FATTO DI CRONACA S.O. BENINCASA

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Copyright by: Bigol News - Testata Registr. Trib. Napoli 20/2008 del 28/02/2008 FATTO di CRONACA

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FATTO di CRONACA

Domenica 23 marzo 2014

Servizi Segreti e Protocollo farfalla

I servizi segreti hanno la licenza di uccidere? “ La licenza di uccidere, i servizi segreti ce l’hanno solo in casi estremi, dipende dal movente per cui si ammazza” , così risponde il noto professore, nonché criminologo e psichiatra Francesco Bruno. Il ruolo dei servizi segreti è ormai esteso a tutti, è un’organizzazione statale, il cui operato è coperto dal segreto, operante ai fini della salvaguardia degli interessi nazionali. Per certi versi, l'attività di spionaggio, è molto antica ed è considerata alla stregua di qualunque altro mezzo a disposizione degli stati per il perseguimento dei loro fini generali. I servizi segreti si muovono secondo un codice penale che segue delle regole. Come ci spiega il professor Bruno , riprendendo così il discorso precedente, ”Il personale dei servizi segreti non sarà sottratto da incriminazione per aver commesso reati, autorizzati di volta in volta, indispensabili al raggiungimento degli obiettivi delle missioni affidategli, tranne i casi in cui si presentino delitti diretti a mettere in pericolo o a pregiudicare la vita, l’integrità fisica, , la libertà personale, , la salute o l’incolumità di una o più persone". Ma fino a che punto il perseguimento dei fini dell’ organizzazione nel bilanciamento degli interessi ,può prevalere sul diritto alla vita soprattutto considerando che i fini dell’ organizzazione sono contaminati da fini politici?

Di Francesca Cascone

I Servizi Segreti

Protocollo Farfalla” realtà o finzione?

di Laura Benedetto

Il “Protocollo Farfalla” è un documento top secret in cui si parlerebbe di un accordo tra il DAP ( dipartimento penitenziario) e i servizi segreti, e consisterebbe nella gestione di informazioni provenienti dai detenuti del 41 bis. Le prime testimonianze, o voci di un presunto documento scritto, risalgono al 2011, quando Sebastiano Ardita ne fece il nome durante il processo di Mori. Poco si sa di questo documento e ci sono numerosi pareri discordanti; sembra essere coperto dal segreto di Stato e in una recente intervista, avvenuta nella prima giornata di lavori della Commissione Parlamentare Antimafia, Rosy Bindi ha affermato di essere in grado di affermare l’inesistenza di questo documento. Opinione discordante quella del suo vice, Claudio Fava, che ha dichiarato: «Ho rivolto una specifica domanda al ministro della Giustizia e al ministro degli Interni riguardo il contenuto del Protocollo Farfalla, il quale avrebbe legato il dipartimento di polizia penitenziaria al Sisde, tanto che avrebbe previsto la possibilità da parte degli agenti del Sisde di incontrarsi con i detenuti sottoposti a regime di 41 bis senza lasciare alcuna traccia della propria visita». Se davvero esistesse un protocollo del genere, sarebbe solo un altro tassello da inserire nella ormai ventennale inchiesta sulla trattativa Stato-Mafia; di questo è certo Maurizio Torrealta, che nel suo libro “Processo allo Stato” aggiunge nuovi documenti e nuove teorie su come il “protocollo farfalla” abbia a che fare con morti misteriose come quelle di Loris D’Ambrosio e Armida Miserere e di come, alla fine, lo Stato abbia provato ad insabbiare tutto.

