FERDINAND GREGOROVIUS, UNO STORICO POETA (1821-1891) · 2017. 12. 22. · 1 Francesco Lamendola...

21
1 Francesco Lamendola FERDINAND GREGOROVIUS, UNO STORICO POETA (1821-1891) Ferdinand Gregorovius, storico tedesco dell'Ottocento, fu un grande innamorato dell'Italia, della sua storia, della sua arte e della sua civiltà, tanto da eleggerla a sua seconda patria. Di lui si ricorda una poderosa "Storia della città di Roma nel Medioevo", in cui coniuga con sapienza magistrale il rigore della ricerca filologica ed erudita e una straordinaria capacità di rievocazione, sorretta da un raro talento letterario; una "Storia della città di Atene nel Medioevo", opera gemella della prima; una interessante biografia di Lucrezia Borgia; una biografia dell'imperatore Adriano; racconti e poesie (tra cui un poemetto d'ambientazione classica, "Euforione"; un saggio su "Gli imperi universali nella storia"; e un bellissimo libro di viaggio, "Anni di pellegrinaggio in Italia", commovente testimonianza dell'amore ch'egli ebbe per il nostro Paese.

Transcript of FERDINAND GREGOROVIUS, UNO STORICO POETA (1821-1891) · 2017. 12. 22. · 1 Francesco Lamendola...

  • 1

    Francesco Lamendola

    FERDINAND GREGOROVIUS,

    UNO STORICO POETA

    (1821-1891)

    Ferdinand Gregorovius, storico tedesco dell'Ottocento, fu un grande

    innamorato dell'Italia, della sua storia, della sua arte e della sua civiltà,

    tanto da eleggerla a sua seconda patria. Di lui si ricorda una poderosa

    "Storia della città di Roma nel Medioevo", in cui coniuga con sapienza

    magistrale il rigore della ricerca filologica ed erudita e una straordinaria

    capacità di rievocazione, sorretta da un raro talento letterario; una

    "Storia della città di Atene nel Medioevo", opera gemella della prima; una

    interessante biografia di Lucrezia Borgia; una biografia dell'imperatore

    Adriano; racconti e poesie (tra cui un poemetto d'ambientazione classica,

    "Euforione"; un saggio su "Gli imperi universali nella storia"; e un

    bellissimo libro di viaggio, "Anni di pellegrinaggio in Italia", commovente

    testimonianza dell'amore ch'egli ebbe per il nostro Paese.

  • 2

    I.

    Ferdinand Gregorovius fu un grande poeta e un grande storico. Innamorato

    dell'Italia con tutto sé stesso, tanto da eleggerla a sua seconda paria, le diede, nei suoi

    scritti, un pegno d'amore commovente, quale pochi intellettuali italiani le tributarono

    con eguale sincerità e devozione. Egli era ugualmente affascinato dalla sua natura,

    dalla sua storia, dalla sua arte, da tutto il suo glorioso passato che tanto a lungo

    costituì un faro di civiltà per l'Europa e il mondo. Viaggiatore instancabile, la

    percorse tutta - anche e specialmente a piedi - soffermandosi con amore a

    contemplare le sue piazze e i suoi castelli, le sue colline e i suoi mari azzurri, i suoi

    boschi e le sue rovine. Non limitandosi a visitare i luoghi più noti e celebrati dalla

    tradizione, volle scoprire anche gli angoli più nascosti e suggestivi; si spinse a cavallo

    su per le sue montagne solitarie, pernottò negli sperduti conventi dei frati; attraversò

    rapito le sue foreste e visitò le sue antiche rocche dove pare indugiare lo spirito del

    Medioevo. Ne studiò la storia e le tradizioni, fino a impadronirsene più

    compiutamente di molti studiosi italiani. Lavorò instancabile nelle sue polverose

    biblioteche, spossandosi nella calura soffocante dell'estate, quando l'aria di Roma era

    ancora infestata dalla malaria delle vicine paludi. E tutto egli contemplava e

    intraprendeva con spirtito vergine, come di fanciullo, assaporandoo il piacere della

    scoperta. E a Roma, dove visse per molti anni, concepì e scrisse la sua opera

    grandiosa, la Storia della città di Roma nel Medioevo, maestosa e solenne come il

    fiume Tevere sopra il quale, camminando lungo il ponte dell'isola di San Bartolomeo,

    gli era balenata l'ispirazione, nel 1853.

    Il regno della bellezza, che egli amorosamente inseguì e descrisse, non è più - o

    forse non è mai stato. E oggi che anche nel mondo della cultura infuria la piena

    limacciosa della civiltà tecnologica e dei suoi miti aberranti, il nome di questo

    storico-poeta sta cadendo nell'oblìo, insieme alle sue opere. La cosiddetta storiografia

    scientifica dei nostri giorni ha scoperto di non aver bisogno di simili storici, e la

    poesia dei nostri giorni, malata di spertimentalismo furbesco e di nichilsmo à la page,

    ha scordato il suo nome.

    Questo breve scritto vuole essere un omaggio alla memoria di Ferdinand

    Gregorovius, i cui libri hanno continuato ad essere letti fino a che non si è

    interamente smarrita la capacità di intendere l'unità profonda e indissolubile di verità

    e bellezza. Oggi, pare che per fare il mestiere di storico sia opportuno scrivere

    piuttosto male; altrimenti qualcuno potrebbe pensare - horribile dictu - che egli

    intenda fare della poesia. Mentre la storia, si sa, è una cosa seria, cioè una scienza.

    Logica conclusione, dal momento che gli scienziati - come ha osservato Paul

    Feyrabend - non solo si sono arrogarti il diritto di stabilire che il loro, e solo il loro, è

    un sapere di primo livello, ma anche quel che la società debba ritenere importante -

    guarda caso, la scienza - e cosa no - ossia, tutto il resto.

    A nostro giudizio, inveve, Gregorovius fu al tempo stesso un grande poeta e un

    vero storico; diciamo meglio: fu un vero storico appunto perché ebbe il dono di

    essere uno storico-poeta.

  • 3

    II.

    Ferdinand Gregorovius nacque il 19 gennaio 1821 a Neidenburg, nella Prussia

    Orientale, non lungi dalla frontiera con la Russia e che un tempo era stata la frontiera

    del glorioso e sfortunato regno di Polonia. La sua famiglia, benché stabilita da

    trecento anni nella Masuria, era di origine polacca e un tempo aveva portato il nome

    polacco di Gregorzewski. Il padre di Ferdinand, Timoteo, era consiglire di giustizia e

    aveva già avuto sette figli, si era trasferito a Neidenburg meno di un anno e mezzo

    prima della nascita dell'ottavo. La famiglia Gregorovius, comunque, si sentiva ormai

    tedesca, pur senza rinnegare le proprie radici slave; anzi, la simpatia per il nobile

    popolo d'origine ispirò una delle opere giovanili del futuro scrittore. I suoi antenati,

    per la maggior parte, avevano percorso la carriera di magistrati o di pastori

    evangelici.

    Il Gregorovius trascorse nella casa paterna i primi anni della sua vita, fino al

    1831. Fu in quel periodo che si verificarono due avvenimenti importanti: lo scoppio

    della rivoluzione polacca, repressa nel sangue dalle autorità zariste, e per la quale egli

    parteggiò entusiasticamente; e la morte della madre, poco prima della sua partenza da

    Neidenburg. In seguito egli avrebbe sempre ricordato la casa natale, i boschi di abeti

    e gli stagni e i laghetti fra le colline.

    Frequentò il ginnasio di Gumbinnen, in quella parte della Prussia Orientale

    prospicente la frontiera della Lituania: un paese anch'esso di laghi e di foreste di

    conifere, tra le quali, immensa, la Foresta di Rominten. A Gumbinnen il Gregorovius

    era ospite nella casa di uno zio paterno che svolgeva, come il padre, la professione di

    consigliere di giustizia. Frattanto la famiglia dello scrittore si era trasferita nel

    vecchio castello dei Cavalieri dell'Ordine Teutonico, che, restaurato, ospitava adesso

    il tribunale di Neidenburg. Ancora ricordi del passato, ancora una presenza quasi

    tangibile delle ombre medioevali. Questa circostanza, insieme al paesaggio maestoso

    e al tempo stesso malinconico della regione, esercitò un fascino potente sulla

    sensibilità romantica del Gregorovius.

