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1 Pietro Bovati «Figlio d’Adamo, nutri il tuo ventre e riempi le tue viscere con il rotolo che ti sto porgendo» ( Ez 3,3). L’ermeneutica della raccolta profetica come contributo all’approfondimento dell’ispirazione biblica a qualche tempo ormai, in particolare dopo il concilio Vaticano II, si è sviluppata in area cattolica una più viva attenzione al concetto di ispira- zione biblica 1 . Ciò è determinato dal fatto che la nostra Chiesa ha riconosciuto in maniera esplicita la centralità della S. Scrittura, sia per l’elaborazione teologi- ca 2 , sia per la promozione della vita spirituale del credente 3 . È naturale che il ri- lievo preminente dato al libro biblico rispetto ad altri scritti – pur rispettabili, ma non altrettanto fondatori – ha indotto a sottolineare la qualità unica di que- sto testo sacro: di esso infatti, e solo di esso la Chiesa confessa ufficialmente il carattere di parola ispirata da Dio, e solo ciò che è contenuto nel volume chia- mato Bibbia – debitamente interpretato – viene accolto come canone definitivo e normativo della fede ecclesiale 4 . Il teologo e il pastore hanno dunque assunto, con rinnovato impegno, il compito di giustificare e significare la natura divina della Scrittura, venerata al pari del corpo stesso di Cristo 5 . Questo compito è reso più difficile che nel pas- sato, perché gli studi esegetici hanno via via mostrato il carattere storico della tradizione biblica, il suo radicamento nella cultura antica, e il debito che la Pa- rola di Dio ha da pagare alle debolezze del mediatore umano. Lo scritto sacro infatti contiene imperfezioni, inesattezze, «cose imperfette e passeggere» 6 , e 1 Si sta così probabilmente invertendo la situazione di noncuranza o pratico disinteresse, da parte di esegeti e teologi, per la tematica dell’ispirazione della Scrittura, che K. RAHNER denun- ciava ai tempi del concilio Vaticano II (Sull’ispirazione della Sacra Scrittura, Morcelliana, Brescia 1967, 9) e che persiste ancora in diversi circoli accademici, che considerano la Bibbia sempli- cemente come un grande “classico” (cfr. C. THEOBALD, «Seguendo le orme …» della Dei Verbum. Bibbia, teologia e pratiche di lettura, EDB, Bologna 2011, 50; 53-54). 2 Cfr. Dei Verbum 24 (EB 704), dove – citando le Encicliche di Leone XIII e di Benedetto XV – si afferma: «lo studio della sacra Pagina sia come l’anima della sacra teologia». 3 Cfr. Dei Verbum 21 (EB 701) e 24 (EB 704). 4 Cfr. Dei Verbum 21 (EB 701). 5 Ivi. 6 Cfr. Dei Verbum 15 (EB 693). D

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Pietro Bovati

«Figlio d’Adamo, nutri il tuo ventre e riempi le tue viscere con il rotolo che ti sto porgendo» (Ez 3,3). L’ermeneutica della raccolta profetica come contributo all’approfondimento dell’ispirazione biblica

a qualche tempo ormai, in particolare dopo il concilio Vaticano II, si è sviluppata in area cattolica una più viva attenzione al concetto di ispira-

zione biblica1. Ciò è determinato dal fatto che la nostra Chiesa ha riconosciuto in maniera esplicita la centralità della S. Scrittura, sia per l’elaborazione teologi-ca2, sia per la promozione della vita spirituale del credente3. È naturale che il ri-lievo preminente dato al libro biblico rispetto ad altri scritti – pur rispettabili, ma non altrettanto fondatori – ha indotto a sottolineare la qualità unica di que-sto testo sacro: di esso infatti, e solo di esso la Chiesa confessa ufficialmente il carattere di parola ispirata da Dio, e solo ciò che è contenuto nel volume chia-mato Bibbia – debitamente interpretato – viene accolto come canone definitivo e normativo della fede ecclesiale4.

Il teologo e il pastore hanno dunque assunto, con rinnovato impegno, il compito di giustificare e significare la natura divina della Scrittura, venerata al pari del corpo stesso di Cristo5. Questo compito è reso più difficile che nel pas-sato, perché gli studi esegetici hanno via via mostrato il carattere storico della tradizione biblica, il suo radicamento nella cultura antica, e il debito che la Pa-rola di Dio ha da pagare alle debolezze del mediatore umano. Lo scritto sacro infatti contiene imperfezioni, inesattezze, «cose imperfette e passeggere»6, e

1 Si sta così probabilmente invertendo la situazione di noncuranza o pratico disinteresse, da parte di esegeti e teologi, per la tematica dell’ispirazione della Scrittura, che K. RAHNER denun-ciava ai tempi del concilio Vaticano II (Sull’ispirazione della Sacra Scrittura, Morcelliana, Brescia 1967, 9) e che persiste ancora in diversi circoli accademici, che considerano la Bibbia sempli-cemente come un grande “classico” (cfr. C. THEOBALD, «Seguendo le orme …» della Dei Verbum. Bibbia, teologia e pratiche di lettura, EDB, Bologna 2011, 50; 53-54). 2 Cfr. Dei Verbum 24 (EB 704), dove – citando le Encicliche di Leone XIII e di Benedetto XV – si afferma: «lo studio della sacra Pagina sia come l’anima della sacra teologia». 3 Cfr. Dei Verbum 21 (EB 701) e 24 (EB 704). 4 Cfr. Dei Verbum 21 (EB 701). 5 Ivi. 6 Cfr. Dei Verbum 15 (EB 693).

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persino errori in diversi campi del sapere7; in esso trova forma un processo di formulazione della verità non esente da ripensamenti, da incoerenze o almeno da pluralità che appaiono difficilmente conciliabili.

Gli antichi modelli interpretativi usati per definire l’ispirazione risultano oggi improponibili. Non si può più ritenere, per esempio, che l’agiografo fosse un mero strumento materiale usato da Dio per mettere per iscritto la sua Paro-la, oppure un semplice scrivano che trascriveva meccanicamente i messaggi di-vini sotto dettatura. Queste modalità intendevano esaltare la qualità sovranna-turale di ogni formulazione biblica e la loro totale affidabilità; tuttavia esse non solo svalutavano impropriamente il ruolo di «vero autore»8 da attribuirsi ai sin-goli scrittori della Bibbia9, ma sottovalutavano anche tutta una serie di imperi-zie, inadeguatezze e limitazioni della pagina biblica. Sarebbe d’altro lato inge-nuo, oltre che ermeneuticamente scorretto, l’attribuire ciò che è sublime nella Bibbia al solo autore divino, e ritenere di conseguenza l’uomo responsabile di tutto ciò che è meschino o sbagliato10. Il mistero dell’Incarnazione illumina il modo di rivelarsi di Dio nella storia, e aiuta a comprendere come nell’unità del testo sacro siano mirabilmente congiunte la dimensione divina e umana del parlare11, così che, in ogni sua parte e nella sua totalità, la Scrittura sia sempre Parola di Dio in parole umane.

«L’assoluto – scrive P. Beauchamp – è nelle parole della Scrittura, ma a condizione che restino veramente delle parole, a condizione che si trovi il pun-to in cui possano entrare fin dentro il cuore della nostra propria parola»12. Per tentare di illustrare questo attuarsi della Rivelazione divina nella storia umana, per chiarire cioè, almeno in parte, il fenomeno dell’ispirazione, è bene affidarsi a ciò che la Bibbia stessa attesta; invece di avventurarsi in procedimenti pura-mente speculativi, invece di adottare analogie desunte dal mondo poetico o dall’ambito universale della divinazione sacra, è più saggio (e probabilmente doveroso) ascoltare ciò che gli autori sacri dicono a proposito della loro pro-pria esperienza, che qualche esegeta chiama «l’evento della parola» (das Worte-reignis). Fra tutti gli scrittori biblici sono i profeti ad essere i più espliciti e i più completi nel delineare l’esperienza dell’ispirazione; a questi dunque facciamo ricorso, sintetizzando i tratti con cui essi parlano dell’insorgere in loro del par-

7 Come giustamente osserva P. BEAUCHAMP, Leggere la Sacra Scrittura oggi (con quale spirito accostar-si alla Bibbia), Massimo, Milano 1990, 23. 8 Cfr. Dei Verbum 11 (EB 686). 9 Su questo punto è stato importante il contributo di L. ALONSO SCHÖKEL, fin dalla sua opera programmatica La parola ispirata. La Bibbia alla luce della scienza del linguaggio, Paideia, Brescia 1967 (19872). 10 Si veda la critica a questo approccio in P. BEAUCHAMP, Leggere la Sacra Scrittura oggi, 19. 11 Cfr. Dei Verbum 13 (EB 691). 12 P. BEAUCHAMP, Leggere la Sacra Scrittura oggi, 19.

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lare divino. Ci riferiremo non solo a Ez 3 (nel titolo del nostro studio), ma an-che alle attestazioni degli altri profeti e di coloro che ai profeti vengono assimi-lati (come Mosè).

