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IL SILENZIO AMMINISTRATIVOPROF.SSA CARMENCITA GUACCI

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Università Telematica Pegaso Il silenzio amministrativo

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente

vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore

(L. 22.04.1941/n. 633)

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Indice

1 PROBLEMA DELLA QUALIFICAZIONE GIURIDICA DEL SILENZIO --------------------------------------- 3

2 L’EVOLUZIONE STORICA DEL PROBLEMA DELLA QUALIFICAZIONE GIURIDICA DEL

SILENZIO DELLA P.A. ------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 4

3 VARIE FIGURE DI SILENZIO ------------------------------------------------------------------------------------------- 10

4 DISCIPLINA NORMATIVA E FORMAZIONE DEL SILENZIO ASSENSO ---------------------------------- 12

5 IL PROVVEDIMENTO TARDIVO --------------------------------------------------------------------------------------- 14

6 CONFRONTO CON LA SEGNALAZIONE CERTIFICATA DI INIZIO ATTIVITÀ ------------------------ 15

7 LA DIFFERENZA PRINCIPALE CONCERNE L’OGGETTO ---------------------------------------------------- 16

8 ALTRE FIGURE DI SILENZIO SIGNIFICATIVO ------------------------------------------------------------------- 17

9 LA PROPOSIZIONE DELL’AZIONE RISARCITORIA NEL PROCESSO AVVERSO L’INERZIA

DELL’AMMINISTRAZIONE ----------------------------------------------------------------------------------------------------- 29

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1 Problema della qualificazione giuridica del silenzio

Il problema della qualificazione giuridica del silenzio della pubblica amministrazione riveste

notevole importanza con riferimento alla tutela del privato nei confronti dell’amministrazione,

anche nei casi di inerzia della stessa, quando tale comportamento omissivo lo danneggi.

Al riguardo è da notare che prima della entrata in vigore della legge n.241 del 1990, in

materia di procedimento amministrativo, non vi era nel nostro ordinamento giuridico una norma

che, in armonia con i principi di buona amministrazione e di imparzialità di cui all’art. 97 della

Cost. imponesse in via generale alla pubblica amministrazione di concludere il procedimento

amministrativo con un provvedimento esplicito.

L’assenza di una norma di questo tipo incentivava i silenzi ed i comportamenti

intenzionalmente o involontariamente ostruzionistici della pubblica amministrazione determinando

un vuoto di tutela degli interessi a fronte di dette omissioni.

Tale panorama normativo è stato profondamente innovato dalla promulgazione della legge

n. 241 del 1990 che, all’art. 2, ha sancito l’obbligo generale della pubblica amministrazione di

concludere il procedimento mediante l’adozione di un provvedimento espresso.

Da parte della dottrina prevalente si ritiene che l’art. 2 della legge n. 241 del 1990 abbia

generalizzato l’obbligo, o meglio il dovere di concludere il procedimento amministrativo

determinando l’illegittimità dei comportamenti omissivi e delle inerzie della pubblica

amministrazione ed attribuendo al privato un vero e proprio diritto alla conclusione del

procedimento.

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2 L’evoluzione storica del problema della qualificazione giuridica del silenzio della p.a.

Alle origini del nostro sistema di giustizia amministrativa, il problema della proponibilità di

un’azione giurisdizionale avverso l’inerzia della amministrazione non è emerso mai in tutta la sua

evidente drammaticità. L’assenza del tema in esame dal panorama giuridico italiano viene

tradizionalmente ricondotta alla natura impugnatoria del sindacato giurisdizionale nei confronti

dell’amministrazione. Invero, secondo l’orientamento in esame, la legge n.2248/1865, all. E), e la

legge n. 5992/1889 avevano configurato un sistema di giustizia amministrativa in cui la reazione

avverso l’inerzia dell’amministrazione non era prospettabile innanzi al giudice ordinario, al quale

rimaneva precluso ogni incursione nel territorio degli interessi legittimi, né innanzi al Consiglio di

Stato, che poteva essere adito solo con un’azione di annullamento di un atto o di un provvedimento

amministrativo illegittimo.

Solo in presenza di un atto o di un provvedimento amministrativo era contemplata la

possibilità di proporre ricorso. Invece, ogni qual volta, la pubblica amministrazione fosse rimasta

inerte, non era prevista la possibilità di invocare la tutela giurisdizionale. La giurisprudenza resa

nella fase in esame non ha mai fondato il diniego di tutela avverso il silenzio sulla natura

impugnatoria del processo amministrativo. Al contrario, dalla lettura delle pronunce del Consiglio

di Stato emesse nella fase anteriore al 1900, emerge che l’argomento fondamentale per negare tutela

giurisdizionale avverso l’inerzia dell’amministrazione era rappresentato dall’assenza del dovere di

provvedere pubblica amministrazione sulle istanze che venivano presentate dai privati, per la

presenza di un potere discrezionale o di un potere di natura politica.

La giurisprudenza si occupò dell’istituto del silenzio per la prima volta relativamente

all’inerzia serbata dall’amministrazione nei confronti di un ricorso gerarchico . L’esigenza di

tutelare il privato avverso l’inerzia dell’amministrazione balzò, per la prima volta, alla ribalta delle

cronache giudiziarie, in una ipotesi di silenzio serbato dall’amministrazione su un ricorso

gerarchico. Si discusse se la proposizione del ricorso gerarchico imponesse all’amministrazione

“l’obbligo giuridico di provvedere” e se, in caso di sua perdurante inerzia, fosse possibile adire il

Consiglio di Stato.

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Il problema della impugnabilità del silenzio serbato dall’amministrazione su un ricorso

gerarchico venne affrontato dalla sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, 22.08.1902 n.409, che

fornì per la prima volta una soluzione positiva al problema sollevato.

Il Consiglio di Stato equiparò il silenzio serbato su di un ricorso gerarchico al rigetto, La

predetta equiparazione operò sul piano sostanziale dell’interesse a ricorrere e non su quello

processuale dell’impugnazione di un provvedimento, quale requisito per accedere alla tutela

giurisdizionale.

Il problema principale che il giudice si pose era quello di individuare un meccanismo

giuridico che consentisse l’accesso alla tutela giurisdizionale e la soluzione venne ravvisata nella

notifica della diffida, che permetteva di conferire all’inerzia il significato di rigetto della istanza. Il

problema della qualificazione giuridica del silenzio rimase, invece, sullo sfondo.

L’equiparazione del silenzio a un provvedimento negativo avvenne sul mero piano della

configurazione dell’interesse a ricorrere, non essendo concepibile consentire la proposizione di un

ricorso in caso di accoglimento dell’istanza proposta dal privato. La predetta equiparazione operò

sul piano dell’interesse a ricorrere, non su quello della configurazione di un atto o provvedimento

da dover necessariamente impugnare per poter accedere alla tutela giurisdizionale.

In definitiva il Consiglio di Stato con la sentenza del 1902 introdusse una nuova forma di

tutela accanto a quella tipica di annullamento, però non si pose alcun problema di qualificazione

giuridica del silenzio, non ritenne necessario configurarlo come un atto (anche perché a monte vi

era la decisione negativa contestata con il ricorso gerarchico).

L’impostazione metodologica della dottrina, invece, fu del tutto differente.

Innanzi tutto, va evidenziato che il problema del silenzio venne esaminato da un punto di

vista sostanziale.

La dottrina studiò il silenzio al fine di attribuirgli o di negargli natura di dichiarazione tacita

di volontà. L’indagine sul silenzio, pertanto, avvenne nell’ambito della teoria degli atti

amministrativi.

I commentatori della sentenza e la dottrina del silenzio, travisarono la vera essenza della

pronuncia del Consiglio di Stato e rappresentarono l’inerzia come un provvedimento negativo, in

presenza del quale poteva pronunciarsi il Consiglio di Stato.

La dottrina nell’interpretare la pronuncia del Consiglio di Stato ricalcò l’impostazione

metodologica che la dottrina privatistica dette al tema del silenzio in quegli anni .

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In altri termini, la dottrina, influenzata dall’elaborazione teorica dei civilisti, configurò il

silenzio come una manifestazione tacita di volontà e poi sostenne che tale configurazione era

conforme alla natura impugnatoria del processo amministrativo. In questo modo, venne occultata la

novità introdotta dalla giurisprudenza e la nuova tutela venne ricondotta nelle tipologie ordinarie di

tutela, rendendola inefficace .

La dottrina, invece di cogliere il carattere innovativo della decisione del Consiglio di Stato,

quasi sorpresa dalla pronuncia, tentò di ricondurla negli ambiti degli assetti tradizionali.

La pronuncia del Consiglio di Stato n. 429/1902, al contrario, presentava tratti di rilevante

innovatività. Infatti, il Consiglio di Stato riconosceva che la tutela giurisdizionale non consisteva

soltanto nell’annullamento del provvedimento lesivo, ma sussisteva anche quando

l’amministrazione ometteva di provvedere su una istanza del privato, nel caso specifico su di un

ricorso gerarchico. Si era in presenza di un indiscusso ampliamento della tutela sino ad allora

riconosciuta.

La dottrina, invece, di prendere atto di ciò, cercò di ricondurre, la nuova ipotesi di tutela

nell’alveo di quella tradizionale, in altri termini di ricondurre l’azione avverso il silenzio

nell’ambito della tutela di annullamento di un atto .

La dottrina pubblicistica, che in questa fase si occupò della rilevanza giuridica del silenzio,

recependo i risultati della teoria privatistica sul negozio giuridico, condusse a maturazione

l’equiparazione del silenzio a una manifestazione di volontà, parlando di volta in volta di

provvedimento tacito o di provvedimento implicito.

Questa tesi non fu esente da critiche, Infatti secondo un’autorevole dottrina non è possibile

ricondurre il comportamento inerte della pubblica amministrazione a qualunque tipo di atto della

pubblica amministrazione, espresso, tacito o presunto che a dir si voglia. I casi in cui l’inerzia può

essere equiparata ad un provvedimento ricorrono solo quando è la stessa legge che le attribuisce un

determinato significato (positivo o negativo), vale a dire nelle sole ipotesi di silenzio tipizzato.

Quindi, il silenzio assenso e il silenzio rifiuto, poiché per legge hanno un determinato valore

legale tipico, possono essere equiparati ad un provvedimento e di conseguenza per loro non si pone

un problema di qualificazione. Il problema della qualificazione riguarda la mera inerzia della

pubblica amministrazione, vale a dire quei casi in cui la legge non dice nulla in proposito. In

definitiva, se l’inerzia ha valore di rifiuto o di silenzio assenso e, pertanto, ha un valore legale tipico

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ed è assimilata ad un provvedimento, non vi è silenzio; se vi è silenzio, invece, non vi è alcun

provvedimento.

Questa tesi prende le distanze da quella dottrina pubblicistica che aveva ricalcato i risultati

delle teorie privatistiche per spiegare il concetto di silenzio, affermando che l’amministrazione, pur

in presenza di un obbligo di provvedere, non è tenuta a esprimere necessariamente una

manifestazione di volontà; quello che conta è che l’amministrazione abbia agito bene, ovvero abbia

effettuato la valutazione comparativa degli interessi coinvolti.

Il silenzio, secondo questa tesi, è una pausa dell’azione amministrativa, un punto di crisi

nello svolgimento della funzione amministrativa . In altri termini, la pubblica amministrazione,

quando non esercita l’attività diretta alla realizzazione dell’interesse pubblico, viola l’interesse

pubblico. La mancanza di attività rileva come silenzio giuridicamente rilevante perché l’inerzia

contrasta con l’interesse pubblico .

