiale e l’accesso alla

comunità civile. Il compito del magistrato, ossia di chi detiene il potere di governo, è quello di mettere

in opera il diritto: egli è la legge che parla, ed è nella legge che vive la res pubblica. Si afferma in tal

modo una nuova concezione che pensa lo stato e la politica a partire dalla centralità delle categorie

giuridiche, e che sarà determinante per tutto lo sviluppo del pensiero politico fino alla modernità

contrattualista.

Capitolo 3: La città dell’uomo e la città di Dio

Il carattere rivoluzionario del messaggio cristiano consiste nella trasvalutazione (cambiamento di

stima del sistema dei valori) dell’eguaglianza di tutti gli uomini come creature aventi valori infiniti

perché create da Dio. Come conseguenza, decadono le distinzioni sociali (padroni e schiavi). Ne

Lettera ai Galati, S. Paolo dice: tutti siamo una persona in Gesù Cristo. I valori della società vengono

ribaltati dal cristianesimo: al posto della forza e della potenza si predica la carità e la fratellanza, al

posto della ricchezza la povertà. Ci si volge con misericordia verso i poveri, gli umili, i peccatori.

Malgrado ciò, la rivoluzione cristiana non è pensata come una rivoluzione politica, e non vuole

esserlo. Infatti, non esorta i servi alla ribellione, ma all’obbedienza, e ai padroni consiglia di

comandare nel modo giusto. Ciò ci fa capire che i cristiani non aspirano a fondare un nuovo regno, e

questo perché Cristo insegna che il suo regno non è in questo mondo. Detto questo però, sappiamo

che una predicazione così radicale non poteva non minare le basi degli ordinamenti politici del tempo.

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Esempio: il detto “dare a Cesare quel che è di Cesare” significava rispetto per l’imperatore, ma anche

che non deve essergli dato più di quanto gli spetta. Inoltre, la fedeltà è anche a Dio, anzi, è prima a

Dio e poi a Cesare. La rottura con il concetto di polis è ormai netta: col Cristianesimo è posta la

distinzione fra ciò che è dovuto allo stato e ciò che invece non gli appartiene, come la dimensione

spirituale dell’individuo. È importante ricordare che il Cristianesimo fu perseguitato finché

Costantino non si convertì. Bisogna concentrarsi sulla legittimità del potere politico nel cristianesimo.

Vediamo la posizione di Paolo ne La lettera ai Romani nella quale afferma che i cristiani devono

obbedienza all’autorità politica perché questa autorità proviene da Dio, e quindi opporsi a questa

equivale mettersi contro un ordine legittimato da Dio. L’obbedienza che i cristiani devono al potere

pubblico non può essere motivata sola dal timore della punizione, ma è anche un obbligo di coscienza.

Dopo la conversione di Costantino, quando il cristianesimo acquista piena cittadinanza nell’impero,

i problemi politici e dottrinali diventano molto più complessi (es: potere spirituale e temporale devono

coesistere). Quello che veramente importa nella storia dell’uomo non è la grandezza degli imperi, ma

la lotta fra la civitas Dei e la civitas terrena. Le due città si identificano rispettivamente con la Chiesa

e con lo Stato, ma designano due opposti modi di vivere: la città terrena è un’unione che nasce per

soddisfare il desiderio di gloria, l’ambizione; è governata dall’amore di sé, spinto fino all’indifferenza

nei confronti di Dio. Invece, la città celeste è governata dalla legge dell’amore, dell’umiltà, del

sacrificio del sé. Il dualismo fra le città terminerà solo nella fine escatologica (relativo alla parte della

teologia riguardante il destino ultimo dell'uomo e dell'universo), quando si instaurerà la città di Dio

e con essa la perfetta concordia. A partire da questo orizzonte, Agostino pensa i rapporti fra la Chiesa

e lo stato cristiano, cioè quello stato che processa la vera fede. Ognuno dei due poteri ha la sua sfera

autonoma di azione:

• Lo Stato si occupa dell’uomo nella sua dimensione naturale

• La Chiesa cura gli interessi spirituali

La sfera spirituale è considerata superiore perché la sua giurisdizione non è limitata nello spazio e nel

tempo, la Chiesa è al di sopra del tempo, infatti, si situa nella prospettiva escatologica della città

celeste.

Tutta la storia del Medioevo è attraversata dal rapporto fra il sacro potere del pontefice e quello

politico del re e degli imperatori. Le loro funzioni sono diverse, e per questo devono rimanere poteri

distinti, ma il vero problema è se si debbano considerare entrambi come derivanti direttamente da

Dio, e quindi posti su un piano di cooperazione malgrado ognuno rimanga nella sua sfera di

competenza, o se, partendo dal fatto che il potere della Chiesa si colloca spiritualmente su un piano

più alto, si debba porre una supremazia del pontefice e far discendere da lui anche la legittimazione

del potere politico. La dottrina del primato del potere papale su quello secolare verrà sostenuta dalla

Chiesa con sempre maggiore energia nei secoli che seguono la morte di Agostino. Si parlerà di

“agostinismo politico”, anche se tale visione si allontana dalle originarie tesi agostiniane, e troverà in

papa Gregorio Magno (fine VI secolo) uno dei suoi primi sostenitori. Nell’800, con l’incoronazione

di Carlo Magno a Roma da parte di Leone III, si instaura una sorta di alleanza fra Chiesa e imperatori,

mentre, con il successivo regno di Ottone I di Germania, il potere imperiale accrescerà, tanto che

Ottone II pretenderà di esercitare il proprio controllo anche sul papato, scegliendo lui stesso i vescovi-

conti. La Chiesa e il potere papale riacquisteranno autonomia da Papa Gregorio VII nel 1073:

l’imperatore cercò di depositare papa Gregorio, ma egli rispose scomunicando l’imperatore,

umiliandolo. L’imperatore infatti dovette implorare il perdono dal pontefice. In modo ancora più

netto, la superiorità del potere papale sarà riaffermata da Innocenzo VI contro Federico II, con la cui

sconfitta crollerà il sogno degli imperatori tedeschi di restaurare la monarchia universale.

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Alla metà del XIII secolo, con la diffusione delle traduzioni delle opere di Aristotele, il pensiero

cristiano dà luogo ad un grande rinnovamento, segnato dalla figura di Tommaso d’Aquino. Mentre

in Agostino la riflessione sulla politica partiva da un’antropologia pessimistica (tutti gli uomini sono

peccatori), Tommaso, anche in seguito alla ricezione del pensiero politico di Aristotele, introduce il

concetto di legge naturale: essa prescrive tutto ciò che giova a conservare la vita dell’uomo, mentre

proibisce ciò che va contro questo fine. Gli uomini però devono essere educati alla disciplina della

virtù, di modo che le passioni e le cattive abitudini non li condizionino. La funzione delle leggi umane

è assicurare che tra gli uomini regni la pace, che siano bandite le ingiustizie reciproche, grazie al

timore del castigo che queste stesse leggi minacciano ai trasgressori. Le leggi umane hanno il loro

fondamento nella legge di natura, che non devono mai contraddire. Si attua un’importante distinzione:

• Diritto naturale: quello che deriva dalla natura stessa delle cose;

• Diritto positivo: deriva o da un accordo privato, o da un patto pubblico, o da ciò che è stabilito

dal principe.

Seguendo l’impianto della politica di Aristotele, Tommaso considera il vivere in società come

conforme alla natura dell’uomo (zoon politikon): l’uomo fa parte della famiglia, la famiglia della città,

e il bene del singolo non è fine ultimo. Il bene è quello comune. Il potere politico, quello che si esercita

sugli uomini liberi (no su servi o schiavi) è una necessità per la convivenza umana, che non dipende

dal fatto che la natura umana sia stata corrotta dal peccato originale. Tommaso sostiene che anche

nello stato di innocenza servirebbe il potere politico. È importante ricordare che il bene comune non

è in conflitto con quello del singolo. Vediamo la distinzione di Tommaso dei vari tipi di ingiustizia:

• Se il comando del principe si scontra con quello di Dio, gli uomini non sono tenuti a obbedire. Il

comando di Dio è superiore;

• Caso delle leggi inique: esse attentano al bene comune, ma possono essere ingiuste in vari sensi:

o perché mirano solo a soddisfare il bene del principe, o perché escono da limiti di competenza

di chi le emana, o perché impongono ai sudditi oneri in modo iniquo. Queste leggi, poiché

ingiuste, possono anche non essere seguite, però, Tommaso scrive che, per evitare scandali, può

essere consigliabile rispettarle comunque. Esempio: il governo tirannico è legge iniqua. Secondo

Tommaso, che in generale condanna la ribellione come peccato, non considera la resistenza al

despota come tale, a meno che, non sfoci in mali peggiori di quelli che i cittadini subivano sotto

il potere tirannico. Infatti, secondo Tommaso non è lecito uccidere il tiranno.

Per quanto riguarda la migliore forma di governo, anche qui Tommaso segue la Politica di Aristotele.

Nella Summa Teologica, Tommaso sostiene che la forma migliore di regime politico sia una forma

“mista” che riassuma in sé i vantaggi delle tre forme pure di governo: il potere di comando deve

essere detenuto da un’autorità unica, che però è affiancata da un ampio corpo di cittadini qualificati,

scelti dal popolo stesso. Per quanto riguarda il rapporto tra potere politico e potere religioso,

Tommaso ribadisce che il potere spirituale del pontefice sia superiore a quello secolare; quest’ultimo

però è soggetto alle intromissioni del primo solo in ciò che tocca il fine della beatitudine eterna (e

non la felicità terrestre).

Nel 1517 Lutero affigge sulla porta del castello di Wittenberg 95 tesi contro il commercio delle

indulgenze e, tre anni dopo, brucia la bolla di scomunica che era stata emessa contro di lui da papa

Leone X. La riforma distrugge la struttura gerarchica della Chiesa: per Lutero, infatti, non c’è più uno

specifico ruolo del sacerdozio come intermediario tra dio e i fedeli: egli sostiene la dottrina del

sacerdozio universale dei credenti, e riduce il numero dei sacramenti riconoscendone solamente tre

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(eucaristia, battesimo e penitenza). Afferma il principio del libero esame, per cui ogni credente può

rapportarsi direttamente al testo sacro e interpretarlo, senza la mediazione dell’autorità ecclesiastica.

A questo fine traduce la Bibbia in tedesco e ne sollecita la diffusione fra i credenti. Alla negazione

dell’autorità ecclesiastica gerarchicamente strutturata però, corrisponde in Lutero un’altrettanta forte

insistenza sul dovere dell’obbedienza alle autorità politiche vigenti, che lo porterà ad appoggiare la

repressione da parte dei principi tedeschi della rivolta dei contadini. Vediamo dunque che Lutero

radicalizza la tesi agostiniana delle due città, e sostiene che il regno di Dio sia regno di grazia e di

misericordia che l’uomo non può guadagnarsi con le opere. Egli crede nella predestinazione: la grazia

è un puro e gratuito dono divino. Invece, il regno terreno è irrimediabilmente segnato dal disordine

della natura umana. Per Lutero non vi è mediazione fra i due regni, e quello terreno, spogliato di ogni

intrinseco valore e positività, si oppone polarmente a quello della grazia e della misericordia. Si nota

come tale scissione consegni il mondo dell’uomo a una pura malvagità e immanenza, priva di una

regola finalistica, che pone alcuni dei presupposti culturali per la modernità politica come sarà pensata

a partire da Hobbes, nel suo orizzonte di pessimismo antropologico e radicale individualismo.

Capitolo 4: Il paradigma del contratto

Modello classico: pensa l’ordine politico come finalizzato al vivere bene nella comunità. Modello

contrattualista: nasce con Hobbes, e continua fino a Kant, salvo poi riproporsi, in una nuova

declinazione, nel tardo XX secolo. L’interesse si focalizza sulla problematica della legittimità

dell’ordine statale, ovvero del carattere vincolante dell’obbligo politico che a esso ci lega. Perciò, il

modello contrattualista è un metodo per dare una risposta razionale alla domanda: come deve essere

organizzato uno stato legittimo in cui tutti i cittadini sono tenuti a dare il loro assenso? Se si risponde

a partire dallo schema del contratto, diremo: l’ordine politico legittimo è quello che deciderebbero di

darsi individui che non vivessero già in uno stato costituito, ma si trovassero invece a vivere in una

condizione prepolitica e prestatale (stato di natura), privi di rapporti di subordinazione reciproca

quindi in una condizione di sostanziale libertà ed eguaglianza. Il valore rivoluzionario del pensiero

contrattualista sta nel definire l’ordine politico legittimo come quello che meriterebbe in consenso

razionale da parte di individui liberi ed eguali che si trovassero a scegliere come organizzare la loro

convivenza a partire dallo stato di natura. L’idea contrattualistica non esprime una verità storica. Gli

argomenti contrattualisti, nelle loro differenti visioni, mostreranno innanzitutto che:

• Se gli individui si trovassero a vivere in una condizione prepolitica, essi sceglierebbero di dare

vita allo stato;

• Il pensiero contrattualista, partendo da un’ipotetica situazione iniziale di scelta, ci mostra quali

situazioni gli individui si sarebbero dati;

Tra il 1618 e il 1648 la guerra dei trent’anni insanguinò l’Europa. Anche l’Inghilterra fu teatro di

feroci lotte sociali, politiche e religiose; in particolare, lo scontro fra aristocrazia e borghesia nascente

condusse il Paese ad una lunga guerra civile tra i sostenitori della monarchia assoluta e i difensori

delle prerogative del parlamento. La guerra iniziata nel 1642 portò, sette anni più tardi, alla

decapitazione di Carlo I Stuart e alla nascita della Repubblica. I liberal-costituzionali però videro

Oliver Cromwell, loro principale sostenitore, abbandonare la nuova politica per instaurare un regime

autocratico. Con la morte di Cromwell si ebbe la restaurazione della monarchia con Carlo II Stuart

nel 1660 che, dopo qualche anno, regnò senza più convocare il parlamento.

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Thomas Hobbes nacque a Maimesbury il 5 aprile 1588. Tra il 1610 e il 1637 compì viaggi in Francia

e in Italia per approfondire la propria cultura. Nel 1640 scrisse Elementi di legge naturale e politica.

Tra il 1640 e il 1652, durante la guerra civile, visse a Parigi e nel 1642 pubblicò il De Cive e, nel

1651, il Leviatano. Scrisse altre opere, la più importante e nota di quegli anni considerati “della

vecchiaia” è il Behemot del 1668. Morì il 4 dicembre del 1679 a 91 anni.

La rivoluzione di Hobbes è innanzitutto quella di smentire la premessa dalla quale Aristotele partì per

giustificare la sua concezione politica, ovvero il fatto che, per natura, alcuni uomini sono più saggi di

altri, e quindi che alcuni uomini sono predestinati al comando e altri all’obbedienza. Le due tesi

principali di Hobbes sono:

• Tesi della naturale eguaglianza degli uomini;

• Tesi della naturale conflittualità degli uomini;

Ciò porta il filosofo a pensare gli uomini eguali nel senso che anche le diseguaglianze che pur

sussistono (forza fisica, facoltà mentali) non alterano questa fondamentale parità, e quindi non

potrebbero mai giustificare la naturale sottomissione degli uni agli altri. Hobbes si chiede: perché gli

uomini entrano in conflitto? Ecco le due ragioni principali:

• Per diffidenza: nessuno ha la certezza di non venir aggredito e ucciso da altri, perciò ciascuno

dovrebbe a sua volta aggredire e uccidere per evitare quella stessa fine;

• Per quella passione che il filosofo chiama “gloria”: gli uomini provano soddisfazione a compararsi

con gli altri e nel veder affermata la loro superiorità; ma se ognuno vuol essere superiore, il

confronto non potrà che trasformarsi in conflitto.

A questo Hobbes aggiunge la teoria della necessità del conflitto dello stato di natura: se si ammette

che ogni uomo ha per natura diritto ad auto-conservarsi, e a usare tutti i mezzi atti a tale scopo, allora

ne consegue che ognuno è il solo giudice di ciò che è necessario alla propria conservazione. Questo

porta a considerare che, finché non vi è una legge comune, ognuno ha diritto a tutto. Il fatto che “tutti

hanno diritto a tutto” porta gli individui al conflitto, a vivere in uno stato di guerra. Bisogna però

notare che la radice più profonda di tale clima conflittuale sta proprio nell’eguaglianza fra gli uomini:

poiché gli uomini sono eguali, nessuno accetterà “naturalmente” di sottomettersi all’altro. Lo Stato

di natura è uguale allo stato di guerra di tutti contro tutti. Diremo allora che lo stato prepolitico di

natura è uno stato di pericolo, di insicurezza e di morte da cui gli individui non possono che desiderare

di uscire. Ogni uomo, per prima cosa, desidera conservarsi in vita, ed è questa la ragione che muove

l’uomo alla ricerca del conseguimento della pace. Vediamo ora se le leggi di natura, ovvero quelle

regole di condotta che, secondo Hobbes, se fossero seguite da tutti gli uomini, assicurerebbero loro

una convivenza pacifica. La legge di natura è una regola scoperta dalla ragione, ha carattere generale,

e vieta ad un uomo di fare ciò che lede alla sua vita. Tutti quei comportamenti che costituirebbero un

torto nei confronti della vita degli altri sono da evitare. Inoltre, per Hobbes, i comportamenti “giusti”

corrispondono a quelli che per gli uomini sono più convenienti. Le leggi di natura sono i precetti di

una morale razionale della reciprocità che, se fosse seguita da tutti gli uomini, consentirebbe loro di

vivere bene e in pace. Il problema è che, finché manca un potere comune, le leggi di natura non sono

realmente vincolanti, perché, nello stato di natura, non c’è garanzia del fatto che gli altri non

uccideranno. Per uscire da questa situazione, gli uomini devono stringere tra di loro un patto di forza

nel quale ognuno di loro rinuncia, a condizione che gli altri facciano altrettanto, a tutti i diritti che

aveva nello stato di natura e li trasferisce a un sovrano, sotto il quale tutti i torti saranno puniti, e si

potrà vivere sicuri. Fatto ciò la moltitudine così unita in una sola persona viene chiamata civitas.

Attraverso il patto:

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• Gli uomini istituiscono un potere sovrano;

• La legge naturale viene sostituita dalla legge civile o positiva, cioè da quella che il sovrano riterrà

giusto emanare;

• Il potere che gli uomini hanno ceduto ad uno solo è assoluto, in quanto non è soggetto a limiti.

Esso infatti non è limitato né dal patto grazie al quale è nato (il patto è stipulato fra individui, non

fra individui e sovrano), né dalle leggi positive. Ciò significa che il sovrano è legibus solutus,

sopra la legge. Infine, il potere sovrano non può essere limitato da un altro potere, perché, se così

fosse, ci sarebbe un potere superiore al sovrano stesso.