1. L’evento profetico

La Scrittura attesta che Dio parla. A differenza di quanto affermano le re-

ligioni pagane, il parlare di Dio non si limita a oracoli occasionali, ma costitui-sce la trama significativa di tutta la storia umana, dall’origine del cosmo fino al consumarsi dei secoli: ogni cosa e ogni accadimento esprime infatti il dinami-smo del Verbo di Dio e il suo intento di stabilire un’alleanza di comunione con gli uomini (Gen 1,1ss; Gv 1,1ss; 1Gv 1,1-4)13. E noi sappiamo che Dio parla per-ché i profeti ascoltano la sua voce e trasmettono al mondo le parole del suo messaggio.

1.1. La costituzione del profeta

Queste persone in grado di ascoltare ciò che Dio dice – e qui abbiamo

un’altra significativa differenza rispetto alle religioni pagane – non sono degli essere eccezionali, dai caratteri sovrumani. Certo, il testo biblico ripetutamente parla di loro come di uomini «eletti», scelti da Dio quale strumento privilegiato della comunicazione divina; tuttavia questa scelta, che intende esplicitare il do-no soprannaturale, non muta la natura radicalmente umana del vissuto profeti-co; il profeta rimane sempre un «figlio d’Adamo», una persona comune, uno dei fratelli (Dt 18,15.18). E questo ha per noi un rilievo importantissimo: con ciò si vuole infatti sottolineare che il profeta non è altro che un «figlio d’uomo», a cui è stato dato – per divina elezione – di vivere realmente e ade-guatamente la sua natura di figlio di Dio, capace di relazione autentica con Co-lui che, avendolo generato con la Parola, lo rende strumento vivo di comunica-zione ai fratelli. Tutti gli uomini quindi, per natura, perché fatti a immagine di Dio e suoi figli, tutti sono chiamati ad essere profeti, ma non tutti sono eletti (Mt 22,14); non perché Dio limiti arbitrariamente il suo dono, ma perché non tutti, anzi pochissimi sanno ascoltare e obbedire. Il mistero dell’umana libertà, capace di acconsentire, ma anche di rifiutare, è evidenziato emblematicamente nella cosiddetta “vocazione profetica”: il fatto che il profeta si senta chiamato, mentre tutti gli altri non percepiscono la medesima urgenza normativa, manife-sta la condizione peccaminosa della moltitudine, fin dal primo momento “rive-lata” all’eletto, e successivamente “fatta conoscere” a tutto il popolo.

13 Cfr. Dei Verbum 2 (EB 670).

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Perché il profeta è tale solo nella misura in cui l’ascolto di Dio non viene confiscato come suo patrimonio personale; al contrario, ciò che ascolta da Dio è messaggio essenzialmente universale. E il fatto di percepirne il valore assolu-to e la impellente necessità e urgenza, induce il profeta ad assumere la missione di parlare. L’eletto è “separato” (santificato) sempre per la moltitudine, per le genti (Ger 1,5). Ciò che egli intende, nel senso di ascoltare e di comprendere, è il desiderio di Dio di comunione con l’umanità; e questo desiderio diviene il desiderio e il compito profetico. 1.2. L’atto dell’ascolto

Abbiamo globalmente indicato il processo di costituzione del profeta, che

la teologia definisce l’atto della ispirazione. Con questa terminologia si introduce – per la comprensione della natura della profezia – la necessità dell’intervento (speciale) dello Spirito, che, nella prospettiva cristiana, è la Persona divina a cui è dogmaticamente attribuito il fatto di «parlare per mezzo dei Profeti»14.

La Scrittura infatti, in molteplici testi e con diverse sfumature, prospetta il rapporto tra effusione dello Spirito e dono della profezia. Nei racconti fonda-tori ciò è attestato in Nm 11,1-30, dove si narra che lo spirito che «era su Mo-sè»15 venne trasmesso ai settanta anziani (11,17.25), i collaboratori del «servo del Signore», resi in tal modo capaci di profetizzare, almeno per un certo tem-po (Nm 11,25)16. Nei racconti profetici, il motivo dello spirito ricorre frequen-temente: nella storia di Elia ed Eliseo segna il passaggio da un profeta all’altro (2Re 2,15); in altri passi, l’effusione dello spirito consente a persone singole o a gruppi (come i «figli dei profeti») di agire in maniera inconsueta, se non addirit-tura sovrumana (cfr. Gs 3,10; 6,34; 11,29; 14,16; 15,14; 1Sam 10,6.10; 11,6; 16,13; ecc.). L’intervento dello Spirito del Signore è poi particolarmente sotto-lineato nella tradizione letteraria di Ezechiele (Ez 2,2; 3,12.14.24; ecc.), in quella

14 Facciamo riferimento alla formulazione del Simbolo niceno-costantinopolitano: «Credo nello Spirito Santo che […] ha parlato per mezzo dei profeti». 15 Rifacendosi al contributo di Z. WEISMAN, The Personal Spirit as Imparting Authority, «Zeitschrift für Alttestamentliche Wissenschaft» 93 (1981) 225-234, F. Cocco ritiene che lo «spirito» è visto qui (e in 2Re 2,1-15) come una «entità esterna all’uomo», di tipo carismatico, «presentata come il veicolo di trasmissione«» di un potere da un soggetto a un altro» (F. COCCO, Sulla cattedra di Mosè. La legittimazione del potere nell’Israele post-esilico [Nm 11; 16] [Collana Biblica], EDB, Bologna 2007, 180). 16 Il brano di Nm 11, secondo il parere di F. COCCO, Sulla cattedra di Mosè, non parlerebbe dell’origine della profezia estatica, ma piuttosto della condivisione dell’autorità carismatica ap-partenente a Mosè (ivi, 183-187). L’intermittenza della manifestazione carismatica («essi profe-tizzarono, ma non lo fecero più in seguito» [alla lettera: «non continuarono»]) (Nm 11,25) sem-bra tuttavia più consona alle manifestazioni di tipo profetico, da intendersi in maniera generica, che non all’esercizio entusiastico di un potere amministrativo.

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del Servo di YHWH (Is 42,1; 48,16; 61,1) ed è, da ultimo, attestato in Gioele (Gl 3,1-2)17. Nel Nuovo Testamento, il collegamento tra dono dello Spirito e missione profetica è ampiamente documentato: basti ricordare la discesa dello Spirito su Gesù al battesimo (Mt 3,16) e il racconto fondatore della Pentecoste, interpretata come dono profetico (At 2,16-21) alla luce di Gl 3. Come conse-guenza, le Scritture, essendo ascritte a questi uomini “ispirati”, sono perciò esse stesse dette “ispirate” (2Tm 3,16; 2Pt 1,20-21)18.

Una tale modalità descrittiva dell’evento profetico è appropriata, perché esprime l’esperienza in termini “spirituali”, così che l’atto profetico venga inte-so come una sorgiva partecipazione al mondo sapienziale e benefico di Dio stesso. Inoltre, con questa rappresentazione vengono rispettate le condizioni profondamente umane di tale esperienza, perché – dice con grande pertinenza P. Beauchamp – «lo Spirito Santo evoca precisamente l’interiorità, la profondi-tà e di conseguenza la dolcezza dell’azione divina sugli autori della Scrittura: un’azione così dolce non solo rispetta, ma consacra la libertà»19. Lo Spirito libe-ra dunque l’uomo, in modo da renderlo uditore della Parola e suo messaggero. E tuttavia, in questa prospettiva la profezia è vista, in un certo senso, nel suo stadio preparatorio, come una dotazione di fondo che predispone o induce a comportamenti profetici; non viene invece sottolineato come lo Spirito deter-mini la natura concettuale del discorso, come forgi il messaggio.

È perciò indispensabile, a nostro parere, assumere un altro modello, com-plementare a quello della “ispirazione”, modello che la stessa Scrittura presenta in modo più costante e più tipico dell’evento profetico. La tradizione deutero-nomistica, in particolare, con la sua pervasiva influenza in tutta la letteratura profetica, ha avuto un ruolo decisivo in questa direzione. L’uomo scelto da Dio come profeta è come un messaggero, come colui che è ammesso ad ascoltare la parola del Sovrano, comprendendone il valore, l’urgenza e l’esigenza normativa per tutti, e, in qualità di servitore, egli è inviato a farla conoscere ai destinatari della sua missione. Al di là delle formule tipiche ricorrenti – del tipo: «così dice il Signore», «oracolo del Signore», «la parola del Signore mi fu rivolta in questi termini», ecc. –, al di là del genere letterario chiamato dagli esegeti “discorso del messaggero”, al di là di altri simili espedienti stilistici e letterari – come quando

17 Quest’ultimo testo è particolarmente significativo, perché, analogamente a Is 59,21, annuncia l’universalità della profezia, auspicata da Mosè in Nm 11,29. 18 Su questi passi, cfr. R. FABRIS, Lo Spirito Santo e le Scritture in 2Tm e 2Pt, in E. MANICARDI - A. PITTA (ed.), Spirito di Dio e Sacre Scritture nell’autotestimonianza della Bibbia. XXXV Settimana Bibli-ca Nazionale (Roma, 7-11 Settembre 1998), «Ricerche Storico Bibliche» 12, EDB, Bologna 2002, 297-320; Y.-M. BLANCHARD, “Toute Écriture est inspirée” (2 Tm 3,16). Les problématiques de la canonisation et de l’Inspiration, avec leurs enjeux respectifs, in P. GIBERT - C. THEOBALD (ed.), La récep-tion des Écritures inspirées, Bayard, Paris 2007, 15-35. 19 P. BEAUCHAMP, Leggere la Sacra Scrittura oggi, 17.