    Politicamente, la famiglia dello scrittore rappresentava la borghesia tedesca di

    tendenza liberale, che in quegli anni stava vivendo il tramonto dei propri genuini

    ideali. Il liberalismo costituiva ormai, per essa, poco più che un retaggio del passato,

    un vestito sempre più logoro nella società germanica che la Prussia si apprestava a

    riunificare dall'alto, in maniera autoritaria, gettando le basi dello "Stato forte",

    militarista e imperialista, sotto il ferreo pugno di Bismarck. Ma negli anni '30 la crisi

    non era ancora esplosa e il liberalismo della borghesia tedesca era ancora idealistico e

    sincero, ispirato talvolta al più schietto romanticismo. Così, nel 1833, un fratello del

    Gregorovius partì per combattere in Grecia a fianco di quel popolo, contro il dominio

    turco; così, nel 1848, lo stesso Ferdinand, giovane di ventisette anni, pubblicò un

    opuscolo intitolato L'idea polacca, esaltando la lotta dei popoli per la conquista della

    libertà.

  • 4

    III.

    Nel 1838, a diciassette anni, il Gregorovius terminava il liceo e iniziava gli studi

    universitari nella capitale della Prussia Orientale: Königsberg, la città di Kant.

    Assecondando il desiderio paterno, egli frequentò la Facoltà di Teologia, ma senza un

    vero entusiasmo; sia perché non era intimamente portato verso quel genere di studi,

    sia per la mediocrità dei professori, che egli giudicherà poi tutti, tranne il von

    Leugerke, in maniera severa, accusandoli di vuota pedanteria. Già allora si

    manifestava, nel suo spirito intelligente, una repulsione istintiva per l'erudizione fine

    a sé stessa, per una cultura vecchia e nozionistica, pesantemente arroccata in una

    concezione del sapere accademica e presuntuosa. Su questi temi si sarebbe più tardi

    scontrato con l'ala più retriva e miope della scuola storiografica tedesca, tutta intesa a

    bandire ogni "sentimentalismo" dalla sfera dei suoi interessi, in nome di una pretesa

    oggettività di tipo scientifico.

    Nel 1841, sostenuti gli esami di teologia, Gregorovius lasciò l'università, ormai

    ben convinto che non sarebbe stata quella la sua strada. I suoi interessi prevalenti

    erano, in quegli anni, di natura filosofica. Lasciata Königsberg, fece il precettore

    nella natìa Neidenburg e in altre cittadine del paese, attendendo frattanto agli studi di

    filosofia nell'Università di Königsberg. La sua dissertazione di laurea, discussa nel

    1844, si intitolava Sul senso del bello in Plotino e i neoplatonici e già dimostra come,

    sotto quelli filosofici, premessero in lui, per farsi strada, altri interessi più vicini alla

    sua vera indole, e cioè, in primo luogo, estetici. Nel 1845 pubblicava il suo primo

    libro, un romanzo dal titolo Werdomar e Wladislaw, d'ispirazione interamente

    romantica; l'anno dopo faceva ritorno a Königsberg, ove si sarebbe fermato sei anni.

    Esercitava adesso l'insegnamento, ma continuava la sua attività letteraria e

    cominciava a volgersi più decisamente verso il campo della storia, e specialmente

    della storia antica.

    Dopo il già ricordato L'idea polacca, del 1848, pubblicava nello stesso anno Il

    'Wilhelm Meister' di Goethe nei suoi elementi socialisti; nel 1849 Canti polacchi e

    magiari; e nel 1851 un dramma storico, La morte di Tiberio. Proseguiva intanto nei

    suoi studi storici e, incoraggiato dallo storico Drumann (che era stato, insieme al

    Voigt, suo professore all'università) dava alle stampe nel 1851 il suo primo lavoro

    storico, una Storia dell'imperatore Adriano e dell'età sua (Geschicte des römischen

    Kaisers Hadrian in seiner Zeit; terza edizione, Stoccarda, 1884). Ricordiamo che a

    Basilea, due anni dopo, usciva L'età di Costantino il Grande (Die Zeit Konstantins

    des Grossen, 1853) del Burckhardt, che rivelava, già nel titolo, una certa influenza

    dell'opera di Gregorovius.

    Nel suo studio sull'età dell'imperatore Adriano (tradotta e pubblicata in Italia, per

    la prima volta, nel 1910), il Nostro si accostava per la prima volta, in maniera

    organica, al grande passato di Roma, che sarebbe divenuto la passione principale

    della sua vita di studioso, non come puro interesse archeologico ed erudito, ma come

    esigenza profonda di rievocazione. Gregorovius, per usare un'espressione di un altro

    grande storico, l'olandese Johan Huizinga (autore del celeberrimo Autunno del

    Medioevo) desiderava far risorgere il passato "in uno splendore di calda vita".

  • 5

    IV.

    Nel 1852 ebbe inizio la svolta decisiva nella vita del Gregorovius: l'incontro con

    l'Italia. Qui si trovava un suo amico, Luigi Borntränger, venuto, come tanti altri

    malati di tisi, in cerca di un clima più mite e soleggiato; e Ferdinand, in quell'anno,

    decise di raggiungerlo. Il suo spirito romantico ed entusiasta si rivela già dall'insolito

    itinerario di questo viaggio. Dapprima egli volle visitare la Corsica, e se ne innamorò

    al punto da pubblicare, due anni dopo, un'opera in due volumi, Corsica, mostrandosi

    egualmente sensibile al fascino della natura mediterranea e alla vicenda storica di

    quel popolo e di quel mare. La scoperta del Mediterraneo (che egli, in una pagina

    significativa dei suoi Diari, aveva sognato di "prendere al laccio") da parte di

    quest'uomo del Nord, di questo tedesco-polacco impregnato di spirito luterano e

    tuttavia innamorato, in maniera quasi sensuale, della civiltà classica: sono davvero

    molti i punti di contatto fra la biografia del Gregorovius e quella del suo grande

    compatriota, Friedrich Nietzsche, il cui Zarathustra, come scrive Liliana Scalero, "fu

    iniziato sotto il cielo alcionio della Riviera, da Nizza a Rapallo" ed è tutto pervaso

    "di colori wagneriani (foreste, montagne, pini,aquile, draghi e serpenti)".

    Il 2 ottobre 1852 Ferdinand Gregorovius giune nella Città Eterna, ove avrebbe

    vissuto per ben ventidue anni, interrompendo il suo soggiorno con frequenti

    escursioni in tutti gli angoli della Penisola. L'ispirazione per la sua opera

    monumentale gli venne improvvisa; così com'era venuta improvvisa, un secolo

    prima, allo storico inglese Edward Gibbon per la sua celebre History of the Decline

    and Fall of the Roman Empire (1776-1788). Il 24 novembre 1853, passeggiando sul

    Ponte Quattro Capi all'altezza dell'isola San Bartolomeo, gli venne l'idea di scrivere

    la storia di Roma durante il Medioevo, come a Gibbon era venuta quella di scrivere la

    decadenza e caduta dell'Impero Romano aggirandosi tra le rovine del Foro.

    Da allora, per un ventennio, egli avrebbe lavorato indefessamente nelle

    biblioteche e negli archivi di Roma e d'Italia, alla ricerca dei documenti di quel

    passato che tanto lo affascinava. La Storia della città di Roma nel Medioevo

    (Geschichte der Stadt Rom in Mittelalter), in otto volumi, uscirà negli anni dal 1859

    al 1873, procurandogli una vasta fama in Italia anche più che in Germania.

    Contemporaneamente pubblicava altri libri, quasi tutti di argomento italiano, frutto

    dei suoi viaggi appassionati alla ricerca del passato, della bellezza, delle tradizioni, e

    sempre mostrandosi libero e indipendente dai preconcetti degli studiosi accademici

    del suo tempo. Nel suo Nelle Puglie (Firenze, 1882), ad esempio, narrando l'incontro

    con uno studioso autodidatta dell'Italia meridionale, scriveva che una persona simile,

    nella sua patria, non avrebbe tardato a coprirsi di ridicolo a causa della miopia degli

    ambienti accademici ed eruditi, ed elogiava invece una tale spontaneità d'interessi e

    una società nella quale essa era non solo possibile, ma apprezzata e incoraggiata.

    Questa semplice osservazione può dare un'idea della modernità di vedute, della

    spregiudicatezza senza ostentazione e senza retorica che furono l'abito mentale dello

    storico di Neidenburg. È una lezione che ancora oggi dovrebbe essere mediata da

    molti eruditi e da molti studiosi di formazione esclusivamente accademica, e proprio

    qui, in Italia.

