Federalismo fiscale: introduzione · Web viewEd invero, nell’area dell’euro si è cercato di...

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Università degli Studi di Palermo Facoltà di Giurisprudenza Dottorato di ricerca in Processo di integrazione europea e diritto internazionale LA GOVERNANCE ECONOMICA DELL’U.E.: I VINCOLI COMUNITARI GRAVANTI SULLA DETERMINAZIONE DEI PRINCIPI DI COORDINAMENTO DELLA FINANZA PUBBLICA E SULLA ARMONIZZAZIONE DEL SISTEMA TRIBUTARIO NAZIONALE, NELLA PROSPETTIVA DI ATTUAZIONE DEL FEDERALISMO FISCALE Tutor Professore Nicola Romana Candidato Dottor Giancarlo Gennaro 1

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Università degli Studi di Palermo Facoltà di Giurisprudenza

Dottorato di ricerca inProcesso di integrazione europea e diritto

internazionale

LA GOVERNANCE ECONOMICA DELL’U.E.: I VINCOLI COMUNITARI GRAVANTI SULLA

DETERMINAZIONE DEI PRINCIPI DI COORDINAMENTO DELLA FINANZA PUBBLICA

E SULLA ARMONIZZAZIONE DEL SISTEMA TRIBUTARIO NAZIONALE, NELLA PROSPETTIVA

DI ATTUAZIONE DEL FEDERALISMO FISCALE

Tutor Professore Nicola Romana

CandidatoDottor Giancarlo Gennaro

Coordinatore del dottorato

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Professoressa Laura Lorello

XXIV Ciclo A.A. 2010/2011IUS/06 – IUS/14

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INDICE

Introduzione ………………………………………………………... 4

Capitolo ILa nuova governance economica europea

1. Premessa: brevi cenni sull’origine dell’Eurozona ……………... 7

2. Alla ricerca delle cause strutturali dell’attuale crisi economica a livello mondiale: la “deregulation” e l’eccesso di liquidità …… 12

3. I problemi di governance economica dell’U.E. emersi con la crisi 17

4. (Segue) l’emersa inadeguatezza della governance economica europea 22

5. La crisi dei debiti sovrani ed i problemi nella loro gestione con particolare riferimento al ruolo delle agenzie di rating ………... 26

Capitolo IIIl difficile percorso delle Istituzioni europee per

arginare gli effetti della crisi

1. Gli interventi europei del 2011/2012 per fronteggiare la crisi: il Patto Euro Plus ……………………………………………... 34

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2. Il Semestre Europeo …………………………………….…... 37

3. Il Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance nell’Unione economica e monetaria: il “Fiscal Compact” ....…. 39

4. Il Meccanismo europeo di stabilità ………………………….. 594.1(Segue): i rapporti tra il M.E.S. ed il Fiscal Compact …….... 66

5. Il deficit di democrazia nei processi di intervento dell’U.E. nella disciplina della governance economica: la logica intergovernativa 70

6. La natura giuridica dei recenti accordi europei con particolare riferimento al Fiscal Compact ……………………………...... 77

Capitolo IIILa costituzionalizzazione del pareggio di bilancio

e l’attuazione del federalismo fiscale in Italia

1. Brevi cenni in merito all’interpretazione dell’art. 81 Cost. pre-riforma: il “parametro fantasma” di cui al quarto comma ….... 84

2. La Legge costituzionale n. 1/2012: la costituzionalizzazione del principio di equilibrio di bilancio …………………………….. 89

3. Prime considerazioni critiche in merito al principio costituzionale del pareggio di bilancio ………………………………………. 96

4. La Legge costituzionale n. 1 del 2012 e l’istituzione dell’Ufficio parlamentare di bilancio ……………………………………. 101

5. Il principio del pareggio di bilancio nella Costituzione tedesca 109

6. L’attuazione del federalismo fiscale in Italia alla luce dei vincoli di origine europea. Brevi cenni

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sulla piattaforma normativa italiana: prima della riforma costituzionale del 2001 ………………… 115

6.1 (Segue) dopo la riforma del titolo v, parte II della Costituzione: dal vecchio al nuovo testo dell’art. 119 ……………….……. 122

7. Delega al governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione ………………………… 133

8. (segue) l’attuazione della legge delega n. 42 del 2009 ……….. 145

Bibliografia ……………………………………………….………. 153

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Introduzione

La grave crisi economica e di fiducia che negli ultimi anni ha coinvolto diversi Paesi occidentali, di cui molti appartenenti all’Eurozona, ha messo in evidenza tutte le carenze e la fragilità dell’Unione economica e monetaria.

Ed invero, nell’area dell’euro si è cercato di realizzare importanti riforme volte a garantire che l’U.E.M. tenesse fede al proprio acronimo, costituendo una vera e propria Unione economica e monetaria; gli eventi hanno dimostrato come sia necessario porre maggiore attenzione sull’aspetto “Economico” dell’U.E., posto che il coordinamento economico non è stato abbastanza forte da prevenire l’insorgere di squilibri macroeconomici e di bilancio all’interno dell’Eurozona.

Con l’obiettivo di comprendere meglio le tematiche oggetto di questa tesi, appare opportuno soffermarsi brevemente sul significato che assume il termine “governance” – derivante dal francese gouvernance – che nel XIII secolo significava governo.

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Tale definizione, tuttavia, risulta piuttosto anacronistica posto che nel corso degli anni tale temine ha cambiato totalmente il suo contenuto. Inoltre, ai nostri fini non aiutano quelle che sono le possibili traduzioni in italiano del termine governance con “governanza” o “buon governo”; risulta ormai pacifico, infatti, che il lemma è stato acquisito dall’italiano (il GDU, diretto da Tullio De Mauro, certifica il 1988 come data della prima attestazione nell’italiano scritto).

Più precisamente, il citato anglicismo, che propriamente vuol dire “modo di dirigere, conduzione” e che inizialmente ha battuto e ribattuto sulle pagine della stampa italiana le piste del mondo dell’impresa, esprime (a differenza di government che indica sia il governo, sia l’amministrazione pubblica) “quell’insieme dei princìpi, dei modi, delle procedure per la gestione e il governo di società, enti, istituzioni, o fenomeni complessi, dalle rilevanti ricadute sociali” e dunque una concezione non autoritativa del processo decisionale pubblico, concezione ravvisata, di volta in volta: nella “risoluzione collettiva dei problemi” (Osborne & Gaebler); nella “interazione degli sforzi di intervento di tutti gli attori coinvolti” (Kooiman); nelle tecniche utilizzate per individuare le organizzazioni e i programmi necessari per realizzare le mire e le preferenze dei cittadini (Purchase &

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Hirshhorn)1; in tecniche e raccordi di carattere legislativo, regolamentare, normativo, amministrativo di prassi e comportamenti necessari per consentire il funzionamento complessivo del sistema2; in un “processo di riallocazione del potere pubblico tra soggetti pubblici e soggetti privati di vario genere, e un conseguente processo verso il basso di quote sensibili di potere”3; in una “redistribuzione di autorità e in un incremento degli attori legittimati, che portano ad un crescente bisogno di coordinamento”4.

Infine, per ulteriore chiarezza è opportuno tener conto delle interpretazioni fornite dal Comitato Economico e Sociale europeo nonché dal Libro bianco della Commissione del 2001. Secondo il Comitato, infatti, il termine richiama alla mente un’architettura istituzionale decentrata, dove non agisce un solo centro di potere come negli stati nazionali, bensì una pluralità di soggetti, sia governativi che non

1 Una silloge di definizioni (tra le quali quelle citate nel testo) è riportata in Demers M., La gouvernance de la gouvernance: Faut-il freiner l'engouement?, in Institut International des Sciences Administratives, Gouvernance: concepts et applications - Governance: concepts & applications, edited by J. Corkery, 1999, p.367.2 Pizzetti F., Le nuove esigenze di governance in un sistema policentrico "esploso", "Le Regioni", n. 6/2001, p. 1153.3 FERRARESE M. R, La governance tra politica e diritto, il Mulino, 2010, p. 52.4 BARBERIS E., Rapporti territoriali:una contestualizzazione della governance sociale in Italia, “La Rivista delle Politiche Sociali”, n. 1/2010, p. 79. Sul punto, inoltre, cfr. COGLIANDRO G., La governance economica europea:cronaca di un anno, in Federalismi.it.

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governativi, che cooperano tra loro per il raggiungimento di fini condivisi5; secondo il Libro Biano, infine, il concetto di governance designa le norme, i processi e i comportamenti che influiscono sul modo in cui le competenze sono esercitate a livello europeo, soprattutto con riferimento ai principi di apertura, partecipazione, responsabilità, efficacia e coerenza6.

Al fine di ridurre le distanze tra le Istituzioni dell’U.E. ed i cittadini, rafforzando così la democrazia in Europa, la Commissione si è posta l’obiettivo di adottare nuove forme di governance volte all’elaborazione e attuazione di politiche pubbliche migliori e più coerenti che associno le organizzazioni della società civile alle istituzioni stesse con un conseguente miglioramento della qualità della legislazione europea, della sua efficacia e semplicità7.

5 Comitato economico e sociale europeo, 469^ Sessione plenaria del 16 e 17 febbraio 2011 (GUUE C 107 del 6.4.2001), punto 3.6.1.6 COM(2001) 428 definitivo/2, p. 8sg7 http://europa.eu/legislation_sommaries/glossary/governance_it.htm.

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Capitolo ILa nuova governance economica europea

1. Premessa: brevi cenni sull’origine dell’Eurozona.

Per una più chiara analisi risulta opportuno soffermarsi brevemente sull’evoluzione del sistema della moneta unica.

La decisione di dare vita ad una unione economia e monetaria, conferendo ulteriore slancio al processo di integrazione economica dell’U.E. iniziato nel 1957, è stata presa dal Consiglio Europeo svoltosi a Maastricht (Olanda) nel dicembre 1991 e poi sancita nel trattato del 7 febbraio 1992; si è così stabilito l’iniziale introduzione dell’Euro a partire dal 1° gennaio del 1999 esclusivamente per i soli pagamenti non in contanti e dal 1 gennaio 2002 anche come moneta fisica in circolazione.

In particolare, gli obiettivi definiti dall’art. 2 del Trattato di Maastricht possono essere sintetizzati nello sviluppo armonioso ed equilibrato delle attività economiche nell’insieme della Comunità ed in una crescita sostenibile, non inflazionistica, che rispetti: l’ambiente; il raggiungimento e il mantenimento di un

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elevato livello di occupazione e di protezione sociale; la coesione economica e sociale; la solidarietà tra Stati membri.

Ed ancora, il citato Trattato ha previsto l’introduzione di cinque criteri di convergenza, e cioè i parametri rispetto ai quali i Paesi devono essere in regola per essere ammessi alla c.d. “terza fase”, e quindi per poter introdurre l’euro; ciò al fine di garantire che lo sviluppo economico all’interno dell’Unione economica e monetaria risultasse equilibrato e non provocasse tensioni.

Tali criteri, individuati in un protocollo siglato a piè di pagina del Trattato di Maastricht possono essere sì sintetizzati: il primo stabilisce che il debito pubblico non deve superare il 60% del prodotto interno lordo; il secondo limita il disavanzo nei conti dello Stato, che non può superare il 3% del PIL; il terzo impone che l’inflazione debba essere contenuta entro il limite dell’1,5% della media dei migliori tre Stati membri; il quarto prescrive che la moneta nazionale deve stare dentro le fluttuazioni previste dall’accordo di cambio con le altre monete europee; il quinto prescrive che occorre rispettare, rispetto al tasso di cambio, i margini normali di fluttuazione previsti dal meccanismo di cambio del Sistema monetario europeo per almeno due anni, senza

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svalutazione nei confronti della moneta di qualsiasi Stato membro.

Rispetto ai suindicati parametri, deve essere evidenziato come l’obiettivo fissato dal trattato di Maastricht non sia un deficit di bilancio del 3%, bensì il pareggio di bilancio; ed invero, tale soglia verrebbe in rilievo esclusivamente nei periodi di crisi al fine di permettere ai Governi di esercitare una politica anticiclica, consentendo il sostegno dell’occupazione e dello sviluppo8.

Si può dunque affermare che i sopradescritti criteri di convergenza abbiano la sola funzione di assicurare la stabilità dei mercati all’interno dell’U.E., senza preoccuparsi dell’aspetto relativo alla loro crescita. Inoltre, gli stessi criteri prendono in considerazione esclusivamente il problema degli shock asimmetrici, cioè delle crisi che investono solo uno o alcuni dei Paesi dell’area, e non anche gli shock simmetrici, invece costituiti dalle gravi crisi che investono tutta l’area monetaria o addirittura (come quella attuale) tutta l’economia mondiale.

Pertanto, l’integrazione economica ha portato con sé i vantaggi offerti dalle maggiori dimensioni, da una maggiore efficienza e robustezza interna per l’economia dell’U.E. nel complesso e per quelle dei 8 Cfr. DI MARIA R. e GENNARO G., La piattaforma normativa della governance economica U.E.: natura giuridica e rilevanza, a livello interno, dei vincoli europei alla finanza pubblica. Un’ipotesi ricostruttiva, in www.forumcostituzionale.it

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singoli Stati membri con una conseguente opportunità di stabilità economica, maggiore crescita e maggiore occupazione che sarebbero andate a diretto beneficio dei cittadini dell’U.E. In altri termini, dunque, l’U.E.M. ha determinato l’introduzione dei seguenti benefici: un coordinamento delle politiche economiche tra gli Stati membri; un coordinamento delle politiche di bilancio, in particolare attraverso la limitazione del debito e del disavanzo pubblico; una politica monetaria autonoma gestita dalla Banca centrale europea (B.C.E.); la moneta unica e l’area dell’euro.

Ed invero, quegli Stati membri dell’U.E. che hanno deciso di spingere oltre l’integrazione adottando l’euro, erano motivati da diverse necessità, tra le quali: dare stabilità monetaria, tenere bassa l’inflazione e i tassi d’interesse, dare solidità alle finanze pubbliche, avere una trasparenza dei prezzi, eliminare i costi di cambio, rendere fluidi i meccanismi dell’economia europea, facilitare gli scambi internazionali, conferire all’U.E. maggiore forza sulla scena mondiale, rendere meno vulnerabili i paesi sottoposti agli shock economici internazionali.

Tuttavia, a controbilanciare i suindicati aspetti positivi determinati dall’introduzione della moneta unica sono subentrate due notevoli implicazioni: a) gli Stati aderenti con la rinuncia ad una propria moneta non hanno più potuto usare le svalutazioni o le

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rivalutazioni della moneta come strumento per riequilibrare la loro bilancia commerciale e dei pagamenti; b) gli Stati aderenti con la rinuncia alla funzione di emettere moneta attraverso una propria Banca Centrale non hanno più potuto utilizzare la quantità di moneta circolante ed i tassi d’interesse per regolare i livelli di inflazione e l’attività creditizia come strumenti di politica monetaria.

Alla luce di tali brevi premesse, è possibile distinguere i benefici prodotti dall’introduzione dell’Euro su due livelli, il primo relativo al sono Mercato unico europeo ed il secondo a livello mondiale.

Ed invero, all’interno dell’Eurozona la moneta unica ha prodotto nuova forza e offerto nuove opportunità grazie all’integrazione e alle dimensioni dell’economia dell’area dell’euro, rendendo il mercato unico ancor più efficiente; prima dell’euro, infatti, erano notevoli le difficoltà determinate dal cambio delle valute che comportavano costi aggiuntivi, rischi e una minore trasparenza nelle transazioni transfrontaliere. Con l’introduzione della moneta unica, invece, le imprese dell’Eurozona riducendo considerevolmente i costi ed i rischi.

Pertanto, l’esistenza di un unico grande mercato integrato che utilizza la medesima moneta ha determinato la possibilità di confrontare i prezzi

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favorendo gli scambi transfrontalieri e ogni tipo di investimenti, a beneficio sia dei singoli consumatori alla ricerca del prodotto più conveniente, sia delle imprese che acquistano il servizio con il miglior rapporto qualità/prezzo, sia, infine, per i grandi investitori istituzionali che hanno la possibilità di investire in maniera più efficiente all’interno dell’Eurozona senza correre il rischio insito nelle fluttuazioni dei tassi di cambio9.

Sul piano globale, invece, i benefici sono stati determinati dal notevole peso economico che ha assunto la moneta unica; quest’ultima, infatti, avendo delle buone capacità di assorbire gli “shock” economici esterni senza dover pagare con la perdita di posti di lavoro o con un rallentamento della crescita, ha conferito all’Eurozona una forza di attrazione nei confronti sia degli investimenti che degli scambi da parte di paesi terzi.

A distanza di oltre dieci anni dall’introduzione delle monete e delle banconote in Euro appare possibile tracciare un primo bilancio; nonostante le difficoltà determinate dalla crisi che ha coinvolto diversi Paesi aderenti, l’Eurozona nel suo complesso ha beneficiato di un’inflazione contenuta e stabile e di un mercato interno notevolmente rafforzato. Inoltre, gli oltre 332 milioni di cittadini che utilizzano la

9 http://ec.europa.eu/economy_finance/euro/why/index_it.htm

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moneta unica hanno evitato i costi supplementari determinati dal cambio delle loro valute. L’euro ha anche reso trasparenti le transazioni transfrontaliere, determinando un miglioramento della concorrenza ed agevolando il commercio.

In particolare, il raggiungimento di tali risultati positivi può desumersi anche da alcuni esempi. Ed invero, quello probabilmente più lampante è costituito dall’analisi del tasso di interesse medio sui titoli governativi a 10 anni di Italia, Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna che nel 1995 era il 12,1%, ovvero circa il 40% più alto dell’equivalente tasso medio di Francia e Germania, mentre tale differenza si è ridotta al 2,1% nel 2003. Solo negli ultimi anni il differenziato è tornato ad aumentare notevolmente a causa dell’esplosione della crisi del debito sovrano10.

Dunque, nonostante i tragici effetti prodotti dalla crisi economica (che di seguito saranno analizzati nel dettaglio), l’euro ha consentito che i Paesi dell’Eurozona non fossero esposti a conseguenze ancor più gravi sia mediante un rafforzamento della governance economica dell’U.E., sia attraverso un

10 Cfr. Osservatorio di politica internazionale. La governance economica tra squilibri globali e prospettive dell’Unione Europea: l’interesse italiano, a cura di Franco Bruni (ISPI e Università Bocconi) e Antonio Villafranca (ISPI) Con contributi di Carlo Altomonte (ISPI e Università Bocconi di Milano), Fabrizio Galimberti (Il Sole 24 Ore), Francesco Guerrera (Wall Street Journal), Benedicta Marzinotto (Centro Studi Bruegel e Università di Udine), Lucia Tajoli (ISPI e Politecnico di Milano), in www.parlamento.it

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miglior sfruttamento del potenziale dell’U.E.M. che ha reso più solidi la disciplina di bilancio ed il coordinamento economico11.

Tuttavia, questi ottimi risultati raggiunti con l’introduzione della moneta unica, oscurando per troppo tempo le divergenze strutturali tra i Paesi aderenti – offrendogli una protezione verso politiche di bilancio ed economiche che non hanno saputo spronare la crescita e arginare una sempre più marcata perdita di competitività – hanno prodotto il risultato opposto di aumentare le divergenze stesse, soprattutto in seguito alla crisi del 2008-200912.

Come sostenuto da autorevole dottrina, l’euro si trova così a pagare oggi il suo “peccato originale”, consistente nell’aver erroneamente ritenuto che la sola introduzione di una moneta unica sarebbe stata in grado di creare una convergenza economica tra i Paesi aderenti senza procedere al contempo a uno strettissimo coordinamento delle diverse politiche economiche13.

11 Sul punto, cfr. Governance economica nell’Unione Europea: Norme economiche più rigorose per l’euro e l’Unione economica e monetaria, Commissione Europea, Direzione Generale per gli affari economici e finanziari, Lussemburgo: Ufficio delle pubblicazioni dell’Unione Europea, 2012 On-line: http://ec.europa.eu/economy_finance/general/pdf/eu_economic_governance_it.pdf 12 Cfr. Osservatorio, op. cit.13 Cfr. Si veda ALTOMONTE C., VILLAFRANCA A., Not only public debt: towards a new Pact on the Euro, in ISPI Policy Brief n. 198, ottobre 2010.

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2. Alla ricerca delle cause strutturali dell’attuale crisi economica a livello mondiale: la “deregulation” e l’eccesso di liquidità.

Prima di procedere con l’analisi della crisi economica che ha colpito l’Eurozona, portando alla soglia del fallimento diversi Paesi membri e facendo emergere tutti i notevoli problemi della governance economica all’interno dell’U.E., appare opportuno procedere preliminarmente alla ricerca delle possibili cause “strutturali” e contingenti della crisi a livello globale.

Sembrerebbe ormai pacifico che essa sia stata determinata dall’incontro di due fattori la cui combinazione è risultata devastante: la deregolamentazione del sistema finanziario e l’eccesso di liquidità.

In merito al primo di tali fattori, meglio noto con il termine deregulation, si può affermare che esso consiste in quel processo di snellimento e diminuzione delle regole e delle leggi, nel caso in questione riferite al sistema finanziario; facendo riferimento ai principi

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fondamentali della teoria economica neoclassica, questo modello ha prodotto una vera e propria rivoluzione dei mercati finanziari.

In primo luogo, la deregulation ha migliorato il funzionamento dei mercati facilitando gli spostamenti di capitale dai settori in declino verso nuovi impieghi più redditizi, incrementando la produttività dell’economia e l’efficienza complessiva del sistema; tanto più alta è la deregulation quanto maggiori saranno le transazioni all’interno dei mercati (soprattutto a livello globale).

In secondo luogo, la deregulation ha consentito di offrire agli investitori nuovi strumenti finanziari sempre più sofisticati e creati su misura in base alle esigenze di ogni operatore, anche non professionista del settore. Ed ancora, l’introduzione di meccanismi di transazione sempre più a portata di tutti ha permesso l’ingresso nel sistema finanziario di numerosi piccoli investitori e di una serie di comportamenti sempre più spudorati e rischiosi.

In terzo luogo, infine, la deregulation, affiancata ad una rapida e rivoluzionaria informatizzazione dei mercati finanziari, ha consentito nuove forme di trading “istantaneo” sulla rete con bassissimi costi di transazione.

Tuttavia, deve essere evidenziato che la deregolamentazione dei mercati finanziari, oltre ad

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una serie di vantaggi, ha portato con se notevoli e rilevanti aspetti problematici, esaltati in pieno proprio dalla recente crisi.

Ed invero, la mancanza di regole ha accentuato le normali caratteristiche del comportamento ciclico dei sistemi finanziari con anni di crescita in cui si creano e sviluppano rapidissime “bolle”, spinte da una fiducia cieca nelle possibilità future, ed anni di profonda recessione, depressione ed incertezza.

Inoltre, l’eccessiva facilità di accesso al credito, se da un lato ha alimentato la percezione di benessere da parte delle famiglie, in realtà dall’altro lato ha portato ad una costante alimentazione di bolle speculative nonché a notevoli problemi in relazione alla difficoltà nel rimborso, con tutte le conseguenze che ne derivano.

In particolare, tutto ciò ha condotto ad una situazione eccessivamente rischiosa e precaria diverse famose banche d’affari (le note “too big to fail”) con una conseguente destabilizzazione dell’intero sistema.

Alla luce di quanto detto si può affermare che la deregulation ha permesso il moltiplicarsi di strumenti finanziari innovativi sempre più sofisticati e non trasparenti che avrebbero in teoria dovuto distribuire e minimizzare il rischio, ma che in realtà hanno determinato la sempre maggiore divaricazione tra la presa di rischio e il rendimento atteso degli

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investimenti finanziari. Ciò ha spinto gli investitori ad assumere – a volte anche inconsapevolmente – comportamenti sempre più speculativi, aumentando in maniera smisurata il rapporto tra indebitamento e fondi propri (leverage)14.

Come già anticipato, il secondo fattore decisivo per il sorgere della crisi è quello dell’eccesso di liquidità che dal mercato statunitense si è esteso progressivamente sugli altri mercati finanziariamente evoluti. Si può affermare che esso è stato determinato in parte da fasi di politica monetaria eccessivamente accomodante, in parte da eccessi di risparmio di diverse regioni del globo15.

Inoltre, si deve evidenziare che ha contribuito all’aumento eccessivo di liquidità anche quello strano fenomeno che si è verificato alla fine degli anni ’90 – in seguito allo sviluppo economico della Cina e di alcuni Paesi dell’Asia ed alla contemporanea crescita dei prezzi del petrolio – consistente nel riorientamento dei flussi di capitale delle economie emergenti verso gli Stati Uniti, e cioè dalle economie in via di sviluppo a quelle già sviluppate (diversamente da quanto previsto dalle teorie economiche).

14 Cfr. SARACENO F., Le cause di fondo della crisi economica: diseguaglianze e squilibri globali, in www.aspeninstitute.it15 In particolare, le regioni con maggiore propensione al risparmio sono state l’Asia orientale, i paesi del Golfo, e parte dell’Unione Europea.

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Inoltre, come evidenziato da diversi economisti, le origini dell’eccesso di liquidità possono essere ricondotte già al boom della borsa della seconda metà degli anni ’90, nonché alla bolla della new economy, nella quale la Fed, durante la presidenza di Alan Greenspan, ha risposto con una riduzione del costo del denaro mai vista, portando i tassi dal 7% del 2000-2001 all’1% del 2004.

L’effetto combinato di mercati finanziari eccessivamente deregolamentati e di una massa rilevante di risparmio a basso costo in cerca di collocazione, ha determinato l’esplosione dell’indebitamento di famiglie e imprese americane; a ciò si è poi aggiunto quello del governo degli Stati Uniti, interessato in due guerre terribilmente costose (Iraq e Afghanistan), e in politiche di riduzione delle tasse per gli strati più ricchi della popolazione.

Come evidenziato da diversi economisti, l’elemento centrale della crisi è rinvenibile certamente nell’eccessivo indebitamento soprattutto quando, in seguito alle difficoltà di un settore di dimensione relativamente ridotta (quello dei prestiti subprime) si è sviluppata una corsa alla ricapitalizzazione (cosiddetto deleveraging) e quindi un crollo generalizzato del prezzo delle attività finanziarie16.16 Così come definiti dalla Borsa Italiana, i subprime sono prestiti o mutui erogati a clienti definiti “ad alto rischio”. Sono chiamati prestiti subprime perché a causa delle loro caratteristiche e del maggiore rischio a cui sottopongono il

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Da tutto ciò è conseguito l’ulteriore contagio dal settore finanziario a quello dell’economia reale tramite la restrizione del credito da parte di banche sull’orlo del fallimento, nonché il crollo della domanda di consumatori ed imprese la cui ricchezza si era volatilizzata17.

3. I problemi di governance economica dell’U.E. emersi con la crisi.

Ai fini di una corretta analisi delle questioni relative alla governance economica emerse negli ultimi anni all’interno dell’U.E. appare opportuno evidenziare brevemente quella serie di eventi che ha scatenato gli effetti negativi cui si è accennato.

In particolare, risulta ormai pacifico che l’elemento “detonante” è riconducibile al fallimento della nota banca d’affari americana Lehman Brothers nel settembre 2008.

A partire da tale evento si sono susseguiti una serie di ulteriori accadimenti sfavorevoli che possono essere sì sintetizzati: la grave recessione del PIL

creditore sono definiti di qualità non primaria, ossia inferiore ai debiti primari (prime) che rappresentano dei prestiti erogati in favore di soggetti con una storia creditizia e delle garanzie sufficientemente affidabili.17 Cfr. F. SARACENO, op. cit.

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mondiale nel 2008-2009 e soprattutto in Europa (-4%); l’inizio della crisi dei debiti sovrani in Europa e la perdita dell’accesso ai mercati di Grecia, Irlanda e Portogallo; l’intervento della BCE con operazioni LTRO per aiutare le banche in crisi di liquidità18; la creazione di due categorie di paesi in Europa: i paesi core del Nord (Germania, Francia, Austria, Olanda, Finlandia, Lussemburgo, Belgio) e i paesi periferici o del Sud (Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna, Italia, ecc..); la grave crisi della Grecia e le decisione nel summit europeo del 21/7/2011 di ristrutturare il suo debito pubblico; la grave crisi di fiducia sui mercati per Spagna e Italia con l’intervento della BCE nell’estate 2012, volta ad introdurre lo strumento delle OMT (Outright Monetary Transaction) per aiutare i paesi in difficoltà.

Pertanto, si può affermare che la crisi del debito in Europa ha diverse radici riconducibili in parte a fattori esterni – come, ad esempio, il rallentamento economico e una crescente avversione al rischio da parte dei mercati finanziari – ed in parte a fattori

18 Così come definito da Il Sole 24 Ore, “il Long term refinancing operation (Ltro in singla) è una delle operazioni di rifinanziamento operate dalla Bce. La Banca centrale europea può intervenire sul mercato interbancario prestando denaro agli istituti in due modalità: Mro (main refinancing operation), operazioni ordinarie di rifinanziamento di durata settimanale, e Ltro. Queste ultime operazioni normalmente hanno una durata fra tre e sei mesi, estesa fino a tre anni. La Bce ha lanciato finora due Ltro a tre anni e ha aperto a un nuovo possibile intervento.”

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Page 25: Federalismo fiscale: introduzione · Web viewEd invero, nell’area dell’euro si è cercato di realizzare importanti riforme volte a garantire che l’U.E.M. tenesse fede al proprio

interni – come, ad esempio, gli squilibri di bilancio e macroeconomici venutisi a creare in alcuni paesi dell’U.E. gravati da debiti pubblici elevati e disavanzi commerciali.

Proprio la combinazione tra un elevato livello di debito pubblico, un indebolimento della competitività e una crescita economica debole ha determinato un crescente scetticismo dei mercati finanziari nei confronti della sostenibilità dei bilanci di alcuni Stati membri dell’Eurozona19.

A causa del susseguirsi di questi drammatici eventi – dai quali è conseguita la grave crisi economica e di fiducia che negli ultimi anni ha coinvolto diversi Paesi occidentali, di cui molti appartenenti all’Eurozona – sono emerse con estrema evidenza tutte le carenze e le fragilità dell’Unione economica e monetaria.

Ed invero, se il primo decennio dell’euro è stato caratterizzato da un buon funzionamento dei sistemi finanziari, lo shock sviluppatosi negli Stati Uniti, con l’esplosione della bolla finanziaria, ha confermato tutti i rischi che corre l’Eurozona a causa delle proprie carenze strutturali ed ha dimostrato chiaramente quanto sia indispensabile porre maggiore attenzione sulla “E” dell’acronimo U.E.M., poiché il coordinamento economico non è stato abbastanza

19 Ibidem.

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forte da prevenire l’insorgere di squilibri macroeconomici e di bilancio all’intero dell’area dell’euro20.

Come evidenziato da parte della stessa Commissione Europea, le principali lacune emerse in conseguenza della grave crisi economica hanno riguardato il sistema della governance economica dell’U.E.21

In primis, tali carenze sono rinvenibili nella eccessiva attenzione posta nei confronti del disavanzo; ed invero, il controllo delle finanze pubbliche era concentrato sul disavanzo di bilancio su base annua e non abbastanza sul debito pubblico. E così, diversi Paesi che presentavano un disavanzo di bilancio annuo ridotto o addirittura segnando un surplus di bilancio, rispettando le norme dell’U.E., nel corso della crisi finanziaria hanno dovuto far fronte a difficoltà economiche dovute ad un elevato debito pubblico. Dunque, si è reso necessario un controllo più rigoroso di quest’ultimo indicatore.

In secondo luogo, è emersa l’insufficiente sorveglianza della competitività e degli squilibri macroeconomici: essa, infatti, non è stata adeguatamente attenta agli sviluppi non sostenibili 20 Ibidem. Sul punto, cfr. DI MARIA R. e GENNARO G., op. cit.21 cfr. Governance economica nell’Unione Europea: Norme economiche più rigorose per l’euro e l’Unione economica e monetaria, Commissione Europea, Direzione Generale per gli affari economici e finanziari, Lussemburgo: Ufficio delle pubblicazioni dell’Unione Europea, 2012

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Page 27: Federalismo fiscale: introduzione · Web viewEd invero, nell’area dell’euro si è cercato di realizzare importanti riforme volte a garantire che l’U.E.M. tenesse fede al proprio

della competitività e della crescita del credito, con un crescente indebitamento del settore privato ed un indebolimento degli enti finanziari che ha condotto all’esplosione delle bolle immobiliari.

Ulteriore lacuna nel sistema della governance economica dell’U.E. è rinvenibile nell’applicazione non abbastanza rigorosa delle norme, nonché nella mancanza di provvedimenti adeguati nei confronti dei Paesi dell’Eurozona che non le hanno rispettate; sarebbe stato opportuno un sistema sanzionatorio più severo e più credibile.

Ed ancora, ha contribuito ad aggravare la situazione della zona Euro un processo decisionale troppo lento che ha determinato risposte tardive a sviluppi macroeconomici preoccupanti e che, altresì, non ha tenuto conto a sufficienza della prospettiva dell’area dell’euro nel suo insieme.

Infine, altra grave lacuna del sistema della governance economica dell’U.E. è certamente rinvenibile nella totale assenza di meccanismi di “finanziamenti di emergenza” in grado di dare un sostegno finanziario ai Paesi dell’Eurozona che si sono trovati improvvisamente in difficoltà evitando anche che tali problemi economi si “contagiassero” ad altri paesi a rischio22.

22 Ibidem.

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Tuttavia, si può affermare con certezza come la più rilevante di tali carenze nel sistema della governance economica sia stata l’assenza di una vera e propria fiscal union tra i Paesi membri dell’U.E., con la conseguente mancanza di strumenti d’intervento idonei a far fronte a crisi di fiducia.

Com’è noto, infatti, per la sussistenza di ogni unione monetaria è indispensabile, in primis, che la stessa si evolva nel tempo mediante il graduale passaggio ad un’unione politica vera e propria, nonché l’esistenza di banche centrali in grado di intervenire durante le crisi finanziarie, sia mediante offerte illimitate di liquidità idonee a calmierare i mercati, sia attraverso la cosiddetta preferenza per la liquidità (posto che una crisi di debito non può risolversi con l’emissione di nuovo debito)23.

Ed invece i Trattati europei – invero elaborati prima della globalizzazione – costituivano riflesso e proiezione della “età dell’oro” e dello spirito di quei tempi «fondante, positivo e progressivo»24. All’opposto – nell’attuale quadro di emergenza, caratterizzato da un’impressionante cascata di fenomeni nuovi e negativi – gli Stati europei si sono ritrovati con un deficit di bilancio maggiore ed un debito pubblico notevolmente cresciuto, e perciò sono diventati ancora più dipendenti ed esposti alle scelte dei mercati

23 Cfr. DI MARIA R. e GENNARO G., op. cit.24 Cfr. TREMONTI G., Uscita di sicurezza, Milano, 2012.

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finanziari ed agli attacchi della speculazione. Tali Stati, pertanto, hanno registrato una perdita di competitività delle loro economie reali, tale da rendere impossibile il risanamento del bilancio pubblico attraverso il classico strumento dell’aumento delle entrate fiscali, determinato dall’allargamento della base imponibile.

