FICHTE, SCHELLING, HEGEL

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 FICHTE È il primo filosofo che si annovera tra gli idealisti, ed, infatti, lui per primo (seguito poi da Schelling e da Hegel) riprenderà la teoria kantiana criticandola per quanto riguarda la cosa in sé (ding an sich), il noumeno, questa misteriosa essenza in conoscibile dall’io penso, in quanto finito, che diventa sostanzialmente il principio materiale della natura e del mondo, di cui noi siamo in grado di percepire esclusivamente le manifestazioni apparenti, i cui legami però sono posti dall’io  penso (principio formale del conoscere) in relazione alle 12 categorie dell’intellett o. Fichte, afferma dunque che Kant nella sua filosofia (come già era evidente dalle nostre critiche) è rimasto, pur essendo una grandissimo innovatore, coinvolto nel dualismo presupposto, ammettendo ancora l’esistenza di questo ulteriore piano di realtà che è la cosa in sé. Il principale merito dell’idealista è quello, dunque, di negare l’esistenza della cosa in sé, dando vita ad una nuova visione dell’io: l’io  puro, l’assoluto, che diviene dunque sia principio formale che materiale della conoscenza, che non solo consce la realtà, ma la pone, la crea. Venendo meno la cosa in sé questo io puro assume una dimension e infinita e possiede una infinita attività, spontaneit à e libertà. Quella che dunque in kant era la deduzione trascendent ale delle categori e dell’int elletto, per Fichte diventa deduzione assoluta dell’io puro, ovvero il porre come origine della stessa natura l’assoluto, che poi deve conoscere la stessa sua creazione, attraverso una dialettica triadica infinita tra Io e non-Io, tra assoluto e natura, vista come continuo ed infinito superamento dei propri limiti (il non-io) da parte dell’assoluto. Questo primo principio che Fichte ricerca e configura con l’Io puro, l’Assoluto, deve essere incondizionato, ovvero libero da ogni legame con qualsiasi altra cosa, e allo stesso tempo non può essere dimostrato o giustificato, ma semplicemente evidente e consapevole di sé immediata mente e si trova come fondamento di tutto; in questo modo cerca di creare una filosofia che no sia più “amore del sapere” quale è il suo significato fin dalla Grecia, ma vero e proprio sapere. Non ha nulla a che fare con l’individuo, e non agisce, ma è lo stesso atto dell’azione. Le leggi dell’io sono allo stesso tempo poste, come tutto, dallo stesso io che le crea nella sua libera spontaneità, e l’Io stesso non è dimostrabile o deducibile, ma viene colto immediatamente. Prendiamo allora il  principio più evidente di tutti cioè quello di identità A = A, intendendo con A un fenomeno o un oggetto empirico; a questo punto eliminiamo passo passo tutte le caratteristiche empiriche e i cosiddetti accidenti per arrivare a ciò che assolutamente non può essere ridotto ulteriormente. Dunque la proposizione mi dice che A è A, ma in nessun modo mi lascia intendere che A sia, cioè esista, possiamo in modo equivalente dire che  se A è, allora A è , che non cambia assolutamente nulla dal punto di vista dell’esistenza di A rispetto a prima. Ci sorge dunque il dubbio su cosa ci  possa univocamente dire se A esiste o meno, e la risoluzione ci è data dal sostituire l’A con l’Io, che, principio primo pone se stesso e pone in sé A. essendo A posto nell’Io risulta allora esistente. Quindi una cosa esiste solamente in relazione all’io, in quanto l’io stesso è coscienza di sé, ovvero è autocosci enza che si pone; se non fosse vera l’equazione Io = Io ( con = che ottiene il significat o di “porre”), allora non si potrebbe nemmeno dire che A è A, non avrebbe senso, non possederebbe alcun fondamento: l’io non può affermare nulla se non afferma per prima la propria esistenza, cioè se non si autocomprende, se non si pone da sé. Questo Io di cui si parla diventa dunque secondo il  primo principio una attività autocreatrice infinita che pone sé e pone ( secondo principio) la natura. Questa affermazione è fondamentale come superamento del dualismo presupposto, cioè come  pensiero che (coincidendo con l’essere) lo pone. Pone questo altro da sé, questo non-io, che non significa “nulla”, pur essendo l’Io il tutto, l’Assoluto, ma semplicemente ciò che l’io pone in sé stesso come sua propria limitazione (antitesi). Abbiamo dunque l’io che pone se stesso (tesi) e l’io che pone l’altro da sé in sé (antitesi). Questo non-io è il limite che all’infinito l’io deve superare in un divenire perpetuo, infinito; la forza dell’Assoluto che lo porta a porre questo non-io è chiamata immaginaz ione produttrice, quella che per Kant darebbe origine agli schemi di spazio e tempo. Che senso avrebbe infatti l’esisten za di un Assoluto, di un tutto completa mente statico e fermo, l’io non esiste se non come agire in sé e per sé come abbiamo detto ma deve essere atto nel superare qualcosa, il non-io appunto. Fichte trasforma la limitazione che quindi Kant aveva attribuito all’io  penso (l’esperienza fenomenica su cui si devono applicare le categorie dell’intelletto in quanto

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FICHTE

È il primo filosofo che si annovera tra gli idealisti, ed, infatti, lui per primo (seguito poi daSchelling e da Hegel) riprenderà la teoria kantiana criticandola per quanto riguarda la cosa in sé 

(ding an sich), il noumeno, questa misteriosa essenza in conoscibile dall’io penso, in quanto finito,che diventa sostanzialmente il principio materiale della natura e del mondo, di cui noi siamo in

grado di percepire esclusivamente le manifestazioni apparenti, i cui legami però sono posti dall’io penso (principio formale del conoscere) in relazione alle 12 categorie dell’intelletto. Fichte, affermadunque che Kant nella sua filosofia (come già era evidente dalle nostre critiche) è rimasto, pur essendo una grandissimo innovatore, coinvolto nel dualismo presupposto, ammettendo ancoral’esistenza di questo ulteriore piano di realtà che è la cosa in sé. Il principale merito dell’idealista èquello, dunque, di negare l’esistenza della cosa in sé, dando vita ad una nuova visione dell’io: l’io

 puro, l’assoluto, che diviene dunque sia principio formale che materiale della conoscenza, che nonsolo consce la realtà, ma la pone, la crea. Venendo meno la cosa in sé questo io puro assume unadimensione infinita e possiede una infinita attività, spontaneità e libertà. Quella che dunque in kantera la deduzione trascendentale delle categorie dell’intelletto, per Fichte diventa deduzione assolutadell’io puro, ovvero il porre come origine della stessa natura l’assoluto, che poi deve conoscere la