Tali condizioni però non implicano che i sudditi non godano della giusta libertà. Per Hobbes “libertà”

significa mancanza di impedimenti (egli è infatti un teorico della libertà negativa). Perciò, la libertà

dei sudditi si esplica in tutti quelle azioni che il sovrano omette di regolare. È chiaro che il sovrano

non può commettere abusi, salvo il suo personale rapporto con le leggi naturali e divine, ma, sostiene

il filosofo, anche la più dura sovranità assoluta è preferibile alla condizione misera e incerta dello

stato di natura. Malgrado questo Hobbes afferma che, se il sovrano non garantisse più pace e

sicurezza, i sudditi non sarebbero più in alcun modo tenuti all’obbedienza. Vediamo ora i problemi

rimasti aperti nella teoria hobbesiana, affrontati in un’ampia discussione che si è sviluppata

soprattutto a partire dalla seconda metà del Novecento:

• La prima grande questione è l’interpretazione hobbesiana dello stato di natura: Rousseau

rimprovererà Hobbes di avere illegittimamente proiettato, nello stato di natura prepolitico, quelle

istanze conflittuali e quella brama di autoaffermazione e di superiorità che sono sostanzialmente

estranee all’uomo naturale e che invece caratterizzano il clima di uomo

• La seconda questione sono le modalità dall’uscita dello stato di natura e le motivazioni, di tipo

egoistico-utilitario, su cui essa si fonda: se gli uomini hobbesiani sono calcolatori razionali, perché

è necessario lo strumento del patto per assicurarsi l’autoconservazione? Non esistono strumenti

diversi?

• La terza questione è rappresentata dal fatto che Hobbes pensa il rispetto all’obbligo politico come

se fosse basato su motivazioni utilitarie, e cioè sul timore del Leviatano (forza pubblica). È

Howard Warrender, uno dei più grandi interpreti novecenteschi di Hobbes, che si domanda: se i

cittadini obbediscono per timore della forza pubblica, su cosa di baserà la loro fedeltà? Ciò ci

porta a dire che, per quanto riguarda la nascita del corpo politico, sia per quanto concerne il suo

mantenimento, la pura razionalità strategica non sembra essere sufficiente

Il punto numero tre ci porta a considerare nuove interpretazioni, che parlano di un fondamento di

moralità nella genesi e nel mantenimento del corpo politico, e quindi si rapportano più intensamente

con le leggi naturali. In questa prospettiva, l’uscita dallo stato di natura conflittuale può essere pensata

non più come dettata da ragioni utilitarie, ma da una più complessa struttura morale: gli uomini,

proprio attraverso l’esperienza dura e catastrofica del conflitto, arrivano a riconoscersi come eguali

e, da tale consapevolezza, muovono per instaurare il contratto.

La quarta ed ultima questione riguarda il carattere assoluto del potere sovrano che con il patto si

verrebbe a istituire: Rousseau si chiederà: consegnarsi a un sovrano rinunciando ai propri diritti

significa davvero garantirsi la sicurezza, o non vuol dire passare da un’insicurezza ad un’altra? A tale

problema si connette quello della natura del potere sovrano, cioè se debba trattarsi di un potere

sovrano monarchico/aristocratico/democratico. Le preferenze di Hobbes sono tutte a favore del potere

monarchico, però, tale scelta non sembra inserirsi in modo coerente nella prospettiva contrattualista:

se gli individui devono spogliarsi del proprio potere su di sé, perché dovrebbero cederlo a un

individuo particolare, e non (come sosterranno Spinoza e Rousseau) alla collettività democratica di

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tutti i cittadini? Questa difficoltà era avvertita dallo stesso Hobbes che, negli Elements aveva

sostenuto, a differenza di quanto poi dirà nel Leviatano, che la democrazia precede tutte le altre

istituzioni di governo. A motivare il cambio di scelta di Hobbes nei confronti della democrazia sono:

da un lato la terribile attualità della guerra civile, e dall’altro la consapevolezza della forza dirompente

delle passioni.

Lo stato di natura secondo Spinoza: in esso il diritto e la potenza coincidono, e il diritto di ognuno si

estende proprio fin dove arriva la sua potenza. Non ci sono leggi vincolanti per tutti, ed è per questo

che nella situazione prepolitica dello stato di natura ciascun individuo ha pieno diritto a tutto ciò che

è in suo potere. Le conseguenze sono che:

• Nello stato di natura non esiste il peccato, non c’è né bene né male, neppure il giusto e l’ingiusto,

ciò significa che lo stato di natura spinoziano non dà luogo ad alcun giudizio morale. Bene e male

esistono solo quando vengono stabiliti da leggi civili che esprimono una volontà comune;

• Come sostiene Hobbes, anche Spinoza afferma che non è piacevole rimanere nello stato di natura,

perciò gli uomini devono rinunciare al diritto su tutto per cederlo alla collettività, stringendo con

tutti gli altri un patto sociale. In tal modo nasce lo stato: da questo momento in poi l’autorità

statale ha il diritto di imporre leggi e punire.

Come deve essere organizzato lo Stato? Egli sostiene la democrazia, poiché è quella forma di governo

che maggiormente rispetta la libertà che la natura ha concesso a ognuno: con essa infatti nessuno

trasferisce ad altri il proprio naturale diritto in modo così definitivo da non poter essere più consultato

ma lo deferisce alla maggior parte della società di cui è membro.

Un’altra differenza sostanziale tra Hobbes e Spinoza sta nel patto: per Spinoza esso non è irrevocabile.

Gli uomini che lo hanno sottoscritto, lo hanno fatto per il loro utile, ma se la società non attua quella

“utilità comune” che è la vera ragione del patto, esso non ha più motivo di esistere, e dunque può

essere annullato e distrutto. Inoltre, l’autorità sovrana intesa da Spinoza non ha potere assoluto sui

sudditi; ciò significa che la rinuncia ai diritti naturali non è totale. Rinunciare a tutti i diritti naturali

equivale, per Spinoza, a rinunciare di essere uomo. Esistono diritti inalienabili, come quello della

libertà di pensiero, parola e insegnamento (salvo che non costituiscano un pericolo per l’esistenza

dello stato). Ogni cittadino ha diritto al libero esercizio della sua ragione, anche se, se ne serve per

criticare i decreti dello stato; ciò che allo stato deve interessare è il comportamento del cittadino, non

le sue idee.

John Locke è considerato il fondatore del contrattualismo liberale, a causa del ruolo centrale che

svolgono nel suo pensiero i temi:

• Dei diritti naturali;

• Dei limiti che i diritti naturali impongono allo Stato;

• Il concetto di proprietà: carattere sacro e inviolabile;

Il potere politico è definito: come il diritto di formulare leggi che contemplino la pena di morte e, di

conseguenza, tutte le pene minori, in vista di una regolamentazione e conservazione della proprietà;

di usare la forza della comunità per rendere esecutive tali leggi e per difendere lo Stato da attacchi

esterni. Per Locke, gli uomini si assoggettano ad un governo per salvaguardare la loro proprietà

(mentre per Hobbes la proprietà privata è una conseguenza del patto, prima non esiste. Per Grozio e

Pufendorf essa esiste anche prima del patto, ma solo se vi è un tacito consenso di tutti gli individui).

Anche per Locke, come per Hobbes, gli uomini sono per natura eguali, e il potere monarchico non

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deriva né da quello divino né da quello paterno. Vediamo lo stato di natura del pensiero lockiano: è

come quello di Hobbes, infatti la legge di natura è quella regola il cui rispetto assicura la pace. La

differenza è che per Locke essa è per tutti vincolante. Però, il problema sul quale egli si concentra è

come funziona concretamente la punizione di chi non rispetta la legge di natura, ovvero il problema

dell’amministrazione della giustizia. Mentre Hobbes distingueva fra stato di natura e stato di guerra,

spiegando che quello di natura è uno stato di pericolo che può degenerare in guerra, come può

accadere anche allo stato civile; Locke sostiene che lo stato di natura è pacifico, infatti avviene quando

gli uomini vivono insieme secondo ragione senza un sovrano comune, ma col potere di giustificarsi

fra loro. Per allontanare il rischio di ricadere continuamente nel clima di guerra, scrive Locke, gli

uomini scelgono il patto, istituendo così un giudice comune e imparziale che gestisca le controversie.

Un altro tema fondamentale, come si è già detto, è quello della proprietà privata e, soprattutto, del

legame che Locke ha tessuto fra essa e la libertà individuale. Le proprietà dell’individuo sono per il

filosofo: libertà, vita e averi. Ma come si appropria l’individuo della terra? L’appropriazione privata

non è una condizione originaria, ma deriva dalla proprietà comune. La legittimità della proprietà

privata si basa su un assunto: l’uomo è proprietario della sua persona. Da tale base si sviluppa tutta

l’argomentazione lockiana: se l’uomo è proprietario di sé stesso, lo è anche del suo lavoro e di ciò

che il suo lavoro produce (il lavoro legittima l’individuo). Ciò significa che, per Locke, l’uomo ha

diritto di appropriarsi della terra che lavora, a condizione che resti materia lavorabile anche per gli

altri, altrettanta e altrettanto buona. Questo assunto porta il filosofo a criticare la teoria del consenso;

se chi si appropria della materia da lui lavorata non toglie nulla a nessuno, perché sarebbe necessario

il consenso? L’uomo acquisisce la proprietà sui prodotti e sulla terra che egli produce con il proprio

lavoro, però, vi sono dei limiti: ognuno può prendere tanto quanto può consumare. Finché non c’era

il denaro, scrive Locke, non si poteva accumulare più di tanto, perché i prodotti si deterioravano,

mentre con l’introduzione del denaro diventa possibile un’accumulazione illimitata. La legittimità di

questa disuguaglianza non riposa su un patto, ma sulla scelta condivisa dagli individui di utilizzare il

denaro; ciò comporta per il filosofo l’accettazione dell’eventualità dell’accumulazione illimitata. Il

valore dei beni secondo Locke è dato molto più dal lavoro fatto per ottenerli che dalla materia prima,

e quindi, chi ci mette il lavoro ha più diritto su un bene del proprietario della materia prima (il valore

della quale, se non lavorata, tende a zero). Questa è la teoria valore-lavoro che sarà utilizzata anche

dall’economia politica classica fino a Marx. La prova di questo primato del lavoro la forniscono i

popoli dell’America che, malgrado le enormi risorse naturali, sono poverissimi. Si nota come Locke

giustifichi il capitalismo inteso come accumulazione illimitata e fine a sé stessa. Vediamo i punti

deboli evidenziati dalla critica:

a) Il concetto della proprietà di sé non sembra del tutto convincente, perché nessun uomo può

legittimamente vendersi come invece può vendere le sue proprietà;

b) Le abilità di qualcuno non gli appartengono in modo esclusivo perché egli le ha apprese da altri

che gliele hanno insegnate e quindi anche nel suo lavoro il contributo propriamente individuale è

una piccola parte;

c) Il problema delle generazioni: perché chi arriva dopo, quando tutto è diventato proprietà privata

di qualcuno, dovrebbe accettare il fatto che con il denaro si sia resa possibile la proprietà senza

limiti? Locke risponderà che: anche il più povero bracciante inglese sarà più ricco di qualunque

re dei selvaggi, e quindi in ogni caso non ha nulla di cui lamentarsi. Tale risposta e il pensiero che

la anima daranno luogo ad una ripresa del pensiero liberale che da Adam Smith si muoverà fino

a John Rawls. Tale risposta può essere infatti messa in crisi da una semplice domanda: preferireste

essere un bracciante o un re?

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Passiamo ad un nodo cruciale della teoria di Locke. Egli insiste sul fatto che, associandosi con lo

Stato, gli individui istituiscono un giudice che è legittimato a risolvere i contrasti in quanto è al di

sopra dei contraenti. Ma se questa è l’essenza del passaggio dallo stato di natura a quello civile, allora

ne consegue che la sovranità non può essere, come invece aveva sostenuto Hobbes, assoluta (deve

esserci qualcuno che sia al di sopra del sovrano). Questo pensiero diventerà una delle tesi

fondamentali del liberalismo moderno: non si esce veramente dallo stato di natura se non c’è una

salvaguardia nei confronti del potere sovrano. Vediamo ora le caratteristiche del patto politico:

• È sottoscritto dagli individui liberamente;

• Chi vuole può non aderirgli;

• Chi aderisce si impegna a formare un solo corpo politico che rispetta le decisioni prese dalla

maggioranza;

• Lo scopo è quello, non solo di sopravvivere, ma di vivere bene nella pace reciproca, assicurandosi

il godimento della proprietà e una maggiore protezione nei confronti di coloro che a quella società

non appartengono.

Il potere legislativo (emanare leggi e risolvere le controversie) è per Locke obbligato a sottostare ad

alcuni vincoli:

• Diritti inalienabili: esso deve muoversi nell’ambito fissato dalla legge di natura, e nel rispetto dei

diritti inalienabili che da essa discendono;

• Principio di legalità: il potere deve governare attraverso leggi generali certe e non attraverso

decreti estemporanei o ad personam;

• Intangibilità della proprietà: il potere supremo non può togliere a un uomo una parte della sua

proprietà senza il suo consenso (le tasse per mantenere lo stato devono avere il consenso dei

sudditi);

• Il legislativo non deve trasferire ad altri potere di legiferare, né affidarlo a mani diverse da quelle

cui l’ha affidato il popolo.

Locke afferma che le migliori forme di governo sono democrazia, monarchia e oligarchia. Ma come

si può garantire che il potere legislativo rimanga in questi limiti? La risposta è da ricercarsi nella

teoria dell’articolazione dei poteri. Bisogna distinguere chiaramente il potere legislativo da quello

esecutivo: il primo deve riunirsi solo periodicamente, e non in permanenza, per legiferare, mentre il

secondo deve assicurare coattivamente l’obbedienza dei cittadini alle leggi. Chi dispone della

coazione non dispone della legge, e anzi, a essa è vincolato, mentre chi legifera non ha alcun potere

diretto di coazione. Il potere legislativo è quello supremo, ma la coazione spetta a quello esecutivo.

Se però il potere legislativo non si attenesse alle regole previste, Locke argomenta la sua

(problematica) teoria del diritto di resistenza: mancando di un giudice superiore cui appellarsi, il

popolo ha diritto di appellarsi ad una legge superiore a quella positiva.

Con Rousseau tutta la problematica del contrattualismo hobbesiano e lockiano viene sottoposta a un

rovesciamento critico radicale: il contrattualismo cessa di porsi come un orizzonte entro il quale si

legittimano i poteri vigenti, per trasformarsi in leva di un pensiero tendenzialmente rivoluzionario.

Rousseau prende le mosse dalla premessa del contrattualismo: esso ha posto alla radice del patto

sociale uomini liberi ed eguali, eppure tale eguaglianza originaria è schiacciata da quelle strutture di

dominio e di oppressione che, secondo il filosofo, segnano e inquinano ogni società civile moderna.

“L’uomo è nato libero, ma dappertutto è in catene”. Rousseau si distingue poiché non solo fa della

disuguaglianza sociale oggetto di denuncia, ma essa è compresa nella sua razionale necessità.

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Dunque, con la nascita della società civile l’eguaglianza non si conserva, bensì si rovescia, diventando

disuguaglianza. Il primo compito della teoria diventa quello di svelare come le strutture inegualitarie

del dominio abbiano potuto sorgere, e godere perfino del consenso degli oppressi. Innanzitutto

partiamo dallo stato di natura. Rousseau contesta quello hobbesiano, dicendo che il limite di fondo

della teoria di Hobbes è che lo stato di natura è popolato da uomini avidi, orgogliosi, desiderosi di

opprimersi l’un l’altro. Secondo Rousseau quello che Hobbes sta descrivendo è l’uomo civilizzato,

corrotto e rovinato da una civiltà malsana. Diversa è la critica per lo stato di natura lockiano: egli

incorre in un peccato di apologia, a causa della sua visione continuistica fra stato di natura e stato

civile. Per Rousseau invece, lo stato di natura (visione scientifica) non è uno stato di guerra per il

semplice motivo che è uno stato di isolamento. L’uomo naturale è un uomo solo che abita una natura

ostile, ma con essa non ha difficoltà nel soddisfare i suoi limitati bisogni. Lo stato di natura non è

affatto una condizione miserabile, anzi, Rousseau lo definisce “il più adatto alla pace, il più

conveniente al genere umano”. Non vi è quindi alcuna necessità che costringe l’uomo a uscire dallo

stato di natura (semmai il problema è come se ne sia usciti, visto il suo carattere pacifico e stabile);

inoltre, il passaggio allo stato civile è determinato solo da cause esterne fortuite che potevano anche

non verificarsi. Come si costituisce l’ineguaglianza che caratterizza la società civile? Il tutto, secondo

Rousseau, ruota attorno al concetto di proprietà: il primo che, cintato un terreno, pensò di affermare,

questo è mio, e trovò abbastanza persone ingenue da credergli, fu il vero fondatore della società civile.

Il discorso lockiano viene così criticato: la proprietà non è un’acquisizione legittima, ma una sagace

impostura. L’ineguaglianza delle proprietà è il vero stigma della società corrotta, è la rottura maggiore

nel fatale percorso storico verso la società borghese.

Il processo degenerativo di cui Rousseau tratta, ponendosi così anche fra i fondatori della moderna

scienza antropologica e sociale, si ricollega alla dimensione della socialità che soppianta

quell’originaria solitudine. Quando l’uomo si unisce ad una comunità, sviluppa subito quel

sentimento che è l’amor proprio, quella stima della propria superiorità che è la radice prima dello

sviluppo dell’ineguaglianza. Sulla scia di Hobbes, Rousseau afferma che la passione dell’orgoglio

spinge l’uomo a competere con i suoi simili per superarli, ma tale sentimento non appartiene all’uomo

dello stato di natura, bensì a quello socializzato. La socialità è, in questo contesto, definita come un

moto che spinge l’uomo al confronto e a dipendere dall’opinione altrui.

Dunque l’uomo selvaggio che passa ad uno stato civile acquisisce tale sentimento in forma “leggera”

e inizia così l’ineguaglianza, ma questo stadio è definito embrionale dal filosofo. È stato lo sviluppo

delle tecniche, dell’agricoltura, del lavoro, e la differenza di talenti, di proprietà, a spianare la strada

dell’ineguaglianza nel suo sviluppo senza limiti: perché la proprietà nasce dal lavoro, come in Locke,

ma, poiché gli uomini hanno diversa forza, capacità e talento, il lavoro di alcuni procura loro maggior

proprietà di quanto non accada ad altri. È così completamente spianata la via verso la corruzione,

verso una società divisa in padroni e servi, dove l’apparire grandi, ricchi e superiori agli occhi degli

altri diventa più importante di ciò che davvero si è. È qui allora, nella società non ancora politicamente

organizzata, e non nello stato di natura, che si ha lo stato di guerra. E da esso gli uomini sono usciti

con un patto politico che è stato proposto dai ricchi ai poveri. Esso è un patto iniquo e che i poveri

accettano solo per ingenuità, perché, mentre distruggeva la libertà naturale, legittimava la legge della

proprietà e della diseguaglianza. Secondo Rousseau: per appropriarsi di ciò che eccedeva la necessità,

un uomo avrebbe dovuto “avere il consenso espresso ed unanime di tutto il genere umano”.

