FACOLTA’ DI STUDI UMANISTICI CORSO DI LAUREA IN...

33
FACOLTA’ DI STUDI UMANISTICI CORSO DI LAUREA IN FILOSOFIA ANNO ACCADEMICO 2014/2015 STORIA DELLA FILOSOFIA POLITICA (docente: prof.ssa Annamaria Loche) Testi di appoggio per il corso Il totalitarismo e le forme del potere assoluto

Transcript of FACOLTA’ DI STUDI UMANISTICI CORSO DI LAUREA IN...

Page 1: FACOLTA’ DI STUDI UMANISTICI CORSO DI LAUREA IN ...people.unica.it/annamarialoche/files/2012/04/Storia-fil-politica... · Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla filosofia

FACOLTA’ DI STUDI UMANISTICI CORSO DI LAUREA IN FILOSOFIA

ANNO ACCADEMICO 2014/2015

STORIA DELLA FILOSOFIA POLITICA

(docente: prof.ssa Annamaria Loche)

Testi di appoggio per il corso

“Il totalitarismo e le forme del potere assoluto

Page 2: FACOLTA’ DI STUDI UMANISTICI CORSO DI LAUREA IN ...people.unica.it/annamarialoche/files/2012/04/Storia-fil-politica... · Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla filosofia

2

INDICE

Platone, La Repubblica p. 3

Aristotele, Politica p. 7

Niccolò Machiavelli, Il Principe p. 8

Jean Bodin, I sei libri della Repubblica p. 10

Thomas Hobbes, Leviatano p. 14

John Locke, Il Secondo Trattato sul Governo Civile p. 18

Charles Louis de Montesquieu, Lo spirito delle leggi p. 19

Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia p. 21

Carl Schmitt, La dittatura p. 22

Benito Mussolini, Fascismo (voce dell’Enciclopedia Italiana) p. 26

APPENDICE

Hanna Arendt, Ideologia e terrore, da Le origini del totalitarismo p. 31 (tr.it. Comunità, Milano 1996, pp.630-656)

Page 3: FACOLTA’ DI STUDI UMANISTICI CORSO DI LAUREA IN ...people.unica.it/annamarialoche/files/2012/04/Storia-fil-politica... · Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla filosofia

3

Platone, La Repubblica, (tr.it. a cura di Giuseppe Lozza, Mondadori, Milano 1990)

Libro VIII, 562a-564a (pp.669-693)

XIV «Ora ci rimarrebbe la descrizione del regime e dell’individuo migliori: della tirannide e del

tiranno.»

«È vero» rispose.

«Ebbene, amico mio: qual è la caratteristica della tirannide? Mi sembra quasi evidente che essa

nasce dalla degenerazione della democrazia.»

«Sì è evidente.»

«Dunque come dall’oligarchia nasce la democrazia, così dalla democrazia nasce la tirannide.»

«In che modo?»

«Il fine che ci si era proposto e per cui era nata l’oligarchia» chiesi «non era la ricchezza

eccessiva?»

« Sì.»

«Ma l’insaziabile desiderio di ricchezza e l’incuranza di ogni altro valore a causa dell’affarismo

l’hanno condotta alla rovina.»

«È vero» disse.

«E anche la rovina della democrazia non è provocata dal desiderio insaziabile di ciò che l’ha fatta

sorgere?»

«Ma qual è dunque questo fine?»

«La libertà» risposi. «In uno Stato democratico puoi sentir dire che essa è il bene supremo e che

perciò chiunque abbia un carattere libero dovrebbe vivere solo in questo.»

«Sì, così si dice spesso» rispose.

«Dunque, come ti dicevo, non sono questo desiderio insaziabile e l’incuranza di ogni altro valore a

trasformare questo regime e a prepararlo ad aver bisogno della tirannide?»

«In che senso?» domandò.

«A mio parere, uno Stato democratico assetato di libertà, quando trova cattivi coppieri e si spinge

troppo oltre e si inebria di libertà pura, punisce i suoi governanti, a meno che questi non siano davvero

miti e non concedano grande libertà, accusandoli di essere scellerati oligarchi.»

«Sì, agiscono così» disse.

«E, io credo, oltraggia i cittadini ossequenti ai governanti considerandoli schiavi volontari e

persone da nulla, mentre loda e apprezza in privato e in pubblico i governanti che sono simili ai sudditi

e i sudditi che sono simili ai governanti. Ma in un tale Stato non è inevitabile che l’inclinazione alla

libertà si estenda ad ogni cosa?»

«Come no!»

«E penetri, caro amico, anche nelle case private e infine sorga l’anarchia persino fra gli animali?»

«Ma che cosa dobbiamo intendere con ciò?» chiese.

«Per esempio» risposi «che un padre si abitui a diventare come suo figlio e a temere i suoi figli, e il

figlio diventi come suo padre e per essere libero non abbia né rispetto né timore per i genitori; il

meteco si metta sullo stesso piano del cittadino e il cittadino del meteco, e così anche lo straniero.»

«In effetti accade proprio questo» disse.

«Ma ci sono anche altri piccoli inconvenienti: in simili condizioni l’insegnante ha paura degli

allievi e li adula, gli allievi disprezzano gli insegnanti e i precettori; e insomma i giovani si

comportano come gli anziani e li contestano a parole e a fatti, mentre i vecchi, per risultare graditi ai

giovani, si abbandonano a smancerie, imitando i giovani per non sembrare molesti e tirannici.»

«È proprio così» ammise.

«Ma in un simile Stato, caro amico, il limite estremo della libertà eccessiva viene raggiunto quando

gli uomini e le donne comprati non sono meno liberi dei loro compratori. E quasi mi dimenticavo

quanta parità e libertà esistano nei rapporti fra uomini e donne!» […].

«Ma la conclusione di tutto ciò messo insieme» ripresi «tu sai bene qual è: l’animo dei cittadini

s’infiacchisce al punto da non sopportare nessun genere di costrizione, che suscita anzi la loro collera.

E finalmente, come sai, non si curano neppure delle leggi, scritte o non scritte, pur di non avere

assolutamente nessun padrone.»

Page 4: FACOLTA’ DI STUDI UMANISTICI CORSO DI LAUREA IN ...people.unica.it/annamarialoche/files/2012/04/Storia-fil-politica... · Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla filosofia

4

«Lo so perfettamente!» esclamò.

XV

«Dunque, amico mio, da questo bello e virile governo a me pare che nasca la tirannide» dissi.

«Virile davvero!» esclamò. «Ma che succede poi?»

«La medesima malattia» risposi «che porta alla rovina l’oligarchia, in questo regime scoppia ancora

più forte e violenta a causa della licenza, e asservisce la democrazia. In genere, infatti, ogni eccesso

provoca la reazione contraria: nelle stagioni, nelle piante, negli animali e non meno nelle forme di

governo.»

«Sì, è logico» disse.

«In realtà, la libertà eccessiva di solito si muta soltanto nella servitù eccessiva per i cittadini e per

lo Stato.»

«È logico.»

«Perciò forse» ripresi «la tirannide nasce appunto soltanto dalla democrazia, cioè io credo che la

servitù più assoluta e crudele nasca dalla più pura libertà» […].

XVI

«[...] il popolo non ha l’immancabile abitudine di mettere alla sua testa un capo, di cui alimenta e

accresce il potere?»

«Sì, fa così.»

«E dunque» ripresi «è chiaro che il tiranno, quando nasce, non deriva da nessun’altra radice se non

da quella di un capo.»

«Chiarissimo, certo!»

«Ma per quale motivo il capo si trasforma in tiranno? Non avviene come nella favola che si

racconta intorno al tempio di Zeus Liceo in Arcadia?»

«Quale favola?» domandò.

«Essa narra che chi abbia gustato viscere umane mescolate a quelle di altre vittime sacrificali, si

trasforma inevitabilmente in un lupo. Possibile che tu non abbia l’abbia mai sentita?»

«Certo che l’ho sentita!»

«Ebbene, allo stesso modo un capo, se trova il volgo troppo obbediente, non si astiene dal sangue

simile al suo. Con false accuse, come accade di solito, trascina i suoi partigiani in tribunale, si macchia

di un delitto togliendo la vita a qualcuno, gustando con bocca e lingua impure sangue simile al suo,

allorché manda in esilio e uccide, e fa balenare agli altri la cancellazione dei debiti e la ripartizione

della terra. Costui non dovrà necessariamente e fatalmente morire per mano dei suoi nemici, oppure

diventare tiranno e da uomo tramutarsi in lupo?»

«Sì, è davvero inevitabile!» rispose.

«Ed eccolo» ripresi «che lotta con i ricchi!»

«Sì.»

«E se viene esiliato ma poi ritorna a dispetto dei suoi nemici, non ritorna forse da perfetto tiranno?»

«È chiaro.»

«Ma i sudditi, se non possono scacciarlo o ucciderlo con pubbliche calunnie, mediteranno di farlo

perire segretamente di morte violenta.»

«Sì,» disse «in genere fanno così.»

«A questo punto, tutti quelli che ci arrivano trovano il famoso pretesto di chiedere al popolo delle

guardie del corpo per difendere il difensore del popolo.»

«È vero» ammise.

«E il popolo, mi sembra, le concede, timoroso per lui e fiducioso per se stesso.» [...]

XVII

«Dobbiamo dunque descrivere» domandai «la felicità dell’individuo e dello Stato in cui nasce un

individuo simile?»

«Sì: descriviamola!» rispose.

«Nei primissimi giorni non rivolge sorrisi e saluti a chiunque incontri, dicendo di non essere un

tiranno? Non fa molte promesse in privato e in pubblico? Non condona i debiti, non distribuisce la

terra al popolo e ai suoi partigiani e non si mostra affabile e benevolo con tutti?»

«Per forza rispose!»

Page 5: FACOLTA’ DI STUDI UMANISTICI CORSO DI LAUREA IN ...people.unica.it/annamarialoche/files/2012/04/Storia-fil-politica... · Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla filosofia

5

«Ma quando, io credo, si sia liberato dei nemici esterni alleandosi con gli uni e annientando gli

altri, e da quel lato sia ormai tranquillo, dapprima continua a fomentare guerre affinché il popolo

avverta la necessità di un capo.»

«È probabile.»

«E anche perché i cittadini, impoveriti dalle tasse, siano costretti a pensare ai bisogni quotidiani e

non cospirino contro di lui?»

«È chiaro!»

«E per uccidere, consegnandoli al nemico con un pretesto, coloro che sospetta troppo liberi di

spirito per lasciare a lui il potere? Non sono questi tutti i motivi per cui un tiranno ha sempre bisogno

di scatenare la guerra?»

«Sì, certo.»

«Ma così facendo egli non diventa odioso ai cittadini?»

«Come no!»

«Dunque anche quelli che l’hanno aiutato a prendere il potere parlano con franchezza a lui e fra

loro criticando il suo operato, se ne hanno il coraggio?»

«È probabile.»

«Perciò il tiranno deve eliminarli tutti per dominare, finché non gli rimane nessuna persona valida

né fra gli amici né fra i nemici.»

«È chiaro.»

«E deve comprendere rapidamente chi sia coraggioso, chi generoso, chi intelligente, chi ricco. Ed è

tanto fortunato da dover essere nemico di tutti costoro, che lo voglia o no, e cospirare ai loro danni

fino a purificare da essi lo Stato.»

«Che bella purificazione!» esclamò.

«Sì,» dissi «contraria a quella con cui i medici purificano il corpo: essi infatti tolgono il peggio e

lasciano il meglio, egli invece agisce all’opposto!»

«Ma a quanto pare è costretto a fare così, se vuole dominare» disse.

XVIII

«Sì,» ripresi «egli si trova stretto in un dilemma veramente piacevole, che gli impone di vivere fra

molta gente mediocre che lo odia, oppure di non vivere affatto!»

«Sì, è vero» ammise.

«Ma quanto più si renderà odioso ai cittadini con tale comportamento, tanto più avrà bisogno di

guardie del corpo numerose e fedeli?»

«Come no!»

«Ma chi gli sarà fedele? E da dove lo farà venire?»

«Se li pagherà,» rispose «molti accorreranno spontaneamente.»

«Però, per il cane,» dissi «mi sembra che tu stia parlando di fuchi stranieri e raccogliticci!»

«È così» ammise.

«Ma non vorrebbe forse nel suo stesso paese…»

«Che cosa?»

«Sottrarre gli schiavi ai padroni, liberarli e farne le proprie guardie del corpo?»

«Certo,» rispose «perché questi saranno i più fedeli a lui.»

«È davvero splendida la condizione del tiranno di cui parli,» ripresi «se deve tenersi come amici

fedeli questi individui dopo aver ucciso quelli di prima!»

«Eppure» disse «i suoi uomini sono proprio questi.»

«E questi suoi compagni lo ammirano» domandai «e stanno con lui i nuovi cittadini, mentre le

persone oneste lo odiano e lo evitano?»

«Perché no?» […].

XIX

«[...]. Parliamo di nuovo di quell’accampamento bello, numeroso, vario mai identico a se stesso, e

vediamo come il tiranno potrà mantenerlo.»

«È chiaro» disse «che egli spenderà il tesoro dello Stato, e finché il ricavato della vendita gli

basterà, diminuirà le tasse da imporre al popolo.»

«Ma quando quei fondi verranno meno?»

Page 6: FACOLTA’ DI STUDI UMANISTICI CORSO DI LAUREA IN ...people.unica.it/annamarialoche/files/2012/04/Storia-fil-politica... · Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla filosofia

6

«Evidentemente» rispose lui «lui, i suoi compagni di simposio, i suoi favoriti e le sue amanti

vivranno con i loro beni di famiglia.»

«Capisco;» dissi «quindi toccherà al popolo che ha generato il tiranno mantenere lui e i suoi

favoriti.»

«È pressoché inevitabile» rispose.

«Ma come!» intervenni «Se il popolo s’indispettisse e gli dicesse che non è giusto che un figlio

adulto si faccia mantenere dal padre, perché al contrario dovrebbe lui essere mantenuto dal figlio, e

che non l’ha generato e non gli ha dato il potere per diventare, una volta cresciuto il figlio, lo schiavo

dei suoi schiavi e mantenere lui e i suoi schiavi con una folla d’altra gente, ma per liberarsi dai ricchi

sotto la sua tutela e da quelli che in città venivano chiamati onesti; e che ora gli ordina di andarsene

dalla città insieme con i suoi favoriti, come un padre scaccia di casa il figlio insieme ai suoi ospiti

maleducati?»

«Allora, per Zeus,» esclamò «il popolo comprenderà quale belva abbia messo al mondo,

accarezzato e allevato e che, pur essendo più debole, vuole cacciare chi è più forte.»

«Ma che dici?» chiesi. «Il tiranno oserà fare violenza al padre, e percuoterlo se non gli obbedisce?»

«Sì,» rispose «e prima ancora gli sottrarrà le armi.»

«Ma tu» dissi «stai parlando di un tiranno parricida e cattivo nutritore della vecchiaia; e a quanto

pare ciò che stai descrivendo può essere la tirannide come è riconosciuta da tutti. Secondo il proverbio,

il popolo, evitando il fumo della schiavitù al servizio di uomini liberi, è caduto nel fuoco al servizio di

schiavi, e in luogo di quella eccessiva e pura libertà si è cinto la divisa della schiavitù più dura e

aspra!»

«Sì,» disse «proprio questo accade.»

«Ebbene,» conclusi «saremo esagerati affermando di avere già descritto abbastanza la nascita della

tirannide dalla democrazia e le sue caratteristiche?»

«No: questa spiegazione è davvero sufficiente» rispose.

Page 7: FACOLTA’ DI STUDI UMANISTICI CORSO DI LAUREA IN ...people.unica.it/annamarialoche/files/2012/04/Storia-fil-politica... · Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla filosofia

7

Aristotele, Politica (a cura di Gabriele Giannantoni, Opere vol. 9, Laterza, Roma 1973)

Libro III, Capitolo 7, 1279a-b

(p. 84)

Fatte queste precisazioni, conviene studiare di seguito le forme di costituzione, quante sono di

numero e quali, e dapprima quelle rette: definite queste, risulteranno chiare anche le deviazioni.