  • 6

    V.

    Fra il 1856 e il 1877, in un arco di tempo di ventun anni, veniva pubblicata l'opera

    forse più squisita del Gregorovius poeta: quei cinque volumi dei Wanderhjare in

    Italien, che avrebbero consacrato la sua fama tra il pubblico italiano. Il titolo,

    pressoché intraducibile, potrebbe suonare Passeggiate per l'Italia o, meglio, Anni di

    pellegrinaggio in Italia, ed è già un chiaro programma del contenuto dell'opera. Essa

    venne tradotta e pubblicata in lingua italiana solo negli anni 1906-1909, cioè con un

    ritardo di circa mezzo secolo, col titolo Itinerari in Italia, a Roma; e, parzialmente, a

    Napoli, nel 1930. A causa della mole, non mancarono le traduzioni di singoli volumi;

    ed ecco apparire Nelle Puglie (traduzione di R. Mariano, Firenze, 1882); le

    Passeggiate romane (Roma, 1965); le Passeggiate in Campania e Puglia (Roma,

    1966). Ricorderemo infine che una prima traduzione dei Wanderjahre era apparsa a

    Milano sin dal 1872, nella traduzione di A. di Cossilla.

    Si tratta di un'opera di deliziosa fattura, in cui stile, erudizione, poesia si fondono

    in un tutto armonico di meravigliosa potenza e immediatezza. Esistono pochi altri

    esempi di uno scrittore che abbia saputo fondere altrettanto felicemente la sua vasta e

    profonda cultura con un'ambientazione poetica semplice, ispirata, tale da rapire il

    lettore e fargli quasi vedere - con gli occhi della mente - i luoghi e le bellezze

    descritte. Perché questo è il pregio principale dei Wanderjahre, quello di raccontare

    per immagini, quasi pittoricamente, con infinita leggerezza e finezza di pennellata,

    con rara freschezza e spontaneità d'impressioni e d'immagini. In molti hanno poi

    tentato di imitare questo modo di raccontare l'Italia (uno per tutti, il dantista austriaco

    Alfred Bassermann), ma nessuno ha saputo coniugare con tanta maestria la bellezza

    dello stile e la solidità del contenuto. Per trovare un paragone adeguato, la mente

    corre indietro al filosofo più amato dal Nostro, Platone, e alle sue splendide

    descrizioni paesaggistiche che fanno da sfondi a dialoghi come il Fedro.

    Se poi ci si interroga sulle ragioni del fascino così particolare che spira dalle

    pagine di quest'opera oggi ingiustamente dimenticata, possiamo individuarne due

    ordini principali. Il primo nasce dallo stesso genere letterario, la narrativa di viaggio

    (oggi quasi scomparsa dall'Europa, e costretta a migrare verso lidi esotici, come nel

    caso di Bruce Chatwin: quasi che la bellezza stesse nelle cose descritte, e non

    nell'occhio che la sa cogliere e rappresentare). Il secondo deriva dalla semplicità e

    spontaneità dell'animo del Gregorovius, che sempre sa osservare con sguardo nuovo e

    incantato il miracolo della natura e della storia, e che rimase interiormente giovane

    per tutta la vita (un po' come il "fanciullino" del Pascoli) grazie a questa capacità,

    oggi in via di estinzione, di saper vedere il mondo come se il suo spettacolo ci si

    offrisse vergine e sontuoso come nel primo giorno della creazione. Romanticismo:

    certo; ma non stucchevole, non manierato. Almeno nelle sue pagine migliori (che

    sono sicuramente la maggioranza), il Gregorovius sa comunicare al lettore una

    vivacità e spontaneità d'ispirazione assolutamente convincenti. Rileggerle ai nostri

    tempi, quando inquinamento e speculazione edilizia hanno distrutto per sempre le

    infinite bellezze descritte centocinquant'anni fa da questo straniero innamorato del

    nostro paese, costituisce una testimonianza preziosa di quanto abbiamo perduto per

  • 7

    nostra colpa, senza una lacrima di pentimento, in cambio del piatto di lenticchie di

    una modernità senz'anima e senza progresso.

    VI.

    Nel 1859 usciva il primo volume della Storia della città di Roma nel Medioevo;

    nel 1873 - quattordici anni dopo - l'ottavo ed ultimo. Essa aveva a tal segno assorbito

    l'interesse e l'operosità del Gregorovius, che tutto quanto d'altro egli pubblicò in

    quegli anni, lo scrisse - come egli stesso ebbe a dire - unicamente per distrarsi. La

    Storia di Roma costituisce un caso unico nella storiografia del XIX secolo. Essa è, al

    tempo stesso, così alta opera di poesia e così riuscita opera di storia, da non avere

    riscontro in alcun'altra opera.

    "Ciò che un tempo fu gioia e dolore - ebbe a scrivere lo storico Huizinga - oggi

    deve diventare conoscenza, come, del resto, anche nella vita del singolo." Tale è lo

    spirito che pervade quest'opera grandiosa, dallo stile "monumentale" (come è stato

    definito), che si snoda lenta e maestosa traverso dieci secoli di storia italiana: dal

    sacco di Alarico nel 410, a quello dei "lanzichenecchi" di Carlo V nel 1527. Vi è un

    senso di oscura fatalità che accompagna la rievocazione del Gregorovius, un

    superiore disincanto che conferisce ai protagonisti di questo grandioso dramma

    storico una sorta di epicità e un pathos tutto particolare, dovuto al fatto che solo noi,

    retrospettivamente, sappiamo come si concluse la parte da loro interpretata.

    Vi sono, nell'opera, degli squarci di una potenza narrativa eccezionale. Ecco come

    il Gregorovius descrive l'ingresso dell'imperatore Onorio a Roma nell'anno 403, poco

    prima del sacco di Alarico:

    "La travagliata città sembrava essersi adornata come una sposa che corre

    incontro al promesso aspettato da lungo tempo; ma la sposa era vecchia, e lo sposo

    non era che un debole." (Storia della città di Roma nel Medioevo, Roma, 1972, vol.

    1, p. 91).

    Ed ecco la stupenda immagine del re ostrogoto Totila che cavalca davanti

    all'esercito nemico sul campo di Tagina (Gualdo Tadino), nel 552, la vigilia della sua

    ultima battaglia:

    "Nella sua armatura splendente d'oro, elmo e lancia adorni di crini purpurei

    agitati dal vento, egli si ergeva quel mattino sul suo superbo destriero dando

    spettacolo ai due eserciti schierati della propria abilità di cavallerizzo. Cavalcando

    a briglia sciolta tracciava cerchi sempre più stretti sulla pianura, ora curvandosi

    sull'arcione, ora gettandosi su un fianco e sull'altro con giovanile destrezza mentre

    scagliava in aria la lancia che poi riafferrava senza inrerrompere il galoppo serrato

    del suo destriero. La notte stessa era già morto." (Op. cit,, vol. 1, p. 269).

    Sono questi contrasti tra un'immagine di vita gagliarda e una di morte repentina,

    questi forti chiaroscuri che conferiscono alla Storia di Roma quella plasticità

  • 8

    vibrante, fatta di stacchi sapienti e improvvisi d'ombrae di luce, e quel particolare

    epos di sapore quasi omerico, che ricorda il malinconico dialogo fra Glauco e

    Diomede:

    "…Quale delle foglie,

    tale è la stirpe degli umani. Il vento

    brumal le sparge a terra, e le ricrea

    la germogliante selva a primavera.

    Così l'uom nasce, così muor…"

    (Hom., Iliade, VI, tr. di Athos Sivieri).

    VII.

    Il mondo accademico tedesco non capì Gregorovius, o lo capì solo in parte.

    Tipico esempio in proposito è l'atteggiamento tenuto da Theodor Mommsen, la cui

    Storia di Roma era apparsa, in tre volumi, negli anni 1854-56. Mommsen era il

    classico rappresentante della tendenza "positivista" della storiografia tedesca,

    incoraggiata dalle tesi di Hyppolite Taine, e che si poneva programmaticamente in

    opposizione al Romanticismo. Considerato uno dei massimi storici del suo tempo,

    Mommsen fondava la propria conoscenza della storia romana repubblicana e

    imperiale su una imponente documentazione epigrafica e numismatica, prima ancora

    che sulle fonti letterarie greche e latine. Per lui, fare la storia alla maniera del

    Gregorovius era un'eresia. L'episodio che ora vogliamo riportare, e che fu riferito da

    un personaggio del calibro del principe von Bülow (nelle sue Memorie), risulterà

    illuminante sui suoi metodi di studioso e sul suo carattere di uomo.