Anche il patto descritto da Locke è considerato iniquo, perché non è razionale che i nullatenenti

accettino di lasciare la loro libertà naturale sottomettendosi alla legge civile, senza pretendere che

venga rimessa in discussione anche la distribuzione della proprietà. In esso i ricchi ci guadagnano

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troppo, e i poveri troppo poco rispetto a ciò che cedono. (Se anche il patto fosse fatto, sarebbe

comunque nullo).

Importante è sottolineare un punto di passaggio nel pensiero di Rousseau. Il Rousseau che fin qui

abbiamo descritto è quello del Discorso sull’ineguaglianza, testo nel quale la socialità si configura

come una dimensione di caduta e alienazione, ma è attraverso una visione più complessa e meno

negativa dei rapporti sociali che il filosofo giunge a porre le condizioni per delineare il quadro di quel

patto equo e razionale designato nel Contratto Sociale. In esso Rousseau considera gli uomini come

di fatto siano, nella loro conflittuale particolarità, e leggi come possono essere, in modo da poter

associare la giustizia all’utilità, dunque, ciò che il diritto permette con ciò che l’interesse prescrive. I

punti di partenza fondamentali della concezione rousseuiana non sono lontani da quelli di Hobbes e

Locke:

• L’ordine sociale non è dato per natura, ma è un ordine artificiale che deve essere istituito da

uomini originariamente liberi ed eguali;

• Non sono accettate le teorie che vedono il potere sovrano come derivazione di quello patriarcale,

o come scaturente da una superiore natura di uno rispetto ad altri;

• Il potere legittimo non può essere pensato, dice Rousseau polemizzando soprattutto con Grozio,

come il risultato di un patto di sottomissione in cui il popolo allena la sua libertà nei confronti di

un sovrano diventandone suddito.

Prima abbiamo visto come il patto di stampo lockiano non è razionale secondo Rousseau e che, anche

se fosse fatto, viene considerato nullo. Vediamo le ragioni:

• È irrazionale che i sudditi si spoglino della libertà per ottenere in cambio una sicurezza non

garantita, oltretutto sotto il comando di un sovrano che può dichiarare guerra a suo piacimento;

• Un patto nel quale una parte cede qualcosa in cambio senza ottenere nulla è nullo;

• Nessuna generazione di uomini può allenare la libertà delle generazioni successive, perché essa

non le appartiene;

• La libertà è qualcosa che non si può allenare (inteso come “cedere”) come accade per una

proprietà. Se ciò fosse considerato vero, significherebbe negare all’uomo la responsabilità delle

sue azioni. Esempio: se un uomo ordinasse ad un altro di commettere un crimine, l’assassino non

sarebbe dispensato dalla sua responsabilità, perché il crimine rimarrebbe suo;

• Come sosteneva Pufendorf, perché un popolo possa darsi a un re è necessario che questo si sia

prima costituito come popolo: un pactum subjectonis non può darsi se non si presuppone un

anteriore pactum unionis. Per poter decidere qualcosa, tutti devono prima aver deciso,

all’unanimità, di unirsi e di sottomettersi a ciò che la maggioranza deciderà.

Poste queste premesse, affrontiamo il problema di trovare una forma di associazione legittima.

Rousseau propone come soluzione il seguente patto: gli individui rinunciano ad autogovernarsi,

dunque, alienano totalmente i loro diritti in favore di un corpo politico comune. In tal modo

l’individuo accetta che gli altri abbiano diritto su di lui, ma al tempo stesso acquisisce un diritto sugli

altri; e quindi non perde nulla della sua libertà. Ora la libertà è messa in comune, l’individuo riottiene

ciò che cede, e in più acquista la certezza di poter godere della libertà che ha (cosa che nello stato di

natura non avveniva poiché la forza di altri poteva negarla). Sebbene Rousseau critichi il potere

assoluto assunto da Hobbes, quando si tratta di descrivere la clausola del patto egli segue la sua scia,

allontanandosi radicalmente da Locke: il sovrano ora è la comunità, dunque, i diritti contro il sovrano

non sono presi in considerazione; esso è infatti formato da privati che non possono avere interessi

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contrari a loro. In rapporto ai membri della comunità, lo Stato è padrone di tutti i loro beni, ma ciò

non significa che i beni debbano passare di mano, piuttosto che il diritto di ciascun privato sul suo

terreno è sempre subordinato al diritto della comunità su tutto. Il compito del patto sociale è quello

di rinforzare l’uguaglianza naturale nella forma di un’eguaglianza morale e legittima. (I governi

“cattivi” offrono un’eguaglianza solamente apparente).

Lo stato rousseriano è una costituzione dell’eguaglianza, dove “eguaglianza” non significa che si

debba essere identici, piuttosto che nessun cittadino dev’essere in grado di imporre la sua volontà a

un altro se non in forza delle leggi, e che nessuno dev’essere abbastanza ricco da poter comprare un

altro e, ancora, nessuno tanto povero da essere costretto a vendersi. L’eguaglianza è una condizione

di uno stato che abbia di mira il bene comune ma, più in profondità, è condizione della libertà stessa.

Tuttavia è la stessa “forza delle cose” che tende a distruggere l’eguaglianza: malgrado vi sia un

interesse comune, la comunità politica di Rousseau diventa il terreno di una lacerazione drammatica,

perché, là dove vi è società, vi sono individui con interessi particolari. L’arte politica ha il difficile

compito di governare la società a partire da questo interesse, di cui la volontà generale è voce, senza

lasciarsi travolgere dalla spinta centrifuga degli interessi antagonisti. La volontà generale può

divergere dalla volontà di tutti che, invece, è una semplice somma di interessi particolari; e il popolo

può essere ingannato. È importante ricordare che Rousseau è il fondatore della democrazia moderna.

Come in Hobbes, anche in Kant la riflessione sulla politica prende le mosse da un presupposto

antropologico: la “insocievole socievolezza” dell’uomo. Kant sostiene, come Hobbes, che l’uomo è

lupo per l’altro uomo, ma pone la questione in modo più articolato: l’uomo ha una naturale

inclinazione ad associarsi, perché solo nella società con gli altri può sviluppare al meglio le sue

disposizioni naturali/qualità, ma l’uomo ha altrettanto fortemente una tendenza a dissociarsi, poiché

è caratterizzato dalla proprietà insocievole di voler condurre tutto secondo il suo proprio interesse.

Inoltre, l’uomo si aspetta che anche gli altri facciano lo stesso, e quindi, in questo senso, è sempre in

guerra con loro. L’uomo kantiano è quindi sociale, ma anche egoista e antisociale, e i due momenti

non si possono separare, perché per prevalere sugli altri bisogna porsi in relazioni a essi. Citazione:

da un legno così storto, come è quello di cui è fatto l’uomo, non si può fare nulla di completamente

diritto.

Kant però compie una valutazione altamente positiva dell’insocievolezza dell’uomo, poiché essa

genera competizione, desiderio di prevalere, e spinge i talenti dell’uomo a emergere: ciò non sarebbe

possibile nella perfetta concordia. Se l’uomo non fosse abitato dall’insocievolezza, non

comprenderebbe il valore superiore della sua esistenza e delle sue potenzialità, ma, come scrive Kant,

sarebbe una pecora mansueta. Bisogna però sottolineare il fatto che la competizione non è un valore

per il filosofo, ma un mezzo attraverso il quale si produce ciò che ha valore, e cioè lo sviluppo della

razionalità, della cultura, della scienza, della ricchezza. A causa di questo presupposto, Kant non può

introdurre il tema dell’eguaglianza liberale (cioè delle opportunità): per lui, è tollerabile una

diseguaglianza anche considerevole delle condizioni economiche a patto che a nessuno sia impedito

di riuscire con il proprio merito/talento ai più alti gradi della gerarchia sociale.

Vediamo ora la concezione kantiana dello stato di natura. Essa presenta due aspetti:

• Il primo aspetto lo avvicina a Hobbes, lo stato di natura è uno stato di guerra, anche se non sempre

comporta lo scoppio delle ostilità, ma piuttosto la minaccia di esse. Lo stato di pace deve dunque

essere istituito (infatti l’astenersi dalle ostilità non è ancora sicurezza). Tuttavia, lo stato di natura,

sebbene costituisca uno stato di guerra quantomeno potenziale, può essere definito uno stato non

giuridico solo in un certo senso: esso è tale perché non si è ancora costituita l’unione civile che

dà luogo al passaggio giuridico, ma, in un altro senso, non è del tutto non giuridico, poiché in esso

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sono già vigenti dei rapporti di diritto privato tra gli individui, che Kant definisce provvisori:

mentre nello Stato civile sono indicate le condizioni che assicurano le esecuzioni delle leggi dello

stato di natura, in esso ciò non avviene, ma questa è l’unica differenza, perché anche nello stato

di natura abbiamole proprietà, un “mio” e un “tuo” attorno ai quali ruotano le discordie. Ciò

comporta, per Kant, il doveroso passaggio alla creazione di uno stato giuridico. Egli non parla di

necessità, ma di dovere, poiché i diritti esistenti nello stato di natura, senza una legittimazione,

rimarrebbero ineffettuabili. Ovviamente, l’uscita dallo stato di natura risponde anche agli interessi

degli uomini, costretti ad entrare in quello stato di coazione che è la pena.

• Il secondo aspetto lo allontana da Locke; mentre per Locke la decisione di spogliarsi della libertà

naturale è autonoma e che non aderisce resta nello stato di natura, per Kant gli uomini hanno il

dovere di costringere coloro che si rifiutano di fare parte dello stato civile. Il punto è di estrema

rilevanza, perché, mentre per Locke e il liberalismo più generale, la legittimità dell’ordine politico

dipende dal consenso di fatto che gli individui hanno dato ad esso, per Kant la legittimità dipende

invece dal consenso che gli individui sono tenuti a dare, perché rifiutarsi ad esso vorrebbe dire

scegliere di rimanere in uno stato di ingiustizia, mentre l’adesione non è altro che l’adesione

doverosa a una legge della ragione, e non ha nulla a che vedere con una preferenza che gli

individui possono dare o meno. Tale pensiero si colloca oltre il problema di motivare l’adesione

al patto, ma si spinge nell’ambito normativo.

Abbiamo visto che costituire l’unione statale è un dovere, ma chiediamoci: è un dovere normativo o

morale?

La risposta è articolata. Certamente costituire lo stato è qualcosa che somiglia molto ad un dovere

morale, tuttavia diciamo che il dovere di uscire dallo stato di natura è giuridico in senso preciso,

perché, da parte degli altri individui, vi è il diritto di costringere i riottosi (coloro che sono restii a

sottomettersi) a entrare nello stato civile. L’osservanza di questo dovere viene garantita dalla

coalizione che, appunto, è un dovere giuridico. La coalizione è un dovere giuridico non nel senso del

diritto positivo, che è appunto ciò che deve essere costituito, ma nel senso del diritto naturale/di

ragione. Si può affermare che in Kant è proprio il diritto naturale (o di ragione), a costituire il tramite

fra lo stato di natura e quello civile.

Il fatto che gli altri individui possano obbligare i restanti a passare allo stato civile è ammesso poiché

la legge naturale è anteriore a quella positiva. C’è un obbligo anche se non c’è il legislatore. Da

ricordare la seguente distinzione in Kant:

• Leggi esterne: appartengono al diritto e non alla morale, sono leggi naturali, e possono essere

riconosciute a priori dalla ragione;

• Leggi positive: sono leggi che, senza una vera legislazione, non obbligano per nulla.

Il criterio del giusto secondo Kant può essere formulato come segue: qualsiasi azione è conforme al

diritto quando per mezzo di essa, o secondo la sua massima, la libertà dell’arbitrio di ognuno può

coesistere con la libertà di ogni altro secondo una legge universale.

Quali sono le leggi giuste? Secondo il filosofo esse non sono frutto di una volontà arbitraria, ma

devono essere conformi alla ragione. La legittimità di una legge non deriva semplicemente dal

contratto o dal consenso dei cittadini, ma dal contratto originario come idea della ragione, alla quale

tanto il legislatore quanto i cittadini devono sentirsi vincolati. Una legge è ingiusta quando sarebbe

impossibile che tutto un popolo desse ad essa il consenso. D’altra parte, la legge alla quale tutto il

popolo “potrebbe” dare consenso è una legge razionale e universale, ispirata all’unico principio di

garantire il rispetto della libertà di ciascuno. Con il suo repubblinanismo, Kant tenta di conciliare il

momento liberale dei diritti individuali con quello della volontà generale rousseauiana: la legge giusta

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è quella cui la volontà generale del popolo potrebbe dare il suo assenso (e perciò fondamento della

legittimità è la volontà generale), ma la legge cui ognuno potrebbe dare il suo assenso non può

accogliere alcun principio particolare che differisca dall’unico principio universale e razionale, che è

quello di garantire la eguale libertà di tutti. In tal modo Kant costituisce un punto di riferimento

essenziale per un pensiero politico che voglia unire in modo coerente il principio liberale

dell’autonomia dell’individuo e quello democratico della sovranità del corpo collettivo dei cittadini.

Secondo Kant, il diritto riguarda il rapporto tra le libertà che i diversi individui hanno di agire nel

mondo esterno, quindi, come già detto, è una legge esterna. La funzione del diritto è regolare le

relazioni fra gli uomini senza prescrivere loro i fini cui debbano adeguarsi, ma soltanto ordinando il

modo della loro coesistenza, affinché ognuno possa esplicare il proprio arbitrio senza compromettere

quello altrui. In forza di questo, si nota che il diritto è inseparabile dalla coazione: se qualcosa è mio

di diritto, ciò vuol dire al tempo stesso che io ho diritto a costringere gli altri a rispettarlo.

Chiediamoci ora quale sia il giusto ordinamento giuridico secondo Kant, innanzitutto nel saggio Sul

detto comune, egli stila un elenco di principi a priori dello stato giuridico:

a) La libertà:

▪ I diritti inalienabili che concernono l’uso pubblico della propria ragione: fra i diritti

inalienabili, Kant inserisce la libertà di religione, di pensiero e quella di critica pubblica,

perché l’uomo ha diritto di fare uso pubblico della propria ragione in tutti i campi;

▪ Il diritto di ognuno di ricercare la propria felicità come meglio crede, purché non pregiudichi

l’altrui diritto di fare altrettanto. Ne consegue che il compito dello stato non è quello di

promuovere il bene dei sudditi, ma quello di garantire le condizioni perché ognuno possa

ricercare il suo benessere e la sua felicità come meglio crede. Da un lato quindi lo stato deve

lasciare gli individui liberi di perseguire i fini che preferiscono, dall’altro deve essere retto

non in modo arbitrario, ma secondo leggi, ovvero, deve essere stato di diritto;

b) L’uguaglianza: di fronte alla legge e non come accesso ai beni. Tale principio richiede la

negazione dei privilegi ecclesiastici, feudali e nobiliari;

c) L’indipendenza: i cittadini che devono obbedire alle leggi hanno il diritto di esserne gli autori,

però, il potere legislativo è solo di coloro che, non solo vivono sotto la giurisdizione di uno stato

ma sono anche indipendenti nella vita economica, cioè che possiedono un capitale (si escludono

i lavoratori a giornata, il servo domestico e la donna). Questo perché, secondo il filosofo, non

sono pienamente cittadini coloro che, se dovessero esprimersi politicamente, finirebbero per

esprimere la volontà di coloro da cui dipendono.

d) Per quanto riguarda le forme di governo, Kant esegue una distinzione seguendo il “come” si debba

governare e con il “chi”. Si deve governare o secondo leggi (stato repubblicano) o secondo arbitrio

(come accade nel dispotismo). Perché un governo non sia dispotico è necessario che la funzione

legislativa sia distinta da quella giudiziaria.

Capitolo 5: Società civile e stato

Il liberalismo postrivoluzionario mantiene la connessione con il 1789, ma al tempo stesso riflette sui

rischi e pericoli della sovranità popolare. Il rischio in primo luogo, è quello che la sovranità popolare

si trasformi, come era accaduto nella fase giacobina della rivoluzione, nella dittatura popolare, o

meglio esercitata da coloro che pretendono di rappresentare il popolo. Ancora di più, il rischio è che

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l’uguaglianza politica dei cittadini, voglia trovare la sua coerente prosecuzione nell’uguaglianza

sociale. La questione che la Rivoluzione Francese ha aperto, dunque, è se l’eguaglianza politica non

debba necessariamente dar luogo all’eguaglianza sociale, perché se la maggioranza vive in condizioni

economiche di depravazione e di disagio ha accesso ai diritti politici, è evidente che li utilizzerà per

far leggi che portino alla redistribuzione della proprietà e alla garanzia pubblica del diritto al lavoro,

e infine alla instaurazione progressiva dell’eguaglianza sociale. Su questo sfondo di problemi

assolutamente comune ragionano tanto i liberali quanto i loro nemici: i primi nella ricerca di un

equilibrio che consenta di mantenere il principio moderno e rivoluzionario dell’eguaglianza politica

ma al tempo stesso di confinarlo entro ben precisi limiti, e impedirgli di straripare nel senso di una

trasformazione rivoluzionaria di tutta la società. Proprio quello che invece, rivendicano nella logica

di una coerenza ugualitaria, i secondi. Per i liberali non porre limiti alla sovranità popolare significa

spianare la strada a un potere dittatoriale, e quindi rinnegare i principi di libertà della Rivoluzione,

per gli altri, invece, le libertà della Rivoluzione devono essere attuate concretamente, facendo sì che

ognuno disponga delle risorse per esercitarle effettivamente. Nell’epoca post-rivoluzionaria, il

problema è piuttosto come una struttura solida sia capace di tenere produttivamente dentro di sé tanto

il principio moderno dell’eguaglianza politica, quanto quello dei diritti dell’individuo, comprensivi

delle sue libertà private e della libertà di comprare e vendere sul mercato le merci non meno che il

lavoro. Le grandi tensioni di questo periodo si basano sul dilemma di limitare lo stato per lasciare

spazio al libero dispiegamento della società civile o invece di forzare la contraddizione tra i due

termini.

