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FERITE DI GUERRA I CONFLITTI MONDIALI, LE GUERRE DELLA EX JUGOSLAVIA E LE GUERRE IN ATTO NELLE PAROLE DI POETI E SCRITTORI

UN PROGETTO DEL LICEO “G. LEOPARDI-E. MAJORANA” IN COLLABORAZIONE CON IL DIALOGO CREATIVO

A CURA DI Susanna Corelli e Silvia Pettarin

PREPARAZIONE DEGLI STUDENTI ALLE LETTURE Silvia Corelli e Carlo Costantino

LETTORI (IN ORDINE DI LETTURA): TERESA TASSAN VIOL, GIAN MARIO VILLALTA, ALESSANDRA GABELLI, ELISA ALTAMURA, ELISA

BAIONI, MARCO BATTEL, BEATRICE BOVE, MAURIZIO BRESSAN, AUGUSTA CALDERAN, SONGUL

CELIK, ALESSIA CESCUTTI, SUSANNA CORELLI, CARLO COSTANTINO, ARIANNA DE NADAI, MILENA DI FUSCO, ANNA FERRARA, GIADA FLOREANI, ISABEL GALLO, LAURA MARCUZ, RICCARDO MONEGO, GIULIA PASCOT, ANDREA PERESSIN, RICCARDO PEROTTI, SILVIA PETTARIN, SERGIO CHIAROTTO, SIGFRIDO CESCUT COPERTINA: Elisa Altamura REDAZIONE: Silvia Pettarin

FILIPPO

da

Allarme gemiti marcia

Tintinnio zaini fucili zoccoli chiodi cannoni

Zaffate puzzo cannella muffa

mitragliatrici=ghiaia+risacca+rane

Tintinnio zaini fucili cannoni ferraglia

sterco-di-cavallo carogne

frastuono

Tintinnio zaini fucili zoccoli chiodi cannoni

Frutti-secchi carrube ceci pistacchi mandorle

Caprone cusscuss-ammuffito

fuoco-di-fucileria pic pac pun pan pan

mitragliatrici-raganelle-ricovero

Tintinnio zaini fucili cannoni cassoni

ambra gelsomino case-sventramenti abbandono

battaglioni-caldaie comandi

bocche-fornaci

perdio avanti

Arterie rigonfiamento caldo fermentazione

mitragliatrici tataratatarata

battaglioni-formiche cavalleria

staffette-cavallette

obici-sottrazione granata-cancellatura grondare colare frana blocchi valanga

sanguinolenza macello ferite rifugio oasi umidità ventaglio freschezza

Tintinnio zaini fucili zoccoli chiodi cannoni

Premessa

ILIPPO TOMMASO MARINETTI

da Battaglia Peso + odore

Allarme gemiti marcia

Tintinnio zaini fucili zoccoli chiodi cannoni

cannella muffa

mitragliatrici=ghiaia+risacca+rane

Tintinnio zaini fucili cannoni ferraglia

cavallo carogne flic-flac ammassarsi

Tintinnio zaini fucili zoccoli chiodi cannoni

secchi carrube ceci pistacchi mandorle

ammuffito

fucileria pic pac pun pan pan

ricovero-di-lebbrosi piaghe avanti

io zaini fucili cannoni cassoni

sventramenti abbandono

caldaie comandi-stantuffi sudore

Arterie rigonfiamento caldo fermentazione-capelli-ascelle

mitragliatrici tataratatarata

he cavalleria-ragni strade-guadi

cancellatura grondare colare frana blocchi valanga

sanguinolenza macello ferite rifugio oasi umidità ventaglio freschezza

Tintinnio zaini fucili zoccoli chiodi cannoni

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cancellatura grondare colare frana blocchi valanga

sanguinolenza macello ferite rifugio oasi umidità ventaglio freschezza

Prima Guerra Mo

E Dio t’ha tolto

dai tribuli del Carso,

dal mondo arso

dal mal sconvolto.

Per spassi iminsi

de paurusi silinsi

el t’ha portào a le nove zornàe

al sovo eterno istàe.

Là xe la pase,

ninte te tormenta,

a duro e duri rase;

la fiama xe contenta.

What in our lives is burnt

In the fire of this?

The heart’s dear granary?

The much we shall miss?

Three lives hath one life –

Iron, honey, gold.

Prima Guerra Mondiale

BIAGIO MARIN

E Dio t’ha tolto

E Dio t’ha tolto

dai triboli del Carso,

dal mondo arso

sconvolto dal male.

Per spazi immensi

di paurosi silenzi

el t’ha portào a le nove zornàe ti ha portato a nuove giornate

alla sua eterna estate.

Là è la pace,

niente ti tormenta,

e tutti e tutto tace;

la fiamma è contenta.

ISAAC ROSENBERG

August 1914

Che cos'è bruciato nelle nostre vite

In questo fuoco?

? Il caro granaio del cuore?

Tutto ciò di cui sentiremo la

mancanza?

– Una vita contiene tre vite –

ferro, miele, oro.

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a nuove giornate

alla sua eterna estate.

la fiamma è contenta.

Che cos'è bruciato nelle nostre vite

o la

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The gold, the honey gone – L'oro ed il miele sono scomparsi –

Left is the hard and cold. È rimasta solo la sostanza dura e fredda.

Iron are our lives Le nostre vite sono di ferro

Molten right through our youth. fuse durante la nostra gioventù

A burnt space through ripe fields, lo spazio bruciato dei campi maturi

A fair mouth’s broken tooth. Solo un dente rotto in una bella bocca.

PIERO JAHIER

Dichiarazione Altri morirà per la Storia d'Italia volentieri

e forse qualcuno per risolvere in qualche modo la vita.

Ma io per far compagnia a questo popolo digiuno

che non sa perché va a morire

popolo che muore in guerra perché «mi vuol bene»

«per me» nei suoi sessanta uomini comandati

siccome è il giorno che tocca morire.

Altri morirà per le medaglie e per le ovazioni

ma io per questo popolo illetterato

che non prepara guerra perché di miseria ha campato

la miseria che non fa guerre, ma semmai rivoluzioni.

Altri morirà per la sua vita

ma io per questo popolo che fa i suoi figlioli

perché sotto coperte non si conosce miseria

popolo che accende il suo fuoco solo a mattina

popolo che di osteria fa scuola

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popolo non guidato, sublime materia.

Altri morirà solo

ma io sempre accompagnato:

eccomi, come davo alla ruota la mia spalla facchina

e ora, invece, la vita.

Sotto ragazzi,

se non si muore

si riposerà allo spedale.

Ma se si dovesse morire

basterà un giorno di sole

e tutta Italia ricomincia a cantare.

Mio popolo

Eh eh, ragazzi la vita

non è poi così preziosa.

Biglietto d'ingresso pagato:

arginare, scassare, murare,

fucinare, fresare, montare.

Combattuto col piccone

mai perso callo alla mano.

Ferite: due dita di meno.

Nostro letto abituati a portarlo

lontano.

Eh eh ragazzi, la vita

non è poi così preziosa:

sentite le condizioni:

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tribolare, emigrare, ammalare,

ospedali, camorre, prigioni.

Ehi, ragazzo. la guerra sapete

non è poi tanto cattiva:

almeno nelle antiche storie

alla fine si moriva.

Quanto alla nostra grande Patria

la nostra parte di terra nativa

nel sacco, spatriando,

c'è sempre entrata.

A spalla è tanto che la portiamo.

Nello zaino non la perderemo.

Noi - dalla guerra di tutti i giorni

quando ci leviamo

un momento a cambiare le armi

e partiamo.

Mare Hanno preso il suo figliolo, ànno preso

quello che l’era appena rilevato

e per andà non può essere andato

che nel punto più brutto indifeso.

E per restà non può esser restato

che dove tronca vita le granate

e quando ànno finito di troncare

scendono le valanghe a sotterrare.

E se non scrive, è che vuol ritornare

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e queste notti è camminato camminato

per chiedere una muta alla sua mare:

la muta era ben pronta al davanzale

e alla finestra mare l’ha aspettato.

L’ha aspettato infino alla mattina

quando squilla la tromba repentina

e alla sua casa non può più rivare.

Hanno preso il suo figliolo alla mare.

Hanno preso il suo tosàt,

ànno preso quel ch’era così tanto delicato

si ritrova lontano trasportato

nel bastimento sopra l’acqua acceso.

Di giorno il bastimento le cammina

ma nella notte è sempre arrestato

e tutte l’acque bussan per entrare

dove il suo tosatèl sta addormentato.

Hanno preso il suo tosàt alla mare.

Hanno preso il suo omo, ànno preso

quello che la doveva accompagnare

che avea giurato davanti all’altare

di non lasciarla sola a questo peso.

“Lui coi suoi bòcia è contento di andare”.

Non si è quasi voltato a salutare.

Ma hanno preso il suo omo alla mare.

E la mattina si è levata a solo

e à messo tutte le sue filigrane

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à beverato le sue armente chiare

à steso tutti i suoi panni a asciugare

à agganciato il più grande suo paiolo

à apparecchiato il più bel fuoco acceso

e dopo si è seduta al focolare.

Anche se tornano non si può più alzare

ànno preso, ànno preso anche la mare.

Ultima marcia Pasa parola che la monta ancora Ma per mi, tosi, no la monta altro

Oi che me toca morir!

Adio, Mariola,

mai so sta bono de catarte sola.

La vale è bianca – la vale è nera

Ancúo inverno – diman primavera.

Diman xe sagra – e su la panca, sola,

discorerà co un altro la Mariola.

Se avete fame, guardate lontanoJ

Se avete sete, a tazza a la manoJ

Tosi, che fate la mafia in scarponi

E de la penna vi fate bandiera

Scolté del morto le grame cansoni:

chi ride al matino, no pianze la sera.

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Scalate le piante che porta i suoi nidi

Tastate le pute ch’ha i seni graniti

Taiate la corda che liga ala naia.

Co’ sona adunata: ATENTI! SERÉ!

E manco un can se ricorda de te.

Per uno manco xe presta la tomba

La tera xe moia, la pala s’afonda.

Diman: «ADUNATA! Coselo quel vodo?»

ATENTI! RIPOSO! COPERTI! SERÉ!

E manco un can se ricorda de te.

GIUSEPPE UNGARETTI

Veglia Cima Quattro il 23 dicembre 1915

Un’intera nottata

buttato vicino

a un compagno

massacrato

con la sua bocca

digrignata

volta al plenilunio

con la congestione

delle sue mani

penetrata

nel mio silenzio

ho scritto

lettere piene d’amore

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Non sono mai stato

tanto

attaccato alla vita

Fratelli Mariano il 15 luglio 1916

Di che reggimento siete

fratelli?

Parola tremante

nella notte

Foglia appena nata

Nell'aria spasimante

involontaria rivolta

dell'uomo presente alla sua

fragilità

Fratelli

Sono una creatura Valloncello di Cima Quattro il 5 agosto 1916

Come questa pietra

del S. Michele

così fredda

così dura

così prosciugata

così refrattaria

così totalmente

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disanimata

Come questa pietra

è il mio pianto

che non si vede

La morte

si sconta

vivendo.

In dormiveglia Valloncello di Cima Quattro il 6 agosto 1916

Assisto la notte violentata

L’aria è crivellata

come una trina

dalle schioppettare

degli uomini

ritratti

nelle trincee

come le lumache nel loro guscio

Mi pare

che un affannato

nugolo di scalpellini

batta il lastricato

di pietra di lava

delle mie strade

ed io l’ascolti

non vedendo

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in dormiveglia

Pellegrinaggio Valloncello dell’Albero Isolato il 16 agosto 1916

In agguato

in queste budella

di macerie

ore e ore

ho strascicato

la mia carcassa

usata dal fango

come una suola

o come un seme

di spinalba

Ungaretti

uomo di pena

ti basta un'illusione

per farti coraggio

Un riflettore

di là

mette un mare

nella nebbia

San Martino del Carso Valloncello dell’Albero Isolato il 27 agosto 1916

Di queste case

Non è rimasto

Che qualche

Brandello di muro

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Di tanti

Che mi corrispondevano

Non è rimasto

Neppure tanto

Ma nel cuore

Nessuna croce manca

È il mio cuore

Il paese più straziato

Italia Locvizza, il I° Ottobre 1916

Sono un poeta

un grido unanime

sono un grumo di sogni

Sono un frutto

d'innumerevoli contrasti d'innesti

maturato in una serra

Ma il tuo popolo è portato

dalla stessa terra

che mi porta

Italia

E in questa uniforme

di tuo soldato

mi riposo

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come fosse la culla

di mio padre

GEORG TRAKL

Grodek

Am Abend tönen die herbstlichen Wälder

Von tödlichen Waffen, die goldnen Ebenen

Und blauen Seen, darüber die Sonne

Düstrer hinrollt; umfängt die Nacht

Sterbende Krieger, die wilde Klage

Ihrer zerbrochenen Münder.

Doch stille sammelt im Weidengrund

Rotes Gewölk, darin ein zürnender Gott wohnt,

Das vergoßne Blut sich, mondne Kühle;

Alle Straßen münden in schwarze Verwesung.

Unter goldnem Gezweig der Nacht und Sternen

Es schwankt der Schwester Schatten durch den schweigenden Hain,

Zu grüßen die Geister der Helden, die blutenden Häupter;

Und leise tönen im Rohr die dunkeln Flöten des Herbstes.

O stolzere Trauer! ihr ehernen Altäre

Die heiße Flamme des Geistes nährt heute ein gewaltiger Schmerz,

Die ungebornen Enkel.

Alla sera risuonano i boschi autunnali

di armi mortali, le pianure dorate e

i mari blu, sopra cui il sole

procede più cupo; la notte avvolge

il soldato morente, il lamento selvaggio

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delle loro bocche infrante.

Tuttavia il sangue versato si riunisce tranquillo

nel folto dei salici, nella frescura lunare

nel folto dei salici, nella frescura lunare

nuvole rosse, nelle quali vive un dio che si sta arrabbiando;

tutte le strade sfociano in una scura putredine.