Come se ciò non bastasse, gli Esecutivi dei Paesi dell’Eurozona si sono ritrovati anche senza gli ulteriori e fondamentali strumenti dell’inflazione – che riduce il valore del debito ed aumenta le entrate fiscali – della svalutazione, delle politiche protezionistiche o dei forti stimoli fiscali, posto che, con l’istituzione dell’U.M.E., la politica monetaria è stata sottratta agli Stati membri e trasferita in capo alla B.C.E., la quale ha assunto il compito principale di assicurare la stabilità dei prezzi25.

Diversamente, il divieto di politiche protezionistiche e la proibizione dei forti stimoli fiscali hanno trovato fondamento, rispettivamente, nell’esistenza di un mercato unico incompatibile con la creazione di barriere legali all’importazione di beni e servizi, e nell’esiguo spazio di manovra che

25 Cfr. DI MARIA R. e GENNARO G., op. cit. Sul punto, cfr. PITRUZZELLA G., Chi governa la finanza pubblica in Europa?, in Quad. cost., n. 1/2012.

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Page 30: Federalismo fiscale: introduzione · Web viewEd invero, nell’area dell’euro si è cercato di realizzare importanti riforme volte a garantire che l’U.E.M. tenesse fede al proprio

impongono i vincoli finanziari sulle politiche di bilancio derivanti dall’appartenenza all’Eurosistema26.

Prova ne è il fatto che Paesi come Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Italia si sono ritrovati ad un passo dal riconoscimento dell’insolvenza, in relazione ai loro elevati stock di debito pubblico; e che tutta l’Eurozona è stata esposta alla speculazione ed alla diffidenza dei mercati, che hanno fatto innalzare i tassi di interesse sui titoli di Stato, rendendo così ancora più costoso il servizio del debito e facendo peggiorare i conti pubblici.

4. (Segue) L’emersa inadeguatezza della governance economica europea.

Alla luce di quanto premesso ed al fine di meglio comprendere le gravi lacune della governance economica dell’U.E. – soprattutto in seguito alla dirompente crisi che ha colpito inizialmente la Grecia per poi diffondersi ad Irlanda e Portogallo, minacciando anche Spagna ed altri Paesi membri – appare opportuno analizzare tre aspetti: a) l’inefficacia dei meccanismi di controllo e sanzione del 26 Cfr. TARGETTI F., Le vicende della globalizzazione e lo scoppio della crisi finanziaria. Per una governance dell’economia globale, in AMATO G. (a cura di), “Governare l’economia globale”, ASTRID, Passigli, 2009, p. 52.

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Patto di stabilità e crescita; b) la necessità di un coordinamento più stringente delle politiche economiche; c) il bisogno di salvare alcuni Paesi dell’Eurozona dal fallimento27.

In merito al primo punto, l’inadeguatezza del Patto di stabilità e crescita a raggiungere gli obiettivi per il quale tale strumento era stato istituito era emersa in modo palese già dal momento della sua previsione; tuttavia, la sua totale inefficacia si è appalesata in modo dirompente soprattutto in seguito alla crisi greca.

Ed invero, come già detto, questo strumento – adottato per la prima volta nel giugno del 1997 con risoluzione del Consiglio europeo di Amsterdam al fine di vincolare il potere tributario degli Stati membri – era volto essenzialmente a garantire, attraverso sanzioni di natura economica, l’equilibrio delle finanze pubbliche mediante l’obiettivo del saldo di bilancio (prossimo al pareggio o positivo), nonché ad evitare atteggiamenti di “free-riding” da parte di alcuni Paesi membri28.

27 Cfr. Osservatorio di politica internazionale, La riforma della governance economica europea, a cura dell'ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) n. 27, aprile 2011. 28 Il free riding si verifica quando si ottenere un prodotto o un servizio senza pagarne il prezzo, anche se ciò non avviene illegalmente; ciò può accadere, ad esempio, perché certi tipi di beni o servizi sono difficili da fare pagare a tutti coloro che ne beneficiano.

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Proprio per questi motivi, e per escludere anche il rischio di politiche economiche non rigorose o una minore attenzione ai conti pubblici grazie alla protezione offerta dall’adesione all’euro, il Patto di stabilità e crescita individuava meccanismi di controllo e/o sanzione sia di tipo “ex ante” che “ex post”29.

In particolare, con riferimento ai meccanismi di controllo preventivi, è stato previsto l’obbligo per gli Esecutivi dei Paesi membri di sottoporre alla Commissione ed al Consiglio i propri “Programmi di stabilità” con l’obiettivo di rientrare all’interno dei parametri fissati dal Trattato di Maastricht.

La crisi, però, ha reso palesi i notevoli limiti di questo tipo di controllo preventivo, e cioè la mancanza di qualità/veridicità delle informazioni rese dai Governi e l’insufficienza dei parametri economici presi in esame30. Prova ne è la drammatica condizione della Grecia che, nel proprio Programma di stabilità del gennaio 2009, dichiarava un rapporto deficit/Pil pari al 3,7%; nei mesi successivi, tuttavia, apparve subito chiaro che non solo tale obiettivo era irrealistico ma anche che gli stessi dati prodotti dall’Esecutivo greco

29 Sul punto cfr. VILLAFRANCA A., Piggybacking PIGS. The future of Euroland after Greek crisis, in Ispi Policy Brief N. 179, Mar h 2010.30 Basti evidenziare che, ad  esempio, scarsissima attenzione  è  stata  attribuita  al risparmio  privato o alla quota del debito pubblico detenuta all’estero.

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erano non esatti e, addirittura, in certi casi non veritieri31.

Diversamente, i controlli e le sanzioni di tipo “ex post” previste dal Patto di stabilità e crescita, unitamente alla procedura per disavanzi pubblici eccessivi, cercavano di individuare condizioni di bilancio insostenibili – in termini di deficit – che avrebbero condotto a meccanismi di controllo aggiuntivi ed a strumenti sanzionatori.

Tuttavia, appare evidente come già prima dell’irruente crisi economica era prevalso – da parte di Paesi come Francia e Germania – un orientamento poco severo nei confronti di chi avesse sforato i vincoli previsti dal Patto, con la grave conseguenza di avere reso tale strumento totalmente inefficace. A dimostrazione di tale affermazione basti evidenziare come nonostante le ripetute violazioni dei limiti previsti del Patto, nessuno Stato membro sia mai stato sanzionato; solo negli ultimi anni si sta giustamente tornando nella direzione di un maggior rigore32.

Passando ora ad esaminare il secondo aspetto, appare opportuno evidenziare come ai fini di un coordinamento più stringente delle politiche economiche sia necessario imporre un più ampio 31 Il deficit, infatti, a fine anno ha raggiunto la soglia del 12,7%, mentre il rapporto debito/Pil è risultato pari al 113.4%, rispetto al 96.3% dichiarato ad inizio anno.32 Cfr. Osservatorio di politica internazionale, La riforma della governance economica europea, a cura dell'ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) n. 27, aprile 2011.

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controllo degli squilibri macroeconomici tra i vari Paesi che hanno aderito alla moneta unica tenendo conto del posizionamento competitivo del Paese e della solidità del suo sistema bancario33.

Diversi economisti, infatti, hanno rilevato come una mera rimodulazione del Patto di stabilità e crescita non sia sufficiente ad escludere il verificarsi di nuovi default finanziari degli Stati appartenenti all’Eurozona; solo mediante un più stretto coordinamento delle politiche economiche – e non solo di quelle di bilancio – sarà possibile ottenere un equilibrio sistematico tra le diverse economie all’interno dell’U.E.

Più precisamente, tenendo conto del presupposto per cui l’obiettivo di una vera e propria fiscal union tra i Paesi membri dell’U.E. rende indispensabile un adeguato livello di convergenza economica, diventa quasi indispensabile anche mirare ad una corrispondenza delle diverse fasi del ciclo economico tra gli Stati stessi, soprattutto con riferimento alla maggiore economia europea, quella tedesca; se così non fosse, infatti, l’impatto determinato dalla eventuale decisione di variare i tassi sull’economia reale dei vari Paesi potrebbe condurre a risultate controproducenti, come un ulteriore surriscaldamento

33 Cfr. Ibidem

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dell’economia o, all’opposto, rendendo più complicata l’uscita da una fase recessiva34.

In merito al terzo ed ultimo aspetto, la grave situazione emergenziale degli ultimi anni ha reso evidente come sia indispensabile, per assicurare la salvezza dell’intera Eurozona, procedere con attività di sostegno degli confronti degli stati dell’U.E. che si trovino a rischio default. Prova ne è il fatto che il 10 maggio 2010 gli Esecutivi degli Stati dell’Eurozona hanno istituito il Fondo europeo di stabilità, sostituito recentemente dal Meccanismo europeo di stabilità.

Inoltre, deve essere evidenziato come le risposte cercate per far fronte ad innumerevoli “giornate nere” dei mercati, invece di basarsi sull’intervento delle istituzioni europee esistenti, hanno trovato il proprio fulcro nella contrattazione intergovernativa tra i grandi Paesi dell’Unione monetaria – in particolare Germania e Francia – e sono poi state subite ed adottate dal resto dell’Unione35.

In tale situazione di emergenza, non soltanto ci si è mossi nella direzione di politiche economiche di supporto ai Paesi in difficoltà, ma in poco più di dodici mesi sono stati superati limiti che inizialmente apparivano insormontabili, con l’adozione di strumenti tipici degli Stati federali.34 Sul punto ancora Ibidem35 Cfr. DI MARIA R. e GENNARO G., po. cit.. Sul punto, cfr. CARLOMAGNO, Euro. Ultima chiamata, Francesco Brioschi Editore, 2012

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5. La crisi dei debiti sovrani ed i problemi nella loro gestione con particolare riferimento al ruolo delle agenzie di rating.

A distanza di diversi anni dall’inizio della crisi economica che ha investito la maggior parte dei Paesi Occidentali, molti dei quali appartenenti all’Eurozona, appare possibile analizzare i principali strumenti utilizzati per fronteggiarla sia da parte dei singoli ordinamenti nazionali, sia sul livello sovranazionale.

Ed invero, dal punto di vista giuridico sarebbero tre le novità più importanti da evidenziare, e cioè: un fondamentale ruolo del diritto; l’intervento sul piano sovranazionale delle Istituzioni europee con interventi prima di tipo emergenziale e successivamente di tipo strategico; la collaborazione ed il coordinamento tra gli Stati e le organizzazioni sovranazionali ed internazionali, tra cui il Fondo Monetario Internazionale e la Banca mondiale36.

Tali novità, soprattutto quelle sviluppatesi in ambito europeo, sono state di particolare importanza

36 Cfr. GORTSOS C. V., Fundamentals of Public International Financial Law, Baden-Baden, 2012; NAPOLITANO G., The Two Ways of Global Governance After the Financial Crisis, Multilateralism versus Cooperation amongst Governments, in International Journal of Constitutional Law, 2001, n.4.

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ed innovatività posto che le varie disposizioni previste con il Trattato di Lisbona erano apparse obsolete già prima della loro entrata in vigore; ed invero, le disposizioni poste a fondamento dell’Eurozona erano caratterizzate da una politica basata sull’ideologia della “Comunità dei benefici” e non sulla diversa ed opposta “Comunità dei benefici e dei rischi”, nella quale i Paesi aderenti condividono non solo i benefici ma anche i rischi determinati dalla comunione37.

A conferma di tale peccato originario basti pensare che, sino al Trattato di Lisbona, non esisteva tra le disposizioni dell’U.E. un principio di solidarietà nei confronti degli Stati membri che si trovavano in situazioni di crisi (ora previsto per particolari ipotesi dall’art. 122 TFUE).

Tuttavia, risultano ancora scarsi gli strumenti previsti dall’Eurozona per rispondere ai problemi posti dalla crisi del debito sovrano di diversi Stati, e cioè da quella particolare emergenza che – distinguendosi dalla crisi dei mutui subprime (cd. subprime mortgage financial crisis) – si identifica con l’ultima fase della depressione partita nel 2006 dal crollo del mercato immobiliare e proseguita con la crisi bancaria, per poi estendersi nel sistema finanziario e andando infine a coinvolgere, per l’appunto, il sovereign debt.37 Cfr. PILADE CHITI M., La crisi del debito sovrano e le sue influenze per la governance europea, i rapporti tra stati membri, le pubbliche amministrazioni, in www.studiolegalechiti.it

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Ed invero, nonostante i ripetuti interventi delle Istituzioni europee, l’Unione economica e monetaria europea (E.M.U.) ha dimostrato la sua incapacità nel superare le tensioni nei mercati dei debiti sovrani di alcuni suoi stati membri gravati da dissesti finanziari; si fa riferimento alle situazioni di Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna, Italia e Belgio38.

Più precisamente, la Grecia era caratterizzata da conti pubblici “truccati” e non più sotto controllo, l’Irlanda dalla tragica situazione del settore bancario con un conseguente e notevole debito privato, il Portogallo e la Spagna da disavanzi commerciali in via di crescita, l’Italia ed il Belgio da un notevole rapporto fra debito pubblico e PIL.

La presenza di questi notevoli disavanzi porta con sé ulteriori ed inevitabili ripercussioni molto forti sia sul piano economico che sociale, determinate non soltanto dalle conseguenze delle politiche che dovranno essere realizzate per fronteggiarlo, ma anche e soprattutto al fatto che tale debito prima o poi dovrà essere ripagato, salvo dichiarazione di default, con un ulteriore aggravamento della situazione economica per future generazioni; ed invero, lo normali conseguenze derivante da un livello di debito insostenibile sono identificabili nella mancanza di crescita, come conseguenza della combinazione di più

38 Si tratta dei cosiddetti Paesi membri periferici.

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fattori negativi come, ad esempio, l’impatto sulla domanda aggregata, l’effetto spiazzamento (cd. crowding out, e cioè la riduzione della spesa privata come conseguenza dell’aumento della spesa pubblica), il maggiore prelievo fiscale ed il cosiddetto “patto” (unilaterale) intergenerazionale.

Inoltre, si deve evidenziare come l’incapacità delle Istituzioni europee di fronteggiare adeguatamente e prontamente la crisi ha impedito una più rapida uscita dalla stessa situazione emergenziale; basti evidenziare che la mancanza di efficienti modalità di sostegno nei confronti dei Paesi in difficoltà, così come l’affermasi di politiche fiscali di tipo restrittivo, hanno impedito all’Eurozona di sfruttare la ripresa economica internazionale, verificatasi tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011. L’Unione economica e monetaria europea, infatti, ha registrato in quella fase temporale da un lato un notevole tasso di crescita da parte degli Stati centrali (tra i quali un ruolo di primo piano è stato occupato dalla Germania), dall’altro lato la recessione o la stagnazione di quasi tutti i suindicati Paesi gravati da debolezze di fondo39.

Ed ancora, diversi economisti hanno evidenziato come l’Eurozona rischi di essere imprigionata in un circolo vizioso determinato dal fatto che i Paesi

39 Sul punto cfr. MESSORI M., La governance economica europea, contenuto nel libro di A. ZANARDI, La finanza pubblica italiana. Rapporto 2012, Il Mulino.

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periferici, gravati maggiormente dalla crisi e dalla fragilità dei propri debiti sovrani, subiscono anche l’ulteriore effetto negativo prodotto da un non efficiente e puntale sostegno finanziario da parte degli altri Paesi dell’Eurozona, nonché dall’imposizione di processi di aggiustamento e di termini contrattuali talmente punitivi da risultare recessivi nel breve termine ed economicamente e socialmente insostenibili nel lungo termine40.

Tale situazione, cui deve aggiungersi un ulteriore crescente vulnerabilità del settore bancario europeo, determina l’impossibilità per i Paesi periferici di ricollocarsi su un sentiero di crescita con un conseguente aggravamento del gap economico rispetto ai Paesi centrali ed un’ulteriore aumento dei costi macroeconomici di coordinamento41.

Ciò premesso, per meglio comprendere la recente crisi economica, appare opportuno soffermarsi brevemente sull’analisi dell’istituto che ha assunto un ruolo fondamentale nel corso della recente crisi economica: il rating.

Questo istituto – già presente a partire dall’Ottocento – ha iniziato ad evolversi soltanto nel Novecento, quando il processo di finanziarizzazione che a partire dal XX secolo sta coinvolgendo l’economia mondiale, ha dato alle agenzie di rating un

40 Cfr. M. MESSORI, Op. cit..41 Cfr. Ibidem.

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ruolo di fondamentale importanza nel settore della finanza ed in particolare del credito; più precisamente, tali agenzie sono delle società che mediante l’analisi di dati finanziari pubblicano dei giudizi e mettono a conoscenza dei mercati lo “stato di salute” dell’economia di un paese o di un’impresa, esprimendo una valutazione che determinerà in quale classe di rischio creditizio rientrerà quell’ente42.

Proprio a causa della forte l’influenza dei giudizi formulati dalle citate agenzie sui mercati finanziari, si può affermare che esse hanno partecipato appieno alla crisi dei debiti sovrani, essendo l’informazione e la fiducia due fattori che muovono la finanza globale.

Quindi, premesso che il rating creditizio è uno strumento informativo che permette all’investitore di creare il proprio portafoglio con una cognizione piena dei possibili rischi in cui può incorrere – evitando anche il ricorso ai cosiddetti professionisti della finanza – appare ora opportuno evidenziare che, nell’ipotesi in cui un’agenzia decida di abbassare il rating di un paese (accadimento sempre più frequente negli ultimi mesi), si innesta un “circolo” che può essere così sintetizzato: assegnazione un rischio di default più alto al Paese; corsa alla vendita da parte dei detentori dei titoli di debito pubblico di quel Paese 42 Le agenzie di rating più importanti – detenendo il 95% della quota di mercato mondiale del rating – sono tre e sono tutte statunitensi: S&P (Standard and Poor’s Rating), Moody’s (Moody’s Investor Service) e Fitch ( Fitch Ratings).

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con conseguente aumento dell’offerta, riduzione del prezzo ed incremento dei saggi d’interesse (al fine di incentivare l’acquisto); a ciò, infine, seguirà l’incremento della spesa per gli interessi pagati sui titoli di Stato con ripercussioni negative sui bilanci pubblici, nonché la ancor più grave perdita di fiducia.

Alla luce della emersa incredibile incidenza del rating nelle dinamiche economico/finanziarie, l’U.E. ha finalmente compreso l’importanza di una disciplina ad hoc; fino a qualche hanno fa, infatti, la Commissione aveva costantemente ritenuto non indispensabile la predisposizione di una disciplina specifica, in quanto sembrava sufficiente il ricorso a normative già presenti nell’ordinamento43.

In particolare, nel 2009 è stato approvato da parte del Parlamento europeo e del Consiglio il Regolamento (CE) N. 1060/2009 sulla base del presupposto per cui “le agenzie di rating svolgono un ruolo importante sui mercati mobiliari e bancari mondiali giacché i loro rating del credito sono utilizzati dagli investitori […] ne consegue che i rating del credito hanno un impatto significativo sul funzionamento del mercato e sulla fiducia degli investitori e dei consumatori. È pertanto essenziale 43 Più precisamente, la Commissione faceva riferimento alle seguenti normative: a) la Direttiva 2003/6/CE relativa all’abuso di informazioni privilegiate e alla manipolazione del mercato; b) la Direttiva CRD 2006/48/CE relativa ai requisiti patrimoniale per le banche; C) la Direttiva MIFID 2004/39/CE relativa ai mercati degli strumenti finanziari.

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che le attività di rating del credito siano condotte nel rispetto dei principi di integrità, trasparenza, responsabilità e correttezza gestionale, affinché i rating utilizzati nella Comunità emessi da tali agenzie siano indipendenti, oggettivi e di qualità elevata”44.

Il citato Regolamento, dunque, in merito ai meccanismi di rating disciplina «sia l’attività sia i soggetti, ponendo attenzione sia al tema dell’indipendenza sia a quello della prevenzione dei conflitti di interesse» alla luce dei predetti principi di «integrità, trasparenza, responsabilità, governance ed affidabilità» cui è subordinata la registrazione obbligatoria di «tutti coloro che intendono svolgere in modo professionale l’attività di emissione di rating»45.

Tuttavia, nonostante l’introduzione di tale disciplina che ha consentito di selezionare gli “attori” del sistema di rating, permangono nel sistema degli aspetti oscuri determinati dal fatto che «società private di capitale che hanno scopo di lucro»

44 http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2009:302:0001:0031:IT:PDF. 45 Sul punto cfr. DI MARIA R., Autonomia finanziaria e decentramento istituzionale. Principi costituzionali, strumenti e limiti, Giappichelli Editore, Torino, 2012; che a sua volta cita GILA P. e MISCALI M., I signori del rating. Conflitti di interesse e relazioni pericolose delle tre agenzie più temute dalla finanza globale, Torino, 2012, p. 147. Deve essere evidenziato che il Regolamento N. 1060/2009 è stato modificato dal Regolamento (UE) N. 513/2011 del Parlamento Europeo e del Consiglio; tali modifiche sono state introdotte con l’obiettivo di far comprendere che il rating esterno non deve essere l’elemento di scelta prevalente ma solo uno dei tanti fattori da considerare nella costruzione del portafoglio.

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realizzano profitti proprio «attraverso la vendita dei giudizi di solvibilità»; si tratterebbe, dunque, di un modello destinato ad incidere sulla integrità del principio “no taxation without reperesentation”, dal momento che l’agenzia di rating – attraverso la propria valutazione – si frappone fra elettore e soggetto politico cercando di “convalidare” impropriamente le scelte di politica sociale, economica ed internazionale, assunte dallo Stato nell’esercizio della propria sovranità46.

Proprio con la consapevolezza di tali difetti sembrerebbe emergere una volontà riformatrice orientata a depotenziare l’importanza assunta dal rating, attraverso una valutazione del merito del credito effettuata direttamente dalle Istituzioni finanziarie ed eventualmente subordinata al giudizio di una (istituenda ed indipendente) agenzia europea.

Per concludere sul punto in esame, evidenziando la persistente problematicità nella disciplina del meccanismo di valutazione da parte delle citate agenzie private, appare opportuno sottolineare le parole del Governatore in carica della BCE, nonché ex governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, il quale ha affermato che “bisognerebbe imparare a vivere senza le agenzie di rating o quanto meno imparare a fare meno affidamento sui loro giudizi”.

46 Ibidem

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Capitolo II

Il difficile percorso delle Istituzioni europee per arginare gli effetti della crisi

1. Gli interventi europei del 2011/2012 per fronteggiare la crisi: il Patto Euro Plus.

Sotto lo stimolo dell’emergenza e della pressione dei mercati – soprattutto a seguito del progressivo deterioramento dell’economia greca – l’U.E. si è trovata ad un bivio storico: lasciare che la Grecia fallisse – accertandone l’incapacità a pagare i debiti contratti e mettendo a serio rischio la sussistenza dell’Unione economica e monetaria – oppure garantirne il debito; optando (responsabilmente) per tale seconda opzione, l’U.E. ha voluto dunque adottare delle nuove misure, volte ad impedire il reiterarsi di un simile squilibrio di bilancio.

E così, attraverso reiterati vertici intergovernativi, riunioni dell’Ecofin ed accordi del Consiglio europeo, sono state recentemente approvate alcune misure volte a colmare le lacune della vecchia disciplina, attraverso innovazioni nel sistema di ripartizione dei

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poteri di politica macroeconomica e nell’ordinamento della finanza europea. In particolare, nel corso del Consiglio europeo del 24-25 marzo 2011, è stato approvato un pacchetto globale di misure intese a rispondere alla crisi, preservare la stabilità finanziaria e porre le basi di una crescita intelligente e sostenibile, basata sull’inclusione sociale e tesa a creare occupazione, mirando al rafforzamento della governance economica e della competitività della zona euro e dell’U.E.

Tra tali misure, un ruolo centrale assume il Patto Euro Plus, volto a consolidare ulteriormente il pilastro economico dell’Unione economica e monetaria, apportando un netto miglioramento nel coordinamento delle politiche economiche, nonché a migliorare la competitività attraverso l’aumento del livello di convergenza ed il rafforzamento dell’economia sociale di mercato47.

I principali obiettivi cui s’ispira il Patto Euro Plus per assicurare il coordinamento delle politiche economiche per la competitività e la convergenza possono essere sintetizzati nelle seguenti “quattro linee guida”: 1) stimolare la competitività; 2) stimolare l’occupazione; 3) concorrere ulteriormente alla sostenibilità delle finanze pubbliche; 4) rafforzare la stabilità finanziaria.

47 Accordo approvato dai Capi di Stato e di governo della zona euro, nella riunione dell’11 marzo 2011.

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Con riferimento al primo punto, ciascun Paese sarà responsabile degli interventi specifici che sceglie per promuovere la competitività; particolare attenzione sarà tuttavia dedicata, nel rispetto delle tradizioni nazionali di dialogo sociale e relazioni industriali, alle misure volte ad assicurare un’evoluzione dei costi in linea con la produttività ed alle misure intese a incrementare la produttività.

Riguardo al secondo punto, invece, particolare attenzione sarà dedicata alle riforme del mercato del lavoro per promuovere la c.d. “flessicurezza”: ridurre il lavoro sommerso, aumentare la partecipazione al mercato del lavoro ed all’apprendimento permanente, implementare riforme fiscali per agevolare l’attività imprenditoriale – quali la riduzione dell’imposizione sul lavoro – mantenendo però il gettito fiscale globale nonché, infine, adottare misure volte a semplificare l’accesso al mercato del lavoro delle persone che costituiscono “seconda fonte” di reddito familiare.

In merito al rafforzamento della sostenibilità delle finanze pubbliche, invece, il Patto Euro Plus – al fine della piena attuazione del Patto di stabilità e crescita48

48 Il c.d. «Patto di stabilità e crescita», adottato per la prima volta nel giugno del 1997 con risoluzione del Consiglio europeo di Amsterdam, vincola il potere tributario degli Stati membri ed è volto a garantire, attraverso sanzioni di natura economica, l’equilibrio delle finanze pubbliche mediante l’obiettivo del saldo di bilancio (prossimo al pareggio o positivo). Laddove il fine originario del summenzionato strumento era proteggere la moneta unica da situazioni di instabilità economica caratterizzanti alcuni degli Stati membri che si apprestavano

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– accorda la massima attenzione ai punti seguenti: recepimento nella legislazione nazionale delle regole di bilancio dell’U.E. fissate nel Patto di stabilità e crescita; sostenibilità di pensioni, assistenza sanitaria e prestazioni sociali attraverso l’allineamento del sistema pensionistico nazionale alla situazione demografica nazionale, la limitazione dei regimi di pensionamento anticipato ed il ricorso ad incentivi mirati per assumere lavoratori anziani (fascia superiore ai 55 anni).

Infine, riguardo al quarto ed ultimo punto, è stata avviata una riforma generale del quadro dell’U.E. per la vigilanza e la regolamentazione del settore finanziario, con l’impegno da parte degli Stati membri di introdurre una legislazione nazionale per la risoluzione nel settore bancario, nel pieno rispetto dell’acquis comunitario.

Oltre alle questioni sopraindicate, il Patto Euro Plus focalizza la propria attenzione sul coordinamento delle politiche fiscali a sostegno del risanamento di bilancio e della crescita economica: in tale contesto gli

ad entrare nella c.d. «area Euro», esso è divenuto invece la concreta risposta dell’Unione europea alle preoccupazioni circa la continuità nel rigore di bilancio nell’Unione Economica e Monetaria. E così, i Regolamenti del Consiglio n. 1466/97 e 1467/97 del 7 luglio 1997, con i quali sono state definite le modalità di attuazione, rispettivamente, della procedura di sorveglianza multilaterale e della procedura sui disavanzi eccessivi, sono stati recentemente modificati a rispettiva opera dei Regolamenti (CE) del Consiglio n. 1055 e 1056 del 27 giugno 2005 e, da ultimo, nell’ambito del Six Pack, da parte rispettivamente dei Reg. n. 1175 e 1177 del 2011.

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Stati membri si impegnano ad avviare discussioni strutturate sulle questioni di politica fiscale, in particolare per assicurare che si scambino migliori prassi e si presentino proposte di lotta contro la frode e l’evasione fiscale.

Alla luce di tali caratteristiche, si può dunque affermare che il Patto Euro Plus ha come principale obiettivo il coordinamento delle politiche economiche per la competitività e la convergenza al fine di: a) irrobustire l’attuale governance economica, attraverso l’assunzione di impegni ed interventi concreti, corredati di un calendario di attuazione; b) stimolare la competitività e la convergenza in settori di intervento prioritari che rientrano nella sfera di competenza degli Stati; c) assumere impegni nazionali concreti, tenendo conto delle migliori prassi e dei parametri rappresentati dalle prestazioni migliori; d) effettuare un controllo politico sull’adempimento degli impegni presi e sui progressi verso la realizzazione degli obiettivi comuni; e) rispettare pienamente il mercato unico nella sua integralità49.

2. Il semestre europeo.

49 Cfr. G. PITRUZZELLA, op. cit.

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Con la medesima finalità di trovare una soluzione alla disomogeneità fra la priorità economiche dei vari Stati e quelle delineate dall’U.E., rafforzando la governance economica dell’U.E., dopo una serie di proposte avanzate nel corso del 2010 dalla Commissione e successivamente varate dopo l’approvazione del Parlamento e del Consiglio europeo, gli Stati membri hanno deciso di istituire il c.d. “semestre europeo per il coordinamento rafforzato delle politiche economiche e di bilancio”.

Con l’introduzione di questo “strumento” si ha una trasformazione sia del coordinamento delle politiche economiche nell’Eurozona e nell’U.E., sia di quelle strutturali che da ex post diventano ex ante.

In particolare, attraverso un quadro organizzativo entro cui stabilire termini rigidi per la presentazione e l’integrazione delle priorità economiche comunitarie, espresse dalle “analisi annuali della crescita” presentate dalla Commissione e da quelle nazionali, inserite nei programmi di riforma e nei piani di stabilità e convergenza che gli Stati presentano nei mesi primaverili50.

Più precisamente, il sistema del semestre europeo prevede a partire dal 2011 un ciclo di cooperazione politica intensa tra le Istituzioni dell’U.E. ed i 27 Stati

50 Cfr. R. DICKMANN, Le regole della governance economica europea e il pareggio di bilancio in Costituzione, in www.federalismi.it.

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membri relativa sia all’agenda economica che alla sorveglianza sui bilanci, che può essere sintetizzata nella seguente serie serrata di fasi così temporalmente scandite: presentazione a gennaio da parte della Commissione dell’indagine annuale sulla crescita51; elaborazione nel mese di febbraio/marzo da parte del Consiglio europeo delle linee guida di politica economica e di bilancio a livello di U.E. ed a livello degli Stati membri; presentazione entro metà aprile da parte degli Stati membri dei Piani nazionali di riforma (P.N.R., elaborati nell’ambito della nuova Strategia per la crescita e l’occupazione U.E. 2020) e dei Piani di stabilità e convergenza (P.S.C., elaborati nell’ambito del Patto di stabilità e crescita), elaborati alla luce delle linee guida dettate dal Consiglio europeo; predisposizione, entro inizio giugno, sulla base dei P.N.R. e dei P.S.C., da parte della Commissione europea delle raccomandazioni di politica economica e di bilancio rivolte ai singoli Stati membri; approvazione nel mese di giugno da parte del Consiglio ECOFIN – e, per la parte che gli compete, il Consiglio Occupazione e Affari sociali – delle raccomandazioni della Commissione europea, anche sulla base degli orientamenti espressi dal

51 Sul punto si deve evidenziare che la presentazione delle indagini annuali relative al 2012 e al 2013 è stata anticipata, rispettivamente, all’autunno 2011 e all’autunno 2012, in considerazione della necessità di prospettare misure condivise ed urgenti alla crisi economica.

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Consiglio europeo di giugno; approvazione nella seconda metà dell’anno (c.d. semestre nazionale) da parte degli Stati membri delle rispettive leggi di bilancio, tenendo conto delle raccomandazioni ricevute. Infine, nell’indagine annuale sulla crescita dell’anno successivo, la Commissione dà conto dei progressi conseguiti dai Paesi membri nell’attuazione delle raccomandazioni stesse.

Alla luce delle suindicate procedure emerge che il momento della vera attuazione delle misure – nel corso del secondo semestre dell’anno – deve quindi essere preceduto da una fase di sincronizzazione dei programmi di riforma, a livello sia orizzontale (fra gli Stati) sia verticale (fra l’U.E. ed i Paesi membri) in un contesto di mutua sorveglianza.

3. Il Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance nell’Unione economica e monetaria: il “Fiscal Compact”.

Un’ulteriore e rilevante tappa del percorso evolutivo del quadro normativo, relativo alla governance economica europea, è indubbiamente costituita dal Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’Unione economica e monetaria

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(T.S.C.G.); infatti – come si evince dall’art. 1 – le parti contraenti, in qualità di Stati membri dell’Unione europea, convengono di rafforzare il pilastro economico dell’Unione economica e monetaria, adottando una serie di regole intese a rinsaldare la disciplina di bilancio attraverso un patto di bilancio, e segnatamente attraverso il c.d. “fiscal compact” di cui al Titolo III (artt. 3-8), firmato il 2 marzo 2012 da venticinque Stati, volto a potenziare il coordinamento delle loro politiche economiche ed a migliorare la governance della zona euro, sostenendo in tal modo il conseguimento degli obiettivi dell’Unione europea in materia di crescita sostenibile, occupazione, competitività e coesione sociale.

Deve essere evidenziato che hanno deciso di non aderire la Repubblica Ceca e la Gran Bretagna, mentre l’adesione dell’Irlanda è stata approvata dagli elettori con apposita consultazione52. Ai sensi degli art. 1, par. 2, e art. 14, gli Stati aderenti che hanno adottato l’euro (Belgio, Germania, Estonia, Irlanda, Grecia, Spagna, Francia, Italia, Cipro, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Austria, Portogallo, Slovenia, Slovacchia e Finlandia) sono vincolati al Trattato dal

52 Ha espresso voto favorevole nel referendum per la ratifica del fiscal compact il 60,3% degli elettori irlandesi. Il no si è attestato al 39,7% ed ha ottenuto la maggioranza solo in cinque delle 43 circoscrizioni irlandesi, segnalando che il sentimento anti-europeo è più forte nelle aree più povere di Dublino e nella contea nordoccidentale di Donegal.

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primo giorno del mese successivo alla ratifica; gli Stati membri con deroga ex art. 139 del T.F.U.E. (Bulgaria, Lettonia, Lituania, Ungheria, Polonia, Romania e Svezia) o con esenzione (Danimarca, in base ad apposito Protocollo allegato ai Trattati U.E.) dalla moneta unica possono essere vincolati, finché dura la deroga o esenzione, solo dalle disposizioni dei titoli III e IV del Fiscal Compact (riguardanti, rispettivamente, il “Patto di bilancio” e il “Coordinamento delle politiche economiche e di convergenza”) dalle quali dichiarino, al momento del deposito del loro strumento di ratifica o a una data successiva, di voler essere vincolati. Il solo Titolo V (riguardante la “Governance della Zona Euro”), si applica dalla data di entrata in vigore del Trattato a tutte le parti contraenti. Infine, il par. 2 dell’art. 14 del Trattato prevede l’entrata in vigore dal 1° gennaio 2013 “a condizione che dodici parti contraenti la cui moneta è l'euro abbiano depositato il loro strumento di ratifica, o, se precedente, il primo giorno del mese successivo al deposito del dodicesimo strumento di ratifica di una parte contraente la cui moneta è l'euro”53.