Il percorso di pensiero di Benjamin Constant muove i suoi primi passi proprio nel fuoco dei conflitti

della Rivoluzione francese, ai quali egli prende pure parte quando arriva a Parigi. Il Termidoro (27

luglio 1794) ha posto fine alla dittatura giacobina, cercando di porre termine alla Rivoluzione ma in

realtà inaugurando una fase di lotte e di incertezza che si concluderà con il colpo di stato di Napoleone

del 18 brumaio 1799. Constant si schiera a favore della difesa dei principi di libertà ed eguaglianza

della Rivoluzione, che si sviluppa attraverso una polemica su due fronti: da un lato contro i giacobini,

che hanno stravolto i principi dell’89 istaurando una dittatura arbitraria e violenta, dall’altro contro i

nostalgici della monarchia, che proprio dagli eccessi del giacobinismo traggono argomenti per

perorare il ritorno al vecchio ordine. Ma è nel periodo napoleonico che Constant elabora i fondamenti

teorici del suo pensiero politico, al cui centro è la inderogabile necessità di limitare il potere politico,

affinché esso non possa trasformarsi in dispotismo. I Principi di Politica del 1806 prendono le mosse

proprio dall’analisi critica de pensiero di Rousseau. Rousseau ha perfettamente ragione, secondo

Constant, quando individua, attraverso la pur insostenibile volonté général, nella volontà dei cittadini

l’unica fonte dalla quale può nascere un’autorità politica legittima, e cioè fondare la sua legittimità

sul consenso di coloro che a esso devono sottoporsi. Una volta determinata la fonte dell’autorità,

restano da stabilire i suoi compiti, ovvero i limiti del suo esercizio. L’errore fatale di Rousseau, allora,

concerne proprio questo punto: egli afferma infatti che la costituzione del corpo politico presuppone

l’alienazione totale, da parte degli individui, di tutti i loro diritti, e dà luogo pertanto a un potere che,

anche se esercitato dalla collettività, risulta, come quello hobbesiano, assoluto ovvero privo di limiti.

Dunque Constant finisce in sostanza per attaccare lo stesso concetto di volonté général rousseauiana.

Non è vero, conclude Constant, che l’individuo cedendo i suoi diritti al corpo comune in realtà li

conserva; perché chi esercita di fatto l’autorità non è mai il corpo comune nel suo insieme, ma una

parte di esso, che può anche farne un uso arbitrario. Il potere illimitato è quindi sempre dispotico,

anche quando esso sia nelle mani non di individui particolari, ma della totalità dei cittadini. La

riflessione sui limiti del potere si articola, per Constant, in due direzioni: in primo luogo si può

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ragionare sulla limitazione del potere tramite divisione e articolazione, partendo dal principio che un

potere non può essere limitato che da un altro potere; è questa la via del costituzionalismo, che tenta

di elaborare un assetto dei poteri dove essi si controllino a vicenda. La limitazione reciproca dei poteri

però secondo Constant, è ancora insufficiente a impedire il dispotismo. Ciò che è essenziale, invece,

è stabilire con nettezza gli ambiti nei quali il potere politico può esercitare la propria competenza, e

quelli invece che esso deve lasciare fuori, perché le libere scelte degli individui regnino incontrastate.

Il potere deve limitarsi strettamente a quelle funzioni che sono indispensabili per l’esistenza stessa

della società civile: la sicurezza dei cittadini e dei loro averi e l’organizzazione di una forza armata;

queste due funzioni richiedono inoltre una certa tassazione sulla proprietà, senza la quale esse non

potrebbero venir finanziate. Ogni estensione dell’autorità dello stato oltre questi limiti è illegittima.

E dove l’autorità statale finisce comincia lo spazio dei diritti individuali che essa non può limitare,

ma solo proteggere dalle eventuali interferenze di altri. Una attenzione particolare Constant dedica

alla difesa dell’opinione pubblica e del suo strumento principe, la libertà di stampa: essa costituisce

un indispensabile presidio dei diritti degli individui perché, se non vi fosse, le violazioni dei diritti,

potrebbero essere perpetrare più facilmente, non potendo venir denunciate pubblicamente. Il potere

legislativo detenuto dai rappresentanti del popolo dovrà essere esercitato dentro limiti rigorosamente

fissati e, affinché non invada quella sfera della vita individuale e sociale che non sono di competenza

della politica. Proprio per evitare questo rischio, però, i diritti politici, e ciò innanzitutto il diritto di

votare per scegliere i propri rappresentanti, non potranno essere estesi a tutti i cittadini. Per essere

cittadini si devono conoscere i propri interessi: si deve quindi disporre di una cultura, del tempo libero

per coltivarla, delle proprietà che sono la condizione per godere di questi agi. E perciò, conclude

seccamente Constant “solo la proprietà rende gli uomini capaci dell’esercizio dei diritti politici; solo

i proprietari possono essere cittadini”. E un proprietario, non è semplicemente chi possiede qualcosa,

ma chi detiene un reddito fondiario sufficiente a mantenersi durante l’anno senza essere obbligato a

lavorare per altri. I diritti politici devono essere limitati a coloro che godono di questa sovrana

condizione di indipendenza. In quanto strettamente connessa alla libertà dell’individuo, la proprietà

viene a godere della protezione che a questa spetta di diritto, e che trova ulteriore giustificazione nel

fatto che la proprietà privata è, per Constant, condizione di ogni progresso e benessere sociale; mentre

la sua soppressione, distruggerebbe ogni possibilità di avanzamento spirituale e intellettuale, di cui

tutta la società raccoglie poi i benefici. Questo principio non comporta però una divisione della società

in classi e ordini rigidamente distinti, come accadeva nell’ancien régime: perché la proprietà è per

sua natura mobile, e può essere tanto facilmente persa quanto acquistata da chi ne abbia i meriti e le

capacità: le leggi non devono far nulla per limitare questa salutare circolazione. La tesi di Constant

nel Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni del 1819, è che la libertà

può intendersi in due sensi fondamentalmente diversi. Nel senso degli antichi, la libertà, così come

viene indicata nella polis, consiste essenzialmente nella partecipazione diretta al potere politico: è la

libertà come autogoverno, una libertà collettiva. La libertà nel senso dei moderni, al contrario, è

fondamentalmente libertà dell’individuo privato: il diritto di non essere sottoposto che alle leggi, di

non poter essere né arrestato, né messo a morte, né maltrattato in alcun modo a causa dell’arbitrio di

uno o più individui; il diritto di riunirsi, il diritto di influire sul potere politico e amministrativo con

l’elezione dei rappresentanti. La conclusione è netta: il fine degli antichi era la divisione del potere

sociale fra tutti i cittadini di una stessa patria, era questa che essi chiamavano libertà. Il fine dei

moderni è la sicurezza dei godimenti privati; ed essi chiamano libertà le garanzie accordate dalle

istituzioni a questi godimenti. Senza libertà politica non c’è perfezionamento e progresso morale. Sul

rapporto tra le due libertà, dunque, la riflessione di Constant resta in qualche modo aporetica: per un

verso egli si rende conto che, senza la partecipazione politica, l’intero assetto delle libertà rischia di

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crollare; ma, per altro verso, come tener viva la partecipazione politica, se l’individuo moderno è

prevalentemente concentrato sulla dimensione politica?

Alexis de Tocqueville è un discepolo di Constant che però finisce quasi per rovesciarne gli esiti,

recuperando il valore di quella libertà politica che in Constant era rimasta comunque subordinata alla

libertà privata. Tocqueville esprime la sua analisi della democrazia all’interno dello scritto La

democrazia in America, e la basa sull’eguaglianza delle condizioni. Questa eguaglianza è un

concetto dai contorni strettamente definiti, che sta a indicare in sostanza che per Tocqueville è una

caratteristica di fondo della mentalità democratica: il non riconoscere alcuna superiorità di rango o di

altro genere, e il collocare tutti gli individui su un medesimo terreno. La democrazia americana è

caratterizzata da un grande divario tra ricchezza e povertà, ma questo non implica una divisione

antropologica, perché la proprietà e le ricchezze sono altamente mobili e l’individuo può trovarsi ad

occupare, in breve spazio di tempo, posizioni molto diverse nella scala sociale. Tocqueville vuole

mettere in guardia dai costi che lo sviluppo della democrazia comporta, ovvero la tirannide della

maggioranza. Secondo Tocqueville se la minoranza non è tutelata al suo diritto al dissenso, siamo in

presenza di una tirannide della maggioranza. I malesseri che porta questa degenerazione, sono

l’estremizzazione del concetto di sovranità popolare, che diventa un dogma e quindi si crea l’idea che

tutto è lecito al popolo e a conseguenza ritenuta più temibile ovvero l’individualismo. È il risultato

dell’apatia, nel momento in cui non viene tutelato il mio diritto a dissentire, si diventa apatici.

L’individualismo è presente fortemente in Europa, poiché manca lo spirito associativo. Questo è il

quadro che si realizza attraverso la degenerazione della democrazia. Usa il termine tirannide della

maggioranza, perché viene descritto come un potere assoluto non di un solo uomo, ma di una

maggioranza che si ritrova a monopolizzare i tre poteri. Tutti i poteri sono espressione della

maggioranza, e questo spinge l’individualismo, la ruggine della democrazia, che ci fa disinteressare

da una partecipazione attiva alla cosa pubblica. Il socialismo diventa il concentrato di tutti quei mali

che Tocqueville aveva visto minacciare il futuro della società democratica: “La Rivoluzione francese

non ha avuto la pretesa ridicola di creare un potere sociale che assicurasse di per se stesso la fortuna,

il benessere, l’agiatezza di ogni cittadino …”. Proprio ciò che invece vuole fare i socialismo quando,

reclamando il diritto al lavoro, chiede che lo stato si costituisca alla previdenza individuale, si

intrometta nelle industrie, imponga a esse dei regolamenti, si faccia insomma paternalisticamente

carico del benessere di tutti.

John Stuart Mill dà luogo a quello che si potrebbe chiamare liberalismo radicale, caratterizzato per

un verso dall’apertura nei confronti del socialismo e per l’altro da una difesa della libertà e

dell’anticonformismo individuale molto più netta di quella che era stata propria dei pensatori liberali

classici. La sua visione progressiva e umanistica, portò Mill a guardare con molta simpatia al

movimento socialista e cartista, e a concedere ampio spazio alla critica socialista della proprietà

privata nel suo scritto Principi di economia politica del 1848. Una delle tesi più caratteristiche del

Mill economista è che, mentre le leggi che governano la produzione della ricchezza sono assimilabili

a delle verità fisiche, del tutto indipendenti dalla volontà umana, la distribuzione della ricchezza,

invece, dipende dalle leggi e dalle consuetudini della società, ed è quindi modificabile attraverso

l’intervento cosciente degli uomini. Mill critica, perciò il modo in cui la ricchezza è distribuita nella

società del suo tempo; e sostiene che, se la conseguenza di un ordinamento sociale fondato sulla

proprietà privata è che la ricchezza venga distribuita in proporzione quasi inversa al diretto contributo

lavorativo, allora questo ordinamento dev’essere modificato, forse anche sostituendo ad esso un

sistema comunistico. Egli sostiene che la divisione del genere umano in due classi ereditarie, datori

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di lavoro e lavoratori, non possa essere eternamente conservata. C’è da aspettarsi piuttosto che questa

divisione venga sostituita da nuove forme associative e cooperative. Mill critica quindi del

capitalismo il fatto che esso si basi su una distribuzione ineguale delle proprietà che è il sedimento di

passate sopraffazioni, mentre difende il principio della libera concorrenza con la sola eccezione della

concorrenza tra i lavoratori. Egli però non crede che lo sviluppo, l’accumulazione e quindi la stessa

lotta concorrenziale debbano continuare all’infinito, anzi ritiene che sia inevitabile giungere a uno

stato stazionario, con il quale l’umanità si lascerà finalmente alle spalle la continua corsa

all’accrescimento del guadagno.

Il volumetto On liberty si propone di determinare i limiti che il potere pubblico e la legislazione non

possono varcare, ovvero quelle sfere di libera azione individuale che alla formazione statale debbono

restare comunque sottratte. Lo stato non può vietare alcuna azione dell’individuo che non rechi danno

ad altri. Il potere politico che pretendesse di vietare la pubblica espressione di opinioni che l’autorità

o la maggioranza ritengono perniciose, deleterie o semplicemente sbagliate, commetterebbe, sostiene

Mill, un torto non tanto contro i sostenitori di quelle opinioni, quanto contro l’umanità in generale,

contro gli uomini viventi e ancor più contro quelli che verranno. Sostiene Mill: “Se l’opinione è

giusta, essi vengono privati dell’opportunità di abbandonare l’errore per la verità; se è sbagliata,

perdono un beneficio quasi altrettanto grande: la percezione più chiara e più viva della verità,

prodotta dal contrasto con l’errore”. L’esigenza di mantenere sempre una apertura fallibilista è

rafforzata dal fatto che molte idee ritenute certissime in epoche passate si sono rilevate, in seguito,

non solo false, ma persino assurde. Il ragionamento che vale per le opinioni si applica anche agli stili

di vita e ai comportamenti: se non vi fosse la possibilità per gli individui di sperimentare modi di vita

eterodossi, sgraditi al conformismo dei più e al potere dello stato, sarebbe impedito agli uomini di

conoscere ciò che forse potrebbe portarli a una via più realizzata e più felice. La possibilità per

l’individuo di svilupparsi autonomamente, seguendo i propri impulsi più personali e spontanei e

sottraendosi alla tirannia conformistica della maggioranza, non è solo uno dei principali fattori della

felicità umana, ma quello sicuramente più essenziale al progresso individuale e sociale. Deriva da ciò

la critica del paternalismo, ovvero della pretesa di obbedire agli individui comportamenti che, senza

recare danno ad altri, sembrano però contrari al loro stesso bene: nessuna persona o gruppo di persone

è autorizzato a dire a un’altra persona matura che per il suo bene non può fare della sua vita quel che

sceglie di farne. Qui arriviamo alla punta più radicale, e anche controversa, del liberalismo milliano.

In primo luogo, non è facile distinguere un comportamento che reca danno ad altri da uno che non lo

fa. In secondo luogo, se ammettiamo che sia lecito, o magari anche doveroso, impedire a un individuo,

anche con la forza, di gettarsi in un fiume per annegarsi, che obiezione ci può essere, per esempio,

alla proibizione di far uso di sostanze che danneggiano, in modo accertato, la salute, la vita e la

lucidità mentale dell’individuo stesso? Alla plausibilità di queste obiezioni Mill oppone una serie di

argomenti che sono rilevanti: il singolo è la persona più interessata al proprio benessere, più di quanto

non lo sia la società; la società ha avuto in ogni caso il modo, con l’educazione, di prevenire nel

singolo i comportamenti sgraditi; se non si ponessero dei limiti all’ingerenza del pubblico sui

comportamenti privati, questo finirebbe per punire, come è successo infinite volte nella storia, non

ciò che è provatamente dannoso per i singoli stessi, ma tutto ciò che va contro le sue preferenze e

soprattutto le sue superstizioni. Insomma, non si può conferire alla società un potere che essa ha

sempre dimostrato, di non sapere usare bene. Vi sono però delle eccezioni: è lecito proibire agli

individui di vendersi come schiavi, anche se lo volessero, perché il principio di libertà non può essere

usato per legittimare la rinuncia alla libertà stessa. Così come non è una violazione della libertà,

l’istruzione obbligatoria.

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In quanto fautore di un avanzamento culturale e intellettuale di tutti gli uomini, Mill pensa che questo

sarebbe senz’altro favorito dalla partecipazione alla politica attraverso il suffragio universale

democratico. D’altra parte, egli, come i suoi predecessori liberali, è ben consapevole di vivere in una

società fondamentalmente divisa in classi, e dove la maggioranza della popolazione appartiene alla

classe più povera. Perciò, nel suo saggio Sul governo rappresentativo, sostiene che il suffragio

universale applicato secondo la regola un uomo/un voto porrebbe il potere legislativo nelle mani della

maggioranza più povera. A questi inconvenienti Mill pensò che si potesse porre rimedio non

eliminando il suffragio universale ma piuttosto introducendo il correttivo del voto plurimo, in modo

tale che tutti avessero a disposizione un voto, ma che le persone più istruite, esperte e qualificate ne

avessero più di uno. Sempre pensando a una democrazia dell’intelligenza egli ritiene che le leggi non

dovrebbero essere elaborate dal Parlamento, ma da una commissione ristretta e qualificata, mentre il

Parlamento dovrebbe limitarsi a discuterle, approvarle o respingerle.

Anche la filosofia politica di Hegel si costruisce intorno alla centralità del tema moderno della libertà.

La filosofia del diritto hegeliana si articola in tre grandi parti dedicate rispettivamente al diritto

astratto, alla moralità e all’eticità. Nella visione di Hegel, la libertà dell’individuo non consiste

compiutamente né nella sua facoltà di operare come persona giuridica, e neppure nella sua capacità

di autodeterminarsi come persona morale capace di scegliere in base alla ragione senza lasciarsi

dominare dalle inclinazioni. Entrambe questi modi di intendere la libertà, colgono il significato della

libertà solo in modo astratto e parziale: la libertà infatti, secondo Hegel, deve essere compresa come

il fruire di quelle condizioni e di quei rapporti oggettivi che consentano all’individuo la sua

autorealizzazione, che gli assicurino le condizioni per esplicare la sua libera personalità. La libertà

concreta, non può essere pensata come mera capacità di autodeterminazione individuale; essa viene

ricostruita piuttosto come l’insieme di quegli istituti nel contesto dei quali gli individui possono

godere, a diversi livelli, delle condizioni per la loro autorealizzazione. Rispetto al liberalismo, egli

mostra, in primo luogo, che non si può pensare lo stato come il risultato di un patto tra individui

privati. Per Hegel, lo stato, cioè l’organismo politico, è il momento che precede gli altri: non ci sono

individui capaci di autodeterminarsi liberamente senza l’unità politica che di tutto ciò costituisce la

condizione. Per Hegel, lo stato è scopo finale, fine in se stesso, mentre il supremo dovere dei singoli

è innanzitutto quello di essere componenti dello stato. Il primo istituto all’interno del quale gli

individui trovano le condizioni della loro autorealizzazione è la famiglia, che ha la sua determinazione

nell’amore e nell’unità tra i componenti. L’ambito della società civile è invece quello in cui si afferma

la separazione degli individui, come persone private dedita al soddisfacimento dei loro bisogni e

interessi egoistici. Si tratta, per Hegel, di una dimensione fondamentale: lo sviluppo dell’individuo,

infatti, presuppone la sua separazione dall’unità immediata, la conquisti dell’autonomia. È sul terreno

della società civile, però, che si generano il progresso e la civiltà. Nella visione hegeliana, però, le

conquiste della società civile generano a loro volta problemi che essa non è in grado di risolvere con

i suoi stessi strumenti, cioè confidando semplicemente nelle virtù della mano invisibile e della

concorrenza. La dinamica spontanea della società civile, infatti, tende per Hegel a generare da un lato

la più straordinaria accumulazione di ricchezza, dall’altro la concentrazione di povertà e

deprivazione, la formazione della plebe. È questo paradosso a rendere necessarie all’interno della

società civile, istituzioni aventi il precipuo scopo di operare nel senso del bene comune e della

solidarietà. Si tratta di istituti che in Hegel vanno sotto il nome di polizia e di corporazione. La prima

ha il compito di regolare diversi aspetti della vita sociale ed economica sottraendoli alla loro

accidentalità, svolgendo per i poveri quelle funzioni che la famiglia non può adempiere. La seconda

invece, riunisce gli appartenenti a un determinato ceto o professione, è per Hegel quasi una seconda

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famiglia, nel senso che, oltre a porre dei limiti al libero mercato, ripropone, al livello più complesso

della società civile, quelle funzioni di solidarietà che in un primo tempo erano state proprie della

famiglia.

