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Rel. Silvana BARTOLI DELL’EDUCAZIONE QUAL MEZZO DI NAZIONALE RISORGIMENTO ( Michele Coppino, 1821)

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Rel. Silvana BARTOLI

DELL’EDUCAZIONE QUAL MEZZO DI NAZIONALE

RISORGIMENTO ( Michele Coppino, 1821)

Nel 1821 Michele Coppino pubblicò a Novara un saggio intitolato “Dell’educazione qual mezzo di nazionale risorgimento”. Il futuro ministro della Pubblica Istruzione vi affermava l’importanza della scuola nella costruzione di un popolo consapevole dei propri diritti e doveri; soltanto tale consapevolezza avrebbe potuto suscitare il bisogno di “risorgere” da una schiavitù secolare e assumere pienamente la responsabilità del proprio destino. Mi è sembrato interessante che tale saggio abbia visto la luce a Novara che fu tra le prime, se non la prima, ad occuparsi dell’istruzione popolare, ovvero di scuole rivolte a ceti sociali tradizionalmente lontani dagli studi liceali.

Nonostante l’opposizione di molta aristocrazia, e specialmente di molti cattolici nettamente contrari alla diffusione dell’istruzione, la Legge Casati mirava proprio a questo e quando arrivò, nel 1859, Novara si era già portata avanti col lavoro. Accanto al Liceo-Convitto di fondazione napoleonica (due conventi femminili trasformati in luogo di educazione esclusivamente maschile), la contessa Tornielli Bellini finanziò l’Istituto di Arti e Mestieri, comprendente le Scuole tecniche, le Scuole Elementari e Normali secondo il modello ideato da Giacomo Giovanetti. Si trattava di un progetto decisamente moderno: alla scuola dovevano essere uniti due convitti, maschile e femminile, che prevedevano egual numero di allievi e allieve; otto anni di corso per i maschi, sei per le femmine oltre alla pratica di un’arte o mestiere. Giovanetti si riservò l’incarico di realizzare il progetto, col preciso intento di evitare qualunque intromissione clericale; era infatti della scuola di Cavour: “libera Chiesa in libero Stato” significava prima di tutto istruzione non confessionale. La “Scuola di Arti e Mestieri” era una delle più importanti istituzioni educative del nascente Stato italiano e certamente il punto di partenza per tutta l’istruzione tecnica novarese. Studio e pratica vi erano affiancate come dimostra la collaborazione con le Officine Dell’Erra che realizzarono le parti in ghisa del trebbiatoio progettato dall’ing. Colli, insegnante presso l’istituto, appositamente per l’azienda agricola modello che Cavour aveva avviato nella sua tenuta di Leri. La drammatica foto di Mario Finotti dimostra le condizioni attuali dell’esperimento economico che ha dato il via alla politica risorgimentale.

Il termine Risorgimento indica un momento in cui un popolo si alza e conquista libertà e diritti. La recente frenesia di celebrazioni sembra aver azzerato qualunque distanza critica, è dunque lecito chiedersi se è stato così anche per le donne. Quali diritti hanno conquistato partecipando al Risorgimento, quale libertà? Ho quindi scelto di costruire un discorso interlocutorio su alcune donne ormai diventate icone del risorgimento, e altre lasciate ai margini o ignorate, e non è difficile capire perché … L’Ottocento ha indubbiamente regalato l’istruzione alle donne ma si è trattato di un’istruzione funzionale a un ruolo subordinato. Infatti se è vero che, sia pur faticosamente, la giovane Italia si preoccupava di fare gli italiani, resta la domanda: e le italiane? La dimensione educativa che “si addice alla donna” è ancora ben riassunta ne ‘L’alfabeto della signorina Mimì’, pubblicato nel 1877, lo stesso anno della Legge Coppino che definiva l’obbligatorietà dell’istruzione elementare per entrambi i sessi. Le lettere dell’alfabeto si traducono in immagini utili per insegnare / imparare la lettura, la scrittura e il proprio ruolo nella società: Dionigi studia con impegno per prepararsi a doveri difficili e impegnativi, Zelinda cuce con zelo mirabile.