53 Si deve sottolineare che l’art. 15 del Trattato ammette la possibilità che gli Stati membri dell’Unione che non abbiano sottoscritto il fiscal compact possano aderire al Trattato stesso anche successivamente. Gli effetti dell’adesione decorreranno dal deposito dello strumento di adesione presso il depositario – e cioè il segretariato generale del Consiglio dell’Unione europea – che informerà le altre parti contraenti.

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Il Trattato è stato sviluppato in primis dall’apposito gruppo di lavoro presieduto dal lussemburghese Georges Heinrich54 per poi essere discusso e negoziato in sede di Eurogruppo e di Consiglio ECOFIN, tenutisi il 23-24 gennaio 2012, e per essere finalizzato nelle citate riunioni del Consiglio europeo.

Numerose e di fondamentale importanza sono state le modifiche apportante al testo originariamente proposto dal groppo di lavoro, soprattutto in seguito alle pressioni delle diverse delegazioni e del Parlamento europeo.

Ed invero, si deve evidenziare che, nella seduta del 18 gennaio 2012, il Parlamento europeo aveva deliberato una risoluzione che criticava aspramente il progetto allora vigente, rilevando quanto segue: a) manifesta perplessità circa il ricorso al cd. “metodo intergovernativo”, ritenendo preferibile e maggiormente efficace il quadro del diritto dell’U.E. e dunque l’opposto “metodo comunitario” per realizzare i medesimi obiettivi di disciplina di bilancio e per realizzare un’autentica fiscal union; b) necessità di una maggiore valorizzazione del ruolo del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali in tutti gli aspetti del coordinamento e della governance in ambito economico; c) assunzione dell’impegno a integrare

54 Direttore del tesoro lussemburghese e vicepresidente del Comitato economico e finanziario.

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l’accordo nei trattati europei al più tardi entro cinque anni; d) richiesta di politiche per un’Unione improntate non solo alla stabilità, ma anche alla crescita sostenibile, attraverso misure destinate alla convergenza e competitività, project bonds, nonché la previsione di un’imposta sulle transazioni finanziarie; e) formale riserva di avvalersi di tutti gli strumenti politici e giuridici per difendere il diritto dell’Unione qualora l’accordo definitivo dovesse prevedere elementi incompatibili con lo stesso diritto dell’Unione55.

Il Patto di bilancio, disciplinato dal Titolo III, si inserisce in un’architettura finanziaria strutturata su sei principali pilastri, alcuni dei quali già analizzati: il Semestre europeo; il c.d. “Six pack”56; le disposizioni

55 Sul punto cfr. CAPUANO D., Il Trattato sul fiscal compact, Senato della Repubblica - Servizio affari internazionali - Ufficio per i rapporti con le istituzioni dell’Unione europea, Dossier n. 94/DN 16 aprile 2012. 56 Il “Six pack” è costituito da sei atti legislativi volti sia al rafforzamento del Patto di stabilità e crescita, sia al rafforzamento della normativa relativa ai quadri di bilancio nazionali e la sorveglianza in materia di squilibri macroeconomici. Esattamente il Six pack comprende: Regolamento (UE) n. 1173/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 novembre 2011, relativo all’effettiva esecuzione della sorveglianza di bilancio nella zona euro; Regolamento (UE) n. 1174/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 novembre 2011, sulle misure esecutive per la correzione degli squilibri macroeconomici eccessivi nella zona euro; Regolamento (UE) n. 1175/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 novembre 2011, che modifica il regolamento (CE) n. 1466/97 del Consiglio per il rafforzamento della sorveglianza delle posizioni di bilancio nonché della sorveglianza e del coordinamento delle politiche economiche; Regolamento (UE) n. 1176/2011 del Parlamento europeo e del

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relative alla sorveglianza macroeconomica; la determinazione di requisiti minimi per i quadri nazionali di bilancio; il c.d. Patto Euro Plus; un fondo per la stabilizzazione dell’area euro, istituito, per il triennio 2010-2012, dai Capi di Stato e di Governo dell’area euro nel maggio 2010, successivamente modificato e poi sostituito nel corso del 2012, dal meccanismo europeo di stabilità (M.E.S.) della zona euro, previsto da una modifica dell’articolo 136 del Trattato sul funzionamento dell’U.E., adottata dal Consiglio europeo del 24-25 marzo 201157.

Posticipando ad un paragrafo successivo l’analisi relativa alle modalità dell’approvazione del Fiscal Compact ed alla sua conseguente natura giuridica, occorre evidenziare le principali novità tecniche introdotte dal «Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance dell’Unione economica e monetaria».

Da una prima analisi del T.S.C.G. emerge che esso è composto da un Preambolo e da 16 articoli, suddivisi in 6 titoli: il primo relativo all’oggetto e all’ambito di

Consiglio, del 16 novembre 2011, sulla prevenzione e la correzione degli squilibri macroeconomici; Regolamento (UE) n. 1177/2011 del Consiglio, dell’8 novembre 2011, che modifica il regolamento (CE) n. 1467/97 per l’accelerazione e il chiarimento delle modalità di attuazione della procedura per i disavanzi eccessivi; Direttiva 2011/85/UE del Consiglio, dell’8 novembre 2011, relativa ai requisiti per i quadri di bilancio degli Stati membri.57 Cfr. NUGNES F., Il Fiscal Compact. Prime riflessioni su un accordo ricognitivo, in www.forumcostituzionale.it.

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applicazione; il secondo relativo alla coerenza e al rapporto con il diritto dell’Unione; il terzo relativo al patto di bilancio (il cd. fiscal compact); il quarto relativo al coordinamento delle politiche economiche e convergenza; il quinto relativo alla governance della zona euro; il sesto relativo alle disposizioni generali e finali.

Già nel Preambolo del Trattato è possibile scorgere aspetti di fondamentale importanza come, ad esempio, quello in cui si stabilisce che la garanzia dell’assistenza nel quadro dei nuovi programmi previsti dal Meccanismo europeo di stabilità sarà condizionata, dal 1° marzo 2013, alla ratifica del fiscal compact da parte della parte contraente interessata e, appena sarà terminato il periodo previsto per la trasposizione della regola del bilancio in pareggio nelle legislazioni nazionali (c.d. regola d’oro o golden rule), di cui all’articolo 3, paragrafo 2, del trattato, sarà condizionata anche a quanto richiesto in detto articolo.

Merita particolare attenzione anche il considerando con cui, nell’implementazione del Trattato, si richiede il rispetto dello specifico ruolo delle parti sociali, come riconosciuto nelle leggi e nei sistemi nazionali, nonché il riferimento al Patto Euro Plus, adottato dai capi di Stato o di Governo degli Stati membri della zona euro e di altri Stati membri

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dell’Unione il 25 marzo 2011, quale strumento che individua gli aspetti essenziali per migliorare la competitività della zona euro.

Inoltre, tra gli ulteriori principi espressi nel preambolo, e che costituiscono il presupposto per l’adozione del Trattato, si evidenzia: a) il desiderio da parte dei Paesi firmatari di favorire le condizioni per una maggiore crescita economica nell’U.E. e, a tale scopo, di sviluppare un coordinamento sempre più stretto delle politiche economiche della zona euro; b) la necessità di fondamentale importanza per gli Esecutivi nazionali di mantenere finanze pubbliche sane e sostenibili e di evitare disavanzi pubblici eccessivi al fine di salvaguardare la stabilità di tutta la zona euro, richiedendo quindi l’introduzione di regole specifiche, tra cui una “regola del pareggio di bilancio” e un meccanismo automatico per l’adozione di misure correttive; c) la necessità di garantire che il loro disavanzo pubblico non superi il 3% del prodotto interno lordo ai prezzi di mercato e che il loro debito pubblico non superi il 60% del prodotto interno lordo ai prezzi di mercato o si riduca in misura sufficiente avvicinandosi a tale percentuale; d) il bisogno per le parti contraenti, in qualità di Stati membri dell’U.E., di astenersi da qualsiasi misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell’Unione nel quadro dell’unione economica; e) l’obiettivo dei

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Capi di Stato o di Governo degli Stati membri della zona euro e di altri Stati membri dell’Unione europea di integrare quanto prima le disposizioni del presente trattato nei Trattati su cui si fonda l’Unione europea; f) la necessità di aggiornare periodicamente gli obiettivi di medio termine sulla base di un metodo concordato, i cui principali parametri devono a loro volta essere periodicamente rivisti, in modo da rispecchiare adeguatamente i rischi delle passività esplicite ed implicite per le finanze pubbliche, in linea con le finalità del patto di stabilità e crescita; g) che l’obbligo delle parti contraenti di recepire la “regola del pareggio di bilancio” nei loro ordinamenti giuridici nazionali, tramite disposizioni vincolanti, permanenti e preferibilmente di natura costituzionale, dovrebbe essere soggetta alla giurisdizione della Corte di giustizia dell’U.E. a norma dell’art. 273 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea; h) che il 26 ottobre 2011 i capi di Stato o di governo degli Stati membri della zona euro hanno convenuto di migliorare la governance della zona euro, anche mediante l’organizzazione di almeno due riunioni del Vertice euro all’anno, da convocarsi, salvo in presenza di circostanze eccezionali, immediatamente dopo le riunioni del Consiglio europeo o le riunioni a cui partecipino tutte le parti contraenti che hanno ratificato il presente trattato.

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Prima di passare all’analisi del cuore del trattato – relativo al patto di bilancio – occorre sottolineare che il titolo secondo, composto dal solo art. 2, stabilisce che il Trattato sarà applicato ed interpretato conformemente ai Trattati su cui si fonda l’U.E., con particolare riferimento all’art. 4, par. 3, del Trattato sull’Unione europea, ed al diritto dell’U.E., compreso il diritto procedurale ogniqualvolta sia richiesta l’adozione di atti di diritto derivato58. Lo stesso T.S.C.G., inoltre, potrà essere applicato nella misura in cui è compatibile con i Trattati su cui si fonda l’U.E. e con il diritto dell’Unione europea; esso non pregiudica la competenza dell’Unione in materia di unione economica.

Appare di indubbia importanza la precisazione contenuta nel preambolo, per cui la Commissione – nel momento in cui monitora gli impegni di bilancio delle parti contraenti del fiscal compact – agisce nel quadro dei poteri conferiti dagli articoli 121, 126 e 136 del TFUE; ciò comporta che tutto quello che viene svolto dalla Commissione, in base ai citati articoli, nel

58 Secondo l’articolo 4, paragrafo 3, del trattato UE, «3. In virtù del principio di leale cooperazione, l’Unione e gli Stati membri si rispettano e si assistono reciprocamente nell’adempimento dei compiti derivanti dai trattati. Gli Stati membri adottano ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione. Gli Stati membri facilitano all’Unione l’adempimento dei suoi compiti e si astengono da qualsiasi misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell’Unione»

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controllo delle posizioni di bilancio degli Stati membri dell’Unione nell’ambito delle competenze proprie dell’Unione (e quindi nell’ambito del patto di stabilità e crescita) avrà anche l’ulteriore utilizzazione per le finalità previste dal fiscal compact, senza quindi duplicazioni di attività59.

Passando ora all’analisi del titolo terzo del T.S.C.G. – parte centrale del Trattato, costituita dal Patto di bilancio (fiscal compact) – si deve sottolineare che l’art. 3 individua le regole fondamentali del controllo dei bilanci pubblici degli Stati firmatari, «in aggiunta e fatti salvi i loro obblighi ai sensi del diritto dell’Unione europea».

Più precisamente, vengono stabilite le seguenti regole: a) la posizione di bilancio della pubblica amministrazione di ciascuna parte contraente deve essere in pareggio o in avanzo; b) la regola di cui alla lett. a) si considera rispettata se il saldo strutturale annuo della pubblica amministrazione risulta pari all’obiettivo di medio termine specifico per il paese, quale definito nel patto di stabilità e crescita rivisto, con il limite inferiore di un disavanzo strutturale dello 0,5% del prodotto interno lordo ai prezzi di mercato60. Ciascuna parte contraente si impegna ad assicurare la

59 Sul punto cfr. CAPUANO D., op. cit.60 Ai sensi dell’art. 3, par. 3, lett a), per "saldo strutturale annuo della pubblica amministrazione" si deve intendere il saldo annuo corretto per il ciclo al netto di misure una tantum e temporanee.

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rapida convergenza verso il proprio obiettivo di medio termine. Il quadro temporale per tale convergenza sarà proposto dalla Commissione europea tenendo conto dei rischi specifici del paese sul piano della sostenibilità. I progressi verso l’obiettivo di medio termine e il rispetto di tale obiettivo verranno valutati globalmente, facendo riferimento al saldo strutturale e analizzando la spesa al netto delle misure discrezionali in materia di entrate, in linea con il patto di stabilità e crescita rivisto61; c) ciascuna parte contraente può deviare temporaneamente dal proprio obiettivo di medio termine o dal percorso di avvicinamento a tale obiettivo solo in circostanze eccezionali. È lo stesso Trattato a stabilire che per “circostanze eccezionali” si intendono eventi inconsueti non soggetti al controllo della parte contraente interessata che abbiano rilevanti ripercussioni sulla situazione finanziaria della pubblica amministrazione oppure periodi di grave recessione economica ai sensi del patto di stabilità e crescita rivisto, purché la deviazione temporanea della parte contraente interessata non comprometta la sostenibilità del bilancio a medio termine (come

61 Si deve evidenziare che nel preambolo, è contenuto un considerando con cui le parti contraenti esprimono il loro supporto a eventuali proposte legislative della Commissione europea che dovessero rafforzare ulteriormente il patto di stabilità e crescita introducendo, per i Paesi la cui moneta è l’euro, nuovi parametri per gli obiettivi di medio termine, in linea con gli obiettivi del nuovo trattato.

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stabilito dall’art. 3, par. 3, lett. b); d) quando il rapporto tra il debito pubblico ed il prodotto interno lordo ai prezzi di mercato risulta significativamente inferiore al 60% ed i rischi sul piano della sostenibilità a lungo termine delle finanze pubbliche sono bassi, il limite inferiore per l’obiettivo di medio termine può arrivare fino a un disavanzo strutturale massimo dell’1,0% del prodotto interno lordo ai prezzi di mercato; e) in caso di deviazioni significative dall’obiettivo di medio termine o dal percorso di avvicinamento a tale obiettivo, sarà attivato automaticamente un meccanismo di correzione. Quest’ultimo include l’obbligo della parte contraente interessata di attuare misure per correggere le deviazioni in un periodo di tempo definito.

Il secondo paragrafo dell’art. 3 stabilisce l’ulteriore principio fondamentale per cui le regole enunciate al par. 1 acquisteranno piena efficacia nel diritto nazionale delle parti contraenti non oltre un anno dall’entrata in vigore del Trattato stesso tramite disposizioni vincolanti e di natura permanente – preferibilmente costituzionale – o il cui rispetto fedele è in altro modo rigorosamente garantito lungo tutto il processo nazionale di bilancio. L’importanza di questo principio si evince anche dal fatto che riversa i suoi effetti sia sul controllo della Corte di giustizia, di cui al successivo art.8, sia sulla possibilità di ricorrere

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all’assistenza finanziaria prevista dal Trattato sul Meccanismo europeo di stabilità (entrambi i punti saranno oggetto di specifico esame qui di seguito).

Ed ancora, il par. 2 dell’art. 3 prosegue affermando che le parti contraenti devono istituire a livello nazionale il meccanismo di correzione di cui al paragrafo 1, lettera e), sulla base di principi comuni proposti dalla Commissione europea, riguardanti in particolare la natura, la portata e il quadro temporale dell’azione correttiva da intraprendere, anche in presenza di circostanze eccezionali, e il ruolo e l’indipendenza delle istituzioni responsabili sul piano nazionale per il controllo dell’osservanza delle regole enunciate al paragrafo 1. Tale meccanismo di correzione deve rispettare appieno le prerogative dei Parlamenti nazionali62.

L’art. 4 del Trattato, invece, disciplinando il cosiddetto criterio del debito, stabilisce che quando il rapporto tra il debito pubblico e il prodotto interno lordo di una parte contraente supera il valore di riferimento del 60% di cui all’articolo 1 del protocollo

62 Nella fase di valutazione dei “principi comuni” del meccanismo di correzione automatica presentati dalla Commissione europea non potrà non essere valorizzata la nozione di percorso di avvicinamento all’obiettivo di medio termine contenuta all’articolo 5, paragrafo 1, comma 3, del regolamento (CE) n. 1466/97, come modificato dal six-pack, in cui si afferma che i «progressi sufficienti verso l’obiettivo di bilancio a medio termine sono valutati globalmente, facendo riferimento al saldo strutturale e analizzando la spesa al netto delle misure discrezionali in materia di entrate».

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(n. 12) sulla procedura per i disavanzi eccessivi, allegato ai Trattati dell’Unione europea, le parti contraenti devono operare una riduzione a un ritmo medio di un ventesimo all’anno come parametro di riferimento come stabilito dell’articolo 2 del regolamento (CE) n. 1467/97 del Consiglio, del 7 luglio 1997 (il c.d. “braccio correttivo” del patto di stabilità e crescita), per l’accelerazione e il chiarimento delle modalità di attuazione della procedura per i disavanzi eccessivi, come modificato dal regolamento (UE) n. 1177/2011 del Consiglio, dell’8 novembre 201163.

Come evidenziato da diversi studi, la precisazione che la riduzione del debito debba avvenire nel rispetto dell’intero articolo 2 del regolamento (CE) n. 1467/97 risulta essere di fondamentale importanza.

Ed invero, questo paragrafo fa riferimento a diversi parametri che permettono di ridurre il grado di rigidità del criterio del ventesimo all’anno della diminuzione dell’eccedenza di debito rispetto al 60% stabilito; ad esempio, basti pensare alla possibilità di valutare la riduzione come media nell’ambito di un triennio, e non anno per anno, oppure di valutare l’influenza del ciclo sull’andamento del debito64.

63 Si precisa che il regolamento (UE) n. 1177/2011, dell’8 novembre 2011 è uno dei sei atti costituenti il six-pack, entrato in vigore il 13 dicembre 2011.64 cfr. CAPUANO D., op. cit.

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Inoltre, attraverso il rinvio integrale all’articolo 2 del regolamento (CE) n. 1467/97, come modificato nel 2011 si consente – nel momento della valutazione sul percorso di riduzione dell’eccedenza di debito – il ricorso a diversi fattori molto significativi indicati nei restanti paragrafi dello stesso articolo, tra i quali: 1) la posizione in termini di risparmi netti del settore privato (paragrafo 3, lett. a); 2) il livello del saldo primario (paragrafo 3, lett. b); l’attuazione di politiche nel contesto di una strategia di crescita comune dell’Unione (paragrafo 3, lett. b); 4) l’attuazione di riforme delle pensioni che promuovano la sostenibilità a lungo termine senza aumentare i rischi per la posizione di bilancio a medio termine (paragrafo 5)65.

L’art. 4, infine, prosegue affermando che l’esistenza di un disavanzo eccessivo dovuto all’inosservanza del criterio del debito verrà decisa in conformità della procedura di cui all’articolo 126 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea; in particolare, secondo il par. 6 di quest’ultimo articolo è il Consiglio – su proposta della Commissione e considerate le osservazioni che lo Stato membro interessato ritenga di formulare – a decidere, dopo una valutazione globale, se esiste un disavanzo eccessivo66.65 Ibidem.66 Come evidenziato da Capuano nella citata opera, “il richiamo espresso alla «procedura di cui all’articolo 126» potrebbe significare che per il fiscal compact – che è comunque, come il

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Il successivo art. 5 del T.S.C.G. stabilisce che ciascuna parte contraente che sia soggetta alla procedura per i disavanzi eccessivi ai sensi dei Trattati su cui si fonda l’Unione europea dovrà predisporre un programma di partenariato economico e di bilancio che comprenda una descrizione dettagliata delle riforme strutturali da definire e attuare per una correzione effettiva e duratura del suo disavanzo eccessivo. Il contenuto e il formato di tali programmi dovranno essere definiti nel diritto dell’Unione europea mentre la loro presentazione al Consiglio dell’Unione europea ed alla Commissione europea per l’approvazione ed il monitoraggio avranno luogo nel contesto delle procedure di sorveglianza attualmente previste dal patto di stabilità e crescita.

Ai sensi dell’art. 6, le parti contraenti – al fine di coordinare meglio le emissioni di debito nazionale previste – comunicano ex ante al Consiglio dell’Unione europea ed alla Commissione europea i rispettivi piani di emissione del debito pubblico

TFUE, un trattato internazionale - l’accertamento dell’inosservanza del criterio del debito deve avvenire senza che sia possibile […] l’utilizzazione della regola della maggioranza inversa”. Si precisa che una decisione si intende adottata dal Consiglio con la citata regola a meno che quest’ultimo, a maggioranza semplice, non decida di respingerla entro dieci giorni dalla sua adozione da parte della Commissione. Pertanto, il richiamo alla procedura di cui all’art. 126 comporterebbe che in Consiglio si dovrà comunque trovare la maggioranza qualificata affinché la proposta della Commissione sia approvata.

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Proseguendo con l’analisi del cuore del Trattato, e cioè del titolo terzo, l’art. 7 obbliga le parti contraenti la cui moneta è l’euro a sostenere le proposte o le raccomandazioni presentate dalla Commissione europea, ove questa ritenga che sia stato violato il criterio del deficit nel quadro di una procedura per i disavanzi eccessivi. Tale obbligo non opera nel caso in cui venga constatato che la maggioranza qualificata delle parti contraenti la cui moneta è l’euro – calcolata senza tenere conto della posizione della parte contraente interessata – si oppone alla decisione proposta o raccomandata dalla Commissione stessa (c.d. “maggioranza inversa”).

Più esattamente, con la predisposizione di questo articolo, le parti contraenti la cui moneta è l’euro si sono obbligate a verificare – prima dell’adozione di una decisione nell’ambito della procedura per disavanzi eccessivi con riferimento al criterio del deficit – che tra le stesse non sussista una maggioranza qualificata contraria alle proposte o raccomandazioni della Commissione; solo nell’ipotesi in cui tale maggioranza non sussista tutte le parti contraenti la cui moneta è l’euro al fine di evitare la violazione dell’obbligo internazionale di cui all’articolo 7 – dovranno votare a sostegno delle proposte e raccomandazioni della Commissione.

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Da tale disposizione, inoltre, emergerebbe un travalicamento del ruolo del Consiglio delineato dall’art.126 TFUE ed un conseguente rafforzamento del ruolo della Commissione, posto che si procederebbe all’applicazione della procedura sui disavanzi eccessivi prevista dal menzionato articolo – oltreché dal regolamento 1466/1997 – soltanto nell’ipotesi in cui sussista una maggioranza qualificata delle parti contraenti opposta alle posizioni della Commissione67.

L’art. 8, con il quale si conclude il titolo sul patto di bilancio, individua le competenze della Corte di giustizia in riferimento alle procedure per la verifica dell’osservanza degli obblighi previsti in tema di disavanzo e di costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, di cui al precedente art. 3, par. 2, distinguendo due modalità di ricorso alla Corte di giustizia: la prima dispone che una o più parti contraenti del Trattato potranno adire la Corte di giustizia nell’ipotesi in cui la Commissione – dopo aver presentato tempestivamente alle stesse parti contraenti una relazione sulle disposizioni adottate da ciascuna di loro, in ottemperanza all’art. 3, par. 2, e dopo aver posto la parte contraente interessata in condizione di presentare osservazioni – concluda nel senso che tale parte contraente non abbia rispettato la

67 Cfr. DI MARIA R. e GENNARO G, op.cit

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relativa disposizione; la seconda ipotesi, invece, consente ad una parte contraente di adire la Corte di giustizia anche qualora ritenga, indipendentemente dalla relazione della Commissione, che un’altra parte contraente non abbia rispettato i vincoli posti dal Trattato68.

Lo stesso par. 1 precisa, inoltre, che in entrambi i casi la sentenza della Corte di giustizia è vincolante per le parti del procedimento che, pertanto, dovranno assumere tutti i provvedimenti che l’esecuzione della sentenza comporti, entro il termine stabilito dalla Corte stessa69; il par. 2, infine, prevede che uno degli Stati – nell’ipotesi di mancata ottemperanza delle sentenze di cui al par. 1 – sulla base della propria valutazione o della valutazione della Commissione europea, possa nuovamente adire la Corte di Lussemburgo, chiedendo l’imposizione di sanzioni finanziarie secondo i criteri stabiliti dalla Commissione europea nel quadro dell’art. 260 TFUE.

Ed ancora, qualora la Corte di giustizia constati che la parte contraente interessata non si sia

68 Ibidem69 Appare evidente come l’assetto prefigurato in questa prima parte dell’articolo 8 sia stato mutuato dalla disciplina delle procedure di infrazione, specie nella parte in cui si stabilisce che le stesse siano attivate su iniziativa di uno Stato membro, così come previsto dall’articolo 259 del TFUE. Tuttavia, si deve evidenziare che la Corte di giustizia agisce nell’ambito delle sue competenze arbitrali, previste dall’articolo 273 del TFUE, come precisato dallo stesso articolo 8, ultimo paragrafo, e dal preambolo del trattato

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conformata alla sua sentenza, potrà comminarle il pagamento di una somma forfettaria o di una penalità adeguata alle circostanze e non superiore allo 0,1% del suo prodotto interno lordo. Le somme che verranno imposte ad una parte contraente la cui moneta è l’euro verranno confluite al meccanismo europeo di stabilità; negli altri casi, i pagamenti saranno invece versati al bilancio generale dell’Unione europea

Alla luce di quanto appena detto, dunque, non possono sorgere dubbi sul fatto che tale disposizione abbia introdotto importanti novità circa il ruolo della Corte nonché riguardo le modalità di ricorso nei suoi confronti da parte degli Stati contraenti: per quanto maggiormente rileva in questa sede, basti evidenziare che l’art. 8 del Trattato ha permesso il superamento del presupposto stabilito dall’art. 259 TFUE, costituito dal previo parere che la Commissione deve emettere entro tre mesi dalla domanda che gli viene formulata.

Dopo aver analizzato attentamente la parte fondamentale del T.S.C.G., costituita dal fiscal compact, si può ora procedere con una veloce disamina del titolo IV – composto dagli artt. 9, 10 e 11 – che si riferisce al coordinamento delle politiche economiche e convergenza.

Più precisamente, ai sensi dell’art. 9, le parti contraenti – al fine di elaborare una politica

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economica che favorisca il buon funzionamento dell’unione economica e monetaria e la crescita economica – si sono impegnate a ricercare una convergenza e una competitività rafforzate, nonché ad adottare tutte quelle misure necessarie in tutti i settori essenziali al buon funzionamento della zona euro, perseguendo gli obiettivi di stimolare la competitività, promuovere l’occupazione, contribuire ulteriormente alla sostenibilità delle finanze pubbliche e rafforzare la stabilità finanziaria; il successivo art. 10, invece, fa rifermino a misure specifiche concernenti gli Stati membri la cui moneta è l’euro, come previsto nell’art. 136 del TFUE, e alle cooperazioni rafforzate, come stabilito dall’art. 20 TUE e dagli artt. da 326 a 334 TFUE, nelle materie essenziali al buon funzionamento della zona euro, senza recare pregiudizio al mercato interno; l’art. 11, infine, prescrive alle parti contraenti – ai fini di una valutazione comparativa delle migliori prassi e adoperandosi per una politica economica più strettamente coordinata – di discutere ex ante e, ove appropriato, coordinare tra loro tutte le grandi riforme di politica economica che intendono intraprendere. A tale coordinamento partecipano le istituzioni dell’Unione europea in conformità del diritto dell’Unione europea.

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Particolare importanza assume anche il titolo V del T.S.C.G. che disciplina la governance della zona euro con gli articoli dal 12 e 13; il primo prevede la costituzione del cosiddetto Vertice euro, al quale partecipano i capi di Stato o di governo delle parti contraenti la cui moneta è l’euro insieme con il presidente della Commissione europea e con il presidente della Banca centrale europea, che è invitato a partecipare a tali riunioni informali70.

Tali riunioni dovranno essere convocate quando necessario, almeno due volte all’anno, per discutere questioni connesse alle competenze specifiche che le parti contraenti la cui moneta è l’euro condividono in relazione alla moneta unica, nonché altre questioni concernenti la governance della zona euro e le relative regole, e gli orientamenti strategici per la condotta delle politiche economiche per aumentare la convergenza nella zona euro.

L’art. 12, inoltre, per far fronte alle richieste di partecipazione al Vertice euro formulate da parte degli Stati contraenti diversi da quelli la cui moneta è l’euro, i loro capi di Stato o di governo partecipino alle discussioni delle riunioni relative alla competitività per le parti contraenti, alla modifica dell’architettura

70 Per assicurare la partecipazione del Parlamento europeo si prevede che il Presidente di questa istituzione possa essere invitato per essere ascoltato; il presidente del Vertice euro, inoltre, deve riferire al Parlamento europeo dopo ogni riunione del Vertice euro.

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complessiva della zona euro e alle regole fondamentali che ad essa si applicheranno in futuro, nonché, ove opportuno e almeno una volta all’anno, alle discussioni su questioni specifiche di attuazione del Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’unione economica e monetaria.

La preparazione e la continuità delle riunioni del Vertice euro dovrà essere assicurata dal suo Presidente, in stretta cooperazione con il presidente della Commissione europea; l’organismo incaricato di preparare e dar seguito alle riunioni del Vertice euro è invece l’Eurogruppo e a questo fine il suo presidente può essere invitato a partecipare a tali riunioni.

Il successivo art. 13, invece, stabilisce che – così come previsto dal titolo II del protocollo (n. 1) sul ruolo dei parlamenti nazionali nell’Unione europea allegato ai Trattati dell’Unione europea – il Parlamento europeo ed i Parlamenti nazionali delle parti contraenti dovranno definire insieme l’organizzazione e la promozione di una conferenza dei rappresentanti delle pertinenti commissioni del Parlamento europeo e dei rappresentanti delle pertinenti commissioni dei parlamenti nazionali ai fini della discussione delle politiche di bilancio e di altre questioni rientranti nell’ambito di applicazione del T.S.C.G.71

71 Deve essere evidenziato che il titolo II del protocollo n. 1, oltre ad essere composto dal citato art. 9, è costituito anche dal

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Tralasciando l’esame degli artt. 14 e 15 del T.S.C.G., già descritti in precedenza, appare ora opportuno soffermarsi sull’art. 16, con il quale si conclude il Trattato stesso.

In particolare, la citata disposizione contiene la clausola per cui «al più tardi entro cinque anni dalla data di entrata in vigore del presente trattato, sulla base di una valutazione dell’esperienza maturata in sede di attuazione, sono adottate in conformità del trattato sull’Unione europea e del trattato sul funzionamento dell’Unione europea le misure necessarie per incorporare il contenuto del presente trattato nell’ordinamento giuridico dell’Unione europea».

Il “Fiscal Compact” dunque – in linea con il Patto di stabilità e crescita, come da ultimo rivisitato nel 2011 – nel proseguire nella direzione di una concreta declinazione e taratura dei vincoli comuni sulla base delle specifiche situazioni nazionali, canonizza i

successivo art. 10, il quale si riferisce precisamente alla conferenza degli organi parlamentari specializzati per gli affari dell’Unione (cd. COSAC). Più precisamente, come emerso durante la riunione dei presidenti COSAC svoltasi a Copenhagen il 30 gennaio 2012 – nello stesso giorno dell’approvazione del fiscal compact al Consiglio europeo informale – e come confermato dal vicepresidente della Commissione europea Maros Šefčovič, sarà probabile che proprio in quel contesto possano essere discusse le tematiche concernenti la disciplina dei bilanci degli Stati membri.

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margini di flessibilità all’interno di una disciplina più puntuale e stringente72.

Alla luce di tali caratteristiche, appare evidente che il potere decisionale in materia di politiche fiscali non sarà più di competenza delle rappresentanze elette, bensì della tecnocrazia della B.C.E. e dei Governi riuniti nel Consiglio europeo, con la collaborazione della Commissione e del Vertice Euro: saranno questi organismi a decidere “la sostenibilità delle finanze pubbliche” dei Paesi membri, seguendo le procedure definite dal Patto Euro Plus ed i parametri indicati dal “Six Pack”.

Alla luce di quanto sopraesposto, emerge che il recente Patto Fiscale – attraverso una restrizione incisiva della sovranità nazionale nelle politiche di bilancio ed economiche, anche tramite vincoli di natura para-costituzionale – si muove in una duplice direzione: da un lato, è volto a rendere più stringente la disciplina di bilancio e più pervasiva, integrata e sistematica la relativa sorveglianza da parte delle istituzioni comunitarie; d’altro lato, cerca di porsi in un’ottica maggiormente tailormade, che consenta di tradurre le specificità di ciascun Paese – positive o negative che siano – in una corrispondente declinazione, più o meno flessibile, delle regole fiscali generali. Ciò al fine di dare concreta valenza

72 Cfr. MORGANTE D., Note in tema di “Fiscal Compact”, in www.federalismi.it.

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normativa alla convinzione – ad esso sottostante – che il superamento della crisi economico-finanziaria non possa che passare attraverso finanze pubbliche più sane, solide, stabili, coese, che tendano ad omogeneizzarsi sotto il profilo dell’adozione delle migliori prassi di prudente gestione, sia delle risorse sia del livello di indebitamento73.

Inoltre, si deve evidenziare come le regole previste in merito al rigore di bilancio ripropongono essenzialmente le modifiche costituzionali già adottate nel 2009 in Germania e che, dunque, fanno ipotizzare una “germanizzazione” delle regole dell’Eurozona, in coerenza proprio con la leadership sempre maggiore assunta negli ultimi anni da Berlino nella gestione della crisi economica74

4. Il Meccanismo europeo di stabilità.

73 Cfr. MORGANTE D., op. cit.74 Sul punto, cfr. FABBRINI F., Il Fiscal Compact, in Quaderni costituzionali, 2012, p. 435. In merito alla riforma dell’art. 109 della Legge fondamentale tedesca, così come modificato dalla c.d. Föderalismus-Reform II del luglio 2009, si rimanda a PEDRINI F., La costituzionalizzazione tedesca del patto europeo di stabilità, in Quaderni costituzionali, 2011, pp. 391 ss.

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Un ulteriore passo avanti di fondamentale importanza per fronteggiare la grave crisi attraverso una ristrutturazione della governance economica dell’U.E. si è avuto sicuramente attraverso l’istituzione del Meccanismo europeo di stabilità (M.E.S.); anche in questo caso, così come per gli accordi già esaminati nel precedente paragrafo, i Paesi dell’Eurozona sono stati costretti ad utilizzare lo strumento del Trattato internazionale a causa del veto britannico75.

L’importanza di tale strumento emerge già dalle dichiarazioni di Jean-Claude Juncker, presidente dell’Eurogruppo e del Consiglio dei governatori del M.E.S., il quale ha affermato che “l’avvio del meccanismo europeo di stabilità rappresenta una tappa fondamentale nella costruzione del futuro dell’Unione monetaria europea. Lo stesso M.E.S. sarà sicuramente considerato un elemento rassicurante all’interno e all’esterno dell’Unione monetaria”76.75 Il trattato M.E.S. è entrato in vigore il 27 settembre 2012 e tutti e 17 gli Stati membri della zona euro lo hanno ratificato entro il 3 ottobre 2012. Più precisamente, è stato firmato a Bruxelles tra il Regno del Belgio, la Repubblica Federale di Germania, la Repubblica di Estonia, l’Irlanda, la Repubblica Ellenica, il Regno di Spagna, la Repubblica Francese, la Repubblica Italiana, la Repubblica di Cipro, il Granducato di Lussemburgo, Malta, il Regno dei Paesi Bassi, la Repubblica d’Austria, la Repubblica Portoghese, la Repubblica di Slovenia, la Repubblica Slovacca e la Repubblica di Finlandia.76 Dichiarazione espressa al termine della riunione inaugurale del Consiglio dei governatori del M.E.S., tenutasi in data 8 ottobre 2012.