Sotto una dorata ramaglia della notte e le stelle

ondeggia la sorella ombra attraverso il bosco silente,

saluta gli spiriti degli eroi, le teste sanguinanti,

e piano risuonano le canne, i flauti scuri dell’autunno.

O più grande lutto! Voi bronzei altari

la bollente fiamma dello spirito nutre oggi un potente dolore,

di nipoti non nati.

CLEMENTE REBORA

Viatico

O ferito laggiù nel valloncello

tanto invocasti

se tre compagni interi

cadder per te che quasi più non eri,

tra melma e sangue

tronco senza gambe

e il tuo lamento ancora,

pietà di noi rimasti

a rantolarci e non ha fine l’ora,

affretta l’agonia,

tu puoi finire,

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e conforto ti sia

nella demenza che non sa impazzire,

mentre sosta il momento

il sonno sul cervello,

lasciaci in silenzio –

Grazie, fratello.

Seconda Guerra Mo

S

Sei ancora quello della pietra e della fionda,

uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,

con le ali maligne, le meridiane di morte,

t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,

alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,

con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,

senza amore, senza Cristo. Hai ucciso an

come sempre, come uccisero i padri, come uccisero

gli animali che ti videro per la prima volta.

E questo sangue odora come nel giorno

Quando il fratello disse all’altro fratello:

«Andiamo ai campi». E quell’eco fredda, tenace,

è giunta fino a te, dentro la tua giornata.

Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue

Salite dalla terra, dimenticate i padri:

le loro tombe affondano nella cenere,

gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.

E come potevamo noi cantare

con il piede straniero sopra il cuore,

fra i morti abbandonati nelle piazze

sull’erba dura di ghiaccio, al lamento

d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero

Seconda Guerra Mondiale

SALVATORE QUASIMODO

Uomo del mio tempo

Sei ancora quello della pietra e della fionda,

tempo. Eri nella carlinga,

con le ali maligne, le meridiane di morte,

dentro il carro di fuoco, alle forche,

alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,

con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,

senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,

come sempre, come uccisero i padri, come uccisero

gli animali che ti videro per la prima volta.

E questo sangue odora come nel giorno

Quando il fratello disse all’altro fratello:

«Andiamo ai campi». E quell’eco fredda, tenace,

tro la tua giornata.

Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue

Salite dalla terra, dimenticate i padri:

le loro tombe affondano nella cenere,

gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.

Alle fronde dei salici

E come potevamo noi cantare

piede straniero sopra il cuore,

fra i morti abbandonati nelle piazze

sull’erba dura di ghiaccio, al lamento

d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero

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della madre che andava incontro al figlio

crocifisso sul palo del telegrafo?

Alle fronde dei salici, per voto,

anche le nostre cetre erano appese,

oscillavano lievi al triste vento.

Neve Scende la sera: ancora ci lasciate

immagini care della terra, alberi,

animali, povera gente chiusa

dentro i mantelli dei soldati, madri

dal ventre inaridito dalle lacrime.

E la neve ci illumina dai prati

come luna. Oh questi morti. Battete

sulla fronte, battete fino al cuore.

Che urli almeno qualcuno nel silenzio,

in questo cerchio bianco di sepolti.

Milano, agosto 1943

Invano cerchi tra la polvere,

povera mano, la città è morta.

È morta: s’è udito l’ultimo rombo

sul cuore del Naviglio. E l’usignolo

è caduto dall’antenna, alta sul convento,

dove cantava prima del tramonto.

Non scavate pozzi nei cortili:

i vivi non hanno più sete.

Non toccate i morti, così rossi, così gonfi:

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lasciateli nella terra delle loro case:

la città è morta, è morta.

NAZIM HIKMET

Kiz Çocuğu (La bambina di Hiroshima)

Kapıları çalan benim Sono io che busso alle porte,

kapıları birer birer. busso alle porte ad una ad una.

Gözünüze görünemem Non mi faccio vedere ai vostri occhi

göze görünmez ölüler. con gli occhi non si vedono i morti.

Hiroşima’da öleli Dalla mia morte ad Hiroshima

oluyor bir on yıl kadar. ormai sono passati dieci anni.

Yedi yaşında bir kızım, Sono una bambina di sette anni,

büyümez ölü çocuklar. i bambini morti non crescono.

Saçlarım tutuştu önce, Prima mi si sono inceneriti i capelli,

gözlerim yandı kavruldu. (poi) i miei occhi si sono fatti di vetro.

Bir avuç kül oluverdim, Di me è rimasta una manciata di cenere.

külüm havaya savruldu. Le mie ceneri sono volate nell’aria.

Benim sizden kendim için Non vi chiedo nulla per me.

hiçbir şey istediğim yok. Nemmeno lo zucchero può mangiare la

bambina.

Şeker bile yiyemez ki La bambina bruciava

kâat gibi yanan çocuk. come un foglio di carta.

Çalıyorum kapınızı, Busso alle vostre porte,

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teyze, amca, bir imza ver. uomini della terra, sottoscrivete.

Çocuklar öldürülmesin I bambini non devono essere uccisi,

şeker de yiyebilsinler. i bambini devono almeno poter

mangiare lo zucchero. Traduzione di Songul Celik

WISŁAWA SZYMBORSKA

Koniec i początek (La fine e l’inizio)

Dopo ogni guerra

c’è chi deve ripulire.

In fondo un po’ d’ordine

da solo non si fa.

C’è chi deve spingere le macerie

ai bordi delle strade

per far passare

i carri pieni di cadaveri.

C’è chi deve sprofondare

nella melma e nella cenere,

tra le molle dei divani letto,

le schegge di vetro

e gli stracci insanguinati.

C’è chi deve trascinare una trave

per puntellare il muro,

c’è chi deve mettere i vetri alla finestra

e montare la porta sui cardini.

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Non è fotogenico,

e ci vogliono anni.

Tutte le telecamere sono già partite

per un’altra guerra.

Bisogna ricostruire i ponti

e anche le stazioni.

Le maniche saranno a brandelli

a forza di rimboccarle.

C’è chi, con la scopa in mano,

ricorda ancora com’era.

C’è chi ascolta

annuendo con la testa non mozzata.

Ma presto lì si aggireranno altri

che troveranno il tutto

un po’ noioso.

C’è chi talvolta

dissotterrerà da sotto un cespuglio

argomenti corrosi dalla ruggine

e li trasporterà sul mucchio dei rifiuti.

Chi sapeva

di che si trattava,

deve far posto a quelli

che ne sanno poco.

E meno di poco.

E infine assolutamente nulla.

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Sull’erba che ha ricoperto

le cause e gli effetti,

c’è chi deve starsene disteso

con una spiga tra i denti,

perso a fissare le nuvole.

EUGENIO MONTALE

Il sogno del prigioniero

Albe e notti qui variano per pochi segni.

Il zigzag degli storni sui battifredi

nei giorni di battaglia, mie sole ali,

un filo d'aria polare,

l'occhio del capoguardia dello spioncino,

crac di noci schiacciate, un oleoso

sfrigolio dalle cave, girarrosti

veri o supposti - ma la paglia è oro,

la lanterna vinosa è focolare

se dormendo mi credo ai tuoi piedi.

La purga dura da sempre, senza un perché.

Dicono che chi abiura e sottoscrive

può salvarsi da questo sterminio d'oche ;

che chi obiurga se stesso, ma tradisce

e vende carne d'altri, afferra il mestolo

anzi che terminare nel patée

destinato agl'Iddii pestilenziali.

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Tardo di mente, piagato

dal pungente giaciglio mi sono fuso

col volo della tarma che la mia suola

sfarina sull'impiantito,

coi kimoni cangianti delle luci

sciorinate all'aurora dai torrioni,

ho annusato nel vento il bruciaticcio

dei buccellati dai forni,

mi son guardato attorno, ho suscitato

iridi su orizzonti di ragnateli

e petali sui tralicci delle inferriate,

mi sono alzato, sono ricaduto

nel fondo dove il secolo e il minuto –

e i colpi si ripetono ed i passi,

e ancora ignoro se sarò al festino

farcitore o farcito. L'attesa è lunga,

il mio sogno di te non è finito.

Bufera La bufera che sgronda sulle foglie

dure della magnolia i lunghi tuoni

marzolini e la grandine,

(i suoni di cristallo nel tuo nido

notturno ti sorprendono, dell'oro

che s'è spento sui mogani, sul taglio

dei libri rilegati, brucia ancora

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una grana di zucchero nel guscio

delle tue palpebre)

il lampo che candisce

alberi e muro e li sorprende in quella

eternità d'istante – marmo manna

e distruzione – ch'entro te scolpita

porti per tua condanna e che ti lega

più che l'amore a me, strana sorella, -

e poi lo schianto rude, i sistri, il fremere

dei tamburelli sulla fossa fuia,

lo scalpicciare del fandango, e sopra

qualche gesto che annaspa...

Come quando

ti rivolgesti e con la mano, sgombra

la fronte dalla nube dei capelli,

mi salutasti – per entrar nel buio.

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VITTORIO SERENI

Non sa più nulla, È alto sulle ali (da Diario di Algeria)

Campo Ospedale 127, giugno 1944 Non sa più nulla, è alto sulle ali

il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna.

Per questo qualcuno stanotte

mi toccava la spalla mormorando

di pregar per l’Europa

mentre la Nuova Armada

si presentava alla costa di Francia.

Ho risposto nel sonno: – È il vento,

il vento che fa musiche bizzarre.

Ma se tu fossi davvero

il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna

prega tu se lo puoi, io sono morto

alla guerra e alla pace.

Questa è la musica ora:

delle tende che sbattono sui pali.

Non è musica d’angeli, è la mia

sola musica e mi basta –.

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EDOARDO DE FILIPPO

da Napoli milionaria

Gennaro Jovine, deportato in seguito ad un rastrellamento tedesco, torna nella sua Napoli liberata dagli Alleati e trova un ambiente familiare irriconoscibile: la moglie si è arricchita con la borsa nera, il figlio Amedeo si dedica al furto di camion e di automobili, la figlia Maria Rosaria, incinta di un militare americano che l’ha abbandonata, si prostituisceD Davanti al figlio Amedeo e al brigadiere Ciappa (venuto per arrestarlo) Gennaro riflette su come anche la guerra sia responsabile di questa deriva morale. GENNARO (a Ciappa) E già. (Al figlio) Asséttate. (Amedeo, un po’ colpito, quasi macchinalmente siede). Pecché mmiez’ ’o mbruoglio ’e na guerra, ’a delinquenza vene a galla. Cuntrabbandiere, accaparratori, truffatoriJ Circulazione con permessi irregolari, documenti falsiJ Mariuole d’automobileJ (Amedeo trasale). E io me ricordo dempre chello ca vuie me dicisteve chillu iuorno ca io facevo ’o muorto: «è sacrilegio a tucca’ nu muortoJ ma è cchiú sacrilegio a mettere ’e mmane ncuollo a nu vivo come a te». Cierti cose se compatiscenoJ E vuie perciò nun me mettisteve ’e mmanette. Se capisceJ Sta gente è viva, stu popolo è vivo, s’ha da difendere ’e na manera? ’O truffatore si t’ ’a sape’ fa’, tu dice: «Va bene, m’ha fatto scemo, ma insomma ha truvato nu sistema». E magari uno dice: «È simpatico». L’astuzia e ’o curaggio ’e circula’ cu nu camionne cu ’e documenti falsiJ E pure se po’ dicere: «È n’ommo scetato, tene fegato, ha creato nu muvimentoJ». Quanta gente ha mangiato pe’ via ’e sti camionne ca vanno e vènenoJE po’ ha miso pure a rischio ’a pelle, pecché ncopp’ ’a na strada pruvinciale se po’ abbusca’ pure na palla e muschettoJ’A prostituzione? Embe’, brigadie’J E ’a guerra nun porta ’a miseria? E ’a miseria nun porta ’a famma? E ’a famma che porta? E ’o vvedite? Chi pe’ miseria, chi pe’ famma, chi per ignoranza, chi pecché ce aveva creduto overamenteJ Ma po’ passa, se scorda, fernesceJ ’E gguerre so’ state sempre accussíJ Avimme pavatoJ ’A guerra se pava cu tuttoJ Ma ’o mariuolo, no! È ove’, brigadie’? (Ciappa fa un cenno come per dire «Son d’accordo»). Nun s’addeventa mariuolo pe’ via d’ ’a guerra. Mo’ qualunque cosa damme colpa ’a guerra. Mariuolo se nasce. E nun se po’ dicere ca ’o mariuolo è napulitano. O pure romano. Milanese. Inglese. Francese. Tedesco. AmericanoJ ’O mariuolo è mariuolo sulamente. Nun tene mamma, nun tene pato, nun tene famiglia. Nun tene nazionalità. E nun trova posto dint’ ’o paese nuosto. Tant’è vero ca primma d’ ’a guerra, ’e mariuole pe’ fa’ furtuna attraverso ’o mareJ

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BERTOLT BRECHT

Ich, der überlebende (Io, il sopravvissuto) Ich weiß natürlich: einzig durch Glück

Habe ich so viele Freunde überlebt. Aber heute nacht im Traum

Hörte ich diese Freunde von mir sagen: «Die Stärkeren überleben»

Und ich haßte mich.

Io lo so naturalmente: per pura fortuna

Sono sopravvissuto a così tanti amici. Ma stanotte in sogno

Ho sentito questi amici dire di me: «Sopravvivono i più forti»

E mi sono odiato.

Mein Bruder war ein Flieger (Mio fratello era un aviatore)

Mein Bruder war ein Flieger Mio fratello era un aviatore.

Eines Tages bekam er eine Kart Un giorno ricevette una cartolina

Er hat seine Kiste eingepackt preparò i suoi bagagli

Und südwärts ging die Fahrt. e andò lungo la rotta del sud.