Non si può dunque parlare dell’istruzione italiana come percorso univoco: si registra una differenza enorme tra maschile e femminile, e le maestre erano pagate meno dei maestri. La scarsa retribuzione appariva scandalosa a molti, ma sopratutto perché finiva per allontanare gli uomini lasciando troppo spazio alle donne, distratte così dai loro primari doveri di spose, madri, massaie. Anche la stampa cominciava ad accorgersene: 700 lire l’anno per i maestri, 500 per le maestre, l’I ride novarese parla addirittura di 300, ovvero meno di una lira al giorno, quando si sapeva che solo un salario di almeno 3 lire era indispensabile per non vivere in miseria. Carolina Imperatori, madre di Antonietta Torriani, futura Marchesa Colombi, iniziò a lavorare come maestra assistente nella scuola elementare femminile delle Canobiane nel 1842, con lo stipendio di 350 lire annue. I l fatto che molte fossero spinte dal bisogno non era un attenuante e nessuno si preoccupava della loro preparazione, sostanzialmente improvvisata fino a metà Ottocento, argomento che potrebbe essere utilizzato per dimostrare in qual conto sia stata tenuta l’istruzione pubblica nel nostro paese.

Nonostante ciò l’istruzione femminile fece irruzione nella società italiana dell’Ottocento producendo una svolta irreversibile. Nel corso di una generazione migliaia di maestre furono inviate in tutto il territorio nazionale facendo della scuola il luogo reale e simbolico dell’emancipazione, benché i tassi di evasione dall’obbligo restassero elevati. E le maestre, benché mal pagate e spesso denigrate, erano ragazze della piccolissima borghesia che vedevano in quel lavoro modesto una risposta al bisogno di decoro e indipendenza. Se la cultura restava, nell’opinione diffusa, un accessorio ornamentale e un po’ stravagante per una donna, l’istruzione necessaria al lavoro delle maestre diventava socialmente accettabile in quanto prolungamento sociale delle madri-educatrici. Cosa che non le salvava dalla derisione tradizionalmente rivolta alle donne istruite (si veda la dia 19) o da esperienze drammatiche come capitò a Italia Donati, che si suicidò per sottrarsi alle maldicenze di tutto un paese aizzato contro di lei dal sindaco a cui non aveva ceduto.

Nelle Istruzioni ai maestri elementari del 1860, come nei programmi per la Scuola Normale del 1890, sono presenti le stesse preoccupazioni normative: preparare i fanciulli agli studi classici o alle professioni, addestrare le fanciulle all’economia domestica. Educate a educare ed educate alla soggezione, le ragazze che frequentano le prime scuole pubbliche d’I talia seguono la doppia istruzione della penna e dell’ago, perché, oltre all’evidente utilità, il rammendo e il cucito garantiscono una forma di disciplinamento. Oltre a fornire uno charme che seduce i sensibili sguardi maschili. Ma, durante il R isorgimento, l’apprendimento del cucito viene piegato a un’attività sovversiva: cucire la bandiera.

Riccioli e “pizzini”, che si potevano nascondere nei riccioli o nei volants e negli orli degli abiti, ci portano nell’ambiente della carboneria: molte “donne del Risorgimento” sono perfettamente convinte che il ruolo femminile sia quello di supporto e che le ragioni dello stato patriarcale vengano ben primi dei diritti civili per le donne, e il ruolo materno assistenziale sembra l’unica ragione della presenza di donne alla Bicocca, il 23 marzo 1849. .

Cristina di Belgiojoso è un caso a parte ma anche lei avrebbe imparato ben presto che quanto si perdona a un uomo, in una donna è insopportabile. L’attitudine al comando, che fa il carisma di un uomo, la passione per lo studio, che occupa tutto il suo tempo, se declinate al femminile diventano insopportabili. L’espressione “ingegno virile in un corpo femminile”, usata anche per Cristina di Belgiojoso, non è un complimento, è una condanna senza appello, significa: statele alla larga…

Cristina è molto più avanti del suo tempo ed era anche una donna libera, dunque le si attribuirono molti amanti trattandola da puttana. A Torino c’è stata una mostra su Cavour intitolata “Genio e seduttore”, sarebbe possibile usare in accezione positiva lo stesso termine al femminile?