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si dice che Dio pone le sue parole sulla bocca del profeta (Dt 18,18; Ger 1,9) o gli ordina di mangiare il libro che le contiene (Ez 3,1)20 –, è chiaro che la tradi-zione biblica attesta che il profeta pretende che la sua parola abbia origine in un parlare divino chiaramente ascoltato e fedelmente trasmesso.

L’immagine del messaggero, con cui il profeta spiega il suo proprio statu-to, va naturalmente decodificata, perché è evidente che Dio non è un soggetto dalla voce umana; deve perciò essere corretta la rappresentazione della persona ispirata come di un puro ripetitore di messaggi già verbalizzati, quasi che la fe-deltà al compito profetico sia paragonabile a quella di un registratore, di un portavoce cioè talmente ligio alle formulazioni del suo superiore da riprodurre, senza alcuna variante, una sequenza verbale imparata a memoria. Se il testo bi-blico, in certi casi, ricorre proprio a una corrispondenza materiale tra la Parola di Dio e quella assunta dal profeta, lo scopo di tale accorgimento stilistico è quello di sottolineare la fedele obbedienza del locutore alla voce del Signore; tuttavia ciò non va preso alla lettera, anzi va ribadito che l’uomo di Dio si fa ca-rico, con sforzo perseverante, di un complesso e lento processo di elaborazio-ne del messaggio, nel desiderio di trovare il modo meno imperfetto per far sen-tire nel mondo l’indicibile qualità del Verbo divino. Il travaglio di assunzione della Parola è il frutto di un segreto dialogo con Dio, è come una lenta e pa-ziente maturazione di un seme che si svolge in tempi lunghi, in perfetta ma graduale obbedienza, e in coraggiosa e progressiva libertà e creatività. È questo il processo del dare carne alla Parola, è questa la gestazione del Verbo. 1.3. L’atto del parlare profetico nella storia

Il costituirsi del profeta non è dunque, come spesso lo si immagina, un

evento puntuale; essendo un accadimento umano, esso non solo si realizza nel-la storia, ma assume la forma della storia. È, in altri termini, un dinamismo21, che per natura aspira a concludersi nella sua finalità, da un lato quella di trovare una forma espressiva veramente adeguata (non solo formalmente, ma anche per ricchezza di contenuto), e dall’altro quella di ottenere l’assenso dei destinatari a cui il messaggio è indirizzato. Il processo storico, già abbozzato nell’esperienza individuale del singolo profeta, diventa visibile e vistoso nel prodursi della suc-cessione profetica: ogni nuovo messaggero non accede ad un canale comunicativo di Dio che sarebbe esclusivo e separato da ciò che Dio ha già trasmesso; al contrario, il profeta nuovo si nutre di tutto ciò che il Signore ha già detto, per portare avanti, nella sua storia, la storia di un’alleanza, fondata sulla parola e

20 Sull’insieme di questi fenomeni, cfr. S. BRETÓN, Vocación y missión: formulario profetico (Analecta Biblica 111), Editrice Pontificio Istituto Biblico, Roma 1987. 21 Quanto andiamo tratteggiando, può essere confermato e arricchito dal saggio di L. ALONSO

SCHÖKEL, Il dinamismo della tradizione, Paideia, Brescia 1970.

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sulla reciproca responsabilità. La figura di Ezechiele che mangia il libro – su cui ritorneremo a conclusione del nostro intervento – è da leggersi nella prospetti-va che abbiamo ora evocato.

D’altro canto, abbiamo detto che il profeta riceve il messaggio di Dio per trasmetterlo al popolo; ciò implica necessariamente un adattamento dei conte-nuti in funzione dei destinatari, del loro mondo culturale e religioso, della loro precisa condizione di vita etica e spirituale. Il genio profetico si dispiega nel trovare i modi migliori per far intendere, far gustare e fare amare il parlare di Dio. Questo processo riproduce, in qualche modo, ciò che il profeta stesso ha esperimentato nel sottomettersi all’ascolto del suo Signore: le obiezioni fatte a Dio dal profeta, le sue richieste di chiarimento, le critiche persino a ciò che ap-pariva un messaggio inopportuno costituivano le tappe del perfezionamento del discorso interiore del messaggero, il quale, incontrando, presso i suoi udito-ri, obiezioni, resistenze e critiche, è costretto ad assumere un paziente e tenace lavorio di trasformazione e miglioramento del suo proprio dire. Invece dunque di pensare all’atto profetico come al monotono ripetersi di un medesimo pro-posito e di identiche formule, si deve vedere all’opera un uomo la cui parola cresce con l’atto stesso del proclamarla agli uomini della sua storia22. L’imperfezione del recettore della Parola (profetica) – così connaturata con l’essere umano – invece di costituire un ostacolo alla Rivelazione è invece il supporto di un prodigioso atto divino: infatti la resistenza dell’uditorio esalta la pazienza amorosa del Signore, che senza stancarsi continua a inviare profeti (Ger 7,13.25; 11,7; 25,3-4; 26,5; 2Cr 36,15; ecc.), ed esalta altresì la sua infinita sapienza che fa sgorgare dalla bocca umana parole sempre più espressive, più penetranti, più efficaci. Così la vicenda dell’essere umano che è sede di profe-zia, e tutta la storia degli uomini per mezzo del profeta viene ad essere il luogo nel quale si dispiega realmente il sorgere meraviglioso di una parola alta, perfet-tamente vera – pur nella fragilità del suo tessuto –, una parola divina che è, in riverenza, accolta e pronunciata dall’uomo. La storia è, alla luce della Rivelazio-ne, questo esaltante processo di inveramento profetico.

22 E questo non solo, in positivo, come direbbe S. Gregorio Magno, perché il recettore fa cre-scere la Parola mediante la sua propria comprensione attualizzante, ma anche, per così dire, in negativo, perché si determina nel profeta un arricchimento spirituale proprio per l’imperfezione del risultato conseguito; il crescente desiderio dell’uomo di Dio, privo di ogni compiacenza, teso a far giungere al destinatario la piena verità del divino discorso, sormontan-do ogni forma di resistenza, costituisce la molla del progresso rivelatore nella storia umana. Su questa tematica rinviamo allo splendido saggio di P.C. BORI, L’interpretazione infinita. L’ermeneutica cristiana antica e le sue trasformazioni, Il Mulino, Bologna 1987.

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2. La trasmissione profetica: la raccolta delle tradizioni profetiche da parte del discepolo

Gli studi anche recenti che si sono occupati della problematica

dell’ispirazione (profetica) hanno, a nostra conoscenza, considerato esclusiva-mente l’esperienza intima dell’uomo di Dio, reso abile a proclamare e a mettere per iscritto la Parola del Signore. Questo aspetto è indubbiamente importante, ma costituisce solo una tappa del complesso processo della profezia, che è es-senzialmente atto comunicativo, e richiede quindi, per attuarsi, trasmissione (tradizione) e recezione. 2.1. Il destinatario della Parola: rifiuto e/o accoglienza

«Tu devi andare da tutti coloro a cui ti mando, e devi dire tutto ciò che io

ti ordino», questo è ciò che ode il profeta Geremia nell’istante stesso della sua chiamata (Ger 1,7). E a Ezechiele il Signore comanda, dopo averlo reso parte-cipe della visione della sua gloria: «Figlio dell’uomo, io ti mando ai figli d’Israele, a una razza di ribelli che si sono rivoltati contro di me» (Ez 22,3); «Figlio dell’uomo, ti ho posto come sentinella per la casa d’Israele. Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia» (Ez 3,17). Nell’esperienza fondatrice del profeta Dio si impone: non solo in quanto pre-senza sublime incontestabile, non solo in quanto assoluta rivelazione di verità, ma anche come parola di comando che “si affida” alla libera decisione del figlio dell’uomo, chiamato ad essere «servitore» di Dio e della sua volontà di bene. Il profeta si sente dire dal Signore: «va, prendi, compra, scrivi, mangia», non co-me un complemento facoltativo della sua vocazione, ma come l’essenza stessa della sua elezione, che ha senso solo se è servizio per la moltitudine dei fratelli.

La bocca del profeta si apre per comunicare il messaggio divino che esige per tutti totale obbedienza23. Ora, è impressionante il constatare che la tradi-zione biblica ribadisce, fin dall’inizio dell’evento vocazionale, che coloro ai qua-li il profeta è mandato opporranno feroce resistenza. Ancor prima di adempie-re il suo mandato, il servo della Parola sa, per frequentazione previa e per rive-lazione divina, che il Verbo di Dio è estraneo agli uomini, non solo perché di-satteso, ma proprio in quanto rifiutato (Gv 1,10-11). «Quelli a cui ti mando – dice Adonai a Ezechiele – sono figli testardi e dal cuore indurito […], saranno per te come cardi e spine, e ti troverai in mezzo a scorpioni» (Ez 2,4.6). La

23 A dire il vero, non è solo la bocca a parlare, ma anche l’intero vissuto del profeta, nella sua concretezza corporea; su questo motivo, cfr. M. CUCCA, Il corpo e la città. Studio del rapporto di si-gnificazione paradigmatica tra la vicenda di Geremia e il destino di Gerusalemme (Studi e ricerche - Sezio-ne biblica), Cittadella, Assisi 2010.