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Ed invero, il Meccanismo europeo di stabilità, come già brevemente accennato, è stato previsto al fine di sostituire il Fondo per la stabilizzazione dell’area euro (F.E.S.F.), istituito dai Capi di Stato e di Governo dell’area euro nel maggio 2010 per sostenere la crisi congiunturale che aveva colpito Irlanda, Portogallo e Grecia.

Il F.E.S.F., infatti, presentava notevoli lacune, quali: la sua precarietà, essendo la sua durata limitata al triennio 2010/2012; la scarsità delle risorse di cui disponeva, non permettendo una tutela adeguata alla gravità degli attacchi della speculazione finanziaria; l’esposizione al pressing derivante dalle valutazioni compiute dalle agenzie di rating posto che il fondo si reggeva sulle garanzie fornite dagli Stati. Il nuovo Meccanismo europeo di stabilità, invece, al fine di resistere agli attacchi dei mercati finanziari si fonda direttamente sui versamenti di capitali direttamente da parte degli Stati aderenti77.

Ai sensi dell’art. 3 del Trattato, il M.E.S. ha l’obiettivo “di mobilizzare risorse finanziarie e fornire un sostegno alla stabilità, secondo condizioni rigorose commisurate allo strumento di assistenza finanziaria scelto, a beneficio dei membri del M.E.S. che già si 77 Il MES è alimentato tramite il versamento di quote da parte degli Stati membri secondo una percentuale ad hoc per ogni Stato. Quest’ultimo, dunque, versa una cifra e riceve azioni in cambio. L’Italia dovrà versare in scaglioni una percentuale del 17,9% del totale, cioè 125,3 miliardi di Euro, sul totale di 700 miliardi di Euro.

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trovino o rischino di trovarsi in gravi problemi finanziari, se indispensabile per salvaguardare la stabilità finanziaria della zona euro nel suo complesso e quella dei suoi Stati membri. A questo scopo è conferito al M.E.S. il potere di raccogliere fondi con l’emissione di strumenti finanziari o la conclusione di intese o accordi finanziari o di altro tipo con i propri membri, istituzioni finanziarie o terzi”.

In particolare, è stato attribuito al meccanismo europeo di stabilità il potere di raccogliere fondi mediante l’emissione di strumenti finanziari o attraverso la conclusione di intese o accordi finanziari o di altro tipo con i propri membri, istituzioni finanziarie o terzi78. Dunque, considerata l’importanza di questo “scudo” di protezione dell’Eurozona, il M.E.S. assume le sembianze di un’Istituzione finanziaria internazionale, con sede a Lussemburgo e a cui partecipano tutti i Paesi dell’eurozona, benché sia aperta alla partecipazione degli altri Stati dell’UE79.

Appare evidente, quindi, l’enorme potenzialità di questo strumento che è in grado di fornire ausilio in diversi modi, e cioè attraverso la concessione di prestiti, acquistando obbligazioni di Stati membri sui 78 Cfr. BILANCIA P., La nuova governance dell’Eurozona e i “riflessi” sugli ordinamenti nazionali, in www.federalismi.it. Più precisamente, il fondo stabilito per il M.E.S. è di 700 miliardi di euro e la sua capacità di prestito può arrivare a 500 miliardi di euro.79 Cfr. Ibidem

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mercati primari e secondari oppure assegnando prestiti per la ricapitalizzazione di banche e di altre istituzioni finanziarie.

Tuttavia, controbilancia i suindicati aspetti positivi la complessa e farraginosa struttura organizzativa di cui il M.E.S. è dotato, ciò a danno di un più facile accesso ai fondi da parte degli Stati che si trovano in gravi difficoltà.

In particolare, si tratta di una struttura basata su tre organi fondamentali: il Consiglio dei governatori, il Consiglio di amministrazione ed il Direttore generale, che potrà servirsi di un segretariato.

Il Consiglio dei governatori è composto da un governatore –  membro del governo dello Stato appartenente al MES e responsabile delle finanze – o da un governatore supplente (abilitato ad agire in nome del governatore in caso di assenza di quest’ultimo) nominato da ciascuno Stato aderente.

Inoltre, il Trattato prevede che possano partecipare alle riunioni del Consiglio dei governatori – in qualità di osservatori – il Commissario europeo per gli affari economici, il Presidente della BCE, rappresentanti di Stati membri non appartenenti all’Eurozona nel caso in cui partecipino a specifiche operazioni di salvataggio ed anche rappresentanti di istituzioni internazionali come il FMI.

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Le numerose competenze del Consiglio dei governatori sono elencate, a seconda che debbano essere adottate di comune accordo o a maggioranza qualificata, rispettivamente dagli artt. 6 e 7 del Trattato80.

80 Più precisamente, ai sensi dell’art. 6 il Consiglio dei governatori adotta decisioni di comune accordo in merito a quanto segue: a) la cancellazione del fondo per la riserva di emergenza e il reintegro del suo contenuto al fondo di riserva e/o al capitale versato, a norma dell’art. 4, par. 4; b) l’emissione di nuove quote a condizioni diverse da quelle emesse alla pari ai sensi dell’art. 8, par. 2; c) la richiesta di capitale ai sensi dell’art. 9, par. 1; d) le modifiche dello stock del capitale versato al fine di adeguare il volume della capacità massima di finanziamento del MES ai sensi dell’art. 10, par. 1; e) la valutazione dell’opportunità di possibili incrementi del modello di sottoscrizione del capitale della BCE ai sensi dell’art. 11, par. 3, e le modifiche da apportare all’allegato I ai sensi dell’art. 11, par. 6; f) la concessione del sostegno alla stabilità da parte del MES, incluse la politica economica, le condizioni enunciate nel protocollo d’intesa di cui all’art. 13, par. 3, e la definizione della scelta degli strumenti nonché delle modalità finanziarie e delle condizioni, ai sensi degli artt. da 12 a 18; g) il mandato alla Commissione europea per negoziare, di concerto con la BCE, le condizioni di politica economica cui è subordinata ogni operazione di assistenza finanziaria, ai sensi dell’art. 13, par. 3; h) la modifica della politica e delle linee direttrici per la fissazione dei tassi di interesse dovuti per l’assistenza finanziaria ai sensi dell’art. 20; i) la modifica dell’elenco degli strumenti di assistenza finanziaria utilizzabili da parte del MES ai sensi dell’art. 19; j) la determinazione delle modalità per il trasferimento dei sostegni concessi dal FESF al MES ai sensi dell’art. 40; k) l’approvazione delle domande di adesione al MES presentate da nuovi membri ai sensi dell’art. 44; l) gli adeguamenti del presente Trattato quale conseguenza derivante dall’adesione di nuovi membri, comprese le modifiche alla ripartizione del capitale tra i membri del MES ed il calcolo di detta ripartizione quale conseguenza derivante dall’adesione di un nuovo membro al MES, ai sensi dell’art. 44; m) la delega al consiglio di amministrazione di compiti elencati nel presente articolo.

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Il Consiglio di amministrazione, invece, è composto da  un amministratore (e da un amministratore supplente) nominati da ciascun governatore tra persone dotate di elevata competenza in campo economico e finanziario; inoltre, il membro della Commissione europea responsabile degli affari economici e monetari ed il Presidente della BCE possono nominare ciascuno un osservatore.

Al Consiglio di amministrazione spetta il compito di assicurare che l’attività del M.E.S. sia gestita conformemente ai vincoli previsti dal Trattato e dallo

Ai sensi dell’art. 7 del Trattato il Consiglio dei governatori adotta a maggioranza qualificata le decisioni che seguono: a) fissa le modalità tecniche dettagliate per l’adesione di un nuovo membro al MES ai sensi dell’art. 44; b) decide di essere presieduto dal presidente dell’Eurogruppo o elegge, a maggioranza qualificata, il presidente e il vicepresidente del consiglio dei governatori ai sensi del par. 2; c) redige lo statuto del MES e il regolamento interno del consiglio dei governatori e del consiglio di amministrazione (ivi incluso il diritto di istituire comitati e organi ausiliari) ai sensi del par. 9; d) compila l’elenco delle attività incompatibili con le funzioni di amministratore o amministratore supplente ai sensi dell’art. 6, par. 8; e) nomina il direttore generale e fissa la data di cessazione del suo mandato ai sensi dell’art. 7; f) determina altri fondi ai sensi dell’art. 24; g) assume decisioni sulle azioni da adottarsi per recuperare l’importo dovuto da un membro del MES ai sensi dell’art. 25, par. 2 e 3; h) approva il rendiconto annuale del MES ai sensi dell’art. 27, par. 1; i) nomina i membri del collegio dei revisori ai sensi dell’art. 30, par. 1; j) approva la nomina dei revisori esterni ai sensi dell’art. 29; k) revoca l’immunità del presidente del consiglio dei governatori, di un governatore, di un governatore supplente, di un amministratore, di un amministratore supplente o del direttore generale ai sensi dell’art. 35, par. 2; l) stabilisce il regime fiscale applicabile al personale del MES ai sensi dell’art. 36, par. 5; m) decide su eventuali controversie ai sensi dell’art. 37, par. 2; n) qualsiasi altra decisione necessaria non espressamente contemplata dal presente trattato.

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Statuto del M.E.S. stesso, ad esso delegati dal Consiglio dei governatori; il Consiglio di amministrazione, inoltre, adotta le decisioni disposte dal medesimo Trattato o ad esso delegate dal Consiglio dei governatori. Si tratta, dunque, dell’organo al quale sono affidate le questioni più tecniche e il suo ruolo dipenderà dal novero di funzioni che il Consiglio dei governatori deciderà di delegare nella gestione dell’attività del MES81.

Ai sensi dell’art. 4 del Trattato le decisioni del Consiglio dei governatori e del Consiglio di amministrazione vengono adottate di comune accordo, a maggioranza qualificata – costituita dall’80% dei voti espressi – o a maggioranza semplice; per tutte le decisioni, inoltre, è necessaria la presenza di un quorum di due terzi dei membri aventi diritto di voto che rappresentino almeno i due terzi dei diritti di voto. L’adozione di una decisione di comune accordo richiede l’unanimità dei membri partecipanti alla votazione; le astensioni non ostano all’adozione di una decisione di comune accordo82.

Infine, l’ultimo organo strutturale del M.E.S. è costituito dal Direttore generale; questo è nominato

81 Cfr. P. BILANCIA, op. cit.82 Il Trattato prevede anche una procedura di votazione d’urgenza nei casi in cui la Commissione e la BCE concludono che la mancata adozione di una decisione urgente circa la concessione o l’attuazione di un’assistenza finanziaria di cui agli articoli da 13 a 18 minaccerebbe la sostenibilità economica e finanziaria della zona euro.

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dal Consiglio dei governatori con un mandato di cinque anni, rinnovabile soltanto una volta. Al Direttore generale spetta la gestione degli affari correnti, sotto la direzione del Consiglio di amministrazione, del quale è chiamato a presiedere le riunioni.

Già da una prima analisi dell’organizzazione del Meccanismo europeo di stabilità, nonché delle modalità di adozione delle decisioni di sua competenza, emerge la nota e costante criticità di fondo che ha caratterizzato e continua ad accompagnare questa fase di reazione alla grave crisi economica da parte dei Paesi dell’U.E., e cioè il cosiddetto metodo intergovernativo.

In particolare, la principale nota negativa di questo metodo è certamente la sussistenza di un possibile potere di veto da parte di ogni singolo Stato membro nell’adozione delle decisioni di maggiore importanze che richiedono l’unanimità negli ambiti di maggiore rilevanza del Trattato83. Tuttavia, deve essere evidenziato che proprio al fine di evitare “ingessature” durante la fase deliberativa è stata prevista una possibile via di fuga; nelle situazioni di emergenza per la stabilità finanziaria dell’eurozona – invero individuate dalla Commissione europea e dalla

83 Si ricordi che ai sensi dell’art. 4, par. 3, del Trattato, le astensioni non ostano all’adozione di una decisione di comune accordo.

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Banca centrale europea – è possibile adottare una procedura che deroghi al principio dell’unanimità attraverso il ricorso alla maggioranza qualificata84.

In ogni caso, tenendo in considerazione che nella fase deliberativa non si utilizza il metodo di un voto per testa, bensì il criterio del voto ponderato – in relazione al contributo che ciascuno Stato versa al Meccanismo di stabilità85 – appare evidente che tale sistema garantisce, in ogni caso, un potere di veto a Germania e Francia; pertanto, anche nelle ipotesi di votazione a maggioranza qualificata viene comunque assicurata una leadership franco-tedesca86.

Ulteriore elemento negativo nel M.E.S. – oltre al già ricordato carattere intergovernativo che attribuisce un ruolo di fondamentale importanza nell’adozione degli atti di maggiore importanza ai governi degli Stati membri che operano attraverso il Consiglio dei governatori – è rinvenibile nella eccessiva complessità delle procedure e della governance del M.E.S. in contrasto con la necessità di affrontare con tempestività le situazioni di crisi dei debiti pubblici nazionali; ed invero, gli Stati firmatari

84 In questa ipotesi però la decisione potrà essere adottata raggiungendo la soglia dell’85% dei voti espressi e non dell’80%, come invece è stabilito per le decisioni che possono essere adottate in via “ordinaria” a maggioranza qualificata .85 Esattamente, per quanto riguarda le percentuali, alla Germania spetta il 27,14 per cento, alla Francia il 20,38 per cento e all’Italia il 17,91 per cento.86 Cfr. BILANCIA P., op. cit.

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hanno optato per un processo decisionale che assicura un controllo primario da parte del Consiglio dei governatori e che attribuisce alle Istituzioni europee – Commissione europea e B.C.E. – un ruolo fondamentale nell’elaborazione del programma di risanamento che lo Stato a rischio default e richiedente gli aiuti deve presentare per ricevere il sostegno finanziario, nonché nel monitoraggio sul rispetto del programma.

Nonostante le predette criticità, il Trattato che ha istituito il Meccanismo europeo di stabilità – rappresentando uno strumento in grado di assicurare il salvataggio dei Paesi in crisi – costituisce un notevole passo in avanti sia nella ricerca di una stabilità economica all’interno dell’Eurozona, sia nella governance economica dell’U.E.

Inoltre, secondo autorevole dottrina, il M.E.S. potrebbe rappresentare una prima tappa nella creazione di un Tesoro europeo dotato di una finanza ed in grado di coordinare le politiche economiche degli Stati membri87.87 In tal senso MAJOCCHI A., Verso una finanza federale europea, in www.csfederalismo.it; più precisamente, secondo l’autore, ai fini della creazione di una finanza federale europea sarebbe opportuno procedere alla creazione di un Istituto fiscale europeo, capace di provvedere al salvataggio dei Paesi che rischiano di essere travolti dalla crisi del debito sovrano. Il passo successivo, invece, dovrebbe concretizzarsi nell’emissione di eurobond, al fine di fornire mezzi finanziari per sostenere il piano di rilancio dell’economia all’interno dell’Eurozona. L’ultimo passo, infine, sarebbe costituito da un bilancio europeo, finanziato con risorse proprie dell’U.E., e

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4.1 (Segue): i rapporti tra il M.E.S. ed il Fiscal Compact.

Come già detto, con il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria (T.S.C.G.), le parti contraenti, in qualità di Stati membri dell’Unione europea, hanno convenuto di rafforzare il pilastro economico dell’U.E.M. – al fine di fronteggiare la crisi economica – adottando una serie di regole intese a rinsaldare la disciplina di bilancio attraverso un patto di bilancio, a potenziare il coordinamento delle loro politiche economiche e a migliorare la governance della zona euro, sostenendo in tal modo il conseguimento degli obiettivi dell’Unione europea in materia di crescita sostenibile, occupazione, competitività e coesione sociale (art. 1 del Trattato).

Questo nuovo Patto europeo di bilancio, dunque, per il contenuto delle sue disposizioni e per il ruolo primario che ha assunto all’interno dell’Eurozona, presenta una stretta correlazione con il Trattato che ha istituito il Meccanismo europeo di stabilità.

gestito da un Tesoro europeo di natura federale.

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A dimostrazione di quanto detto basti evidenziare che nel Preambolo del T.S.C.G. si afferma “l’importanza del trattato che istituisce il meccanismo europeo di stabilità in quanto elemento della strategia globale per rafforzare l’unione economica e monetaria” e si osserva “che la concessione dell’assistenza finanziaria nell’ambito di nuovi programmi a titolo del meccanismo europeo di stabilità sarà subordinata, a decorrere dal 1° marzo 2013, alla ratifica del presente trattato dalla parte contraente interessata e, previa scadenza del periodo di recepimento di cui all’articolo 3, paragrafo 2 [per la trasposizione della regola del bilancio in pareggio nelle legislazioni nazionali (c.d. regola d’oro o golden rule), ndr.], del presente trattato, al rispetto dei requisiti di tale articolo”.

Si tratta di un condizionamento, fortemente voluto dalla Germania, per permettere l’assistenza finanziaria del M.E.S. solo agli Stati che abbiano adottato regole stringenti in materia di disciplina di bilancio.

Ed invero, durante il negoziato svolto nelle fasi preparatorie del T.S.C.G., alcune delegazioni avevano manifestato una certa perplessità nei confronti di un meccanismo di doppia entrata in vigore della condizionalità, preferendo invece un’unica data per entrambi gli aspetti; tuttavia, il testo finale non ha

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raccolto queste proposte, mantenendo dunque integro il meccanismo della doppia condizionalità, riaffermato altresì nel considerando n. 5 del Trattato sul Meccanismo europeo di stabilità, sottoscritto a Bruxelles il 2 febbraio 2012 dai 17 Stati membri della zona euro.

Quest’ultimo, infatti, stabilisce che:  “Il 9 dicembre 2011 i capi di Stato o di governo degli Stati Membri la cui moneta è l’euro hanno deciso di procedere verso un’unione economica più forte, compresi un nuovo patto di bilancio e un rafforzamento del coordinamento delle politiche economiche da attuare attraverso un accordo internazionale, il trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’unione economica e monetaria (“TSCG”). Il TSCG aiuterà a sviluppare un coordinamento più stretto all’interno della zona euro al fine di garantire una duratura, sana e robusta gestione delle finanze pubbliche affrontando quindi una delle principali fonti di instabilità finanziaria. Il presente trattato e il TSCG sono complementari nel promuovere la responsabilità e la solidarietà di bilancio all’interno dell’Unione economica e monetaria. Viene riconosciuto e accettato che la concessione dell’assistenza finanziaria nell’ambito dei nuovi programmi previsti dal MES sarà subordinata, a decorrere dal 1° marzo 2013, alla

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ratifica del TSCG da parte del membro MES interessato e, previa scadenza del periodo di recepimento di cui all’articolo 3, paragrafo 2, del TSCG, al rispetto dei requisiti di cui al suddetto articolo.”

Pertanto, appare evidente che solo gli Stati che hanno deciso di ratificare il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance dell’Unione economica e monetaria avranno la possibilità di usufruire degli strumenti di sostegno previsti dal nuovo meccanismo europeo di stabilità.

Altro punto in comune tra i due Trattati si rinviene nell’attribuzione di determinate competenze alle Istituzioni europee nonostante si tratti di accordi internazionali che si muovono al di fuori del diritto dell’U.E.; anche il Fiscal Compact, infatti, stabilisce un loro intervento attivo al fine di assicurare il rispetto della regola del pareggio di bilancio.

Tuttavia, deve essere evidenziato che, a differenza di quanto previsto dal Meccanismo europeo di stabilità, il T.S.C.G. – imponendo agli stati aderenti l’introduzione del principio del pareggio di bilancio con norme di rango costituzionale – ha di fatto affidato agli stessi Stati firmatari la verifica del rispetto dello stesso principio; più precisamente, saranno le diverse Corti costituzionali nazionali a controllare che non venga violata la norma costituzionale.

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Ciò comporta notevoli difficoltà sia nel momento in cui si chiede l’intervento della Corte al fine di valutare una presunta violazione del parametro, sia nel momento della valutazione vera e proprio, posto che verrebbe richiesta alla corta una valutazione di merito che esula dalle competenze e dalle cognizioni proprie della Corte stessa88.

5. Il deficit di democrazia nei processi di intervento dell’U.U. nella disciplina della governance economica: la logica intergovernativa.

Come evidenziato più volte evidenziato, la maggior parte dei provvedimenti adottati nell’Eurozona – per far fronte alla crisi economica che dal 2008 ha colpito gran parte degli Stati occidentali –

88 Sul punto cfr. SCACCIA G., La giustiziabilità delle regole sul pareggio di bilancio, in Rivista dell’Associazione italiana dei costituzionalisti, 2012, fasc. III, in www.rivistaaic.it, pp. 1 ss.; Si veda anche PACE A., Il pareggio di bilancio, in Rivista dell’Associazione italiana dei ostituzionalisti, 2011, fasc. III, in www.rivistaaic.it, pp. 1 ss.; BOGNETTI G., Il pareggio di bilancio nella Carta Costituzionale, in Rivista dell’Associazione italiana dei costituzionalisti, 2011, fasc. III, su www.rivistaaic.it, pp. 1 ss.

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continua a soffrire di quella grave criticità di fondo costituita dal cosiddetto deficit democratico conseguente alla logica intergovernativa.

Ed invero, il sistema della governance – non solo economica – dell’U.E. appare da sempre non coerente con quei principi di legittimità democratica che sono invece tipici degli Stati membri.

A dimostrazione di tale assunto è sufficiente ricordare che la Commissione europea – contrariamente al fondamenta principio della separazione dei poteri – svolge contemporaneamente attività e poteri di tipo legislativo, esecutivo e giudiziario89.

Questa particolare strutturazione della governance europea, con specifico riferimento alle competenze della Commissione europea, sembrerebbe trovare giustificazione sia nella necessità di tenere conto delle legislazioni nazionali e degli interessi degli Stati membri prima di proporre un progetto di legge europea, sia perché risulta indispensabile assicurare anche gli interessi di quegli Stati meno popolati che difficilmente riuscirebbero a farsi sentire all’interno del Parlamento europeo.

89 Più precisamente, la Commissione europea ha un ruolo fondamentale nell’attività legislativa avendo il diritto (quasi esclusivo) di iniziativa legislativa, partecipa al potere esecutivo con le migliaia di decisioni esecutive all’anno e, infine, partecipa anche al potere giudiziario soprattutto in materia di aiuti di Stato e concorrenza.

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Principalmente per questi ma anche per altre ragioni, dal giorno della sua fondazione l’U.E. è stata accusata di soffrire del cosiddetto deficit democratico, non rispettando i principi fondamentali del costituzionalismo come la separazione dei poteri, i principi del governo limitato, della dichiarazione dei diritti e dei cosiddetti “pesi e contrappesi”.

In particolare, sono diversi gli autori che hanno manifestato tale criticità di fondo; tra questi, Stefano Bartolini sostiene che i termini di “Costituzione” e di “legittimità” democratica non possono essere utilizzati con riferimento al diritto dell’U.E. posto che nei Trattati su cui la stessa si basa i principi del costituzionalismo moderno sono scarsissimi se non addirittura assenti90.

Ma tra la vasta letteratura che si è occupata di questa tematica appare opportuno segnalare quanto affermato da Moravcsik e Renaud Dehosse, due analisti della governance europea; secondo gli autori è necessario chiedersi se una nuova democrazia sovranazionale europea debba fondarsi necessariamente sui medesimi principi costituzionali

90 Cfr. Bartolini S., “Taking Constitutionalism and Legitimacy seiously”, articolo pubblicato nel libro EU Federalism and Constitunalism edito da Andrew Glencross and Alexander Trechsel, Lexington Books, 2010, pagg. 11-34. In tal senso si esprime anche un altro analista della “democrazia europea”, SCHMITTER P. C., Come democratizzare l’Unione europea e perché, Il Mulino, 2010.

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che hanno ispirato le democrazie parlamentari nazionali.

A tale quesito ha provato a dare risposta – tuttavia senza buon esito – una tra le più scrupolose Corti costituzionali nella difesa dei principi democratici, esattamente quella tedesca, nella ormai nota sentenza del 30 giugno 2009; la Consulta se da una parte ha riconosciuto che la democrazia sovranazionale europea non può fondarsi necessariamente sugli stessi principi della democrazia nazionale, dall’altro lato ha contraddetto questa affermazione quando ha affermato che il Parlamento europeo non rispetta nella sua composizione il principio “one man, one vote” proprio degli Stati nazionali91.

Proprio al fine di diminuire il detto deficit democratico, vanno certamente evidenziate le importanti novità introdotte con il Trattato di Lisbona in merito al funzionamento della governance europea. Tra queste è opportuno ricordare l’aumento dei poteri legislativi e di bilancio del Parlamento europeo, lo stretto legame che intercorre tra la scelta del Presidente della Commissione europea ed i risultati delle elezioni europee, il maggiore coinvolgimento dei Parlamenti nazionali, la soppressione dell’anomalia che consentiva alla Commissione europe di modificare 91 Sul punto di veda la Sentenza Bundesverfassungsgericht - BVerfG, 2 BvE 2/08 del 30.6.2009 sulla ratifica del Trattato di Lisbona da parte della Germania ed in particolare i paragrafi n. 227, 285-286.

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il contenuto di una legge europea senza l’accordo del legislatore europeo, nonché, infine, l’importante riconoscimento sia della democrazia partecipativa con il diritto d’iniziativa legislativa – sia pure indiretto – da parte di un milione di cittadini europei, sia del carattere vincolante per i tribunali della Carta dei diritti fondamentali che stabilisce notevoli limita all’azione legislativa europea92.

In ogni caso, nonostante l’introduzione delle suindicate novità, permangono ancora quelle che vengono considerate le più importanti “anomalie” della governance europea.

In primis si deve fare riferimento – nonostante le importanti novità introdotte dal Trattato di Lisbona e degli accordi interistituzionali conclusi con la Commissione europea – alla mancanza di una reale capacità rappresentativa degli interessi dei cittadini europei da parte del Parlamento europeo.

Più precisamente, tra i principali fattori che determinano tale problematica si può fare riferimento: alla procedura elettorale europea, all’assenza di veri e propri partiti politici europei, nonché all’impossibilità per il cittadino europeo di influenzare direttamente la nomina di un governo europeo e la scelta di un programma di legislatura. Ed invero, il Parlamento europeo appare costretto in questa complessità di

92 Cfr. PONZANO P., Democrazia e governance europea, in Centro studi sul federalismo n. 07/2012.

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fondo a causa della necessità di continui negoziati e compromessi che non consentono ai candidati di fare delle precise promesse elettorali durante le elezioni europee.

In secondo luogo, invece, occorre evidenziare il diritto quasi esclusivo di iniziativa legislativa da parte della Commissione europea, con la previsione del solo obbligo complementare di fornire una motivazione nei casi in cui rifiuti di dare seguito alle richieste di proposte legislative emananti dal Parlamento europeo o dal Consiglio europeo dei Ministri; in ogni caso si deve prendere in considerazione l’importante dato per cui nella pratica la Commissione da seguito positivo al 95% delle richieste legislative ricevute dagli Stati membri, dalle altre Istituzioni e dai gruppi di pressione.

In terzo luogo, infine, tra gli elementi “anomali” della governance europea, si deve menzionare il ruolo sempre più importante esercitato dal Consiglio europeo che, con il passare degli anni è passato da una originaria competenza limitata a dare impulsi alle altre Istituzioni europee e a decidere gli orientamenti politici generali, ad un ruolo odierno di gestore permanente dell’Unione economica e monetaria93.

93 Cfr. PONZANO P., op. cit. L’autore evidenzia, infatti, come dall’inizio della grave crisi economica il Consiglio europeo abbia tenuto oltre ventotto riunioni formali ed informali con una frequenza quasi mensile.

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Secondo autorevole dottrina, inoltre, “i poteri perduti in sede nazionale dalle istituzioni rappresentative vengono poi acquistati in sede comunitaria da istituzioni non rappresentative o da […] efficienti tecnostrutture”; ed ancora, “se il centro politico del sistema europeo si individua nell’organo intergovernativo, […] l’integrazione europea rischia di passare attraverso scelte intergovernative che, per il solo fatto di essere compiute in sede comunitaria, sono prive di controlli politici e costituzionali di cui sono sottoposte nell’ordinamento nazionale”94.

Quanto sin qui premesso in relazione al deficit democratico esplica piena efficacia anche se si prende in considerazione quel settore più specifico individuabile nella governance economica dell’Eurozona.

Più precisamente, si può osservare come – a causa sia della mancanza di vere e proprie competenze dell’Unione nel campo delle singole politiche economiche nazionali, sia della necessità di mettere in atto meccanismi di assistenza finanziaria nei confronti degli Stati a rischio default – negli ultimi anni si sia assistito al “più pesante intervento [dell’Unione europea, ndr.] nelle responsabilità nazionali dotato della minore legalità”95.

94 Cfr. SORRENTINO F., Profili costituzionali dell’integrazione comunitaria, Giappichelli Editore, Torino, 1996, pag. 55.95 Cfr. HABERMAS J., Questa Europa è in crisi, Laterza, 2012.

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Basti pensare alla decisione del Consiglio europeo dell’8 giugno 2010 con la quale sono state imposte alla Grecia rilevanti limitazioni economiche che hanno inciso drammaticamente sulla vita dei cittadini come, ad esempio, la riduzione delle pensioni, dei giorni festivi, del numero degli impiegati ed altre misure economiche certamente non rientranti nella competenza dell’U.E.

Ed ancora, ulteriore esempio può trarsi dalla nota lettera della Banca Centrale europea del 5 agosto 2011 con cui – andando certamente oltre le proprie competenze – veniva chiesto all’Esecutivo italiano di provvedere quanto prima alla riforma del sistema pensionistico e del mercato del lavoro.

Secondo autorevole dottrina, dunque, questi interventi provocano seri dubbi di legittimità nei confronti dell’Unione europea, trattandosi di “accordi presi senza alcuna trasparenza e privi di forma giuridica” che “dovrebbero essere imposti agli esautorati parlamenti nazionali con l’ausilio di minacce di sanzioni o di pressioni varie”96; altri autori, invece, hanno evidenziato addirittura la probabile violazione del fondamentale principio democratico “no taxation without representation” con riferimento sia alle misure previste dal Meccanismo europeo di

96 Cfr. HABERMAS J., op. cit. pag. 81.

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stabilità, che alle misure di austerity imposte agli Stati che beneficiano degli aiuti europei97.

Alla luce di quanto premesso, si può quindi affermare che il problema del deficit democratico – che da sempre ha caratterizzato la governance europea – appare ancora più grave se si prende in esame il settore economico dell’Eurozona, posto che l’adozione di procedure di aggiustamento dei conti pubblici, imposte dalle Istituzioni dell’U.E. nei confronti degli Stati membri, comportano un danneggiamento irrimediabile delle condizioni esistenziali della cittadinanza98.

Ed ancora, in merito alla ratifica dei fondamentali Trattati che hanno introdotto il fiscal compact ed il Fondo salva-Stati, si deve osservare che gli Stati firmatari – considerata la stretta interdipendenza tra i due Trattati – si sono trovati in una situazione per cui non ratificando il nuovo patto di bilancio avrebbero rischiato di non ottenere i fondamentali aiuti economici.

Risulta essere indispensabile, dunque, una riforma sostanziale delle regole dei Trattati su cui si fonda il diritto dell’U.E., soprattutto al fine di evitare lo propagazione di una “reazione di rigetto” da parte dei cittadini europei ormai esausti della descritta 97 Questa critica è avanzata anche da Otmar Issing, ex membro tedesco della Banca Centrale europea.98 Cfr. Manzella A., Una democrazia porosa salverà l’Europa, la Repubblica, 18 maggio 2012.

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mancanza di democrazia e trasparenza; le possibili soluzioni proposte dalla dottrina possono essere sintetizzate in due principali progetti99.

Sulla base del primo progetto di riforma sarebbe opportuno procedere con la creazione progressiva di una vera e propria Unione politica europea composta da tutti gli Stati dell’Eurozona, possibilmente mediante la modifica del Trattato di Lisbona; inoltre, secondo una corrente di opinione sempre più vasta, al fine di evitare il ricorso al metodo intergovernativo nell’elaborazione del nuovo Trattato, sarebbe preferibile che la predetta Unione politica europea venisse varata attraverso i lavori di un’Assemblea costituente eletta per l’occasione dai cittadini europei secondo criteri di rappresentanza proporzionale.

Diversamente, il secondo progetto di riforma opterebbe per un’introduzione di nuovi meccanismi di legittimità democratica senza la modifica dei Trattati ma con la creazione di un’Unione fiscale che faccia perno su un Tesoro europeo soggetto al controllo democratico del Parlamento e che agisca ne quadro in un governo rappresentativo della volontà popolare, conformemente al principio “No taxation without representation”100; solo attraverso queste modifiche sarà poi possibile passare al passo successivo 99 Cfr. PONZANO P., op. cit.100 Cfr. MAJOCCHI A., Dal Fiscal Compact all’Unione fiscale, in G. BONVICINI e F. BRUGNOLI (a cura di), Il Fiscal Compact, in Quaderni IAI n. 5, settembre 2012, pagg. 45-52

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identificabile nella formazione di una Federazione europea.

Infine, per completezza nella trattazione della presente tematica, appare opportuno evidenziare che – al fine di rafforzare immediatamente la democraticità della governance europea senza modificare i Trattati, altri autori hanno proposto di adottare tre misure: a) una procedura elettorale uniforme per le elezioni del Parlamento europeo in grado di permette lo scambio di candidature e la presentazione di capolista unici tra Paese e Paese da parte di grandi partiti europei; b) l’impegno da parte degli esecutivi – attraverso una dichiarazione pre-elettorale – a nominare anche come Presidente del Consiglio europeo, il Presidente della Commissione europea eletto dalla Maggioranza del Parlamento europeo; c) una maggiore collaborazione tra i Parlamenti nazionali ed il Parlamento europeo attraverso l’utilizzo frequente di “conferenze” e “convenzioni” euro nazionali sulle questioni di maggiore rilevanza per l’Unione europea in modo da consentire una rivalutazione del loro ruolo nei riguardi degli elettori e consentendo un rafforzamento del controllo democratico sulle decisioni europee101.

101 Si esprime in tal senso MANZELLA A., La nuova idea di Unione politica europea, in La Repubblica, 1 agosto 2012.

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6. La natura giuridica dei recenti accordi europei con particolare riferimento al Fiscal Compact.

Alla luce di quanto sin qui premesso, appare evidente che le nuove misure relative alla stabilità, al coordinamento ed alla governance nell’Unione economica e monetaria si collocano al di fuori del sistema del TUE e del TFUE, posto che sono state adottate mediante un Trattato intergovernativo predisposto da un gruppo di lavoro (forum) costituito da rappresentanti dei Paesi membri (non di rango ministeriale), della Commissione europea, di un osservatore del Regno Unito e di tre rappresentanti del Parlamento europeo102.