Poiché costituzione significa lo stesso che governo e il governo è l’autorità sovrana dello stato, è

necessario che sovrano sia o uno solo o pochi o molti. Quando l’uno o i pochi o i molti governano per

il bene comune, queste costituzioni necessariamente sono rette, mentre quelle che badano all’interesse

o di uno solo o dei pochi o della massa sono deviazioni: in realtà o non si devono chiamare cittadini

quelli che <non> prendono parte al governo o devono partecipare dei vantaggi comuni. Delle forme

monarchiche quella che tiene d’occhio l’interesse comune, siamo soliti chiamarla regno: il governo di

pochi, e, comunque, di più di uno, aristocrazia (o perché i migliori hanno il potere o perché persegue il

meglio per lo stato e per i suoi membri); quando poi la massa regge lo stato badando all’interesse

comune, tale forma di governo è detta, col nome comune a tutte le forme di costituzione, politia. (E

questo riesce ragionevole: che uno o pochi si distinguano per virtù è ammissibile, ma è già difficile

che molti siano dotati alla perfezione in ogni virtù, tutt’al più in quella militare, ché questa si trova

veramente nella massa: di conseguenza in questa costituzione sovrana assoluta è la classe militare e

perciò ne fanno parte quanti possiedono le armi.) Deviazioni delle forme ricordate sono la tirannide

del regno, l’oligarchia dell’aristocrazia, la democrazia della politia. La tirannide è infatti una

monarchia che persegue l’interesse del monarca, l’oligarchia quella dei pochi, la democrazia poi

l’interesse dei poveri: al vantaggio della comunità non bada nessuna di queste.

Capitolo 14, 1284b

(pp. 101-104)

[...] Bisogna determinare prima se c’è un genere solo di regno o abbia più forme. Ora è facile per lo

meno rendersi conto che abbraccia più generi e che il sistema di governo non è uno in tutti. Quello

della costituzione laconica si ritiene sia un regno di quelli essenzialmente conformi alla legge: non è

sovrano di tutti gli affari, ma quando esce dal paese, è capo supremo delle operazioni di guerra; inoltre

viene affidato ai re il culto degli dèi. Questa forma di regno, dunque, è una specie di supremo

comando militare di capi assoluti e perpetuo [...]. Oltre questa, c’è un’altra forma di monarchia, come

sono i regni di alcune popolazioni barbariche: hanno tutti quanti un potere simile alle tirannidi, ma

sono conformi alla legge ed ereditari giacché, avendo per natura i barbari un carattere più servile dei

Greci, e gli Asiatici degli Europei, sottostanno al dominio dispotico senza risentimento. Per questo

motivo, dunque, tali regni sono di natura tirannica, ma stabili per essere ereditari e conformi alla legge.

Anche la guardia del corpo è qual s’addice a un regno e non a una tirannide, per lo stesso motivo: in

effetti i re li difendono i cittadini in armi, i tiranni truppe straniere: i re governano secondo la legge e

su sudditi bendisposti, i tiranni su sudditi maldisposti, sicché quelli reclutano la loro guardia dai

cittadini, questi la tengono contro i cittadini [...].

Sono queste dunque, le forme di regno, quattro di numero; una, quella dei tempi eroici (si

esercitava sopra sudditi bendisposti, ma in campi determinati: il re era generale supremo e giudice, in

più arbitro del culto religioso); la seconda, vigente tra i barbari (è un dispotismo ereditario conforme

alla legge); terza la cosiddetta “esimnetia” (è una tirannide elettiva); quarta tra queste è la forma

laconica (ed è, per dirla in modo semplice, un comando militare ristretto in una famiglia, a vita).

Queste forme di regno differiscono tra loro nel modo che s’è detto: si ha poi una quinta forma, qualora

un individuo singolo sia sovrano d’ogni affare come ogni popolo e ogni stato lo è dei suoi affari

comuni, e corrisponde al governo della casa, perché come il governo della casa è una specie di regno

esercitato sulla casa, così il regno è il governo della casa esercitato su uno stato, su un popolo solo o

più popoli.

Page 8: FACOLTA’ DI STUDI UMANISTICI CORSO DI LAUREA IN ...people.unica.it/annamarialoche/files/2012/04/Storia-fil-politica... · Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla filosofia

8

Niccolò Machiavelli, Il Principe (Einaudi, Torino 1963, pp. 5 e 19-23)

Capitolo I Quot sint genera principatuum et quibus modis acquirantur

1

Tutti li stati, tutti e’ dominii che hanno avuto et hanno imperio sopra li uomini, sono stati e sono o

repubbliche o principati. E’ principati sono o ereditarii, de’ quali el sangue del loro signore ne sia suto

lungo tempo principe, o e’ sono nuovi. E’ nuovi o sono nuovi tutti, come fu Milano a Francesco

Sforza, o sono come membri aggiunti allo stato ereditario del principe che li acquista, come è el regno

di Napoli al re di Spagna. Sono, questi dominii così acquistati, o consueti a vivere sotto un principe o

usi a essere liberi; et acquistonsi, o con le arme d’altri o con le proprie, o per fortuna o per virtù.

Capitolo IV, Cur Darii regnum quod Alexander occupaverat a successoribus suis post

Alexandri mortem non deficit2

Considerate le difficultà le quali si hanno a tenere uno stato di nuovo acquistato, potrebbe

alcuno maravigliarsi donde nacque che Alessandro Magno diventò signore della Asia in pochi

anni, e, non l'avendo appena occupata, morì; donde pareva ragionevole che tutto quello stato si

rebellassi; non di meno, e' successori di Alessandro se lo mantennono, e non ebbono a tenerlo

altra difficultà, che quella che infra loro medesimi, per ambizione propria, nacque. Respondo

come e' principati, de' quali si ha memoria, si truovano governati in dua modi diversi: o per

uno principe, e tutti li altri servi, e' quali, come ministri per grazia e concessione sua, aiutono

governare quello regno; o per uno principe e per baroni, li quali, non per grazia del signore, ma per

antiquità di sangue tengano quel grado. Questi tali baroni hanno stati e sudditi proprii, li quali

ricognoscono per signori et hanno in loro naturale affezione. Quelli stati che si governono per

uno principe e per servi, hanno el loro principe con piú autorità; perché in tutta la sua provincia

non è alcuno che riconosca per superiore se non lui; e, se obediscano alcuno altro, lo fanno come

ministro et offiziale, e non li portano particulare amore.

Li esempli di queste dua diversità di governi sono, ne' nostri tempi, el Turco et il re di

Francia. Tutta la monarchia del Turco è governata da uno signore, li altri sono sua servi; e,

distinguendo el suo regno in Sangiachi, vi manda diversi amministratori, e li muta e varia come

pare a lui. Ma el re di Francia è posto in mezzo d'una moltitudine antiquata di signori, in quello

stato riconosciuti da' loro sudditi et amati da quelli: hanno le loro preeminenzie: non le può il re

tòrre loro sanza suo periculo. Chi considera adunque l'uno e l'altro di questi stati, troverrà difficultà

nello acquistare lo stato del Turco, ma, vinto che sia, facilità grande a tenerlo. Le cagioni delle

difficultà in potere occupare el regno del Turco, sono per non potere essere chiamato da' principi di

quello regno, né sperare, con la rebellione di quelli ch'egli ha d'intorno, potere facilitare la sua

impresa: il che nasce dalle ragioni sopradette. Perché, sendoli tutti stiavi et obbligati, si possono

con piú difficultà corrompere; e, quando bene si corrompessino, se ne può sperare poco utile, non

possendo quelli tirarsi drieto e' populi per le ragioni assignate. Onde, chi assalta el Turco, è

necessario pensare di averlo a trovare unito; e li conviene sperare piú nelle forze proprie che

ne’ disordini d’altri. Ma, vinto che fussi e rotto alla campagna in modo che non possa rifare eserciti,

non si ha a dubitare d'altro che del sangue del principe; il quale spento, non resta alcuno di chi si

abbia a temere, non avendo li altri credito con li populi: e come el vincitore, avanti la vittoria,

non poteva sperare in loro, cosí non debbe, dopo quella, temere di loro.

El contrario interviene ne' regni governati come quello di Francia; perché con facilità tu puoi

intrarvi, guadagnandoti alcuno barone del regno; perché sempre si truova de' malicontenti e di

quelli che desiderano innovare. Costoro, per le ragioni dette, ti possono aprire la via a quello

stato e facilitarti la vittoria; la quale di poi, a volerti mantenere, si tira drieto infinite difficultà, e

con quelli che ti hanno aiutato e con quelli che tu hai oppressi. Né ti basta spegnere el sangue del

1 Quanti sono i generi di principato e in quali modi li si acquisisca

2 Per quale ragione il regno di Dario che era stato occupato da Alessandro non si ribellò ai suoi successori dopo la

morte di Alessandro

Page 9: FACOLTA’ DI STUDI UMANISTICI CORSO DI LAUREA IN ...people.unica.it/annamarialoche/files/2012/04/Storia-fil-politica... · Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla filosofia

9

principe; perché vi rimangono quelli signori che si fanno capi delle nuove alterazioni; e, non li

potendo né contentare né spegnere, perdi quello stato qualunque volta venga l'occasione.

Ora, se voi considerrete di qual natura di governi era quello di Dario, lo troverrete simile al

regno del Turco; e però ad Alessandro fu necessario prima urtarlo tutto e tòrli la campagna: dopo

la quale vittoria, sendo Dario morto, rimase ad Alessandro quello stato sicuro, per le ragioni di

sopra discorse. E li sua successori, se fussino suti uniti, se lo potevano godere oziosi; né in quello

regno nacquono altri tumulti, che quelli che loro proprii suscitorono. Ma li stati ordinati come

quello di Francia è impossibile possederli con tanta quiete. Di qui nacquono le spesse rebellioni

di Spagna, di Francia e di Grecia da' Romani, per li spessi principati che erano in quelli stati; de'

quali mentre durò la memoria, sempre ne furono e' Romani incerti di quella possessione; ma,

spenta la memoria di quelli, con la potenzia e diuturnità dello imperio ne diventorono securi

possessori. E posserno anche quelli, combattendo di poi infra loro, ciascuno tirarsi drieto parte di

quelle provincie, secondo l'autorità vi aveva presa drento; e quelle, per essere el sangue del loro

antiquo signore spento, non riconoscevano se non e' Romani. Considerato adunque queste cose,

non si maraviglierà alcuno della facilità ebbe Alessandro a tenere lo stato di Asia, e delle difficultà

che hanno avuto li altri a conservare lo acquistato, come Pirro e molti. Il che non è nato dalla

molta o poca virtú del vincitore, ma dalla disformità del subietto.

Page 10: FACOLTA’ DI STUDI UMANISTICI CORSO DI LAUREA IN ...people.unica.it/annamarialoche/files/2012/04/Storia-fil-politica... · Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla filosofia

10

Jean Bodin, Les six livres de la Republique (Ed. it. a c. di M. Isnardi Parente, Utet, Torino 1964)

Libro I, capitolo V I I I , Della sovranità

(vol. I, pp. 345-366)

Per sovranità s'intende quel potere assoluto e perpetuo ch'è proprio dello Stato.[...]

Ciò che qui occorre è formularne la definizione, perché tale definizione non c'è stato mai

giurista né filosofo politico che l'abbia data, e tuttavia è questo il punto più importante e più

necessario a comprendersi in qualsiasi trattazione sullo Stato. Tanto più, avendo noi detto che lo

Stato è un governo giusto di più famiglie e di ciò che loro è comune con potere sovrano, occorre

ben chiarire che cosa sia questo potere sovrano.

Ho detto che tale potere è perpetuo. Può succedere infatti che ad una o più persone venga conferito

il potere assoluto per un periodo determinato, scaduto il quale essi ridivengono nient'altro che

sudditi; ora, durante il periodo in cui tengono il potere, non si può dar loro il nome di principi

sovrani, perché di tale potere essi non sono in realtà che custodi e depositari fino a che al popolo o

al principe, che in effetti è sempre rimasto signore, non piaccia di revocarlo. Così come

rimangono signori e possessori dei loro beni quelli che ne fanno prestito ad altri, ugualmente si

può dire di chi conferisce ad altri potere e autorità in materia di giustizia o di comando; sia che li

concedano per un tempo stabilito e limitato, sia fino a che loro piaccia, in ogni caso restano signori

del potere e della giurisdizione che gli altri esercitano solo in forma di prestito o di precario.

Perciò la legge dice che il governatore del paese o luogotenente del principe, dopo che è spirato il

tempo assegnatogli, restituisce il suo potere, da depositario e guardiano qual è del potere altrui

[…]. Se il potere assoluto concesso al luogotenente del principe si chiamasse sovranità, egli potrebbe

valersene contro i l suo principe, che sarebbe ridotto a uno zero, e così il suddito comanderebbe al

signore, il servo al padrone, il che è assurdo. Per disposizione della legge, la persona del sovrano è

sempre esente da quell'autorità e da quel potere, qualunque sia, che conferisce ad altri; non ne

concede mai tanto da non serbarne per sé ben di più, e non perde mai il diritto di comandare o di

giudicare (preventivamente, o in concorrenza, o in riesame), le cause di cui ha incaricato il suo

suddito come commissario o ufficiale; e sempre può revocare a questo il potere che gli è stato

concesso sia in forma di commissione sia a titolo d'ufficio, oppure sospenderlo per tutto il tempo

che creda.

Posti così questi principi, che sono i fondamenti della sovranità, se ne deduce che né il dittatore dei

Romani, né 1'armosta a Sparta, né l'esimneta a Salonicco, né quel magistrato di Malta che veniva

chiamato archus, né l'antica balìa di Firenze, magistrature tutte che avevano press'a poco le stesse

funzioni, né il reggente di un regno, né alcun altro magistrato che abbia avuto per un limitato

periodo di tempo potere assoluto di disporre dello Stato, ha veramente avuto la sovranità. E non

significa niente che i primi dittatori avessero pieno potere, e nella forma migliore che si desse

allora, optima lege, come dicevano i Latini, giacché non c'era facoltà d'appello e tutti gli ufficiali

erano sospesi, mentre poi furono istituiti i tribuni, che restavano in carica anche durante la creazione

del dittatore e conservavano il loro diritto di opposizione, e se vi era un appello sporto contro il

dittatore i tribuni convocavano l'assemblea del popolo minuto e davano assegnazione alle parti,

agli uni per poter perseguire la propria causa, al dittatore per poter difendere il suo giudizio.

[…] Il dittatore romano non era né principe né magistrato sovrano, come molti hanno scritto, e

non disponeva che di una commissione con un fine preciso, o condurre una guerra, o reprimere

una rivolta, o riformare lo Stato, o istituire nuovi magistrati; mentre la sovranità non è limitata né

quanto a potere né quanto a compiti né quanto a termini di tempo. Anche i dieci commissari

nominati per correggere le consuetudini e le ordinanze, pur disponendo di un potere assoluto e

insindacabile, non avevano la sovranità, perché il loro potere sarebbe venuto meno non appena

ultimato il loro incarico, così come quello del dittatore […].

Ma poniamo il caso che si eleggano uno o più cittadini dando loro il potere assoluto di disporre

dello Stato e di governare senza rendere alcun conto a opposizioni o rimostranze, e che tale elezione si

ripeta ogni anno: dovremo dire ch’essi hanno la sovranità? Se sovrano è chi non riconosce nulla

superiore a sé all'infuori di Dio, affermo che essi non hanno la sovranità: non sono che depositari di un

potere affidato loro per un periodo determinato. Il popolo non rinuncia alla propria sovranità

nominando uno o più luogotenenti con potere assoluto per un periodo determinato, per quanto ciò sia

Page 11: FACOLTA’ DI STUDI UMANISTICI CORSO DI LAUREA IN ...people.unica.it/annamarialoche/files/2012/04/Storia-fil-politica... · Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla filosofia

11

ben di più che concedere un potere revocabile ad arbitrio del popolo stesso, senza alcun limite di

tempo prefissato; nell'uno e nell'altro caso essi non hanno niente di proprio, ma sempre sono

responsabili della loro carica di fronte a colui da cui il potere deriva: solo un principe sovrano non é

tenuto a render conto ad altri che a Dio […].