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stessa sorte è predetta per Isaia (Is 6,9-10), per Geremia (Ger 1,19) e per ogni inviato, così che la tradizione del profeta rifiutato e perseguitato definisce, in un certo senso, lo statuto stesso del servo di Dio (Mt 5,12; 23,34-35; Gv 15,20)24.

Ne risulta una sorta di paradossale inutilità del profeta, dichiarata nel mo-mento stesso dell’invio; si potrebbe infatti dire che il messaggero del Signore è l’uomo che pretende di ascoltare una voce che nessuno intende e che afferma di essere mandato a parlare a chi non lo ascolta. Questa dimensione di estrema solitudine dell’uomo di Dio è una prova necessaria, perché il profeta non fondi la sua missione sulla gratificazione dell’assenso: «ascoltino o non ascoltino» è il motto di Ezechiele (Ez 2,5.7; 3,11), iscritto nel profilo della sua vocazione.

Tuttavia, come per un miracolo insospettato, la parola profetica trova orecchie attente e cuori disponibili in una piccola cerchia di persone, che diven-tano discepoli del profeta, assumono la responsabilità non solo di una conver-sione personale, ma di conservare nella memoria il messaggio del maestro, dila-tandone così l’efficacia25. Diceva il Signore a Isaia: «Rinchiudi questa testimo-nianza, e sigilla questo insegnamento nel cuore dei miei discepoli» (Is 8,16): questo evento è componente strutturale della profezia.

2.2. Il discepolo

Infatti, la parola profetica non sarebbe Parola di Dio se non avesse in sé la

forza onnipotente di vincere le umane resistenze e di imporsi dolcemente alla libertà dell’uomo. Come nel miracolo originario della creazione, ma ancora di più quando si rivolge al consenso della persona, la Parola uscita dalla bocca di Dio non ritorna a Lui senza effetto, senza aver operato ciò che Egli desidera, senza aver compiuto ciò per cui l’ha mandata (Is 55,11). Se il parlare divino, pur presentandosi in superficie come minaccioso, ha lo scopo di portare la salvez-za, se, in altri termini, la finalità ultima della profezia è la parola di consolazione e di promessa, la sua verità si afferma nel compimento, nel realizzare cioè effetti-vamente quella trasformazione del cuore che ristabilisce la comunione con il

24 Su questo aspetto, cfr. M. CECCARELLI, Il profeta rifiutato. Studio tematico del rifiuto del profeta nel libro di Geremia, PUG, Roma 2003. 25 Al di fuori del libro di Giona – dove la storia della conversione di un’intera città si configura come un racconto parabolico più che come un’attestazione storica –, la tradizione profetica è accolta sempre da un gruppo ristretto; pur indirizzata a tutti (alla città, al popolo, alle nazioni), la parola del profeta è conservata e ricordata da pochi, che si dichiarano discepoli, seguaci e promotori dell’insegnamento del maestro. Talvolta il testo biblico, a scopo probabilmente esemplificativo, parla di un solo discepolo (come Giosuè per Mosè, o Eliseo per Elia, o Baruc per Geremia), per sottolineare la decisione personale del seguace; tuttavia la cerchia di chi ac-coglie tende ad allargarsi e diventare corpo sociale, così che il seme della Parola riveli la sua forza in frutti abbondanti e variegati.

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Signore (Dt 18,22; Ger 28,9). Ciò dunque che si “av-vera” è una partecipazione reale al carisma profetico, perché l’ascolto da parte del discepolo e il conservare la memoria delle parole del maestro lo rendono a sua volta strumento di pre-senza e comunicazione della stessa Parola di Dio. Se nella vocazione del profe-ta-maestro è evidenziata l’istruzione esclusivamente divina – anche se, come abbiamo detto, è sempre ragionevolmente postulata una compartecipazione di strumenti umani –, nella vocazione del profeta-discepolo viene esaltato il ruolo del mediatore umano, che – naturalmente sotto l’impulso decisivo di Dio – tra-smette il suo proprio “spirito”26 al proprio successore (come fecero Mosè, Elia e il Cristo), così che il maestro, consegnando tutto ciò che ha inteso da Dio (Ger 1,7; Gv 15,15), renda i discepoli artefici della sua stessa divina missione. «Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie Colui che mi ha man-dato» (Mt 10,40; Lc 9,48; 10,16).

Il ruolo del discepolo del profeta, o meglio del profeta discepolo, è essen-ziale perché la profezia diventi storia. Il carattere divino della Parola non si rive-la solo nella sua efficacia immediata, ma anche nella durata27. Spesso, ma erro-neamente, si è visto l’esercizio profetico nel suo dispiegarsi puntuale, limitato a precisi destinatari storici, confinato quindi necessariamente al passato; oppure, sempre erroneamente, lo si è visto come l’annuncio dell’evento escatologico, di ciò che avrà luogo alla fine dei tempi. La profezia è invece la creazione della storia, è il germe da cui scaturisce la vita nel tempo. Il pregio insigne e unico della Parola di Dio è di perdurare mentre ogni cosa finisce, il suo statuto è di valere sempre, anzi di sorgere ad ogni istante come il principio originario che rigenera la carne che languisce e muore. Il celebre detto di Isaia: «secca l’erba, appassisce il fiore, ma la Parola del Signore dura per sempre» (Is 40,8) afferma che il Verbo non è sottomesso alla caducità, e il suo permanere le‘ôlām (dice l’ebraico) significa che non esisterà secolo o eone, non esisterà il mondo uma-no, senza la presenza attiva del parlare divino. Parlare che non solo dura, ma, dice il testo ebraico yāqûm, cioè «sorge», in ogni istante si rinnova in parole molteplici e inusuali, nuove e stupefacenti, perché è questa Parola che «fa sor-gere» profeti (Dt 18,15.18; Am 2,11), testimoni e interpreti del Verbo divino.

Il profeta discepolo è figura di questa presenza perenne del parlare divino, perché è il custode della memoria. Il discepolo infatti è colui che ha un cuore ca-pace di conservare – avendone inteso il prezioso valore – quella Parola antica e sempre nuova che è il senso della storia universale. Il profeta discepolo ha co-

26 Più che di un bagaglio di nozioni, concetti, verità dottrinali, la trasmissione spirituale da mae-stro a discepolo è comunicazione del potere sorgivo di parlare (e agire) in verità, verità che si realizza nel momento stesso in cui ognuno è chiamato a dare testimonianza (Mt 10,19-20). 27 Il rivelarsi di Dio prende forma di una storia, non solo per esprimere la paziente pedagogia del Signore, ma per esprimere anche, nel succedersi delle generazioni, la permanenza creatrice della Parola che dura in eterno (Is 40,8; Mt 5,18; 24,35; 1Pt 1,25).

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me compito primario, da un lato, il ricordare, il custodire un meraviglioso pa-trimonio di sapienza ed energia spirituale; e ciò non avviene se non per il mi-sterioso donarsi dello Spirito (Gv 14,26). D’altro canto, il suo dovere è anche di formare altri discepoli, che di generazione in generazione non smarriscano nes-suna delle parole, neppure un iota o un apice, finché tutto sia mirabilmente compiuto (Mt 5,18; Ap 22,19).

C’è il rischio di considerare il profeta discepolo come un contenitore neu-tro del verbo altrui, quasi che l’obbedienza alla parola del maestro lo spodestas-se del suo personale patrimonio di coscienza. Come si è visto nel tratteggiare la figura del profeta colmato dalla Rivelazione divina, si deve sottolineare analo-gamente, in modo marcato, la funzione attiva del recettore, e quindi anche di ogni tramite della profezia, e in particolare del discepolo, nel suo compito di fa-re memoria o forse meglio di creare memoria. Il tempo, la durata, la storia in-somma, quale flusso che purtroppo tende a ingoiare tutto nell’abisso dell’oblio, proprio questo è il luogo spirituale con cui il discepolo dei profeti è chiamato a confrontarsi: il suo nemico non è solo la chiusura del cuore di chi rifiuta e si oppone, ma è anche il sottile meccanismo sociologico dell’occultamento e della svalutazione di ciò che è stato trasmesso, considerato ormai superato e inop-portuno.

Credo si possano vedere tre aspetti di questa missione conservatrice e di-namica a cui è convocato il profeta discepolo, tre aspetti che fanno giocare, in maniera diversificata, la dimensione del tempo. Il primo aspetto concerne la costituzione stessa del discepolo, la sua abilitazione ad essere mediatore di pro-fezia. Non si diventa memoria profetica in un istante, nel momento iniziale del consenso, ma in un diuturno processo di assimilazione, in un perseverante la-vorio dell’intelligenza che deve comprendere e collegare (Mt 13,23; Lc 2,19.51), in uno sforzo indefinito per assimilare in modo personale la parola dell’altro. L’atto dell’accoglienza si realizza davvero se la parola scende nelle profondità della coscienza, ma questa discesa comporta una trasformazione progressiva e radicale della persona che diventa come un uomo nuovo, capace di parole e di gesti nuovi (Ef 4,20-24). Uno dei fattori che richiede una lenta assimilazione consiste nel fatto che le parole da ricordare, da comprendere e da trasmettere sono molteplici, differenziate, complesse, perché toccano aspetti disparati e mi-steriosi della vita, e perché sono formulate con una grande varietà di concetti, di simboli, di generi letterari. Accogliere la Parola di Dio è di fatto “raccogliere” (Lc 1,4) ciò che ha figura di molteplicità (Eb 1,1) in un atto di sintesi, che non è semplificazione, ma unificazione della verità. Molte parole, molti modi di parla-re del profeta maestro, ma, a un livello più alto, una grandissima quantità di oracoli, discorsi, parabole, insegnamenti da parte della intera tradizione profeti-ca, un fiume che la storia ha ingrossato e che ora un solo piccolo cuore deve ri-cevere, in tutta la sua pienezza, senza esserne travolto. Un simile processo di-

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venta paradigmatico di ciò che l’umanità intera, in tutta la durata della storia, è chiamata a realizzare, finché Dio sia tutto in ogni fibra della coscienza umana (1Cor 15,28).