L’amministrazione nell’esercizio della sua discrezionalità deve pronunciarsi sulla domanda

del privato, cioè deve provvedere. Il silenzio si ha quando la pubblica amministrazione non adempie

all’obbligo di evadere la domanda del privato, nel senso di valutare la conformità del

provvedimento richiesto all’interesse pubblico. Si ha, pertanto, silenzio, quando la pubblica

amministrazione, investita da una domanda, non comunica al privato il risultato della sua

valutazione . In definitiva, il silenzio è un fatto completamente estraneo alla volontà amministrativa

che rileva come esercizio difettoso della funzione amministrativa . Il silenzio, in altri termini, viene

inteso come un comportamento inerte al quale la legge attribuisce certi effetti sostanziali e

processuali a prescindere dal reale contenuto della volontà della pubblica amministrazione .

Successivamente, anche il legislatore equiparò il silenzio al rigetto, al fine dell’esperibilità

del ricorso giurisdizionale e regolò all’art. 5, quarto e quinto comma, del r.d. 3.03.1934 n.383, (testo

unico della legge comunale e provinciale) il caso del silenzio della p.a. su un ricorso gerarchico,

precisando gli adempimenti necessari a carico dell’interessato per ottenere l’accertamento del

silenzio della p.a. ( c.d. silenzio rigetto) e poterlo, quindi, impugnare in sede giurisdizionale.

Non si prevedeva, invece, nulla in ordine al silenzio della p.a., nelle ipotesi in cui essa aveva

l’obbligo di provvedere indipendentemente dalla presentazione di un ricorso (c.d. silenzio rifiuto).

La giurisprudenza ritenne che, anche in tal caso, si dovesse applicare la procedura prevista

dall’art. 5 del T.U per il silenzio rigetto. Nel 1971 la disciplina prevista dall’art. 5 del TU. è stata

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modificata dalla legge 1034 del 1971 (istitutiva dei T.a.r.) e, successivamente, dal d.p.r. 1199 del

1971 (sui ricorsi amministrativi).

Tuttavia, l’innovazione legislativa riguardava solo l’ipotesi del silenzio serbato su ricorso

amministrativo.

La regola posta dall’art. 5 r.d. 383/1934 venne applicata anche agli altri ricorsi

amministrativi, ma non venne estesa anche al ricorso straordinario .

In un primo momento, la giurisprudenza escluse che la regola del citato art. 5 potesse essere

applicata anche a istanze diverse dai ricorsi amministrativi . Solo successivamente si diffuse la

convinzione che in ogni caso era necessario attendere il decorso di almeno centoventi giorni dalla

presentazione della richiesta all’amministrazione e, poi, era possibile notificarle un atto di diffida a

provvedere, assegnandole un termine non inferiore a sessanta giorni. L’inerzia protratta oltre tale

termine poteva essere impugnata innanzi al giudice amministrativo o in sede di ricorso

straordinario.

In definitiva, la norma introdotta dall’art. 5 r..d. n. 383/1934 assunse il significato di

principio generale valido in tutti i casi di inerzia dell’amministrazione, ad esclusione delle ipotesi di

silenzio accoglimento.

Il problema da affrontare, secondo l’orientamento in esame, era quello della sorte riservata

alle ipotesi di mero silenzio inadempimento, vale a dire a quei casi in cui, per mancanza di una

espressa previsione normativa, il silenzio non assumeva “valore legale tipico”. A tale sviluppo

normativo e dottrinale la giurisprudenza fece seguire un’importante pronuncia, resa dall’Adunanza

Plenaria del Consiglio di Stato .

L’Adunana plenaria con sentenza n. 10 del 10.03.1978, pronunciandosi sulle modalità di

formazione del silenzio rifiuto, in seguito all’entrata in vigore del d.p.r. n. 1199 del 1971 e della l. n.

1034 del 1971, affermò che la disciplina della diffida, in caso di inerzia della pubblica

amministrazione, in difetto di un’altra fonte idonea, doveva rinvenirsi in via analogica nell’art. 25

del T.u. 10 gennaio 1957, n. 3.

In definitiva, in tale occasione, la magistratura amministrativa, accogliendo la posizione

espressa in dottrina, ritenne di dover applicare al silenzio rifiuto la procedura contemplata dall’art.

25 del d.p.r. 3 del 1957 (Testo Unico degli impiegati civili dello Stato), per cui decorsi inutilmente

60 giorni dalla presentazione di un’istanza il privato doveva diffidare e mettere in mora la pubblica

amministrazione affinché provvedesse entro un termine di almeno 30 giorni. Decorso

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infruttuosamente tale termine, era possibile impugnare il silenzio- rifiuto dinanzi al giudice

amministrativo.

Con l’impiego di tale impostazione si giunse all’entrata in vigore della l. n. 241/1990, il cui

art. 2 introdusse il principio del dovere dell’amministrazione di concludere il procedimento

amministrativo con un provvedimento espresso.

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3 Varie figure di silenzio Uno degli esiti più significativi della dottrina nella fase successiva all’emanazione del

r.d.383/1934 T.U sulle leggi comunali e provinciali è rappresentato dalla individuazione di diverse

tipologie di silenzio.

Una prima tipologia è quella del silenzio serbato dall’amministrazione, obbligata a

provvedere su una istanza del privato, che le abbia anche prefissato un termine, che va considerato

come rifiuto di provvedere nel senso richiesto dall’interessato .

Nel periodo in esame prende avvio l’elaborazione della figura del silenzio assenso, che poi

negli anni successivi giungerà a completa maturazione.

Nella fase iniziale di elaborazione, il silenzio della pubblica amministrazione era considerato

una figura unitaria. Le differenze che esistevano fra le diverse situazione di inerzia erano prese in

considerazione al solo limitato fine di individuare i casi in cui conferire all’inerzia il valore legale

tipico di accoglimento dell’istanza ( cd. silenzio assenso o accoglimento) e quelli in cui attribuire il

valore di rigetto ( cd. silenzio rigetto).

Pur nella varietà di posizioni espresse sul silenzio assenso, si era soliti affermare che il

silenzio assenso era equipollente a un determinato atto amministrativo.

Nell’ambito di questo orientamento generale cominciarono a delinearsi varie interpretazioni.

La dottrina prevalente considerava come silenzio assenso tutte le situazioni nelle quali, in

base a una norma, alla scadenza del termine entro il quale l’autorità amministrativa doveva emanare

un determinato atto, si produceva un effetto positivo di rilevanza sostanziale.

In questo contesto appare interessante la tesi secondo cui il silenzio assenso dovrebbe essere

inquadrato nell’ambito dei comportamenti concludenti, vale a dire di quei comportamenti che pur

non traducendosi in una pronuncia formale, legittimano l’applicazione degli stessi principi e della

stessa disciplina dell’atto corrispondente.

una parte della dottrina è ritornata sulla qualificazione del silenzio assenso come fenomeno

diverso dall’atto amministrativo. In particolare, tale dottrina ha prospettato la qualificazione del

silenzio assenso provvedimentale come situazione di legittimazione ex lege.

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Elemento tipico delle ipotesi di silenzio assenso sarebbe il venir meno, in conseguenza del

decorso del termine, della necessità di un provvedimento amministrativo, per il verificarsi di certi

effetti giuridici .

In altri termini, la norma che introduce il silenzio assenso, nel suo contenuto tipico

determina una equipollenza legale di effetti fra una condotta omissiva dell’amministrazione

(qualificata dalla decorrenza del termine) e la pronuncia richiesta all’amministrazione stessa. Non si

tratta, quindi né di una norma interpretativa (che attribuisca significato di concludenza a una

condotta), né di norma costitutiva di provvedimenti amministrativi.

La previsione del silenzio assenso va considerata nella logica di quelle previsioni che

attribuiscono a una condotta non significativa di un soggetto “l’effetto” tipico di un atto (di un

negozio giuridico nel diritto privato, di un atto amministrativo nel diritto amministrativo). Per

questa ragione il silenzio assenso può essere considerato nella logica delle valutazioni legali tipiche.

Secondo, infine, un’autorevole tesi il silenzio assenso è un’ipotesi di silenzio significativo in

cui la norma attribuisce determinati effetti, un determinato significato (positivo in questo caso) alla

inerzia della pubblica amministrazione.

Si può dire che con la previsione delle ipotesi di silenzio significativo il legislatore ha

individuato, a favore del cittadino, una particolare forma di tutela che può essere definita

preventiva, in quanto con tale previsione interviene direttamente per scongiurare gli effetti

pregiudizievoli connessi all’inerzia della pubblica amministrazione, riconoscendo al silenzio

dell’amministrazione un significato legale tipico non produttivo di effetti lesivi.

Nel caso invece di silenzio inadempimento, il legislatore, invece, come poi vedremo, ha

espressamente disciplinato una forma di tutela successiva con la previsione di un apposito rito

processuale per consentire al cittadino di rivolgersi all’autorità giudiziaria per eliminare gli effetti

pregiudizievoli prodotti dall’inerzia della pubblica amministrazione.

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4 Disciplina normativa e formazione del silenzio assenso

La disciplina normativa dell’istituto del silenzio assenso è contenuta nell’art. 20 della l.

n.241/1990.

La fattispecie del silenzio assenso, che trova applicazione nei casi procedimenti a istanza di

parte ricorre quando, in presenza di presupposti e requisiti fissati tassativamente dalla legge, viene

attribuito al comportamento inerte dell’amministrazione il valore legale di provvedimento positivo

di rilascio di un provvedimento ampliativo richiesto dal privato. Per la formazione del silenzio

assenso, è necessaria la presentazione di un istanza di parte altrimenti il silenzio assenso non si

forma.

Inoltre, l’amministrazione non deve comunicare all’interessato, entro i termini di cui all’art.

2 della l. n.241/1930, un provvedimento di diniego né indire, entro 30 giorni dalla presentazione

dell’istanza, una conferenza di servizi.

La disciplina concernente la procedura di formazione del silenzio assenso è contenuta nel

d.p.r. 26 aprile 1992 n.300 modificato con d.p.r. n. 407/1994. L’art. 3 e l’art. 4, comma 1, del

regolamento di attuazione della legge n. 241/1990, prevedono che l’atto di assenso si considera

formato quando la domanda del privato indichi le generalità del richiedente e l’oggetto e le

caratteristiche dell’attività da svolgere, con allegata una dichiarazione relativa alla sussistenza dei

presupposti e dei requisiti previsti dalla legge per svolgere tale attività, ivi compresa la presenza dei

requisiti soggettivi richiesti.

La dichiarazione circa il possesso di tutti i requisiti per il rilascio delle autorizzazioni è

rivolta ad evitare che l’inerzia dell’Amministrazione legittimi l’esercizio dell’attività in contrasto

con la normativa di settore.

In caso di incompletezza o irregolarità della domanda, l’amministrazione entro 10 giorni, né

dà comunicazione al richiedente e il termine per la formazione del silenzio decorre dal ricevimento

della domanda regolarizzata, se l’amministrazione non provvede alla comunicazione, il termine del

procedimento decorre comunque dal ricevimento della domanda.

All’interessato viene rilasciata una ricevuta all’atto di presentazione della domanda recante

le indicazioni di cui all’art. 8 della l. n.241/1990. In caso di istanza inoltrata a mezzo raccomandata,

la ricevuta è costituita dall’avviso stesso debitamente firmato, ed entro 3 giorni dal ricevimento

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della domanda l’amministrazione comunica all’interessato le indicazione di cui all’art. 8 della l. n.

241/1990.

I termini per la formazione del silenzio assenso possono essere interrotti una sola volta

dall’amministrazione esclusivamente per la tempestiva richiesta, all’interessato, di elementi

integrativi o di giudizio che non siano già in possesso della pubblica amministrazione. Nel caso di

richiesta di elementi integrativi, i termini iniziano a decorrere di nuovo dalla data di ricevimento, da

parte della pubblica amministrazione, degli elementi richiesti.