stessa sua creazione, attraverso una dialettica triadica infinita tra Io e non-Io, tra assoluto e natura,vista come continuo ed infinito superamento dei propri limiti (il non-io) da parte dell’assoluto.Questo primo principio che Fichte ricerca e configura con l’Io puro, l’Assoluto, deve essereincondizionato, ovvero libero da ogni legame con qualsiasi altra cosa, e allo stesso tempo non puòessere dimostrato o giustificato, ma semplicemente evidente e consapevole di sé immediatamente esi trova come fondamento di tutto; in questo modo cerca di creare una filosofia che no sia più“amore del sapere” quale è il suo significato fin dalla Grecia, ma vero e proprio sapere. Non hanulla a che fare con l’individuo, e non agisce, ma è lo stesso atto dell’azione. Le leggi dell’io sonoallo stesso tempo poste, come tutto, dallo stesso io che le crea nella sua libera spontaneità, e l’Iostesso non è dimostrabile o deducibile, ma viene colto immediatamente. Prendiamo allora il

 principio più evidente di tutti cioè quello di identità A = A, intendendo con A un fenomeno o unoggetto empirico; a questo punto eliminiamo passo passo tutte le caratteristiche empiriche e icosiddetti accidenti per arrivare a ciò che assolutamente non può essere ridotto ulteriormente.Dunque la proposizione mi dice che A è A, ma in nessun modo mi lascia intendere che A sia, cioèesista, possiamo in modo equivalente dire che  se A è, allora A è, che non cambia assolutamentenulla dal punto di vista dell’esistenza di A rispetto a prima. Ci sorge dunque il dubbio su cosa ci

 possa univocamente dire se A esiste o meno, e la risoluzione ci è data dal sostituire l’A con l’Io,che, principio primo pone se stesso e pone in sé A. essendo A posto nell’Io risulta allora esistente.Quindi una cosa esiste solamente in relazione all’io, in quanto l’io stesso è coscienza di sé, ovvero èautocoscienza che si pone; se non fosse vera l’equazione Io = Io ( con = che ottiene il significato di“porre”), allora non si potrebbe nemmeno dire che A è A, non avrebbe senso, non possederebbe

alcun fondamento: l’io non può affermare nulla se non afferma per prima la propria esistenza, cioèse non si autocomprende, se non si pone da sé. Questo Io di cui si parla diventa dunque secondo il primo principio una attività autocreatrice infinita che pone sé e pone ( secondo principio) la natura.Questa affermazione è fondamentale come superamento del dualismo presupposto, cioè come

 pensiero che (coincidendo con l’essere) lo pone. Pone questo altro da sé, questo non-io, che nonsignifica “nulla”, pur essendo l’Io il tutto, l’Assoluto, ma semplicemente ciò che l’io pone in séstesso come sua propria limitazione (antitesi). Abbiamo dunque l’io che pone se stesso (tesi) e l’ioche pone l’altro da sé in sé (antitesi). Questo non-io è il limite che all’infinito l’io deve superare inun divenire perpetuo, infinito; la forza dell’Assoluto che lo porta a porre questo non-io è chiamataimmaginazione produttrice, quella che per Kant darebbe origine agli schemi di spazio e tempo. Chesenso avrebbe infatti l’esistenza di un Assoluto, di un tutto completamente statico e fermo, l’io non

esiste se non come agire in sé e per sé come abbiamo detto ma deve essere atto nel superarequalcosa, il non-io appunto. Fichte trasforma la limitazione che quindi Kant aveva attribuito all’io

 penso (l’esperienza fenomenica su cui si devono applicare le categorie dell’intelletto in quanto

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trascendentali e non trascendenti), in limitazione che l’io puro stesso crea e che pone in sé, cequindi non è posta dall’esterno. Questo assoluto quindi assume le sembianze di un divino che non è

 però in alcun modo trascendente, cioè al di fuori di spazio e tempo, ma è un Assoluto calato neldivenire, è un assoluto che dialetticamente diviene nel continuo superamento del non io che eglistesso si pone come limite. In realtà l’io puro di Fichte è posizionato nel tempo, mentre siamo noi

che agiamo nello spazio, e questo divino è in noi immanente. La dottrina fichtiana è una sorta diteologia immanentista che però si manifesta nella storia e non nello spazio, la storia come infinitodivenire dell’io. Abbiamo una sorta di volontà del cosiddetto risarcimento danni nei confronti del

 pensiero che prima (da Bacone a Kant) non aveva la capacità di pensare l’essere e quindi dicomprenderlo; qui troviamo una sorta di riconoscimento della superiorità del pensiero rispettoall’essere ribaltando quindi il rapporto del dualismo presupposto e trasformandolo nella

 proposizione “il pensiero pone l’essere, lo crea pensandolo”, c’è anche un capovolgimento neiconfronti della filosofia della coincidenza di essere e pensiero, che voleva l’essere apparire al

 pensiero; troviamo come il ribaltamento di questo rapporto crei una nuova visione dell’esseresubordinato al pensiero che lo fonda, diventandone quindi il cespite ontologico. Dunque l’ioacquista consistenza e validità con l’altro da sé, come per Kant l’io penso doveva essere applicato

all’esperienza per poter avere un significato; la differenza è, come abbiamo visto, che Fichteafferma che l’Io pone in sé stesso il non-Io con cui si confronta e grazie a cui acquista spessore esenso esistenziale. Visto che l’assoluto è attività pura è contraddittorio il fatto che non divenga, equindi deve porre qualcosa su cui agire che quindi limiti l’Io e ne consenta una infinita dialettica.Già qua comprendiamo quale sia il più grande errore di Fichte, ovvero il considerare sia l’Io che ilnon-io infiniti, questo perché l’io non potrà mai finire di superare i propri limiti, perchéraggiungerebbe uno stato di staticità di mancata attività venendo meno al suo carattere di azione