Domenica 23 marzo 2014

P2 e P4

20 anni fa come oggi,gli scandali che coinvolgono alte cariche dello Stato e non solo ,sono numerosi e all'ordine del Giorno,ma pochi sono stati così eclatanti e gravi come la cosidetta "Propaganda 2" o la più attuale,ma non meno radicata"Propaganda 4". Legate da un filo conduttore,un nome,una personalità influente quale Luigi Bisignani,le due "Logge", si sono fatte spazio durante l'arco della storia italiana del XX Secolo, ed in tutte le diramazioni del potere in Italia. La Propaganda 2 nasce con il nome di Propangada massonica nel 1877, viene poi sospesa durante il Regime Fascista e successivamente rimessa inpiedi nel 1976 e riconosciuta come vera Organizzazione criminale, il cui maggior esponente è stato Lucio Gelli. Lo scandalo ha inizio il 17 Marzo 1981 con il ritrovamento di una lista di 1000 affiliati alla loggia nella Villa Wanda di Gelli composta da 3 ministri,vertici dei servizi segreti, 20 ufficiali, 18 alti magistrati, 49 banchieri, 120 imprenditori, 44 parlamentari, 27 giornalisti, che hanno come unico scopo colpire la sovranità dei cittadini e lo fanno attraverso la messa in atto di innumerevoli crimini tra cui la Strage di Italicus, Strage di Bologna, Assassinio di Roberto Calvi, il Depistaggio del Rapimento di Aldo Moro. Propongono la loro missione come un Piano di Rinascita Democratica, andando ad influenzare anche gli organi stessi della Comunicazione Pubblica,tra cui giornali e tv, come il Corriere della Sera, attraverso cui condiziona a proprio volere la condotta dei politici, inserisce un proprio organico nel quotidiano ed assume la capacità di censurare i giornali. Per questo viene istituita per volontà di Nilde Lotti una Commissione d'Inchiesta Parlamentare presieduta da Tina Ansetti, che giudica la lista attendibile ma Incompleta, la loggia responsabile della Strage di Italicus e di un complotto permanente. Il verdetto finale del 1996 definì la Loggia solo come un Comitato d'affari che non ha minacciato le Istituzioni. Allo stesso modo a distanza di circa 20 anni si fa strada lo Scandalo P4, che vede come pricipali indagiti il prima citato Luigi Bisignani ed il deputato Alfonso Papa. Questa nuova Loggia aveva come obiettivo manipolare le informazioni segrete o coperte da segreto di stato e controllare l'assegnazione di appalti e nomine. L'indagine viene avviata a Napoli su iniziativa del Pm Francesco Curcio e Woodcoock, i quali analizzano innumerevoli intercettazioni tra Luigi Bisignani e Enrico Cisnetto, Vittorio Felti, Silvio Berlusconi e Flavio Briatore, ma non solo, viene riconosciuto anche il coinvolgimento del Maresciallo dei Carabinieri Enrico Lamonica, colpevole secondo i Pm di aver lasciato passare notizie riguardo l'inchiesta su Nicola Cosentino,indagato per associazione Mafiosa. Cosi come una mela fuori ha una buccia e dentro la polpa, il sistema potere ha fuori la sua buccia bella e lucida, ma dentro innumerevoli macchie di marcio, a dimostrazione che non è tutto oro ciò che luccica.

