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1 LA RIFORMA DEL TITOLO V DELLA COSTITUZIONE E LA COMPETENZA CONCORRENTE (Fabrizio Dal Passo) LE NUOVE ESIGENZE DI GOVERNANCE* IN UN SISTEMA POLICENTRICO "ESPLOSO(*) Il concetto di governance usato in questo testo è sostanzialmente assimilabile, anche se non perfettamente coincidente, con quello usato nel Libro bianco sulla “governance europea” pubblicato dalla Commissione europea il 25 luglio del 2001. Tale concetto è in quella sede così definito: “Il concetto di governance designa le norme, i processi, e i comportamenti che influiscono sul modo in cui le competenze sono esercitate a livello europeo, soprattutto con riferimento ai principi di apertura, partecipazione, responsabilità, efficacia e coerenza”. Ovviamente questa è solo una delle accezioni possibili per definire il concetto di governance. Essa non è certamente la sola oggi adottata e si differenzia in ogni caso dal concetto usato invece in sede ONU dalla “Commissione sulla governance globale”. Nel famoso rapporto del 1995 “Our Global Neighbourhood”, questa Commissione ebbe a definire così la governance: “Governance is the sum of the many ways individuals and institutions, public and private, manage their common affairs. It is a continuing process through which conflicting or diverse interests may be accomodated and co-operative action may be taken. It includes formal institutions and regimes empowered to enforce compliance, as well as informal arrangements that people and instiutions either have agreed to or perceive to be in their interest". In questa sede, come si vedrà più avanti, al concetto di governance si fa riferimento per indicare delle tecniche e dei raccordi di carattere legislativo, regolamentare, normativo, amministrativo, di prassi e di comportamenti che occorrerà sviluppare per consentire il funzionamento complessivo del sistema italiano, così come delineato dal nuovo titolo V della parte II della Costituzione. 1. Alcune delle innovazioni più rilevanti e dei problemi più attuali e significativi derivanti dalla riforma del titolo V della parte II della Costituzione. Qualche riflessione introduttiva. Le innovazioni in materia di attuazione delle normative comunitarie come riflesso della nuova allocazione del potere legislativo fra legislatore statale e legislatori regionali. Come è stato già messo in rilievo da molti[1] e in questo stesso numero di questa Rivista è stato ampiamente sottolineato da G.Falcon e da A.Corpaci[2], non vi è alcun dubbio che la riforma del titolo V della parte II della Costituzione contenuta nella l. cost. n. 3 del 2001 cambia in profondità molti aspetti del nostro sistema costituzionale, e non solo di quella parte tradizionalmente confinata a quello che, secondo alcuni, costituiva “il sistema costituzionale delle autonomie locali”[3] e che altri, invece, avevano preferito definire come “lo Stato regionale italiano”[4]. Il mutamento riguarda, infatti, così profondamente il sistema complessivo che oggi, ispirandosi a un titolo di un A. famosissimo e caro a tanti di noi[5], si deve riconoscere che è sostanzialmente cambiato lo stesso "Ordinamento repubblicano". Su questo piano, e guardando per prima cosa all'aspetto, ormai sempre più rilevante, del raccordo fra sistema costituzionale italiano e sistema europeo, merita innanzitutto sottolineare che l’ampiezza e la profondità di questo mutamento ha tra i suoi effetti più importanti la ridefinizione costituzionale del “posto” delle regioni rispetto all’Unione europea e la definitiva “costituzionalizzazione” del peso del legislatore regionale nell’attuazione degli atti normativi comunitari. In questa stessa Rivista L.Torchia[6] sottolinea che un sicuro effetto della riforma del titolo V della parte II della Costituzione è stato quello di dare pieno “riconoscimento costituzionale” al diritto comunitario, e trae da questa constatazione conseguenze molto rilevanti che non riguardano certamente solo il nuovo “posto” delle regioni e delle autonomie locali nel sistema costituzionale ma sono destinate ad estendersi a

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LA RIFORMA DEL TITOLO V DELLA COSTITUZIONE

E LA COMPETENZA CONCORRENTE (Fabrizio Dal Passo)

LE NUOVE ESIGENZE DI GOVERNANCE* IN UN SISTEMA POLICENTRICO "ESPLOSO” (*) Il concetto di governance usato in questo testo è sostanzialmente assimilabile, anche se non perfettamente coincidente, con quello usato nel Libro bianco sulla “governance europea” pubblicato dalla Commissione europea il 25 luglio del 2001. Tale concetto è in quella sede così definito: “Il concetto di governance designa le norme, i processi, e i comportamenti che influiscono sul modo in cui le competenze sono esercitate a livello europeo, soprattutto con riferimento ai principi di apertura, partecipazione, responsabilità, efficacia e coerenza”. Ovviamente questa è solo una delle accezioni possibili per definire il concetto di governance. Essa non è certamente la sola oggi adottata e si differenzia in ogni caso dal concetto usato invece in sede ONU dalla “Commissione sulla governance globale”. Nel famoso rapporto del 1995 “Our Global Neighbourhood”, questa Commissione ebbe a definire così la governance: “Governance is the sum of the many ways individuals and institutions, public and private, manage their common affairs. It is a continuing process through which conflicting or diverse interests may be accomodated and co-operative action may be taken. It includes formal institutions and regimes empowered to enforce compliance, as well as informal arrangements that people and instiutions either have agreed to or perceive to be in their interest". In questa sede, come si vedrà più avanti, al concetto di governance si fa riferimento per indicare delle tecniche e dei raccordi di carattere legislativo, regolamentare, normativo, amministrativo, di prassi e di comportamenti che occorrerà sviluppare per consentire il funzionamento complessivo del sistema italiano, così come delineato dal nuovo titolo V della parte II della Costituzione. 1. Alcune delle innovazioni più rilevanti e dei problemi più attuali e significativi derivanti dalla riforma del titolo V della parte II della Costituzione. Qualche riflessione introduttiva. Le innovazioni in materia di attuazione delle normative comunitarie come riflesso della nuova allocazione del potere legislativo fra legislatore statale e legislatori regionali. Come è stato già messo in rilievo da molti[1] e in questo stesso numero di questa Rivista è stato ampiamente sottolineato da G.Falcon e da A.Corpaci[2], non vi è alcun dubbio che la riforma del titolo V della parte II della Costituzione contenuta nella l. cost. n. 3 del 2001 cambia in profondità molti aspetti del nostro sistema costituzionale, e non solo di quella parte tradizionalmente confinata a quello che, secondo alcuni, costituiva “il sistema costituzionale delle autonomie locali”[3] e che altri, invece, avevano preferito definire come “lo Stato regionale italiano”[4]. Il mutamento riguarda, infatti, così profondamente il sistema complessivo che oggi, ispirandosi a un titolo di un A. famosissimo e caro a tanti di noi[5], si deve riconoscere che è sostanzialmente cambiato lo stesso "Ordinamento repubblicano". Su questo piano, e guardando per prima cosa all'aspetto, ormai sempre più rilevante, del raccordo fra sistema costituzionale italiano e sistema europeo, merita innanzitutto sottolineare che l’ampiezza e la profondità di questo mutamento ha tra i suoi effetti più importanti la ridefinizione costituzionale del “posto” delle regioni rispetto all’Unione europea e la definitiva “costituzionalizzazione” del peso del legislatore regionale nell’attuazione degli atti normativi comunitari. In questa stessa Rivista L.Torchia[6] sottolinea che un sicuro effetto della riforma del titolo V della parte II della Costituzione è stato quello di dare pieno “riconoscimento costituzionale” al diritto comunitario, e trae da questa constatazione conseguenze molto rilevanti che non riguardano certamente solo il nuovo “posto” delle regioni e delle autonomie locali nel sistema costituzionale ma sono destinate ad estendersi a

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tutto l’ordinamento. Le innovazioni relative a questa materia giungono infatti fino ad incidere in misura molto profonda sul rapporto stesso fra ordinamento italiano e ordinamento comunitario, obbligando a superare definitivamente la logica, ancora talvolta perdurante, della “separazione” per approdare, senza più riserve e finalmente “a tutto tondo”, alla logica della “integrazione”. Non solo: come viene esattamente messo in luce nello stesso saggio, le innovazioni introdotte su questo terreno sono comunque tali da imporre di riconoscere "per Costituzione", e quindi sulla base di un dato e di una copertura costituzionale, che per quanto riguarda il rapporto con le fonti comunitarie le leggi (e i legislatori) regionali sono parificati alla legge (e la legislatore) statale. Il che resta vero anche per quanto riguarda l’ambito in cui è comunque riservata al legislatore statale la determinazione dei principi fondamentali. Sull’ampiezza di questo ambito, nel caso della attuazione con legge regionale di atti comunitari, si potrebbe forse discutere[7]. E’ certo comunque che, quale che sia l’ampiezza della legislazione concorrente nello specifico settore dei rapporti delle regioni con l’Unione europea (e dei rapporti internazionali[8]), anche rispetto all’attuazione delle norme comunitarie occorre in ogni caso fare i conti con gli effetti della costituzionalizzazione di un sistema di separazione di competenze fra il legislatore statale e quello regionale che assume, nel nuovo quadro, un valore di carattere generale. Anche in questo settore, infatti, la competenza esclusiva dello Stato resta limitata alla legislazione attuativa rientrante nelle materie elencate nel secondo comma dell’art. 117 mentre per tutte le materie restanti deve comunque intervenire il legislatore regionale. Inoltre, come dicono giustamente anche Falcon[9] e Caretti[10] in questa Rivista, è ormai da escludere in via generale che nelle materie di competenza concorrente lo Stato possa stabilire altro che i principi fondamentali a lui riservati e dunque non vi è dubbio che, quale sia la soluzione che si voglia dare al problema dell’estensione della competenza concorrente nel settore comunitario, in tutte le materie diverse da quelle riservate alla competenza esclusiva dello Stato ex art. 117 secondo comma Cost. la piena attuazione delle norme comunitarie richiede comunque l’intervento del legislatore regionale (e lo stesso vale anche per dare attuazione alle norme, oggi anche potenzialmente sempre più numerose, di derivazione internazionale[11]). Tale intervento potrà ovviamente svilupparsi secondo due modalità diverse (a seconda che si operi in materie di competenza concorrente o di competenza esclusiva delle regioni) ove si segua la tesi sostenuta da L.Torchia[12] e che pare più immediatamente discendente dal nuovo dato normativo (e soprattutto dal nuovo sistema costituzionale). Secondo questa impostazione anche in questo ambito le materie che rientrano nella competenza concorrente sono soltanto quelle specificamente elencate nel terzo comma dell’art.117 mentre tutte le altre, eccezion fatta per quelle riservate esplicitamente allo Stato dal secondo comma dell’art. 117, sono di competenza esclusiva delle Regioni. L’intervento del legislatore regionale si svilupperà, invece, secondo un unico tipo di modalità (quella propria della legislazione concorrente) se ci si dovesse orientare per una lettura, peraltro possibile sul piano letterale, che dilati la competenza concorrente relativa ai rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni prevista dal terzo comma dell’art.117 Cost., fino a fare di questa materia una sorta di altra “materia trasversale”[13] tale da ricomprendere per attrazione ogni legge regionale di attuazione degli atti normativi comunitari, quale che sia la materia nella quale essa in concreto interviene. E' certo comunque che, sulla base del nuovo sistema costituzionale, l’intervento del legislatore regionale è costituzionalmente necessario ogniqualvolta si tratti di dare attuazione ad atti normativi comunitari che richiedano l’adozione con legge e che non rientrino nel limitato numero di materie riservate alla competenza esclusiva dello Stato. Del resto questa innovazione, particolarmente incisiva sul piano del raccordo fra fonti comunitarie e fonti statali e regionali, non è altro che la conseguenza del generale mutamento di rapporti e di ambito di competenze fra le leggi (le fonti legislative) e i legislatori che questa riforma introduce nel sistema italiano. L’aspetto più macroscopico della riforma riguarda, infatti, proprio il totale ripensamento di come è organizzato e allocato il “potere legislativo” nel nostro ordinamento. I contributi di P.Caretti[14] e di R.Tosi[15], forse più aperto a valorizzare l’innovazione il primo e forse più attento a cercare qualche elemento di continuità con

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l’esperienza precedente il secondo, mettono entrambi in risalto l’incidenza di questo mutamento e segnalano quanto ampi e nuovi siano i problemi a cui occorre far fronte. Su questo piano il dato più rilevante, dimostrato anche dalle riflessioni appena fatte rispetto ai problemi relativi alle leggi di attuazione degli atti normativi europei, è che il legislatore statale ha perso il suo “potere di intervento generale” su ogni materia; potere che invece, malgrado la previsione della competenza concorrente in capo alle Regioni, gli era pienamente riconosciuto nel sistema precedente. Nel nuovo sistema costituzionale il legislatore statale e quello regionale operano, dunque, sempre in regime di separazione di competenze e in una posizione di parità gerarchica nel sistema delle fonti. Parità che si traduce anche nella parità dei limiti e dei vincoli che entrambi incontrano. Da questo punto di vista deve essere sottolineata con attenzione l’importanza che nel nuovo sistema assume il primo comma dell’art. 117. Questa norma, stabilendo che “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali[16]”, assume infatti una funzione cardine: quella di esplicitare la assoluta parificazione dei due legislatori. Parificazione che non viene messa in discussione neppure dalla competenza concorrente di cui all’art. 117 terzo comma, giacché, come si è già ricordato, va profilandosi un consenso sempre più solido in ordine al fatto che in queste materie vi sia una ripartizione di competenze fra il legislatore regionale (che non può dettare principi fondamentali nella materia e che quindi deve rispettare quelli eventualmente previsti da leggi dello Stato) e legislatore statale (che non può comunque stabilire in quelle stesse materie altro che principi fondamentali e dunque deve lasciare integralmente al legislatore regionale di definire e disciplinare ogni altro aspetto). 2. Le innovazioni in materia di amministrazione e le prime considerazioni sul quadro complessivo che discende dal nuovo sistema costituzionale. Non meno rilevanti sono le considerazioni che si devono fare per quanto riguarda le norme sull’amministrazione. Il nuovo art.118 Cost., soprattutto se considerato nel contesto di tutte le innovazioni normative che direttamente o indirettamente toccano l’amministrazione, fonda un nuovo “sistema amministrativo”, che costituisce il più immediato e diretto riflesso di quanto previsto dal nuovo art. 114 Cost., secondo il quale la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato. Sulla base di queste norme, l’amministrazione italiana si configura oggi non solo come un sistema compiutamente e definitivamente policentrico, ma anche come un sistema in cui, indipendentemente da quale sia il legislatore competente a legiferare nelle diverse materie, l’amministrazione deve incentrarsi primariamente sui Comuni. L’amministrazione statale e quella regionale, in modo sostanzialmente analogo a quanto accade per Provincie e Città metropolitane[17], in tanto hanno ragione di esistere e di operare in quanto ciò sia necessario per “assicurare l’esercizio unitario” delle funzioni ad esse assegnate e sempre che questo avvenga “sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”. In sostanza, sotto il profilo dell'amministrazione, Stato e Regioni sono posti esattamente sul medesimo piano delle Provincie e delle Città metropolitane. Questo aspetto essenziale del nuovo quadro costituzionale in materia di amministrazione e di ripartizione delle funzioni amministrative fra i soggetti che costituiscono la Repubblica ai sensi dell'art.114 Cost., non è messo in discussione né dall’osservazione che comunque l’art. 118 secondo comma prevede che le funzioni amministrative a Comuni, Provincie e Città metropolitane debbano essere conferite con legge dello Stato o della Regione, a seconda dell’ambito di competenza di ciascun legislatore, né dal fatto che l’art. 117 secondo comma preveda fra le competenze esclusive dello Stato anche quella di definire le funzioni fondamentali di questi stessi enti. L'art.118 secondo comma, infatti, è certamente importante perché definisce i soggetti e le fonti competenti a operare i conferimenti e, su questo piano ha indiscutibilmente effetti e conseguenze molto rilevanti. Dal canto suo l' art. 117, secondo comma, lettera p) è importante perché sancisce che comunque spetta alla legislazione statale definire

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il “nocciolo duro” delle funzioni fondamentali (e quindi anche della competenze) comunali e provinciali e delle Città metropolitane (il che costituisce un elemento di parificazione fra questi enti che peraltro non mette in discussione la primazia dei Comuni stabilita dal primo comma dell’art. 118 Cost.). Entrambe queste norme, tuttavia, non incidono sotto alcun profilo sul fatto che dal punto di vista della possibile titolarità di competenze amministrative Stato, Regioni, Provincie, Città metropolitane e in un certo senso, sia pure per "sottrazione", anche gli stessi Comuni, sono su un piano del tutto analogo. Ciascuno di questi soggetti, infatti, può (e deve) avere solo le competenze che a ciascuno sono (e devono essere) conferite (o eventualmente lasciate), tenendo conto unicamente dell'eventuale necessità di garantire l'esercizio unitario della funzione e comunque sempre in applicazione dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza[18]. A questo deve poi essere aggiunta la piena consapevolezza del valore che assume il principio[19] secondo il quale le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, ai fini e sulla base dei criteri appena ricordati, esse non possano ( o debbano ) essere attribuite alle Provincie, Città metropolitane, Regioni o Stato. Cosa questa che, per un verso, può in qualche modo consentire di dire che, sia pure solo per "sottrazione", anche i Comuni sono posti su un piano analogo a quello dello Stato, delle Regioni e degli altri enti territoriali, ma che certamente, per un altro verso, impone anche di riconoscere che ai Comuni spetta oggi un ruolo di “primazia nel sistema” (o, secondo un'altra possibile ma meno condivisibile impostazione di “chiusura del sistema”) che precedentemente era proprio, caso mai, dell'amministrazione dello Stato[20]. Non si può dunque non essere colpiti profondamente dalla indubbia rilevanza delle innovazioni intervenute rispetto al sistema precedente e dai problemi che esse pongono rispetto alla necessità di armonizzare tale nuova impostazione generale con le molte altre norme, rimaste immodificate, contenute negli altri titoli della Parte II e in tutta la Parte I della Costituzione[21]. All'interno del quadro fin qui ricostruito si deve poi tener conto anche delle possibili differenziazioni legate non solo alla perdurante presenza delle Regioni a statuto speciale ma anche alla possibilità, riconosciuta a tutte le altre, di stipulare intese differenziate fra Stato e singole Regioni (cfr. nuovo art. 116 Cost.)[22]. E' questa una tematica ancora poco approfondita[23] ma che probabilmente nasconde molti e complessi problemi, anche di carattere procedimentale e attuativo[24]. Quello che è certo, comunque, è che la previsione stessa delle intese, considerate come strumenti che consentono alle Regioni che le stipulano, di differenziarsi (in misura da stabilire in parte in via generale e in parte di volta in volta) dal "sistema regionale uniforme", costituisce un ulteriore e rilevantissimo elemento di innovazione del sistema costituzionale complessivo. Infine va riconosciuta la dovuta importanza della indubbia, anche se problematica, differenziazione che le singole Regioni possono perseguire attraverso l’attività di carattere internazionale prevista dall’art. 117 u.c. e legata alla possibilità di concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro Stato[25]. Tutt’altro che marginale in questo stesso quadro è infine l'esistenza, prevista dal nuovo testo dell’art. 120 Cost., di un potere sostitutivo del Governo, del tutto sconosciuto nel sistema precedente. Questa previsione si configura certamente come una norma finalizzata a istituire comunque un nuovo istituto di raccordo fra i diversi livelli di un sistema complessivo di governi territoriali che ha perso ogni esplicito riferimento unificante[26]. Tuttavia esso, per le sue dimensioni e per la sua portata, si presenta oggettivamente di problematica definizione e di non facile armonizzazione con le altre parti del nuovo sistema costituzionale. Infatti, anche se, con un’impostazione che si condivide, la maggior parte dei commentatori sembra escludere la possibilità di interventi sostitutivi del legislatore regionale, certo la norma prefigura comunque la possibilità di interventi “derogatori” della normale ripartizione di competenze e attribuzione di funzioni. La discussione sulla portata di questo nuovo potere è ancora solo alle prime battute. E’ pacifico tuttavia che la sua stessa previsione non semplifica certo i problemi e arricchisce di ulteriori difficoltà il lavoro dell’interprete che voglia ricostruire, secondo linee organiche e sufficientemente “stabili”, il sistema complessivo che da questa riforma scaturisce[27].

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Va infine ricordato che, nella ricostruzione delle più rilevanti linee innovative del nuovo testo costituzionale, agli aspetti sinora richiamati devono essere aggiunte almeno anche le nuove regole in materia finanziaria e quel timido nuovo strumento di raccordo tra Parlamento, Regioni ed enti locali che è costituito dalla rinvio che l’art. 11 della l. cost. n. 3 del 2001 fa ai regolamenti parlamentari per conferire loro il potere di prevedere la partecipazione di rappresentanti delle regioni, delle provincie autonome e degli enti locali alla Commissione parlamentare per le questioni regionali. Il quadro oggettivamente complesso (e anche complicato) che emerge da tutte queste considerazioni, pur qui espresse in modo sintetico e rapido, per un verso accentua ulteriormente la consapevolezza della portata del cambiamento e per un altro verso consolida la consapevolezza delle difficoltà complessive legate alla piena attuazione della riforma. Questa consapevolezza coglie chiunque si misuri con la profondità di queste innovazioni[28] e obbliga a cercare di sviluppare una riflessione di carattere più generale in ordine alle caratteristiche complessive che, almeno a questo primo stadio del dibattito, questa riforma sembra avere. Una riflessione di questo genere deve comunque scontare una necessaria provvisorietà. Essa infatti potrà essere più compiutamente sviluppata soltanto in futuro, quando alcuni nodi oggi ancora tutti da sciogliere cominceranno a trovare soluzione nella prassi e nella giurisprudenza e quindi alcune linee di tendenza in ordine all’atteggiamento prevalente dei diversi attori coinvolti (attori che vanno dallo Stato alle Regioni, agli enti locali, alle stesse forze della politica, della dottrina e della giurisprudenza) cominceranno a diventare sufficientemente chiare e definite. Tuttavia non è inutile tentare di cominciare ad abbozzare alcune riflessioni di ordine generale, se non altro per cercare di vedere quale sia il quadro di fondo nel quale sono inseriti i molti singoli problemi, tutti importanti e tutti centrali, che oggi stanno assorbendo la nostra attenzione. 3. Il carattere innovativo della riforma del titolo V della parte II della Costituzione rispetto al quadro costituzionale precedente. I tre elementi in gioco: a) la parificazione e la separatezza dei legislatori; b) la parificazione dello Stato, delle Regioni, delle Provincie, delle Città metropolitane e dei Comuni quali elementi costitutivi della Repubblica; c) la mancanza di ogni criterio di “attribuzione automatica” di funzioni amministrative a ciascuno dei diversi livelli di governo, in un sistema che fissa il principio dell’attribuzione delle funzioni ai Comuni come principio sempre derogabile sulla base dei criteri di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. Cercando di individuare, all’interno del complesso costituito da tutte queste diverse questioni, quali sono gli assi portanti della riforma e quali le conseguenze essenziali che essa determina, sembra di poter dire che la vera, grande, novità è costituita dal combinarsi insieme, in un sistema che proprio per questo è “nuovo” e “difficile da definire”, di tre grandi aspetti del tutto contrastanti col sistema precedente. Il primo di questi aspetti, stabilito e regolato dal nuovo art.117 Cost., riguarda il fatto che il nuovo sistema si fonda sulla separatezza e sulla parità dei legislatori statale e regionali. I due legislatori, infatti, sono ora sottoposti entrambi ai medesimi vincoli stabiliti dal primo comma dell’art.117 Cost. e sono regolati entrambi dal principio dell’assegnazione di competenze costituzionalmente definite, collegate a materie costituzionalmente indicate. Inoltre, rovesciando completamente il sistema precedente, la clausola generale di chiusura relativa alle materie non specificamente elencate gioca ora esclusivamente a favore del legislatore regionale. Il secondo aspetto è che viene stabilita la parità tra Stato, Regioni, Provincie, Città metropolitane e Comuni come elementi tutti egualmente costitutivi della Repubblica, specificando che tanto i Comuni quanto le Provincie, le Città metropolitane e le Regioni sono tutti enti dotati di autonomia nonché di propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione (art. 114, primo e secondo comma). Il terzo aspetto, fondato sulla nuova formulazione dell'art.118 Cost., è che viene sancita la potenziale attribuzione delle funzioni amministrative a tutti e ciascuno di questi livelli di governo, senza più alcuna riserva “automatica” di competenza che non sia quella, per certi aspetti più di carattere residuale che di carattere prioritario, legata

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all’applicazione del principio generale di attribuzione ai Comuni nel caso in cui una funzione non debba essere conferita ad altro livello di governo in virtù dei principi e dei criteri indicati al primo comma dell’art.118 Cost.[29]. Questi tre elementi, ciascuno per proprio conto e tutti e tre insieme, concorrono a definire gli aspetti più significativi e la portata stessa dell’innovazione costituita dal nuovo titolo V della parte II della Costituzione. Essi dunque meritano di essere esaminati uno per uno, avendo però ben presente che tutti e tre concorrono insieme a definire un quadro complessivo che, come si è sottolineato già nel primo paragrafo, modifica profondamente l'intero ordinamento repubblicano.

3.1. La parificazione e la separatezza dei legislatori In virtù della parificazione e della separazione dei legislatori noi abbiano oggi un sistema nel quale è venuto meno ogni potere unificante da parte della legge. Così come è venuta meno la nozione stessa di legge individuata come una fonte a carattere generale, è venuta meno la possibilità che la legge (che nel passato era ovviamente la legge statale), e il legislatore (che nel sistema precedente era ovviamente il legislatore statale) possano svolgere un ruolo generale unificante di tutto il sistema. Il solo dato oggi certamente unificante sul piano generale è costituito dalla Costituzione. Dunque è sicuramente vero che il Parlamento nazionale, restando titolare del potere di revisione costituzionale (salvo l’eventuale referendum confermativo) resta titolare di un potere generale di unificazione dell’ordinamento. Si tratta, però, di un potere che può essere ora esercitato solo a questo titolo e solo a questo livello. Cosa questa che, per un verso, sottolinea ancora una volta i limiti di una riforma che ha così profondamente cambiato il sistema complessivo ma non ha modificato la composizione del Parlamento stesso, lasciando così che questo organo a cui resta la titolarità del potere di unificazione a livello costituzionale rimanga ancora totalmente espressione dello Stato centrale e comunque della sola comunità nazionale, ma per un altro verso segna, e sembra di poter dire con una forza particolarmente incisiva, la portata dell’innovazione intervenuta[30]. Questa innovazione infatti, impedendo ormai alla legge (qualunque essa sia e a qualunque soggetto sia imputata) di porsi come elemento unificante a carattere generale dell’ordinamento complessivo ha come conseguenza quella di mutare la natura e il concetto stesso di legge. n sostanza, la legge, qualunque legge e a qualunque soggetto imputata fra quelli previsti dalla Costituzione, potrà certamente continuare ad avere una portata e un carattere generale rispetto ai destinatari ma non potrà più svolgere il ruolo di unificazione del sistema complessivo. Infatti è vero che il legislatore statale mantiene sicuramente competenze esclusive rilevantissime e in grado di assicurare il carattere unitario del sistema complessivo in settori assolutamente essenziali e fondamentali per la convivenza civile, quali, in particolare, quelli della lettera l) dell’ art. 117 secondo comma concernenti la giurisdizione e le norme processuali, l’ordinamento civile e penale, la giustizia amministrativa, ed è certamente in grado di esercitare in misura rilevante importanti “competenze trasversali” fra le quali innanzitutto quella relativa alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Esso però ha comunque perso la “competenza residuale” rispetto alle materie non elencate, comprese quindi quelle assegnate alle Regioni non in virtù dell’elenco del terzo comma dell’art. 117, ma in virtù della clausola residuale a loro favore contenuta nel quarto comma di quello stesso articolo. Il che, insieme al fatto che comunque nel sistema precedente il legislatore statale aveva competenza propria anche in tutte le materie di competenza concorrente fa sì che oggi si possa segnalare come l’effetto più rilevante del nuovo sistema costituzionale proprio la perdita della “competenza generale” da parte del legislatore statale. Né si può obiettare che comunque la competenza generale esiste pur sempre, ma questa volta in capo al legislatore regionale quale titolare del potere legislativo esclusivo “in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione

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dello Stato”, secondo quanto recita il quarto comma dell’art.117. Infatti è certo vero che oggi la competenza “residuale” spetta al legislatore regionale, ma non per questo il legislatore generale è oggi diventato il nuovo legislatore a competenza generale, in grado per questa via di costituire l’elemento unificante del sistema. E questo per l’ovvia ragione che le leggi regionali hanno comunque, in via di principio, una competenza territorialmente limitata al territorio regionale e quindi non possono costituire in alcun modo un elemento unificante su tutto il territorio nazionale nei confronti di tutto l’ordinamento complessivo. I legislatori dunque sono ora divisi e separati. Nel nuovo sistema, insomma, non solo le leggi sono fra loro divise e separate (come pure avveniva già prima laddove il criterio di gerarchia era accompagnato dal criterio di competenza, secondo modalità che caratterizzavano il tipo stesso della fonte) ma anche, e soprattutto, nessuna legge può, per definizione, avere una competenza generale. In altri termini si può dire che ora tutte le leggi, a qualunque legislatore imputate, sono sempre caratterizzate dal principio di competenza. Il che, per un verso conferma e per un altro verso riflette l’aspetto di frammentazione e di mancanza di punti unificanti che caratterizza ormai il sistema delle leggi nel nostro Paese. Da un lato si può certamente continuare a parlare di un unico sistema di fonti, unificato appunto dalla Costituzione nella quale tutte le fonti continuano a trovare il loro radicamento comune. Da un altro lato, però, da ora in poi si dovrà davvero parlare di una pluralità di sistemi di fonti, fra loro distinti e divisi separati e facenti capo a soggetti diversi e separati. Peraltro sarebbe troppo facile sostenere che questo è semplicemente il pieno inverarsi della pluralità degli ordinamenti giuridici. In questo caso infatti, a ben vedere, non siamo di fronte a due possibili tipi di sistemi giuridici, quello statale e quelli delle Regioni, coesistenti e reciprocamente autosufficienti, unificati dalla Costituzione ma per tutto il resto perfettamente autonomi e separati[31]. Al contrario, siamo in presenza di una ripartizione di competenze operata secondo modalità tali da rendere necessariamente interconnessi i due sistemi di fonti. Da un lato, infatti, si è visto che non mancano fra le competenze esclusive dello Stato quelle che, con felice espressione, sono state definite “competenze trasversali”, per sottolineare il fatto che esse condizionano necessariamente l’esercizio di tutte le altre competenze legislative (e non solo) a chiunque assegnate e in qualunque forma esercitate [32]. Da un altro lato, l’elenco delle materie riservate al legislatore statale è tale da rendere difficile ammettere che lo Stato in quanto tale possa limitarsi a svolgere funzioni solo in quelle materie[33], così come è difficile ritenere, a priori e con certezza, che le Regioni possano svolgere funzioni amministrative solo nell’ambito delle materie di loro competenza legislativa[34]. Inoltre occorre sempre ricordare che sicuramente Province, Città metropolitane e Comuni sono destinatari, potenziali e necessari, di funzioni amministrative nell’uno e nell’altro campo, sia in quello riservato alla competenza del legislatore statale sia in quello riservato invece alla competenza del legislatore regionale. Risulta pertanto evidente che, se non altro per il modo stesso con cui sono definiti i criteri di attribuzione delle funzioni amministrative fra i diversi soggetti di cui all’art. 114 comma 1 della Costituzione, è difficile immaginare una perfetta separazione dei diversi ordinamenti, quale la separazione esistente fra i legislatori spingerebbe a ritenere non solo possibile, ma forse persino necessaria. Discende da qui una prima considerazione: il modo col quale è organizzata la funzione legislativa nel nuovo sistema consente certamente di affermare che oggi è proprio la separazione dei legislatori che segna principalmente l’ordinamento italiano complessivo. Si potrebbe dunque forse avanzare anche l'ipotesi che la definizione più incisiva che si possa dare oggi del sistema italiano è quella di un ordinamento a regionalismo legislativo. A questa considerazione se ne deve, peraltro, aggiungere subito una seconda: questo sistema a regionalismo legislativo così spinto, manca di sufficienti elementi unificanti. A questo fine non bastano certamente né i vincoli di cui all’art. 117 primo comma, né i vincoli che possono derivare dall’esercizio da parte dello Stato delle c.d. “competenze trasversali”, né il fatto che comunque il legislatore regionale non possa determinare

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principi fondamentali nelle materie di competenza concorrente e debba perciò rispettare quelli che in queste stesse materie sono eventualmente posti dallo Stato. C’è in sostanza, nel nuovo sistema, un bisogno oggettivo di elementi unificanti che allo stato attuale del dettato costituzionale non trova soddisfazione adeguata nel sistema stesso. Elementi unificanti che non necessariamente dovrebbero trovare una risposta in meccanismi di carattere gerarchico (probabilmente oggi incompatibili con la logica di fondo del nuovo sistema) ma che dovrebbero almeno essere definiti e individuati con ricchezza di tipologie e fantasia di soluzioni attraverso la definizione di nuove forme di raccordi, di collaborazione, di sostanziale integrazione nei casi in cui ciò appaia manifestamente corrispondente all’interesse delle Regioni fra di loro, ovvero delle Regioni e dello Stato complessivamente considerati. 3.2. La parificazione dello Stato, delle Regioni, delle Provincie, delle Città metropolitane e dei Comuni quali elementi costitutivi della Repubblica. La differenziazione fra Stato, da un lato, Regioni, Provincie, Città metropolitane e Comuni, dall’altro. Nel quadro descritto al paragrafo precedente, caratterizzato da una parificazione e una separatezza dei legislatori che incide profondamente sul carattere complessivo dell’ordinamento e induce a guardare con preoccupazione alla insufficiente previsione (anche solo nella forma del raccordo) di adeguati strumenti unificanti fra i diversi legislatori, assume una particolare rilevanza la norma di cui all’art. 114 Cost. Norma, questa, che peraltro costituisce, allo stesso tempo, una sorta di premessa e una sorta di conseguenza della scelta di fondo fatta dal nuovo titolo V della parte II della Costituzione. Questa disposizione assume, inoltre, un rilievo ancora maggiore, e pone problemi ancora più complessi, se la si considera insieme a quanto previsto dal secondo comma dell’art. 114, là dove si chiarisce che dai Comuni fino alle Regioni tutti i soggetti costitutivi della Repubblica, escluso lo Stato, sono comunque dotati di autonomia e di propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione. Questa secondo comma, infatti, per un verso ribadisce la assoluta eguaglianza per così dire “ontologica” che sussiste fra Regioni, Provincie, Città metropolitane e Comuni (quella stessa identità che già alla luce dell’art. 5 aveva a suo tempo permesso di parlare di “sistema costituzionale delle autonomie locali”). Per un altro verso, però, essa introduce implicitamente una distinzione rispetto allo Stato, che invece nel primo comma è considerato alla medesima stregua degli altri soggetti. Non è del tutto chiara la ragione delle due, sicuramente diverse, formulazioni. Sembrerebbe che l’esclusione dello Stato dal secondo comma sia dovuta all’idea che lo Stato sia comunque titolare della sovranità, mentre agli altri soggetti possono spettare solo condizioni di autonomia. Al contrario la parificazione dello Stato agli altri soggetti contenuta nel primo comma corrisponderebbe alla volontà di considerarlo alla stessa stregua degli altri in quanto soggetto costitutivo della Repubblica. Certo che, se anche così fosse, e se questa dovesse essere la interpretazione che prevarrà, resterebbe da chiedersi cosa sia mai la Repubblica. In questo contesto, infatti, essa sembrerebbe essere considerata come un soggetto che non può identificarsi con lo Stato (perché questo è solo un elemento costitutivo di quella) e che allo stesso tempo non può essere titolare diretta di sovranità (perché questa sembrerebbe implicitamente riservata allo Stato). Quello che si può dire con ragionevole certezza è che comunque questa norma costringe a ripensare a fondo tutto il sistema costituzionale, anche per le conseguenze profonde che le innovazioni introdotte hanno sulla prima parte della Costituzione, a cominciare dallo stesso articolo 5 Cost.. Invero nella nuova formulazione appare tutto da definire quale debba essere il significato del riconoscimento e della garanzia che la Repubblica dà alle autonomie locali in base all’art. 5. E sarebbe comunque necessario rispondere a questa domanda chiarendo quale sia oggi il posto dello Stato rispetto all’obbligo della Repubblica di dare attuazione al dettato contenuto in quella norma che, come ben si sa, è collocata comunque tra i principi fondamentali della Costituzione.

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In ogni caso, quello che è certo è che la assoluta parificazione contenuta nel primo comma dell’art. 114, solo parzialmente rimessa in discussione dall’apparentemente contraddittorio secondo comma del medesimo articolo, spinge a guardare con ancora maggiore preoccupazione alla debolezza che caratterizza il nuovo sistema costituzionale proprio sul versante degli strumenti di unificazione esplicitamente previsti. Tutti i diversi elementi costitutivi della Repubblica, posti sul medesimo piano e sostanzialmente (ma, almeno per quanto riguarda le Regioni e le altre autonomie locali, anche esplicitamente) parificati nella loro natura ontologica, rischiano di rendere oggettivamente difficile il funzionamento armonioso del sistema complessivo. E questo non solo nei rapporti tra Stato e Regioni (che, come si è detto, non trovano più oggi alcun elemento forte di unificazione a livello di sistema legislativo) ma anche nei rapporti di tutti questi diversi soggetti tra di loro. In sostanza, anche per questa via risultano confermate tanto l’esigenza di ricercare nuove forme di raccordo e di cooperazione quanto quella di implementare comunque la riforma costituzionale già fatta con la individuazione di nuovi elementi di carattere unificante. A questo si deve aggiungere poi, come si dirà meglio nel paragrafo conclusivo[35], anche la necessità, non meno rilevante e urgente, di completare la riforma anche a livello costituzionale, introducendo ulteriori forti elementi di raccordo fra i diversi livelli di governo e fra i diversi legislatori. In questo senso, occorre giungere rapidamente se non altro alla modifica della composizione del Parlamento e all'istituzione di una Camera che veda la presenza almeno delle Regioni. Cosa, questa, che vale indipendentemente dalla scelta fra l'uno o l'altro dei molti e diversi bicameralismi compatibili con un quadro che voglia dare comunque adeguata rappresentanza ai sistemi regionali, e che prescinde anche dall'opportunità o meno di aprire tali forme di rappresentanza in Parlamento anche a soggetti che siano espressione degli enti territoriali). 3.3. La mancanza di ogni criterio di “attribuzione automatica” delle funzioni amministrative ai diversi soggetti e ai diversi livelli di governo che costituiscono la Repubblica L’ultimo elemento da prendere in considerazione, in questo lavoro di indagine sui caratteri distintivi della riforma, attiene alle norme costituzionali che individuano i criteri e le modalità per l’attribuzione delle funzioni amministrative fra i diversi livelli di governo e i diversi soggetti costitutivi della Repubblica. Queste norme sono già state più volte richiamate e riguardano essenzialmente: a) l’art.117 secondo comma lettera p) Cost., per quanto attiene all’individuazione da parte dello Stato delle funzioni fondamentali di Comuni, Provincie e Città metropolitane; b) il nuovo testo dell’art. 118 Cost. per quanto riguarda i criteri che devono presiedere all’attribuzione delle funzioni; i soggetti che devono operare tale attribuzione; le forme con cui essa deve avvenire [36]. Senza richiamare cose già ricordate in precedenza, si riassumono qui i termini essenziali della questione. L’art. 118 prima comma stabilisce il principio che le funzioni amministrative debba no spettare ai Comuni salvo quelle che siano (ma si direbbe “debbano essere”) conferite alle Provincie, alle Città metropolitane, alle Regioni e allo Stato per ragioni attinenti al loro “esercizio unitario” e comunque sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. Il secondo comma del medesimo articolo stabilisce che i Comuni, le Provincie, le Città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie (si direbbe quelle date dallo Stato nell’ambito della già ricordata competenza dell’art. 117 secondo comma) e funzioni conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze. Il significato di queste disposizioni è, a prima vista, sufficientemente chiaro. In primo luogo esse, ex art.118 primo comma Cost., stabiliscono criteri di attribuzione delle competenze che valgono per tutti i diversi livelli di governo, prevedendo a favore dei Comuni un principio di attribuzione che, a seconda delle interpretazioni, può essere considerato come principio derogabile (come qui si ritiene) o addirittura come

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principio meramente residuale (cosa che, in una forma così netta, si considera molto difficile da accettare). In secondo luogo esse stabiliscono comunque che Comuni, Provincie, Città metropolitane abbiano loro funzioni fondamentali proprie individuate con legge statale (art. 117 secondo comma lettera p)). In terzo luogo, infine, e sempre sulla base del primo comma dell'art. 118 Cost., queste norme stabiliscono che a questi enti (rectius: alle Città metropolitane, alle Provincie, alle Regioni e allo Stato) possano/debbano essere conferite funzioni ulteriori con leggi statali o regionali, fermo restando che ogni legislatore deve adempiere a questo potere/dovere per proprio conto e nell’ambito della proprie separate e distinte competenze. Senonché le cose non sono così chiare. Un primo problema nasce subito dalla domanda se la legge statale di competenza esclusiva di cui all’ art. 117 secondo comma lettera p) debba individuare le funzioni proprie degli enti territoriali solo nell’ambito delle materie riservate alla competenza dello Stato (come certamente deve avvenire per quelle che con legge statale siano successivamente “conferite” ai sensi dell’art. 118 secondo comma) o possa, invece, individuare tali funzioni anche nell’ambito delle materie riservate alla competenza del legislatore regionale (sia questa concorrente o esclusiva). Peraltro, pare sufficientemente evidente, e quindi difficilmente controvertibile, ce la risposta a questo problema non possa che essere nel senso che le funzioni fondamentali di cui all’art. 117, secondo comma, lettera p) possano essere dalla legge statale individuate anche nelle materie non elencate fra quelle di competenza esclusiva dello Stato e possano dunque concernere anche ogni altra materia a qualunque titolo di competenza del legislatore regionale. Il legislatore statale, nell’attribuire le funzioni fondamentali a Province, Città metropolitane e Comuni esercita, infatti, una competenza sua propria, riconosciutagli a titolo esclusivo dalla Costituzione. Questa competenza ha necessariamente, per le sue caratteristiche, un carattere “trasversale” che non può trovare limiti nelle altre materie a qualunque titolo ricomprese nella competenza concorrente o esclusiva, né del legislatore statale, né del legislatore regionale. Un secondo problema riguarda la questione se Stato e Regioni debbano avere competenze amministrative esclusivamente nelle materie in cui hanno competenze legislative loro proprie (nel qual caso è evidente che essi stessi, con le loro leggi, riconoscerebbero, confermerebbero o attribuirebbero a sé stessi la titolarità e l’esercizio di tali funzioni) o se invece tanto lo Stato quanto le Regioni possano essere titolari di competenze amministrative anche in materie assegnate o riservate alla competenza dell’altro legislatore. E’ evidente che se la risposta a questo quesito dovesse essere, come qui si ritiene che debba essere, nel senso che tanto lo Stato quanto le Regioni possano (ma, ove ricorrano i principi dell’art. 118 primo comma, si dovrebbe meglio dire: "debbano”) essere titolari anche di competenze amministrative in materie riservate alla competenza dell’ “altro legislatore” sorgerebbe la questione di quale debba essere il soggetto che emana l’atto di conferimento e con quale "forma" esso debba essere emanato. La risposta a questo nuovo quesito sembra peraltro obbligata. L’atto non potrebbe essere che la legge, almeno ove si versi in casi coperti da riserva di legge, e il soggetto non potrebbe che essere il legislatore competente per materia. Questa conclusione, che appare francamente obbligata, non pone certamente problemi nel caso in cui sia lo Stato con propria legge e nelle materie di propria competenza legislativa, a conferire funzioni amministrative alle Regioni. Può porre invece, almeno in via di fatto, non pochi problemi nel caso in cui siano invece le Regioni con propria legge, adottata nelle materie di propria competenza legislativa, a conferire funzioni amministrative allo Stato. E’ evidente, infatti, che in questo secondo caso, in ordine all’applicabilità o meno dei criteri dell’art. 118 primo comma in favore dello Stato, potrebbero verificarsi decisioni e valutazioni diverse da Regione a Regione. Il che potrebbe determinare il conferimento di funzioni amministrative dalle Regioni allo Stato secondo una logica a “pelle di leopardo”. Né possono essere trascurate le enormi conseguenze che questa lettura del testo costituzionale (la sola che invero sembrerebbe apparire conforme al dato normativo e allo spirito complessivo del nuovo sistema fondato dalla riforma costituzionale [37])

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comporta in ordine ai problemi di carattere finanziario e le complicazioni che possono derivarne in ordine alla necessità di risolvere comunque le complesse questioni relative a chi spetti, e come, di reperire (ed eventualmente trasferire) le risorse necessarie per far fronte a funzioni amministrative di volta in volta individuate e conferite dalla legge statale o dalla legge regionale ai diversi soggetti. Problemi, questi, che effettivamente diventano terribilmente complessi laddove si tratti, come qui appare non solo possibile ma quasi necessariamente inevitabile che si verifichi, di competenze assegnate all’amministrazione statale dalle leggi regionali, ed eventualmente dalle leggi di alcune Regioni soltanto[38]. Tutto questo peraltro conferma, ove ve ne fosse mai stato bisogno, che veramente anche sul piano delle attribuzioni delle funzioni amministrative occorrerebbero strumenti di raccordo e di coordinamento che il testo attuale non prevede e che sembra difficile possano essere individuati da altre fonti subcostituzionali. Un’ultima questione riguarda infine se gli enti territoriali privi di potere legislativo possano o meno attribuire loro funzioni, “proprie” o “conferite” che siano, ad altri soggetti e ad altri livelli di governo territoriale, ovvero ad altri enti locali, dotati o meno di autonomia funzionale. La risposta a questo quesito non è semplice. Per un verso, nei riguardi degli enti territoriali privi del potere legislativo tale eventualità sembrerebbe doversi escludere con certezza per quanto riguarda i poteri propri, e con ragionevole determinazione per quanto riguarda le funzioni conferite. Il testo dell’art. 118 secondo comma, infatti, pare riservare esplicitamente alle leggi statali o regionali il compito di conferire le funzioni. Dunque esso sembra anche riservare sempre e solo ai soli legislatori l’applicazione dei principi dell’art.118 secondo comma quando sia in questione la allocazione delle funzioni amministrative e in ogni caso quando sia in discussione la loro distribuzione fra i soggetti di cui al primo comma dell’art. 114 Cost.. Tuttavia, una tale conclusione potrebbe forse essere messa in discussione da chi osservasse che una tale riserva in favore del legislatore statale o regionale non vale comunque quando, in virtù del quarto comma dell’ art. 118, si tratti di applicare il cosiddetto “principio di sussidiarietà orizzontale”. In questo caso, infatti, la norma esplicitamente assegna tale compito a tutti i soggetti previsti dall’art.114 primo comma, nessuno escluso e nessuno differenziato. Ne consegue, dunque, che, almeno in applicazione di questo principio, dovrebbe essere certamente possibile anche agli enti non dotati di potere legislativo operare il conferimento di funzioni (proprie o conferite non importa) ai soggetti di cui al quarto comma dell'art.118 Cost. Del resto, ove si volesse negare una tale conclusione e tener fermo il principio che gli enti territoriali non possono comunque assegnare funzioni ad altri enti territoriali (perché questo è riservato alle leggi), si dovrebbe concludere che il principio di sussidiarietà verticale si pone per gli enti territoriali come limite all'esercizio di un potere di ridistribuzione delle funzioni che invece è consentito, ed anzi esaltato, con riferimento all'applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale. Per contro, anche se si volesse seguire quest’impostazione non potrebbe certo comunque negare che, in ogni caso, in virtù del principio di sussidiarietà orizzontale, tutti gli enti elencati nel quarto comma dell’art. 118 Cost. possono (ma, forse, “devono”) favorire “l’autonoma iniziativa dei cittadini singoli o associati per lo svolgimento di attività di interesse generale”. Il che significa che, se si ritiene, come una recente ricostruzione che si condivide pienamente afferma[39], che l'autonomia funzionale attribuita a un ente sarebbe sempre la conseguenza (e quindi anche la prova) che questo ente è stato riconosciuto come espressione di autonomia dei cittadini o comunque come espressione di una parte di società aggregata intorno all'obiettivo di perseguire in modo autonomo specifici interessi di carattere generale, la tesi di escludere, in ogni caso, la possibilità per gli enti territoriali di trasferire o conferire competenze ad altri enti territoriali per il prevalere in ogni caso del principio di sussidiarietà verticale su quello orizzontale, condurrebbe a conseguenze abnormi. Ne deriverebbe infatti che quello che gli enti territoriali non possono fare in favore di altri enti territoriali (proprio perché impediti dalla riserva al legislatore statale dell'applicazione del principio di sussidiarietà verticale) potrebbero farlo in favore di

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altri enti locali titolari di autonomia funzionale (proprio perché questi rientrerebbero fra i soggetti immediatamente destinatari del principio di sussidiarietà orizzontale). Sulla base del ragionamento sin qui svolto, si potrebbe dunque argomentare che appare incongruo accettare una ricostruzione del sistema che, per quanto salda possa apparire sul piano letterale, condurrebbe ad affermare che in materia di applicazione del principio di “sussidiarietà verticale” sussista una riserva in favore dei legislatori statale e regionale tale da impedire comunque agli altri enti territoriali di applicare il medesimo principio di loro propria e autonoma iniziativa, e perfino di impedire l’applicazione in favore di tali enti del principio di “sussidiarietà orizzontale”, mentre invece, al di fuori di questi casi, è imposto anche a loro di applicare il principio di “sussidiarietà orizzontale” ogniqualvolta ne ricorrano le condizioni e quindi anche in favore degli enti territoriali dotati di autonomia funzionale. Altri tuttavia potrebbero ritenere che questa differenza fra le due situazioni, in sé oggettivamente molto rilevante, sia giustificata proprio perché in un caso, quello del secondo comma dell’art.118 che riguarda la sussidiarietà verticale, viene in questione “l’attribuzione delle funzioni”, mentre nell'altro caso, quello del quarto comma dell’art. 118 che riguarda la sussidiarietà orizzontale, viene in discussione non l’attribuzione ma “la modalità di esercizio delle funzioni”[40]. Ad ogni buon conto, quali che siano le conclusioni alle quali si voglia arrivare in ordine alla questione da ultimo esaminata, occorre riconoscere che anche sotto questo profilo il sistema fondato dalla nuova normativa appare particolarmente complesso e singolarmente privo di sufficienti elementi di orientamento e di coordinamento. 4. Le differenze fra il nuovo testo del Titolo V della parte II della Costituzione e le riforme amministrative della XIII legislatura

Al fine di comprendere ancora meglio il carattere e la dimensione innovativa della riforma che stiamo esaminando, può essere utile un rapido raffronto col processo riformatore svoltosi nella XIII legislatura e noto essenzialmente come il federalismo amministrativo a Costituzione invariata introdotto dalle leggi Bassanini. Sotto taluni punti di vista i due processi paiono avere molti aspetti in comune, primo fra tutti quello della elencazione delle materie di competenza dello Stato e il richiamo ai principi di sussidiarietà (sia verticale che orizzontale) e di adeguatezza e differenziazione che sono comuni ad entrambi i complessi normativi. E del resto non a caso molti hanno visto la riforma del titolo V della parte II anche come un opportuno processo di “stabilizzazione costituzionale” del processo riformatore operato dalla leggi Bassanini[41] . Vale la pena sottolineare, però, che i due processi sono in realtà radicalmente diversi. Sia per scelta che per necessità derivante dal vincolo costituzionale, il processo riformatore innescato dalle leggi Bassanini si è mosso tutto sul terreno delle riforme amministrative e della riorganizzazione del sistema amministrativo italiano complessivamente considerato. Il processo riformatore del titolo V della parte II della Costituzione, anche per il suo implicito collegamento con quanto era avvenuto sia nella Commissione Bicamerale per le riforme costituzionali sia nella fase immediatamente successiva[42], si è mosso mirando essenzialmente a ridefinire i ruoli e i rapporti fra i legislatori. All’amministrazione e alla distribuzione delle funzioni amministrative è stata dedicata un’attenzione in qualche modo subordinata, anche se, come si è cercato di dimostrare, con effetti di grandissima innovazione. In altri termini, mentre il processo riformatore della XIII legislatura si è mosso tutto sul piano amministrativo (e solo indirettamente ha avuto riflessi sul ruolo e l’ambito di competenza del legislatore regionale), il processo riformatore del titolo V si è svolto innanzitutto sul piano della ridefinizione delle competenze fra legislatori e ha mirato essenzialmente a ridurre la competenza del legislatore statale e a separare nettamente, parificandole, le competenze del legislatore regionale rispetto a quelle del legislatore nazionale. E' per questo, del resto, che mentre per il processo riformatore delle Bassanini si è generalmente affermata la definizione di “federalismo amministrativo”, per quanto

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riguarda la riforma del titolo V si è preferito in questa sede parlare di “regionalismo legislativo”. Su questa differenza fra i due processi merita soffermarsi con attenzione. Dando per scontato che, malgrado le forti analogie fra i criteri e i principi richiamati nella l. 59 del 1997 e quelli contenuti nel nuovo art. 118 primo comma della Costituzione, le riforme Bassanini avranno bisogno nei prossimi anni di profonde rivisitazioni al fine di metterle in asse con il nuovo dettato costituzionale[43], quello che qui più interessa sottolineare è che nel contesto di quelle riforme il ruolo del legislatore statale era rimasto assolutamente centrale. Tutto il trasferimento di competenze dallo Stato alle Regioni e agli enti territoriali era avvenuto con leggi o atti aventi forza di legge dello Stato, come del resto i continui e numerosi decreti correttivi successivi confermano. E anche dove le Regioni hanno partecipato con propri atti alla definizione dell'allocazione delle competenze in capo agli enti territoriali, lo hanno fatto sulla base, nei limiti e con le modalità stabilite nella legge di delega statale o negli altri atti con forza di legge dello Stato. Inoltre, va tenuto ben presente che il processo di riordino dell’amministrazione operato dalle riforme Bassanini ha interessato direttamente e operando sostanzialmente nel quadro di un unico processo riformatore, anche l’amministrazione centrale dello Stato e la stessa organizzazione di governo, oltre molti settori di amministrazione e alcuni istituti organizzativi di importanza centrale nel sistema complessivo, quale il completamento del riordino del pubblico impiego, la riforma della dirigenza, quella delle istituzioni scolastiche, quella dei controlli e così via. Tutto questo ha comportato che quelle riforme, malgrado la grande attenzione prestata al tema del c.d. federalismo amministrativo, sono state anche, e in misura non meno importante, un processo complessivo di riordino e di riorganizzazione dell’amministrazione statale italiana. Il che è stato possibile innanzitutto proprio perché la legge statale aveva nel sistema precedente la centralità della competenza e aveva continuato a svolgere anche durante quel periodo la medesima funzione unificante che sempre aveva svolto durante la vigenza del vecchio testo costituzionale; in secondo luogo perché vi era assoluta coincidenza fra competenza legislativa dello Stato e conseguente titolarità delle relative funzioni amministrative, e dunque la legge statale poteva sia procedere al trasferimento di competenze amministrative dello Stato alle Regioni e agli enti territoriali sia operare per il riordino complessivo di tutta quella amministrazione. Considerazioni analoghe possono farsi, e a maggior ragione, per il governo centrale. In conseguenza dell'entrata in vigore della riforma amministrativa, infatti, l'apparato del governo statale ha certamente assistito a una ridefinizione del proprio ruolo e delle proprie missioni ma tuttavia esso non ha mai visto mettere in discussione il ruolo centrale che gli derivava comunque dalla stessa centralità che nel precedente sistema caratterizzava tanto lo Stato quanto il legislatore statale. Tutt’al contrario il nuovo titolo V della parte II della Costituzione, proprio perché incide primariamente sul riparto delle competenze legislative e proprio perché opera nella logica della sostanziale parificazione non solo tra le fonti legislative statali e regionali ma anche tra lo Stato, le Regioni e gli altri enti territoriali quali elementi costituivi della Repubblica e quali destinatari, al medesimo titolo e in applicazione degli stessi criteri, delle funzioni amministrative, obbliga a rivedere al medesimo tempo la centralità del legislatore statale (che come si è cercato di dimostrare non c’è più); la conseguente centralità del ruolo dello Stato; la centralità, infine, del governo statale e delle sue articolazioni. Inoltre, la rottura della coincidenza fra titolarità della funzione legislativa e titolarità della funzione amministrativa rende oggi tecnicamente impossibile un processo analogo a quello che ha caratterizzato le riforme Bassanini. Quel processo infatti aveva nella coincidenza fra potere legislativo e titolarità delle competenze amministrative un punto di forza essenziale, giacché consentiva al legislatore statale di conferire o allocare in modo articolato, e quindi anche a favore delle Regioni e degli enti territoriali, competenze amministrative precedentemente proprie dello Stato, nonché di riorganizzare anche, nel medesimo tempo e coerentemente con tali conferimenti, la propria amministrazione. Operazione questa che, evidentemente, la rottura della corrispondenza necessaria fra titolarità della funzione legislativa e titolarità della funzione amministrativa rende oggi sostanzialmente impossibile.