In sostanza, per invocare la formazione del silenzio assenso ai sensi dell’art. 20 della legge

n, 241/1990 va dimostrato, oltre al decorso del tempo, il possesso di tutte le condizioni di carattere

oggettivo e dei requisiti soggettivi necessari per lo svolgimento dell’attività per la quale vi è

richiesta di autorizzazione amministrativa .

Il legislatore ha escluso dall’ambito di applicazione del silenzio assenso due ipotesi: a)

quando l’amministrazione, ai sensi dell’art. 20, comma 2 della l. n. 241/1990, indice una conferenza

di servizi entro 30 giorni dalla presentazione dell’istanza. L’espressione utilizzata dal legislatore “

può indire” induce a ritenere che trattasi di una conferenza di servizi facoltativa. b) quando ai sensi

del comma 4, dell’art. 20 della l. n. 241/1990 si tratti di atti e procedimenti riguardanti il patrimonio

culturale e paesaggistico, l'ambiente, la difesa nazionale, la pubblica sicurezza e l'immigrazione,

l’immigrazione, l’asilo e la cittadinanza, la salute e la pubblica incolumità, ai casi in cui la

normativa comunitaria impone l'adozione di provvedimenti amministrativi formali, ai casi in cui la

legge qualifica il silenzio dell'amministrazione come rigetto dell'istanza, nonché agli atti e

procedimenti individuati con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta

del Ministro per la funzione pubblica, di concerto con i Ministri competenti.

Si tratta di una categoria di atti che per la rilevanza costituzionale degli interessi ad essi

sottesi, devono essere oggetto di una espressa determinazione amministrativa atteso che in questi

casi non è possibile equiparare all’atto amministrativo espresso un eventuale comportamento inerte.

Dopo la riforma del 2005, il silenzio assenso da istituto di carattere eccezionale è diventato

istituto di carattere generale. Il regolamento governativo, che originariamente doveva prevedere i

casi di ammissibilità dell’istituto, ora è chiamato ad individuare i casi in cui esso non trova

applicazione.

Ogni controversia relativa all’istituto del silenzio assenso è devoluta alla giurisdizione

esclusiva del giudice amministrativo.

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5 Il provvedimento tardivo

Una volta decorso il termine previsto per la maturazione del silenzio assenso, la pubblica

amministrazione consuma il potere di decidere sull’istanza del privato, in senso positivo come in

senso negativo.

In altri termini, l’amministrazione in caso di insussistenza dei requisiti richiesti per lo

svolgimento dell’attività da parte del richiedente, può solo agire in via di autotutela con atto di

annullamento del silenzio formatosi illegittimamente o con provvedimento di revoca , salva ove

possibile, la sanatoria dei vizi da parte dell’interessato entro un termine prefissato

dall’amministrazione stessa.

Tuttavia, il provvedimento di annullamento del silenzio assenso non può identificarsi nel

semplice diniego tardivo espresso, in quanto è necessario, in base ai principi generali in tema di

autotutela, esternare i motivi di pubblico interesse che, nonostante il tempo trascorso e

l’affidamento ingenerato, richiedono l’eliminazione dell’atto tacito.

Sul piano della tutela giurisdizionale ne deriva la legittimazione dell’interessato ad

impugnare il provvedimento tardivo di diniego, intrinsecamente illegittimo e a riprendere l’attività

tacitamente autorizzata a seguito dell’annullamento dello stesso.

E’ evidente che, nel caso in cui l’amministrazione emani un provvedimento tardivo di

accoglimento dell’istanza, quest’ultimo, pur se illegittimo, sarà confermativo del precedente

assenso tacito.

Qualora il privato ritenga di poter subire un pregiudizio in ragione dell’intervento del

provvedimento autorizzatorio tacito, può attivarsi al fine della tutela della propria sfera giuridica, in

sede di partecipazione al relativo iter procedimentale o incentivando i poteri di autotutela della

pubblica amministrazione.

Il terzo, invece, potrà esperire, alla stregua delle regole generali, il ricorso giurisdizionale

innanzi al Giudice amministrativo.

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6 Confronto con la segnalazione certificata di inizio attività

Il disposto dell’art. 20, concernente l’istituto del silenzio assenso è strettamente collegato al

dettato dell’art. 19, in tema di segnalazione certificata di inizio attività, atteso che come

quest’ultima figura, è informato ad un’ottica di liberalizzazione dell’attività dei privati e di

miglioramento dei rapporti tra cittadini e pubblica amministrazione. Nonostante tale affinità

teleologica, i predetti istituti sono caratterizzati da profondi elementi di differenziazione sul

versante strutturale.

Mentre l’art. 19 prevede i casi in cui al privato è riconosciuta la facoltà di intraprendere

determinate attività economiche sulla base di una mera denuncia, L’art. 20, prende in

considerazione le ipotesi in cui la richiesta di un dato procedimento si considera accolta qualora

entro un certo termine la pubblica amministrazione non comunichi all’interessato il provvedimento

di diniego.

In altri termini, l’art. 20 non incide in senso abrogativo sull’esistenza del regime

autorizzatorio che rimane inalterato, ma introduce una modalità semplificata di conseguimento

dell’autorizzazione.

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7 La differenza principale concerne l’oggetto

L’art. 19 riguardando materie soggette a provvedimenti autorizzatori a carattere

sostanzialmente vincolato e quindi non richiedenti una complessa ponderazione comparativa degli

interessi primari e secondari, legittima all’esercizio immediato dell’attività economica.

L’art. 20 afferendo a settori caratterizzati dall’intervento di autorizzazioni a contenuto

discrezionale, e, conseguentemente comportando un’opera di organica disamina degli interessi in

considerazione, impedisce al privato l’intrapresa dell’attività autorizzata antecedentemente al

decorso dell’arco temporale funzionale alla maturazione del provvedimento tacito di accoglimento.

Un’altra ipotesi di silenzio significativo è il silenzio diniego

Si ha silenzio diniego quando la legge conferisce all’inerzia della p.a. il significato di un

diniego di accoglimento dell’istanza o ricorso.

Ne è un esempio l’art. 25, comma 4 della l. n. 241 del 1990 in tema si accesso ai documenti

amministrativo, oppure l’art. 6 del d.p.r. n. 1199/1971 e l’art. 20 della l. n. 1034 del 1971, in forza

dei quali, trascorsi inutilmente 90 giorno dalla presentazione di un ricorso gerarchico, il ricorso si

intende respinto.

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8 Altre figure di silenzio significativo

Silenzio approvazione (silenzio con valore legale tipico). Si ha silenzio – approvazione

nelle ipotesi particolare di silenzio assenso riferita ai rapporti interorganici: si verifica quando l’atto

di un’autorità sia assoggettato al controllo di un’altra autorità, da esercitarsi entro un termine

tassativo, e la legge stabilisca che l’atto è approvato quando sia decorso inutilmente il termine senza

che sia stato adottato il diniego di approvazione. Ad esempio l’art. 29 della l. n.70/19751.- Controllo

sulle delibere degli enti.

Silenzio facoltativo ( silenzio a carattere procedimentale). Si ha il c.d. silenzio facoltativo in

tutte le ipotesi in cui l’esercizio di una particolare competenza, durante un procedimento

amministrativo, sia previsto come meramente facoltativo, per cui trascorso inutilmente il termine

previsto per l’esercizio di esso può procedere al compimento degli atti successivi senza ulteriore

attesa e senza pregiudizi per gli effetti finali. Esempio art. 7 della l. n. 1 del 1978

Detta forma di silenzio è stata ampliata dall’art. 16, comma 2 della l.n. 241/1990, (Attività

consultiva) modificato dalla l. n.127 del 1997.

Silenzio devolutivo

Si ha silenzio devolutivo quando il silenzio della p.a. comporta l’attribuzione della

competenza ad altra autorità. Anche detta forma è stata notevolmente potenziata dalla l. n. 241 del

1990, precisamente dall’art. 17 .

Silenzio rinuncia

Si ha silenzio rinuncia, quando un determinato potere dell’amministrazione si estingue se

non viene esercitato entro un certo termine. Così ad esempio l’art. 7 della l. n. 865 del 1971

conferisce alle Regioni il potere di annullare le concessioni illegittime entro diciotto mesi

dall’accertamento delle violazione, così come previsto dall’art. 27 della l. n. 1150 del 1942.

Silenzio illecito

Si ha silenzio illecito in tutti i casi in cui il termine dell’esercizio di un potere risulta apposto

nell’interesse del destinatario del provvedimento, per cui l’inutile decorso del termine importa la

ute nel presente articolo, il Ministero vigilante può procedere allo scioglimento del consiglio di amministrazione

dell'ente stesso, se direttamente competente, o, in caso diverso, proporne lo scioglimento.

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lesione di diritti soggettivi e, quindi, risarcimento dei danni. Tale ipotesi ricorre in tutti i casi di atti

dovuti entro termini ben precisi.

Altra figura cui si fa spesso riferimento in dottrina è il cd. silenzio rigetto, figura che

ricorre nel caso in cui spira infruttuosamente il termine di novanta giorni entro il quale il ricorso

gerarchico deve essere deciso.

Il provvedimento implicito

Accanto al silenzio, occorre esaminare la figura del cd. atto amministrativo implicito. Si

tratta di un provvedimento della p.a. che, però, non si estrinseca attraverso le tipiche forme del

diritto amministrativo, sebbene venga considerato atto amministrativo a tutti gli effetti e da cui

possa poi derivare la volontà della p.a. medesima. Il tratto caratteristico che concorre a differenziare

il silenzio dall’atto amministrativo implicito va ravvisato nel fatto che. Mentre il primo è connotato

da una mancanza di volontà positiva, viceversa, nell’atto implicito la volontà positiva

dell’amministrazione discende da un altro provvedimento ovvero da un comportamento della p.a.:

in tal modo, l’atto comunque si esteriorizza, sebbene indirettamente.

Silenzio inadempimento

La problematica del silenzio della pubblica amministrazione si pone in tutta la sua ampiezza

quando la pubblica amministrazione rimane completamente inerte di fronte a una istanza del privato

al di fuori dei casi in cui la legge attribuisce all’inerzia un determinato significato (positivo o

negativo).

Il silenzio inadempimento riguarda le ipotesi in cui la p.a., di fronte alla richiesta di un

provvedimento da parte del privato, abbia omesso di provvedere entro i termini previsti dalla legge

e questa non contenga alcuna indicazione sul valore da attribuire al silenzio. La sussistenza del

dovere della pubblica amministrazione di provvedere sull’istanza proposta dal privato è un

presupposto necessario affinché possa configurarsi un silenzio inadempimento della pubblica

amministrazione.

La giurisprudenza ha generalmente chiarito che l’omissione della p.a. assume valore di

silenzio inadempimento solo se sussiste un obbligo giuridico di provvedere derivante da una norma

di legge, da un regolamento o da un atto amministrativo.

Secondo tale orientamento, dunque la doverosità amministrativa trova la sua fonte proprio

nella legge. Il principio di legalità è il principio cardine dell’attività amministrativa.

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Nel corso degli ultimi anni, peraltro, la giurisprudenza ha adottato un atteggiamento di

minor rigore in ordine all’ambito di operatività del silenzio rifiuto, ritenendone la sussistenza anche

laddove lo stesso, pur se non previsto da una puntuale prescrizione legislativa o regolamentare, sia

desumibile da norme di carattere generico, vale a dire dai principi informatori dell’attività

amministrativa, quali il principio di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa.

Questo lungo iter giurisprudenziale, teso ad ampliare gli spazi del dovere di provvedere da

parte della pubblica amministrazione e della conseguente possibilità di tutela giurisdizionale del

privato, è stato coronato legislativamente con l’emanazione della legge sul procedimento

amministrativo, la quale all’art, 2, comma primo, ha sancito in via generale il dovere di provvedere

per le pubbliche amministrazione di concludere il procedimento con un provvedimento espresso

ogni qualvolta abbia inizio un procedimento amministrativo sia d’ufficio che ad iniziativa privata.