L’individuo che, nella compagine statale, realizza i suoi interessi particolari, comprende che il bene

del tutto è la condizione primaria della sua soggettiva autorealizzazione, e assume quindi l’interesse

della generalità come suo proprio interesse cosciente. La mediazione di universale e particolare è

possibile, in Hegel, perché già nella stessa società civile se ne dà la preparazione: questa è sì il mondo

degli interessi conflittuali e della polarizzazione di ricchezza e povertà, ma al tempo stesso contiene

la possibilità di superare le sue lacerazioni; sia attraverso gli istituti della polizia e della corporazione,

sia perché non è un mondo puramente atomistico, ma è invece organicamente strutturato

nell’articolazione delle tre classi o ceti che la compongono: il ceto sostanziale, ovvero i proprietari

terrieri; il ceto industriale; e il ceto generale, ovvero i funzionari dello stato, che ha come compito la

cura degli interessi generali. E su questa base si eleva quell’organismo compiuto, che è lo stato. La

struttura costituzionale dello stato, a sua volta, si dispiega nell’articolazione dei tre poteri che non

devono essere pensati nella logica della separazione, ma piuttosto come momenti e determinazioni di

uno intero: il potere sovrano, che detiene la decisione ultima e che compete al monarca costituzionale;

il potere governativo, che deve eseguire e applicare le decisioni; e il potere legislativo, al quale

concorrono tanto i due poteri quanto l’elemento dei ceti. Che il potere legislativo venga da Hegel

strutturato attraverso una rappresentanza dei ceti e delle corporazioni è un passaggio fondamentale

per tutta la sua costruzione. La rappresentanza per ceti costituisce non solo l’elemento che media tra

popolo e governo, ma soprattutto la concreta possibilità di saldatura tra gli interessi, organicamente

articolati in cerchie, che si fanno valere nella società civile.

Nella prospettiva di Marx, il limite della filosofia hegeliana è quello di aver ricercato una soluzione

illusoria di questa contraddizione, reintroducendo all’interno della separazione tra società civile e

stato politico elementi di mediazione che provengono dall’ordine antico, come ad esempio la

rappresentazione per ceti. Per Marx la società civile è il regno degli individui privati, che perseguono,

nel quadro di una economia di mercato, i loro interessi particolari: essa è quindi caratterizzata

dall’esistenza di ampie diseguaglianze di denaro, di proprietà, di cultura, di posizione sociale. Ma ciò

che caratterizza il moderno è che queste diseguaglianze di condizione, perdono il loro significato

politico; nella società moderna tutti i cittadini sono politicamente uguali, la rivoluzione borghese non

sopprime l’ineguaglianza sociale, ma sono i suo significato politico. Il problema fondamentale del

Marx filosofo politico è come bisogna pensare il rapporto tra l’ineguaglianza sociale e l’eguaglianza

politica. La contraddizione tra questi due elementi si può superare solo con l’eliminazione di entrambi

i termini contrapposti e complementari: e cioè, attraverso una democrazia integrale che non sia più

soltanto politica, cioè che instauri la comunità umana a partire dal livello del lavoro e della effettiva

riproduzione della vita, e non solo in un ambito politico, astratto e posto accanto alle ineguaglianze

reali, contro le quali non ha nessun potere. La rivoluzione come la pensa Marx, dunque, sopprime

l’antitesi tra società civile e stato politico, per rifondare la comunità umana a partire dalla libera

associazione dei produttori; e ciò implica l’estinzione del potere politico come dimensione separata

da quella in cui si attua l’effettiva riproduzione della vita degli individui. Nel Manifesto del partito

comunista del 1848, il proletariato si impadronisce del potere politico e lo usa come leva per

sopprimere la proprietà capitalistica dei mezzi di produzione e quindi le differenze di classe. Una

volta che queste, dopo una fase di conflitti e di interventi dispotici, saranno superate, e la produzione

sarà tornata nelle mani degli individui associati, il potere pubblico perderà il carattere politico;

superata la contrapposizione tra le classi, di un potere politico separato dalla società non ci sarà più

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bisogno. Per Marx il proletariato partecipa alla rivoluzione democratica e la sostiene con la sua forza,

ma il suo programma è quello di non consentire che la rivoluzione si arresti, bensì di renderla

permanente, proseguendo la rivoluzione democratica nella rivoluzione sociale. Nella prima fase della

società collettivista, fondata sulla proprietà comune dei mezzi di produzione, la distribuzione dei beni

avverrà secondo il principio “a ciascuno secondo il suo lavoro”; nella fase più matura della società

comunista, invece, la società potrà finalmente lasciar spazio a un principio più libero e più elevato

“da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”. L’importanza della teoria

marxista è da vedersi quindi non tanto negli esiti cui essa mette capo, quanto nella domanda di fondo

che essa con forza e radicalità pone, e che concerne appunto il rapporto tra la democrazia politica e

la sua base economica e sociale.

Capitolo 6: Concetti della teoria politica

Nel pensiero politico emergono tre grandi concetti politici sviluppatosi durante l'ottocento e il

novecento: liberalismo, democrazia e socialismo. Questi tre concetti, hanno un forte contenuto

normativo e ancora oggi sono presenti nella discussione pubblica delle società democratiche. Essi

hanno formato la modernità per due motivi: si sono sviluppati a partire dall'epoca delle rivoluzioni

borghesi e in secondo luogo, hanno un un'unica radice comune ovvero il principio dell'eguale libertà.

Quest'ultimo sta alla base delle moderne Dichiarazioni dei diritti. La modernità politica si fonda

sull'assunto che non vi sono rapporti di subordinazione naturale tra gli uomini, ovvero rapporti di

signoria e servitù e quindi, eguaglianza e libertà si legano.

Il concetto di libertà politica non coincide con quello di libertà inteso in senso metafisico perché la

libertà politica indica il modo in cui l'uomo è libero nell'ordine politico e sociale. Bisogna fare una

distinzione tra libertà negativa e libertà positiva. La definizione che privilegia il senso negativo la

troviamo nel pensiero di Hobbes, per il quale la libertà consiste nell'assenza di impedimenti esterni

che ostacolino un uomo nel fare ciò che vuole. L'uomo che paga un debito per non finire in prigione,

secondo Hobbes, compie un'azione libera, perché nessun impedimento fisico gli vietava di trattenere

per sé ciò che doveva ad altri. Quindi, Hobbes afferma che poiché le leggi regolano necessariamente

una parte delle azioni dei sudditi e non la totalità, la libertà sta nell'agire a proprio piacimento in tutte

le cose che la legge ha volutamente omesso di regolare. I teorici della libertà positiva, invece,

concentrano la loro riflessione su aspetti che la concezione negativa non tratta. Una definizione è stata

data da Rousseau: essere liberi significa non godere degli spazi d'azione che le norme ci lasciano, ma,

essere autori di tali norme e quindi non obbedire ad altre leggi se non a quelle che noi stessi ci siamo

dati. E' da qui che si sviluppa quindi la teoria democratica. Ma è possibile formulare un secondo

concetto di libertà positiva: essere positivamente liberi significa disporre dei mezzi e delle risorse che

ci consentano di godere effettivamente delle libertà che la legge ci attribuisce. Questo concetto lo

ritroviamo nelle teorie socialiste. Infine, possiamo distinguere anche un terzo concetto: essere liberi

significa non solo obbedire a norme che noi stessi ci siamo dati, ma a norme che siano espressione

della nostra volontà razionale. La distinzione più solida concettualmente si può rendere ancora più

chiara così: la libertà negativa richiede che sia ampio lo spazio che le leggi lasciano agli individui per

decidere da soli; la liberta positiva richiede che, delle leggi, gli individui siano autori e quindi che

attuino loro le decisioni.

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Bisogna fare una distinzione di significato tra liberalismo e liberismo. L'importanza di tale distinzione

fu rivendicata da Benedetto Croce in una famosa discussione con l'economista liberale e liberista

Luigi Einaudi. Croce affermò che mentre il liberismo è una dottrina che si situa sul terreno economico,

per affermare le virtù del libero scambio e criticare i limiti che a esso si vogliano imporre, il

liberalismo si colloca su in terreno diverso, etico e politico. Comune a tutte le posizioni liberali è

l'idea che la funzione fondamentale dello stato sia quella di garantire i diritti degli individui che,

hanno però un primato rispetto alle scelte della politica e alle decisioni della democrazia. Vi sono

posizioni liberali che ritengono che una società libera possa formarsi anche in assenza di democrazia

mentre, ve ne sono che altre che invece accolgono la democrazia lasciando da parte le riserve

"liberali" contro di essa. Per quanto riguarda gli assetti economico-sociali, da un lato troviamo coloro

che hanno meno fiducia nella democratizzazione e quindi credono decisamente in una società di

mercato; dall'altro lato troviamo quelli che hanno meno riserve nei confronti della democrazia e che

spesso sono gli stessi che considerano irrinunciabili i diritti di giusta ripartizione sociale. Sulla base

di tutto ciò si può affermare che il liberalismo è formato da tutte quelle posizioni che condividono la

tesi del primato e la centralità dei diritti, visti come limiti a ciò che lo stato o la democrazia possono

imporre ai cittadini. I diritti sono considerati: innati, inalienabili o inviolabili nel senso che gli

individui non potrebbero rinunciare a essi neanche se lo volessero e che le leggi pubbliche devono

assumere come un limite invalicabile. Nel liberalismo quindi la società politica nasce per confermare

e assicurare i diritti imprescrittibili dell'individuo: libertà della persona, di religione, di pensiero. Il

sovrano però non può essere più pensato come colui che sta al di sopra delle leggi, che è legibus

solutus, ma l'esercizio del potere deve essere sottoposto alla legge così come lo sono i comportamenti

di ogni cittadino. Lo stato viene visto come una sorta di male necessario: esso implica che l'individuo

debba obbedire a un poter estraneo e la partecipazione politica non è un bene in sé, ma ha il suo valore

nell'essere strumento per garantire e osservare le libertà private.

Il socialismo ha una lunga storia prima del marxismo e dopo di esso, è il suo nucleo essenziale. Il

socialismo allo "stato nascente", è una critica di ispirazione morale della proprietà privata e della

ineguaglianza sociale che a essa si accompagna. Inizialmente, possiamo dire che non vi è una

differenza tra socialismo e comunismo. Il punto di partenza del socialismo è che tutti gli uomini sono

eguali nei diritti; talenti e capacità non costituiscono un titolo per appropriarsi di una quota maggiore

di beni o risorse. L'individuo quindi ha dei doveri nei confronti della società e deve ispirarsi ad ideali

solidaristici. I socialisti dell'epoca premarxiana enunciarono alcune indicazioni di fondo comuni: essi

proposero l'abolizione della proprietà privata e la generalizzazione del diritto al lavoro, la

pianificazione coordinata della vita sociale ed economica e il superamento dell'anarchia del mercato.

Successivamente, Marx e Engels nel "Manifesto del Partito Comunista" rivolgono a esse il

rimprovero di utopismo. Marx infatti, prova a mostrare come si possa giungere a una società giusta

oltre il capitalismo concentrandosi sullo studio scientifico di esso. Egli intende con il termine

socialismo, una società collettivistica basata sulla proprietà comune dei mezzi di produzione e sul

principio "a ciascuno secondo il suo lavoro". Con il revisionismo, l'opzione socialista viene presentata

in una nuova chiave di ispirazione kantiana: il socialismo si caratterizza sul rifiuto di una rivoluzione

come atto violento e puntuale, mentre si incentra su un cooperativismo. Il socialismo non è riuscito a

liberare gli uomini rinunciando così a tutti i suoi obiettivi più ambiziosi di trasformazione sociale per

porsi come l'ala sinistra della democrazia. Nonostante sia fallita l'ambizione che l'uomo potessero

prendere in mano le sorti della sua storia, i movimenti socialisti e comunisti hanno inciso non solo

nelle strutture sociali ma anche nelle idee e nelle ideologie più diffuse.

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Il concetto di democrazia è molto chiaro: mentre il liberalismo richiede l'uguaglianza di

autorealizzazione e benessere, il principio della democrazia è l'eguaglianza politica entro una

comunità (demos), ovvero l'eguale partecipazione di tutti i cittadini adulti alle decisioni politiche

vincolanti per tutti. La democrazia rovescia l'idea che solo alcuni uomini, abbiano diritto di prendere

le decisioni politiche. Alla democrazia si associa il principio di maggioranza perché esso massimizza

il numero di coloro che devono obbedire alle leggi cui non hanno dato il loro consenso. Nei grandi

stati, a questo principio si aggiunge quello parlamentare che, costituisce un compromesso necessario

tra l'esigenza della libertà come autogoverno e una indispensabile divisione del lavoro.

L'idea di democrazia come metodo sta alla base della definizione di democrazia proposta da Norberto

Bobbio nel suo saggio "Il futuro della democrazia". Per Bobbio si ha democrazia quando vengono

soddisfatte le seguenti condizioni: alle decisioni collettive partecipano in modo diretto o indiretto un

numero molto alto di cittadini; sono vigenti regole per decidere, a cominciare dalla regola di

maggioranza; i cittadini hanno la possibilità di scegliere tra alternative reali e dispongono di quelle

libertà necessarie. Nel pensiero del Novecento, il maggior teorico della democrazia è stato Hans

Kelsen, il quale sostiene che la democrazia implica, la fine della credenza in una verità assoluta o in

un bene assoluto: essa presuppone il relativismo ed è un metodo di creazione dell'ordine sociale.

Come forma di stato invece la democrazia si basa sull'idea rousseauiana della libertà come

autogoverno. Ma, Kelsen afferma che la democrazia negli stati moderni è più difficile da attuare

rispetto all'idea di democrazia come autogoverno. Le decisioni politiche devono comunque essere

volontà dei cittadini, proprio per questo Kelsen delinea un modello di democrazia con caratteristiche

precise: primato del parlamento rispetto all'esecutivo; sistema proporzionale; le decisioni come

compromesso tra maggioranza e minoranza.

Le teorie propriamente realiste tendono a pensare la democrazia sul modello del mercato. Schumpeter

afferma che: la volontà del cittadino si riduce a poco più che un fascio confuso di impulsi vaghi,

operanti su slogans e impressioni equivoche. Le scelte politiche sono sempre nelle mani di piccoli

gruppi che hanno il potere di prendere decisioni ma, la democrazia si caratterizza per il fatto che tra

questi piccoli gruppi si instaura una competizione simile alla lotta concorrenziale degli imprenditori

per conquistare consumatori. Proprio perché la funzione del voto popolare adesso è quella di favorire

una determinata leadership, è inutile utilizzare un sistema proporzionale ma è più utile un

maggioritario. La funzione dei partiti è quella di conquistare il consenso di un elettore medio che

quando si esprime sul terreno politico, dà luogo a comportamenti infantili e primitivi. A differenza di

Schumpeter, Robert Dahl invece sottolinea il carattere pluralistico della democrazia: si deve a lui

l'introduzione del termine "poliarchia", con il quale si riferisce alle democrazie esistenti in numerosi

paesi dell'Occidente, e caratterizzate dalla diffusione dei diritti politici, dalla libertà di associazione.

Ma il problema è se effettivamente la poliarchia sia così democratica e di come si possa costruire una

democrazia più soddisfacente, che vada oltre i limiti della poliarchia.

La democrazia tradisce sé stessa quando la volontà politica non va più dal basso verso l'alto ma

dall'alto verso il basso, e i cittadini diventano l'oggetto delle strategie stesse messe in atto da parte

delle elites politiche per conquistarne il consenso. John Dewey sostiene che bisogna tener sempre

presenti due aspetti: la democrazia come idea sociale e la democrazia politica come sistema di

governo. Per attuarsi deve influire su tutti i modi di associazione umana, sulla famiglia, la scuola,

l'industria, la religione quindi, essa è un ideale di società. Uno dei pericoli che minacciano la

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democrazia, secondo Dewey è l'eclisse del pubblico, ovvero il fatto che i cittadini si riducano a quei

consumatori passivi di offerte politiche che vengono rappresentati nella teoria di Schumpeter. Le

teorie dinamiche della democrazia costituiscono il polo opposto rispetto alle teorie realistiche.

Capitolo 7: La teoria della giustizia di Rawls

La teoria della giustizia di Rawls ha riportato al centro della discussione filosofico-politica

l’approccio normativo; la sua teoria ha anche stimolato il liberalismo di Robert Nozick e le teorie

comunitarie. Il tema specifico della teoria Rawlsiana è la “giustizia sociale”; egli la definisce come

“un’associazione più o meno autosufficiente di persone che riconoscono come vincolanti certe norme

di comportamento e che agiscono in accordo con esse”. La società dunque, può essere considerata

come un sistema di cooperazione teso ad avvantaggiare coloro che vi partecipano. La società è

caratterizzata sia dal conflitto che da identità di interessi: vi è l’identità di interessi perché la

cooperazione sociale rende possibile per gli individui una vita migliore; vi è un conflitto di interessi

perché, secondo Rawls, ognuno preferisce avere per sé una quota di benefici maggiore rispetto ai

doveri. Ma quali sono, dunque, i principi su cui dovrà essere strutturata la società e, quindi, la

ripartizione dei costi e benefici della cooperazione sociale. Rawls, per rispondere a questa domanda,

riparte dalla teoria del contratto sociale secondo cui i principi di giustizia sono quelli che sarebbero

oggetto di un accordo originario, ovvero quelli sui quali si metterebbero individui liberi, eguali e

razionali. Non possono essere considerati giusti principi quelli che scaturirebbero da un contratto

concluso tra individui reali, portatori di dotazioni differenti di forza, intelligenza ecc. Se si partisse

da una situazione di questo tipo, il contratto che le parti sottoscriverebbero, risentirebbe di questa

ineguaglianza di partenza. Per dare vita ad un contratto giusto, bisogna che vi siano dei giusti principi

su cui basarsi: è necessario che le risorse non siano né abbondanti né scarse, in modo affinché la

cooperazione non risulti superflua, né gli individui siano condannati al fallimento. Secondo Rawls, il

vincolo che deve essere imposto alle parti è il “velo dell’ignoranza”, ovvero quel principio secondo

cui le parti devono scegliere i principi di giustizia disponendo di informazioni generali sulla società

umana e ciascuno deve ignorare quelle che sono le qualità o abilità personali; dal momento che

nessuno conosce i propri interessi specifici, tutti avranno interesse a tutelare gli interessi di tutti. Ciò

serve a spiegare che un contratto giusto è quello che verrebbe sottoscritto da contraenti imparziali

poiché le parti sottoscriveranno solo accordi che tutelino in pari misura gli interessi di ciascuno. I

principi su cui entrambe le parti idealizzate da Rawls si accorderebbero sono: ogni persona ha un

eguale diritto al più ampio sistema totale di eguali libertà fondamentali compatibilmente con un simile

sistema di libertà per tutti.

Le ineguaglianze economiche e sociali devono essere: per il più grande beneficio dei meno

avvantaggiati; collegate a cariche e posizioni aperte a tutti in condizione di equa eguaglianza di

opportunità.