Mein Bruder ist ein Eroberer Mio fratello è un conquistatore,

Unserm Volke fehlt's an Raum al nostro popolo manca spazio

Und Grund und Boden zu kriegen, ist e conquistare suoli e terreni è

Bei uns alter Traum. tra di noi un sogno antico.

Der Raum, den mein Bruder eroberte Lo spazio che mio fratello conquistò

Liegt im Guadarramamassiv giace sui monti del Guadarrama.

Er ist lang einen Meter achtzig È di lunghezza un metro e ottanta,

Und einen Meter fünfzig tief. uno e cinquanta di profondità.

Guerre della ex Jugoslavia

Chi ha fatto il turno di notte(dalla

«Chi ha fatto il turno di notte per impedire l’arresto deli poeti». Nell’assedio più lungo delcittadini andavano alle serate di poesia nel buio di una città senza corrente elettrica. Sperimentavano che in ucorreggere a forza di sillabe miracolose il tempo sincopatoragtime delle granate, l’occhio di un mirinoresponsabilità della parola ammutolita.memoria il loro canto daraggiungevano nell’accerchiamentocarcere d’Europa». I poeti facevano il turno di notte in Sarajevo perl’arresto del cuore del mondo.La biblioteca, manufatto magnifico dell’arte islamica in Europa,e in cenere. L’artiglieria degli assediantimoschee, per cancellare dal suoloparole erano emigrate dai libri bombardati, giravano alla cieca le pagine invisibili, mentre dalle colline si accendevano le fiammelle degli dei cecchini. I poeti facevano il turno di notte.

Dopo essere stato ferito

Stanotte in sogno

mi è venuto Slobodan Markovi

per chiedere perdono alle mie ferite.

È stata anche l’unica richiesta di perdono serba

in tutto questo tempo,

e anche questa solo nel sogno

e da un poeta morto.

Guerre della ex Jugoslavia

IZET SARAJLIC

Chi ha fatto il turno di notte (dalla prefazione di Erri De Luca)

turno di notte per impedire l’arresto del cuore del mondo? Noi,

Nell’assedio più lungo del 1900, nella Sarajevo degli anni Novanta, i alle serate di poesia nel buio di una città senza corrente

Sperimentavano che in una guerra solo i versi sono capacireggere a forza di sillabe miracolose il tempo sincopato

ragtime delle granate, l’occhio di un mirino addosso. I versi portano la responsabilità della parola ammutolita. I poeti leggevano o memoria il loro canto da una città assediata. Agli italiani che lo raggiungevano nell’accerchiamento Sarajlic dava il «Benvenuti nel più grande

d’Europa». I poeti facevano il turno di notte in Sarajevo perl mondo.

La biblioteca, manufatto magnifico dell’arte islamica in Europa,e in cenere. L’artiglieria degli assedianti centrava monumenti, cimiteri, moschee, per cancellare dal suolo ombra e radice della parte avversa. Le

dai libri bombardati, giravano alla cieca le pagine mentre dalle colline si accendevano le fiammelle degli

cecchini. I poeti facevano il turno di notte.

Dopo essere stato ferito

mi è venuto Slobodan Marković

per chiedere perdono alle mie ferite.

È stata anche l’unica richiesta di perdono serba

e anche questa solo nel sogno

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cuore del mondo? Noi, 1900, nella Sarajevo degli anni Novanta, i

alle serate di poesia nel buio di una città senza corrente rra solo i versi sono capaci di

reggere a forza di sillabe miracolose il tempo sincopato dei singhiozzi, il addosso. I versi portano la

I poeti leggevano o dicevano a gli italiani che lo

Sarajlic dava il «Benvenuti nel più grande d’Europa». I poeti facevano il turno di notte in Sarajevo per impedire

La biblioteca, manufatto magnifico dell’arte islamica in Europa, era in frantumi centrava monumenti, cimiteri,

ombra e radice della parte avversa. Le dai libri bombardati, giravano alla cieca le pagine

mentre dalle colline si accendevano le fiammelle degli spari

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Agli amici della ex-Jugoslavia Che cosa ci è successo tutt’a un tratto

amici?

Non so

cosa fate.

Cosa scrivete.

Con chi bevete.

Quali libri leggete.

Non so più neanche

se siamo ancora amici.

La fortuna alla maniera di Sarajevo A Sarajevo

in questa primavera 1992,

tutto è possibile;

fai la coda per comprare il pane

e ti ritrovi al Servizio traumatologia

con una gamba amputata.

E dopo asserisci

d’aver avuto anche fortuna.

ABDULAH SIDRAN

Mora (L’Incubo)

Che stai facendo, figlio?

Sogno, madre mia, sogno che sto cantando,

e tu mi chiedi, nel sogno: che stai facendo, figlio?

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Cosa canti nel sogno, o figlio?

Canto, madre mia, che avevo una casa.

E adesso la casa non ce l’ho. Questo canto, madre mia.

Avevo la mia voce, o madre, e la mia lingua avevo.

E ora non ho né voce né lingua.

Con la voce che non ho, nella lingua che non ho,

dalla casa che non ho, io canto la mia canzone, o madre.

Planeta Sarajevo (Pianeta Sarajevo) Ascoltate

come respira

il pianeta Sarajevo

Ascoltate

come piange la Ragazza:

“Morte, non mi prendere!”

Quante volte

piangendo

abbiamo detto

le nostre ardenti preghiere per la pace?

Se ne infischia la Morte della lacrima della ragazza,

se ne infischia la Morte delle preghiere dell’uomo.

Ascoltate

come respira

il pianeta Sarajevo.

Guardate

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come fiorisce

il pianeta Sarajevo!

Non sentite

come inesorabilmente scorre

il sangue nelle sue vene?

La gente, guarda, va

a curarsi i denti.

Alcuni, vedi, portano

i bambini a tagliarsi i capelli.

Guarda, la gente va

a comprarsi i giornali.

Quello, guarda,

alleva colombi!

Quello, guardalo,

non riesce a vivere

senza le parole crociate.

Guarda

come si muovono gli uomini

immersi nel lavoro!

Guarda come sono invecchiati

soltanto in una notte!

Cos’è che, tutt’a un tratto,

li ha resi tutti più belli?

Sul pianeta Sarajevo,

ho visto un uomo,

fuma la pipa – e si affretta!

Ho visto,

sul pianeta Sarajevo,

un uomo che mangia – e piange!

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Ho visto una ragazzina

sul pianeta Sarajevo,

nel parco che non c’è,

raccoglie fiori – che non ci sono!

La morte è un solido falciatore,

è inutile la lacrima della ragazza,

è vana ogni

preghiera per la pace!

Nell’universo

– che si chiama Bosnia –

c’è una ragazzina,

con la mano che non ha,

raccoglie i fiori che non ci sono!

Questa non è guerra

– in guerra, dappertutto, ci sono dei fiori –

questa è Lotta dalle Origini!

Nella quale si battono due principi

– dalle Origini

fino al giorno del Giudizio –

il principio del Bene

e il principio del Male!

Possa non cessare mai

la lotta fra Bene e Male!

Può forse scomparire

dal mondo il Bene?

E la Ragazza

mettersi a baciare la mano

del Falciatore Mortifero?

Non sentite come piange:

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”Morte, non mi prendere!”?

Non piangere ragazza,

non piangere, figlia bella!

Mai e poi mai

potrà cessare

la lotta fra Bene e Male.

JOVANKA ULJAREVIC

Giustificazione della guerra Noi non siamo colpevoli

– non lo sono neanche loro

Diciamo che le cose sono successe

noi non siamo colpevoli

– non lo sono neanche loro

Diciamo che le cose sono precipitate

Noi non siamo colpevoli

– non lo sono neanche loro

Diciamo che non si poteva parlare

Ma noi uccidevamo

– uccidevano anche loro

Diciamo che non lo siamo

lo diranno anche loro

Noi non siamo colpevoli

– non lo sono neanche loro

Diciamo che non è successo niente

– lo diranno anche loro

le cose accadranno ancora

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MILJENKO JERGOVIČ

La biblioteca

Sopra la testa senti un sibilo, passa qualche istante di tensione e poi laggiù, da qualche parte in città, si scaraventa il boato. Dalla tua finestra quel punto lo vedi sempre chiara- mente. Un’alta e slanciata colonna di polvere che si trasforma in fumo e fuoco. Aspetti ancora un poco per capire di che tipo di abitazione si tratta. Se il fuoco è lento e pigro, è la casa di qualche poveraccio. Se prende la forma di una grossa sfera bluastra, allora è qualche bene arredato loft rivestito di legno laccato. Se invece il fuoco divampa lungo e costante, allora brucia la casa piena di mobili in legno massiccio di qualche ricco proprietario della Carèlia. Se le fiamme si impennano repentine, selvagge e dissolute come i capelli di Farrah Fawcett per poi svanire più repentine ancora lasciando al vento sfoglie di cenere plananti sopra la città, tu sai che poco prima è andata a fuoco una qualche biblioteca privata. E quando in tredici mesi di bombardamenti ne hai viste molte di queste torce giocose, pensi che un tempo Sarajevo si ergeva sui libri. E se così non era, vuol dire che lo è adesso, mentre accarezzi i tuoi ancora intatti. In ogni biblioteca privata i libri più numerosi sono quelli mai letti, quelli che hai comprato per il colore della copertina, per il nome dell'autore, o magari solo perché eri attratto dal loro profumo. Un libro così lo tocchi spesso nei giorni seguenti l’acquisto, lo apri, leggi due tre righe e lo rimetti a posto. Dopo un po’ dimentichi che esiste, altrimenti lo scorgi da lontano non senza una leggera ripugnanza. Spesso ti viene voglia di portarlo alla biblioteca pubblica più vicina, di darlo a qualcuno, di sbarazzartene con qualunque mezzo, ma non trovi mai il modo giusto per farlo. E quello resta lì a bizzarra conferma della tua propensione ad ammassare oggetti inutili, che in un penoso e infuocato momento si ridurranno a un cumulo di ricordi. Tutti questi inutili libri mai letti ti saranno di peso quando dovrai congedarti da loro. E quasi capirai la felicità del fuoco mentre li ingoiava giù in città. Già di meno sono i libri ai quali non ritorni dall’infanzia. Ti rammentano il tempo in cui non sapevi ancora saltare le pagine e leggere dall’angolo superiore sinistro all’angolo inferiore destro. Quelli sono forse gli unici libri che hai davvero letto in vita tua. Ogni buon racconto per l’infanzia aveva sempre un finale sconsolato dal quale non riuscivi a trarre niente, se non che la tristezza è il luogo dove la finzione supera la realtà. Ne “I morti” di John Huston una donna si mette a piangere e non sa dire perché. Guardando quel film hai pensato che la cosa è tutta lì, e ti è venuto da piangere. I libri meno numerosi sono quelli che credevi ti sarebbero rimasti sempre accanto. Quando ne leggevi uno perla prima volta ti capitava sempre di rimandare la fine. Col passare del tempo diventavano inquietanti, col loro contenuto e il loro aspetto. Ma anche questi, come tutti gli altri, dovrai lasciarli, persuaso amaramente che in questa città, ma anche a questo

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mondo, gli stati di aggregazione del libro sono il fuoco, il fumo e la cenere. A qualcuno, più tardi, tutto questo suonerà patetico. Ma per te, specie quando sarai in altre città o dentro librerie ancora vive, per te la cruda verità sarà la chioma infuocata di Farrah Fawcett. Meglio e più a fondo dei libri bruciano soltanto i manoscritti. Con la fine del sogno della biblioteca privata si spegne anche il sogno della civiltà del libro. E il fondamento di tale convinzione sta proprio in questo termine: “biblioteca”, una parola greca tra le tante, che però ti fa pensare subito al Testo Sacro. Ma da quando hanno cominciato a sparire così infuocatamente e senz’appello una dopo l’altra, tu hai finito di credere che la loro esistenza avesse un senso. O magari il senso lo aveva afferrato meglio di chiunque altro quello scrittore e bibliofilo di Sarajevo che l’inverno scorso invece di consumare la sua cara legna si scaldava le dita su Dostojeskij, Tolstoj, Shakespeare, Cervantes. Dopo tutti questi incendi, dolosi o no che siano, si è formato uno strato di gente che avendo amaramente capito le cose, sin da domani è pronta a fissare il fuoco del Louvre senza avere neanche l’impulso di afferrare un bicchiere d’acqua. Non ha senso proibire al fuoco di ingoiare ciò che l’umana indifferenza ha già ingoiato. Lo splendore di Parigi o di Londra non è che un alibi per i criminali grazie ai quali Varsavia, Dresda, Vukovar e Sarajevo non esistono più. O se esistono, ci vive la gente che nella più grande epoca di pace si predispone all’evacuazione, già pronta a dire addio ai propri libri. A questo mondo, per come esso è fatto, c’è una regola di base – la stessa che enunciò Zuko Dzumhbur pensando alla Bosnia –, e si riduce a una valigia sempre pronta. Lì dentro devono starci tutte le tue cose e i tuoi ricordi. Quel che resta fuori è già perduto. Inutile andare in cerca delle ragioni, del senso, di una giustificazione. Appesantisce, come i ricordi. Non resta che restituire diligentemente i libri presi a prestito, quelli avuti in dono li eviti o li perdi, quelli scritti li invii agli amici che vivono lontani gli uni dagli altri, così che il fuoco possa divorarli il giorno in cui la terra sarà tornata nel punto esatto in cui era qualche milione di anni fa. Impossibile schedare o ricordare le biblioteche private di Sarajevo distrutte dal fuoco. E neanche ci sarebbe qualcuno per cui farlo. Ma come la fiamma di tutte le fiamme e il fuoco di tutti i fuochi, la mitica cenere e la polvere finale sono memori della sorte del glorioso Municipio, la biblioteca universitaria di Sarajevo, del rogo di quei volumi lungo un giorno più una notte. Tutto questo accadeva dopo un sibilo e un boato, esattamente un anno fa. Forse proprio nello stesso giorno in cui tu leggi queste righe. Accarezza dolcemente i tuoi libri, straniero. E ricorda che sono polvere.

