Fantasmi #2

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Romanzo breve, spin off della Serie TV Sherlock BBC - scritto da Stefania Auci per la Rubrica 'Once a week' - Diario di Pensieri Persi

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Romanzo breve, spin off della Serie TV Sherlock BBC

scritto da Stefania Auci

< www.stefaniaauci.com >

Questo è un romanzo pubblicato a puntate

gratuitamente sulla Rubrica Once a Week

del Blog Letterario Diario di Pensieri Persi

< www.diariodipensieripersi.com >

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Speedy Cafe si stava lentamente svuotando dagli ultimi avventori. Fuori, un tempo da lupi si accaniva su Londra, prova di forza di un inverno che voleva scal-zare a tutti i costi un autunno sin troppo mite.

Il campanello della porta tintinnò con delicatezza e John Watson sollevò gli occhi dal quotidiano che aveva preso al bancone. Accanto a lui, un grosso sacco di juta, pieno delle ultime cianfrusaglie che Mrs Hudson aveva raccolto per lui. In superficie occhieggiava il cuscino con la bandiera Britannica che apparteneva a Sherlock, l’unica cosa che John aveva chiesto a Mycroft di poter tenere.

John respirò a fondo, ancora incredulo, ancora arrabbiato con sé stesso e con il mondo per ciò che era accaduto. E no, non riusciva a perdonare. Malinconia e collera si mescolavano in una pericolosa alchimia che rischiava di farlo esplodere da un momento all’altro. Per questo aveva deciso di tornare in analisi: per riuscire a recuperare quell’equilibrio che aveva perduto in un solo istante, dinanzi al Sant Bart’s. Perché quella persona che si era buttata di sotto, Sherlock Holmes, non era un imbroglione o un pazzo, e non era nemmeno il suo compagno.

Era il suo migliore amico. Il suo unico amico. “Ciao John”.

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L’uomo si avvicinò a passi leggeri, cauto, come se si stesse accostando a un animale spaventato. John replicò con un cenno secco.

“Posso sedermi?”Imbarazzo. Sì, un anno e mezzo con Sherlock Holmes non era passato invano e adesso

John era in grado di leggere con facilità le emozioni che si nascondevano dietro un tono di voce basso o un gesto improvviso. Annuì. Non aveva senso esser arrabbiati con lui, dopo tutto ciò che era successo.

Ciascuno in quella storia aveva la sua parte di colpa. Il proprio rimorso con cui fare i conti.

Gregory Lestrade si lasciò cadere dinanzi a lui, abbandonandosi contro il se-dile di plastica. Alzò il dito per chiedere un caffè macchiato, poi si sfilò il soprabito e incrociò le mani sul tavolo.

“Come va?”, chiese cercando di essere amichevole.Il ghigno amaro di John fu una risposta sufficiente. “Va. Non è facile ricomin-

ciare a lavorare dopo che ti hanno distrutto la vita, ma ci sto provando”.A disagio, Greg abbassò lo sguardo. Dopo che Sherlock si era suicidato – Cri-

sto santo, come aveva potuto? Lui? – anche le risorse economiche di John si erano ridotte al minimo. Sapeva che stava cercando un lavoro, ma tutti erano restii a fidarsi di un tizio che, a detta dei giornali, era stato il socio di uno dei più grandi lestofanti di tut-ti i tempi. In una parola, John Watson sarebbe finito sul lastrico da lì a pochi giorni.

“Dove vivi per adesso?” gli chiese, mettendolo zucchero nel caffè che era appena arrivato.

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“A casa di Harry. Anche lei non se la sta passando bene”. Fece una pausa. Con il dito seguì il profilo di una crepa sulla superficie di formica. Lestrade si ac-corse che gli tremava la mano. “Ha dei problemi di salute. Il fegato”. Alzò la testa abbozzando un sorriso. “Almeno con lei posso ancora esercitare il mio mestiere”.

Poi John appoggiò i gomiti sul tavolo, puntellando il mento sul pugno. Aveva notato lo sguardo di Greg appuntarsi sulla sua mano. “Perché hai voluto vedermi?” chiese, diretto.

Le labbra di Lestrade si chiusero in una smorfia amara, mentre le dita si allar-gavano sul tavolo come due soli scuri e accartocciati. Trovare le parole era sempre difficile: lui ne sapeva qualcosa. Aveva passato anni ad annunciare a genitori, mogli o figli che un loro congiunto era morto, spesso in circostanze orribili.