Molto più colta delle donne della sua età e del suo ceto, Cristina era l’amica prediletta di Giulia Beccaria, la madre di Manzoni, mentre lui, che doveva il suo benessere all’eredità dell’amante della madre, si permetteva di criticarla perché era separata dal marito. Trovava infatti sommamente sconveniente che, nonostante un nome tanto illustre, “quella signora” avesse “la mania di diffondere l’istruzione tra i contadini...quando saranno tutti dotti, a chi toccherà zappare la terra?” si domandava il cattolico Manzoni approvato dai benpensanti devoti

Il rango di appartenenza consentiva a Cristina di rivolgersi direttamente a Carlo Alberto con lettere che la collocavano in una situazione pericolosa in quanto suddita austriaca, sorvegliata dalla polizia a causa di amici “liberali” che non mancava di aiutare con il suo immenso patrimonio. Carlo Alberto non le rispose direttamente ma attraverso Giacomo Giovanetti, l’ascoltato consigliere che condivideva le idee di Cristina e i timori verso la repubblica. Se lei era considerata una ribelle, lui un “giacobino incorreggibile” troppo legato alla cultura illuminista, e morì nel gennaio del 1849, prima di vedere il disastro della Bicocca.

Cristina nel suo feudo di Locate attuava scelte rivoluzionarie per avviare una comunità agricola modello “familisterio” dotata di: asilo infantile, scuole elementari e superiori per ragazze e ragazzi, laboratori di lavoro, un pubblico “scaldatoio” (una stanza che poteva ospitare 500 persone) per le ore del riposo, centro infermieristico con distribuzione di medicinali, feste danzanti, dote per le ragazze più povere, ospizio per gli orfani. Per quanto possibile l’iniziativa voleva andare oltre la semplice carità: il lavoro era obbligatorio per tutte le persone abili e la minestra veniva distribuita dietro compenso sia pure minimo. Nelle sacre ricorrenze le donne e le fanciulle di Locate si riunivano nelle sale della villa di Cristina a cantare lo Stabat Mater di Rossini

Le critiche non arrivano alle orecchie di Cristina che continua la sua strada. L’adesione alle dottrine del conte di Saint-Simon la confermava nella pietà per gli umili e nell’interesse per l’elevazione delle classi più povere. Il movimento sansimoniano sognava una società basata su principi evangelici ma guidata da produttori e industriali ai quali spettava il compito di migliorare le condizioni di vita del proletariato. Questo non contrastava con l’ideale di monarchia “democratica”, che distanziava Cristina dagli amici repubblicani. Sperava però di convincere i nobili, proprietari di gran parte della terra coltivabile, ad occuparsi di riforma agraria, istruzione popolare, buon governo. Cristina non era certamente insensibile alle prime affermazioni di emancipazione femminile che emergevano nel movimento sansimoniano, convinto che l’uguaglianza dovesse partire dalla religione stessa e quindi favorevole al sacerdozio femminile.

Cristina è solitamente collocata dai biografi in quella categoria di dame dal comportamento romantico che nelle situazioni difficili dimostrano un’audacia e una disinvoltura impensabili, tanto da riuscire a

penetrare in ambienti chiusi e maschili. Cristina per la verità è una personalità d’eccezione, determinata a farsi avanti con la sua intelligenza, faceva sempre colpo e molti la trovavano altezzosa. Aveva una figura snella, occhi penetranti, una massa di capelli neri e passioni profonde che riuscirono

a vincere la diffidenza dei turchi convincendoli dei suoi genuini sentimenti di amicizia, e anche di ammirazione, verso molti aspetti dell’oriente

L’esperienza turca le consentì di guardare gli harem senza il velo dell’immaginario diffuso dalle Mille e una notte o altri racconti orientali. Cristina descrive con lucidità la condizione di donne inconsapevolmente

sudice e schiave, essendo prive di specchi e di confronti con altre realtà femminili. Ma Cristina è assolutamente schietta anche nel descrivere le usanze occidentali: In una società così ansiosa di

abbattere tutte le tirannidi e di aiutare gli oppressi, ci si dimentica che in tutte le case e in ogni famiglia vi sono delle vittime rassegnate il cui sacrificio non è neppure riconosciuto da chi le

ha condannate a una vita di dipendenza”. (Cristina di Belgiojoso, Della presente condizione delle donne, 1860)

Cristina aveva gli occhi ben aperti sulla condizione delle donne meno privilegiate di lei, certo sarebbe anacronistico arruolarla nel femminismo ma è difficile non cogliere la valenza trasgressiva del suo dire “io sono una donna”, là dove non era previsto.

Enrichetta Caracciolo è l’ultima monaca coatta, ma ha certamente avuto un risorgimento: sapeva infatti gestire magistralmente la comunicazione: ottenuta la possibilità di lasciare il convento, depose il velo nel giorno in cui Garibaldi arrivò a Napoli, ma poi Enrichetta scelse la massoneria e affiancò il deputato Morelli nel suo progetto di legge per i diritti delle donne: la damnatio memoriae si mette in marcia, difficile trovarla sui libri di storia benché si tratti di una storia esemplare quanto a risorgimento.