Più precisamente, dopo la costituzione di detto forum, i lavori sono proseguiti secondo la seguente cadenza: il 15 dicembre 2011 è stata presentata una prima bozza di “trattato internazionale per un’unione economica rafforzata”, predisposta dal Servizio giuridico del Consiglio su incarico del Presidente del Consiglio europeo, Van Rompuy; il 19 dicembre 2011 il testo è stato sottoposto ad una prima analisi da parte del gruppo di lavoro che ha fissato al 29 102 On. Elmar Brok, Germania, Partito Popolare Europeo; Roberto Gualtieri, Italia, Socialisti&Democratici; Guy Verhofstadt, Belgio, Liberaldemocratici; Daniel Cohn-Bendit, Germania, Verdi, in qualità di membro sostituto.

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dicembre il termine per la presentazione di eventuali proposte di modifica da parte dei partecipanti; entro tale termine, hanno presentato proposte di modifica il Governo italiano, il Parlamento europeo, la Commissione europea, la B.C.E. ed alcuni Stati membri, tra cui Francia e Germania; il forum ha dunque analizzato le proposte di modifica nella riunione del 6 gennaio 2012, unitamente ad una seconda versione del progetto predisposta dal Servizio giuridico del Consiglio, al fine di recepire alcune proposte emendative; una ulteriore versione modificata è stata presentata il 10 gennaio, in vista di una riunione del gruppo di lavoro svoltasi il 12 gennaio 2012; il 19 gennaio, in seguito alla precedente riunione, è stato predisposta un’ulteriore bozza, con la quale il gruppo di lavoro ha terminato la propria attività; il testo predisposto dal forum è stato esaminato dall’Eurogruppo il 23 gennaio e dal Consiglio ECOFIN del 24 gennaio 2012, e giudicato come una “buona base per la discussione” per il Consiglio europeo nella riunione straordinaria del 30 gennaio; infine, dopo ulteriori negoziati, è stata presentata una nuova versione alla riunione del Consiglio Affari generali del 27 gennaio, approvata definitivamente, con alcune modifiche, dai Capi di Stato e di Governo il 30 gennaio e poi firmato il 2 marzo scorso.

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Deve essere evidenziato, tuttavia, che questa modalità di accordo ha sin da subito suscitato immediate critiche, manifestate in particolare dai tre rappresentanti del Parlamento europeo nella seduta del 21 dicembre 2011, basate sull’assunto che – diversamente da quanto ritualmente accade nelle procedure di modifica dei Trattati europei – negli accordi intergovernativi non viene sufficientemente ed adeguatamente garantita la partecipazione del Parlamento europeo103.

Si deve ritenere che la scelta di adottare tali misure economiche attraverso un Trattato intergovernativo sia stata (quasi) obbligata, sia perché si registrava l’assenza del requisito dell’unanimità – necessario per la modifica dei Trattati già vigenti – sia perché le misure per il coordinamento di bilancio e delle politiche economiche devono essere adottate con norme di rango primario; tutto ciò, nonostante che il rapporto del Presidente Van Rompuy (in attuazione del mandato del Consiglio europeo del 26 ottobre 2011) prevedesse l’adozione di tali misure mediante la modifica del Trattato sul funzionamento dell’Unione nonché del Protocollo n. 12 allegato al TFUE, relativo alla procedura sui disavanzi eccessivi (da adottare 103 Risoluzione del Parlamento europeo del 18 gennaio 2012, approvata con 521 voti a favore e 124 contrari, con la quale si chiedeva l’introduzione nel Trattato, di «una traccia che indichi la futura adozione di obbligazioni europee» posto che «la disciplina di bilancio, nonostante sia la base per una crescita durevole, non può da sola provocare una ripresa economica».

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mediante una decisione unanime del Consiglio dell’UE, su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo, senza necessità di ratifica da parte dei Paesi membri).

Si può inoltre ragionevolmente affermare che le predette osservazioni – presentate dai rappresentanti del Parlamento europeo – abbiano indotto delle successive e rilevanti modifiche volte, da un lato, a rimandare l’attuazione del coordinamento e della governance alla legislazione secondaria – garantendo così la partecipazione del Parlamento nei modi e tempi previsti – e, dall’altro, a dichiarare l’intento di compiere, ai sensi dell’art. 16 del Trattato, entro cinque anni dall’entrata in vigore (i.e. gennaio 2013) i passaggi necessari per il recepimento dei contenuti del Trattato nel quadro normativo europeo; nonostante tali modifiche, tuttavia, permangono le perplessità relativamente all’armonizzazione delle disposizioni del Trattato in oggetto con le disposizioni del Trattato di Lisbona e dell’architettura finanziaria delineata dagli ultimi interventi normativi104.

Pertanto – preso atto della impossibilità di raggiungere, in seno al Consiglio europeo, un accordo tra tutti i 27 Stati membri sulle modifiche da apportate ai trattati vigenti, in ragione dell’opposizione paralizzante del Regno Unito, nonché

104 Ibidem.

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della rinnovata esigenza di elevare a livello primario disposizioni in materia di bilancio e di coordinamento delle politiche economiche – il nuovo Trattato internazionale è stato negoziato e stipulato al di fuori del quadro istituzionale dell’Unione europea e delle procedure previste per la modifica dei Trattati, con particolare riferimento all’art. 136 T.F.U.E.

Quest’ultimo, infatti, afferma che per contribuire al buon funzionamento dell’Unione economica e monetaria e in conformità delle pertinenti disposizioni dei Trattati, il Consiglio adotta – secondo la procedura pertinente, tra quelle di cui agli artt. 121 (relativo al coordinamento delle politiche economiche) e 126 (relativo ai disavanzi eccessivi) con l’eccezione della procedura di cui all’art. 126, par. 14 – misure concernenti gli Stati membri, al fine di rafforzare il coordinamento e la sorveglianza della disciplina di bilancio ed elaborare gli orientamenti di politica economica, vigilando affinché siano compatibili con quelli adottati per l’insieme dell’Unione e garantendone la sorveglianza.

La principale problematica legata all’adozione di un Trattato intergovernativo per le sopracitate misure economiche consiste nella creazione di differenti regimi giuridici tra Stati aderenti e non: in specie viene a configurarsi una situazione per cui le disposizioni contenute nel c.d. “Six Pack” – rientrando

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nell’ordinamento europeo – sono applicabili a tutti gli Stati dell’Unione, mentre le disposizioni del Trattato in commento si applicherebbero soltanto ai 25 Paesi aderenti105.

Proprio con la finalità di limitare quanto più possibile la distanza tra l’aspetto intergovernativo del suddetto Trattato ed il diritto dell’U.E., l’art. 2 dispone che le parti contraenti «applicano e interpretano il presente trattato conformemente ai trattati su cui si fonda l’Unione europea, in particolare all’art. 4, paragrafo 3, del trattato sull’Unione europea, e al diritto dell’Unione europea, compreso il diritto procedurale ogniqualvolta sia richiesta l’adozione di atti di diritto derivato»; ed ancora, il secondo paragrafo prosegue precisando che esso «si applica nella misura in cui è compatibile con i trattati cu cui si fonda l’Unione europea in materia di unione economica». La medesima finalità può riscontrarsi anche nell’art. 16, secondo il quale «al più tardi entro cinque anni dalla data di entrata in vigore del presente trattato, sulla base di una valutazione dell’esperienza maturata in sede di attuazione, sono adottate in conformità del trattato sull’Unione europea e del trattato sul funzionamento dell’Unione europea le misure necessarie per incorporare il

105 Cfr. NUGNES F., op. cit.

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contenuto del presente trattato nell’ordinamento giuridico dell’Unione europea».

Nonostante le citate disposizioni, permango però le perplessità riguardo alla portata meramente dichiarativa delle stesse, soprattutto considerando il contesto normativo delineato dall’art. 126 del TFUE e dal precedente “Six Pack”; rispetto ad esso, infatti, l’art. 2 non fornisce – né potrebbe fornire – ulteriori strumenti o procedure di rafforzamento106. Ed invero, autorevole dottrina ha osservato che si tratta di disposizioni che «would not have the effect to induce the Member States parties to the Agreement to omit applying its provisions once it has come into effect: the Euro Summit would meet, the acts of the Commission under Article 126 TFEU and the Regulations of the Six-Pack would get the agreed support or even be applied as binding law»107.

Alla luce di quanto premesso – e cioè considerando la natura intergovernativa del recente Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria e trovandoci, dunque, di fronte ad una fonte del diritto estranea all’ordinamento dell’Unione – si comprende meglio il ruolo che nelle procedure di attuazione del “Fiscal Compact” è attribuito sia alla Commissione, sia

106 Ibidem. 107 Cfr. PERNICE I., International agreement on a rein-forced economic union legal opinion, 9 gennaio 2012, www.whi.eu.

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alla Corte di giustizia: tale Trattato, infatti, non può certamente modificare poteri e competenze delle istituzioni europee disciplinati dal Trattato sul funzionamento dell’U.E. e dal Trattato sull’U.E., pena la violazione del divieto di aggiramento degli stessi. Più precisamente, sarebbe questo il motivo per cui si è deciso di non attribuire direttamente alla Commissione il potere di trascinare in giudizio gli Stati membri accusati di aver violato i suddetti parametri economici, ma ci si è affidati alla regola che per cui saranno i singoli Stati membri a denunciarsi vicendevolmente; permangono dubbi peraltro riguardo a quale organo dovrà imporre il rispetto delle sanzioni eventualmente irrogate dalla Corte di giustizia.

Le problematiche legate alla natura ibrida del Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria – determinate dalla sua estraneità al diritto dell’Unione europea – produrranno quasi certamente seri problemi applicativi: l’unico antidoto sembrerebbe, pertanto, quello di provvedere nel più breve tempo possibile ad adottare, in conformità del Trattato sull’U.E. e del Trattato sul funzionamento dell’U.E., tutte le misure necessarie per incorporare il suo contenuto nell’ordinamento giuridico dell’U.E.

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CAPITOLO IIILa costituzionalizzazione del pareggio di bilancio

1. Brevi cenni in merito all’interpretazione dell’art. 81 Cost. pre-riforma: il “parametro fantasma” di cui al quarto comma.

Da quanto è stato sin qui detto appare chiaro come – già in seguito all’accordo Euro Plus, in connessione con le altre fonti comunitarie – sia stato previsto, in materia di bilancio nazionale, una sorta di fondamento giuridico di natura pattizia o, quantomeno, un sostanziale impulso sicché gli Stati firmatari procedessero alla modifica del diritto nazionale in conformità alle nuove disposizioni sulla governance europea. Ed ancora più esplicito in tal senso è stato il testo del Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria che ha previsto che «le regole enunciate nel paragrafo 1 producono effetti nel diritto nazionale delle parti contraenti al più tardi un anno dopo l’entrata in vigore del presente trattato tramite disposizioni vincolanti e di natura permanente – preferibilmente costituzionale – o il cui rispetto fedele

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è in altro modo rigorosamente garantito lungo il processo nazionale di bilancio [corsivi aggiunti, ndr.]» (art. 3, par. 2).

Tralasciando in questa sede le riforme costituzionali e le modifiche al diritto interno in materia di bilancio, adottate da alcuni degli Stati membri dell’U.E. – asseritamente conseguenti alla stipula dei menzionati accordi108 – si ritiene di analizzare brevemente, invece, la disciplina italiana in materia di bilancio, con particolare attenzione alla recente legge costituzionale sul pareggio di bilancio.

È nell’art. 81 Cost. che possono essere individuate le specifiche disposizioni in materia di spesa pubblica e bilancio: più precisamente il citato articolo – prima della recentissima riforma – disponeva che «con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese» (co. 3) e che «ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte» (co. 4).

Quest’ultima diposizione, fin dall’entrata in vigore della Costituzione – sia per il numero, sia per la difficoltà dei problemi sollevati – aveva attirato l’attenzione di tanti studiosi del diritto, nonché operatori politici e parlamentari: si pensi che – in

108 In ciascuno Stato membro questo tipo di normativa ha assunto a livello interno una specifica denominazione come, ad esempio, Schuldenbremse in tedesco, techo de gasto in spagnolo, règle d'or budgétaire in francese, balanced budget amendment oppure debt brake in inglese.

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seguito alle numerose discussioni registrate durante le prime due Legislature – nel 1959 i Presidenti delle due Camere incaricarono un apposito Comitato interparlamentare di studiare nuovamente le questioni relative all’interpretazione dell’ultimo comma dell’art. 81, allo scopo di giungere ad una «chiarificazione definitiva». E tuttavia neanche tale iniziativa ebbe buon esito sicché, alla vigilia dell’ultima seduta del Comitato, era riportata una notizia di agenzia secondo la quale «le divergenze di opinioni emerse durante i lavori del Comitato si sono rivelate di tale entità da rendere difficile giungere a conclusioni cui possa aderire la maggior parte dei componenti del Comitato»109.

Sul punto appare opportuno rammentare le risalenti – eppure attuali – considerazioni sviluppate da Valerio Onida: «sul terreno […] delle considerazioni più strettamente giuridiche, non sembra si possano rinvenire, nel nostro ordinamento, elementi normativi tali da giustificare l’affermazione secondo cui Governo e Parlamento sarebbero giuridicamente vincolati a non deviare dal criterio del pareggio di bilancio»110. Tale tesi trovava fondamento nella considerazione per cui – ove la Costituzione avesse voluto imporre un simile obbligo di pareggio – lo avrebbe disposto 109 Notizia riportata in una nota intitolata Il Comitato di studio per l’art. 81, pubblicata in Il Globo del 6 ottobre 1969, pag. 5.110 Cfr. ONIDA V., Le leggi di spesa nella Costituzione, Milano, 1969, p. 437 e ss. (corsivo aggiunto).

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espressamente111; e dunque, secondo l’Autore, «tutto il sistema del nostro bilancio – che la Costituzione ha in sostanza recepito dall’ordinamento preesistente – prescinde da un ipotetico vincolo giuridico al pareggio, che è sempre stato considerato un fatto di natura politica, il quale investe la responsabilità essenzialmente politica dei massimi organi che intervengono nell’elaborazione e approvazione del bilancio, Governo e Parlamento»112.

Negando pertanto la sussistenza di un vero e proprio obbligo di mantenere in pareggio il bilancio, piuttosto si sarebbe potuto ritenere che il medesimo costituisse «principio ispiratore e scopo della norma di cui all’art. 81, 4° comma» con il fine di garantire una tendenza al pareggio, nel senso che «il legislatore costituente abbia voluto affermare l’obbligo di Governi e Parlamenti di fare ogni sforzo verso il pareggio»113.

Analizzando la ratio e la portata obiettiva della citata disposizione, poteva dunque escludersi la sussistenza del detto obbligo per il Governo ed il 111 Cfr. BUSCEMA S., Copertura e costituzionalità delle leggi che comportano nuove o maggiori spese, in Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze, 1955. Anche DUS R., L’interpretazione dell’art. 81 della Costituzione, in Rassegna parlamentare, 1959; quest’ultimo rileva al riguardo l’assenza nell’ordinamento italiano «di una norma esplicita» che preveda l’obbligo del pareggio di bilancio.112 Cfr. ONIDA V., op. cit., pag. 451.113 Sul punto, cfr. Lettera del Presidente della Repubblica Einaudi al Ministro del Tesoro Pella (13 dicembre 1948), in appendice alla Relazione del Comitato di studio delle norme di applicazione del 4° comma dell’art. 81 della Costituzione, Roma, marzo 1961, doc. n. 6.

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Parlamento: in primis perché, da un punto di vista rigorosamente giuridico, non era ipotizzabile un obbligo costituzionale di «tendere al pareggio», potendo al massimo configurarsi tale tendenza in un programma o in un’azione politica; in secundis, perché pur «a voler scorgere nell’art. 81, 4° comma, una norma programmatica, ci si troverebbe di fronte non già ad un principio, sia pure generale, suscettibile di costituire il termine di confronto e il metro di paragone della legittimità di singole leggi ordinarie (di spesa o di bilancio), bensì ad un obiettivo di politica finanziaria, rispetto al quale l’idoneità di singoli provvedimenti a conseguirlo o meno sarebbe difficilmente valutabile alla stregua di precisi criteri giuridici, ma potrebbe risultare solo da una globale e complessiva valutazione d’ordine eminentemente politico-economico»114.

Dopo aver sviluppato tali premesse logico-giuridiche, Onida arrivava dunque alla conclusione per cui il principio posto a fondamento del (vecchio testo) dell’art. 81, co. 4, Cost. «è assai più semplice e più generale, ed egualmente valido quale che sia l’orientamento di politica economica e finanziaria che si ritenga preferibile; è il principio per cui, nel proporre e nel deliberare una spesa, non può prescindersi dall’esame del problema –

114 Cfr. ONIDA V., op. cit., p. 457 (i corsivi sono aggiunti).

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necessariamente legato alla spesa – dei mezzi finanziari necessari per affrontarla, inquadrando […] il singolo provvedimento nella visione generale degli obiettivi che si vogliono perseguire, delle necessità cui si deve soddisfare, dei mezzi di cui concretamente si dispone» attraverso una sorta di «responsabilizzazione» delle delibere di spesa e senza il vincolo di una rigorosa politica di pareggio115.

Ugualmente, in ordine alle eventuali conseguenze sull’equilibrio dei bilanci annuali, il combinato disposto dai co. 3 e 4 dell’art. 81 Cost. era ritenuto da Onida un mero «obiettivo politico» e non invece un «obbligo giuridico»: perché appariva difficile, ovvero impossibile, l’attuazione di un simile obbligo giuridico per l’evidente contrasto – in chiave storico-politica –

115 Ibidem. A margine delle superiori considerazioni dottrinali, altra tappa fondamentale nell’evoluzione interpretativa dell’art. 81 Cost. è stato l’indirizzo giurisprudenziale elaborato dalla Corte costituzionale – e ripetutamente confermato in numerose pronunce, sì da rappresentare ormai «giurisprudenza consolidata» – che ha determinato il venir meno del «baluardo rigoroso ed efficace voluto dal legislatore costituente allo scopo di impedire che si facciano maggiori spese alla leggera senza avere prima provveduto alle relative entrate» (cfr. CORTE COST., SENT. 1/1996). La Consulta peraltro, oltre a permettere la copertura finanziaria mediante l’indebitamento, sconfessava anche l’interpretazione che riteneva effettivamente costituzionalizzato il principio del pareggio di bilancio; ed è dimostrazione dell’effetto dirompente di tale indirizzo giurisprudenziale, l’esplosione del debito pubblico italiano – aumentato di oltre il 200% proprio nel breve periodo immediatamente successivo alla citata sentenza – coperto tramite l’emissione di titoli del debito pubblico, al fine di realizzare immediate disponibilità di cassa. Sul punto cfr. CORONIDI F., La costituzionalizzazione dei vincoli di bilancio prima e dopo il patto Europlus, in www.federalismi.it.

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con la «realtà» effettiva di circostanze cicliche e congiunturali che possono imporre, puntualmente, politiche economiche diverse dal pareggio; e perché il principio del pareggio comunque «non rappresenta […] l’ottimo, né un obiettivo politico-economico meritevole di essere sempre e comunque perseguito» tanto per il suo carattere “relativo” e limitato ad un intervento di breve termine, quanto perché non determina una diretta corrispondenza fra entrate ed uscite116.

È in un simile contesto normativo – caratterizzato da una discussa interpretazione delle disposizioni costituzionali, nonché dalla presenza di un c.d. “parametro fantasma”, costituito proprio dall’art. 81, co. 4, Cost. – che deve essere dunque inserita l’imponente disciplina europea che, a partire dal Trattato di Maastricht, ha introdotto rilevanti vincoli nella politica economica di ciascuno Stato membro117.

116 Cfr. ONIDA V., op. cit., p. 443. Sul punto, in merito alla critica delle teorie del pareggio di bilancio cfr. STEVE S., Lezioni di scienza delle finanze, 4° ed. Padova, 1962.117 CAIANIELLO V., Corte costituzionale e finanza pubblica, in Giur. It., 1984, IV; ed ancora, R. DI MARIA, Aspettando la costituzionalizzazione del principio del “pareggio di bilancio”: brevi considerazioni sulla natura giuridico-economica del medesimo e rilievo di alcune questioni (ancora) aperte sulla sua potenziale ricaduta, a livello sia interno sia sovranazionale, in www.forumcostituzionale.it.

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2. La legge costituzionale n. 1/2012: la costituzionalizzazione del principio di equilibrio di bilancio.

Dopo ripetuti dibattiti costituzionali e progetti generali di riforma elaborati a partire dalla prima metà degli anni ’80 – mossi dalla necessità di ridurre l’enorme distanza della finanza italiana dai parametri europei, in connessione con la crisi economica e finanziaria internazionale in corso e dalla volontà di fornire un’immagine stabile del Paese (i.e. la “Commissione Bozzi”, nel 1985; la “Commissione De Mita–Iotti”, nel 1993; la “Commissione D’Alema”, nel 1997) – il disegno di legge costituzionale sul pareggio di bilancio è stato definitivamente approvato dal Senato, il 17 aprile 2012, con una maggioranza tale da evitare il possibile ricorso al referendum costituzionale118.

Pare allora opportuno, ovvero indispensabile, procedere ad una breve analisi del nuovo testo, che

118 In particolare, il disegno di legge costituzionale è stato definitivamente approvato con una maggioranza superiore ai due terzi costituita da 235 voti favorevoli, 11 contrari e 34 astenuti. Tra i partiti a favore della riforma P.d.l., P.d. e Terzo polo (costituito da U.d.c., F.l.i., A.p.i.); contrari, invece, Lega ed I.d.v. (anche se nei tre precedenti passaggi del ddl costituzionale tra Camera e Senato avevano votato a favore); astensione da parte di Coesione nazionale-Grande Sud.

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sarà applicato a decorrere dall’esercizio finanziario relativo all’anno 2014 (cfr. art. 6).

Deve innanzitutto evidenziarsi come il testo della legge costituzionale n. 1 del 20 aprile 2012 (pubblicata nella G.U. n. 95 del 23 aprile 2012) – rubricato «Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale» – abbia modificato non soltanto il citato art. 81, bensì anche gli artt. 97, 117 e 119 Cost., con rilevanti novità di ordine sostanziale, volte ad incidere sulla complessiva disciplina di bilancio, con riferimento sia a quello statale sia a quello delle pubbliche amministrazioni in generale e degli Enti locali.

La disposizione “portante” del testo è certamente l’art. 1 che – modificando in modo rilevante l’art. 81 Cost. – ha introdotto importanti novità: ai sensi del co. 1, lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico; il co. 2, poi, limita il ricorso all’indebitamento al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e – previa autorizzazione delle Camere, adottata a maggioranza assoluta – al verificarsi di eventi eccezionali; i successivi tre commi hanno invece confermato (tendenzialmente) il contenuto dei co. 1, 2 e 4 del vecchio testo costituzionale, e cioè il principio della necessaria copertura finanziaria delle leggi, la

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competenza esclusiva delle Camere relativa all’approvazione annuale con legge del bilancio e del rendiconto consuntivo presentati dal Governo, nonché la disciplina dell’esercizio provvisorio del bilancio; l’ultimo comma del nuovo testo dell’art. 81, infine, prevede la formazione della fondamentale legge di contabilità generale.

È dunque possibile affermare, rispetto alle premesse disposizioni, che il fine del pareggio del bilancio debba essere raggiunto tramite il mezzo dell’equilibrio dei bilanci: si può infatti constatare come il principio del pareggio di bilancio – al quale deve mirare lo Stato al fine di assicurare «l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio» – debba essere inteso in senso “strutturale”, e cioè in modo da tenere conto delle fasi positive o negative del ciclo economico119. Più precisamente, il Legislatore costituzionale ha previsto (saggiamente) la possibilità di fare ricorso a politiche anticicliche e stabilizzatori automatici attraverso il ricorso a bilanci in avanzo o in pareggio – secondo i criteri stabiliti dall’U.E., depurando il saldo nominale dalla componente ciclica – durante le fasi in cui la congiuntura economica è favorevole, ed all’opposto di fare ricorso 119 Cfr. Dossier n. 551 del Servizio Studi della Camera dei Deputati. Sul punto CABRAS D., Il pareggio di bilancio in Costituzione: una regola importante per la stabilizzazione della finanza pubblica, in www.forumcostituzionale.it.

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all’indebitamento esclusivamente nelle fasi avverse120. Ed ancora, il ricorso all’indebitamente viene limitato solo «al verificarsi di eventi eccezionali» con l’ulteriore vincolo costituito dalla preventiva autorizzazione di entrambe le Camere da adottare a maggioranza assoluta.

Come evidenziato da autorevole dottrina, la riforma dell’art. 81 Cost. non mira dunque (esclusivamente) al rientro del debito pubblico o al risanamento dell’attuale situazione di emergenza della finanza pubblica, bensì cerca di ottenere da una parte l’equilibrio dei bilanci pubblici e, nel caso dello Stato, il vincolo di equilibrio tra entrate e spese, e d’altra parte il ricorso all’indebitamento soltanto in limitate ipotesi circostanziate121.

E tuttavia, proprio con riferimento al co. 2, la summenzionata dottrina evidenzia una rilevante imprecisione tecnica nell’utilizzo, da parte del Legislatore costituzionale, del termine “indebitamento”: questo può essere ricondotto, infatti, alle operazioni di indebitamento (art. 3, co. 17, l. 350/2003) o al saldo di bilancio che non tiene conto di una serie di spese come, ad esempio, quelle necessarie per restituire il debito in scadenza (art. 25, co. 7, l. n. 196/2009). Il medesimo comma peraltro – 120 Ibidem.121 BRANCASI A., L’introduzione del principio del c.d. pareggio di bilancio: un esempio di revisione affrettata della Costituzione, in www.forumcostituzionale.it.

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oltre a contenere termini tecnici approssimativi – ad una prima lettura appare di incerta formulazione nel suo complesso: la disposizione, infatti, prevede una deroga al divieto del ricorso all’indebitamento (i.e. «al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e […] al verificarsi di eventi eccezionali») che dovrebbe operare a condizione che l’entità di “indebitamento netto” corrisponda alle maggiori spese o minori entrate dovute agli effetti negativi del ciclo economico122.

Il co. 3 – ai sensi del quale «ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte» – conferma poi, sostanzialmente, il principio della necessaria copertura finanziaria delle leggi; appare però evidente come il testo novellato tenda a rafforzare tale principio, posto che il reperimento dei mezzi di copertura per disposizioni “onerose” dovrà avvenire immediatamente, e non più tramite successivi provvedimenti inseriti nella legge di stabilità o in altri provvedimenti di manovra.

122 Ibidem. Secondo Brancasi, il fatto che la proposta di legge [ora legge costituzionale, n.d.r.] parli di “ricorso” a proposito di “indebitamento” dovrebbe lasciare intendere il riferimento alle operazioni e non al saldo; in tal senso la norma descriverebbe, invero, il percorso di rientro del debito pubblico; un percorso però «talmente rigoroso da risultare assolutamente impraticabile, poiché comporterebbe che i titoli in scadenza ogni mese andrebbero restituiti senza la possibilità di rinnovarli neppure per una minima parte. Non rimane quindi che riferire al saldo “indebitamento netto” la limitazione prescritta della norma, la quale, consentendo il rinnovo dei titoli in scadenza, non produce alcuna riduzione del debito complessivo».

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Infine, il co. 6 prevede la nuova “legge di contabilità generale”, ovvero il contenuto della legge di bilancio (i.e. norme fondamentali e criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese, nonché la sostenibilità del debito delle pubbliche amministrazioni) stabilito con legge da approvare a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera – entro il 28 febbraio 2013, ai sensi del successivo art. 5, co. 3 – e nel rispetto dei principi definiti con legge costituzionale.

Alle premesse e sostanziali modifiche all’art. 81 Cost. si aggiungono quelle agli artt. 97, 117 e 119.

In primo luogo l’art. 2 della legge costituzionale introduce la seguente premessa all’art. 97 Cost.: «le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea, assicurano l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico»; il Legislatore costituzionale ha dunque inteso estendere i nuovi principi di natura economico-finanziaria a tutte le pubbliche amministrazioni – proprio in ragione del ruolo di fondamentale importanza dalle stesse assunto nella quadratura dei conti statali pubblici – precisando altresì come i medesimi debbano essere interpretati ed applicati in coerenza con quanto disposto dall’ordinamento dell’U.E.

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In secondo luogo l’art. 3 della riforma – modificando l’art. 117 Cost. – trasferisce la materia «armonizzazione dei bilanci pubblici» dal co. 3 al co. 2, e cioè dalla competenza “concorrente” a quella “esclusiva” dello Stato, al fine di assicurare una maggior tutela al principio cardine della riforma costituzionale123.

In terzo luogo l’art. 4 – con riferimento all’autonomia finanziaria di entrata e di spesa di Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni, di cui al co. 1, art. 119 Cost. – inserisce l’obbligo per i menzionati Enti di rispettare l’equilibrio dei propri bilanci e di concorrere ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’U.E.; l’intenzione del Legislatore costituzionale pare, pertanto, di conformare anche la disciplina relativa agli Enti territoriali al nuovo principio dell’equilibrio di bilancio, costituzionalizzando il principio del concorso dei medesimi all’ottemperanza degli obblighi di natura economico-finanziaria di matrice europea. Nella stessa

123 Alla luce di tale modifica dovrà essere rivisto – si ritiene – anche l’indirizzo giurisprudenziale della Consulta, che ha ripetutamente affermato che «spetta allo Stato, in sede di legislazione concorrente, la determinazione dei principi fondamentali nella materia compresa nella endiadi espressa dalla indicazione di “armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario” (art. 117, terzo comma; art. 119, secondo comma, della Costituzione riguardante i “tributi e le entrate propri” delle Regioni ed enti locali)»; cfr. CORTE COST., SENT. 17/2004.

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disposizione si sancisce, peraltro, l’integrazione del co. 6 dell’art. 119: Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni possono infatti ricorrere all’indebitamento (per finanziare spese di investimento; c.d. golden rule) soltanto «con la contestuale definizione di piani di ammortamento e a condizione che per il complesso degli enti di ciascuna Regione sia rispettato l’equilibrio di bilancio».

In quarto ed ultimo luogo, la “nuova” disciplina del pareggio (rectius, equilibrio) di bilancio è modulata dalle previsioni di cui all’art. 5 della legge di revisione costituzionale: i primi due commi indicano gli elementi essenziali della summenzionata legge di contabilità generale (i.e. la legge ordinaria rinforzata, richiamata dall’ultimo comma dell’art. 81 Cost.) per la definizione del «contenuto della legge di bilancio», delle «norme fondamentali» e dei «criteri volti ad assicura l’equilibrio tra le entrate e spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni»124; il co. 4 ribadisce, poi, 124 Tra i principali punti che dovranno essere definiti, giova menzionare: l’accertamento delle cause degli scostamenti rispetto alle previsioni, distinguendo tra quelli dovuti all’andamento del ciclo economico, all’inefficacia degli interventi e agli eventi eccezionali, con l’individuazione del limite massimo di tale scostamento al superamento del quale occorrerà intervenire con misure di correzione; la definizione delle gravi recessioni economiche, delle crisi finanziarie e delle gravi calamità naturali quali eventi eccezionali – ai sensi dell’art. 81, co. 2, Cost. – al verificarsi dei quali è consentito il ricorso all’indebitamento non limitato; l’istituzione presso le Camere, nel rispetto della relativa autonomia costituzionale, di un organismo indipendente al quale attribuire compiti di analisi

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la competenza delle Camere circa la «funzione di controllo sulla finanza pubblica con particolare riferimento all’equilibrio tra entrate e spese, nonché alla qualità e all’efficacia della spesa delle pubbliche amministrazioni».

e verifica degli andamenti di finanza pubblica e di valutazione dell’osservanza delle regole di bilancio. Sul punto occorre precisare che (probabilmente) il nuovo organismo indipendente sarà simile al Congressional Budget Office (Cbo), ovvero l’Agenzia federale statunitense che opera nel Congresso fin dal 1974 con la finalità principale di esaminare e fornire stime sia sulle uscite previste nell’ambito del processo di redazione del bilancio federale, sia riguardo le uscite derivanti da nuove proposte di legge. Inoltre, ai sensi dei co. 1 e 2 del citato art. 5, la legge di contabilità generale dovrà disciplinare, per il complesso delle pubbliche amministrazioni, in particolare: le verifiche, preventive e consuntive, sugli andamenti di finanza pubblica; l’introduzione di regole sulla spesa che consentano di salvaguardare gli equilibri di bilancio e la riduzione del rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo nel lungo periodo, in coerenza con gli obiettivi di finanza pubblica; le modalità attraverso le quali lo Stato, nelle fasi avverse del ciclo economico o al verificarsi degli eventi eccezionali di cui alla lettera d) del presente comma, anche in deroga all’art. 119 Cost., concorre ad assicurare il finanziamento, da parte degli altri livelli di governo, dei livelli essenziali delle prestazioni e delle funzioni fondamentali inerenti ai diritti civili e sociali. Ed ancora: il contenuto della legge di bilancio dello Stato; la facoltà dei Comuni, delle Province, delle Città metropolitane, delle Regioni e delle Province autonome di Trento e di Bolzano di ricorrere all’indebitamento, ai sensi dell’art. 119, co. 6, secondo periodo, Cost., come modificato dall’art. 4 della presente legge costituzionale; le modalità attraverso le quali i Comuni, le Province, le Città metropolitane, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano concorrono alla sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni.

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3. Prime considerazioni critiche in merito al principio costituzionale del pareggio di bilancio.

Alla luce di quanto premesso, appare evidente come il varo del disegno di legge costituzionale rappresenti uno dei tasselli fondamentali della “risposta italiana” agli impegni presi in sede europea, con la stipula del “Fiscal Compact” in data 2 marzo 2012; più precisamente, con la descritta riforma costituzionale, l’Italia – dopo Germania e Spagna – è stato il terzo Paese, fra le principali economie dell’Eurozona, ad attuare le previsioni di quell’accordo.

Pur senza entrare nel merito degli aspetti prettamente economico-finanziari del nuovo assetto costituzionale, si può affermare come il Legislatore costituzionale abbia inteso bilanciare due opposte istanze: rispettivamente, la necessità di dimostrare – ai mercati finanziari ed ai Paesi europei – che la sostenibilità delle finanze pubbliche costituisce un punto fondamentale della politica interna, nonché condiviso da una larga maggioranza; l’esigenza di non irrigidire (eccessivamente) il contenuto della Costituzione con norme tecniche e di dettaglio. Diversamente da quanto è accaduto in Germania

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infatti, le disposizioni introdotte con la recente legge costituzionale – per divenire pienamente efficaci – necessitano di un supplementare intervento del Legislatore (ordinario: la c.d. “legge quadro di contabilità”) perché sia definito «il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni».