Ma mai, mai nessun caso lo aveva coinvolto tanto.Sherlock Holmes non era un suo amico. Forse. Sì maledizione, lo era. E lui

si era comportato come l’ultimo dei vigliacchi: aveva permesso che il ragionevole dubbio si insinuasse nella sua mente – già, aveva detto bene, lui, quella sera. Vi aveva messo radici – aveva accettato le decisioni del sovraintendente, aveva… arrestato Sherlock. Lo aveva messo all’angolo. E si sa, le persone disperate compiono gesti disperati.

Però…“Hanno chiuso l’inchiesta relativa al rapimento dei due bambini. Sherlock è

stato dichiarato il rapitore dei figli dell’ambasciatore”.Il sospiro di John fu più simile a un ringhio. “Figuriamoci. I tuoi colleghi

hanno brindato?”“John, ascoltami”. Lestrade sollevò una mano per bloccare le sue obiezioni.

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“Sai che mi hanno estromesso dal caso, così come sai a chi è stato affidato. Non potevi aspettarti nulla di diverso: era un verdetto già scritto”.

Lo sguardo dell’altro uomo trasudava disgusto e shock. “Scommetto che ri-apriranno i vecchi casi. Vorranno vedere cosa ha combinato, no? Magari scoprire che ha ipnotizzato Peter Ricoletti per lasciarsi arrestare”.

“Irritato, Greg sbuffò. “Calmati” gli ingiunse. “Non è solo per questo che sono qui.”

L’occhiata in tralice di John fu tagliente. “Di che si tratta?”L’ispettore di Scotland Yard si massaggiò il mento, pensieroso. Così come un

sospetto aveva messo casa nella sua mente, così un altro, ben più doloroso e terribi-le lo stava scalzando. Tutto stava lì, nel rapporto della balistica sul corpo di Richard Brook, trovato sul tetto del Saint Bart’s.

Ammesso che si chiamasse Richard Brook…Lestrade tornò a guardare John Watson. Si era chiesto molte volte come

avrebbe reagito alle proprie riflessioni, cosa gli avrebbe detto. Non importava: quella sarebbe stata la sua parte di pena. Non era giusto che un uomo buono e coraggioso come quell’ex medico militare soffrisse da solo.

Lentamente, estrasse dalla tasca dei pantaloni un foglio piegato. “Me lo ha dato un amico della Scientifica stamane. Gli ho chiesto cos’era accaduto quando ho visto la faccia di Donovan stamattina, in ufficio”.

John sfiorò quel foglio che Lestrade gli tendeva quasi con sospetto. Lo prese e lo spianò. Lo lesse. Due volte.

“Si è davvero suicidato”. John alzò gli occhi, lo sguardo diviso tra incredulità 8

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e collera. Subito dopo la morte di Sherlock e il ritrovamento del cadavere di Mo-riarty – poiché così si chiamava, e non certo Brook – Scotland Yard aveva ipotizzato che Sherlock Holmes avesse ucciso il povero attore spiantato per metterlo a tacere, e che poi ne avesse simulato il suicidio. L’ipotesi della polizia era divenuta la certezza della stampa e al rapimento dei bambini si era aggiunta anche l’accusa di omicidio. La reputazione di Sherlock ne era uscita annientata.

Ma adesso… questo rimetteva tutto in gioco. E Lestrade era lì per dirglielo.John sventolò il foglio. “Quando diffonderanno la notizia? O no, aspetta: non

lo diranno affatto. È stato facile distruggerlo, non è vero? Quante volte vi aveva fatto fare la figura degli idioti? Venti, trenta? E adesso…”

Lestrade abbassò gli occhi sulla tazza vuota. “Uscirà sui giornali del matti-no”. Alzò la testa con un profondo sospiro. “Non sei l’unico ad avere dei dubbi. Qualcosa è accaduto su quel tetto, qualcosa di cui nessuno ha idea. Ho avuto molto tempo per riflettere e sono giunto a una conclusione: io so cosa ho visto accanto a Sherlock Holmes, cosa gli ho visto fare, come riusciva a trovare prove la dove nes-suno ne avrebbe viste. Cinque anni di acrobazie mentali che mi facevano ribollire di rabbia e di… ammirazione. Io lo rispettavo, John. Io lo stimavo. Ho avuto paura quando Sally Donovan mi ha portato quelle coincidenze, quelle… prove. Io vorrei non averne avuta. Vorrei aver avuto più fiducia in lui”.