di Giovanna Fiorentino

Dalla P2 alla P4 il passo di una lista

Domenica 23 marzo 2014

di Stefania Paone

L’Omosessualità per Francesco Bruno

“La transessualità è una malattia, perché si perde la propria funzione,si va contro la natura psicologica” il noto criminologo e psichiatra Francesco Bruno ci ricasca: ritorna a parlare di omosessualità come malattia. La posizione del prof. Bruno riguardo all’omosessualità non è certo un mistero. Negli anni lo psichiatra ha, in diversi episodi, ribadito le sue discusse convinzioni sull’argomento. Attirando sulla propria persona:ardenti antipatie, aspre polemiche, una travolgente esposizione mediatica e, proprio per non farsi mancare nulla, una pronta denuncia all’Ordine dei Medici da parte di Arcigay, la principale organizzazione nazionale italiana per la difesa e la promozione dei diritti di omosessuali, lesbiche, bisessuali e transessuali. Tutto ha inizio nel 1990. Francesco Bruno contesta la depatologizzazione dell’omosessualità decisa dall’Organizzazione mondiale della Sanità. Le sue dichiarazioni in merito non vengono digerite dall’Arcigay che presenta denuncia all’Ordine dei Medici. La vicenda però non scuote minimamente lo psichiatra che, fermo sulla propria posizione, risponde a gran voce:" Se oggi parlare chiaro è una colpa, sono colpevole … facciano pure, tanto non li temo, ho il coraggio delle mie idee e continuo ad essere della mia opinione. Gli omosessuali sono dei disturbati e come tali patologicamente rilevanti. Quando mi dimostreranno il contrario, ci crederò. Insomma, mi condannino anche al rogo, non mi muovo dalle mie posizioni” Continua: " io ho il diabete. Non mi offendo se qualcuno mi dice che sono malato, é la realtà. Bene, per quale motivo gli omosessuali si offendono se qualcuno, correttamente, parla di patologia? Peggio ancora di scelte deviate? i gay sono soggetti patologicamente diversi e basta.” Francesco Bruno, per nulla intimidito dalle critiche scatenate, ritorna sull’argomento, questa volta, in un’intervista per il blog Pontifex, dichiara:“L’omosessuale è nella stessa situazione, dal punto di vista concettuale, di chi è handicappato, sordo o cieco. Per queste categorie, con una certa ipocrisia si dice diversamente abili, non vedenti e simili. Il gay è diversamente orientato per la sessualità e quel diversamente la dice lunga sulla normalità" E ancora, rincarando la dose: “Chi dice che padre e madre sono contenti o accettano la diversità del figlio, mente sapendo di mentire.” Lo psichiatra, dopo essersi difeso dalle polemiche che lo hanno investito, dichiarandosi assolutamente lontano da giudizi discriminatori o omofobi e sottolineando di avere il massimo e assoluto rispetto per chi compie scelte di altro tipo rispetto al suo, si è mostrato ultimamente più restio a dilungarsi sull’argomento. Avrà forse deciso di mollare un po’ la presa? Sarà forse compiuto l’ultimo atto di questa vicenda? “ A me se qualcuno me dice questo non se dice… io lo dico! “ Questa recente affermazione non lascia ben sperare…

L’Omosessualità

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Domenica 23 marzo 2014

di Dario Ciardiello

“L’uomo è un killer naturale, uccide da sempre perché è quello che sa fare”. Con queste parole lo psichiatra e criminologo Francesco Bruno racconta la propria teoria sulla capacità di commettere omicidi. Secondo i suoi studi, infatti, è emerso che il numero di morti provocate da individui di sesso maschile è nettamente superiore rispetto a quelle della controparte di genere perché, continua, “gli uomini hanno il testosterone, il testosterone è un potentissimo rinvigorente, ti fa sentire forte e potente”. Nel corso della storia, infatti, l’uomo ha sempre ucciso e sempre ucciderà perché “è una cosa che gli piace”. I maschi umani, quindi, uccidono per diverse ragioni: rabbia, rancore, vendetta ecc. mentre le donne, secondo Francesco, assumono un comportamento più ferino: uccidono per la difesa dei cuccioli. “Le donne non hanno la stessa aggressività degli uomini, a meno che non debbano difendere i cuccioli oppure non stiano cercando di sovvertire l’ordine sociale: in quel caso diventano feroci”. Continuando su questo punto, infatti, lo psichiatra fa notare una massiccia presenza di donne all’interno di organizzazioni terroristiche nazionali e internazionali. “Quando si compirono indagini sulle Brigate Rosse si scoprì che molte erano donne e che queste erano le più agguerrite a portarne avanti gli ideali”. Proprio per questa ragione la sua tesi continua affermando che, oggi, le norme giuridiche e sociali sono spersonalizzanti e tendono a reprimere gli istinti degli individui per fare in modo che possano correttamente vivere in società cercando di non ledere i propri simili. Francesco crede molto infatti nella sanzione come deterrente: una grandezza, cioè, che serve a limitare in potenza la commissione di crimini. Lo studio del Dr. Bruno trova fondamento in un’accurata analisi del ruolo di uomini e donne nelle società:“Gli uomini cacciano, fanno la guerra e l’hanno sempre fatta mentre le donne hanno ricoperto altri ruoli, per questo in loro c’è una maggiore predisposizione all’omicidio”. Il discorso ha anche sfiorato il punto della violenza sulle donne nel quale il Prof. Francesco ha richiamato il senso del possesso accennando a come alcuni uomini si sentano in dovere di disporre come vogliono di qualcosa in “loro possesso”. Nonostante queste dichiarazioni, il criminologo tende a specificare come provare piacere a togliere la vita sia da considerarsi sintomo di un disturbo mentale e che né il testosterone, né alcuna altra caratteristica insita negli organismi possa essere considerata un’attenuante.