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Non solo. La profonda mutazione dei rapporti tra legislatori e la complessità della nuova disciplina in materia di attribuzione delle funzioni amministrative fra i soggetti di cui all’art. 114 primo comma Cost. rende in prospettiva meno utile di quanto sia stato in questi anni anche il ruolo che può svolgere il complesso meccanismo centrale di coordinamento tra Stato e regioni e autonomie locali che è stato costruito intorno al sistema delle Conferenze[44]. E’ evidente, infatti, che il sistema delle Conferenze, in virtù della sua stessa natura, può funzionare bene in un sistema in cui le Regioni e le autonomie locali, in ragione della limitatezza stessa di una autonomia tutta collocata essenzialmente e solo sul versante amministrativo, hanno scarso margine e interesse per la differenziazione. Al contrario, in un sistema che separa e parifica i legislatori e affida in larghissima misura alle leggi regionali la definizione delle funzioni da conferire agli enti territoriali, il sistema delle Conferenze perde efficacia perché diventa inadatto a cogliere, guidare e governare tutte le mille possibili sfaccettature e differenziazioni che nell’azione legislativa e amministrativa delle Regioni e degli enti territoriali subregionali potranno in futuro verificarsi. Se è probabile infatti che, almeno in un primo tempo, il sistema delle Conferenze sembrerà assumere, e di fatto assumerà, una funzione ancora più strategica che nel passato, potenzialmente persino a danno dello stesso Parlamento, è molto probabile però che in un futuro non lontano questo stesso modello, se non profondamente corretto e integrato con altri meccanismi istituzionali, potrà dimostrare limiti e difficoltà molto rilevanti, e comunque tali da costringere rapidamente a “inventare” nuove e più sofisticate forme di raccordo[45]. In ogni caso, proprio il confronto fra le riforme della passata legislatura e il contenuto di quella qui in esame ci convince ulteriormente della necessità di accompagnare l’attuazione della riforma costituzionale con la ricerca di forme di unificazione e di raccordo che per un verso siano compatibili (e non contrastanti) con lo spirito e la lettera della riforma e per l’altro siano in grado di consentire un effettivo e “ben temperato” funzionamento del sistema complessivo[46].

5. Qualche conclusione provvisoria. Una riforma che ha bisogno di una nuova governance. Se le considerazioni sinora svolte sono fondate, siamo di fronte a una riforma che, per essere pienamente attuata, richiede non solo uno sforzo certamente inusuale di interpretazione e di sistematizzazione, ma anche uno sforzo non meno rilevante di completamento e di implementazione. Si tratta infatti di individuare e costruire quegli strumenti e quegli istituti di raccordo, e di potenziale unificazione (che non significa ovviamente uniformizzazione), senza i quali il sistema italiano potrebbe trovarsi di fronte a non poche difficoltà. Difficoltà che, probabilmente, riguarderebbero tanto la legittimazione in senso politico-costituzionale del sistema complessivo, quanto la sua stessa funzionalità e operatività. Se si vuole, si può utilizzare uno schema concettuale che di recente F.W. Scharpf ha richiamato per descrivere i problemi che caratterizzano in questa fase storica l’Unione europea[47]. Possiamo così parlare di un rischio di legittimazione del sistema complessivo sul versante dell’input[48] (dovuto alla possibile difficoltà di far comprendere agli elettori, e di rendere comunque efficaci, i diversi livelli di responsabilità politica in un sistema in cui la rappresentanza democratica e i mandati elettorali, tutti dotati di un forte potere di condizionamento reciproco dovuto al rafforzamento del ruolo dei rispettivi livelli di governo, rischiano di condizionarsi, ostacolarsi e bloccarsi a vicenda). A questo possiamo aggiungere un non meno pericoloso rischio di crisi di legittimità sul versante dell’output[49] (per riferirci alle possibili conseguenze di disfunzioni e di cattivo funzionamento legati alla complessità, potenzialmente poco governabile, di un sistema come quello che stiamo esaminando se non si adottano le correzioni e le implementazioni opportune). Da questo punto di vista è sicuramente urgente completare al più presto la riforma costituzionale di fatto ancora lasciata a metà nella passata legislatura. Questo significa

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che è urgente dare al Parlamento, e particolarmente alla seconda Camera vista come Camera rappresentativa delle Regioni e eventualmente anche delle autonomie, un ruolo forte di raccordo fra i legislatori e fra i diversi livelli decisionali. Nell’immediato è certamente non meno urgente attivare al più presto forme di allargamento ai rappresentanti delle Regioni e, eventualmente, anche delle autonomie locali, della Commissione parlamentare per le questioni regionali. Si tratta di dare immediata attuazione a quella modesta, ma non irrilevante, forma di coordinamento a livello parlamentare che l’art.11 della l.cost. n.3 del 2001 prevede come una facoltà che spetta ai regolamenti parlamentari concretizzare. Guardando poi alla necessaria attuazione della riforma in una prospettiva attenta anche alla sua stessa implementazione, occorre che siano rapidamente definite e adottate le numerose leggi previste dal nuovo testo costituzionale e specificatamente quelle in materia di: a) partecipazione delle Regioni alle decisioni comunitarie e alla attuazione degli atti normativi comunitari (art. 117 quarto comma); b) attività delle Regioni finalizzata alla conclusione di accordi e di intese con Stati e enti territoriali interni ad altro Stato (art. 117 u. c.); c) possibili forme di coordinamento fra Stato e Regioni nelle materie di cui alle lettere b) e h) dell’art.117 secondo comma nonché alle intese e al coordinamento in materia di tutela dei beni culturali (art. 118 terzo comma); d) piena attuazione dei nuovi meccanismi di finanziamento (art. 119), all’esercizio del potere sostitutivo del Governo (art. 120 u.c.). Tuttavia, nell’approvazione di queste leggi non basta la rapidità. Occorre anche che esse siano studiate con attenzione, saggezza e notevole capacità di innovazione. Si tratta, infatti, di utilizzare queste leggi statali, previste dalla nuova Costituzione, come occasioni importanti per costruire nuove e moderne forme di raccordo e di partecipazione all’attività dei diversi livelli di governo, secondo modalità capaci di garantire, in un quadro condiviso ed eventualmente concordato, un soddisfacente funzionamento del sistema complessivo[50]. Nello stesso modo dovrebbero operare le Regioni, sia dando rapida attuazione a tutti gli adempimenti già previsti dalla l.cost.n.1 del 1999, sia dando attuazione alle esplicite previsioni normative contenute nel nuovo testo del titolo V, prima fra tutte quella che rimette agli statuti regionali di disciplinare il Consiglio delle autonomie (art. 123 Cost.). A questo dovrebbe poi aggiungersi una rapida e concordata soluzione dei problemi interpretativi e applicativi più discussi e discutibili, rispetto ai quali dunque è bene che si adottino decisioni quanto più possibile condivise e accettate da tutti i soggetti interessati. Questo vale in particolare per tutta la parte relativa alla individuazione e distribuzione delle competenze amministrative fra i diversi livelli territoriali di governo. In questo settore, così vitale per l’effettiva operatività di questa riforma, è massimamente importante cercare di coinvolgere e ottenere un ragionato consenso di tutti gli attori interessati. I principi che vengono in gioco, a cominciare dal nuovo e fondamentale criterio della sussidiarietà verticale, sono infatti tali da prestarsi male a forme di contenzioso di tipo giurisdizionale e da richiedere invece il massimo di attenzione e di prudenza nella valutazione da compiere di volta in volta. Una particolare attenzione va, infine, posta ad evitare di proporre e di adottare interpretazioni del nuovo testo, magari ammissibili sul piano letterale e sistemico ma di sapore inutilmente dilatorio o di effetto puramente conservativo dell’esistente. Da questo punto di vista, intorno al nodo che oggi appare più urgente e più delicato da sciogliere, quello cioè di come attuare l’art. 118 Cost. e di decidere se possa o meno farsi ancora ricorso alla VIII disposizione transitoria, non pare dubbio che, come dicono anche Falcon e Corpaci nei saggi già citati[51], si debba riconoscere rapidamente, e definitivamente, tutta la portata innovativa del nuovo sistema. Di conseguenza, ci si deve oggi adattare a una realtà che potrà vedere di volta in volta l’una piuttosto che l’altra Regione decidere, nelle materie di propria competenza legislativa, se assumere direttamente per sé o se conferire ad altri enti territoriali funzioni fino a quel momento esercitate dallo Stato. Questo potrà certamente comportare difficoltà di attuazione. Infatti, solo ex post rispetto alle legge regionale si potranno definire le risorse che devono passare alla Regione in virtù di tale legge e le modalità con cui deve avvenire tale trasferimento. Ma tant’è: questo e non altro sembra essere il sistema previsto oggi e dunque non resta che

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adattarvisi, cercando di padroneggiare al meglio una realtà nella quale potrà essere necessario concordare e definire di volta in volta, e Regione per Regione, tenendo conto del contenuto delle singole e diverse leggi regionali, come e a favore di chi debba intervenire il trasferimento di beni e risorse a seguito del conferimento o dell’attribuzione ad altri soggetti di funzioni precedentemente inserite nell’amministrazione statale. Del resto anche lo Stato può decidere, con proprie leggi di settore nelle materie di sua competenza, di conferire funzioni precedentemente proprie ai Comuni, alle Provincie, alle Città metropolitane e, come sembra indiscutibile, anche alle Regioni. E anche in questo caso solo dopo che queste leggi saranno approvate o almeno definite nel loro contenuto ci si potrà porre il problema di come operare il connesso trasferimento di beni e risorse. E anche in questo caso, inevitabilmente, si dovrà dar luogo a forme concordate e definite, caso per caso, con la sostanziale intesa di tutti i soggetti di governo interessati. Infine va tenuto conto che spetta comunque allo Stato attribuire a Provincie, Città metropolitane e Comuni le funzioni fondamentali di cui alla lettera p) del secondo comma dell’art.117. E’ peraltro evidente che in questa ipotesi, indipendentemente dalle materia di volta in volta coinvolte, spetta ovviamente alla medesima legge dello Stato definire il trasferimento dei relativi beni e risorse e le procedure con cui tali trasferimenti devono avvenire. Ovviamente considerazioni simili potrebbero essere svolte per tutti i diversi settori che compongono questa articolata riforma. Così come raccomandazioni analoghe devono comunque orientare il legislatore statale anche nella determinazione dei principi fondamentali nelle materie di legislazione concorrente. Anche su questo piano, infatti, sarà bene che lo Stato sia attento a cogliere questa occasione sia per mantenere il più possibile salda l’unità complessiva dell’ordinamento sia per creare forme efficaci di collaborazione e di integrazione con il legislatore regionale e in generale con tutti i governi territoriali. Si potrebbe continuare a lungo, ma per ora è certo meglio fermarsi a queste osservazioni. La riflessione finale può tuttavia essere la seguente: mentre l’Unione europea guarda alla necessità di sviluppare riforme istituzionali e di adottare forme nuove di governance al fine di superare un eccessivo accentramento del potere negli organi comunitari e di trovare un canale forte di contatto con le comunità nazionali e locali e i livelli regionali e territoriali di governo, il caso italiano successivo all’entrata in vigore del nuovo titolo V della parte II della Costituzione spinge apparentemente in una direzione opposta[52]. Il nostro problema in questo momento sembra essere infatti quello di assicurare la piena attuazione di una riforma che va comunque nel senso della massima articolazione e diffusione dei poteri reali di decisione, cercando tuttavia, e al medesimo tempo, di ritrovare anche momenti forti di coordinamento e di unificazione[53]. In realtà, tanto nell’Unione europea quanto nell’Italia contemporanea, stanno venendo al pettine i nodi legati a come nei moderni sistemi complessi possa essere ricercata e garantita la piena legittimità democratica di tutto l’insieme. La ricerca di forme nuove e più efficaci di una governance (intesa come l’insieme delle modalità che si devono adottare per garantire flessibilità alle organizzazioni complesse ma anche circolarità e partecipazione collettiva alle decisioni che interagiscono le une con le altre al di là di ogni separazione formale di competenze) costituisce oggi un problema comune a tutti i sistemi. Un problema che si sostanzia molto semplicemente nella necessità di adottare forme nuove e più funzionali per assicurare, sia sul versante dell’input che su quello dell’output, quella legittimità democratica complessiva e condivisa senza la quale nessun sistema contemporaneo, tanto più se molto complesso e articolato, può reggere alla sfida della modernità. NOTE-------------------------------------------------------------------------------- [1] Nel corso degli ultimi due mesi successivi allo svolgimento del referendum del 7 ottobre 2001 i commenti e le prese di posizione intorno ai tanti nodi problematici posti dal nuovo testo costituzionale sono andati moltiplicandosi, aggiungendosi ai commenti, peraltro non molto numerosi, che avevano già visto la luce nei mesi precedenti. A molti di questi commenti si fa richiamo specifico nelle note successive. Qui si segnalano fra gli interventi precedenti al referendum del 7 ottobre i contributi

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pubblicati in AA.VV., Problemi del federalismo, incontri di studio n.5 del Dipartimento giuridico politico, Sezione diritto pubblico dell'Università di Milano, Giuffré, Milano, 2001, e ivi la relazioni e gli interventi di V.Italia, E.De Marco, B.Caravita, C.E.Gallo, N.Zanon, P.Bilancia, F.Pizzetti, L.Antonini, A.Ferrara, A.Cerri, G.Pastori, A.Catelani, P.De Carli, G.Protti, M.A.Sandulli, D.Galetta, M.D'Amico, Q.Camerlengo, M. della Torre, G.Marchetti, A.Papa, e A.Zucchetti. Cfr. inoltre G.Falcon, Il nuovo titolo V della parte II della Costituzione, in Le Regioni, n.1 del 2001; F. Pizzetti, All'inizio della XIV legislatura:riforme da attuare, riforme da completare e riforme da fare. Il difficile cammino dell'innovazione ordinamentale e costituzionale in Italia, in Le Regioni n.3 del 2001, 437 ss.; R.Romboli (a cura di), Le modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione, in Il Foro italiano , luglio-agosto 2001, parte V , 185 ss. con gli interventi di P.Cavaleri, G.D'Auria, C..Pinelli, A.Ruggeri. Riguardo ai commenti successivi al referendum del 7 ottobre, più numerosi e in continuo aumento, si segnalano in particolare i contributi costituiti dalle audizioni svoltisi finora, ed ancora in corso, presso la Commissione affari costituzionali del Senato. Tutte queste audizioni sono del massimo interesse ma queste un rilievo particolare è da attribuire a quella di L.Elia, che ha aperto la serie come primo e più autorevole fra gli ex presidenti della Corte costituzionale di formazione costituzionalistica, e a quelle di S.Panunzio, da un lato e di S.Cassese, A.Romano, A. Romano Tassone e L.Torchia dall’altro, che hanno espresso rispettivamente il punto di vista dell'associazione dei costituzionalisti e dell'associazione degli amministrativisti. Il resoconto di tutte queste audizioni è consultabile sul sito web del Parlamento italiano. Infine deve essere segnalata la importante Relazione svolta da G.Berti al Convegno annuale dei costituzionalisti di Palermo nei giorni 8-9-10 novembre 2001, cfr. G.Berti, Governo tra Unione europea e autonomie, ora sul sito dell'Associazione dei Costituzionalisti; sul medesimo sito si veda inoltre anche E.Balboni, La funzione di governo oggi. Infine, sempre sul piano dei primi commenti al nuovo titolo V e anche di forte valenza politico-istituzionale per la sua provenienza si veda Conferenza dei Presidenti delle Regioni e delle Province Autonome, Prime valutazioni sui mutamenti dell'assetto costituzionale a seguito della riforma del titolo V parte II della Costituzione (l. cost.n.3 del2001), documento presentato alla Conferenza Stato-Regioni del 29 novembre 2001. [2] Cfr da ultimo G.Falcon, Modello e transizione nel nuovo titolo V della parte II della Costituzione e A. Corpaci, Revisione del titolo V della parte II della Costituzione e sistema amministrativo, in Le Regioni, n.6 del 2001. [3] L’espressione richiama volutamente il titolo di un volume di molti anni fa, nel quale si tentò una ricostruzione complessiva della parte della Costituzione relativa alle Regioni, alle Provincie e ai Comuni cercando di dimostrare che da quelle norme costituzionali era possibile trarre una ricostruzione che legittimasse la individuazione di un vero e proprio “sistema costituzionale delle autonomie locali”. Ma, appunto, solo di un sistema di autonomie locali si poteva allora parlare: di un sistema, cioè, che poteva anche caratterizzare, come certamente caratterizzava, la Repubblica ma che, nel quadro costituzionale complessivo, non poteva scalfire il ruolo, assolutamente preponderante, dello Stato centrale. Cfr. F. Pizzetti, Il sistema costituzionale delle autonomie locali”, Giuffré, Milano, 1978. [4] Il riferimento è al titolo del volume di A. Bardusco, Lo stato regionale italiano, Giuffrè, Milano, 1980. In questo volume l’A. ricostruiva il quadro costituzionale badando non tanto alla collocazione del sistema delle autonomie locali, quanto piuttosto cercando di dimostrare che nell’ordinamento italiano si potevano ravvisare le caratteristiche proprie di uno Stato regionale, sia pure caratterizzato da una forte presenza delle autonomie locali. Naturalmente questo filone di studi vide in quegli anni molti altri A. collocarsi su una analoga linea di pensiero, così come non mancarono anche altri, sia pure forse minori per numero, che preferirono guardare al sistema delle autonomie locali nel loro complesso che piuttosto al solo ruolo delle Regioni. Altri ancora, infine, cercarono di mantenere centrale il ruolo delle regioni pur dando la dovuta rilevanza anche al ruolo delle autonomie locali. Non si citano qui tutti gli studiosi che ognuno può facilmente collocare nei diversi gruppi e filoni di pensiero che si sono richiamati, sia perché ciò si trasformerebbe in una sorta di bibliografia del primo regionalismo, sia perché avrebbe forse troppo il sapore di un richiamo "nostalgico" a un’altra stagione del regionalismo italiano.

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[5] Il riferimento è ovviamente al non dimenticato volume di F.Benvenuti, L’ordinamento repubblicano, Venezia, 1961, al quale sia consentito accomunare anche il richiamo all’altro importante volume, di non molti anni successivo, di G.Berti, Caratteri dell’amministrazione comunale e provinciale, Cedam, Padova, 1969. [6] Cfr. L.Torchia, I vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario nel nuovo Titolo V della Costituzione, in Le Regioni,n.6 del 2001. [7] E’ infatti indubbio che per un verso è certamente più immediatamente convincente la tesi, sostenuta lucidamente da L.Torchia, op. cit., secondo la quale tale ambito riguarda soltanto i casi in cui si versi nelle materie di legislazione concorrente previste dell’art. 117 terzo comma Cost. e non possa estendersi comunque al di là di tali materie, fino a toccare le materie di competenza esclusiva di cui al quarto comma del medesimo articolo. Da un altro punto di vista, però, ricordando che secondo lo stesso terzo comma dell'art.117 la materia dei rapporti internazionali e con l’Unione europea delle regioni è “di per sé stessa” una materia di legislazione concorrente, ci si potrebbe anche chiedere se questo non attragga anche in generale nella sfera della legislazione concorrente qualunque forma di esercizio del potere legislativo regionale che abbia ad oggetto comunque l’attuazione di una norma comunitaria. Né questa ricostruzione di per sé stessa sarebbe in contrasto insuperabile col fatto che il quarto comma dell’art.117 stabilisce al secondo capoverso che “le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, nelle materie di loro competenza, partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari e provvedono all’attuazione e all’esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione europea, nel rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza”. Questa norma, infatti, prevede comunque l’esistenza di una legge statale alla quale le Regioni devono attenersi, specificamente per quanto concerne le procedure da seguire. Procedure che certamente potranno riguardare, secondo modalità specificate e dettagliate, la partecipazione delle Regioni alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari, ma che potranno estendersi anche all' attività di attuazione, secondo modalità ed entro limiti che meriteranno comunque uno studio approfondito. Tutto questo però non ci dice nulla sul fatto se al legislatore statale sia riservato stabilire principi soltanto nella materia dei rapporti internazionali e con l'Unione europea (salvo definire poi in che cosa consista questa materia) e nelle altre specificamente ricomprese nell’elenco della legislazione concorrente o se invece il legislatore statale possa comunque dettare principi fondamentali vincolanti l’attuazione della normativa comunitaria in qualunque materia per la quale si ponga il problema di dare attuazione a queste normative (e, ovviamente, limitatamente a tale attuazione) proprio perché qualunque legge regionale attuativa di atti normativi comunitari in qualunque materia sia adottata è attratta comunque nell’orbita dei rapporti con l’Unione europea. Malgrado la previsione dell’art. 117 quarto comma, resta dunque intatto il problema posto dal dilemma se sia più corretto dare un’interpretazione estensiva dell’art.117 terzo comma nella parte in cui prevede che i rapporti internazionali e quelli con l’Unione europea delle regioni siano di competenza legislativa concorrente, o se sia meglio invece dare di questa norma una interpretazione più restrittiva e comunque tale da non porre tutto il sistema relativo all’ambito di competenza delle leggi regionali di attuazione di normative comunitarie in una prospettiva diversa e derogatoria da quella che caratterizza in generale la ripartizione delle competenze del legislatore regionale fra le materie ricompresse nel potere legislativo concorrente secondo l’elenco tassativo del terzo comma dell’art. 117 a tutte le altre rientranti invece nel potere legislativo esclusivo del quarto comma. Su questo punto, peraltro, si deve confessare che non sembra facile assumere una posizione definitiva. Per un verso infatti sembra molto persuasiva la ricostruzione offerta da L.Torchia, che poggia sull’indubbia forza che deriva dal fatto di escludere che l' attività di attuazione di atti normativi comunitari possa avere di per sé, e senza una esplicita e incontrovertibile diversa specificazione costituzionale, un effetto così rilevante come è quello di estendere la riserva statale relativa alla definizione dei principi fondamentali anche a tutte le materie che altrimenti (se, cioè, non si trattasse di leggi attuative di atti normativi comunitari) resterebbero di competenza esclusiva delle Regioni ai sensi del quarto comma dell’art. 117. Per un altro verso non sfugge che questo potrebbe portare a leggi regionali attuative di un medesimo atto normativo

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comunitario anche molto difformi tra di loro, fino a poter far sorgere il rischio di possibili e diffusi contrasti fra l’una e l’altra legislazione regionale. È vero, peraltro, che a quest’ultima osservazione si potrebbe obiettare che la differenziazione che è certo un portato naturale e “salutare” del fortissimo “regionalismo legislativo” voluto dal nuovo titolo V della parte II della Costituzione. Tuttavia resterebbe comunque difficile negare che una tale differenziazione estesa senza limiti specifici all’ambito della attività legislativa di attuazione degli atti normativi comunitari, potrebbe far sorgere molti e complessi problemi di legittimità sia all’interno dell’ordinamento italiano-repubblicano strettamente considerato, sia all’interno del più ampio e “integrato” ordinamento italiano-europeo (si usa quest’ultima, un po’ colorita, espressione per sottolineare la grande portata della forza di integrazione dell’ordinamento italiano in quello europeo che la riforma costituzionale in parte “registra” e in parte concorre a “determinare” e a “rafforzare”). [8] E’ evidente che le considerazioni esposte alla nota precedente in ordine all’ampiezza del settore dei rapporti con l’Unione europea e specificamente al problema se in esso (e quindi nella legislazione concorrente) debbano o meno rientrare tutte le eventuali leggi regionali attuative di atti normativi comunitari vale anche, mutatis mutandis, con riferimento ai rapporti internazionali delle Regioni, che sono richiamati nel terzo comma dell’art.117 come oggetto di competenza legislativa concorrente alla medesima stregua dei rapporti delle Regioni con l’Unione europea. [9] Cfr. G. Falcon, op.cit.. [10] Cfr. P. Caretti, L’assetto dei rapporti tra competenza legislativa statale e regionale, alla luce del nuovo titolo V della Costituzione: aspetti problematici , in Le Regioni,n.6 del 2001. [11] Il che può porre, e sempre più porrà in futuro, problemi anche complessi in ordine alla armonizzazione fra la Costituzione interna, i vincoli che derivano da questi accordi internazionali, gli effetti che possono determinarsi in ordine alla responsabilità per la loro mancata attuazione e gli effetti che dagli obblighi posti da questi accordi e dai trattati internazionali possono derivare sul sistema delle fonti interne. Si pensi su questo piano alle decisioni e alle normative adottate in sede di WTO che, secondo le linee decisionali adottate in sede GATT prima e ora in sede WTO, vincolano gli Stati membri a recepirle e a darvi attuazione senza distinzioni legate alla struttura interna dei singoli ordinamenti. La mancata attuazione di queste norme è infatti considerata comunque come responsabilità degli Stati anche quando questi siano delle Federazioni e dunque sia possibile che, per la struttura interna di carattere federale che essi possono avere, la responsabilità della mancata attuazione possa dipendere direttamente dagli Stati membri. Emblematico in questo senso il caso, sorto già nel contesto GATT, USA-Measures Affecting Alcoholic and Malt Beverages , noto come caso Beer II. In tale caso, infatti, la Commissione arbitrale nella sua relazione del 7 febbraio 1992 ebbe ad affermare che "Le norme del GATT sono parte integrante della legge federale USA e, in quanto tali, scavalcano le leggi dei singoli Stati che non sono coerenti con le norme del GATT". E' evidente che in tal modo si affermò un effetto delle norme di derivazione internazionale tale da incidere direttamente sul sistema delle fonti degli USA e comunque da modificare l'ambito di competenza della legge federale rispetto alle leggi degli Stati membri. Si tratta di una tematica che ora, dopo le innovazioni introdotte nel sistema delle fonti italiano dalle modifiche apportate dal nuovo titolo V della Parte II della Costituzione, è destinata a diventare probabilmente di notevole peso anche nel nostro contesto. Per un cenno più ampio a questa problematica cfr. L.Wallach e M.Sforza, Whose Trade Organization?, Public Citizen Foundation, 1999 ora in traduzione italiana col titolo WTO, Feltrinelli, Milano,2001, 196 ss. [12] Cfr. L. Torchia, op. loc cit. [13] Si usa qui il concetto, ancora non compiutamente definito ma già frequentemente usato da molti A., che serve ad indicare quel tipo di materie, presenti certamente nell’ambito delle competenze esclusive dello Stato (si pensi alla competenza statale esclusiva relativa alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale) che paiono riguardare “trasversalmente” tutte le altre materie di competenza regionale (e, almeno implicitamente, anche statale). [14] Cfr P.Caretti, op.cit.

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[15] Cfr.R.Tosi,La legge costituzionale n.3 del 2001: note sparse in tema di potestà legislativa e amministrativa,in Le Regioni,n.6 del 2001 [16] Su questa disposizione cfr. in particolare l’interessante e importante contributo di C. Pinelli, I limiti generali alla potestà legislativa statale e regionale e i rapporti con l’ordinamento internazionale e con l’ordinamento comunitario, in Foro italiano, n.7-8, 2001, 194 ss. cit. [17] Va peraltro tenuto presente che, almeno astrattamente, la posizione dell’amministrazione statale e regionale appare ancora più legata all’esigenza di garantire l’esercizio unitario della funzione di quanto non avvenga per le Provincie e le Città metropolitane. Questi ultimi enti, infatti, alla pari dei Comuni, sono destinatari di funzioni fondamentali comunque attribuite da leggi di competenza esclusiva dello Stato ex art. 117, secondo comma, lettera p). [18] Sembra pacificamente sostenibile che tali principi debbano comunque presiedere anche all’esercizio da parte dello Stato del suo potere legislativo esclusivo in ordine alla definizione delle funzioni fondamentali di Comuni, Provincie e Cittài metropolitane. Non si vede, infatti, motivo alcuno per ritenere che i principi di cui all’art.118 primo comma non vincolino anche il legislatore statale nell’esercizio della competenza ad esso assegnata in questa materia dall’art.117 secondo comma. [19] Sul fatto che si tratti di un principio e non di una norma direttamente attributiva di competenze si concorda qui con quanto sostenuto da Falcon e da Corpaci, op.cit.. Infatti sembra che le ragioni addotte per sostenere questa tesi siano da condividere, anche se esse sembrano essere più di opportunità e di concreta applicabilità della disposizione che di ordine teorico e sistematico. Né va sottaciuto che, come i due AA. giustamente sottolineano, il fatto stesso che il principio in questione è sancito nel primo comma dell’art. 118 Cost. (comma tutto dedicato a definire i principi che devono presiedere alla ripartizione delle competenze amministrative fra i diversi soggetti elencati nell’art. 114 e qui puntualmente richiamati) conforta ulteriormente nell’opinione che appunto si tratti di norma di principio, più che di disposizione immediatamente attributiva di competenze. [20] Nel precedentemente sistema era, infatti, indiscutibile che, salvo i casi esplicitamente previsti da norme costituzionali per gli organi costituzionali o a rilevanza costituzionale, spettassero comunque all'amministrazione dello Stato tutte le funzioni e competenze amministrative che non fossero proprie, attribuite o conferite alle Regioni e agli altri enti territoriali. Questa, del resto, era la conseguenza necessaria del principio del parallelismo fra funzioni legislative e funzioni amministrative combinato col principio che al legislatore statale spettasse comunque la "competenza generale" [21] Si vedano su questo punto le acute osservazioni di A. Corpaci., op.loc.cit.., e anche le riflessioni che egli svolge rispetto al raccordo fra queste disposizioni e quelle che regolano la giurisdizione e, in particolare, la giurisdizione amministrativa. [22] E’ vero che tali intese, e le leggi statali conseguenti, dovrebbero incidere essenzialmente sulla natura e la ripartizione delle competenze legislative dello Stato e delle Regioni che stipulano l’intesa stessa. E’ evidente, però, che anche questo non può non avere un riflesso sull’amministrazione, se non altro perché può condurre a “spostare” dall’uno all’altro legislatore, secondo le caratteristiche proprie di ciascuna intesa, le competenze relative al conferimento delle funzioni amministrative e, in sostanza, alla definizione del “modello” di amministrazione che deve caratterizzare, in ciascuna Regione, il settore (o i settori) che siano stati oggetto delle singole, specifiche, intese. [23] Sulla tematica delle intese di cui all’art.116 e, in genere, sulle conseguenze delle possibili differenziazioni fra regione e regione, cfr. N. Zanon, Per un regionalismo differenziato: linee di sviluppo a Costituzione invariata e prospettive alla luce della revisione del titolo V, in AA. VV. Problemi del federalismo, Giuffré, Milano, 2001, 51 ss. e L. Antonini, Verso un regionalismo a due velocità o verso un circolo virtuoso dell’autonomia?, ivi, 157 ss. [24] La problematica relativa alle intese e all'attuazione stessa dell'art.116 Cost. sembra essere particolarmente complessa e ricca di possibili implicazioni, forse più di quanto sinora sia apparso. Sul piano procedurale, innanzitutto: è piuttosto diffusa la convinzione che non via sia alcuno spazio per interventi legislativi finalizzati a disciplinare le procedure relative a come (e da chi) questa intese possano essere avviate, condotte e definite prima della presentazione alle Camere per la approvazione

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con legge (e a maggioranza assoluta). Chi sostiene questa tesi argomenta col fatto che trattandosi di una procedura negoziale e di carattere concertativo, sarebbe del tutto contraddittorio ipotizzare una legge che ne disciplinasse anche in parte il procedimento. Non solo. A sostegno di questa tesi è facile anche osservare che, mancando una esplicita previsione costituzionale in ordine all'emanazione di una legge statale in materia (previsione che esiste invece rispetto ad altre innovazioni introdotte in altre disposizioni), l'eventuale legge che pretendesse di disciplinare in tutto o in parte le procedure da adottare per le intese potrebbe essere considerata priva di base costituzionale che ne fondi e legittimi la competenza. A queste obiezioni, tutt'altro che irrilevanti o trascurabili, si può replicare tuttavia che è difficile dubitare del fatto che le Regioni possano (e forse debbano) definire, nei propri Statuti o con il rinvio a ulteriori leggi regionali, perlomeno i seguenti profili: a) quali siano i soggetti legittimati ad avviare tali procedure in nome e per conto della Regione e esercitando il diritto di iniziativa a questa riservato dall'art.116 Cost.; b) secondo quali regole interne alla Regione stessa debbano essere disciplinati gli eventuali rapporti fra gli organi regionali nell'ambito di questo procedimento, specificamente per quanto riguarda la fase iniziale della presentazione della proposta e la fase finale della conclusione dell'intesa. Analogamente appare difficile negare davvero che lo Stato non possa (e forse debba) regolare con propria legge chi, come e con quali procedure rispetto agli altri organi dello Stato, possa avviare, condurre ed eventualmente stipulare in nome e per conto dello Stato le intese medesime. Per quanto riguarda poi l'osservazione relativa alla mancanza di una legittimazione costituzionale del legislatore statale a intervenire in questa materia, si può rispondere che una legge di tal genere potrebbe trovare una facile legittimazione costituzionale in punto di competenza del legislatore statale sulla base del principio, ovviamente applicabile anche in questa ipotesi, secondo il quale un organo o un ente (in questo caso lo stesso Stato) titolare di una funzione (in questo caso la partecipazione come parte alla stipulazione dell'intesa) può sempre disciplinare le modalità di esercizio della funzione ad esso attribuita in quanto non già disciplinata dalla norma di rango superiore. Inoltre merita osservare che la stessa norma costituzionale contiene almeno una previsione che rende di oggettiva rilevanza costituzionale la opportunità (ma si potrebbe dire la necessità) di una normativa di carattere procedurale. Ci si riferisce alla parte dell' art. 116 secondo la quale, dopo l'esercizio del diritto di iniziativa da parte delle Regioni ma prima della conclusione del procedimento, devono comunque essere sentiti gli "enti locali". Ovviamente qui la questione che si pone è quali siano gli enti locali da sentire e secondo quali procedure, decise e stabilite da chi. Nessuno di questi tre interrogativi è marginale. Non lo è la definizione di quali siano gli enti locali che devono essere sentiti, anche perché non poche delle competenze oggetto di possibili intese possono coinvolgere direttamente soggetti ed enti operanti localmente ma non riconducibili alle categorie indicate nell'art. 114 Cost. Si pensi, solo per fare un esempio, alle istituzioni scolastiche nell'ambito delle competenze relative alle norme generali sull'istruzione e in genere alle materie oggetto di materia concorrente che incidono comunque sui settori di loro immediato interesse istituzionale. La medesima cosa si può dire per le Camere di commercio, enti locali anch'esse e sicuramente, per le loro funzioni e competenze, interessate a molti dei settori che possono essere oggetto di intese. Non è affatto indifferente decidere se tali istituzioni e tali enti debbano (o possano) essere sentiti, e in quali ambiti, e secondo quali modalità. Più in generale, un problema analogo si può presentare per gli stessi enti territoriali. Anche qui si può porre la questione se essi debbano essere solo quelli previsti dall'art.114 Cost. o eventualmente anche altri creati in questi anni da leggi statali o regionali. Inoltre è comunque essenziale definire a chi spetti: a) decidere quali enti debbano essere sentiti e quali no; b) secondo quali procedimenti e con quale "peso" attribuito al parere da essi manifestati, questi enti debbano essere sentiti; c) in quale fase del procedimento di intesa gli enti, comunque individuati, debbano essere sentiti; d) come e da chi debbano essere valutati i pareri espressi da questi enti ai fini delle successive intese. Si potrà obiettare che quasi tutte queste questioni non possono essere stabilite una volta per tutte con legge, e tanto meno unicamente con legge statale. Esse infatti

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possono forse dipendere in misura rilevante anche dall'oggetto dell'intesa di volta in volta proposta e comunque certamente non possono essere decise con atto unilaterale dello Stato, anche se assunto in forma di legge. Tuttavia qui non si intende affatto sostenere che tutti i problemi di carattere generale posti dall'attuazione dell' art. 116 debbano essere risolti con legge dello Stato (e meno che mai con una normale legge ordinaria) ma solo che tali problemi esistono e difficilmente possono tutti essere risolti di volta in volta singolarmente e all'interno delle singole procedure di concertazione. Problemi non minori sussistono poi per quanto riguarda i limiti di carattere generale che tali intese potranno avere. Viene qui in gioco soprattutto il rapporto tra le possibili intese e le molte norme costituzionali che possono costituire limite al loro contenuto. Va innanzitutto tenuto fermo che la Costituzione stessa si pone come limite non derogabile a tali intese. Il che significa che, al di là degli statuti delle Regioni a statuto speciale con invece continuano a consentirlo, per le rispettive Regioni, non potremo avere attraverso le intese parti di Costituzione variabili da Regione a Regione. Peraltro è pacifico invece che, almeno per quanto riguarda la ripartizione delle competenze fra legislatore statale e legislatore regionale, nei casi previsti dall'art. 116 la normativa costituzionale è derogabile e dunque occorrerà comunque definire in che misura e con quali limiti questo possa avvenire. Occorrerà inoltre verificare preliminarmente e di volta in volta, con specifico riferimento all'oggetto concreto delle intese, se e in che misura le posizioni costituzionalmente proprie dei singoli soggetti, diversi dallo Stato e dalla Regione (e dal legislatore statale e dal legislatore regionale), potranno essere toccate dalle intese. Da ultimo non ci si potrà non chiedere se e in che misura le intese stipulate ex art. 116 potranno, nelle materie che ne formano oggetto, stabilire regole specifiche, ed eventualmente esplicitamente o implicitamente derogatorie, rispetto ai principi che la Costituzione fissa in via generale a disciplina della ripartizione delle funzioni e delle competenze amministrative fra i diversi livelli territoriali, ivi compresi naturalmente i principi generali di cui al primo e al quarto comma dell'art.118 Cost.. E' questa una tematica certamente diversa da quella precedente e che non tocca aspetti immediatamente legati al provvedimento e alla possibile adozione (eventualmente concordata) di regole procedurali atte e risolvere i relativi problemi. Essa però pone comunque problemi potenzialmente assai complessi da risolvere, e in ogni caso sottolinea una volta di più la portata potenzialmente molto "dirompente" che la previsione dell' art. 116 può avere. Il che dilata ulteriormente il già fortissimo effetto innovativo complessivamente determinato dal nuovo titolo V. [25] Sul nuovo ruolo delle Regioni in materie di rapporti esteri, considerato alla luce della l. cost. n. 1 del 1999 (ruolo che oggi la le. Cost. n. 3 del 2001 ha ulteriormente rafforzato) cfr. P. Bilancia, Le attività di rilievo estero e comunitario delle Regioni e loro possibili riflessi sul futuro assetto organizzativo regionale, in AA.VV. I nuovi statuti regionali, Giuffré, Milano, 2000, 87 ss. [26] Quanto accennato nel testo è coerente con la prima fra le tesi di fondo sostenuta in queste pagine, e cioè che il dato innovativo fondamentale del nuovo sistema costituzionale consista nel fatto che, rispetto ai sistemi di governo e di amministrazione regionali e locali, viene meno il ruolo unificante che nel sistema precedente spettava al legislatore statale e, di conseguenza, almeno potenzialmente, anche al governo centrale e alla amministrazione dello Stato. Questo fenomeno, e in questo consiste la seconda tesi di fondo qui sostenuta, comporta la necessità di nuovi strumenti di raccordo, insieme a nuovi strumenti di concertazione che comunque il nuovo sistema parimenti rende necessari. Tali strumenti di raccordo possono essere di varia natura e di varia configurazione. Fra questi, che in larga misura dovranno essere previsti in sede di applicazione e di attuazione della nuova normativa costituzionale, ve ne sono alcuni che sono previsti già dalle nuove norme. Fra questi ultimi, come si osserva subito dopo nel testo, fra quelli già previsti direttamente in norme costituzionali, si colloca certamente la possibile integrazione della Commissione bicamerale per le questioni regionali con rappresentanti delle Regioni e delle autonomie locali prevista dall'art.11 della l.cost. n. 3 del 2001. Anche il potere sostitutivo del governo, previsto ora dall'art.120 secondo comma Cost., può agevolmente essere configurato come una forma nuova di raccordo, all'interno di un sistema costituzionale ormai privo di un centro con generale competenza unificatrice. Proprio questo, però, rende particolarmente delicato e problematico definire la ampiezza, la portata e i limiti di questo potere.

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[27] Sul potere sostitutivo sono assai interessanti le considerazioni di C. Mainardis, Poteri sostitutivi statali: una riforma costituzionale con (poche) luci e (molte) ombre, in Le Regioni, n. 6 del 2001. Sempre su questo tema, anche per le diverse tesi circa l’estensibilità di tale potere fino all’adozione di atti legislativi e di esercizio del potere sostitutivo rispetto al legislatore regionale (tesi alle quali sembra che si debba guardare non solo con estrema prudenza ma anche con sostanziale sfavore) cfr. in vario senso C.Pinelli, I limiti generali alla potestà legislativa statale e regionale, cit.; A.Cerri, Alla ricerca dei ragionevoli principi della riforma regionale, in AA.VV., Problemi del federalismo, Giuffré, Milano, 2001, 211. ss.; T. Groppi, La riforma del titolo V della Costituzione tra attuazione e autoapplicazione, in Forum di Quaderni costituzionali. [28] Si vedano in questo senso, oltre ai primi interventi e commenti che vanno comparendo sulle riviste specializzate e quelli già richiamati supra nota 1, gli interessanti contributi forniti dalle audizioni organizzate dalla Commissione Affari costituzionali del Senato. Cfr. in particolare le audizione di L.Elia, A.Baldassarre, V.Caianiello, S.Panunzio, A. De Roberto, E. Cheli, S. Cassese insieme a A. Romano, A. Romano Tassone e a L. Torchia , tutte consultabili all'interno del sito web del Parlamento italiano. [29] Per la verità si può porre qui un'ulteriore questione, e cioè se la legge statale e quella regionale, ciascuna nelle proprie competenze, potrebbero sottrarre funzioni e competenze amministrative ai soggetti indicati nel primo comma dell'art. 118 (e dunque agli enti e ai governi territoriali) per riservarle invece, in virtù di quanto previsto dal quarto comma dello stesso art. 118, alla "autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati" o comunque a soggetti, anche di natura pubblica, diversi dagli enti territoriali, quali altri enti locali, eventualmente operanti in posizione di autonomia funzionale. E' questo un profilo del delicato rapporto che sussiste fra il primo e il quarto comma dell'art.118 Cost. e in genere del problema di come debba essere interpretato il principio di sussidiarietà orizzontale (di cui a quarto comma ddell'art.118 Cost.), specialmente in raccordo con il principio di sussidiarietà verticale (di cui al primo comma della stessa disposizione). A questa tematica si aggiunge poi l'altra tematica, con la precedente solo parzialmente coincidente, di come debba essere individuato, all'interno del nuovo sistema, il rapporto tra gli enti e i soggetti indicati all'art.114 Cost. come elementi costituitivi della Repubblica e richiamati dall'art.118 Cost. come destinatari delle funzioni amministrative, da un lato, e gli altri enti locali, specialmente quelli operanti nella posizione delle autonomie funzionali, dall’altro. Si tratta di un complesso di "nodi problematici" al quale in questa sede si accenna solo collateralmente e, anche nelle pagine successive è richiamato altre volte essenzialmente nell'ambito di alcune note al testo. Non vi è dubbio, tuttavia, che questi nodi formeranno a lungo oggetto di attenzione e di discussione. [30] Ovviamente non sfugge che si potrebbe obiettare che esistono anche nel nuovo testo numerose riserve di legge statale il cui esercizio potrà, forse, recuperare elementi di unificazione nuovi nei settori e secondo le modalità con cui esse possono intervenire. Tuttavia vale la pena di sottolineare che tutti questi casi, anche se complessivamente considerati, sono certamente importanti e consentono sicuramente di radicare strumenti e forme di governance di nuovo tipo, e quindi ancora tutti ancora da definire e da studiare, ma non possono in alcun modo modificare il dato di fondo costituito dal fatto nuovo che manca oggi in questo sistema un elemento unificante di carattere generale. Soprattutto nessuna di queste riserve di legge, e meno che mai la competenza concorrente così come essa è disciplinata nel nuovo sistema, possono consentire di negare la grande novità che qui si cerca di sottolineare con la massima enfasi possibile: che cioè in ogni caso la legge, in qualunque forma e a qualunque soggetto imputata, non può più essere un elemento unificante in via generale dell’ordinamento complessivo. [31] Secondo un possibile modello teorico che, con molta approssimazione, si potrebbe cercare di far risalire all’esempio della Costituzione degli Stati Uniti di America. [32] Cfr. in questo senso G. Falcon, già in Il nuovo Titolo V della parte II della Costituzione in Le Regioni, n.1 del 2001, 5 e ss. e ora anche in Id., "Modello" e

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"transizione" nel nuovo titolo V della parte II della Costituzione, in Le Regioni, n.6 del 2001, cit. [33] Viene qui in rilievo il difficile nodo della ripartizione delle competenze amministrative, con particolare riguardo a quelle da assegnare, o da riservare, o da lasciare allo Stato. Su questo si tornerà infra, nelle considerazioni relative all’amministrazione. [34] Il problema della attribuzione, riserva o conferimento di funzioni amministrative alle Regioni è teoricamente analogo a quello relativo allo Stato di cui alla nota precedente e al conseguente rinvio. Nel caso delle Regioni peraltro è meno complesso da risolvere. Infatti una volta ammesso, e non si vede perché lo si dovrebbe negare, che le Regioni possano avere competenze amministrative conferite dallo Stato, non vi sono particolari difficoltà ad immaginare leggi statali che nelle materie ad esse riservate operino tale conferimento, ovviamente nel rispetto dei principi stabiliti dall’art. 118 primo comma. Per lo Stato invece la questione è più complessa perché l’eventuale conferimento allo Stato di funzioni ad opera del legislatore regionale, che in via di principio appare del tutto compatibile col sistema ed anzi in una certo senso necessaria, può portare sul piano concreto a conferimenti a “pelle di leopardo” secondo le diverse, e potenzialmente differenti, valutazioni che ciascuna Regione possa fare dell’applicazione dei criteri di cui all’art. 118 primo comma Cost. Anche su questo v. infra nel testo. [35] Cfr. infra paragrafo 5. [36] Per una prima, ma molto ampia, analisi di queste norme, cfr. G. Pastori, I rapporti fra Regioni ed enti locali nella recente riforma costituzionale, in AA.VV. Problemi del federalismo, Giuffré, Milano, 2001, 217 ss. [37] Respingere questa “lettura” del testo significherebbe, infatti, trovarsi di fronte ad un dilemma difficile da risolvere. Occorrerebbe, infatti, o escludere che comunque lo Stato possa avere competenze amministrative nelle materie riservate alla competenza del legislatore regionale (perché la legge regionale non potrebbe comunque conferirle) o ritenere che lo Stato possa comunque assegnare a sé stesso, con propria legge, competenze amministrative anche nelle materie attribuite o riservate al legislatore regionale. La prima opzione, quella che nega ogni possibilità di competenze amministrative dello Stato al di fuori delle materie del legislatore statale) condurrebbe però a evidenti abnormi conseguenze persino sul piano di fatto della necessità di far fronte alle esigenze proprie del buon funzionamento del sistema complessivo. La seconda opzione (quella di ritenere possibile l’attribuzione dello Stato a sé medesimo e con legge statale di competenze amministrative nelle materia attribuite o riservate al legislatore regionale) porterebbe a conseguenze abnormi sul piano del nuovo sistema costituzionale. Ritenere infatti che il legislatore statale possa attribuire esso stesso a sé medesimo e alla propria amministrazione competenze e funzioni anche nelle materie assegnate comunque al legislatore regionale (quelle di competenza concorrente) o addirittura ad esso riservate (quelle di competenza esclusiva) eventualmente motivando questa convinzione in nome di un principio di difesa dell’unità complessiva, collegato magari anche al dettato stesso dell’art. 118 secondo comma là dove parla di “esigenze di esercizio unitario”, significherebbe radicare una nuova, vastissima, competenza di carattere “trasversale” del legislatore statale. Competenza di carattere trasversale che sarebbe analoga ad alcune delle competenze previste nel secondo comma dell’ art. 117, ad esempio in materia di “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”, ma che in questo caso avrebbe la duplice caratteristiche di essere ricavata “implicitamente” dal sistema (e non esplicitamente ricompresa nell’elenco delle competenze esclusive dello Stato, dove invece, e significativamente, è contenuta la competenza in materia di definizione dei poteri fondamentali di Comuni, Provincie e Città metropolitane), e di essere di carattere davvero vastissimo e potenzialmente espandibile in ogni settore e in ogni contesto. [38] Del resto sono problemi questi ai quali, anche al di là dei ragionamento svolti nel testo, non pare davvero facile dare risposta alla luce del nuovo art. 119 della Costituzione e tenendo conto di quanto previsto dall’ art. 81 Cost. in materia di copertura di spesa delle leggi. Peraltro in questa sede non si intende affatto affrontare questa tematica, che richiederebbe una trattazione ben più approfondita. Così come una trattazione non meno approfondita, anche se apparentemente meno “costituzionalmente rilevante”, richiederebbe la scelta di affrontare tutti i problemi che

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il nuovo sistema costituzionale, specialmente se letto in questa chiave e con queste conseguenze, determina in ordine alla ormai consolidata necessità dell’analisi di fattibilità delle leggi e di analisi della loro copertura amministrativa. Per quanto riguarda in ogni caso il nuovo art. 119 Cost. si rinvia qui a P. Giarda, Le regole del federalismo fiscale nell’art.119: un economista di fronte alla nuova Costituzione ,in Le Regioni, n.6 del 2001. [39] Cfr. A. Poggi Le autonomie funzionali tra sussidiarietà verticale e sussidiarietà orizzontale, Giuffrè, Milano, 2001, spec. Capitolo VI. [40] In questo senso la diversa formulazione delle due disposizioni e le conseguenze che sembrano discenderne paiono confermare alcuni fra gli spunti più interessanti sviluppati recentemente anche sotto questi ultimi profili da A. Poggi, op.loc.cit.. [41] Anche chi scrive ha avuto occasione di sostenere questa tesi. Cfr. a questo proposito F.Pizzetti, Il processo riformatore nella XIII legislatura, in G.Berti e G.De Martin (a cura di), Dalla riforma amministrativa alla riforma costituzionale delle autonomie territoriali, Roma, LUISS, 2001, volume nel quale sono raccolti gli atti del relativo Convegno dal medesimo titolo svoltosi a Roma, presso la LUISS il 9 gennaio 2001. Nel medesimo senso cfr. anche P.Bilancia, Verso un federalismo cooperativo?, in AA.VV., Problemi del federalismo, Giuffrè, Milano 2001, 67 ss.. [42] Per le vicende legate al processo che ha condotto all’approvazione della riforma del titolo V della parte II della Costituzione si può vedere F.Pizzetti, Legge costituzionale n.1 del 1999 e riforma del titolo V della parte II della Costituzione: qualche riflessione fra cronaca già scritta e cronaca ancora da scrivere, in AA.VV., Problemi del federalismo, cit., 87 ss.. [43] Aspetto, questo, che probabilmente non dovrà riguardare né soltanto, né soprattutto, la ripartizione di competenze amministrative tra Stato, Regioni ed enti locali quanto anche, e specialmente, la organizzazione del governo centrale, la sua articolazione e la ripartizione delle competenze fra i diversi ministeri e i diversi strumenti di raccordo previsti dalle numerose norme attuative delle leggi di delega. E’ evidente, infatti, che il profondo mutamento di ruolo che interessa lo Stato in seguito all’entrata in vigore della riforma costituzionale non potrà non incidere anche su un’organizzazione di governo che, quanto a funzioni, competenze e soprattutto “missioni”, è stata pensata dentro il quadro costituzionale precedente. [44] Come è noto, chi scrive è stato in questi anni uno dei più convinti sostenitori del sistema delle Conferenze assumendo anche, talvolta, posizioni che non sono state condivise da una parte autorevole della dottrina. Proprio per questo tuttavia le considerazioni che si sviluppano ora possono forse avere un qualche maggiore interesse anche per il lettore. Cfr. in ogni caso F. Pizzetti, Il sistema delle Conferenze e la forma di governo italiana, in Le Regioni, 2000, 473 ss. e, su posizioni contrapposte, P. Caretti, Il sistema delle Conferenze e i suoi riflessi sulla forma di governo nazionale e regionale, ivi, 547 ss. [45] Non ci riferisce qui tanto alla c.d. “Cabina di regia” per l’attuazione della riforma del titolo V della parte II della Costituzione che, anche se non sembra ancora del tutto definito esattamente l’ambito delle sue competenze e le modalità di funzionamento, ha sostanzialmente iniziato la sua attività dal 28 novembre 2001. Infatti essa è destinata comunque a configurarsi, almeno per il momento, come un organo strettamente legato alla congiuntura attuale, caratterizzata dalla necessità di risolvere i mille problemi legati alla prima fase di attuazione della nuova riforma, mentre i nuovi strumenti di governance a cui qui si vuole fare riferimento riguardano anche e soprattutto il funzionamento “a regime” del nuovo sistema fondato dalla riforma costituzionale. Peraltro, anche se si comprendono le ragioni di fatto e i motivi di opportunità che hanno spinto a scegliere questa innovazione organizzativa, non si può nascondere che l’idea di fondo che sembra sottostare all’istituzione di questa “Cabina di regia” lascia assai perplessi. Essa, infatti, postula implicitamente che l’attuazione del titolo V della parte II della Costituzione possa avvenire in modo “uniforme” e sostanzialmente accentrato, sia pure attraverso un accentramento sostanzialmente collocato in capo a un organo a composizione mista e quindi finalizzato a produrre decisioni compartecipate. Anche se si può capire che un’idea di tal genere trovi oggi cittadinanza di fronte alle grandi difficoltà che la fase di transizione fra il vecchio e il nuovo sistema comporta, non si può tacere del fatto che essa, specie se fosse destinata a fondare una modalità organizzativa e una prassi di carattere permanente, sembra contrastare con gli aspetti essenziali del nuovo sistema e della sua portata innovativa.