Il momento patologico in cui il silenzio dell’amministrazione può essere considerato

patologico è dato dunque dallo scadere del termine previsto dalla legge o dal regolamento in ordine

alla conclusione del procedimento.

Vi sarebbero secondo la dottrina e la giurisprudenza delle ipotesi in cui non vi sarebbe un

dovere di provvedere in capo alla p.a.

Ad esempio non sussiste obbligo di provvedere nel caso in cui un soggetto privo di interesse

specifico presenti all’Amministrazione una denuncia.

In particolare, la giurisprudenza è dell’avviso che la pubblica amministrazione non è

obbligata a provvedere su un’istanza del privato, oltreché nei casi di istanza di riesame dell’atto

divenuto inoppugnabile per inutile decorso del termine di decadenza; di istanza manifestamente

infondata; di istanza di estensione “ultra partes” del giudicato, anche nel caso in cui l’istanza abbia

ad oggetto un provvedimento già impugnato in sede giurisdizionale e sub iudice al momento

dell’istanza.

Secondo detta tesi una simile pretesa si tradurrebbe, infatti, in uno strumento per costringere

la pubblica amministrazione a emettere ulteriori provvedimenti che, se anch’essi di carattere

negativo, potrebbero essere nuovamente impugnati con la conseguenza paradossale che la volontà

amministrativa su uno stesso oggetto, sia pure manifestatasi in atti temporalmente diversi, in

violazione del principio di certezza delle situazioni giuridiche, non diventerebbe mai inoppugnabile.

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Pertanto, il dovere di provvedere non è configurabile né a fronte dell’istanza di riesame di

un provvedimento rimasto inoppugnato, né a fronte dell'istanza di riesame di un provvedimento

tempestivamente impugnato in sede giurisdizionale.

Detta tesi non può essere condivisa.

Anche nelle ipotesi di autotutela vi è un dovere di provvedere, in quanto la pubblica

amministrazione, quando agisce in via di autotutela, ha comunque il dovere di ponderare gli

interessi coinvolti e di assumere comunque una decisione positiva o negativa che sia.

La doverosità si desume in prima battuta dalla stessa legge sul procedimento amministrativo.

L’art. 2 della legge sul procedimento amministrativo detta una regola generale che si applica a tutti i

tipi di procedimenti amministravi. Infatti, l’art. 2 della legge n. 241/1990 afferma che il

procedimento, sia che abbia inizio a istanza di parte, sia che abbia inizio d’ufficio, deve essere

concluso con l’adozione di un provvedimento espresso e motivato. Il potere di riesame della

pubblica amministrazione, pur essendo discrezionale , deve comunque condurre l’amministrazione

ad esercitare la sua funzione istituzionale. Il dovere di provvedere o meglio di concludere un

qualunque procedimento amministrativo significa un vincolo per l’amministrazione di decidere

comunque, di assumere in ogni caso una decisione regolativa e comparativa dell’interesse pubblico

e dell’interesse privato.

Il dovere di provvedere della p.a., oltre che nei procedimenti di secondo grado, sussiste

anche nella ipotesi in cui il cittadino proponga nei confronti della pubblica amministrazione una

domanda manifestamente inammissibile o/e infondata.

La valutazione in merito alla manifesta infondatezza della domanda presuppone un esame

sostanziale della pretesa dedotta. La pubblica amministrazione non può sapere a priori se la

domanda presentata dal privato sia inammissibile o manifestamente infondata fino a quando non

espleti una vera e propria istruttoria procedimentale.

Inoltre, la tesi sopra indicata non può essere accettata in quanto la mancanza di un

procedimento amministrativo finalizzato a stabilire se l’atto di iniziativa sia ammissibile e/o fondato

viola i principi di adeguata istruttoria, del contraddittorio, della partecipazione, della motivazione

obbligatoria e della doverosità dell'azione amministrativa .

Infine, la giurisprudenza e la dottrina sostengono che il silenzio inadempimento non riguarda

tutte le ipotesi di comportamento inerte della p.a., ma solo quelle relative all’esercizio di un potere

propriamente amministrativo, con l’esclusione, quindi, dell’adozione di atti paritetici (quale

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potrebbe essere, ad esempio, l’inadempimento contrattuale). Si ritiene, inoltre, che il meccanismo

del silenzio rifiuto sia attivabile solo in quei procedimenti amministrativi in cui sia configurabile un

interesse legittimo, e non un diritto soggettivo.

La previsione di cui all’art. 2 è stata nel tempo oggetto di vari interventi di modifica, che

hanno trovato la loro ragion d’essere proprio nella fondamentale importanza rivestita dalla

questione della tempistica procedimentale.

Infatti, il legislatore con l’art. 2, l. 11.02.2005, n. 15 aggiungeva all’art. 2, legge n.

241/1990, il comma 4 bis secondo cui “Decorsi i termini di cui ai commi 2 o 3, il ricorso avverso il

silenzio, ai sensi dell’art. 21 bis della legge 6 dicembre 1971, n.1034, e successive modificazioni,

può essere proposto anche senza necessità di diffida all’Amministrazione inadempiente fin tanto

che perdura l’inadempimento e comunque non oltre un anno dalla scadenza dei termini di cui ai

commi 2 o 3. E’ fatta salva la riproponibilità dell’istanza di avvio del procedimento ove ne

ricorrano i presupposti”.

Inoltre, a distanza di appena tre mesi, l’art. 2 legge n. 241/1990 veniva ulteriormente

modificato da un nuovo intervento legislativo, attuato con la legge 14.05.2005 n. 80 . In particolare,

l’art. 6 bis della legge n. 80/2005 modificava l’art. 2 della l. n. 241/1990.

Infine, l’art. 2 l. n. 241/1990 veniva ulteriormente modificato dall’art. 7, primo comma, l. n.

69/2009 .

Nella sua nuova versione, l’art. 2 sancisce il dovere di concludere il procedimento mediante

l’adozione di un provvedimento espresso, disciplina i termini di conclusione del procedimento, la

loro decorrenza e la loro sospensione, rinvia al codice del procedimento amministrativo, per la

tutela avverso il silenzio e, infine, configura la mancata emanazione del provvedimento come

“elemento di valutazione della responsabilità dirigenziale”.

Appare opportuno evidenziare che il legislatore non si è limitato a modificare l’art. 2, ma ha

previsto e disciplinato, con 2 bis, della legge n. 241/1990, il risarcimento del danno da ritardo .

A quanto precede va aggiunto che la legge n.35/2012 ha rimodulato l’art. 2 l.n. 241/1990. In

particolare, il legislatore ha inasprito la reazione nei confronti del funzionario che rimanga inerte

innanzi a una istanza. Innanzi tutto, le sentenze passate in giudicato, che accolgono un ricorso

avverso il silenzio inadempimento, vanno trasmesse alla Corte dei Conti all’evidente fine di

consentire alla relativa Procura di valutare l’opportunità di esercitare l’azione di responsabilità

contabile. Inoltre, l’omessa o la tardiva emanazione del provvedimento costituiscono elemento di

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valutazione della carriera del funzionario e della responsabilità disciplinare e amministrativo

contabile.

Inoltre, il legislatore ha conferito al privato, una volta decorso il termine per provvedere, il

potere di rivolgersi all’organo apicale del funzionario inerte (direttore generale, dirigente preposto

all’ufficio o al funzionario più elevato in grado) sollecitando la definizione del procedimento

rimasto incompiuto, in un termine non superiore alla metà di quello assegnato ordinariamente per

provvedere. Il titolare dell’organo apicale potrà provvedere direttamente o tramite la nomina di un

commissario ad acta.

Le predette disposizioni incidono sull’assetto sistematico del rito speciale avverso il

silenzio.

Tutela avverso il silenzio

Per quanto attiene al procedimento di formazione del silenzio rifiuto, in origine era

applicabile la procedura prevista dal T.U. 383/1934 per il silenzio in tema di ricorsi amministrativi,

successivamente superata per effetto del d.p.r. 1199/1971 con la sentenza n. 10 del 1978,

l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, aderendo alla tesi di un ‘autorevole dottrina

(Sandulli),riteneva applicabile ad esso, per analogia, la normativa dettata dall’art. 25 del T.U sugli

impiegati civili dello Stato, per cui, per aversi silenzio rifiuto impugnabile giudizialmente,

occorreva: 1) l’inerzia di almeno 60 giorni dell’amministrazione sull’istanza; 2) diffida formale ad

adempiere, notificata a mezzo ufficiale giudiziario, 3)ulteriore inerzia dell’amministrazione

protrattasi per almeno altri 30 giorni dopo la notifica dell’atto di messa in mora.

Formatosi così il silenzio rifiuto, l’interessato poteva impugnare il silenzio davanti al giudice

amministrativo per ottenere una sentenza che accertava l’obbligo della p.a. di provvedere

sull’istanza, rinviando alla stessa perché adottasse il provvedimento omesso, ovvero affermasse

l’inesistenza di tale obbligo.

L’applicabilità dell’art.25 del T.u sugli impiegati civili dello stato venne messa in

discussione a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 2 della l. n.241 del 1990, ma soprattutto dal

fatto che con la riforma della giustizia amministrativa avvenuta con la l. n. 205 del 2000, il

legislatore per la prima volta introdusse una vera e propria disciplina del rito speciale per il ricorso

avverso il silenzio aggiungendo l’art. 21 bis alla legge n. 1034/1971 .

L’art. 21 bis l. n. 1034/1971 stabiliva che i ricorsi avverso il silenzio dell’amministrazione

dovevano essere decisi in camera di consiglio. In camera di consiglio i difensori dovevano essere

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sentiti. Il collegio poteva disporre attività istruttorie. La norma non precisava a chi competesse

chiedere l’attività istruttoria, ma l’innesto della disciplina speciale per il silenzio sulla disciplina

generale determinava che l’attività istruttoria poteva essere sollecitata da una delle parti o disposta

di ufficio dal giudice, in ossequio al principio dispositivo con metodo acquisitivo .

Il giudice doveva definire il processo entro trenta giorni dalla scadenza del termine per il

deposito del ricorso. Qualora, invece, il collegio avesse ritenuto necessario disporre un’istruttoria, il

ricorso doveva essere deciso in camera di consiglio entro trenta giorni dalla data fissata per gli

adempimenti istruttori. La decisione doveva essere presa con sentenza succintamente motivata.

Il rigetto del ricorso apriva la strada all’appello. Invece, in caso di accoglimento del ricorso

di primo grado, totale o parziale, il giudice amministrativo ordinava all’amministrazione di

provvedere. Il legislatore aveva previsto che il giudice, salvo casi particolari, potesse ordinare

all’amministrazione di emanare il provvedimento entro un termine non superiore a trenta giorni.

Qualora l’amministrazione fosse rimasta inadempiente, oltre il detto termine, il giudice

amministrativo, su richiesta di parte, poteva nominare un commissario che provvedeva in luogo

della stessa.

L’art. 21 bis precisava che, all’atto dell’insediamento, il commissario, prima

dell’emanazione del provvedimento da adottare in via sostitutiva, dovesse accertare se

anteriormente alla data dell’insediamento medesimo l’amministrazione avesse provveduto,

ancorché in data successiva al termine assegnato dal giudice amministrativo con la decisione di

primo grado. In tal caso, l’esercizio del potere da parte dell’amministrazione precludeva al

commissario di adottare qualsiasi provvedimento e gli imponeva di rimettere l’incarico

semplicemente rilevando che l’amministrazione, anche se con spaventoso ritardo, aveva comunque

provveduto.

La sentenza di accoglimento o di rigetto, resa in primo grado, era appellabile entro il termine

ridotto di trenta giorni dalla notificazione o, in mancanza, entro novanta giorni dalla comunicazione

della pubblicazione. L’art. 21 bis precisava che nel giudizio d’appello innanzi al Consiglio di Stato

dovevano seguirsi le stesse disposizioni dettate per il giudizio speciale in primo grado.