    "[Mommsen]conobbe Gregorovius nel salotto della contessa Lovatelli, sorella

    del duca di Sermoneta, donna di grande intelligenza e cultura, e la loro

    conversazione cadde sui destini della città eterna, tema di comune interesse per

    entrambi. Gregorovius con molto calore si diffondeva in particolari sul Medioevo

    romano e Mommsen ad un certo punto, interrompendolo: - Posso darvi un consiglio?

    Scrivete una storia di Roma nel Medioevo. - Io stesso ho udito raccontare più volte

    l'episodio dalla bocca della contessa. Per comprenderne appieno il significato,

    bisogna notare che l'opera di Gregorovius era già pubblicata da un pezzo e che

    Mommsen, che certo la conosceva, voleva dire che era tutta da rifare." (cit. nella

    Introduzione alla Storia di Roma nel Medioevo di Vittoria Calvani, vol. 1, p. 10).

    Ed ecco Theodor Mommsen visto dal Gregorovius:

    "Si trova qui [cioè a Roma]Theodor Mommsen. Nella sua figura c'è misto non so

    che di brio giovanile e di pedante scrupolosità. Questo fatto mi spiega lo spirito della

    sua opera, notevole per erudizione, per acutezza critica e distruttiva, ma che è però

    più un libello che una storia." (F. Gregorovius, Diari romani, Milano, 1895, p. 184).

  • 9

    E ancora:

    "È venuto a Roma Mommsen che si trattiene ancora qui. È certamente, come

    Richard Wagner, ammalato di megalomania. I professori della cattedra non mi

    vogliono riconoscere, perché lavoro in libera attività, perché non occupo alcun posto

    burocratico e, 'horribile dictu', possiedo un po' d'ingegno poetico. Non mi possono

    perdonare il mio senso per la bella forma. La 'Stoia di Roma' è stata accolta in

    silenzio e con levar di spalle dai pedanti della Germania." (F. Gregorovius, Ibidem,

    p. 519).

    Uno sfogo? Certo; ma senza acrimonia e senza amarezza. L'amarezza non faceva

    parte del carattere del Gregorovius, come non ne facevano parte il conformismo

    culturale e la divinizzazione della storia erudita. In quanto temperamento romantico,

    era un attardato e sapeva di esserlo; non lo ostentava e non se ne crucciava. La

    "scuola tedesca" seguiva le orme di Leopold von Ranke, il cui motto: "I fatti, dateci

    solo i fatti" era già di per sé tutto un programma. Un programma che Gregorovius

    non condivideva affatto, lontano com'era dalla sua sensibilità storica e artistica. Egli,

    quindi, ebbe parole severe per l'opera del Ranke, circa la quale si espresse in questi

    termini:

    "Ranke nella storia conosce soltanto l diplomazia - non conosce il popolo. Ha un

    delicatissimo dono di combinare e perspicacia logica, ma solo come in un teatro

    anatomico. Come storico lo paragono ad Alfieri poeta." (F. Gregorovius, Ibidem, p.

    328).

    Ma quell'apprezzamento di cui gli fu avara la sua Germania, o almeno di cui gli

    furono avari gli ambienti accademici tedeschi, gli giunse ampio e meritatissimo in

    Italia. L'8 marzo del 1876, avvenuta ormai l'annessione di Roma e anche di Venezia,

    il Gregorovius veniva nominato solennemente cittadino romano. E intanto uscivano

    tutta una serie di edizioni in lingua italiana della Storia di Roma nel Medioevo,

    compresa una a spese del comune di Roma.

    VIII.

    La sua opera fondamentale è passata attraverso il fuoco di fila di due opposte

    critiche: quella degli studiosi tedeschi, che la giudicarono troppo "italiana", e quella

    degli italiani, che lamentavano in essa la presenza di un ingombrante nazionalismo

    germanico. Questo dimostra, se non altro, la difficoltà esistente per uno straniero che

    si accinga a scrivere la storia di un'altra nazione. Ma veniamo alla prima accusa: lo

    stesso Gregorovius ce ne parla. In quegli anni, decisivi per la formazione dello Stato

    unitario germanico di matrice bismarckiana, ancora il Ranke, "tutto fuoco e fiamme",

    esclamò rivolto al Gregorovius:

  • 10

    "L'impero tedesco è l'avvenimento più grande dell'umanità." [E

    poi:]"Rimproverò alla mia 'Storia di Roma' di essere scritta in senso italiano." (F.

    Gregorovius, Ibidem, p. 488).

    Per un lettore italiano, non è facile dire se vi fosse un fondo di verità in questa

    critica. Certo, il Gregorovius era innamorato dell'Italia, e ciò può averlo indotto -

    come suole avvenire a tutti gli innamorati - a nasconderne inconsciamente i difetti,

    per esaltarne invece i lati positivi. Non sembra, tuttavia, che sia incorso troppo spesso

    in un simile abbaglio: da ciò lo trattenevano sia il suo senso storico, sia il suo stesso

    patriottismo tedesco. Egli certo non tentò di minimizzare, e anzi mise a nudo in

    maniera perfino impietosa, la decadenza morale dei Romani durante il tardo Impero,

    così come quella che travagliò, mille anni più tardi, l'istituzione della chiesa cattolica.

    Come tedesco, nella caduta di Roma antica egli vedeva il sorgere di una nuova

    società, più sana e vigorosa, sulle rovine di uno Stato che aveva esaurito la sua

    funzione storica; e questa nuova società fu opera dei popoli germanici convertiti al

    cristianesimo. Come luterano, poi, egli vedeva nella caduta di Roma nelle mani dei

    lanzichenecchi, nel 1527, il castigo divino per la degenerazione del potere temporale

    dei Papi e per la spaventosa corruzione morale della chiesa cattolica. Una tesi, in

    fondo, molto simile a quella di s. Agostino nel De Civitate Dei, o di Orosio nelle

    Historiae adversus paganos la dimane del sacco alariciano del 410: Dio fa impazzire

    coloro che vuol perdere, e li abbandona (come afferma san Paolo nella Lettera ai

    Romani) al loro stesso orgoglio rovinoso.

    Dopo quanto si è detto, apparirà chiaro come un maggior fondamento potrebbe

    trovare, semmai, la seconda critica di cui parlavamo, quella di uno spirito

    nazionalistico tedesco presente in vari luoghi dell'opera. Evidente, in effetti, è la

    simpatia dell'Autore per i suoi connazionali (molto diverso, in questo, dal Nietzsche,

    che li aborriva addirittura); non sarebbe neanche il caso di citare i numerosi passi ove

    essa si palesa. Valga per tutti il commosso ritratto conclusivo tracciato del re goto

    Totila:

    "Se è vero che la grandezza di un uomo deve essere misurata dagli ostacoli che

    ha superato e dalle lotte che ha sostenuto contro le avversità della sorte, Totila è

    degno dell'immortalità più ancora di Teodorico. Non solo, infatti, nella sua

    giovinezza rimise in piedi il decaduto regno gotico con geniale energia, attraverso

    impareggiabili battaglie, ma lo difese per undici anni contro Belisario e contro gli

    eserciti di Giustiniano. E se poi il valore di un uomo è dato dalle virtù sublimi

    dell'animo, pochi sono gli eroi che nell'antichità e nei secoli successivi per

    moderazione, giustizia e generosità d'intenti furono pari alla grandezza di Totila."

    (F. Gregorovius, Storia di Roma nel Medioevo, cit., vol. 1, p. 269).

    Il fascino del mondo germanico medioevale, però, era in lui temperato - o meglio

    fuso - con l'ammirazione per la grandezza della civiltà di Roma e dell'Italia:

    dall'incontro fra questi due elementi nacque, traverso un lunghissimo e faticoso

    processo storico, la nuova Europa delle nazioni moderne. Tale considerazione gli

  • 11

    consentiva di essere obiettivo ed equanime anche nei giudizi su personaggi del

    Medioevo germanico, per i quali nutriva la più viva ammirazione, ma senza

    nasconderne errori e difetti. Teodorico, per esempio, gli appariva "il più nobile

    straniero che mai abbia dominato su Roma e sull'Italia" (cit., vol. 1, p. 203), tuttavia

    non cercò di minimizzarne, come altri storici hanno fatto, la responsabilità

    nell'uccisione di Simmaco e Boezio:

    "(…) un uomo come Boezio, universalmente noto come autore del 'De

    Consolatione Philosophiae', è un accusatore troppo autorevole perché la sua morte,

    fosse anche avvenuta nell'età più oscura della storia, possa apparire men che

    barbara." (cit. vol. 1, p. 199).