Ma poniamo ancora il caso che il potere sia dato a un luogotenente per tutta la vita: non sarebbe

questo un potere perpetuo, e perciò sovrano? Infatti per potere perpetuo non si può intendere un potere

senza fine, perché in tal caso si potrebbe parlare di sovranità solo per le aristocrazie e per le democrazie

che non muoiono mai; se poi in riferimento a un re il termine perpetuo si intendesse come ereditario,

ci sarebbero pochi monarchi sovrani, perché pochi sono ereditari, e chi arrivasse alla corona per

elezione non sarebbe sovrano; la parola perpetuo va dunque intesa nel senso di «per tutta la vita

di colui che ha il potere». Dico a questo proposito che il magistrato sovrano annuo o in ogni

caso temporaneo può arrivare a prolungare il potere che gli è stato concesso in due diverse

maniere, gradualmente o con la forza. Se con la forza, questo si chiama tirannide, e tuttavia il ti -

ranno é sovrano, così come il possesso del predone, ottenuto con la violenza, è possesso secondo

natura anche se contro la legge, e gli antichi possessori rimangono spodestati. Se invece il magistrato

prolunga il suo potere gradualmente non si può dire principe sovrano, perché tutto ciò che ha lo

ha pur sempre per concessione altrui, e ancor meno se non ha limiti di tempo, perché in tal caso tutto

ciò che ha lo ha solo in forma di commissione precaria […].

Infine, che diremo di colui che riceva dal popolo il potere assoluto a vita? Bisogna distinguere: egli

può dirsi monarca sovrano quando il potere assoluto gli è conferito puramente e semplicemente,

senz'alcun titolo di magistrato o commissario, senz'alcuna forma di precario; si può dire senz'altro

che in questo caso il popolo si è spogliato del potere sovrano per fargliene dono e investirlo di

esso, così come ci si può privare in favore di altri del possesso e della proprietà di cosa che ci

appartiene; a lui e in lui si sono trasferiti interamente potere, autorità, prerogative, attribuzioni sovrane,

e per tutto questo la legge usa l'espressione ei et in eum omnem potestatem contulit . Ma se il

popolo concede il potere a vita a qualcuno solo in qualità di ufficiale o luogotenente o semplicemente

per alleviarsi dell'esercizio del potere, costui non è sovrano, ma nient'altro che ufficiale, luogotenente,

reggente, governatore o custode e depositario del potere altrui. Così, anche nel caso che un magistrato

crei qualcuno suo luogotenente in perpetuo e si liberi da ogni cura di giurisdizione lasciando a questo

l'intero esercizio di essa, non è tuttavia nella persona del luogotenente che risiede il potere di dar ordini

o di giudicare, né l'azione e la forza della legge, e s'egli oltrepassa il potere che gli è stato dato i suoi

atti sono nulli, a meno che non siano ratificati, lodati e approvati da chi gli ha conferito il potere […].

Sia dunque che si eserciti il potere per commissione, o per nomina, o per delega, ma sempre in

nome altrui, per un tempo stabilito o senza limiti di tempo, non si è sovrani, anche se nelle lettere

manchi la qualifica di procuratore o luogotenente, governatore o reggente; e nemmeno se tale potere

fosse dato dalla stessa legge del paese, cosa che avrebbe più valore che non un'elezione […].

Adesso dedichiamoci all'altra parte della nostra definizione, e spieghiamo le parole «potere

assoluto». Il popolo o i signori di uno Stato possono conferire a qualcuno il potere sovrano puramente

e semplicemente, per disporre a suo arbitrio dei beni, delle persone e di tutto lo Stato, e lasciarlo poi a

chi vorrà, così come un proprietario può far dono dei suoi beni, puramente e semplicemente, non per

altre ragioni che per la sua liberalità. È questa l'autentica donazione, che, essendo una volta per tutte

perfetta e completa, non ammette ulteriori condizioni; mentre quelle donazioni che comportano

obblighi e condizioni non sono donazioni vere e proprie. Perciò la sovranità conferita a un

principe con certi obblighi e a certe condizioni non è propriamente sovranità né potere

assoluto, a meno che tali condizioni non siano leggi d Dio o della natura […].

Chi è sovrano, insomma, non deve essere in alcun modo soggetto al comando altrui, e deve

poter dare la legge ai sudditi, e scancellare o annullare le parole inutili in essa per sostituirne altre,

cosa che non può fare chi è soggetto alle leggi o a persone che esercitino potere su di lui. Per questo

la legge dice che il principe non é soggetto all'autorità delle leggi ; e anche in latino la parola

legge significa il comando di chi ha il potere sovrano. Vediamo che in tutti gli ed itti e le

ordinanze si aggiunge questa clausola: «Nonostante tutti gli editti ai quali abbiamo derogato e

deroghiamo con le presenti disposizioni, e la derogatoria delle derogatorie». Questa clausola è

stata sempre aggiunta nelle leggi antiche, sia che la legge pubblicata fosse stata promulgata dal

principe in atto, sia dal predecessore. Perché é noto che leggi, ordinanze, lettere patenti,

privilegi, concessioni dei prìncipi, hanno vigore soltanto durante la vita di questi, a meno che il

Page 12: FACOLTA’ DI STUDI UMANISTICI CORSO DI LAUREA IN ...people.unica.it/annamarialoche/files/2012/04/Storia-fil-politica... · Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla filosofia

12

principe successivo, dopo averle prese in esame, non le confermi o per lo meno le tolleri

[…].

Se dunque il principe sovrano è per legge esente dalle leggi dei predecessori, ancor meno egli

sarà obbligato a osservare le leggi e le ordinanze fatte da lui stesso: si può ben ricevere la legge da

altri, ma non è possibile comandare a se stesso, così come non ci si può imporre da sé una cosa che

dipende dalla propria volontà, come dice la legge: nulla obligatio consistere potest, quae a

voluntate promittentis statum capit; ragione necessaria, che dimostra in maniera evidente come il re

non possa essere soggetto alle leggi […].

Tuttavia resta pur fermo il principio che il principe sovrano può derogare anche a quelle leggi

che abbia promesso e giurato di osservare, se il motivo della promessa venga meno, anche

senza il consenso dei sudditi; benché in questo caso la deroga generale non basti e occorra anche una

deroga speciale. Se però non vi è giusta ragione di annullare la legge che si è promesso di

conservare, il principe non deve e non può contravvenire ad essa. Quanto ai patti e ai giuramenti

dei predecessori egli non vi è tenuto, se non è loro erede […].

Da tutto ciò risulta che non bisogna mai confondere legge e contratto. La legge dipende da

colui che ha la sovranità; egli può obbligare tutti i sudditi, e non può obbligare se stesso;

mentre il patto è mutuo, tra prìncipi e sudditi, e obbliga le due parti reciprocamente, né una

delle due parti può venir meno ad esso a danno dell'altra e senza il suo consenso; in un caso del

genere il principe non ha alcuna superiorità sui sudditi, se non che, cessando il giusto motivo

della legge che ha giurato di osservare, egli, come già ab biamo detto, non è più vincolato dalla

sua promessa, mentre invece i sudditi non possono comportarsi ugualmente se non ne sono sciolti

dal principe. Perciò i prìncipi sovrani di mente ancora accorta non giurano mai di mantenere intatte

le leggi dei predecessori; e se lo giurassero non sarebbero più sovrani […].

Libro II, capitolo IV, Della monarchia tirannica

(vol. I, pp. 590-597)

Monarchia tirannica è quella in cui il monarca, calpestando le leggi di natura, abusa della liberta

dei sudditi rendendoli schiavi, e dispone a suo arbitrio dei beni altrui.

La parola greca tiranno non ha, in origine, un significato negativo. In antico non significava

altro che un principe che si fosse impadronito del potere senza il consenso dei suoi concittadini,

facendosi signore di quelli che prima erano suoi compagni; e poteva indicare anche principi

saggi e giusti. Platone, scrivendo al tiranno Dionisio, gli dà tale titolo in segno d'onore:

«Platone saluta il tiranno Dioniso» e questo risponde: «Dioniso il tiranno saluta Platone». Per

dimostrare come il nome di tiranno fosse dato indifferentemente al principe giusto e al malvagio

basta citare il caso di Pitacco e Periandro che, pur essendo chiamati entrambi tiranni per essersi

impadroniti del potere nei loro paesi, erano annoverati fra i sette savi della Grecia. Avveniva però

che tutti quelli che con la forza o con l'astuzia si erano impadroniti del potere nei loro paesi,

vedendo la propria vita esposta alla mercé di molti avversari, erano poi costretti, per sicurezza, a

tenere una guardia di stranieri intorno alla loro persona e una guarnigione in ogni fortezza, e a

levare grandi tributi e imposte sui sudditi per poter assoldare gente con cui tenerli saldamente in

pugno; e poi, vedendo che la loro sicurezza non poteva dirsi garantita se gli amici erano poveri e

i nemici potenti, si davano a condannare a morte o all'esilio gli uni per arricchire gli altri; e i

più sciagurati portavano via ai sudditi, insieme con i beni, anche le donne e i figli. Ciò

fece sì che i tiranni cominciarono ad essere estremamente avversati e odiati […].

La differenza più notevole fra un re e un tiranno è che il re si conforma alle leggi di natura,

mentre il tiranno le calpesta. L'uno coltiva la pietà, la giustizia, mantiene fede alla parola data;

l'altro non riconosce Dio, né fede, né legge. L'uno fa tutto quello che ritiene utile in vista

del pubblico bene e per la tutela dei sudditi; l'altro non agisce che in vista del suo

particolare profitto, o per vendetta, o per capriccio. L'uno si sforza di rendere più ricchi i suoi

sudditi, con tutti i mezzi che può trovare; l'altro edifica solo sulla loro rovina. L'uno punisce

le offese fatte al pubblico e perdona quelle fatte a lui stesso; l'altro si vendica crudelmente delle

offese personali e perdona facilmente quelle fatte da altri. L'uno risparmia l'onore delle donne

pudiche, l'altro trionfa della loro onta. L'uno si compiace di essere ammonito con libertà e

saggiamente rimproverato quando sia caduto in errore; l'altro non odia niente più dell'uomo

Page 13: FACOLTA’ DI STUDI UMANISTICI CORSO DI LAUREA IN ...people.unica.it/annamarialoche/files/2012/04/Storia-fil-politica... · Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla filosofia

13

libero, severo e virtuoso. L'uno si adopera per mantenere unione e concordia fra i sudditi;

l'altro mette sempre discordia fra loro perché si rovinino a vicenda, per potersi così impinguare

con confische ai loro danni. L'uno si compiace di essere talvolta veduto e ascoltato direttamente

dai sudditi; l'altro si nasconde loro come se fossero nemici. L'uno fa gran conto dell'amore

del suo popolo, l'altro del suo timore. L'uno non teme mai altro che per i sudditi, l'altro teme i

sudditi stessi. L'uno cerca di gravare sui suoi il meno possibile, e vi si rassegna solo in caso di

necessità pubblica; l'altro lecca il sangue, rode le ossa, succhia il midollo dei sudditi al solo scopo

di fiaccarli. L'uno cerca i migliori per impiegarli nelle cariche pubbliche, l'altro non si serve

che di ladroni e di uomini malvagi, usandone come di sanguisughe. L'uno conferisce del tutto

gratis cariche e uffici, per ovviare a ogni pericolo di malversazioni e di brogli a danno del

popolo; l'altro li vende al più caro prezzo possibile, per dar modo ai disonesti di indebolire il

popolo con ladrocini e tagliar poi loro la gola per acquistarsi fama di buon giustiziere. L'uno

commisura i suoi costumi e il suo comportamento al metro della legge, l'altro adatta la legge ai

suoi costumi. L'uno è amato e venerato da tutti i sudditi, l'altro li odia tutti ed è odiato da tutti.

L'uno in guerra ha tutto il suo aiuto dai sudditi, l'altro fa continuamente guerra ai sudditi stessi;

l'uno ha guardia e guarnigione composte di sudditi propri, l'altro esclusivamente di stranieri.

L'uno gode di un sicuro riposo e di un'alta tranquillità, l'altro languisce in perpetuo timore;

l'uno attende la beatitudine eterna, l'altro non può aspettarsi che l'eterno supplizio; l'uno è

onorato in vita e pianto in morte, l'altro è diffamato vivente e dopo morto si fa scempio della

sua memoria.

Non c'e bisogno di provar tutto questo con molti esempi, giacché gli esempi possibili sono

già largamente noti. La storia ci insegna che la tirannide è sempre stata così detestabile che in

casi simili non vi è stato nessuno che non abbia cercato di acquistarsi gloria uccidendo il tiranno

[…].

D’altronde, a parte tutte le preoccupazioni che i tiranni possano avere a riguardo,

a ciò che poi si dirà di loro, la vita di un tiranno è da considerarsi la più miserevole fra tutte, per il suo

perpetuo trovarsi in timore e angoscia, per l'essere di continuo minacciato e assillato dalla

consapevolezza del continuo pericolo; poiché è impossibile che vada avanti a lungo chi teme e

odia i sudditi e ne é ugualmente odiato e temuto.

Infatti, non appena gli stranieri lo

aggrediscono, ecco che i suoi subito si aggiungono a rinforzo contro di lui; né può avere alcuna

fiducia, in un simile frangente, negli amici, che sono per lo più traditori e sleali.

Page 14: FACOLTA’ DI STUDI UMANISTICI CORSO DI LAUREA IN ...people.unica.it/annamarialoche/files/2012/04/Storia-fil-politica... · Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla filosofia

14

Thomas Hobbes, Leviatano (tr. it. a c. di M. Vinciguerra, Laterza, Roma-Bari 1974)

Parte I , Dell’uomo

Capitolo XIV, Della prima e della seconda legge di natura e dei contratti,

(pp. 114-117)

Dalla legge fondamentale di natura, con la quale è ordinato agli uomini di procurare la pace,

deriva questa seconda legge che un uomo volentieri, quando altri lo fanno, e per quanto crederà

necessario alla pace ed alla difesa sua, rinunzii al suo dritto sopra tutte le cose, e sia contento di

avere tanta libertà contro gli altri uomini, quanta è concessa ad altri uomini contro di lui; poiché

fin quando ogni uomo conserva questo dritto, di fare ciò che gli pare, tutti gli uomini restano in

istato di guerra. Ma se gli altri uomini non lasceranno il loro dritto, come lui, allora non vi è

ragione che se ne spogli lui solo; perché sarebbe un esporsi come preda al che non è obbligato

nessuno, piuttosto che un disporsi alla pace. [...]

Un dritto è abbandonato o per semplice rinunzia, o per traslazione ad altri. Per semplice

rinunzia, quando chi l'abbandona non si cura a chi ridondi il benefizio di esso; per traslazione, quando

egli intenda di beneficare con esso una data persona o date persone. E quando un uomo ha, in un modo o

nell'altro, abbandonato o ceduto il proprio dritto, si dice allora che egli è obbligato o legato

a non impedire quelli ai quali un tale dritto è stato ceduto o abbandonato dal trarne vantaggio;

e si dice che egli deve, e questo è il suo dovere, non render vano il suo atto volontario, e che un

tale impedimento sarebbe un'ingiustizia e un'ingiuria, come sine iure, poiché il dritto era stato

già abbandonato o trasferito […].

Il mutuo trasferimento di un diritto è ciò che gli uomini chiamano contratto.

V’è differenza tra il trasferimento di un diritto su di una cosa, e trasferimento o

traslazione, cioè l’abbandono della cosa stessa, poiché la cosa può essere abbandona ta

insieme con la traslazione del diritto, come nella vendita e nella compra a moneta contante, o nel

cambio di beni o di terre, e può esser data qualche tempo dopo.

Inoltre uno dei contraenti può consegnare la cosa contrattata, per parte sua, e lasciare che

l'altro contraente lo faccia, da parte sua, un certo tempo dopo, e frattanto egli si sta alla sua

parola; ed allora il contratto in ciò è detto patto. Entrambe le parti possono anche contrarre e fare il

contratto in un tempo ed eseguirlo in un tempo posteriore, nel quale caso colui che dovrà

eseguirlo nel futuro, ricevendo la fiducia, il suo atto si dice mantenimento di promessa o fede, e

il venir meno, se volontario, si dice violazione di fede.

Quando il trasferimento di un dritto non è mutuo, ma una delle parti lo fa con la speranza di

guadagnare l'amicizia o i servizii di un altro o dei suoi amici, o con la speranza di guadagnare

reputazione di carità o di magnanimità, o per liberare il suo spirito dalla pena, che gli genera la

compassione, o con la speranza di retribuzioni in cielo, questo non è contratto, ma dono, libera

donazione, grazia: le quali parole significano la medesima cosa. [...]

Capitolo XVI, Delle persone, degli autori e delle cose rappresentate

(pp. 141-142)

Una persona è quello, le cui parole o azioni sono considerate o come proprie, o come rappresentanti

le parole e le azioni di un altro uomo o di qualche altra cosa, a cui esse sono attribuite, o veramente

o per finzione. Quando quelle sono considerate come proprie, allora la persona è chiamata naturale;

quando sono considerate come rappresentanti le parole e le azioni di un altro, allora la persona è detta

finta o artificiale.