John avvertì un sapore amaro in bocca, seguito da quello acre della collera. Infine una calma piatta: rassegnazione. “Perché adesso, Greg? È troppo tardi”, mormorò. “Tu e io sappiamo che non era un imbroglione.”

“Io glielo devo”. Greg si alzò. Prese il soprabito e lo indossò con gesti lenti. Era stanco, ma per la prima volta dopo quasi un mese, sentiva di aver agito nel

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modo giusto. Non gli importava che qualcuno avesse potuto scoprire che quella “fonte attendibile” di Scotland Yard fosse lui. Voleva guardarsi di nuovo allo specchio la mattina senza dover distogliere lo sguardo in fretta, vergognandosi di ciò che vedeva.

Rimasto solo, John tirò fuori dalla tasca il cellulare. La notizia che gli aveva dato Gregory era solo una goccia in un oceano di rabbia e menzogne che si erano accumulate in quei giorni. Grazie al cielo, il tempo è davvero il miglior medico del mondo: dopo aver rosicchiato la vita e il passato di Sherlock come una iena che spolpa le ossa, i tabloid si erano stufati di quella storia ed erano passati oltre.

Sul display luccicavano data e ora. Era tardi, sarebbe dovuto andare a pren-dere la metropolitana per tornare da Harry, e domani… un altro giro all’ufficio di collocamento.

Sovrappensiero, iniziò a scorrere i numeri per chiamare sua sorella e avvi-sarla che avrebbe preso della roba pronta, lì allo Speedy, e che non si affannasse a cucinare.

Con una mano occupata dal sacchetto e nell’altra il telefono cellulare, John uscì per strada. Era buio, continuava a piovere e Baker Street era deserta, spazzata da un vento freddo. La pioggerella era leggera, più simile alla nebbia che a uno scroscio, e sfumava i contorni degli edifici, le sagome dei lampioni e delle grate. Con una stretta al cuore, John alzò la testa a fissare le finestre del suo ex apparta-mento: buie. Occhi spenti di un’anima vuota.

Deglutì a vuoto e cliccò il pulsante di chiamata senza guardare il numero.

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Non si accorse subito di aver sbagliato: era sovrappensiero. Lo comprese solo quando guardò il display, stupito del fatto che la sorella non rispondesse dopo così tanti squilli.

Holmes, Sherlock. Il suo numero era subito dopo quello di Harriett Watson in rubrica. Lo aveva registrato così, la prima volta che lo aveva conosciuto: con il co-gnome, secondo l’abitudine acquista con gli anni trascorsi nell’esercito.

Era stata la suoneria lontana, eppure familiare di un iPhone a riscuoterlo dal torpore, facendolo fermare sul marciapiede. Un trillo attutito che lo aveva costretto a voltarsi, a scrutare tra le sagome nere della strada deserta e fra le auto per cer-care inutilmente qualcuno che ormai era solo un’ombra. Era stata una sensazione dolorosa e insieme calda: un fiotto di speranza morto subito, come un bambino appena nato.

Che strana coincidenza che quel telefono lontano avesse lo stesso squillo.

Dall’interno di una Jaguar parcheggiata a una decina di metri dal numero 221 B di Baker Street, Sherlock Holmes fissò il display luminoso del suo cellulare che perdeva colore per poi tornare scuro. L’ombra frettolosa di John Watson stava lasciando la via, dirigendosi verso la metropolitana.

Vederlo era stato… strano. Difficile. Così come lo era stato al cimitero, dove aveva ascoltato le sue parole: una dichiarazione di affetto e di stima che non aveva mai pensato di poter suscitare, non in quei termini.

Affetto. Lui non era un uomo che suscitava affetto. Ammirazione forse. Irrita-zione, più probabile.

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Vedere quella chiamata sul suo iPhone lo aveva sorpreso, causandogli un disagio che assomigliava al senso di colpa, o al rimpianto: non avrebbe saputo dir-lo. Per un attimo, aveva persino pensato che il mite John avesse compreso il gioco raffinato e mortale che stava conducendo, che lo avesse scorto lì, seduto sul sedile posteriore della Jaguar di Mycroft.

Poi, lo aveva osservato e aveva compreso che doveva trattarsi di un errore.John appariva provato e stanco, così come lo era Lestrade: lo aveva visto al-

lontanarsi con la testa incassata tra le spalle e in bavero dell’impermeabile chiuso sul petto. Ma John lo preoccupava. Mycroft doveva certo sapere come se la stava passando ed era ovvio che la risposta era: male.