 perpetua, di dialettica continua. Ma non è possibile che esistano due infiniti (non è possibile che l’io ponga il non-io nell’io in modo assoluto), perché equivarrebbe a dire che Io e no-Io sono la stessacosa, coincidenti; questo non-io pare dunque avere una caratteristica di realtà extramentale, ancoraqualche influenza di tipo dogmatico. Infine la sintesi è la stessa situazione del mondo, cioè vediamocome l’io risulta limitato dal non-io, esattamente come il non-io lo è dall’io: si configura lasituazione della realtà di tutti i giorni che vuole l’opposizione tra un io che non è l’io assoluto edinfinito ma bensì l’io finito, l’individuo, l’essere umano, che si contrappone alla realtà, al non-io, omeglio alle manifestazione del non-io. Quindi il terzo principio può essere interpretato come l’Ioche oppone nell’Io Puro ad un io divisibile (e cioè molteplice e finito) un non-io divisibile(molteplice e finito). In sostanza vediamo che nella realtà la dialettica non è direttamente tra Io Puroe Non-Io, ma è tra i vari molteplici Io finiti e i loro corrispondenti limiti, i non-io finiti, attraversoun superamento continuo di questi limiti che contribuiscono al divenire dell’Io stesso. Tornandoalla posizione del Non-Io Fichte la interpreta come dovere, come imperativo categorico per cui ilnon-io è posto perché è dovere dell’io l’essere attivo, l’essere diveniente e il completarsi all’infinito

nel comprendere questo non io, che inconsciamente pone, come parte di sé.Ma dunque cos’è che ci permette di scegliere tra una filosofia cosiddetta dogmatica ed il suoopposto, l’idealismo? Ciò che per il filosofo idealista ci permette questa scelta è la nostra stessa

 personalità, il nostro carattere, praticamente la nostra forma mentis, e consiste nel saper dire se ègiusto sacrificare l’autonomia dell’io nei confronti delle cose (dogmatismo) o quella delle cose neiconfronti dell’io (idealismo). La sua prima affermazione (che poi negherà lui stesso cadendo in unerrore non indifferente) è riguardante l’incapacità della ragione, della razionalità di farci operare lascelta, quindi apparentemente i due percorsi filosofici paiono teoreticamente congruenti tanto chenon si possa in alcun modo venire a capo di questo dubbio dell’opzione. Ci dice dunque che l’unicomodo attraverso cui possiamo decidere è l’arbitrio, ovvero la libera scelta, che chiaramente saràdiretta da una preferenza nell’una piuttosto che nell’altra direzione e questa scelta è data, dice,

“dall’inclinazione e dall’interesse”. Già da questo punto è evidente l’impronta etica che prenderà poi il suo idealismo, dicendo fin da ora che ciò che ci permette di decidere su quale possa essere lamigliore alternativa è la nostra morale cioè il cosiddetto “interesse per noi stessi”. È il nostro grado

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di libertà e di autonomia di autodirezione e non di eterodirezione, la nostra capacità di non ritrovarela nostra personalità esclusivamente nella “rappresentazione delle cose”; è il nostro grado diindipendenza, di mancata eccessiva tenerezza per i fenomeni e per la scienza che ci permette discegliere l’idealismo piuttosto che il dogmatismo. È evidente l’attualità delle affermazioni fichtianea questo proposito che si configurano con la società consumistica odierna della standardizzazione e

degli status symbol, gli oggetti da cui per nulla al mondo ci potremmo separare. Interessantel’interpretazione delle cose che “riflettono” la personalità di questi uomini, o meglio gli uomini chesi realizzano solo negli oggetti che sono anche rappresentativi del loro io e se ne venissero privatine sarebbe profondamente mutato e addirittura annichilito il loro io. Dunque questi non possonofare a meno delle cose sensibili, e quindi non faranno altro che rimanere vincolati all’esperienza(evidente la critica molto dura a Kant che effettivamente viene piuttosto ridimensionato), perché laloro personalità si è formata proprio in relazione esclusivamente al mondo esteriore. Al contrariocoloro che si sono formati da se stessi, ovvero senza essere vincolati al mondo esteriore, che quindiè consapevole della propria autonomia da esso, non necessita di questa tenerezza nei confronti deifenomeni, anzi, i fenomeni risultano vincolanti la medesima autonomia, e portano quindil’individuo a scegliere l’idealismo. L’eternonomo si vede realizzato nella propria soggettività, solo

in relazione agli oggetti (è sbagliato che questi diventino surrogati dell’anima), mentre la personalibera si realizza nel rapporto con l’altro, con il suo non-io, che non è visto come semplicemente ilfenomeno ma bensì come l’altro da sé, un altro individuo grazie a cui, con il reciprocoriconoscimento della propria realtà ed esistenza nel comportamento morale, si partecipa del diveniredell’Assoluto; in questi termini è evidente l’abbandono della teoria robinsonista (da RobinsonCrusoe; è l’idea che l’individuo non si realizzi nel rapporto con l’altro, bensì nella vita solitariaimmerso nella natura), che già in Fichte ha un grande oppositore e che sarà completata dalladialettica schiavo padrone di Hegel, nella Fenomenologia dello Spirito. Quindi è fondamentale finda qua la moralità dell’uomo, che sarà base dell’intero idealismo fichtiano. Solo una personalitàlibera (libera dal punto di vista faustiano, romantico) è in grado secondo il filosofo di sceglierel’idealismo, e in questa decisione il pensiero non prende parte; questa ultima affermazione èevidentemente povera di contenuto, ma viene poi ripresa nel paragrafo successivo (fotocopia p. 7§5), in cui si parla della superiorità anche dal punto di vista teoretico dell’idealismo, il quale

 partendo dal pensiero spiega l’essere, contrapposto invece al dogmatismo che partendo dall’esserenon è in grado di spiegare il pensiero. Se partiamo dal pensiero, dall’intelligenza, dall’Assoluto,

 possiamo evidentemente dire che questo esiste per se stesso, visto che è lui stesso a porsi; ciò chel’intelligenza è lo è per se stessa. Ma se invece partiamo dalla cosa, senza considerare l’esistenzadell’io non possiamo in alcun modo dire che essa esiste per qualcosa che ha in sé, ma bisogna per forza pensare un’intelligenza in funzione della quale la cosa suddetta esista. Quindi se partiamodall’intelligenza siamo in grado di spiegare in funzione di che cosa le cose esistano, mentre se

  partiamo dalle cose dobbiamo per forza ricorrere all’espediente dogmatico di inventarci una

intelligenza. La critica al kantismo, come abbiamo già visto, è imperniata sulla cosa in sé, sulnoumeno di cui Kant non ha potuto fare a meno, e questo errore è dato dal suo errato punto di partenza, e cioè il non partire dal soggetto (che lo avrebbe portato alla spiegazione di tutto senzaricadere nel dualismo presupposto), ma dal tentativo di giustificare la legittimità della scienza e lanecessità delle leggi fisiche che lo hanno portato ad individuare le categorie, traendolesemplicemente da ciò di cui lui aveva bisogno, ovvero delle leggi che potessero riassumere irapporti tra i fenomeni, i legami all’interno del materiale grezzo delle impressioni sensibili, che inrealtà erano limitate alla sola scientificità. Gli viene criticata l’affermazione di leggidell’intelligenza, escludendone però l’estrazione dall’intelligenza stessa, riducendosi quindi allalimitazione per quanto riguarda i fenomeni e alla conseguente delegittimazione della metafisica; lacritica sta proprio qua: come si può essere certi che effettivamente le leggi (le 12 categorie kantiane)

siano proprie del soggetto, se noi ci limitiamo a constatare quali di queste ci interessano, partendo proprio da queste e non dal medesimo soggetto? La seconda critica mossa a Kant infine è la sua