La parola «persona» è latina: invece di essa i Greci hanno πρόσωπον, che significa il viso, mentre

persona in latino significa il travestimento o l'apparenza esterna di un uomo contraffatto sulla scena, e

spesso più specialmente quella parte di esso, che contraffaceva il viso, come la maschera; e dalla scena la

parola si è trasportata a significare qualunque rappresentatore di parole e di azioni, tanto in

tribunale, quanto in teatro. Sicché una persona è lo stesso che un attore, tanto sulla scena che nella

comune conversazione, e personificare è agire o rappresentare se stessi o altri; [...]

Delle persone artificiali alcune prendono il nome e le azioni da quelli, che esse rappresentano; ed

allora la persona è l'attore, e colui, che concede le proprie parole ed azioni, è l'autore: nel quel caso

Page 15: FACOLTA’ DI STUDI UMANISTICI CORSO DI LAUREA IN ...people.unica.it/annamarialoche/files/2012/04/Storia-fil-politica... · Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla filosofia

15

l'attore agisce per autorità [...]. Sicché per autorità s'intende sempre un dritto di fare un'azione,

e fatto con l'autorità significa fatto per commissione o col permesso di chi possiede quel dritto.

Segue da ciò che quando l'attore fa un patto per autorità concessagli, egli obbliga l'autore, non meno

che se l'avesse fatto da sé, né l'assoggetta meno a tutte le conseguenze di quel patto […].

Parte II, Dello Stato

Capitolo XVII, Delle cause, dell’origine e definizione di uno Stato

(pp. 151-152)

[...] Il solo modo per stabilire un potere comune, che sia atto a difendere gli uomini dalle invasioni

degli stranieri e dalle offese scambievoli, e perciò ad assicurarli in tal maniera, che, con la

propria industria e coi frutti delle proprie terre, possano nutrirsi e vivere in pace, di conferire

tutto il proprio potere e la propria forza ad un uomo o ad un'assemblea di uomini, che possa ridurre

tutti i loro voleri, con la pluralità di voti, ad un volere solo; che è quanto dire a deputare un

uomo od un'assemblea di uomini a rappresentare la loro persona, ed a riconoscersi, ognuno per parte

propria, autore di qualunque cosa colui, che così li rappresenta, possa fare o cagionare in quelle

cose, che concernono la pace e la salvezza comune, ed in ciò sottomettere i proprii voleri

ciascuno al volere di lui, ed i proprii giudizii ciascuno al giudizio di lui. Questo è più che consenso

o accordo: è una reale unificazione di tutti quelli in una sola e medesima persona, fatta per

mezzo di un patto di ogni uomo con ogni uomo, in tal maniera, come se ognuno dicesse all'altro: Io

autorizzo e cedo il mio dritto di governare me stesso a quest'uomo od a questa assemblea di uomini, a

questa condizione, che anche tu offra il tuo dritto a lui, ed autorizzi tutte le sue azioni allo

stesso modo. Ciò fatto, la moltitudine così unita in una persona è detta uno stato, in latino civitas. Questa

è l'origine di quel grande Leviatano, o piuttosto per parlare con più reverenza di quel Dio mortale,

al quale noi dobbiamo, al disotto del Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa, poiché,

a causa di quest'autorità datagli da ogni singolo uomo nello stato, esso usa di tanto potere e di tanta

forza, a lui conferita, che col terrore è capace di disciplinare la volontà di tutti alla pace interna ed

al mutuo aiuto contro i nemici esterni. Ed in esso è l'essenza dello stato, che – per definirlo - è una

persona, dei cui atti ciascun individuo di una gran moltitudine, con patti vicendevoli, si è fatto autore,

affinché possa usare la forza ed i mezzi di tutti loro, secondo che crederà opportuno, per la loro

pace e per la comune difesa.

Colui, che rappresenta questa persona, è chiamato sovrano; ogni altro all'infuori è un suddito

[…].

Capitolo XVIII, Dei diritti dei sovrani per istituzione (pp. 154-156)

[...] Poiché il dritto di rappresentare la persona di tutti gli altri è dato a colui che quelli fanno

sovrano, solo per patto dell'uno con l'altro, e non per patto di lui con ognuno di essi, non può

avvenire nessuna rottura di patto da parte del sovrano, e, per conseguenza, nessuna da parte dei

sudditi, con il pretesto di una pena, che possa liberare loro dalla soggezione. Colui, che è fatto

sovrano, è manifesto che non fa un patto con i suoi sudditi in anticipazione, poiché o dovrebbe

farlo con tutta la moltitudine, come in un'adunanza per un patto, oppure dovrebbe fare parecchi

patti con ciascun uomo. Con tutti, come in un'assemblea, è impossibile, poiché essi non sono per anco

una sola persona; e, se egli fa tanti patti quanti uomini, quei patti, dopo che egli ha avuta la

sovranità, sono di nessun effetto, poiché qualunque atto possa pretendersi da qualcuno di loro

che infranga quella sovranità è l'atto insieme di se stessi e degli altri tutti, perché fatto nella

persona, e col dritto di ciascuno di quelli individualmente. Inoltre, se qualcuno o più di essi

pretendono d'infrangere il patto concluso col sovrano alla sua istituzione, ed altri o un altro dei

sudditi sostengono che non sia il caso, nessun giudice potrà decidere la controversia, e quindi si

ritornerà alla spada, ed ognuno riacquisterà il dritto di proteggersi con la propria forza, contro lo

scopo, che aveva, nell'istituire lo stato. È dunque vano dare una sovranità per mezzo di un patto

precedente. L'opinione che un monarca riceva il suo potere con un patto, cioè a condizione, deriva

dal non intendere questa facile verità, che i patti, non essendo che parole e fiato, non hanno altra

forza di obbligare, trattenere, costringere e proteggere un uomo, se non quella, che hanno dalla

pubblica spada, cioè a dire dalle mani non legate di quell'uomo o di quell'assemblea di uomini, che

Page 16: FACOLTA’ DI STUDI UMANISTICI CORSO DI LAUREA IN ...people.unica.it/annamarialoche/files/2012/04/Storia-fil-politica... · Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla filosofia

16

ha la sovranità, e le cui azioni sieno riconosciute da tutti, e compiute dalla forza di tutti,

concentrata in essa. Ma quando un'assemblea di uomini è fatta sovrana, allora nessuno immagina

che un tal patto sia divenuto un'istituzione, poiché nessuno è così sciocco da dire, per esempio, che il

popolo di Roma fece un patto coi Romani, per mantenere la sovranità a tali o tali altre

condizioni, le quali se non fossero state mantenute, i Romani avrebbero potuto legalmente

deporre il popolo romano. Che gli uomini non vedano la ragione della simiglianza tra una

monarchia ed un governo popolare deriva dall'ambizione di alcuni, che sono più favorevoli al

governo di un'assemblea, della quale essi possono sperare di far parte, che a quello di una

monarchia, che non hanno speranza di possedere.

Allorché la maggioranza ha, con voti unanimi, eletto un sovrano, colui, che dissentiva, deve allora

consentire con gli altri, cioè esser contento di riconoscere tutte le azioni, che quello farà; se no

giustamente sarà distrutto dagli altri. Infatti, se egli volontariamente entrò nell'associazione di quelli,

che si erano riuniti, egli ha con ciò dichiarato abbastanza il suo volere - e perciò tacitamente ha

convenuto - di stare a quello, che la maggioranza avrebbe ordinato; e perciò, se rifiuta o protesta contro

qualcuno dei suoi decreti, agisce contrariamente al patto, e perciò ingiustamente. Ed appartenga

all'associazione o no, e sia richiesto o no il suo consenso, egli deve o sottomettersi ai decreti

di quella, o esser lasciato nella condizione di guerra, in cui prima si trovava, ed in cui,

senza ingiustizia, poteva esser distrutto da qualunque uomo.

Poiché ogni suddito è per questa istituzione autore di tutte le azioni e di tutte le

decisioni del sovrano istituito, ne segue che qualunque cosa egli faccia non può recare

offesa a nessuno dei suoi sudditi, né deve essere, per nessuna di esse, accusato di

ingiustizia. Infatti colui, che fa una cosa per autorità ricevuta da un altro, non arreca offesa a

quello, con l'autorità del quale agisce; e siccome per questa istituzione dello stato ogni

singolo uomo è autore di tutto ciò, che il sovrano fa, per conseguenza chi si duole di

un'offesa ricevuta dal suo sovrano si duole di una cosa, di cui egli stesso è autore, e

perciò non deve accusare altri che se stesso, né può farlo, perché offender se stessi è

impossibile. È vero che coloro, che posseggono un potere sovrano, possono commettere

un'iniquità, ma non un'ingiustizia od un'offesa nel senso proprio.

Conseguentemente a quanto si è detto, nessuno, che abbia il potere sovrano, può essere

mandato a morte o in altra maniera punito dai suoi sudditi, poiché ogni suddito, essendo

autore delle azioni del suo sovrano, punisce un altro per le azioni commesse da lui stesso

[…].

Capitolo XXVI, Delle leggi civili (pp. 234-237)

[...] Ciò considerato, io definisco la legge civile in questo modo: La legge civile è, rispetto ad ogni

suddito, il complesso di quelle regole, che lo stato gli ha imposto di usare con la parola, con lo scritto

o con altro sufficiente segno della propria volontà, per la distinzione del dritto e del torto, cioè a dire di

ciò che è contrario e di ciò, che non è contrario al governo.

[…] nessuno può far leggi, se non lo stato, poiché la nostra soggezione è solo verso lo stato, e quei

comandi debbono essere espressi con segni sufficienti, perché altrimenti un uomo non saprebbe come

obbedire. Perciò qualunque conseguenza necessaria si può dedurre da questa definizione dev'esser

riconosciuta per vera. Per ora io deduco quanto segue:

1. 11 legislatore in tutti gli stati è solo il sovrano, [...]

2. II sovrano di uno stato, sia un'assemblea o un uomo, non è soggetto alle leggi civili, perché,

avendo il potere di fare e rivocare le leggi, egli può, quando gli pare, liberarsi da quella soggezione,

con l'annullare quelle leggi, che l'impacciano, e col farne altre nuove: per conseguenza egli era libero

anche prima.

4. La legge di natura e la legge civile si contengono a vicenda e sono di eguale estensione,

perché leggi di natura, che consistono nell'equità, nella giustizia, nella gratitudine ed in altre virtù

morali da queste dipendenti, non sono propriamente leggi nel puro stato di natura [...], ma qualità,

che dispongono gli uomini alla pace e all'obbedienza.

Stabilito che è uno stato, allora esse divengono effettivamente leggi, e non prima, poiché

allora vi sono comandi in uno stato, e perciò anche leggi civili, perché il potere sovrano obbliga gli

uomini ad obbedire a quelle […]. La legge di natura è quindi una parte della legge civile in tutti

gli stati del mondo, e reciprocamente la legge civile è una parte dei dettami della natura, perché la

Page 17: FACOLTA’ DI STUDI UMANISTICI CORSO DI LAUREA IN ...people.unica.it/annamarialoche/files/2012/04/Storia-fil-politica... · Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla filosofia

17

giustizia, cioè a dire il mantenere i patti e dare ad ognuno il proprio, è un dettame della legge di natura.

Ma ogni suddito in uno stato ha pattuito di obbedire alla legge civile - o l'un con l'altro, o tutti

insieme, quando si riunirono, per creare un comune rappresentante, o col rappresentante stesso

uno per uno, quando sottomessi con la spada, promisero obbedienza, affinché fosse loro concessa

la vita -; e perciò l'obbedienza alla legge civile è parte anche della legge di natura. Legge civile e

legge naturale non sono generi differenti di legge, ma parti differenti di una legge, della quale

una parte, scritta, è detta civile, l'altra, non scritta, naturale.

Page 18: FACOLTA’ DI STUDI UMANISTICI CORSO DI LAUREA IN ...people.unica.it/annamarialoche/files/2012/04/Storia-fil-politica... · Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla filosofia

18

John Locke, Trattato sul governo (tr.it. a c. di L. Formigari, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1991, pp. 157-168)

Capitolo XVII, L’usurpazione

§197. Come la conquista può esser definita usurpazione per opera di stranieri, così l'usurpazione è

una sorta di conquista interna, con la differenza che un usurpatore non può avere mai il diritto dalla

sua, poiché non si dà usurpazione se non laddove uno s’impossessi di una cosa su cui altri ha diritto. In

quanto usurpazione, ciò costituisce soltanto un cambio di persone, ma non delle forme e regole di

governo, perché, se 1'usurpatore estende il suo potere al di là di quanto di diritto apparteneva ai

sovrani o governanti legittimi di quello Stato, all'usurpazione si aggiunge la tirannide.

§ 198. In tutti i regimi legittimi la designazione delle persone destinate a governare è un aspetto

tanto essenziale e necessario quanto la forma del regime stesso, ed è quella originariamente stabilita

dal popolo. Anarchia infatti è tanto il non avere alcuna forma di governo, quanto lo stabilire che sarà

un governo monarchico, ma senza fissare alcuna modalità per la designazione della persona che dovrà

avere il potere ed essere il monarca. Dunque tutti gli Stati, insieme con la forma di governo in essi

istituita, hanno anche norme per la designazione di coloro che in qualche modo partecipano del pubblico

potere e modalità stabili per trasmettere loro il diritto: anarchia è tanto il non avere alcuna forma di

governo, quanto lo stabilire che sarà un governo monarchico ma senza fissare alcuna modalità per

l'identificazione o designazione della persona che dovrà avere il potere ed essere il monarca. Chiunque

giunga a esercitare una parte qualsivoglia del potere per altre vie che non quelle che le leggi della

comunità hanno prescritto non ha alcun diritto di ricevere obbedienza, anche se mantiene intatta la forma

dello Stato. Egli non è infatti la persona che le leggi hanno designato e, dunque, non è la persona cui il

popolo ha dato il suo consenso. Né un usurpatore siffatto, o chi a lui succeda, può avere alcun diritto, finché

il popolo abbia libertà di consentire e abbia effettivamente consentito a riconoscergli e confermargli il

potere che fino a quel momento ha usurpato.

Capitolo XVIII, La tirannide

§199. Come l'usurpazione è l'esercizio del potere cui altri ha diritto, così la tirannide è

l’esercizio d’un potere che trascende il diritto e a ciò nessuno ha un titolo. Si tratta dell'uso del potere

di cui ciascuno dispone, non per il bene di coloro che vi sono soggetti, ma per il proprio vantaggio

personale. Si ha tirannide quando chi governa, a qualsiasi titolo, erige a norma non la legge ma la propria

volontà; quando i suoi ordini e le sue azioni non sono dirette alla salvaguardia del popolo, ma alla

soddisfazione della propria ambizione, del proprio spirito di vendetta, della propria avidità e di altre

sregolate passioni […].

§201. È un errore credere che questo difetto sia p r o p r i o s o l t a n t o d e l l e monarchie. Altrettanto

suscettibili ne sono le altre forme di governo: perché dovunque il potere, che viene affidato a qualcuno

perché governi il popolo e ne salvaguardi la proprietà, è esercitato con altri fini, e usato per ridurre il

popolo alla miseria, angariarlo e sottometterlo all'imperio arbitrario e sregolato di chi lo possiede,

subito diventa tirannide, siano uno o molti coloro che lo adoperano […].

§202. Là dove finisce la legge ivi comincia la tirannide, se la legge viene trasgredita a danni di

altri; e chiunque ecceda nell'esercizio dell’autorità il potere datogli dalla .legge e usi la forza del cui

comando dispone, per fare ai sudditi cose che la legge non consente, cessa con ciò stesso di essere

un magistrato, e, agisce senza averne l'autorità, gli si può opporre resistenza come a chiunque con

la forza usurpi l’altrui diritto.

Page 19: FACOLTA’ DI STUDI UMANISTICI CORSO DI LAUREA IN ...people.unica.it/annamarialoche/files/2012/04/Storia-fil-politica... · Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla filosofia

19

Charles Louis de Montesquieu, Lo spirito delle leggi (tr. it. a c. di Sergio Cotta, Utet, Torino)

Parte prima

Libro II: Delle leggi che derivano direttamente dalla natura del governo

Capo I: Della natura dei tre diversi governi (p. 66)

Esistono tre specie di governi: il repubblicano, il monarchico e il dispotico. Per scoprirne la natura,

ci basta l’idea che gli uomini, anche i meno istruiti, se ne fanno. Io presuppongo tre definizioni, o

meglio tre fatti: «il governo repubblicano è quello nel quale il popolo tutto, o almeno una parte di esso,

detiene il potere supremo; il monarchico, è quello nel quale uno solo governa, ma secondo leggi fisse e

stabilite; nel governo dispotico, invece, uno solo, senza né leggi né freni, trascina tutto e tutti dietro la

sua volontà e i suoi capricci». Ecco ciò che io chiamo la natura di ogni governo. Ora dobbiamo vedere

quali siano le leggi che derivano da questa natura e sono perciò le prime leggi fondamentali.