Medio tempore deve tuttavia riconoscersi che alcuni principi, cui si ispira il testo di riforma costituzionale italiano, sono già stati oggetto di analisi critiche, anche da parte di illustri economisti: in specie è stato affermato che «aggiungere ulteriori restrizioni, cosa che avverrebbe nel caso fosse approvato un emendamento sul pareggio del bilancio, quale un tetto rigido della spesa pubblica, non farebbe che peggiorare le cose». E ciò, per le ragioni che possono essere sì sintetizzate: chiudere ogni anno il bilancio in pareggio aggraverebbe le eventuali recessioni; sarebbe impedito al governo federale di ricorrere al credito per finanziare il costo delle infrastrutture, dell’istruzione, della ricerca e sviluppo, della tutela dell’ambiente e di altri investimenti vitali per il futuro benessere della nazione; il Congresso sarebbe incoraggiato ad approvare provvedimenti privi di copertura finanziaria delegando gli Stati, gli

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Enti locali e le aziende private nel trovare le risorse finanziarie al posto del governo federale; sarebbero favorite dubbie manovre finanziarie (quali la vendita di terreni demaniali e di altri beni pubblici contabilizzando i ricavi come introiti destinati alla riduzione del deficit) e altri espedienti contabili con il conseguente aumento di relative controversie; oltre che nei periodi di recessione, un tetto rigido di spesa potrebbe danneggiare la crescita economica anche nei periodi di espansione dell’economia, giacché gli incrementi degli investimenti ad elevata remunerazione – anche quelli interamente finanziati dall’aumento del gettito – sarebbero ritenuti incostituzionali se non controbilanciati da riduzioni della spesa di pari importo125. Pertanto, alla luce di tale indirizzo, «non c’è alcuna necessità di mettere al Paese una camicia di forza economica» con l’introduzione del vincolo del pareggio di bilancio in

125 Il riferimento è agli otto studiosi – tra i quali, cinque premi Nobel per l’economia – che hanno invitato pubblicamente il presidente Obama a respingere qualsiasi proposta di modifica alla Costituzione statunitense, volta ad introdurre il vincolo del pareggio di bilancio; e ciò, proprio a causa degli effetti negativi e dei rischi che tale principio potrebbe comportare. La lettera è stata firmata da: KENNETH ARROW, premio Nobel per l’economia 1972; PETER DIAMOND, premio Nobel per l’economia 2010; WILLIAM SHARPE, premio Nobel per l’economia 1990; CHARLES SCHULTZE, consigliere economico di J.F. Kennedy e Lindon Johnson, animatore della Great Society Agenda; ALAN BLINDER, direttore del Centro per le ricerche economiche della Princeton University; ERIC MASKIN, premio Nobel per l’economia 2007; ROBERT SOLOW, premio Nobel per l’economia 1987; LAURA TYSON, ex direttrice del National Economic Council.

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Costituzione, essendo sufficiente lasciare che «Presidente e Congresso adottino le politiche monetarie, economiche e di bilancio idonee a far fronte ai bisogni e alle priorità, così come saggiamente previsto dai […] padri costituenti».

Nel merito della riforma italiana, deve poi essere evidenziato un’ulteriore falla della descritta riforma costituzionale determinata dalla mancanza di alcun meccanismo sanzionatorio per l’ipotesi di sforamento dei limiti stabiliti dal vincolo del pareggio di bilancio; non si comprende, insomma, quali potrebbero essere le eventuali conseguenze del mancato rispetto del nuovo art. 81 Cost., se non quelle di una “mera” responsabilità politica, peraltro diversa anche da quella già prevista dalla legge delega in materia di federalismo fiscale126.

In particolare, tenendo ben presente lo stretto legame che intercorre tra la disciplina di bilancio e la struttura politica dello Stato, appare opportuno chiedersi se la garanzia giurisdizionale della regola del pareggio formulata nel nuovo art. 81 Cost. sia una previsione dotata di effettività.

Ed invero, secondo autorevole dottrina «la giustiziabilità di tale regola appare per più versi accidentata e ciò non è dovuto a elementi di casualità,

126 Cfr. art. 17 lett. e), legge delega n. 42/09, “Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione”.

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ma rappresenta, in qualche misura, il riflesso di una quasi inevitabile scarsa coercibilità giuridica delle norme costituzionali sul bilancio», posto che «la previsione di un vincolo generale all’equilibrio fra entrate e spese [pone] problemi acuti di controllabilità giuridica rispetto a ciascuna delle fasi nelle quali si articola il sindacato di costituzionalità delle leggi, e cioè: i modi di accesso alla Corte; l’accertamento del rapporto di incompatibilità fra oggetto e parametro del giudizio (e in particolare la rilevazione dell’inosservanza della regola del pareggio); gli effetti della dichiarazione di incostituzionalità della legge di bilancio, anche con riferimento alla loro dimensione temporale»127.

Ulteriori voci critiche infine evidenziano come tutte le recenti modifiche, adottate per rispondere alla crisi economica, abbiano fatto perno sull’idea che l’austerità possa essere “espansiva” – orientamento sostenuto anche da diversi economisti neoliberisti italiani128 – tralasciando invece le politiche per la crescita e lo sviluppo.

127 Cfr. SCACCIA G., La giustiziabilità della regola del pareggio di bilancio, in www.associazionedeicostituzionalisti.it128 Sono portavoce della citata teoria gli economisti Alberto Alesina e Francesco Giavazzi. In particolare, nell’ottobre 2009 il primo pubblicò un paper molto criticato in cui presentava alcuni casi di “austerità espansiva”; sul punto cfr. A. ALESINA e S. ARDAGNA, Large Changes in Fiscal Policy: Taxes Versus Spending, in The national bureau of economic research.

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E tuttavia, dall’analisi dei dati economici relativi ai Paesi europei costretti all’austerità (i.e. Spagna, Irlanda, Italia e Grecia), si evince come tali politiche stiano ottenendo risultati di segno opposto, peggiorando la situazione e conducendo ad una più rapida recessione (prova ne è lo stesso declassamento operato da Standard and Poor’s nei confronti di diversi Paesi dell’Eurozona). I sostenitori di queste critiche – rifacendosi alle teorie keynesiane – sostengono che l’inasprimento delle politiche restrittive attraverso i nuovi accordi europei rischiano di aggravare ulteriormente la già tragica situazione europea: in particolare, sembrerebbe pacifico il sillogismo economico per cui le politiche di austerità – riducendo il reddito nazionale – comporterebbero per lo Stato il rischio di ricevere meno gettito del previsto dalle imposte, non riuscendo così a ripagare il debito pubblico che, nel frattempo, sarà diventato insopportabile rispetto al PIL decrescente.

Pertanto, per gli economisti di matrice keynesiana, al fine di porre un freno alla crisi, è indispensabile l’adozione di un piano di sviluppo e di spesa pubblica – come “timidamente” fatto dal Presidente Obama – nel tentativo di far ripartire la crescita.

Deve comunque osservarsi che la circostanza per cui un aspetto fondamentale della riforma è stato

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riservato ad una futura disciplina di dettaglio, rende particolarmente difficile stabilire al momento quali saranno i reali effetti della riforma costituzionale; può semmai affermarsi, intanto, che la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio produrrà degli effetti dirompenti riguardo la futura attuazione delle regole economico-finanziarie, sia di matrice europea sia di origine interna; inoltre risulterà indispensabile la predisposizione di un forte coordinamento ex ante tra Stato, Enti locali e pubbliche amministrazioni, in modo da assicurare il principio fondamentale dell’equilibrio complessivo dei conti ad ogni livello.

In ordine alle rassegnate riforme economico-finanziarie imposte dall’U.E. nei confronti di ciascun Stato membro, è lecito infine chiedersi «se possa ritenersi ancora effettivo il principio di sovranità (nazionale) in materia fiscale; oppure se non vi sia già stata una significativa cessione di autonomia politica statale», in specie determinata dall’obbligo di coordinamento preventivo delle politiche economiche, dai vincoli economici di origine pattizia e dai rigidi controlli operati dalle istituzioni europee129; ed invero, appare pacifica la crescente perdita di responsabilità politica da parte dei Parlamenti nazionali soprattutto in materia di bilancio pubblico.

129 In tal senso DI MARIA R., op. cit. Cfr. anche PITRUZZELLA G., op. cit.

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E però i nuovi vincoli e limitazioni di sovranità di origine europea – determinati sia in sede istituzionale sia in sede intergovernativa, e che impongono non pochi sacrifici ai Paesi, come l’Italia, già gravati da un eccessivo stock di debito pubblico – sembrano essere indispensabili, in effetti, per la costituzione di un nuovo modello di governance (economica) europea, grazie al quale uscire definitivamente dall’attuale crisi.

Come correttamente precisato in dottrina, infatti, i prossimi ed indispensabili passi dovranno consistere nel mettere lo Stato sopra la finanza e la finanza sotto gli Stati, ovvero fare prevalere le regole sull’anarchia ed avviare grandi progetti di investimento pubblico per il bene comune130.

4. La Legge costituzionale n. 1 del 2012 e l’istituzione dell’Ufficio parlamentare di bilancio

Come già detto nei paragrafi precedenti, la crisi dei debiti sovrani ha fatto emergere tutte le lacune e le debolezze della normativa europea di settore; per questo motivo, negli ultimi anni, si è registrata una

130 Cfr. G. TREMONTI, op. cit., pag. 165 e ss.

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forte spinta verso una ristrutturazione della governance economica dell’U.E. soprattutto al fine di rafforzare il controllo plurilaterale in merito alle politiche economiche nazionali e di diminuire l’asimmetria tra l’unicità della politica monetaria e la pluralità delle politiche di bilancio e strutturali; si è dunque cercato di migliorare il procedimento di applicazione delle norme ampliando i requisiti minimi per i fiscal frameworks (quadri di bilancio) nazionali e garantendo, così, la sostenibilità delle finanze pubbliche.

Più precisamente, negli ultimi anni è emersa l’esigenza di “aggiornare” i quadri di bilancio nazionali con la nuova definizione, sotto diversi aspetti: le regole di bilancio (fiscal rules), la pianificazione di bilancio a medio termine, il coordinamento di bilancio, i consigli fiscal indipendenti, il monitoraggio del bilancio e le proiezioni macroeconomiche e di bilancio131.

Ed è in questo contesto di riforma generale delle regole della governance economica che si è riproposto un tema di fondamentale importanza, al centro del dibattito già dalla metà degli anni Novanta, quale l’istituzione del Consiglio fiscale indipendente, spinti dal desiderio di adattare alla sfera della politica di

131 Cfr. LOIERO R., La nuova governance europea di finanza pubblica e il ruolo dell’Ufficio parlamentare di bilancio, in www.federalismi.it

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bilancio le esperienze fatte dalle banche centrali in tema di politica monetaria; tale dibattito, tuttavia, si accorse sin da subito che alle istituzioni di bilancio indipendenti – diversamente da quanto previsto per le banche centrali – non poteva certamente essere attribuito il compito di decidere in merito alla politica di bilancio, decisione che riflette un mandato di rappresentanza tra elettore ed eletto132.

Pertanto, il fondamento economico dei Consigli fiscali indipendenti, esistenti già da molto tempo in diversi Paesi (come Olanda, Belgio e Stati Uniti), sarebbe stato individuato nella necessità di aumentare la trasparenza delle decisioni pubbliche consentendo – attraverso la riduzione delle asimmetrie informative e dell’opacità determinata da eventuali comportamenti opportunistici – l’aumento del costo di reputazione connesso con l’adozione di cattive politiche e migliorando la capacità degli elettori di premiare i “buoni” policy-makers; e così, attraverso il miglioramento della trasparenza determinata dall’analisi sui temi della finanza da parte dei Consigli fiscali di bilancio si dovrebbe giungere ad un aumento dei reputation costs connessi con l’adozione di cattive politiche133.

132 Senato della Repubblica, Servizio del bilancio, L’istituzione dell'Ufficio parlamentare di bilancio, XVII legislatura, Nota breve n. 2, Aprile 2013. 133 Ibidem.

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Inoltre, si deve evidenziare che un altro possibile rischio determinato dalla carenza di una corretta analisi sui temi della finanza – compito ora rientrante tra le competenze dei suddetti Consigli – sarebbe determinato dal rischio dei cosiddetti shortemism, ovvero dalla negativa tendenza assunta dal decisore politico che appare indotto ad essere più attento agli effetti delle proprie decisioni nel breve piuttosto che nel medio lungo periodo; ed invero, il politico “moderno” sembrerebbe più propenso a valutare le misure di politica economica soprattutto sulla base del consenso ottenuto nell’immediato da parte dell’opinione pubblica134.

In particolare, autorevole dottrina ha evidenziato come solo delegando l’attività informativa ad un Consiglio fiscale indipendente sia possibile escludere un eccesso di ottimismo da parte dei responsabili politici circa la crescita futura nell’ambito della politica di bilancio, nonché la conseguente sopravvalutazione delle proprie capacità di influenzare il tasso di crescita135.134 Cfr. LOIERO R., Op. cit.135Cfr. DEBRUN X., Democratic Accountability, Deficit Bias, and Independent Fiscal Agencies, IMF Working Paper no. 11/173. Si vede, inoltre, DENK. O., Italy and the Euro Area Crisis: Securing Fiscal Sustainability and Financial Stability, OECD Economics Department Working Papers, No. 1065, OECD Publishing; l’autore, a titolo esemplificativo, evidenzia come al momento dell’introduzione dell’Euro, le proiezioni formulate dall’Esecutivo e contenute nei programma di stabilità (PS) relative alla crescita del PIL per l’anno successivo hanno

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Il ruolo positivo determinato dalla istituzione dei Consigli fiscali di bilancio – prodotto, dunque, da una maggiore trasparenza di bilancio – è stato sottolineato anche da parte dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (O.C.S.E.).

Più precisamente, un gruppo di lavoro costituito proprio in ambito O.C.S.E. ha individuato un elenco di principi cui tali organismi di bilancio indipendenti dovrebbero conformarsi, e cioè: la condivisione di valori di riferimento: condivisione dei valori di riferimento da parte di tutto lo spettro politico (local ownership); indipendenza e non-partisanship (che viene chiaramente distinta dalla bi-partisanship); il mandato, con indicazione di funzioni elencate dalla Legge, ma con autonoma capacità di definire il proprio programma di lavoro, in connessione con il processo di bilancio; risorse stabili, adeguate alle funzioni assegnate; accountability verso il Parlamento, prevista nel rispetto dell’indipendenza funzionale dell’organismo; accesso all’informazione rilevante; trasparenza nello svolgimento della propria attività, con adeguata pubblicità delle proprie analisi e rapporti; capacità di comunicazione, con la stampa la società civile e gli altri soggetti di riferimento; valutazione esterna delle proprie analisi136.

sovrastimato la crescita del PIL reale in 10 anni su 14.136 Public Governance and Territorial Development Directorate - Public Governance Committee, OECD principles for indipendent fiscal institutions, 12 February 2013,

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Prima di analizzare la Legge costituzionale che ha introdotto l’Ufficio parlamentare di bilancio in Italia, appare opportuno soffermarsi brevemente sulla disciplina europea posta a fondamento di tale organismo.

In particolare, da una prima analisi del quadro normativo europeo appare evidente la recente tendenza volta a rafforzare la governance economica attraverso la trasposizione degli obiettivi e dei principi comunitari in elementi propri dell’ordinamento interno di ciascuno Stato membro.

In merito all’istituzione dei Consigli fiscali di bilancio, già con il cosiddetto six pack – approvato dal Consiglio dell’Unione europea l’8 novembre 2011 – si è prevista l’introduzione di nuove e più rigorose regole di bilancio, accompagnate dall’istituzione dei predetti organismi indipendenti; ed invero, l’articolo 6 della direttiva 2011/85/UE, da recepire entro il 31 dicembre 2013 – concernente i requisiti per i quadri di bilancio degli Stati membri e volta ad individuare le caratteristiche necessarie dei sistemi nazionali di contabilità pubblica e di statistica, i requisiti delle previsioni economiche e di bilancio e i requisiti dei quadri di bilancio di medio termine – dispone che le regole di bilancio prevedano, tra l’altro, “il controllo effettivo e tempestivo dell’osservanza delle regole,

http://www.pbo-dpb.gc.ca/files/files/Revised%20IFI%20Principles_EN%20-%2013-Feb-13.pdf

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basata su un’analisi affidabile e indipendente, eseguita da organismi indipendenti od organismi dotati di autonomia funzionale rispetto alle autorità di bilancio degli Stati membri”.

All’interno del medesimo quadro normativo europeo, un ulteriore riferimento alla costituzione dei predetti organismi indipendenti con la funzione di monitorare il rispetto delle regole di bilancio è previsto dal regolamento n. 473 del 2013; l’obiettivo dell’Unione europea è quello di far divenire tali fiscal council un elemento comune e stabile dei sistemi di finanza pubblica nazionali degli Stati membri.

Ulteriore riferimento ai Consigli fiscali di bilancio è rinvenibile anche nell’articolo 3, paragrafo 2, del Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance nell’Unione economica e monetaria che, con riferimento al meccanismo automatico di correzione degli scostamenti di bilancio, dispone che la Commissione europea dovrà individuare i principi comuni, oltre che per la disciplina di tale meccanismo, in merito al ruolo e all’indipendenza delle istituzioni che, a livello nazionale, dovranno provvedere al monitoraggio del rispetto delle regole di bilancio stabilite dal Trattato.

Ed ancora, altra particolare e fondamentale regola che riguarda i suddetti organismi e che si ritrova all’interno dei cosiddetti common principles – già

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predisposti dalla Commissione europea per l’attuazione del Fiscal compact – è quella del comply or explain: nell’ipotesi in cui gli Esecutivi nazionali decidano di non conformarsi alle valutazioni formulate dagli organismi indipendenti in merito all’attivazione ed all’attuazione del meccanismo automatico di correzione degli scostamenti di bilancio, compreso il regime delle clausole di salvaguardia legate al verificarsi di eventi eccezionali, saranno obbligati a spiegare pubblicamente le ragioni delle loro scelte politiche riferendo al Parlamento su richiesta degli organi parlamentari137.

137 Cfr. LOIERO R., Op. cit. Più precisamente, il punto 7 (Role and independence of monitoring institutions) dispone che: Independent bodies or bodies with functional autonomy acting as monitoring institutions shall support the credibility and transparency of the correction mechanism. These institutions would provide public assessments over: the occurrence of circumstances warranting the activation of the correction mechanism; of whether the correction is proceeding in accordance with national rules and plans; and over the occurrence of circumstances for triggering, extending and exiting escape clauses. The concerned Member State shall be obliged to comply with, or alternatively explain publicly why they are not following the assessments of these bodies. The design of the above bodies shall take into account the already existing institutional setting and the country-specific administrative structure. National legal provisions ensuring a high degree of functional autonomy shall underpin the above bodies, including: i) a statutory regime grounded in law; ii) freedom from interference, whereby the above bodies shall not take instructions, and shall be in a capacity to communicate publicly in a timely manner; iii) nomination procedures based on experience and competence; iv) adequacy of resources and appropriate access to information to carry out the given mandate. European commission, com(2012) 342 final,communication from the commission, Common principles on national fiscal correction mechanisms.

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Infine, anche il cosiddetto two pack ha imposto agli Stati membri la costituzione di organismi indipendenti con la funzione e lo scopo sia di tenere sotto controllo il rispetto delle regole di bilancio, sia di assicurare che le previsioni macroeconomiche – sulle quali trovano fondamento le scelte di finanza pubblica – siano realistiche e non ottimistiche, grazie anche alla loro formulazione proprio da parte dei citati organismi indipendenti di bilancio.

Alla luce di quanto premesso, appare ora possibile analizzare i caratteri essenziali dell’Organismo indipendente per l’analisi e la verifica degli andamenti di finanza pubblica e per la valutazione dell’osservanza delle regole di bilancio – Ufficio parlamentare di bilancio (U.P.B.), istituito in seguito a quanto previsto dall’articolo 5, comma 1, lettera f) della legge costituzionale n. 1 del 2012, che, come già detto, ha introdotto nella Costituzione italiana il principio dell’equilibrio dei bilanci delle pubbliche amministrazioni.

Più precisamente, l’istituzione di tale U.P.B. si è avuta attraverso la cosiddetta legge rinforzata n. 243 del 2012, che ha anche provveduto alla regolamentazione delle caratteristiche principali, quali: la composizione dell’organo di vertice, il

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mandato, la dotazione di risorse umane e strumentali, la libertà di accesso all’informazione.138

L’Ufficio – che lavora in assoluta autonomia e con piena indipendenza di giudizio e di valutazione – è costituito da un Consiglio composto da tre membri (di cui uno con funzioni di presidente), che vengono nominati con decreto adottato d’intesa dai Presidenti del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati, nell’ambito di un elenco di dieci soggetti indicati dalle Commissioni parlamentari competenti in materia di finanza pubblica a maggioranza dei due terzi dei rispettivi componenti.

Riguardo le funzioni di detto Ufficio, l’art. 18 dispone che, attraverso l’elaborazione di proprie stime, esso effettua analisi, verifiche e valutazioni in merito a: a) le previsioni macroeconomiche e di finanza pubblica; b) l’impatto macroeconomico dei provvedimenti legislativi di maggiore rilievo; c) gli andamenti di finanza pubblica, anche per sottosettore, e l’osservanza delle regole di bilancio; d) la sostenibilità della finanza pubblica nel lungo periodo; e) l’attivazione e l’utilizzo di alcuni istituti previsti dal nuovo quadro di regole europee, con particolare riferimento al meccanismo correttivo ed all’autorizzazione in caso di evento eccezionale; f) ulteriori temi di economia e finanza pubblica

138 Si vedano gli articoli 16-19 della legge n. 243 del 2012, di attuazione della Legge costituzionale n. 1 del 2012.

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rilevanti ai fini delle analisi, delle verifiche e delle valutazioni di cui al presente comma.

L’Ufficio, inoltre, è chiamato a predisporre analisi e rapporti anche su richiesta delle Commissioni parlamentari competenti in materia di finanza pubblica; al fine di garantire la piena trasparenza e pubblicità delle analisi è stata anche prevista la pubblicazione delle relazioni e delle valutazioni sul sito internet.

Di particolare rilievo è anche la disposizione prevista dal terzo comma dell’art. 18, in base al quale, qualora, nell’esercizio delle funzioni appena descritte, l’Ufficio parlamentare di bilancio esprima valutazioni significativamente divergenti rispetto a quelle del Governo, su richiesta di almeno un terzo dei componenti di una Commissione parlamentare competente in materia di finanza pubblica, quest’ultimo illustra i motivi per i quali ritiene di confermare le proprie valutazioni ovvero ritiene di conformarle a quelle dell’Ufficio.

Alla luce di quanto premesso, appare evidente come le regole previste dalla Legge costituzionale n. 1 del 2012, nonché dalla legge rinforzata di attuazione dell’Ufficio parlamentare di bilancio, siano poste in un rapporto di stretta complementarietà ed integrazione con la legislazione europea che diviene in tal modo

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fondamentale ai fini dell’interpretazione e dell’applicazione dell’intera riforma costituzionale.

Più precisamente, anche se tali organismi sono sprovvisti di veri e propri poteri sanzionatori, essi si pongono al “crocevia della riconfigurazione interistituzionale tra esecutivi e parlamenti” nell’ambito della nuova governance europea; ed invero, anche se la loro attività deve certamente essere svolta con modalità tali da non circoscrivere il raggio d’azione e la responsabilità degli organi politici, l’ente indipendente deve comunque essere in grado di indurre l’Esecutivo a motivare ed approfondire maggiormente le ragioni e i risultati attesi dalle proprie scelte, al fine, dunque, di assicurare al Parlamento un più efficace esercizio della funzione di controllo sull’operato dei governi139.

5. Il principio del pareggio di bilancio nella costituzione tedesca

Come evidenziato da autorevole dottrina, la riforma costituzionale – prevista nel Gesetz zur Änderung des Grundgesetzes (Artikel 91c, 91d, 104b, 109, 109a, 115, 143d) del 29 luglio 2009 – che ha

139 Cfr. LOIERO R., Op. cit.

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modificato la Grundgesetz introducendo un freno al debito pubblico (c.d. Schuldenbremse), costituisce attualmente un imprescindibile punto di riferimento per qualsiasi iniziativa normativa di analogo tenore in ragione di alcuni fattori: in primis, «per il primario ruolo politico che la Repubblica federale di Germania svolge all’interno dell’Unione europea»; secondariamente, «per la peculiare attenzione che il legislatore costituzionale tedesco ha sempre mostrato nei confronti della c.d. costituzione finanziaria, che disciplina con inusuale precisione i rapporti finanziari tra Federazione (Bund) e Stati membri (Länder)»; ed ancora, «per l’apparente cambio di marcia che questa riforma implica, ove solo si pensi che le precedenti regole costituzionali in materia di bilancio, in particolare la c.d. golden rule introdotta con la riforma costituzionale del 1969, hanno consentito alla Germania di sviluppare intensamente il carattere di socialità della propria forma di stato»; infine, «per le legittime domande sul rapporto di causa-effetto tra la riforma costituzionale e il contesto economico internazionale»140.

140 Cfr. BIFULCO R., Il pareggio di bilancio in Germania: una riforma costituzionale postnazionale?, in Rivista associazione italiana dei costituzionalisti, in www.rivistaaic.it. L’autore rileva come l’adozione della regola della golden rule – permettendo il ricorso al debito solo per le spese in conto capitale – nonostante abbia fatto registrare una diminuzione dell’indebitamento solo parziale, ha comunque contribuito alla costruzione dello Stato del benessere, attraverso notevoli investimenti pubblici nelle infrastrutture e nell'istruzione

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La riforma, dunque, si è inserita in un contesto caratterizzato da una spinta organizzazione federale, in cui i Länder – anch’essi vincolati alla golden rule – non sempre si sono distinti per le rigorose politiche di bilancio, nonché da una politica centrale improntata verso la riduzione della pressione fiscale – e conseguentemente anche delle entrate – che ha reso più difficoltosa la gestione del notevole debito pubblico accumulatosi fino a quel momento141.

Più precisamente, prima delle due riforme costituzionali federaliste del 2006 e del 2009, la Legge fondamentale tedesca prevedeva il semplice principio del pareggio tra le entrate e le spese nella predisposizione del bilancio (art. 110, comma 1); con la prima riforma del federalismo (cd. Föderalismusreform I) – introdotta nell’agosto del 2006 – è stato previsto il nuovo quinto comma dell’art. 109 (Separazione di competenza tra la Federazione e i Länder; principi in materia di bilancio) che ha disposto una responsabilità congiunta della Federazione e dei Länder per il rispetto degli obblighi derivanti dalla partecipazione della Germania al Patto di stabilità europeo, disponendo che le sanzioni per la violazione

pubblica.141 Più precisamente, la Germania ha un’esposizione debitoria che rispetto al prodotto interno lordo si registra intorno all’83,2%; il debito tedesco, inoltre, è il terzo debito pubblico lordo più alto del mondo in valore assoluto ammontamdo a 2080 miliardi e superando di 236 miliardi quello italiano (dati relativi al mese di settembre 2013).

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delle disposizioni sulla conformità alla disciplina di bilancio, di cui all’art. 126 TFUE, siano sostenute, rispettivamente, in misura del 65% dalla Federazione e del 35% dai Länder142.

Ciò premesso, si può ora passare ad analizzare la citata riforma costituzionale del 2009 – seconda riforma del federalismo (Föderalismusreform II) – contenuta nell’art.109, c.3, L.F., che al primo periodo stabilisce letteralmente che i bilanci della Federazione e dei Länder, di norma, devono essere portati in pareggio senza ricorrente al prestito, prevedendo così un freno all’indebitamento (Schuldenbremse) e superando la regola della golden rule.

In particolare, deve essere evidenziato come mentre per la Federazione il Legislatore costituzionale tedesco abbia previsto solo un ristretto margine di manovra, posto che il principio è considerato rispettato «se le entrate da prestiti non superano la soglia dello 0,35 per cento del prodotto interno lordo nominale», per i Länder, diversamente, non abbia lasciato lo stesso spazio sulla componente strutturale

142 Quest’ultima quota, inoltre, viene ulteriormente suddivisa in due fasce percentuali: è infatti previsto che tutti i Länder rispondano in via solidale del 35% in rapporto alla rispettiva popolazione, mentre il restante 65% ricada sui Länder che hanno causato la sanzione, in proporzione alla rispettiva responsabilità oggettiva. Sul punto cfr. Servizio Biblioteca - Ufficio Legislazione straniera, Il principio del 'pareggio di bilancio' negli ordinamenti costituzionali di Francia, Germania e Spagna, http://documenti.camera.it/leg16/dossier/testi/App11026.htm

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del debito, anche se la Legge fondamentale rimette all’autonomia normativa degli stessi la disciplina dei dettagli143.

Tale stringete disposizione nello svolgimento delle politiche di bilancio prevista esclusivamente per i singoli Länder trova giustificazione nell’obiettivo di evitare che essi possano dichiarare il fallimento (cd. “bailout”) e mira ad «accentuare il ruolo della Federazione di garante delle uniformi condizioni di vita – clausola che, come è noto, caratterizza lo stato sociale tedesco –, anche perché essa, a differenza dei Länder, può comunque agire sul versante delle entrate finanziarie»144.

La riformata disciplina costituzionale, inoltre, tenendo in considerazione la dimensione ciclica, stabilisce che nella formazione del bilancio si dovrà tenere conto delle fasi di ripresa o di declino determinate dagli andamenti congiunturali che deviano dalla normalità145; un’ulteriore ipotesi di

143 Si veda l’art.109, c.3, nonché l’art.115, c.2, LF144 Cfr. BIFULCO R., op. cit,. pag. 3145 Letteralmente l'art.115, c.2, per.3, LF, recita: “Zusätzlich sind bei einer von der Normallage abweichenden konjunkturellen Entwicklung die Auswirkungen auf den Haushalt im Auf- und Abschwung symmetrisch zu berücksichtigen”. Più precisamente, nelle ipotesi in cui il bilancio federale richieda il ricorso ad un indebitamento pubblico superiore ai parametri stabiliti, gli scostamenti del ricorso effettivo al credito dalla soglia massima consentita vengono registrati su un apposito conto di controllo; gli addebiti che superano la soglia dell’1,5% rispetto al prodotto interno lordo nominale devono essere quindi ridimensionati, tenuto conto dell'evoluzione del ciclo congiunturale

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eccezione al principio del pareggio di bilancio è prevista nelle ipotesi di disastri naturali o emergenze straordinarie.

Nella citata disposizione, inoltre, si prevede che le deroghe al principio del pareggio di bilancio che determinano il superamento dei limiti posti al ricorso al prestito dovranno essere autorizzate da una deliberazione, adottata a maggioranza assoluta, del Bundestag e alla presentazione di un piano di ammortamento.

Il Legislatore costituzionale ha poi disposto un’ulteriore deroga alla regola del pareggio di bilancio nei confronti dei cinque Länder di Berlin, Bremen, Saar, Sachsen-Anhalt e Schleswig-Holstein, predisponendo a loro vantaggio anche una serie di aiuti di consolidamento tra il 2011 ed il 2019 per un importo totale corrispondente ad 800 milioni di euro; la distribuzione di tali somme – chiaramente disciplinata dall’art. 143d, c.2, L.F. – risulta subordinata alla predisposizione di adeguate misure di riduzione dei rispettivi deficit al fine di un rientro totale entro la fine del 2020, nonché risulta assolutamente preclusa nel caso di dichiarate emergenze di bilancio.

Analizzando la normativa costituzionale tedesca che disciplina il bilancio, non può non essere evidenziato il ruolo fondamentale che viene attribuito

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in materia al Bundesrat, organo attraverso il quale i Länder partecipano al potere legislativo. Ed invero, la seconda camera interviene in un serie di ipotesi, tra cui: l’adozione delle decisioni di somministrazione dei predetti aiuti ai cinque Länder, posto che a tali stanziamenti deve essere presupposto un accordo amministrativo in applicazione di una legge federale che richiede l’approvazione del Bundesrat (Art.143d, c.2, per.3, LF); la predisposizione della disciplina di dettaglio in materia di bilancio mediante una legge federale; l’adozione delle due leggi che disciplinano la concreta ripartizione degli oneri finanziari, legati ai suddetti aiuti di consolidamento, tra Federazione e Länder (Art.143d, cc.2 e 3, LF); l’adozione delle disposizioni volte a regolare le questioni dirette ad escludere un’emergenza di bilancio.

Tali rilevanti competenze del Bundesrat permangono nonostante la precedente riforma costituzionale del 2006 abbia di fatto limitato l’intervento di questo organo al fine di semplificare l’iter di formazioni delle leggi, nonché di liberare la maggioranza di governo dalle frequenti ostruzioni realizzate dalla seconda camera – spesso caratterizzata da una maggioranza di colore diverso rispetto a quella presente nell’asse Governo federale – Bundestag146.

146 Cfr. ARROYO GIL A., La reforma constitucional de 2009 de las relaciones financieras entre la Federaciòn y los Länder en la

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Deve inoltre essere evidenziato come il Legislatore costituzionale – al fine di assicurare un controllo continuo sulla gestione del bilancio federale e dei Länder – abbia attribuito ad un organo specifico, il Consiglio di stabilità (Stabilitätsrat), il ruolo tecnico e di supporto alle decisioni di bilancio da parte dei partiti politici; più precisamente, tale organo è composto dal Ministro federale delle finanze, dai Ministri delle finanze dei Länder, dal Ministro federale per l’economia e la tecnologia.

Le riunioni del Consiglio si terranno in base alla necessità, ma almeno due volte l’anno; inoltre, per l’adozione delle decisioni – che devono obbligatoriamente rese pubbliche – è necessario il voto della Federazione cui devono aggiungersi i due terzi dei Länder.

Alla luce di quanto premesso, così come osservato da autorevole dottrina, questa riforma costituisce “la prima riforma costituzionale postnazionale”, posto che – anche se è stata indubbiamente predisposta con riferimento ai conti pubblici interni – sembrerebbe essere stata pensata in un’ottica europea e forse globale; ed invero, proprio all’interno di questi più ampi livelli ordinamentali che la riforma ha finito per

Republica Federal de Alemania, in Revista d'Estudis Autonòmics i Federals, 10, 2010

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svolgere i propri effetti, pur se, ovviamente, in forma indiretta147.

6. L’attuazione del federalismo fiscale in Italia alla luce dei vincoli di origine europea. Brevi cenni sulla piattaforma normativa italiana: prima della riforma costituzionale del 2001

Prima di analizzare le problematiche relative alla realizzazione del federalismo fiscale in Italia a causa dei vincoli economici di matrice europea e, soprattutto, del mancato completamento del processo di unificazione europea, appare opportuno soffermarsi brevemente sull’esame della piattaforma normativa su cui lo stesso si fonda.

In primis, si deve evidenziare che il federalismo fiscale è un termine di origine anglosassone (fiscal federalism) che individua la distribuzione delle funzioni di prelievo e di spesa tra i diversi livelli di governo in maniera da realizzare la dimensione ottimale dei servizi pubblici nonché il modo di ridurre le differenze delle entrate autonome rispetto alle necessità di spesa dei governi subcentrali.

147 Cfr. BIFULCO R., op. cit.

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Generalmente il federalismo fiscale può essere introdotto in qualsiasi ordinamento statale che si sviluppi su vari livelli di governo: il governo centrale, il quale ha la sovranità legislativa e fiscale su tutto il territorio, i governi regionali, che sono competenti per certe funzioni a livello intermedio e i governi locali che soddisfano i ‹‹bisogni pubblici locali››; tendenzialmente al governo centrale spetta la gestione dei servizi pubblici ad utilità indivisibile, mentre ai governi locali spettano i servizi ad utilità localizzabile e divisibile.

Volendo trovare la definizione del federalismo fiscale è possibile dire che si tratta della teoria che studia il decentramento delle funzioni pubbliche secondo efficienza allocativa, sulla base dell’autonomia fiscale ed amministrativa degli Enti locali entro i limiti della solidarietà nazionale, la quale comporta trasferimenti perequativi.