Il testosterone influisce sulla possibilità di uccidere

Domenica 23 marzo 2014

di Ilaria Marsanich

La Dia, Direzione Investigativa Antimafia è l’ acquisizione, l’analisi delle informazioni e dei fenomeni criminali di stampo mafioso. Investigazioni giudiziarie per il contrasto alla criminalità organizzata. In poche parole sono man in black della realtà, coloro che lavorano per la nostra protezione che si mimetizzano tra la gente comune per scovare i criminali. A capo ci sono dirigenti scelti tra la polizia che hanno sviluppato nel corso della carriera una specifica esperienza nel settore. Proprio come nei film agiscono sotto copertura, nel totale silenzio. Questo particolare corpo di polizia impiegato per catturare determinati soggetti molto pericolosi, non li si vede mai in faccia sempre coperti dai passamontagna. È composto da personale specializzato, adeguatamente addestrato e organizzato per queste operazioni da film come “squadra antimafia”. Insomma una squadra da vero premio Oscar, che in silenzio opera per la nostra salvaguardia.

La Dia

di Sabrina Autiero

Carcere duro?

Il 41 bis,meglio conosciuto come “ carcere duro”,è un regime di custodia carceraria con restrizioni e controlli speciali. Introdotto nel 1986 per dissuadere le rivolte nelle carceri, fu esteso -in seguito alla morte di Giovanni Falcone - anche ad alcuni detenuti incarcerati per reati di criminalità organizzata, terrorismo, eversione. Lo scopo è quello di ostacolare i contatti tra i detenuti sia all’interno del carcere,sia all’esterno. Fin qui nulla da obiettare. Tuttavia le controversie sono molte. Nonostante le limitazioni prevedano un numero minore di colloqui con i familiari (tutti attraverso un vetro blindato e sottoposti a videocontrollo); non più di tre colloqui a settimana con i legali; massimo due ore d’aria al giorno e con non più di quattro persone; pene più alte per chi aiuta i detenuti a comunicare con l’esterno, è stato dimostrato che per i boss non è comunque così difficile riuscire a inviare messaggi in codice. “Basta che si poggi una bottiglia d’acqua sul tavolo,durante i colloqui col detenuto, per eludere la sorveglianza del 41 bis”, rivela il capo della DIA,“si possono cerchiare le lettere sulle confezioni,comporre nomi e dare il via ad una conversazione in codice”. Molti sono i casi in cui è stato accertato che i detenuti siano realmente riusciti a comunicare con l’esterno e a dare ordini. Tra questi vi è anche il caso di Mariano Agate : – l’uomo che era più vicino al boss Salvatore Riina - ,arrestato nel 1983 da Giovanni Falcone, successivamente viene inserito nel regime del 41 bis e riesce ad eluderlo. Eppure c’è chi invece sostiene che sia la forma di regime carcerario più dura e disumana in assoluto, soprattutto a causa dell’elevata percentuale di suicidi, tentati suicidi e alla manifestazione di malattie psichiatriche. In ogni caso il 41 bis, insieme al 416bis (il reato di associazione mafiosa), resta il miglior modo – se non l’unico – di tenere sotto controllo individui che altrimenti minerebbero la sicurezza e l’ordine pubblico.