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Allo stesso modo non si può non guardare con perplessità all’ipotesi di approvare con un’unica legge (e per di più statale) tutte le norme, eventualmente anche di carattere meramente “ricognitivo” o “interpretativo”, che si ritenessero necessarie per procedere a una prima attuazione della riforma che possa essere non soltanto sufficientemente “condivisa” ma anche, e forse soprattutto, “uniforme”. Anche in questo caso non c’è dubbio che, in questa fase del tutto particolare caratterizzata dall’esigenza di dare una risposta ai problemi posti dalla prima attuazione della riforma, la proposta di una legge di questo tipo può essere facilmente comprensibile nelle sue motivazioni di fondo. Essa, infatti, può avere da un lato l'obiettivo di “stabilizzare” in “forma di legge” gli accordi tra Stato e Regioni (meglio fra governi statale e regionali), eventualmente anche con la partecipazione (ma non è ancora chiaro in che misura) degli enti locali, e da un altro lato può mirare ad assicurare una qualche omogeneità e razionalità complessiva della fase di transizione. Tuttavia, esattamente come per la “Cabina di regia”, anche l’ipotesi di una eventuale unica legge statale di attuazione appare essere, almeno in linea di principio, di difficile armonizzazione col nuovo sistema. Infatti, la prima (la Cabina di regia), specialmente se considerata come destinata a diventare permanente, introdurrebbe un nuovo raccordo “accentrato e di carattere generalista” del quale non sembra davvero vi sia bisogno. Infatti, tutt’al contrario, oggi vi è piuttosto bisogno di nuove forme di raccordo finalizzate a assicurare la governance nei diversi settori e nei rapporti plurimi fra un centro statale unico e una realtà molto articolata, e potenzialmente portatrice di policies difformi, costituita dalle Regioni e dal sistema degli enti locali. D'altro canto, la seconda (cioè la legge statale unica di attuazione), specie se considerata come rispondente all’esercizio di un ruolo proprio del legislatore statale, sarebbe necessariamente costretta a fondarsi su una sorta di potere implicito, e rivendicato come proprio del legislatore statale, di dettare le norme di attuazione. Né varrebbe molto sottolineare che l’esercizio concreto di questo potere sarebbe condizionato di fatto (non si vede infatti come potrebbe esserlo di diritto) al passaggio attraverso un processo decisionale a carattere condiviso, cosicché in concreto si tratterebbe di una legge sostanzialmente finalizzata a dare veste formale di rango legislativo agli accordi “intergovernativi” registrati in sede di Conferenze o di Cabina di regia. Questo significherebbe infatti fondare in ogni caso, e comunque sulla base di un criterio puramente implicito, una nuova competenza del legislatore statale non prevista dalla nuova Costituzione. Né sembra possibile rispondere a quest’ultima obiezione sostenendo la possibilità di collocare in un unico testo normativo le disposizioni che potrebbero comunque esser comprese nelle molte e diverse leggi riconducibili alle tante riserve di legge statale contenute nel nuovo testo del titolo V. Che, almeno in linea astratta, il legislatore statale possa esercitare le riserve di legge a lui attribuite in maniera contestuale può anche essere accettabile, ma questo è sicuramente una cosa diversa dall’idea di approvare una legge omnibus che abbia come obiettivo essenziale definire le norme necessarie a una prima attuazione della riforma. Tali norme, infatti, ben difficilmente potrebbero affrontare e risolvere in modo soddisfacente i moltissimi problemi legati alle discipline di settore che le riserve di legge statale contenute nel nuovo testo costituzionale devono invece risolvere il più compiutamente possibile (e risolvere non al fine di una “prima attuazione”, ma ai fini di una “attuazione stabilizzata” della riforma). Inoltre una tale legge, così come prospettata nell’argomentazione che si è qui ricostruita, troverebbe una sua sorta di legittimazione di fatto sulla base di accordi “intergovernativi” definiti ed elaborati attraverso sedi e forme che provengono dal sistema precedente, e intorno alle quali è ancora mancata una riflessione e una formalizzazione adeguata nell’ambito del nuovo sistema. Aspetto, quest’ultimo, particolarmente importante perché, come si è cercato di dire, allo stato attuale è essenziale definire bene in che misura, nel nuovo sistema, siano ammissibili forme “accentrate” e “generaliste” di raccordo e quanto invece siano necessarie nuove forme di raccordo di “carattere settoriale” e di tipo “plurimo” capaci di coinvolgere in modo flessibile i soggetti e gli ambiti territoriali di volta in volta interessati. Inoltre, proprio la stessa previsione di molte distinte riserve di legge statale, contenute fra l’altro in norme diverse (e non un’unica riserva di legge contenuta in una norma costituzionale riepilogativa delle competenze del legislatore

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statale), è indice del fatto che a tali leggi si vuole affidare il compito di stabilire, in forma specifica, le modalità, le procedure, le forme di raccordo che devono caratterizzare i diversi settori di interconnessione fra i diversi soggetti a cui il nuovo titolo V affida compiti legislativi e comunque ruoli di intervento amministrativo e di governo dei processi decisionali. Fondare sul richiamo a queste riserve di legge, fra loro differenziate e distinte, la legittimità di un'unica legge di attuazione, per sua natura finalizzata essenzialmente a dettare una disciplina di prima attuazione, significa oggettivamente distorcere la ratio stessa delle specifiche riserve di legge presenti nel titolo V e trasformare queste riserve nel fondamento di una indebita e inesistente competenza del legislatore che, proprio perché diversa e tendenzialmente generalista, si configura come ulteriore e nuova rispetto a tutte le competenze elencate nel secondo comma dell'art.117 o contenute nelle specifiche disposizioni costituzionali di settore. [46] Questi diversi aspetti, e specificamente quelli connessi con le molteplici forme di raccordo che le molte riserve di legge statale contenute nel nuovo titolo V della parte II della Costituzione sembrano comportare, sono state ben colte per prima da P. Bilancia, Verso un federalismo cooperativo?, in AA .Problemi del federalismo, cit., 67 ss.. [47] Cfr. F.W.Scharpf, The Problem Solving Capacity of Multi-Level Governance, Centro Robert Schuman, Istituto Universitario Europeo, Firenze, 1997, ora anche in trad. italiana come Governare l’Europa, il Mulino, Bologna, 1999. [48][48] Si adotta qui la sistematica messa a punto in particolare da F.W.Scharpf in Demokratietheorie zwischen Utopie und Anpassung, Konstanz, Universitatsverlag, 1970 e in Games Real Actors Play: Actor-Centered Institutionalism in Policy Research, Boulder, Col., Westview, 1997. In questa sistematica, la legittimazione sul versante dell’input (e il pensiero democratico “orientato all’input”) sottolinea il concetto di “governo del popolo” come “governo da parte del popolo”. La legittimazione sul versante dell’outpt (e il pensiero democratico che su questo si fonda) attira invece l’attenzione sul concetto di “governo per il popolo” come “governo in favore del popolo”. Richiamando ancora le sottolineature fornite su questa sistematica da Scharpf, si può dire che la legittimazione democratica fondata sul versante dell’input trova il suo maggior saggio teorico nel Rousseu del Contratto sociale mentre il primo e più elaborato quadro di un progetto istituzionale fondato sulla legittimazione democratica orientata all’output lo si trova nei Federalist Papers. [49] Cfr. nota precedente. [50] Cfr. le osservazioni svolte supra, specialmente nel paragrafo 4 e alla nota 45. [51] Cfr. G. Falcon, "Modello" e "transizione" nel nuovo titolo V della parte II della Costituzione, cit. e A.Corpaci, Revisione del titolo V della parte II della Costituzione e sistema amministrativo, cit.. [52] Il dibattito in corso sulla governance nell’Unione Europa e sulle sue connessione con la riforma delle istituzioni dell’Unione è oggi particolarmente acceso. La complessa vicenda legata alla riforma delle Istituzioni Europee, avviata ufficialmente, dopo Amsterdam, col vertice europeo di Colonia della primavera 1999, passata attraverso la elaborazione della Carta dei diritti e il vertice di Nizza dell’autunno 2000 e in piena evoluzione ora, in vista della già calendarizzata Conferenza intergovernativa che si terrà su questi temi nel 2004, si è intrecciata con la vicenda legata ai problemi di riforma della governance europea. Problemi, questi ultimi, portati al centro della discussione dalla presentazione nel luglio del 2001 da parte della Commissione Europea del Libro bianco intitolato La governance europea. Tralasciando in questa sede ogni riferimento al dibattito in corso sulla riforma delle Istituzioni, che peraltro ha visto, come è noto, lo svilupparsi di una discussione di altissimo livello, innescata dall’ormai famoso discorso svolto da Joschka Fischer alla Humboldt Universitat in Berlin, il 12 maggio 2000 e proseguito con il susseguirsi di numerosi interventi dei capi di Stato e di governo di tutti i Paesi dell’Unione e del Presidente della Commissione europea, sia qui consentito richiamare l’attenzione sui temi sollevati nel Libro bianco sulla governance presentato dalla Commissione Europea il 25 luglio 2001. Tale documento, che peraltro ha sinora ricevuto una accoglienza assai tiepida, mette bene in luce, proprio nel confronto col dibattito in corso sulla riforma dell’Unione, i limiti, ma anche gli aspetti peculiari, della governance nei moderni sistemi complessi. In particolare mette in luce la difficoltà di trovare nella sola governance ( e nella democrazia dell’outpt) una risposta sufficiente alla crisi di legittimazione che caratterizza oggi un’Unione Europea che appare ancora troppo

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come una Europa dei governi (che è cosa diversa dall’Europa degli Stati) e ancora troppo poco come Europa dei popoli. Sul Libro bianco La governance europea e sul dibattito che introno ad esso si va svolgendo, si veda la amplissima documentazione consultabile sul sito web dell’Unione Europea appositamente dedicato a questo. Si vedano inoltre gli importanti saggi e contributi al dibattito sul White Paper della Commissione che il Centro Robert Schuman dell’Istituto Universitario Europeo di Firenze diretto da Y. Meny, in collaborazione con The Jean Monnet Chair della Harvard Law School,, diretta da J.H.H.Weiler, va raccogliendo nell’ambito del seminario Responses to the European Commission’s White Paper on Governance. Tale documentazione è consultabile sul sito web www.iue.it. [53] Si veda su questi aspetti ora anche R.Bin, L’interesse nazionale, in Le Regioni,n.6 del 2001 e, sia pure in versione ridotta, anche in Forum telematico di Quaderni costituzionali, cit. In generale il primo ad accorgersi di questa problematica e a richiamare l’attenzione sulle conseguenze del mancato richiamo, nel nuovo testo costituzionale, del concetto stesso di “interesse nazionale” è stato A.Barbera, Esiste ancora l’interesse nazionale?, in Forum telematico di Quaderni costituzionali, cit. Sui problemi posti da Barbera si è peraltro svolto, sul medesimo Forum, un dibattito intenso e ricco di spunti, che concorrono implicitamente a illuminare ulteriormente questa problematica. Cfr. i saggi di R.Bin, R.Tosi ed altri, sede e loc. cit.

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La riforma del Titolo V

Interventi di: Augusto Barbera, Antonio D'Aloia, Tommaso E. Frosini, Pietro Barrera, Cesare Mainardis, Nicola Lupo, Tania Groppi, Veronica Elena Bocci, Francesco Palermo, Rosanna Tosi, Stefano Ceccanti, Stelio Mangiameli, Carlo Fusaro, Roberto Bin, Enzo Cannizzaro, Pietro Barrera, Franco Pizzetti, Francesco Teresi, Roberto Bin (2), Roberto De Liso, Roberto Bin (3), Adele Anzon, Luigi Gianniti, Enzo Balboni, Antonio D'Atena, Francesco Saverio Marini, Rosanna Tosi (2), Duccio M. Traina, Paolo Nicosia Scompare l’interesse nazionale?di Augusto Barbera* La riforma del titolo V della Costituzione sottrae al Parlamento, come è noto, sia il controllo sugli Statuti regionali (art.123 Cost.) sia il possibile controllo di merito sulle leggi regionali per contrasto con gli interessi nazionali (art. 127 Cost.). Tutto il peso del controllo sarà sulle spalle della Corte costituzionale, chiamata ad occuparsi di Statuti e leggi regionali su impugnazione del Governo della Repubblica (o dello Stato dopo la criptica nuova norma dell’art.114?). Questa nuova disciplina trascina con sé – come è stato affermato nei primi rapidi commenti - l’abolizione del limite dell’" interesse nazionale " , espressamente previsto dagli articoli 117 e 127 della Costituzione del 1948? E’ vera questa facile affermazione? In un volume degli inizi degli anni settanta (Regioni e interesse nazionale, Giuffré, Milano 1973) avevo sostenuto che gli interessi nazionali sono identificati dai fini e dai valori su cui le forze politiche egemoni fondano la decisione di considerarsi uniti nella Repubblica italiana. Se è vera questa conclusione – che supera sia la tesi di chi identifica tali interessi negli "obbiettivi fissati nell’indirizzo di maggioranza" (Mortati ed altri) sia la tesi di chi li riferisce a non ben precisabili " interessi della Nazione italiana "(Martines ed altri) – ne deriva che tale limite non può considerarsi travolto dalla riforma: esso permane, a mio avviso,quale espressione dell’unità stessa della Repubblica. E’ un limite che appartiene alla categoria dei limiti "impliciti " ma che trova un aggancio testuale nell’art.5 della Costituzione (e di cui peraltro v’è traccia indiretta nel nuovo art.120 laddove prevede i poteri sostitutivi del Governo a tutela della "unità giuridica o dell’unità economica"). Tale espressione fu introdotta dal Costituente ripercorrendo la formula del primo articolo delle Costituzioni rivoluzionarie. La " Republique une et indivisible" era stata, come è noto, la formula che i giacobini avevano agitato sia contro i residui vandeani dell"ancien règime " sia contro i tentativi federalisti dei girondini. Nel momento in cui dava vita ad un originale "Stato regionale " (non dobbiamo dimenticare che l’unico effettivo precedente poteva allora considerarsi la sfortunata Costituzione della II Repubblica spagnola), il Costituente pose la Corte costituzionale a custodia della legalità costituzionale (come avrebbe potuto richiedere Hans Kelsen) e il Parlamento a custodia degli "interessi nazionali" (come avrebbe avrebbe potuto richiedere Carl Schmitt, ma per il Capo dello Stato). Unico l’obbiettivo – la difesa della Costituzione, anch’essa "una" - ma diversi gli strumenti: il giudizio di "legittimità" in un caso, quello di "merito" nell’altro, il primo affidato alla Corte costituzionale, il secondo al Parlamento. Il Parlamento, in quanto rappresenta la Nazione (art.67), avrebbe dovuto assicurare, in forme diverse e utilizzando strumenti più flessibili – l’approvazione degli Statuti e l’eventuale controllo di merito sulle leggi regionali - gli stessi valori che avrebbe dovuto assicurare la Corte costituzionale. Il Parlamento con riferimento diretto all’obbiettivo dell’unità politica, la Corte con la mediazione dei parametri normativi della Costituzione. Sappiamo tutti come si è evoluto tale sistema: il Parlamento ha lasciato alla Corte costituzionale la difesa dell’interesse nazionale, che da controllo di merito, successivo ed eventuale, è divenuto un presupposto di legittimità mentre il controllo sugli Statuti ha perso rilevanza sia per il deperimento della fonte statutaria sia per l’utilizzo dei controlli parlamentari a difesa più dell’uniformità giuridica dell’ordinamento che dell’unità dello stesso ("l’armonia con la Costituzione"; e "con le leggi della Repubblica" si aggiungeva con formula infelice ora espunta)

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Perché con la riforma del titolo V il costituente (anzi il , come dire ,"revisionante") del 2001 ha tolto al Parlamento queste funzioni di custodia e le ha lasciate in grembo alla sola Corte costituzionale? Due le possibili interpretazioni: o si tratta di una linea "ultrafederalista" o di un atto di furbizia. Dico linea ultrafederalista perché è una decisione che trova pochi precedenti negli stati federali o regionali: è noto – mi limito a due esempi - che le Costituzioni Cantonali sono approvate dal Parlamento federale elvetico ed è altrettanto noto che gli Statuti delle comunità autonome devono essere "convertiti in legge" dalle Cortes del Regno di Spagna. L’atto di furbizia può consistere nel fatto che la parola decisiva , per quanto riguarda la "forma di governo", sarà detta dal Parlamento stesso attraverso la approvazione di una legge nazionale che determina i principi della legislazione elettorale e per gli altri contenuti si è voluto passare al Palazzo della Consulta il compito di togliere le castagne dal fuoco. Evidente è il pericolo per quest’ultima di scottarsi le dita nel fuoco della politica e per il primo di abdicare ad una essenziale funzione nazionale. Non ci dice l’esperienza costituzionale (dalla Sentenza McCullogh vs. Maryland alle prime decisioni della Corte italiana in materia regionale)che le Corti finiscono per assumere su di sé la difesa degli interessi nazionali (ovviamente denominati federali negli Stati federali)? * p. o. nell'Università di Bologna [email protected] Regioni e giustizia. Brevi note a margine della riforma costituzionale del Titolo V° di Antonio D’Aloia* 1. Al momento non è facile prevedere l’esito della vicenda referendaria relativa alla riforma del titolo V° Cost. approvata nel marzo 2001 dal Parlamento, la cui ‘singolarità’ è stata ben illustrata da Roberto Bin nel contributo intitolato “Riforme costituzionali a colpi di maggioranza: perché no?”, che ha aperto questo forum. Tuttavia, provare a ragionare su alcuni dei profili di merito della novella costituzionale non è azzardato, giacché, anche in caso di conclusione negativa di questa fase ‘sospensiva’, da questi problemi e da queste ipotesi di soluzione si finirà col ripartire, anche solo per riformularli in misura più o meno significativa. Tra i molteplici aspetti e novità che la riforma introduce, tra le cose che ci sono e quelle che mancano, e talvolta si tratta di un’assenza ‘pesante’ (si pensi alla ‘Camera delle Regioni’), vogliamo dedicare queste rapide considerazioni al tema della regionalizzazione delle competenze normative sulla giustizia, che in verità appare un oggetto di discussione più ‘ipotetico’ che reale. Appare abbastanza evidente che questo è uno dei punti del nuovo modello di regionalismo dove il peso della ‘tradizione’ e un certo atteggiamento di preoccupazione ‘conservatrice’ abbiano prevalso, facendo registrare un modesto, quasi impercettibile, profilo innovativo. Il nuovo art. 117, comma 2, della Cost., stabilisce che «giurisdizione e norme processuali, ordinamento civile e penale, la stessa giustizia amministrativa» (come pure l’ordine pubblico e la sicurezza) sono ‘materie’ rimesse alla legislazione esclusiva dello Stato. Solo nell’art. 116, comma 3, emerge uno spiraglio legato alla possibilità della legge statale (rinforzata: maggioranza assoluta dei componenti, intesa tra Stato e Regione interessata) di attribuire anche a Regioni diverse da quelle ‘speciali’ forme e condizioni particolari di autonomia anche nel settore (tra gli altri) dell’ordinamento giudiziario, «limitatamente (però) all’organizzazione della giustizia di pace». Ed è chiaro qui il richiamo all’esperienza regolativa della giustizia onoraria in Trentino Alto-Adige e Valle d’Aosta; un’esperienza su cui –come è ampiamente noto- ha fortemente inciso nel senso dell’armonizzazione alla disciplina statale, soprattutto per quanto riguarda la regione valdostana, prima la l. 374/91 sull’istituzione del Giudice di pace in sostituzione del giudice conciliatore, poi la sent. della Corte Costituzionale n. 150 del 1993 (per il T. A-A., v. l’art. 6 D. Lgs. 267/92). 2. Un primo punto credo meriti di essere esplicitato preliminarmente. L’analisi dei modelli di ripartizione delle competenze sull’ordinamento giurisdizionale non consente di rintracciare una relazione diretta con la forma di Stato (federale o

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regionale). Certo, sarebbe esagerato dire che non c’è alcun nesso: emerge comunque una tendenziale regolarità di ipotesi di decentramento giurisdizionale più marcate in sistemi (qualificati come) federali, in particolare se ad origine non unitaria; e di assetti prevalentemente di tipo ‘centralistico’ in sistemi (qualificati come) regionali. Non mancano però pesanti deviazioni dalla sequenza per così dire ‘ordinaria’ che impediscono di prospettare una corrispondenza automatica ed immediata tra grado ed intensità del processo autonomico e tipo di dislocazione territoriale dei poteri di intervento sull’ordinamento della giustizia. I casi austriaco e belga sono i più eclatanti: nel primo, il principio costituzionale per cui ogni giurisdizione emana dalla Federazione (art. 82) si traduce nella competenza della legge federale in tema di costituzione e funzionamento dei tribunali, diritto civile e penale, amministrazione della giustizia, giustizia amministrativa, e nel carattere analogamente federale dei procedimenti di nomina dei giudici; in Belgio, nonostante la pesante accelerazione della sua progressione autonomistica, continuano a spettare alla legge statale i compiti di organizzazione e istituzione di Corti e tribunali, compresa la disciplina del Consiglio di Stato e della giustizia di pace. In altri termini, assetti federali o regionali appaiono entrambi compatibili con moduli differenti, a prevalenza statale o regionale, di distribuzione delle competenze normative sulla disciplina organizzativa e funzionale della giurisdizione. 3. Ciò posto, e ritornando all’esperienza di casa nostra, il dato più appariscente è costituito dalla sostanziale chiusura del giudice costituzionale relativamente ad ogni tentativo di apertura del sistema giurisdizionale a meccanismi di coinvolgimento dei poteri regionali, al di là delle fattispecie maturate al riparo della ‘specialità’ regionale, e dunque su un piano di normatività costituzionale. Con una ‘perentorietà’ non sempre spiegata, tanto da giustificare una valutazione di autoreferenzialità (G. Silvestri, in un saggio del 1971, parlò di mere opzioni ideologiche che poco hanno a che fare con la deduzione razionale e controllata di un principio dalle norme costituzionali positive), il giudice costituzionale ha più volte affermato che «appartiene alla competenza esclusiva dello Stato tutto ciò che attiene ai profili dell’istituzione, organizzazione e funzionamento di organi giurisdizionali ordinari o speciali»; e questo persino laddove l’intervento regionale su queste materie si configurava come meramente accessorio se non addirittura ricognitivo della normativa statale (v. sent. 12/57, 81/76, 767/88, 594/90, 210/93, 303/94, 459/95). Una posizione netta di contrarietà nei confronti di possibili declinazioni autonomistiche del settore della giustizia, con poche e marginali eccezioni, relative all’ammissibilità di leggi regionali che prevedono trattamenti economici aggiuntivi per i magistrati ordinari preposti al Commissariato regionale per gli Usi civici, ovvero sostanzialmente riproduttive del disposto di leggi statali (vedi sent. 893 e 976 del 1988). Paradossalmente, questa posizione – che recentemente ha avuto una importante conferma in un ambito materiale contiguo alla giustizia, quello della sicurezza e dell’ordine pubblico (sent. 55 del 2001) - sembra consolidarsi ‘formalmente’ nella riforma costituzionale. Mentre infatti l’art. 108 Cost., confrontato col testo originario dell’art. 117, non preclude – almeno in parte - la via interpretativa di una qualificazione non necessariamente ed inderogabilmente statale della riserva di legge in tema di ordinamento giudiziario, la nuova formulazione dell’articolo sulle competenze legislative delle Regioni ordinarie ascrive espressamente la materia della giurisdizione (nel senso più ampio) nella sfera esclusiva della normazione statale, tagliando in radice ogni interrogativo sulla possibilità di individuare meccanismi partecipativi delle istituzioni locali (rectius regionali) all’organizzazione e al funzionamento delle strutture giudiziarie. La questione deve essere dunque considerata chiusa? Oppure in questo adagiarsi del legislatore costituzionale sulle ragioni tradizionali del ‘centralismo giurisdizionale’ va segnalata una contraddizione rispetto agli approfondimenti culturali e alle stesse dinamiche normative del nuovo regionalismo, fondato sul paradigma complesso sussidiarietà-differenziazione-collaborazione ? 4. Bisogna innanzitutto chiarire a cosa si pensa quando si ipotizza o si propone un maggiore peso degli enti regionali nella disciplina della giurisdizione. La sensazione infatti è che il dibattito venga talvolta spostato, proprio dai critici del ‘regionalismo

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giudiziario’, su linee estreme, paventando improponibili comparazioni con il modello americano contrassegnato da profonde e radicali differenziazioni degli ordinamenti civili e penali (e ovviamente processuali), che arrivano fino ad ammettere scelte politiche differenziate degli Stati sui punti estremi della pena di morte e della legalizzazione delle pratiche eutanasiche. Il problema in realtà deve essere scomposto, e trattato raffrontando argomenti e soluzioni ai profili particolari sui quali si intende incidere; in altre parole, non è mai in gioco – né potrebbe esserlo - il decentramento completo della giurisdizione o degli ordinamenti sostanziali di riferimento, ma solo la configurazione di condizioni di concorrenza e collaborazione normativa tra lo Stato e le Regioni su singoli aspetti e parti di queste materie, come la definizione degli organici, il funzionamento dei servizi e la gestione anche finanziaria dell’apparato giudiziario, la definizione (dentro un quadro statale di principi normativi) di procedure, competenze, profili di funzionamento di alcune magistrature (specialmente quella amministrativa e la giustizia di pace), la stessa organizzazione del Ministero di Grazia e Giustizia. Rispetto a queste ipotesi, appare ‘fuori centro’, e difficilmente può continuare a reggere da solo l’assioma secondo cui la statualità della giurisdizione è una tradizione ora consacrata in principio generale dell’ordinamento giuridico (sent. 12/57). 5. Un altro nodo critico delle riflessioni sul (parziale) decentramento della giustizia è quello dei diritti; il timore cioè che una frammentazione dell’organizzazione giudiziaria potrebbe determinare inaccettabili differenziazioni sul piano delle tutele e dei meccanismi di conformazione in particolare per «quello che in uno Stato di diritto è il bene più prezioso: il diritto alla tutela giurisdizionale» (Sorrentino). Anche questa appare una conclusione troppo drastica. Invero, la differenziazione sul piano dei diritti non è mai solo l’effetto di una pluralizzazione ‘verticale’ degli ambiti giurisdizionali, almeno quando permane la possibilità di connessioni o interferenze reciproche tra livello giudiziario centrale e livelli giudiziari locali. L’esperienza dei sistemi federali a più avanzato decentramento giurisdizionale registra una significativa capacità conformativa delle Corti federali, proprio in tema di diritti fondamentali: in particolare laddove il discorso costituzionale sui diritti manifesta un elevato grado di ‘espansività’ e di primarietà assiologica e normativa. In secondo luogo, non è detto che l’emersione eventuale di spazi di divaricazione sul piano dell’interpretazione dei diritti derivi quasi ‘naturalmente’ o inevitabilmente da un’articolazione territoriale della giustizia, potendo invece essere il riflesso di concezioni e culture dei diritti e delle libertà diffuse a livello sociale, e amplificate nell’esperienza giurisdizionale attraverso il canale di procedure di selezione dei giudici locali eventualmente connotate da una notevole ‘politicità’ (emblematico il caso americano). Per finire, è scontato che ogni ipotesi di progressione del decentramento (legislativo, amministrativo o, appunto, giurisdizionale) contenga un possibile esito di diversificazione e competizione delle politiche relative ai diritti (civili e, in particolare, sociali). Il problema diventa quello della misura di accettabilità della differenziazione, che ovviamente non può essere risolto negando a priori ogni spostamento in senso autonomistico degli equilibri di concorrenza dei poteri pubblici: una cosa infatti è dire che una determinata scelta può produrre rischi o conseguenze negative (che nella fattispecie considerata andrebbero valutati alla luce di una serie di decisioni attuative legate a questioni come il reclutamento dei giudici ‘locali’, la conformazione dei meccanismi processuali, il loro raccordo con le discipline giuridiche ‘sostanziali’), altro è dire che li produrrà senz’altro. Quale federalismo senza Mezzogiorno? di Tommaso Edoardo Frosini * 1. Le modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione, votate ed approvate da una stretta maggioranza parlamentare (ed ancora soggette a voto referendario), aprono un nuovo scenario su quella che si usa chiamare la forma di Stato italiana. Si tratta della prima grande riforma costituzionale, perché innova significativamente

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un’intera parte della Carta costituzionale dedicata ai rapporti fra centro e periferia. Ed è – diciamolo subito – conseguenziale alla riforma già varata sull’elezione diretta dei presidenti di Regione e sull’autonomia statutaria delle Regioni stesse. In tal modo, si è provveduto a completare il quadro costituzionale inerente alle autonomie locali, attribuendo alle stesse il loro compito di essere… autonomie; visto e considerato, che adesso hanno una serie di prerogative e poteri non più subordinati alla volontà statale. E’ federalismo quello che si è introdotto a livello costituzionale? Il quesito rampolla da un dubbio, che è il seguente: dell’organizzazione degli Stati federali, secondo l’esperienza comparata, la riforma non ha previsto un elemento assai significativo, tale da connotare fortemente il federalismo. Si tratta della seconda Camera rappresentativa delle sole autonomie territoriali, una Camera delle Regioni per intenderci, in grado di coagulare gli interessi territoriali all’interno di un unico organo decisionale. Ma per fare ciò si sarebbe dovuto intervenire sugli articoli della Costituzione riferiti al Parlamento e si sarebbe, altresì, dovuto mettere mano da subito ai regolamenti della seconda Camera. Un’operazione non certamente semplice e giammai realizzabile nel crepuscolo di legislatura. Allora, accontentiamoci. D’altronde non esiste un federalismo, ci sono invece diversi federalismi, specialmente se si accetta la teoria di uno dei massimi studiosi dei sistemi federali, Carl Joachim Friedrich, secondo il quale il federalismo o è dinamico o non è. In tal senso, il federalismo è un processo la cui evoluzione è dovuta alla capacità dei singoli enti locali di svilupparsi e di organizzarsi autonomamente, all’interno di una cornice costituzionale. In quest’ottica, allora, è ancora presto per qualificare il disegno costituzionale italiano come federale oppure no. Comunque vada, sarà un “federalismo italiano”: così come c’è il federalismo tedesco oppure quello spagnolo, che non sono affatto la stessa cosa (emblematici, a tale proposito, sono i contributi apparsi nel vol. Quale, dei tanti federalismi?, a cura di A.Pace, Padova 1997). C’è da dire, che la riforma costituzionale, a ben vedere, apre degli spazi nei riguardi di una prospettiva dinamica, che le Regioni dovranno saper sfruttare al meglio. Innanzitutto, il nuovo art.114 Cost. mette tutti sullo stesso piano: Stato, Regioni, Province, Comuni e Città metropolitane costituiscono la Repubblica. Un impianto geo-istituzionale orizzontale, non più verticale, con al centro Roma capitale della Repubblica. E proprio su questa radicale innovazione costituzionale vorremmo svolgere alcune considerazioni critiche. 2. Il nuovo art.114 della Costituzione è identico – fatta eccezione per l’ultima frase: “La legge dello Stato disciplina il suo ordinamento [di Roma capitale]” – all’art.55, che venne approvato dalla Camera dei deputati nell’esame in prima lettura del progetto di riforma costituzionale della commissione bicamerale D’Alema. Si tratta perciò di un articolo che aveva già incontrato l’approvazione parlamentare, nonostante non fossero mancate critiche in dottrina sulla formulazione e sul contenuto della nuova norma costituzionale. La parte più significativa e “rivoluzionaria” della norma è quella prevista nel primo comma, che così recita: “La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”. Una siffatta disposizione costituzionale va incontro ad una serie di osservazioni critiche, che qui vogliamo riferire. Con una premessa: da un punto di vista politico, l’equiparazione formale dello Stato con gli enti locali provoca una sicura valorizzazione di questi ultimi, sottraendoli alla tradizionale impostazione e concezione, che vuole che le periferie siano costituzionalmente subordinate al centro. Insomma: se l’obiettivo politico era quello di esaltare l’ente locale, allora lo si è raggiunto; grazie ad una norma che mette Stato ed enti locali sullo stesso piano, come se fossero la stessa cosa anche perché insieme costituiscono la Repubblica. Da un punto di vista del diritto costituzionale, invece, si possono avanzare alcune riserve. La prima riguarda una possibile violazione di un principio fondamentale del nostro ordinamento costituzionale, espresso all’art.5, e che si riferisce alla “unità ed indivisibilità della Repubblica”. Ora, stante il nuovo art.114 della Costituzione, la Repubblica non sarebbe più unita e indivisa in quanto Stato, ma piuttosto sarebbe identificabile “anche” con lo Stato, al pari delle altre entità territoriali. La Repubblica diventa così una sorta di condominio nel quale convivono cinque entità politiche pariordinate e giustapposte non aventi più un punto di riferimento unitario. La nozione di Repubblica, che è una nozione carica di significati quasi meta-costituzionali tant’è la sua forza semantica, si verrebbe ad identificare, come già detto, con

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l’articolazione territoriale dei livelli di governo: tutti, certo, legittimati democraticamente, ma non sufficienti ad esaurire la più ampia nozione di Repubblica democratica espressa dall’art.1 della Costituzione. Infatti, la Repubblica è un assetto che si alimenta dal basso esprimendo il principio democratico, il quale si realizza nella molteplicità di espressioni della sovranità popolare. Certo, tra tali espressioni vanno annoverate le autonomie territoriali, ma accanto ad una pluralità di strumenti di esercizio della sovranità popolare. Pertanto, le autonomie territoriali non sembrano poter esaurire il concetto di Repubblica e il principio democratico non può riferirsi solo all’articolazione sul territorio di livelli di governo. Altra cosa sarebbe stata, invece, se il legislatore costituzionale avesse predisposto una formula di questo tipo: “L’ordinamento federale della Repubblica si articola nei Comuni, nelle Città metropolitane, nelle Province, nelle Regioni e nello Stato”. In tal caso, si sarebbe opportunamente accentuato il fenomeno distributivo, ovvero dell’articolazione territoriale della Repubblica italiana: così come dovrebbe essere; e non certo il fenomeno costitutivo della Repubblica, che affonda le radici ed esprime la sua forza costituzionale soprattutto nella parte prima della Carta fondamentale dell’ordinamento repubblicano, ovverosia nella Costituzione dei diritti e poi in tutto il suo dispiegarsi normativo a partire dall’art.1, che va letto in combinato disposto con l’art.139, il quale afferma che: “La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”. 3. La concezione orizzontale emerge altresì, seppure in maniera non perfettamente simmetrica, nel nuovo art.117 Cost.: laddove, cioè, si fissano quelle che saranno le materie sulle quali lo Stato avrà legislazione esclusiva, lasciando, in tal modo, alla potestà legislativa regionale tutte le competenze residuali. Si potrà contestare che le materie riservate allo Stato sono molte, e che vanno ad incidere anche su tematiche che forse sarebbe stato meglio lasciare all’organizzazione regionale. Un esempio? La tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali; oppure la legislazione elettorale e gli organi di governo di Comuni, Province e Città metropolitane. Ma anche qui, accontentiamoci. Merita poi citare il nuovo art.118 Cost., con l’introduzione del principio di sussidiarietà, che potrà divenire il nuovo concetto guida dei rapporti centro-periferia. Esso interverrà, infatti, nel momento in cui le Regioni da sole non riusciranno a realizzare i loro compiti, ed allora chiederanno “sussidio” allo Stato. Ma qui, proprio sulla possibilità delle Regioni di farcela da sole, di progredire e di valorizzarsi, di svilupparsi e di competere con le altre Regioni, qui, dicevo, si vuole muovere un’ulteriore critica alla riforma costituzionale. Si tratta della eliminazione del riferimento all’obiettivo della “valorizzazione del Mezzogiorno e delle Isole”, di cui al (vecchio) art.119 Cost. Perché lo si è eliminato? Non si vorrà far credere che la questione meridionale si risolve eliminandola dalla Costituzione e quindi non considerandola più un problema? Si tratta(va) di un riferimento, che era stato fortemente e coscientemente voluto dal Costituente, il quale volle così costituzionalizzare il problema della valorizzazione dell’assetto civile, economico e sociale del Mezzogiorno e delle Isole. Quasi una disposizione di “diritto sociale territoriale”, volta a promuovere e perseguire lo sviluppo economico e la coesione sociale nell’area meridionale, che non è solo la zona sud del Paese ma è anche “una maniera di essere di alcuni milioni di abitanti”. E’ bene ricordare, allora, che proprio negli Stati federali, più ancora che negli Stati accentrati, l’attuazione dei valori di solidarietà e di unità nazionale è affidata all’impegno di risorse comuni a sostegno dello sviluppo delle regioni in ritardo o in crisi. Basterà la sola sussidiarietà a non far precipitare il Mezzogiorno ancora più a sud? Revisione della forma di stato e “statuto della capitale”di Pietro Barrera * 1. E così il 7 ottobre il referendum popolare concluderà il procedimento di revisione del Titolo V della Costituzione avviato nella precedente legislatura. E’ ragionevole immaginare che la maggioranza delle forze politiche proporrà il voto favorevole: magari, e con piena legittimità tecnica e politica, per proporre ulteriori avanzamenti nella revisione della forma di Stato. Azzardiamo allore a considerare acquisito il terzo

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comma del nuovo articolo 114 che solennemente recita: “Roma è la capitale della Repubblica. La legge dello Stato disciplina il suo ordinamento”. Del resto non sembra che tra gli intendimenti del Governo vi sia un ripensamento su quella disposizione. Non sfugge ad alcuno il rischio di una mera declamazione retorica. Tuttavia la disposizione costituzionale c’è, ed è ricca di implicazioni. Per questo mi permetto di utilizzare il Forum telematico di Quaderni costituzionali per sottoporre all’attenzione dei costituzionalisti alcuni interrogativi che sono per la città, e forse per il paese, di immediato interesse pratico. 2. La disposizione deve ovviamente essere letta ed interpretata alla luce dell’inalterato articolo 131, e dunque dell’unità della regione Lazio, comprendente Roma, e della “filosofia d’assieme” della riforma del Titolo V, che, muovendo dal nuovo art.114, disegna una forma di Stato a cui concorrono con pari dignità tutte le comunità territoriali: i comuni, le città metropolitane, le province e le regioni. Insomma, una doppia scelta fondamentale è già stata fatta. Roma non si separa dal Lazio, e rimane cuore e parte fondamentale della Regione, pur essendo evidente, e finalmente costituzionalizzata, la sua funzione di Capitale della Repubblica. Ancora: la “specialità” della Capitale sarà definita da una legge ordinaria. La riserva di legge supera alla radice i dubbi di legittimità di un ordinamento differenziato per la città capitale, che potevano essere proposti in relazione alla nozione di “legge generale” richiamata dal precedente art.128, ma le linee fondamentali del riparto di funzioni tra i diversi livelli di governo sono già fissate dalla Costituzione. Modelli istituzionali diversi - il distretto federale, di ispirazione nord e sud americana, o la “città regione”, propria di altri ordinamenti europei - restano così mere ipotesi di studio, per quanto affascinanti, almeno nella premessa di “secessione” dal territorio regionale. Eppure non mancavano le ragioni per costituire Roma in distretto federale - territorio autonomo, con speciali funzioni e competenze riservate agli organi dello Stato federale - oppure in città regione - comunità autonoma, equiordinata alle altre componenti della federazione. E’ infatti un tratto proprio di molti ordinamenti federali uno “statuto della Capitale” che la ponga come segno simbolico dell’unità, al servizio dell’intera federazione; in questo senso la Capitale non dovrebbe “soggiacere” ad alcuna delle componenti - stati, regioni, lander - della federazione. Per questo nacque il District of Columbia nel 1801. E una diversa configurazione costituzionale avrebbe consentito di modellare con più incisività la “specialità” della Capitale, ad esempio riconoscendole un’autonoma potestà legislativa. Hanno prevalso la pigrizia intellettuale e il conservatorismo istituzionale? Forse, ma comunque solide e forti erano le ragioni di segno opposto. Può infatti il Lazio vivere senza Roma? che ne sarebbe di una regione privata del 72.5% della popolazione, il 77.9% del reddito prodotto, il 73.7% degli occupati (dati riferiti all’area metropolitana romana secondo una recentissima e puntuale ricerca della Fondazione Einaudi: “Il Lazio senza Roma”)? E dunque, è ragionevole frantumare il Lazio (e forse altre regioni; se si avvia il domino delle scomposizioni, quante regioni reggeranno alle spinte “secessioniste”?), proprio mentre la riforma federale postula regioni forti dal punto di vista demografico, territoriale e socio-economico? Infine, poiché gli assetti istituzionali non possono mai trascurare la dimensione di “identità collettiva”, che trasforma una ripartizione amministrativa in una comunità, come trascurare i legami plurisecolari tra Roma e il suo territorio regionale? A superare i dubbi vale però soprattutto la considerazione che il modello di forma di Stato che si sta delineando non è quello di una “tradizionale” federazione di venti regioni, ma piuttosto un sistema complesso di collettività territoriali autonome e costituzionalmente garantite. Roma può dunque ben fare parte del Lazio, perché non solo il Lazio e non solo le regioni sono gli elementi costitutivi della Repubblica: per il nuovo 114, Roma Capitale concorre a “costituire la Repubblica”, insieme agli altri comuni e città, alle province e alle regioni. La Regione Lazio non può considerarsi gerarchicamente sovraordinata alla città Capitale, se l’insieme delle nuove disposizioni costituzionali (con il 114, cfr. artt. 117.6, 118, 119, 123) tende a garantire l’autonomia di ciascun comune nell’ambito delle regioni rinnovate. E dovrà tenerne conto nell’elaborazione del nuovo Statuto a norma della legge costituzionale n.1/1999. 3. Altre indicazioni si possono desumere dalla sintetica disposizione costituzionale. Già l’espressione “Roma è la Capitale” è significativa: Roma non “ospita” la Capitale, non è il luogo fisico “sede della Capitale della Repubblica” (così la legge 28 febbraio

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1953, n.103, che per la prima volta dispose un contributo di parte corrente per il Comune di Roma, legato agli oneri gestionali della Capitale). Lasciamo pure da parte il dibattito, assai nominalistico, sulla definizione giuridica di “città Capitale” (cfr. le voci “Capitale” in Enc.dir. e in Enc.giur.it.): prendiamo però atto che il titolare delle funzioni della Capitale è proprio la “città”, cioè una collettività locale che si esprime attraverso i suoi enti esponenziali. Le funzioni costituzionali della Capitale, che ne giustificano un ordinamento differenziato presidiato dalla riserva di legge statale, possono allora essere così riassunte: a) soddisfare le esigenze logistiche e funzionali degli organi costituzionali, assicurando loro le migliori condizioni di libero esercizio delle rispettive attribuzioni b) assicurare simmetricamente alla nazione, e alle formazioni sociali che la compongono, il diritto di partecipare alla vita politica del paese e di interagire con gli organi costituzionali c) mantenere così vivo il rapporto tra istituzioni e paese (la moderna Capitale democratica è forse nata il 5 ottobre 1789, quando il Re e l’Assemblea nazionale furono riportati a furor di popolo da Versailles al cuore di Parigi!) d) assicurare al paese coesione ideale, identità, visibilità internazionale (quante volte, nel linguaggio politico-giornalistico, la città Capitale è sintesi dell’intera nazione? “Washington tranquillizza gli alleati...”), se ancora si può dire che “senza Roma capitale d’Italia l’Italia non si può costruire” (Cavour alla Camera dei Deputati il 25 marzo 1861) e) tenere fede infine agli impegni assunti con i Patti lateranensi e, da ultimo, con il Concordato del 1984, quando la Repubblica ha reiterato il riconoscimento del “particolare significato che Roma ha per la cattolicità”. In moltissimi ordinamenti contemporanei la città Capitale gode di uno statuto speciale, sia per le funzioni (spesso intrecciate con le competenze degli organi costituzionali dello Stato) che per le risorse finanziarie. In Italia, dopo l’esperienza del Governatorato (e a causa di quella), la Repubblica ha stentato a definire uno statuto per la sua Capitale. Non raggiunse l’obiettivo la “commissione Petrilli” nel corso della prima legislatura, con i contrapposti (e inadeguati) progetti di Sturzo e Donini. E così gli unici strumenti normativi, in cinquant’anni di Repubblica, sono stati la già ricordata legge n.103/1953, con il contributo di parte corrente “per gli oneri che la città sostiene come Capitale”, e la legge 15 dicembre 1990, n.396, con gli “interventi per Roma Capitale”. Insomma, una legge per assicurare (modeste) risorse gestionali, ed una legge di investimenti: nessuna norma ordinamentale. La scommessa di oggi è di riuscire là dove altri hanno fallito, assicurando un armonico equilibrio tra le esigenze della comunità locale e quelle dell’intera comunità nazionale, in coerenza con i principi democratici e autonomisti della Costituzione così come il Governatorato fu un modello coerente con la cultura e i valori del regime fascista. 4. Non è ancora il momento per delineare il nuovo ordinamento della Capitale. E’ tuttavia possibile fissare alcuni punti irrinunciabili, da cui muovere nello spirito di una saggia convergenza politica e istituzionale: a) se Roma non “fugge dal Lazio”, e non ha alcuna ragione di temere la sua permanenza nell’ambito della Regione, è altrettanto vero che non può reggere ulteriormente la compresenza/competizione tra Comune e Provincia; non è un problema di status, è un problema di funzioni, e dunque di semplificazione e di efficienza (aggravato dal processo di decentramento avviato dalla legge 59/1997) il modello della città metropolitana - quale ne sia l’ampiezza - indica già questa prospettiva b) grandi capitali - da Washington a Parigi - hanno atteso decenni per ottenere il riconoscimento del diritto all’autogoverno locale (Washington nel 1975, Parigi un anno più tardi); un modello di Capitale federale che subordinasse la vita e le istituzioni della città al governo nazionale sarebbe antistorico, e comunque inaccettabile c) la duplicità tipica di ogni Capitale (città “normale” con funzioni di interesse nazionale) si arricchisce a Roma con due caratteristiche assolutamente peculiari: la presenza di uno Stato sovrano (e che Stato sovrano!) nel cuore della città, insieme ad importanti istituzioni internazionali, e un patrimonio storico-artistico unico al mondo, davvero “patrimonio dell’umanità”; l’ordinamento di Roma, nella parte organizzativa come in quella finanziaria, non può non tenerne conto.

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5. Nei prossimi mesi ci attende dunque un insieme di percorsi normativi: il processo di revisione costituzionale, con il referendum ex art.138, e il nuovo procedimento di revisione annunciato dal Governo; l’elaborazione della legge ordinaria sull’ordinamento della Capitale e l’elaborazione del nuovo Statuto della Regione Lazio. Il quadro si completa (necessariamente) con il percorso che potrebbe portare alla costituzione della “città metropolitana di Roma Capitale”. Il procedimento delineato dal Testo unico sull’ordinamento degli enti locali prevede la partecipazione del Comune capoluogo, degli altri Comuni, della Provincia, della Regione, e infine del Parlamento, e presuppone anzitutto un compito di progettazione normativa: sarà infatti lo Statuto della città metropolitana, approvato dall’assemblea degli enti locali interessati, a definire “territorio, organizzazione, articolazione interna e funzioni” del nuovo ente. Non è detto che questo percorso debba compiersi nei modi e nei tempi previsti dal Testo unico: la legge sull’ordinamento della Capitale ben vi potrebbe derogare. Ma se il tema della Capitale non può essere riassunto in quello della città metropolitana (che riguarda le dimensioni, e non le peculiarità istituzionali della città), è altrettanto vero che Roma è anche la più grande città del paese, con i problemi di “governo d’area vasta” propri di tutte le città metropolitane. 6. Lungo tutta la sua storia Roma è stata chiamata a svolgere funzioni - simboliche e organizzative, ideologiche e politiche - che trascendevano la sfera territoriale: i limiti e gli interessi della comunità locale. E gli amministratori della città ne hanno sempre tenuto conto: “è la sola città d’Italia che non abbia memorie esclusivamente municipali”, sono ancora parole di Cavour. Centro pulsante dell’impero e della civiltà romana, sede del Pontificato e cuore universale della Chiesa cattolica, Capitale ideale, e finalmente istituzionale, dell’Italia unita, Roma e i romani hanno tratto vantaggi e svantaggi da questa realtà: grandi opere e grandi oneri (e disagi) organizzativi, limiti alle potenzialità di sviluppo autocentrato, e opportunità di proiezione internazionale. Non ha senso pesare sulla bilancia le due partite. E’ piuttosto necessario affrontare questo equilibrio instabile nel nuovo contesto politico-istituzionale che si sta determinando con la riforma federalista dello Stato. Senza dimenticare l’enorme impegno finanziario che altri Stati europei – dalla Germania alla Francia, dalla Gran Bretagna alla Spagna – destinano alla “vetrina” della Capitale. Ci si deve porre dunque, anzitutto, il doppio interrogativo: quanto costa l’essere Capitale? e chi deve sostenere quei costi? La condizione del Comune di Roma è aggravata dal persistente squilibrio dei trasferimenti erariali pro-capite, e dall’inveterata abitudine di affidare ai “grandi eventi” (le Olimpiadi del ’60, i mondiali di calcio del ’90, il Giubileo del 2000) le chances di sviluppo della città. Tuttavia il nodo strutturale, comune a tutte le Capitali, è un altro: come si può superare l’obiettiva iniquità di far pesare solo su una comunità locale funzioni e costi che riguardano l’intera collettività nazionale. Il tema diventa ineludibile quando l’intero sistema degli enti locali è sospinto verso una piena autonomia finanziaria e tributaria: può essere l’Ici dei romani a pagare il conto della Capitale? 7. Ho messo sul tavolo solo alcuni interrogativi. Nei prossimi mesi le istituzioni, locali e nazionali, saranno chiamate a dare loro una risposta, speriamo non troppo condizionata dalle contingenze politiche. Sarà prezioso, a questo fine, il contributo della cultura giuridica italiana. * Direttore dell’Ufficio speciale per l’ordinamento della Capitale del Comune di Roma Il nuovo regionalismo italiano ed i poteri sostitutivi statali: una riforma con (poche) luci e (molte) ombre di Cesare Mainardis* Introduzione Scorrendo il nuovo titolo V della carta costituzionale, sono numerose le novità che emergono, e che non possono trovare in questa sede che una semplice menzione: dai nuovi profili della potestà legislativa regionale [vedi, sul punto le prime osservazioni di R.BIN, Le potestà legislative regionale, dalla Bassanini ad oggi, reperibile in http://space.tin.it/scienza/binro/bibliografia/htm] alla nuova distribuzione della

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titolarità delle funzioni amministrative, riservate ai Comuni ma con una esplicita clausola di recupero delle competenze in favore di enti territorialmente più estesi in nome di esigenze unitarie; ed ancora, dalla trasformazione del sindacato di legittimità sulle leggi regionali da preventivo in successivo, all’abolizione di tutti i controlli di merito e di legittimità sugli atti amministrativi delle Regioni e degli enti locali (e, detto incidentalmente, ci si può chiedere che ne sarà dei c.d. controlli atipici, come quello di gestione da parte della Corte dei Conti?). In questo contesto, una delle novità più significative è rappresentata dal secondo comma del nuovo art.120 Cost., laddove si introduce, al ricorrere di determinati presupposti analiticamente elencati, un potere di intervento sostitutivo dello Stato nei confronti di Regioni ed enti locali, con un rinvio alla legge ordinaria per la definizione delle procedure surrogatorie, nel rispetto dei principi di leale collaborazione e di sussidiarietà. Si tratta di una disposizione destinata ad assumere, a mio avviso, una valenza cardinale nel nuovo assetto dei rapporti fra potere centrale ed autonomie locali, vista la sua natura di clausola generale di (potenziale) recupero di funzioni e competenze in favore dello Stato centrale. A ciò tuttavia si accompagna la considerazione per cui la formulazione assai generica di tale articolo fa sì che esso costituisca, come è stato detto, “più che una soluzione, un problema interpretativo” [così G.FALCON, Il nuovo Titolo V della Parte seconda della Costituzione, Le Regioni, 2001, n.1, p.3 ss,]. Ed in effetti, sono così numerose e rilevanti le questioni esegetiche che solleva il nuovo art. 120 Cost. da poter concludere che, proprio dalla definizione, in via interpretativa, dei suoi contenuti, potrebbe dipendere lo spettro di autonomia costituzionalmente garantita a Regioni ed enti locali. Con questa riflessione, vorrei limitarmi, in questa sede, a segnalare dette questioni, senza pretesa peraltro di dare risposte esaurienti. Aggiungendo una precisazione: come accennato, la riforma costituzionale, approvata a maggioranza assoluta, attende ora di essere sottoposta a referendum popolare: potrebbero pertanto sembrare premature delle considerazioni su un articolato normativo che non si sa nemmeno se entrerà mai in vigore. E, tuttavia, non sembra inopportuno, anticipando i tempi, limitarsi anche solo a segnalare una serie di questioni che, se il referendum dovesse avere esito positivo, diverranno di immediata attualità; e che se, invece, la riforma dovesse naufragare, manterranno comunque un interesse de iure condendo, rappresentando la riforma del titolo V della carta costituzionale un sicuro argomento del futuro dibattito politico e giuridico. La natura del potere di intervento statale. Analizzando dunque il secondo comma del nuovo art.120, una prima questione da evidenziare riguarda innanzitutto la natura del potere di intervento statale previsto dalla disposizione: si tratta cioè di un potere sostitutivo in senso proprio, destinato a rispondere a vere e proprie inerzie regionali o locali che integrino i presupposti indicati (mancato rispetto di norme e trattati internazionali ecc.), oppure, con una interpretazione più ampia, si può ipotizzare un potere statale di intervento surrogatorio sì, ma in senso generico, a prescindere cioè da un inadempimento delle autonomie locali inteso come mancato esercizio, entro un termine prefissato, di una determinata competenza? A favore di questa seconda interpretazione va il rilievo che, in effetti, nella disposizione non si parla affatto di “inerzie” o “inadempimenti” degli enti sostituiti. Inoltre, va qui ricordato un indirizzo della giurisprudenza costituzionale che, in passato, ha ricondotto alla categoria degli atti sostitutivi, ritenendoli così legittimi, interventi statali che nulla avevano a che fare con vere e proprie inerzie regionali. Si trattava di previsioni legislative che ritagliavano, a priori, determinate funzioni in favore dello Stato, che dunque si surrogava semplicemente alle Regioni nell’esercizio di determinate competenze [sentenza n.49/1987]; oppure che legittimavano interventi sostitutivi anticipati rispetto alla scadenza fissata ex lege [sentenza n.304/1987]. O, ancora, che introducevano misure derogatorie rispetto al riparto ordinario di competenze, quasi delle ordinanze extra ordinem mascherate da atti sostitutivi [sentenza n.617/1987]. E, fra l’altro, proprio con riferimento a quest’ultimo esempio, e cioè alle ordinanze contingibili ed urgenti, la presenza, fra i presupposti legittimanti

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l’intervento del potere centrale, del “pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica”, potrebbe avvalorare ulteriormente detta interpretazione. Si potrebbe obiettare che il nuovo art.120 Cost. è stato pensato e voluto per dare copertura costituzionale ai poteri sostitutivi statali nei confronti di inerzie amministrative (e forse legislative, per quanto riguarda le Regioni), disciplinati per la prima volta in via generale, almeno con riferimento alle funzioni amministrative proprie delle Regioni, dall’art.5 del d.l.vo n.112/98. Presa singolarmente, però, si tratta di una obiezione piuttosto debole, che si scontra soprattutto con la formulazione di una disposizione che, in effetti, sembra consentire davvero allo Stato i più diversi interventi nei confronti delle autonomie locali. Ma, allora, è evidente che proprio su questo punto si giocherà, in sede interpretativa, una battaglia importante, dal momento che l’ampiezza degli interventi statali potenzialmente legittimati dalla norma è assai ampia: si potrebbe andare, infatti, dagli interventi sostitutivi in senso proprio, a fronte di inerzie nell’adozione di provvedimenti amministrativi vincolati nell’an, fino a possibili interventi surrogatori di competenze regionali e locali senza la necessità di puntuali inadempimenti, per arrivare a configurare poteri di ordinanza extra ordinem (a prescindere dal nomen utilizzato in concreto dal legislatore). E, imboccata questa strada, si potrebbe giungere persino a ricostruire la funzione statale prevista dall’art.120 come una sorta di controllo atipico sull’attività della Regioni e degli enti locali, con un potere di intervento statale che si concretizzi in provvedimenti che si “sostituiscano” a quelli regionali (e locali): ma ciò non solo, dunque, nell’ipotesi di inerzia, ma anche nell’ipotesi, ad esempio, di provvedimenti regionali o locali che comportino una insufficiente “tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” (tanto per richiamare uno dei presupposti dell’art.120). Fino a riesumare, perché no, un potere di annullamento straordinario degli atti amministrativi di Regioni ed enti locali, qualora ricorrano le condizioni previste dalla disposizione: potere in passato giudicato incostituzionale dalla Corte, ma solo perché privo di una esplicita previsione costituzionale [sentenza n.229/1989]. Si comprenderà meglio ora quanto volevo dire in precedenza, accennando alla possibile ampiezza di contenuti ricavabili in via interpretativa dalla disposizione in commento, ed alle possibili, correlate implicazioni sull’autonomia complessiva riconosciuta a Regioni ed enti locali. Sostituzione amministrativa o anche legislativa nei confronti delle Regioni? Ma anche ammessa una limitazione degli interventi statali agli atti sostitutivi in senso stretto, rimane il dubbio se detta sostituzione possa avere ad oggetto inerzie amministrative o, per quanto riguarda ovviamente le sole Regioni, anche legislative [dubbio che si pone anche G.FALCON, op.cit., p.12]. Sostituzione legislativa e sostituzione amministrativa sono in realtà istituti profondamente diversi che, a mio avviso, vengono anche in dottrina impropriamente accomunati. Basti pensare, infatti, che laddove si parla di sostituzione amministrativa, si intende un potere di intervento statale che si concretizza nell’adozione di un provvedimento amministrativo omesso dalla Regione (o dall’ente locale): ma l’adozione di detto provvedimento è imposto, giuridicamente, dalla legge, tanto che un eventuale inerzia statale, che segua a quella regionale, potrà integrare gli estremi di un silenzio – inadempimento della P.A., contro il quale ben potrà agire in giudizio il terzo (potenziale) destinatario dell’atto non adottato. La sostituzione legislativa, invece, laddove anche la si volesse prevedere al di là del caso particolare introdotto dalla legge Bassanini (e limitato al trasferimento delle funzioni agli enti locali da parte delle Regioni), comporterebbe appunto un intervento legislativo da parte dello Stato, nell’esercizio della corrispondente funzione: ma, proprio per questo, si tratterebbe di un intervento non vincolato nemmeno nell’an, essendoci ovviamente una scelta politica alla base dell’adozione di qualsiasi atto legislativo del Parlamento. Pertanto, mentre la sostituzione amministrativa è funzione giuridica, quella legislativa sembra riconducibile ad una funzione politica, con tutte le conseguenze in ordine alle diverse responsabilità che ne conseguono.