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frammentazione troppo netta, la sua destrutturazione del soggetto tra le tre critiche che individuanoognuna una specie di differente lato dell’io, quello teoretico, quello pratico e quello estetico.Il compito dell’uomo, come quello dell’Assoluto di cui l’uomo è parte, è il superamento dei limiticontribuendo in questo modo al divenire dell’Io puro, ma siccome i limiti sono ciò che ci separanodagli altri, agire per superare i limiti significa anche agire per il bene comune e per il rendere

l’intera umanità un tutt’uno nell’Assoluto, che si configura quindi come divenire storicodell’umanità intera. L’attività dell’io è riconoscere il non io come parte di sé, quindi l’Io èautocoscienza. Il continuo superamento di questo non-io diventa però un dovere moraledell’individuo, dell’uomo, dell’io finito, che deve agire nel superamento dei propri limiti, nelsuperamento del non-io, per poter partecipare alla storia, che è vista come abbiamo già detto comel’infinito processo di miglioramento dell’Assoluto. Quindi l’io esiste ed agisce per il rispetto della

 propria natura di divenire infinito, e questo non-io è posto perché deve essere posto, è necessario perché l’io divenga, e dunque l’esistenza dell’io (teoretica) è subordinata alla sua azione (pratica), si può quindi riassumere la filosofia fichtiana dicendo che l’io pratico, l’io che agisce, è superiore ed èfondamento dell’io teoretico, cioè che conosce; se l’io smettesse di divenire non esisterebbe più, edè quindi necessario che continui ad agire nel superamento del non-io che per  DOVERE pone in se

stesso. Dunque anche l’uomo che è l’io finito della sintesi deve agire per esistere, deve agire nelmiglioramento di sé e quindi nel miglioramento dello stesso Assoluto, rimanendo all’interno delmondo che è quindi esistente unicamente per rendere possibile l’azione dell’uomo il cui fine ultimoè ricongiungersi con questo assoluto nell’azione morale. Dunque l’infinità dell’io puro è in realtàdata dalla moralità pura, dall’ideale etico cui sempre noi, insieme all’assoluto, tendiamo. Ecco per quale motivo si definisce l’idealismo di Fichte come esigenziale o etico. La libertà dell’uomo comegià si poteva notare dalla introduzione circa la scelta tra idealismo e dogmatismo è data dallacertezza morale che acquista quindi un valore teoretico, ovvero la conoscenza esiste solo infunzione dell’azione morale. Infine è necessario dire come si debba agire, cioè come e attraversoquali mezzi l’uomo debba compiere la sua azione morale: questa si configura come azione secondouna massima che sia universalizzabile, cioè che possa valere anche per tutti gli altri,c he possaaiutare anche gli altri alla liberazione dai propri limiti, e risulta quindi evidente che l’azione non

 può essere compiuta da un io solo, ma bensì dalla relazione tra gli uomini che renda cioè possibile ilraggiungimento per entrambi di una libertà maggiore; c’è la necessità della presenza di un “tu” chesi contrapponga all’io, un’altra persona con cui relazionarsi, diventando liberi nel rapporto direciproca liberazione dai propri limiti, quindi è evidente che il perfezionamento dell’uomo puòavvenire solo in società, nella comunità di persone e non deve essere una liberazione dai limitiimposta dall’alto ma un progressivo miglioramento consapevole, l’autoritarismo, anche se usato inmodo positivo nel tentativo di migliorare le condizioni delle persone cui ci si impone, non puòessere considerato l’azione di una persona in grado di agire liberamente; il miglioramento, ilsuperamento dei limiti non deve essere imposto dall’alto perché totalmente inutile, ma comunicato

attraverso esempi; il tentativo risulterebbe chiaramente vano ed inutile perché è solo con il propriolavoro e con la propria fatica che si può essere in grado di rendersi più liberi. La missionedell’uomo, in quanto umanità e non in quanto semplice singolo, è l’infinito auto-perfezionamento, èquindi l’unificazione la missione dell’uomo nella società, ovvero la comunicazione e lacomprensione tra tutti i membri, la perfetta comunione che si realizza solo con un pari grado dilibertà per tutti, grado di libertà che è infinitamente da ricercare, per non ricadere nella staticità dellasemplice contemplazione di noi stessi. Il singolo è mortale, certo, ma è la sua morale, la suamassima (che deve valere per sé e non per qualcosa al di fuori di sé che lo influenzi) ad essereinfinita ed immortale in un perenne avvicinamento con l’assoluto. Libero è colui che abbia come

 proprio fine la liberazione di tutti coloro che lo circondano rendendo più unito il genere umano.L’umanità è vista come un specie di trascrizione del regno dei fini kantiano, in cui l’opera di tutti

rimane immortale nel tempo e aiuta coloro che verranno a partire da un grado di libertà più alto, èdunque una sorta di paese armonico, una dimensione in cui l’azione di ognuno si uniformainnalzandola all’azione dell’altro in modo da raggiungere in un tempo infinitamente lontano una

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libertà sempre più grande. Dunque se io agisco in modo moralmente retto, la mia azione continueràall’infinito ad esistere in tutte quelle persone che grazie a me potranno permettersi di iniziare adagire da un punto più “alto”, cosicché insieme alla mai opera anche io esisterò all’infinito, anchequando la mia esistenza fisica cesserà, ecco come l’uomo in questo modo diventa immortale inmodo affascinante nella sua opera che non potendo finire rende l’esistenza stessa dell’individuo

infinita: anche se il mio corpo fisico cesserà di esistere la mia volontà esisterà all’infinito, eccol’evidente romanticismo di Fichte che riceve evidente influenza dalla tematica del sublime di Kant edalla metafora della canna di Pascal, nonché dall’esaltazione romantica, werteriana, dell’uomo. Edecco infine la funzione del dotto, ovvero l’uomo colto, il cui compito è l’educazione del genereumano, conducendo gli uomini a comprendere quali siano i loro bisogni e quindi i loro limiti,aiutandoli in questo modo a riconoscerli e a superarli; il dotto ha una sorta di privilegio, possiede lacapacità d vedere nel futuro, portando l’uomo sulla “retta via”, insegnando al genere umano il fineultimo della propria esistenza (la coesistenza pacifica di tutte le nazioni sulla Terra) in modo darendere loro più facile il raggiungimento del fine e soprattutto rendendo nulli i momenti di inerzia,di staticità o addirittura di retrocessione verso un grado minore di libertà, stimolando dunquel’uomo ed educando in questo modo l’umanità intera.