    E ancora, sulla condanna a morte di Severino Boezio:

    "Questo gesto dispotco è la vera grave macchia da cui la figura di Teodorico non

    potrà mai essere mondata." (cit., vol. 1, p. 201).

    Comunque, per comprendere la posizione di Gregorovius nei confronti di un certo

    nazionalismo culturale, il suo orgoglio di esser tedesco, bisogna tener presente il

    particolare momento storico in cui egli visse e compose le sue opere. Per uno

    studioso del Medioevo che, come lui, considerava la nascita dell'Europa moderna

    come opera dell'incontro e della fusione della maschia stirpe germanica e della

    civilisima società romano-cristiana, la seconda metà dell'Ottocento costituì quasi una

    risurrezione delle sue aspirazioni ideali. Risorgeva, dopo un millennio, la potenza

    dell'Impero tedesco (e il Gregorovius, nel 1870, si affrettò sui luoghi della guerra

    franco-prussiana scrivendo una quantità di articoli per la stampa tedesca), e, con la

    presa di Roma da parte del La Marmora, risorgeva l'Italia, cui venivano restituite, per

    la prima volta nella storia, la sua unità politica e la sua gloriosa capitale: e risorgeva

    in chiave ghibellina e anti-clericale, proprio com'era nei voti dello storico tedesco.

    Tutto questo, al Gregorovius, dovette apparire quasi profetico, un auspicio che i

    tempi gloriosi della civiltà romano-germanica sarebbero ancora tornati.

    Mai, però, il suo entusiasmo patriottico degenerò in brutale nazionalismo o in

    esaltazione dell'imperialismo. Abbastanza profonde erano in lui le radici del pensiero

    liberale, l'ammirazione per i popoli in lotta per l'indipendenza, l'avversione nei

    confronti di ogni assolutismo, politico o religioso che fosse. E in questo

    atteggiamento moderato, anche le antiche radici polacche della sua famiglia avevano

    la loro parte di merito. Ecco le parole con le quali egli chiudeva l'ultimo libro, il

    quattordicesimo, della sua opera monumentale:

    "Ho parlato delle sventure di Roma e dell'Italia, della fatale partecipazione cui,

    fin dai tempi dei Goti, la Germania fu chiamata. Perciò posso ritenermi fortunato

    perché la storia della città di Roma nel Medioevo è finita, in realtà, soltanto con i

    recenti avvenimenti [del 1870]. Una fortuna ben rara mi ha concesso non solo di

    scrivere e portare a termine questa storia, ma addirittura di viverne l'atto finale,

  • 12

    assistendo all'estrema espiazione di quei destini e di quelle sventure di Roma e

    dell'Italia e della Germania che ho ritratto in questi libri." (Cit., vol. 6, P. 351).

    IX.

    Il suo orientamento romantico, che era un fatto istintivo e non di scuola, gli

    permetteva dunque di guardare al Medioevo sgombrando il campo dalla vecchia

    concezione illuministica, che in quei secoli vedeva soltanto barbarie e supestizione.

    Tale era stata la convinzione di Montesqieu, tale quella di Edward Gibbon. L'unico,

    fra gli storici del Settecento, che avesse intuito la presenza nel Medioevo di qualcosa

    d'altro (a parte, naturalmente, Giambattista Vico) era stato William Robertson: mente

    tanto più attenta ai chiaroscuri della storia di quella di Gibbon o dello stesso David

    Hume (per non parlare di Voltaire), come abbiamo cercato di dimostrare in un

    apposito studio.

    Per meglio comprendere la disposizione del Gregorovius verso i cosiddetti "secoli

    bui" (bui, secondo la filosofia dei Lumi), si legga ciò che egli dice di Venezia, città in

    cui soggiornò e lavorò alacremente:

    "Venezia è un poema, il più bello che sia stato creato da un popolo, e questo era

    un popolo di pescatori, di barcaioli e di mercanti. In niun altro punto d'Italia si

    riconosce così chiaramente la meravigliosa fantasia creatrice e la grazia di cui è

    ricca questa nazione." (F. Gregorovius, Diari romani, cit., p. 376).

    Gibbon, che pure trattò - sia pure sommariamente - della fondazione di Venezia,

    non sarebbe mai stato capace di simili parole. E questo non è che un esempio.

    Abbiamo parlato, più sopra, del profondo senso di fatalità che pervade tutte le

    pagine della Storia della città di Roma nel Medioevo. In effetti, se la concezione

    storica degli illuministi, di un Gibbon per esempio, è essenzialmente lineare e

    progressiva, quella dei romantici, Gregorovius compreso, appare piuttosto (sulla

    scorta, appunto, di Vico) una concezione ciclica. Gibbon guardava alle "tenebre" del

    passato con l'orgogliosa sicurezza di un gentiluomo inglese del Settecento, che ha

    fede che quelle tenebre non potranno mai più tornare e che il mondo (si badi, il

    mondo intero) stia irresistibilmente marciando verso "le magnifiche sorti e

    progressive". Ecco, infatti, come lo storico inglese concludeva le sue Osservazioni

    generali sulla caduta dell'Impero Romano d'Occidente, inserite a conclusione del

    capitolo XVIII della History of the Decline and Fall:

    "Dopo la prima scoperta delle arti, la guerra, il commercio e lo zelo religioso,

    hanno diffuso tra i selvaggi del vecchio e del nuovo mondo questi inestimabili doni:

    sono stati propagati e non possono più andare perduti. Possiamo dunque

    raggiungere questa ottimistica conclusione: ogni età del mondo ha accresciuto e

    continua ad accrescere la reale ricchezza, la felicità, la saggezza e forse la virtù del

    genere umano." ( Edward Gibbon, Decadenza e caduta dell'Impero Romano, Roma,

    1973, vol.m4, p. 70).

  • 13

    Insomma, secondo lui, l'unica possibile minaccia per una civiltà è di natura

    esterna: e poiché tutti i "sevaggi" della terra stavano entrando a godere, ai suoi tempi,

    dei "benfici" della civiltà stessa (il che escludeva la minaccia di nuove invasioni

    barbariche ai danni di società civilizzate), la felice conclusione era che la civiltà in

    quanto tale non avrebbe mai più subito minacce e, quindi, non avrebbe potuto far

    altro che aumentare sempre più. Sarebbero aumentate sicuramente la ricchezza, la

    felicità e la saggezza; solo la virtù non era cosa scontata che aumentass; ma, nel

    complesso, si poteva godere della confortante sensazione di vivere in un'epoca

    radiosa della storia, raggiunta grazie all'accumulo incessante di elementi di progresso.

    La visione storica del Gregorovius è più problematica; l’idea del “progresso” vi è

    sostituita dall’idea del “fato”, un concetto quasi greco-romano (nel senso omerico e

    virgiliano). Non è un caso che la Germania, patria di Gregorovius, abbia prodotto poi

    uno Spengler, la cui concezione storica è improntata a un cupo pessimismo (come,

    del resto, quella di Heidegger); e che l’Inghilterra, patria di Gibbon, abbia poi visto la

    filosofia della storia di un Toynbee, fiduciosa nel futuro della civiltà (come lo è, fino

    a un certo punto, quella de Russell).

    Ecco, ad esempio, come il Gregorovius descrive la discesa in Italia

    dell’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo, colui che aveva acceso tante speranze

    nell’animo di Dante Alighieri e di tanti altri suoi contemporanei, ai primi del 1300:

    “L’opposizione dei guelfi a Roma, in Toscana, in Romagna e nella inquieta

    Lombardia, l’esatta conoscenza dei propositi di Roberto [d’Angiò], in breve la forza

    degli eventi avevano già trasformato quest’imperatore, inizialmente animato soltanto

    dal desiderio di fare del bene, nel capo dichiarato dei ghibellini. Come i suoi grandi

    predecessori anch’egli si vide costretto a combattere i propri avversari ricorrendo

    all’aiuto dei partiti e alla fine come quelli, lontano dalla Germania e privo di

    appoggi, perì travolto dalla lotta contro le fazioni italiane. Il destino si ripeteva con

    la regolarità di una legge storica.”F. Gregorovius, Storia di Roma nel Medioevo, cit.,

    vol. 4, p. 38).