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A questo proposito, peraltro, il nuovo art. 120, come un vero rebus giuridico, offre due indizi interpretativi del tutto divergenti fra di loro: da un lato, infatti, riconosce al Governo la titolarità dell’intervento, escludendo quindi, in apparenza, la possibile adozione di provvedimenti legislativi statali (a meno di non voler immaginare macchinose costruzioni di leggi di delega a cui seguano decreti legislativi delegati, adottati in via sostitutiva nei confronti delle Regioni). Al contempo, però, si dice che il Governo “può” intervenire in via sostitutiva, laddove, se le parole hanno un senso, il verbo impiegato rimanda ad una scelta discrezionale che mal si concilia con la sostituzione amministrativa, imposta appunto ex lege, e richiama piuttosto la discrezionalità politica di un intervento legislativo. Anche sotto questo profilo, pertanto, i dubbi interpretativi non mancano di certo. I presupposti legittimanti l’intervento statale: l’interesse nazionale, cacciato dalla porta, rientra dalla finestra? Venendo poi ai presupposti legittimanti l’intervento statale, il legislatore ordinario, nel disciplinare per la prima volta la sostituzione statale nei confronti delle funzioni amministrative proprie, li aveva individuati nell’inadempimento agli obblighi comunitari e nel pericolo di grave pregiudizio agli interessi nazionali (così infatti l’art.5, comma I del d.l.vo n.112/98). La scelta del neo-costituente, invece, è stata differente: da un lato, infatti, è scomparsa del tutto dalla carta costituzionale l’espressione “interessi nazionali”; dall’altro l’art. 120, rinunciando ad una clausola unica e generale, elenca dettagliatamente svariate ipotesi che giustificano l’intervento sostitutivo statale. La vicenda della trasformazione degli interessi nazionali da limite di merito a limite di legittimità è ben nota, così come lo sono le ripercussioni che tale trasformazione ha avuto sull’assetto complessivo dei rapporti Stato – Regioni: e non è certamente questa la sede per una valutazione più o meno approfondita dell’argomento. Mi chiedo tuttavia, almeno con riferimento all’articolo in commento, se la scomparsa dell’interesse nazionale, così come definito nei contenuti (da parte soprattutto della giurisprudenza costituzionale) e nel ruolo di limite all’autonomia costituzionale delle Regioni, rappresenti una innovazione sostanziale o di mera facciata nell’architettura complessiva dei rapporti Stato – Regioni [vedi, sul punto, le prime riflessioni di A.BARBERA, Scompare l’interesse nazionale?,in questo Forum] Ebbene, almeno con riferimento ai poteri sostitutivi statali, sembra davvero che l’interesse nazionale, cacciato dalla porta, finisca invece con il rientrare dalla finestra: non è difficile infatti, leggere dietro i singoli presupposti legittimanti l’intervento statale altrettante puntuali declinazioni del “vecchio” interesse nazionale, così come concretizzato dal legislatore statale con l’avvallo della Corte costituzionale. E così, il “mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria” altro non sembra che la specificazione dell’interesse nazionale, più volte riconosciuto dalla Corte, ad evitare l’insorgere della responsabilità statale sul piano internazionale o comunitario; il “pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica” richiama quelle situazioni in cui, di fronte all’emergenza con cui lo Stato è chiamato ad intervenire a tutela di valori considerati come primari, l’interesse nazionale è stato ritenuto dalla Corte sussistente in re ipsa, senza la necessità cioè di uno scrutinio particolarmente stringente delle esigenze unitarie. Più difficile è forse capire cosa significhi davvero “la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica”: si tratta di due clausole non solo indeterminate ed ambigue, ma del tutto sconosciute nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale, e che pertanto promettono di innescare un ampio contenzioso giuridico: riflesso, a valle, del dibattito politico che, a monte, ne determinerà i possibili contenuti. Cercando di evitare l’horror vacui e agganciare tali espressioni a limiti già conosciuti dell’autonomia regionale, mi vengono in mente, in prima battuta, i principi generali dell’ordinamento giuridico e le norme fondamentali delle riforme economico-sociali: i primi come direttive generali capaci di imporsi nei diversi settori dell’ordinamento giuridico, le seconde come espressione, appunto, delle esigenze unitarie di uniforme applicazione di riforme di natura economica. Peraltro, a specificazione dei presupposti da ultimo commentati, l’art. 120 indica “in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e

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sociali”, ovvero un altro puntuale richiamo ad una declinazione dell’interesse nazionale assai ricorrente nella giurisprudenza costituzionale, anche con riferimento precipuo ai poteri sostitutivi. In conclusione, pertanto, non sembra davvero che la sostituzione di una clausola generale come quella dell’interesse nazionale con svariate, puntuali, esemplificazioni di situazioni in cui tale interesse è stato ritenuto in passato ricorrente, muti in maniera significativa la posizione delle Regioni di fronte allo Stato, almeno con riferimento alle ipotesi legittimanti un intervento in via surrogatoria da parte del potere centrale. Una funzione statale giuridica o politica? Un ultimo accenno, infine, ad una questione senz’altro più sottile rispetto alle precedenti ma solo in apparenza meno importante: ed il riferimento va all’inciso dell’art. 120, per cui è detto espressamente che il Governo si sostituisce “a organi” delle Regioni e degli enti locali. Se anche infatti dovesse prevalere la tesi per cui l’art.120 introduce un potere sostitutivo statale in senso proprio, si riaffacciano per altra via le considerazioni esposte in precedenza sulla natura del potere statale così esercitato. Chi ha presente la storia del c.d. controllo sostitutivo ed il dibattito dottrinale, soprattutto fra gli amministrativisti, che ne ha accompagnato il passaggio dall’ordinamento statutario a quello repubblicano, coglie subito come l’espressione utilizzata dal legislatore, lungi dall’essere neutrale, è ricca in realtà di implicazioni interpretative. Anche superando l’originaria impostazione di Zanobini, per cui la sostituzione nei confronti degli organi avrebbe sempre carattere sanzionatorio, rimane valido l’insegnamento di Benvenuti, per cui la potestà sostitutiva può escludere la legitimatio ad agendum di un organo, qualora sia destinata al compimento di singoli atti omessi dal sostituito; oppure può escludere la legitimatio ad officium, qualora abbia l’effetto di escludere la legittimazione di determinati soggetti ad essere titolari di un determinato ufficio, e ciò a prescindere dal carattere sanzionatorio o meno della misura. Ebbene, leggendo la disposizione dell’art.120, si può notare come la norma non faccia alcun riferimento all’omissione di atti o di attività determinate, ma parli invece di un potere del Governo di sostituirsi direttamente agli organi delle autonomie locali: il che lascia aperta la possibilità di intendere il potere statale così introdotto come ipotesi di esclusione della legitimatio ad officium degli organi sostituiti. Ma, se così è, ritornano ancora opportune le considerazioni di Benvenuti, il quale, con riferimento al rapporto fra lo Stato e gli enti locali, riteneva detta forma di intervento sostitutivo non come estrinsecazione di un potere di controllo amministrativo, bensì come un potere di controllo politico. Si dirà che le considerazioni di Benvenuti muovevano anche dalla necessità di individuare dei profili di legittimità costituzionale di un siffatto potere, ritenuto ammissibile dall’Autore appunto se qualificabile come politico e non giuridico. Ma ciò non toglie che, da un punto di vista teorico, la formulazione della norma (incentrata, lo si ripete, sulla sostituzione nei confronti degli organi e non nei confronti di atti o attività determinate) potrebbe autorizzare una interpretazione dell’art.120 che riservi allo Stato una funzione non giuridica, bensì politica, e come tale sottratta a qualsivoglia controllo giurisdizionale, se non altro in ordine ai contenuti dei provvedimenti adottati (le procedure, infatti, sono demandate alla legge ordinaria che deve disciplinarle nel rispetto dei principi di leale collaborazione e sussidiarietà). Conclusioni. Alcune considerazioni finali. Dal titolo di questa riflessione già si comprende la valutazione sulla portata della riforma costituzionale, limitatamente almeno al contenuto del nuovo art.120. Se infatti le intenzioni del legislatore erano quelle di dare copertura costituzionale ai poteri sostitutivi in senso proprio, soprattutto con riferimento alle funzioni esclusive delle Regioni, ebbene ciò è avvenuto con l’introduzione di una disposizione oscura, ricca di implicazioni interpretative che potrebbero portare, come accennato, a risultati ben diversi da quelli voluti. E, sotto questo profilo, è davvero curioso che il neo-costituente si sia lanciato nella formulazione di questo arzigogolo giuridico che è

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appunto il nuovo art.120 Cost., avendo sotto gli occhi il disposto dell’art. 5 del d.l.vo n.112/98, riferito appunto ai poteri sostitutivi, disciplinati per la prima volta in via generale almeno con riferimento alle funzioni amministrative regionali proprie: disposizione magari perfettibile, come tutte le cose umane, ma comunque formulata in maniera sufficientemente chiara e lineare, almeno nella sua prima parte (riferita all’intervento sostitutivo statale non sorretto da ragioni di urgenza). Se invece l’intenzione era quella di introdurre davvero una funzione statale dai contenuti più ampi rispetto al potere sostitutivo in senso stretto, va rimarcata comunque l’assoluta mancanza di chiarezza della disposizione da cui, come rilevato, non è dato nemmeno di intuire con certezza la natura (giuridica o politica) della funzione riconosciuta al potere centrale. Si potrebbe obiettare che le disposizioni, anche quelle costituzionali, una volta introdotte vivono di vita propria ed il loro contenuto, in una certa misura, non può che essere il frutto dell’attività degli interpreti. Ciò è senz’altro vero; ma nel momento in cui si ragiona del complessivo assetto dei rapporti fra lo Stato e le autonomie locali, non appare granché lungimirante introdurre singole disposizioni la cui formulazione può prestarsi ad interpretazioni così difformi fra loro da condizionare, in definitiva, l’impronta di fondo che a quell’assetto si vuole dare. Si dirà che anche questo profilo è il risultato dell’assenza di un disegno complessivo di riforma dello Stato regionale italiano, che ripensi davvero il ruolo complessivo di Regioni ed enti locali nei rapporti con lo Stato centrale: ma ciò, a chi scrive, appare, più che un’attenuante, un’ulteriore aggravante nei confronti di chi ha inteso mettere mano, anche solo per alcuni specifici aspetti, alla riforma della carta costituzionale. Laddove, in assenza appunto di un disegno complessivo di più ampio respiro, e con l’intenzione dichiarata di voler valorizzare ulteriormente le autonomia locali, il risultato da raggiungere avrebbe dovuto essere quello di potenziare gli istituti che meglio hanno funzionato nelle relazioni fra potere centrale ed autonomie locali: cercando al contempo di ridurre quegli aspetti di incertezza e conflittualità nei rapporti fra centro e periferia che hanno portato, in passato, ad una definizione in via contenziosa dei tratti caratterizzanti il regionalismo italiano. Esattamente il contrario, insomma, di quanto si è fatto formulando la disposizione qui commentata, che, se entrerà in vigore, promette di rappresentare in futuro un terreno assai fertile di contenzioso giuridico fra Stato ed autonomie locali. * assegnista di diritto costituzionale, Università di Ferrara - [email protected] Nel nuovo titolo V il fondamento costituzionale della potestà regolamentare del governo? di Nicola Lupo* 1. La “rilettura” di quella che si accinge a diventare la legge costituzionale n. 3 del 2001, non più come testo rispetto al quale confrontare la disciplina contenuta nell’originario titolo V Cost., anzitutto al fine di orientarsi per un voto favorevole o contrario o per una decisione di astensione al primo referendum costituzionale della storia repubblicana, bensì come testo ormai entrato a far parte della carta fondamentale, offre l’occasione di segnalare un profilo che sembra essere – a quanto risulta – fin qui sfuggito ai suoi primi commentatori. Si può muovere dalla constatazione che la revisione del titolo V della seconda parte della Costituzione contiene alcuni princìpi che, per così dire, “travalicano” la materia propria dello stesso titolo V (“le Regioni, le Province, i Comuni”): si pensi all’introduzione del principio di sussidiarietà in senso “orizzontale”, che evidentemente andrebbe collocato nella parte prima, se non tra i principi fondamentali della Costituzione; oppure alla subordinazione delle leggi statali, oltre a quelle regionali, rispetto ai “vincoli derivanti all’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali” (M. Luciani; contra, C. Pinelli); o ancora alla clausola relativa alla presenza di rappresentanti di ambedue i sessi negli organi elettivi, che, per un

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verso, ribadisce quanto già desumibile dall’art. 3 Cost., e, per altro verso, anticipa quel che un progetto di legge di revisione dell’art. 51 Cost. intende disporre con riferimento alla rappresentanza nazionale; ma altresì alla stessa inversione del criterio di riparto delle competenze legislative, con l’enumerazione espressa delle materie di legislazione statale, che pure costituisce “l’innovazione più vistosa” della riforma costituzionale (P. Cavaleri), dal momento che in altre costituzioni contemporanee tale elenco è collocato, almeno in parte, nella sezione della carta fondamentale dedicata al parlamento, posto che esso individua tassativamente l’ambito della competenza legislativa delle camere, così incidendo, come è stato correttamente notato (M. Olivetti), sul senso dell’art. 70 Cost., limitando i contenuti della funzione legislativa parlamentare. Si tratta di “travalicamenti”, d’altronde, che non possono stupire più di tanto, alla luce del fatto che quella appena approvata costituisce senza dubbio la più rilevante legge di revisione costituzionale dell’epoca repubblicana e altresì in considerazione delle strette connessioni esistenti sia tra la prima e la seconda parte della carta costituzionale, sia tra i diversi titoli che compongono la parte dedicata all’“ordinamento della Repubblica”, connessioni a più riprese evidenziate dalla dottrina, assai critica nei confronti dell’artificiosa separazione proposta dalla legge costituzionale n. 1 del 1997 (tra gli altri, V. Angiolini, A. Pace, S. Panunzio, S. Rodotà). 2. Un fenomeno di tal tipo sembra verificarsi anche per il sesto comma del nuovo art. 117 Cost.: “La potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle Regioni. La potestà regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra materia. I Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite”. La collocazione della disposizione e, ad un esame superficiale, anche i suoi lavori preparatori potrebbero indurre l’interprete a considerarla come volta esclusivamente a distribuire il potere regolamentare tra i soggetti che, ai sensi del nuovo art. 114 Cost., compongono la Repubblica, ossia i comuni, le province, le città metropolitane, le regioni e lo stato. E questa finalità è effettivamente conseguita dalla disposizione in questione: anche per la potestà regolamentare, analogamente a quel che accade per la potestà legislativa in virtù dei primi quattro commi del nuovo art. 117 Cost., la competenza di carattere residuale-generale è attribuita alle regioni, così completandosi, e portandosi anzi sino alle sue estreme conseguenze quel processo di “espansione della normativa regolamentare anche in ambito regionale”, di recente avviato dalla legge costituzionale n. 1 del 1999, laddove ha fatto venire meno il vincolo costituzionale all’approvazione dei regolamenti da parte dei consigli regionali (così A. Ruggeri; ma cfr. anche B. Caravita, R. Bin, G. Tarli Barbieri). Le sole eccezioni a questa competenza residuale-generale spettante ai regolamenti regionali sono costituite, da un lato, dalle materie rientranti nella competenza esclusiva statale – che sono le sole nelle quali è possibile esercitare la potestà regolamentare del governo, sempreché questa non venga delegata alle regioni – e, dall’altro, dalla disciplina dell’organizzazione e delle funzioni di comuni, province e città metropolitane, direttamente attribuita alla potestà regolamentare di cui ciascun ente territoriale appartenente ad una di queste categorie viene ad essere dotato. 3. Tuttavia, al di là dell’intento con cui tale disposizione è stata inserita nel testo del nuovo art. 117 Cost., sembra piuttosto evidente che essa finisca, indirettamente, per conseguire un ulteriore effetto, che consiste nel fornire un esplicito riconoscimento costituzionale alla potestà regolamentare del governo, oltre che a quella delle regioni e delle altre autonomie locali. All’indomani della sua entrata in vigore non sembra più potersi porre in dubbio la legittimità costituzionale dei regolamenti indipendenti – o, secondo altre terminologie, autonomi o liberi – del governo, previsti com’è noto dall’art. 17, comma 1, lettera c), della legge n. 400 del 1988 (per tutti, si pensi alle tesi di L. Carlassare e di G.U. Rescigno): è ora il testo costituzionale a riconoscere espressamente il governo come organo non solo di indirizzo, ma anche di normazione, in quanto dotato di una propria potestà normativa secondaria (secondo la conclusione alla quale E. Cheli era pervenuto già in base al testo costituzionale del 1948). Inoltre, la circostanza che sia una norma costituzionale a prevedere i poteri regolamentari degli enti territoriali di cui si compone la Repubblica ed a delimitarne, sia pure per grandi linee, le rispettive aree di competenza, non sembra priva di effetti sullo status dei regolamenti in questione: non si tratta più di fonti secondarie nel senso tradizionale del termine, e cioè in tutto e per tutto subordinate alla legge, che dovrebbe

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essere in grado di determinarne i caratteri e gli spazi di intervento, al punto da poterli comprimere a piacimento (secondo l’insegnamento di V. Crisafulli, su cui cfr. ora S. Niccolai), bensì di fonti riconosciute direttamente dalla carta costituzionale, e che sembrano porsi perciò in rapporto diretto con il testo costituzionale, almeno fin tanto che rimangano negli ambiti di competenza che la costituzione ha loro assegnato. Un esame più attento dei lavori preparatori fa emergere come dell’ulteriore significato della disposizione vi sia stata una qualche consapevolezza: da un lato, infatti, va tenuto presente che una disposizione di analogo tenore non era contenuta nell’art. 117 Cost., come riscritto dalla Commissione bicamerale per le riforme costituzionali, ed è dunque comparsa solo allorquando – con il disegno di legge D’Alema-Amato – si è deciso di procedere ad una modifica del solo titolo V della seconda parte della Costituzione, senza andare cioè a toccare direttamente la disciplina costituzionale della potestà normativa del governo (così come faceva, in senso decisamente espansivo per la potestà regolamentare, il testo della suddetta Commissione bicamerale); in secondo luogo, va considerato che la esclusione di qualsiasi richiamo al fondamento legislativo della potestà regolamentare è stata, almeno per quel che riguarda i regolamenti di comuni, province e città metropolitane, il frutto di una scelta consapevole, in virtù della quale è stato progressivamente limitato e poi del tutto escluso ogni espresso riferimento alla legge (statale o regionale) nell’attribuzione di potestà regolamentare alle autonomie territoriali minori. 4. Il mutamento dei caratteri della fonte regolamentare, e in particolare dei regolamenti governativi, emerge con ancora maggiore chiarezza ove si rifletta intorno al rapporto tra il fondamento costituzionale della potestà regolamentare, che così si è venuto a determinare, e il fondamento legislativo, tradizionalmente richiesto caso per caso, sul piano formale o anche su quello sostanziale, per la sussistenza della potestà regolamentare (G. Zagrebelsky). Alla luce del disposto del nuovo art. 117, sesto comma, Cost., si potrebbe persino giungere a sostenere che di fondamento legislativo della potestà regolamentare non debba né possa più parlarsi nell’ordinamento italiano, in quanto il legislatore ordinario – statale, così come regionale – non sarebbe abilitato ad incidere sull’area delle competenze regolamentari così come delineate direttamente dalla carta costituzionale; salvo, forse, per la sola delega della potestà regolamentare dallo stato alle regioni, nelle materie rientranti nelle materie di competenza esclusiva dello stato, posto che tale delega sembrerebbe dover avere necessariamente luogo con atto legislativo statale. Tuttavia, con ogni probabilità, quella appena enunciata appare essere una conclusione eccessiva, benché non incompatibile con la lettera del disposto costituzionale (che in nessuna parte afferma espressamente il principio della necessaria conformità dei regolamenti alle leggi, presente invece, ad esempio, nell’art. 97 della Costituzione spagnola). Più lineare, e più coerente con l’assetto tradizionale dei rapporti tra legge e regolamento, appare invece l’interpretazione la quale ammette che al fondamento costituzionale generale dell’art. 117, sesto comma, Cost. si aggiunga altresì, di volta in volta, un fondamento legislativo specifico della potestà regolamentare del governo (così come di quella delle regioni o delle altre autonomie territoriali); si tratterebbe comunque di un fondamento ulteriore ed eventuale, in quanto la potestà regolamentare non necessita più, per effetto della nuova previsione costituzionale, di basarsi su una specifica disposizione legislativa. Resta fermo, però, che le leggi (statali e regionali) sono tenute a muoversi in coerenza con il riparto di competenze operato dal testo costituzionale e dovranno perciò essere dichiarate costituzionalmente illegittime, limitatamente alle disposizioni contrastanti con tale riparto: la soluzione che continua a ritenere possibile, oltre al fondamento costituzionale, anche un fondamento legislativo della potestà regolamentare, se ha il pregio di risultare meno sconvolgente dell’ordine attuale del sistema delle fonti, rischierebbe di comportare, ove tale sindacato non fosse effettuato con la dovuta decisione, e non fosse esteso a tutte le leggi vigenti, uno “svuotamento” della disposizione costituzionale in questione, vanificandone in particolare proprio il suo intento originario, ossia quello di ripartire la potestà regolamentare tra i diversi enti territoriali. D’altro canto, è evidente che l’intervento della legge (statale o regionale) può risultare utile ad integrare, nelle singole materie, il disposto costituzionale: ad esempio, la legge statale potrebbe agevolare la definizione dei “confini”, in concreto, tra l’attuazione di leggi statali che operino nelle materie di competenza esclusiva dello stato, attuazione che spetta – come si è appena visto – al regolamento governativo, e l’attuazione delle

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leggi che invece operino in materia concorrente, la quale compete al regolamento regionale. Analogamente, la legge regionale – ma lo stesso vale anche, a ben vedere, per la legge statale – potrebbe chiarire, nelle diverse materie, quali siano quegli aspetti rientranti nella disciplina dell’organizzazione e del funzionamento delle altre autonomie territoriali, anche perché è in genere la stessa legge (statale o regionale, appunto) ad attribuire le funzioni amministrative a tali soggetti. In questo quadro, la “secondarietà” dei regolamenti manterrebbe una propria ragion d’essere, anche se con un significato non poco differente rispetto a quello che si è abituati ad attribuire a tale termine: i regolamenti – del governo, così come delle autonomie territoriali – sarebbero tenuti a rispettare anche le disposizioni legislative che li abbiano previsti, purché queste siano conformi al riparto di competenze regolamentari che è stato disegnato dallo stesso testo costituzionale. 5. Gli aspetti non definiti nella nuova disposizione costituzionale relativa alla potestà regolamentare potranno essere oggetto di disciplina, per quanto attiene ai regolamenti regionali e ai loro rapporti con le leggi regionali e fors’anche con le fonti delle altre autonomie territoriali, in seno ai nuovi statuti delle regioni ordinarie: questi, infatti, vengono in genere ritenuti competenti a dettare, con il (discusso) vincolo della “armonia” con la Costituzione, una regolamentazione dei sistemi delle fonti regionali, o in base alla strettissima connessione che lega tra loro l’assetto della “forma di governo” (com’è noto espressamente demandata agli statuti regionali) e gli equilibri del sistema delle fonti, oppure facendosi leva sulla competenza statutaria relativa ai “principi fondamentali di organizzazione e funzionamento” delle regioni. Più problematica è, invece, l’individuazione di una fonte idonea a chiarire i nodi non risolti circa i caratteri formali-procedimentali e gli ambiti di competenza della potestà regolamentare del governo: l’esistenza di una norma costituzionale sulla potestà regolamentare, non accompagnata da alcuna forma di rinvio alla legislazione statale perché questa ne sviluppi i principi (rinvio invece presente nei testi elaborati dalla Commissione De Mita-Iotti e dalla Commissione D’Alema), potrebbe infatti fornire ulteriori argomenti a quella tesi – già da tempo sostenuta in dottrina da A. Ruggeri – che, in un ordinamento a Costituzione rigida, nega la possibilità, per la legge ordinaria, di dettare norme generali sulla produzione dei regolamenti, ritenendo tale compito riservato alle fonti di rango costituzionale. Per ora, in attesa di questi “chiarimenti”, può rilevarsi che i due significati della nuova disposizione costituzionale, riguardo alla potestà regolamentare del governo, spingono, evidentemente, in direzioni opposte: in quanto norma distributiva della potestà regolamentare, il nuovo art. 117, sesto comma, Cost. limita infatti l’ambito di possibile operatività dei regolamenti governativi alle sole materie di competenza esclusiva statale; in quanto norma di riconoscimento della potestà regolamentare (anche) governativa, fornisce ad essa quel fondamento generale a livello costituzionale che larga parte della dottrina dubitava potersi ricavare dal solo art. 87, quinto comma, Cost.. Quale sia il “saldo” tra i due effetti sopra evidenziati sul ruolo che i regolamenti governativi giocheranno nel nostro ordinamento sarà solo l’esperienza dei prossimi anni a poterlo dire. * Dott. Ric. in diritto pubblico – consigliere parlamentare - [email protected] La riforma del titolo V della costituzione tra attuazione e autoapplicazione di Tania Groppi* L’imminente entrata in vigore della riforma del titolo V della parte II della costituzione rende indifferibile l’avvio di una riflessione sul suo impatto ordinamentale. Riflessione tanto più necessaria poiché nella legge costituzionale sono assenti norme transitorie, a differenza di quanto disposto invece dalla precedente l.cost. n. 1 del 1999, sull’elezione del presidente della regione e dalla stessa costituzione vigente, che dedicava all’attuazione del suo titolo V due disposizioni transitorie e finali, la VIII e la IX. Gli artt. 10 e 11 della l.cost. n. 3 del 2001, infatti, pur presentando la tipica struttura delle norme transitorie (“sino a…”), fanno riferimento a ipotesi estremamente circoscritte: l’art. 10 riguarda le regioni a statuto speciale, e stabilisce che “sino all’adeguamento dei rispettivi statuti”, la riforma si applica anche ad esse, per le parti in cui disciplini “forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite”; l’art.11 si limita a

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prevedere la possibilità, tramite una eventuale modifica dei regolamenti parlamentari, di aprire alla partecipazione dei rappresentanti degli enti autonomi la commissione parlamentare per le questioni regionali, sino alla revisione delle norme costituzionali sul parlamento, si dice, ovvero sino alla riforma del Senato. Appare quindi per intero rimessa agli interpreti la individuazione delle conseguenze della nuova disciplina. Se ne possono segnalare almeno tre: a) innanzitutto, si pone la questione, destinata ad esaurirsi nel giro di pochi mesi, dell’impatto del sopravvenire del nuovo titolo V sui giudizi di legittimità costituzionale oggi pendenti di fronte alla Corte costituzionale, e che abbiano a parametro norme del vecchio titolo V della Costituzione; b) c’è poi il problema, sicuramente di più lunga e complessa soluzione, delle forme, dei tempi, delle modalità di attuazione delle nuove norme costituzionali; c) infine, si affaccia l’interrogativo, destinato a gravare sull’interpretazione della costituzione italiana fino a una sua futura modifica, relativo al rapporto tra la nuova normativa e le altre parti del testo costituzionale, in particolare i principi contenuti nella parte I. a) Quanto alle conseguenze del nuovo titolo V sul contenzioso stato-regioni esistente di fronte alla Corte costituzionale, pare necessario distinguere diverse ipotesi. In primo luogo, ci sono i giudizi in via incidentale che hanno come parametro disposizioni contenute nel vecchio titolo V: per essi pare possibile fare ricorso alla restituzione degli atti al giudice a quo, già utilizzata dalla Corte costituzionale in occasione del sopravvenire del nuovo art.111 della Costituzione, affinché valuti l’incidenza del nuovo quadro normativo sul giudizio di fronte a lui pendente. Più complessa è la situazione dei giudizi in via principale, nell’ambito dei quali non esiste questo strumento interlocutorio. In caso di mutamento del parametro, ad esempio a fronte del sopravvenire di nuove norme di attuazione degli statuti speciali, si è scelta in passato la via della cessazione della materia del contendere (per esempio, v. sent. n. 228 del 1983). Questa soluzione appare corretta per i giudizi su leggi regionali instaurati sulla base del vecchio art.127 Cost.: giudizi preventivi che precludevano la promulgazione delle leggi impugnate, impedendo loro di produrre effetti. La dichiarazione di cessazione della materia del contendere rende possibile l’entrata in vigore della legge regionale. Se il governo ritiene permanere un vizio di incostituzionalità sulla base dei nuovi parametri, esso potrà impugnarla nei sessanta giorni successivi alla pubblicazione secondo le modalità del nuovo art. 127. Diverso è invece il caso dei giudizi su leggi statali ex art. 2 l. cost. 1/1948: tali giudizi hanno per oggetto leggi statali vigenti, che potrebbero aver già leso competenze regionali, per cui la regione potrebbe avere comunque interesse a una pronuncia sulla spettanza della competenza. In tal caso, la Corte non può sfuggire a una decisione sul merito, che utilizzi i vecchi parametri, eventualmente circoscrivendone l’efficacia temporale al periodo anteriore alla entrata in vigore delle nuove norme costituzionali. b) Quanto alle modalità di attuazione del nuovo titolo V, va considerato che le norme costituzionali in questione, considerate dal punto di vista della loro capacità di produrre effetti giuridici, possono essere ricondotte a quattro categorie. Innanzitutto, ci sono norme autoapplicative. La eliminazione dei controlli sugli atti amministrativi delle regioni, delle province, dei comuni; la scomparsa del controllo preventivo del governo sulle leggi regionali e i nuovi meccanismi di impugnativa di queste di fronte alla Corte costituzionale sono in grado di operare fin da subito, liberando l’autonomia regionale e locale da una serie di condizionamenti: commissioni statali di controllo, commissari del governo, comitati regionali di controllo dovrebbero cessare tali funzioni con l’entrata in vigore della riforma. Ci sono poi norme costituzionali la cui operatività dipende esclusivamente dall’iniziativa delle regioni. Questo vale essenzialmente per le norme che definiscono i nuovi poteri legislativi regionali: nelle materie di competenza concorrente e in quelle di competenza esclusiva (tutte quelle non elencate nell’art. 117), le regioni non hanno che da legiferare, per sostituire le proprie leggi a quelle dello stato oggi esistenti, senza dover attendere alcuna preventiva legge statale che determini i limiti “verticali” della potestà legislativa regionale. La Corte costituzionale ha infatti da tempo affermato che, normalmente, per “rimuovere dalle materie attribuite alla loro potestà legislativa, e conseguentemente amministrativa, le preesistenti norme statali che eccedono dai limiti imposti dalla nuova Costituzione e dagli statuti costituzionali speciali alla competenza del legislatore nazionale, regioni (e provincie ad autonomia costituzionale) non hanno che da legiferare esse stesse, sostituendo gradatamente le

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proprie leggi a quelle statali, sino a quel momento vigenti nel rispettivo ambito territoriale” (sentenza n. 13 del 1974). Nel rapporto tra leggi statali preesistenti e leggi regionali sopravvenute si applica quindi il criterio dell’abrogazione, e non quello della incostituzionalità sopravvenuta. Tale giurisprudenza potrebbe comunque lasciare aperta la strada, per le regioni alla impugnativa delle “leggi concernenti lo stesso modo di essere dell’autonomia regionale”. Limitatamente a queste, la sentenza citata ha affermato: “Ben diversa è la situazione, per sua natura irripetibile, alla quale avevano riguardo le sentenze nn. 39 del 1971 e 40 del 1972, che ebbero ad ammettere lo spostamento del dies a quo per ricorrere dalla data di pubblicazione della legge impugnata a quella (successiva) della prima formazione delle giunte delle neocostituite regioni di diritto comune, nei confronti di leggi statali, non tanto incidenti sulle materie attribuite alla competenza legislativa delle Regioni, quanto piuttosto concernenti direttamente e specificamente lo stesso modo di essere di queste, cioè la sfera di autonomia ad esse spettante ed i limiti di ordine generale prestabiliti al suo concreto esplicarsi. Giacché leggi siffatte non sarebbero state suscettibili di deroga da parte delle nuove norme di fonte regionale, conformi a competenza, ma soltanto - in ipotesi - di essere da queste disattese e violate, ove non fosse stato possibile impugnarle per ripristinare la pienezza delle potestà alle regioni medesime costituzionalmente riconosciute. In quel caso, considerazioni equitative e, prima ancora, la stessa logica del sistema esigevano che ai nuovi enti regionali fosse dato comunque ingresso alla Corte a tutela di un loro interesse costituzionalmente garantito, che non sarebbe stato altrimenti possibile far valere, attinente al loro status e logicamente antecedente e pregiudiziale rispetto a quello - che viene in questione nel presente giudizio - di dettar autonomamente la disciplina delle singole materie di competenza, ovvero di assolvere attraverso organi propri i compiti amministrativi imposti o facoltizzati dalle stesse leggi statali tuttora vigenti, ove e finché non ritengano di dovere sostituirvi le proprie leggi”. A non interpretare in modo eccessivamente restrittivo il riferimento al momento storico “per sua natura irripetibile” di prima istituzione delle regioni, si potrebbe ritenere che esse dispongono di un importante strumento per eliminare le leggi approvate in epoca precedente alla riforma e che prevedono poteri statali incompatibili con il nuovo quadro costituzionale: queste leggi (si pensi a quelle sulla funzione statale di indirizzo e coordinamento) potrebbero allora essere impugnate di fronte alla Corte costituzionale nei sessanta giorni successivi all’entrata in vigore della legge costituzionale. In terzo luogo, ci sono norme che prevedono la possibilità di ulteriori sviluppi del sistema, attraverso procedimenti che spetta alle regioni mettere in moto: è il caso dell’ultimo comma dell’art.116, che prevede l’eventualità che il parlamento, con legge, conferisca alle regioni che le abbiano richieste nuove e più ampie competenze, anche esclusive, sia nelle materie di potestà legislativa concorrente che in importanti materie rimesse alla potestà legislativa statale, come l’istruzione e la tutela dell’ambiente e dei beni culturali, aprendo così la via a un regionalismo differenziato. Si tratta di una legge approvata dalle camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa tra lo stato e la regione interessata, e su iniziativa della regione interessata: nient’altro aggiunge la nuova norma costituzionale, lasciando aperto l’interrogativo sulla eventuale necessità di una legge statale che disciplini previamente, in via generale, il procedimento di intesa. A questo tipo di soluzione ci pare che ostino però almeno due argomenti: innanzitutto le norme costituzionali debbono essere interpretate privilegiando il loro carattere precettivo; inoltre, lo stato ha ormai una competenza legislativa limitata alle materie elencate nel secondo comma dell’art.117, e non si vede in quale di queste materie potrebbe radicarsi questo tipo di potestà legislativa statale. Ci sono infine norme del titolo V che richiedono un’attuazione da parte dello stato. Ciò si verifica soprattutto per il trasferimento a regioni, province e comuni di nuove funzioni amministrative (e, con esse, di personale e di risorse), in applicazione del principio di sussidiarietà, anche se deve riconoscersi che la gran parte dei trasferimenti è già avvenuta con la citata riforma Bassanini. La questione della individuazione della fonte competente ad allocare le funzioni amministrative è complessa. Il vecchio principio del parallelismo pare al riguardo sopravvivere: è competente ad individuare il livello adeguato per lo svolgimento delle funzioni amministrative il titolare della funzione legislativa, stato o regione. Nella prima attuazione della riforma, peraltro, si dà il caso della esistenza di amministrazioni statali in materie oggi spettanti alla potestà legislativa regionale: a chi il compito di

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effettuare il conferimento delle funzioni? Alla regione, con propria legge, è dato disporre di personale e risorse ancora statali? Oppure spetterà allo stato trasferire previamente alle regioni le funzioni amministrative, affinché queste poi le conferiscano di nuovo, in base ai principi dell’art. 118? Dello stato è il compito di fornire alcune importanti prestazioni unitarie: in primo luogo, definendo “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale ” (art.117, lettera m); in secondo luogo, attraverso l’esercizio, caso per caso, del potere sostitutivo di cui al nuovo art. 120 Cost. E’ peraltro necessaria la previa approvazione di una legge statale che definisca in via generale le procedure di esercizio di tale potere, che appare assai diverso dai poteri sostitutivi oggi previsti dall’ordinamento, potendo riguardare tutti gli organi (anche legislativi) di tutti gli enti territoriali, e riguardando una innovativa serie di casi (tra i quali, la “tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica”). c) Infine, la riforma pone alcuni problemi di compatibilità con altre parti della costituzione, aprendo delicati problemi interpretativi. Ci si chiede: una revisione costituzionale relativa al sistema delle autonomie può incidere, sia pure in via indiretta, su norme contenute nella parte I della costituzione? Oppure occorre interpretare le disposizioni del nuovo titolo V in base ai principi contenuti nella parte I? E che fare quando questa interpretazione adeguatrice non è possibile? Pur potendo individuare una gerarchia di valore, si è infatti pur sempre di fronte a norme costituzionali. Due esempi al riguardo. Innanzitutto, il primo comma dell’art. 117: “la potestà legislativa è esercitata dallo stato e dalle regioni nel rispetto della costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. Tale disposizione parrebbe, sulla base della interpretazione letterale, mutare il sistema delle fonti, collocando i trattati internazionali in una posizione di sovraordinazione rispetto alle leggi statali. Come si concilia essa con l’art. 10, primo comma, Cost., e con il fatto che l’ordinamento italiano “si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”? Può forse questa norma contribuire a gettare luce sulla prima, o al contrario è il nuovo art.117 che riempie di un diverso contenuto le “norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”? Altro esempio: il settimo comma dell’art. 117 stabilisce, tra l’altro, che le leggi regionali “promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive”. Che rapporto si instaura tra tale disposizione e l’art. 51, primo comma, Cost.? La Corte costituzionale ha affermato che quest’ultima disposizione esclude la possibilità di riservare alle donne quote nelle liste elettorali: è forse adesso possibile ciò a livello regionale, in virtù del nuovo art. 117 Cost.? In altri termini: quest’ultimo costituisce una deroga al principio dell’art. 51 o deve essere interpretato in modo restrittivo, sulla base dei principi in esso contenuti? La riforma mostra l’emergere della compresenza, in costituzione, di norme dotate di un diverso valore, quale conseguenza della differente collocazione sistematica. Al di là di qualsiasi riflessione che muovendo da ciò si possa avanzare riguardo alle procedure di revisione costituzionale, di questo certamente dovrà tenere conto l’interprete del nuovo titolo V. *p.s. di Istituzioni di diritto pubblico - Università di Siena - [email protected] La salvaguardia delle minoranze linguistiche dopo la riforma del Titolo V della Costituzione: ancora sulla permanenza dell’interesse nazionale di Veronica Elena Bocci* Il problema della salvaguardia delle minoranze linguistiche è tornato ad essere forte motivo del contendere in Provincia di Bolzano negli ultimi tempi. Due ne sono le ragioni: innanzitutto lo svolgimento del 14° censimento generale della popolazione, secondo la riforma del Titolo V della Costituzione e i suoi inesauribili effetti. Ma partiamo dal primo punto, soprattutto per ricordare a chi forse ha dimenticato e a chi forse non lo ha mai saputo, il “martirio” cui la popolazione di lingua italiana (soprattutto) e quella di lingua ladina è soggetta ogni qualvolta si svolge il censimento. Già, perché per rendere attuativo il principio della proporzionale etnica (sicuramente uno strumento che dopo il 1972 ha permesso a questo territorio di uscire da periodi bui di “lotte etniche”, ma che oggi appare sempre più da superare) si deve

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necessariamente ricorrere a quella che qua ormai viene chiamata conta etnica, eseguita, appunto, attraverso il censimento. Diversamente dalle altre parti d’Italia, infatti, ai residenti in Provincia di Bolzano in occasione del censimento viene consegnato un modello in cui si deve obbligatoriamente dichiarare – pena l’impossibilità di partecipare a concorsi pubblici sul territorio provinciale - la propria appartenenza ad uno dei tre gruppi linguistici presenti: tedesco, italiano e ladino. Scendendo nell’esemplificazione pratica, se i risultati fossero 75% lingua tedesca, 20% lingua italiana e 5% lingua ladina, in base al principio della proporzionale etnica, su 10 posti pubblici a concorso, 7 sarebbero riservati alla popolazione di lingua tedesca, 2 a quella di lingua italiana e 1 a quella di lingua ladina. Queste persone, poi, dovrebbero comunque essere in possesso del patentino di bilinguismo, che attesti la conoscenza dell’altra lingua per il grado di istruzione richiesto per il posto a concorso (patentino A per i posti che richiedono la laurea, B per quelli che richiedono il diploma di scuola superiore, C per quelli che richiedono la licenza media e D per gli altri). Dunque, tornando al censimento, quello che viene (a ragione) considerato il primo lampante limite della proporzionale etnica è che le persone di lingua italiana e quelle di lingua ladina tendono a dichiararsi di lingua tedesca per avere la possibilità di concorrere per un numero maggiore di posti pubblici. Se la matematica non è un’opinione, avrò maggiori probabilità di vincere il concorso se vi sono 7 posti disponibili (quelli per la lingua tedesca) piuttosto che se ve ne fossero soltanto 2 (quelli per la lingua italiana)…. Il risultato è quindi il sempre più forte ruolo del gruppo di lingua tedesca e il sempre minore peso della minoranza di lingua italiana e ancor più di quella ladina. In virtù di quanto appena ricordato (ma certo le questioni sollevate non esauriscono la problematica “tutela delle minoranze linguistiche” in Provincia di Bolzano!), nonché del fatto che il Governo attualmente in carica ha cercato e tuttora cerca di trovare una soluzione innovativa che superi i limiti della proporzionale etnica mantenendone gli aspetti positivi, la Provincia autonoma di Bolzano ha iniziato a reclamare la propria competenza esclusiva in materia di tutela delle minoranze linguistiche in virtù del nuovo Titolo V della Costituzione. Il percorso interpretativo che fa la Provincia – sostenuta da un parere tecnico… - è il seguente: “la tutela delle minoranze linguistiche non è una materia inclusa nell’elenco di materie contenute nel nuovo art. 117, co. 2 e co. 3, Cost.; allora, poiché lo stesso art. 117, al co. 4, dispone ‘Spetta alle regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato’, si deve in effetti concludere che la potestà legislativa in materia di tutela delle minoranze linguistiche deve intendersi trasferita alle regioni e alle province autonome”. Inoltre, “non vi è dubbio che tale potestà legislativa debba intendersi immediatamente trasferita anche alla Provincia autonoma di Bolzano” in virtù del disposto dell’art. 11 della L.Cost. n. 3/2001 (in G.U. n. 248 del 24 ottobre 2001), a norma del quale “Sino all’adeguamento dei rispettivi statuti, le disposizioni della presente legge costituzionale si applicano anche alle regioni a statuto speciale e alle Province autonome di Trento e Bolzano per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite”. Eccoci dunque arrivare alla questione dell’interesse nazionale, così come sollevata da Augusto Barbera nel contributo “Scompare l’interesse nazionale?”. Difatti, se il riformulato art. 117 Cost. non recita più la formula “La Regione emana (…) norme legislative (…) semprechè le norme stesse non siano in contrasto con l’interesse nazionale…”, lo Statuto di autonomia della Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol ancora espressamente riconosce che la tutela delle minoranze linguistiche locali è un interesse nazionale (art. 4 sulle “Funzioni della Regione”, che recita testualmente: “In armonia con la Costituzione e i principi dell’ordinamento giuridico dello Stato e con il rispetto degli obblighi internazionali e degli interessi nazionali – tra i quali è compreso quello della tutela delle minoranze linguistiche locali – (…), la Regione ha la potestà di emanare norme legislative nelle seguenti materie (…). Se è quindi vero quanto affermato da Barbera, e cioè che il limite dell’interesse nazionale “non può considerarsi travolto dalla riforma”, poiché esso permane “quale espressione dell’unità stessa della Repubblica” e che “appartiene alla categoria dei limiti impliciti, ma che trova [anche] un aggancio testuale nell’art. 5 della Costituzione”, e poiché la tutela delle minoranze linguistiche locali è un interesse

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nazionale (cosa evincibile anche dalla portata dell’art. 6 Cost., la cui presenza qualcuno pare voglia dimenticare…), a mio avviso la competenza ad emanare apposite norme in materia continua a spettare (sebbene in via non esclusiva, dato che nel tempo è invalsa la prassi della negoziazione delle norme con le autonomie) alla Repubblica intesa come Stato centrale, e non passa ipso facto alle autonomie. Solo in questo modo, infatti, si potrebbe garantire una tutela equilibrata ed uniforme delle minoranze presenti sul territorio italiano. Altrimenti cosa succederebbe, ad esempio, alla minoranza ladina, sparsa tra le tre province di Bolzano, Trento e Belluno? Ovvero in due regioni diverse, di cui una a statuto speciale ed una ordinaria; ovvero in province di cui due autonome e una “normale”…. E cosa potrebbe succedere alla minoranza italiana in Alto Adige/Südtirol…? Allo stesso modo deve aver ragionato il legislatore in sede di riforma del Titolo V Cost., decidendo di omettere ogni riferimento a questa materia nel riformulato art. 117 Cost., proprio perché chiaro e lampante che esiste un art. 6 Cost. e che esiste un interesse nazionale implicito ed esplicito che chiama in ballo lo Stato centrale a garanzia di diritti così delicati. Ma sarebbe veramente interessante e costruttivo aprire qui un confronto sul tema. Concludendo, quella qui trattata è solo una delle tante questioni interpretative aperte dalla riforma del Titolo V Cost. e che il Dipartimento Affari Regionali della P.C.M. dovrà – se vi riuscirà con i tempi ed il personale disponibile, e sempre con il massimo coinvolgimento del sistema delle autonomie – affrontare in tempi assai brevi, così da evitare il consolidamento di prassi, almeno laddove le questioni fonte di problemi interpretativi sono di più limitata portata. Tra i principali interventi previsti a brevissimo termine dal Ministro per gli Affari regionali, La Loggia, vi è, ad esempio, la costituzionalizzazione degli obblighi internazionali (si parla di un Ddl per riportare sotto il controllo del Parlamento gli accordi internazionali). Al limite, se il Governo volesse, e per chiarire le cose una volta per tutte, potrebbe fare lo stesso per la tutela delle minoranze linguistiche… * Laureata in Scienze Politiche (Diritto regionale) – Università di Pisa - Esperto di UE per la Provincia Autonoma di Bolzano [email protected] Titolo V, minoranze e norme d’attuazione degli Statuti speciali di Francesco Palermo* Accolgo volentieri l'invito di V.E. Bocci ad aprire una discussione sul tema della presunta competenza derivante alle Regioni e alle Province autonome in materia di minoranze linguistiche a seguito dell'inversione del criterio delle competenze operata dalla l. cost. 3/2001, cercando di gettare a caldo qualche sasso nello stagno. La prima considerazione che balza alla mente è che la materia "tutela delle minoranze", in quanto tale, non esiste. Al pari di altre formulazioni generiche contenenti obiettivi per il legislatore, la tutela delle minoranze si esercita nel concreto attraverso provvedimenti specifici, adottati in singoli settori materiali, e volti a proteggere, incentivare o promuovere determinate minoranze (il termine "tutela", tra l'altro, richiama una situazione di incapacità di agire che alla lunga può divenire offensiva per le minoranze, e comunque male si attaglia alla situazione reale di alcune di esse...). Così in ambito culturale e scolastico, nel pubblico impiego, nella determinazione delle regole della rappresentanza politica, nell'uso della lingua, ecc., la tutela delle minoranze si esplica attraverso interventi normativi nei rispettivi settori. Nel concreto, ad es., la proporzionale cd. "etnica" in provincia di Bolzano altro non è che una sommatoria di regole in tema di pubblico impiego. E non è un caso che la disciplina statutaria si riferisca al pubblico impiego statale, mentre l'estensione del medesimo principio a livello provinciale – dopo essere stata a lungo operata in via di prassi – trova il proprio fondamento legislativo in una legge provinciale, stante la competenza provinciale in materia; parimenti, l'applicazione della proporzionale anche in settori non immediatamente riconducibili al pubblico impiego ma ad esso soltanto assimilabili è avvenuta con norme di attuazione, dunque con procedimenti concertati tra Stato e Provincia e che proprio nel meccanismo negoziale trovano la propria legittimazione di fonte atipica. Non esiste una "materia", dunque, e non esiste conseguentemente nemmeno una "competenza". Sembra così di potersi dire che la "tutela delle minoranze" in tanto è di competenza regionale/provinciale in quanto si manifesti nell'esercizio di proprie competenze da

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parte degli enti territoriali. Tradizionalmente, ad es., proprio in provincia di Bolzano le competenze in materia di urbanistica ed edilizia sono state ampiamente utilizzate a fini di tutela minoritaria, con una mirata politica di incentivi alla residenzialità montana e all'edilizia abitativa che ha consentito di incentivare le popolazioni montane della provincia (tedeschi e ladini) evitandone l'emigrazione a valle o all'estero. Molti altri elementi, comunque, revocano in dubbio l'assunto (o assurdo?) che vorrebbe trasferita la "materia" tutela delle minoranze al livello regionale/provinciale. Oltre a quanto correttamente ricordatoci da Barbera e Bocci nei rispettivi interventi – ossia che non può ritenersi scomparso l'interesse nazionale, che esso è comunque tuttora formalizzato proprio in riferimento alla tutela minoritaria nell'art. 4 dello statuto di autonomia, e che permane l'art. 6 della costituzione, per quanto teoricamente non ostativo ad una competenza regionale, stante il carattere ampio del termine "Repubblica", come evidenziato nell'evoluzione della giurisprudenza costituzionale sul punto – merita di ricordarne alcuni. Innanzitutto è evidente che la riforma non ha inteso toccare la disciplina dei diritti fondamentali. Ebbene, che si voglia aderire alla tesi della tutela delle minoranze quale specificazione del principio di uguaglianza (Pizzorusso) o a quella che la intende come deroga a tale principio (Bartole), sembra incontestabile che la "materia" (o meglio, le sue concretizzazioni normative) attenga al principio di uguaglianza e alle modalità di tutela dei diritti fondamentali. Ambito evidentemente sottratto – almeno per il momento e di certo nelle intenzioni del legislatore costituzionale di riforma – alla competenza degli enti territoriali. Salvo, naturalmente, quanto appena ricordato, ossia la possibilità di intervenire indirettamente attraverso l'esercizio di proprie competenze. Ma anche ammettendo che la competenza in tema di minoranze sia effettivamente stata trasferita in seguito alla riforma, si pongono problemi insormontabili. In primo luogo, a voler essere pignoli e un po' legistici, va rilevato che il nuovo art. 117 c. 3 cost. afferma che "spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato". Questo è l'unico passaggio in cui non sono esplicitamente menzionate le due Province autonome, per cui potrebbe provocatoriamente sostenersi che titolare di tutte le nuove competenze trasferite non siano le Province ma la Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol. Confesso che questa tesi non mi convince, sia perché la Regione "è costituita" dalle Province autonome (come già stabilito dalla l. cost. 2/2001 e ribadito, tanto perché non vi siano dubbi, dal nuovo art. 116 c. 2 cost.), sia perché anche una riforma scritta male deve pur avere la sua ratio intrinseca, che non può certo essere quella di rivitalizzare il moribondo ed inutile ente regionale. Come residente di questa regione, poi, mi sentirei letteralmente terrorizzato da una simile ipotesi, ma questo c'entra poco con il diritto. In secondo luogo, una minoranza è tale solo in relazione all'ente sovrano di riferimento. Dunque, più specificamente, relativamente all'ente che detiene il potere di determinarne lo status giuridico, e quindi, in ultima analisi, in relazione al livello di governo competente. Ora è chiaro che la minoranza linguistica tedesca è tale solo in rapporto allo Stato italiano, ma cesserebbe di esserlo qualora la competenza in materia fosse allocata al livello provinciale. Salvo ritenere che l'operazione politica sottostante all'interpretazione costituzionale che qui si critica intenda trasformare il gruppo italiano dell'Alto Adige/Südtirol in minoranza da proteggere con legge provinciale. Poiché in provincia di Bolzano i gruppi linguistici fanno a gara a chi è "più minoranza" degli altri (storica i ladini, socio-politica gli italiani, nazionale i tedeschi), dato che finora la condizione minoritaria ha consentito di ottenere indubbi benefici individuali e di gruppo, questo eventuale trasferimento di competenza in capo alla Provincia sarebbe il più bel regalo che il gruppo linguistico italiano potrebbe ricevere. Ma il punto che a me pare giuridicamente più qualificante per sgombrare il campo da qualsiasi dubbio sul punto riguarda la presenza delle norme di attuazione ed il loro ruolo. Ricordava Bocci in apertura del suo intervento il "trauma" del censimento, tema sul quale mi permetterò di tornare in una prossima occasione. Va ricordato che la disciplina del censimento linguistico in provincia di Bolzano (ed ora, sia pure in forma esclusivamente anonima e dunque non problematica, anche in provincia di Trento) è contenuta in una norma di attuazione, segnatamente il d.P.R. 752/1976 e successive modifiche. Com'è noto, la Corte costituzionale ha stabilito e ribadito in numerose circostanze la collocazione particolare delle norme di attuazione

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nel sistema delle fonti, che le rende resistenti alla modifica da parte delle leggi ordinarie (per tutte, sent. 212/1984). Una collocazione particolare che si giustifica solo ed esclusivamente in base al carattere paritariamente negoziato delle norme medesime (per tutte, sent. 213/1998). Meno noto è forse che il problema si pose in concreto e proprio per la provincia di Bolzano al termine del processo di attuazione internazionalmente garantita dello statuto nel 1992, quando si ritenne – a mio avviso correttamente – che le commissioni paritetiche e le norme di attuazione sarebbero dovute rimanere perché nessun'altra fonte (a parte evidentemente quella costituzionale) avrebbe potuto modificare le norme già emanate. Anche ammettendo che le Regioni/Province autonome acquistino realmente una "competenza" in "materia" di minoranze linguistiche, dunque, come potrebbe una legge provinciale modificare una norma di attuazione in vigore? Tra gli innumerevoli dubbi che la tesi qui discussa e criticata suscita, forse quello più vicino alla realtà è anche il più malizioso. E se lo scopo di tutto fosse proprio la cristallizzazione, l'immodificabilità perpetua delle norme di attuazione attualmente in vigore? Un bel modo per salvare, ancora per un po', meccanismi sempre meno difendibili. Censimento in testa. * Assegnista in diritto costituzionale comparato – Università di Trento; ricercatore nell'Accademia Europea di Bolzano - [email protected] A proposito dell'interesse nazionale di Rosanna Tosi* Sono d'accordo con Augusto Barbera (Chi è il custode dell'interesse nazionale?, in Quad.cost. 2001, 345 s.), quando dimostra di non credere che la revisione del Titolo V della Parte II della Costituzione porti con sé la scomparsa degli interessi nazionali, solo perché queste parole non sono più presenti nel testo costituzionale; non mi sembra invece di poter condividere del tutto l'idea che il compito di determinazione di quegli interessi sia ora scaricato completamente sulle spalle del giudice costituzionale. Tolto di mezzo il controllo di merito che era rimasto sulla carta, non c'è motivo per pensare che la Corte assuma un ruolo diverso da quello che ha fin qui svolto in relazione alla identificazione degli interessi nazionali, che è sempre stato un intervento in seconda battuta: necessariamente - si dirà - visto che la Corte è chiamata a decidere controversie; ma non è ovviamente a questo che voglio riferirmi, quanto piuttosto al fatto che la Corte si è limitata ad un controllo esterno delle scelte operate dal legislatore statale, ha cioè considerato l'individuazione degli interessi nazionali un'operazione squisitamente politica - quale essa senza dubbio è - in ordine alla quale il giudizio di costituzionalità assume i tratti delle verifiche di ragionevolezza, talora anche evocando - più che applicando - le tecniche di giudizio messe a punto dal Bundesverfassungsgericht per dare applicazione al principio di Übermassverbot. Se è stato così e se così continuerà ad essere, la determinazione degli interessi nazionali (e, almeno in qualche misura, il grado di penetrazione degli interventi che li riguardano) non può che configurarsi come il frutto di una collaborazione tra organi Parlamento e giudice costituzionale: dove al primo spetta di scegliere la concreta collocazione del confine tra interessi, cui ogni riparto costituzionale lascia inevitabilmente ed opportunamente margini di mobilità, mentre al secondo compete il compito delle piccole correzioni, oltre a quello importantissimo della messa a punto dei titoli che giustificano l'intervento statale a tutela degli interessi nazionali. Su questo secondo versante la legge cost. n.3 del 2001 assegna al giudice costituzionale una serie di scelte interpretative assai rilevanti, e non soltanto per ciò che riguarda i rapporti tra Stato e Regioni. Semplificando al massimo, le prospettive possibili parrebbero due e si determinano in base al significato che si decide di attribuire al II comma dell'art.120. Qualora - magari enfatizzando il significato di espressioni come quella che allude alla "tutela dell'unità giuridica o dell'unità economica" - prevalessero letture estensive di questo disposto, comprensive cioè della sostituzione legislativa e di surrogazioni che prescindano dall’inerzia regionale, è evidente che la norma in questione diverrebbe una clausola bonne a tout faire, capace di giustificare le più varie incursioni governative in ambito regionale; qualora invece si ritenesse di non ignorare quanto sta alle spalle dell'art.120 cpv. ed in particolare il lavorio giurisprudenziale di