SCHELLING

Anche Schelling ci propone, come Fichte, il partire dall’Assoluto, per poter negare la cosa in sékantiana, senza cioè ricadere nello stesso errore del dualismo presupposto, e per questo lo troviamod’accordo con la filosofia fichtiana inizialmente, attribuendo infatti a Fichte di essere stato in gradodi riprendere la corrispondenza di essere e pensiero come reale. Però di scosta dall’interpretazionedi Fichte affermando che il filosofo ha assolutizzato il soggetto, ha dato al pensiero una maggioredignità rispetto a quella che ha dato all’essere e per questo è ricaduto nell’errore che abbiamoevidenziato, ovvero la impossibilità dell’infinità, dell’assolutezza sia dell’Io che del Non-Io, cherisultano quindi sia differenti (perché è l’Io assoluto che pone il non-io in sé), sia coincidenti(perché il non-io essendo infinito andrebbe a configurarsi come stesso io, non essendo possibili dueinfiniti differenti contemporaneamente); critica dunque l’esagerata importanza che Fichte assegnaalla dialettica, al divenire come infinito processo di opposizione, affermando al contrario che per luiessere e pensiero non solo corrispondono, ma sono esattamente la stessa cosa e quindi non esistealcuna dialettica tra l’uno e l’altro, sono esattamente coincidenti e come risulta evidente la suafilosofia sarà di impronta chiaramente spinoziana, ovvero di tipo sostanziale, con un sostratoimmutabile che è la natura a cui il pensiero è immanente. Per Schelling l’antidoto all’ipertrofia delsoggetto fichtiano è l’identità di io e non-io, ma come abbiamo detto è rischioso il ricadere in unametafisica di tipo panteistico e adialettico, puramente statico, come era configurata la filosofia diSpinoza, da cui Schelling è effettivamente affascinato. Vuole creare un sistema metafisico in cui

 però non si ricada nell’errore ipertrofico né dal punto di vista del soggetto (Fichte) né dal punto di

vista dell’oggetto (Spinoza), configurando un Assoluto non riducibile esclusivamente né all’uno néall’altro. Schelling si dimostra molto più tenero nei confronti della natura, non vedendola come il puro nulla di Fichte teatro dell’agire umano, ma (nel tentativo di salvare l’arte strettamentecollegata alla natura) la configura come vita anch’essa, quindi con un ampio valore. Quindil’Assoluto schellinghiano non è né soggetto né oggetto, ma identità, indifferenza (appiattimentocome criticherà Hegel) di essere e pensiero, di soggetto e oggetto, di spirito e natura. Inconseguenza deriva da questa affermazione due possibili direzioni della filosofia, quella dellanatura e quella dello spirito, cioè la filosofia naturale e quella trascendentale i cui compiti sono bendistinti e mirano a dimostrare, l’una che la natura è spirito visibile, e l’altra che lo spirito è naturainvisibile. La dialettica della natura, che esiste essendo la natura spirito visibile come vedremo, ècostituita non sul divenire degli opposti, ma sul contrapporsi di misteriose forze. La Natura è Spirito

non consapevole di sé, è identità di conscio ed inconscio in cui però assume maggiore valorel’inconscio; mentre lo Spirito è conscio e partendo dallo Spirito stesso non possiamo ricondurci allanatura se non attraverso l’arte che diventa dunque per l’uomo mezzo attraverso cui possiamo

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conoscere la realtà della natura, l’arte come succedaneo della scienza nel cogliere la natura. La suafilosofia si discosta dal razionalismo, o dogmatismo, che intende spiegare la natura con leggi di tipomeccanicistico, senza, però essere poi in grado di spiegare la propria stessa intelligenza attraversocui è in grado di comprendere le stesse leggi, e contemporaneamente anche dalla filosofia dellatrascendenza tipica della metafisica classica, rivolgendosi verso un’impostazione d’organicismo

finalistico e immantentistico (ogni parte ha senso solo in relazione al tutto ed alle altre parti, el’universo non è meccanicistico ma possiede una finalità, che non deriva da un intervento esternoma è immanente la natura). C’invita dunque a cogliere nella natura i legami armoniosi tra gli esseriviventi e tutto ciò che è parte della natura (così come già Kant aveva affermato nella critica delgiudizio) dunque la natura è un tutto le cui parti sono organizzate dallo Spirito immanente la Naturain un’armonia che l’uomo coglie solo attraverso l’arte. La vita dell’uomo per Schelling segue tre

 principali stadi, quello TEORETICO, quello PRATICO e quello ESTETICO, che si susseguono proprio come evoluzione dell’uomo stesso, come tre fasi nelle quali l’uomo è gradualmente sempre più consapevole dell’armonia e dell’identità di essere e pensiero, di spirito e natura, che culminacon l’arte attraverso cui è in grado di comprendere quest’incredibile armonia. L’uomo assume lafunzione di “osservatore”, la totalità dell’assoluto si configura come un immenso ciclope di cui

l’uomo è l’occhio. La natura umana ricalca i grandi passi dell’evoluzione della Natura stessa nellasua progressiva comprensione della propria natura spirituale diventando conscia della propria naturasolo con l’arte. La Natura è vista come preistoria e come odissea dello spirito, è un quindi quel

 processo di progressiva materializzazione della materia e l’emergere proporzionale dello spirito chetrova il culmine di sé nella propria più alta creazione: l’uomo che ricalca le epoche naturali. Ilrapporto tra natura e spirito all’interno dell’assoluto è dunque questo: la natura è spirito inconscioall’interno dell’Assoluto ed è regolata da un’intelligenza ordinatrice, lo Spirito. La Natura trova la