I principi di una società giusta vertono su due questioni basilari: le libertà fondamentali liberali e le

ineguaglianze economico-sociali. Le parti contraenti in posizione originaria sono tutte interessate a

massimizzare la propria dotazione di beni principali; essi, quindi, stabiliscono che ricchezze e redditi

siano ripartiti n modo eguale tra tutti i cooperanti; non gli importa quale sarà la dotazione degli altri

e non nutre invidia, quindi, nel caso in cui una distribuzione ineguale senta di aumentare la dotazione

di beni principali di cui gode ognuno, anche chi riceve di meno non avrà motivi per non accettarla.

L’ineguaglianza Rawlsiana, un’ineguaglianza che produce vantaggi per tutti, unita ad eguali

opportunità, appare preferibile all’eguaglianza perfetta poiché il principio di differenza di Rawls

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appare superiore rispetto a quello di intransigente uguaglianza. Confrontando il principio di Rawls

con quello meritocratico (secondo Rawls, tutte le possibili qualità che un individuo ha, gli sono state

date da una SORTE fortunata e che quindi i benefici ottenuti da ciò non sono meritati e che quindi

risiede anche in questo principio un’ineguaglianza) o quello utilitarista possiamo notare quanto il

primo sia frutto di una scelta più cauta poiché, in esso, anche chi avrà di meno, avrà comunque di più

rispetto ad una situazione di uguaglianza; le parti rawlsiane scelgono il principio di differenza

facendosi guidare dal principio del maxi-min (si sceglie quella distribuzione in cui è migliore la

situazione di chi sta peggio). Sarebbe ragionevole, dunque, abbandonare una situazione di

uguaglianza se si ha la certezza di stare meglio. Una critica, infatti, viene mossa al principio

meritocratico: principio in forza del quale l’ineguaglianza è legittima anche se non migliora le

prospettive dei meno avvantaggiati e le parti, dato il velo dell’ignoranza, non saprebbero quali siano

le loro doti e rischierebbero di darsi la zappa sui piedi se si assumessero il rischio di optare per la

meritocrazia. Dunque, il principio di differenza di Rawls dovrebbe essere accettato dai meglio dotati,

prescindendo dal velo, poiché essi devono cooperare nella società con i meno dotati, e hanno bisogno

che questi ultimi accettino una distribuzione sociale ineguale. Potrà essere accettata soltanto se da

questa ineguaglianza si avrà un miglioramento anche per gli svantaggiati. Il principio di differenza

risiede nell’idea che le istituzioni collettive sono instituite al fine di una cooperazione e nell’idea che

sia un principio di reciproco beneficio.

La teoria Rawlsiana della giustizia sociale costituisce anche una prospettiva all’interno della quale si

possono giustificare normativamente gli interventi redistributivi dello stato sociale del benessere:

l’ineguaglianza nei redditi è giustificabile solo in quanto contribuisce al miglioramento della

situazione di tutti; ciò avviene per mezzo delle tassazioni statali nei confronti dei redditi più alti che

vengono utilizzate per i servizi o sussidi che migliorano la situazione di ciascuno, soprattutto dei più

svantaggiati (Robin Hood).

Per quanto riguarda la moralità all’interno di una società, Rawls si trova ad affrontare un problema:

se si prende sul serio il pluralismo, ovvero la molteplicità di religioni o ideologie, come si può pensare

che i principi di giustizia che devono regolare la cooperazione sociale siano l’espressione di un’unica

visione morale nella quale tutti i cittadini si riconoscerebbero? Si tratta, dunque, di dare una

giustificazione puramente politica e non dell’assunzione di una teoria morale, e sia, quindi, ricevibile

da ogni persona ragionevole, quali che siano gli ideali morali o religiosi. Con il liberalismo politico,

Rawls dimostra che i suoi principi di giustizia sono tali da poter essere accettati da tutte le persone

ragionevoli, ovvero coloro che intendono ricercare principi di cooperazione sociale che siano

accettabili per tutti. Se si vuole dare vita ad una cooperazione equa, allora questi principi devono

essere scelti dal punto di vista della posizione originaria che non privilegia nessuno e realizzare un

consenso per intersezione, ovvero un’adesione da parte di coloro che, non solo condividono una

visione liberale, ma anche di chi giunge attraverso le loro ragioni a condividere i medesimi principi.

Rawls, infine, riflette sui principi che dovrebbero regolare la convivenza tra popoli, in particolare

quelli liberali e quelli che, avendo idee di giustizia differenti, possono essere definiti popoli gerarchici

decenti. Tra i principi che verrebbero scelti, in una posizione originaria, vi sono: il principio che i

popoli sono tenuti ad onorare i diritti umani; i popoli hanno il dovere di assistere altri popoli che

versano in posizioni sfavorevoli tali da impedire loro di avere un regime sociale e politico giusto e

decente.

Il punto di partenza della riflessione di Nozick sono gli individui con i loro diritti, concepiti

lockianamente come diritti che appartengono a essi prima e a prescindere dall’istituzione dello stato.

La nascita dello stato legittimo si può spiegare secondo una logica di mercato: per garantirsi la

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sicurezza, gli individui cominceranno dapprima a costruire associazioni di mutua protezione, e poi,

con la divisione del lavoro, ad acquistare protezione da compagnie costituite da altri individui-

imprenditori per vendere questo servizio. I problemi derivanti dall’esistenza di una pluralità di

compagnie di protezione avranno come conseguenza che, prima o poi, resterà una sola compagnia

dominante. Per garantire ai propri clienti la sicurezza e corrette procedure di risoluzione dei conflitti,

la compagnia di protezione dominante dovrà proibire agli indipendenti di farsi giustizia

autonomamente. Si giunge così alla genesi dello stato minimo che è considerato legittimo poiché

nasce senza violare i diritti di nessuno (coloro che non possono farsi giustizia da soli, vengono risarciti

con l’elargizione gratuita di protezione). Nozick, dunque, vuole dimostrare che è possibile dar luogo

alla costituzione di uno stato (minimo) legittimo anche senza passare per un contratto. Il passo

successivo è quello che riguarda la teoria della proprietà: “se io sono libero, ovvero sono padrone di

me stesso, sono padrone anche dei miei talenti e delle mie capacità e di ciò che, grazie a essi, riesco

a produrre o a guadagnare; dunque, se uno stato minimo mi impone di pagare tasse per finanziare

servizi sanitari o educativi, o sussidi per i disoccupati, esso dà luogo ad una violazione dei miei diritti

di auto appartenenza; dunque, tanto è legittimo è lo stato minimo, quanto illegittimo è uno stato che

vuole assumersi compiti che vanno oltre la garanzia della sicurezza e che impone tasse ai suoi

cittadini per questo scopo”. L’unica teoria valida della giustizia, secondo Nozick, è la “teoria del

titolo valido”: ognun possiede legittimamente ciò che ha acquisito o attraverso una giusta acquisizione

iniziale, o attraverso un libero trasferimento del bene da qualcuno a qualcun altro. Nozick critica

fortemente le politiche egualitarie o redistributive come quelle presentate da Rawls e afferma che nel

caso di proprietà e ricchezze attualmente possedute queste siano il risultato di acquisizioni iniziali

giuste e di conseguenti legittimi trasferimenti.

Nozick si sofferma anche sul concetto di “comunitarismo”: obbiettivo polemico delle impostazioni

comunitarie è, in primo luogo, la tesi liberale della priorità del giusto sul bene; esistono molte

concezioni del bene o visioni della vita buona in disaccordo tra loro, non vi sono ragioni specifiche

per cui se ne dovrebbe scegliere una rispetto ad un’altra e inoltre, bisogna ricordare che il compito

della società è esclusivamente quello di garantire che ciascuna ricerca individuale della vita buona

possa svilupparsi al meglio e senza danneggiare gli altri. La politica liberale pretende di essere ispirata

solo da regole che devono essere neutrali rispetto a insiemi di credenze rivali e concorrenti intorno

alla migliore maniera di condurre una vita umana. Questa neutralità delle istituzioni politiche rispetto

alle diverse visioni del bene o della vita buona è realizzabile? Sendel, ad esempio, è negativo: alle

volte nascono delle controversie normative troppo forti per poter essere neutrali; ogni formazione

implica scelte che inevitabilmente privilegiano l’una o l’altra delle visioni del bene alternative. La

tesi Rawlsiana riguardo la priorità del giusto sul bene viene completamente rovesciata: la scelta di

norme giuste non può pretendere di restare neutrale fra visioni controverse del bene. Nella visione di

Sandel, gli individui non sono neppure in condizione di scegliere in senso proprio, quasi fossero

soggetti astratti e disincarnati da legami e impregni normativi, tra visioni alternative di quello che la

vita è buona per loro. Per Sandel, l’identità dell’io riflette la visione del proprio bene e che l’individuo

può cambiare a seconda delle proprie esperienze ma dalla quale non può distanziarsi ed assumere un

punto di vista esterno.

Il comunitarismo contrappone a una visione del giusto astratta e neutrale una visione del bene

sostanziale e situata: essa si radia in quella imprescindibilità del legame di comunità sociale grazie al

quale esistiamo come soggetti; all’individualismo liberale si contrappone la consapevolezza del

carattere costitutivo che il nesso sociale ha per le personalità individuali. L’ideale liberale della

neutralità non è attingibile: anche se fosse attingibile non sarebbe desiderabile dato che gli individui

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non sarebbero capaci di giudicare in modo razionale e non ci sarebbe nulla di male se la società,

dunque, esercitasse una funzione di guida attraverso norme ispirate da una visione sostantiva del bene

comune. La tesi secondo la quale ogni giudizio normativo è formulato dall’interno di una tradizione

dà adito a risultati paradossali: se la tesi della intrascendibilità delle tradizioni appartiene essa stessa

ad una tradizione e quindi non è riconosciuta da tutti; se invece trascende le tradizioni ponendosi

come tesi universalmente valida, allora smentisce il suo stesso assunto contestualista.

Se assai debole è la parte costruttiva, altrettanto non può dirsi per la parte critica: è difficile evitare di

prendere posizione tra visioni controverse del bene o di cosa sia la vita buona per l’uomo; ciò vale

principalmente per quanto riguarda i problemi di giustizia distributiva.

Nella prospettiva rawlsiana questo difficile problema si risolve con il ricorso alla teoria dei beni

principali. I beni primari costituiscono strumenti necessari per il perseguimento di tutti gli scopi

umani: essi includono la libertà di base, la libertà di movimento e la libera scelta del tipo di

occupazione, il potere e le prerogative delle cariche e delle posizioni di responsabilità, il reddito e la

ricchezza e, in fine, le basi sociali del rispetto di sé. I beni primari non sono le cose che qualcuno

potrebbe desiderare di più in base alla sua dottrina comprensiva, ovvero alla sua visione del bene.

Secondo Rawls deve avere la funzione di criterio accettabile da tutti per giustificare le richieste in

conflitto dei cittadini tra loro. Esistono due modi per cui qualcuno può essere svantaggiato da una

distribuzione anche eguale di beni primari: può esserlo in quanto la sua personale ricerca della vita

buona può giovarsi meno del paniere di beni messo a sua disposizione, per motivi attinenti alla

dottrina comprensiva nella quale egli si riconosce. Qualcuno, però, potrebbe essere svantaggiato

anche perché, a parità di dotazione dei beni primari, ottiene acquisizioni inferiori, ad esempio perché

è portatore di una qualche forma di disagio; chi è costretto ad affrontare spese ingenti per cure

mediche avrà minori possibilità di condurre una vita soddisfacente. Il punto sul quale Sen insiste è

che vi sono molte condizioni personali e sociali che influenzano la conversione di redditi e risorse in

qualità della vita. Sen introduce due concetti che sono caratteristici per la sua riflessione, quelli di

funzionamento e capacitazione: il concetto di funzionamento (essere nutrito abbastanza, non soffrire

di malattie evitabili ecc…) riguarda ciò che una persona può desiderare, in quanto gli dà valore di

fare o di essere.

La capacitazione di una persona è una specie di libertà: la libertà sostanziale di realizzare più

combinazioni alternative di funzionamenti. Secondo Sen, la società desiderabile non è quella che

massimizza la dotazione di beni primari per gli individui, ma quella che massimizza la loro libertà

sostanziale. Non tutti i funzionamenti hanno la stessa importanza: l’etica e la teoria politica devono

occuparsi anche della questione di quali siano i funzionamenti da includere nell’elenco delle cose

importanti da realizzare. La qualità della vita delle persone, secondo Sen, può non essere colta bene

attraverso una misura standardizzata come quella del reddito. Bisogna entrare nel campo dei giudizi

di valore, ovvero della discussione pubblica su quali siano i funzionamenti che consideriamo più

essenziali. Il problema del bene rientra in primo piano nella riflessione di teoria politica; questo

accade in modo ancor più deciso nella riflessione di Martha Nussbaum, che riabilita un approccio di

tipo aristotelico e una teoria del bene. La teoria di un approccio giusto e del bene possono

compenetrarsi reciprocamente, nel senso che una teoria della giustizia stabilisce come e perché tutti

devono avere accesso ai beni fondamentali, mentre una teoria dei beni si occupa esclusivamente della

natura di questi. La riflessione politica di Habermas si radica fortemente all’interno dell’orizzonte di

teoria morale elaborato dallo stesso Habermass e da Karl-Otto Apel, nella chiave di un’etica del

discorso. Alla base della teoria democratica che Habermas costruisce in fatti e norme vi è un principio

che definisce cosa debba intendersi per norma valida: principio del discorso. Nell’ambito della

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filosofia pratica bisogna distinguere fra due tipi di norme d’azione: le norme morali e le norme

giuridiche. Il principio del discorso deve essere specificato e differenziato per divenire idoneo a

generare norme dei due diversi tipi. Da esso discendono un principio morale di universalizzazione e

un principio concernente le norme giuridiche legittime, ovvero il principio democratico (secondo

Habermas): possono pretendere validità legittima solo le leggi approvabili da tutti i consociati in un

processo discorsivo di statuizione a sua volta giuridicamente costituito. Il principio della democrazia

è quindi il punto d’incontro tra lo strumento del diritto e il principio dell’accordo discorsivo di tutti

gli interessati, sul quale può fondarsi la validità di norme pratiche. Secondo Habermas, dunque, le

norme giuridiche che governano la nostra convivenza sociale devono essere il risultato di processi

discorsivi precisamente e rigorosamente istituzionalizzati, capaci di generare un diritto legittimo: è il

compito delle istituzioni della democrazia. Habermas ritiene che la democrazia debba essere pensata

a partire da un rapporto di complementarietà tr4a l’autonomia liberale dell’individuo e l’autonomia

pubblica dei cittadini: diritti individuali e sovranità popolare non stanno in conflitto ma si integrano

e si presuppongono reciprocamente. I diritti degli individui sono condizionati da un processo

democratico e ne sono anche il risultato, poiché i diritti sono anche quelli che i cittadini si auto

attribuiscono. I diritti fondamentali che definiscono l’assetto di uno stato democratico devono essere

pensati come quei diritti che i cittadini si riconoscono reciprocamente al fine di regolare

legittimamente la loro convivenza con strumenti giuridici: i diritti, dunque, non esistono a prescindere

dalla comunità politica ma la comunità politica non prescinde dai diritti. Il compito del filosofo

politico è quello di indicare le categorie di diritti che devono essere presenti in un legittimo stato

democratico:

• I diritti liberali, ovvero quelli che tutelano le pari libertà individuali;

• I diritti che definiscono lo status di membro associato;

• Diritti ad agire in giudizio per la tutela dei propri diritti;

• Diritti ad esercitare l’autonomia politica (diritti democratici);

• Diritti di ripartizione sociale, ovvero godere di condizioni di vita che consentono, mediante pari

opportunità, l’utilizzo di tutti i diritti già elencati.

Per Habermas, i diritti formano un sistema ed include i diritti sociali che non sono fini a sé stessi

rappresentano delle precondizioni per il pieno esercizio di tutti gli altri diritti; secondo lui il fine della

società non è la giustizia sociale ma, questa, è una condizione imprescindibile della democrazia.

La democrazia, per come viene pensata da Habermas, è strutturalmente aperta a due esiti ben diversi:

i titolari dei diritti possono accogliere l’invito a misurarsi con gli altri sul terreno del discorso e a

confrontarsi ricercando gli argomenti migliori, oppure possono usare i loro diritti di comunicazione

e di partecipazione esclusivamente come strumento per perseguire strategicamente i propri interessi

egoistici. Perché si mantenga viva la comunicazione democratica è necessario che il Parlamento sia

sempre stimolato e controllato dal discorso libero e informale che si svolge nella sfera dell’opinione

pubblica. La sovranità popolare necessita della deliberazione formale in sedi istituzionalizzate e del

dibattito informale dell’opinione pubblica e che venga, inoltre, arginata l’invadenza di quei poteri

sociali che manipolano i mezzi di comunicazione costituendo una minaccia per la comunicazione

democratica.

“A stretto rigore – scrive Habermas – questo potere comunicativo nasce dall’interazione che si crea

tra formazione della volontà istituzionalizzata come stato di diritto e sfere pubbliche, culturalmente

mobilitate. Queste sfere poggiano sulle associazioni di una società civile egualmente separata sia

dallo stato che dall’economia”

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Una delle principali difficoltà che caratterizzano la teoria democratica di Habermas è quella di

comprendere il rapporto che in essa si stabilisce tra gli aspetti normativi e quelli descrittivi. I processi

di intesa discorsiva, invece, sono radicati nelle strutture dei mondi vitali moderni, che si riproducono

anche grazie ad essi; la razionalità del discorso è per molti versi già attiva e operante nelle

articolazioni della società moderna: “irrealistica è l’ipotesi che ogni comportamento sociale possa

essere pensato come agire strategico e dunque spiegato in termini di calcolo egocentrico e

utilitaristico”. Questo rifiuto di una visione puramente strategica dell’agire politico induce Habermas

a incorrere nell’errore: nelle democrazie reali, il potenziale di razionalità discorsiva può essere ridotto

o neutralizzato se l’opinione pubblica viene manipolata dai grandi strumenti di comunicazione di

massa ed anche la politica democratica del discorso pubblico rischia di dover fare i conti con la

questione dei poteri che si sottraggono alla mediazione comunicativa.

Uno dei rimproveri che più frequentemente si muove alle teorie normative è proprio quello di non

avere occhi per la dimensione del potere e, dunque, la forza che caratterizzerebbe la dimensione

politica.

Secondo Carl Schmitt la politica non è nient’altro che un conflitto senza quartiere: il realismo politico

schmittiano sta alla radice di un altro tipo di esito, ovvero quello messianico-escatologico: se il diritto

è, quanto alla sua stessa costituzione, violenza, allora non ha senso ragionare intorno al buon ordine

giuridico; si tratta piuttosto di collocarsi nell’orizzonte del suo trascendimento messianico. La tesi

politica o del diritto come puro potere o pura forza si presenta quindi nel pensiero del Novecento

come suscettibile alle curvature tra loro radicalmente antitetiche: il mondo degli uomini è

destinatamente assegnato a un orizzonte di violenza e di peccaminosità, che è tanto poco

razionalmente dicibile, quanto fortemente segnato da più o meno espliciti presupposti teologici.