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tipizzazione dei poteri sostitutivi statali, la nuova previsione costituzionale si limiterebbe ad offrire espresso fondamento a specifiche norme legislative rivolte ad assegnare puntuali e circoscritti compiti surrogatori al Governo nel caso di inadempimenti amministrativi da parte delle Regioni, del tutto simili quindi a quelli finora contemplati (ottimi argomenti a favore di questa soluzione - già brevemente accennati nello scritto comparso nel Forum di questa Rivista - sono ora illustrati nell'ampia riflessione di C. MAINARDIS, I poteri sostitutivi statali: una riforma costituzionale con (poche) luci e (molte) ombre, in Le Regioni 2001, in corso di pubblicazione). Nel primo caso il custode degli interessi nazionali diverrebbe il Governo e si manifesterebbe allora un drastico giro di boa rispetto ad un'esperienza che, pur con tutti i limiti che l'ha contrassegnata, non ha mai abbandonato l'idea che questo compito dovesse restare nelle mani del Parlamento: si pensi alla giurisprudenza in tema di indirizzo e coordinamento e al rilievo che assegna al principio di legalità. Inoltre, un'interpretazione estensiva degli enunciati di cui all'art.120, II comma inevitabilmente conserverebbe i tratti della genericità alle clausole di intervento lì considerate e, quindi, quell'interpretazione, se condivisa dalla Corte, minerebbe le stesse premesse del controllo esterno, che richiede l'elaborazione di precise tecniche di giudizio. Nel secondo caso invece l'individuazione dell'interesse che giustifica l'intervento sostitutivo spetterebbe alla legge, continuerebbe quindi ad essere compito del Parlamento quello di precisare in concreto il riparto costituzionale e il giudizio della Corte potrebbe rimanere ancorato agli standard già messi a punto negli anni trascorsi in sede di valutazione degli interventi di sostituzione amministrativa (a questo proposito si veda ancora C. MAINARDIS, op. cit.). Ma, e soprattutto se inteso così riduttivamente, il nuovo art.120 non configura certamente l'unica occasione di intervento consentito allo Stato ai fini di tutela degli interessi nazionali: altre, quelle che a me sembrano più evidenti (e - aggiungerei - più normali rispetto al caso della surrogazione che dovrebbe rimanere utilizzata per ipotesi circoscritte e peculiari) si ricavano dagli artt.117 e 118. Se le materie demandate alla legislazione esclusiva dello Stato si assumono come punti di vista anziché come oggetti (e per alcune è impossibile ragionare altrimenti: si pensi alla tutela dell'ambiente e dell'ecosistema), esse offriranno varie e numerose occasioni di interferenza in molti dei settori affidati alle Regioni: interessi collocabili in materia di caccia, di cave, di foreste ecc. potranno essere attratti al centro, cioè divenire interessi nazionali, quando siano rilevanti ai fini della tutela dell'ambiente e dell'ecosistema. Come anni di prassi legislativa e giurisprudenziale inequivocabilmente dimostrano, i principi fondamentali della legislazione concorrente sono dotati da un grado di penetrazione variabile in relazione al tipo di interessi che sono destinati a disciplinare: al punto che si può probabilmente dire che nella formula "principi fondamentali" il vocabolo davvero significante è più l'aggettivo che non il sostantivo, potendo la disciplina statale vincolante arrivare a tradursi anche in regole, purché - appunto - fondamentali. Quanto poi all'art.118, si può notare come esso non disegni un riparto delle funzioni amministrative: stabilito che la distribuzione di quelle funzioni debba avvenire "sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza" (parole nuove, le quali non significano altro che le funzioni vanno collocate al livello di governo preferibile in relazione al grado degli interessi coinvolti), è coerente che al riparto provvedano le fonti di rango legislativo e non direttamente la norma costituzionale, poiché la variabilità del grado degli interessi sconsiglia ogni definitiva predeterminazione. Ma i principi indicati dal I comma, non potranno essere ignorati quando si interpreta il comma successivo, rivolto ad individuare la fonte legislativa competente a distribuire le funzioni; e quei principi sarebbero contraddetti o, almeno, non troverebbero modo di affermarsi, qualora si ritenesse che la competenza della legge regionale a conferire le funzioni amministrative a Comuni, Province e Città metropolitane nei settori affidati alla sua disciplina (e quindi nelle materie di cui al III comma dell'art.117 e in quelle non elencate) precludesse interventi legislativi dello Stato rivolti a trattenere o a richiamare a sé funzioni collocate in quegli stessi settori: non si dimentichi che "la sussidiarietà funziona come un ascensore" (così R. BIN - G. PITRUZZELLA, Diritto costituzionale, Torino, 2001, 96) e sarebbe davvero difficile credere che in un vastissimo raggio di materie a quell'ascensore sia a priori inibito muoversi verso l'alto. La collaborazione tra Parlamento e giudice costituzionale nella determinazione degli interessi nazionali potrà trovare un migliore punto di equilibrio, se i presupposti che

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giustificano l'intervento statale a tutela di quegli interessi sono riconducibili ad una serie di titoli abilitanti puntuali e distinti, poiché ogni diversa norma costituzionale - espressa o implicita - che offre fondamento all'intervento dello Stato potrà stare a premessa dell'argomentazione della Corte ed agevolare la formazione di differenziate e stabili tecniche valutative. Quando invece l'appoggio dell'intervento statale fosse una clausola genericissima, come "la tutela dell'unità giuridica ed economica" di cui all'art.120 oppure il principio di unità di cui all'art.5, il giudizio di costituzionalità più facilmente si ridurrebbe a verifiche di facciata, a meno che non perdesse i tratti del controllo esterno e la Corte si trasformasse in arbitro delle controversie tra Stato e Regioni: ma si tratta di un'ipotesi né probabile né auspicabile. Riforme Istituzionali Valutazioni sull’assetto costituzionale a seguito della riforma del titolo V parte II della Costituzione (l. cost. 3/2001). Primi indirizzi per l’attuazione della riforma La Conferenza dei Presidenti delle Regioni e delle Province autonome, dopo aver esaminato sotto i più rilevanti profili istituzionali la riforma del Titolo V della Costituzione, anche al fine di concorrere all’elaborazione dei criteri e delle modalità cui informare l’attività della cabina di regia, esprime una prima serie di indirizzi per l’attuazione della novella costituzionale. A) La riforma costituzionale muta radicalmente l’assetto e il rango delle funzioni normative, ponendo nella forma e nella sostanza sullo stesso piano costituzionale il potere legislativo statale e quello regionale. Per questo importanza sostanziale riveste la previsione contenuta all’articolo 11 del testo di revisione costituzionale che individua un meccanismo consultivo qualificato di portata oltremodo rilevante, inserendo le Regioni direttamente nel procedimento legislativo parlamentare. La rilevanza dell’integrazione della Commissione rende indispensabile, quindi, la ricerca degli strumenti giuridici che consentano senza alcun indugio la sua pronta attivazione. A questo fine le Regioni chiedono che sia data attuazione alla previsione costituzionale, in tempi rapidi, in modo tale da garantire in ogni caso la presenza di tutti i Presidenti delle Regioni e Province autonome. B) Nel nuovo quadro costituzionale, lo Stato non può emanare disposizioni legislative in materie al di fuori di quelle di sua legislazione esclusiva di cui al secondo comma dell’art. 117. In questo senso, non si può trascurare la nuova portata dell’art. 117, e della previsione, in esso contenuta, di un criterio di ripartizione vera e propria della funzione legislativa tra Stato e Regioni, da cui discende la trasformazione da regola ad eccezione della potestà dello Stato di dettare limiti all’esercizio delle potestà legislative regionali. Da questo principio, che costituisce ormai parte integrante dei principi contenuti nel titolo I della Costituzione, deve desumersi che non è più compatibile con il quadro costituzionale la individuazione in via interpretativa di ulteriori poteri statali che non siano strettamente riconducibili alle competenze riservate allo Stato dall’art. 117, secondo comma. E’ quindi in questa disposizione (come, probabilmente, nell’art. 120) che va eventualmente ricercato il fondamento di un intervento dello Stato a fini di tutela delle esigenze dell’unità dell’ordinamento, che potrà quindi avvenire ormai solo nella forma dell’esercizio di potestà legislative in quelle materie (o meglio, ambiti trasversali) individuati dall’art. 117 secondo comma, che più sembrano rispecchiare questa esigenza di salvaguardia dell’unità, come quella della “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”, o quelle della “tutela della concorrenza” o della determinazione delle “funzioni fondamentali di Province, comuni e città metropolitane”. C) Lo Stato non può emanare disposizioni regolamentari in materie diverse da quelle di sua competenza legislativa esclusiva. I regolamenti statali vigenti in materie regionali sono in ogni caso recessivi rispetto a norme di legge o di regolamento regionale. D) Lo Stato nelle materie di legislazione concorrente deve limitarsi all’emanazione di disposizioni legislative di principio e non può emanare alcuna disposizione diversa da quelle di principio; la norma costituzionale è, sul punto, chiarissima, dando vita ad una vera e propria separazione di competenza fra Regioni e Stato: la potestà legislativa

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di regolazione anche in tali materie spetta alle Regioni, spettando allo Stato esclusivamente la determinazione dei relativi principi fondamentali. E) Le Regioni possono attivare da subito la potestà legislativa generale residuale di cui al comma 4 dell’art. 117 Cost. Gli unici limiti che questa incontra sono quelli stessi stabiliti nella Costituzione sia per la legislazione statale che per quella regionale (del tutto quindi equiordinate): rispetto della Costituzione stessa e dei vincoli relativi all’ordinamento comunitario e agli obblighi internazionali. Nessun altro limite è posto in Costituzione e nessun altro limite può essere quindi ipotizzabile (tanto meno limiti elaborati in via giurisprudenziale o di prassi) vigente il pregresso, radicalmente diverso ordinamento costituzionale nei rapporti Stato-Regioni. F) Le Regioni possono attivare da subito anche la potestà legislativa concorrente per le materie di cui al comma 3 dell’art. 117, desumendo eventualmente i principi fondamentali dalla legislazione vigente. L’opportunità di una norma statale che indichi i principi della materia non è, infatti, ostativa né propedeutica alla approvazione di leggi regionali in materia, essendo palesemente inaccettabile che l’esercizio di potestà legislative alle Regioni voluto dal legislatore costituente possa essere condizionato, nella sua effettività, dall’eventuale inerzia del legislatore statale ordinario nell’esercitare la propria potestà di determinare i principi. Qualora in una materia non vi sia normativa da cui desumere principi, in aderenza a quanto già accadeva nell’ordinamento previgente, le Regioni possono comunque legiferare. La potestà legislativa concorrente regionale, oltre agli eventuali principi stabiliti dalla legge statale, non troverà altri limiti che quelli stabiliti per la legislazione esclusiva: nessun altro limite specifico è infatti indicato in Costituzione e nessun altro limite è quindi ipotizzabile, a pena di invalidare l’intero impianto costituzionale di equiordinazione tra leggi statali e leggi regionali. E’ compito della Cabina di Regia ricercare le soluzioni idonee a comporre eventuali diversità di interpretazione, che si manifestino in ordine alla delimitazione dei confini tra poteri dello Stato e poteri delle Regioni nell’ambito delle materie concorrenti. G) Nella disciplina delle materie in cui lo Stato ha potestà legislativa esclusiva è tenuto comunque a garantire il nuovo assetto delle competenze amministrative di cui all’articolo 118 (competenza amministrativa ordinariamente attribuita ai Comuni, salve esigenze di esercizio unitario che impongano, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza, una diversa allocazione- Province, Regioni e, solo in ultima analisi, Stato). Lo Stato e le Regioni nell’ambito delle rispettive potestà legislative sono tenuti comunque a garantire il nuovo assetto delle competenze di cui all’art. 118 della Costituzione. H) Le Regioni ritengono che, l’operatività della riforma costituzionale e l’assunzione delle nuove competenze legislative da parte delle stesse sarebbe vanificata qualora non si procedesse alla rapida attuazione di quanto previsto dal nuovo articolo 119, i cui punti salienti sono riportati nello specifico documento allegato. I) Le Regioni attribuiscono una rilevanza fondamentale al nuovo ruolo che ad esse viene riconosciuto dalla riforma costituzionale nel quadro europeo e internazionale. In particolare, il nuovo testo dell’art. 117 contiene importanti innovazioni anche per quanto concerne la partecipazione delle Regioni alla cd. fase ascendente e discendente del diritto comunitario, ovvero alla elaborazione degli atti comunitari ed alla loro esecuzione nell’ordinamento interno. La riforma costituisce l’occasione per una profonda rimeditazione dei meccanismi di partecipazione attuali, per un superamento dei loro limiti intrinseci, già da tempo evidenziati dalle Regioni. Tramite questa disposizione – che riconosce alle Regioni un vero e proprio diritto, e correlativamente impone allo Stato l’obbligo di creare la condizioni affinché la partecipazione delle Regioni al procedimento decisionale europeo sia effettivo – le Regioni hanno piena legittimazione a pretendere la presenza di propri rappresentanti sia nelle fasi istruttorie preliminari alle decisioni delle istituzioni comunitarie sia nella fase decisionale in sede di Consiglio, sulla scorta delle esperienze di altri paesi europei, quando sono in discussione provvedimenti afferenti materie di competenza regionale; potrebbe altresì farsi promotrice, per il tramite dello Stato, di iniziative volte all’attuazione delle riforme, da lungo tempo prospettate, delle misure previste dal Trattato UE in tema di partecipazione delle Regioni, tramite la richiesta di inserire propri rappresentanti nella delegazione nazionale che parteciperà alla Convenzione preparatoria della Conferenza Intergovernativa per la revisione dei Trattati. Roma, 6 dicembre 2001

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ATTUAZIONE DELL’ARTICOLO 119 DELLA COSTITUZIONE 1. Premessa Le materie di interesse finanziario, o comunque attinenti con quelle finanziarie, presenti tra quelle di competenza legislativa concorrente sono: - armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario - casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale - enti di credito fondiario e agrario - previdenza complementare ed integrativa. Si tratta di questioni di particolare rilievo che occorrerà approfondire, ma che sin da adesso prefigurano, ad esempio, in capo alle regioni un ruolo di coordinamento della finanza locale e una potestà di perequazione all’interno del territorio regionale. Va accennato che importanti problematiche finanziarie derivano nelle competenze legislative generali residuali. Poiché le materie sono da desumere, sono in corso le analisi e gli approfondimenti, ed anche le prime elencazioni non sono certo esaustive. Però è certo che settori quali le attività produttive e l'edilizia residenziale pubblica hanno una rilevanza finanziaria estremamente alta. Le Regioni possono attivare da subito la potestà legislativa generale residuale nei limiti della Costituzione e dei vincoli relativi all'ordinamento comunitario e agli obblighi internazionali. Le Regioni possono attivare da subito anche la potestà legislativa concorrente per le materie di cui al 117 comma 2, desumendo eventualmente i principi fondamentali dalla legislazione vigente. Premesso questo quadro di sintesi, si può procedere ad una disamina del nuovo assetto finanziario delineato dalla legge costituzionale 3/2001 con l'art.119. 2. Osservazioni generali sull'art. 119 La LC 3/2001 ha notevoli riflessi sull’autonomia finanziaria delle Regioni. L’art. 117 ha previsto un nuovo assetto delle competenze legislative definendo le materie di competenza esclusiva dello Stato (art.117, comma 2), di competenza concorrente delle Regioni (art. 117, comma 3) e quelle di competenza esclusiva delle Regioni (art. 117, comma 4) da individuare in maniera residuale rispetto alle prime due. L’art. 119, nel disciplinare la finanza regionale, non tiene conto delle predette distinzioni e le sue disposizioni parrebbero applicabili a tutte le materie. L’art. 119 delinea quattro fonti di entrata: a) le entrate proprie b) le quote di compartecipazioni al gettito dei tributi erariali c) le quote di partecipazione al fondo perequativo d) le risorse aggiuntive e gli interventi speciali Esaminando l’art. 119 si evidenziano i seguenti punti: 1) Le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa, ove il riferimento alla “entrata” sta ad indicare che le Regioni hanno potestà normativa su tutti gli elementi costitutivi dei tributi regionali, in un contesto di certezza, sufficienza delle risorse e programmabilità delle stesse. L’autonomia tributaria implica ed impone che le basi imponibili (esclusive o in comune con lo Stato) dell’entrate tributarie regionali non possano essere intaccate da manovre finanziarie nazionali senza una preventiva intesa tra governo nazionale e governi regionali al fine di salvaguardare la compensazione delle eventuali minori entrate regionali. 2) Ai sensi del 2° comma del 119 le Regioni hanno il potere di istituire e applicare tributi ed entrate proprie, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. L’art. 117 comma 3 pone tra la legislazione concorrente delle Regioni il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Dal 117 comma 3 e dal 119 si desume che lo Stato, per quanto concerne il potere delle Regioni di stabilire ed applicare tributi ed entrate proprie, debba solo definire i “principi fondamentali”. Peraltro il potere delle Regioni di stabilire tributi ed entrate propri amplia le preesistenti competenze, nel senso che le Regioni sono autorizzate a istituire autonomamente tributi propri con propria legge ritenendo applicabile anche ad esse la riserva di legge in materia tributaria ex art. 23 Costituzione. L'affermazione che le Regioni “applicano” tributi ed entrate propri significa che le medesime hanno il potere di gestire tali tributi. 3) Le Regioni dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibili al loro territorio. Viene, quindi, costituzionalizzato il principio che la compartecipazione ai tributi erariali è ora commisurata al gettito dei tributi erariali prodotto nel territorio di riferimento 4) La legge dello Stato istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante. 5) Le risorse

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consentono alle Regioni di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite. Le entrate proprie, le quote di compartecipazione al gettito dei tributi erariali e le quote di partecipazione al fondo perequativo costituiscono le componenti ordinarie del sistema finanziario regionale. Viene quindi costituzionalizzato il principio del congruo finanziamento delle funzioni attribuite alle Regioni. 6) Le Regioni ritengono particolarmente significativo che lo Stato attribuisca risorse aggiuntive ed effettui interventi speciali a favore delle Regioni per obiettivi di sviluppo economico, coesione e solidarietà sociale, rimuovere gli squilibri economici e sociali, favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni. 7) Le Regioni hanno un proprio patrimonio attribuito secondo i principi generali determinati dalla legge dello Stato. Possono indebitarsi solo per spese di investimento e senza alcuna garanzia dello Stato sui prestiti contratti. Scompare il demanio regionale, il patrimonio non è più attribuito sulla base della legge dello Stato, ma sulla base dei principi generali determinati con legge dello Stato. Viene costituzionalizzato il principio che l’indebitamento è praticabile solo per finanziare spese di investimento, principio che prima era affermato con legge ordinaria (art. 10 L. 281/70) e quindi derogato varie volte per la copertura dei deficit del settore trasporti ma soprattutto della sanità, come nel recente ultimo caso del DL 347/2001 convertito con modificazioni nella L 405/2001. Al riguardo si pone il problema di chiarirne le modalità in ordine all’applicabilità, soprattutto con riferimento all’impatto sugli equilibri di finanza regionale. 3. Osservazioni su prime ipotesi in materia di risorse finanziarie. Alla luce di quanto sopra vi sono dunque quattro tipi di entrate delineate dal 119 che richiedono una riflessione sugli strumenti finanziari attraverso i quali possono essere attribuiti alle Regioni. Rispetto ai tempi possono essere ipotizzate tre tipi di azione: a breve termine, a medio periodo e a prospettiva più lunga. Azione a breve termine Al fine di attuare già nel 2002 il concreto esercizio delle nuove potestà legislative è necessario che: a) Stato e Regioni procedano in maniera concordata a quantificare le risorse per le materie che sono da definanziare sul bilancio dello Stato e da finanziare su quello delle Regioni a seguito del passaggio di competenze b) Il Parlamento approvi un' autorizzazione normativa per operare il trasferimento delle risorse concordate e congrue per gestire le competenze suddette dal momento che nell'attuazione del Titolo V manca una norma ordinaria che attivi questo procedimento (a tal fine si allega un emendamento proponibile per la stessa legge finanziaria 2002 in discussione alla Camera). Inoltre per quanto concerne la capacità impositiva autonoma delle Regioni occorre anche fare chiarezza nel senso di chiamare le cose con il loro nome. Oggi viene definita addizionale regionale Irpef sia la quota stabilita dallo Stato (0,9 per cento), sia quella discrezionale di potestà regionale (a regime 0,5 per cento). Poiché la prima è sostanzialmente una compartecipazione, sarebbe utile ridefinirla come tale anche sul piano giuridico modificando l'art. 50 del DLGS 446/1997 e l'art. 3 del DLGS 56/2000, e denominando addizionale solo la seconda effettivamente imposta dal potere discrezionale delle Regioni. Azione a medio termine L'azione mira a far confluire nel sistema finanziario del decreto 56 i trasferimenti quantificati apportando allo stesso decreto le seguenti modifiche : a1) aumento delle aliquote di compartecipazione all’IVA e/o all’Irpef commisurato alle quantificazioni delle risorse effettuate per le materie definanziate dal bilancio dello Stato; a2) verifica della compatibilità dei parametri di perequazione del Dlgs 56 con il quadro emergente dal rinnovato Titolo V°, che prevede come unico elemento per la perequazione la “capacità fiscale”. La necessaria norma legislativa potrebbe essere rinvenuta nella normativa proposta al precedente paragrafo b) per il trasferimento delle risorse, ed in ogni caso inserita nella legge delega in materia fiscale che il Governo si accinge a presentare al Parlamento, e

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nel relativo Dlgs di attuazione che devono costituire elemento unificante degli assi portanti del Federalismo fiscale. E’ comunque dirimente che la legge delega in materia fiscale, oltre all’inserimento della suddetta norma, per le implicazioni che la materia fiscale determina sull’assetto finanziario nel suo complesso considerato, sia oggetto di valutazioni strettamente condivise con le Regioni. Azione a più lunga prospettiva Mentre l'azione a breve termine deve essere efficace già nel 2002, e quella di medio periodo dovrebbe spiegare i propri effetti nel 2003, contemporaneamente potrebbe essere avviata un'azione a più lunga prospettiva con effetti dopo il 2003 e con lo scopo di definire un sistema finanziario nuovo, diverso e sostitutivo del Dlgs 56, che attui il federalismo fiscale, ampliando la capacità impositiva autonoma delle Regioni. Tale sistema dovrà delinearsi fin dalla legge delega in materia fiscale che il Governo si accinge a presentare in Parlamento e definito nel conseguente D.lgs attuativo. Nel quadro del percorso delineato occorrerà comunque affrontare le seguenti questioni che presentano un notevole grado di complessità: 1) individuare la reale portata dell'espressione "minore capacità fiscale" alla luce anche del fatto che obiettivo dell'art. 119 è ridurre il differenziale tra le diverse capacità fiscali per abitante delle Regioni; 2) relativamente alle risorse aggiuntive e agli interventi speciali individuarne la portata e gli strumenti normativi per assicurarne l’attuazione e l’utilizzazione ai fini dell'attribuzione alle Regioni. 3) in ordine alle quattro fonti di entrata prima indicate verificarne la correlazione con il disposto del nuovo art. 116. Roma, 6 dicembre 2001 Emendamento al disegno di legge finanziaria 2002 (Atto Camera 1984) Dopo l'articolo 43 è inserito il seguente articolo 43 bis: "1. Fino all'entrata in vigore delle norme relative al nuovo sistema finanziario attuativo dei principi e delle disposizioni della legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001 ed in particolare dell'articolo 119 della Costituzione, autorizzata, a decorrere dall'anno 2002, l'attribuzione e l'erogazione alle regioni e province autonome di beni, risorse strumentali, finanziarie, umane e organizzative derivanti dall'applicazione degli articoli 117 e 118 della Costituzione. 2. Alla quantificazione, alla ripartizione e al trasferimento delle risorse di cui al primo comma si provvede entro 90 giorni dall'entrata in vigore della presente legge mediante uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell' economia e della finanza, previa intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano. Alla copertura finanziaria dei relativi oneri è fatto fronte mediante riduzione dei capitoli del bilancio dello Stato afferenti le materie oggetto dei decreti. I decreti di cui al presente comma sono trasmessi alla Commissione parlamentare per le questioni regionali. 3. Nei casi in cui per l'adozione dei decreti di cui al precedente comma occorra un provvedimento di legge, il Consiglio dei Ministri entro 90 giorni dall'entrata in vigore della presente legge adotta il relativo provvedimento. In tali casi i decreti di cui al secondo comma sono adottati con le stesse procedure ivi previste entro i 90 giorni successivi all'entrata in vigore della legge di cui al presente comma. 4. A decorrere dall'anno 2003 le risorse finanziarie di cui al presente articolo relative alle regioni a statuto ordinario confluiscono nel sistema di finanziamento di cui al decreto legislativo n. 56 del 18/2/2000 per essere sostituite con aliquote di compartecipazione all'Irpef e all'Iva. POSIZIONE DELLE REGIONI SULLA LEGGE OBIETTIVO E LA PROGRAMMAZIONE DELLE INFRASTRUTTURE STRATEGICHE

Punto 1. 1) O.d.g. Conferenza Stato-Regioni Le Regioni, nella Conferenza del 25 luglio 2001, avanzarono all’unanimità alcune proposte di modifica al “disegno di legge obiettivo” con l’intento di migliorarne l’efficacia e di valorizzare un processo di condivisione tra le istituzioni competenti, che

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portasse alla formazione di un programma comune, tra Stato e Regioni, delle principali infrastrutture di cui ancora necessita il nostro Paese. Nessuna delle proposte regionali però è stata accolta. Nel frattempo, con l’entrata in vigore della legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001, sono profondamente mutate le potestà legislative sia dello Stato che delle Regioni, anche nella materia dei lavori pubblici, residuando allo Stato funzioni di sola legislazione concorrente nelle “grandi reti di trasporto e di comunicazione, porti e aeroporti”. Si rende pertanto necessario e urgente provvedere alla modifica della “Legge obiettivo” armonizzandone i contenuti con il nuovo assetto costituzionale. Ciò premesso le Regioni, prima di esprimersi sul Programma elaborato dal Ministero delle Infrastrutture ai sensi dell’art. 1 del disegno di “legge obiettivo”, chiedono al Governo formali assicurazioni circa: a) l’approvazione, nel collegato infrastrutturale alla legge finanziaria o nei decreti legislativi attuativi della legge obiettivo, di opportune modifiche all’art. 1 della stessa legge, già più volte richieste dalle Regioni nelle sedi istituzionali, da concordare preliminarmente tra Stato e Regioni. In particolare, tra le altre cose, deve essere previsto l’inserimento, nelle procedure per la predisposizione del Programma, dell’intesa tra la Regione interessata e il Governo, al fine di assicurare la realizzazione di opere e interventi che siano effettivamente voluti e condivisi dalla Regione e dal Governo. Ne consegue che il CIPE, in sede di approvazione del programma, deve attenersi all’intesa raggiunta tra Governo e Regioni, senza stravolgerne i contenuti. Resta inteso che la sede istituzionale preposta all’espressione del parere sulla deliberazione del CIPE è la Conferenza Stato-Regioni. b) l’assicurazione che il Programma della legge obiettivo sia aggiuntivo e non sostitutivo dei piani ordinari (Piano triennale ANAS, Accordi di Programma con le Ferrovie dello Stato, infrastrutture ambientali, interventi per la difesa del suolo, ecc...) che invece continueranno ad essere alimentati da specifiche risorse finanziarie, di misura almeno pari a quelle stanziate nei precedenti anni; c) la conferma che gli interventi già ricompresi negli Accordi di Programma Quadro, siglati da Governo e singole Regioni sulla base delle Intese istituzionali di cui alla legge 662/96, e nei Piani ordinari e straordinari dell’ANAS approvati dalla Conferenza Stato-Regioni, siano comunque realizzati nei tempi e con le risorse finanziarie ivi indicate. In proposito le Regioni chiedono una rapida e puntuale ricognizione, insieme con le Amministrazioni Statali competenti, per verificare la permanenza degli stanziamenti assicurati per la realizzazione degli interventi. Ovviamente l’elenco delle opere inserite nel Programma della legge obiettivo dovrà esser compatibile con le risorse complessivamente disponibili a seguito dei mutui che verranno contratti nel triennio 2002-2004, ed assicurare un elevato grado di coerenza con le indicazioni contenute negli strumenti di programmazione generale tuttora vigenti (Piano Generale Trasporti). Il Programma della legge obiettivo, per sua natura, si limita a finanziare le infrastrutture ritenute strategiche a livello nazionale e non affronta il complesso dei problemi infrastrutturali che investono il paese e che devono comunque essere rapidamente risolti. Le Regioni quindi chiedono che gli interventi finanziati dalla legge obiettivo vengano inquadrati all’interno di un disegno programmatico più ampio, concordato tra lo Stato e ciascuna Regione, che delinei le principali linee di sviluppo infrastrutturale di ogni territorio mediante un’Intesa generale, di prospettiva temporale più lunga del triennio, da siglarsi prima o contestualmente all’approvazione del Programma. L’Intesa dovrà indicare, accanto agli interventi condivisi e di reciproco interesse, gli atti di programmazione ordinaria e le fonti di finanziamento che ne potranno garantire la realizzazione nel tempo. Da ultimo si sottolinea che ogni programmazione statale di nuovi interventi infrastrutturali, strategici e ordinari, non può intaccare il fondo di L. 1.648 mld. da trasferire annualmente alle Regioni in base al D.P.C.M. del 22.12.2000 sulla viabilità, oltre allo stanziamento straordinario di L. 594 mld. per il 2002 che deve essere esteso anche agli anni 2003 e 2004. Roma, 6 dicembre 2001 Riforme Istituzionali ORDINANZA N. 102 - ANNO 2001 REPUBBLICA ITALIANA In nome del Popolo Italiano LA CORTE COSTITUZIONALE composta da:

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- Cesare RUPERTO Presidente - Fernando SANTOSUOSSO Giudice - Massimo VARI " - RiccardoCHIEPPA " - Gustavo ZAGREBELSKY " - Valerio ONIDA " - Carlo MEZZANOTTE " - Guido NEPPI MODONA " - Piero Alberto CAPOTOSTI " - Annibale MARINI " - Franco BILE " - Giovanni Maria FLICK " ha pronunciato la seguente

ORDINANZA nel giudizio per conflitto di attribuzione sorto a seguito della delibera del Consiglio regionale della Lombardia n. VII/25 del 15 settembre 2000, recante "Proposta di indizione di referendum consultivo per il trasferimento delle funzioni statali in materia di sanità, istruzione, anche professionale, nonché di polizia locale, alla Regione", promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 1° dicembre 2000, depositato in cancelleria il 5 successivo e iscritto al n. 56 del registro conflitti 2000. Visto l’atto di costituzione della Regione Lombardia; udito nella camera di consiglio del 5 aprile 2001 il Giudice relatore Gustavo Zagrebelsky; uditi l’avvocato dello Stato Franco Favara per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Beniamino Caravita di Toritto per la Regione Lombardia. Ritenuto che con ricorso notificato il 1° dicembre 2000 e depositato il 5 dicembre 2000 il Presidente del Consiglio dei ministri ha proposto conflitto di attribuzione nei confronti della Regione Lombardia, in relazione alla deliberazione del Consiglio regionale del 15 settembre 2000, n. VII/25, recante "Proposta di indizione di referendum consultivo per il trasferimento delle funzioni statali in materia di sanità, istruzione, anche professionale, nonché di polizia locale, alla Regione"; che il Governo ricorrente impugna la suddetta deliberazione in quanto con essa il Consiglio regionale della Lombardia, contraddicendo i principi affermati nella sentenza n. 470 del 1992 di questa Corte, chiamerebbe la popolazione iscritta nelle liste elettorali dei Comuni della Regione medesima a esprimere il proprio voto su un quesito (così formulato nella parte dispositiva della deliberazione: "Volete voi che la Regione Lombardia, nel quadro dell’unità nazionale, intraprenda le iniziative istituzionali necessarie alla promozione del trasferimento delle funzioni statali in materia di sanità, istruzione, anche professionale, nonché di polizia locale, alla Regione?") che, non essendo riferibile a provvedimenti che possano dirsi "di competenza" del medesimo Consiglio regionale, come invece stabilisce l’art. 25, primo comma, della legge della Regione Lombardia 28 aprile 1983, n. 34 (Nuove norme sul referendum abrogativo della regione Lombardia - Abrogazione della legge regionale 31 luglio 1973, n. 26 e successive modificazioni), atterrebbe all’esercizio, da parte del citato Consiglio, della facoltà di presentare alle Camere una proposta di legge di revisione della Costituzione della Repubblica; che inoltre il ricorrente richiama, a sostegno dell’impugnazione, la sentenza n. 496 del 2000 di questa Corte, che ha definito i limiti della ammissibilità della partecipazione di una frazione del popolo – tramite referendum consultivo in ambito regionale – ai procedimenti di revisione costituzionale, escludendo in particolare che sia consentita una "doppia pronuncia" popolare, di una parte prima e dell’intero poi, relativamente alle decisioni politiche di modifica della Costituzione; che il ricorrente rileva infine che il quesito referendario oggetto della deliberazione impugnata è privo dei requisiti di chiarezza e di omogeneità, menzionando - accanto a materie che già sono devolute, dalla Costituzione e dalle leggi di attuazione, alle autonomie regionali - materie come "l’istruzione, anche professionale" che implicherebbero una revisione costituzionale, alla stregua del vigente testo dell’art. 117 della Costituzione;

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che il Governo ricorrente chiede altresì preliminarmente a questa Corte la sospensione dell’esecuzione della delibera del Consiglio regionale impugnata, sulla duplice premessa della "gravità e vistosità del vulnus arrecato alle attribuzioni statali" e per "l’esigenza di impedire distorsioni e di prevenire emulazioni", sottolineando, in una successiva memoria, che l’auspicio di "correttezza costituzionale" da parte della Regione è stato frustrato, avendo - successivamente al ricorso - il Presidente della Regione Lombardia disposto, con un proprio decreto del 28 febbraio 2001, lo svolgimento del referendum consultivo, per la data "concomitante con la tornata elettorale per il rinnovo del Parlamento della Repubblica", decreto a sua volta separatamente impugnato dallo stesso ricorrente; che nel giudizio per conflitto così promosso si è costituita la Regione Lombardia, che, richiamando l’art. 65, primo comma, del proprio Statuto e la legge regionale n. 34 del 1983 che ne ha dato attuazione, contesta il presupposto - da cui muove il Governo ricorrente – del necessario collegamento tra il referendum consultivo oggetto della delibera e il procedimento politico-parlamentare di revisione costituzionale, osservando in contrario che l’atto impugnato attiene a "iniziative istituzionali" di "promozione" del trasferimento di talune funzioni statali, nelle materie menzionate, da prendersi "nel quadro dell’unità nazionale": si tratterebbe dunque di iniziative legislative ordinarie, o in campo organizzativo e amministrativo, ma comunque di attività che non si svolgono sul piano della revisione costituzionale; che, adducendo altresì profili di possibile "virtualità" del conflitto promosso dal Governo per difetto di lesività da parte dell’atto impugnato di una qualsiasi attribuzione riconducibile a parametri costituzionali, la resistente Regione, nel concludere per l’inammissibilità o per il rigetto del ricorso, chiede la reiezione dell’istanza di sospensione della delibera per cui è conflitto, in particolare osservando – in una memoria successivamente depositata - che il decreto di "indizione" del referendum adottato dal Presidente della Regione costituisce, in base alla disciplina legislativa regionale, un atto dovuto, e che comunque non potrebbero ravvisarsi né gli estremi del fumus boni iuris (per gli argomenti addotti sul merito del conflitto) né un estremo di "danno" a un bene di rilievo costituzionale, non sussistendo alcun pericolo di "soggettivizzazione" della popolazione della Regione Lombardia che sia apprezzabile sul piano costituzionale, né tantomeno sussistendo un corrispondente effetto di pericolo per l’unità della Repubblica. Considerato che, con la delibera del Consiglio regionale della Lombardia del 15 settembre 2000, gli elettori della Regione Lombardia sono chiamati a pronunciarsi sull’opportunità che la Regione medesima "nel quadro dell’unità nazionale, intraprenda le iniziative istituzionali necessarie alla promozione del trasferimento delle funzioni statali in materia di sanità, istruzione, anche professionale, nonché di polizia locale"; che tale quesito è posto – secondo il preambolo della delibera della quale esso forma parte integrante - nella prospettiva "di un rafforzamento delle prerogative autonomistiche spettanti alla Regione e di riconduzione di materie di competenza dei ministeri ad un modello di amministrazione e gestione ispirato ad un effettivo federalismo che, in base al principio di sussidiarietà, valorizzi il ruolo e le autonomie di tutti i soggetti istituzionali locali", al fine di "intraprendere iniziative istituzionali necessarie alla promozione del trasferimento delle funzioni statali in materia di sanità, istruzione, anche professionale, nonché di polizia locale, alla Regione, nel quadro dell’unità nazionale"; che la delibera consiliare in questione non coinvolge "scelte fondamentali di livello costituzionale" in presenza delle quali non è consentita la separata consultazione di frazioni del corpo elettorale (sentenza n. 496 del 2000) e che pertanto non ricorrono quelle gravi ragioni che, sole, giustificano la sospensione dell’esecuzione degli atti che danno luogo al conflitto di attribuzione tra Stato e Regione (art. 40 della legge 11 marzo 1953, n. 87). Visti gli artt. 40 della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 28 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE riservata ogni pronuncia sul rito e sul merito del ricorso,

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rigetta l’istanza di sospensione della delibera del Consiglio regionale della Lombardia n. VII/25 del 15 settembre 2000, presentata dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 aprile 2001. F.to: Cesare RUPERTO, Presidente Gustavo ZAGREBELSKY, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 5 aprile 2001. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA LUIGI OLIVERI Prime riflessioni sulle influenze della riforma costituzionale sull'ordinamento degli enti locali La riforma della Costituzione determina immediate conseguenze sull'autonomia normativa degli enti locali. La nuova formulazione dell'articolo 114 ed il rilievo assegnato alla competenza regolamentare di comuni e province, infatti, induce a ripensare sia la portata, sia la stessa posizione nelle fonti che, per effetto della legge costituzionale 3/2001, assumono statuti e regolamenti locali. Partendo dall'analisi degli statuti, occorre valutare nel corretto modo la disposizione contenuta nell'articolo 114, comma 2, della Costituzione a mente del quale "i comuni, le province, le città metropolitane e le regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione". Per la prima volta la carta costituzionale riconosce espressamente agli enti locali un'autonomia statutaria, per altro nell'ambito di una norma che pone, con ogni evidenza, sullo stesso piano istituzionale tutti gli enti territoriali in essa menzionati (G. Pastori in Problemi del federalismo, Milano, 2001, pag. 222), conferendo a ciascuno pari dignità, sia pure nella diversità dei ruoli ricoperti, quali componenti essenziali insieme con lo Stato, della Repubblica. Si nota, allora, che nel nuovo testo costituzionale si è inteso dare rilievo e sostegno ad un indirizzo interpretativo che anche nel precedente assetto costituzionale riteneva di estrapolare dal combinato disposto degli articoli 5 e 128 della Costituzionale il fondamento dell'autonomia statutaria e, in particolare, della collocazione dello statuto come fonte sub-primaria tra la legge ed i regolamenti. Che l'indirizzo dottrinale qui sintetizzato non fosse, nel concreto, fondato su norme di diritto positivo lo dimostra, in realtà, proprio il fatto che solo con la legge costituzionale 3/2001 si assiste ad una costituzionalizzazione della potestà statutaria degli enti locali. Nel precedente regime, infatti, è stata non la Costituzione, bensì la legge ordinaria (la legge 142/1990, prima, il D.lgs 267/2000, poi) ad assegnare a comuni e province l'autonomia statutaria e a fissare l'ambito dell'autonomia medesima. Paradossalmente, la costituzionalizzazione degli statuti locali adesso pone, da un lato, il problema dell'inadeguatezza a Costituzione della disciplina degli statuti contenuta nel testo unico sull'ordinamento degli enti locali; dall'altro, l'ulteriore necessità di capire quale sarà la fonte che, nel futuro, potrà, se potrà, intervenire ad aggiornare e modificare la disciplina degli statuti. Entrambi i problemi sin qui citati traggono lo spunto (e, probabilmente anche la soluzione) dall'evidente antinomia tra la previsione dell'articolo 114, comma 2, della Costituzione e l'articolo 1, commi 3 e 4, del D.lgs 267/2000, a mente dei quali "la legislazione in materia di ordinamento degli enti locali e di disciplina dell'esercizio delle funzioni ad essi conferite enuncia espressamente i principi che costituiscono limite inderogabile per la loro autonomia normativa. L'entrata in vigore di nuove leggi che enunciano tali principi abroga le norme statutarie con essi incompatibili. Gli enti locali adeguano gli statuti entro 120 giorni dalla data di entrata in vigore

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delle leggi suddette. Ai sensi dell'articolo 128 della Costituzione le leggi della Repubblica non possono introdurre deroghe al presente testo unico se non mediante espressa modificazione delle sue disposizioni". Le incongruenze delle disposizioni citate con il disegno costituzionale appaiono evidentissime. In primo luogo, risulta pianamente che l'impostazione dei citati commi 3 e 4 risente dei limiti imposti all'autonomia normativa degli enti locali dall'articolo 128 della Costituzione, abrogato dalla legge 3/2001, il quale stabiliva che "le provincie e i comuni sono enti autonomi nell'ambito dei principi fissati da leggi generali della Repubblica che ne determinano le funzioni". La stessa abrogazione dell'articolo 128 impone una riconsiderazione dell'autonomia normativa degli enti locali. Ma la reale antinomia è conseguenza dell'esplicito superamento del concetto secondo il quale gli statuti sono soggetti ai principi delle leggi ordinarie, operato dall'articolo 114, comma 2, della Costituzione. Il quale, come rilevato sopra, prevede che gli statuti di comuni, province e città metropolitane (con esclusione, quindi, degli statuti degli altri enti locali indicati dall'articolo 2 del D.lgs 267/2000) siano soggetti solo ai principi fissati dalla Costituzione. Il cambiamento appare una sorta di rivoluzione copernicana. Da un lato, infatti, cade la norma costituzionale che imponeva all'autonomia normativa di comuni e province il rispetto dei principi delle leggi generali della Repubblica; a completamento di ciò, l'articolo 114, comma 2, prevede che i limiti all'autonomia statutaria siano da ricercare nei principi fissati nella Costituzione e non nelle leggi ordinarie. Questa constatazione, porta alla posizione di altri due problemi. L'individuazione, ovvero, dei principi fissati, dunque "posti" in modo positivo o implicito dalla Costituzione, nonché dell'eventualità che comunque le leggi ordinarie possano incidere sulla potestà statutaria. Partendo dalla seconda delle questioni, si osserva che gli statuti di comuni e province sembrano avere concretamente assunto quella particolare posizione nella gerarchia delle fonti che già nel precedente regime molti autori attribuivano loro (per tutti, T. Groppi in L'ordinamento dei comuni e delle province, Milano 1999, pag. 124) assurgendo concretamente a fonte subprimaria, intesa come fonte che ha una forza di legge non completamente pariordinata a quella delle leggi ma certamente superiore a quella dei regolamenti concernenti la disciplina dell'organizzazione delle funzioni locali. Nonostante ciò, la potestà normativa statutaria appare certamente fortemente influenzata dalla legge ed in questo senso lo statuto appare ancora fonte "subordinata", nel senso di meno forte della legge. Ne è dimostrazione la constatazione che gli statuti locali non si pongono ancora, nonostante la riforma costituzionale, come vera e propria norma fondamentale di un ordinamento giuridico interno, idonea a regolamentarne per intero gli elementi costitutivi. Infatti, l'articolo 117, comma 2, lettera p), della Costituzione assegna addirittura alla potestà legislativa esclusiva dello Stato la disciplina elettorale, nonché degli organi di governo e delle funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane. V'è, dunque, una chiara sottrazione alla potestà statutaria di materie che, invece, avrebbero potuto a ben ragione rientrare in una potestà ordinamentale completa, sottoposta solo ai principi della Costituzione. Da questo punto di vista, la riforma costituzionale impedisce ancora o relativizza notevolmente la possibilità concreta di creare un ordinamento locale realmente differenziato, mediante la fonte statutaria. Se si fosse lasciato alla potestà degli statuti il compito di individuare modalità di elezione degli organi e di definizione dei loro poteri, ma anche di individuazione delle funzioni, nel rispetto dei principi costituzionali, si sarebbe concretamente dato modo alle comunità locali di organizzarsi nel modo realmente più adeguato ai propri bisogni, ma anche alle proprie capacità operative. Invece, sarà ancora la legge statale ad ordinare il nucleo fondamentale (o uno dei principali aspetti) dell'ordinamento locale. L'unico modo, allora, per lasciare spazio più aperto agli statuti di incidere sull'ordinamento interno sarà, per il legislatore statale, dettare la disciplina elettorale, degli organi di governo e delle funzioni metropolitane mediante principi e non attraverso disposizioni concrete.

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Sta di fatto, però, che la riserva alla potestà legislativa dello Stato di queste competenze normative fa integralmente salve, nelle more di una necessaria rivisitazione del testo unico sull'ordinamento locale, tutte le norme contenute nel D.lgs 267/2000 relative alla disciplina elettorale, alla determinazione delle competenze degli organi di governo ed all'individuazione delle funzioni fondamentali. Ed è osservazione comune che proprio relativamente alle due prime materie (elezioni ed organi di governo) il D.lgs 267/2000 stabilisca non una disciplina di principi, ma al contrario una normazione dispositiva di estremo dettaglio. Basti considerare che gli articoli da 55 a 76 dettano integralmente, senza lasciare spazio alcuno alla disciplina statutaria, le norme sulle elezioni, sulla procedura e sull'elettorato attivo e passivo. Con riferimento agli organi di governo, la disciplina contenuta negli articoli da 36 a 54, nonché nell'articolo 107, del testo unico appare del tutto esaustiva e caratterizzata da un contenuto ampiamente dispositivo, che consente agli statuti solo di disporre ulteriori contenuti di carattere "facoltativo", in quanto ammesso in via facoltativa dalla legge, ma esclude, sostanzialmente, qualsiasi contenuto praeter legem, tanto specifico è il dettaglio del funzionamento e delle competenze degli organi, tale da esaurire completamente la regolamentazione della materia. Né la riforma costituzionale apparirebbe idonea a consentire la modifica, per via statutaria, del principio di separazione delle funzioni politiche da quelle di gestione, dato che detto principio appare diretta applicazione dei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento, come ha riconosciuto anche la giurisprudenza più recente (Tar Sardegna, 22.6.2001, n. 727). Se, allora, gli statuti debbono rispettare i principi fissati dalla Costituzione, non potrebbero, allora, derogare alla separazione delle competenze degli organi di governo e gestionali, senza violare i principi fissati dagli articoli 97 e 98 della carta costituzionale. Ancora, del tutto sottratto alla disciplina statutaria resterebbe lo status degli amministratori, integralmente regolato dagli articoli da 78 a 87 del testo unico, così come attuato dal DM 119/2000. Come si nota, dunque, alcuni dei nuclei fondamentali dell'ordinamento locale restano sostanzialmente nelle mani del legislatore e, per altro, del legislatore statale. C'è, però, da osservare che l'ordinamento locale non è, dall'8 novembre 2001 in poi, fissato solo dalla legge statale e dagli statuti locali. Indubbiamente, infatti, si pone, per le materie non previste dall'articolo 117, comma 2, lettera p), anche la potestà legislativa regionale, per altro di natura esclusiva. Il che significa che l'ordinamento locale appare composto (o componibile): 1) dalla legge statale; appare qui opportuna l'abrogazione dell'articolo 128 della Costituzione che si riferiva alle leggi generali della Repubblica in una concezione in cui lo Stato e la Repubblica tendevano ad essere la stessa cosa, mentre l'articolo 114 novellato differenzia la Repubblica, come composizione dei vari enti territoriali che la formano, e lo Stato che è uno tra gli enti territoriali (quello, però, dotato di sovranità) componenti; 2) dalla legge regionale, per tutte le materie non riservate alla legge statale; 3) dagli statuti locali, che operano, dunque, con norme di completamento e di differenziazione rispetto alla disciplina di principio fissata dalla Costituzione e disposta dalle leggi, in modo che, comunque, l'ordinamento locale sia compatibile con la prima. Si tratta di un ordinamento, dunque, estremamente composito ed al limite della frammentarietà, che probabilmente non gioverà alla chiarezza ed alla funzionalità del sistema. Con riferimento alle funzioni, infine, anche in questo caso pare possano continuare ad applicarsi senza problemi gli articoli 13, 19 e 23 del testo unico, i quali, per altro, presentano il pregio di disporre per lo più principi e non disposizioni. Il che consente agli statuti una diversificazione della disciplina delle funzioni, in un ambito più ampio di quello disegnato dall'articolo 1, commi 3 e 4, del D.lgs 267/2000, in quanto relativamente alla materia delle funzioni gli statuti dall'8 novembre 2001 in poi incontrano solo i limiti dei principi fissati dalla Costituzione. A questo punto, allora, bisogna chiedersi se le previsioni di cui all'articolo 1, commi 3 e 4, del testo unico possano ancora esplicare i propri effetti, all'indomani dell'entrata in vigore della riforma costituzionale. Anche in questo caso, la questione va affrontata distinguendo due distinti profili: le conseguenze sulla legge regionale e le conseguenze

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sugli statuti. Rispetto alla legge statale si è detto sopra che vi è, tutto sommato, armonia tra la nuova Costituzione ed il testo unico, anche se è evidente il difetto del testo unico medesimo di sottrarre spazio agli statuti a causa della disciplina dispositiva in esso contenuta. Quali, dunque, le conseguenze della legge 3/2001, rispetto ai rapporti tra articoli 1, commi 3 e 4, e leggi regionali? Le citate disposizioni vincolano, come è noto, il legislatore ad intervenire sull'ordinamento locale attraverso due precisi limiti: 1) in primo luogo, con la previsione (che tuttavia è solo un autolimite non certamente assurto a regola inviolabile) che il legislatore intervenga per lo più mediante una legislazione di principio, che enunci, renda cioè espliciti, quali principi siano inderogabili per l'autonomia statutaria; 2) in secondo luogo, con la previsione che eventuali deroghe e modifiche all'ordinamento locale possano essere disposte solo in via espressa. Orbene, appare che dette limitazioni alla potestà normativa non possano immediatamente produrre effetti nei riguardi della legge regionale. Infatti, si tratta di limitazioni che la legge statale ha posto a se stessa (sia pure nell'ambito del precedente regime costituzionale) e che non pare siano in grado di incidere sulle leggi regionali, a meno che non siano le stesse regioni ad introdurre, con proprie leggi, dette limitazioni. Infatti, l'ordinamento regionale, nell'ambito soprattutto della potestà legislativa esclusiva, appare autonomo (C. E. Gallo, in Problemi del federalismo cit., pag. 43) e non influenzabile dall'ordinamento dell'ente-Stato. Come rilevato sopra, infatti, la disciplina dell'ordinamento locale, ad eccezione delle sia pure rilevanti materie indicate dall'articolo 117, comma 2, lettera p), della Costituzione è assegnata alla potestà legislativa residuale ed esclusiva delle regioni. Detta potestà, a mente del comma 1 del medesimo articolo 117, è soggetta esclusivamente al rispetto della Costituzione e dei vincoli dell'ordinamento comunitario e degli obblighi internazionali. La legge statale ordinaria non può che determinare i principi fondamentali posti a delimitare la potestà legislativa regionale concorrente, ma non quella esclusiva. Dunque, difficilmente appare sostenibile che i commi 3 e 4 dell'articolo 1 del D.lgs. 267/2000 siano principi ai quali la legge regionale, nelle materie di esclusiva potestà legislativa, debba necessariamente adeguarsi. Per converso, allora, una legge regionale sull'ordinamento degli enti locali potrebbe certamente dettare un rapporto tra statuti e legge regionale medesima del tutto diverso da quello dettato dalle norme citate. Ovviamente, tuttavia, questa possibilità appare più astratta che concreta. Infatti, la valorizzazione delle autonomie locali ed il ruolo che lo statuto di comuni e province assume nella Costituzione, letto in combinato disposto con l'articolo 5 della carta fondamentale, dovrebbe comunque indurre a ritenere che le autonomie locali debbono essere tutelate soprattutto consentendo loro di determinare in via autonoma il proprio assetto. Pertanto, una legislazione regionale dell'ordinamento locale che ammettesse in linea generale una disciplina dispositiva di dettaglio, anziché una normativa di principi, e la possibilità di una continua modifica implicita dell'ordinamento, apparirebbe difficilmente conciliabile col nuovo assetto delle autonomie locali nella Costituzione. Ne consegue, allora, che gli statuti locali, proprio per essere espressamente previsti dalla Costituzione come elemento fondamentale e fondante delle autonomie locali debbono poter contribuire in maniera ampia e decisiva a porre l'ordinamento locale, nel rispetto della Costituzione (nello stesso senso, F. Romano, La riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione in L'ordinamento degli enti locali nel testo unico, Milano, 2001, pagg. 157-186). Da questo punto di vista, allora, appare, semmai, incongruente proprio il D.lgs 267/2000 (del resto sortito da un regime costituzionale molto diverso), in quanto contiene una regolamentazione dell'ordinamento locale così dettagliata da lasciare poco spazio all'ingegneria istituzionale statutaria, come ammette anche la dottrina da sempre propensa ad assegnare agli statuti un ruolo quasi pariordinato alla legge (L. Vandelli, Ordinamento delle autonomie locali, Rimini, 2000, pag. 145). Il legislatore statale dovrebbe intervenire sull'ordinamento locale per lasciare più ampi spazi agli statuti di fondare l'ordinamento interno degli enti. Il limite del rispetto dei

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principi fissati dalla Costituzione impedirebbe scelte limitative del principio della rappresentanza democratica o la creazione di un assetto organizzativo non adeguato alle leggi (per altro, gli statuti dovrebbero comunque dettare una normazione dell'apparato organizzativo conforme, adeguata alle disposizioni normative, giacchè, l'articolo 97, comma 1, della Costituzione riserva alla legge l'organizzazione degli uffici pubblici). Lo stesso dovrebbe accadere anche per il legislatore regionale. A questo punto, l'indagine deve spostarsi sull'individuazione delle materie nelle quali la legge regionale può legiferare in merito alle autonomie locali. In sostanza, si tratta di tutte le materie già previste dal D.lgs 267/2000, con l'eccezione di tutte le disposizioni ricadenti nelle materie di cui all'articolo 117, comma 2, lettera p), della Costituzione. Andando, allora, a guardare gli istituti fondamentali trattati dal D.lgs 267/2000, la legge regionale potrebbe disciplinare, nell'ambito della potestà esclusiva: 1) le disposizioni generali relative alle fonti dell'autonomia locale ed i loro rapporti con la legge e la Costituzione (artt. da 1 a 7); 2) il diritto d'accesso e la partecipazione (artt. da 8 a 12); 3) i soggetti e le funzioni da essi svolte, tenendo presente il rilievo che hanno comuni, province e città metropolitane, quali enti a rilevanza costituzionale (artt. da 13 a 26), con l'esclusione della regolamentazione delle funzioni svolte dai comuni per conto dello Stato (cittadinanza, stato civile ed anagrafe), materie assegnate alla potestà legislativa esclusiva dello Stato dall'articolo 117, comma 2, lettera i), della Costituzione; 4) le forme associative (artt. da 27 a 35); 5) l'organizzazione ed il personale, nel rispetto delle disposizioni del Codice civile, che non può essere soggetto a modifiche o deroghe da parte della legge regionale e dei principi in materia desumibili dalla Costituzione (artt. da 88 a 96); 6) i segretari comunali e provinciali (artt. da 97 a 106); 7) la dirigenza (artt. da 107 a 111); 8) i servizi pubblici locali, con la specificazione che relativamente alla produzione, trasporto e distribuzione a livello nazionale dell'energia, la potestà legislativa regionale è di tipo concorrente; 9) i controlli non tanto sugli atti, la cui disciplina appare preclusa alla legge regionale dall'abrogazione dell'articolo 130 della Costituzione, quanto sugli organi; 10) l'ordinamento finanziario e contabile. Si nota che l'ambito di intervento della legislazione regionale sull'ordinamento locale esclusiva ma anche concorrente è realmente vastissimo, tanto da poter concretamente realizzare comunque un ordinamento locale fortemente differenziato da regione a regione e da comune a comune, se la legislazione sarà realmente di soli principi. Tra le materie sopra elencate, due sembrano di notevole portata: l'ordinamento del personale e l'ordinamento finanziario e contabile. Anche se qualche voce sta sollevando dubbi in merito, dalla lettura sistematica della legge 3/2001 non sembra si possa negare che l'ordinamento del personale locale e regionale potrà fortemente differenziarsi da quello dello Stato, soprattutto perché la legislazione regionale, in questo campo, è esclusiva. L'articolo 117, comma 2, lettera g), infatti, assegna alla potestà legislativa esclusiva dello Stato solo l'ordinamento e l'organizzazione amministrativa dello Stato medesimo e degli enti pubblici nazionali. Ma poiché lo Stato non coincide più con la Repubblica, essendone solo uno degli enti componenti, è da escludere che la legge statale possa intervenire sull'ordinamento e l'organizzazione amministrativa delle regioni e degli enti locali. Poiché l'ordinamento del personale e dell'organizzazione degli enti territoriali non è compresa né nell'elencazione della potestà legislativa esclusiva statale, né nell'elencazione tassativa delle materie in cui la legislazione regionale è concorrente, occorre concludere che le regioni possano disciplinare l'ordinamento del personale e l'organizzazione amministrativa con proprie leggi, nell'esercizio della potestà legislativa esclusiva. Ciò comporta la perdita del primato che il D.lgs 165/2001 ha fin qui esercitato sull'organizzazione di tutto il personale alle dipendenze da pubbliche amministrazioni, non appena ciascuna regione avrà approvato una propria legge di disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti degli enti territoriali. E' difficile, qui, immaginare quali possano essere gli scenari potenzialmente presentabili. Si può, ad esempio, constatare che il principio della contrattualizzazione

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del rapporto di lavoro dei dipendenti presso amministrazioni pubbliche non sia di matrice costituzionale, ma posto dalla legge ordinaria. Pertanto, detto principio potrebbe, in linea teorica, essere abbandonato e modificato dalla legge regionale, che non incontrerebbe alcun ostacolo nelle previsioni del D.lgs 165/2001. Infatti, è da considerare caducata la previsione contenuta nell'articolo 1, comma 3, del citato decreto legislativo, che considera espressamente le sue disposizioni quali "principi fondamentali ai sensi dell'articolo 117 della Costituzione" quale limite alla potestà legislativa delle regioni a statuto ordinario ed, altresì, quali norme fondamentali di riforma economico sociale, come limite per la potestà legislativa delle regioni a statuto speciale. L'articolo 1, comma 3, del D.lgs 165/2001 appare assolutamente incompatibile col nuovo assetto costituzionale che subordina la legge regionale, ed in particolare la legge emanata nell'esercizio della potestà esclusiva, esclusivamente alla Costituzione. Dunque, va considerato come tamquam non esset: il che significa che le regioni, a partire dall'8 novembre 2001, potranno dettare le proprie norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche. Ciò vuol dire, allora, che teoricamente ciascuna regione potrebbe modificare l'articolo 2, commi 2 e 3, del D.lgs 165/2001, la norma, ovvero, che pone il principio della contrattualizzazione del rapporto di lavoro, sia nel senso di estendere ulteriormente l'applicabilità delle norme di diritto comune, sia nel senso opposto, praticamente senza incontrare alcun vincolo. Si porrà, semmai, il problema (che qui ci si limita ad accennare nei suoi contorni) del rapporto tra la legge regionale ed i contratti di lavoro. In questa fase, il rapporto di lavoro alle dipendenze da amministrazioni pubbliche è regolamentato da una serie di fonti distinte: il D.lgs 165/2001, le norme del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e delle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa non derogate dalla disciplina pubblicistica, le leggi regionali, le specifiche disposizioni del D.lgs 267/2000, nonché i contratti collettivi nazionali di lavoro. I quali, a mente dell'articolo 2, comma 2, possono anche disapplicare temporaneamente eventuali disposizioni di legge nuove e diverse rispetto al nucleo normativo indicato sopra. Pertanto, esiste un rapporto particolare tra legge e contratto collettivo, nel senso che le nuove leggi di completamento della disciplina del rapporto di lavoro possono, in ogni momento, subire disapplicazioni dalla fonte contrattuale. Ma tutto questo vale, però, solo per la legge statale. Il sistema sin qui sintetizzato potrebbe operare nell'ambito degli ordinamenti regionali solo a patto che le regioni non esercitino la propria potestà legislativa esclusiva (il che pare poco credibile, anche se è da immaginare che un intervento normativo delle regioni vedrebbe la luce solo tra qualche tempo), oppure che decidano di approvare una legge che rispetti integralmente il meccanismo fissato dal D.lgs 165/2001. La legge regionale, però, potrebbe, al contrario, porre un contenuto molto diverso: il che potrebbe anche creare seri problemi di coordinamento con la disciplina contrattuale collettiva di livello nazionale vigente al momento dell'emanazione della legge regionale. Per altro, si riscontra che nella Costituzione manca un momento di coordinamento tra regioni e tra Stato e regioni relativamente alla disciplina dell'organizzazione amministrativa (così, come del resto, per qualsiasi altra materia). Sembra, insomma, altamente probabile che proprio la riforma costituzionale possa costituire la spinta ulteriore verso il superamento della contrattazione collettiva di livello nazionale da parte della contrattazione collettiva regionale, obiettivo non celato dell'attuale coalizione di governo. Ciò potrebbe avere dei riflessi notevoli sull'ordinamento locale. In particolare sulla figura del segretario comunale, il cui ordinamento appare decisamente per intero nella disponibilità del legislatore regionale. Simmetricamente, l'attuale assetto del rapporto di lavoro del segretario comunale, sebbene possa continuare a vigere nelle more dell'entrata in vigore di una legge regionale di riforma, appare sin da subito inadeguato alla "regionalizzazione del rapporto di lavoro" dei dipendenti degli enti locali. In particolare, la presenza di un'Agenzia nazionale per la gestione dei segretari e di una Scuola superiore di formazione, anch'essa a livello nazionale, cozza con la disciplina di un'organizzazione del personale a livello regionale.