Avrebbe posto rimedio anche a questo. Un altro nome sulla propria lista.Respirò a fondo, poi sollevò il colletto del cappotto, affondò il viso nella sciar-

pa, e scese dall’auto. Non disse una parola, né l’autista chiese cosa fare. Era da sfacciati penetrare al 221 di Baker Street dalla porta d’ingresso: qual-

cuno avrebbe potuto vederlo e scambiarlo per un ladro. O un fantasma. Ma era da lì che dovevano partire le sue indagini: dal cammino che Jim Moriarty aveva fatto quel giorno

Quando lo aveva sfidato.

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“Nulla?”“Nulla”.“Peccato. Speravo che Jim Moriarty avesse lasciato una traccia a Baker Stre-

et”. Sherlock sorrise sollevando solo un angolo delle labbra. “Hai preso tu i miei

oggetti per portarli a Little Priory. Suppongo che la tua ricerca sia stata approfon-dita”.

“Ma non completa.” Mycroft accarezzò l’impugnatura del suo ombrello. “È casa tua. Solo tu sei in grado di vedere cose che altri non avrebbero potuto coglie-re”.

Il fratello appoggiò il viso al pugno chiuso. “Ho controllato le scale. I gradini. L’intelaiatura della porta”, rise sottovoce. “Mrs. Hudson parla nel sonno”.

Si voltò verso l’altro uomo seduto accanto a lui. “Il codice non è a Baker Street. Probabilmente non c’è mai stato. Moriarty non avrebbe affidato qualcosa di così prezioso a un oggetto che poteva andar perso, o distrutto. Deve trattarsi di qualcosa di più… particolare”. Scosse la testa arricciando le labbra in una piega nervosa e tornò a osservare il paesaggio cittadino, spruzzato da un acquazzone notturno.

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Londra scorreva sotto i loro occhi, immersa nella notte. Nelle strade lucide, pochi passanti frettolosi. La pioggia illuminava l’asfalto: olio sulle pietre levigate da migliaia di ruote. Nell’abitacolo, un silenzio stizzito.

Mycroft strinse appena le labbra, unico segno visibile del disappunto che pro-vava. Stava per parlare, ma fu interrotto dal trillo sommesso del proprio Blackberry.

“Ah”, mormorò quando apparve il prefisso sul display.Sherlock osservò il viso del fratello irrigidirsi attraverso l’immagine riflessa

nel vetro che li separava dal conducente. Un collega, senza dubbio. Ministero della difesa secondo il numero. Massima priorità, atteso che la chiamata giungeva alle due del mattino di sabato.

Un’altra effrazione. Questa volta coronata da successo.Sherlock lanciò un’occhiata in tralice al fratello che, nel frattempo, aveva ri-

chiuso la conversazione. “Vorrei vedere il luogo”.Mycroft annuì una volta sola. “È lì che stiamo andando.”

Luci al neon, un ascensore ricoperto da tavole di alluminio. I passi dei due uo-mini risuonarono lungo il pavimento di ceramica opaca, diversi metri sotto terra.

“La sala operativa del comando O.S.”, spiegò Mycroft in una parola. Nello sguardo grigio, un avvertimento. Massima riservatezza. Sherlock raccolse l’intima-zione con un’alzata di sopracciglio carica di sufficienza.

Uomini in divisa scura erano fermi dinanzi alle porte blindate che avevano

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superato dopo il controllo dei documenti. Giunsero in un atrio rivestito di metallo chiaro; in un angolo, un secchio con dell’acqua scura e due militari con un carrello per le pulizie.

“Quanti morti?” chiese Sherlock a mezza voce.“Due guardie. Un colpo alla testa con silenziatore”. Mycroft proseguì spedito,

mentre le porte si aprivano senza una parola, senza un cenno. Una magia dettata dalle telecamere a infrarossi, celate nel controsoffitto.

Infine, i due fratelli Holmes giunsero a una porta di metallo opaco. Mycrof tese l’ombrello e il soprabito al fratello. “Vorresti…?”

Sherlock tese il braccio e prese gli oggetti del fratello. Quest’ultimo si sfilò il guanto e digitò una combinazione su un pannello accanto la porta. La parete si aprì, rivelando uno schermo a cristalli liquidi: Mycroft vi poggiò la mano e attese.

La luce dello schermo divenne rossa. Poi, marrone cupo. La porta di me-tallo assunse una sfumatura perlacea e si aprì scivolando all’interno della parete, svelando l’interno di una sala affollata di uomini in gessato scuro e donne in abito formale.