Nell’Italia unita le donne vennero escluse dal godimento dei diritti politici. Nel 1866 la

principessa di Belgioioso scriveva in proposito: "quelle poche voci femminili che si innalzano chiedendo dagli uomini il riconoscimento formale delle loro uguaglianza formale, hanno più avversa la maggior parte delle donne che degli uomini stessi. [...] Le donne che ambiscono a un nuovo ordine di cose, debbono armarsi di pazienza e abnegazione, contentarsi di preparare il suolo, seminarlo, ma non pretendere di raccoglierne le messi".

Durante il Risorgimento italiano infatti, i diritti delle donne furono subordinati alla necessità di liberarsi dalla dominazione straniera per creare uno stato unitario, il cui primo nucleo era l’organizzazione famigliare di stampo patriarcale: la forza femminile doveva orientarsi nel sostenere le energie e i progetti maschili, il messaggio contenuto nel Giuramento di Pontida, di Berchet, e in Marzo 1821, di Manzoni, non lascia dubbi. In effetti le patriote dei moti ottocenteschi sembrano davvero convinte che l’organizzazione di una congiura contro gli odiati austriaci possa migliorare anche la vita delle “italiane”. La mancanza di organizzazione politica femminile impediva di vedere la distanza tra la creazione di uno stato indipendente e l’indipendenza delle donne. Quelle che hanno partecipato alle battaglie risorgimentali hanno acquisito valore per il grado di parentela con i patrioti. Le “patriote” sfuggivano per un attimo alla dimensione domestica e poi dovevano opportunamente ritornare nel ruolo di sorelle, mogli, madri, vedove, altrimenti incorrevano nella disapprovazione sociale, come accadde a Cristina di Belgiojoso, ad Anna Maria Mozzoni, alla Marchesa Colombi, donne di solida cultura laica, convinte che ciascuno sia libero di credere o non credere nel Dio che preferisce. Le simpatie socialiste che la novarese esprime, derivano sopratutto dalla convinzione che sia davvero necessaria una distribuzione più equilibrata delle ricchezze ma la sinistra, arrivata al potere, si era legata agli ambienti più conservatori, mostrandosi seguace della destra nello svilire i diritti delle donne. La compassione per gli ultimi, presente negli scritti della Marchesa, non è mai tenera con il filantropismo ipocrita, quasi anticipando il giudizio di Gramsci sul paternalismo manzoniano che “guarda gli umili dall’alto con aristocratico compatimento scherzoso, con la benevolenza propria di una cattolica società protettrice degli animali”.

Il percorso di Colombi è partito dallo studio per conseguire il diploma di maestra, grazie alla modesta eredità ricevuta dal patrigno. Cinquant’anni prima del saggio di Virginia Woolf, ha realizzato la propria autonomia di scrittrice lontano dalla città natale grazie alla piccola rendita che le ha consentito una stanza tutta per sé. E’ tornata a Novara nei suoi romanzi e Matrimonio in provincia è l’affresco di una città così legata alle tradizioni da considerare un gesto ribelle l’andare a messa in una chiesa lontana da casa.

Solo negli ambienti laici ed emancipazionisti si difende il diritto all’istruzione delle donne, finalizzato all’accesso alle professioni. La voce di Anna Maria Mozzoni, che incoraggiava le fanciulle di 18 anni desiderose di studiare e ribellarsi al destino di madri e di mogli sottomesse ai piaceri e ai bisogni maschili, fu un richiamo irresistibile per Maria Antonietta Torriani. La loro collaborazione iniziò presso il Liceo femminile di Milano intitolato a Maria Gaetana Agnesi, e il suo discorso d’inaugurazione, il 20 novembre 1870, è un debutto “femminista”. Si rivolge alle famiglie: Dio creò l’uomo e la donna uguali. Osiamo risvegliare l’intelligenza della donna per fondare una vera uguaglianza. Nel successivo galateo La gente per bene, del 1877, invita ripetutamente le ragazze a rompere le regole, rifiutando il “teatrino dei ruoli uomo-donna”.