L’attuazione di tale teoria in un ordinamento statale comporta il rispetto di alcuni principi fondamentali: decentramento sul fronte non solo della spesa ma anche delle entrate, diffusione multilivello dei poteri decisionali tra i quali prevale il potere normativo d’imposizione, maggiore responsabilizzazione politica e gestionale degli amministratori locali148.

148 Si esprime in questi termini GALLO F., Enciclopedia giuridica del diritto, alla voce “Federalismo fiscale”.

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Altro caposaldo essenziale per la sua realizzazione è il principio di sussidiarietà che implica un riassetto istituzionale rispondente al modello europeo di federalismo fissato dallo stesso Trattato di Maastricht nel quale si afferma che “lo Stato deve intervenire solo nelle materie riguardo alle quali gli enti sottordinati, nell’ambito delle rispettive competenze, non possono decidere ed agire con efficacia”.

Ulteriori principi su cui si basa il federalismo fiscale sono: il principio di efficienza, in base al quale ogni amministrazione locale è chiamata a decidere in termini di costi e benefici e quindi ad agire di conseguenza; il principio di responsabilità, grazie al quale i cittadini sono messi in grado di controllare, indirizzare e giudicare l’operato dei loro amministratori per ciò che riguarda le decisioni di entrata e di spesa; il principio di solidarietà che impone l’intervento perequativo a favore delle regioni e degli enti locali più poveri per il finanziamento dei diritti fondamentali di cittadinanza sociale. L’attuazione del principio di responsabilità è inoltre agevolata dalla combinazione del criterio del beneficio con quello della capacità contributiva dato che si rende direttamente percepibile il collegamento tra i prelievi subiti ed i vantaggi derivanti dalle spese149. È solo applicando tutti i principi citati che un

149 Cfr. GALLO F., ibidem.

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ordinamento tributario può considerarsi improntato ai valori dell’autonomia e della partecipazione democratica.

Da quanto appena detto è possibile sviluppare sinteticamente due considerazioni. In primis, se le funzioni di spesa sono finanziate in prevalenza attraverso i trasferimenti è possibile che l’ente locale non si sforzi di contenere i costi nei limiti dell’efficienza tecnica; se invece a finanziare sono i contribuenti locali lo sforzo fiscale richiesto loro li stimolerà a vigilare che le spese vengano effettuate, conformemente alle loro preferenze, secondo economicità. La seconda considerazione è che applicare rigorosamente l’autonomia finanziaria porterebbe, a parità di prestazioni, a tassare di meno i contribuenti degli enti locali più ricchi, rispetto a quelli più poveri, data la maggiore materia imponibile. Inoltre, gli Enti locali adempiono anche a funzioni di interesse nazionale che sarebbe incongruo fossero finanziate dai contribuenti locali. Perciò i trasferimenti perequativi statali sono necessari per ragioni di equità150.

Il federalismo fiscale, inoltre, deve presupporre la conquista di valori come autonomia e trasparenza che, pur non coincidendo con la assoluta libertà di istituire tributi con presupposti propri e diversi per ogni

150 Si esprime in questi termini STEFANI G., Economia della finanza pubblica, CEDAM, 1999.

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regione e ogni ente locale, interpretino i principi della riserva relativa di legge (art. 23 Cost.) e dell’autonomia finanziaria regionale sancita dal riformato art. 119 della Costituzione in modo meno rigido e alla luce del principio comunitario di sussidiarietà (art. 3B del Trattato di Maastricht), del principio costituzionale di autonomia politica (art. 5 Cost.) e nel senso della massima espansione del potere di autoregolamentazione151. È necessaria quindi l’affermazione della teoria per cui l’offerta centralizzata dei beni pubblici non è da privilegiare perché ostacola l’adeguamento dei servizi alle esigenze locali e attenua l’associazione tra imposte pagate e prestazione dei servizi, rendendo il controllo politico dei cittadini-contribuenti meno diretto ed efficace152.

Ciò premesso, si deve evidenziare che Wallace Oates, uno dei massimi studiosi mondiali del federalismo fiscale, in un suo recente saggio ha detto che in Italia l’impulso verso la decentralizzazione si è spinto talmente oltre da prevedere una vera e propria proposta di separazione della nazione in due stati indipendenti153.

151 Ibidem.152 Cfr. GALLO F., ibidem.153 Cfr. OATES W., An essay on Fiscal Federalism, in Journal of

Economic Literature vol. 3, 1999. Viene infatti così tradotto dall’inglese: “And in Italy the movement toward decentralizazion has gone so far as to encompass a serious proposal for the separation of the nation into two independent

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Tuttavia, nella prima fase economica italiana – a partire dagli anni ’70 – si è sviluppata una straordinaria combinazione tra politica e finanza, denominabile “democrazia del deficit”, che ha portato all’illusione che la ricchezza finanziaria non fosse una alternativa ma addirittura la base costitutiva dello Stato sociale. Per ottenere tale illusione il potere finanziario è stato prima manipolato da uno Stato posto sopra il mercato, poi rafforzato dal potere di debito e da un Parlamento che da storico controllore della spesa dei sovrani è divenuto esso stesso il sovrano della spesa, infine usato per creare l’illusione di uno Stato sociale non solo gratuito ma addirittura redditizio sia in termini economici che politici. Tutto ciò si è ottenuto tramite la concentrazione del potere finanziario nel solo Stato centrale; l’azzeramento dell’autonomia finanziaria degli enti locali trasformati in puri centri di spesa; lo sviluppo nel modo più radicale possibile del potere finanziario con una tassazione di tutto il prodotto redditizio e una sua redistribuzione in forma di spesa pubblica; la costituzione di una legislazione fiscale basata su regimi fiscali che grottescamente costituivano a favore dell’evasore uno scudo insuperabile contro il fisco stesso154.

countries”.154 Cfr TREMONTI G. e VITALETTI G., Il federalismo fiscale,

Laterza, Bari, 1994

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In questa fase storica, dunque, le Regioni si sono così trovate nell’impossibilità di esercitare la loro potestà tributaria garantita dalle norme costituzionali, se non in limitati casi di autodeterminazione delle aliquote; in questo modo, le sole entrate tributarie attribuite alle stesse dalla legge n. 281/70 erano costituite da forme di sovraimposizione o scomposizione di tributi nazionali allora vigenti, con un rilievo quantitativo marginale155.

Le finalità di un modello finanziario così distaccato dai precetti costituzionali sono da rintracciare nell’idea che solo in questo modo era possibile porre sotto controllo l’evoluzione della spesa e raggiungere livelli uniformi di offerta di servizi essenziali sul territorio nazionale.

Tuttavia, questo modello, non si è rivelato sicuramente efficace rispetto all’obbiettivo dell’eguaglianza nel godimento dei diritti sociali; infatti, nonostante livelli di spesa uniformi sul territorio nazionale, sono rimaste profonde divergenze nella qualità di tali servizi tra Nord e Sud.

155 È opportuno sottolineare come il completamento dell’ordinamento regionale si sia realizzato solo con la legge delega del 22 luglio 1975 n. 382 e con il conseguente D.P.R. 24 luglio 1977, n. n. 616 il quale ampliò le funzioni regionali e locali forse oltrepassando il limite delle materie, comunque legittimamente, per pacifica giurisprudenza costituzionale. Tuttavia, lo Stato si riprese ben presto parte delle attribuzioni trasferite o delegate attraverso numerose leggi di settore.

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Altro effetto negativo fu la forte deresponsabilizzazione delle Regioni che spendevano più di quanto assegnato, sapendo che lo Stato centrale sarebbe poi intervenuto ex post per ripianare i debiti contratti.

Solo a partire dagli anni ’90, con la percezione del totale fallimento del modello centralizzato, si ebbero le prime riforme in materia fiscale. I primi interventi legislativi (l. n. 398/90, d.lgs. n. 502/92, l. n. 549/95) mirarono all’introduzione di addizionali regionali, alla regionalizzazione dei contributi sanitari e, infine, alla soppressione di tutti gli storici fondi di trasferimento, ad eccezione del Fondo sanitario nazionale, che vennero sostituiti con un Fondo perequativo di tipo verticale non vincolato e con una compartecipazione all’accisa sulle benzine. La vera svolta si è però avuta solo con l’emanazione del d.lgs. n. 446/97 che ha introdotto l’IRAP, l’addizionale IRPEF e contemporaneamente abolito i contributi sanitari e altri tributi locali e nazionali (ILOR, ICIAP, imposta sul patrimonio netto delle imprese, tassa di concessione governativa sulla partita IVA, tasse di concessione comunale). In questo modo si sarebbe dovuto garantire alle Regioni maggiori margini di autonomia. Tuttavia, una serie di discrasie impositive combinate al minor gettito ottenuto dall’IRAP nella sua prima fase applicativa rispetto alle previsioni, hanno

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determinato una divaricazione tra i principi che volevano guidare la riforma e le concrete realizzazioni dell’autonomia impositiva. In particolare, è rimasta insoluta la contraddizione tra un modello centralistico di sanità e l’attribuzione del suo finanziamento e della sua gestione alle Regioni.

Fondamentale per la conclusione del periodo di riforme degli anni ’90 e per l’attuazione di un primo vero decentramento fiscale, fu la legge delega n. 133 del 1999. Tramite questa si volle soddisfare due esigenze fondamentali: garantire certezza riguardo alle risorse disponibili, allentando la dipendenza dai trasferimenti erariali, e costruire un sistema di perequazione che realizzasse in modo trasparente gli obiettivi di solidarietà interregionale156. A tale legge delega il Governo ha dato attuazione con il d.lgs. n.56/2000, intitolato “Disposizioni in tema di

156 La legge delega individuava cinque punti fondamentali: abolizione dei trasferimenti alle Regioni a statuto ordinario, salvo specifiche eccezioni; sostituzione dei finanziamenti soppressi con un aumento dell’addizionale IRPEF e dell’aliquota dell’accisa sulle benzine, nonché attraverso l’istituzione di una compartecipazione IVA; definizione delle linee essenziali di un nuovo modello perequativo da strutturarsi attraverso meccanismi rapportati alla capacità fiscale relativa ai principali tributi e alle compartecipazioni ai tributi erariali, alla capacità di recupero dell’evasione fiscale e al grado di copertura dei bisogni sanitari; istituzione di un Fondo perequativo nazionale, la cui fonte di finanziamento viene indicata nella compartecipazione IVA ed eventualmente nella quota di compartecipazione all’accisa sulla benzina; rimozione dei vincoli di destinazione delle risorse proprie regionali (IRAP e addizionale IRPEF) anche sul versante della sanità.

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federalismo fiscale”; con questa riforma si è ottenuto sia un consistente aumento dell’autonomia regionale, sia una corretta interpretazione dell’art. 119 Cost.

Altro aspetto fondamentale del nuovo sistema di autonomia finanziaria regionale è stato quello del nuovo meccanismo di perequazione. Al fine di garantire la realizzazione di obiettivi di solidarietà interregionale è stato, infatti, istituito il Fondo perequativo nazionale destinato ad essere alimentato dalla compartecipazione all’IVA, e strutturato in base alla popolazione residente, alla capacità fiscale, ai fabbisogni sanitari e alla dimensione geografica di ogni Regione. Proprio questo sistema perequativo è stato segnato, quindi, da una significativa evoluzione, risultando ora basato su criteri noti alla teoria economica e non più su una redistribuzione in base alla spesa storica e su una logica di uniformità finanziaria. È stato così riconosciuto per la prima volta il “valore della differenza”, essendo stato stabilito che le discrasie di basi imponibili tra le diverse Regioni non devono essere livellate, ma solo perequate.

Nel complesso il d.lgs. n. 56 del 2000 ha quindi determinato un importante passo avanti nel processo del regionalismo italiano: il sistema dell’autonomia finanziaria ha infatti ricevuto, dopo diversi decenni, una configurazione aderente al dettato costituzionale, idonea a garantire alle Regioni, sul piano teorico, una

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autonomia di spesa non inferiore a quella dei livelli intermedi operanti nella maggior parte degli ordinamenti federali157.

Tuttavia, nonostante questi importanti passi avanti, sono rimasti vari problemi applicativi e aspetti critici. Il principale di questi riguarda proprio il sistema perequativo che sembra assumere un carattere ibrido, non essendo strutturato come un reale sistema orizzontale. È mancata, infatti, l’istituzione di un organo politico che fosse capace di gestire e superare il conflitto distributivo e di garantire la rappresentanza degli interessi coinvolti.

6.1 Dopo la riforma del Titolo V, Parte II della Costituzione: dal vecchio al nuovo testo dell’art. 119.

Il processo di federalismo italiano ha compiuto, anche se con il permanere di notevoli contraddizioni, un notevole salto in avanti con l’approvazione della l. cost. n. 3 del 2001, di riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione italiana, seguita al referendum confermativo del 7 ottobre 2001.

157 Così, BUGLIONE, Le deleghe sul federalismo fiscale. Verso Regioni più autonome o più autoreferenti?, in Le istituzioni del federalismo 1999, 591.

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Le modifiche introdotte rispetto al vecchio testo della Costituzione sono numerose e riguardano, tra le altre: la ripartizione dei poteri legislativi e dei poteri di amministrazione tra i diversi livelli di governo presenti in Italia; i mezzi di finanziamento di Regioni ed enti locali e le regole di perequazione; la possibilità di forme di autonomia differenziata per le Regioni a statuto ordinario.

Per alcuni aspetti, il nuovo testo della Costituzione propone novità che non trovano riscontro nel testo del 1948. Si tratta delle attribuzioni alle Regioni della competenza esclusiva su alcune fondamentali materie, dell’utilizzo di regole finanziarie uniformi per tutti i livelli di governo (Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni), nonché della opzione per forme di autonomia differenziata e della attribuzione delle funzioni amministrative, in via prioritaria, agli enti locali, Comuni in particolare, in attuazione del principio comunitario della sussidiarietà.

Per altri aspetti, le innovazioni proposte dalla riforma hanno solo natura evolutiva. Le materie a legislazione concorrente, per le quali le Regioni sono chiamate a rispettare i principi fondamentali fissati dalla legislazione statale, assumono così un ruolo di maggiore rilievo, le regole di perequazione sono ridefinite e le conseguenze delle diversità economiche nelle diverse Regioni sono affrontate con nuovi criteri.

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La grande bipartizione sancita dalla nuova formulazione dell’art. 117 Cost. tra legislazione esclusiva e legislazione concorrente, di fatto, aumenta significativamente la potestà legislativa delle Regioni, essendo ora la potestà legislativa esclusiva dello Stato circoscritta alle materie elencate nel secondo comma. Interviene, inoltre, il nuovo art. 120 Cost. che riserva allo Stato centrale tutte quelle materie concernenti i diritti civili e sociali che attengono alla determinazione e alla tutela dei livelli essenziali di prestazioni che devono essere garantiti indistintamente a tutti i cittadini ovunque essi risiedano.

Si può ritenere che, dopo la riforma costituzionale del 2001, i poteri delle regioni a statuto ordinario risultano notevolmente ampliati; in particolare l’art. 117 Cost. attribuisce loro in via esclusiva una potestà legislativa residuale “per ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”.

Uno dei principali motivi ispiratori dell’intera riforma costituzionale è stato sicuramente quello di adeguare la finanza delle Regioni e degli Enti locali a regole più direttamente riconducibili all’istituto del federalismo fiscale. Innovazione fondamentale, infatti, è quella contenuta dall’art. 119 Cost., contenente i principi finanziari che regolano la finanza delle regioni e degli Enti locali, che introduce il principio della

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“territorialità dell’imposta”; in questo modo, nelle intenzioni del legislatore costituzionale, detti Enti territoriali dovrebbero sostenersi con mezzi propri e cioè tramite l’esercizio di una autonoma attività di imposizione tributaria posta in essere sul proprio territorio.

L’originaria formulazione dell’art. 119 della Costituzione attribuiva alle Regioni ‹‹autonomia finanziaria›› non precisando però se questa fosse riferita alle entrate, alle spese o ai saldi di bilancio. In questo modo, grazie anche alla prudenza della Corte costituzionale, nell’interpretare tale nozione di autonomia finanziaria si è sempre riconosciuto al legislatore nazionale il potere di fissare dei limiti nell’impostazione dei bilanci regionali, soprattutto nei casi in cui le norme statali erano finalizzate al raggiungimento di obbiettivi macro-economici sui saldi di bilancio del settore pubblico, sulla crescita delle spese o sull’aumento delle entrate fiscali.

Nel nuovo testo, dopo le parole ‹‹autonomia finanziaria›› sono aggiunte le parole ‹‹di entrata e di spesa››. Non è molto chiaro cosa si intenda con questa qualificazione dato che le parole ‹‹autonomia finanziaria›› si riferiscono, nell’impiego che comunemente si fa di quest’espressione, sia alle entrate che alle spese e quindi anche alle procedure di formazione e gestione del bilancio. Forse, con queste

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parole aggiuntive, si vuole sottolineare che nella nozione di autonomia finanziaria deve essere inclusa anche l’autonomia impositiva, una precisazione diretta ad evitare che lo Stato assegni tributi propri alle Regioni, senza consentire loro di disporre di autonomia e flessibilità nella fissazione delle aliquote, o anche nella determinazione delle basi imponibili.

Tuttavia, nel nuovo testo permangono dei limiti all’autonomia finanziaria derivanti dalle norme sul coordinamento. Mentre il vecchio testo prevedeva che l’autonomia finanziaria delle Regioni fosse coordinata con la finanza dello Stato, delle Province e dei Comuni attraverso forme e limiti stabiliti da leggi della Repubblica, peraltro mai emanate se non facendo ricorso volta per volta alle singole leggi finanziarie, il nuovo testo dell’art. 119 Cost. prevede una forma di coordinamento verticale in base alla quale ‹‹Le Regioni hanno risorse autonome (…) secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica››. Non sembra che questa espressione intacchi in modo rilevante il preesistente rapporto tra autonomia finanziaria e principi di coordinamento. Non è venuto meno, infatti, il potere del legislatore nazionale di indirizzare, per ragioni di governo dei flussi finanziari del settore pubblico, le politiche di bilancio delle Regioni o di condizionare la struttura formale dei bilanci regionali.

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È interessante evidenziare che la materia del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario appartengono alla competenza legislativa concorrente delle Regioni. Tuttavia è impossibile immaginare un doppio regime di legislazione in materia dato che mancano gli spazi materiali per avere un ulteriore livello di legislazione regionale, oltre quello statale, sul medesimo argomento.

Punto fondamentale della riforma costituzionale è quello che riguarda l’autonomia tributaria. Il vecchio testo, nonostante avesse attribuito alle Regioni, tra le loro fonti di entrata, tributi propri, non ha mai consentito in concreto una vera autonomia dal momento che l’unica forma di flessibilità riguardava la possibilità di manovrare le aliquote all’interno di un intervallo definito da un valore minimo e uno massimo158; solo negli anni più recenti è stato consentito alle Regioni di intervenire anche su qualche aspetto della determinazione della base imponibile e della individuazione dei soggetti all’obbligo tributario. Il nuovo testo, invece, si esprime con un linguaggio più forte affermando il principio che gli enti decentrati ‹‹dispongono di risorse autonome, stabiliscono e applicano tributi propri››. Il passaggio dalla forma passiva del vecchio testo (‹‹alle Regioni

158 Cfr. GIARDA P., Le regole del federalismo fiscale nell’art. 119: un economista di fronte alla nuova Costituzione, in Le Regioni, 6/2001, pag. 1434.

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sono attribuiti››) a quella attiva del nuovo art. 119 Cost. (‹‹le Regioni stabiliscono››) sembrerebbe deporre a favore del riconoscimento alle Regioni della possibilità di introdurre autonomamente, a prescindere cioè da una legge statale, nuovi tributi. In altre parole, la tesi della non necessità della legge statale istitutiva, che sotto la vigenza del vecchio testo appariva altamente problematica, sembrerebbe ricevere un maggior supporto testuale. Tuttavia, come già detto, tale impostazione deve essere ridimensionata dalla riserva allo Stato dei principi fondamentali del coordinamento tributario regionale; permane la possibilità per le regioni di istituire tributi regionali alle sole basi imponibili non soggette a tassazione da parte dello Stato.

A conferma di questa supposizione, inoltre, si deve considerare che il testo del comma 2 dell’art. 119 Cost., nel prevedere la possibilità di stabilire e applicare tributi ed entrate proprie non è riferita solo alle Regioni ma anche agli altri enti locali, i quali non avendo potestà legislativa non possono essere titolari di quella potestà impositiva riservata dall’art. 23 Cost. ai soggetti titolari di potestà legislativa. Bisogna così escludere che la disposizione del comma 2 possa avere il significato di legittimare un autonomo potere di istituzione di tributi a favore di tutti gli enti territoriali autonomi in esso menzionati (Comuni,

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Province, Città metropolitane e Regioni); il potere impositivo delle Regioni deve invece essere ricavato dal riferimento ai soli tributi statali contenuto nella lett. e) del comma 2 dell’art. 117 Cost. e dal generale rovesciamento del criterio della residualità in relazione alla potestà legislativa. Dall’analisi dell’art. 119 Cost., in particolare, è pacifico che il finanziamento delle autonomie locali è destinato a compiersi principalmente attraverso i tributi istituiti con legge statale, se non per alcuni margini di ulteriore autonomia lasciati aperti dai principi del coordinamento statale e dalla previsione della potestà legislativa regionale residuale.

Ulteriori spazi, inoltre, sembrano ricavarsi dal nuovo testo laddove aggiunge l’espressione ‹‹applicano›› a quella ‹‹stabiliscono››: è possibile che con questa formulazione si sia voluta riconoscere alle Regioni un’autonomia tributaria estesa anche ad aspetti della politica fiscale e a fasi del procedimento del prelievo (liquidazione, riscossione ed accertamento), sempre nei limiti stabiliti dai principi statali di coordinamento.

Altra importante differenza tra la vecchia e la nuova formulazione dell’art. 119 Cost. riguarda l’attribuzione alle Regioni di ‹‹quote di tributi erariali››, prima della riforma, e la ‹‹compartecipazione al gettito di tributi erariali

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riferibili al loro territorio››, dopo la riforma. Se ad una prima analisi le due espressioni potrebbero sembrare simili, in realtà sono molte le differenze; la prima, infatti, ha un carattere più generale della seconda. La nuova formulazione prevede che il gettito tributario complessivo deve essere prima ripartito su base regionale e poi essere assegnato, data l’aliquota di compartecipazione, alle singole Regioni o enti locali. Tuttavia, questa nuova disposizione, per essere attuata necessita di una legge ordinaria che definisca meglio cosa bisogna intendere con l’espressione ‹‹riferibili al loro territorio››; non è ben chiaro, infatti, se si vuole fare riferimento al gettito prodotto nel territorio regionale dalle attività localizzate nella Regione, al gettito associabile al reddito dei cittadini residenti nella Regione o al gettito riscosso nella Regione.

Proseguendo con l’analisi dell’art. 119 Cost., si nota come il terzo comma abbia stravolto i criteri di perequazione. Il vecchio testo, infatti, era caratterizzato da un criterio per cui i proventi delle quote dei tributi erariali dovevano essere accantonati in un Fondo perequativo da ripartire tra le Regioni, in modo da garantire che per ciascuna di esse, la somma delle entrate proprie e della quota di tale fondo consentisse di finanziare le spese necessarie a soddisfare i ‹‹bisogni››; la nuova formulazione, invece,

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fa riferimento a un criterio legato alle capacità fiscali per abitante e caratterizzato dal fatto che il gettito dei tributi propri e delle compartecipazioni affluisce alle Regioni ove i redditi sono prodotti, anziché affluire ad un fondo accantonato sul bilancio statale. In questo modo, i proventi delle compartecipazioni al gettito dei tributi erariali non sono più la fonte di alimentazione del fondo perequativo da ripartire in base ai ‹‹bisogni››, ma concorrono essi stessi a formare quelle diversità nelle entrate pro-capite delle diverse Regioni o territori, che devono essere corrette dall’azione del fondo perequativo. Tuttavia, la norma costituzionale nulla dice riguardo le modalità di funzionamento dello stesso; ci si chiede, infatti, se le quote del fondo devono eliminare o solo ridurre le differenze di entrata causate dalle differenze interregionali nella capacità fiscale. Nonostante questo, una lettura combinata nel nuovo testo del secondo e del terzo comma dell’art. 119 Cost. porta al convincimento che il costituente abbia inteso conservare, almeno in parte, le differenze nei gettiti pro-capite prodotti dalla diversità delle basi imponibili dei tributi regionali. Sarebbe una vera contraddizione avere introdotto il criterio di attribuire le compartecipazioni alle singole Regioni in relazione al gettito prodotto nei loro territori per poi eliminare, con le quote del fondo perequativo, le differenze interregionali che derivano dalla sua applicazione.

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Passando ora all’analisi del quarto comma del riformato art 119, possiamo affermare che questo può essere correttamente interpretato solo grazie alla coerenza tra il 2° e il 3° comma dello stesso articolo. Solo così, infatti possiamo affermare che la norma, nell’affermare che ‹‹Le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi precedenti consentono ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane e alle Regioni di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite››, si riferisce all’insieme degli enti citati nell’articolo piuttosto che a ciascuno di questi. Deve quindi essere il sistema regionale nel suo complesso a ricevere finanziamenti adeguati a coprire i costi di produzione e di attivazione delle funzioni sulla base di livelli di spesa definiti prima del trasferimento delle funzioni alle Regioni. Non sarebbe ipotizzabile invece la tesi contraria e cioè che la somma di tributi propri, compartecipazioni e fondo perequativo, deve finanziare integralmente i livelli di spesa delle singole Regioni; in questo modo, infatti, non si saprebbe su quale base calcolarli con il rischio di riportare le nuove regole di finanziamento verso quelle previste dal vecchio testo pre-riforma.

Andando avanti in questa rapido studio del nuovo art. 119 della Costituzione non si può non focalizzare l’attenzione sui contributi speciali previsti dal quinto comma. Anche in questo caso la riforma è servita per

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dare maggiore incisività a questa forma di intervento centrale dal momento che, il vecchio testo, troppo debole e generico in questa materia, non aveva consentito alcuna forma di attuazione legislativa. Nel nuovo testo, invece, tali contributi speciali hanno un rilievo particolare in relazione al fatto che devono essere destinati a provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle funzioni regionali, promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale rimuovendo nel contempo gli squilibri economici e, infine a favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona. I contributi speciali non sono più il risultato di una formula di perequazione delle capacità fiscali, ma esprimono l’interesse dello Stato nelle attività di spesa e nei servizi erogati dalle Regioni sulla base di una valutazione dei ‹‹bisogni›› del cittadino e dei territori. Le finalità che il nuovo testo assegna ai contributi speciali consentono anche di precisare che le risorse dello Stato destinate a finanziare il normale esercizio delle funzioni regionali devono tradursi in contributi senza vincolo di destinazione. In via pratica, il ‹‹normale esercizio›› delle funzioni previsto dal quinto comma, sembra fare riferimento a una nozione di standardizzazione dei livelli di attivazione delle funzioni attribuite, per quanto attiene sia ai livelli quantitativi sia agli aspetti qualitativi. Essendo caduto il riferimento ai ‹‹bisogni››

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presente nel vecchio testo, non c’è più ragione di imporre vincoli di destinazione sulle quote del fondo perequativo assegnate alle Regioni più povere. Non avrebbe senso lasciare alle Regioni più ricche, che si finanziano con tributi propri e compartecipazioni, piena autonomia nell’utilizzo delle loro risorse e imporre alle Regioni più povere, che dipendono dalle quote del fondo perequativo per l’esercizio delle loro funzioni, vincoli di destinazione sulle risorse assegnate. I vincoli di destinazione sono propri di finanziamenti statali assegnati sulla base dei ‹‹bisogni››.

L’ultimo comma dell’art. 119, infine, statuisce che Regioni ed Enti locali possono ricorrere al debito solo per finanziare spese d’investimento; viene così introdotta la golden rule. È quindi esclusa la possibilità per le Regioni di contrarre mutui per finanziare spese correnti, incluse le spese per il ripiano dei disavanzi di aziende sanitarie e aziende di trasporto. Sono varie le ragioni teoriche che giustificano questa regola. La più antica si basa sull’idea che l’investimento dovrebbe essere in grado di generare maggiori entrate attraverso le tariffe per l’uso dell’infrastruttura; le tariffe consentirebbero di pagare il servizio del debito senza aggravi di tassazione sulle generazioni future di contribuenti. La seconda ragione è che il bene capitale, quand’anche

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non generasse ricavi monetari, produce utilità ripetuta nel tempo ed è quindi corretto che il suo costo sia ripartito, attraverso le maggiori imposte richieste per il servizio del debito, anche sulle generazioni future.

L’art. 119 conclude con il riconoscimento alle Regioni ed agli Enti locali di un loro patrimonio derivante dallo sfruttamento e dalla dismissione dei relativi beni. Il sesto comma, inoltre, impedisce anche allo Stato di concedere alle Regioni garanzie sui prestiti da loro contratti.

Dopo questa analisi del riformato art 119 della Costituzione, in sintesi è possibile affermare che in esso vengono definite regole di finanziamento delle Regioni a statuto ordinario che si caratterizzano: per la accentuazione, rispetto al vecchio testo, del ruolo delle entrate proprie; per la precisazione che le compartecipazioni al gettito dei tributi erariali affluiscono alle Regioni nel cui territorio sono prodotte; per la definizione di un principio di solidarietà interregionale basato sulla perequazione delle capacità fiscali; per la scelta di finanziare la perequazione attraverso le quote di un fondo perequativo da attribuire alle Regioni più povere senza vincolo di destinazione; per la mancanza di un criterio quantitativo sulla misura della perequazione; per l’individuazione di contributi speciali, aggiuntivi rispetto alle entrate derivanti dai tributi propri, dalle

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compartecipazioni e dalle quote del fondo perequativo, diretti a favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona e a ridurre gli squilibri economici territoriali; per il mantenimento di una posizione equivoca sul finanziamento del ‹‹normale esercizio›› delle funzioni; per l’incertezza se l’effettivo esercizio dei diritti della persona e la riduzione degli squilibri territoriali debbano o possano essere considerati obiettivi esterni al ‹‹normale esercizio›› delle funzioni; per l’incertezza che le varie disposizioni determinano sulla scelta dello schema di perequazione, se di tipo ‹‹orizzontale›› o ‹‹verticale››159.

7. Delega al governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione.

Alla luce di quanto premesso, appare evidente che il novellato testo dell’art. 119 Cost., oltre a stabilire che le Regioni e gli enti locali sono dotate di autonomia finanziaria di entrata e di spesa, prevede un sistema strutturato sul principio del finanziamento integrale delle funzioni attribuite da parte dei diversi livelli di governo con l’aggiunta di alcuni correttivi di

159 Cfr. GIARDA P., cit., pag. 1449.

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tipo perequativo; si stabiliscono, inoltre, risorse aggiuntive ed interventi speciali in favore di singoli enti territoriali o di gruppi di enti territoriali.

Ed ancora, in seguito alla riforma costituzionale, Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni risultano dotati di un proprio patrimonio attribuito secondo i principi generali determinati dalla legge dello Stato; è stato altresì riconosciuta l’autonomia finanziaria anche nei confronti degli enti locali, nonché l’apertura ad un modello di federalismo fiscale di tipo solidale.

In virtù di quanto previsto dal combinato disposto degli articoli 117 e 119 della Costituzione, mentre è di competenza esclusiva statale la potestà legislativa in materia di sistema tributario e contabile dello Stato e di perequazione delle risorse finanziarie, risulta invece di competenza concorrente la materia del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario.

Pertanto, così come evidenziato dalla Corte costituzionale, risulta evidente la necessità di un basilare intervento da parte del legislatore statale che “al fine di coordinare l’insieme della finanza pubblica, dovrà non solo fissare i principi cui i legislatori regionali dovranno attenersi, ma anche determinare le grandi linee dell’intero sistema tributario, e definire gli spazi ed i limiti entro i quali potrà esplicarsi la

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potestà impositiva, rispettivamente di Stato, Regioni ed enti locali”160.

Tuttavia la stessa Corte costituzionale, con la sentenza 102/2008, ha fatto segnare un passo in avanti verso la possibilità per le Regioni a statuto speciale di istituire tributi “propri”; in particolare, è significativo il passaggio in cui la sentenza precisa che mentre “lo Stato ha competenza legislativa esclusiva in materia di sistema tributario dello Stato”, le Regioni hanno “potestà legislativa esclusiva nella materia tributaria non espressamente riservata alla legislazione dello Stato, con riguardo, beninteso, ai presupposti d’imposta collegati al territorio di ciascuna Regione e sempre che l’esercizio di tale facoltà non si traduca in un dazio o in un ostacolo alla libera circolazione delle persone e delle cose tra le Regioni (art. 117, quarto comma, e 120, primo comma, Cost.)”. La sentenza, riconoscendo una competenza legislativa esclusiva regionale nelle materia tributaria non espressamente riservata allo Stato, afferma quindi l’esistenza di una pluralità di sistemi o sottosistemi tributari161, derivante dalla circostanza che la competenza esclusiva statale appare limitata solo al sistema tributario dello Stato e ai principi 160 Cfr. sentenza n. 37/2004 della Corte costituzionale. Sul punto di veda BRANCASI A., La finanza regionale e locale nella giurisprudenza costituzionale sul nuovo Titolo V della Costituzione, in Dir. Pubbl., 2007.161 Cfr. GALLO F., Prime osservazioni sul nuovo art. 119 della

Costituzione, in Rassegna tributaria, 2/2002, 589 ss.

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fondamentali del coordinamento del sistema tributario tout court162.

Da qui deriva un’altra importante ed inedita precisazione: quella per cui fino all’emanazione della legislazione statale di coordinamento alle Regioni a Statuto ordinario è fatto “divieto di istituire o disciplinare tributi già istituiti da legge statale o di stabilirne altri aventi lo stesso presupposto”. Non si tratta di una precisazione scontata, se viene considerata per quello che non dice. La sentenza, infatti, riconosce implicitamente alle Regioni ordinarie la possibilità di istituire tributi propri pur nelle “limitate ipotesi di tributi propri aventi presupposti diversi da quelli dei tributi statali […] in forza del quarto comma dell’art. 117 Cost., anche in mancanza di un’apposita legge statale di coordinamento, a condizione, però, che essi, oltre ad essere in armonia con la Costituzione, rispettino ugualmente i principi dell’ordinamento tributario, ancorché solo ‹‹incorporati››, per così dire, in un sistema di tributi sostanzialmente governati dallo Stato (in tal senso, ancora, la sentenza n. 37 del 2004, nonché, in via generale, la sentenza n. 282 del 2002)”.

La precisazione, quindi, assume un carattere di fondamentale importanza dal momento che la 162 Si esprime in questi termini ANTONINI L., La Corte

costituzionale definisce contenuti e limiti dell’autonomia impositiva delle Regioni con la sentenza n. 102/2008, in Federalismo fiscale, 2/2008.

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giurisprudenza costituzionale non aveva mai esplicitato la possibilità di legiferare nell’ambito dei tributi propri in assenza delle legge statale di coordinamento. Sul solco di questa precisazione s’indirizza anche la legge delega sul federalismo fiscale, che riconosce un notevole margine di manovra a Regioni ed Enti locali riguardo ai tributi propri, sia derivati che autonomi: anche in relazione ai primi si prevede infatti una rilevante possibilità di manovra riguardo ad aliquote, deduzioni, detrazioni e specifiche agevolazioni.