A quanto precede va aggiunto che la disciplina sul rito speciale avverso il silenzio

dell’amministrazione subiva una decisiva modifica indiretta. Infatti, il legislatore emanava

disposizioni che incidevano in maniera rilevante sull’art. 2 l.n. 241/1990.

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Infatti, il legislatore con l’art. 2, l. 11.02.2005, n. 15 aggiungeva all’art. 2, legge n.

241/1990, il comma 4 bis secondo cui “Decorsi i termini di cui ai commi 2 o 3, il ricorso avverso il

silenzio, ai sensi dell’art. 21 bis della legge 6 dicembre 1971, n.1034, e successive modificazioni,

può essere proposto anche senza necessità di diffida all’Amministrazione inadempiente fin tanto

che perdura l’inadempimento e comunque non oltre un anno dalla scadenza dei termini di cui ai

commi 2 o 3. E’ fatta salva la riproponibilità dell’istanza di avvio del procedimento ove ne

ricorrano i presupposti”.

In particolare il primo problema che venne superato fu quello di stabilire se il rito speciale

avverso il silenzio presupponeva o meno la proposizione di una diffida a provvedere.

Il ruolo della diffida mutò dopo l’entrata in vigore della legge n. 241/1990.

Il legislatore con l’emanazione dell’art. 2 della legge n.241/1990, stabilì l’obbligo per la

pubblica amministrazione di concludere il procedimento con l’emanazione di un provvedimento

espresso. Tale previsione normativa pose il dubbio se fosse ancora necessario attivare il

meccanismo della diffida ad adempiere di cui al T.u. sul pubblico impiego del 1957, allorquando la

pubblica amministrazione, scaduto il termine di conclusione del procedimento non si fosse

pronunciata sull’istanza del privato. In altri termini, dopo la previsione normativa dell’art. 2 legge

n. 241 del 1990, si discusse se fosse necessario attivare, ancora, il meccanismo della diffida ad

adempiere nel ricorso avverso il silenzio.

Sul punto maturarono due diversi orientamenti.

Secondo un primo orientamento, il meccanismo della diffida, dopo la norma di cui all’art. 2,

doveva ritersi superato. Secondo questa tesi, una volta scaduto il termine di conclusione del

procedimento amministrativo, senza che la pubblica amministrazione avesse adottato un

provvedimento positivo o negativo, non c’era bisogno di mettere in mora l’amministrazione, in

quanto la condotta inerte doveva ritenersi illecita in re ipsa per il semplice fatto della decorrenza

del termine . In altri termini, quando l’interesse legittimo del privato veniva leso dal

comportamento inerte della pubblica amministrazione, si poteva esperire direttamente il ricorso

avverso il silenzio.

Invece, secondo una differente tesi, il soggetto che intendeva reagire contro l’inerzia

dell’amministrazione doveva esperire la diffida, perché la messa in mora serviva a stabilire un

termine ultimo tale da consentire all’amministrazione di evitare l’insorgenza della lite, provvedendo

in modo conforme alla pretesa del privato .

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Il superamento definitivo della diffida avvenne ad opera delle leggi nn. 15 e 80 del 2005

Il legislatore intervenne a fare chiarezza su tale questione, con le leggi nn. 15 e 80 del 2005,

escludendo che la diffida costituisse condizione di ammissibilità del ricorso contro il silenzio.

L’art. 2 della l. 241/1990 è chiaro: le amministrazioni devono adottare il provvedimento

finale rispettando il termine del processo decisionale. La predeterminazione espressa dei tempi

procedimentali consente al privato di conoscere con esattezza il termine per poter impugnare

l’inerzia della pubblica amministrazione.

Con l’entrata in vigore del codice del processo amministrativo (dlgs. n. 104 del 2010), la

disciplina dell’azione avverso l’inerzia della p.a. viene concentrata negli articoli 31, 87 e 117 del

c.p.a.

Il codice del processo amministrativo non dedica alla tutela giurisdizionale avverso il

silenzio della pubblica amministrazione una disciplina organica e omogenea, racchiusa, come

sarebbe stato auspicabile per ragioni di chiarezza, in un unico capo del codice, ma prevede una

normativa che si sviluppa in differenti parti del codice. Nel libro primo, titolo III, dedicato alle

azioni e domande, capo II, dedicato alle azioni di cognizione, l’art. 31 contempla l’azione avverso il

silenzio delineandone la connotazione sostanziale.

Nel libro II, titolo VIII, dedicato alle udienze, l’art. 87 rubricato “udienze pubbliche e

procedimenti in camera di consiglio”, stabilisce che il giudizio in materia di silenzio viene trattato

in camera di consiglio.

Invece, nel libro quarto dedicato all’ottemperanza e ai riti speciali, nel titolo I, intitolato

giudizio di ottemperanza, l’art. 117 detta la disciplina processuale del ricorso avverso il silenzio.

La disarticolazione della disciplina sul silenzio in parti differenti del codice ha l’innegabile

difetto di privare di omogeneità l’intero impianto normativo, rendendone complessa e problematica

l’interpretazione.

La disciplina introdotta dal codice del processo amministrativo pone una serie di

ingombranti problemi.

Il primo problema è quello di stabilire se tutti i ricorsi proposti avverso il silenzio debbano

seguire il nuovo rito previsto dagli artt. 87 e 117 c.p.a., oppure se possano proporsi ricorsi averso il

silenzio anche seguendo il rito ordinario.

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Il secondo problema è quello di precisare se il rito speciale previsto per i ricorsi avverso il

silenzio dell’amministrazione possa trovare applicazione solo per specifiche tipologie di silenzio

amministrativo.

Il terzo problema da affrontare è quello volto a precisare i poteri cognitori e decisori del

giudice chiamato a sindacare il silenzio serbato dall’amministrazione. In particolare, si deve

accertare se il giudice ha il dovere di pronunciarsi solo sulla violazione dell’obbligo di provvedere o

se possa (o debba) conoscere anche la fondatezza della pretesa fatta valere.

Il quarto problema è quello di individuare i poteri che conserva l’amministrazione contro la

quale sia stato proposto un ricorso avverso la sua inerzia e, in particolare, quello di stabilire se possa

essere emanato un provvedimento espresso sopravvenuto allo scadere del termine di provvedere.

Tuttavia, prima di affrontare i diversi problemi prospettati, appare opportuno delineare le

caratteristiche processuali del rito speciale avverso il silenzio, anche al fine di acclarare se la

disciplina processuale sia idonea a fornire indicazioni per risolvere i quesiti sopra posti.

L’art. 87 c.p.a., analogamente a quanto stabiliva l’art. 21 bis legge T.a.r., prevede che “il

giudizio in materia di silenzio” deve essere trattato in camera di consiglio. Appare opportuno

evidenziare che la norma non distingue tra silenzi significativi e silenzi inespressivi, inducendo

l’interprete a ritenere che il rito camerale sia obbligatorio anche per i silenzi significativi. l’art. 87,

terzo comma, c.p.a. prevede che i termini siano dimezzati rispetto a quelli ordinari, ad esclusione

dei termini previsti per la notifica del ricorso introduttivo, del ricorso incidentale e dei motivi

aggiunti. In definitiva, l’intento del legislatore è stato quello di introdurre una disciplina idonea a

definire in tempi rapidi il processo avverso il silenzio. La celebrazione del rito speciale avverso il

silenzio con il rito camerale non costituisce un ostacolo a conseguire una tutela ampia e piena; non

presenta tratti idonei a precluderne l’estensione della relativa azione avverso tutti i silenzi, anche a

quelli significativi; non possiede profili tali da incidere sui poteri cognitori e decisori del giudice,

precludendogli, per esempio, di investire con la sua pronuncia anche la fondatezza della pretesa

dedotta in giudizio. l’art. 117, secondo comma, c.p.a. stabilisce che “il ricorso è deciso con sentenza

succintamente motivata”.

La norma utilizza uno schema decisionale già introdotto nel sistema di giustizia

amministrativa dalla legge n. 205/2000 , al fine di accelerare la definizione del procedimento

giurisdizionale .

semplificata” ha sostituito tutte le diverse formulazioni, presenti nella legge T.a.r.

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La differenza che esiste fra la sentenza ordinaria e la “sentenza succintamente motivata”,

consiste nel fatto che per quest’ultima “la motivazione può consistere in un sintetico riferimento al

punto di fatto e di diritto ritenuto risolutivo”, vale a dire proprio nelle modalità di stesura della

motivazione. In particolare, il tratto distintivo risiede nel fatto che nella sentenza succintamente

motivata vi sono parti che, per esigenze di speditezza, possono essere tralasciate nella stesura .

Pertanto, la previsione della definizione del rito speciale avverso il silenzio con sentenza

succintamente motivata non costituisce una valida ragione per limitare l’applicazione del rito

speciale al solo silenzio inadempimento, per ridurre i poteri cognitori e decisori del giudice e per

escludere che la sua cognizione si debba estendere anche alla fondatezza della pretesa fatta valere.

Per quanto concerne la limitazione della possibilità di impiegare il rito speciale anche per

l’impugnativa dei silenzi significativi, a riprova della fondatezza delle considerazioni sopra

prospettate, appare opportuno richiamare il decreto correttivo al Codice. Invero, il legislatore è

intervenuto sul tema con l’art. 1, primo comma, lett. ff), del d. lgs.vo n. 195/2011, con il quale ha

aggiunto un ultimo comma all’art. 117 c.p.a.

L’art. 117, comma 6 bis, c.p.a. stabilisce che le disposizioni di cui al secondo comma,

relative alla definizione del processo con sentenza in forma semplificata, si applicano anche ai

“giudizi di impugnazione”, vale a dire anche ai ricorsi proposti avverso il silenzio significativo.

La proponibilità dei motivi aggiunti

Un problema di proposizione del ricorso per motivi aggiunti si poneva allorquando,

impugnato il silenzio rifiuto ex art. 21 bis della l. T.a.r., sopravveniva un diniego espresso da parte

dell’Amministrazione.

In detta ipotesi ci si chiedeva se il ricorrente potesse impugnare il provvedimento

sopravvenuto in sede di legittimità con un autonomo ricorso, oppure se potesse proporre motivi

aggiunti avverso il provvedimento sopravvenuto , convertendo, in tale modo, il rito speciale in

giudizio ordinario di legittimità.

Sul punto vi erano due diversi orientamenti. L’orientamento prevalente sosteneva che la

specialità del rito avverso il silenzio non consentiva la proposizione di motivi aggiunti avverso il

provvedimento sopravvenuto , anche al fine di evitare facili elusioni dei tempi di trattazione delle

controversie.

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Pertanto, bisognava introdurre un giudizio ordinario di legittimità, in quanto l’emanazione

successiva del provvedimento da parte della pubblica amministrazione comportava la cessazione

della materia del contendere, in presenza di un provvedimento favorevole all’istante.

Nel caso in cui la pubblica amministrazione avesse emanato un provvedimento

sopravvenuto non satisfattivo dell’interesse del ricorrente, allora doveva intervenire una declaratoria

di inammissibilità o di improcedibilità del ricorso, rispettivamente per carenza originaria o

sopravvenuta di interesse.

Secondo un’altra tesi, l’art. 21 della l. T.a.r., nella parte in cui dispone che i provvedimenti

adottati in pendenza del ricorso fra le stesse parti connessi all’oggetto del ricorso stesso sono

impugnati mediante proposizione di motivi aggiunti, deve ritenersi applicabile anche al rito avverso

il silenzio della pubblica amministrazione.

In altri termini, secondo questo orientamento, qualora in pendenza del ricorso sul silenzio

rifiuto, fosse sopravvenuto il provvedimento amministrativo espresso, questo andava impugnato

mediante motivi aggiunti, sempre rispettando i termini e le modalità stabilite per il rito ordinario .