Domenica 23 marzo 2014

di Sabrina Lanza

“Gli obiettivi della camorra sono le cose, quelli della mafia, le persone”. E’ con questo enunciato che Giuseppe Linares, capo della DIA di Napoli, evidenzia la prima sostanziale differenza tra i due tipi di attività criminali organizzate più conosciute, forse a livello mondiale. La mafia, spiega Linares, è riuscita, col tempo, ad amalgamarsi ai tessuti della società, divenendo una realtà complessa che cura i suoi affari attraverso la politica. Il popolo stesso la vede come una potente istituzione da rispettare, fatta di regole e gerarchie ben precise. La camorra invece, è spesso frutto della misera e della disperazione; nasce nelle zone meno abiette della città e finisce per coinvolgere coloro che hanno la necessità di sopravvivere e che sentono così di potersi ribellare allo Stato. Proprio perché nascono da principi diversi, mafia e camorra sono anche strutturate in maniera differente, al loro interno. La mafia ha pochi ma solidi punti di riferimento. Sono poche e ben conosciute le “famiglie” che si occupano di gestire territorio e affari. La camorra invece, manca di nuclei centrali, si organizza in maniera dispersiva e non verticistica; tant’è che le numerose “famiglie camorristiche” vengono spesso e volentieri in contrasto l’una con l’altra. Anche gli atteggiamenti e le priorità tendono a non combaciare. I mafiosi sono caratterizzati da serietà, discrezione e determinazione. I camorristi, diversamente, propendono verso la strafottenza, la spacconeria, l’attrazione per il lusso e un atteggiamento, spesso eccessivamente, violento. Si fa dunque un po’ di chiarezza su due realtà apparentemente simili, spesso erroneamente associate in termini di sostanza ma che invece risultano divergenti sotto tanti aspetti. A cominciare dalla storia, dagli scopi e dalla “filosofia di vita” di

coloro che ne fanno attivamente parte.

Mafia e Camorra

Pentito: da criminale a

collaboratore

di Ida De Stasio

I collaboratori sottoscrivono un "contratto" con lo Stato basato sulla fornitura di informazioni provenienti dall'interno dell'organizzazione criminale in cambio di benefici processuali, penali e penitenziari, della protezione e del sostegno economico per sé e per i propri familiari. I collaboratori di giustizia, che in gergo vengono definiti "pentiti", sono un elemento indispensabile nella lotta contro le mafie, così come per altri versanti lo sono stati negli anni '70 e '80 del secolo scorso relativamente al fenomeno del terrorismo. Essi, infatti, permettono di conoscere:come le organizzazioni criminali sono strutturate ,quali obiettivi perseguono, quali strategie adottano, di quali rapporti di connivenza o di collusione si nutrono, quali delitti hanno compiuto o intendono compiere. I collaboratori di giustizia, inoltre, permettono:l'arresto di importanti boss mafiosi, il sequestro e la confisca di patrimoni illecitamente accumulati, di evitare l'uccisione di alcune persone finite nel mirino delle cosche. Un mafioso che inizia la sua collaborazione con lo Stato viola una regola fondamentale delle organizzazioni mafiose: la consegna del silenzio, l'omertà, che è garanzia del mantenimento della segretezza, di esercizio del potere e di assicurazione dell'impunità. Nel mondo mafioso, tali collaboratori vengono considerati "infami" e vengono colpiti dalle cosiddette "vendette trasversali", dove i loro cari sono stati vittime di feroci agguati. Le dichiarazioni dei collaboratori e quelle dei testimoni devono essere oggettivamente riscontrate dagli investigatori al fine di constatarne la loro veridicità. Appurato che la collaborazione o la testimonianza siano veritiere, i collaboratori sono inseriti in un apposito programma di protezione. Una apposita Commissione ministeriale, denominata Commissione centrale, presieduta da un sottosegretario di Stato e composta da magistrati ed investigatori valuta e decide l'ammissione dei soggetti allo speciale programma di protezione, nonché la modifica e la revoca dello stesso. La struttura che attua il programma di protezione è il Servizio centrale di protezione, il quale si occupa dell'assistenza e della promozione di misure per il reinserimento nel contesto sociale e lavorativo dei collaboratori di giustizia e degli altri soggetti ammessi al programma. Il Servizio mantiene i rapporti con le Autorità Giudiziarie e di Pubblica Sicurezza, nonché con i competenti organi dell'Amministrazione Penitenziaria e con tutte le altre Amministrazioni centrali e periferiche eventualmente interessate. Nel 2001, la legislazione in materia di collaboratori di giustizia è stata modificata dal Parlamento. La legge 13 febbraio 2001, n. 45 ha stabilito innanzitutto una formale e netta distinzione tra collaboratori e testimoni di giustizia nonché un diverso regime giuridico di trattamento tra le due figure; ha stabilito criteri più rigidi per la selezione delle collaborazioni; ha introdotto il limite temporale di centottanta giorni, periodo entro il quale il collaboratore deve confessare tutte le informazioni e gli elementi di cui è a conoscenza; infine, ha introdotto, per l'ammissione ai benefici penitenziari, dei limiti di pena da scontare in carcere nella misura di un quarto della pena inflitta e, in caso di condanna all'ergastolo, di dieci anni di reclusione.