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Così come pare sin da subito inadeguata una contrattazione collettiva improntata sull'esistenza di comitati di settore espressione degli organismi associativi anche degli enti locali (Anci, Upi, Uncem…) che abbia il compito fornire gli indirizzi all'Aran per la contrattazione collettiva. La nuova struttura che potenzialmente può assumere l'assetto del rapporto di lavoro all'interno delle regioni, infatti, potrebbe oggettivamente rendere priva di senso la stessa presenza nei comitati di settore di rappresentanti, ad esempio, dell'Anci nazionale, dal momento che ciascuna sezione regionale delle forme associative degli enti locali potrebbe avere come base di confronto una sua specifica legge regionale e, dunque, una peculiare realtà normativa, finanziaria e territoriale da tenere in conto, diversa da quella delle altre 19 regioni. Particolarmente complesso, inoltre, appare il sistema finanziario e dei tributi, così come emerge dal nuovo disegno costituzionale. Infatti, in primo luogo appare difficile stabilire quali potestà legislative operino e con quali modalità, in concreto. L'articolo 117 non menziona l'ordinamento finanziario degli enti locali (e delle regioni) tra le materie riservate alla potestà normativa esclusiva statale. Il comma 3, tuttavia, menziona tra le materie della legislazione concorrente l'armonizzazione dei bilanci pubblici e il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. L'articolo 119, comma 2, dispone, inoltre, che comuni, province, città metropolitane e regioni hanno risorse proprie e stabiliscono ed applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Sembra, dunque, che la legge regionale non possa disporre nell'ambito della potestà legislativa esclusiva dell'ordinamento finanziario degli enti locali. Il combinato disposto tra l'articolo 117, comma 3, e l'articolo 119, comma 2, porta a ritenere che sia riservata ad una legge dello Stato la fissazione dei fondamentali principi di coordinamento della finanza, allo scopo di fare in modo che l'ordinamento tributario in particolare rimanga saldo ed omogeneo. Detta legge dello Stato sembra appartenere al genere delle leggi statali, previste appunto dall'articolo 117, comma 3, che nelle materie di legislazione concorrente hanno il compito di determinare i principi fondamentali, ai quali le regioni debbono attenersi. Anche se, per la verità, la forza limitante della potestà normativa regionale dei principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario di cui parla l'articolo 119, comma 2, della Costituzione appare più ampia. Mentre i principi generali relativi alla legislazione regionale concorrente possono essere, infatti, essenziali e generali, certamente la disposizione di cui all'articolo 119, comma 2, consente allo Stato di incidere in maniera molto rilevante sull'autonomia finanziaria e tributaria degli altri enti territoriali. Non a caso i primi commentatori (A. Catelani, Problemi del federalismo cit., pagg. 238-250) hanno sottolineato la sostanziale incongruenza tra il primo ed il secondo comma dell'articolo 119. Da un lato, infatti, la Costituzione attribuisce agli enti territoriali una forte autonomia finanziaria e di spesa, riconnettendo strettamente, per altro, il volume delle risorse reperite sul territorio allo svolgimento dei servizi: il comma 4 dell'articolo 119, difatti, stabilisce esplicitamente che gli enti territoriali debbono finanziare integralmente lo svolgimento delle funzioni loro attribuite soprattutto mediante le entrate proprie. Dall'altro lato, però, il principio della titolarità di tributi propri e, dunque, la potenziale capacità di autofinanziare completamente lo svolgimento delle attività e dei servizi sono pesantemente limitati appunto dalla limitazione all'autonomia tributaria scaturente dalla necessità, per gli enti territoriali, di rispettare non solo la Costituzione, ma anche i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. In altre parole, la lettera del comma 1 dell'articolo 119 dovrebbe determinare una finanza assolutamente decentrata, nella quale ciascun ente territoriale dovrebbe reperire dalla propria popolazione amministrata le entrate adeguate all'esercizio delle funzioni e servizi erogati. Il che dovrebbe, conseguenzialmente, comportare una riduzione del gettito fiscale statale ed un incremento differenziato delle entrate fiscali locali (F. Romano, op. cit.). Lo Stato, insomma, dovrebbe rinunciare alla finanza accentrata tipica del precedente regime e consentire agli enti territoriali di gestire da sé i tributi propri, incentivando indirettamente le amministrazioni ad applicare concretamente i principi di economicità dell'azione amministrativa: infatti, solo

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gestioni efficienti ed economiche consentiranno l'erogazione di prestazioni di qualità che non pesino eccessivamente sulle tasche dei contribuenti, i quali avranno modo di valutare con maggiore cognizione di causa la capacità di governo degli organi politici. Tuttavia, la presenza di leggi statali di coordinamento della finanza pubblica rende oggettivamente concreta l'eventualità che l'autonomia finanziaria degli enti territoriali resti più un'enunciazione di diritto e non si concretizzi in una realtà concreta. Per altro, tra gli interpreti si riscontra una discordanza sulla stessa rilevanza dell'autonomia finanziaria e tributaria, in particolare di comuni e province. Infatti, da un lato si pongono coloro i quali ritengono che l'autonomia finanziaria di comuni e province sia piena ed attuabile immediatamente, senza l'interposizione delle leggi statali, le quali dovrebbero intervenire solo a posteriori nell'opera di coordinamento (A. Cerri, Problemi del federalismo cit.). Altri, su questo versante, ritengono che comuni e province, in base al comma 1 dell'articolo 119, possono effettivamente stabilire tributi propri, con propri atti generali (A. Catelani, e F. Romano, cit.). Altri interpreti (L. Elia, intervento nel corso dell'indagine conoscitiva sugli effetti nell'ordinamento delle revisioni del Titolo V della parte II della Costituzione, audizione del 23 ottobre 2001; V. Caianello, intervento nel corso della medesima indagine, audizione pomeridiana del 24 ottobre 201) mettono in evidenza che l'articolo 119, comma 1, deve essere comunque letto in combinato disposto con l'articolo 23 della Costituzione, a mente del quale "nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge". La permanenza, allora, della riserva di legge in materia tributaria in realtà impedisce ai comuni di istituire tributi propri. Possono farlo le regioni, nell'esercizio della propria potestà legislativa, per istituire tributi regionali e locali. Ma comuni e province non hanno potestà legislativa: a loro, dunque, rimane comunque preclusa la possibilità di istituire tributi mediante fonti normative secondarie, quali i regolamenti. Potrebbero, come già previsto dalla normativa sull'Ici, intervenire con regolamenti attuativi ed integrativi delle disposizioni normative, le quali, dunque, avrebbero solo il compito di dettare una disciplina di tipo suppletiva, applicabile solo in quanto gli enti non esercitino la propria competenza regolamentare. Questa seconda tesi appare preferibile, in quanto l'articolo 119, comma 1, novellato della Costituzione non basta, da solo, a fondare la potestà di comuni e province di istituire tributi propri mediante regolamenti. Occorre una legge. A questo punto, provvederanno le regioni ad approvare le leggi istitutive dei tributi locali, dettando i criteri generali di applicazione degli stessi, lasciando liberi gli enti di stabilire, col regolamento, quali siano le aliquote nell'ambito di minimi e massimi predeterminati e a quali condizioni e per quali finalità i tributi si applichino. Le regioni, però, dovranno attenersi ai principi di coordinamento, che presumibilmente verranno dettati soprattutto con le leggi finanziarie. E detti principi dovrebbero essere enunciati non solo in via successiva e correttiva, ma, soprattutto, in via preventiva. La finanza pubblica deve consentire alla Repubblica il rispetto degli impegni internazionali assunti, soprattutto dei vincoli imposti dall'Unione Europea. Occorre, dunque, che il coordinamento sia attuato in modo tale da evitare pericolosi scantonamenti. Resta da chiedersi se, come ipotizzato dalla dottrina (F. Romano, op. cit.), in realtà il rapporto tra statuti e leggi non sarà più da definire in termini di gerarchia, bensì di competenza. Si potrebbe, infatti, ammettere che la sottoposizione degli statuti ai soli principi fissati dalla Costituzione consentirebbe ai primi di dettare norme capaci di prevalere sulle leggi ordinarie di rango primario, con la sola eccezione delle leggi di cui all'articolo 117, comma 2, lettera p), della Costituzione. Insomma, l'articolo 114, comma 2, della Costituzione potrebbe aver reso direttamente gli statuti una fonte speciale dell'ordinamento locale, idonea a disciplinare autonomamente tutti gli aspetti, né subordinata, né sovraordinata alla legge, ma unica fonte legittimata a dettare la disciplina ordinamentale locale nelle materie che la stessa Costituzione non abbia riservato al legislatore. Questa conclusione, che porterebbe alla definitiva esaltazione dell'autonomia di comuni e province, tuttavia non appare condivisibile. Perché due fonti possano stare tra loro in un rapporto di competenza, occorre che la fonte che a sua volta le disciplina (che in questo caso è la Costituzione) determini con esattezza le materie che ciascuna di essa è legittimata a disciplinare. Accorta dottrina (G. Zagrebelsky, Manuale di diritto costituzionale, vol. I – IL sistema delle fonti del diritto, Torino, 1996, pag. 67) sottolinea che perché vi sia effettivamente un rapporto

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di competenza tra fonti, occorre che le competenze dei due soggetti abilitati ad emanare le diverse fonti siano rispettivamente riservate. La normativa sulla competenza, in sostanza, deve delimitare i confini della competenza di ciascuno dei soggetti titolari della potestà ad emanare le fonti del diritto. Ma se una delle due fonti è in grado di dettare una disciplina nell'ambito dell'operatività dell'altra fonte, non si è in presenza del rapporto di competenza. Si possono dare, allora, due casi: in primo luogo, quello della gerarchia, consistente nella preferenza per l'applicabilità della regola dettata dalla fonte che ha il potere di espandere la propria forza normativa; oppure, se anche l'altra fonte potesse sovrapporsi all'altra, se, insomma, ciascuna fonte fosse in grado di espandere la propria disciplina oltre i confini dell'altra, allora si tratterebbe di fonti equivalenti, sicchè i reciproci rapporti sarebbero regolamentati dal principio di abrogazione. Ora, a ben guardare, la novella ala Costituzione non ha delimitato un ambito di intervento normativo esclusivo degli statuti di comuni, province e città metropolitane. Al contrario, ha impedito agli statuti di disciplinare le materie di cui all'articolo 117, comma 2, lettera p) e, contestualmente, ha rimesso alla potestà legislativa regionale la possibilità di regolamentare tutte le restanti materie dell'ordinamento locale. Non sembra, dunque, possibile sostenere che la legge costituzionale 3/2001 abbia posto statuti e leggi in una relazione di competenza. Spetterà al legislatore ordinario (statale e regionale) autolimitare la portata del proprio spazio normativo. Ma tali limiti potranno sempre ed in ogni momento essere violati, in quanto la legge ordinaria conserva pienamente la possibilità di disciplinare gli aspetti dell'ordinamento locale. Il che sta a significare che anche i regolamenti degli enti locali continuano ad essere soggetti alla legge. MAURIZIO GRECO Prime valutazioni in merito agli effetti della riforma costituzionale sulla normativa in materia di appalti pubblici La pubblicazione sulla G.U. della legge n. 3/2001 di riforma costituzionale, che entrerà in vigore l’8 novembre prossimo, costituisce l’occasione per tentare di fare un primo punto sulle possibili conseguenze della modifica dell’assetto istituzionale sulla normativa sugli appalti pubblici. In effetti, la valutazione complessiva delle conseguenze della modifica del titolo V della Costituzione sul riparto delle competenze legislative e amministrative tra i vari livelli di governo, nelle diverse materie, si presenta non agevole ed è senz’altro tale da richiedere più di un approfondimento, tanto che lo stesso Senato della repubblica ha sentito recentissimamente la necessità di avviare un’indagine conoscitiva, proprio per acquisire un quadro degli effetti e degli adempimenti normativi che attendono l’attuazione della riforma. I) Come noto, per effetto della modifica all’art. 117 Cost. lo Stato viene privato del potere normativo (legislativo e - tanto più - regolamentare) nelle materie non di sua competenza né esclusiva né concorrente, tra le quali i lavori pubblici e gli appalti. Tali materie, infatti, ricadono nella competenza esclusiva (“residuale”) delle regioni. A tal punto viene meno, al fine di delimitare l’ambito della potestà legislativa regionale, la necessità di identificare i lavori pubblici “di interesse regionale”, come invece era richiesto dalla precedente formulazione della norma costituzionale. Infatti, ad eccezione di quei lavori che potranno essere ancora disciplinati con legge dello Stato, in quanto ricadenti in una delle nuove materie di competenza statale (si pensi ad esempio alle grandi infrastrutture di trasporto), ogni altro lavoro pubblico, anche se eseguito o finanziato dallo Stato, sarà soggetto alla potestà legislativa regionale. Quindi, anche ipotizzando che residui allo Stato un potere di dettare in tale materia "principi di grande riforma economico sociale" (che, però, non si evince dall’attuale formulazione costituzionale), potrebbe comunque essere recata soltanto una disciplina di principio, mentre non sarebbe possibile adottare ulteriormente disposizioni di legge di dettaglio e norme regolamentari. Più precisamente, lo Stato viene privato del potere di dettare con efficacia sulle regioni e gli enti locali norme di rango regolamentare in materia di appalti, seppure sinora ritenute ricomprese nella materia della contabilità pubblica (come il R.D. n.

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827/1924), in quanto la nuova costituzione attribuisce allo Stato la potestà legislativa solo sull’ordinamento tributario e contabile “dello Stato”. Ciò rende, ad esempio, particolarmente impellente la questione se, tenuto conto che nella materia dei lavori pubblici la potestà - oltre che legislativa - regolamentare spetta soltanto alle regioni, l'Autorità di Vigilanza sui Lavori Pubblici possa ancora essere legittimata ad adottare atti di natura regolamentare e/o sub-regolamentare (analoga questione può porsi per gli atti di natura sanzionatoria, su cui - per principio generale - dovrebbe valere un canone di stretta legalità, a cominciare dalla fonte attributiva del potere). Viene, infine, travolto anche il potere statale di recepimento di direttive comunitarie (esplicatosi ad esempio nel D.Lgs. 157/1995, ecc.), in quanto nelle materie di propria competenza esclusiva il recepimento delle direttive spetta alle regioni. E’ indubbio - in conclusione - che le regioni potranno esercitare la propria potestà legislativa esclusiva, come prevede il nuovo art. 117, comma 1, nel solo rispetto della Costituzione, dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali (con costituzionalizzazione dei trattati internazionali e del trattato UE, come subito osservato dai più attenti commentatori), non sussistendo neppure il limite delle riforme economico-sociali imposto alle regioni a statuto speciale. II) Così rapidamente delineato il quadro delle nuove competenze normative in materia di appalti, ci si può domandare se e sino a che punto la legislazione statale ante-riforma comunque possa sopravvivere sino a quando le regioni non provvedano a legiferare in materia. Andrebbe infatti tenuto presente, da un lato, che già nel precedente assetto costituzionale le regioni (anche a statuto ordinario, si veda da ultimo la recente legge della Puglia sui lavori pubblici) potevano legiferare in materia, con il solo rispetto dei principi fondamentali, dall’altro, che l'ordinamento non tollera "vuoti". In tal senso, fino a quando le regioni non abbiano approvato le rispettive leggi, rimarrebbero in vigore le leggi statali; il sistema di successioni delle leggi infatti non permetterebbe che vi siano dei vuoti legislativi, salvo i casi di abrogazione espressa. Deve essere, tuttavia, rimarcato che la differenza rispetto al passato rispetto alle caratteristiche del potere legislativo delle regioni è, per l'appunto, che oggi vengono a mancare "i principi fondamentali" e comunque, in campo di potestà esclusiva, l'invocabilità di un meccanismo del tipo di quello previsto dalla legge Scelba, pensato in regime di potestà concorrente (in base al quale si applica la legge statale fino a quando la singola regione abbia disciplinato la materia). Come noto, il previgente art. 117 Cost. e la L. n. 62/1953 prevedevano che, nelle materie di competenza regionale concorrente, le leggi statali continuassero ad applicarsi fino a che la regione non avesse dettato le proprie norme, nel rispetto dei principi fondamentali delle leggi quadro statali o almeno dei principi desumibili dalle leggi statali in materia. Oggi la situazione è diversa, e il fatto che la normativa statale previgente sia stata emanata (ovviamente) in un momento in cui era costituzionalmente legittima, diviene irrilevante ai fini del problema posto, se cioè tale normativa (di principio, e tanto più di dettaglio) sia oggi "costituzionalmente" applicabile. In definitiva, occorre capire se la legalità dell'azione amministrativa in materia di appalti debba comprendere o meno anche la (nuova) legalità costituzionale. Volendo spiegarsi con un esempio, probabilmente alquanto impreciso ma significativo, si può fare riferimento alla situazione degli Stati Uniti, nei quali nelle materie non di competenza federale la legge federale non si applica e gli organi federali non hanno giurisdizione in tali fattispecie. Non è che si applica la legge federale fino a quando il singolo Stato abbia disciplinato la materia ecc.; si tratta di due "insiemi" che non hanno intersezioni (non a caso tale Paese è la culla del diritto di creazione giurisprudenziale). Procrastinare pertanto schemi logico-giuridici conosciuti potrebbe essere utile ad individuare nell'immediato la norma applicabile, ma rivelarsi errato dal punto di vista del corretto inquadramento della portata della riforma costituzionale. Come, infatti, è stato osservato sul concomitante problema dell’abolizione dei controlli di legittimità (in esito all’abrogazione dell’art. 130 Cost.), se si applica il principio della successione della legge nel tempo, una norma successiva, peraltro di rango superiore, che abroga una disposizione costituzionale, non può non abrogare implicitamente una norma precedente di rango ordinario, se questa risulti incompatibile con la prima.

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A questo punto, pertanto, la normativa statale previgente sugli appalti non sarebbe ulteriormente applicabile, una volta che sia stata abrogata la norma costituzionale che fondava il potere dello Stato di dettare norme in materia (salva la possibilità che le regioni richiamino nelle proprie norme le leggi statali, rendendole applicabili). D’altro canto, si potrebbe sostenere che non vi sono necessariamente vuoti nell'ordinamento (almeno in materia di appalti), perché sussistono, da un lato, le leggi regionali, che a questo punto assumerebbero una “vis espansiva”, venendo a disciplinare gli appalti “di interesse regionale” (intendendosi per tali, con un criterio ormai esclusivamente geografico e non più funzionale, quelli affidati nell’ambito del territorio regionale da qualunque ente, comprese le amministrazioni statali), dall’altro perché un ruolo fondamentale in materia di appalti è comunque giocato dalle direttive comunitarie. Inoltre, dovrebbe essere tenuto presente che vi sono vuoti dell'ordinamento amministrativo che sono stati colmati esclusivamente in via interpretativa e giurisprudenziale (in via meramente esemplificativa: occupazione acquisitiva; scelta del socio maggioritario delle s.p.a. locali; ecc.). Ancora, deve essere tenuto presente che la riforma costituzionalizza - sia pure in ordine all’esercizio delle funzioni amministrative (art. 119) - il principio "politico-sociale" della sussidiarietà orizzontale, onde l'autonomia privata - che ne è conseguenza giuridica - potrebbe giocare un ruolo maggiore che nel passato per la disciplina dei contratti anche della P.A. (nel senso che non tutto potrebbe o dovrebbe essere disciplinato con fonte "di diritto amministrativo"). Il problema - a tal punto - sarebbe non tanto la rapidità dell’attuazione della riforma costituzionale da parte delle regioni, ma la legittimità degli atti amministrativi che verranno adottati dopo l’entrata in vigore della legge di riforma stessa. III) Per dare un’idea, conclusivamente, dei problemi che si affacciano nel nuovo quadro costituzionale, ci si domanda ad esempio, nel caso di una gara di lavori in cui fosse richiesta la qualificazione SOA ai sensi del D.P.R. n. 34/2000, se un eventuale ricorso avverso il bando per contrasto con il (nuovo) art. 117 Cost., basato cioè sull'inapplicabilità sopravvenuta della normativa statale derivante dall'incompetenza assoluta dello Stato a normare - tanto più con fonte regolamentare - una materia di competenza esclusiva regionale, nonché sulla necessità e sufficienza della qualificazione ai sensi della direttiva comunitaria, o (eventualmente) della “concorrente” normativa regionale (anche se a suo tempo dettata per i soli lavori “di interesse regionale”), sarebbe fondato o meno. Al riguardo, secondo una tesi, la materia della qualificazione delle imprese esecutrici di lavori pubblici potrebbe continuare ad essere considerata di competenza esclusiva dello Stato, in quanto mirante a disciplinare la “tutela della concorrenza” nello specifico settore. Tuttavia, in primo luogo, se le regioni si dotano di diversi sistemi di qualificazione delle imprese esecutrici di lavori tra loro, la concorrenza non è più di tanto lesa, a meno che ovviamente sia consentito di qualificarsi soltanto alle imprese residenti nella regione. Non si tratta di qualcosa di molto diverso alla situazione in cui già oggi ci sono (o ci possono essere) regole diverse, in materia di sportello unico delle imprese, di "super-dia", ecc.. Se si contesta che gli operatori economici possano essere messi di fronte a regole diverse, a seconda delle zone del paese in cui possono svolgere la loro attività, in realtà, si dovrebbe contestare già oggi (o meglio ieri) l'urbanistica, la disciplina delle cave e miniere, il commercio, ecc.. In secondo luogo deve essere considerato che la tutela della concorrenza (elencata nel nuovo art. 117 Cost. a fianco di: moneta, tutela del risparmio e mercati finanziari, sistema valutario, sistema tributario e contabile dello Stato, perequazione delle risorse finanziarie) riguarda l'intervento della mano pubblica a regolare distorsioni "spontanee" del mercato quali concentrazioni, abusi di posizione dominante ecc. (ragione per cui è elencata nella disposizione costituzionale vicino alla tutela del risparmio e ai mercati finanziari), e non il fatto che il pubblico potere disciplini diversamente a livello territoriale alcuni aspetti dell'esercizio delle attività economiche. ALFONSO RICCARDO

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(Segretario/Direttore generale del Comune di Rometta - ME) Riforma costituzionale e controllo sugli atti: prime osservazioni sui riflessi immediatamente applicativi per il pianeta delle autonomie locali Una delle questioni che gli operatori del variegato pianeta delle autonomie locali dovranno immediatamente affrontare il giorno successivo alla entrata in vigore della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 recante modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione (a seguito dell’esito positivo del referendum confermativo svoltosi il recente 7 ottobre 2001) sarà senz’altro costituita dall’interpretazione degli effetti (più o meno precettivi) che l’abrogazione degli artt. 124, 1 comma, e 130 della Costituzione, determinano sul sistema dei controlli sugli atti delle regioni, delle province, dei comuni e degli altri enti locali. Sembra quindi utile formulare alcune prime riflessioni, proprio in forza della necessità di rispondere alla diffusa domanda circa “cosa fare adesso?”, atteso che in una parte rilevante di casi il problema del controllo non è fine a se stesso, ma legato al regime dell’esecutività degli atti che ne costituivano l’oggetto.

**** Ai nostri fini, è possibile selezionare alcune delle disposizioni costituzionali recentemente introdotte che assumono particolare rilievo. Il nuovo testo dell’art. 114 Cost., ai commi 1 e 2, recita: ”La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città Metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato” I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni, sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla costituzione.” In materia di riparto del potere legislativo, il nuovo testo dell’art. 117, al comma 2 lett. p), attribuisce alla esclusiva competenza dello Stato:”... legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città Metropolitane”. L’art. 120, nella nuova formulazione, stabilisce al secondo comma,: “Il Governo può sostituirsi a organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria oppure di grave pericolo per l’incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica ed in particolare dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali. La legge definisce le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione” Infine vi è da registrare l’espressa abrogazione dei seguenti articoli della costituzione: - art. 115, in materia di natura poteri e funzioni delle regioni (assorbito dalla disciplina ora prevista nel nuovo testo dell’art. 114); - art. 124, in materia di Commissario del Governo presso i capoluoghi di regione; - primo comma dell’art. 125 Cost., in materia di controlli di legittimità e di merito sugli atti amministrativi della Regione; - art. 129, che caratterizzava i comuni e le province anche come circoscrizioni di decentramento statale; - art. 130, in materia di controlli di legittimità e di merito sugli atti degli enti locali.

**** La portata fortemente innovativa delle disposizioni costituzionali sopra richiamate, induce a riflettere preliminarmente sul nuovo assetto dei pubblici poteri che la medesima produce, e ciò ancor prima di esprimere qualunque valutazione e elaborare fondate ipotesi applicative. Sembra chiaro, dalla nuova formulazione dell’art. 114 della Costituzione, il superamento di una strutturazione di tipo verticale dei soggetti titolari di generali poteri pubblici, secondo uno schema sostanzialmente gerarchico che prospettava lo stato centrale al suo vertice, ed a seguire in forma graduata regioni, province e comuni. Gli sforzi interpretativi di ricostruire intorno al principio del decentramento l’organizzazione funzionale e l’autonomia degli enti territoriali, hanno sempre dovuto fare i conti con l’obiettiva posizione di “ontologica” supremazia in cui lo Stato era collocato nel previgente assetto costituzionale. La novella dell’art. 114 Cost., cancella l’accezione di ripartizione, con riferimento alla strutturazione della repubblica (nel vecchio testo immedesimata nello stato) in regioni,

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province e comuni, il che determina il superamento di qualunque ricostruzione degli enti in questione sia come circoscrizioni di decentramento statale, ma anche e sopratutto come enti che seppure autonomi erano collocati in posizione sottordinata. Nel nuovo testo si dice espressamente che la repubblica è “costituita” da regioni, province, comuni, città metropolitane e stato, secondo i principi fissati dalla costituzione, il che produce una strutturazione di tipo orizzontale, che organizza i pubblici poteri secondo il principio di sussidiarietà, in forza del quale la titolarità del potere pubblico è data non già dalla posizione di maggiore o minore supremazia, quanto dall’effettivo rapporto con la popolazione ed il territorio che sono destinatari del relativo esercizio. In tale prospettiva, i rapporti tra i soggetti pubblici che, a norma del nuovo testo costituzionale, “costituiscono” la repubblica, non possono più essere ricostruiti in termini di gerarchia tra gli stessi, quanto piuttosto in termini di competenza e di concreto riparto delle funzioni pubbliche tipiche (legislativa, amministrativa, giudiziaria) che la costituzione nel suo nuovo testo espressamente ridefinisce. Ciò che appare pertanto è una condizione di sostanziale “pari soggettività” o “pari dignità” costituzionale fra Stato, Regioni, Comuni, Province e Città metropolitane, quali enti autonomi costituenti l’organizzazione dei poteri pubblici.

**** La conseguenza necessaria ed irrinunciabile di tale innovato assetto organizzativo dei pubblici poteri è costituita dalla coerente abrogazione espressa di tutte quelle disposizioni costituzionali che in qualche modo riproducevano a cascata una concezione gerarchica dei rapporti tra Stato ed enti territoriali, con particolare riferimento al sistema dei controlli di legittimità (ed in taluni casi di merito) sugli atti di Regioni, Province, Comuni ed altri enti locali. Il controllo di legittimità amministrativo sugli atti, esercitato da un organo che emana da un’altra amministrazione (statale o regionale) costituisce la più chiara manifestazione della obiettiva condizione di subordinazione in cui viene a trovarsi strutturalmente l’ente destinatario. Il nuovo testo della costituzione quindi, da un lato in forma espressa, procede ad una innovativa ridefinizione dei rapporti e delle competenze tra i soggetti titolari di pubbliche funzioni, e dall’altro ne trae le indispensabili conseguenze in tema di rispetto dell’autonomia riconosciuta abrogando le norme costituzionali incompatibili con il nuovo assetto. L’unica riserva di intervento del governo statale, con carattere di controllo sostitutivo sugli organi [1], (e non già sugli atti) è legata in generale, nel nuovo testo dell’art. 120, secondo comma, ad una serie di ipotesi generalissime finalizzate ad assicurare in via amministrativa il rispetto del principio fondamentale dell’unità ed indivisibilità della nazione (cfr. art. 5 Cost.), nei molteplici aspetti in cui esso potrebbe essere gravemente leso dall’esercizio distorto dell’autonomia degli enti, e sempre nel rispetto equilibrato di due principi di eguale dignità costituzionale, quali il principio di sussidiarietà e quello di leale collaborazione, che contestualmente vengono introdotti.

***** E’ in tale scenario che oggi va conseguentemente reinterpretata la disciplina del controllo sugli atti di Regioni, Province, Comuni ed altri enti locali, e delle possibili funzioni che utrattivamente all’entrata in vigore delle nuove norme costituzionali gli organi di controllo potranno esercitare. Il punto di partenza è quindi costituito dall’innovativo dato costituzionale che non solo abroga espressamente le disposizioni in materia di controllo sugli atti, ma che rende i controlli stessi del tutto incompatibili (e di conseguenza costituzionalmente illegittimi), con il riparto delle funzioni pubbliche che contestualmente questo introduce. In tale prospettiva è opportuno precisare che anche a regime, e cioè superata la prima fase di entrata in vigore nelle nuove disposizioni costituzionali, è da escludere che le regioni possano nell’esercizio della propria competenza legislativa, istituire forme di controllo sugli atti degli enti locali, pena la relativa incostituzionalità per violazione degli artt. 114 e ss. della costituzione [2]. Sarà pertanto compito dell’ordinamento di ciascuna amministrazione (statale, regionale o locale) il predisporre in sede statutaria e regolamentare un compiuto sistema di controlli interni, la cui attivazione sarà espressione della autonomia

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costituzionalmente riconosciuta, e l’effettivo esercizio la misura della connessa responsabilità degli organi locali. Il problema non può che intendersi quindi come disciplina di diritto transitorio, in assenza di una espressa pronuncia del legislatore costituzionale in merito. Tralasciando i rapporti tra Stato e Regioni, per motivi di brevità, e venendo alla situazione concreta in cui gli operatori degli enti locali vengono conseguentemente a trovarsi, ci si chiede: - che succede ai Comitati Regionali di Controllo? - le deliberazioni dei Consigli e delle Giunte soggette a controllo necessario vanno inviate agli organi di controllo? E questi possono legittimamente esercitare il controllo stesso? - sono ammissibili i controlli eventuali su richiesta dei Consiglieri Comunali? - quale è il regime di esecutività delle deliberazioni nei casi di controllo necessario o su richiesta? Le soluzioni ipotizzabili [3] sono ovviamente diverse, anche se riconducibili essenzialmente a due. La prima di queste, pur prendendo atto dell’intervenuta riforma costituzionale, porta a considerare che sussistono comunque fonti di legge ordinaria (statale e regionale) che regolano il controllo sugli atti degli enti locali, per cui fino a quando queste non verranno espressamente abrogate, dovrebbe continuarsi ad applicare la legislazione ordinaria vigente in materia di controllo sugli atti. In buona sostanza gli atti dovrebbero regolarmente essere inviati ai comitati regionali di controllo e questi esercitare il controllo medesimo, il tutto fino ad un espresso intervento legislativo sulla materia. Una variante a tale soluzione interpretativa potrebbe essere costituita dalla necessità di differire l’effettiva cessazione dei controlli sugli atti ad una modifica agli statuti degli enti locali, i quali, oltre a regolare alla luce del nuovo assetto costituzionale un nuovo sistema di controlli interni, dovrebbero introdurre una precisa disciplina della esecutività delle deliberazioni dei consigli e delle giunte, atteso che per gli atti soggetti a controllo, l’esecutività degli stessi risulta legata ex lege all’esito del controllo medesimo. La seconda soluzione ipotizzabile è quella che prendendo atto del nuovo quadro costituzionale, anche in forza del principio di successione delle leggi nel tempo, conduce a ritenere abrogate non solo le norme costituzionali che legittimavano il controllo, ma altresì tutte le disposizioni di legge ordinaria e/o regolamentare che concorrono a disciplinare il controllo di legittimità sugli atti degli enti locali. Conseguentemente verrebbe a cessare immediatamente l’attività dei comitati regionali di controllo, e le deliberazioni di consiglio e giunta, fermo restando il regime della pubblicità previsto dalle vigenti disposizioni (Albo Pretorio in particolare) diverrebbero esecutive a norma dell’art. 134, comma 3, del Tuel D.Lgs. 267/00, seguendo il regime dell’esecutività degli atti non soggetti a controllo (necessario o eventuale) almeno fino all’adozione di una diversa disciplina statutaria (venendo meno la categoria degli atti soggetti a controllo, tutti gli atti dovrebbero considerarsi non soggetti a controllo sotto il profilo della disciplina della rispettiva esecutività).

**** Pur comprendendo le ragioni concrete, che la prima delle soluzioni prospettate porta con sé, non può non prendersi atto della sostanziale inammissibilità della stessa, e conseguentemente propendersi per la seconda delle soluzioni prospettate. Peraltro tale soluzione appare coerente con quanto pacificamente sostenuto dalla dottrina gius-costituzionale in materia incompatibilità di disposizioni di legge ordinaria con sopravvenute disposizioni costituzionali (G. Zagrebelsky) [4]. In buona sostanza non pare vi siano dubbi sull’applicabilità del principio di successione di leggi nel tempo anche tra fonti di grado diverso, ed in particolare tra fonti di grado costituzionale e legge ordinaria, per cui è davvero impensabile che l’effetto abrogativo delle norme sottoordinate incompatibili dovrebbe essere differito a momenti successivi a quello dell’entrata in vigore delle nuove norme costituzionali, le quali assumono, in assenza di contenuto programmatico, diretta portata precettiva. La stessa scelta del legislatore costituzionale di non pronunciarsi sul regime transitorio deve essere letta come opzione per una diretta ed immediata applicazione delle norme e dei principi introdotti.

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Diversamente opinando dovrebbe sostenersi che l’applicazione delle norme costituzionali sia demandata nel caso di specie ad un diverso livello di potestà normativa (statale, regionale o locale), il che oltre che illegittimo sotto il profilo costituzionale, appare anche privo di razionalità.

**** In conclusione sembra possibile suggerire agli operatori degli enti locali con sufficiente certezza, di procedere nella gestione amministrativa delle deliberazioni degli organi di governo secondo il percorso interpretativo sopra tracciato. Peraltro occorrerà abituarsi ad agire con assunzione diretta di decisioni e responsabilità, proprio in relazione al nuovo assetto costituzionale in cui gli enti vengono ad operare. L’autonomia riconosciuta si coniuga direttamente con la responsabilità politica e amministrativa, per cui la crescita dell’una aumenta parallelamente e nella stessa misura il livello dell’altra. NOTE [1] In questa sede si è ritenuto opportuno limitare, per motivi di brevità, l’analisi al controllo sugli atti. Tuttavia il controllo sugli organi dovrà essere rivisto e reinterpretato alla luce delle nuove disposizioni costituzionali, e ciò anche per le regioni a statuto speciale come ad esempio per la Sicilia, che conserva una legislazione nella quale viene riconosciuto all’Assessorato Regionale agli Enti Locali un ruolo di forte controllo sostitutivo ed ispettivo sulle attività degli enti locali. [2] Sotto questo profilo, in particolare, si avverte l’incompletezza della riforma, cui avrebbe dovuto coniugarsi una revisione della disciplina dei giudizi di costituzionalità delle leggi , prevedendo ad esempio la possibilità per i comuni e le province di sollevare conflitto di attribuzioni innanzi alla Corte Costituzionale nel caso di leggi ordinarie statali e regionali che violassero i principi sopra richiamati. Nelle more gli enti locali non avranno altro modo per difendere le proprie prerogative, che sollevare tali questioni di legittimità costituzionale in via incidentale all’interno dei giudizi che via via si dovessero instaurare in caso di atti e provvedimenti degli enti locali che, impugnati da terzi per pretesa violazione di legge ordinaria (statale o regionale) ove l’ente locale costituitosi potrebbe eccepire l’illegittimità costituzionale delle norme di legge in quanto ritenute lesive dell’autonomia riconosciuta dalla costituzione agli enti locali. [3] Può essere interessante citare in questa sede la peculiarità della situazione siciliana, che per un insieme di ragioni, ha in qualche modo anticipato nell’ordinamento regionale, la questione. In particolare i componenti degli organi di controllo siciliani sono venuti a scadenza dal relativo incarico a far data dal primo gennaio del 2000. Da quella data a tutt’oggi non è intervenuta alcuna legge regionale né di proroga delle funzioni, né tantomeno di modifica del sistema dei controlli pur in presenza di una serie numerosa di disegni di legge regionale in materia. A tale quadro legislativo si sono alternate tutta una serie di interpretazioni obiettivamente “schizofreniche” degli operatori. In particolare l’Assessorato Regionale agli enti locali ha affermato con apposita circolare (15/99) l’immediata cessazione dell’attività dei comitati regionali di controllo; in una prima fase tutti i comitati hanno regolarmente continuato a funzionare disattendendo la citata circolare; nell’autunno del 2000 tutti i comitati hanno cessato di riunirsi seguendo l’orientamento della sezione centrale di Palermo; quindi a seguito di una decisione (peraltro discutibile) del T.A.R. Sicilia – Sez. Catania 21.12.2001, Sent.N. 2417 (v. Giust.it 12/200, anche per un orientamento diametralmente opposto del T.A.R. Sicilia – Sez. Palermo, Sent. N.1951/2001 ), che ha riconosciuto la legittimazione dei componenti degli organi in ragione dell’art. 130 Cost., le sezioni della Sicilia orientale (ove spiga la sua competenza la sezione di Catania del TAR Sicilia) continuano a riunirsi ed operare, mentre (sembra) che quelle delle Sicilia occidentale, e senz’altro la Sezione centrale di Palermo, non hanno ripreso la loro attività. In tale quadro ben variopinto, (cui si augura senz’altro non incorra la restante parte dello “stivale”) l’interpretazione “salvacondotto” che la maggior parte degli enti ha adottato è stata quella di trasmettere comunque all’organo tutorio gli atti per il controllo, attendendo il decorso del tempo previsto dalla legge nel caso in cui l’organo di controllo decidesse di non riunirsi o pronunciarsi. Tale scelta, seppure problematica, appare comunque ragionevole in un sistema in cui il controllo sugli atti era comunque previsto dalla legge regionale, mentre non ne erano

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legittimati i componenti degli organi di controllo (non nascondendo il vizio di autoreferenzialità che il ragionamento propone: come sussiste un organo senza componenti?), oggi non è più proponibile essendo venuto meno proprio il quadro costituzionale che giustificava la legislazione regionale in materia di controllo con la conseguente incompatibilità della stessa. [4] g. zagrebelsky, La Giustizia Costituzionale, Bologna, 1995, p. 140 e ss. Un diverso problema potrebbe porsi esclusivamente in sede di contenziosa, circa ammissibilità del giudice direttamente dichiari l’abrogazione della legge per incompatibilità con la costituzione, oppure sulla necessità che tale dichiarazione spetti comunque alla Corte Costituzionale. Il che in ogni caso non sposta i termini della questione che stiamo affrontando. GIOVANNI VIRGA I nuovi principi costituzionali non possono abrogare per implicito le disposizioni delle leggi previgenti Le recenti modifiche al capo V della Costituzione, introdotte con la legge 18 ottobre 2001, n. 3, hanno animato un acceso dibattito, del quale si è dato conto nella presente rivista (1), circa la persistenza o meno del sistema dei controlli sugli atti degli Enti locali da parte dei CO.RE.CO. Tale dibattito impone un breve intervento, anche al fine di evitare che le amministrazioni interessate siano fuorviate dalle tesi fin qui sostenute (quasi tutte concordi nel ritenere implicitamente abrogati i controlli a decorrere dall’8 novembre 2001, data di entrata in vigore della citata L. costituzionale n. 3/2001) e rimangano esposte ad azioni (anche di responsabilità) che potranno essere intentate a seguito della mancata sottoposizione al controllo di atti deliberativi e della attribuzione ad essi dell'immediata efficacia. Gli argomenti utilizzati da coloro che propendono per una presunta abrogazione tacita ed immediata delle disposizioni che prevedevano i controlli sugli ee.ll., fanno essenzialmente leva su due aspetti: a) la circostanza che è stato abrogato espressamente l’art. 130 Cost., il quale offriva in precedenza copertura costituzionale ai controlli sugli ee.ll.; più in generale si è fatto riferimento, per sostenere la tesi, ad una serie di principi contenuti nel nuovo titolo V della Costituzione dai quali deriverebbe la postulata abrogazione per incompatibilità delle norme statali in materia; b) si è anche osservato (ma tale osservazione, a ben vedere, costituisce nient’altro che ulteriore utilizzo, sotto altro profilo, dell’argomento sub a) che l’articolo 126, comma 1, del D.lgs 267/2000, nel prevedere il controllo preventivo sugli atti locali, fa espresso riferimento all’ormai abrogato art. 130 della Costituzione. Si tratta di argomenti certo non irrilevanti, ma che non reggono ad un attento vaglio critico. Per quanto riguarda l’argomento sub a), va premesso che, secondo l’orientamento costante della giurisprudenza costituzionale, l’abrogazione di una legge, nel caso in cui essa si ponga in contrasto con la Carta costituzionale, presuppone una esplicita pronuncia del Giudice delle leggi. Costituisce infatti fondamentale principio di diritto costituzionale quello secondo il quale la circostanza che una legge sia sospetta di incostituzionalità ovvero addirittura si ponga in rotta di collisione con i principii della nostra Carta costituzionale, non rende ex se inoperante od abrogata (per implicito) la norma stessa, ma presuppone una esplicita pronuncia da parte del Giudice delle leggi. Non a caso, pur dopo l’avvento della nuova Costituzione repubblicana, sono rimaste in piedi (sino a quando non sono cadute sotto la scure della Corte costituzionale) diverse norme previste dal previgente ordinamento fascista, nonostante che molte di esse fossero in palese contrasto con la nuova Carta costituzionale. Vero è che, secondo l’altrettanto costante orientamento della giurisprudenza, il giudice, fra le diverse interpretazioni possibili di una norma, deve interpretare quest'ultima secondo Costituzione, ma tale principio non esime lo stesso giudice, nel caso di contrasto tra norma e principio costituzionale, dal sollevare in via incidentale questione di legittimità costituzionale. Sostenere, come pur è stato fatto, che il contrasto tra norma e principio si risolva nel senso dell’abrogazione implicita della prima mi sembra proprio insostenibile.

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Nella specie peraltro non si parla solo di una presunta abrogazione implicita (per incompatibilità) della legislazione statale che prevede i controlli sugli ee.ll. a seguito del nuovo assetto costituzionale determinato dalla entrata in vigore del nuovo testo del capo V della Costituzione, ma anche del fatto che con quest’ultimo testo sarebbe venuto meno "l’ombrello" costituzionale che prevedeva i controlli. Questo secondo argomento ulteriormente conferma quanto si è appena detto: per ritenere abrogate le norme sui controlli sugli atti degli enti locali occorre una esplicita pronuncia da parte del Giudice costituzionale. Sostituirsi ad esso per sostenere una abrogazione tacita non sembra, anche sotto questo profilo, ammissibile. Ancor più debole è l’argomento sub b) (e cioè il fatto che l’articolo 126, comma 1, del D.lgs 267/2000, nel prevedere il controllo preventivo sugli atti locali, fa espresso riferimento all’abrogato art. 130 della Costituzione), dato che il riferimento esplicito all’art. 130 Cost. contenuto nella citata norma del T.U. EE.LL. non può far ritenere abrogata (per implicito) la norma stessa, ma semmai può fare ritenere abrogato solo il suo richiamo alla Costituzione. Deve pertanto concludersi (anche a costo di essere automaticamente qualificati come dei "conservatori" e comunque "non progressisti" dai sostenitori della tesi appena esposta), che il nuovo assetto costituzionale che verrà a determinarsi il giorno dell’entrata in vigore della legge 18 ottobre 2001, n. 3, non comporterà alcuna implicita abrogazione delle norme in materia, ma la loro perdurante vigenza, in attesa o che intervenga una esplicita pronuncia da parte del Giudice delle leggi, a seguito di giudizio incidentale di legittimità costituzionale, ovvero che l’autonomia prevista nei riguardi degli enti locali trovi espressa attuazione con apposite norme regionali che diano applicazione ai nuovi principi costituzionali. Solo in quel caso potrà parlarsi infatti di abrogazione implicita per incompatibilità. L’abrogazione per incompatibilità di una norma può avvenire, infatti, nel nostro ordinamento, per l'insanabile ed esplicito contrasto con altra norma e non già per il suo contrasto con principi costituzionali, non essendo ammesso il sindacato diffuso da parte del giudice di merito e men che mai da parte dell’interprete. Ragioni di prudenza, oltre che l’applicazione dei comuni principi in tema di sindacato sulle leggi, inducono pertanto a suggerire alle amministrazioni interessate di continuare a sottoporre a controllo le delibere in base alla vecchia normativa la quale, anche se ritenuta in contrasto con il nuovo assetto, non può essere ex se disapplicata dall’amministrazione. Tra il sospetto di incostituzionalità di una norma e la sua dichiarazione intercorre infatti la stessa distanza che si rinviene nel processo penale tra indizio ed accertamento della colpevolezza. ALBERTO BARBIERO (Consulente in materia di attività ed organizzazione degli Enti Locali) Le leve dell’autonomia finanziaria ed economica delle Autonomie territoriali (un’analisi dell’art. 119 della Costituzione secondo la

formulazione prodotta dalla l. cost. n. 3/2001) L’assetto delle Autonomie territoriali derivante dalla legge costituzionale n. 3/2001 ha il suo fulcro nell’autonomia finanziaria riconosciuta a Regioni ed Enti Locali. Il quadro rappresentativo di tale profilo si rinviene nell’art. 5 della stessa legge, modificativo dell’art. 119 della Costituzione, con definizione di una completa riconfigurazione degli strumenti e delle leve economiche finalizzabili allo sviluppo locale. Il riconoscimento dell’autonomia finanziaria si ha sia sul versante dell’entrata sia su quello della spesa, con revisione sostanziale delle logiche di fondo sulle quali la stessa si fonda. L’impostazione dell’autonomia desumibile dal nuovo dettato costituzionale viene ad essere focalizzata non su un sistema "misto" (come quello attuale, nel quale, soprattutto per i Comuni, i trasferimenti erariali costituiscono dato di risorsa di straordinaria importanza), bensì su linee di impostazione dalle quali emergono ruoli completamente differenti di Enti Locali e Regioni, dato che questi soggetti istituzionali sono ora chiamati a "produrre" integralmente le risorse gestibili per alimentare la propria attività e la realizzazione dei compiti fondamentali attribuiti.

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Il comma 2 dell’innovato art. 119 concettualizza questo differente approccio stabilendo che Comuni, Province, Città Metropolitane e Regioni hanno "risorse autonome", ma anche evidenziando i percorsi che gli stessi devono seguire per ottenerle: a) definendo ed applicando tributi ed entrate (di varia natura) propri, secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica; b) disponendo di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibili al loro territorio. Risulta di tutta evidenza il nuovo ruolo di "decision makers" delle Autonomie territoriali nella delicatissima materia dell’imposizione tributaria, a fronte di una posizione che implica la strutturazione di politiche fiscali organiche. Le risorse individuate come elemento caratteristico del dettato normativo dell’innovato art. 119 della Costituzione si prefigurano quindi come le leve economiche attraverso le quali si viene a tradurre, sotto il profilo dell’effettività, l’autonomia finanziaria. L’equilibrio tra i sistemi correlati ai differenti livelli istituzionali ha piena garanzia nella determinazione (ex lege) di un fondo perequativo, con composizione senza vincoli di destinazione, da utilizzare per salvaguardare gli assetti-chiave dei territori con minore capacità fiscale per abitante. La finalizzazione delle risorse delle Regioni e degli Enti Locali è determinata (al quarto comma dell’art. 119) nel finanziamento integrale delle funzioni pubbliche attribuite a tali livelli di governo. Tale elemento reimposta le logiche di responsabilità entro le quali devono operare le Autonomie Locali, a fronte dell’indubbia rilevanza che assumono per le stesse le entrate proprie, sia in termini dimensionali, sia sotto il profilo della qualificazione delle componenti economiche. La gestione delle risorse proprie viene ad essere delineata nel dettato costituzionale come meccanismo perfettibile e comunque integrabile da interventi dello Stato finalizzati a: a) promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale; b) rimuovere gli squilibri economici e sociali; c) favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona; d) provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle funzioni attribuite alle Autonomie Territoriali. Tali interventi si possono tradurre in assegnazioni di risorse aggiuntive o nell’effettuazione di iniziative speciali "orientate" sugli Enti Locali o sulle Regioni necessitanti del particolare supporto. L’autonomia economico-finanziaria è associata per ciascuno di questi soggetti istituzionali alla disponibilità di un patrimonio, attribuito secondo principi generali definiti dalla legge statale. Alle Autonomie Territoriali è data possibilità di sviluppare l’intero quadro di elementi in propria disponibilità anche facendo ricorso all’indebitamento, ma con determinazione di due vincoli piuttosto rilevanti (sempre ispirati alla logica della responsabilità accentuata): a) l’indebitamento può aversi solo per finanziare spese di investimento (quindi con strumenti sufficientemente codificati, come i mutui); b) è esclusa ogni garanzia dello Stato sui prestiti contratti da Enti Locali e Regioni. La prospettiva si ha in un vero e proprio "mutamento" dei percorsi gestionali del complesso delle risorse: la decisione dell’Ente Locale viene ad essere ora configurata come risultato di elaborazioni strategiche, determinante orientamenti "pesanti" in ordine ai flussi di spesa ed alla destinazione delle entrate, anche su base pluriennale.

Ancora sull’abrogazione dei controlli sugli atti degli ee.ll. Alla vigilia della entrata in vigore (8 novembre 2001) della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3,recante modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione, assume assoluta rilevanza il dibattito che si è acceso su una delle problematiche di maggior rilievo per gli enti locali, segnatamente la sorte dei controlli di legittimità sugli atti.