“Accesso con barriera impedenziometrica”, spiegò Mycroft. “Nel sistema di sicurezza vengono registrati il peso, la temperatura corporea e la pressione sangui-gna. Più sicuro dell’impronta vocale o della scansione retinica. È uno dei motivi per cui devo mantenere il mio peso stabile”.

Riprese l’ombrello e il soprabito. “Dopo di te, fratello”. Sherlock strinse gli occhi, concentrandosi su ciò che lo circondava. Nelle vene

avvertì la familiare, meravigliosa sensazione che lo sommergeva quando era sulla scena di un crimine: qualcosa che oscillava tra il piacere e il bisogno di rintracciare

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i fili che si nascondevano nel tessuto di una realtà che nessuno o quasi riusciva a leggere.

Nella penombra brillavano gli schermi di decine di computer su cui erano chini volti pallidi, ingrigiti dal buio e dai neon. Al centro, vi era un’immensa posta-zione circondata da una barriera di vetro smerigliato, da cui proveniva una lumi-nosità azzurrata.

Mycroft si diresse verso quel nucleo pulsante di luce. Non si guardò indietro: sapeva che suo fratello lo avrebbe seguito. Gli stava dando il tempo di registrare ciò che stava accadendo in quella stanza. Di comprendere.

Sherlock girò lentamente su se stesso, ignorando le occhiate perplesse dei presenti. Computer. Lingue straniere, almeno venticinque. Fusi orari. Videoconfe-renze. Report finanziari dal Medioriente. Andamento della borsa di Pechino. Stato delle trivellazioni del petrolio in Russia. La crisi libica. I bacini di carenaggio della Corea.

Minimo comune denominatore. Con gli occhi, Sherlock seguì il percorso che portava dalla porta alla posta-

zione principale. Sette metri da percorrere su una passerella che copriva decine di cavi. Si chinò sfiorando con le dita la griglia che componeva la passerella: era pulita. Nessuna traccia organica o chimica.

Alzò la testa. Mycroft lo stava fissando. Sherlock sorrise appena, sollevando un angolo delle labbra.

“Non hanno trovato nulla, non è vero? I tuoi… colleghi non hanno rilevato nulla”. Il sorriso si allargò impercettibilmente.

“Questo non è esatto, signore”.16

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La voce era pedante, venata da una sorta di fastidio. Una voce femminile.Capelli rossi raccolti in alto. Tailleur Ferrè scuro. Camicia in seta. Poco più

che quarantenne, a giudicare dalle sottili rughe di espressione che le segnavano lo sguardo. Tennista accanita.

“Ma’am… mio fratello. Sherlock Holmes”. Mycroft tese la mano verso il fra-tello in un gesto che era insieme un ordine e un invito ad avvicinarsi.

La donna lasciò il cono di luce azzurrata della postazione centrale e si avvici-nò all’investigatore. Indossava delle Laboutin che le regalavano parecchi centimetri in più. “Siete molto concreto per essere un fantasma, signor Holmes”.

Lo studiò per una manciata di secondi prima di tendere la mano. “Miriam Craig. Responsabile dell’O.S.”

Sherlock la scrutò per alcuni istanti prima di rispondere. Ignorò la mano tesa, lasciando scorrere lo sguardo nella sala immersa nella penombra. “Essere incorporeo non mi permette di agire come vorrei. Dunque, dopo aver valutato i pro e i contro, ho preso di nuovo possesso del cadavere che era stato conservato all’obitorio”.

Mycroft represse un sospiro di insofferenza. “Mio fratello ha scelto di… colla-borare con il Governo per aiutarci a rintracciare la chiave dei codici”.

Le mani di Sherlock si allacciarono dietro la schiena, mentre il suo sguardo grigio si spostava lentamente dal fratello alla donna. “Dati sulla produzione petroli-fera del medio Oriente nei prossimi due anni. Sono questi i files che hanno sottrat-to”, si inclinò in avanti. “Si tratta dei dati effettivi. Della reale quantità di petrolio di cui il mondo occidentale dispone, che è inferiore rispetto a quanto dichiarato sino a oggi”.

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Le labbra della donna si inclinarono in una smorfia amara. “Notizie che po-trebbero gravemente alterare le condizioni del mercato generando una grave crisi economica”.

“Cioè una corsa speculativa che getterebbe l’economia nel baratro: meno carburante, minor produzione industriale, minori consumi. In una parola: una lun-ga recessione per molti anni, con conseguente crescita delle tensioni internazionali tra paesi produttori di petrolio e resto del mondo”, concluse Mycroft.