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MERISA PILAV

Profumo di dignità

È agosto 2016, sono in vacanza, nella mia casa nella periferia di Sarajevo, in pace col mondo, da noi si dice “merak”, cioè “puro piacere”, “godimento”, che per me è rappresentato da una tazza di caffè turco, servito rigorosamente nelle tazzine tradizionali. È un piacere che mi concedo raramente, altrimenti che piacere sarebbe?! Questo in particolare me lo ero preparata per godermelo seduta sul mio terrazzo, per festeggiare la fine del quinto anno universitario, e per sorseggiarlo mentre scrivo queste righe. Purtroppo il merak dura poco, leggo di sfuggita una notizia sullo smartphone: terremoto, Italia, magnitudo 6 della scala Richter. «Male», penso, «malissimo». Ricordo che il terremoto dell'Aquila aveva questa intensità, e fu strage. La mente corre subito alle persone care in Italia, è brutale lo so, ma nella mia debolezza umana, cerco subito di capire la localizzazione, chiamo i miei genitori, le mie amiche, coinquiline, per vedere se stanno bene e se hanno sentito le scosse. Le tragedie sono tragedie, ma lo sono di più se ti coinvolgono, inutile negarlo. Dopo la conferma che tutti i miei cari sono salvi, cerco di capire qualcosa di più. Leggo tutto ciò che mi passa tra le notizie principali, fin da subito si capisce che è una situazione maledettamente critica, i primi morti, l'angoscia per le persone sepolte tra le macerie. Il mio sguardo si sofferma su una frase: «Mettete gli immigrati sotto le macerie, gli italiani negli alberghi». Un senso di nausea mi assale, nemmeno in questi momenti certe bocche riescono a rimanere chiuse. Penso a come sia triste la vita, come ognuno abbia la propria tragedia, la propria croce da portare, a come sia vile strumentalizzarle. Per fortuna che i fatti poi dimostreranno che invece la solidarietà vince, quella dei terremotati che prendono le distanze da queste affermazioni vergognose, quella dei profughi che si offrono per scavare tra le macerie, cercando la vita. Così arriviamo al tema di cui mi è stato chiesto di scrivere, la mia esperienza da profuga prima, da persona che sta dall'altra parte del mare poi. Sono passati più di vent'anni ormai, da quando ero io a essere una profuga, prima ancora che bambina. Avevo un anno quando mio padre è partito per l'Italia, nel febbraio 1992, ignaro che di lì a poco sarebbe scoppiata la guerra, che non avrebbe più rivisto sua madre viva, che avrebbe avuto anche un figlio, il terzo e l'unico maschietto della famiglia. Dice sempre che si ricorda come gli ridevo mentre mi salutava, io non ho memoria, così come per i primi cinque anni della mia vita non avrò avuto il ricordo di mio padre. La mia esperienza della guerra non è di qualcosa di tragico, non ho visto la morte, non mi rendevo conto del male in cui vivevo, delle privazioni a cui eravamo soggetti. La ragione è che non sapevo dell'esistenza di una realtà diversa da quella. L'unica cosa di cui sentivo veramente la mancanza era quella di un

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padre, non di mio padre, perché non sapevo come o chi fosse, vedevo però gli altri bambini che facevano riferimento a un papà, e una volta una bambina mi ha rinfacciato il fatto che io non lo avessi, che non pensasse lui a me e ai miei fratelli. I bambini sanno essere davvero cattivi. Ho fatto piangere mia mamma più volte, oltre a domandarle sempre quando sarebbe arrivato e perché se ne fosse andato, le chiedevo anche perché almeno non avesse una sua foto da mostrarmi, volevo vedere se gli assomigliavo almeno un po'. Lei non aveva foto, aveva lasciato tutto a casa del nonno, la notte in cui era fuggita dalle granate dei cetnici, perché era successo tutto improvvisamente, non aveva avuto il tempo di prepararsi né portare con sé niente, eccetto una piccola boccetta di profumo, che si metteva quando doveva andare a ricevere gli aiuti umanitari. Oggi capisco che in quella boccetta c'era profumo di dignità, di perseveranza. Era tutto ciò che le rimaneva della sua vita, il suo sentirsi donna, e non lo dimenticava mai, fosse anche solo per andare a prendere gli aiuti umanitari. La guerra a Sarajevo scoppiò nell'aprile 1992, nel nostro paese, nei dintorni di Gorazde, arrivò ad agosto, poco prima della nascita di mio fratello. Mia madre credeva di aver perso il feto, perché dopo che le passò sopra la testa una granata lo aveva sentito scalciare vigorosamente, poi più nulla, finché il 18 agosto sentì che le si erano rotte le acque. Partorì da sola, arrivare in ospedale era troppo pericoloso, bombardavano quotidianamente il ponte che avrebbe dovuto oltrepassare. Mio fratello piangeva giorno e notte, lei era seriamente convinta che quel bambino nato così minuto e fragile non sarebbe durato più di una settimana, anche perché non voleva il suo latte. Una notte i bombardamenti si intensificarono, anche la casa dove tutto il paese era radunato, l'unica fino ad allora fuori dalla portata delle granate, non era più sicura, quindi si decise di intraprendere la via dei boschi, per cercare riparo in qualche altro paese tra i monti. Mia madre aveva tre figli con sé: mia sorella, di nove anni, me, di un anno e mezzo, e mio fratello, che ancora non smetteva di piangere. Le altre persone non nascondevano che non eravamo graditi, quando si tratta di vita o morte non si può nemmeno giudicarli: mio fratello avrebbe fatto scoprire e uccidere tutti quanti, perciò mia madre si ritrovò da sola. Ci fu solo un ragazzo, che quando incominciarono a volare le granate sulla casa di mio nonno prese mio fratello e lo salvò, mentre mia madre pensava a me e mia sorella. Egli morì poco dopo, mentre faceva la guardia sul paese. È una delle persone di cui mi ricordo in tutte le mie preghiere per le anime dei defunti: è morto negli anni più belli di un uomo, prima ancora di poter scoprire la gioia di avere una famiglia, dei figli, a lui mio fratello deve la vita, e tutti quanti una preghiera per la pace della sua anima. Per comprendere meglio la situazione, non c'era l'esercito bosniaco nel mio paese a difenderci, c'erano i ragazzi e uomini del paese che rispondevano al fuoco con i mezzi che avevano, mentre le donne e i bambini scappavano nei paesi vicini. Tanti di loro non ci sono più, sono stati uccisi per permettere a

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noi altri di scappare, penso che non ci siano persone più meritevoli di esser definite eroi. L'unica cosa che poteva fare mia madre era cercare aiuto da mia nonna, lei era rimasta sola perché mio zio, suo figlio, era andato a fare il militare, perciò attraverso i boschi giungemmo da lei. Il paese dove abitava mia nonna, Butkovici, non fu mai toccato da una granata, la ragione è la sua particolare posizione sulla pendenza di una collina, i proiettili volavano sopra le case ma non vi atterravano mai. In poco tempo si seppe in tutti i dintorni di questa particolarità, perciò ci ritrovammo le case piene di gente, di profughi appunto. Dormivamo ammassati per terra, in cinquanta persone per casa, mangiavamo ciò che producevamo con l'agricoltura e il bestiame, una mucca per casa e delle pecore. Ogni tanto mamma e gli altri adulti andavano u holtanje, cioè a cercare di trovare il cibo lanciato dagli aerei, gli aiuti umanitari. Alcune persone sono morte schiacciate sotto il peso delle scatole di cibo lanciate. Aprire i pacchi era sempre un'emozione per me, come quando si aprono i regali di Natale, non vedi l'ora di scoprire cosa ci sia dentro! Un altro momento fuori dalla monotonia del villaggio immerso nel nulla era quando andavo con la mamma a prendere di persona gli aiuti umanitari, distribuiti in una scuola elementare lì vicino. In quella scuola si concentravano gli aiuti umanitari, le vaccinazioni e ogni tanto c'era anche un medico. Oltre alle scatolette di latta, se ero fortunata ricevevo anche un giocattolo, che custodivo gelosamente. Due in particolare sono rimasti nella casa della nonna, una fragola in peluche e un telefono, con i bottoni colorati. All'epoca io non avevo idea di cosa fosse un telefono, quando gli adulti del villaggio mi spiegarono a cosa servisse, con la mia fantasia di bambina pensai di chiamare mio padre, e chiedergli di mandarci le cose di cui il villaggio aveva bisogno. Le nonne del paese ancora si ricordano di quella sera, in cui come al solito ci radunavamo tutti in una casa sola, per risparmiare le candele (non c'era elettricità), e di come siano volate lacrime a sentire le mie richieste a questo fantomatico papà lontano. Erano rimaste colpite per il fatto che avessi chiesto tante piccole cose che a loro servivano, come un bastone per la signora che camminava tutta curva per il mal di schiena, un fischietto per il nonno che mi portava con sé a far pascolare le pecore, così che non dovesse rincorrerle troppo, farmaci per il dolore alle gambe di mia nonna. Erano tutti bisogni che non si erano resi conto io potessi cogliere in loro, che invece la sensibilità di bambina mi aveva fatto riconoscere. Ora, sinceramente, io non so se mi ricordo veramente di quella sera o se mi sono ricostruita l'accaduto in base ai loro racconti, ricordo le serate a lume di candela e il telefono di sicuro, il resto resterà un mistero. Un momento indimenticabile resterà la prima volta che ho assaggiato la cioccolata, perché ovviamente è un bene di lusso e di città, diffidavo di quel

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colore marroncino, ma non vi posso descrivere l'estasi dopo il primo boccone! Me l'aveva portata un cugino che era riuscito a tornare da Sarajevo, ancora oggi mi ricorda che è stato lui il primo a farmi capire cosa mi stavo perdendo in quegli anni. Ho ancora il ricordo della prima volta che ho mangiato una banana, un mandarino, e di come avessi il terrore delle arance rosse, perché mi sembrava sanguinassero! Tutte scene che mi fanno sorridere ora, mentre all'epoca mi sembravano straordinarie. Un'altra grande scoperta fu la gomma da masticare, donatami dai militari dell'UN giunti ormai a fine guerra, l'idea di masticare qualcosa senza doverla inghiottire aveva dell'incredibile. L'ultimo momento epico fu quando, finita la guerra, finalmente capii la funzione di quella scatola brutta e grigia che vedevo in tutte le case ma che mi sembrava occupare spazio inutilmente: la televisione. Non essendoci elettricità non l'avevo mai vista accesa, di conseguenza non capivo la sua funzione. Poi un giorno arrivo l'elettricità, io rimasi tutta la sera a guardare in stato catatonico la luce della lampadina in mezzo al soffitto, mia madre dice che non fui mai più tranquilla di quella notte. Rimasi letteralmente immobile sul letto a osservare la magia con cui quel filo di metallo infondeva luce alla bolla di vetro per anni rimasta spenta. Erano tutte cose straordinarie per me. Niente in confronto a quando l'indomani vidi delle persone in miniatura che erano riuscite ad entrare in quella inutile scatola grigia che mia nonna teneva sotto la foto di Tito. In quel momento ricordo che, stupefatta, chiesi l'opinione di mio fratello, mio fedele compagno in queste scoperte incredibili. Non capivamo con che meccanismo quelle piccole persone fossero riuscite a entrarvi, e nemmeno perché non riuscissimo a toccarli se toccavamo il vetro (lo schermo) che ci separava da loro. Erano davvero uguali a noi o erano un piccolo mondo con piccoli uomini? E poi perché davano calci a un pallone e non rispondevano a noi quando li chiamavamo? Questa fu la prima volta che i fratelli Pilav videro una partita di calcio trasmessa da una televisione. Questi furono gli anni della guerra per me, che nella sfortuna fui molto fortunata, non vidi il sangue e i cetnici rimasero solo un demone che poteva venire in ogni momento, perciò dovevamo esser pronti a scappare nel bosco, e che però non giunse mai. Dopo la guerra mio padre ci fece trasferire in Italia, contro la mia volontà perché mi preoccupavo di cosa avrebbero fatto senza di me gli anziani del paese e soprattutto mia nonna, che lasciavamo da sola e inferma, chi le avrebbe portato l'acqua dalla fontana del centro del villaggio? Chi le avrebbe massaggiato la testa quando aveva dolore? E le pecore? Con chi andavano al pascolo? Erano tutti pensieri che mi accompagnavano durante la strada per Spalato, dove fui sbalordita prima dal mare, era la prima volta che lo vedevo, poi da quella cosa enorme in cui dovevo entrare (una nave) imponente, piena di luci ma di cui io non mi fidavo, chi mi garantiva che non sarebbe affondata sotto il nostro peso? E poi, come faceva a galleggiare?