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Nella specifica materia si sono formate due (potremmo così definirle) “scuole di pensiero”. Una che sostiene l’implicita abrogazione dei controlli a decorrere dalla data di entrata in vigore della l. n°3/2001, l’altra che sostiene la necessità di un espresso intervento del giudice delle leggi, a seguito di giudizio incidentale di legittimità costituzionale, ovvero l’intervento del legislatore (regionale) per dare applicazione ai nuovi principi costituzionali (1). La tesi dei sostenitori della immediata abrogazione dei controlli si basa,in buona sostanza, sulle seguenti argomentazioni: 1) con l’abrogazione dell’art. 130 della Costituzione è venuta meno la copertura costituzionale ai controlli sugli enti locali; 2) l’articolo 126, comma 1, del D.Lgvo 267/2000, nello stabilire quali atti sono assoggettati al controllo di legittimità, fa espresso riferimento all’art. 130 della Costituzione; 3) nel nuovo Titolo V della Costituzione è contenta tutta una serie di principi con i quali le norme statali in materia di controllo sarebbero assolutamente incompatibili,donde la loro abrogazione implicita. Si sostiene dall’altra parte (2) che,secondo il costante orientamento del Giudice delle leggi: 1) Costituisce fondamentale principio di diritto costituzionale quello secondo il quale la circostanza che una legge sia sospetta di incostituzionalità ovvero si ponga in rotta di collisione con i principi della Costituzione, non rende ex se inoperante o abrogata la norma stessa, ma presuppone una esplicita pronuncia da parte del Giudice delle leggi; 2) L’orientamento costante della giurisprudenza in base al quale, fra le diverse interpretazioni possibili di una norma deve preferirsi quella conforme alla Costituzione, non esime lo stesso giudice,nel caso di contrasto tra norme e trincio costituzionale,dal sollevare n via incidentale questione di legittimità costituzionale. Conseguentemente, l’entrata in vigore della legge costituzionale non comporterà “alcuna implicita abrogazione delle norme in materia”. A questo punto la domanda se le deliberazioni degli enti locali, dopo l’8 novembre 2001, sono ancora assoggettate al controllo di legittimità e,quindi, devono essere ancora inviate all’organo di controllo che seguiterà ad esercitare sulle stesse il controllo, resta senza una risposta univoca. Si deve,pertanto,ritenere che l’approccio alla problematica che ne occupa debba effettuarsi partendo da un diverso ordine di considerazioni,vale a dire che per sostenere la tesi della immediata cessazione dei controlli di legittimità sugli atti degli enti locali, più che far leva sull’istituto della abrogazione implicita delle disposizioni di legge previgenti alla riforma della Costituzione per incompatibilità delle stesse con i nuovi principi costituzionali (argomento, peraltro, che seppure non irrilevante può essere, come visto, confutato), si debba, piuttosto, ragionare, in ordine all’esercizio del controllo di legittimità, in termini di effettività di potere e ricercare quale sia la fonte attributiva del potere stesso. Vale a dire che deve essere stabilito se l’imputazione della funzione di controllo di legittimità sugli atti degli enti locali ad un organo della regione (il cui carattere regionale rileva esclusivamente al fine della sua ascrizione all’Ente Regione sotto il profilo strettamente organizzativo), sia da ascriversi all’art. 130 della Costituzione, ovvero alle leggi statali emanate in materia di controlli. Infatti, posto che l’attività di controllo è attività funzionalizzata il cui espletamento si sostanzia, pertanto,nell’esercizio di una funzione (amministrativa), affinché l’esercizio della funzione stessa possa avvenire legittimamente è necessario che esista, nell’ordinamento giuridico, una norma che riconosca, vale a dire attribuisca, a quel complesso organizzatorio lo specifico potere talchè gli atti da esso posti in essere possano giungere ad effetto. Giova, pertanto,ricordare che gli enti locali, nel sistema delle leggi comunali provinciali di cui ai testi unici del 1934 e 1915 e al Regolamento del 1911, erano sottoposti a penetranti poteri di vigilanza, di controllo e tutela da parte dello Stato che li esercitava per il tramite di organi statali decentrati quali il Prefetto e la giunta Provinciale amministrativa,nonché a più specifici e penetranti poteri di autorizzazione e approvazione,anche questi esercitati da organi statali di amministrazione attiva. Tale sistema di controllo era manifestamente in contrasto con il sistema costituzionale delle autonomie locali soprattutto sotto due specifici aspetti: il primo attinente alla

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imputazione soggettiva di tali poteri e segnatamente ad organi statali di amministrazione attiva privi,pertanto,del carattere di neutralità, il secondo concernente il tipo di funzione di controllo attribuita a tali organi, non limitata a garantire la mera legalità degli atti, ma intesa a sindacarli anche nel merito. Questo sistema è stato profondamente modificato dalla Costituzione che, all’art. 130, ha stabilito che il controllo di legittimità sugli atti delle Province, dei Comuni e degli altri enti locali è esercitato da un organo della regione, costituito nei modi stabiliti dalla legge della Repubblica. La norma, che comporta un duplice ordine di conseguenze circa il contenuto dei poteri di controlli e circa l’imputazione soggettiva degli stessi poteri, oltre ad aver avuto come conseguenza, per effetto delle trasformazioni apportate dal nuovo ordinamento degli enti locali, prima la trasformazione e, subito dopo, la soppressione del controllo di merito, oltre alla riduzione del controllo di legittimità alle principali deliberazioni dell’ente, ha altresì comportato la sostituzione dell’organo dello Stato con un organo della Regione al quale ha attribuito la funzione di controllo sugli atti degli ee.ll., conseguentemente radicando nel medesimo organo il correlato potere (“Un organo della Regione……….e s e r c i t a …………il controllo di legittimità sugli atti delle province, dei Comuni e degli altri enti locali”, così recita(va) l’art. 130 della Costituzione). A dare attuazione al precetto costituzionale ha provveduto la legge 62/53 la quale, dopo aver disposto l’istituzione dell’organo regionale, ha dettato norme riguardanti la sua composizione nonché il procedimento di controllo. Tale normativa è stata, successivamente, ridisegnata dalla legge delle autonomie e,da ultimo, dal decreto legislativo n° 267 del 2000 recante norme sull’ordinamento degli enti locali. Gli aspetti organizzativi sono stati disciplinati dalle leggi regionali. Ebbene, da quanto detto, emerge con tutta evidenza che la norma che ha radicato nell’organo regionale (CORECO) il potere di controllo di legittimità sugli atti degli ee.ll. è l’art. 130 della Costituzione, atteso che alle altre leggi della Repubblica il medesimo art. 130 ha demandato il compito di dare attuazione al precetto costituzionale provvedendo alla creazione, si potrebbe dire, in astratto dell’organo, mentre alla legge regionale era riservata la disciplina del dettaglio organizzatorio, vale a dire la messa in opera dell’organo. E’ di tutta evidenza che l’organo, una volta istituito e costituito (id est, messo in opera) ha esercitato il potere che gli era stato attribuito dall’art. 130 della Costituzione. Ed allora, se la norma che ha radicato nell’organo regionale il potere di controllo sugli atti degli ee.ll. è l’art. 130 della Costituzione, non può essere revocato in dubbio che per effetto della abrogazione dello stesso art. 130 l’organo regionale già titolare del potere de quo è stato privato del potere stesso atteso che è venuta meno l’imputazione, ascrivibile alla ripetuta fonte costituzionale, della funzione di controllo all’organo regionale medesimo il quale, pertanto, in base all’ordinamento, non dispone più di alcuna forza operativa mancando di qualsiasi signoria nel settore. La conseguenza dell’abrogazione dell’art. 130 della Costituzione, disposta dall’art. 9 della legge costituzionale n° 3/2001, è, pertanto, di tutta evidenza: è stata soppressa la fonte, di rango costituzionale, dell’imputazione, all’organo regionale, della funzione di controllo sugli atti degli ee.ll., vale a dire che è stata soppressa la fonte attributiva del correlato potere con la conseguenza che l’organo della regione, cioè il CORECO, di cui all’abrogato art. 130 Cost., anche a volerne ammettere la sopravvivenza,come da parte di alcuni si sostiene, in ordine alla funzione di controllo di legittimità sugli atti degli ee.ll. difetta di attribuzione, talchè,nel caso in cui dovesse continuare ad esercitare arbitrariamente detto controllo porrebbe in essere atti amministrativi inesistenti o, più correttamente, un comportamento senza potere. Da quanto fin qui detto,pertanto,discende che con l’entrata in vigore della legge costituzionale 3/2001, cessando immediatamente di esistere nel nostro ordinamento l’istituto del controllo di cui all’abrogato art. 130 della Costituzione, cessa anche l’attività di controllo del CORECO, talchè cessa, altresì, l’obbligo di inviare allo stesso le deliberazioni degli organi collegiali degli ee.ll., le quali diverranno esecutive esclusivamente a norma dell’art. 134,comma 3, el T.U. 267/2000. A questo punto ci si chiederà come sia possibile affermare quanto detto in presenza del corpo legislativo, statale e regionale, in materia di controlli.

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Ebbene,al riguardo deve essere, innanzitutto, rilevato che tutte le disposizioni di legge in materia di controlli si connotano come disposizioni di attuazione dell’art. 130 della Costituzione. Si avuto modo, infatti, di rilevare che il ripetuto art. 130 demanda alla legge della Repubblica la disciplina della costituzione dell’organo regionale titolare della funzione di controllo e che, a tale compito, ha provveduto, in un primo tempo, la legge 10 febbraio 1953, n. 62, la cui disciplina è stata, successivamente, ridisegnata dalle legge delle autonomie locali (l. 142/90 e successive sue modifiche e integrazioni) e da ultimo il D.Lgvo 267/2000. E’ innegabile,pertanto, che le predette leggi sono dirette a rendere possibile l’applicabilità del precetto costituzionale. Ed allora, poiché il precetto costituzionale al quale le leggi in materia di controlli hanno dato attuazione è stato espunto dall’ordinamento giuridico per effetto della abrogazione della norma che quel precetto conteneva, conseguentemente cessa la vigenza delle leggi attuative del precetto medesimo per sopravvenuta impossibilità di dare esecuzione alle leggi stesse. Infatti, la cessazione della vigenza di una intera legge o di sue singole statuizioni può verificarsi,oltre che a seguito di abrogazione e di dichiarazione di illegittimità costituzionale, anche per cause diverse, quali il compimento del termine o l’avverarsi della condizione (fissati nella stessa legge o in altre leggi), per la fine della sua vigenza ( il che avviene per le disposizioni legislative temporanee, tra le quali rientrano quelle comunemente denominate “transitorie”) e, appunto, per la sopravvenuta impossibilità di dare esecuzione alla legge stessa (3).

DIEGO FODERINI (Segretario e Direttore Generale del Comune di Affi – VR) Rinascita del federalismo territoriale, riforma dell’ordinamento delle

autonomie locali e ridefinizione del ruolo del segretario comunale Par. 1 I principi ispiratori della riforma delle autonomie locali. L’assetto odierno delle autonomie locali non è probabilmente quello definitivo. Troppo numerosi ed evidenti sono gli scompensi che la concreta applicazione della recente normativa ha determinato. L’individuazione dei principi ispiratori dell’attuale processo di riforma e l’esame degli effetti negativi prodottisi, mediante una panoramica ampia ma nello stesso tempo anche sintetica della situazione attuale, può costituire la base utile all’individuazione dei possibili correttivi da introdurre. I principi in questione sono così sintetizzabili (trattandosi di principi, si eviterà il rinvio alle eventuali specifiche norme che ne sono espressione): - attribuzione di nuovi e più ampi poteri a Province e Comuni. Il riconoscimento di maggiori poteri deriva in gran parte dall’introduzione dell’elezione diretta del Sindaco e del Presidente della Provincia (i quali divengono così immediata espressione della volontà popolare), e dalla previsione di un sistema elettorale che premia la lista o le liste vincenti in termini di assegnazione di seggi nel Consiglio comunale o provinciale. Il notevolissimo rafforzamento della capacità rappresentativa del Sindaco e del Presidente della Provincia, unitamente alla maggiore governabilità derivanti dalla riforma del sistema elettorale, costituiscono fattori che Comuni e Province utilizzano come leve per l’attribuzione di sempre maggiori poteri e competenze; - assegnazione di un ruolo centrale, tra gli organi politici (Sindaco o Presidente, Giunta e Consiglio), al Sindaco ed al Presidente della Provincia, intendendosi così favorire un’attività indirizzata con decisione al raggiungimento degli indirizzi e degli obiettivi stabiliti e quindi alla soddisfazione dell’interesse della collettività locale. Gli organi collegiali, per loro stessa natura, non sono invece ritenuti idonei allo scopo. La Giunta comunale adempie ad un semplice ruolo di collaborazione con il Sindaco e con il Presidente della Provincia nel governo dei rispettivi enti ed è composta di Assessori nominati, e revocati, dal capo dell’amministrazione secondo criteri di carattere fiduciario. Il Consiglio comunale possiede invece una competenza ristretta limitata agli atti fondamentali espressamente enumerati dalla legge. Il capo dell’amministrazione, in forza del sistema elettorale relativo agli enti locali, potrà comunque contare sull’appoggio del Consiglio;

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- centralità del Comune e della Provincia nell’organizzazione pubblica, al fine di favorire la realizzazione del principio di sussidiarietà verticale ed orizzontale. Tali enti, in virtù della loro maggiore vicinanza con i cittadini, infatti, sono in condizione di coglierne meglio i bisogni e le esigenze e di sollecitarne la partecipazione e l’intervento attivo in ambiti tradizionalmente pubblici; - limitazione dei mandati a Sindaco o Presidente della Provincia. Le stesse persone fisiche non possono occupare la medesima carica per più di due mandati consecutivi. La limitazione assolve ad una duplice finalità, intendendo da una parte impedire il consolidarsi di posizioni di potere eccessive conseguenti all’elezione diretta e dall’altra favorire il ricambio dei vertici locali contro il professionalizzarsi dell’attività politica. Il divieto è dunque principalmente ideato e strutturato come un contrappeso alla crescente autonomia di Comuni e Provincie, a garanzia dell’unitarietà ed indivisibilità dell’ordinamento; - responsabilizzazione delle autonomie locali sotto il profilo economico e finanziario. La finanza degli enti locali è sempre più basata su entrate proprie, di natura sostanzialmente tributaria, piuttosto che su trasferimenti erariali, provenienti cioè dallo Stato. Quanto più l’ente sarà gestito in modo efficace, efficiente ed economico tante più risorse saranno disponibili per la realizzazione di opere pubbliche e per il perseguimento degli obiettivi prospettati con il programma elettorale. Gli amministratori locali dovranno rispondere di fronte alla collettività che li ha eletti dei tributi e delle aliquote imposte in rapporto ai risultati ottenuti in termini di servizi resi e di prestazioni erogate; - abrogazione delle norme che imponevano, con carattere generale, modelli organizzativi predefiniti, assegnando ai singoli enti il compito di predisporre l’organizzazione interna ritenuta maggiormente idonea al perseguimento degli interessi della collettività locale e quindi dei programmi risultanti dal programma elettorale. La legge si limita a stabilire solamente gli elementi essenziali che debbono caratterizzare tutti gli enti locali, qualunque sia la struttura organizzativa adottata. Così, ad esempio, tutti gli enti debbono obbligatoriamente possedere un Segretario comunale o provinciale, per l’assolvimento dei compiti che la normativa gli assegna. Per il resto, Comuni e Province non rinvengono praticamente altra limitazione che quella derivante dalle proprie disponibilità e capacità finanziarie. La competenza alla definizione dell’organizzazione dell’ente spetta principalmente alla Giunta comunale, che vi provvede attraverso il regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi. L’assegnazione della competenza alla Giunta, anziché al Consiglio, consente di introdurre nell’organizzazione, in modo rapido ed agevole, gli adeguamenti ed anche le modifiche sostanziali che si ritengano necessarie od opportune. La struttura organizzativa adottata dall’ente acquisisce quindi carattere flessibile; - soppressione pressoché totale dei tradizionali controlli amministrativi di legittimità sugli enti locali mediante l’abolizione del visto di legittimità del Segretario comunale ed il ridimensionamento della competenza dei Comitati Regionali di Controllo. Ciò sul presupposto che il riscontro della legittimità sui singoli atti e provvedimenti amministrativi competa all’autorità giudiziaria e non alla struttura burocratica, la quale ha invece il diverso compito di raggiungere in modo legittimo gli obiettivi stabiliti dall’autorità politica dell’ente di appartenenza per il soddisfacimento degli interessi della collettività amministrata. Si afferma in questo modo molto chiaramente il primato degli organi rappresentativi, in quanto democraticamente eletti o comunque espressione della collettività di riferimento, su quelli burocratici. E’ l’autorità politica a porre gli obiettivi ed a verificarne il raggiungimento da parte della dirigenza; - introduzione del controllo di gestione, dei controlli interni e di altri strumenti di verifica e monitoraggio dell’attività svolta dai dirigenti, mutuandoli dall’esperienza privatistica ed adattandoli alle specificità del contesto pubblico. La verifica di legittimità degli atti e dei comportamenti adottati non assume rilievo autonomo ma si svolge nel contesto della valutazione dell’attività di perseguimento degli obiettivi assegnati, acquisendo così un significato sostanziale diverso da quello attribuitogli dalla precedente normativa. Un atto od un comportamento perfettamente legittimo potranno così essere valutati negativamente qualora siano stati la causa o la concausa del mancato raggiungimento dell’obiettivo, sempre che il funzionario avesse la possibilità di adottare un diverso atto o comportamento anch’esso perfettamente legittimo ma maggiormente idoneo al raggiungimento dello scopo. La legittimità degli

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atti adottati e dei comportamento tenuti sono dunque il presupposto indefettibile per la valutazione positiva dell’operato del dirigente; - garanzia della legittimità dell’azione amministrativa degli enti locali, a seguito della soppressione delle tipologie di controlli previsti dalla normativa precedente, mediante l’affermazione e la traduzione in numerose normative di settore, del principio di netta separazione tra funzioni di natura gestionale, di competenza dei dirigenti, e funzioni di indirizzo e controllo, spettanti agli organi rappresentativi della popolazione. La gestione riguarda le attività e gli atti che debbono essere posti in essere in forza di legge o per il perseguimento degli indirizzi e degli obiettivi assegnati. Gli unici apprezzamenti discrezionali ammessi sono quelli finalizzati a stabilire l’opportunità di adozione dell’atto, quando lo stesso non risulti necessario in forza di legge, nonché la ricorrenza dei presupposti e dei requisiti prescritti dalla normativa. Mediante l’attività di indirizzo, invece, gli organi politici scelgono gli obiettivi da perseguire tra quelli possibili e legittimi (ad es. la realizzazione di una strada piuttosto che di una palestra), assegnandoli ai dirigenti per il concreto perseguimento. L’attività gestionale è riservata alla competenza esclusiva dei dirigenti, senza possibilità di intervento sostitutivo del Sindaco, del Presidente o degli Assessori delegati. Si vuole in questo modo garantire che la gestione, vale a dire l’attività amministrativa specifica e concreta avente incidenza sulla sfera giuridica dei singoli, si svolga in modo neutrale ed imparziale. I dirigenti, infatti, si qualificano innanzi tutto per le loro competenze specialistiche, accertate mediante il corso-concorso, il concorso o la selezione che è necessario aver superato per acquisire la qualifica. La conformità a legge ed alla normativa applicabile del loro operato dovrebbe inoltre essere assicurata dalle numerose responsabilità (disciplinare, amministrativa, civile, contabile e penale, oltre a quella per mancato raggiungimento degli obiettivi), ad essi riferite; - introduzione dell’amministrazione per attività. La gestione deve svolgersi in modo efficace, efficiente ed economico. Il dirigente non deve preoccuparsi esclusivamente della legittimità dei singoli atti adottati ma deve coordinare la propria azione in modo da perseguire gli obiettivi posti dall’autorità politica. La dirigenza deve quindi poter disporre in autonomia di adeguate risorse umane, finanziarie e strumentali, da organizzare e dirigere. Il mancato raggiungimento degli obiettivi imputabile al funzionario, ne comporterà responsabilità di differente entità sotto il profilo economico e giuridico, in rapporto alla gravità dell’inadempimento. Il rispetto della legge e della norma cessa dunque di costituire il fine esclusivo delle strutture pubbliche per divenire la modalità obbligatoria di erogazione delle prestazioni e dei servizi da fornire all’utenza o comunque il mezzo necessario per perseguire tale fine. Ciò determina il superamento della tradizionale e rigida strutturazione degli apparati pubblici per competenze (mediante la distinzione in settori, aree, ripartizioni od altre articolazioni aventi attribuzioni specifiche in relazione ad ambiti predefiniti di attività), in favore di modelli organizzativi molto più flessibili ed elastici in quanto orientati a fornire al cittadino utilità certe, ovvero prodotti completi e definiti, ovvero ancora risposte completamente esaurienti. E’ nell’ambito di tale logica che nascono prima gli Uffici Relazioni con il Pubblico e poi gli Sportelli Unici (per le attività produttive, per gli espropri, per l’edilizia, ecc.). L’attività degli Sportelli Unici, in particolare, si caratterizza per la trasversalità rispetto alle competenze delle aree, dei settori, delle unità o delle ripartizioni del singolo ente; - correlazione di una parte considerevole della retribuzione della dirigenza alla capacità di perseguire gli obiettivi assegnati. Tale logica è riferita, mutatis mutandis, anche al personale non dirigenziale. Il ruolo della contrattazione collettiva integrativa, a livello di singolo ente, sotto tale profilo, ne risulta notevolmente ampliato. Tutto il personale diviene così oggetto di processi valutativi di carattere permanente al deliberato scopo di agganciare la progressione giuridica ed economica alle capacità ed ai risultati prodotti nell’esercizio dell’attività lavorativa. Ciò unitamente ad una ulteriore spinta verso la privatizzazione e ad una maggiore flessibilità del rapporto di lavoro. Con riferimento al personale non dirigenziale, in particolare, i contratti collettivi eliminano le precedenti otto qualifiche funzionali ed introducono quattro categorie (A, B, C e D), prevedendo l’esigibilità di tutte le prestazioni riconducibili alla categoria di appartenenza . La catena di comando viene così notevolmente appiattita e semplificata allo scopo di predisporla al raggiungimento degli obiettivi stabiliti, secondo i modelli aziendali. Le piante organiche, per le quali aveva competenza il Consiglio comunale, sono soppresse e sostituite dalle dotazioni organiche, di

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competenza della Giunta. I dirigenti gestiscono i rapporti con i lavoratori con la capacità ed i poteri del privato datore di lavoro. Circa le forme di reclutamento, il concorso pubblico cessa di essere la regola generale. Gli enti locali possono stabilire discipline differenziate per l’accesso all’impiego vincolate solamente al rispetto dei principi stabiliti dalla legge. La previsione, all’interno di ciascuna categoria, di numerose classi stipendiali, alle quali il lavoratore potrà accedere previa periodica valutazione positiva da parte degli organi preposti, unitamente all’eliminazione dei precedenti impedimenti normativi e contrattuali all’effettuazione di concorsi interni e di selezioni riservate al personale dipendente, rappresentano fattori che dovrebbero contribuire all’incentivazione permanente del personale; - conferimento al Sindaco ed al Presidente della Provincia della competenza alla nomina dei dirigenti responsabili degli uffici e dei servizi ed al controllo del loro operato, in modo da assicurare il raccordo tra attività di indirizzo e programmazione ed attività gestionale. Il capo dell’amministrazione può sanzionare il dirigente che non sia capace di realizzare gli obiettivi, o che non voglia farlo, con misure diversificate, dal mancato rinnovo dell’incarico, alla mancata attribuzione della retribuzione di risultato, sino ad arrivare, nei casi di particolare gravità, al licenziamento. Al fine di evitare interferenze ingiustificate sull’esercizio dell’attività dei dirigenti, compromettendone l’imparzialità e la legittimità, tuttavia, il Sindaco od il Presidente della Provincia non potranno far valere direttamente la responsabilità dirigenziale ma dovranno basarsi sulle verifiche compiute da organi e servizi di controllo aventi natura tecnica, primo fra tutti il nucleo di valutazione; - applicazione del principio di separazione tra compiti di indirizzo e controllo e compiti di carattere gestionale anche negli enti privi di dirigenza. Le funzioni dirigenziali saranno in tali enti esercitate dai dipendenti apicali, indipendentemente dalla categoria di inquadramento, nominati dal capo dell’amministrazione. Il Sindaco potrà anche decidere di attribuire la responsabilità gestionale, con riferimento ad uno o più servizi, al Segretario comunale, in coerenza con il ruolo a geometria variabile ad esso assegnato dall’ordinamento. La legittimità e la neutralità dell’azione amministrativa che la separazione tra funzioni gestionali e di indirizzo e controllo dovrebbe garantire inducono invece ad escludere, pur in assenza di una espressa disposizione, che il Direttore Generale possa svolgere attività di natura gestionale. Ciò a meno che le funzioni di Direttore non siano svolte dal Segretario comunale, a motivo delle competenze specialistiche e delle capacità tecniche proprie di quest’ultima figura. A tutela del suddetto principio la legge esclude, ma solo in un primo momento, che il Sindaco o gli Assessori possano assumere la responsabilità degli uffici e dei servizi; - notevole ampliamento della possibilità di ricorrere a professionalità esterne o ad incarichi dirigenziali a tempo determinato, in relazione alla disciplina contenuta nel regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi e nei limiti posti dalla legge, al fine di agevolare l’attività di perseguimento degli obiettivi stabiliti in caso di carenza all’interno dell’ente di figure idonee; - obbligatorietà della presenza del Segretario comunale o provinciale presso ciascun ente locale. La legge, tuttavia, gli assegna espressamente funzioni generiche ed indeterminate e, tutto sommato, marginali, comportandone, di fatto, il congelamento. Se ne garantisce, in altri termini, la sopravvivenza ma si attribuisce al Sindaco ed al Presidente della Provincia il potere di riservargli una posizione centrale nell’organizzazione dell’ente e nel perseguimento degli obiettivi localmente determinati o di relegarlo ai margini della struttura, privandolo di qualunque compito significativo, con tutta una gamma di soluzioni intermedie rimesse sempre alla volontà del capo dell’amministrazione. Il Segretario è nominato dal Sindaco e dal Presidente, che lo scelgono tra gli iscritti in un Apposito Albo gestito dall’Agenzia Autonoma per la Gestione dei Segretari comunali e provinciali; - riconoscimento al Sindaco dei Comuni di media e grande dimensione, con popolazione superiore ai 15.000 abitanti, ed al Presidente della Provincia della possibilità di nominare un Direttore Generale avente lo specifico compito di realizzare gli indirizzi e gli obiettivi stabiliti dagli organi di governo dell’ente. E’ per tale motivo che la nomina è diretta, fiduciaria e non richiede il preventivo esperimento di un concorso o di una selezione. La legge non prescrive alcun requisito minimo, né d’età, né di titolo di studio, né d’esperienza, né di preparazione. Ciò sul presupposto inespresso che eventuali scelte errate comportino la mancata realizzazione del programma elettorale e saranno quindi adeguatamente sanzionate dall’elettorato al

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quale Sindaco e Presidente sono chiamati a rispondere. Il capo dell’amministrazione può decidere, se lo ritiene, di conferire le funzioni di Direttore Generale al Segretario, indipendentemente dalla popolazione del Comune. Par. 2 Gli esiti prodotti dalla riforma nei Comuni di maggiori dimensioni e nelle Province. L’applicazione della riforma, ispirata ai principi esposti nel paragrafo precedente, ha prodotto nei Comuni di maggiori dimensioni numerosi effetti indesiderati. Si segnalano di seguito quelli che si ritengono maggiormente rilevanti: - il regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi, assegnato dalla legge alla competenza della Giunta al fine di consentirne l’agevole e tempestiva adozione, modifica ed integrazione in corrispondenza con le variabili esigenze organizzative interne, si è frequentemente trasformato in uno strumento che ha consentito all’organo politico di continuare a compiere attività di gestione con riferimento alle materie oggetti di disciplina. Le disposizioni regolamentari possono infatti essere rimaneggiate integralmente od in modo parziale velocemente e senza alcuna limitazione. Tale possibilità ne ha indotto l’utilizzo quale potente mezzo di condizionamento dell’attività dei dirigenti e di tutto il personale dipendente. Il carattere generale ed astratto delle nome regolamentari è quindi non di rado solamente apparente, specie nei Comuni di medie dimensioni.; - gli strumenti di incentivazione del personale sono stati spesso utilizzati in modo gravemente distorto, in alcuni casi consapevolmente ed a fini clientelari o ad altri scopi, in altri per l’incapacità delle amministrazioni di resistere alle fortissime pressioni sindacali. Con la deleteria conseguenza dell’avanzamento fulmineo e di massa dei lavoratori alle posizioni più elevate, senza alcuna seria verifica delle capacità e del merito e senza alcuna rilevante contropartita in termini di innalzamento della quantità e qualità delle prestazioni lavorative rese. L’interesse pubblico, costituzionalmente riconosciuto, allo svolgimento di procedure selettive comparative aperte a tutti, in modo da garantire a tutti i cittadini in possesso dei requisiti necessari la possibilità di accedere ai pubblici uffici e da consentire alla pubblica amministrazione di individuare il soggetto in possesso delle maggiori capacità ed attitudini in rapporto al posto da ricoprire, ne risulta così inutilmente sacrificato; - l’incapacità diffusa ed evidente delle amministrazioni di gestire le logiche della contrattazione aziendale ha provocato il considerevole ed ingiustificato aumento degli oneri per il personale, con la conseguente distrazione di quote consistenti di risorse pubbliche da più proficue destinazioni. Si è inoltre riproposta, in termini particolarmente preoccupanti per la velocità di estensione, la c.d. "giungla retributiva e delle carriere", che l’ordinamento aveva cercato in precedenza di estirpare attraverso l’introduzione delle qualifiche funzionali e della regola del concorso pubblico per il passaggio alle qualifiche superiori. Il trattamento giuridico ed economico di lavoratori, pur appartenenti ad un medesimo Comparto di contrattazione ed inquadrati nella stessa categoria e profilo professionale, dipende in misura considerevole dalla semplice appartenenza ad un certo ente piuttosto che ad un altro. Ciò indipendentemente dall’effettivo merito individuale misurato mediante appropriati ed efficienti meccanismi di valutazione. L’assenza dei suddetti meccanismi, o del loro utilizzo, trasforma così le differenziazioni, da possibile potente leva di innovazione ed innalzamento delle prestazioni individuali, in ingiustificata sperequazione tra lavoratori svolgenti attività del tutto analoghe, rendendo illusoria la omogeneità di disciplina posta nel Contratto collettivo nazionale; - la legge non ha definito gli esatti ambiti di competenza del Direttore generale, del Segretario e della dirigenza nei loro reciproci rapporti, rimettendo tale compito ai singoli enti. Le soluzioni adottate dai Comuni sono le più diverse. La legge , in particolare, attribuisce direttamente al Sindaco, senza neppure la mediazione della normativa regolamentare, il potere di attribuire al Segretario lo svolgimento dei compiti che, volta per volta, ritenga opportuni, potendo anche decidere di conferirgli la responsabilità dirigenziale di uno o più servizi. Il regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi, d’altra parte, in numerosi enti, ha riconosciuto al Direttore Generale, in assenza di una specifica norma di legge che lo vietasse ed in ragione della sua posizione sovraordinata, la capacità di adottare atti di natura gestionale, anche in sostituzione dei dirigenti. La situazione descritta comporta che Segretario, Direttore e dirigenti potrebbero avere competenza in ordine a medesimi atti od attività, senza che

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tra essi intercorra un rapporto gerarchico. L’assenza di rapporto gerarchico comporta che ciascuna figura risponderà distintamente e separatamente dalle altre del proprio operato. La responsabilità dell’adozione dell’atto o del compimento dell’attività non potrà quindi essere ricondotta al soggetto che si colloca al vertice della struttura, anche se abbia provveduto altro organo ad esso formalmente sottoposto. In tale situazione l’autorità politica potrà esercitare convincenti motivi di pressione sulla figura astrattamente competente in via ordinaria. La mancata adesione alle richieste potrebbe infatti pregiudicare lo stipendio, la carriera e forse anche il posto senza impedire l’adozione dell’atto od il compimento dell’attività da parte di altro organo dello stesso ente; - la soppressione dei tradizionali controlli di legittimità, di carattere formale, non è stata accompagnata dall’introduzione di strumenti idonei a garantire che l’attività amministrativa intesa al perseguimento degli indirizzi e degli obiettivi si svolga nel rispetto sostanziale della normativa nazionale. Il Sindaco ed il Presidente della Provincia nominano e revocano il Segretario comunale, decidono se avvalersi o meno del Direttore Generale o se conferire le relative funzioni al Segretario comunale, stabiliscono l’indennità da attribuire al Segretario in caso di conferimento delle funzioni di Direttore od il compenso da corrispondere al Direttore esterno, conferiscono ai dirigenti la responsabilità degli uffici e dei servizi e ne determinano quindi, in misura considerevole, la retribuzione. Tali poteri, se da una parte valgono a garantire che l’attività del Segretario comunale, del Direttore Generale e dei dirigenti sia effettivamente intesa al perseguimento degli indirizzi e degli obiettivi stabiliti, dall’altra determina una situazione di forte soggezione delle stesse figure, le quali non sono comprensibilmente ed evidentemente in condizione di garantire l’osservanza della normativa nazionale. Il Segretario comunale, in particolare, nel caso in cui non gli siano state attribuite dal Sindaco le funzioni di Direttore, risulta del tutto sprovvisto di qualunque strumento in grado di incidere efficacemente sull’azione amministrativa dell’ente. La sua opera, in tale ipotesi, è di semplice supporto, dovendo egli svolgere "compiti di collaborazione e funzioni di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell’ente in ordine alla conformità dell’azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti"; - a fronte dell’assenza di adeguati strumenti di controllo interno, i controlli esterni si riducono sostanzialmente a quelli esercitati dall’autorità giudiziaria, i quali si rivelano del tutto inadeguati. I motivi dell’inadeguatezza sono da rinvenire innanzi tutto nella loro natura successiva, non potendo essi prevenire l’atto od il comportamento illegittimo ed impedirne l’adozione. Il sistema giudiziario, in secondo luogo, è notoriamente ingolfato e con arretrati spaventosi. La prospettiva dell’avvio di un procedimento giudiziario, di natura penale, amministrativa, civile o contabile, non costituisce un deterrente efficace. I ritardi e la lentezza dei processi, unitamente alla altrettanto notoria complessità e contradditorietà della normativa italiana, agevolano anzi frequentemente comportamenti di dubbia legittimità da parte dei funzionari più spregiudicati mentre hanno un effetto paralizzante rispetto a quelli maggiormente rispettosi della normativa; - la legge riconosce al Presidente della Provincia ed al Sindaco dei Comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti (salva per i Comuni con popolazione inferiore la possibilità di convenzionarsi sino al raggiungimento della popolazione richiesta), la facoltà di nomina del Direttore Generale, al di fuori della dotazione organica e con contratto a tempo determinato, secondo i criteri stabiliti nel regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi. Il Direttore Generale ha il compito di attuare gli indirizzi e gli obiettivi stabiliti dagli organi di governo e di sovrintendere alla gestione dell’ente in modo da perseguire livelli ottimali di efficacia e di efficienza. La scelta del capo dell’amministrazione deve dunque porsi in rapporto agli indirizzi ed agli obiettivi da realizzare. Anche la scelta del Segretario, tuttavia, risulta in rapporto agli stessi indirizzi ed obiettivi. L’incarico del Segretario, infatti, ha durata corrispondente a quella del mandato del Sindaco o del Presidente della Provincia e cessa automaticamente con la cessazione del mandato del capo dell’amministrazione. In questa situazione risulta altissimo il rischio di conflitto tra le due figure, anche in considerazione del ruolo di supremazia, all’interno della struttura burocratica, svolto dal Segretario in virtù della normativa precedente. Né sembra che la soluzione prevista dall’ordinamento, consistente nella disciplina dei rapporti tra Direttore e Segretario da

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parte del Sindaco o del Presidente della Provincia contestualmente all’atto di nomina del Direttore, possa costituire un rimedio adeguato. Par. 3 Gli esiti della riforma nei Comuni di minore entità. Le dimensioni della grandissima maggioranza dei Comuni italiani sono ridotte o ridottissime. La riforma ha prodotto su tali enti effetti indesiderati particolari, che si assommano di frequente a quelli provocati negli enti di maggiori dimensioni. In particolare: - i Comuni di minore entità si trovano nell’oggettiva impossibilità di fruire consapevolmente ed effettivamente della più ampia autonomia riconosciuta. Ciò a motivo essenzialmente della carenza delle risorse finanziarie ed umane necessarie. La pianificazione e programmazione delle attività nel medio e lungo periodo diviene così un fastidioso adempimento imposto dalle diverse normative di settore alle quali occorre ottemperare, ad esempio, in sede di predisposizione del bilancio preventivo o della formazione del piano delle opere. Non sono invece percepite, indipendentemente dalle prescrizioni della normativa, quali fondamentali strumenti per il perseguimento degli interessi strategici, non contingenti, della collettività amministrata; - le prestazioni finali rese al cittadino sono di qualità scadente od hanno comunque un costo eccessivo. La dimensione territoriale e demografica dei singoli Comuni è spesso insufficiente ad assicurare una gestione efficace, efficiente ed economica. Con la conseguenza che ciascun Comune è impegnato nell’erogazione di servizi e prestazioni per le quali non dispone di personale e di risorse adeguate. Lo stesso personale e le stesse risorse potrebbero invece produrre risultati ottimali laddove venissero gestite con riferimento a più ampi ambiti, producendo considerevoli economie di scala; - la realizzazione della riforma e l’effettivo potenziamento dell’autonomia dei Comuni ad opera di numerosissime discipline di settore si realizza mediante l’abrogazione implicita di gran parte della disciplina precedente e la sua sostituzione con nuovi corpi normativi, soggetti a continui aggiustamenti. Si tratta di una situazione presumibilmente non temporanea in quanto derivante dalla incessante e rapidissima evoluzione degli interessi pubblici in corrispondenza con la altrettanto continua e velocissima evoluzione delle situazioni oggetto di regolamentazione. Ciò esige una capacità di adeguamento, di orientamento e di analisi che il personale dei piccoli Comuni non possiede né può essergli comunque legittimamente richiesta, non essendo riconducibile alle mansioni della categoria di inquadramento. L’incidenza delle nuove normative nelle realtà più piccole ha anzi prodotto una generalizzata despecializzazione del personale in servizio; - le spese per il personale sono cresciute in modo consistente in conseguenza soprattutto dell’attribuzione delle indennità contrattuali ai dipendenti incaricati delle posizioni organizzative o della responsabilità degli uffici e dei servizi. Alle maggiori spese non corrisponde una generale ed effettiva conduzione dell’attività secondo principi di imparzialità, legalità, efficacia, efficienza ed economicità. Ne è invece derivato, quasi esclusivamente, un considerevole aumento della pressione della fiscalità locale. Al fine di assicurare anche negli enti più piccoli l’effettività del principio di separazione tra compiti gestionali e di indirizzo e controllo, la legge prescrive l’assegnazione delle funzioni di carattere dirigenziale al personale inquadrato in categoria C o D (corrispondenti alle precedenti VI, VII o VIII qualifiche funzionali). Ma l’assenza, all’interno dell’ente, di dirigenti non costituisce certo un fatto che valga da solo a conferire ai dipendenti apicali presenti, appartenenti per lo più a categorie medio-basse, le capacità necessarie allo svolgimento delle funzioni proprie della dirigenza, essendo le stesse in relazione all’individuo e non al concreto contesto organizzativo dove questo opera. L’attribuzione della responsabilità degli uffici e dei servizi, con o senza riconoscimento delle posizioni organizzative, si risolve dunque frequentemente nell’assegnazione delle funzioni proprie della qualifica dirigenziale a personale collocato in categorie anche ulteriormente inferiori a quella immediatamente sottostante, per il tempo determinato dal Sindaco e non stabilito da alcuna norma di legge o contrattuale. Ciò senza alcuna preventiva ed oggettiva verifica tecnica circa l’attitudine dei dipendenti interessati in rapporto alle funzioni dirigenziali. La procedura di reclutamento dagli stessi sostenuta per l’assunzione nell’ente risulta infatti in relazione alla categoria di effettivo inquadramento e quindi all’assolvimento di funzioni di carattere esecutivo od impiegatizio;

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- il personale incaricato delle posizioni organizzative e della responsabilità degli uffici e dei servizi è spesso in possesso di competenze tecniche modeste e l’inesistente o scarsa preparazione professionale allo svolgimento di funzioni dirigenziali lo rende particolarmente sensibile alle pressioni della parte politica. Senza contare che frequentemente uno stesso lavoratore è nominato dal Sindaco responsabile di aree o settori assolutamente eterogenei, con nessun altro dipendente assegnato oltre se stesso. La ristrettezza dei contesti di riferimento, costituiti spesso da qualche centinaio di cittadini, e le scarse risorse a disposizione, rendono praticamente impossibile ogni tentativo di distinzione tra attività di indirizzo e controllo ed attività di carattere gestionale. L’autorità politica, in aggiunta, omette di esercitare l’attività di indirizzo e di controllo più che per effettiva incapacità, per mantenere un forte potere decisionale in relazione ai casi specifici e concreti. Il principio di separazione di funzioni si risolve dunque in una dispendiosa e defatigante duplicazione di atti che da una parte consegna all’autorità politica la potestà decisionale sulle singole situazioni di rilevanza gestionale e dall’altra trasferisce le responsabilità relative al dipendente incaricato, il quale si trova così a formalizzare decisioni assunte da altri ed a doverne rispondere nelle sedi legali; - il conferimento della responsabilità degli uffici e dei servizi, e quindi l’assegnazione di funzioni di oggettivo carattere dirigenziale a dipendenti comunali inquadrati in categorie sottordinate, seppure espressamente previsto dalla legge e dalla contrattazione collettiva, determina una situazione di conflitto con i principi dell’ordinamento giuridico e con la disciplina comunitaria. In particolare: - il lavoratore non viene adibito allo svolgimento delle mansioni per le quali è stato assunto, come prescrive la vigente normativa civilistica e la stessa specifica disciplina contrattuale applicabile, ma a mansioni che nella gran parte dei casi sono addirittura ulteriori rispetto a quelle immediatamente superiori; - l’assegnazione delle mansioni dirigenziali a personale privo della relativa qualifica costituisce l’ordinario mezzo per assicurare la separazione dell’attività gestionale da quella politica di indirizzo e di controllo. Non è quindi in rapporto a situazioni di carattere eccezionale e contingente né è soggetta ad una durata predeterminata dalla legge o dalla normativa contrattuale. Il Sindaco decide se e per quanto tempo conferire le relative funzioni, senza che l’interessato, in alcun caso, possa acquisire definitivamente la qualifica corrispondente alle mansioni superiori attribuite; - il lavoratore incaricato della responsabilità degli uffici e dei servizi non matura il diritto, neppure per il periodo di effettivo svolgimento, alla retribuzione stabilita per il personale avente qualifica dirigenziale. Ad esso compete invece solamente la retribuzione aggiuntiva onnicomprensiva prevista dalla contrattazione collettiva, per un importo complessivamente molto inferiore a quello spettante alla dirigenza e spesso di poco superiore a quello altrimenti percepito in virtù delle voci del salario accessorio previste per il personale sub-dirigenziale (straordinari, produttività, ecc.); - il conferimento delle funzioni avviene senza previo esperimento di alcuna verifica tecnica delle attitudini e capacità dirigenziali del soggetto ma per scelta di un organo politico; - la possibilità di mancato rinnovo dell’incarico alla scadenza, od anche di revoca in un momento antecedente, così come la possibilità di conferimento delle funzioni a soggetti esterni alla struttura comunale, nonché la variabilità del compenso aggiuntivo connesso ai compiti assegnati, da determinare entro l’ampia forbice stabilita dal Contratto, sono fattori che sottopongono i responsabili degli uffici e dei sevizi alla volontà del Sindaco e rendono la separazione di competenze di assai difficile realizzazione. I nuclei di valutazione ed i servizi di controllo interno, laddove istituti, non rappresentano un efficace scudo contro comportamenti arbitrari in quanto per lo più composti da individui di fiducia dell’amministrazione, soggetti anch’essi al mancato rinnovo dell’incarico ed alla revoca. Il compito dei componenti il nucleo consiste molto spesso nel reperire e fornire all’autorità politica gli elementi per giustificare decisioni già assunte; - a fronte della situazione prospettata, il Segretario comunale non ha gli strumenti per svolgere un ruolo che possa rappresentare un valido correttivo ed una affidabile garanzia per i cittadini ed i dipendenti. Anche nel caso in cui gli siano conferite le funzioni di Direttore Generale, infatti, tutti i poteri gli derivano dal Sindaco, il quale nello stesso modo in cui li ha conferiti può anche decidere di toglierli. La condizione giuridica ed economica del Segretario, così come per i dipendenti, dipende in

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grandissima parte dalla volontà del capo dell’amministrazione. La possibilità della non riconferma a seguito del rinnovo dell’amministrazione, ed il conseguente collocamento in disponibilità, influisce pesantemente su qualunque decisione e comportamento, determinando un sostanziale ed indiscutibile allineamento con le posizioni del Sindaco; - situazioni in tutto analoghe e disciplinate dettagliatamente dalla normativa nazionale, risultano considerate e trattate in modo anche molto differenziato in relazione al Comune nel quale si verificano. Non esiste alcun meccanismo che possa garantire l’applicazione uniforme, su tutto il territorio nazionale, di una certa disposizione di legge, neppure qualora l’ordinamento attribuisca ad essa il carattere della tassatività e dell’inderogabilità. Ciò determina a volte gravi disparità di trattamento ed evidenti violazioni del principio di eguaglianza, con nessun altro rimedio per il cittadino se non il ricorso all’autorità giudiziaria, la quale tuttavia non è in grado di fornire risposte in tempi ragionevoli e non rappresenta quindi un valido rimedio. Anche gli standard di qualità delle prestazioni rese ai cittadini variano notevolmente in relazione al Comune di residenza, creando sperequazioni che solo occasionalmente trovano corrispondenza in una pressione tributaria differenziata; - la normativa non introduce correttivi sufficienti per recuperare l’eccessivo frazionamento delle realtà locali. Le unioni e le altre forme di gestione associata o convenzionata di servizi e funzioni risultano rimesse alla volontà dei singoli enti. La creazione di nuove, più consistenti e razionali entità, d’altra parte, diminuirebbe notevolmente il peso politico e sociale dei Comuni di minore dimensione che in esse decidessero di confluire. Ciò determina, paradossalmente, l’estrema diffidenza od avversione proprio da parte dei Comuni più piccoli e con meno risorse, i quali non rinvengono la propria ragion d’essere in nessuna particolare e fondata motivazione di carattere geografico, storico, culturale o di altra natura. Le pur cospicue incentivazioni finanziarie previste dall’ordinamento non appaiono dunque uno strumento idoneo a determinare un mutamento della situazione su larga scala. La riforma nei Comuni di minori dimensioni ha dunque determinato un consistente aumento della potestà decisionale degli organi politici, e segnatamente del Sindaco. L’attuazione del principio di separazione tra compiti di carattere gestionale e compiti di natura politica, d’altra parte, ha parallelamente comportato l’attribuzione della responsabilità delle scelte assunte da tali organi, sotto tutti i profili legali, in capo ai responsabili degli uffici e dei servizi. Il Sindaco non rilascia più le concessioni edilizie, le autorizzazioni commerciali, le licenze per l’apertura di pubblici esercizi, né adottata i provvedimenti di aggiudicazione degli appalti pubblici o le ordinanze di demolizione degli abusi edilizi, eppure decide più di prima in quanto possiede tutti gli strumenti per convincere il soggetto competente ad assumere determinazioni conformi a quelle desiderate, senza correre il rischio di poter essere in futuro chiamato a risponderne. Né i funzionari comunali, così come i dipendenti di qualunque ente, pubblico o privato, sono eroi incuranti della propria retribuzione e carriera. La diffusa deresponsabilizzazione dell’autorità politica che ne è derivata ha determinato una pericolosa spinta verso comportamenti illegittimi per i quali, quand’anche venissero rilevati, risulterà molto difficile risalire al responsabile sostanziale al fine dell’applicazione delle sanzioni disposte dall’ordinamento. Lo stesso principio di separazione delle competenze ha subito pesanti colpi ad opera della più recente normativa. Al ricorrere di presupposti molto poco vincolanti, infatti, Sindaco ed Assessori dei Comuni con popolazione inferiore a 3000 abitanti potranno decidere di assumere la responsabilità diretta di uno o più servizi. Ciò determina una situazione gravemente incoerente anche solo sul piano normativo e formale. Par. 4 Il tramonto del federalismo territoriale ed il sorgere di nuovi centralismi. La riforma ha fornito agli organi rappresentativi delle collettività locali gli strumenti per perseguire gli indirizzi e gli obiettivi stabiliti. Non ha invece introdotto i correttivi necessari a consentire che l’autonomia di Comuni e Province si sviluppasse in modo coerente con gli interessi generali, come formalizzati nella normativa statale e regionale. Lo scollamento esistente tra normativa statale e regionale ed interessi reali della collettività ne ha comportato la diffusa percezione quale fattore di inutile rigidità e di ostacolo alla soddisfazione delle esigenze delle comunità locali. La svalutazione,

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assieme alla normativa, ha riguardato anche i soggetti aventi il compito di assicurarne il rispetto. La figura del Segretario comunale, sotto questo profilo, ha sofferto e soffre per colpe in gran parte non proprie. Anziché agire in profondità sulle cause di inadeguatezza della legge, infatti, l’ordinamento ha preferito colpirne, più sbrigativamente, i rappresentanti. Il fenomeno di Tangentopoli, l’accelerazione del processo di integrazione dei Paesi aderenti alla Comunità Europea, l’evoluzione del senso civico e culturale medio della popolazione, nonché altri importanti fenomeni hanno determinato la necessità politica, economica e sociale di pervenire velocemente ad un’organizzazione e ad un’azione amministrativa effettivamente orientata al soddisfacimento delle esigenze dei cittadini. Tale finalità è stata perseguita attraverso il forte potenziamento dei poteri delle amministrazioni pubbliche ad essi maggiormente vicine. La riforma che avesse inteso individuare puntualmente la collocazione di Comuni e Province nell’ordinamento italiano, stabilirne esattamente le modalità del raccordo con le altre amministrazioni e disporre i correttivi opportuni per assicurare che la loro attività si svolgesse nel rispetto degli interessi generali, tuttavia, avrebbe richiesto tempi eccessivi rispetto alle attese. Sarebbe stato necessario conferire alla legge, e più in generale alla normativa, quel prestigio che aveva oramai in gran parte perduto. Il fenomeno di Tangentopoli, in particolare, aveva evidenziato il carattere puramente formale ed inefficiente di molte normative e del complesso sistema di controlli in esse previsto. Tali controlli, infatti, pur con la loro rigidità e rigorosità, non avevano impedito il dilagare di comportamenti gravemente illegittimi in numerosissimi ambiti pubblici. La soluzione è stata rinvenuta, semplicemente, nella cesura di molte delle forme di raccordo, che pure necessitavano sicuramente di essere riviste ed aggiornate al mutato contesto, tra autonomie locali ed autorità centrali. Comuni e Province hanno così guadagnato ampi margini aggiuntivi di manovra senza che l’ordinamento prevedesse meccanismi adeguati ad assicurare la soddisfazione dell’interesse locale entro i limiti consentiti dal prevalente interesse generale, come cristallizzato nella legislazione regionale e nazionale. Il federalismo territoriale, basato cioè su Comuni e Province, reca così sin dalla nascita il germe della propria fine. L’azione degli enti locali deve necessariamente raccordarsi ed armonizzarsi con gli interessi di rilievo più generale. Gli atti normativi (quali la legge, i decreti, i D.P.R., ecc.), non costituiscono ostacoli da aggirare ma disposizioni da osservare scrupolosamente nel loro significato sostanziale, in quanto espressione di tali interessi. La sempre più evidente insostenibilità della situazione, che ha di fatto trasformato gli oltre 8100 Comuni italiani, in tante piccole Repubbliche limitate dalle proprie disponibilità finanziarie più che dalla legge, ha determinato la naturale reazione dell’affermarsi di nuove forme di centralismo, prima fra tutte quella di tipo regionale. Controllare 21 Regioni è sicuramente più semplice che controllare una miriade di Comuni e comunelli, molti dei quali piccoli o piccolissimi. Par. 5 Le possibili soluzioni per impedire il fallimento del federalismo territoriale. In particolare: il ruolo chiave del Segretario comunale e provinciale. La recente riforma degli enti locali è chiaramente ispirata ad un federalismo che si ritiene possa essere a ragione qualificato come territoriale, in quanto fondato sull’azione delle amministrazioni territoriali a diretto e maggiore contatto con i cittadini, Comuni e Province. La concreta realizzazione di tale ipotesi federalista richiede quale indefettibile presupposto che esistano solidi ed efficaci strumenti idonei ad assicurare che l’operato delle autonomie locali si svolga nei limiti consentiti dalla legislazione nazionale e regionale. Occorre cioè garantire che l’interesse locale si realizzi nel rispetto di quello generale, concorrendo anzi al suo soddisfacimento. Ciò costituisce la maggiore e più solida garanzia dell’effettività dei poteri attribuiti e del consolidamento dell’autonomia riconosciuta. Il Segretario comunale e provinciale ha da sempre costituito la chiave di volta delle amministrazioni locali. I correttivi all’attuale situazione debbono dunque passare per tale figura, a meno che non si intenda ridefinire completamente l’assetto di Comuni e Province.