“Non è solo la situazione della Gran Bretagna a essere in pericolo. In verità, le nostre condizioni sono privilegiate, poiché disponiamo delle riserve petrolifere del mare del Nord. È il quadro generale che sta assumendo contorni preoccupanti”.

Miriam Craig tornò nella postazione, facendo cenno ai due Holmes di seguir-la. Indicò una finestra sullo schermo al plasma del computer: l’icona lampeggiava in rosso.

“I dati europei”, mormorò Mycroft. “Significherebbe il tracollo del sistema produttivo per i paesi più deboli”. Per un istante, qualcosa di simile all’angoscia affiorò sul suo viso, subito sostituita da una fredda maschera di compostezza.

Miriam si voltò, appoggiandosi al desk della postazione. Fissò Sherlock in viso. Aveva occhi verdi, grandi e distanziati tra loro. “Dovete aiutarci”, disse. Il tono di voce era quello di chi non è abituato a esser contraddetto.

Sherlock inclinò la testa, scrutando oltre la vetrata. Aveva un’aria distratta, persino annoiata. “Non vedo come potrei. Non sono un perito informatico”.

“Non è un problema. Le sarà fornito un valido aiuto. Tuttavia, quello che interessa a noi...”, considerò la donna, lanciando un’occhiata verso Mycroft, che assentì “...sono le sue doti… umane.”

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Nello sguardo grigio dell’uomo si accese una scintilla di divertimento: nessu-no aveva definito mai le sue capacità di osservazione e deduzione umane. Nessuno tranne John.

La donna e suo fratello lo fissarono per alcuni istanti. Sotto la durezza degli sguardi, Sherlock lesse la tensione.

“D’accordo. Vorrei vedere i filmati della sorveglianza”, acconsentì. “Fare una chiacchierata con il vostro esperto informatico. Ma prima di tutto, vorrei dare un’occhiata ai cadaveri dei sorveglianti.”

K. Jake non si era mai curato troppo delle regole delle teste d’uovo con cui lavorava. Roba del governo? Orgoglio inglese? Attaccamento alla madrepatria?

Bah. Gli interessava soltanto che gli passassero erba della miglior qualità – su que-

sto era stato categorico – un po’ di porno orientale e una mezza dozzina di tavo-lette Diary Milk al giorno. Ah, e centinaia di migliaia di sterline l’anno in un conto alle Cayman, dove si sarebbe ritirato… prima o poi. Spiaggia, Daiquiri e belle fighe: ecco qual era il suo futuro. Aveva ventun anni, poteva aspettare ancora un po’ per godersi la vita.

Non gli pesava stare chiuso lì, sottoterra per giorni e giorni, né non vedere gente che non fossero quegli impiegati in completo grigio che sembravano imbal-samati con la formaldeide. Gli piaceva la tizia con i tacchi, la signora Craig, e i due militari che sorvegliavano la porta nei giorni dispari. Per il resto, potevano andare tutti a farsi fottere. Gli davano da mangiare, da bere e da dormire. Andava già bene così.

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Tuttavia, quel giorno doveva essere successo qualcosa. Lo aveva sentito at-traverso la porta, oltre i muri; ne aveva avuto la certezza quando era penetrato nel sistema di sicurezza che lui stesso aveva costruito.

Un’intrusione. Una cazzo di intrusione nel suo sistema. Chi aveva potuto tanto? Come era

stato possibile? Lui, Kane Jake Sutton, a quattordici anni aveva mandato in tilt il sistema

informatico del ministero dell’istruzione solo per impressionare i suoi compagni di scuola. Lui aveva bypassato il sistema della Royal Bank of Scotland a sedici. A diciassette lo avevano arrestato per frode informatica e hackering.

E poi… Diosanto, era infuriato. Nessuno, nessuno, poteva superare i suoi codici di

sicurezza. Aggredì la tavoletta di cioccolato e la finì in un paio di bocconi; poi accese lo

stereo a tutto volume. Wagner. Un’altra delle sue passioni. “Ti stanerò, stramaledetto bastardo…” mormorò tra i denti, masticando

un’altra tavoletta di cioccolato. Non si accorse dell’uomo vestito di scuro che era scivolato nella stanza, pro-

tetto dal buio. Non udì i passi che giungevano alle spalle. Ciò che vide fu solo un riflesso nello schermo quando era ormai alle sue spal-

le.

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