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Una profuga, pardon, bambina, molto pensierosa e diffidente giunse la notte del tredici gennaio 1997 ad Ancona. Anche il viaggio in treno fino a Vicenza fu un'esperienza molto angosciante per me, la preoccupazione fondamentale di noi bambini era perdere la mamma, non le toglievamo gli occhi di dosso nemmeno un secondo. Mio fratello ebbe una crisi di panico quando si svegliò e non la vide, era andata al bagno un momento, ma fu difficile convincerlo ed ebbe pace solo quando lei ritornò. A nulla serviva mio padre, per noi era poco più di uno sconosciuto, che era venuto e ci aveva obbligato ad andare via dall'unico posto che conoscevamo come casa. La guerra è anche questo, la distruzione del senso di famiglia. A lungo mio padre si è sentito un intruso nel nostro equilibrio familiare, e la colpa non era né nostra né sua. Ora ci siamo ricostruiti i diversi ruoli, per non darla vinta ai cetnici che dopo anni dalla fine della guerra ancora vedono il frutto del loro lavoro. Non possiamo cambiare il passato, ma possiamo costruire il futuro. Sarà un futuro di impegno, fatica, lavoro e successo, come dovrebbe essere il futuro di ciascun abitante della terra, nel nostro caso ancor di più, perché abbiamo la responsabilità, il dovere di portare con noi la voce di chi non c'è più. Se dimenticheremo le vittime commetteremo un delitto più atroce di quello dei nostri carnefici. Sento già molte voci di negazionismo, di non riconoscimento del genocidio di Srebrenica, del fatto che nella Bosnia degli anni Novanta si combatteva la lotta al terrorismo di oggi. Mi sfugge come possano essere terroristi bambini, donne e anziani, bambini non ancora nati o sepolti senza nome, perché la madre li aveva appena partoriti. Il mio impegno è ribadire ogni qualvolta ve ne sia necessità che ciò non solo è assurdo, dimostrandolo con numeri e fatti, ma profondamente offensivo per le vittime e per i superstiti. E sono grata ad associazioni come questa che mi hanno dato voce. Capisco benissimo che il peso della responsabilità di un genocidio sia difficilmente sopportabile da una popolazione, però non giustifica il negazionismo. Quest'anno nella Republika Srpska hanno addirittura aperto una casa dello studente intitolata a Karadzic Radovan, condannato per genocidio, crimini di guerra e crimini contro l'umanità al tribunale penale internazionale per l'ex Jugoslavia dell'Aia. Ero scioccata e schifata allo stesso tempo, ho fatto appello sul mio profilo Facebook ai miei concittadini della Republika Srpska, che è Bosnia fino a prova contraria, di non essere delle pedine nelle mani di questi politici che ancora vivono delle stragi degli anni Novanta, di dissociarsi dalle loro idee. Noi siamo il futuro, siamo i medici, i politici, i professori di domani. Quando Karadzic sgozzava i nostri compatrioti in nome delle Grande Serbia, loro non erano forse nemmeno nati o erano bambini, innocenti. Perché lasciare che questo mostro sporchi le loro mani del sangue che lui ha versato? Martin Luther King disse una volta: «non sei responsabile della situazione in cui ti sei trovato, lo diventi se non fai nulla per cambiarla». Non posso che essere d'accordo, il silenzio è assenso, fa sentire la voce del più forte. Purtroppo i giovani di oggi ancora vivono dei problemi del passato, considerano eroi

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nazionali dei criminali, e l'unico motivo con cui mi spiego ciò è che ancora oggi in RS e in Serbia vige una scellerata censura, per loro Sarajevo è Teheran, non è una città aperta, multiculturale. Ne ho avuto conferma parlando con degli amici serbi che ho conosciuto a Trieste prima che visitassero Sarajevo. Questo è una delle mie sfide: invitare chiunque pensi che Sarajevo non sia una città più che europea, aperta, dal passato glorioso e dal presente propenso al futuro la vada a visitare, poi ne riparleremo. La città parla da sola, parla bosniaco, turco, austroungarico, serbo e croato, il tutto mescolato come solo a Sarajevo è stato possibile. Nel mio piccolo ho avuto un'altra grande vittoria: l'anno scorso, lavorando per l'Ufficio Disabili dell'Università di Trieste, ho avuto modo di farmi un nuovo amico, un ragazzo cieco, serbo. Un altro amico mi ha confidato che Milos, il ragazzo serbo, era abbastanza in pensiero sapendo che una bosniaca avrebbe iniziato a lavorare con lui, pensava avessi il velo e non potessi parlargli. Era questa l'idea che lui aveva delle bosniache. Appena conosciuti si è ricreduto, avevamo più cose in comune di quante immaginassimo, io ero sì sopravvissuta a una guerra, lui in quegli stessi anni aveva un'altra guerra a cui pensare, quella con la vita, che appena nato lo aveva reso cieco, per colpa di disgraziati medici. Ognuno di noi aveva la sua croce, in più c'erano i problemucci quotidiani, di ciascuno studente, ovvero come arrivare alla fine del mese e come studiare al meglio. Alla fine dell'anno è tornato in Serbia, non ci siamo sentiti fino a quando non gli ho scritto per fargli gli auguri per il Natale ortodosso. Lui mi ha risposto che era sorpreso dal fatto che io sapessi della sua festività, e ancor di più dagli auguri. Gli stavo facendo cadere l'idea della Bosnia radicale e barbara che per anni gli è stata inculcata. Gli ho risposto che da sempre mi è stato insegnato ad amare il mio e a rispettare l'altrui credo. Devo ammettere che avevo un po' di amarezza, davvero pensava che fossimo un Paese pieno di odio. Ciononostante non è mia abitudine demordere, ho aspettato la Pasqua ortodossa e ho trovato una bella poesia da mandargli come augurio, e penso che difficilmente farò un'azione migliore nella mia vita. Mi ha risposto con un messaggio vocale, si sentiva la commozione nella voce, tremante, grata, ha detto di essere ancora sorpreso, dimostravo non solo il rispetto per una festa non mia, ma addirittura affetto e auguri sinceri, espressi non con frasi fatte ma parole dolci e ricercate. Insomma, avevo ottenuto la mia piccola vittoria, avevo un amico serbo che da quel momento ha messo in dubbio le dicerie su quel Paese così vicino ma così lontano. Ne ho avuto conferma il giorno della festa di fine Ramadan, quando ho ricevuto un messaggio vocale, dove Milos mi faceva gli auguri pronunciando parola per parola la formula di augurio in turco, come è nostra usanza. Alea iacta est. Come si spiegheranno queste aperture mentali coloro che per anni gli hanno spacciato la Bosnia come un posto ostile alle persone come lui? Per ogni possibile bugia ulteriore ci sarà un mio augurio sincero a smentirla, e sono sicura che alla fine potremo discutere tranquillamente del passato, senza sentirci in colpa né io né lui, perché non

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siamo noi il passato, e non dobbiamo giustificarci, ma condannare insieme il male compiuto da altri, a maggior ragione se lo hanno commesso in nostro nome. La mia vita in Italia è stata segnata dal passato, dapprima i miei genitori hanno fatto di tutto per farmelo dimenticare, per farmi integrare nel nuovo mondo, con l'undici settembre 2001 però tutto è tornato a galla. Ho iniziato a pormi domande sulla religione, su chi sono io, poi ho scoperto di Srebrenica, della guerra sanguinosa, che io avevo scampato. Più crescevo e più cercavo un senso alla vita, al perché alcuni erano sopravvissuti mentre altri sono morti bruciati vivi o sgozzati, chi decideva tutto ciò? Confesso che la mia risposta, di fronte al male, al mutilato che vedevo per strada, alle immagini della guerra in Bosnia, così come alle altre guerre, agli attentati nel mondo, ai militari italiani morti a Nassirya, in principio fu solo tante lacrime, a tal punto che le persone che mi conoscevano ritenevano che fossi sempre sull'orlo di una crisi nevrotica, in altre parole che fossi impazzita. In famiglia tutti mi consideravano “molto sensibile”, eufemismo per dire spacciata, pazza. Con gli studi classici e della filosofia soprattutto, ho imparato a conoscermi meglio e a sfruttare le mie capacità, ancor di più le mie debolezze. Stavo male perché mi sentivo inutile, impotente, avevo tanta rabbia dentro, verso i miei carnefici, verso le persone che stavano davanti alla televisione, vedevano le uccisioni di massa, vedevano la gente morire di fame, e non facevano nulla. Come potevano? Come potevo io oggi, fare esattamente la stessa cosa di fronte alle tragedie altrui? Così ho fatto il corso per diventare volontaria della Croce Rossa Italiana, i principi su cui si basava mi davano sicurezza, così come quelli della Costituzione italiana, della Dichiarazione dei diritti dell'uomo. Non c'era spazio per la rabbia in quelle parole, c'era l'essenza dell'umanità. Tutti siamo uguali, dobbiamo preservare e tutelare la vita, abbiamo diritto alla ricerca della felicità. Il mio animo era in pace, pensavo che non poteva perpetuarsi il male nel mondo se solo la gente avesse saputo questi principi. Era dura ammettere che tutte queste carte esistevano anche durante il massacro nel mio Paese, che non erano per niente una garanzia per la pace. Ancora una volta, giunsi alla conclusione che non potevo cambiare il passato, ma potevo lottare per la giustizia e la memoria delle vittime. Il senso di rabbia, di frustrazione però non era svanito del tutto, non ero in pace con me stessa. Poi lessi il giuramento di Ippocrate, fu amore a prima vista. Era la risposta al mio conflitto interno, mi divorava l'idea di cosa potessi fare io se avessi avuto la possibilità di vendicare tutti i morti. Di fronte a un criminale di guerra sofferente, mi sarei sfogata? Lo avrei lasciato agonizzante? Avrei infierito? Se lo avessi fatto, cosa mi rendeva migliore di lui? Primum non nocere, dice Ippocrate. No, non avrei infierito, né lo avrei lasciato agonizzante, non spetta a me giudicarlo, avrà ciò che si merita, non perdo la mia anima per lui. Faccio il mio dovere, da persona e da credente, come mi impone la religione per cui molti miei compatrioti sono morti. Così

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scelsi che nella vita sarei stata un medico, che non sceglie i propri pazienti, fa il suo dovere senza distinzione di razza, credo e ceto sociale. Tutti siamo uguali di fronte alla malattia. In più, avrei avuto la possibilità di aiutare le persone come meglio sapevo nelle fasi di emergenza in tutto il mondo, lenire il loro dolore, almeno quello fisico. Pensavo di fare il chirurgo generale, quello che più si avvicina al chirurgo di guerra, semmai ce ne fosse stato bisogno, ora però mi sono resa conto che in realtà non è la scelta che mi fa sfruttare al meglio le mie capacità/debolezze. Ognuno di noi ha la propria guerra da combattere, come ho più volte detto, e nell'ultimo anno mi sono scoperta più utile ad aiutare le persone malate di cancro, nella loro battaglia per la sopravvivenza e la dignità della morte, che non in sala operatoria senza contatto emotivo con il paziente. Così molto probabilmente finirò a fare l'oncologa, senza mai rinunciare a progetti di aiuto umanitario, assistenza dei più deboli. Il filo che lega tutte le mie scelte è la voglia e il bisogno di restituire dignità alle persone, nella vita come nella morte. Ricordo l'ultima raccolta di indumenti che abbiamo fatto per i profughi a Opicina (Trieste), dove alla mia richiesta di non separare i completini di pantaloncini e maglietta dei bambini una signora mi rispose che andavano separati e che tanto loro erano profughi, non gli importava la moda. Non era in malafede questa signora, sicuramente, però mi ha lasciato un senso di frustrazione, perché sì sono profughi, ma prima erano persone, che si vestivano come noi, che si curavano. Mi ha fatto ricordare la boccetta di profumo di mia mamma, a lei importava apparire, almeno, ancora una donna curata. Se le avessi tolto quel profumo, si sarebbe sentita ancor più misera e umiliata, privata della dignità dell'essere umano. Così, se possiamo fare una piccola cosa per qualcuno, come dargli i vestititi appaiati, perché non farlo? Non possiamo sapere quanto tutto ciò significhi per quella persona. Chi salva una vita è come abbia salvato l'intera umanità, recita il Corano, però la vita si salva in molti modi, non solo lasciando viva la persona, ma anche e soprattutto facendola sentire ancora un essere umano.

AZRA NUHEFENDIĆ

La profuga Non avrei mai immaginato di poter diventare una profuga. Nulla nella mia vita precedente mi indicava una tale possibilità. Vivevo in un paese stabile, la Jugoslavia era uno stato sviluppato, rispettato a livello internazionale, libero e civile. In Europa. Mi sarebbe sembrato più realistico viaggiare sulla luna che pensare di perdere tutto e avviarmi a un'esistenza ignota, da espatriata. Facevo una vita comoda e stabile, avevo un lavoro fisso che mi piaceva. Tutto andava come doveva andare, da quando mi ricordo. Da piccola, è stato

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come avevano pensato e progettato per me i miei genitori, e poi come volevo io stessa: la scuola, l’università, il lavoro. Passavano gli anni, si susseguivano le stagioni e nella mia vita ferma c’erano poche incertezze: sapevo, più o meno in anticipo, dove sarei stata per le vacanze estive (in Dalmazia), cosa avrei fatto per il 29 Novembre, il giorno della Repubblica (di solito a Dubrovnik), come e con chi avrei festeggiato il Primo maggio (nella natura, con amici, facendo una grigliata), cosa avrei fatto per Capodanno (nella casa in montagna, con il fidanzato e gli amici.) La mia vita scorreva in ordine, tranquilla, fino al punto che qualche volta mi sembrava noiosa. Negli anni Ottanta sono andata negli Stati Uniti per migliorare il mio inglese. Molte persone che incontravo mi invitavano o suggerivano di restarci. L'America all’epoca era il paese del sogno. Da noi in Jugoslavia la parola “America” si utilizzava anche per descrivere qualcosa di eccezionale. Uno ti chiedeva: “Com'è andata?”, e in gergo si rispondeva: “America”, il che voleva dire ottimo. Ma negli anni Ottanta per me, e per la maggior parte dei miei amici, colleghi, conoscenti, famigliari, l’America era la nostra Jugoslavia. C’era lavoro, avevamo un ottimo sistema educativo e di sanità, gratis per tutti i cittadini, lo sport era diffuso, anche questo gratuitamente, la cultura era sviluppata e ad alto livello, la posizione delle donne era pari a quella nei paesi più civilizzati, la sicurezza pubblica e privata ottima, avevamo i soldi che ci bastavano per avere una vita comoda, potevamo viaggiare dappertutto. Sapevo che c’era gente costretta, per le guerre o le catastrofi naturali, a lasciare le proprie case, il proprio paese. Li vedevo ogni tanto in TV o leggevo le loro storie sui giornali. Simpatizzavo con loro, esprimevo la mia solidarietà, partecipavo alle dimostrazioni, firmavo le petizioni, raccoglievo aiuti. Ma io, la profuga! Questa possibilità non la consideravo per nulla. Mai mi sarebbe passato per la mente che potesse accadere qualcosa che mi avrebbe messo tra gli sfollati, i disgraziati, gli sfortunati. L’idea di “profuga” per me era pari a una malattia rara, qualcosa che sappiamo che esiste, conosciamo anche persone che ci soffrono, ma siamo convinti che succeda solo agli altri, alla gente di paesi lontani, poveri, non europei. Non c’era nulla nella mia vita che mi indicasse che “quello che succede agli altri” avrebbe potuto capitare anche a me. Anche quando cominciò la guerra in Jugoslavia credevo, come la maggior parte della popolazione, che si trattasse di un errore, di un equivoco, mi arrabbiavo con i criminali. Sì, all’inizio eravamo convinti che si trattasse di un incidente, qualcosa di breve e che tutto fosse colpa dei criminali comuni, non dei nostri capi, politici, presidenti. Eravamo arrabbiati per quello che succedeva, non impauriti. Persino quando la guerra è arrivata davanti alla mia città, e poi sotto casa mia, credevo che si trattasse di una cosa che sarebbe passata in due, tre giorni, al massimo una settimana e che tutto si sarebbe sistemato presto e la