È un manuale di buone maniere, privo di retorica e denso di consigli pratici per le ragazze, che ridicolizza le immagini melense delle fanciulle esangui in attesa del principe azzurro

I regolamenti nazionali fissavano le caratteristiche di massima dei locali: “debbon essere salubri, con molta luce, in luoghi tranquilli e decenti, adatti al numero degli allievi”, alla ricreazione e agli esercizi ginnici.

Una relazione ispettiva del 1853 descrive le scuole della provincia di Novara come luoghi in condizioni igieniche e ambientali preoccupanti. Le Canobiane, in particolare, erano spesso al centro di articoli nei quali i giornalisti si divertivano a deridere le maestre e a mostrare lo scandalo di locali bui, umidi, angusti e maleodoranti in cui le allieve studiavano “appollajate quasi in una stia oscura”: l’uso di termini adatti a galline, dice molto sull’idea che i giornali avevano dell’istruzione femminile.

Gli spazi deputati all’azione didattica acquisirono un peso sempre più rilevante nel corso dell’Ottocento e la costruzione di scuole divenne il metro sul quale misurare il progresso civile delle amministrazioni pubbliche.

Definito “secolo della scuola”, l’Ottocento vede in tutti i paesi europei il consolidamento dell’istruzione pubblica ma Pasquale Villari non mancava di denunciare quanto l’istruzione femminile fosse trascurata nelle scuole pubbliche italiane, o affidata a convitti ed opere pie sui quali lo stato si limitava ad esercitare una distratta sorveglianza.

L’istruzione femminile irrompe anche nell’iconografia dell’Ottocento mediante la rappresentazione di donne, monache, ragazze che leggono, spesso di nascosto, rivelando così il valore di vera conquista attribuito al “saper leggere”.

Svago, riposo, meditazione, rêverie, trasgressione, preghiera, esperienza condivisa, la lettura femminile rappresentata dalla pittura non si sottrae ai pregiudizi maschili, provenienti non solo da ambienti bigotti, che guardano con estremo sospetto il dipinto di Federico Faruffini: una ragazza di spalle, fuma, il tavolo è in disordine, invece di badare alle faccende domestiche perde tempo a leggere. La tela non fu mai esposta in pubblico perché considerata un esempio di pericolosa sovversione.

Elisabetta di Savoia e Adelaide d’Asburgo, madre e figlia sono state del tutto dimenticate. Il Risorgimento continua a parlare di Patria: la patria è la terra dei padri, qual è la terra dei padri

per queste due donne e cosa significa per loro espressione amor di patria? Per la patria gli uomini combattono e muoiono, per le donne il concetto di patria va rivisto: non è più la terra dei propri padri, ma la terra dei padri del marito, una terra che fino a ieri magari era nemica… si verifica così una sorta di estraniazione delle donne dalla loro origine.

La patrilocalità è un prodotto del patriarcato: in tempi di pace ha prodotto distacchi e nostalgie più o meno forti, in tempi di guerra ha prodotto lacerazioni drammatiche.

Non conosco libri di storia che raccontino questo punto di vista: la madre e la figlia sono espropriate delle loro radici ed è stupefacente che anche oggi, quando molti si riempiono la bocca con le radici e l’identità, non ci sia alcuna attenzione per la condizione femminile sradicata: l’Ottocento dà alle donne l’istruzione ma non il diritto alla parola.

La sollecitudine materna / filiale che compare tra Elisabetta e Adelaide è considerata inutile, la genealogia femminile non ha diritto di cittadinanza e infatti madre e figlia, quando sono ricordate dai libri di storia, sono definite reazionarie perché anziché inneggiare alla guerra si chiedono: che bisogno c’è di una guerra, non potremmo imparare a convivere pacificamente? Elisabetta ed Adelaide erano certamente donne istruite e privilegiate: a cosa è servita la loro istruzione? A nulla direi, la loro parola, la loro voce, è stata ignorata; di queste due donne i libri non parlano se non per elencare il numero di figli che hanno dato al marito.

In pieno Ottocento il principale ruolo femminile è quello di silenziosa fattrice secondo il modello “fornetto” definito da Aristotele e santificato dalla religione di stato come dichiara l’affresco del 1860: «in gremio matris sedet sapientia patris»

Ma l’istruzione femminile ormai era in marcia e si trattava di un percorso irreversibile che ha inevitabilmente coinvolto anche una scuola di impostazione e tradizione maschile come l’Istituto OMAR, sicché sarebbe il momento di trasformare la pur gloriosa «Associazione Omaristi» in una più attuale «Associazione Omariste e Omaristi».