Il secondo aspetto nel quale si manifesta la componente temporale della profezia assunta dal discepolo è quello che tocca la sua diversa collocazione cronologica e la sua diversa posizione culturale rispetto a quelle del maestro. A colui che ha vissuto con il profeta (At 10,41) va infatti associato colui che ne ha accolto il messaggio senza aver fatto esperienza diretta della sua voce, facendo-si adepto a distanza di anni o addirittura di secoli dall’apparire storico del mae-stro. Il discepolo, in maniera consapevole e responsabile, assume allora il com-pito della attualizzazione, dell’adattamento del messaggio, così che corrisponda alle necessità di un linguaggio comprensibile ai suoi contemporanei, oltre che ai parametri culturali e spirituali propri della sua generazione. Il discepolo è chia-mato a un compito “geniale”, che è di dire l’identica Parola in parole nuove. Il Maestro Gesù ha di fatto definito lo scriba divenuto discepolo del Regno dei cieli (il suo discepolo, quale compimento di tutte le profezie) come un proprie-tario che trae dal suo tesoro «cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52), il nuovo non è però giustapposto all’antico, quasi fosse un suo rivestimento, ma è inve-ce l’inverarsi dell’antico, è il compiersi fruttuoso e originale di ciò che è da sempre presente, anche se nascosto, fin dalla fondazione del mondo (Mt 13.35). La novità del parlare del discepolo è il frutto della potenzialità stessa della Parola di Dio, che cresce nella storia facendo progredire le umane intelli-genze nella capacità di esplicitarne la indefinita ricchezza. Il dinamismo della Parola si attua nel crescere, non solo numerico, ma anche qualitativo, nel suo stesso avvenire e divenire nella storia dei credenti. Il tempo dell’uomo è il fiori-re sempre rinnovato della Parola.

L’ultimo aspetto – e qui facciamo la transizione all’ultimo punto della no-stra esposizione – in cui il fattore tempo interviene per qualificare l’atto profe-tico proprio nella figura del discepolo, è quello della messa per iscritto delle parole profetiche: lo scritto infatti è un memoriale (Es 17,14), ha la funzione di signifi-care la durata delle parole al di là della presenza del locutore (Is 30,8), e per questa realizzazione è decisivo l’apporto del discepolo, anzi della catena dei di-scepoli.

3. La raccolta degli scritti profetici

Nei manuali di Teologia fondamentale non si distingue chiaramente tra il

profeta e l’agiografo, o almeno non si sottolinea adeguatamente il passaggio dalla comunicazione orale a quella scritta. Ciò non è determinato da poca accu-

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ratezza nell’analisi del fenomeno, ma dalla preoccupazione dogmatica di accre-ditare l’attestazione scritta (ispirata) mediante la paternità letteraria dell’autore (ispirato)28. In certe rappresentazioni della tradizione teologica si giunge persi-no a considerare la Sacra Scrittura come una missiva inviata dal cielo diretta-mente da Dio stesso29, così da ribadire la natura sovrumana della Bibbia e la suprema autorevolezza delle sue affermazioni. Oggi tuttavia siamo chiamati a valorizzare maggiormente il processo storico che ha prodotto il testo sacro, siamo invitati cioè ad accogliere, con riverenza e riconoscenza, il contributo specifico dell’autore storico, nelle varie fasi di elaborazione e confezione del prodotto scritto, così che venga riconosciuto – nei suoi riflessi ermeneutici – che l’umana debolezza è il luogo in cui il sublime divino, per amabile condi-scendenza, trova forma e si incarna30.

Lo studioso si interroga quindi sul momento dell’apparire dello scritto, su chi lo redige o rielabora, sul perché di queste operazioni; e lo fa non per mera curiosità storica, ma per trarne utili direttive da seguire nel suo atto interpreta-tivo. Per rispondere a queste domande è doveroso, anche in questo caso, far ri-corso alla Bibbia, e accogliere ciò che essa dice su se stessa in quanto testo scritto.

La Sacra Scrittura menziona a più riprese la presenza dello scritto nella vita religiosa del popolo dell’alleanza. Pur privilegiando il lessico della comunica-zione orale, specie quando esplicita l’atto della profezia31, essa non manca di segnalare, in momenti nevralgici, l’apporto specifico del libro (in ebraico seper), del rotolo (megillâ), del documento scritto (kātûb) dal valore permanente (‘ēdût), degli scritti insomma che presentano una notevole varietà di forme letterarie,

28 Fra i criteri dell’accettazione di uno scritto nel Canone, gioca indubbiamente un grande ruolo quello della paternità letteraria, ascritta a grandi figure spirituali. È questo che spiega la prassi (problematica) della pseudonimia nelle titolature di certi libri biblici, e l’attribuzione diretta di un testo al grande profeta o all’apostolo, anche se in realtà è il prodotto della sua scuola o di una corrente letteraria molto posteriore. 29 Così nella Enciclica Providentissimus Deus, di Leone XIII, nel 1893 (EB 81), che cita S. Gio-vanni Crisostomo, S. Agostino e S. Gregorio Magno. 30 Dei Verbum 13 (EB 691): «nella sacra Scrittura dunque, pur restando sempre intatta la verità e la santità di Dio, si manifesta l’ammirabile condiscendenza dell’eterna Sapienza […]. Le parole di Dio, infatti, espresse con lingue umane, si sono fatte simili al linguaggio degli uomini, come già il Verbo dell’eterno Padre, avendo assunto la carne dell’umana debolezza, si fece simile agli uomini». 31 La terminologia del «parlare», «dire», «far udire», «rivelare», ecc., si arricchisce con il lessico della fonazione (bocca, labbra, lingua) e dell’audizione (orecchi, cuore). Anche nel Nuovo Te-stamento l’oralità del messaggio è preminente (cfr. Dei Verbum 7 [EB 677]).

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sono redatti su diversi supporti materiali, e si situano in vari momenti rispetto alla proclamazione orale32.

Vi sono infatti documenti che appaiono fin dall’inizio, coincidenti, per così dire, con la stessa manifestazione rivelatoria di Dio. Al Sinai, accanto alla voce del Signore troviamo il Decalogo, inciso su tavole di pietra, secondo certe tra-dizioni addirittura vergato dal dito stesso di YHWH (Es 24,12; 31,18; 32,16; 34,1; Dt 4,13; 5,22; 9,10; ecc.). Le altre parole di Dio comunicate a Mosè (come profeta; cfr. Dt 18,15-18) e da lui trasmesse al popolo (Es 20,18-21; Dt 5,23-31) vengono in questo caso considerate un commento esplicativo e attualizzante del testo fondatore. Questo modello – che vede la comunicazione orale dipen-dere da quella scritta – non è dunque per nulla estraneo all’atto profetico (e su questo punto ci soffermeremo in seguito); anzi è questo lo statuto assunto da Gesù e dalla predicazione apostolica, che fanno continuamente riferimento all’antica Scrittura (di Mosè, dei profeti, dei Salmi) per dirne il veritiero compi-mento (Mt 11,10; 21,13.42; 26,54.56; ecc.)33. Più in generale, possiamo dire che la presenza dello scritto, in molti casi, è concomitante e complementare alla comunicazione verbale: Mosè, ad esempio, fa lunghi discorsi, ma ordina anche di scrivere le sue parole sugli stipiti delle porte (Dt 6,9; 11,20), e di copiare il cantico (Dt 31,19), da lui messo per iscritto e insegnato agli Israeliti (Dt 31,22.24); Geremia è chiamato a predicare, ma, a più riprese, consegna in un rotolo gli oracoli ricevuti dal Signore (Ger 29,1; 30,2; 36,2-4.28-32)34; e, nel Nuovo Testamento, Paolo e altri apostoli utilizzano contemporaneamente la predicazione orale e la mediazione dello scritto (sotto forma di “lettera”).

Nel prologo di 1Gv 1,2-435, l’atto dello scrivere è visto invece come il compimento del processo comunicativo, che ha la sua origine nell’esperienza profetica dell’apostolo (che ha udito, visto e toccato il Verbo di vita), esperien-za che, per essere trasmessa, assume l’aspetto dell’annuncio e si perfeziona in-fine nella redazione scritta che consente piena comunione fra i credenti e per-fetta gioia. L’incarnazione del Verbo eterno di Dio viene significata anche da questa sua «ammirabile condiscendenza»36 nell’assumere la veste dello scritto. Quest’ultimo dunque viene dopo, e sigilla, in un certo senso, il processo di tra-smissione.