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vita sarebbe continuata come per il mezzo secolo precedente. A un certo punto mi sono accorta, o meglio ho cominciato a ragionare su cosa avrei fatto se fossi stata costretta a lasciare il lavoro, la casa, la città, gli amici, i colleghi, il paese e... no, ancora non consideravo che avrei dovuto fuggire e divenire la profuga. Mi vedevo come una che avrebbe preso il treno e sarebbe andata a vivere altrove per un certo periodo, come se toccasse a me a decidere. Ma era un'illusione perché profuga diventi quando non hai più scelte, sei costretta. Rimandavo il momento della partenza, esitavo ad accettare che da persona indipendente, autosufficiente, con il proprio posto nella società (qualsiasi), dovevo abbandonare tutto e unirmi alle colonne, alle ondate, ai treni, ai barconi dei disperati. All’inizio della mia permanenza in Italia, in un'occasione pubblica mi hanno chiesto chi sono. Ho detto: “Sono la profuga”. E quelli intorno mi hanno rimproverata: “Non essere così severa con te stessa!”. Non c’è nulla di bello, né di rassicurante, nell’essere la profuga, spesso è illegale, ed è sempre pericoloso. È molto doloroso smettere di essere “uno” o “una”, cioè una persona, un individuo, e diventare un numero: decine, migliaia, centinaia di migliaia. Una profuga o un extracomunitario diventano persone solo nella cronaca nera, cioè quando fanno qualcosa fuorilegge. È per questo che nei giornali si scrive: “un romeno”, “un afgano”, “un siriano”, “una bosniaca” ha fatto questo o quello. Ma nei giornali, per lo stesso (mis)fatto, non si indica mai “un italiano” o “un cristiano” o “un cattolico”. Dopo essersi salvati, raggiunto un posto sicuro, tra le prime cose da fare è appropriarsi dell'essere una persona e non un numero. La profuga vuol dire essere un'altra, significa essere esclusa dalla società, dal paese, dal gruppo, dalla nazione, dalla regione e dal continente. Divieni soggetto di pietà, di manipolazione, di sfruttamento, vittima di stereotipi e di pregiudizi. “La vittima”: forse questo è il senso più esplicito della posizione sociale di una profuga. Lo è anche per parole usate come sinonimi, come extracomunitario, emigrante, esule, rifugiato. Una volta profuga, rimani sempre straniera. La gente come me, espatriati per qualsiasi ragione, smette di appartenere a un paese, il che è uno dei pilastri del nostro essere sociale. Una profuga, con la partenza, smette di far parte della società che lascia, ma non diventerà mai completamente una del posto in cui è capitata/arrivata, a prescindere che diventi una profuga di successo, oppure che viva una vita qualsiasi. Nella nuova vita, rimani in una sorta di limbo, nello spazio imaginario tra i due mondi, tra le due vite: quella precedente e quella attuale. Una volta profuga, sei sempre profuga. Siamo altri, diversi, stranieri, intrusi (questo dipende da come ci vedono/definiscono là dove siamo capitati), e con il passare degli anni cominciamo, anche nelle città natali, nei paesi di origine, nei posti che

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abbiamo lasciato, a sentirci o essere percepiti come diversi, rifiutati, diventiamo stranieri, “altri” anche a casa nostra. Esiste una sostanziale differenza tra gli emigrati e i profughi. Gli emigrati spesso sono le migliori persone nei luoghi di provenienza. Sono spesso altamente motivati, coraggiosi, intraprendenti. Gli emigrati fanno di tutto per partire, per andare oltre, per raggiungere il paese dei propri desideri e sogni. Gli emigranti rischiano, spesso, la vita stessa, attraversano deserti, mari e monti per trovare il posto dove fare una vita migliore. Partire, per un emigrante, è una possibilità, una chance. Per i profughi, partire vuol dire resa, tradimento, abbandono di tutto, di se stessi, anche. I profughi sono quasi tutto il contrario rispetto agli emigranti. Esitano a partire, rimandano anche quando esposti al pericolo di morte. Una volta al sicuro, nel posto dove capitano, i profughi restano a lungo disorientati, tristi, inibiti, con il desiderio o la speranza di poter tornare nelle proprie case, città, villaggi, paesi. Sono demotivati, soffrono di depressione, non riescono ad adattarsi, tardano a imparare la lingua, a capire le regole della nuova società, non ne capiscono le usanze. Io stessa per anni non ho fatto tutti i documenti per poter vivere in Italia come una cittadina. Avevo le carte necessarie, ma non andavo oltre, sempre nutrendo la speranza di poter tornare a casa. Ci piacciono le storie con il lieto fine, degli outsider che sono riusciti re-inventarsi, aggiustarsi, ben posizionarsi. Dietro ci sono le ore, i giorni e gli anni di sofferenza, spesso umiliazione, incomprensioni e tanto lavoro, rinunce. Abitavo in Italia da diversi anni quando mi è capitato di sentire al posto di lavoro ben tre volte: “Come mai tu, nessuna, e di nessuno, hai avuto questo lavoro?”. Quando sento quelli che protestano contro gli profughi, quelli che chiedono di mandare via gli emigrati “perché rubano i posti di lavoro agli italiani”, penso a Zoran, laureato, specialista e conoscitore di varie lingue. In Italia, da profugo, ha fatto il Master of International in business (MIB), ha perfezionato il suo italiano, ma lavora come un bubec, come si dice a Trieste, cioè ultimo tra gli ultimi, e solo quando in ufficio serve uno che conosca bene il mestiere e le regole, lo pescano per un aiuto. Dopo di che, tutto torna come prima. O a Goran, docente universitario nel suo paese, che in Italia lavora come commesso, o alla architetta Jasmina, che lavora dodici ore al giorno ma non ha il diritto di firma, perciò è pagata come qualsiasi impiegata. E ogni volta che sto per mangiare un mandarino, penso a quelli che lavorano tutto il giorno per raccoglierli e sono pagati in spiccioli. Una profuga non comincia da zero, ma da venti sotto zero. La maggior parte di noi non conosce la lingua del paese di arrivo (perché una profuga non sceglie dove andare, ma corre al primo posto sicuro) e, secondo me, a zero si arriva solo quando si è in grado di farsi capire, di chiedere nella lingua locale le cose fondamentali come: “Quanto costa il pane?”, “Dov'è questo o quell’altro?”, “Come si fa?”.

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Si, la domanda: “Come si fa?” è tra le più importanti. Perché i costumi, le abitudini, le tradizioni, le leggi, sono molto diversi anche tra i paesi europei, figuriamoci tra i paesi di diversi continenti o di religione diversa. Spesso, quando incontro i profughi, che si distinguono a prima vista per il colore della pelle, per i lineamenti del viso, per gli occhi, perché vestiti in modo diverso, penso che per loro è ancora più difficile abituarsi, immergersi nella nuova società, non farsi notare subito come “altro”. A prima vista, io non mi distinguo dagli altri, devo parlare perché capiscano che sono una straniera. E mi viene in mente lo scrittore polacco Ryszard Kapuscinski che, una volta in Africa, solo e unico bianco tra la gente locale, aveva capito cosa volesse dire essere diverso.

FRANCO DI MARE

da Non chiedere perché Su quel gruppo di abitazioni, di fronte all’ingresso posteriore dell’Holiday Inn, e su tutti quelli che sopravvivevano al loro interno, incombevano i profili spettrali dei due grattacieli gemelli di Sarajevo, ridotti a enormi totem anneriti dai roghi causati dalle bombe incendiarie. In città li chiamavano tutti Momo e Uzeir, come due popolari personaggi televisivi, uno serbo, l’altro musulmano. A Sarajevo, però, nessuno avrebbe potuto distinguere una torre dall’altra e non c’era accordo su quale fosse la torre musulmana e la torre serba. L’ambiguità del battesimo di Momo e Uzeir e l’impossibilità di distinguere tra quelle due torri di acciaio e vetro, perfettamente identiche, rappresentavano in una certa maniera l’unità del popolo bosniaco: tutti uguali, senza distinzione di religione. Proprio per questo, ovviamente, all’inizio del conflitto le artiglierie serbe si accanirono con particolare determinazione sui due giganti, riducendoli dopo giorni di bombardamenti a due scheletri anneriti. Momo e Uzeir erano stati costruiti nell’'86, figli dell’entusiasmo per il successo internazionale dei Giochi Olimpici invernali dell’'84, quando la Jugoslavia era una sola, serbi e musulmani passavano le vacanze al mare sulle spiagge croate, la parola guerra aveva senso solo per i vecchi e, se qualcuno fosse andato in giro a dire che di lì a sette anni cannoni e mortai avrebbero preso di mira una delle città più aperte e tolleranti d’Europa, gli avrebbero riso dietro tutti. «Dobbiamo tenerci a sinistra di quell’aiuola e proseguire in quella direzione ha detto Guillermo.» «D’accordoJ Ehi, guarda quello. Quel vecchio lì. Ma che fa?» Davanti a loro, tra le mani una busta di plastica da cui sbucava un filoncino di pane, un uomo anziano attraversava la strada camminando lentamente, a testa bassa, preso da chissà quali pensieri. Di certo non se ne era accorto, ma stava finendo diritto al centro del giardino maledetto, nel mezzo del

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poligono di tiro dei cecchini. «Via! Via di là! Vada via, ci sono i cecchini!» L’urlo di Marco non produsse alcun effetto. Il vecchio continuava a camminare a piccoli passi. Sembrava passeggiare. Ormai era arrivato in mezzo all’aiuola. «Oh cazzo!» sibilò tra i denti Luciano. La sua mano corse da sola alla telecamera. «Sniper! Sniper!» urlò Marco. A quel punto il vecchio alzò la testa e gli rivolse uno sguardo interrogativo. «Sniper!» gridò ancora più forte Marco, indicandogli ripetutamente la parte della collina alla sua sinistra da dove, da un momento all’altro, gli avrebbero sparato. «Sniper?» ripeté in tono incredulo l’uomo, guardando nella direzione che Marco gli indicava. Appoggiò allora lentamente la busta di plastica a terra e si girò alla sua sinistra, verso quelle finestre minacciose, quelle orbite scure sulle case abbandonate laggiù in fondo, sul crinale della collina, oltre il fiume, là dove era nascosto il cecchino. A trecento metri dalle finestre buie, perfettamente visibile e in pieno tiro, il vecchio spalancò le braccia, le palme delle mani rivolte al cielo, tirò su il mento, chiuse gli occhi e restò in attesa, immobile, come un Cristo in croce. «Madonna del CarmineJ» sussurrò Luciano, il dito contratto sul pulsante rec della telecamera. Nessuno fiatava. Il vecchio se ne stava lì fermo, a braccia aperte e occhi chiusi di fronte al suo assassino. In attesa. «Cazzo, ora questo muoreJ» Marco era paralizzato. Il tempo si era fermato, come l’aria intorno, come i loro respiri. Il solo rumore era il ronzio sottile del nastro che si avvolgeva nella cassetta e fissava ogni istante in quella scena assurda. Un uomo stava per essere ucciso a Sarajevo. Sarebbe stato solo un altro morto nel mattatoio dei Balcani. Ma stava per accadere davanti a una telecamera. La loro telecamera. Era come filmare un omicidio nel momento in cui avviene. «Stai registrando?» «Sì?» «Madonna santissimaJ» Due uccellini si posarono cinguettando vicino alla busta di plastica e si avvicinarono al pane saltellando allegramente. Fu allora che il vecchio decise che poteva bastare. Riaprì gli occhi, abbassò le braccia e gettò uno sguardo verso Marco e Luciano. «Sniper» mormorò fra sé e sé, smoccolando altre parole incomprensibili mentre si chinava adagio a recuperare la busta. Con un paio di schiaffetti tolse quel po’ di polvere che era finita sul pane e, sempre senza fretta, regalando altri secondi al cecchino, arrivò finalmente al riparo. Marco era ancora lì a bocca aperta. Il vecchio gli rivolse uno sguardo velato dalla commiserazione. «Sniper» ripeté sputando per terra. E se ne andò così come era arrivato, a passettini, con le spalle curve. Scuotendo la testa.

da

Amir e Hassan sono due ragazzi afghani, che vivono a Kabul, grandi amici, nonostante Amir sia di etnia pashtun e Hassan di etnia hazara. Nel 1981, dopo lo scoppio della guerra in Afghanistan, Amir e suo padre sono costretti a lasciare Kabul. Molti anni dopo Amir vi ritorna per cercare il figlio del suo amico d'infanzia Hassan, ucciso assieme alla moglie dai talebani per puro odio razziale. Macerie e mendicanti. Dovunque andassi non vedevo altro. Anche nella Kabul dei miei ricordi c’erano mendicanti, ma adesso ce n’erano accucciati ad ogni angolo, coperti di stracci, lerano soprattutto bambini, bambini dalle facce emaciate stavano in grembo alle madri avvolte nel burqa e ripetevano: «Bakhshesh!» come una litania. Mi resi conto che nessuno era in braccio a un uomoJ le guerre avevano reso i padri un lusso in AfghanistanJJ «Quand’ero ragazzino venivo spesso qui» dissi a mezza voce. «C’erano negozi e alberghi. Luci al neon e ristoranti. Comperavo gli aquiloni da un vecchio che si chiamava Saifo e che aveva un negozietto vicino alla centrale di polizia.» «La centrale di polizia è sempre allo stepolizia non manca in questa città. Ma non vedrà certo negozi di aquiloni, né qui né da nessun’altra parte. Il tempo degli aquiloni è finito.»Jadeh Maywand era diventata un gigantesco castello di sabbia. Gli edifici che non erano crollati avevano il tetto sfondato e le mura perforate dai razzi. Interi isolati erano ridotti in macerie. C’erano ragazzini che giocavano tra le rovine di un edificio senza finestre, trainati da muli dovevamo schivare bambini, cani randagi e mucchi di immondizie. La città era avvolta in una nube di polvere.