 propria realizzazione nella figura del “genio”, l’artista che è esempio della capacità produttrice dellastessa natura. Ora l’artista ha la grande facoltà di produrre il bello, mentre la maggior parte degliuomini non è in grado, sebbene abbia la fondamentale capacità di fruirne, l’uomo è cioè in grado dicogliere la bellezza naturale ed artificiale nell’armonia della parti, e il processo si configura comeinteriorizzazione ed in parte riproduzione interna dell’opera bella. Prendendo in analisi le tre“epoche” dell’uomo, che ricalcano quelle della natura, si può notare che, sia nel periodo dellaconoscenza (teoretico), sia in quello dell’attività morale (pratica) non si è in grado di coglierel’armonia dell’identità di essere e pensiero, di natura e spirito, di soggetto ed oggetto, è solo nellafase estetica che l’uomo è in grado di cogliere la fusione di essere e pensiero l’identità di natura espirito, e questa arte, questa grande capacità umana si configura come la stessa filosofia, Dio stessoè la capacità massima di rappresentazione artistica, è un poeta ed un artista. Il divenire della natura

 poi e quindi i fenomeni che sono la loro rappresentazione sono sostanzialmente gli errori che lanatura compie nel tentativo di comprendere se stessa e di raggiungere la consapevolezza di essereSpirito invisibile, inconscio, cosa che si realizza con l’uomo, la più alta creazione della natura, il

quale nella comprensione della natura attraverso l’arte coglie la profonda indifferenza di essere e pensiero: attraverso l’arte si diviene consapevoli di qualcosa di inconscio. L’errore sostanziale peròdi Schelling è quello di aver inteso Essere e Pensiero non come uniti, ma come identici, eliminandoin questo modo qualunque possibilità di dialettica tra l’uno e l’altro, rendendo la natura statica:aveva criticato Fichte per aver assolutizzato il divenire, ma lui stesso sbaglia nel ridurre la natura astaticità per cui poi per spiegare i fenomeni è costretto ad introdurre il magnetismo, il chimismo el’elettricità, come misteriose forze; il suo errore è la sostanzializzazione dell’opposizione tra spiritoe natura in una unità statica che crea dunque una dimensione priva di divenire, cioè priva dispiritualità.

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HEGEL

La filosofia hegeliana è improntata secondo due fondamentali principi che si uniscono alle cinquefondamentali tesi della sua intera filosofia che sono l’A NTIINDIVIDUALISMO ed il rigorosoIMMANENTISMO, che pervadono l’intera sua filosofia e si configurano nella sua visione della storiacome divenire dell’assoluto all’interno di una dialettica di tipo triadico. La filosofia hegeliana si

definisce idealismo logico, come ontologia dell’Assoluto come Idea, e si configura come una sortadi storicismo panlogistico.

I CAPISALDI DEL SISTEMA

• LA FILOSOFIA COME SAPERE CONCETTUALE

La critica principale su cui si argomenta questa tesi hegeliana è quella rivolta al romanticismo,unita a quella che Fichte e Schelling rivolgevano al razionalismo illuministico, e quindi affermache il suo obiettivo, che definirà l’impronta logica del suo idealismo, è quello di conciliare ilsapere filosofico con quello scientifico, in modo da trasformare definitivamente la filosofia invero sapere e non solo amore per il sapere come è definito dalla interpretazione classica. Prendedunque le distanze sia dall’intellettualismo illuminista sia dal romanticismo, affermando che il

 primo è astratto, cioè svincolato dalla sua realtà, ab+tractum, cioè tolto, separato dal propriocontesto e quindi privo di realtà. Critica alla filosofia romantica poi di essere vincolataeccessivamente al sentimento e non al CONCETTO (cioè il pensare), l’Assoluto non vieneconcepito ma sentito, non viene conosciuto teoreticamente ma solo esteticamente. La verità chesi ricerca è la verità di tipo filosofico e il suo valore logico è dato dalla scientificità. Affermache nel suo periodo, o meglio quello appena precedente (il romanticismo), il concetto (cioèl’amore per il pensiero) è diventato fuori moda, e dobbiamo quindi recuperare questo

 particolare, ribadendo quindi l’importanza della logica. Lo troviamo d’accordo con i romanticinella critica all’illuminismo, che ha fallito (massima espressione n’è Kant) nella legittimazione

della metafisica come sapere, riducendola ad una semplice necessità; ma allo stesso tempo lotroviamo opposto al romanticismo per aver delegittimato il pensiero esaltando il sentimento, e liaccusa di aver stemperato nel sentimento stesso ogni tipo di conflitto dialettico. Quando parla di“rappresentazione” si riferisce a quella del romanticismo e si può comodamente riscrivere come“corrente romantica” o ancora più efficacemente mantenendosi vicini al pensiero hegeliano,come “moda”, vera e propria tendenza comune; il romanticismo è definito dunque come unacorrente presuntuosa e desiderosa di notorietà, visto che pretendono di spiegare la realtà conspiegazioni molto povere ed oltretutto pretendono che la loro spiegazione sia esaustiva evalevole per tutti essendo loro depositari della verità. Infine parla di Schelling criticandoloduramente per quanto riguarda la sua filosofia dell’appiattimento di essere e pensiero in ununico Assoluto, affermando che ha “avvolto nella nebbia la terrena varietà della sua determinata

esistenza e del pensiero”; Schelling è criticato in primo luogo per non aver compreso che lafilosofia è un sapere di tipo concettuale avendola invece fondata sull’intuizione estetica ed insecondo luogo per aver ridotto alla staticità, alla stagnazione la dialettica necessaria per l’esistenza (la filosofia di Schelling è detta da Hegel “del colpo di pistola”, che pretende cioè dicogliere con un’intuizione immediata l’indifferenza degli opposti).

• L’ASSOLUTO COME MEDIAZIONE E SVOLGIMENTO

La critica riguardante questa categoria interpretativa è principalmente rivolta ancora una volta airomantici e a Schelling che non sono stati in grado di comprendere quanto la dialettica siafondamentale per l’esistenza, per la realtà. In particolar modo è fondamentale il momentodialettico del negativo, questo potere del dolore, della sofferenza, del travaglio, che permettono

l’effettivo elevarsi verso l’alto della tesi, così come vedremo più chiaramente a riguardo delladialettica. L’errore dei romantici è quello di stemperare il dolore ed il travaglio del momentodialettico negativo nel sentimento, ed in questo modo, privando la realtà (l’Assoluto, la storia)