Ed è in tale contesto che il 29 Aprile del 2009 è stato definitivamente approvato dal Senato il disegno di legge sul federalismo fiscale tanto atteso quanto discusso negli ultimi anni.

Oltre che di grande importanza per i suoi contenuti, tale legge delega ha un valore fondamentale anche dal punto di vista politico; l’approvazione è infatti seguita a un largo consenso parlamentare, un lungo dialogo con le Regioni e gli Enti locali, e non a un colpo di mano della maggioranza163. Dietro questo largo favore vi sono

163 Si noti ad esempio che le fondamentali riforme costituzionale del 2001 e del 2005, che hanno stravolto l’assetto istituzionale in seguito a importantissime modifiche, sono state approvate solo per pochi voti a favore e non sulla base di un largo consenso parlamentare. L’approvazione delle leggi a colpi di maggioranza nonché la continua delegittimazione con la ripetuta corsa alla cancellazione delle riforme fatte precedentemente dall’avversario politico, sono stati gli elementi caratterizzanti della seconda Repubblica, con un

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almeno due buone ragioni: l’opinione condivisa sulla necessità, non più rinviabile, di attuare la principale leva della riforma federale del 2001; la consapevolezza, altrettanto diffusa, che si tratta solo di un piano di lavoro, perché i contenuti essenziali dovranno essere scritti in un secondo momento.

Prima di procedere con l’analisi della citata legge delega, appare opportuno premettere che in Italia il federalismo è partito prima con la legge Bassanini che ha attuato un decentramento amministrativo con un vero e proprio rovesciamento della clausola della residualità, e poi con la riforma costituzionale del Titolo V, Parte II della Costituzione che ha attuato il decentramento legislativo. La situazione che si è così realizzata è stata segnata da un decentramento molto forte, al pari di altri Paesi come il Canada, non supportato dagli strumenti necessari per gestirlo; è infatti mancato un Senato federale espressione delle Regioni (elemento questo che ha prodotto l’esplosione del contenzioso costituzionale) e un federalismo fiscale. Situazione questa, analoga a quella spagnola post-franchista, segnata dal dissesto dei conti pubblici e risolta proprio con l’introduzione del federalismo fiscale.

Anche in Italia, dunque, si è resa indispensabile una struttura finanziaria decentrata che segua la

grave danno per il Paese.

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ripartizione delle competenze amministrative e legislative dato che non può più funzionare un sistema in cui lo Stato copre sempre i deficit finanziari delle Regioni con una conseguente e continua deresponsabilizzazione degli amministratori locali164; è di fondamentale importanza quindi ripristinare un legame tra responsabilità finanziaria e responsabilità politica che consenta ai cittadini di esercitare un potere di controllo.

L’ambito di intervento della legge delega sul federalismo fiscale è identificato dal suo art. 1 nel quale, appunto, si afferma che “La presente legge costituisce attuazione dell’art. 119 della Costituzione, assicurando autonomia di entrata e di spesa di comuni, province, città metropolitane e garantendo i principi di solidarietà e coesione sociale, in maniera da sostituire gradualmente, per tutti i livelli di governo, il criterio della spesa storica e di garantire la loro massima responsabilizzazione e l’effettività e la trasparenza del controllo democratico nei confronti degli eletti”. Già in questo primo articolo si registra la prima coordinata fondamentale della legge e cioè il passaggio dalla spesa storica al costo standard per il finanziamento delle funzioni di Regioni ed Enti locali. Questo principio viene poi ribadito anche dall’art. 2,

164 Tale deresponsabilizzazione degli amministratori degli enti locali è legata anche alla abolizione dei controlli sulle delibere comunali in seguito alla riforma del Titolo V.

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secondo comma, lett. l) in base al quale tra i criteri e principi direttivi generali vi è appunto il “superamento graduale, per tutti i livelli istituzionali, del criterio della spesa storica a favore: 1) del fabbisogno standard per il finanziamento dei livelli essenziali di cui all'articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, e delle funzioni fondamentali di cui all'articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione; 2) della perequazione della capacità fiscale per le altre funzioni”. In particolare, in base alla spesa storica si considera quanto è stato speso in passato per la produzione di quel determinato servizio e su questa cifra si baserà il finanziamento dello stesso per l’anno successivo; il costo standard, invece, identifica la somma per il finanziamento di un determinato servizio facendo riferimento alla media del prezzo o del costo dello stesso a livello nazionale. In questo modo non verranno più finanziate le inefficienze dato che se una Regione vorrà continuare a produrre un servizio non efficiente dovrà provvedere a finanziarlo tramite un aumento della pressione fiscale a livello locale tenendo conto di tutte le conseguenze che ne seguiranno165. Ed ancora, la legge in esame “reca disposizioni volte a stabilire in via 165 In questo modo saranno poi i contribuenti locali a valutare la

necessità della spesa e la sua efficienza avendo così un vero potere di controllo; viene creato così un legame tra la responsabilità finanziaria e quella politica dal momento che alla fine del mandato gli amministratori locali saranno rieletti se hanno fatto bene o sostituiti nel caso contrario.

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esclusiva i principi fondamentali del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, a disciplinare l’istituzione ed il funzionamento del fondo perequativo per i territori con minore capacità fiscale per abitante nonché l’utilizzazione delle risorse aggiuntive e l’effettuazione degli interventi speciali di cui all’articolo 119, quinto comma, della Costituzione perseguendo lo sviluppo delle aree sottoutilizzate nella prospettiva del superamento del dualismo economico del Paese”.

Passando ora all’esame dell’art. 2 della legge in esame si nota come il Legislatore si sia preoccupato di fissarne i principi e i criteri direttivi principali; della lunga elencazione fatta dal legislatore è opportuno evidenziare i seguenti punti: “autonomia di entrata e di spesa e maggiore responsabilizzazione amministrativa, finanziaria e contabile di tutti i livelli di governo”; “attribuzione di risorse autonome ai comuni, alle province, alle città metropolitane e alle regioni, in relazione alle rispettive competenze, secondo il principio di territorialità e nel rispetto del principio di solidarietà e dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza di cui all'articolo 118 della Costituzione; le risorse derivanti dai tributi e dalle entrate propri di regioni ed enti locali, dalle compartecipazioni al gettito di tributi erariali e dal fondo perequativo consentono di finanziare

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integralmente il normale esercizio delle funzioni pubbliche attribuite”; “prevedere l’obbligo di pubblicazione su siti internet dei bilanci delle regioni, dei comuni, delle province e delle città metropolitane, tali da riportare in modo semplificato le entrate e le spese pro capite secondo modelli uniformi concordati in sede di Conferenza unificata”; “previsione che la legge regionale possa, con riguardo ai presupposti non assoggettati ad imposizione da parte dello Stato: 1) istituire tributi regionali e locali;  2) determinare le variazioni delle aliquote o le agevolazioni che comuni, province e città metropolitane possono applicare nell'esercizio della propria autonomia con riferimento ai tributi locali di cui al numero 1); 3) valutare la modulazione delle accise sulla benzina, sul gasolio e sul gas di petrolio liquefatto, utilizzati dai cittadini residenti e dalle imprese con sede legale e operativa nelle regioni interessate dalle concessioni di coltivazione di cui all'articolo 19 del decreto legislativo 25 novembre 1996, n. 625”; “individuazione, in conformità con il diritto comunitario, di forme di fiscalità di sviluppo, con particolare riguardo alla creazione di nuove attività di impresa nelle aree sottoutilizzate”.  In particolare, quest’ultimo punto consentirebbe l’introduzione nel nostro sistema della fiscalità di vantaggio; si tratta di uno strumento fondamentale tramite il quale si cerca

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di attrarre le imprese nelle zone meno sviluppate del Paese grazie a forme di detassazione, deduzioni, esenzioni o di altre forme di agevolazioni fiscali. In questo modo le imprese italiane non avranno più interesse a spostarsi in Stati esteri con minore pressione fiscale, essendo sufficiente il trasferimento nella Regione che offre il trattamento finanziario migliore con un conseguente beneficio sia per la Regione stessa che ha tratto capitali, sia per lo Stato che non li ha persi166.

Passando ora all’analisi del cuore della legge delega per l’attuazione del federalismo fiscale in Italia

166 Fino a un recente passato, a livello UE l’esigenza di definire forme regionali di fiscalità di vantaggio era stata sacrificata sull’altare di un’interpretazione eccessivamente rigida del divieto comunitario di aiuti di Stato, con particolare riguardo alle modalità di accertamento del requisito della ‹‹selettività territoriale››. Questa circostanza, aveva sostanzialmente privato gli Stati europei della possibilità di fronteggiare adeguatamente la concorrenza fiscale, non solo rispetto ai competitori extraeuropei, ma anche nei confronti degli stessi nuovi arrivati a seguito del progressivo allargamento del mercato comune europeo, oggi esteso a molti Paesi a bassa fiscalità. Negli ultimi tempi, con la sentenza della Corte di Giustizia 6 settembre 2006 (causa C-88/03) relativa alle Azzorre, è stata legittimata la possibilità di introdurre a livello regionale forme di fiscalità di vantaggio subordinandola all’esistenza di un serio regime di federalismo fiscale. A tal fine sono stati individuati tre requisiti: quello dell’autonomia istituzionale, per cui le misure devono essere adottate da un ente dotato, sul piano costituzionale, di uno Statuto politico e amministrativo distinto da quello dello Stato centrale; quello dell’autonomia decisionale; quello dell’autonomia finanziaria, per cui le misure non devono essere compensate da sovvenzioni o contributi provenienti da Stato centrale. La Corte ha chiarito, inoltre, come una volta attuata la riforma del federalismo fiscale, sussistano anche in Italia le condizioni per realizzare forme di fiscalità regionale di vantaggio.

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– descritta dal Capo secondo – appare opportuno evidenziare temi fondamentali tra i quali la determinazione dei principi e dei criteri direttivi relativi ai tributi delle Regioni, alle compartecipazioni al gettito dei tributi erariali, alla determinazione dell’entità e del riparto del fondo perequativo a favore delle Regioni stesse.

Più precisamente, l’art. 7, nell’individuare i principi ed i criteri direttivi relativi ai tributi delle regioni e alle compartecipazioni al gettito dei tributi erariali, afferma in primis che “le regioni dispongono di tributi e di compartecipazioni al gettito dei tributi erariali, in via prioritaria a quello del’IVA, in grado di finanziare le spese derivanti dall’esercizio delle funzioni nelle materie che la Costituzione attribuisce alla loro competenza esclusiva e concorrente nonché le spese relative a materie di competenza esclusiva statale, in relazione alle quali le regioni esercitano competenze amministrative”. La lettera b) del primo comma, inoltre, si preoccupa di stabilire cosa deve intendersi per “tributi della Regione”, cercando così di porre un freno all’incessante contenzioso costituzionale sviluppatosi negli ultimi anni su questo oggetto; in specie, “per tributi delle regioni si intendono: 1) i tributi propri derivati, istituiti e regolati da leggi statali, il cui gettito è attribuito alle regioni; 2) le addizionali sulle basi imponibili dei

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tributi erariali; 3) i tributi propri istituiti dalle regioni con proprie leggi in relazione ai presupposti non già assoggettati ad imposizione erariale”. Il legislatore prosegue accertando la possibilità per le Regioni, in riferimento al primo dei tre tipi di tributo regionale, di modificare con propria legge le aliquote e di disporre esenzioni, detrazioni e deduzioni nei limiti e secondo criteri fissati dalla legislazione statale e nel rispetto della normativa comunitaria, nonché, in riferimento al secondo tipo di tributo regionale, la possibilità di introdurre variazioni percentuali delle aliquote delle addizionali e di disporre detrazioni entro i limiti fissati dalla legislazione statale. Si tratta di un principio che è diretto a valorizzare fortemente l’autonomia impositiva regionale, permettendo alle Regioni di sviluppare proprie politiche fiscali, sia nei confronti delle imprese che delle situazioni personali. Incentivare fiscalmente certe categorie di imprese, il rispetto di standard ambientali, o i soggetti non profit che svolgono una funzione sociale, può così diventare contenuto pieno di una politica fiscale regionale. In questo modo, quindi, l’autonomia impositiva regionale può svilupparsi ‹verso il basso›› in chiave incentivante. Tuttavia, la stessa autonomia sarà costretta a svilupparsi verso l’alto, aumentando entro certi limiti l’imposizione, nel caso di cattive gestioni, ad esempio perché non si riduce al costo standard la

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spesa per determinati servizi, cioè non ci si preoccupa di rimediare a quelle inefficienze per cui uno stesso servizio in altra Regione viene a costare, alla stessa qualità, molto di meno. Autonomia e responsabilità sono pertanto virtuosamente coniugate, valorizzando la possibilità di razionalizzazione della spesa e il controllo democratico degli elettori regionali167.

L’art. 7, inoltre, mentre alla lettera d) stabilisce le modalità di attribuzione alle Regioni del gettito dei tributi regionale istituiti con leggi dello Stato e delle compartecipazioni ai tributi erariali in conformità al principio di territorialità di cui all’art. 119 della Costituzione168, alla lettera e) conclude affermando che “il gettito dei tributi regionali derivati e le compartecipazioni al gettito dei tributi erariali sono senza vincolo di destinazione”.

Il successivo art. 8 si occupa invece di individuare i principi ed i criteri direttivi necessari al fine di adeguare le regole di finanziamento alla diversa natura delle funzioni spettanti alle Regioni, nonché al

167 Si esprime in tal senso L. ANTONIMI, La nuova autonomia finanziaria regionale nel disegno di legge AS 1117, in Federalismo fiscale, 2/2008.

168 Secondo tale disposizione tali modalità devono tenere conto: 1) del luogo di consumo, per i tributi aventi quale presupposto i consumi; per i servizi, il luogo di consumo può essere identificato nel domicilio del soggetto fruitore finale; 2) della localizzazione dei cespiti, per i tributi basati sul patrimonio; 3) del luogo di prestazione del lavoro, per i tributi basati sulla produzione; 4) della residenza del percettore, per i tributi riferiti ai redditi delle persone fisiche.

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principio di autonomia di entrata e di spesa fissato dall’art. 119 della Costituzione; il Legislatore, in base a quanto prescrive la lett. a) dell’art. 8, dovrà provvedere a classificare le spese connesse a materie di competenza legislativa concorrente tra Stato e Regioni, esclusiva regionale, nonché delle spese relative a materie di competenza esclusiva statale, in relazione alle quali le Regioni esercitano competenze amministrative; “tali spese sono: 1) spese riconducibili al vincolo dell’articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione [e cioè relative alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio]; 2) spese non riconducibili al vincolo di cui al numero 1); 3) spese finanziate con i contributi speciali, con i finanziamenti dell’Unione europea e con i cofinanziamenti nazionali di cui all’articolo 15”.

Secondo la lett. b) dello stesso articolo, inoltre, i decreti legislativi attuativi, dovranno anche definire delle modalità per cui le spese riconducibili al vincolo dell’articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione siano determinate nel rispetto dei costi standard associati ai livelli essenziali delle prestazioni fissati dalla legge statale in piena collaborazione con le Regioni e gli Enti locali, da erogare in condizioni di efficienza e di appropriatezza su tutto il territorio

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Page 194: Federalismo fiscale: introduzione · Web viewEd invero, nell’area dell’euro si è cercato di realizzare importanti riforme volte a garantire che l’U.E.M. tenesse fede al proprio

nazionale. Continuando in riferimento alle medesime spese, le aliquote dei tributi e delle compartecipazioni destinate al loro finanziamento devono essere determinate al livello minimo assoluto sufficiente ad assicurare il pieno finanziamento del fabbisogno corrispondente ai livelli essenziali delle prestazioni, valutati secondo quanto previsto dalla lett. b), in una sola Regione; devono anche essere definite le modalità per cui al finanziamento dei livelli essenziali delle prestazioni nelle Regioni ove il gettito tributario è insufficiente concorrono le quote del fondo perequativo. È importante sottolineare che nelle spese di cui al comma 1, lettera a), numero 1), dell’art. 8 (e cioè quelle relative alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio), sono comprese quelle per la sanità, l’assistenza e, per quanto riguarda l’istruzione, le spese per lo svolgimento delle funzioni amministrative attribuite alle Regioni dalle norme vigenti.

Come già detto, altro tema fondamentale disciplinato dal Capo secondo della legge delega è la determinazione dei principi e dei criteri direttivi in ordine alla determinazione dell’entità e del riparto del fondo perequativo a favore delle Regioni. In base all’art. 9 della legge in esame, i decreti legislativi attuativi, in relazione alla determinazione dell’entità e

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del riparto del fondo perequativo statale di carattere verticale a favore delle Regioni, in attuazione degli artt. 117, secondo comma, lettera e), e 119, terzo comma, della Costituzione169, devono rispettare determinati requisiti. In particolare, tale fondo perequativo deve essere alimentato dal gettito prodotto da una compartecipazione al gettito dell’IVA assegnata per le spese riconducibili al vincolo della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, nonché da una quota del gettito derivante dall’aliquota media di equilibrio dell’addizionale regionale all’imposta sul reddito delle persone fisiche per le spese che invece non sono riconducibili al vincolo precedente (cioè quello dell’art. 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione). Inoltre, le quote del fondo devono essere assegnate senza alcun vincolo di destinazione.

Nei decreti attuativi, inoltre, si dovrà tenere conto del principio di perequazione delle differenze delle capacità fiscali in modo tale da ridurre adeguatamente le differenze tra i territori con diverse capacità fiscali per abitante senza alterarne l’ordine e senza impedire la modifica nel tempo conseguente all’evoluzione del 169 Rispettivamente, i citati articoli della Costituzione affermano

che la perequazione delle risorse finanziarie appartiene alla potestà legislativa esclusiva dello Stato e che “la legge dello Stato istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante”

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quadro economico-territoriale. In specie, le risorse del fondo devono finanziare la differenza tra quanto necessario a coprire le spese per la sanità, l’assistenza e, per quanto riguarda l’istruzione, le spese per lo svolgimento delle funzioni amministrative attribuite alle Regioni dalle norme vigenti, calcolate nel rispetto del costo standard, e il gettito regionale dei tributi ad esse dedicati, determinato con l’esclusione delle variazioni di gettito prodotte dall’esercizio dell’autonomia tributaria nonché dall’emersione della base imponibile riferibile al concorso regionale nell’attività di recupero fiscale, in modo da assicurare l’integrale copertura delle spese corrispondenti al fabbisogno standard per i livelli essenziali delle prestazioni.

8. (Segue) L’attuazione della legge delega n. 42 del 2009.

Alla luce di quanto premesso, dunque, la riforma prospettata dal legislatore mira alla realizzazione di un sistema di finanza in cui le Regioni e gli Enti locali ricavino proprio dal territorio su cui insistono la maggior parte delle risorse necessarie al proprio finanziamento, assicurando così una maggiore

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responsabilizzazione degli amministratori locali e garantendo comunque il carattere solidaristico del sistema.

Premesso che le deleghe previste dalla suindicata legge risultano formalmente attuate, si deve comunque evidenziare che a loro volta i provvedimenti di attuazione hanno demandato – per l’attuazione del nuovo modello di relazioni finanziarie tra Stato, Regioni ed Enti locali – ad una complessa serie di ulteriori rinvii ad atti amministrativi.

Ciò premesso ed ai fini di una migliore comprensione del sistema delineato dai decreti legislativi attuativi della legge delega n. 42 del 2009, appare opportuno effettuare una breve sintesi dei principali profili innovativi170.

Il primo atto normativo emanato in esecuzione della citata legge delega è stato il d.lgs. 28 maggio 2010, n. 85 recante “Attribuzione a comuni, province, città metropolitane e regioni di un proprio patrimonio, in attuazione dell’articolo 19 della legge 5 maggio 2009, n. 42”, pubblicato nella G.U. n. 134 del giorno 11 giugno 2010; tale provvedimento ha disciplinato il

170 La descrizione didascalica dei decreti di attuazione costituisce una sintesi di quanto riportato sul portale web dedicata all’attuazione del federalismo fisclare, www.portalefederalismofiscale.gov.it, nonché da quanto dedotto nella Relazione semestrale sull’attuazione della legge delega sul federalismo fiscale n. 42/2009, approvata dalla Commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale nella seduta del 22 gennaio 2013, www.camera.it.

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cd. federalismo demaniale e cioè “quel fenomeno devolutivo, accessorio al federalismo fiscale, che consiste nel trasferimento agli enti territoriali di beni di proprietà dello Stato”171.

Più precisamente, al fine di valorizzare il patrimonio pubblico mediante l’attribuzione dei beni dello Stato agli enti territoriali che si impegnano a valorizzarli, nell’interesse delle collettività locali, con il citato decreto legislativo è stata prevista una complessa procedura per giungere al trasferimento dei predetti beni dello Stato, ad eccezione di specifiche categorie, che si fonda sul criterio della territorialità e tiene conto di specifici principi e criteri altresì precisati nel medesimo decreto.

Come evidenziato da autorevole dottrina, dunque, il federalismo demaniale è un federalismo di “valorizzazione”, nel quale i beni sono restituiti ai Comuni alla cui storia sono legati, alle Province e alle Regioni che possono meglio valorizzarli, assumendosene la responsabilità di fronte ai propri elettori172.

171 Cfr. ANTONIOL M., Il federalismo demaniale: il principio patrimoniale del federalismo fiscale, Padova, 2010, p. 7; in particolare, l’Autore precisa che con l’espressione “enti territoriali” si riferisce all’insieme di Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni.172 Cfr. ANTONINI L., Il primo decreto legislativo di attuazione della legge n. 42/2009: il federalismo demaniale, in Federalismi.it, n. 25/2009, p. 2.

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Si deve però evidenziare che tale decreto, a causa delle complessità del procedimento per l’individuazione delle diverse categorie di beni e per il successivo trasferimento, è rimasto sostanzialmente inattuato173.

Il notevole ritardo nell’attuazione della normativa, secondo il Governo, è stato determinato dall’indispensabile coinvolgimento – ai fini dell’acquisizione delle intese e dei pareri imposti dal decreto legislativo – sia da parte di tutte le amministrazioni che curano la gestione dei beni, sia in sede di Conferenza Unificata.

Il secondo provvedimento da analizzare è il d.lgs. 17 settembre 2010, n. 156, “Disposizioni recanti attuazione dell’articolo 24 della legge 5 maggio 2009, n. 42 e successive modificazioni, in materia di ordinamento transitorio di Roma Capitale”, pubblicato nella G.U. n. 219 del giorno 18 settembre 2010.

Tale decreto provvede a dettare una disciplina degli organi di governo di Roma Capitale, ente territoriale previsto in sostituzione del Comune di Roma, rinviando invece – per la completa attuazione dell’art. 24 della legge sul federalismo fiscale – a

173 Esattamente, ha trovato attuazione solo l’articolo 5, comma 5, del decreto, in merito al c.d. federalismo demaniale culturale. Inoltre, Sul punto occorre precisare che le modalità per giungere al trasferimento dei beni si articolano diverse in fasi, che prevedono – in base alla trasferibilità o meno del bene – un decreto di individuazione dei beni da trasferire poi su domanda degli enti interessati con un ulteriore provvedimento.

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successivi provvedimenti amministrativi, ancora non adottati174.

Il terzo decreto di attuazione della suindicata delle delega è stato il d.lgs. 26 novembre 2010, n. 216, “Disposizioni in materia di determinazione dei costi e dei fabbisogni standard di Comuni, Città metropolitane e Province”, pubblicato nella G.U. n. 294 del giorno 17 dicembre 2010; in estrema sintesi, tale provvedimento ha ad oggetto la determinazione del fabbisogno standard – definito come l’indicatore che, unendo efficienza ed efficacia, consentirà la valutazione dell’azione pubblica – cui si dovrà tener conto nella individuazione sia dei costi standard, sia dei livelli essenziali da garantire con riferimento a ciascuna delle funzioni individuate, in via provvisoria, dal medesimo decreto175.

Il quarto decreto emanato in attuazione degli articoli 11, 12, 25, 26 della legge delega – esattamente il d.lgs. 14 marzo 2011, n. 23, “Disposizioni in materia di federalismo fiscale municipale”, pubblicato nella

174 Tali rinvii riguardano aspetti particolarmente importanti quali, ad esempio, cui la disciplina del trasferimento delle risorse umane, strumentali e finanziarie necessarie all’esercizio delle funzioni amministrative conferite a Roma Capitale, nonché la determinazione del maggior onere derivante dall’esercizio delle funzioni connesse al ruolo di capitale della Repubblica.175 Sul punto cfr. BUGLIONE E., FILIPPETTI A., Le recenti disposizioni sul federalismo fiscale: prove di autonomia nella finanza locale in Comuni e Regioni, in Rivista telematica ISSIRFA, Sezione Studi in materia di finanze e tributi, 2012, www.issirfa.cnr.it.

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G.U. n. 67 del giorno 23 marzo 2011 – è volto a disciplinare il rapporto economico tra lo Stato centrale e gli enti locali in modo da consentire ai Comuni la possibilità di ottenere nuove entrate mediante forme di tassazione versate e trattenute in loco176.

176 Occorre evidenziare che in attuazione del decreto legislativo sono stati approvati i seguenti provvedimenti di attuazione: Decreto del Ministro dell’Interno 4 maggio 2012, recante “Fondo sperimentale di riequilibrio ai comuni delle regioni ordinarie, per l’anno 2012”; D.P.C.M. 13 giugno 2012, recante “Determinazione della percentuale di compartecipazione al gettito dell’imposta sul valore aggiunto spettante ai comuni delle regioni a statuto ordinario per l’anno 2012, in attuazione dell’articolo 2, comma 4, del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23”; D.P.C.M. 17 giugno 2011, recante “Disposizioni attuative degli articoli 2, comma 4, e 14, comma 10, del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23, recante disposizioni in materia di federalismo fiscale municipale, in materia di attribuzioni ai Comuni delle regioni a statuto ordinario della compartecipazione al gettito dell’imposta sul valore aggiunto per l’anno 2011”; Decreto del Ministro dell’Interno 21 giugno 2011, recante “Riduzione dei trasferimenti erariali (art. 2, comma 8, del Decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23)”; Decreto del Ministro dell’Interno 21 giugno 2011, recante “fondo sperimentale di riequilibrio (art. 2, comma 7, del Decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23)”; Decreto del Ministero dell’Economia e Finanze 26 novembre 2010, recante “Disposizioni in materia di perequazione infrastrutturale, ai sensi dell’articolo 2 della legge 5 maggio 2009, n. 42”; Decreto del Ministro dell’Economia e delle finanze 15 luglio 2011, in attuazione dell’articolo 2 comma 10 del decreto; Decreto del Ministro dell’Economia e delle finanze 30 dicembre 2011, in attuazione dell’articolo 2 comma 6 del decreto; Decreto del Ministro dell’Economia e delle finanze 30 ottobre 2012, in attuazione dell’articolo 9 comma 6 del decreto; Decreto del Ministro dell’Economia e delle finanze 8 marzo 2013, recante “Attuazione dell’articolo 2, comma 10, lettera b), del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23, in materia di federalismo fiscale municipale”; è stata altresì emanata la Circolare dell’Agenzia delle entrate del 7 aprile 2011 sulla modalità di esercizio dell’opzione per l’applicazione del regime della cedolare secca e sulle modalità di versamento dell’imposta, in

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Il quinto provvedimento attuativo – più precisamente, il d.lgs. 6 maggio 2011, n. 68, “Disposizioni in materia di autonomia di entrata delle regioni a statuto ordinario e delle province, nonché di determinazione dei costi e dei fabbisogni standard del settore sanitario”, pubblicato nella G.U. n. 109 del giorno 12 maggio 2011 – si inserisce del quadro delle disposizioni relative al fisco regionale, al fisco provinciale ed ai costi e fabbisogni standard nel settore sanitario prevedendo le linee guida per l’attuazione della compartecipazione degli enti locali all’Irpef, all’Irap ed all’Iva, nonché rivedendo i meccanismi delle addizionali e regolando i principi entro cui sarà possibile istituire le nuove tasse di scopo da parte di province e città metropolitane; la nuova disciplina, inoltre, stabilisce che il fabbisogno standard del settore sanitario venga determinato in coerenza con il quadro macroeconomico e nel rispetto dei vincoli di finanza pubblica e degli obblighi a livello europeo, distinguendo la quota destinata alle regioni a statuto ordinario da quella destinata ad enti diversi177.

attuazione dell’articolo 3, comma 4, del decreto. Si deve altresì precisare che diverse disposizioni del decreto legislativo risultano ad oggi ancora inattuate.177 Cfr. IACOVIELLO A., Il punto sull’attuazione del federalismo fiscale nella XVI legislatura (febbraio 2013), in Istituto di Studi sui Sistemi Regionali Federali e sulle Autonomie “Massimo Severo Giannini, www.issirfa.cnr.it. Inoltre, occorre segnalare in attuazione del decreto i seguenti atti: D.P.C.M. del 12 aprile 2012, recante “Soppressione dei trasferimenti erariali alle province” (attuazione dell’articolo 18, comma 3); D.P.C.M. del 10 luglio 2012, recante “Determinazione dell’aliquota della

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Il sesto decreto attuativo – il d.lgs. 31 maggio 2011, n. 88, “Disposizioni in materia di risorse aggiuntive ed interventi speciali per la rimozione di squilibri economici e sociali, a norma dell’articolo 16 della legge 5 maggio 2009, n. 42”, pubblicato nella G.U. n. 143 del giorno 22 giugno 2011 – individua lo strumento per la rimozione di squilibri economici, sociali, istituzionali e amministrativi del Paese nel Fondo per le aree sottoutilizzate (FAS), rinominato Fondo per lo sviluppo e la coesione; si cerca in tal modo di prevedere nuovi strumenti procedurali idonei a rendere più efficace la politica di riequilibrio economico e sociale tra le diverse aree del Paese.

Il settimo decreto attuativo – il d.lgs. 23 giugno 2011, n. 118, “Disposizioni in materia di armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle Regioni, degli enti locali e dei loro enti ed organismi, a norma degli articoli 1 e 2 della legge n. 42 del 2009”, pubblicato nella G.U. n. 172 del giorno 26 luglio 2011, modificato da ultimo dalla legge compartecipazione all’imposta sul reddito delle persone fisiche delle province e delle regioni a statuto ordinario, in attuazione dell’articolo 18, comma 1, del decreto legislativo 6 maggio 2011, n. 68” (attuazione dell’articolo 18, comma 1); Decreto Dir. Gen. Finanze 3 giugno 2011 (attuazione dell’articolo 17, comma 2); Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate del 29 dicembre 2011, prot. n. 178484/2011 (attuazione dell’articolo 17, comma 3); Decreto del Ministro dell’Economia del 30 dicembre 2011 (attuazione dell’articolo 18, comma 5); Decreto del Ministero dell’Interno del 4maggio 2012 (attuazione dell’articolo 21, comma 3); Decreto del Ministero dell’Interno del 23 dicembre 2012 (attuazione dell’articolo 21, comma 3).

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di stabilità 2013 (legge n. 228/2012) – provvede a dettare nuove disposizioni in materia di armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle Regioni e degli enti locali al fine di assicurare maggiore omogeneità e possibilità di confronto tra i bilanci degli enti territoriali, ivi compresi i conti del settore sanitario178.

Infine, l’ultimo provvedimento che completa la normativa attuativa del federalismo fiscale finora emanata – il d.lgs. 6 settembre 2011, n. 149, “Meccanismi sanzionatori e premiali relativi a regioni, province e comuni, a norma degli articoli 2, 17 e 26 della legge n. 42 del 2009”, pubblicato nella G.U. n.

178 In attuazione di alcune disposizioni del citato decreto legislativo sono stati emanati i seguenti provvedimenti attuativi: D.P.C.M. del 28 dicembre 2011, “Individuazione delle amministrazioni che partecipano alla sperimentazione della disciplina concernente i sistemi contabili e gli schemi di bilancio delle Regioni, degli enti locali e dei loro enti ed organismi, di cui all’articolo 36 del decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118” (attuazione dell’articolo 36 del decreto); D.P.C.M. del 28 dicembre 2011, “Sperimentazione della disciplina concernente i sistemi contabili e gli schemi di bilancio delle Regioni, degli enti locali e dei loro enti ed organismi, di cui all’articolo 36 del decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118” (attuazione dell’articolo 36 del decreto); D.P.C.M. del 25 maggio 2012 (pubblicato sulla G.U. n. 129 del 5.6.2012), “Individuazione delle amministrazioni che partecipano alla sperimentazione della disciplina concernente i sistemi contabili e gli schemi di bilancio delle Regioni, degli enti locali e dei loro enti ed organismi, di cui all’articolo 36 del decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118” (attuazione dell’articolo 36 del decreto); Decreto del Ministro dell’Economia e Finanze del 13 luglio 2012, “Esclusione dalla sperimentazione prevista dall’articolo 36 del decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118” (attuazione dell’articolo 36 del decreto).

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219 del giorno 20 settembre 2011 – al fine di dare seguito ai criteri di responsabilità ed autonomia che denotano la nuova governance degli enti territoriali, introduce elementi sanzionatori nei confronti degli enti che non rispettano gli obiettivi finanziari e, all’inverso, sistemi premiali verso gli enti che assicurano qualità dei servizi offerti e assetti finanziari positivi; in particolare, occorre menzionare il cd. “fallimento politico” nei confronti dei rappresentanti istituzionali ritenuti responsabili del dissesto del proprio ente (Regioni, Provincie, Comuni)179.

Alla luce di quanto premesso appare dunque evidente come la realizzazione del modello di federalismo fiscale delineato dalla l.d. n. 42/2009 sia ancora lontano da una piena attuazione; ed invero, sebbene quasi tutti i provvedimenti previsti dalla stessa siano stati già emanati, i decreti attuativi a loro volta hanno previsto numerosi ulteriori rinvii a successivi provvedimenti, molti dei quali relativi proprio agli elementi essenziali del federalismo fiscale.

Inoltre, a tale problematicità si deve aggiungere anche l’indispensabile obiettivo del contenimento della spesa pubblica, da raggiungere solo attraverso la

179 Si deve evidenziare che allo scopo di superare i ritardi che si sono poi determinati nell'applicazione delle nuove disposizioni, sono state recentemente introdotte alcune modifiche al provvedimento mediante il decreto legge 10 ottobre 2012, n. 174.

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razionalizzazione dell’organizzazione dello Stato coerentemente con l’auspicato processo di decentramento delle funzioni a livello territoriale.

Ed ancora, al fine di ridare organicità al sistema delle relazioni finanziarie tra Stato, Regioni ed enti locali – compromesso dalle sovrapposizioni della normativa di tipo emergenziale che ha marciato in senso contrario al modello in via di definizione – appare palese la necessità di ulteriori interventi che consentano ricentralizzazione del sistema della finanza pubblica per fronteggiare la crisi economica internazionale; basti pensare che nell’ultimo periodo della XVI legislatura hanno visto la luce diversi provvedimenti in materie riconducibili al federalismo fiscale, tra cui la disciplina di province e città metropolitane, il sistema della finanza comunale nonché il sistema dei meccanismi premiali e sanzionatori, dando luogo ad una sovrapposizione di modelli contrastanti180.

180 Cfr. IACOVIELLO A., op. cit. Più precisamente, secondo l’Autore, “per la gestione della crisi si è ritenuto necessario accentrare la gestione del sistema finanziario, provocando in via di prassi una “deviazione” dal percorso di attuazione del federalismo fiscale, con conseguente incertezza nella definizione del modello italiano”.

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