Guerre in atto KHALED HOSSEINI

da Il cacciatore di aquiloni

Amir e Hassan sono due ragazzi afghani, che vivono a Kabul, grandi amici, nonostante Amir sia di etnia pashtun e Hassan di etnia hazara. Nel 1981, dopo lo scoppio della guerra

padre sono costretti a lasciare Kabul. Molti anni dopo Amir vi ritorna per cercare il figlio del suo amico d'infanzia Hassan, ucciso assieme alla moglie dai talebani per puro odio razziale.

Dovunque andassi non vedevo altro. Anche nella Kabul dei miei ricordi c’erano mendicanti, ma adesso ce n’erano accucciati ad ogni angolo, coperti di stracci, le mani luride tese verso i passanti. Ed erano soprattutto bambini, bambini dalle facce emaciate e tristi. I più piccoli stavano in grembo alle madri avvolte nel burqa e ripetevano: «

!» come una litania. Mi resi conto che nessuno era in braccio a un uomoJ le guerre avevano reso i padri un lusso in AfghanistanJ

o venivo spesso qui» dissi a mezza voce. «C’erano negozi e alberghi. Luci al neon e ristoranti. Comperavo gli aquiloni da un vecchio che si chiamava Saifo e che aveva un negozietto vicino alla centrale

«La centrale di polizia è sempre allo stesso posto» mi spiegò Farid. «La polizia non manca in questa città. Ma non vedrà certo negozi di aquiloni, né qui né da nessun’altra parte. Il tempo degli aquiloni è finito.» Jadeh Maywand era diventata un gigantesco castello di sabbia. Gli edifici che

erano crollati avevano il tetto sfondato e le mura perforate dai razzi. Interi isolati erano ridotti in macerie. C’erano ragazzini che giocavano tra le rovine di un edificio senza finestre, in mezzo ai muri diroccati. I ciclisti e i carri

dovevamo schivare bambini, cani randagi e mucchi di immondizie. La città era avvolta in una nube di polvere.

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Amir e Hassan sono due ragazzi afghani, che vivono a Kabul, grandi amici, nonostante Amir sia di etnia pashtun e Hassan di etnia hazara. Nel 1981, dopo lo scoppio della guerra

padre sono costretti a lasciare Kabul. Molti anni dopo Amir vi ritorna per cercare il figlio del suo amico d'infanzia Hassan, ucciso assieme alla moglie dai

Dovunque andassi non vedevo altro. Anche nella Kabul dei miei ricordi c’erano mendicanti, ma adesso ce n’erano accucciati

mani luride tese verso i passanti. Ed e tristi. I più piccoli

stavano in grembo alle madri avvolte nel burqa e ripetevano: «Bakhshesh, !» come una litania. Mi resi conto che nessuno era in braccio a un

uomoJ le guerre avevano reso i padri un lusso in AfghanistanJ o venivo spesso qui» dissi a mezza voce. «C’erano

negozi e alberghi. Luci al neon e ristoranti. Comperavo gli aquiloni da un vecchio che si chiamava Saifo e che aveva un negozietto vicino alla centrale

sso posto» mi spiegò Farid. «La polizia non manca in questa città. Ma non vedrà certo negozi di aquiloni, né

Jadeh Maywand era diventata un gigantesco castello di sabbia. Gli edifici che

erano crollati avevano il tetto sfondato e le mura perforate dai razzi. Interi isolati erano ridotti in macerie. C’erano ragazzini che giocavano tra le rovine

in mezzo ai muri diroccati. I ciclisti e i carri dovevamo schivare bambini, cani randagi e mucchi di

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VALÉRIE ZENATTI

da Una bottiglia nel mare di Gaza

Tal, diciassettenne israeliana, corrisponde via e-mail con un ragazzo palestinese. Con questa corrispondenza quelli che dovrebbero essere due nemici, iniziano a conoscersi e l’amicizia si sostituisce all’odio e alla diffidenza. Da: [email protected] A: [email protected] Oggetto: i miei primi passi (e preoccupazioni) Caro Gazaman, comincio dalla preoccupazione: non ho tue notizie da diversi giorniJ Al telegiornale hanno detto che c’era un’operazione in corso in questo momento nella striscia di Gaza. Attivisti di Hamas sono stati uccisi, quattro credo, ma, se ho capito bene, ci sono stati anche civili uccisi e feriti, secndo le fonti sul posto. Ho guardato attentamente le immagini, è stato nel campo di Khan Younes. Ho pensato che c’era circa una possibilità su un milione che tu fossi in quelle immagini. Ma non ho modo di saperlo. C’erano donne che piangevano mostrando una casa distrutta dai nostri soldati, uomini in collera, bambini che cercavano le loro cose tra i detriti. Mi sono detta: sembra tutto così lontano. Non lontano come un sogno inaccessibile, ma come un incubo che si è sollevati al pensiero di non dover vivere. Sì, ho pensato a questo. Che era terribilmente triste, una casa distrutta. Che doveva essere duro non avere granché e, all’improvviso, non avere più niente. Che poi bisognava dormire altrove, mangiare altrove. Ho perfino pensato a cosa avrei provato io se la mia casa fosse distrutta e mi sono sentita demolita dentro di me. Ho sperato che tu non fossi in quelle immagini, che tu non debba passare niente del genere. Perché? Perché succede questo? Perché il mio paese che io amo, il mio paese che è così bello, il mio paese dove c’è tanta gente incredibile, fa una cosa del genere laggiù, a casa tua? Perché ci sono gli attentati, naturalmente. Perché non sopportiamo la morte dei nostri amici, dei nostri vicini, di tutti questi innocenti. Ma bisogna pure che tutto questo si fermi! Ho l’impressione che siamo imprigionati in un labirinto, nessuno trova l’uscita, tutti si arrabbiano e rompono tutto per poter arrivare all’aria apertaJ Saluti, Tai

Der Krieg, der kommen wird (La guerra che verrà) Der Krieg, der kommen wird

Ist nicht der erste. Vor ihm

Waren andere Kriege.

Als der letzte vorüber war

Gab es Sieger und Besiegte.

Bei den Besiegten das niedere Volk

Hungerte. Bei den Siegern

Hungerte das niedere Volk auch.

Ci sono cose da fare ogni giorno:

lavarsi, studiare, giocare,

preparare la tavola,

a mezzogiorno.

Ci sono cose da far di notte:

chiudere gli occhi, dormire,

avere sogni da sognare,

orecchie per sentire.

Ci sono cose da non fare mai,

Conclusione

BERTOLT BRECHT

Der Krieg, der kommen wird (La guerra che verrà)

Der Krieg, der kommen wird La guerra che verrà

Ist nicht der erste. Vor ihm non è la prima. Prima

ci sono state altre guerre.

Als der letzte vorüber war Alla fine dell’ultima

Gab es Sieger und Besiegte. c’erano vincitori e vinti.

Bei den Besiegten das niedere Volk Fra i vinti la povera gente

Hungerte. Bei den Siegern faceva la fame. Fra i vincitori

re Volk auch. faceva la fame la povera

gente egualmente.

GIANNI RODARI

Promemoria

Ci sono cose da fare ogni giorno:

Ci sono cose da far di notte:

chiudere gli occhi, dormire,

Ci sono cose da non fare mai,

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Der Krieg, der kommen wird (La guerra che verrà)

non è la prima. Prima

guerre.

c’erano vincitori e vinti.

Fra i vinti la povera gente

faceva la fame. Fra i vincitori

faceva la fame la povera

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né di giorno né di notte,

né per mare né per terra:

per esempio, la guerra.

ANTONELLA ANEDDA

A Nathan Zach Anche questi sono versi di guerra

Composti mentre infuria, non lontano, non vicino

Seduti di sghembo a un tavolo rischiarato da lumi

Mentre cingono le porte di palme

Anche questo è un canto verso Dio

Che chini lo sguardo sui suoi vermi e ci travolga

Amati e non amati.

Non una tregua – ma un dono

Per questa terra folgorata.

LEONARDO ZANIER

Da ogni famea RM, genâr 1976

via un zovin via un giovane

da quasi ogni famea da quasi ogni famiglia

via in Russia: via in Russia:

a imparâ a copâ a imparare ad uccidere

via a pît via a piedi

ta glaça o tal paltàn nel ghiaccio o nel fango

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plui no scrivin: non scrivono più:

si vai in ogni cjasa si piange in ogni casa

pôs a tòrnin: tornano in pochi:

‘l è dûr sierâ a vincj agns è duro finirla a vent’anni

chei ch’a tòrnin: quelli che tornano

devéntin partigjans diventano partigiani

DON LORENZO MILANI

dalla Lettera di Don Milani ai giudici

Auspichiamo dunque tutto il contrario di quel che voi auspicate: auspichiamo che abbia termine finalmente ogni discriminazione e ogni divisione di Patria di fronte ai soldati di tutti i fronti e di tutte le divise che morendo si son sacrificati per i sacri ideali di Giustizia, Libertà, Verità. Rispettiamo la sofferenza e la morte, ma davanti ai giovani che ci guardano non facciamo pericolose confusioni fra il bene e il male, fra la verità e l'errore, fra la morte di un aggressore e quella della sua vittima. Se volete diciamo: preghiamo per quegli infelici che, avvelenati senza loro colpa da una propaganda d'odio, si son sacrificati per il solo malinteso ideale di Patria calpestando senza avvedersene ogni altro nobile ideale umano. Su una parete della nostra scuola c'è scritto grande «I care». Il motto intraducibile dei giovani americani migliori. «Me ne importa, mi sta a cuore». È il contrario esatto del motto fascista «Me ne frego». A questo punto mi occorre spiegare il problema di fondo di ogni scuola. E siamo giunti, io penso, alla chiave di questo processo perché io maestro sono accusato di apologia di reato cioè di scuola cattiva. Bisognerà dunque accordarci su ciò che è scuola buona. La scuola è diversa dall'aula del tribunale. Per voi magistrati vale solo ciò che è legge stabilita. La scuola invece siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi. È l'arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare in loro il senso della legalità (e in questo somiglia alla vostra funzione), dall'altro la

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volontà di leggi migliori cioè di senso politico (e in questo si differenzia vostra funzione). Anche il maestro è dunque in qualche modo fuori del vostro ordinamento e pure al suo servizio. Se lo condannate attenterete al processo legislativo. In quanto alla loro vita di giovani sovrani domani, non posso dire ai miei ragazzi che l'unico modo d'amare la legge è d'obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando non sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate. L'ITALIA RIPUDIA LA GUERRA Una di queste conquiste morali e sociali è l'articolo 11 della nostra Costituzione: «L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli». Voi giuristi dite che le leggi si riferiscono solo al futuro, ma noi gente della strada diciamo che la parola ripudia è molto più ricca di significato: abbraccia il passato e il futuro. È un invito a buttar tutto all'aria: all'aria buona. La storia come la insegnavano a noi e il concetto di obbedienza militare assoluta come la Insegnano ancora. A più riprese gli scienziati ci hanno avvertiti che è un gioco la sopravvivenza della specie umana (per esempio Linus Pauling, premio Nobel per la chimica e per la pace). E noi stiamo qui a questionare se al soldato sia lecito o no distruggere la specie umana? Spero di tutto cuore che mi assolverete, non mi diverte l'idea di andare a fare l'eroe in prigione, ma non posso fare a meno di dichiararvi esplicitamente che seguiterò a insegnare ai miei ragazzi quel che ho insegnato fino a ora. Cioè che se un ufficiale darà loro ordini da paranoico hanno solo il dovere di legarlo ben stretto e portarlo in una casa di cura. Spero che in tutto il mondo i miei colleghi preti e maestri d'ogni religione e d'ogni scuola insegneranno come me. Poi forse qualche generale troverà ugualmente il meschino che obbedisce e così non riusciremo a salvare l'umanità. Non è un motivo per non fare fino in fondo il nostro dovere di maestri. Se non potremo salvare l'umanità ci salveremo almeno l'anima.