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della sua dialettica l’hanno fatta precipitare in una dimensione puramente estetizzante, conl’esaltazione dell’armonia a prescindere dai contrasti senza veramente comprendere l’armoniaed il processo formativo dei contrasti stessi. Manca ai romantici la forza della razionalitàdialettica, manca quella magica forza che trasforma (nel momento della sintesi) il negativo(l’antitesi) in “essere”, in verità. Pensando l’Assoluto come spiritualità attiva è evidente che il

suo divenire lo porterà non a ricadere, a piombare e ad essere assorbito dal momento del“negativo”, ma a farlo proprio, e in questo modo comprendersi; si vedrà stimolato alsuperamento del suo limite: è questa “la magica forza che volge il negativo nell’essere”.L’Assoluto non “evita” il negativo, non è che non se ne curi, ma lo supera e lo fa proprio,ritrova se stesso, la propria verità solamente nel superamento della negatività assoluta, della più

 profonda opposizione: “lo spirito sa soffermarsi presso il negativo; questo soffermarsi è lamagica forza che volge il negativo nell’essere”. Possiede quindi questa forza di MEDIARE icontrasti, superandoli in questo modo, riuscendo a ritrovare se stesso nella negazione dellanegazione, nel momento successivo alla più profonda opposizione ed in questo modoDIVIENE. La verità, l’Assoluto non si può certamente vederlo, ci dice, come una sostanza, unsostrato che si avvicini all’Assoluto statico di Schelling, o alla Sostanza di Spinoza, ma va

considerato come Soggetto (teoria ripresa evidentemente da Fichte, con le dovute modifiche,atte a non ricadere nei suoi stessi errori che già Schelling aveva evidenziato). La realtà come laintende Hegel è divisibile in realtà in senso debole (Realität) e realtà in senso forte(Wirklichkeit), realtà che lui chiama “effettuale”. Il Soggetto è effettuale solamente se è attivo ese non è dunque sostanza immutabile, può essere considerato wirklichkeit solamente se,mediando tutti i contrasti, pone se stesso: A (inconsapevole) si nega non-A che negatonuovamente da A (consapevole di non essere non-A). Questo processo è il divenire dellacoscienza umana (volksgeist) che solo in seguito, in un momento di maggiore gradi diconsapevolezza, si trasformerà nel divenire dell’Assoluto (weltgeist). Il Pensiero, l’Idea,conosce progressivamente se stesso nel divenire altro da sé, nell’alienazione, l’estraniazione

dello Spirito da se stesso. Bisogna senza errare considerare i tre momenti della dialettica inquesto modo: solo la sintesi è CONCRETA (il particolare visto in relazione con il Tutto, ilrisultato della capacità di sopportare la propria scissione), cioè vera, mentre tesi ed antitesi sonoASTRATTI, cioè tolti dal loro contesto; non bisogna però errare nel dire che sono tre momenticronologicamente successivi l’uno all’altro, ma è necessario affermare che già nella tesi è

 presente, usando una terminologia aristotelica, la sintesi in potenza, ma il raggiungimento diquesta avviene solo con il superamento della contraddizione; in realtà lo spirito si auto-estraneain se stesso, prende conoscenza della sua concretezza dopo essere passato da un momento diastrazione, ad uno di negazione analitica per arrivare alla comprensione di sé nel momentonegativo razionale. Astratto : concreto = intelletto analitico : ragione dialettica = logicaanalitica : logica dialettica. La ragione pone se stessa nel superamento degli errori di astrazione

dell’intelletto: il tizzone viene tolto dal braciere, viene astratto (tesi), quindi si spegne, trapassacioè nella propria completa negazione (antitesi) ed infine attraverso il superamentodell’astrazione viene reinserito nel braciere, sollevato ad un grado di maggiore comprensione disé, non distrutto dal fuoco, ma contribuendo con la propria auto-comprensione allacomprensione di sé da parte dell’Assoluto. Come abbiamo visto solamente il momento sinteticodella dialettica è quello in cui possiamo riconoscere la verità, questo perché il terzo momento èla ricostituzione della tesi, ma con la maggiore consapevolezza di se stesso della Ragione; èl’unico momento veramente concreto (= vero). Per comprendere come i tre momenti delladialettica siano da non considerare come svolgimento cronologico, cioè pensando la sintesicome un post hoc, basta pensare alla maggiore triade dialettica: Logica (tesi), Natura (antitesi),Spirito (sintesi). È inconcepibile che dalla natura, la contraddizione per eccellenza, possa

nascere lo Spirito, se non pensando che necessariamente i tre passaggi possano essere distintima non separati e ordinati cronologicamente, e soprattutto rendendo necessario il fatto che sia lostesso Spirito a “presenziare” l’intero sviluppo, trovandosi in potenza già nella tesi; si

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ricadrebbe nell’errore della filosofia schellinghiana, che pretende che con “un colpo di pistola”ci sia svelata la verità, passando attraverso la semplice contemplazione dell’armonia naturale,stemperando nel sentimento l’opposizione, senza comprendere l’armonia della opposizionestessa e la grande forza della sintesi; la Logica si configura quindi come una specie di spiritoastratto. L’intero processo dialettico è la presa di coscienza dell’Assoluto, che dopo essere

 passato nel momento della negatività (sarà evidente nella dialettica schiavo-padrone di cui si  parla nella parte dedicata alla vera e propria Fenomenologia dello Spirito), si elevacomprendendosi concretamente come Ragione. Dunque la verità è anche Divenire, inteso comequel processo in cui fin dall’inizio è presente la fine (conclusione), intesa come proprio fine(causa della propria realizzazione) e questo processo acquista valore di verità effettuale, comewirklichkeit, solo nel proprio SVOLGIMENTO. Questo passaggio è fondamentale perché se

 prendiamo in analisi l’uomo, il singolo (come determinazione particolare del Tutto) possiamovedere nella dialettica, cioè nella concretizzazione, il confronto dell’uomo con gli altri e grazieal rapporto e alla relazione con loro supera le proprie contraddizioni. In terzo luogo poi la veritàè l’Intero, inteso come unità di essere e pensiero (non come identità o indifferenzaschellinghiana, cioè come appiattimento). L’intero è lo Spirito che si completa nel suo divenire,

è l’Assoluto come risultato della conclusione del processo dialettico; è effettuale solo nelmomento in cui c’è la MEDIAZIONE degli opposti, il passaggio cioè dal negativo al positivocon una seconda negazione (la sintesi). Infine il vero è Spirito, visto come spirito che diviene,che si realizza, che ottiene il suo più alto grado di verità, appunto, con l’oggettivazione incontrasto con la realtà, intesa come essere, come natura: la verità non la troviamo dunque nénell’ipertrofia dell’essere (estraneo al pensiero) né nell’ipertrofia del pensiero (estraneo allanatura), ma in questo Spirito che nel confronto con la negatività (la natura) si comprende. Comeimmediata conseguenza (cosa che sarà molto più esplicita nel discorso sull’identità di reale erazionale) si ottiene che solo ciò che è posto dal pensiero (come ragione e quindi razionale) èreale e viceversa tutto ciò che è wirklichkeit, realtà effettuale è obbligatoriamente posto dallospirito ed è quindi razionale.