Capo V: Delle leggi relative alla natura dello Stato dispotico (p. 81)

Risultato della natura del potere dispotico è che colui il quale da solo lo esercita, lo faccia parimenti

esercitare da uno solo. Un individuo al quale i cinque sensi dicono sempre che egli è tutto e gli altri

nulla, è naturalmente pigro, ignorante, voluttuoso. Pertanto trascura gli affari. Ma se li affidasse a

molti, fra costoro nascerebbero dispute e intrighi per essere il primo fra gli schiavi; il principe sarebbe

costretto a riprendere in mano l’amministrazione. È dunque più semplice per lui abbandonarla ad un

vizir, che in un primo tempo godrà della stessa potenza sua. In un simile Stato la creazione del vizir è

legge fondamentale.

Libro III: Dei principi dei tre governi

Capo I: Differenza della natura del governo e del suo principio (p. 83)

Dopo aver esaminato quali sono le leggi relative alla natura di ogni governo, vediamo ora quelle

che sono relative al suo principio. Fra la natura del governo e il suo principio esiste questa differenza:

che è la sua natura a farlo tale ed il suo principio a farlo agire. L’una è la sua struttura particolare,

l’altro le passioni umane che lo fanno muovere. Ora, le leggi non debbono essere meno relative al

principio di ciascun governo, che alla natura sua. Cerchiamo dunque quale sia questo principio. È

appunto lo scopo mio in questo libro.

Capo IX: Del principio del potere dispotico (pp. 93-94)

Come in una repubblica occorre la virtù, e nella monarchia l’onore, così nel governo dispotico ci

vuole la paura: la virtù non vi è necessaria e l’onore sarebbe pericoloso. Il potere immenso del principe

passa tutto intero nelle mani di coloro ai quali egli lo confida. Persone capaci di avere una grande

stima di se stesse, vi potrebbero fare delle rivoluzioni. Dunque la paura deve abbattere tutti i coraggi,

spegnere anche il più debole senso d’ambizione.

Un governo moderato può, finché vuole e senza pericolo, allentare i suoi congegni: bastano le sue

leggi, la sua stessa forza a sostenerlo. Ma quando in un governo dispotico il principe dimentica per un

momento di levare il braccio, quando non può annientare in un batter d’occhio coloro i quali

detengono i primi posti, tutto è perduto. Infatti la paura, molla del governo, viene a mancare ed il

popolo non ha più protettore […].

Occorre dunque che il popolo sia giudicato dalle leggi, e i grandi dal capriccio del principe; che la

testa dell’ultimo fra i sudditi sia sicura, e quella dei pascià sempre in pericolo. Non è possibile parlare

senza fremere di quei mostruosi governi […].

Page 20: FACOLTA’ DI STUDI UMANISTICI CORSO DI LAUREA IN ...people.unica.it/annamarialoche/files/2012/04/Storia-fil-politica... · Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla filosofia

20

Capo X: Differenze fra l’obbedienza nei governi moderati e nei governi dispotici (p. 95)

Negli Stati dispotici il governo per la sua natura, reclama una obbedienza estrema; e la volontà del

principe, una volta conosciuta, deve sortire il proprio effetto altrettanto infallibilmente di una palla

gettata contro un’altra.

È impossibile proporre temperamenti, modifiche, accomodamenti, rinvii, controproposte,

discussioni, rimostranze, cose eguali o migliori. L’uomo è una creatura che obbedisce ad una creatura

che vuole. È impossibile far presenti i propri timori circa un avvenimento futuro, quanto cercare una

scusa nei capricci della fortuna per un’impresa andata a male. Agli uomini, come agli animali, non

rimane che l’istinto, l’obbedienza, il castigo. È inutile opporre i sentimenti naturali, il rispetto verso il

padre, l’amore per i figli, per la moglie, le leggi dell’onore, lo stato di salute: si è ricevuto un ordine e

ciò deve bastare […].

Libro V: Le leggi date dal legislatore devono essere in armonia con il principio del governo

Capo XIII: L’idea del dispotismo (p. 136)

Quando i selvaggi della Luisiana vogliono della frutta, tagliano l’albero alle radici e la raccolgono.

Ecco il governo dispotico.

Capo XIV: Come le leggi sono in armonia col governo dispotico (pp. 137-143)

Principio del governo dispotico è la paura; ma i popoli timidi, ignoranti, abbattuti non hanno

bisogno di molte leggi. Tutto vi si deve basare su un paio di idee; non ne occorrono dunque di nuove.

Quando ammaestrate una bestia, guardate bene dal farle mutar padrone, lezioni, andatura, ma colpite il

suo cervello con due o tre movimenti e non di più.

Quando vive rinchiuso, il principe non può uscire dal soggiorno della voluttà senza addolorare

tutti coloro che ve lo trattengono. Essi non possono sopportare che la persona, il potere suoi passino in

altre mani. Dunque è ben raro che il sovrano faccia personalmente la guerra, ma la fa condurre ai suoi

luogotenenti. Un simile principe, abituato a non incontrare nessuna resistenza nel suo palazzo, prova

indignazione per quella che colle armi alla mano gli viene opposta: sono quindi sempre la collera o la

vendetta che lo guidano. Egli d'altronde non può nemmeno immaginare la vera gloria. Pertanto le

guerre devon svolgersi con tutta la loro furia naturale, e il diritto delle genti deve esservi

meno esteso che altrove. Un simile principe è così pieno di difetti che si dovrebbe aver paura di

esporne in pieno giorno la naturale stupidità. Egli rimane nascosto e nessuno conosce la condizione in

cui si trova. [...]

La conservazione dello Stato non è altro che la conservazione del principe, o meglio del palazzo

dove questi è rinchiuso. Tutto ciò che non minaccia direttamente questo palazzo o la capitale, non

produce nessuna impressione sopra gli spiriti ignoranti, orgogliosi e prevenuti; e, quanto alla

concatenazione degli avvenimenti, costoro non la possono seguire, prevenire e nemmeno pensare. La

politica, i suoi artifici, le sue leggi, devono essere assai limitati, ed il governo politico altrettanto

semplice di quello civile. Tutto si riduce a mettere d'accordo questi due governi con quello domestico;

i funzionari dello Stato con quelli del serraglio.

Uno Stato siffatto, quando potrà considerare se stesso come solo al mondo, quando sarà circondato

da deserti, separato dai popoli che chiama barbari, si troverà nella situazione migliore. Non potendo

contare sulla milizia, farà bene a distruggere una parte di sé. Come la paura è il principio del governo

dispotico, così il suo fine è la tranquillità; ma non si tratta già della pace, bensì del silenzio, di quelle

città che il nemico è sul punto di occupare […].

Dopo tutto ciò che abbiamo detto parrebbe che la natura dovrebbe ribellarsi continuamente contro il

governo dispotico; ma, malgrado il loro amore per la libertà, il loro odio contro la violenza, la

maggior parte dei popoli si è sottomessa: e ciò si capisce facilmente. Per formare un governo

moderato occorre mettere insieme le potenze, dirigerle, moderarle, farle agire; dare, diciamo,

della zavorra all’una affinché possa resistere all'altra: un capolavoro di legislazione che il caso

riesce di rado a fare e che di rado si lascia fare alla prudenza. Invece un governo dispotico

salta, per così dire, agli occhi; è dappertutto lo stesso: siccome per crearlo bastano le passioni, il

mondo intero è adatto a riceverlo

Page 21: FACOLTA’ DI STUDI UMANISTICI CORSO DI LAUREA IN ...people.unica.it/annamarialoche/files/2012/04/Storia-fil-politica... · Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla filosofia

21

G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia (a c. di G. Calogero e C. Fatta, vol. II, La Nuova Italia, Firenze 19753)

Parte prima, Il mondo orientale

Capitolo I, La Cina (pp. 13-14)

La storia deve cominciare con l’impero cinese, perché esso è il più antico fra quelli di cui la

storia dà notizia, e il suo principio è d'altronde di tale sostanzialità, da esser per questo impero

allo stesso tempo ciò che vi è di più vecchio e di più nuovo. Già presto ved iamo la Cina

progredire fino allo stato in cui si trova presentemente: vi manca infatti ancora il contrasto tra

l'essere oggettivo e il moto soggettivo verso di esso, ed è quindi esclusa ogni mutabilità, e

l'elemento stazionario, che ricompare sempre, fa le veci di ciò, che chiameremmo l'elemento

storico. La Cina e l'India giacciono in certo modo ancora al di fuori della storia del mondo,

quale presupposizione dei momenti la cui congiunzione dà luogo al suo sviluppo vitale. Nell'India,

come in Cina, non vi è progresso a qualcosa di altro. Vi è, sì, un progresso dall'India, come lo

dimostra la connessione delle lingue; ma è un progresso sotterraneo, puramente naturale, non

adeguato alla coscienza, mentre, nel caso della cultura e della coscienza, si tratta di un altro

progresso, che non si basa su una diffusione naturale. L'unione degli opposti, spirito sostanziale

e soggettività come tale, è così salda, che l'uno e l'altro costituiscono un'unità indivisa, onde la

sostanza non può giungere alla riflessione in sé, alla soggettività. L'elemento sostanziale, che

appare come elemento morale, domina, così, non come sentimento del soggetto, ma come dispotismo

del capo. La rappresentazione del sostanziale è autodominante: l'universale, che qui appare come

sostanziale, morale, è, attraverso tale assolutismo, così dispotico, che non ha potuto aver luogo la libertà

soggettiva, e quindi il mutamento. Da che mondo è mondo, questi imperi non si sono potuti

sviluppare che in sé. Nell’idea essi sono i primi, e nello stesso tempo essi sono gli inerti.

L'unione tra la Cina e i Mongoli ricorda quella tra l'Impero e il Papato. Vi è un impero

mondano e uno spirituale; attraverso 1'agricoltura e la costituzione domina la civiltà, e accanto ad essa

vi è un popolo nomade, con una religione e una civiltà adeguata a questo stato, e che perciò non è

veramente una civiltà. Ambedue sono strettamente legati; vi sono così due sovrani nello stato, ognuno

dei quali ha un suo regno particolare. Il loro riavvicinamento politico è di data posteriore. La Cina

è unita alla Mongolia, e tuttavia è restata quello che era; per l'altro impero, la Cina rappresenta la

dominatrice.

Page 22: FACOLTA’ DI STUDI UMANISTICI CORSO DI LAUREA IN ...people.unica.it/annamarialoche/files/2012/04/Storia-fil-politica... · Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla filosofia

22

Carl Schmitt, La dittatura. Dalle origini dell’idea moderna di sovranità alla lotta di classe

proletaria, (tr.it. a c. di F. Valentini, Laterza, Roma-Bari 1975)

Capitolo I, La dittatura commissaria e la dottrina dello Stato (pp. 15-16)

Teoria tecnica e teoria giuridica dello Stato

Gli scrittori umanisti del Rinascimento avevano ereditato il concetto di dittatura dalla storia

romana e dai suoi autori classici. I grandi filologi e studiosi dell'antichità romana raccoglievano da

Cicerone, Livio, Tacito, Plutarco, Dionigi di Alicarnasso, Svetonio, ecc. i vari passi pertinenti e si

occupavano della dittatura come di un oggetto proprio della scienza dell'antichità, senza preoccuparsi di

elaborare un concetto che potesse avere un significato generale per la teoria dello Stato. In tal modo

gettavano le basi di una tradizione che si mantenne fino al XIX secolo senza apprezzabili variazioni: la

dittatura è una saggia invenzione della repubblica romana, il dittatore un magistrato straordinario

introdotto dopo la cacciata dei re per garantire in tempi di pericolo un forte imperium che non

potesse essere messo in discussione, come l'autorità dei consoli, dall'esercizio collegiale del governo, dal

diritto di veto dei tribuni della plebe o dall'appello puro e semplice al popolo. Al dittatore,

nominato dal console su richiesta formale del senato, spettava il compito di far fronte a quella

situazione di pericolo venutasi a creare e che era la ragione della sua carica; cioè guidare la guerra

(dictatura rei gerendae) oppure reprimere una sedizione interna (dictatura seditionis sedandae). In

seguito, i casi in cui si faceva ricorso alla dittatura andarono moltiplicandosi, ad esempio: per la

convocazione di assemblee popolari (comitiorum habendorum), per l'affissione del chiodo che

per motivi religiosi era riservata al praetor maximus (clavi figendi), per condurre indagini,

fissare determinate solennità, etc. Il dittatore era nominato per 6 mesi; tuttavia, secondo un

lodevole costume in auge all'epoca dell'antica repubblica, deponeva la carica prima della

scadenza ove il compito affidatogli fosse stato assolto […].

Capitolo IV, Il concetto di dittatura sovrana, (pp. 149-151)

[...] la dittatura sovrana vede in tutto l'ordinamento esistente uno stato di cose da rimuovere

completamente con la propria azione. Essa non sospende una costituzione vigente facendo leva su

di un diritto da essa contemplato, e perciò stesso costituzionale, bensì mira a creare uno stato di

cose nel quale sia possibile imporre una costi tuzione ritenuta come quella autentica. In altre

parole, la dittatura sovrana si richiama non ad una costituzione già in vigore, ma ad una ancora da

attuare. Si potrebbe allora obiettare che un'impresa del genere si sottrae a qualsiasi

considerazione di diritto. Lo Stato infatti non può essere concepito come realtà di diritto se

non nella sua costituzione e la negazione totale della costituzione vigente dovrebbe

logicamente rinunciare ad ogni giustificazione di ordine giuridico, dal momento che la

costituzione nuova da imporre, stanti le premesse, non esiste ancora. Si tratterebbe insomma di

una questione di forza pura e semplice. Le cose però si presentano diversamente se si suppone

un potere che, pur non essendo costituito in virtù di una costituzione (verfassungsmässig

konstituiert), ha con ogni costituzione vigente un nesso tale da apparire come potere fondante,

anche se essa non lo contemplasse mai come tale, un nesso tale da non poter essere negato

neppure nel caso che la costituzione vigente lo neghi. È questo il significato del pouvoir

constituant.

La posizione del principe assoluto non dipende dall'assolvimento di un determinato

compito e i suoi poteri non si risolvono in un'autorizzazione conferita in vista del conseguimento

di un determinato scopo. Ogni dittatura, abbiamo detto, implica una commissione; sorge quindi

il problema di vedere se commissione e sovranità sono conciliabili e fino a che punto la

dipendenza da un mandato contraddice al concetto di sovranità. Ora, il pouvoir constituant, per

la sua natura di potere non costituito e non costituibile, ammette tale dipendenza; infatti è

pensabile che il detentore del potere statuale renda se stesso dipendente senza che per questo il

potere, dal quale si rende dipendente, diventi sovrano costituito e senza che, d'altro canto,

scompaia ogni altra istanza terrena, come avviene quando si fa dipendere il sovrano da Dio

[…]

Page 23: FACOLTA’ DI STUDI UMANISTICI CORSO DI LAUREA IN ...people.unica.it/annamarialoche/files/2012/04/Storia-fil-politica... · Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla filosofia

23

È stato detto che la dittatura è un miracolo perché sospende le leggi dello Stato come il

miracolo sospende le leggi della natura. In realtà il miracolo non è tanto la dittatura, quanto la

frattura dell'ordinamento giuridico esistente provocata dalla fondazione di questa nuova forma

di governo. La dittatura invece, sia commissaria che sovrana, implica il riferimento ad un

contesto giuridico. La dittatura sovrana si richiama al pouvoir constituant, che non può essere

eliminato da alcuna costituzione contraria. Dio come mandante è completamente diverso dal

detentore del pouvoir constituant, come diversa è la disposizione divina, la provvidenza […]

rispetto all'«acte imperatif» [...]. Ma c'è un'altra cosa: il commissario immediato del popolo

non ha più, come il commissario del principe assoluto, un punto di riferimento fisso dal quale

dipendere. Continua certamente ad essere ritenuta valida la vecchia idea di commissario, e cioè

che egli rappresenta un altro e fa semplicemente quello che il rappresentato avrebbe fatto se

avesse potuto essere sul posto (vices gerit); ma essa acquista ora un contenuto del tutto nuovo per

il fatto che adesso il soggetto rappresentato è il popolo […].