Con l’entrata in vigore del codice del processo amministrativo, la questione è stata risolta

dal legislatore che all’art. 117 c.p.a. ha previsto espressamente la possibilità di proporre motivi

aggiunti avverso il provvedimento sopravvenuto, disponendo la conversione del rito speciale in rito

ordinario.

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9 La proposizione dell’azione risarcitoria nel processo avverso l’inerzia dell’amministrazione Per quanto concerne la possibilità di proporre un’azione risarcitoria avverso il silenzio

dell’amministrazione, prima dell’entrata in vigore del codice del processo amministrativo, si

contrapponevano due diversi orientamenti.

Secondo la tesi prevalente, non era possibile proporre domande risarcitorie nell’ambito dello

speciale rito di cui all’art. 21 bis della l.n. 1034/1971, avente come unica finalità quella di ottenere

una declaratoria di illegittimità del silenzio rifiuto e del conseguente obbligo di provvedere

dell’amministrazione. In altri termini, la giurisprudenza amministrativa era dell’avviso che la

particolare celerità e semplicità del rito speciale erano incompatibili con le controversie che hanno

un oggetto ulteriore rispetto alla situazione di inerzia, di conseguenza veniva dichiarata

inammissibile la domanda di condanna delle Amministrazioni intimate al risarcimento dei danni

sofferti dal ricorrente, alla luce del principio di non cumulabilità dell’azione de qua con quella

intesa all’accertamento dell’illegittimità dell’inerzia amministrativa .

Un diverso indirizzo giurisprudenziale , assolutamente minoritario, invece, ammetteva la

proposizione della domanda risarcitoria in sede di impugnazione del silenzio rifiuto. In particolare,

secondo tale orientamento l’estensione dei poteri cognitori e decisori del giudice alla fondatezza

della pretesa, avrebbero contribuito ad ampliare l’oggetto della tutela giurisdizionale avverso

l’inerzia dell’amministrazione estendendolo all’intero rapporto intercorrente tra le parti.

A fare chiarezza su tale argomento è intervenuto il legislatore che, con l’art. 32 del c.p.a.

ammette, nello stesso giudizio, il cumulo di domande connesse proposte sia in via principale che

incidentale e risolve la problematica del rito applicabile tramite declaratoria di prevalenza del rito

ordinario. Una disciplina analoga la si ritrova nell’art. 117, sesto comma, c.p.a. il quale ha

espressamente previsto la possibilità di proporre azione di risarcimento del danno.

Ne consegue che, ove in pendenza del ricorso sul silenzio rifiuto, venga proposta un’azione

di risarcimento del danno , in virtù della scelta legislativa sopra rappresentata, il rito speciale

avverso il silenzio dovrà essere convertito in rito ordinario.

Il problema della conversione del rito

Quando nel corso del rito speciale avverso il silenzio della pubblica amministrazione

sopravveniva un provvedimento espresso si poneva il problema della impugnabilità di quest’ultimo.

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Secondo un orientamento era possibile innestare nello stesso rito speciale il ricorso per

motivi aggiunti.

Un diverso orientamento sosteneva, invece, l’incompatibilità dei due ricorsi, con la

conseguenza di rendere improcedibile il ricorso per motivi aggiunti proposto avverso il silenzio.

Il codice del processo amministrativo ha risolto la questione affermando il principio della

cumulabilità delle due azioni all’art. 32 .

La cumulabilità delle diverse azioni, secondo il legislatore, conferisce al giudice il potere di

scegliere fra due opzioni.

Il giudice amministrativo può definire l’azione avverso il silenzio con il rito camerale e può

trattare la domanda risarcitoria con il rito ordinario .

In tal caso, dovrà emettere una sentenza parziale, con la quale acclarare la violazione del

dovere di provvedere, e disporre con separata ordinanza la prosecuzione del processo, previa

conversione del rito .

Come già evidenziato, la conversione del rito non provocherà alcun decisivo effetto pratico

sullo svolgimento del processo. Le uniche conseguenze saranno rappresentate dalla celebrazione

dell’udienza pubblica, anziché di quella camerale, e dalla definizione del processo con sentenza

ordinaria, in luogo di quella in forma semplificata. Per le ragioni in precedenza illustrate le

implicazioni pratiche delle suddette conseguenze sono modestissime.

La domanda di risarcimento danni, così come quella volta ad impugnare il provvedimento

sopravvenuto, dovrà essere definita, all’esito della celebrazione del processo, con sentenza

ordinaria.

La seconda opzione, invece, è rappresentata dalla emanazione di una ordinanza con la quale

si disponga la conversione del rito da speciale a ordinario con fissazione dell’udienza.

In detta ipotesi, la definizione del processo potrà avvenire con un’unica sentenza, con la

quale si dichiari la violazione del dovere di provvedere, l’eventuale fondatezza della pretesa fatta

valere, condannando l’amministrazione a provvedere in conformità al contenuto conformativo della

decisione e a risarcire il danno. Sono possibili, naturalmente, diverse ipotesi di pronuncia articolate

e composte variamente.

Il decreto correttivo al Codice è intervenuto sul tema con l’art. 1, primo comma, lett. ff), del

d. lgs.vo n. 195/2011, con il quale ha aggiunto un ultimo comma all’art. 117 c.p.a.

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L’art. 117, comma 6 bis, c.p.a. stabilisce che le disposizioni di cui al sesto comma, relative

alla proposizione contestuale dell’azione di risarcimento del danno e di quella avverso il silenzio, si

applicano anche ai “giudizi di impugnazione”, vale a dire anche ai ricorsi proposti avverso il

silenzio significativo. Ne consegue che, in base alle succitate disposizioni, anche per i ricorsi

avverso il silenzio significativo, quando sia proposta congiuntamente l’azione di risarcimento del

danno, il giudice può definire con il rito camerale l’azione avverso il silenzio e trattare con il rito

ordinario la domanda risarcitoria.

I criteri selettivi di applicazione del rito speciale

Il rito speciale disciplinato dall’art. 117 c.p.a. è stato interpretato in maniera da restringere in

confini angusti lo spazio di applicazione. Sono stati proposti diversi criteri selettivi che hanno

ridotto l’ambito di applicazione del rito speciale avverso l’inerzia della pubblica amministrazione.

Il primo criterio selettivo è quello che ha ridimensionato in maniera drastica l’ambito

oggettivo di operatività del rito speciale facendo leva sulla natura giuridica del silenzio serbato

dall’amministrazione. In particolare, il predetto criterio selettivo ha fatto leva sulla tipologia di

silenzio investito dal ricorso e ha limitato l’operatività del nuovo rito solo al silenzio

inadempimento o silenzio rifiuto, espungendo tutte le altre tipologie di silenzio dall’ambito

oggettivo di operatività della nuova norma.

Il secondo criterio selettivo è stato fondato sulla natura dell’attività amministrativa

illegittimamente interrotta dall’amministrazione ed ha condotto ad escludere l’applicabilità del rito

speciale ai ricorsi avverso un silenzio serbato dall’amministrazione nell’esercizio di una attività di

diritto privato.

Infine, il terzo criterio selettivo è rappresentato dalla natura della situazione giuridica

soggettiva fatta valere dal soggetto che abbia formulato l’istanza in ordine alla quale

l’amministrazione sia rimasta silente. Il terzo criterio selettivo ha condotto ad espungere

dall’applicazione del nuovo rito speciale i ricorsi proposti dal titolare di un diritto soggettivo, anche

quelli afferenti alla giurisdizione esclusiva.

I primi due sono criteri selettivi dell’ambito oggettivo di applicazione del rito speciale

avverso il silenzio. Invece, il terzo è un criterio selettivo dell’ambito soggettivo di applicazione del

rito speciale avverso il silenzio dell’amministrazione.

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In definitiva, i tre criteri selettivi passati in rassegna, con i quali si suole ridurre

l’applicazione del rito speciale per i ricorsi avverso il silenzio dell’amministrazione in ambiti

angusti, a più attento vaglio critico non appaiono supportati da alcuna valida giustificazione.

Il criterio selettivo della tipologia di silenzio non tiene in alcuna considerazione il fatto che

in tutte le ipotesi di silenzio l’esercizio della funzione amministrativa si arresta in maniera del tutto

omogenea. Il criterio selettivo della natura dell’attività amministrativa non considera il requisito

della doverosità della funzione amministrativa. Infine, il requisito della natura della situazione

giuridica soggettiva fatta valere prescinde dai criteri di ripartizione della funzione giurisdizionale

fra giudice ordinario e giudice amministrativo.

Il criterio selettivo da proporre, invece, è quello del difetto di giurisdizione. In altri termini,

il rito sul silenzio non potrà essere utilizzato quando il giudice amministrativo non abbia

giurisdizione sul rapporto giuridico dedotto in giudizio .

Queste conclusioni risultano ulteriormente suffragate dal decreto correttivo al Codice.

Invero, il legislatore è intervenuto sul tema con l’art. 1, primo comma, lett. ff), del d. lgs.vo n.

195/2011, con il quale ha aggiunto un ultimo comma all’art. 117 c.p.a.

L’art. 117, comma 6 bis, c.p.a. stabilisce che le disposizioni di cui al secondo, al terzo, al

quarto e al sesto comma, si applicano anche ai “giudizi di impugnazione”, vale a dire anche ai

ricorsi proposti avverso il silenzio significativo.

Tale disposizione induce a ritenere che il legislatore abbia voluto estendere il rito speciale

disciplinato dall’art. 117 c.p.a. alla impugnativa di tutti i ricorsi avverso ogni tipo di silenzio, anche

di quelli significativi. Pertanto, il criterio selettivo della natura del silenzio non è più attuale e anche

i criteri selettivi fondati sulla natura della situazione giuridica soggettiva fatta valere e sulla natura

dell’attività posta in essere dall’amministrazione devono cedere il passo al criterio alternativo, sopra

prospettato, rappresentato dalla sussistenza della giurisdizione amministrativa.

In altri termini, quando il giudice ha la il potere di pronunciarsi su di un rapporto giuridico,

ha altresì il potere di conoscere dell’azione avverso l’inerzia dell’amministrazione.

Passando alla tematica dell’oggetto dell’impugnazione in materia di silenzio

inadempimento, va rilevato che secondo la dottrina e al giurisprudenza, il giudice amministrativo

doveva limitarsi ad accertare l’esistenza dell’obbligo di provvedere in capo alla p.a., e in caso

affermativo, rinviare alla stessa affinchè provvedesse.

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Negli ultimi anni, però si è andata affermando una tendenza che sta lentamente trasformando

la stessa concezione del giudizio amministrativo . Un primo passo verso una nuova concezione del

processo amministrativo è contenuto proprio nella sentenza del Consiglio di Stato n. 10 del 1978

nella quale , sia pure con riferimento agli atti vincolati , si afferma per la prima volta la possibilità

per il giudice amministrativo di andare oltre il mero accertamento dell’illegittimità del silenzio

rifiuto, pronunciando anche sulla fondatezza della domanda avanzata dal ricorrente

Già prima dell’entrata in vigore della l. n. 205/2000 la giurisprudenza era dell’opinione che

oggetto del giudizio sul silenzio non fosse tanto il silenzio in sé, bensì la fondatezza della pretesa

del ricorrente. Secondo la cennata tesi – maturata sulle istanze di quella parte della dottrina

promotrice dei principi di economia processuale ed effettività della tutela giurisdizionale – qualora

oggetto del gravame sia il silenzio inadempiente, il giudice amministrativo non è tenuto a

pronunciarsi solo sulla illegittimità dell’inerzia della pubblica amministrazione ed a verificare il

dovere di provvedere, ma anche, sia pure nel solo caso di atti vincolati, ad accertare la fondatezza

della pretesa stessa e a definire il contenuto del provvedimento da adottare nella fattispecie

concreta.