    Ed è questo sentimento della fatalità storica, senza dubbio, che conferisce alla

    Storia della città di Roma nel Medioevo tanta parte di quel fascino particolare, che

    non deriva solo dall’eccellenza letteraria, ma anche e soprattutto dall’intensità della

    partecipazione.

    X.

    Un altro aspetto caratteristico della Storia della città di Roma nel Medioevo è

    l’anticlericalismo. Come si è già accennato, per il Gregorovius – uomo di fede

    politica liberale e di credo religioso luterano – lo Stato del papa e l’organizzazione

    cattolica, quali si erano venuti delineando nel corso del Medioevo, rappresentavano

    una degenerazione totale, un autentico rigurgito di paganesimo blasfemo.

  • 14

    Trattando del consolidamento dell’Impero Romano cristiano dopo Costantino, lo

    storico tedesco, nei primi libri della sua opera, non cerca di sminuire la portata

    mondiale dell’opera svolta dalla chiesa cattolica, né il ruolo decisivo da essa

    esercitato nella formazione della società altomedievale, sorta dalle rovine del mondo

    antico. Al tempo stesso, però, egli vede lucidamente come la diffusione e il

    rafforzamento del messaggio cristiano fra le nazioni romano-germaniche

    procedessero di pari passo con un inevitabile processo di accentramento politico, di

    corruzione morale, di conservatorismo sociale e culturale. La storia della nascita e

    dello sviluppo della potenza temporale dei papi è la storia della decadenza spirituale

    della chiesa cattolica e reca in sé, fin dall’inizio, i germi della futura rovina. Di qui il

    tono cupo e pessimistico delle pagine dedicate al Papato nell’età medioevale, la cui

    parabola culmina nella nemesi grandiosa e terribile del sacco di Roma del 1527, ad

    opera delle soldatesche di Carlo V.

    “La caduta di Roma ad opera degli imperiali fu un fatto senza precedenti. Il

    nemico non l’aveva accerchiata, non l’aveva assediata, non l’aveva vinta per fame

    né spaventata con un colpo di cannone. Quella caduta dunque tornò a disonore del

    governo pontificio come del popolo romano. Roma era diventata una effeminata città

    di preti e la servitù e le dissolutezze del pontificato di Leone X avevano snervato il

    suo popolo. I Romani, inoltre, odiavano il governo pontificio e molti ne desideravano

    la rovina ad ogni costo, sperando che l’imperatore si sarebbe deciso a porre la sua

    sede in Roma. Ma quando, come un abulico gregge di pecore, si consegnarono al

    nemico, dovettero rassegnarsi a un destino più tremendo della morte: Genova,

    Brescia, Milano, Prato avevano dato una piccola prova di ciò che sarebbe toccato a

    Roma. Mentre le torme nemiche si gettavano nelle strade uccidendo chiunque

    incontrassero, i cittadini accorrevano a frotte agli altari di quei santi che non

    potevano più difenderli.” (F. Gregorovius, Storia di Roma nel Medioevo, cit., vol. 6,

    p. 286).

    Questa dissoluzione morale, questo gretto spirito di reazione e di conservazione

    ad ogni costo, furono appunto le crepe che minarono la solidità dell’edificio secolare

    dello Stato della Chiesa, e che ne produssero la rovina finale. Il Gregorovius, che

    nella Roma di Pio IX visse lungamente e che vi attese alla sua opera monumentale, fu

    spettatore della caduta finale del potre temporale; caduta lungamente preparata, a suo

    giudizio, da una serie pressocché ininterrotta di errori, di egoismi e di cecità di fronte

    ai nuovi tempi e alle mutate esigenze, materiali e spirituali, della società moderna.

    “Quattordici secoli dopo la caduta dell’antico impero romano gli Italiani

    entrarono in Roma, come un popolo unito e libero, non perché poterono prendere

    d’assalto le mura Aureliane deboli per la vecchiaia, ma perché, dietro quelle mura, il

    papato, decrepito, andava in rovina, mentre il mondo circostante, trasformato sulla

    via del progresso, era in parte responsabile di quella rovina. Infatti solo quando

    l’idea della Chiesa era vitale e dominava il mondo, i papi, spesso stretti, in passato,

  • 15

    da gravi difficoltà, riuscirono, benché indifesi, a difendere e conservare il possesso di

    Roma.” (F. Gregorovius, cit., vol. 6, p. 350).

    Questo passo è di notevole interesse anche perché offre un buon esempio della

    concezione “hegeliana" della storia di Gregorovius. I grandi uomini e le grandi

    istituzioni sono quelli che incarnano e vivificano lo “spirito dei tempi”, le esigenze

    profonde della società. Ma non appena questa loro funzione positiva vien meno, essi

    sono destinati a cadere come le foglie secche, abbandonati – come un albero

    d’autunno – da ogni linfa vitale.

    La reazione della chiesa cattolica alla pubblicazione della Storia della città di

    Rioma nel Medioevo fu, naturalmente, del tutto negativa. Nel 1873 usciva l’ultimo

    volume di essa, e nel 1874 l’intera opera veniva posta nell’Indice dei libri proibiti.

    Per il Gregorovius, che tanto aveva lavorato nelle biblioteche della Roma papale,

    attingendovi larga messe di documenti e materiali, era un provvedimento che lo

    coglieva quando ormai non poteva più nuocergli. Ed egli, in proposito, poteva

    scrivere con una punta di orgoglio:

    “Se i preti avessero posto l’interdetto alla mia storia all’apparire dei primi

    volumi, l’opera non esisterebbe oggi perché allora mi avrebbero chiuso tutte le

    biblioteche di Roma. (…) Ma ormai essa è terminata e si spande per il mondo. Il

    papa stesso le fa ora la rèclame.” (F. Gregorovius, Diari Romani, cit., p. 529).

    Del resto, di lì a poco un altro studioso tedesco avrebbe ripagato la Santa Sede

    della delusione sofferta con la pubblicazione dell’opera del Gregorovius. Nel 1876

    era giunto in Italia, per la prima volta, lo storico Ludwig von Pastor, di Aquisgrana, il

    quale – grazie alla protezione di Leone XIII - potè avere libero accesso all’Archivio

    segreto vaticano e comporre la sua monumentale Storia dei papi dalla fine del

    Medioevo. La traduzione italiana, in ben ventuno volumi, terminò solo nel 1934 – sei

    anni dopo la morte dell’autore, che si era spento a Innsbruck nel 1928.

    XI.

    Ci siamo soffermati brevemente su alcuni aspetti per così dire ideologici della

    Storia della città di Roma nel Medioevo: il nazionalismo, il romanticismo,

    l’anticlericalismo. Ma vogliamo ribadire ancora una volta che i meriti principali di

    quest’opera non consistono tanto nelle sue tesie nei suoi presupposti culturali, ma

    nell’impareggiabile capacità di rievocazione in cui l’Autore ha saputo fondere arte

    letteraria e profonda consapevolezza storica. In quanto opera non solo di storia, ma

    anche di alta poesia, essa si sottrae alle inesorabili leggi dell’”invecchiamento” e

    acquista un valore atemporale.

    Ci sia dunque concesso riportare almeno alcuni dei brani più suggestivi di questa

    animata rappresentazione del passato. Il Gregorovius, per sua stessa ammissione,

    possedeva “un senso completo per la plastica, minore perla pittura” (F. Gregorovius,

  • 16

    Diari romani, p. 6), il che è confermato dalla sua carattristica bravura nell’arte del

    chiaroscuro, cui abbiamo già fatto cenno.

    Ecco, a titolo di esempio, l’ingresso nella Città Eterna dell’imperatore Onorio nel

    417, dopo il sacco di Alarico, la pace coi Visigoti e la cattura dell’usurpatore Attalo:

    “Mai l’ingresso di un imperatore in città fu più triste e vergognoso. Davanti al

    suo carro, in catene, camminava Attalo, coperto di un’infamia che l’imperatore

    condivideva in eguale misura. I Romani, coscienti della propria bassezza, accolsero

    il loro sovrano con acclamazioni servili, che mascheravano i taciti rimproveri

    all’indirizzo di Onorio [per non averli saputi difendere da Alarico], al quale erano

    ormai negati lo splendore degli allori di Stilicone e il titolo di trionfatore, preso in

    prestito dalla Musa di Claudiano.” (F. Gregorovius, Storia della città di Roma nel

    Medioevo, cit., vol. 1, p. 121).