Domenica 23 marzo 2014

di Gennaro Iovine

L'intercettazione nel diritto processuale penale italiano è un mezzo di ricerca della prova tipico, in quanto previsto e disciplinato dall'art. 266 e seguenti del codice di procedura penale italiano. Essa consiste nell'attività diretta a captare comunicazioni e conversazioni, nonché flussi di comunicazioni informatiche o telematiche mediante strumenti della tecnica. L'intercettazione tende a limitare gravemente alcune importanti libertà costituzionali, fra cui la libertà di comunicazione del pensiero e la libertà domiciliare, per cui sono dettate particolari norme procedurali volte a garantire la legittimità formale e sostanziale dell'attività. Nella materia delle intercettazioni vige la riserva di legge e la riserva di giurisdizione, in quanto previste espressamente dalla Costituzione. Il codice di procedura penale prevede dei limiti e dei presupposti e una disciplina procedimentale molto rigorosa. Tutti i corpi dello stato utilizzano questa tecnica per riuscire a risolvere i casi a loro affidati. Tra chi utilizza le intercettazioni c’è sicuramente la DIA(Direzione Investigativa Antimafia), ma come ci spiega Giuseppe Linares, dal settembre del 2013 a capo della Dia di Napoli; Ex dirigente della Divisione anticrimine della questura di Trapani ed ex capo della squadra mobile della città siciliana, non sempre è possibile essere rintracciati. Infatti i latitanti usano spesso metodi medievali come i pizzini per non essere intercettati e continuare sfuggire alle forze dell’ordine. Fino a poco tempo fa anche il software per comunicare Skype non era intercettabile ma poi attraverso degli studi è stato creato un algoritmo l’AES(Advanced Encryption Standard) con il quale è diventato più semplice effettuare anche intercettazioni sulla rete.

Le intercettazioni

Supertestimoni, coraggio da vendere

di Marzia Muto

“ Gli esercenti di Ercolano si sono ribellati al racket, denunciando gli estorsori, e hanno liberato, così, il comune dal pizzo. Testimoniando, hanno messo la loro vita in pericolo e ora girano con la scorta 24h/24” queste le parole del colonello Conforti, che vuole mettere in evidenza il grande coraggio dei supertestimoni di giustizia. Portatori di informazioni determinanti, che dopo un riscontro, possono risultare centrali per un’indagine. Vittime o semplici testimoni, che decidono di rompere la cappa di omertà per aiutare lo Stato nella lotta contro le organizzazioni malavitose, mettendo a rischio la propria vita e quella dei propri familiari, perché la mafia non perdona chi si ribella al sistema. Veri e propri eroi dei nostri tempi, costretti a lasciare la propria terra, i propri affetti, a cambiare la propria identità o a vivere con la protezione delle forze dell’ordine 24h/24. Insomma, rinunciare al proprio passato, essere risucchiati da un buco nero e andare in “esilio” o rinunciare alla propria solitudine e al piacere di girare liberi per la propria città? Nel primo caso, lo Stato fornisce ai testimoni una casa in una località protetta ed eroga un contributo di circa 2500 euro mensili, cercando di garantirgli uno stile di vita simile a quello precedente. Nel secondo caso, uomini delle forze dell’ordine si alternano tutto il giorno per sorvegliare e proteggere le vite dei testimoni. A fronte della paura di un pericolo costante e di un radicale cambiamento della propria vita la quantità di testimoni di giustizia è sempre più esigua.