Successivamente, a seguito dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 1 del 09

gennaio 2002 si è affermata una tesi più restrittiva, modulata con riferimento al “nuovo” art. 2 della

L. n. 205/2000 che, introducendo il rito del silenzio ex art. 21 bis L. n. 1034/1971, avrebbe definito

“in modo compiuto la tutela giurisdizionale accordata al privato nei confronti del comportamento

omissivo dell’amministrazione”: l’art. 2, in sostanza, avrebbe circoscritto la cognizione del giudice

amministrativo esclusivamente alla verifica dell’esistenza di un dovere di provvedere

dell’Amministrazione, precludendogli l’esame del merito dell’istanza anche in casi di attività

vincolata .

Con la riforma della l. n. 241/1990, operata dalla l. n. 80/2005 che ha sensibilmente innovato

l’art. 2, è stato previsto che il giudice amministrativo, nei giudizi contro il silenzio-rifiuto, “può

conoscere della fondatezza dell’istanza”.

La novità, seppur timidamente proposta in termini di possibilità, supera quindi

l’orientamento affermatosi con l’Adunanza plenaria n. 1/2002, espressamente prevedendo il potere

del giudice amministrativo di esprimersi sul merito dell’istanza, sempre che si tratti di attività

vincolata della pubblica amministrazione.

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L’orientamento, secondo cui in sede di giudizio sul silenzio rifiuto non era possibile

compiere un accertamento sulla fondatezza della pretesa sostanziale del ricorrente, vertendo tale

giudizio solo sull’accertamento della sussistenza o meno dell’obbligo dell’amministrazione di

provvedere ; è destinato inevitabilmente a cedere, a fronte del nuovo testo dell’art. 2 co. 5 l. 241/90,

introdotto con d. l. n. 35/2005 e relativa legge di conversione, n. 80/2005, secondo cui nei ricorsi ex

art. 21 bis della l. n. 1034/71, “il giudice amministrativo può conoscere”.

Dopo l’orientamento della giurisprudenza che applicava, in via analogica, all’inerzia della

p.a., la norma di cui all’art. 25 del d.p.r., n.3/1957 l’interesse si è spostato sull’accertamento del

dovere di provvedere della pubblica amministrazione. Prima della emanazione della legge sul

procedimento amministrativo, in assenza di un dovere normativo di provvedere in capo alla

pubblica amministrazione, solo in alcuni casi era possibile censurare l’inerzia dell’amministrazione.

Non erano infrequenti le ipotesi in cui l’amministrazione, omettendo ogni attività istruttoria,

non si pronunciava sull’istanza dei privati.

Solo con l’articolo 2 della legge n. 241 del 1990 è stato generalizzato il dovere di

provvedere. Per la prima volta, è stato affermato il principio della certezza del tempo di conclusione

del procedimento amministrativo, mediante la espressa previsione del dovere di provvedere della

pubblica amministrazione.

Nel rito speciale previsto per i giudizi avverso il silenzio dell’amministrazione, il ricorrente

può chiedere che il giudice conosca anche della fondatezza della pretesa fatta valere.

Invero, rispetto a quanto stabilito con la formulazione originaria dell’art. 21 bis l. n.

1034/1971, i poteri cognitori e decisori del giudice sono stati ulteriormente precisati e ampliati

dall’art. 3, comma 6 bis, d. l. 14.03.2005 n. 35, convertito con integrazione dalla legge 14.05.2005,

n.80, che ha stabilito che nei ricorsi avverso il silenzio dell’amministrazione (ad esclusione dei casi

di silenzio assenso) “il giudice amministrativo può conoscere della fondatezza dell’istanza”.

A sua volta, il codice del processo amministrativo, con l’art. 31, terzo comma, ha sancito

che “il giudice può pronunciare sulla pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività

vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e

non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione”.

Il codice del processo amministrativo ha precisato che oggetto della cognizione del giudice

non è la fondatezza dell’istanza, come originariamente previsto dall’art. 2 della l. n. 241/1990 e smi,

bensì la fondatezza della pretesa dedotta in giudizio. La modifica non ha una valenza puramente

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terminologica, conseguenza della decisione del legislatore di voler utilizzare un termine

tecnicamente più preciso, ma possiede una portata normativa di ordine sostanziale.

Quando si parla di “fondatezza dell’istanza” si fa riferimento alla richiesta formulata

all’amministrazione, vale a dire all’istanza che avrebbe dovuto dare corso al procedimento rimasto

interrotto. Invece, quando si parla di fondatezza della pretesa dedotta in giudizio si fa riferimento

alla domanda processuale e, in particolare, a quella parte dell’istanza rimasta inevasa

dall’amministrazione, che il ricorrente ha ritenuto di coltivare in sede giurisdizionale. Il giudice

conosce quello che è oggetto della domanda giudiziale e, quindi, conosce l’istanza inoltrata

all’amministrazione se e nella misura in cui il ricorso giurisdizionale lo abbia investito della sua

cognizione.

Il codice del processo amministrativo, parlando all’art. 31, terzo comma, di “fondezza della

pretesa dedotta in giudizio” fa riferimento esclusivo a quella parte dell’istanza che il ricorrente ha

ritenuto di coltivare in sede processuale.

L’art. 31, terzo comma, c.p.a., nel conferire al giudice il potere di conoscere la fondatezza

della pretesa dedotta in giudizio, gli attribuisce il potere di pronunciarsi nei limiti dei poteri

cognitori e decisori che gli sono riconosciuti. In altri termini, la nozione di “pretesa” è delimitata, da

un lato, dal ricorso giurisdizionale che indica l’aspirazione del ricorrente e, dall’altro, dai poteri del

giudice, che non può travalicare i limiti impostigli dal legislatore.

Il codice, riconoscendo al giudice il potere di conoscere la fondatezza della pretesa in

giudizio, gli conferisce il potere di pronunciarsi nei limiti della sua giurisdizione

Il potere valutativo del giudice del silenzio è stato considerato, da una parte della dottrina,

come una ulteriore ipotesi di giurisdizione di merito . Il giudice, apprezzando la fondatezza della

pretesa, estende la sua cognizione sino al merito dell’azione. Una tale eventualità si verificherebbe

soprattutto quando la valutazione della fondatezza dell’istanza sia relativa al rilascio di un

provvedimento giurisdizionale. Anche un orientamento giurisprudenziale ha configurato il

sindacato in esame come una “nuova ipotesi di giurisdizione di merito” , per quanto sia rimasto

minoritario e sia stato apertamente contestato dalla stessa giurisprudenza .

Invero, con l’emanazione del codice del processo amministrativo la predetta tesi non ha più

alcun fondamento.

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Il codice enumera in maniera tassativa le ipotesi di giurisdizione di merito e fra quelle

indicate dall’art. 134 c.p.a. non ve né alcuna che possa includere la cognizione in parola. In assenza

di una qualificazione espressa del sindacato sulla fondatezza della pretesa come una ulteriore ipotesi

di giurisdizione di merito, la tesi in esame si palesa in tutta la sua vulnerabilità e appare

insostenibile.

Il giudice, quando conosce la fondatezza della pretesa dedotta in giudizio, esercita i poteri

che ineriscono alla sua giurisdizione.

Nell’ambito della giurisdizione di legittimità, il potere di conoscere la fondatezza della

pretesa dedotta in giudizio implica una valutazione di legittimità della pretesa. La pretesa, in altri

termini, deve essere conforme ai parametri della legittimità per essere ritenuta fondata. Per esempio,

in caso di inerzia serbata dall’amministrazione su di una richiesta di permesso di costruire,

l’eventuale cognizione della “fondatezza” dell’istanza implica una valutazione della conformità

della richiesta di permesso a costruire alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente.

Si è in presenza della stessa valutazione di legittimità alla quale è preposto il giudice

amministrativo nell’esercizio della giurisdizione di legittimità.

Considerazioni analoghe vanno fatte nel caso in cui il silenzio serbato dall’amministrazione

sia relativo a materie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Anche in

questo caso la cognizione della fondatezza della pretesa dedotta in giudizio implicherà l’esercizio

dei poteri cognitori e decisori devoluti al giudice amministrativo nell’ambito della giurisdizione

esclusiva attribuitagli.

In definitiva, il giudice amministrativo, nel rito speciale avverso il silenzio, nel conoscere la

fondatezza della pretesa dedotta in giudizio esercita gli stessi poteri che gli sono stati attribuiti in

sede di giurisdizione di legittimità, in sede di giurisdizione esclusiva e in sede di giurisdizione di

merito. I connotati e i limiti dei predetti poteri rappresentano anche i connotati e i limiti dei poteri

esercitabili nel conoscere la fondatezza della pretesa fatta valere.

Invero, prima dell’emanazione del codice del processo amministrativo, l’estensione del

sindacato del giudice nel rito speciale per i ricorsi avverso il silenzio è stata oggetto di diverse

interpretazioni.

Durante tutta la fase che ha preceduto la decisione dell’Adunanza plenaria del 9.01.2002 n.

1, un orientamento della giurisprudenza sosteneva che il sindacato del giudice sul silenzio

dell’amministrazione non fosse limitato alla declaratoria del dovere di provvedere, ma potesse

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estendersi, quando il ricorrente formulava una siffatta richiesta, a vagliare la fondatezza della

pretesa sostanziale fatta valere . In senso analogo si era espressa anche parte della dottrina .

Secondo un orientamento, sicuramente, un sindacato sulla fondatezza era proponibile nei

casi di attività vincolata . Tuttavia, al di là di detta ipotesi, il giudice amministrativo era costretto a

valutare la fondatezza dell’istanza al fine di acclarare la sussistenza di un interesse a ricorrere

avverso il silenzio, in mancanza del quale il ricorso proposto doveva essere dichiarato

inammissibile. Se la pretesa sostanziale del ricorrente non fosse stata fondata, il ricorso avverso

l’inerzia dell’amministrazione sarebbe stato inammissibile, per carenza dell’interesse a ricorrere .

Invero, l’ampliamento del sindacato del giudice amministrativo nei confronti

dell’amministrazione rimasta inerte, negli anni immediatamente successivi alla legge 205/2000, era

giustificato da una pluralità di ragioni di ordine sistematico, fra le quali vanno annoverate quelle

scaturenti dall’assetto assunto dal giudizio amministrativo, quelle che derivano dal fatto che la

sentenza succintamente motivata è un istituto di carattere generale, quelle connesse alla previsione

di una fase istruttoria e quelle che attengono al rapporto fra giudizio di cognizione e giudizio di

esecuzione .

Sennonché, nel volgere di poco tempo, si diffuse la tesi avversa.

Invero, la tesi secondo la quale il giudice amministrativo, adito ai sensi del’art.21 bis l.

n.1034/1971, doveva limitare il suo sindacato all’accertamento dell’illegittimità dell’inerzia

serpeggiava in giurisprudenza e in dottrina , già prima dell’emanazione della pronuncia

dell’Adunanza plenaria del 9/01/2002, n.1. In alcune sentenze si era affermato che la limitazione dei

poteri cognitori del giudice derivava dalle caratteristiche strutturali del rito, che con la sua celerità

mal si prestava a consentire una cognizione piena della pretesa sostanziale del ricorrente, e dalla

succinta motivazione della sentenza, che lasciava intendere che il giudice doveva limitarsi al

acclarare la violazione del dovere di provvedere e non altro .

Secondo l’Adunanza plenaria n. 1/2002, il legislatore, con il rito speciale per i ricorsi

avverso il silenzio dell’amministrazione, avrebbe inteso introdurre un modello processuale agile,

snello e veloce, idoneo a conseguire una pronuncia con la quale si potesse accertare esclusivamente

l’illegittimità dell’inerzia serbata dall’amministrazione.