    Sono immagini che sembrano scolpite nel marmo, e al tempo stesso così vive e

    movimentate, così pervase da un soffio contenuto di poesia epica, che si innalzano di

    molto sul livello letterario medio della storiografia dell’epoca.

    Ma ecco uno squarcio sul sacco di Roma del 1527:

    “Quando spuntò l’alba del 7 maggio, lo spettacolo che Roma offriva di sé era più

    orribile di quanto si possa immaginare: le strade ingombre di rovine, di cadaveri e di

    moribondi; case e chiese divorate dal fuoco, dalle quali uscivano grida e lamenti; un

    orribile trambusto di gente che rubava e che iuggiva; lanzichenecchi ubriachi,

    carichi di bottino o che si trascinavano dietro prigionieri.” (F. Gregorovius, cit., vol.

    6, p. 287).

    Ed ecco l’altra caduta di Roma, avvenuta millecento anni prima, e l’irruzione dei

    Visigoti in città sotto la guida di Alarico:

    “I barbari si riversarono in tutti i quartieri della città, cacciando davanti a sé

    branchi di fuggiaschi e massacrandoli. Poi si gettarono al saccheggio con furia

    bestiale. Seguendo il loro istinto selvaggio essi attaccarono i palazzi d’oro, le terme,

    le chiese e i templi, e, da veri padroni, svuotarono Roma rabbiosamente come se

    fosse stata una stanza piena di tesori.” (F. Gregorovius, Ibidem, vol. 1, p. 110).

    Una pagina degna di rivaleggiare col miglior Tacito, il quale pure, nelle sue

    Storie, aveva narrato il saccheggio di Roma alla fine del 69, durante la guerra civile

    fra Vitellio e Vespasiano; così come quella citata più sopra non teme il confronto con

    le analoghe scene descritte nella Storia d’Italia di Francesco Guicciardini.

    Questa descrizione dell’aspetto dell’Urbe nel VII secolo, al tempo della visita

    dell’imperatore bizantino Costante II, pare invece la fedele riproduzione di

    un’incisione del Piranesi, pervasa com’è da un gusto romantico per le rovine e i

    paesaggi archeologici in abbandono:

  • 17

    “Il tempio di Giove era da tempo in rovina; i bagni erano crollati, le fontane non

    avevano più acqua. Nell’anfiteatro i grandi muri di sostegno vacillavano, e l’erba

    cresceva dappertutto fittissima. Il palazzo imperiale, in parte ancora abitabile, era

    nel complesso tutto diroccato; gruppi di macerie ingombravano il Foro della Pace e

    gli altro fori, e soltanto la colonna del Foro diTraiano e quella di Marco Aurelio si

    ergevano maestose e incrollabili tra templi pericolant e biblioteche vuote dove, qua e

    là, qualche statua di artista greco o romano annerita dal fumo lottava contro l’oblio.

    Circo e teatri, curvi da tempo sotto il peso dell’età, decadevano paurosamente; il

    grande tempio di venere e Roma si era scoperchiato ed era quasi completamente

    crollato. Dovunque si posasse lo sguardo si vedevano emergere, in mezzo a decrepiti

    monumenti, chiese costruite coi materiali di quelli, conventi addossati ad essi o

    templi pagani trasformati in chiese cristiane.” (F. Gregorovius, Ibidem, vol. 1, p.

    372).

    Ed ecco un quadro dell'anfiteatro di Tito (comunemente detto Colosseo) al tempo

    del re ostrogoto Teodorico:

    “Nell’anno 500 alcuni sedili di marmo erano già rovinati e una parte dei portici

    aveva subìto dei danni mentre, dalla parte esterna, i magazzini e le botteghe situati

    entro le grandi volte erano ormai abbandonati. Le statue, collocatevi un tempo da

    Settimio Severo, erano state in parte trascinate via, probabilmente dai Vandali, e in

    parte erano rimaste, tutte mutilate, nelle loro nicchie. Il vecchio Circo, gigantesco

    edificio logorato da un uso secolare e segnato dalle intemperie, tradiva già nei colori

    e nell’aspetto esterno i caratteri della vecchiaia, proprio come il palazzo dei Cesari

    che gli stava accanto, dall’altra parte della strada.” (F. Gregorovius, cit., vol. 1, p.

    189).

    Bisogna però sottolineare che l’arte narrativa, nelle pagine della Storia della città

    di Roma nel Medioevo, non diviene mai un fatto a sé stante, puramente estetico e

    slegato dal tessuto del racconto. La plastica capacità descrittiva non è che un mezzo

    mirabilmente adatto alla rappresentazione dei contenuti, fuso con essi. Non c’è

    distinzione tra forma e contenuto: dalla loro unione nasce appunto il fascino tutto

    particolare di quest’opera.

    Quando il tumulto delle vicende narrate si placa per un momento esso cede il

    posto a una contenuta, assorta pausa di riflessione che, proprio nelle descrizioni, sa

    trovare un diverso ritmo, più semplice e raccolto, misurato e come scandito dagli

    archi di una navata. Chi abbia visitato con passione e con amore le chiese medioevali

    di Roma, le maggiori e le minori, difficilmente potrà non concordare col Gregorovius

    quando egli fa l’elogio della piccola basilica di San Giorgio in Velabro, presso l’Arco

    di Giano tra il Campidoglio e il Palatino, proprio per la sua atmosfera squisitamente

    semplice e raccolta:

  • 18

    “(…) si tratta di una piccola basilica a tre navate divise da sedici colonne di

    granito o di marmo; entrandovi ci si sente immersi, come accade in poche altre

    chiese romane, nell’atmosfera originaria del cristianesimo primitivo. La sua

    purissima forma basilicale, la nuda semplicità del suo interno, le pitture e le

    iscrizioni latine e persino greche giunte sino a noi dai primissimi secoli cristiani, il

    silenzio di sogno che avvolge quella valle immersa nei ricordi del pasato incantano

    col loro fascino il visitatore.” (F. Gregorovius, cit., vol. 1, p. 379).

    La Storia di Roma nel Medioevo non è solo una storia di papi e imperatori, guerre

    e trionfi, saccheggi e giubilei, speranze e rivoluzioni; è anche una vera e propria

    storia dell’arte della Città Eterna, paragonabile – nel suo genere – a Le pietre di

    Venezia di John Ruskin. I giudizi estetici sono meno arditi e sentenziosi che

    nell’opera dello scrittore inglese; ma, come in quella, l’Autore ci guida con

    commossa partecipazione fra le pietre ancor palpitanti di un passato affascinante.

    XII.

    Abbiamo detto del senso di fatalità che muove tutta la Storia della città di Roma

    nel Medioevo, della visione ciclica della storia da parte del Gregorovius; ed è giusto

    che ci soffermiamo ancora su questo aspetto dell’opera. Vi sono dei punti, nei quali

    l’Autore stesso ci illustra la propria idea di necessità storica assai meglio di quanto

    potrebbe fare qualsiasi commento. Ad esempio, eccolo esprimere un giudizio globale

    sulla personalità e la funzione storica svolta da un personaggio notevole del XIV

    secolo: Cola di Rienzo.

    “Il fascino con cui alcuni uomini ammaliano il mondo dipende dal fatto che essi

    sanno penetrare la coscienza del tempo. L’oscura illusione non basta di per sé sola,

    se dal velo che la circonda non sprizza un pensiero reale che getti all’intorno una

    luce improvvisa e tocchi una corda sensibile destando così l’entusiasmo, il qual

    eanch’esso si ammanta della stessa follia. Il tempo in cui visse Cola di Rienzo,

    traboccante di idee libertarie e di attese messianiche, portava nel proprio seno il

    germe di uno spirito nuovo. Nessuna meraviglia, perciò, se l’Italia stimò questo

    geniale romano come un eroe e un salvatore, quando spiegò arditamente la propria

    bandiera sulla vettadel Campidoglio. Poiché egli fu il vero profeta del Rinascimento

    latino.” (F. Gregorovius, Storia della città di Roma nel Medioevo, cit., vol. 4, p. 185).