• LA DIALETTICA COME LOGICA DEL CONCRETO

Innanzitutto cosa significa “logica del concreto”? La logica (scienza del pensiero) è quel ramodella ricerca che comprende l’ontologia, ma l’ontologia è la scienza dell’essere nel suo processodi completamento, quindi di ciò che è vero ed effettuale, ovvero il concreto. La dialettica sidivide in tre momenti (tesi, antitesi e sintesi) che a loro volta corrispondono a tre capacità,

  proprietà umane (intelletto astraente, razionalità negativa, razionalità positiva). L’intelletto èquella capacità di vedere i legami tra i fenomeni sensibili, è lo stesso intelletto kantiano che

 pone i legami all’interno del materiale grezzo delle impressioni sensibili, e per questo motivoastrae, cioè toglie, i fenomeni dal Tutto: interpreta qualcosa di astratto come totale e considera

la conoscenza che ne ricava come esaustiva (metaforicamente parlando è la mano che toglie iltizzone ancora incandescente dal braciere della totalità slegandolo dal suo contesto). Abbiamo poi il momento dialettico tra tesi ed antitesi che è il classico passaggio nella contraddizione chenon porta ad alcuna risoluzione, è il momento del sopprimersi da sé di quelle determinazioniastratte che permanevano nel momento intellettuale, nei legami tra i fenomeni sensibili (dal

 punto di vista metaforico è il trapassare del tizzone nel suo opposto con lo spegnimento). Ora cisono due tipi di critiche rivolte da Hegel ai filosofi precedenti a riguardo di questo secondomomento della dialettica. Il primo errore che si può compiere nell’errato intendere l’antitesi èquello di assolutizzare la contraddizione, e in questo modo ritrovarsi a cadere nello scetticismo,ovvero quella filosofia che pretende non ci sia alcuna possibilità di oltrepassare lacontraddizione e che quindi tutto nel mondo sia contraddittorio e precario, nulla sia spiegabile

attraverso la razionalità umana. È l’errore di chi si ferma a considerare la dialettica in questo  punto non vedendo il terzo passaggio, ed è anche l’errore che Fichte ha compiuto,assolutizzando questo divenire infinito tra opposti, ricadendo per forza in contraddizione e

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divenendo ai suoi occhi una sorta di pessimista; ci dice che se non si configura un concetto conla negazione del suo opposto si è portati a credere che il suo opposto sia la realtà, vedrò dunqueil concetto trasformato nel suo stesso opposto. Non bisogna dunque assolutizzare questoconflitto ipostatizzandolo e non riuscendo a vederne l’Aufhebung. Il secondo errore che si può

 poi commettere nel momento antitetico è quello in cui Kant stesso è ricaduto: l’eccessiva

tenerezza nei confronti dei fenomeni non ritenendo possibile un momento dialettico negativo,compiendo cioè un errore per difetto, mentre quello degli altri è per eccesso. Kant consideradunque la dialettica non necessaria, eliminando questo punto della negazione che èfondamentale per la libertà (come più avanti si vedrà), rimanendo troppo vincolato ai fenomeni,essendo limitato dalla sua volontà di giustificare esclusivamente la scienza e declassando inquesto modo la metafisica ad una semplice necessità per il quieto vivere dell’uomo; haconsiderato la medesima scienza come dialettica, mentre in realtà il momento della logica è daintendere come logica dell’errore. Ora dai primi due momenti della dialettica possiamo vederecome questo secondo passaggio sia la logica dell’errore e che quindi ciò che si riferisce al finitoastratto dal tutto è contraddittorio. Il terzo momento della dialettica, poi, è la sintesi, il tollere

latino, l’elevare cioè ciò che è astratto alla concretezza, rimettendo cioè il tizzone nel braciere

grazie alla sofferenza e al travaglio del negativo. La sintesi è la “magica forza” che muta ilnegativo in essere, che cioè eleva l’astratto al concreto, che riporta l’antitesi in sericonoscendola come contraddittoria; è quel passaggio che, essendo una seconda negazionedella tesi, o meglio una negazione dell’antitesi, ci permette di raggiungere un grado di maggioreconsapevolezza. La nostra stessa dialettica è necessario che avvenga in relazione con gli altriindividui (cioè in relazione con il tutto, in modo quindi concreto e non astratto) e in questomodo siamo dunque in grado di superare le nostre contraddizioni, le nostre “antitesi”: questo è ilcompito della filosofia, cioè di aumentare la consapevolezza di sé di ogni uomo che comeconseguenza porta la maggiore consapevolezza di sé del volksgeist e quindi del weltgeist; ciriconciliamo in questo modo con la storia stessa, l’Assoluto (il nostro compito non è cambiare ilmondo ma comprenderlo, ecco dove un po’ scade la filosofia hegeliana che ci invita acomprendere e a contemplare rendendoci consapevoli, piuttosto che ad agire). Non c’è dunque

 più una dialettica di tipo antinomico come quella kantiana o perennemente conflittuale comequella fichtiana, ma troviamo una struttura triadica. Ci sono infine, ci dice Hegel, due modierrati di intendere la sintesi cui abbiamo già accennato precedentemente. Innanzitutto èsbagliato considerare la dialettica in generale come una successione cronologica di eventiconcatenati e che sono l’uno stretta conseguenza dell’altro; questo perché è necessario asserireche il momento della sintesi si trovi in una sorta di forma degradata già nella tesi e nell’antitesicome una specie di forza che muova l’intero processo per poi sbocciare alla fine nellaconsapevolezza (notare che è possibile distinguere le differenze tra i tre momenti tenendo peròsempre ben presente che non sono l’uno conseguenza logica, cronologica e soprattutto

ontologica dell’altro, perché se così fosse non si spiegherebbe come dalla completa negazionedell’antitesi possa nascere questo momento magico della sintesi). In secondo luogo poi ènecessario ricordare come non si possa considerare (ed è questo l’errore di Schelling) l’unitàdegli opposti come identità e indifferenza degli stessi, cioè come appiattimento dell’unosull’altro.

• L’IDENTITÀ DI REALE E RAZIONALE

• L’IDENTITÀ DI LOGICA E METAFISICA

LA FENOMENOLOGIA DELLLO SPIRITO