32 Cfr., sul tema, K.M. STOTT, Why Did They Write This Way. Reflections on References to Written Documents in the Hebrew Bible and Ancient Literature (LHB.OTS 492), T&T Clark, New York - London 2008. 33 In questa linea va ricordata la formula «secondo le Scritture» (Mt 26,54; 1Cor 15,3-4) che in-terpreta gli eventi cristologici e quelli della Chiesa alla luce del testo scritto normativo. 34 Per altri profeti, cfr. Is 8,1; 30,8; Ab 2,2. 35 Questo testo è citato nel Proemio della Dei Verbum 1 (EB 669). 36 Dei Verbum 13 (EB 691).

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Gli studiosi della storia della letteratura biblica – sulla base anche di analo-ghi fenomeni nelle culture coeve – ritengono infatti che il modello prevalente per comprendere la Bibbia come «scrittura» sia quello che postula un periodo, anche lungo, di tradizioni orali, a cui fa seguito una messa per iscritto, che, ini-ziando da nuclei semplici, si arricchisce progressivamente per sviluppo interno o per fusione con tradizioni parallele. E questo sia per l’Antico che per il Nuo-vo Testamento37. Questo modello genetico, certamente plausibile e in molti ca-si chiaramente documentato, esplicita che lo scrittore non è il profeta maestro, ma il discepolo o il figlio spirituale del discepolo38. È necessario quindi ricono-scere che il carisma dell’ispirazione, rivendicato dallo scritto sacro, deve essere coe-stensivo alla storia redazionale della Bibbia, assumendo forme plurali e per lo più anonime, ma non per questo meno autorevoli e meno preziose.

Se, per un certo lasso di tempo, la comunità credente poteva nutrirsi della memoria profetica attivata oralmente, perché si rese necessaria la redazione scritta? Ad un esame attento del fenomeno, diverse risultano le motivazioni per un così significativo mutamento nella comunicazione; tuttavia il tratto comune che si riscontra nella varietà delle attestazioni è costituito dal fatto che il profeta non è (più) in grado di porgere di persona il suo messaggio, non è (più) capace con la sua voce di «portare assistenza» alle sue stesse parole (E. Lévinas)39. A volte ciò è determinato dalla semplice lontananza spaziale tra locutore e udito-rio, per cui si rende indispensabile la forma della lettera, recapitata da un latore in grado di superare la distanza e raggiungere i destinatari (cfr. Ger 29,3; e, per analogia, tutti gli scritti redatti o interpretati come una missiva). In altri casi, è un divario temporale a rendere impossibile l’atto comunicativo diretto. Ciò av-viene quando il profeta ha per destinatario un’altra generazione, la sola in grado di verificare la qualità profetica di una determinata parola; e al proposito si può ricordare l’episodio di Geremia che, alla presenza di testimoni, redige un do-cumento di acquisto dei campi di Anatot e lo pone sotto sigillo, in funzione di una lettura proficua solo dopo diverse generazioni40. Questa considerazione, a ben vedere, concerne l’insieme della profezia – o forse meglio, l’insieme della Scrittura nella sua dimensione profetica – la quale, essendo Parola di Dio, è es-senzialmente promessa «per il popolo che nascerà» (Sal 22,32), esigendo quindi

37 Dei Verbum 7 (EB 677), 11 (EB 686). 38 Per quanto riguarda i profeti, in particolare, si può vedere il tentativo di ricostruzione storica prospettato da M.H. FLOYD, The Production of Prophetic Books in the Early Second Temple Period, in M.H. FLOYD - R.D. HAAK (ed.), Prophets, Prophecy and Prophetic Texts in Second Temple Judaism (LHB.OTS 427), T&T Clark, New York - London 2006, 276-297. 39 Si vedano, al proposito, le riflessioni di M. BRUMMIT - Y. SHERWOOD, The Fear of Loss Inher-ent in Writing: Jeremiah 36 as the Story of a Self-Conscious Scroll, in A.R.P. DIAMOND - L. STULMAN (ed.), Jeremiah (Dis)placed. New Directions in Writing/Reading Jeremiah (LHB.OTS 529), T&T Clark, New York - London 2011, 47-66 (specialmente 52-53). 40 Dopo i famosi 70 anni di esilio (Ger 25,11-12; 29,10).

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di avere, proprio nel supporto scritto e datato, il sigillo della sua verità e della sua forza performante, quella che preme sulla storia per il suo pieno adempi-mento. Infine e in maniera simmetrica a quanto appena indicato, viene detto dalla Bibbia che talvolta è il locutore ispirato a vivere, simbolicamente o real-mente, la sua propria assenza, il suo personale impedimento a parlare, per cui egli lascia il suo “testamento” ai figli e ai figli dei figli, quale segno memoriale di un dono di rivelazione, partecipato al di là della sua visibile presenza41.

Per illustrare quest’ultima motivazione della messa per iscritto – a nostro avviso la più rilevante – facciamo ricorso a un importante racconto della tradi-zione biblica, il capitolo 36 di Geremia42, che ci servirà per completare il nostro discorso sulla ispirazione della raccolta profetica. Questo testo di Geremia è strutturato in tre momenti, che costituiscono altrettante fasi del processo con-cernente lo scritto sacro. (1) Primo momento: la messa per iscritto (Ger 36,1-4)

Il profeta dichiara di esser «impedito» (‘āsûr)43 di andare al Tempio di Ge-

rusalemme dove egli abitualmente adempie l’ufficio proprio della sua vocazio-ne (cfr. Ger 1,7 e 7,2; 26,3)44. Ciò rende necessario l’approntare un’altra modali-

41 Sul motivo dello scritto in rapporto alla «morte dell’autore», con particolare riferimento a Ez 1–3, cfr. J. SCHAPER, The Death of the Prophet. The Transition from the Spoken to the Written Word of God in the Book of Ezekiel, in M.H. FLOYD - R.D. HAAK (ed.), Prophets, Prophecy and Prophetic Texts in Second Temple Judaism, 63-79. 42 Su questo testo, come prima indicazione bibliografica, cfr. R.P. CARROLL, Manuscripts don’t Burn - Inscribing the Prophetic Tradition. Reflection on Jeremiah 36, in “Dort ziehen Schiffe dahin...”. Col-lected Communications to the XIVth Congress of the IOSOT (Paris 1992) (BEAT 28), P. Lang, Frankfurt 1996, 31-42; Y. HOFFMAN, Aetiology, Redaction and Historicity in Jeremiah XXXVI, «Vetus Testamentum» 46 (1996) 179-189; H.M. WAHL, Die Entstehung der Schriftprophe-tie nach Jer 36, «Zeitschrift für Alttestamentliche Wissenschaft» 110 (1998) 365-389; E. DI PE-

DE, Jérémie 36: essai de structure, «Rivista Biblica» 49 (2001) 129-153; H.-J. STIPP, Baruchs Erben. Die Schriftprophetie im Spiegel von Jer 36, in Wer darf hinaufsteigen zum Berg JHWHs? Beiträge zu Pro-phetie und Poesie des Alten Testaments (ATSAT 72), Fs. S.Ö. STEINGRIMSSON, EOS Verlag, St. Ot-tilien 2002, 145-170; G.J. VENEMA, Reading Scripture in the Old Testament. Deuteronomy 9-10; 31 - 2 Kings 22-23 - Jeremiah 36 - Nehemiah 8 (OTS 48), Brill, Leiden - Boston 2004, 95-137. 43 Diverse opinioni in merito all’espressione di Ger 36,1 sono elencate da K.M. STOTT, Why Did They Write This Way, 124. 44 Si può supporre che il profeta Geremia fosse sottoposto a un qualche provvedimento restrit-tivo, forse costretto agli arresti domiciliari per ordine dell’autorità giudiziaria della capitale, a motivo dei suoi discorsi dal tono minaccioso e dall’effetto scoraggiante (cfr. Ger 26,7-9; 38,4). Un tale impedimento evoca indirettamente quella estrema impossibilità del profeta di continua-re la sua missione di parola, quando sopraggiunge la sua morte (per lo più in modo violento). Il profeta, che non può corporalmente portare la parola è così chiamato, sempre per divino co-mando, a dare un altro corpo alle sue parole, così che esse continuino ad essere presenti con la loro forza salvifica.

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tà di comunicazione della Parola di Dio: il profeta riceve perciò l’ordine divino che prescrive: «Prendi un rotolo e scrivici tutte le parole che ti ho detto riguar-do a Gerusalemme, a Giuda e a tutte le nazioni, dal tempo di Giosia fino a og-gi» (Ger 36,2)45. Lo scritto è capace di “raccogliere”46 tutte le parole del profeta, evidentemente non in senso materiale47, ma attraverso la forma di “verbo ab-breviato”, di condensazione che, semplificando, non altera la ricca verità del messaggio. Il racconto di Geremia sottolinea infatti che lo scritto è un suppor-to fedele della parola profetica; per questo viene utilizzata la modalità della detta-tura, con Geremia come autore e Baruc come scriba, il quale ha il compito di riprodurre esattamente ciò che esce dalla bocca del profeta (Ger 36,4.6.18); il ri-sultato è la confezione di un rotolo che esplica la medesima finalità del profeta-re, e cioè l’auspicata conversione del popolo (Ger 36,7)48.