Capitolo VI, La dittatura nell’attuale ordinamento dello Stato di diritto: lo stato di assedio (pp. 211-217)

Sia nel diritto romano che nella letteratura giusnaturalista, specialmente in Locke, il diritto

di vita e di morte appare come l'espressione somma di un potere illimitato. Nel XIX secolo

invece, quando si parla di dittatura, si intende normalmente il cosiddetto stato d'assedio fittizio e

quando il discorso cade sugli aspetti giuridici di tale dittatura, si finisce sempre col tirare in

ballo la libertà di stampa e diritti analoghi, dimenticando le innumerevoli vittime di una guerra civile,

che perdono realmente la vita da ambo le parti, e non per pura finzione. La ragione di questo

paradosso va individuata nella profonda incapacità di distinguere il contenuto di una commissione

d'azione da un procedimento regolato per legge. Per chiarire questa distinzione ci sia consentito

accennare allo stato di eccezione così com'è configurato nell'art. 48 della costituzione tedesca dell' 11

agosto 1919, anche perché getta un po' di luce sugli sviluppi che l'hanno preceduta, come del resto

essa non sarebbe intelligibile senza di essi. Secondo il comma 2 di quest'articolo il presidente del

Reich, quando si verifica una grave situazione di turbamento o di pericolo per la sicurezza e l'ordine

pubblico nel Reich tedesco, ha la facoltà di adottare le misure necessarie per ristabilire la sicurezza e

l'ordine pubblico e, se necessario, di intervenire anche con la forza armata. È implicita qui

un'autorizzazione per una commissione d'azione non circoscritta dal diritto, le cui condizioni sono

soggette al giudizio del presidente del Reich (per quanto sotto il controllo del parlamento, regolato

dall'art. 3 e contemplato dall'art. 50) e la cui esecuzione effettiva deve avvenire ad opera di incaricati

commissari. In altre parole, questa disposizione contiene chiarissimo il caso di una dittatura

commissaria; dal momento poi che tale disposizione è già diritto vigente, non occorre neppure

aspettare la legge prevista dal comma 5 e non ancora promulgata sullo stato di eccezione. Abbiamo

evidentemente a che fare con un'autorizzazione a operare un intervento incondizionato del tutto

inconsueta per la concezione finora corrente dello Stato di diritto. Il presidente del Reich tedesco può

adottare tutte le misure, con la sola condizione che esse appaiano a suo giudizio dettate dalle

circostanze. Di conseguenza, come ammise lo stesso ministro della giustizia Schiffer in piena

Assemblea nazionale, il presidente potrebbe anche far spargere gas velenosi su intere città se ciò fosse

nel caso concreto una misura necessaria per il ristabilimento della sicurezza e dell'ordine. Occorre però

precisare che queste dovranno essere sempre misure di fatto, altrimenti quest'autorizzazione illimitata

significherebbe dissolvere lo Stato di diritto esistente e attribuire la sovranità al presidente del Reich;

non potranno mai essere quindi atti legislativi o giurisdizionali. Il ministro della giustizia Schiffer, dal

fatto che l'art. 48 non indicasse alcuna limitazione, traeva la conclusione che l'autorizzazione era

illimitata. Una conclusione però che di per sé può riferirsi soltanto a misure di fatto, perché in materia

di legislazione e di amministrazione giudiziaria si richiederebbe una disposizione positiva della

costituzione, come supponeva lo stesso ministro richiamandosi ad affermazioni fatte dai relatori

Delbrück e conte di Dohna nella seduta del 5 luglio 1919. L'intervento sui diritti civili garantiti dalla

costituzione non può essere che di natura fattuale. Se ammettessimo che l'autorizzazione generale

prevista dall'art. 48 investe anche qualsiasi atto del legislativo, l'articolo significherebbe in pratica una

delega illimitata e si cadrebbe in contraddizione a voler sostenere che esso non sospende la

costituzione così come la sospese a suo tempo la monarchia della restaurazione, quando interpretò in

questo senso l'art. 14 della costituzione francese del 1814. L'unica differenza è che allora il re

rivendicava a sé una sovranità intesa come pienezza di potere straordinaria e illimitata, mentre ora il

Page 24: FACOLTA’ DI STUDI UMANISTICI CORSO DI LAUREA IN ...people.unica.it/annamarialoche/files/2012/04/Storia-fil-politica... · Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla filosofia

24

presidente del Reich, oppure il parlamento in virtù del controllo che esercita sul presidente, avrebbe

assoluto potere su di uno stato di eccezione illimitato. In questa maniera il presidente del Reich o il

Reichstag diventerebbero depositari di un pouvoir constituant e la costituzione si ridurrebbe ad

elemento estremamente provvisorio e precario dell'ordine esistente. Il presidente del Reich potrebbe

assumere tali poteri in virtù di un mandato dell’Assemblea nazionale costituente, se questa fosse intesa

come depositaria di un pouvoir constituant e il presidente come suo commissario. Un'ipotesi del

genere non sarebbe impensabile nel diritto costituzionale degli Stati europei. Vorrebbe dire però che

questo mandato si estinguerebbe una volta sciolta l'Assemblea nazionale. Il Reichstag invece,

essendo pouvoir constitué, non sarebbe evidentemente in grado di conferire simili commissioni

illimitate.

La contraddizione insita in ogni regolamentazione positiva dell'art. 48 emerge chiaramente a

galla quando l'articolo, anche per influsso dell'evoluzione storica di questa materia, dopo

l'autorizzazione generale all'azione, dispone che il presidente del Reich può a questo scopo

(ristabilimento della sicurezza e dell'ordine pubblico) sospendere provvisoriamente (non è indicato

con precisione per quanto tempo), in tutto o in parte (!) i diritti fondamentali sanciti dagli articoli

114 (libertà personali), 115 (inviolabilità del domicilio), 117 (segreto epistolare e postale), 118

(libertà di stampa e dalla censura), 123 (diritto di riunione), 124 (diritto di associazione) e 153

(proprietà privata). Mentre nella frase che contiene l'autorizzazione generale non sono posti limiti,

qui il potere è limitato dall'enumerazione dei diritti fondamentali sui quali è ammesso l'intervento.

Secondo quello che siamo andati finora esponendo, l'enumerazione non significa minimamente una

delega del potere legislativo, ma soltanto l'autorizzazione a intervenire con misure concrete, in forza

della quale si è dispensati nel caso concreto dal rispetto di certi diritti che possano ostacolare

l'intervento. D'altro canto i diritti enumerati sono tanti e il loro contenuto è talmente generale che è

ben difficile parlare di un limite dell'autorizzazione. Manca tuttavia, tra gli altri, l'art. 159.

Comunque sia, è una ben strana disciplina quella che prima prevede un'autorizzazione capace di

sospendere l'intero ordine giuridico esistente, compreso ad esempio l'art. 159, poi enumera una serie

circoscritta di diritti fondamentali che possono essere sospesi. Non ha senso che, dopo aver

riconosciuto al presidente del Reich facoltà talmente estese da potere al limite cospargere le città di

gas velenosi, di comminare pene di morte e di pronunciare sentenze tramite commissioni

straordinarie, gli venga in più assicurata espressamente la facoltà, ad esempio, di autorizzare la

censura sulla stampa. In altre parole, gli si attribuisce implicite il diritto di vita e di morte ed

explicite quello di sospendere la libertà di stampa.

Queste contraddizioni esistenti nella costituzione di Weimar non devono meravigliare, perché

hanno la loro radice in una combinazione di dittatura sovrana e dittatura commissaria e sono perciò

perfettamente coerenti con uno sviluppo storico nel quale questa confusione è tutt'altro che risolta. Il

fatto che questa contraddizione impronti di sé tutto uno sviluppo storico, non ha che una

spiegazione. Nella transizione dall'assolutismo monarchico allo Stato borghese di diritto si dava per

scontato che si fosse definitivamente raggiunta l'unità solidale dello Stato. Tumulti e insurrezioni

potevano tutt'al più arrecare pregiudizio alla sicurezza, mentre l'omogeneità dello Stato rimaneva

sostanzialmente intatta, non minacciata seriamente dal formarsi di raggruppamenti sociali al suo

interno. La violazione dell'ordine legale da parte di un individuo o di un gruppo è un'azione per la

quale si può prevedere e regolare in anticipo la reazione, allo stesso modo che l'esecuzione delle

sentenze penali e civili contempla un'esatta delimitazione dei mezzi coercitivi che può impiegare, e

in questo consiste la disciplina giuridica del procedimento. É vero che questa limitazione può forse

compromettere il raggiungimento dello scopo: infatti, una volta esauriti i mezzi di esecuzione

consentiti, la coercizione perde di efficacia di fronte al reo, ciò che Binding, particolarmente

sensibile in materia, esprime dicendo che «il reo si fa beffa del diritto». È tuttavia una beffa che non

è in grado di minare l'unità dello Stato e la saldezza dell'ordinamento giuridico. Un procedimento

esecutivo può essere disciplinato giuridicamente fintanto che l'avversario non rappresenta una

potenza tale da mettere in questione l'unità dello Stato. Proprio su questo punto, almeno secondo il

liberalismo continentale del XVIII e XIX secolo, appariva in tutta la sua importanza la funzione

storica della monarchia assoluta, che aveva annientato i poteri feudali e dei ceti e creato una

sovranità nel senso moderno di unità dello Stato. Quest'unità è il presupposto fondamentale

della letteratura rivoluzionaria del XVIII secolo. La tendenza a isolare l'individuo e a

sopprimere ogni raggruppamento sociale all'interno dello Stato, di modo che Stato e individuo

si trovino di fronte senza mediazioni, è già stata messa in luce quando abbiamo trattato delle

Page 25: FACOLTA’ DI STUDI UMANISTICI CORSO DI LAUREA IN ...people.unica.it/annamarialoche/files/2012/04/Storia-fil-politica... · Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla filosofia

25

teorie del dispotismo legale e del Contrat social. Nel suo discorso sulla repubblica Condorcet,

che ancora una volta ci sembra il più tipico rappresentante della sua epoca, ha indicato le ragioni

per cui ha cessato di essere monarchico per farsi repubblicano: oggi, dice Condorcet, non

viviamo più in un'epoca nella quale esistano ancora all'interno dello Stato gruppi e classi

potenti, sono scomparse le associations puissants. Fintanto che sono esistiti era necessario un

dispotismo armato (un despotisme armé) per tenerli soggiogati; ma ora che l'individuo, isolato

dall'uguaglianza generale, si trova di fronte alla totalità unitaria dello Stato, occorre un minore

dispendio di mezzi coercitivi per ridurlo alla ubbidienza: «il faut bien peu de force pour

forcer les individus à l'obéissance». Stando così le cose, è possibile regolare anche il

cosiddetto stato d'assedio politico come qualsiasi esecuzione di una sentenza penale o civile. Si

possono cioè regolare i mezzi dell'esecuzione, creando in tal modo anche delle garanzie per la

libertà civile. In tal caso lo stato d'assedio è realmente fittizio. Nel caso contrario, invece, si

formano all'interno dello Stato potenti associazioni e tutto il sistema crolla. Negli anni 1832 e

1848, che rappresentano la tappa più importante nell'evoluzione dello stato d'assedio a istituto

giuridico, si poneva già il problema se l'organizzazione politica del proletariato, con tutte le

reazioni connesse, non prospettasse un assetto politico completamente nuovo e non creasse

quindi nuovi concetti di diritto pubblico.

In quegli anni il concetto di dittatura è già presente nei suoi precisi lineamenti teoretici,

così com'è postulato dall'idea di dittatura del proletariato. Quest'idea, desunta da Marx e da

Engels, non fu sulle prime che una delle tante variazioni di uno slogan politico allora

corrente, che fin dal 1830 veniva applicato ai personaggi e alle astrazioni più differenti: si parlava

della dittatura di Lafayette, di Cavaignac, di Napoleone III come di ditta tura del governo, della

strada, della stampa, del capitale, della burocrazia. Ma esisteva anche tutta una tradizione, che va

da Babeuf a Blanqui, che aveva applicato una chiara idea del 1793 alla situazione del 1848,

intendendola come qualcosa di più di una semplice somma di esperienze e metodi del passato. Lo

sviluppo del concetto nel quadro sistematico della filosofia del XIX secolo e in quello politico

prodotto dalle esperienze della guerra mondiale meriterebbe uno studio a parte. Ci limitiamo qui

ad osservare che, dal punto di vista della dottrina generale dello Stato, la dittatura del

proletariato identificato con il popolo, intesa come transizione ad un assetto economico in

cui lo Stato si «estingue», presuppone il medesimo concetto di dittatura sovrana che era alla

base della teoria e della prassi della Convenzione nazionale. Varrà la pena ricordare, allora, quel

che Engels ebbe a dire in un'allocuzione alla Lega dei comunisti nel 1850, perché ne tenesse

conto per la sua prassi: è lo stesso «che in Francia nel 1793».

Page 26: FACOLTA’ DI STUDI UMANISTICI CORSO DI LAUREA IN ...people.unica.it/annamarialoche/files/2012/04/Storia-fil-politica... · Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla filosofia

26

Enciclopedia italiana di Scienze, Lettere ed Arti Istituto dell’Enciclopedia Italiana, fondata da Giovanni Treccani

Roma, 1932 (vol XIV, pp. 847-851)

Fascismo. – Movimento politico italiano creato da Benito Mussolini

DOTTRINA

IDEE FONDAMENTALI - Come ogni salda concezione politica, il Fascismo è prassi ed è

pensiero, azione a cui è immanente una dottrina, e dottrina che, sorgendo da un dato sistema di

forze storiche, vi resta inserita e vi opera dal di dentro. Ha quindi una forma correlativa alle

contingenze di luogo e di tempo, ma ha insieme un contenuto ideale che la eleva a formula di

verità nella storia superiore del pensiero. Non si agisce spiritualmente nel mondo come volontà

umana dominatrice di volontà senza un concetto della realtà transeunte e particolare su cui

bisogna agire, e della realtà permanente e universale in cui la prima ha il suo essere e la sua vita. Per

conoscere gli uomini bisogna conoscere l'uomo; e per conoscere l'uomo bisogna conoscere la realtà

e le sue leggi. Non c'è concetto dello stato che non sia fondamentalmente concetto della vita:

filosofia o intuizione, sistema d'idee che si svolge in una costruzione logica o si raccoglie in una

visione o in una fede, ma è sempre, almeno virtualmente, una concezione organica del mondo.

Così il fascismo non s'intenderebbe in molti dei suoi atteggiamenti pratici, come

organizzazione di partito, come sistema di educazione, come disciplina, se non si guardasse alla

luce del suo modo generale di concepire la vita. Modo spiritualistico. Il mondo per il fascismo

non è questo mondo materiale che appare alla superficie, in cui l'uomo è un individuo separato

da tutti gli altri e per sé stante, ed è governato da una legge naturale, che istintivamente lo trae a

vivere una vita di piacere egoistico e momentaneo. L'uomo del fascismo è individuo che è

nazione e patria, legge morale che stringe insieme individui e generazioni in una tradizione e in

una missione, che sopprime l'istinto della vita chiusa nel breve giro del piacere per instaurare nel

dovere una vita superiore libera da limiti di tempo e di spazio: una vita in cui l'individuo, attra -

verso l'abnegazione di sé, il sacrifizio dei suoi interessi `particolari, la stessa morte, realizza

quell'esistenza tutta spirituale in cui è il suo valore di uomo.

Dunque concezione spiritualistica, sorta anch'essa dalla generale reazione del secolo contro il

fiacco e materialistico positivismo dell'Ottocento. [...]. Il fascismo vuole l'uomo attivo e

impegnato nell'azione con tutte le sue energie: lo vuole virilmente consapevole delle difficoltà

che ci sono, e pronto ad affrontale. Concepisce la vita come lotta, pensando che spetti all'uomo

conquistarsi quella che sia veramente degna di lui, creando prima di tutto in sé stesso lo

strumento (fisico, morale, intellettuale) per edificarla. Così per l'individuo singolo, così per la

nazione, così per l’umanità. Quindi l'alto valore della cultura in tutte le sue forme (arte,

religione, scienza), e l'importanza grandissima dell'educazione. Quindi anche i1 valore essenziale

del lavoro con cui l'uomo vince la natura e crea il mondo umano (economico, politico, morale,

intellettuale). Questa concezione positiva della vita è evidentemente una concezione etica [...].