Antonella Anedda (nata a Roma nel 1955. Laureata in storia dell’arte moderna, docente di letteratura italiana contemporanea, poetessa, vincitrice nel 1999 del Premio Montale) Igea Arnao (poetessa e insegnante siciliana) Bertolt Brecht (1898 –1956. Poeta, drammaturgo e regista tedesco, rinnovò profondamente il teatro tedesco. Nel 1933, all’avvento di Hitler al potere, dovette abbandonare la Germania e i suoi libri vennero messi al rogo) Edoardo De Filippo (1900 – 1984. opere teatrali, che lui stesso ha messo in scena e interpretato e che spesso ha portato anche al cinema. Nominato Senatore a vita, fu candidato al Premio Nobel per la Franco Di Mare (nato a Napoli inviato speciale nella Guerra dei Balcani, a Sarajevo visse l’esperienza che gli cambiò la vita, l’incontro in un orfanotrofio con la bambina che diventerà la sua figlia adottscrisse “Non chiedere perché”, il suo primo romanzo) Nazim Hikmet (1902 –1963. È considerato uno Subì molti anni di carcere e l’esilio. È stato candidato al Premio Nobel per la Khaled Hosseini (medico e scrittore di grande successo1965. La Fondazione Khaled Hosseini finanzia azioni umanitarie a supporto dei rifugiati di ogni paese) Pietro Jahier (1884 –1966. Scrittore, poeta e risale agli anni della Grande Guerra) Miljenco Jergović (nato a Sarajevo nel 1966, è scrittore, giornalista e traduttore. Il brano è tratto dal racconto “La biblioteca”, dalla raccolta “Le Malboro d Biagio Marin (1891 – 1985. Nato a Grado, all’epoca sotto il dominio austriaco, è uno dei maggiori poeti del ‘900 ad aver scritto le proprie opere in nel dialetto della propria terra) Lorenzo Milani (1923 – 1967. Sacerdote cattolico, scrittore, educatore. Fondatore della Scuola di Barbiana, autore di scritti coraggiosi e polemici. “L'obbedienza non è più una virtù", pubblicato nel 1965, raccoglie i documenti connessi con un processo a Don Milani, che sdell’obiezione di coscienza). Eugenio Montale (1896 – 1981. Tra i massimi esponenti della poetica italiana del Novecento.nominato senatore a vita e insignito del Premio Nobel per la Letteratura Filippo Tommaso Marinetti (1876 manifesto del partito futurista”. Attivissimo interventista, combatté nella Grande Guerra e si arruolò come volontario nella II guerra Mondiale) Azra Nuhefendić (nata a Sarajevo, e Caucaso) Merisa Pilav (nata in Bosnia, ha frequentato il Liceo “LeopardiMedicina all’Università di Trieste)

Gli autori

(nata a Roma nel 1955. Laureata in storia dell’arte moderna, docente di letteratura italiana contemporanea, poetessa, vincitrice nel 1999 del Premio Montale)

(poetessa e insegnante siciliana)

1956. Poeta, drammaturgo e regista tedesco, rinnovò profondamente il teatro tedesco. Nel 1933, all’avvento di Hitler al potere, dovette abbandonare la Germania e i suoi

1984. Drammaturgo ed autore napoletano. Ha composto numerose opere teatrali, che lui stesso ha messo in scena e interpretato e che spesso ha portato anche al cinema. Nominato Senatore a vita, fu candidato al Premio Nobel per la Letteratura)

nel 1955, è giornalista e conduttore televisivo Rai einviato speciale nella Guerra dei Balcani, a Sarajevo visse l’esperienza che gli cambiò la vita, l’incontro in un orfanotrofio con la bambina che diventerà la sua figlia adottscrisse “Non chiedere perché”, il suo primo romanzo)

considerato uno dei più importanti poeti turchi dell’epoca moderna. Subì molti anni di carcere e l’esilio. È stato candidato al Premio Nobel per la Pace)

(medico e scrittore di grande successo di origine afgana, è nato a Kabul nel 1965. La Fondazione Khaled Hosseini finanzia azioni umanitarie a supporto dei rifugiati di ogni

Scrittore, poeta e traduttore italiano; la sua produzione più significativa risale agli anni della Grande Guerra)

(nato a Sarajevo nel 1966, è scrittore, giornalista e traduttore. Il brano è tratto dal racconto “La biblioteca”, dalla raccolta “Le Malboro di Sarajevo”)

1985. Nato a Grado, all’epoca sotto il dominio austriaco, è uno dei maggiori poeti del ‘900 ad aver scritto le proprie opere in nel dialetto della propria terra)

1967. Sacerdote cattolico, scrittore, educatore. Fondatore della Scuola di scritti coraggiosi e polemici. “L'obbedienza non è più una virtù", pubblicato nel

1965, raccoglie i documenti connessi con un processo a Don Milani, che si era espresso a favore

. Tra i massimi esponenti della poetica italiana del Novecento.nominato senatore a vita e insignito del Premio Nobel per la Letteratura nel 1975

(1876 – 1944. Poeta, scrittore e drammaturgo, fondatore de “Il manifesto del partito futurista”. Attivissimo interventista, combatté nella Grande Guerra e si arruolò come volontario nella II guerra Mondiale)

(nata a Sarajevo, scrittrice, giornalista e corrispondente di Osservatorio Balcani

(nata in Bosnia, ha frequentato il Liceo “Leopardi-Majorana” ed è studentessa di Medicina all’Università di Trieste)

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(nata a Roma nel 1955. Laureata in storia dell’arte moderna, docente di letteratura italiana contemporanea, poetessa, vincitrice nel 1999 del Premio Montale)

1956. Poeta, drammaturgo e regista tedesco, rinnovò profondamente il teatro tedesco. Nel 1933, all’avvento di Hitler al potere, dovette abbandonare la Germania e i suoi

autore napoletano. Ha composto numerose opere teatrali, che lui stesso ha messo in scena e interpretato e che spesso ha portato anche al

Letteratura)

e conduttore televisivo Rai e scrittore. Da inviato speciale nella Guerra dei Balcani, a Sarajevo visse l’esperienza che gli cambiò la vita, l’incontro in un orfanotrofio con la bambina che diventerà la sua figlia adottiva. Su tale incontro

importanti poeti turchi dell’epoca moderna. Pace)

di origine afgana, è nato a Kabul nel 1965. La Fondazione Khaled Hosseini finanzia azioni umanitarie a supporto dei rifugiati di ogni

traduttore italiano; la sua produzione più significativa

(nato a Sarajevo nel 1966, è scrittore, giornalista e traduttore. Il brano è tratto

1985. Nato a Grado, all’epoca sotto il dominio austriaco, è uno dei maggiori poeti del ‘900 ad aver scritto le proprie opere in nel dialetto della propria terra)

1967. Sacerdote cattolico, scrittore, educatore. Fondatore della Scuola di scritti coraggiosi e polemici. “L'obbedienza non è più una virtù", pubblicato nel

i era espresso a favore

. Tra i massimi esponenti della poetica italiana del Novecento. Fu nel 1975)

1944. Poeta, scrittore e drammaturgo, fondatore de “Il manifesto del partito futurista”. Attivissimo interventista, combatté nella Grande Guerra e si arruolò

scrittrice, giornalista e corrispondente di Osservatorio Balcani

Majorana” ed è studentessa di

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Salvatore Quasimodo (1901 – 1968. Esponente di rilievo della poesia ermetica, traduttore di autori classici e di autori moderni, ha vinto il Premio Nobel per la Letteratura nel 1959) Clemente Rebora (1885 –1957. Il poeta visse l’esperienza della Grande Guerra sul Carso, dove venne ferito alla tempia dallo scoppio di una granata, esperienza terribile dalla quale riportò una "nevrosi da trauma") Gianni Rodari (1920 – 1980. Scrittore e pedagogista, specializzato in letteratura per l'infanzia. I suoi testi, in prosa e poesia, sono stati tradotti in molte lingue. Insignito del prestigioso Premio Andersen è stato uno fra i principali teorici dell'arte di inventare storie) Isaac Rosenberg (1980 – 1918. Poeta inglese, molto critico nei confronti della prima guerra mondiale. Combatté in Francia, dove morì colpito da un cecchino) Izet Sarajlíc (1930 – 2002. È il poeta di lingua serbo-croata più tradotto di tutti i tempi. Nel 1992, quando Sarajevo venne assediata, rifiutò di abbandonarla, diventando testimone diretto delle sofferenze e delle tragedie della guerra in Bosnia-Erzegovina. In suo onore dal 2002 vengono organizzati gli “Incontri internazionali di poesia di Sarajevo) Vittorio Sereni (1913 – 1983. Poeta e traduttore, nell'autunno del 1941 fu assegnato ad un reparto destinato all'Africa settentrionale. Non vi combatté, però, poiché fu detenuto in Algeria, dove rimase fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale) Abdulah Sidran (nato a Sarajevo nel 1944. È oggi una personalità centrale della letteratura bosniaca e della poesia contemporanea) Wislawa Szymborska (1923 – 2012. Poetessa e saggista polacca, ha ricevuto il Premio Nobel della Letteratura nel 1996) Georg Trakl (1887 –1914. Poeta espressionista austriaco, Durante la Prima Guerra Mondiale fu ufficiale di sanità nella sanguinosa battaglia di Grodek, in Galizia, dove assistette da solo e senza medicine 90 feriti gravi. L’esperienza degli orrori della guerra lo traumatizzò, portandolo prima al tentativo di suicidio, poi alla morte per overdose) Jovanka Uljarevic (nata a Kotor, nel Montenegro, nel 1979, scrive poesia, prosa e saggistica) Giuseppe Ungaretti (1888 – 1970. Uno dei massimi poeti del Novecento. Dopo aver partecipato attivamente alla campagna interventista si arruolò come volontario nel momento in cui l’Italia entrò in guerra, nel 1915. Combatté sul Carso e, in seguito, in Francia) Leonardo Zanier (1935 – 2017. Poeta carnico, si occupò sempre di educazione e di emigrazione, impegnandosi fortemente nel sociale) Valèrie Zenatti (nata a Nizza nel 1970. Scrittrice di narrativa e traduttrice, all’età di 13 anni si è trasferita in Israele)

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FERITE DI GUERRA ................................................................................................................................. 1

Premessa ............................................................................................................................................................ 2 Filippo Tommaso Marinetti............................................................................................................................................ 2

da Battaglia Peso + odore ......................................................................................................................................... 2

Prima Guerra Mondiale .......................................................................................................................................... 3 Biagio Marin ................................................................................................................................................................... 3

E Dio t’ha tolto .......................................................................................................................................................... 3 Isaac Rosenberg ............................................................................................................................................................. 3

August 1914 .............................................................................................................................................................. 3 Piero Jahier .................................................................................................................................................................... 4

Dichiarazione ............................................................................................................................................................. 4 Mio popolo ................................................................................................................................................................ 5 Mare .......................................................................................................................................................................... 6 Ultima marcia ............................................................................................................................................................ 8

Giuseppe Ungaretti ........................................................................................................................................................ 9 Veglia ......................................................................................................................................................................... 9 Fratelli ..................................................................................................................................................................... 10 Sono una creatura ................................................................................................................................................... 10 In dormiveglia.......................................................................................................................................................... 11 Pellegrinaggio .......................................................................................................................................................... 12 San Martino del Carso ............................................................................................................................................. 12 Italia ......................................................................................................................................................................... 13

Georg Trakl ................................................................................................................................................................... 14 Grodek ..................................................................................................................................................................... 14

Clemente Rebora ......................................................................................................................................................... 15 Viatico ..................................................................................................................................................................... 15

Seconda Guerra Mondiale .................................................................................................................................... 17 Salvatore Quasimodo ................................................................................................................................................... 17

Uomo del mio tempo .............................................................................................................................................. 17 Alle fronde dei salici ................................................................................................................................................ 17 Neve ........................................................................................................................................................................ 18 Milano, agosto 1943 ................................................................................................................................................ 18

Nazim Hikmet ............................................................................................................................................................... 19 Kiz Çocuğu (La bambina di Hiroshima) .................................................................................................................... 19

Wisława Szymborska .................................................................................................................................................... 20 Koniec i początek (La fine e l’inizio) ........................................................................................................................ 20

Eugenio Montale .......................................................................................................................................................... 22 Il sogno del prigioniero ............................................................................................................................................ 22 Bufera ...................................................................................................................................................................... 23

Vittorio Sereni .............................................................................................................................................................. 25 Non sa più nulla, È alto sulle ali ............................................................................................................................... 25

Edoardo De Filippo ....................................................................................................................................................... 26 da Napoli milionaria ................................................................................................................................................ 26

Bertolt Brecht ............................................................................................................................................................... 27 Ich, der überlebende (Io, il sopravvissuto) .............................................................................................................. 27 Mein Bruder war ein Flieger (Mio fratello era un aviatore) .................................................................................... 27

Guerre della ex Jugoslavia .................................................................................................................................... 28 Izet Sarajlic ................................................................................................................................................................... 28

Chi ha fatto il turno di notte .................................................................................................................................... 28 Dopo essere stato ferito .......................................................................................................................................... 28 Agli amici della ex-Jugoslavia .................................................................................................................................. 29 La fortuna alla maniera di Sarajevo ......................................................................................................................... 29

Abdulah Sidran ............................................................................................................................................................. 29 Mora (L’Incubo) ....................................................................................................................................................... 29

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Planeta Sarajevo (Pianeta Sarajevo) ....................................................................................................................... 30 Jovanka Uljarevic ......................................................................................................................................................... 33

Giustificazione della guerra ..................................................................................................................................... 33 Miljenko Jergovič ......................................................................................................................................................... 34

La biblioteca ............................................................................................................................................................ 34 Merisa Pilav .................................................................................................................................................................. 36

Profumo di dignità ................................................................................................................................................... 36 Azra Nuhefendić ........................................................................................................................................................... 43

La profuga ............................................................................................................................................................... 43 Franco Di Mare............................................................................................................................................................. 47

da Non chiedere perché .......................................................................................................................................... 47

Guerre in atto ...................................................................................................................................................... 49 Khaled Hosseini ............................................................................................................................................................ 49

da Il cacciatore di aquiloni....................................................................................................................................... 49 Valérie Zenatti .............................................................................................................................................................. 50

da Una bottiglia nel mare di Gaza ........................................................................................................................... 50

Conclusione ...................................................................................................................................................... 51 Bertolt Brecht ............................................................................................................................................................... 51

Der Krieg, der kommen wird (La guerra che verrà) ................................................................................................. 51 Gianni Rodari ............................................................................................................................................................... 51

Promemoria ............................................................................................................................................................ 51 Antonella Anedda ........................................................................................................................................................ 52

A Nathan Zach ......................................................................................................................................................... 52 Leonardo Zanier ........................................................................................................................................................... 52

Da ogni famea ......................................................................................................................................................... 52 don Lorenzo Milani ...................................................................................................................................................... 53

dalla Lettera di Don Milani ai giudici ....................................................................................................................... 53

Gli autori .......................................................................................................................................................... 55