Va qui sottolineata e precisata la decisiva figura dello scriba, di colui che re-dige il testo profetico. La narrazione di Ger 36 descrive Baruc come un sempli-ce amanuense, una sorta di trascrittore grafico dei fonemi emessi da Geremia. Abbiamo già detto più volte che ciò serve per garantire allo scritto la corri-spondenza perfetta con la loquela ispirata. In realtà, come sappiamo da molte attestazioni storiche49, lo scriba è un professionista del fatto letterario; la sua compe-tenza si estende ben oltre quella del copista, poiché egli è stato formato, con severa e prolungata disciplina, al compito di dare forma letteraria ai diversi tipi di messaggio richiesti dalle varie forme istituzionali di autorità, tenendo conto dei moduli espressivi in uso nel suo tempo50. Un re (antico), ad esempio, si af-

45 Sul passaggio dall’orale allo scritto, proprio a proposito di Ger 36, cfr. J. HILL, The Dynamics of Written Discourse and the Book of Jeremiah, in A.R.P. DIAMOND - L. STULMAN (ed.), Jeremiah (Dis)placed, 104-111. 46 In questo senso lo scritto, soprattutto quello biblico, è sempre e strutturalmente una “raccol-ta”, un insieme completo della testimonianza profetica. 47 L’evangelista Giovanni, a proposito di Gesù, afferma che il mondo intero non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere su ciò che ha compiuto e detto il Signore (Gv 21,25; cfr. anche 20,30). 48 Ciò è pure evidenziato dal fatto che il rotolo viene letto nel Tempio, dove, come si è detto, si svolge la predicazione del profeta. 49 Cfr. A.J. SALDARINI, «Scribes», ABD V, 1012; H. LIMET, Les lettres de Mésopotamie et la littéra-ture sumérienne, in C. CANNUYER (ed.), Les scribes et la transmission du savoir (Acta Orientalia Belgi-

ca 19), belge d’ tudes orientales, Bruxelles 2006, 1-16. 50 Cfr. M. WEINFELD, Deuteronomy and the Deuteronomic School, Clarendon Press, Oxford 1972, 177-178; A. LEMAIRE, Les écoles et la formation de la Bible dans l’Ancien Israël (OBO 39), Vanden-hoeck & Ruprecht, Göttingen 1981, 47-48; D.W. BAKER, Scribes as Transmitters of Tradition, in A.R. MILLARD (ed.), Faith, Tradition, and History. Old Testament Historiography in Its Near Eastern Context, Eisenbrauns, Winona Lake 1994, 65-77; P.R. DAVIES, Scribes and Schools. The Canoniza-tion of the Hebrew Scriptures, Westminster John Knox Press, Louisville 1998, 17-36; L.G. PER-

DUE, Baruch among the Sages, in J. GOLDINGAY (ed.), Uprooting and Planting. Essays on Jeremiah for L. ALLEN (LHB/OTS 459), T&T Clark, New York - London 2007, 260-290.

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fiderà a questo “servitore dello stato” per scrivere una lettera di protesta ad un altro sovrano, o per proporre un trattato amichevole. Lo scriba funge da archi-vista, da segretario e da scrittore specializzato nella formulazione, assommando alte competenze, messe però tutte al servizio fedele del pensiero del re. Sarà al-la fine difficile, o addirittura impossibile, distinguere quanto sia dovuto all’uno o all’altro dei due artefici del prodotto scritto. Questa realtà va supposta per il processo di redazione dei testi biblici, per i quali il discepolo-scriba ha un ruolo creativo di primaria importanza, analogo a quello che il profeta-maestro eserci-ta nei confronti del parlare divino. Si rende quindi necessario riconoscere al di-scepolo che confeziona il libro una reale partecipazione al dono della profezia, perché venga trasmesso l’autentico messaggio del profeta, e, ultimamente, di Dio stesso51. (2) Secondo momento: la lettura (Ger 36,5-26)

Una volta operata la messa per iscritto, il libro (il rotolo) si stacca dall’autore (il locutore) e anche dallo scriba (il confezionatore dello scritto)52; diventa ora determinante la figura del lettore. Nel racconto di Geremia, il primo a leggere il rotolo è Baruc (Ger 36,8), cioè lo stesso scriba, che è il più autorevo-le testimone della conformità tra la parola profetica e la redazione scritta53; co-me scrive G. Borgonovo: «sono i discepoli (del profeta) a riconoscere la verità della testimonianza del maestro e a ratificare la sua pretesa di avere avuto una rivelazione divina […]; l’evento profetico è mediato da una testimonianza della testimonianza»54. Lo scritto però non è letto dal solo Baruc a diversi gruppi di uditori (Ger 36,8.10 e 14-15), ma è affidato ad altri lettori, rappresentati nella narrazione dal personaggio di Iudì, incaricato di leggere il rotolo al re Ioiakim (Ger 36,21). Il rotolo di fatto passa di mano in mano, da quelle di Baruc (Ger 36,14) a quelle dei capi (Ger 36,21), e dalle mani di Iudì (Ger 36,21) a quelle del re (Ger 36,25); e in ogni passaggio si opera un discernimento su accoglierlo o me-no.

51 Scrive infatti T. Citrini: «In questa tradizione del popolo di Dio e della sua fede, l’ispirazione è carisma che investì in diversa misura e secondo diverse modalità tutti coloro che in qualche modo contribuirono intrinsecamente a dare origine alla Bibbia. Da questo punto di vista il cari-sma dell’ispirazione presenta una fenomenologia tutt’altro che uniforme […] Si deve dar ragio-ne a N. Lohfink quando afferma che ultimo autore ispirato dell’Antico Testamento fu la chiesa apostolica che lo assunse nella propria predicazione del mistero di Gesù Cristo» (T. CITRINI, Scrittura, NDTB 1460). 52 Scrive P. Ricœur: «una delle crudeltà della morte è quella di mutare radicalmente il senso di un’opera letteraria in corso: non soltanto non comporterà più un seguito, essa è finita, in tutti i sensi del termine, ma essa è come strappata a questo movimento di scambi, di interrogazioni, di risposte che situano il suo autore tra i vivi. Per sempre, ormai, essa è un’opera scritta e sol-tanto scritta; la rottura con il suo autore è consumata, ormai essa entra nella sola storia possibi-

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Il lettore è così il tramite primario, è l’artefice primo della “tradizione”: è il suo dono precipuo, di natura spirituale, a separare la falsa profezia da quella au-tentica. È il lettore che, nella comunità di appartenenza, stabilisce dunque il ca-none delle sacre scritture a cui aderire, in obbedienza riverente55. D’altra parte, il lettore, proprio perché, assistito dallo Spirito56, comprende il valore di ciò che legge, è motivato a trasmetterlo, diventando l’anello portante nella catena della tradizione.

Ora, è da notare che, al pari dello scriba, anche il lettore è una figura di competenza professionale, un tempo particolarmente apprezzata a motivo delle complicate grafie delle lingue antiche, spesso su supporti testuali inadeguati o malridotti. Un buon lettore sarà dunque colui che saprà riconsegnare fedelmen-te, in termini di sonorità pubblica, ciò che è stato consegnato nella forma silen-ziosa dello scritto57. Nella voce del lettore risuona la voce del profeta, con altro timbro, ma con identica verità58.

Il lettore non funziona però come un mero riproduttore di suoni, perché egli è, di più, un vero interprete del testo scritto. Ciò non implica solo la capacità di “dare senso” al testo mediante un adeguato tono della voce, effettuando le opportune pause e adottando altri espedienti retorici della dizione; e nemmeno si limita, come un vero attore, a “dare corpo” alla parola mediante l’espressione del volto e gesti appropriati59. Il lettore è infatti colui che, riconoscendo il valo-re dello scritto – nel nostro caso, discernendo il valore divino di ciò che legge –, ne esplicita realmente il significato “attuale” (per il suo tempo, per l’uditorio che gli sta davanti), e ne diventa l’araldo, inviato a proclamare il messaggio, a spiegarlo nella sua genesi e nel suo significato, ad assumerlo come proprio,

le, quella dei suoi lettori, quella degli uomini vivi che essa nutre» (P. RICŒUR, Histoire et vérité, Le Seuil, Paris 1955, 135; citato da G. GRAMPA, “Uditore della Parola”. Il contributo di Paul Ricœur all’interpretazione della Scrittura, «Rivista del Clero Italiano» 86 [2005] 802). 53 Cfr. P.J. SCALISE, Baruch as First Reader. Baruch’s Lament in the Structure of the Book of Jeremiah, in J. GOLDINGAY (ed.), Uprooting and Planting. Essays on Jeremiah for L. ALLEN, 291-307. 54 G. BORGONOVO, Tôrah, Testimonianza e Scrittura. Per un’ermeneutica teologica del testo biblico, in G. ANGELINI (ed.), La rivelazione attestata. La Bibbia fra Testo e Teologia, Raccolta di studi in onore del Cardinale Carlo Maria MARTINI, Glossa, Milano 1998, 293. 55 Cfr. B. SESBOÜE, La canonisation des Écritures et la reconnaissance de leur Inspiration, in P. GIBERT -

C. THEOBALD (ed.), La réception des Écritures inspirées, 39.69-70. 56 Cfr. Dei Verbum 8 (EB 680). 57 Per noi scriba e lettore coincidono in una sola persona (è impensabile soprattutto che lo scriba non sappia leggere); tuttavia le due funzioni non si identificano, e la loro posizione er-meneutica è nettamente distinta. 58 Dice la Dei Verbum 21 (EB 701) che le Scritture «comunicano immutabilmente la parola di Dio stesso e nelle parole dei profeti e degli apostoli fanno risuonare la voce dello Spirito San-to». Ma la scrittura è muta senza la voce del lettore. 59 Fra i gesti appropriati si potrebbe, anzi si dovrebbe includere uno stile di vita conforme al di-re.