Come è noto, sui poteri cognitori e decisori del giudice, il legislatore è intervenuto prima

con l’art. 3, comma 6 bis, d.lgs. n.35/2005, convertito con legge n.80/2005, che ha rimodulato l’art.

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2 l. n. 241/1990, e successivamente con l’art.7, primo comma, lettera c, l. n. 69/2009 che ha

introdotto l’art.2 bis l. n.241/1990, che ha previsto il risarcimento del danno da ritardo.

In particolare, l’art. 2, ottavo comma, l. n.241/1990, ha stabilito che, nei ricorsi avverso il

silenzio dell’amministrazione, “il giudice amministrativo può conoscere della fondatezza

dell’istanza”.

L’intervento espresso del legislatore su questo aspetto avviene in aperta polemica con le

scelte compiute dalla giurisprudenza prevalente assestatasi sulla decisione adottata dal Consiglio di

Stato con l’Adunanza plenaria n.1/2002 .

Nonostante la formulazione letterale dell’art. 2, quinto comma, l. n.241/1990, come

modificato dalla l. n.80/2005, che attribuisce al giudice amministrativo il potere di conoscere la

fondatezza dell’istanza, gli orientamenti giurisprudenziali successivi hanno ribadito le scelte

compiute dal Consiglio di Stato con la decisione dell’Adunanza plenaria n.1/2002 .

Il codice del processo amministrativo, all’art.31, dedicato all’azione avverso il silenzio e alla

declaratoria di nullità, ha previsto non solo il potere del giudice di accertare il dovere

dell’amministrazione di provvedere, ma anche quello di “pronunciare sulla fondatezza della pre

L’art. 31, terzo comma, c.p.a., riproducendo sul punto la stessa formulazione dell’art. 21 bis l. n.

1034/1971, stabilisce che “il giudice può pronunciarsi sulla pretesa dedotta in giudizio”. L’uso del

verbo “potere” da parte del legislatore pone il problema di stabilire se il giudice abbia la facoltà o il

dovere di pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio” .

La pronuncia sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio non può essere considerata

come una mera facoltà perché risulterebbe violato il principio della corrispondenza fra chiesto e

pronunciato.

Invero, anche nel processo amministrativo vige il principio della corrispondenza fra chiesto

e pronunciato per una serie di ragioni. Innanzitutto, perché l’art. 39 c.p.a. rinvia al codice di

procedura civile per tutte quelle disposizioni espressione di principi generali. Il principio in

questione è sicuramente un principio generale del processo. In secondo luogo perché, come è stato

evidenziato dalla dottrina, il principio della domanda e il principio del contraddittorio rappresentano

il fondamento del principio della corrispondenza fra chiesto e pronunciato.

Anche nel processo amministrativo vigono, in maniera indiscussa, il principio della

domanda e quello del contraddittorio. Pertanto, quand’anche non esistesse l’art. 39 c.p.a., il

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principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato sarebbe comunque vigente anche nel

processo amministrativo, quale necessario svolgimento dei predetti principi.

L’art. 112 c.p.c. è norma di sistema, anche nel processo amministrativo. Invero, l’art. 31,

terzo comma, c.p.a., interpretato secondo la tesi in esame, introduce una deroga ai poteri cognitori e

decisori del giudice amministrativo. Esso si tradurrebbe in una inammissibile deroga

all’attribuzione di giurisdizione, contemplata, innanzi tutto, dalle norme costituzionali e, in

particolare, dall’art. 24, 113 della Costituzione

Sulla base degli assetti attuali, delineati dal codice del processo amministrativo e dalla

elaborazione giurisprudenziale, la pretesa dedotta in giudizio può essere distinta in differenti

fattispecie ai fini della valutazione della sua fondatezza.

Vi sono fattispecie tipiche, espressamente indicate dal legislatore, e fattispecie generali

individuate dalla giurisprudenza.

Le fattispecie tipiche sono quelle enumerate dall’art. 31, terzo comma, c.p.a. secondo il

quale il giudice può conoscere la fondatezza della pretesa dedotta in giudizio quando si tratta di

attività vincolata o quando, pur trattandosi di attività discrezionale, non residuano margini ulteriori

di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere

compiuti dall’amministrazione .

Fra le ipotesi di fattispecie tipiche deve essere annoverata anche quella prevista dall’art. 25

della l. n. 241/1990 relativamente al diritto di accesso.

A quanto sin qui detto va aggiunto che la giurisprudenza, accanto alle fattispecie tipiche e

tassative, ha individuato delle fattispecie di ordine generale in cui il giudice deve valutare la

fondatezza della pretesa dedotta in giudizio.

Non si tratta di tipologie tipiche o specifiche, ma di casi generali, di fattispecie di ordine

generale, non attinenti a particolari attività dell’amministrazione, né a determinate materie, bensì

suscettibili di verificarsi al ricorrere di determinate condizioni.

Una prima fattispecie di ordine generale ricorre quando il giudice conosce la fondatezza

della pretesa dedotta in giudizio al fine di accertare se il ricorrente ha interesse a ricorrere avverso il

silenzio. Una seconda fattispecie di ordine generale è stata individuata da quella giurisprudenza che

ha ritenuto di dover apprezzare la fondatezza della pretesa dedotta in giudizio al fine di evitare

all’amministrazione di pronunciarsi inutilmente. Una terza fattispecie di ordine generale sussiste

quando si procede alla riunione o all’esame congiunto del ricorso avverso il silenzio e di quello

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proposto contro il provvedimento espresso sopravvenuto. La quarta fattispecie di ordine generale si

configura nei casi in cui il giudice omette il sindacato sul silenzio sul presupposto della

infondatezza della pretesa dedotta in giudizio. La quinta fattispecie di ordine generale si delinea nei

casi di declaratoria dell’obbligo di provvedere, con conseguenziale risarcimento del danno.

Le fattispecie tipiche e tassative in cui il giudice conosce la fondatezza dell’istanza: a)

l’attività vincolata

L’attività vincolata, vale a dire l’attività che in presenza di determinati presupposti

l’amministrazione debba necessariamente compiere, è stata sempre considerata suscettibile di

accertamento da parte del giudice amministrativo .

Infatti, in presenza di una attività vincolata il giudice può esercitare il suo sindacato

verificando se l’azione amministrativa è conforme ai parametri normativi. Un sindacato siffatto gli

consente di acclarare se la pretesa dedotta in giudizio è fondata, perché il parametro di riferimento

della fondatezza è rappresentato dalla norma. In questa ipotesi, la pronuncia del giudice rientra nei

limiti della giurisdizione di legittimità.

Le fattispecie tipiche e tassative in cui il giudice conosce la fondatezza dell’istanza: b)

casi in cui non residuano margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari

adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione

Altra fattispecie di pretesa, di cui il giudice può conoscere la fondatezza, è quella

rappresentata dai casi in cui pur essendo in presenza di un’attività discrezionale, l’esercizio della

relativa funzione è giunta sino a un punto tale da aver consumato tutti i profili di discrezionalità , in

maniera da rendere vincolata o dovuta, come dir si voglia, la successiva attività

dell’amministrazione.

In una fattispecie siffatta, il sindacato del giudice sulla fondatezza si risolve nel verificare se

l’azione amministrativa è avvenuta in maniera conforme ai parametri normativi e, pertanto, il

sindacato del giudice costituisce tipico esercizio della giurisdizione di legittimità.

Inoltre, in presenza di una attività, in ordine alla quale non vi è più alcun margine di

discrezionalità, è necessario affinché il sindacato del giudice possa investire la fondatezza della

pretesa, secondo la norma in esame, che non siano necessari adempimenti istruttori che debbano

essere compiuti dall’amministrazione.

Esempi siffatti ricorrono, per esempio negli accordi procedimentali, in cui l’amministrazione

opera una scelta e determina il contenuto discrezionale del provvedimento. L’accordo è in rapporto

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di strumentalità con il provvedimento , il quale ne mutua il contenuto e ne attualizza gli effetti

giuridici.

Una ulteriore ipotesi è rappresentata dal parere vincolante , ossia dall’atto

endoprocedimentale che opera la comparazione degli interessi ed esaurisce la scelta discrezionale. Il

successivo provvedimento chiuderà il procedimento, conformandosi all’assetto degli interessi ivi

delineato.

La norma secondo la quale “ il giudice può pronunciare sulla fondatezza solo (…) quando

risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari

adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione” deve essere intesa in

senso stretto. In altri termini, deve trattarsi di adempimenti istruttori che, per la loro complessità o

per caratteristiche peculiari, debbono essere compiuti solo ed esclusivamente dalla amministrazione.

I poteri cognitori e decisori del giudice amministrativo non sono suscettibili di essere

compressi e limitati rispetto a determinati atti o determinate attività dell’amministrazione. L’art. 24

e l’art. 113 della Costituzione impediscono al legislatore ordinario di introdurre, a qualsiasi fine,

limiti al sindacato del giudice amministrativo nell’ambito della giurisdizione conferitagli. Le

applicazioni che la giurisprudenza costituzionale ha fatto del predetto principio sono eloquenti.

Il giudice amministrativo, nell’ambito della sua giurisdizione di legittimità o di quella

esclusiva, non può sindacare la componente discrezionale dell’esercizio del potere amministrativo,

ma ben può verificare se l’amministrazione, nell’esercizio di una attività discrezionale, ha condotto

correttamente ed esaurientemente la necessaria attività istruttoria. La sfera preclusa alla cognizione

del giudice amministrativo è quella rappresentata dalla comparazione degli interessi, non la

componente che investe l’accertamento del fatto.

la pronuncia sulla fondatezza della pretesa è sempre possibile in presenza di una attività

vincolata, mentre in presenza di una attività discrezionale la pronuncia sulla fondatezza è possibile

solo “quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono

necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione”.

Fra le ipotesi di fattispecie tipiche, in cui il giudice conosce la fondatezza dell’istanza deve

essere annoverata anche quella prevista dall’art. 25 della l.n. 241/1990 relativamente al diritto di

accesso . Quando l’amministrazione non consente l’accesso ai documenti amministrativi,

rimanendo inerte (ma anche in caso di diniego motivato), l’istante potrà proporre ricorso al giudice

amministrativo.

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Una ulteriore fattispecie di ordine generale in cui il giudice conosce la fondatezza della

pretesa dedotta in giudizio ricorre quando il giudice, dopo aver dichiarato la sussistenza del dovere

di provvedere su una istanza del privato rimasta inevasa, riconosce il diritto al risarcimento del

danno.

La condanna dell’amministrazione a risarcire il danno, anche quando il danno derivi da

ritardo conseguente alla declaratoria del dovere dell’amministrazione di provvedere, presuppone un

giudizio positivo sulla pretesa fatta valere dall’interessato.

A dire il vero, quando la condanna si basa solo sul mero ritardo e viene pronunciata benché

il giudice ritenga infondata l’istanza proposta, potrebbe maturare la convinzione che in questa

ipotesi il giudice non conosce la fondatezza della pretesa fatta valere. Invece, quando il giudice

condanna l’amministrazione al risarcimento, dichiarando illegittimo il silenzio mantenuto

dall’amministrazione su di una richiesta che avrebbe dovuto essere accolta, appare incontestabile

che il giudizio di responsabilità presuppone la cognizione della fondatezza della pretesa.

Invero, questa ricostruzione non può essere condivisa. Anche nella prima fattispecie, vale a

dire quella in cui il giudice condanna al risarcimento per mero ritardo, per aver evaso tardivamente

una richiesta che in ogni caso avrebbe dovuto essere respinta, il giudice conosce la fondatezza della

pretesa, formulando, ovviamente, un giudizio negativo.

La quantificazione del danno da risarcire varia a seconda che la pretesa del ricorrente sia

fondata o sia infondata.

Pertanto, ogni qual volta il giudice si pronuncia sulla richiesta di risarcimento del danno,

deve necessariamente apprezzare la fondatezza della pretesa.