    Se Cola, dunque, aveva conosciuto un momentaneo e apparentemente

    insipegabile successo, in quanto aveva saputo precorrere i tempi e portare alla luce

    ciò che oscuramente ribolliva nelle coscienze, il suo esatto rovescio è Arrigo VII di

    Lussemburgo, che perì nel corso di un’impresa nobile e sfortunata (restaurare il

    “giardino dell’Impero", per dirla con Dante: cioè l’Italia), perché era un sognatore

    che non aveva saputo interpretare lo spirito nuovo dei tempi, anzi era rimasto

    attardato rispetto ad esso. Ecco che cosa dice, a questo proposito, il Gregorovius:

  • 19

    “Eppure, benché la morte dell’imperatore sia sembrata al grande poeta [Dante

    Alighieri] un evento brutale e prematuro, un giudizio sereno dovrà riconoscere che il

    programma di Enrico era irrealizzabile perché l’epoca in cui fu concepito lo

    condannò. Esso non era che mero sogno ideologico e neppure Carlo Magno avrebbe

    potuto attuarlo.” (F. Gregorovius, Ibidem, vol. 4, pp. 50-51).

    C'è stato chi ha insinuato che anche il Gregorovius avrebbe soggiaciuto alla

    "frenesia storicistica" che tutto assolve e tutto giustifica, riferendosi, crediamo,

    proprio a codesta concezione della maturità o immaturità dei tempi rispetto a

    determianti uomini o a determinate idee. Paolo Rossi, ad esempio, nella sua Storia

    d'Italia in quattro volumi, scrive:

    "Sappiamo anche noi che che a partire dal Gregorovius, nella frenesia storicistica

    che tutto giustifica, Teofilatto, Alberico, Teodora, Marozia sono stati difesi a spada

    tratta e anche esaltati comne fondatori di una forte dinastia e persino come vindici

    della libertà laica e nazionale." (Paolo Rossi, Storia d'Italia, Milano, 1971, vol. 1, p.

    124).

    A noi sembra che (fatto salvo un certo hegelismo di fondo, cui si è già accennato)

    dall'opera del Gregorovius si possa evincere, semmai, una conclusione opposta. Egli

    non valutava l'operato storico dei singoli individui alla luce di astratti ideali o di

    prefissati giudizi di valore, ma sotto quella, estremamente concreta, del loro realismo

    politico. Ecco allora, per esempio, che proprio la valutazione sull'opera interrotta di

    Arigo VII suona di una chiarezza inequivocabile:

    "Tutti i contemporanei hanno lodato il lussemburghese come principe

    magnanimo, e forse nessun imperatore scese mai dalle Alpi con intendimenti così

    elevati e puri. Ma i mali d'Italia erano troppo profondamente radicati ed egli non

    potè guarirli. Contemporanei e posteri riconobbero che se quelli fossero stati

    curabili, nessuno sarebbe stato più adatto di lui a diventare il salvatore d'Italia;

    affermazione questa, che francamente può sollevare molti dubbi. Enrico VII morì al

    momento giusto, risparmiando al mondo un errore e forse a sé stesso l'odio degli

    uomini: sfortunato messia dell'Italia vissuto senza lasciare tracce durevoli della sua

    azione." (F. Gregorovius, Storia della città di Roma nel Medioevo, cit., vol. 4, p. 51).

    È strano che il Gregorovius sia stato accusato di storicismo e, implicitamente, di

    amoralismo; ancora più strano che lo si sia accusato d'indulgenza assolutoria verso

    tutto e verso tutti. Contrariamente a quanto ha lasciato intendere il Rossi, il giudizio

    morale non solo non viene escluso dalla Storia della città di Roma nel Medioevo, ma

    fa la sua comparsa quasi ad ogni pagina, come risulta dalle non poche citazioni sino a

    qui riportate. Ma sono giudizi morali che non appannano la lucidità del giudizio

  • 20

    storico; anzi, come nel caso della figura di Arrigo VII, lo rendono ancora più acuto e

    penetrante.

    XIII.

    Con il 1873, Ferdinand Gregorovius aveva pubblicato l'ultimo volume della sua

    grande opera, affidandola al giudizio non solo dei contemporanei, ma della posterità.

    Dopo i fatti di Porta Pia e la clamorosa caduta del potere temporale dei papi, la città -

    com'egli aveva previsto - cambiò completamente aspetto. Da un punto di vista storico

    egli ben comprendeva come ciò fosse inevitabile. Era giusto che la Città Eterna

    ridivenisse la capitale dell'Italia unita, e che scacciasse la fitta polvere che si era

    depositata su ogni cosa durante i lunghissimi anni del dominio pontificio. Egli, anzi,

    dalle ultime pagine della sua opera aveva salutato con sincero entusiasmo

    quell'evento, auspicando un avvenire luminoso per Roma, per l'Italia e per la

    Germania - le tre entità le cui storie gli erano sempre parse strettamente e

    ineluttabilemte intrecciate le une con le altre.

    Ma l'uomo Gregorovius non si esauriva tutto nello studioso e, come ogni vero

    artista, non poteva rimanere del tutto indifferente al vertiginoso mutamento dei tempi.

    La Roma di Pio IX aveva meritato di cadere, però in quella Roma provinciale e

    cosmopolita al tempo stesso, egli aveva trovato il clima ideale per lavorare alla sua

    Storia, immerso nel clima trasognato di quelle rovine, di quei ricordi che si era

    sforzato di far risorgere a nuova vita. A un diplomatico tedesco che lo aveva invitato,

    a suo tempo, a trasferirsi a Berlino , ove avrebbe trovato biblioteche ben più fornite

    che a Roma, aveva risposto significativamente che "nella frivola atmosfera di

    Berlino" (parole sue) non gli sarebbe riuscito di scrivere nemmeno una riga. Egli

    doveva necessariamente vivere a Roma, mentre scriveva la sua Storia, e infatti vi

    rimase per ventidue anni. Ma poi, quando Roma divenne la capitale d'Italia, quando

    l'atmosfera della corte "piemontese" scacciò il fantasma di quella pontificia, ecco che

    anche qualcosa d'inconfondibile andò irrimediabilmente perduto. Gregorovius non si

    sentiva più a suo agio in quella Roma così cambiata. Del resto, anche la sua grande

    opera era finita; che ci restava a fare?

    "Potrei invero rimanere ancora. Ma mi ripugna il pensiero di sopravvivere a me

    stesso nella solitudine e di invecchiare a Roma, dove tutto si rinnova e muta, dove

    l'incalzare di una nuova vita coprirebbe presto i miei antichi e cari sentieri e li

    renderebbe irriconoscibili." (F. Gregorovius, Diari romani, cit., p. 402).

    Così, nel 1874, Ferdinand Gregorovius lasciava Roma e andava a stabilirsi in

    Germania, ma non nella sua vecchia Prussia Orientale, in riva al Baltico, sibbene a

    Monaco, quasi cercando un equilibrio tra la sua nordica terra natale e le

    indimenticabili suggestioni del mondo mediterraneo, in mezzo alle quali aveva così a

    lungo vissuto. Continò tuttavia a fare dei brevi viaggi in Italia, perché questa gli

    mancava troppo per distaccarsene definitivamente.

  • 21

    Intanto lavorava alacremente. Fin dal 1858 aveva pubblicato il poemetto

    Euphorion, ispiratogli da un viaggio a Capri, che lo aveva rivelato poeta finissimo.

    Nel 1874 apparve Lucrezia Borgia, da documenti e corrispondenze del suo tempo

    (Lucrezia Borgia, nach Urkunden und Korrespondenzen ihrer eigenen Zeit); a partire

    dal 1877, Scritti minori perla storia della cultura (Kleine Schriften zur Geschichte

    und Kultur); nel 1879, Urbano VIII in conflitto con la Spagna e l'Impero (Urban VIII

    im Widerspruch zu Spanien und dem Kaiser). Poi, nel 1889, un'altra opera storica di

    vasto respiro, la Storia della città di Atene nel Medioevo, in 2 volumi (Geschichte der

    Stadt Athen in Mittelalter. Von der Zeit Justinianus bis zum türkischen Eroberung),

    preceduto da una biografia storica assai interessante: Atenaide, storia di

    un'imperatrice bizantina (Athenaïs, Geschichte einer byzantinischen Kaiserin), del

    1882. Infine, nel 1890 usciva l'ultimo suo lavoro storico, il saggio Le grandi

    monarchie, ossia gli imperi universali nella storia (Die Grossen Monarchien oder die

    Weltreiche in der Geschichte).

    Il 1° maggio 1891 Ferdinand Gregorovius moriva a Monaco. Per dare un'idea

    della vitalità del suo animo anche in età avanzata, diremo solo che, dopo la sua

    partenza da Roma, nel 1874, si era messo a studiare il greco per poter leggere i

    classici nell'originale; e ne scaturirono le sue opere storiche dedicate alla città di

    Atene e all'imperatrice Atenaide.

    Francesco Lamendola