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come sua parola. È chiaro allora che il lettore – inteso nella pienezza della sua figura – deve in qualche modo partecipare al dono dello Spirito, affinché la sua opera di interprete – che discerne, traduce, attualizza e fa capire – avvenga non solo in assoluta fedeltà al senso originale, ma anche con vero potere spirituale di comunicarsi alle persone a cui è mandato. Il dono dello Spirito si manifesta poi non solo nella pertinenza dell’interpretazione, ma anche nel coraggio dell’annuncio (At 4,29.31). In conclusione, lo scritto promuove il lettore al suo com-pito, che – come dice la Dei Verbum – non può realizzarsi senza quel medesimo Spirito che ha presieduto al sorgere della stessa Scrittura ispirata60.

Identificato con il libro che legge, il lettore viene a subire l’identica minac-cia portata al profeta e al suo libro (Ger 36,19). Il Signore protegge profeta e lettore, come segno della sua assistenza alla sua Parola (Ger 36,26); ma ciò non toglie che nella storia appaia il segno della violenza, che vi sia una minaccia di distruzione della profezia. Ricordiamo infatti che il re Ioiakim giudicò irricevi-bile il contenuto del rotolo di Geremia, lacerandolo e gettandolo nel fuoco del braciere per distruggerlo completamente (Ger 36,23)61. Ma questo atto dramma-tico nella vicenda del libro sacro non ne costituisce l’epilogo. (3) Terzo momento: la riscrittura (Ger 36,27-32)

Il racconto di Ger 36 ha infatti un nuovo inizio, perché il Signore comanda

a Geremia di scrivere «un altro rotolo», ordine puntualmente eseguito dal pro-feta, che si serve ancora del suo scriba-discepolo Baruc. Questo secondo roto-lo, dice la pagina biblica, contiene «tutte le parole che erano nel primo rotolo» (Ger 36,28); in un certo senso è dunque la riproduzione integrale di ciò che il re persecutore aveva inteso annientare. Dalla memoria del profeta – forse con la collaborazione dello scriba – scaturisce il medesimo flusso di parole, così che niente vada perduto della divina rivelazione: il racconto dice dunque emblema-ticamente che la profezia non è fermata da nessuna persecuzione, così come la trasmissione scritta non è ostacolata da nessuna forma di censura od ostraci-

60 Dei Verbum 12 (EB 690). Su questo motivo, cfr. I. DE LA POTTERIE, Il Concilio Vaticano II e la Bibbia, in L’esegesi cristiana oggi, Piemme, Casale Monferrato 1991, 36-39; M.A. MOLINA PALMA, La Interpretación de la Escritura en el Espiritu. Estudio histórico y teológico de un principio hermeneútico de la Constitución “Dei Verbum” 12, Publicaciones de la Facultad de Teologia del Norte de España 52, Burgos 1987. 61 La scena di Ger 36,23-25 costituisce un parallelo contrastante con l’episodio del re Giosia che, ritrovato nel Tempio il libro della Tôrah, si straccia le vesti (2Re 22,11), e dopo aver avuto conferma della sua autenticità dalla profetessa Hulda (2Re 22,14-20), assume un programma di riforma religiosa che si basa sull’ascolto della Parola di Dio da parte di tutto il popolo (2Re 23,2) e lo porta a bruciare i segni dell’idolatria (2Re 23,4.6.15). Su questo parallelo, cfr. J.-P. SONNET, “Le livre trouvé”. 2 Rois 22 dans sa finalité narrative, «Nouvelle Revue Theologique» 116 (1994) 853-859.

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smo. Si assiste allora ad una specie di risurrezione del corpo letterario, che ri-propone le medesime parole che si volevano tacitare.

Va tuttavia notato che questa seconda scrittura non è una copia identica della prima, perché, in primo luogo, la nuova redazione tiene conto del rifiuto (regale), e quindi esplicita e sviluppa i motivi minacciosi, conseguenza appunto del non ascolto (Ger 36,21). Il racconto poi, in secondo luogo, si conclude con una frase assai significativa: «Inoltre vi furono aggiunte molte parole simili a quelle» (Ger 36,32). Il fenomeno della riscrittura comporta delle aggiunte, che non costituiscono una indebita alterazione del messaggio – dato che le seconde parole sono simili alle prime –, ma un suo completamento, un suo perfeziona-mento62. Ciò allude al lungo e ricco processo redazionale subito dal libro di Geremia, e dal testo scritturistico in genere; le integrazioni, le modifiche, le nuove strutturazioni del materiale apportate dai trasmettitori del testo, con il sigillo del redattore finale, non sono un infausto snaturamento del messaggio originale, ma, al contrario, esprimono il dono carismatico di una profezia con-tinua, condivisa, coestensiva ad una storia di rivelazione che si protrae nei seco-li, storia di rivelazione di cui lo Spirito del Signore è fautore e garante63. Il Re-dattore (ultimo) diventa così il vertice terminale del processo dell’ispirazione, tanto che P. Beauchamp usava l’abbreviazione R, che nella letteratura esegetica scientifica designa il Redattore, per dire: questa sigla significa Rabbenû, questo è il nostro Maestro.

Conclusione A conclusione del nostro percorso riflessivo, riprendiamo il testo di Ez 3,

in cui il motivo della vocazione profetica è condensato nel gesto simbolico, or-dinato dal Signore, di «mangiare il rotolo». L’atto del nutrirsi esprime la dipen-denza vitale del profeta da ciò che Dio dona e rende disponibile: ed è la sua Pa-rola a far vivere il figlio dell’uomo (Dt 8,3). L’obbedienza dell’ascolto assume una figura paradigmatica in questa operazione di assimilazione di tutte le parole scritte, attuata così docilmente da far scaturire l’esperienza gustosa della verità: «Io mangiai il rotolo – scrive Ezechiele – e fu per la mia bocca dolce come il

62 Appare così ermeneuticamente sbagliato il tentativo di buona parte dell’esegesi di Geremia nel XX secolo, volto alla ricostituzione del rotolo primitivo (Urrolle), che avrebbe contenuto le sole autentiche parole profetiche (cfr. recentemente M. LEUCHTER, Josiah’s Reform and Jeremiah’s Scroll. Historical Calamity and Prophetic Response [HBM 6], Sheffield Phoenix Press, Sheffield 2006). 63 Cfr. B. SESBOÜE, La canonisation des Écritures et la reconnaissance de leur Inspiration, 71.

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miele» (Ez 3,3)64. Il profeta si alimenta con la parola di tutti i profeti che lo hanno preceduto; questa parola deve scendere nella profondità del suo essere, nel suo «ventre», luogo generativo della vita, deve essere – come ordina il Si-gnore con un ardito hysteron proteron65 – «ricevuta nel cuore e (poi) ascoltata con gli orecchi» (Ez 3,10), perché è dalla segreta intimità della coscienza che può sgorgare, per la forza creatrice dello Spirito, il prodigio dell’ascolto e, da questo, il fiorire incredibile di una divina parola (Lc 6,45), la nuova parola profetica per l’oggi, per il mondo.

D’altra parte, come non vedere, nell’atto del mangiare, la sparizione del ro-tolo, che ottiene la sua finalità proprio nel consegnarsi, umile, ad un processo di trasformazione, che produrrà un altro rotolo, nuovo e migliore. Come il se-me che entra nel ventre della terra, vi muore per dare alla terra la gioia di pro-durre il centuplo (Gv 12,24).

L’ispirato ispira66. Crea una comunità di profeti, mediante il dono del suo libro ispirato, pieno cioè dello Spirito vivificante, pieno dello Spirito che fa par-lare nella verità. Mangiare il libro non è l’assunzione di una pozione magica, e non è una mera appropriazione conoscitiva, è invece l’atto libero del cuore credente, che acconsente alla dolce e confortante potenza di Dio, che come ru-giada fa nascere il Verbo, che, trasmesso di generazione in generazione, diffuso come seme fecondo, rende l’umanità intera il luogo dell’avvenire reale della perfetta comunione con Dio.

SUMMARY

The rediscovery of the centrality of Holy Scripture in the life of the Church leads us to

rethink the concept of inspiration. The Bible, especially in prophetic texts, describes the phe-nomenon by having recourse to the category of the gift of the Spirit, but above all to the analo-gy of the word of the messenger. This latter modality makes it possible to understand better how divine revelation is received in the course of history, in which the prophet’s disciple has an essential function, as custodian of the memory and transmitter of his literary tradition. In the course of writing down the prophetic word there are outlined, according to the paradigmatic text of Jer 36, the characters of the “scribe”, the reader and the redactor, who work together in the communicative process, and to whom a share of the prophetic charisma must therefore be granted.

64 La metafora è usata per indicare il gusto della parola di Dio; cfr. Sal 19,11; 119,103; Sir 23,27; 24,19; ecc. 65 Questa figura retorica consiste nell’inversione dell’ordine cronologico (e logico) di una suc-cessione di eventi (si dice così per primo quello che è successo per ultimo), allo scopo di dare risalto al dato più importante e/o per conseguire un particolare effetto emotivo. 66 Cfr. C. THEOBALD, «Seguendo le orme …» della Dei Verbum. Bibbia, teologia e pratiche di lettura, 55.