Il fascismo è una concezione religiosa; in cui l 'uomo è veduto nel suo immanente rapporto

con una legge superiore, con una Volontà obiettiva che trascende l'individuo particolare e lo

eleva a membro consapevole di una società spirituale [...].

Fuori della storia l'uomo è nulla. Perciò il fascismo è contro tutte le astrazioni

individualistiche, a base materialistica, tipo sec. XVIII; ed è contro tutte le utopie e le

innovazioni giacobine. Esso non crede possibile la «felicità» sulla terra, come fu nel desiderio

della letteratura economicistica del '700, e quindi respinge tutte le concezioni teleologiche per

cui a un certo periodo della storia ci sarebbe una sistemazione definitiva del genere umano. Questo

significa mettersi fuori della storia e della vita che è continuo fluire e divenire. Il fascismo

politicamente vuol essere una dottrina realistica; praticamente, aspira a risolvere solo i problemi che

si pongono storicamente da sé e che da sé trovano o suggeriscono la propria soluzione. Per agire

tra gli uomini, come nella natura, bisogna entrare nel processo della realtà e impadronirsi delle

forze in atto.

Antiindividualistica, la concezione fascista è per lo stato; ed è per l'individuo in quanto esso

coincide con lo stato, coscienza e volontà universale dell'uomo nella sua esistenza storica. È contro

il liberalismo classico, che sorse dal bisogno di reagire all'assolutismo e ha esaurito la sua

Page 27: FACOLTA’ DI STUDI UMANISTICI CORSO DI LAUREA IN ...people.unica.it/annamarialoche/files/2012/04/Storia-fil-politica... · Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla filosofia

27

funzione storica da quando lo stato si è trasformato nella stessa coscienza e volontà popolare. Il

liberalismo negava lo stato nell'interesse dell'individuo particolare; il fascismo riafferma lo stato

come la realtà vera dell'individuo.

E se la libertà dev’essere l'attributo dell'uomo reale, e non di quel l'astratto fantoccio a cui

pensava il liberalismo individualistico, il fascismo è per la libertà. E per la sola libertà che possa

essere una cosa seria, la libertà dello stato e dell'individuo nello stato. Giacché, per il fascista,

tutto è nello stato, e nulla di umano o spirituale esiste, e tanto meno ha valore, fuori dello

stato. In tal senso il fascismo è totalitario, e lo stato fascista, sintesi e unità di ogni valore,

interpreta, sviluppa e potenzia tutta la vita del popolo.

Né individui fuori dello stato, né gruppi (partiti politici, associazioni, sindacati, classi).

Perciò il fascismo è contro il socialismo che irrigidisce il movimento storico nella lotta di

classe e ignora l'unità statale che le classi fonde in una sola realtà economica e morale; e

analogamente, è contro il sindacalismo classista. Ma nell'orbita dello stato ordinatore, le reali

esigenze da cui trassero origine il movimento socialista e il sindacalista, il fascismo le vuole

riconosciute e le fa valere nel sistema corporativo degl'interessi conciliati nell'unità dello stato.

Gl'individui sono classi secondo le categorie degl'interessi; sono sindacati secondo le

differenziate attività economiche cointeressate; ma sono prima di tutto e soprattutto stato. Il

quale non è numero, come somma d'individui formanti la maggioranza di un popolo. E perciò

il fascismo è contro la democrazia che ragguaglia il popolo al maggior numero abbassandolo al

livello dei più; ma è la forma più schietta di democrazia se il popolo è concepito, come

dev'essere, qualitativamente e non quantitativamente, come l'idea più potente perché più morale,

più coerente, più vera, che nel popolo si attua quale coscienza e volontà di pochi, anzi di Uno, e

quale ideale tende ad attuarsi nella coscienza e volontà di tutti. [...]

La nazione come stato è una realtà etica che esiste e vive in quanto si sviluppa. Il suo

arresto è la sua morte. Perciò lo stato non solo è autorità che governa e dà forma di legge e

valore di vita spirituale alle volontà individuali, ma è anche potenza che fa valere la sua volontà

all'esterno, facendola riconoscere e rispettare, ossia dimostrandone col fatto l 'universalità in tutte

le determinazioni necessarie del suo svolgimento. È perciò organizzazione ed espansione,

almeno virtuale. Così può adeguarsi alla natura dell'umana volontà, che nel suo sviluppo non

conosce barriere, e che si realizza provando la propria infinità.

Lo stato fascista, forma più alta e potente della personalità, è forza, ma spirituale. La quale

riassume tutte le forme della vita morale e intellettuale dell'uomo. Non si può quindi limitare a

semplici funzioni di ordine e tutela, come voleva il liberalismo. [...]

Il fascismo insomma non è soltanto datore di leggi e fondatore d'istituti, ma educatore e

promotore di vita spirituale. Vuol rifare non le forme della vita umana, ma il contenuto, l'uomo,

il carattere, la fede. E a questo fine vuole disciplina, e autorità che scenda addentro negli

spiriti, e vi domini incontrastata. La sua insegna perciò è il fascio littorio simbolo dell'unità

della forza e della giustizia.

DOTTRINA POLITICA E SOCIALE

[...] Gli anni che precedettero la marcia su Roma, furono anni durante i quali le necessità

dell'azione non tollerarono indagini o complete elaborazioni dottrinali. Si battagliava nelle città

e nei villaggi. Si discuteva, ma – quel ch'è più sacro e importante – si moriva. Si sapeva morire.

La dottrina – bell'e formata, con divisione di capitoli e paragrafi e contorno di elucubrazioni –

poteva mancare; ma c'era a sostituirla qualche cosa di più decisivo: la fede. Purtuttavia, a chi

rimemori sulla scorta dei libri, degli articoli, dei voti dei congressi, dei discorsi maggiori e

minori, chi sappia indagare e scegliere, troverà che i fondamenti della dottrina furono gettati

mentre infuriava la battaglia. È precisamente in quegli anni che anche il pensiero fascista si arma,

si raffina, procede verso una sua organizzazione. I problemi dell'individuo e dello stato; i

problemi dell'autorità e della libertà; i problemi politici e sociali e quelli più specificatamente

nazionali; la lotta contro le dottrine liberali, democratiche, socialistiche, massoniche, popolaresche fu

condotta contemporaneamente alle «spedizioni punitive». Ma poiché mancò il «sistema», si negò

dagli avversarî in malafede al fascismo ogni capacità di dottrina, mentre la dottrina veniva

sorgendo, sia pure tumultuosamente, dapprima sotto l 'aspetto di una possibilità né all'utilità

della pace perpetua. Respinge quindi il pacifismo che nasconde una rinuncia alla lotta e una viltà

Page 28: FACOLTA’ DI STUDI UMANISTICI CORSO DI LAUREA IN ...people.unica.it/annamarialoche/files/2012/04/Storia-fil-politica... · Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla filosofia

28

– di fronte al sacrificio. Solo la guerra porta al massimo di tensione tutte le energie umane e imprime

un sigillo di nobiltà ai popoli che hanno la virtù di affrontarla. [...]

Una siffatta concezione della vita porta il fascismo a essere la negazione recisa di quella

dottrina che costituì la base del socialismo cosiddetto scientifico o marxiano: la dottrina del

materialismo storico, secondo il quale la storia delle civiltà umane si spiegherebbe soltanto con

la lotta d'interessi fra i diversi gruppi sociali e col cambiamento dei mezzi e strumenti di

produzione. Che le vicende dell'economia – scoperte di materie prime, nuovi metodi di lavoro,

invenzioni scientifiche – abbiano una loro importanza, nessuno nega; ma che esse bastino a spiegare

la storia umana escludendone tutti gli altri fattori è assurdo: il fascismo crede ancora e sempre nella

santità e nell'eroismo, cioè in atti nei quali nessun motivo economico – lontano o vicino – agisce.

[...]

Dopo il socialismo, il fascismo batte in breccia tutto il complesso delle ideologie democratiche e

le respinge, sia nelle loro premesse teoriche, sia nelle loro applicazioni o strumentazioni

pratiche. Il fascismo nega che il numero, per il semplice fatto di essere numero, possa dirigere le

società umane; nega che questo numero possa governare attraverso una consultazione periodica;

afferma la disuguaglianza irrimediabile e feconda e benefica degli uomini che non si possono

livellare attraverso un fatto meccanico ed estrinseco com’è il suffragio universale. Regimi

democratici possono essere definiti quelli nei quali, di tanto in tanto, si dà al popolo l'illusione

di essere sovrano, mentre la vera effettiva sovranità sta in altre forze talora irresponsabili e

segrete. La democrazia è un regime senza re, ma con moltissimi re talora più esclusivi, tirannici

e rovinosi che un solo re che sia tiranno. Questo spiega perché il fascismo, pur avendo prima del

1922 – per ragioni di contingenza – assunto un atteggiamento di tendenzialità repubblicana, vi

rinunciò prima della marcia su Roma, convinto che la questione delle forme poli tiche di uno

stato non è,

oggi, preminente è che studiando nel campionario delle monarchie passate e

presenti, delle repubbliche passate e presenti, risulta che monarchia e repubblica non sono da

giudicare sotto la specie dell'eternità, ma rappresentano forme nelle quali si estrinseca l'evoluzione

politica, la storia, la tradizione, la psicologia di un determinato paese. Ora il fascismo supera l'antitesi

monarchia-repubblica sulla quale si attardò il democraticismo, caricando la prima di tutte le

insufficienze, e apologizzando l'ultima come regime di perfezione. Ora s'è visto che ci sono

repubbliche intimamente reazionarie o assolutistiche, e monarchie che accolgono le più ardite

esperienze politiche e sociali […].

Il fascismo respinge nella democrazia l'assurda menzogna convenzionale dell'egualitarismo

politico e l'abito della irresponsabilità collettiva e il mito della felicità e del progresso indefinito.

Ma, se la democrazia può essere diversamente intesa, cioè se democrazia significa non

respingere il popolo ai margini dello stato, il fascismo poté da chi scrive essere definito una

«democrazia organizzata, centralizzata, autoritaria». Di fronte alle dottrine liberali, il fascismo è in

atteggiamento di assoluta opposizione, e nel campo della politica e in quello dell’economia. […]

Le negazioni fasciste del socialismo, della democrazia, del liberalismo, non devono tuttavia far

credere che il fascismo voglia respingere il mondo a quello che esso era prima di quel 1789, che

viene indicato come l'anno di apertura del secolo demo-liberale. Non si torna indietro […].

Un partito che governa totalitariamente una nazione, è un fatto nuovo nella storia. Non sono

possibili riferimenti e confronti. Il fascismo dalle macerie delle dottrine liberali, socialistiche,

democratiche, trae quegli elementi che hanno ancora un valore di vita. Mantiene quelli che si

potrebbero dire i fatti acquisiti della storia, respinge tutto il resto, cioè il concetto di una

dottrina buona per tutti i tempi e per tutti i popoli. Ammesso che il sec. XIX sia stato il

secolo del socialismo, del liberalismo, della democrazia, non è detto che anche il sec. XX

debba essere il secolo del socialismo, del liberalismo, della democrazia. Le dottrine politiche

passano, i popoli restano. Si può pensare che questo sia il secolo dell'autorità, un secolo di

«destra», un secolo fascista; se il XIX fu il secolo dell’individuo (liberalismo significa

individualismo), si può pensare che questo sia il secolo «collettivo» e quindi il secolo dello stato.

Che una nuova dottrina possa utilizzare gli elementi ancora vitali di altre dottrine è perfettamente

logico. Nessuna dottrina nacque tutta nuova, lucente, mai vista. Nessuna dottrina può vantare

una «originalità» assoluta. Essa è legata, non fosse che storicamente, alle altre dottrine che

furono, alle altre dottrine che saranno. Così il socialismo scientifico di Marx è legato al

socialismo utopistico dei Fourier, degli Owen, dei Saint-Simon; così il liberalismo dell’’800 si

riattacca a tutto il movimento illuministico del ’700. Così le dottrine democratiche sono legate

Page 29: FACOLTA’ DI STUDI UMANISTICI CORSO DI LAUREA IN ...people.unica.it/annamarialoche/files/2012/04/Storia-fil-politica... · Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla filosofia

29

all'Enciclopedia. Ogni dottrina tende a indirizzare l'attività degli uomini verso un determinato

obiettivo; ma l’attività degli uomini reagisce sulla dottrina, la trasforma, l'adatta alle nuove

necessità o la supera. La dottrina, quindi, dev'essere essa stessa non un'esercitazione di parole,

ma un atto di vita. In ciò le venature pragmatistiche del fascismo, la sua volontà di potenza, il

suo volere essere, la sua posizione di fronte al fatto «violenza» e al suo valore.

Caposaldo della dottrina fascista è la concezione dello stato, della sua essenza, dei suoi

compiti, delle sue finalità. Per il fascismo lo stato è un assoluto, davanti al quale individui e

gruppi sono il relativo. Individui e gruppi sono «pensabili» in quanto siano nello stato. Lo stato

liberale non dirige il giuoco e lo sviluppo materiale e spirituale delle collettività, ma si limita a

registrare i risultati; lo stato fascista ha una sua consapevolezza, una sua volontà- per questo si

chiama uno stato «etico». Nel 1929 alla prima assemblea quinquennale del regime io dicevo:

«Per il fascismo lo stato non è il guardiano notturno che si occupa soltanto della sicurezza

personale dei cittadini; non è nemmeno un'organizzazione a fini puramente materiali, come quella

di garantire un certo benessere e una relativa pacifica convivenza sociale, nel qual caso a realizzarlo

basterebbe un consiglio di amministrazione; non è nemmeno creazione di politica pura, senza

aderenze con la realtà materiale e complessa della vita dei singoli e di quella dei popoli. Lo stato

così come il fascismo lo concepisce e attua è un fatto spirituale e morale, poiché concreta

l'organizzazione politica, giuridica, economica della nazione e tale organizzazione è, nel suo sorgere e

nel suo sviluppo, una manifestazione dello spirito. Lo stato è garante della sicurezza interna ed esterna, ma è

anche il custode e il trasmettitore dello spirito del popolo così come fu nei secoli elaborato nella

lingua, nel costume, nella fede. Lo stato non è soltanto presente, ma è anche passato e

soprattutto futuro. È lo stato che trascendendo il limite breve delle vite individuali rappresenta

la coscienza immanente della nazione. Le forme in cui gli stati si esprimono mutano, ma la

necessità rimane. È lo stato che educa i cittadini alla virtù civile, li rende consapevoli della loro

missione, li sollecita all'unità; armonizza i loro interessi nella giustizia; tramanda le conquiste del

pensiero nelle scienze, nelle arti, nel diritto, nell'umana solidarietà; porta gli uomini dalla vita

elementare della tribù alla più alta espressione umana di potenza che è l'impero; affida ai

secoli i nomi di coloro che morirono per la sua integrità o per obbedire alle sue leggi; addita

come esempio e raccomanda alle generazioni che verranno i capitani che lo accrebbero di ter-

ritorio e i geni che lo illuminarono di gloria. Quando declina il senso dello stato e prevalgono

le tendenze dissociatrici e centrifughe degl’individui o dei gruppi, le società nazionali volgono

al tramonto». [...]

Se chi dice liberalismo dice individuo, chi dice fascismo dice stato. Ma lo stato fascista è

unico ed è una creazione originale. Non è reazionario, ma rivoluzionario, in quanto anticipa le

soluzioni di determinati problemi universali quali sono posti altrove nel campo politico dal

frazionamento dei partiti, dal prepotere del parlamentarismo, dall'irresponsabilità delle assemblee,

nel campo economico dalle funzioni sindacali sempre più numerose e potenti sia nel settore

operaio come in quello industriale, dai loro conflitti e dal le loro intese; nel campo morale dalla

necessità dell'ordine, della disciplina, della obbedienza a quelli che sono i dettami morali della

patria. Il fascismo vuole lo stato forte, organico e al tempo stesso poggiato su una larga base

popolare. Lo stato fascista ha rivendicato a sé anche il campo dell'economia e, attraverso le

istituzioni corporative, sociali, educative da lui create, il senso dello stato arriva sino alle estreme

propaggini e nello stato circolano, inquadrate nelle rispettive organizzazioni, tutte le forze politiche,

economiche, spirituali della nazione. Uno stato che poggia su milioni d'individui che lo

riconoscono, lo sentono, sono pronti a servirlo, non è lo stato tirannico del signore medievale.