Michel Foucault, invece, imprime alla riflessione sul potere una svolta che costituisce una vera e

propria rottura. Secondo il filosofo il potere è tanto coestensivo con la realtà umana e sociale quanto

irriducibile ai modi tradizionali attraverso i quali è stato rappresentato: il potere non è qualcosa che

si concentri nella istituzione statale ma vive in un insieme di pratiche che attraversano la società in

ogni suo aspetto: si tratta di costruire una “microfisica del potere”, tracciarne le mappe partendo dai

luoghi della reclusione fino alle forme di controllo sul corpo degli individui e sulla sessualità.

Tra potere e sapere, tra potere e forme del discorso, vi è una interconnessione molto più intrinseca e

profonda di quanto a prima vista non appaia: il potere non condiziona il sapere, essi sono intrecciati:

“non si può configurare un elemento del sapere se non è conforme ad un insieme di regole e

costrizioni proprio di un certo tipo di discorso scientifico; viceversa, nulla può funzionare come

meccanismo di potere se non si afferma con procedure, strumenti, mezzi, obbiettivi che possono

essere convalidati in sistemi più o meno coerenti di sapere”. Secondo Foucault, il potere non può

essere più rappresentato come qualcosa che semplicemente opprime o reprime gli individui, il potere

li costituisce poiché ha natura produttiva e non repressiva, dunque li costituisce.

Esso struttura e codifica le soggettività e i comportamenti. Nella sua prospettiva, la critica non è

qualcosa che faccia appello ad un principio o criterio razionale che trascende il potere, ma è tutta

interna all’intreccio conflittuale di strategie di potere cui nella realtà sociale nulla è sottratto: “si

necessita di un atteggiamento morale e politico, ovvero l’arte di non essere eccessivamente

governati”. La rinuncia alla riflessione sul potere legittimo, motivata dal sospetto che questi criteri

mettano capo in fondo alla legittimazione dei poteri esistenti, lascia spazio solo per una politica critica

intesa come resistenza o destabilizzazione; una linea di fuga che resta consegnata, al di là dei suoi

discutibili presupposti teorici, a una sorta di cattiva infinità, di circolo senza uscita tra

governamentalità e decostruzione.

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Un’altra critica che viene mossa alla politica è la questione della supremazia sociale del sesso

maschile su quello femminile. Sviluppata già alla fine del 700, la critica del patriarcato come uno

degli assi portanti della civiltà occidentale, diventa il centro di sofisticate elaborazioni teoriche. Una

delle autrici più influenti è Luce Irigary che intraprende una critica del modo in cui viene compresa e

rappresentata la donna e la sua sessualità. L’autrice basa la sua teoria sul pensiero freudiano secondo

cui la donna è fondamentalmente non-maschio, colei che non possiede e invidia l’organo sessuale

maschile: la differenza sessuale è dunque vista come mera privazione.

Questa svalutazione femminile è la caratteristica principale del potere patriarcale che assume il sesso

maschile come paradigma dell’intero genere umano.

“Visto che sugli uomini si modella il genere umano per eccellenza, il differire delle donne dagli

uomini diventa una differenza che corrisponde a una mancanza o inferiorità”. L’ordine simbolico

patriarcale si struttura come un sistema a economia binaria, duale e gerarchica, dove il maschile

rappresenta il polo positivo e dominante, mentre il femminile rappresenta il polo negativo e dominato.

Nell’ordine simbolico patriarcale il maschile si identifica con l’universale, mentre la donna è

privazione, umanità incompleta. Per quanto riguarda la politica, in un primo tempo vi partecipavano

soltanto gli uomini, mentre le donne venivano escluse; nel corso del Novecento, invece, l’eguaglianza

politica si spinge a includere tutti gli individui, senza differenza di sesso; ma questa uguaglianza

nasconde, però, un paradosso: “prima coerentemente escluse, le donne vengono poi incluse

attraverso una logica di omologazione che prescinde dal fatto che sono donne e non uomini”. Si

consente alle donne di diventare uguali agli uomini, mentre però esse restano donne, e si vuole che

tali restino, a tutti gli effetti pratici e simbolici.

Una tappa fondamentale che segna l’opinione sulla differenza di sesso all’interno della società è stata

marcata da Carol Gilligan che sviluppa una critica della psicologia morale evolutiva di Lawrence

Kohlberg; nei suoi studi di psicologia evolutiva distingue diversi livelli di sviluppo della coscienza

morale: da uno studio preconvenzionale, in cui il bambino apprende le nozioni di giusto e sbagliato

soltanto in termini di punizioni e ricompense che ne derivano, si passa ad uno studio convenzionale,

dove il buon comportamento è quello conforme alle regole date dalla famiglia e dalla società, e infine

a uno studio postconvenzionale, dove i dilemmi morali non vengono risolti col riferimento alle regole

di fatto vigenti, ma richiamandosi a principi o valori morali di tipo universali. La riflessione della

Gilligan parte dal fatto che le ragazze tendevano a collocarsi ai livelli più bassi, senza raggiungere

quello considerato da Kohlberg come lo stadio più elevato di consapevolezza morale. Gilligan

propone un’interpretazione alternativa: il fatto che le donne tendano in generale a non risolvere i

dilemmi morali in base a principi astratti e universali non significa che non abbiano raggiunto un

completo sviluppo della competenza morale ma, piuttosto, è indice del fatto che l’etica femminile si

lascia guidare da orientamenti diversi che appaiono come inferiori: nelle donne si osserva un

approccio alla morale non inferiore, ma diverso da quello più congeniale ai maschi, infatti le scelte

giuste non si ricavano da principi universali ma dai rapporti e dai legami preesistenti, dalle aspettative

di chi attende che ci si prenda cura di lui. Le donne sono indotte a prendere sul serio sempre e solo

altri particolari, altri concreti, cioè caratterizzati da bisogni che chiedono risposte; è proprio questo

l’orientamento morale che le donne hanno nei confronti del mondo. Propria della donna è l’etica della

cura che si distingue dall’etica universalistica dei principi e si indirizza alla persona concreta che

esprime un bisogno. Per le donne, dunque, non vi è un unico parametro di pensiero morale, un’unica

concezione del giusto: a un’etica maschile dei principi fa da contraltare un’etica femminile della cura.

Questa affermazione della differenza femminile, però, pone un problema che la stessa teoria

femminista ha messo subito a fuoco: sostenere la specificità femminile nel senso di un’etica della

cura significa iscriversi ancora una volta nell’orizzonte binario dell’ordine simbolico patriarcale: “la

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donna come natura è precisamente ciò che l’uomo posiziona come altro da sé e per sé”. Il gesto

femminile di cambiare il segno della dicotomia donna/natura in donna/altruismo, contro il valore

negativo di uomo/tecnologia e uomo/egoismo, più che dissolvere l’ordine patriarcale lo legittima.

Susan Moller Okin sviluppa, dal punto di vista delle donne, una critica stringente di alcune prospettive

influenti della teoria politica contemporanea: se si accetta l’assioma liberista secondo il quale

ciascuno è proprietario di sé e di ciò che produce il suo lavoro e la sua fatica, allora se ne dovrebbe

trarre la conseguenza assurda che i figli sono proprietà delle donne. Al comunitarismo, Okin fa notare

che le tradizioni di pensiero etico e di riflessione sulla vita buona che questo vorrebbe valorizzare

prevedono per le donne un ruolo irrimediabilmente subalterno, e quindi non sono tradizioni alle quali

il pensiero etico femminile si possa richiamare.

Secondo Okin, Rawls ha il merito di aver messo nel giusto ruolo di risalto la famiglia che, nella

società, è un fattore che condiziona e determina le opportunità di cui gli individui possono giovarsi

ma gli critica il fatto di non aver tratto, dai principi che egli pone alla base della sua costruzione, tutte

le conseguenze che se ne sarebbero potute ricavare; se si approfondisse, ad esempio, l’dea del velo

dell’ignoranza, assumendo che le parti in posizione originaria non conoscono il proprio sesso, allora

se ne trarrebbe la conseguenza che le parti in posizione originaria dovrebbero preoccuparsi di

estendere anche alla sfera familiare e ai rapporti di genere i principi di giustizia, ma anche una

riconsiderazione del modo in cui i rapporti di genere sono strutturati nelle nostre società. Alla teoria

di Okin sono state mosse delle osservazioni critiche esattamente opposte a quelle indirizzate alla

Gilligan: concentrando tutta l’attenzione sulla giustizia all’interno della famiglia e nei rapporti di

genere, la Okin trascurerebbe l’importanza della differenza femminile e l’esigenza di politiche sociali

differenti. La Okin, dunque, conclude il dialogo con la femminista MacKinnon afferma che “non

possiamo in alcun modo sapere quanto e come donne e uomini siano diversi, fino a quando non

potremo vederli in una situazione di eguaglianza”.

Capitolo 8: Questioni per la filosofia politica

La visione di Rawls lascia aperto il problema di come si debbano determinare i confini del

ragionevole: se questi confini vengono stabiliti sullo stesso terreno del ragionevole, allora lo scotto

che si paga per rispettare il pluralismo delle dottrine comprensive è la rinuncia a una costruzione

teorica che possa dirsi basata su solidi fondamenti razionali; se invece i confini del ragionevole

fossero determinati da una precisa teoria filosofica, allora la politica dipenderebbe da una dottrina

comprensiva, e si ricadrebbe nella posizione che il Liberalismo politico di Rawls voleva superare.

“più si procede in una direzione, più si arretra dall’altra”. La pretesa di sganciare la teoria politica

dalla sua dipendenza da una giustificazione morale sembra per un verso facilitare, ma per un altro

verso rendere più difficile la giustificazione razionale della teoria politica stessa. Anche nel pensiero

di Habermas ci sono delle incoerenze interne: egli rifiuta di far dipendere i principi del giusto ordine

politico da una prospettiva morale, alla quale la politica finirebbe per essere gerarchicamente

subordinata. Egli fa derivare il principio della democrazia dal principio del discorso, in forza del quale

sono valide quelle norme che potrebbero meritare il consenso da parte di tutti i partecipanti a un

discorso pratico. Appare assai convincente l’obiezione secondo la quale, nel principio del discorso, è

già contenuto il nucleo di quello che verrà poi articolato come moralità: ma se questo è vero, ne

consegue che la teoria della democrazia dipende sostanzialmente da assunti di teoria morale, anche

se nega questa dipendenza rifiutando la subordinazione gerarchica del diritto democraticamente

statuito alla morale. L’esigenza che sta alla base della riflessione di Rawls e di Habermas su questo

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punto è che per un verso si vuole mantenere un qualche nesso tra teoria politica e teoria morale, per

un altro verso si ritiene che il riconoscimento del pluralismo e dell’autonomia del momento politico

esigano che questo non dipenda da teorie morali specifiche. Ma né Rawls né Habermas riescono a

soddisfare insieme le due esigenze delle quali si fanno portatori. Per quanto riguarda la questione del

nesso tra giustificazione morale e giustificazione politica, appare più coerente una linea che si ispiri

alle osservazioni di Karl-Otto Apel: sembra chiaro che la ricerca intorno al giusto ordine politico non

può tagliare il cordone che la lega a una concezione della giustizia che si basa su una teoria morale;

chiarito questo punto, si tratta di capire quale teoria morale sia in grado sia di fornire una sufficiente

giustificazione razionale di sé medesima, sia di costruire lo sfondo per una costruzione politica che

non sacrifichi la fondamentale istanza del pluralismo. L’ipotesi più percorribile potrebbe essere quella

di assumere come punto di partenza una teoria morale che per un verso è in grado di fornire solide

argomentazioni a proprio sostegno, e per un altro non sembra meno pluralistica della visione di

Rawls: si tratta, dunque, di un’etica il cui nucleo è la disponibilità ad ascoltare tutte le voci e tutte le

istanze umane, e che quindi lascia fuori solo coloro che non sono disposti a sentire le ragioni degli

altri. Un’etica del discorso o del dialogo non è soltanto profondamente pluralista ma è anche in grado

di mostrare perché ogni individuo razionale la dovrebbe accettare o perché non potrebbe trovare

argomenti validi per rifiutarla. Supponiamo di intraprendere una discussione teorica intorno al

problema: prima di rispondere, chiunque si ponga seriamente il problema, dovrebbe disporsi

nell’atteggiamento di chi è pronto a dare ascolto a tutti gli argomenti che gli verranno proposti. Non

appena si cominci a esaminare un problema, si accetta già quella che potremmo chiamare la

fondamentale norma della discussione critica, che impone di sottoporre ogni tesi al confronto

discorsivo, ma l’ascolto e il rispetto che si devono a tutti gli argomenti non possono non estendersi

anche alle persone e perciò dalla norma discende anche una più impegnativa norma morale, che

appunto prescrive di prestare ascolto alle esigenze di tutte le persone. Apel dice: “nell’apriori

dell’argomentazione è insita la pretesa di giustificare non solo tutte le affermazioni della scienza, ma

tutte le pretese umane (comprese quelle implicite che sono contenute nelle istituzioni). Chi argomenta

riconosce implicitamente tutte le possibili pretese di tutti i membri della comunità della

comunicazione che si possono giustificare tramite argomenti razionali e si impegna a giustificare

razionalmente tutte le pretese che si hanno nei confronti degli altri individui”. Il principio di un ‘etica

del discorso prescrive fondamentalmente il rispetto e l’ascolto delle ragioni degli altri; egli afferma,

inoltre, che la giusta risoluzione dei conflitti che potrebbero insorgere tra esigenze in contrasto è

quella che risulterebbe dal dialogo argomentativo e paritario tra tutti gli interessati impegnati in co-

responsabilità solidale nella ricerca di soluzioni che soddisfino gli interessi di tutti.

Dal principio etico che prescrive il rispetto di tutte le persone consegue anche la giustificazione di un

ordine giuridico-politico che garantisca l’eguaglianza di diritti, ovvero l’eguale libertà e dignità di

tutte le persone. La necessità di superare la mera moralità in un ordine giuridico ha la sua radice nella

moralità stessa: essa mi prescrive di rispettare le altre persone ma non può impormi ciò finché io non

abbia la garanzia che anche gli altri si comporteranno allo stesso modo nei miei confronti. “Perciò,

il principio del dialogo non è soltanto il principio della persuasione disarmata ma è anche il principio

della coercizione giuridico-politica, cioè della difesa efficace di coloro che rispettano la sua regola

da coloro che invece non intendono rispettarla”. Il principio etico in forza del quale le esigenze di

tutte le persone hanno diritto a pari considerazione e rispetto deve costituire il filo conduttore per

individuare le linee di fondo di un ordine giuridico legittimo. Fermo restando, naturalmente, che la

comunità giuridicamente organizzata dei cittadini di uno stato non può essere in alcun modo

assimilata a una comunità etica: questa sarebbe il regno di individui che si regolano nei rapporti

reciproci secondo quanto prescrive il punto di vista morale. La comunità politica conferisce agli

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individui dei diritti il cui fine è quello di assicurare a essi eguale libertà e dignità ma che possono

comunque servirsi dei loro diritti fondamentalmente per scopi di autoaffermazione; dunque la

comunità politica non attuerà mai compiutamente quell’ideale di eguale rispetto per tutte le persone

che pure ne deve ispirare gli istituti fondamentali e al quale essa si deve sempre commisurare. Se

proviamo a spiegarci in termini contrattualistici, si potrebbe dire che gli istituti di un ordine giuridico

legittimo sono quelli che si darebbero nell’atto di costruire una comunità politica, individui che si

rispettano giuridicamente in modo reciproco; la finzione contrattualistica è un buon metodo per fare

ciò, ma deve essere chiaro che è un patto i cui autori sono individui eguali e imparziali. Se mettiamo

a confronto i principi di giustizia di Rawls e il sistema dei diritti democratici di Habermas possiamo

giungere ad alcune conclusioni: mentre in Rawls la struttura di una società giusta si basa su una dualità

i principi, in Habermas viene proposta un’articolazione più ampia, i cui punti fondamentali sono i

diritti di libertà, i diritti democratici e i diritti sociali. In Habermas, però, il tema della giustizia sociale

ha una rilevanza inferiore rispetto a Rawls poiché secondo il primo questi sono “diritti di ripartizione

sociale” e non costituiscono un fine in sé, ma sono strumentali al godimento degli altri diritti. Se si

riparte dal fondamentale assunto critico circa la pari dignità degli interessi di tutte le persone, la più

promettente da seguire sembra quella che si colloca tra Habermas e Rawls: i diritti e gli istituti nei

quali si traduce l’istanza dell’eguaglianza o della giustizia sociale non possono essere visti come

sostanzialmente funzionali agli altri diritti; devono essere assunti come diritti fondamentali a pari

titolo dei diritti di libertà individuale e dei diritti democratici. Con Habermas è opportuno distinguere

chiaramente tra i diritti di libertà individuale e i diritti democratici. Solo attraverso una siffatta

articolazione, il sistema dei diritti può effettivamente costituire un quadro all’interno del quale sia

assicurato il pieno e concreto rispetto per tutte le persone. Si tratta di capire meglio come le tre

dimensioni dei diritti di libertà, diritti democratici e dei diritti sociali debbano essere pensate ciascuna

per sé e, al tempo stesso, nel nesso che le unisce. I diritti di libertà individuale costituiscono la

garanzia di base perché ognuno sia non solo tutelato nella sicurezza e nella persona, ma possa

sviluppare la sua ricerca del proprio bene, e possa far valere liberamente le proprie istanze e i propri

punti di vista: essi tutelano l’insopprimibile esigenza dell’individuo di disporre di uno spazio di scelte

squisitamente personali, di cui egli solo si assume la responsabilità. I diritti democratici assicurano

che gli interessati concorrano attraverso il dibattito pubblico e le appropriate procedure di

rappresentanza e di deliberazione. I diritti sociali hanno la finalità di assicurare a ciascuno le

condizioni per il più ampio sviluppo possibile della sua personalità umana, ovvero dei suoi

funzionamenti e delle sue capacitazioni. Per molti versi, i diritti fanno sistema, in quanto si

presuppongono reciprocamente: i diritti democratici, per esempio, presuppongono come condizioni

precedenti i diritti di libertà e i diritti sociali; questi altri due tipi di diritti presuppongono i diritti

democratici in quanto è solo nell’esercizio dell’autolegislazione che i contenuti più determinati dei

diritti di libertà e dei diritti sociali possono essere legittimatamente fissati: essi hanno bisogno della

sovranità popolare per la loro determinazione ed esplicitazione, così come questa ha bisogno dei diritti

di libertà e dei diritti sociali come sue precondizioni. Questa idea del reciproco presupporsi si può far

valere per tutti i tipi di diritti: quelli di libertà richiedono quelli democratici per la loro garanzia e

quelli sociali per le risorse che consentono il concreto esercizio. I diritti sociali, senza i diritti di libertà

e i diritti democratici non potrebbero conferire agli individui quelle condizioni che essi stessi devono

in ultima istanza giudicare come funzionali allo sviluppo della loro individualità. Anche se si assume

la tesi che un sistema dei diritti così concepito costituisca una delle strutture portanti di una

democrazia non apparente, è necessario mettere a fuoco anche un altro aspetto: tra i diversi tipi di

diritti non regna nessuna armonia prestabilita, nel senso che il gioco degli equilibri tra di essi include

necessariamente tensioni o frizioni, che solo nel concreto della pratica democratica si possono

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sciogliere. Una volta stabilito il principio della presupposizione reciproca di autonomia privata e

autonomia pubblica, i precisi confini tra le due sfere devono essere determinati mediante l’agire

politico e mutano con le circostanze storiche. Secondo Habermas, per un verso la democrazia

presuppone i diritti di libertà e i diritti sociali che ne sono precondizioni; per altro verso questi diritti

vengono stabiliti nel processo democratico, che li reinterpreta e ricodifica. Quello che si può sostenere

dal punto di vista della teoria è che, se la democrazia intesa come l’insieme sinergico dei diritti di

libertà, sociali e politici, è una questione di gradi: tanto più si attua e si espande, quanto più rende

giustizia a tutte le sue dimensioni, da quella della libertà alle grandi tradizioni liberale, democratica

e socialista.

La tesi della priorità del giusto sul bene deve essere ricalibrata; non per andare nella direzione

comunitaria di una priorità del bene sul giusto, ma piuttosto in quella di un più bilanciato equilibrio

tra queste due dimensioni. Il punto risalta in tutta la sua evidenza se ci si sofferma sulla questione dei

diritti sociali, ovvero dell’eguaglianza di risorse: mentre il primato del giusto impone a Rawls di

fermarsi all’idea, anche la distribuzione dei beni primari deve essere quanto più possibile eguale, le

critiche mosse portano alla conclusione che una società ben ordinata non può fare a meno di operare

delle scelte circa quelli che si considerano i funzionamenti o le capacità più importanti per gli

individui, da promuovere e garantire. La politica non può non lasciarsi guidare da concezioni di ciò

che è bene per gli individui che devono essere elaborate e verificate nel dibattito pubblico. Tanto in

Rawls quanto in Habermas prevale l’dea che le questioni concernenti il bene, a differenza di quelle

concernenti il giusto, non siano suscettibili di un’argomentazione tanto rigorosa quanto quella che si

può applicare alle questioni morali. Sebbene questa tesi non sia priva di una sua plausibilità, essa non

può essere assunta in senso troppo rigido; la riflessione teorica su quali siano i beni più importanti

per l’uomo è terreno di argomentazione razionale non meno di quanto lo sia la riflessione sulla

giustizia. Dal punto di vista della filosofia sociale e politica, si aprono ampi spazi non solo per la

ricerca di quelli che potremmo considerare come gli “elementi necessari a un funzionamento

autenticamente umano”, ma anche per una riconsiderazione dell’importantissimo tema dei beni

comuni, cioè di quei temi, come l’ambiente sano, la cultura, il cui valore non sta solo negli effetti

positivi che generano, ma anche nel fatto che si tratta di beni che sono goduti senza che questo

implichi privazione per qualcun altro; sono, invece, beni cui noi godiamo solo in quanto anche gli

altri ne godono. Essi, perciò, dovrebbero essere oggetto di particolare attenzione in una società

orientata verso lo sviluppo di tutti. La teoria normativa ci parla di una società giusta, di una

democrazia come dovrebbe essere; alcuni ritengono che la teoria normativa non sia altro che un

esercizio sterile, un trastullo per anime belle che niente ha che vedere con la dura realtà di forza e

conflitto che caratterizza la politica nella sua verità di fatto. Questo atteggiamento è riduttivo perché

non si avvede che, per quanto severa sia la politica, questioni di giustizia in essa sempre si pongono,

argomenti si discutono, e pertanto il momento normativo è anch’esso radicato e presente nella verità

dei fatti: negarlo significherebbe accreditare una visione della politica troppo unilaterale, molto poco

realistica. Quel modo di vedere per cui sembra che la teoria normativa possa quasi descrivere la

politica così com’è realmente è insoddisfacente; che non sia così, ovvero che tra norma e fatto sussista

una forte tensione è un punto cui lo stesso Habermas è ben consapevole: l’assunto proprio della teoria

normativa è che “non esistono impedimenti di principio a un ordinamento egualitario dei rapporti

interpersonali ma, naturalmente, le nostre società sono profondamente segnate sia dalla violenza

manifesta, sia da una violenza strutturale. Esse sono attraversate dal micropotere di repressioni

occulte e deformate da dispotismo, emarginazione e sfruttamento. Ma di ciò non potremmo indignarci

se non sapessimo che questi rapporti potrebbero anche configurarsi altrimenti”. La critica dei

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rapporti di fatto, quindi, è possibile a partire dall’assunto che esige che a tutte le persone spetti un

eguale status normativo e che tutte devono darsi reciproco riconoscimento. Anche Rawls considera il

consenso intorno ai principi di giustizia come qualcosa che rientra nel gruppo delle possibilità; quindi

il vero problema delle teorie normative è quello di comprendere come la scissione tra fatto e norma

possa essere migliorata ma non superata:

• la tensione tra fatto e norma è il tema proprio con cui un agire politico che si lasci guidare da

principi di libertà e di giustizia si deve misurare. Il terreno dell’agire politico è quello di sfidare

le istituzioni e le situazioni che negano il simmetrico e reciproco riconoscimento, che impongono

condizioni di dominio, di non-libertà. Suo obiettivo polemico sono tutte le forme di privilegio

socialmente e politicamente consolidato, dal privilegio di classe al dominio di genere, e proprio

quando si trova davanti a situazioni di consolidato vantaggio o privilegio, l’agire politico non può

fare a meno di situarsi sul terreno del conflitto: si avvale dei buoni argomenti e del dibattito

pubblico, ma anche della messa in movimento di forze e interessi la cui pressione è necessaria per

scuotere privilegi di vecchia data. L’agire politico è quindi pratica altamente complessa e

innovativa: che incrocia il terreno comunicativo non solo con quello strategico, ma anche con

quello simbolico, identitario e talvolta anche mitico; questo deve anche essere capace di tenere

insieme interessi e valori se vuole conseguire i propri obiettivi. Ma proprio in questo suo

poliformismo hanno radice anche le inaggirabili aporie dell’agire politico: la politica non è

riducibile alla contrapposizione amico-nemico, quindi al conflitto ed è proprio in ciò che si radica

l’inevitabile aporia di ogni politica che voglia incidere sui rapporti vigenti: per vincere nella

situazione data, anche una politica critica deve rendersi conforme a essa, ma ciò significa che

rischia di trovarsi a sua volta in tensione con i principi ai quali si richiama. È l’aporia che si può

illustrare perfettamente con un aforisma della dialettica dell’illuminismo: anche la propaganda

per le idee migliori le tradisce nel momento stesso in cui le diffonde: perché fa del linguaggio uno

strumento di manipolazione degli uomini, della verità un mezzo per acquisire seguaci. “Dà per

scontato che il principio secondo cui la politica deve nascere da una comprensione comune non

sia un modo di dire e che la propaganda alteri la verità già nell’atto di formularla”. Horkheimer

e Adorno trovano una conclusione “impolitica”: anche la migliore politica si fa nel mondo com’è

e ne porta su di sé i segni; la politica ha sempre a che fare con queste aporie, non può scrollarsele

di dosso, deve conviverci criticamente nella consapevolezza che l’idea per che per cambiare il

mondo ci si debba adeguare ad esso non può che essere contraddittoria e che, quindi, è senz’altro

più attendibile l’idea opposta, e cioè che chi vuole cambiare il mondo deve cominciare dal saper

cambiare se stesso. Nel mondo globalizzato che si delinea dopo la caduta del muro di Berlino e

l’ingresso nel terzo millennio dell’era cristiana, le prospettive realistiche di una democrazia

comunicativa ed espansiva sembrano trovarsi di fronte a difficoltà molto diverse da quelle con le

quali dovevano confrontarsi nel mondo bipolare. Gli aspetti fondamentali del processo di

globalizzazione sono:

• sul terreno economico assistiamo allo sviluppo di un mercato mondiale che ormai copre tutto il

pianeta;

• sul terreno politico molti sostengono la tesi che saremmo ormai entrati nell’età postwestfaliana,

poiché la fase attuale non vede più come attore decisivo lo stato nazionale dotato di chiare

prerogative sovrane su un territorio definito ma ci troviamo nello spazio di un ordine

posthobbesiano, dove al sistema di stati autonomi sovrani si sostituisce una molteplicità di livelli

normativi sovra e transnazionali, di regimi regionali (UE) che configurano una sorta di multilevel

govenance;

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• lo sviluppo delle tecnologie dell’informazione e delle reti globali fino alla dimensione di una

comunicazione-mondo che trasforma le forme del lavoro, i modi di vita e di consumo e la modalità

politica;

• molta attenzione è stata dedicata agli stili di vita: i media elettronici e le migrazioni di massa

potenziano anche l’impatto sulle strutture e sui poteri del sistema-mondo.

Nel loro insieme, queste trasformazioni corrodono le basi della democrazia sostanziata da importanti

contenuti sociali che si era sviluppata nell’Europa occidentale dopo la 2° guerra mondiale. La

pressione della competizione globale destruttura uno dei fattori di spinta dei processi di

democratizzazione e delle politiche sociali del dopo guerra: il movimento operaio organizzato, con i

suoi partiti e sindacati. La fine della società del lavoro e una maggiore individualizzazione degli stili

di vita sembrano minare le basi della democrazia instaurata nei decenni passati: i diritti sociali del

Welfare sembrano troppo onerosi rispetto agli imperativi della competizione globale e poco aderenti

alle nuove figure del lavoro “flessibile” e di una soggettività sempre più idealizzata, oggi le facce dei

leader soppiantano il dibattito pubblico e il cittadino attivo è rimpiazzato dallo spettatore dei talk-

show.

Le difficoltà cui vanno incontro le politiche tradizionali di democrazia e di giustizia sociale si fondono

con le problematiche che oggi si pongono sul terreno di una giustizia globale. Tra le conseguenze

della globalizzazione vi è quella per cui le arene democratiche (domestiche) subiscono una

progressiva perdita di importanza poiché cresce il numero di decisioni prese all’esterno da esse, e il

restringersi dello spazio-mondo fa sì che i singoli stati subiscano le conseguenze di processi che si

svolgono altrove. La veloce mobilità dei capitali finanziari a livello planetario condiziona le politiche

economiche degli stati, mentre cresce il potere decisionale di molteplici istituzioni di governo

sovranazionale. Gli ampi flussi migratori e la crescente mobilità della popolazione rendono sempre

più incerta la determinazione dei confini del demos; con il rischio che la cittadinanza si riduca a

statuto privilegiato di una parte della popolazione, dalla quale restano esclusi molti che pur vivono e

lavorano nel territorio dello stato. Dopo il crollo del mondo bipolare, sembra delinearsi nel sistema-

mondo una struttura di tipo imperiale, dove i singoli stati-nazione potrebbero ridursi tutti alla

condizione di stati e sovranità limitata, e i più deboli alla condizione di quasi-stati. Gli scenari della

globalizzazione, dunque, pongono con forza i problemi di cosa possano significare i diritti, giustizia

e democrazia a scala mondiale; “le potenze capaci di agire sul piano globale non si muovono più

entro lo stato di natura teorizzato dal diritto internazionale classico, bensì dinamicamente come un

insieme di interferenze e interazioni tra processi politivi che seguono logiche specifiche sul piano

globale; in questo modo vediamo aprirsi una prospettiva per una politica mondiale anche senza un

governo del mondo”. Ma come è pensabile una legittimazione democratica delle decisioni che vada

al di là dello schema organizzativo dello stato? A quali condizioni l’autocomprensione degli attori

globali può trasformarsi nel senso di indurre stati e regimi sopranazionali a intendersi

progressivamente quali membri comunitari per cui non esista altra alternativa se non di prendere

reciprocamente in considerazione i propri interessi e rispettare gli interessi generai? La decisione da

parte di stati di intendersi come membri di una comunità disposti a trattare su una base di reciprocità

presuppone la condivisione di un certo insieme di principi comuni, relativi tanto alle procedure

democratiche di decisione, quanto ai diritti degli individui. Presuppone insomma un consenso di

fondo ce vada molto oltre quello che Rawls pone alla base della sua società dei popoli, in un orizzonte

teorico che resta molto più ancorato alla sovranità statale nelle sue forme tradizionali. Ma

l’affermazione dei principi condivisi in tema di diritti dell’uomo e di democrazia, appare difficile e

soggetta a resistenze di vario genere: non mancano sul piano mondiale stati che sollevano riserve che

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non sono totalmente ingiustificate: per un verso si sostiene che i diritti dell’uomo non possono essere

assunti sic et simpliciter (così e semplicemente) da culture diverse da quelle dell’occidente, che sono

molto diverse dalla nostra. In secondo luogo si afferma che è piuttosto singolare che l’occidente

voglia oggi dare lezioni di diritti dell’uomo e di democrazia a paesi i cui diritti sono stati calpestati

dallo stesso occidente. Si può, però, contrapporre legittimamente a quella occidentale una via asiatica

ai diritti, la cui differenza sta nel sottolineare il primato degli interessi della collettività e dello stato

rispetto a quelli dei singoli individui. Vi sono buone ragioni per affermare che la modernizzazione

economica e la integrazione nel mercato globale costringano, in qualche modo, anche i paesi che

vorrebbero rifiutarla ad aprirsi a una concezione più secolarizzata e individualistica del diritto. Lo

scontro però non nasce tanto tra lo scontro di civiltà, quanto dal fatto che l’occidente pretende di

presentarsi come il difensore dei valori universali di libertà, diritti e democrazia, mentre per altro

verso non intende né può rinunciare alla sua smisurata superiorità economica, militare, tecnologica e

mediatica; è proprio questo paradosso che dà fiato e conferisce una parvenza di legittimità a regimi

integralisti e nemici dei diritti e che rende più difficile la battaglia di coloro che si oppongono ad essi.

Perciò è possibile affermare che la possibilità di costruire un più vasto consenso intorno ai principi

dei diritti e della democrazia dipende anche dal fatto che l’occidente sia capace a sua volta di

riconoscere i diritti dei popoli altri, deboli, poveri e che non li veda solo come una questione di ordine

pubblico ma, al contrario, sia capace di costruire politiche che vadano nella direzione di un governo

politico della globalizzazione economica che esige che le potenze capaci di agire si impegnino

partecipando attivamente. In mancanza di prospettive di giustizia tra i popoli e di lotta alle

disuguaglianze su scala globale vivremo in un mondo sempre più ingiusto e sempre più esposto a

minacce. Una politica che sappia resistere alla tentazione di risolvere i problemi manu militari,

un’apertura dei mercati ed un governo democratico della globalizzazione sembra, oggi, molto lontana

e difficile da raggiungere, ma lo sarebbe di meno se si comprendesse che, su una Terra che diviene

sempre più piccola, una della politica co-responsabilità solidale non risponde solo a ragioni morali

ma anche alla difesa intelligente e interessi dei cittadini del Nord ricco del mondo.

Se le sfide della globalizzazione pongono alla politica problemi inediti e molto complessi, essa rischia

di venir spiazzata dagli impressionanti salti in avanti della scienza e della tecnologia. Ad esempio,

come devono rapportarsi le società democratiche e pluralistiche con le pratiche di manipolazione del

vivente che presto diventeranno possibili e che in buona misura già lo sono? Mettendo da parte la

questione su un piano religioso, approfondiamo il pensiero laico che, all’interno dello stesso gruppo,

presenta opinioni contrastanti: dal punto di vista della filosofia, le questioni si possono discutere più

specificatamente in termini di diritti o divieti: come si legittima il divieto di determinate pratiche?

Quali nuovi diritti possono essere introdotti per dar forza all’avanzamento tecnologico e attribuirgli

legittimità? I sostenitori di una politica ragionevolmente limitativa o “proibizionista”, tra cui lo stesso

Habermas, adducono argomenti che possono essere formulati in termini di difesa dell’individuo.

Habermas propone di distinguere tra un’ingegneria genetica di tipo terapeutico e una di tipo

migliorativo; la prima non sembra implicare una violazione dei diritti degli individui che dagli

embrioni si svilupperanno, perché può presumersi che essi darebbero agli interventi terapeutici, il

loro consenso. Nel secondo caso, invece, il fatto che qualcuno possa intervenire sul patrimonio

genetico di qualcun altro implica, per Habermas, una asimmetria di diritti tra gli individui che è

incompatibile con l’eguale rispetto che si deve ad ognuno di essi. A partire da queste considerazioni

si potrebbe addire che si debba garantire a ciascuno il diritt a un’identità genetica non predeterminata

da altri (i genitori che intervengono, ad esempio), come condizione dell’unicità irripetibile del

singolo; questo tipo di diritto costituirebbe un ostacolo tanto per gli interventi di ingegneria genetica

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migliorativa, quanto per la clonazione riproduttiva. A proposito della clonazione riproduttiva si è

sostenuto anche che essa violerebbe il diritto ad avere un’identità unica e il diritto all’ignoranza sul

proprio futuro. Il vero problema è quello che nasce dalla violazione di rapporti di reciproco e

simmetrico rispetto tra gli individui: il clone è un individuo la cui identità genetica gli è stata imposta

da un altro a sua immagine e che quindi subisce le scelte che un altro ha fatto per lui. È vero che

chiunque nasce è portatore di caratteristiche che non ha scelto e che i genitori gli hanno trasmesso

ma, nel momento in cui queste diventassero oggetto di scelta, c’è da chiedersi a chi debba essere

legittimamente attribuito il potere di esercitare queste opzioni; se l’individuo non può ancora

esprimerle, perché i genitori dovrebbero avere questo diritto? Ma allora dovrebbero essere consentite

anche tutte le manipolazioni genetiche che sono volte a migliorare il corredo genetico degli individui;

nessuno negherebbe, se fosse in grado di esprimersi, il proprio consenso ad esse. Ci sono, ad esempio,

piccoli difetti fisici che alla fine possono rivelarsi dei vantaggi; chi si arrogasse il diritto di eliminarli,

modificherebbe il patrimonio genetico in un modo irreversibile e non è detto che sia positivo. Si tratta

di questioni che pongono problemi inediti e complicati: da una parte c’è il diritto dell’individuo a non

essere strumentalizzato da altri; dall’altra c’è l’esigenza insopprimibile dell’uomo del sondare tutte

le possibilità per vivere meglio e allontanarsi dalla morte e dalle malattie. L’unico orientamento di

fondo dal quale si può partire per affrontare terreni inesplorati è l’idea di una complementarità

sinergica dei diritti individuali e della democrazia; i termini e la concreta formazione di questi rapporti

tra cittadini liberi ed eguali non possono essere dedotti da alcuna norma trascendente, ma debbono

essere frutto del dibattito pubblico libero, paritario e informato tra i cittadini stessi.