Non ha niente di comune con gli stati assolutistici di prima o dopo l’89. L'individuo nello stato

fascista non è annullato, ma piuttosto moltiplicato, così come in un reggimento un soldato non è

diminuito, ma moltiplicato per il numero dei suoi camerati. Lo stato fascista organizza la nazione,

ma lascia poi agl’individui margini sufficienti; esso ha limitato le libertà inutili o nocive e ha

conservato quelle essenziali. Chi giudica su questo terreno non può essere l'individuo, ma

soltanto lo stato […].

Lo stato fascista è una volontà di potenza e d'imperio. La tradizione romana è qui un’idea di

forza. Nella dottrina del fascismo l'impero non è soltanto un'espressione territoriale o militare o

mercantile, ma spirituale o morale. Si può pensare a un impero, cioè a una nazione che

direttamente o indirettamente guida altre nazioni, senza bisogno di conquistare un solo

chilometro quadrato di territorio. Per il fascismo la tendenza all'impero, cioè all'espansione

Page 30: FACOLTA’ DI STUDI UMANISTICI CORSO DI LAUREA IN ...people.unica.it/annamarialoche/files/2012/04/Storia-fil-politica... · Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla filosofia

30

delle nazioni, è una manifestazione di vitalità; il suo contrario, o il piede di casa, è un segno di

decadenza: popoli che sorgono o risorgono sono imperialisti, popoli che muoiono sono

rinunciatarî. Il fascismo è la dottrina più adeguata a rappresentare le tendenze, gli stati d'animo di

un popolo come l'italiano che risorge dopo molti secoli di abbandono o di servitù straniera. Ma

l'impero chiede disciplina, coordinazione degli sforzi, dovere e sacrificio; questo spiega molti

aspetti dell'azione pratica del regime e l'indirizzo di molte forze dello stato e la severità

necessaria contro coloro che vorrebbero opporsi a questo moto spontaneo e fatale dell'Italia nel

sec. XX, e opporsi agitando le ideologie superate del sec. XIX, ripudiate dovunque si siano osati

grandi esperimenti di trasformazioni politiche e sociali. Non mai come in questo momento i po-

poli hanno avuto sete di autorità, di direttive, di ordine. Se ogni secolo ha una sua dottrina, da

mille indizî appare che quella del secolo attuale è il fascismo. Che sia una dottrina di vita, lo

mostra il fatto che ha suscitato una fede: che la fede abbia conquistato le anime lo dimostra il

fatto che il fascismo ha avuto i suoi caduti e i suoi martiri.

Il fascismo ha oramai nel mondo l'universalità di tutte le dottrine che, realizzandosi,

rappresentano un momento nella storia dello spirito umano.

Benito Mussolini

Page 31: FACOLTA’ DI STUDI UMANISTICI CORSO DI LAUREA IN ...people.unica.it/annamarialoche/files/2012/04/Storia-fil-politica... · Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla filosofia

31

Hanna Arendt, Le origini del totalitarismo (tr.it. Edizioni di Comunità, Milano 1989)

13. Ideologia e terrore (pp. 630-656)

Nei precedenti capitoli abbiamo ripetutamente sottolineato come il totalitarismo sia, oltre che più

radicale, essenzialmente diverso da altre forme conosciute di oppressione politica come il dispotismo,

la tirannide e la dittatura. Dovunque è giunto al potere, esso ha creato istituzioni assolutamente nuove

e distrutto tutte le tradizioni sociali, giuridiche e politiche del paese. A prescindere dalla specifica

matrice nazionale e dalla particolare fonte ideologica, ha trasformato le classi in masse, sostituito il

sistema dei partiti non con la dittatura del partito unico, ma con un movimento di massa, trasferito il

centro del potere dall’esercito alla polizia e perseguito una politica estera apertamente diretta al

dominio del mondo. Quando i sistemi monopartititici, da cui esso si è sviluppato, sono diventati

veramente totalitari, hanno cominciato ad operare secondo una scala di valori così radicalmente

diversa da ogni altra che nessuna delle categoria tradizionali, giuridiche, morali o del buon senso,

poteva più servire per giudicare, o prevedere, la loro azione.

Se è vero che gli elementi del totalitarismo si possono ritrovare andando a ritroso nella storia e

analizzando le implicazioni politiche di quella che usiamo chiamare la crisi del nostro secolo, è

inevitabile concludere che tale crisi non è una semplice minaccia dall’esterno, una conseguenza della

politica estera aggressiva della Germania o della Russia, destinata a scomparire con la morte di Stalin

o il crollo del regime nazista. Può addirittura darsi che il dramma della nostra epoca assuma la sua

forma autentica – quantunque non necessariamente la più crudele – col relegamento del totalitarismo

tra le cose del passato.

Nel quadro di tali riflessioni viene da chiedersi se il regime totalitario, nato da questa crisi e allo

stesso tempo il suo sintomo più chiaro, è semplicemente una soluzione di ripiego che prende i suoi

metodi intimidatori e i suoi strumenti organizzativi dal noto arsenale della tirannide, del dispotismo e

della dittatura e deve la sua esistenza soltanto al fallimento, deplorevole, ma forse accidentale, delle

tradizionali forse politiche (liberali e conservatrici, nazionaliste e socialiste, repubblicane e

monarchiche, autoritarie e democratiche). O se, invece, esso ha una propria natura e può esser definito

al pari di altre forme di governo che il pensiero occidentale ha conosciuto fin dai tempi della filosofia

antica. Se ciò è vero, vuol dire che le nuove istituzioni ad esso proprie poggiano su una delle poche

esperienze fondamentali che gli uomini possono avere quando vivono insieme e si occupano di affari

pubblici. Se c’è un’esperienza fondamentale che trova la sua espressione politica nel regime

totalitario, deve trattarsi, data la novità di tale forma di governo, di un’esperienza che, per qualche

ragione, non è mai servita di base ad un corpo politico e il cui tono generale, benché familiare per altri

aspetti, non ha mai indirizzato al condotta degli affari pubblici.

Dal punto di vista della storia delle idee ciò sembra estremamente improbabile. Le forme di

governo adottate dagli uomini sono state pochissime; [...]. Se si considerano tali invenzioni, [...] si è

tentati di interpretare il totalitarismo come una moderna forma di tirannide, cioè un governo senza

legge in cui il potere è detenuto da un uomo solo. Un potere arbitrario, non frenato dal diritto,

esercitato nell’interesse del governante e contrario agli interessi dei governati, da un lato; la paura

come principio dell’azione, cioè paura del popolo da parte del governante e paura del governante da

parte del popolo, dall’atro; queste sono state le caratteristiche della tirannide per tutta la nostra

tradizione.

Invece di dire che il regime totalitario non ha precedenti, si potrebbe anche dire che esso ha

demolito l’alternativa su cui si sono basate tutte le definizioni dell’esistenza dei governi nella filosofia

politica, l’alternativa tra governo legale e governo illegale, fra potere arbitrario e potere legittimo. [...]

Eppure il regime totalitario ci mette di fronte a un tipo di governo completamente diverso. Certo, esso

sfida tutte le leggi positive, persino quelle che ha promulgato [...]. Ma né opera senza la guida di una

legge né è arbitrario perché pretende di obbedire rigorosamente e inequivocabilmente a quelle leggi

della natura o della storia da cui si son sempre fatte derivare tutte le leggi positive.

Esso sostiene infatti che, lungi dall’essere “senza legge”, va alle fonti dell’autorità da cui il diritto

positivo ha ricevuto la sua legittimazione, [...] che, lungi dall’esercitare il potere nell’interesse di un

solo uomo, è pronto a sacrificare gli interessi vitali immediati di chiunque all’attuazione di quella che

considera la legge della storia o della natura. [...]. Essa si vanta di aver trovato il modo per instaurare

Page 32: FACOLTA’ DI STUDI UMANISTICI CORSO DI LAUREA IN ...people.unica.it/annamarialoche/files/2012/04/Storia-fil-politica... · Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla filosofia

32

l’impero della giustizia sulla terra, qualcosa che la legalità del diritto positivo non è mai riuscita ad

ottenere. [...]

Disprezzando la legalità, il regime totalitario pretende di attuare la legge della storia o della natura

senza tradurla in principi di giusto e ingiusto per il comportamento individuale. Esso la applica

direttamente all’umanità senza curarsi del comportamento degli uomini. [...] Se è vero che i paesi

totalitari hanno perso il contatto con il mondo civile commettendo crimini mostruosi, è altresì vero che

questa criminalità non è stata dovuta semplicemente ad aggressività, spietatezza, bellicosità e perfidia,

bensì a una deliberata rottura di quel consensus iuris che, secondo Cicerone, costituisce il “popolo” e

che, come diritto internazionale, ha costituito nei tempi moderni il mondo civile nella misura in cui

rimane la pietra angolare delle relazioni internazionali anche durante la guerra. Giudizio morale e

punizione giuridica presuppongono entrambi questo consenso fondamentale [...].

La politica totalitaria non sostituisce un corpo di leggi con un altro, non instaura un proprio

consensus iuris, non crea con una rivoluzione una nuova forma di legalità. La sua noncuranza per tutte

le leggi positive, persino per le proprie, implica la convinzione di poter fare a meno di qualsiasi

consensus iuris, pur non rassegnandosi allo stato tirannico di mancanza di ogni legge. Essa può farne a

meno perché promette di liberare l’adempimento della legge dall’azione e dalla volontà dell’uomo; e

promette giustizia sulla terra perché pretende di fare dell’umanità stessa l’incarnazione del diritto.

Per stato di diritto si intende un corpo politico in cui le leggi positive sono necessarie per attuare

l’immutabile ius naturale o gli eterni precetti divini traducendoli in principi di giusto e ingiusto. Solo

in tali principi, nel complesso di leggi positive di ciascun paese, il diritto naturale o i precetti divini

acquistano una loro realtà politica. nel regime totalitario il posto del diritto positivo viene preso dal

terrore totale, inteso a tradurre in realtà la legge del movimento della storia o della natura. [...] Esso [il

terrore nel regime totalitario]diventa totale quando prescinde dall’esistenza di qualsiasi opposizione;

domina supremo quando più nessuno lo ostacola. S la legalità è l’essenza del governo non tirannico e

l’illegalità quella della tirannide, il terrore è l’essenza del potere totalitario. [...] Colpevolezza e

innocenza diventano concetti senza senso; “colpevole” è chi è di ostacolo al processo naturale o

storico che condanna le “razze inferiori”, gli individui “inadatti a vivere”, o le “classi in via di

estinzione” e i “popoli decadenti”. Il terrore esegue queste sentenze di condanna, e davanti ad esso

tutte le parti in causa sono soggettivamente innocenti: gli uccisi perché non hanno fatto nulla contro il

sistema e gli uccisori perché non assassinano realmente, ma si limitano ad eseguire una sentenza di

morte pronunciata da un tribunale superiore. Gli stessi governanti non pretendo di essere giusti o

saggi, ma soltanto di eseguire le leggi naturali o storiche; non applicano leggi, ma eseguono un

movimento in conformità alla sua legge intrinseca. Il terrore è legalità se legge è la legge del

movimento di qualche forza sovrumana, la natura o la storia.

Il terrore [...] il cui fine ultimo non è il benessere degli uomini o l’interesse di un singolo, bensì la

creazione dell’umanità, elimina gli individui per la specie, sacrifica le “parti” per il “tutto”. [...]

Il terrore totale è così facilmente scambiato per un sintomo di governo tirannico perché il regime

totalitario nella sua fase iniziale deve comportarsi some una tirannide [...]. Ma esso non lascia dietro

di sé l’illegalità arbitraria [...]. Sostituisce ai limiti e ai canali di comunicazione fra i singoli un vincolo

di ferro, che li tiene così strettamente uniti da far sparire la loro pluralità in un unico uomo di

dimensioni gigantesche. [...]

Dal punto di vista totalitario il fatto che gli uomini nascano o muoiano può essere considerato

soltanto come una noiosa interferenza con forze superiori. Quindi il terrore, in quanto servo fedele del

movimento naturale o storico deve eliminare dal processo non soltanto la libertà in ogni senso

specifico, ma anche la sua stessa fonte, che è data dalla nascita dell’uomo e risiede nella capacità di

compiere un nuovo inizio. [...]

Le ideologie sono note per il loro carattere scientifico: esse combinano l’approccio scientifico con

risultati di rilevanza filosofica e pretendono di essere una filosofia scientifica. La parola “ideologia”

sembra implicare che un’idea possa divenire materia di studio di una scienza, come gli animali lo sono

per la zoologia e che il suffisso -logia di ideologia, come i zoologia, non indichi altro che i logoi, le

affermazioni scientifiche in proposito. Se ciò fosse vero, un’ideologia sarebbe in verità una

pseudoscienza e una pseudofilosofia, infrangendo al tempo stesso le limitazioni della scienza e quelle

della filosofia. [...]

Page 33: FACOLTA’ DI STUDI UMANISTICI CORSO DI LAUREA IN ...people.unica.it/annamarialoche/files/2012/04/Storia-fil-politica... · Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla filosofia

33

Un’ideologia è letteralmente quello che il suo nome sta a indicare: è la logica di un’idea. La sua

materia è la storia, a cui l’“idea” è applicata; il risultato di tale applicazione non è un complesso di

affermazioni su qualcosa che è, bensì lo svolgimento di un processo che muta di continuo. [...]

Le ideologie non si interessano mai del miracolo dell’essere. Sono storiche, si occupano del

divenire e del perire, dell’ascesa e del declino delle civiltà, anche se cercano di spiegare la storia con

qualche “legge di natura”. La parola “razza” nel razzismo non denota una genuina curiosità circa le

razze umane come oggetto di esplorazione scientifica, la razza è l’“idea” mediante la quale il

movimento della storia viene interpretato come un processo coerente. [...]

Il metodo usato dai dittatori totalitari per trasformare le rispettive ideologie in armi con cui

costringere ciascuno dei sudditi a mettersi al passo col movimento del terrore era poco appariscente.

L’uno si vantava della “freddezza glaciale del ragionamento” (Hitler), l’altro della “inesorabilità della

sua dialettica”, e spingeva le implicazioni a estremi di coerenza logica che, all’osservatore, apparivano

ridicolmente “primitivi” e assurdi: una “classe in via di estinzione” consisteva di gente condannata a

morte; le razze “inadatte a vivere” venivano sterminate. [...]

Quale esperienza di base della convivenza umana permea una forma di governo che ha la sua

essenza nel terrore e il suo principio d’azione nella logicità del pensiero ideologico? È evidente che

una simile combinazione non è mai stata usata prima nelle varie forme di dominio politico [...]. Si è

spesso osservato che il terrore può imperare con assolutezza solo su individui isolati l’uno dall’altro e

che quindi una delle prime preoccupazioni di ogni regime tirannico è quella di creare tale isolamento.

L’isolamento può essere l’inizio del terrore; ne è certamente il terreno più fertile; ne è sempre il

risultato. Esso è, per dire così, pretotalitario. [...] Quel che si chiama isolamento nella sfera politica

prende il nome di estraneazione nella sfera dei rapporti sociali. L’isolamento e l’estraneazione non

sono la stessa cosa. Posso essere isolato – cioè in una situazione in cui non posso agire perché non c’è

nessuno disposto ad agire con me – senza essere estraniato; e posso essere estraniato – cioè in una

situazione in cui come persona mi sento abbandonato dal consorzio umano – senza essere isolato.

L’isolamento è quel vicolo cieco in cui gli uomini si trovano spinti quando viene distrutta la sfera

politica della loro vita, la sfera i cui essi operano insieme nel perseguimento di un interesse comune.

Ma, per quanto lesivo del potere e della capacità di azione, esso lascia intatte le capacità creative e,

anzi, risponde a una loro esigenza. [...]

Mentre l’isolamento concerne soltanto l’aspetto politico della vita, l’estraneazione concerne la vita

umana nel suo insieme. Il regime totalitario, al pari di ogni tirannide, non può certo esistere senza

distruggere il settore pubblico, senza distruggere con l’isolamento le capacità politiche degli uomini.

[...]

L’estraneazione, che è il terreno comune del terrore, l’essenza del regime totalitario e, per

l’ideologia, la preparazione degli esecutori e delle vittime, è strettamente connessa allo sradicamento e

alla superfluità [...].

A parte tali considerazioni [...] rimane il fatto che la crisi del nostro tempo e la sua esperienza

centrale hanno portato alla luce una forma interamente nuova di governo.