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E’ opportuno chiarire subito che il ruolo tradizionalmente svolto dal Segretario di garante della legittimità, e quindi di soggetto terzo ed imparziale rispetto all’autorità politica dell’ente nel quale svolge la propria attività, è da considerare definitamente superato per un duplice ordine di motivi. Da una parte la recente legislazione ha ridefinito i compiti della figura in modo oramai irreversibile in quanto coerente con i principi fondamentali dell’attuale processo di riforma ed in particolare con l’orientamento impresso all’azione pubblica verso i risultati apprezzabili dalla cittadinanza. Il conferimento di autonomia effettiva a Comuni e Province, in secondo luogo, presuppone che gli stessi enti possiedano le capacità di gestirla in modo appropriato. L’unico soggetto, al loro interno, in possesso delle competenze e delle attitudini necessarie allo scopo è il Segretario comunale. Il ruolo neutro ed imparziale di garante della legittimità svolto in precedenza si pone dunque in irrimediabile conflitto con le nuove ed ineludibili esigenze di Province e Comuni. Tali enti necessitano, non di funzionari che si limitino a riscontrare la conformità a legge dei singoli atti o provvedimenti amministrativi, ma di professionalità che consentano di fruire interamente della maggiore autonomia riconosciuta, attraverso attività sicuramente legittime, ma anche idonee a raggiungere gli obiettivi posti a tutela degli interessi della collettività di riferimento dagli organi rappresentativi (Sindaco, Giunta e Consiglio). Gran parte dei Comuni italiani è di dimensioni piccole o piccolissime, con capacità finanziarie corrispondentemente ridotte o ridottissime. Si tratta, quindi, di enti privi dei mezzi necessari per far ricorso a risorse umane altamente qualificate diverse dal Segretario comunale. Anche nel caso in cui tali risorse fossero disponibili, inoltre, l’orientamento dell’azione pubblica verso i risultati apprezzati dall’utenza ne comporterebbe il prioritario utilizzo per la soddisfazione degli interessi della collettività amministrata. Le considerazioni svolte mantengono quindi la propria validità anche nella prospettiva dell’accorpamento degli enti di minori dimensioni. Sulla base dei presupposti sopra esposti, si potrebbero ipotizzare i seguenti correttivi: - assegnazione esplicita al Segretario comunale del compito e della responsabilità del raggiungimento degli indirizzi e degli obiettivi posti dall’autorità politica in modo conforme alla normativa vigente. Il Segretario comunale deve divenire il soggetto responsabile del complessivo andamento della gestione dell’ente, sotto tutti i profili rilevanti, di fronte agli organi politici dello stesso ente ed a tutti gli altri soggetti, interni ed esterni, pubblici e privati; - riconoscimento espresso della qualifica dirigenziale a tutti i Segretari comunali e provinciali, indipendentemente dall’anzianità di servizio o dalle dimensioni del Comune di appartenenza. Affinché il Segretario comunale possa incidere sull’attività gestionale, assicurandone la finalizzazione al perseguimento degli indirizzi e degli obiettivi stabiliti in modo conforme alla normativa applicabile è necessario che si collochi in posizione di superiorità ma anche di continuità con la struttura burocratica. Eventuali differenti qualificazioni non possono che determinare cesure che compromettono gravemente la possibilità di intervenire efficacemente sull’attività gestionale, com’è attualmente. Il mancato riconoscimento della qualifica dirigenziale pregiudicherebbe dunque la possibilità di responsabilizzare il Segretario sotto il duplice profilo del raggiungimento degli obiettivi assegnati e della legittimità della complessiva azione amministrativa dell’ente. Le differenze nel trattamento giuridico ed economico dei Segretari non potranno che intervenire all’interno della comune qualificazione; - soppressione della possibilità di conferire la responsabilità degli uffici e dei servizi a dipendenti privi della qualifica dirigenziale. Il Segretario, negli enti sprovvisti di dirigenza, dovrà assommare tutte le competenze e le responsabilità dirigenziali conseguenti all’attuazione del principio di separazione tra attività gestionali ed attività di indirizzo e di controllo in modo da rendere tale principio effettivo ed applicato. Allo scopo si avvarrà del personale dipendente, il quale dovrà essere opportunamente responsabilizzato ed incentivato, ciascuno in relazione alla categoria ed al profilo professionale di appartenenza, mediante l’assegnazione della responsabilità del procedimento, ai sensi e per gli effetti della legge 241/90. Si produrranno così consistenti risparmi di spesa e si consentirà l’introduzione di un’organizzazione più razionale e produttiva, effettivamente adeguata alle dimensioni ridotte o ridottissime di molti Comuni ed all’esiguità delle attività di carattere gestionale in essi presenti. Ciò anche in considerazione del crescente assoggettamento delle attività private non contingentate a denuncia di inizio attività. E’ il caso del commercio e dell’urbanistica,

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solo per ricordare due settori tra i più importanti. Negli ambiti sottoposti a denuncia, acquisisce rilievo centrale la verifica della veridicità delle dichiarazioni prodotte dagli interessati, risultando invece limitata la necessità di figure dirigenziali. L’attribuzione delle competenze dirigenziali ad un soggetto in possesso della relativa qualifica, dunque, renderà reale quel ruolo forte ed unitario di impulso e di coordinamento nella gestione del quale gli enti locali di minori dimensioni avvertono estrema necessità. Sarà così possibile attuare, tra l’altro, una efficiente ed efficace gestione delle dinamiche contrattuali relative al personale dipendente. Ciò consentirà la piena responsabilizzazione del Segretario in ordine al raggiungimento degli indirizzi e degli obiettivi posti dall’autorità politica in modo conforme alla normativa applicabile. Assumerà quindi, negli enti privi di dirigenza e con esclusivo riferimento all’attività di carattere gestionale, quel ruolo centrale che prima era svolto dal Sindaco (il quale provvedeva al rilascio delle concessioni, delle autorizzazioni, dei nulla osta, dei relativi dinieghi e di tutti gli altri atti oggi di competenza dirigenziale); - limitazione della responsabilità penale del Segretario per fatti compiuti nello svolgimento od a motivo delle proprie funzioni ad un numero limitato di fattispecie di particolare gravità o che denotino chiaramente il dolo o la colpa grave. Ciò non certo per alleggerire il carico dei tribunali penali o per riconoscere ingiustificabili privilegi, ma per consentire al Segretario di acquisire quella serenità necessaria per operare in modo efficace, efficiente ed economico. Il rischio dell’avvio di estenuanti ed interminabili procedimenti penali, nei quali l’avviso di garanzia equivale a condanna definitiva nei confronti dei dipendenti e della collettività e dove la condanna o l’assoluzione dipendono spesso dagli altalenanti orientamenti della giurisprudenza, produce un grave effetto paralizzante rispetto all’esercizio di quell’attività decisionale connaturata ad una gestione effettivamente orientata al perseguimento degli obiettivi e degli indirizzi assegnati. La semplificazione della normativa avrebbe inoltre un maggiore effetto deterrente, in quanto alla commissione del fatto corrisponderebbe sicuramente, ed in tempi rapidi, l’erogazione della sanzione; - accorpamento dei Comuni più piccoli, per i quali non sussistano valide ragioni di sopravvivenza, in entità di dimensioni tali da consentire una gestione amministrativa efficace, efficiente, economica ed idonea al soddisfacimento delle esigenze della collettività locale. Gli strumenti utilizzati sino a questo momento dalla normativa, basati essenzialmente sull’incentivazione finanziaria, hanno prodotto risultati del tutto insoddisfacenti. E’ necessario un intervento più incisivo che riesca a coniugare l’autonomia degli enti coinvolti con il perseguimento dell’obiettivo. Dovrà quindi essere abbandonata la strada che rimette la realizzazione degli accorpamenti alla mera volontà degli enti interessati. Si potrebbe ipotizzare, allo scopo, un processo mirato e graduale gestito e coordinato dalle autorità nazionali centrali, suddiviso in più fasi distinte consistenti nell’individuazione degli enti da unificare, nell’assegnazione alle amministrazioni così identificate di un termine per la realizzazione volontaria dell’unione (con il vantaggio di stabilire un’autonoma disciplina all’interno dei principi prestabiliti dalla normativa nazionale e di fruire dei finanziamenti pubblici), nell’intervento in caso di inadempienza di autorità centrali aventi il compito di realizzare l’accorpamento in via sostitutiva; - riordino generale della normativa statale e regionale riguardante il Comune e la Provincia in modo che risultino con chiarezza ed esattezza i limiti posti alla loro azione, a salvaguardia dei superiori interessi della collettività nazionale e dell’unitarietà ed indivisibilità dell’ordinamento. Ciò consentirà agli enti di acquisire innanzi tutto consapevolezza dell’esatta entità dell’autonomia riconosciutagli e quindi di esercitare in modo appropriato i conseguenti poteri decisionali. Un importante passo in questo senso è stato compiuto con i testi unici in materia di ordinamento delle autonomie locali, di espropri e di urbanistica. Le contraddizioni interne a tali testi, i continui rimaneggiamenti apportati, la sopravvivenza di una miriade di leggi di settore che attendono da tempo di essere coordinate, creano però tuttora una situazione di massima incertezza che da una parte pregiudica la tutela degli interessi generali e dall’altra premia la spregiudicatezza di certi amministratori a danno di quelli rispettosi delle regole; - eliminazione completa della possibilità di nominare un Direttore Generale diverso dal Segretario comunale nonché della possibilità di conferire le funzioni di Direttore al Segretario. La presenza di due vertici burocratici all’interno di un medesimo ente crea inevitabilmente sovrapposizioni di competenze e quindi incomprensioni e conflitti. Le

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ragioni profonde del contrasto sono da rinvenire nella sostanziale coincidenza del compito ultimo di entrambe le figure, consistente nella realizzazione degli indirizzi e degli obiettivi stabiliti dall’autorità politica dell’ente. Il Direttore Generale deve quindi essere soppresso perché le attribuzioni ad esso conferite dalla legge costituiscono già patrimonio del Segretario comunale, come è chiaramente denotato dalla nomina e dalla revoca ad opera del capo dell’amministrazione locale; - contemperamento tra la necessaria dipendenza del Segretario dal capo dell’amministrazione, in relazione al perseguimento degli indirizzi e degli obiettivi, e la altrettanto necessaria autonomia affinché l’attività gestionale si svolga nell’assoluta sostanziale legalità. Tale obiettivo potrebbe essere perseguito attraverso: - correlazione di una quota consistente della retribuzione, entro limiti minimi e massimi prestabiliti dalla contrattazione collettiva nazionale, alle valutazioni periodiche compiute dalla Giunta comunale e provinciale circa il raggiungimento degli indirizzi e degli obiettivi assegnati; - soppressione della decadenza automatica del Segretario alla scadenza del mandato del Sindaco o del Presidente della Provincia. La prospettiva del mancato rinnovo dell’incarico costituisce un fattore che compromette gravemente il rispetto della normativa nazionale nel compimento dell’attività gestionale; - possibilità per il capo dell’amministrazione di adottare motivato provvedimento di revoca in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi. La revoca, però, potrà essere disposta solamente previo nulla osta da parte di un collegio arbitrale composto da un membro nominato dal Segretario interessato, da un membro nominato dalla Giunta comunale e da un soggetto terzo di indubbia probità e competenza nominato da entrambe le parti di comune accordo o, in mancanza, dal Presidente dell’Agenzia Autonoma Segretari, con funzioni di Presidente (ma ai fini dell’individuazione del Presidente potrebbero prospettarsi numerose altre soluzioni alternative); - revisione delle modalità di nomina del Segretario secondo quanto ipotizzato al punto successivo; - previsione espressa e tassativa della obbligatorietà della nomina entro termini certi dalla vacanza della sede di segreteria. Al fine di rendere effettivo l’obbligo, sarà opportuna la previsione di una sanzione pecuniaria a carico del Comune inadempiente per ogni giorno di ritardo. La procedura di nomina potrebbe essere articolata secondo i seguenti passaggi essenziali: - possibilità per il Sindaco ed il Presidente della Provincia di individuare direttamente il Segretario da nominare. La nomina sarà subordinata alla positiva verifica, in capo al Segretario individuato, ad opera dell’Agenzia, del possesso dei requisiti prescritti dalla legge e dalla contrattazione collettiva per la titolarità dell’ente in questione. L’atto di nomina dovrà essere opportunamente motivato rendendo conto della sussistenza di un adeguato rapporto di congruità tra le competenze, le attitudini e le capacità del Segretario individuato, quali risultanti dal relativo curriculum, ed i programmi e gli obiettivi da realizzare. Non sarà invece necessaria la motivazione comparativa. La responsabilizzazione di Sindaci e Presidenti di fronte al proprio elettorato costituisce un fattore che induce a ritenerla superflua; - in caso di mancata individuazione diretta, l’Agenzia, su richiesta del capo dell’amministrazione o d’ufficio, provvederà alla pubblicizzazione della sede vacante, in modo che tutti i Segretari in possesso dei requisiti necessari per la nomina presso l’ente di cui si tratta possano proporre al capo dell’amministrazione, entro termini prestabiliti, la propria candidatura; - in mancanza di individuazione diretta, in assenza di candidature o nel caso in cui l’ente non si decida alla nomina entro i termini prescritti, l’Agenzia nazionale o regionale, su richiesta del capo dell’amministrazione o d’ufficio, trasmetterà all’amministrazione interessata una terna di nominativi, fra i quali dovrà essere scelto il soggetto da nominare. In caso di ulteriore inadempienza, ferme le sanzioni pecuniarie del caso e le altre misure a carico degli organi responsabili, l’Agenzia provvederà alla nomina in sostituzione, la quale spiegherà gli stessi effetti di quella effettuata dal capo dell’amministrazione; - il Segretario nominato (in modo diretto od in quanto compreso nella terna proposta dall’Agenzia ovvero ancora nominato in via sostitutiva dall’Agenzia), potrà rifiutare la nomina solamente quando la sede del Comune o della Provincia disti oltre una certa distanza, da stabilire, dal Comune di residenza. Ciò salvo il caso, da valutare da parte dell’Agenzia, di collegamenti particolarmente disagiati o di particolari situazioni

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personali. In assenza di validi motivi, l’Agenzia dovrà disporne la cancellazione dall’Albo; - assoggettamento dell’attività gestionale del Comune a verifica periodica intesa ad accertarne la legittimità. La competenza al controllo potrebbe essere svolta dalle attuali Agenzie del territorio o da altri organismi da individuare, o da istituire, espressione delle autorità nazionali. Il controllo dovrà riguardare l’intera attività gestionale dell’ente, della quale il Segretario comunale e provinciale sarà il responsabile ultimo. Il controllo dovrà essere incentrato esclusivamente sulla legittimità degli atti adottati e delle attività intraprese senza alcuna possibilità di valutazione in rapporto ai programmi ed agli obiettivi stabiliti dall’autorità politica, salvaguardando così l’autonomia degli enti locali; - responsabilizzazione del Segretario comunale per la legittimità dell’attività gestionale attraverso la previsione di sanzioni differenziate, in relazione alla gravità ed alle concrete circostanze, per il caso di riscontrate illegittimità od irregolarità. Le sanzioni potranno avere natura pecuniaria e comportare anche, nel caso di gravi o reiterate violazioni di legge, la revoca dall’incarico presso il Comune e la Provincia. La competenza alla loro erogazione non dovrà spettare al Sindaco od al Presidente della Provincia ma al soggetto pubblico avente il compito di eseguire i controlli od all’Agenzia Segretari, alla quale detto soggetto dovrà rimettere gli atti per l’adozione dei provvedimenti di competenza. Quest’ultima soluzione risulta preferibile perché riesce a coniugare la necessità del controllo con l’autonomia degli enti locali. L’Agenzia dovrà essere composta in modo paritario da rappresentanti dei Segretari e dei Sindaci e presieduta da un soggetto terzo di indubbia moralità e competenza, di nomina ministeriale. L’operato dell’Agenzia, per quanto attiene all’espletamento delle funzioni in discorso, dovrà essere soggetto a vigilanza del Ministero dell’Interno; - incentivazione della mobilità del Segretario comunale e provinciale, anche mediante la creazione di un mercato delle professionalità che valorizzi i più capaci e costituisca motivo di miglioramento per tutti. La mobilità costituisce un mezzo che consente l’acquisizione di nuove esperienze e quindi il perfezionamento e potenziamento delle attitudini gestionali, impedendo altresì il consolidarsi di pericolose posizioni di potere. Ciò si pone in linea con la legislazione più recente, la quale sembra averne acquisito appieno il valore. Sarà semmai opportuno che la normativa incentivi il maturare di esperienze temporanee anche presso amministrazioni pubbliche diverse da quelle comunali e provinciali, permettendo così un utile raffronto con sistemi organizzativi e gestionali di differente natura. Un valido strumento per rendere effettiva la mobilità potrebbe essere costituito dal riconoscimento al capo dell’amministrazione della possibilità di offrire al Segretario in carica un compenso una tantum, entro importi predeterminati dalla normativa, per incentivarne l’uscita volontaria dall’ente, e della possibilità di riconoscere al Segretario che si intende nominare, allo scopo di ottenerne l’accettazione, un compenso aggiuntivo, avente anch’esso carattere eccezionale ed una tantum contenuto entro i limiti stabiliti dalla normativa; - potenziamento, contestualmente allo snellimento delle strutture burocratiche, della Scuola Superiore di Pubblica Amministrazione Locale. L’attività della Scuola, in particolare, dovrà svolgere un ruolo strategico nell’assicurare quella formazione continua del Segretario comunale che costituisce l’indefettibile presupposto per renderlo adeguato alle nuove esigenze delle autonomie locali. Al tal fine sarà opportuno che la partecipazione dei Segretari alle attività formative condizioni, entro limiti da stabilire, le progressioni economiche e di carriera. Dovranno però essere introdotti strumenti idonei ad assicurare la qualità dei corsi organizzati; - mutamento della denominazione del Segretario comunale e provinciale in quella di "Direttore territoriale". Una differente denominazione si rivela oramai necessaria in corrispondenza con il radicale cambiamento delle funzioni assolte. L’espressione Direttore territoriale qui proposta ha il pregio di evidenziare sinteticamente il ruolo assolto dalla figura di Responsabile della complessiva gestione degli enti territoriali, Comuni e Province. Ne renderebbe inoltre chiaro il compito di perseguimento degli indirizzi e degli obiettivi posti dall’autorità politica locale nel rispetto della normativa di rilievo regionale e nazionale applicabile. Merita rilevare, infine, che le funzioni ed i compiti del Segretario comunale e provinciale, in quanto intesi ad assicurare che gli indirizzi e gli obiettivi stabiliti da Sindaci e Presidenti per il soddisfacimento degli interessi locali si realizzino nel rispetto sostanziale della normativa nazionale, e quindi che l’autonomia di Comuni e

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Province si sviluppi in modo coerente e conforme agli inderogabili principi dell’unitarietà ed indivisibilità dell’ordinamento, restano soggetti alla disciplina della legge. Ciò anche a seguito della riforma costituzionale conseguente al referendum del giorno 7 ottobre 2001. TOMMASO MIELE (Consigliere della Corte dei Conti) La riforma costituzionale del titolo V della seconda parte della Costituzione: gli effetti sull’ordinamento. 1. Premessa – 2. La potestà legislativa delle Regioni nelle materie di cui al nuovo testo dell’art. 117 della Costituzione - 3. La potestà legislativa residuale delle Regioni nelle materie non espressamente riservate alla legislazione dello Stato - 4. I limiti della potestà legislativa regionale - 4.1. I limiti della potestà legislativa regionale: a) il rispetto della Costituzione (art. 117, 1° comma, Cost., come modificato dall’art. 3 della legge costituzionale n. 3/2001) - 4.2. I limiti della potestà legislativa regionale: b) il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali (art. 117, 1° comma, Cost., come modificato dall’art. 3 della legge costituzionale n. 3/2001) - 4.3. I limiti della potestà legislativa regionale: c) il limite (negativo) del rispetto della legislazione esclusiva dello Stato (art. 117, 2° comma, Cost., come modificato dall’art. 3 della legge costituzionale n. 3/2001) - 4.4. I limiti della potestà legislativa regionale: d) il limite della determinazione dei principi fondamentali nelle materie di legislazione concorrente in cui le Regioni hanno potestà legislativa (art. 117, 3° comma, Cost., come modificato dall’art. 3 della legge costituzionale n. 3/2001) - 4.5. I limiti previsti dal vecchio testo dell’art. 117 della Costituzione: a) i principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato; b) l’interesse nazionale e quello di altre Regioni - 5. L’entrata in vigore della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3: effetti sulla normativa vigente - 6. Il principio di autocompletamento dell’ordinamento e la funzione suppletiva della legislazione statale - 7. In particolare: effetti dell’entrata in vigore della legge costituzionale n. 3/2001 sull’ordinamento degli enti locali - 8. Effetti dell’entrata in vigore della legge costituzionale n. 3/2001 sul sistema dei controlli negli enti locali: l’abrogazione dell’art. 130 Cost. - 9. Effetti dell’entrata in vigore della legge costituzionale n. 3/2001 sulla legge n. 59/1997 (legge Bassanini) e sul d.lgs. n. 112/1998 sul decentramento amministrativo - 10. Conclusioni 1. Premessa Nel dibattito che si è sviluppato negli ultimi tempi fra i giuristi e fra le diverse forze politiche del nostro Paese in merito alla trasformazione in senso federale dello Stato, un punto fermo è ormai rappresentato dalla recente entrata in vigore della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, recante "Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione" (in G.U. n. 248 del 24 ottobre 2001 ed in vigore dall’8 novembre 2001), la cui applicazione, al di là delle posizioni oscillanti fra federalismo minimo e federalismo massimo, comporterà effetti significativi e profonde innovazioni nell’ordinamento giuridico, soprattutto in quei settori di legislazione riguardanti le materie rientranti, in base alla nuova formulazione dell’art. 117 della Costituzione, come modificato dall’art. 3 della suddetta legge costituzionale n. 3/2001, nella potestà legislativa delle Regioni. Basti pensare, in proposito, agli effetti che l’esercizio della potestà legislativa delle Regioni in materie fin qui riservate alla potestà legislativa dello Stato comporterà su testi normativi fondamentali del nostro ordinamento approvati negli ultimi anni, quali, ad esempio, la legge sul procedimento amministrativo e sul diritto di accesso ai documenti amministrativi (legge 7 agosto 1990, n. 241), la legge quadro in materia di lavori pubblici (legge 11 febbraio 1994, n. 109, come modificata dalla legge 18 novembre 1998, n. 415 – c.d. legge Merloni-ter), il testo unico sul pubblico impiego, approvato con il d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, recante "Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche" (in suppl. ord. alla G.U. n. 106 del 9 maggio 2001), il testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, approvato con il d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (in suppl. ord. n. 162 alla G.U. n. 227 del 28 settembre 2000), o il nuovo sistema dei

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controlli interni nelle pubbliche amministrazioni di cui al d.lgs. 30 luglio 1999, n. 286, recante "Riordino e potenziamento dei meccanismi e strumenti di monitoraggio e valutazione dei costi, dei rendimenti e dei risultati dell’attività svolta dalle amministrazioni pubbliche, a norma dell’articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59" (in G.U. n. 193 del 18 agosto 1999), o, da ultimo, il testo unico sull’edilizia. Non v’è dubbio, infatti, che per effetto dell’entrata in vigore della legge di riforma costituzionale n. 3/2001, e dell’eventuale esercizio della potestà legislativa regionale nelle materie ad essa riservate dal nuovo testo dell’art. 117 Cost., settori fondamentali dell’ordinamento giuridico, fin qui disciplinati in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale, potrebbero essere disciplinati, in futuro, in maniera diversa da Regione a Regione, sulla base di una specifica disciplina dettata dalla legislazione regionale. Nell’imminenza dell’entrata in vigore della legge costituzionale n. 3/2001 (8 novembre 2001), il dibattito sembra essersi incentrato, peraltro, sugli effetti della riforma sulla normativa in materia di appalti pubblici (si veda, nel n. 10/2001 di questa rivista, M. Greco, Prime valutazioni in merito agli effetti della riforma costituzionale sulla normativa in materia di appalti pubblici), o sul sistema dei controlli negli enti locali, e segnatamente, sulla immediata, o meno, abrogazione del controllo di legittimità del Coreco sugli atti degli enti locali per effetto della abrogazione dell’art. 130 Cost. (si veda, sempre nel n. 10/2001 della rivista, L. Oliveri, L’abrogazione dei controlli sugli atti degli enti locali; A. Riccardo, Riforma costituzionale e controllo sugli atti...ecc.; nonché, G. Virga, I nuovi principi costituzionali non possono abrogare per implicito le disposizioni delle leggi previgenti, o sul destino riservato alla categoria dei segretari comunali alla luce della possibilità delle Regioni di darsi una disciplina sull’ordinamento degli enti locali difforme da quella prevista dal citato d.lgs. n. 267/2000 (si veda A. Bianco, Il Sole 24 Ore del lunedì del 22 ottobre 2001, pag. 25). Per cogliere in tutta la loro portata gli effetti che le modifiche del titolo V della seconda parte della Costituzione potranno avere sull’ordinamento giuridico, e in particolare, su settori fondamentali della legislazione statale, come il settore degli appalti, il settore del commercio, l’ordinamento strutturale e funzionale della pubblica amministrazione, l’ordinamento degli enti locali, e su altri settori fondamentali dell’ordinamento, occorre considerare non tanto l’ambito di esercizio della potestà legislativa delle Regioni, e cioè, le materie su cui le stesse possono legiferare alla luce del nuovo testo dell’art. 117 Cost., quanto i limiti – sicuramente minori rispetto a prima - che la stessa potestà legislativa regionale incontra nel nuovo sistema legislativo delineato dalla legge di riforma n. 3/2001, nonché il rapporto fra la legislazione regionale e la legislazione statale nelle materie in cui sia lo Stato che le Regioni possono legiferare. In definitiva, per valutare adeguatamente gli effetti che la riforma costituzionale potrà comportare in settori fondamentali dell’ordinamento, fin qui disciplinati in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale, e che in futuro potrebbero essere disciplinati in maniera diversa da Regione a Regione sulla base di una specifica disciplina dettata dalla legislazione regionale, occorre prendere in considerazione i seguenti elementi: a) il nuovo ambito di esercizio della potestà legislativa delle Regioni rispetto a quello precedentemente previsto, da valutare soprattutto alla luce delle materie riservate alla legislazione esclusiva dello Stato; b) i limiti – sicuramente minori rispetto a prima - che la stessa potestà legislativa delle Regioni incontra nel nuovo sistema legislativo delineato dalla legge di riforma n. 3/2001, e l’ambito di esercizio della potestà legislativa in cui alcuni di tali limiti hanno efficacia vincolante e quello in cui non ne hanno; c) il rapporto fra la legislazione regionale e la legislazione statale nelle materie in cui sia lo Stato che le Regioni possono legiferare; d) la soppressione del controllo obbligatorio sulle leggi regionali stabilita per effetto della nuova formulazione dell’art. 127 della Costituzione prevista dall’art. 8 della legge costituzionale n. 3/2001. 2. La potestà legislativa delle Regioni nelle materie di cui al nuovo testo dell’art. 117 della Costituzione Così individuati gli elementi da prendere in considerazione per valutare gli effetti che l’entrata in vigore delle modifiche del titolo V della seconda parte della Costituzione potrà avere su settori importanti dell’ordinamento, e segnatamente, sulla legislazione statale attualmente vigente in particolari settori, occorre, in primo luogo, verificare

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l’ambito di esercizio della potestà legislativa delle Regioni alla luce del nuovo testo dell’art. 117 della Costituzione, come modificato dall’art. 3 della legge costituzionale n. 3/2001. E’ indubbio che tale verifica debba essere fatta non solo mediante la ricognizione (in positivo) delle materie riservate alla potestà legislativa concorrente delle Regioni (art. 117, 3° comma, Cost., come modificato dall’art. 3 della legge costituzionale n. 3/2001), ma anche mediante la ricognizione (in negativo) delle materie riservate alla potestà legislativa dello Stato, nonché attraverso la ricognizione dei limiti che la stessa potestà legislativa regionale incontra all’interno e all’esterno dell’ordinamento nazionale. Come è noto, la riforma costituzionale operata con la legge n. 3/2001 ha inteso realizzare nel nostro Paese una forma di federalismo – minimo o massimo a seconda delle diverse posizioni – mediante l’attribuzione alle autonomie territoriali di più ampi poteri legislativi e amministrativi rispetto a quelli precedentemente previsti. Allo scopo di realizzare tale obiettivo, il legislatore costituente ha rovesciato, in linea di massima, il criterio di ripartizione della potestà legislativa fra Stato e Regioni previsto dal sistema previgente. Mentre prima, infatti, l’art. 117 della Costituzione si limitava ad indicare - positivamente - le sole materie in cui la Regione poteva emanare norme legislative ".. nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, sempreché le norme stesse non siano in contrasto con l’interesse nazionale e con quello di altre Regioni" (vecchio testo dell’art. 117, comma 1, Cost.), riservando implicitamente, con criterio residuale, alla legislazione esclusiva dello Stato ogni altra materia non indicata fra le materie in cui le Regioni avevano potestà legislativa concorrente, il nuovo testo dell’art. 117 Cost., come riscritto dall’art. 3 della legge costituzionale n. 3/2001, rovesciando sostanzialmente il criterio di ripartizione della potestà legislativa fra Stato e Regioni precedentemente previsto, oltre ad indicare positivamente le materie riservate alla potestà legislativa concorrente delle Regioni (nuovo testo dell’art. 117, 3° comma, Cost.), si è preoccupato di indicare positivamente le sole materie riservate alla legislazione esclusiva dello Stato (nuovo testo dell’art. 117, 2° comma, Cost.), da ritenere conseguentemente sicuramente sottratte alla potestà legislativa delle Regioni, assegnando invece a quest’ultima, con un criterio residuale che costituisce il vero punto di svolta per la realizzazione di un ampio federalismo, "la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato" (nuovo testo art. 117, 4° comma, Cost., come modificato dall’art. 3 della legge costituzionale n. 3/2001). Ciò premesso, iniziando dalla ricognizione delle materie riservate (positivamente) alla potestà legislativa concorrente delle Regioni, va rilevato che il nuovo testo dell’art. 117, 3° comma, Cost. stabilisce che "sono materie di legislazione concorrente quelle relative a: rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni; commercio con l'estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva l'autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale; professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all'innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia; previdenza complementare e integrativa; armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale" (art. 117, 3° comma, Cost., come modificato dall’art. 3 della legge costituzionale n. 3/2001). Essendo in tali materie prevista una potestà legislativa concorrente delle Regioni, è appena il caso di rilevare che su di esse possono legiferare sia le Regioni che lo Stato, anche se, anticipando in parte il discorso sui limiti della potestà legislativa delle Regioni, va detto che questa incontra, nelle suddette materie di legislazione concorrente, il limite (negativo) e il vincolo (positivo) della "determinazione dei principi fondamentali", riservata alla legislazione dello Stato ai sensi dell’ultima parte della stessa disposizione di cui al nuovo testo dell’art. 117, 3° comma, Cost.. Ciò è a dire che nelle suddette materie di legislazione concorrente, pur potendo le Regioni legiferare in concorrenza con la potestà legislativa statale, comunque non possono legiferare in materia di determinazione dei principi fondamentali sulle

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materie stesse, essendo questa riservata – come si è detto - alla potestà legislativa statale. Non a caso, peraltro, si è detto che la "determinazione dei principi fondamentali" di cui al nuovo testo dell’art. 117, 3° comma, Cost.. costituisce "limite" (negativo) e "vincolo" (positivo) per la legislazione regionale concorrente. Invero, la formulazione della norma sembrerebbe indurre a ritenere che "la determinazione dei principi fondamentali" nelle materie di legislazione concorrente sia solamente riservata alla potestà legislativa statale e sottratta, conseguentemente, alla potestà legislativa delle Regioni, e che non costituisca, invece, un limite positivo, o un vincolo, ad essa. In realtà, la ratio della disposizione va rinvenuta proprio nella volontà del legislatore costituente di fissare un limite positivo alla potestà legislativa concorrente delle regioni, con conseguente obbligo per le Regioni stesse di uniformarsi, nelle materie di legislazione concorrente, ai principi fondamentali determinati, in tali materie, dalla legislazione statale. Ed infatti, in tanto può parlarsi di "principi fondamentali" nelle materie di legislazione concorrente, in quanto gli stessi siano destinati a disciplinare in maniera uniforme determinati aspetti delle materie in questione sull’intero territorio nazionale, e costituiscano, quindi, un vincolo per la potestà legislativa concorrente delle Regioni, tenute, in ogni caso, alla loro osservanza per esigenze di uniformità di disciplina sull’intero territorio nazionale. Così determinate – positivamente - le materie su cui le Regioni possono legiferare in concorrenza con lo Stato, e il vincolo che in tali materie incontra la potestà legislativa concorrente delle Regioni, ai fini della esatta definizione del campo d’azione della stessa potestà legislativa regionale occorre altresì operare una ricognizione delle materie che, in quanto riservate alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, sono sicuramente sottratte – in negativo – alla potestà legislativa delle Regioni. Ebbene, il secondo comma dell’art. 117 Cost., come sostituito dall’art. 3 della legge costituzionale n. 3/2001, stabilisce che "lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti materie: a) politica estera e rapporti internazionali dello Stato; rapporti dello Stato con l'Unione europea; diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all'Unione europea; b) immigrazione; c) rapporti tra la Repubblica e le confessioni religiose; d) difesa e Forze armate; sicurezza dello Stato; armi, munizioni ed esplosivi; e) moneta, tutela del risparmio e mercati finanziari; tutela della concorrenza; sistema valutario; sistema tributario e contabile dello Stato; perequazione delle risorse finanziarie; f) organi dello Stato e relative leggi elettorali; referendum statali; elezione del Parlamento europeo; g) ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali; h) ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale; i) cittadinanza, stato civile e anagrafi; l) giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa; m) determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale; n) norme generali sull'istruzione; o) previdenza sociale; p) legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane; q) dogane, protezione dei confini nazionali e profilassi internazionale; r) pesi, misure e determinazione del tempo; coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell'amministrazione statale, regionale e locale; opere dell'ingegno; s) tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali" (art. 117, 2° comma, Cost., come modificato dall’art. 3 della legge costituzionale n. 3/2001). La riserva di tali materie alla potestà legislativa esclusiva dello Stato costituisce un sicuro limite alla potestà legislativa delle Regioni, essendo chiaro che su tali materie le Regioni non possono legiferare. Pertanto, se l’elencazione delle materie in cui è riconosciuta alle Regioni potestà legislativa concorrente, di cui sopra si è detto,

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costituisce il primo punto di riferimento – in positivo – nella definizione del campo d’azione della potestà legislativa regionale, il limite della riserva delle suddette materie alla potestà legislativa esclusiva dello Stato rappresenta un ulteriore punto di riferimento – in negativo – nella ricostruzione dell’ambito di esercizio della potestà legislativa regionale. 3. La potestà legislativa residuale delle Regioni nelle materie non espressamente riservate alla legislazione dello Stato Al di là di tali parametri, che costituiscono dei sicuri punti di riferimento nella delimitazione dell’ambito di esercizio della potestà legislativa delle Regioni, un ulteriore elemento fondamentale per l’esatta determinazione di tale ambito è costituito dalla disposizione di cui all’art. 117, 4° comma, Cost., come modificato dall’art. 3 della legge costituzionale n. 3/2001, la quale stabilisce – come si è detto - che "spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato" (art. 117, 4° comma, Cost., come modificato dall’art. 3 della legge costituzionale n. 3/2001). La previsione di una "potestà legislativa residuale" alle Regioni nelle materie non espressamente riservate alla legislazione dello Stato, pur apparendo, a prima vista, una attribuzione "secondaria" di potestà legislativa rispetto a quella costituita dalla esplicita elencazione delle materie di legislazione regionale concorrente, ha una portata attributiva molto più ampia rispetto a quest’ultima, in quanto amplia notevolmente – di fatto - la sfera della potestà legislativa delle Regioni, e rappresenta, forse, il vero punto di svolta per l’attuazione di quel "federalismo massimo" invocato da tempo dalle autonomie locali e da alcune Regioni del Paese. Da parte di alcuni, peraltro, si sostiene che la potestà legislativa in parola sia una potestà legislativa esclusiva delle regioni. In realtà, la norma si limita ad affermare testualmente che "spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato", ma non sembra attribuire alla Regioni una potestà legislativa esclusiva sulle stesse materie, nel senso che sarebbe contestualmente precluso allo Stato di legiferare su tali materie, atteso che dal testo della norma non si ricava né l’affermazione di una potestà legislativa esclusiva delle Regioni, né una preclusione della potestà legislativa dello Stato sulle materie stesse. Invero, da una attenta analisi del sistema legislativo delineato dalla legge di riforma costituzionale, e segnatamente dal nuovo testo dell’art. 117 Cost. come modificato dalla legge costituzionale n. 3/2001, sembrerebbe di poter cogliere la differenza fra la potestà legislativa concorrente delle regioni di cui al comma 3, e la potestà legislativa delle stesse regioni di cui al comma 4 dello stesso art. 117 nel fatto che mentre nell’esercizio della prima le Regioni incontrano il limite della determinazione dei principi fondamentali della materia, riservata alla legislazione dello Stato, e sono tenute al vincolo dell’osservanza degli stessi principi fondamentali, nelle seconde tale limite non sussiste, sicché si tratta di una potestà legislativa pur sempre concorrente con quella dello Stato, ma "pura", senza, cioè, il vincolo della osservanza dei principi fondamentali della materia che sussiste invece nelle materie di legislazione regionale concorrente "tipizzata" di cui al comma 3 dell’art. 117 Cost. Non a caso, le materie di legislazione concorrente di cui al terzo comma dell’art. 117 Cost., in quanto soggette ad una disciplina più restrittiva rispetto a quelle di cui al quarto comma dello stesso articolo sono indicate ed elencate espressamente, e quindi tipizzate e determinate. Tale considerazione, peraltro, se da un lato, contribuisce a sgomberare il campo da ogni residuo dubbio in merito alla natura della potestà legislativa residuale delle regioni nelle materie non espressamente riservate alla legislazione dello Stato, dall’altro, induce a ritenere che, pur non essendo tali materie espressamente riservate alla legislazione statale, non è comunque precluso allo Stato di legiferare su di esse in concorrenza con le Regioni. In forza della norma di cui sopra, pertanto, non solo le Regioni possono legiferare in tutte le materie non espressamente riservate alla legislazione dello Stato, prevedendo una propria disciplina in deroga a quella prevista dallo Stato, ma anche lo Stato può prevedere una propria disciplina di carattere generale della materia in concorrenza con quella delle Regioni, senza che questa comporti, peraltro, alcuna limitazione alla potestà legislativa delle Regioni sulle materie disciplinate.

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In definitiva, a parte l’ambito di estensione della potestà legislativa residuale delle Regioni, può affermarsi che ciò che veramente caratterizza questo tipo di potestà legislativa regionale e che ne fa la vera chiave di svolta per l’affermazione di una effettiva autonomia delle Regioni rispetto allo Stato, è il fatto che in tali materie, a differenza di quelle di legislazione concorrente, la potestà legislativa delle Regioni non incontra il limite (negativo) e il vincolo (positivo), nel senso anzidetto, dei "principi fondamentali della materia", la cui determinazione, nelle materie di legislazione concorrente, è riservata alla legislazione dello Stato. Ciò comporta, peraltro, una vera e propria rivoluzione culturale anche per noi giuristi. Se finora siamo stati abituati a guardare ad alcune leggi o ad alcuni testi di normazione statale come "testi di riferimento della materia", in quanto aventi efficacia sull’intero territorio nazionale, d’ora in avanti dovremo abituarci a guardare a quegli stessi testi normativi come a testi normativi di riferimento per il solo ambito statale, consapevoli del fatto che la stessa materia ben può avere una disciplina diversa da Regione a Regione, sulla base delle singole leggi regionali aventi ognuna efficacia nel rispettivo ambito regionale. E questa – mi sia consentito affermare – oltre che la vera svolta per l’affermazione del federalismo, costituisce la vera svolta del diritto amministrativo nel nostro Paese, atteso che d’ora in avanti, ad esclusione delle materie riservate alla legislazione esclusiva dello Stato ai sensi del secondo comma del nuovo testo dell’art. 117 Cost., necessariamente disciplinate in maniera uniforme sull’intero territorio nazionale, e delle materie di legislazione concorrente di cui al terzo comma del nuovo testo dello stesso art. 117 Cost., nelle quali, pur potendosi avere una disciplina differenziata da Regione a Regione, comunque sarebbe possibile rinvenire una disciplina comune dettata dai "principi fondamentali della materia", la cui determinazione è riservata alla legislazione dello Stato ai sensi dell’ultima parte del terzo comma del nuovo testo dell’art. 117 Cost., in tutte le altre materie (che sono, poi, la maggior parte!) potrebbe aversi una disciplina completamente diversa da Regione a Regione, senza che la stessa sia accomunata neppure dalla presenza di quei "principi fondamentali della materia" che invece accomuna le materie di legislazione concorrente. 4. I limiti della potestà legislativa regionale Così operata la ricognizione dell’ambito di esercizio della potestà legislativa delle Regioni, per valutare adeguatamente gli effetti che il suo effettivo esercizio potrebbe avere nell’ordinamento occorre, altresì, considerare i limiti entro i quali essa può essere esercitata. A tale riguardo occorre rilevare come alcuni limiti alla potestà legislativa delle Regioni sono posti dallo stesso art. 117 Cost., come modificato dall’art. 3 della legge costituzionale n. 3/2001. Ed infatti, dal nuovo testo dell’art. 117 Cost. possono ricavarsi i seguenti limiti: a) il rispetto della Costituzione (art. 117, 1° comma, Cost., come modificato dall’art. 3 della legge costituzionale n. 3/2001); b) il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali (art. 117, 1° comma, Cost., come modificato dall’art. 3 della legge costituzionale n. 3/2001); c) il limite (negativo) del rispetto della legislazione esclusiva dello Stato (art. 117, 2° comma, Cost., come modificato dall’art. 3 della legge costituzionale n. 3/2001); d) il limite della determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato, con riferimento alle sole materie di legislazione concorrente in cui le Regioni hanno potestà legislativa ai sensi dell’art. 117, 3° comma, Cost., come modificato dall’art. 3 della legge costituzionale n. 3/2001. Va sin d’ora precisato, peraltro, che, sulla base di quanto sopra si è detto, il limite (negativo) della determinazione dei principi fondamentali della materia, e il vincolo (positivo) di osservanza degli stessi principi fondamentali, vale per la sola potestà legislativa concorrente delle Regioni e con riferimento alle sole materie di legislazione concorrente (art. 117, terzo comma, Cost.), e non anche per la potestà legislativa residuale delle Regioni nelle materie non espressamente riservate alla legislazione dello Stato (art. 117, quarto comma, Cost.), per la quale valgono, in ogni caso, i limiti del rispetto della Costituzione (art. 117, primo comma, Cost.), del rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali (art. 117, primo

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comma, Cost.), e del rispetto della legislazione esclusiva dello Stato (art. 117, secondo comma, Cost., come modificato dall’art. 3 della legge costituzionale n. 3/2001). 4.1. I limiti della potestà legislativa regionale: a) il rispetto della Costituzione (art. 117, 1° comma, Cost., come modificato dall’art. 3 della legge costituzionale n. 3/2001) Fra i limiti che l’esercizio della potestà legislativa delle Regioni incontra viene in rilievo, in primo luogo, il rispetto della Costituzione. L’art. 117, primo comma, della Costituzione, come modificato dall’art. 3 della legge costituzionale n. 3/2001 stabilisce, infatti, che "la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali". Il limite del rispetto della Costituzione, comune sia alla potestà legislativa dello Stato che alla potestà legislativa, sia concorrente che residuale, delle Regioni, deriva dalla posizione sovraordinata che la Costituzione e le norme costituzionali occupano nella gerarchia delle fonti rispetto agli atti di normazione primaria, quali sono, appunto, le leggi statali e le leggi regionali. Alla luce di tale limite, quindi, tutte le leggi dello Stato e delle Regioni devono uniformarsi – come è noto – al contenuto delle norme della Costituzione, pena la possibile declaratoria di illegittimità costituzionale che la Corte Costituzionale potrebbe pronunciare in un eventuale giudizio di costituzionalità ai sensi dell’art. 134 della Costituzione. 4.2. I limiti della potestà legislativa regionale: b) il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali (art. 117, 1° comma, Cost., come modificato dall’art. 3 della legge costituzionale n. 3/2001) Oltre al rispetto della Costituzione, un ulteriore limite posto alla potestà legislativa delle Regioni dal nuovo testo dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, è costituito dal rispetto ".. dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali". La previsione del rispetto di tali vincoli da parte della potestà legislativa regionale, non prevista nel previgente testo dell’art. 117 Cost., si giustifica in ragione della nuova posizione che le Regioni vengono ad assumere nel nuovo ordinamento di tipo federale che – checché se ne dica – la riforma costituzionale ha inteso disegnare. Nel nuovo assetto costituzionale che la legge n. 3/2001 ha delineato, infatti, la Regione, divenuta il baricentro nella tutela degli interessi pubblici fra lo Stato e l’ordinamento comunitario ed internazionale da un lato, e le autonomie locali dall’altro, rappresenta ormai l’ente di riferimento principale per la disciplina legislativa della maggior parte delle materie (ad esclusione delle sole materie riservate alla legislazione esclusiva dello Stato), in relazione alle quali appare giustificabile una disciplina differenziata nelle diverse aree del Paese, anche al fine di garantire alle stesse Regioni la massima autonomia possibile e di cogliere tutte le potenzialità economiche e sociali di cui sono capaci. A conferma di tale ruolo e della autonoma rilevanza che le Regioni hanno assunto nell’ordinamento comunitario ed internazionale sta il fatto che nel nuovo sistema delineato dalla riforma costituzionale viene ad esse riconosciuta, ad esempio, potestà legislativa concorrente in materia di "rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni" e in materia di "commercio con l’estero" (art. 117, terzo comma, Cost., come modificato dall’art. 3 della legge costituzionale n. 3/2001), come pure viene ad esse riconosciuta la possibilità di partecipare, nelle materie di loro competenza, "alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari e provvedono all’attuazione e all’esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione europea (..)" (art. 117, quinto comma, Cost., come modificato dall’art. 3 della legge costituzionale n. 3/2001), Il riconoscimento della potestà legislativa concorrente nelle suddette materie e il nuovo ruolo delle Regioni delineato dalla riforma costituzionale, pur conferendo alle stesse una autonoma rilevanza nell’ordinamento comunitario ed internazionale, quanto meno in determinate materie, non valgono, tuttavia, a conferire ad esse una autonoma soggettività sul piano dell’ordinamento internazionale.

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In considerazione di ciò, fermo restando il nuovo ruolo delineato dalla riforma costituzionale, che presenta aspetti sicuramente innovativi rispetto al precedente ordinamento, le Regioni sono comunque tenute osservare i vincoli derivanti, da un lato, dall’appartenenza alla comunità nazionale, e dall’altro, dall’appartenenza all’ordinamento comunitario europeo e all’ordinamento internazionale. In definitiva, pur avendo acquisito le Regioni una autonoma rilevanza sul piano internazionale, quanto meno in determinate materie, la potestà legislativa regionale va, in ogni caso, esercitata nel rispetto, fra l’altro, "dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali" (art. 117, 1° comma, Cost., come modificato dall’art. 3 della legge costituzionale n. 3/2001). Del resto sarebbe impensabile un riconoscimento alle Regioni del potere di disattendere gli impegni internazionali e i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali che invece valgono per lo Stato. 4.3. I limiti della potestà legislativa regionale: c) il limite (negativo) del rispetto della legislazione esclusiva dello Stato (art. 117, 2° comma, Cost., come modificato dall’art. 3 della legge costituzionale n. 3/2001) Un ulteriore limite negativo alla potestà legislativa delle Regioni è costituito – come si è già avuto modo di anticipare - dal rispetto della legislazione esclusiva dello Stato. Come si è detto, infatti, le materie indicate nel nuovo testo dell’art. 117, 2° comma, Cost., essendo riservate alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, sono sicuramente sottratte – in negativo – alla potestà legislativa delle Regioni. Peraltro, la riserva di tali materie alla potestà legislativa esclusiva dello Stato ha una duplice valenza, negativa e positiva. Per quanto possa sembrare una precisazione superflua, infatti, va detto che in forza della riserva di tali materie alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, non solo le materie stesse sono sottratte alla potestà legislativa delle Regioni, nel senso che non rientrano nella loro potestà legislativa (valenza negativa), ma è addirittura precluso ad esse di legiferare in tali materie (valenza positiva del limite). 4.4. I limiti della potestà legislativa regionale: d) il limite della determinazione dei principi fondamentali nelle materie di legislazione concorrente in cui le Regioni hanno potestà legislativa (art. 117, 3° comma, Cost., come modificato dall’art. 3 della legge costituzionale n. 3/2001) Il nuovo testo dell’art. 117 Cost. stabilisce, al terzo comma, che "nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato". Come si è già posto in evidenza, il limite ha una duplice valenza (negativa e positiva), in quanto esso sta a significare non solo che la determinazione dei principi fondamentali nelle materie di legislazione concorrente è riservata alla legislazione dello Stato, e quindi sottratta alla potestà legislativa delle Regioni, nel senso che queste ultime non possono legiferare al riguardo (valenza negativa), ma anche che tali principi costituiscono limite – e vincolo - inderogabile per la potestà legislativa concorrente delle Regioni (valenza positiva della riserva alla legislazione statale). Come si è detto, infatti, in tanto può parlarsi di "principi fondamentali" nelle materie di legislazione concorrente, in quanto tali principi siano destinati a costituire limite e vincolo per la potestà legislativa concorrente delle Regioni al fine di disciplinare in maniera uniforme determinati aspetti delle materie in questione sull’intero territorio nazionale. In altre parole, i principi fondamentali nelle materie di legislazione concorrente delle Regioni, determinati dalla legislazione statale, costituiscono, al pari della legge quadro prevista nel previgente sistema, un vincolo per la stessa potestà legislativa concorrente delle Regioni, le quali, pur potendo certamente legiferare nelle stesse materie in concorrenza con la legislazione statale, e pur potendo legiferare in maniera difforme rispetto alla concorrente disciplina legislativa statale, per esigenze di uniformità di disciplina sull’intero territorio nazionale, sono tenute, in ogni caso, alla osservanza dei "principi fondamentali della materia", la cui determinazione spetta, appunto, alla legislazione dello Stato (valenza positiva). Peraltro, pur essendo la nozione di "principio fondamentale della materia" facilmente identificabile sul piano concettuale, non altrettanto facile potrebbe essere la sua concreta identificazione, dal momento che si tratterà di stabilire di volta in volta, con

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riferimento al caso di specie, e cioè, nelle diverse materie di legislazione concorrente, quali siano "i principi fondamentali della materia", ovvero quando determinati aspetti della disciplina della materia assumano il rilievo e la valenza, ai fini che qui ne occupa, di "principi fondamentali della materia". Il problema, invero, non sussiste allorché è la stessa legge a qualificare determinati aspetti della disciplina della materia come "principi fondamentali" (qualificazione formale, o legislativa), o allorché è la stessa legge statale a qualificarsi come "legge quadro" nella materia, secondo quanto avveniva anche nel sistema di legislazione concorrente previgente. Più difficile sarà, invece, nel silenzio della legge sul punto, stabilire, sul piano sostanziale, quando un determinato aspetto della materia assuma il rilievo e la valenza di "principio fondamentale della materia", sì da costituire limite e vincolo per la legislazione concorrente delle Regioni sulla stessa materia. A tale fine, invero, un ruolo fondamentale sarà svolto indubbiamente dalla dottrina e dalla giurisprudenza, e soprattutto, dalla giurisprudenza costituzionale, la quale – si presume – sarà spesso chiamata a stabilire quando un principio o un determinato aspetto di una materia, affermato dalla legislazione dello Stato, abbia valenza di "principio fondamentale della materia", e costituisca, quindi, limite e vincolo per la legislazione concorrente delle Regioni sulla stessa materia. Fermo restando quanto fin qui detto, al fine di valutare adeguatamente gli effetti che la riforma costituzionale avrà su ampi settori della legislazione statale, e di definire il giusto rapporto fra legislazione statale e legislazione regionale, va ribadito e posto in evidenza che il limite (negativo) della determinazione dei principi fondamentali della materia, e il vincolo (positivo) di osservanza degli stessi principi fondamentali, nel senso dianzi precisato, vale per la sola potestà legislativa concorrente delle Regioni e con riferimento alle sole materie di legislazione concorrente (art. 117, terzo comma, Cost.), e non anche per la potestà legislativa residuale delle Regioni nelle materie non espressamente riservate alla legislazione dello Stato (art. 117, quarto comma, Cost.), per la quale valgono – come si è detto - i soli limiti del rispetto della Costituzione (art. 117, primo comma, Cost.), del rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali (art. 117, primo comma, Cost.), e del rispetto della legislazione esclusiva dello Stato (art. 117, secondo comma, Cost., come modificato dall’art. 3 della legge costituzionale n. 3/2001). 4.5. I limiti previsti dal vecchio testo dell’art. 117 della Costituzione: a) i principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato; b) l’interesse nazionale e quello di altre Regioni Sempre a proposito di limiti alla potestà legislativa regionale va detto, peraltro, che l’osservanza dei "principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato" era prevista come vincolo per la potestà legislativa concorrente della regioni anche dal vecchio testo dell’art. 117 Cost., il quale, nell’indicare le materie nelle quali la Regione poteva emanare norme legislative, stabiliva che comunque tali norme potevano essere emanate "nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato (..)". Non è stato invece riprodotto nel nuovo testo dell’art. 117 Cost. il limite, previsto dal testo previgente dello stesso art. 117, rappresentato dall’interesse nazionale e dall’interesse di altre Regioni. Come è noto, il vecchio testo dell’art. 117 Cost., nell’indicare – come si è detto - le materie nelle quali la Regione poteva emanare norme legislative in concorrenza con la potestà legislativa statale, stabiliva che comunque tali norme potevano essere emanate "nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, sempreché le norme stesse non siano in contrasto con l’interesse nazionale e con quello di altre Regioni (..)". Pur non essendo esplicitamente ribadito nel nuovo sistema di legislazione concorrente delle Regioni delineato dalla legge di riforma costituzionale n. 3/2001, il suddetto limite del rispetto dell’interesse nazionale e dell’interesse di altre Regioni deve comunque ritenersi sussistente. Ed infatti, il nuovo testo dell’art. 127 Cost., come sostituito dall’art. 8 della legge di riforma costituzionale n. 3/2001, stabilisce, al primo comma, che "il Governo, quando ritenga che una legge regionale ecceda la competenza della Regione, può promuovere la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte costituzionale entro sessanta giorni dalla sua pubblicazione" (art. 127, primo comma, Cost. come sostituito dall’art. 8 della legge costituzionale n. 3/2001). Il secondo comma dello stesso art. 127 Cost. stabilisce, poi, che "la Regione, quando

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ritenga che una legge o un atto avente valore di legge dello Stato o di un’altra Regione leda la sua sfera di competenza, può promuovere la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte costituzionale entro sessanta giorni dalla pubblicazione della legge o dell’atto avente valore di legge" (art. 127, secondo comma, Cost. come sostituito dall’art. 8 della legge costituzionale n. 3/2001). Alla luce di tale previsione, il limite del rispetto dell’interesse nazionale e di quello di altre Regioni, anche se in maniera implicita, deve ritenersi comunque sussistente. Esso, pertanto, continua ad essere un limite per la potestà legislativa concorrente delle Regioni sulla falsariga di quanto già espressamente stabilito dal precedente sistema di legislazione concorrente delle Regioni previsto dal vecchio testo dell’art. 117 Cost. 5. L’entrata in vigore della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3: effetti sulla normativa vigente Così ricostruito il nuovo sistema di ripartizione della potestà legislativa fra lo Stato e le Regioni e, in particolare, l’ambito di esercizio della potestà legislativa regionale delineati dalla legge di riforma costituzionale n. 3/2001, ed individuati i limiti che questa incontra nel suo concreto esercizio, si hanno tutti gli elementi per valutare adeguatamente gli effetti che la riforma potrebbe avere sulla normativa statale attualmente vigente in settori fondamentali, quali, ad esempio, quello dell’ordinamento degli enti locali. Come si è detto, l’effetto veramente innovativo che l’entrata in vigore della legge di riforma costituzionale comporterà per studiosi, operatori della pubblica amministrazione ed operatori del diritto in genere, è costituito dal fatto che mentre finora alcuni testi normativi fondamentali dello Stato, quali, ad esempio, la legge sul procedimento amministrativo e sul diritto di accesso ai documenti amministrativi (legge 7 agosto 1990, n. 241), la legge quadro in materia di lavori pubblici (legge 11 febbraio 1994, n. 109, come modificata dalla legge 18 novembre 1998, n. 415 – c.d. legge Merloni-ter), il testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, approvato con il d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (in suppl. ord. n. 162 alla G.U. n. 227 del 28 settembre 2000), o il nuovo sistema dei controlli interni nelle pubbliche amministrazioni di cui al d.lgs. 30 luglio 1999, n. 286 (pubblicato in G.U. n. 193 del 18 agosto 1999), il "Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa" approvato con il d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445 (in suppl. ord. n. 30/L alla G.U. n. 42 del 20 febbraio 2001), il testo unico sul pubblico impiego, approvato con il d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, (in suppl. ord. alla G.U. n. 106 del 9 maggio 2001), o, da ultimo, il testo unico sull’edilizia, disciplinavano le rispettive materie in maniera uniforme sull’intero territorio nazionale, d’ora in avanti, per effetto della possibilità delle Regioni di darsi, pur nel rispetto dei limiti anzidetti, una propria legge sulle stesse materie, i testi normativi di cui sopra non avranno più quella portata e quella valenza di carattere generale ad essi fin qui riconosciute – di fatto - dall’ordinamento e dagli operatori di diritto. In definitiva, in tutte le materie in cui è prevista la possibilità per la Regioni di legiferare, sia in forza della potestà legislativa concorrente di cui al terzo comma dell’art. 117 Cost. che in forza della potestà legislativa residuale di cui al quarto comma dell’art. 117 Cost., e cioè, in tutte le materie, con la sola esclusione di quelle riservate alla legislazione esclusiva dello Stato ai sensi del secondo comma dell’art. 117, Cost., potrà aversi, d’ora in avanti, una disciplina legislativa dello Stato e una disciplina legislativa delle Regioni. Ciò è a dire che mentre finora determinate materie, come quelle disciplinate dai testi normativi sopra ricordati, avevano una disciplina uniforme nell’intero ordinamento nazionale, e quindi sull’intero territorio nazionale, d’ora in avanti le stesse materie potranno avere una disciplina differenziata da Regione a Regione, o a seconda che si riferiscano a fatti, atti, uffici o fattispecie riguardanti lo Stato, o a fatti, atti, uffici o fattispecie riguardanti le Regioni. E così, alla luce della potestà legislativa delle Regioni in materia, non è da escludere, per il futuro, che accanto - ed in alternativa! - alla disciplina della documentazione amministrativa o alla disciplina del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche previste, rispettivamente, dal "Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa" approvato con il d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, o dal testo unico sul pubblico impiego, approvato con il d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, si abbiano, nelle diverse Regioni dello Stato, delle

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specifiche leggi regionali che disciplinano in maniera diversa da Regione a Regione le stesse materie di cui ai riferiti testi normativi statali. 6. Il principio di autocompletamento dell’ordinamento e la funzione suppletiva della legislazione statale Alla luce di tale evenienza viene da chiedersi quale sarà l’efficacia della legislazione statale di cui ai testi normativi sopra ricordati. In proposito, va considerato che per effetto della riforma costituzionale, pur avendo d’ora in avanti le Regioni il potere di darsi una propria disciplina legislativa concorrente, o alternativa, rispetto a quella dello Stato in tutte le materie in cui è ad esse riconosciuta potestà legislativa - concorrente o residuale – non è detto che esse si diano subito una propria disciplina legislativa in tali materie, in alternativa a quella statale. In considerazione di ciò, fino a quando le Regioni non avranno provveduto a darsi una propria disciplina legislativa in tali materie, in forza del principio di autocompletamento dell’ordinamento giuridico, la legislazione statale continuerà comunque a svolgere nelle stesse materie una "funzione suppletiva" in virtù del fatto che essa, a differenza della legislazione regionale, ha efficacia sull’intero territorio nazionale. Né può dirsi che le materie non riservate alla legislazione esclusiva dello Stato, in cui spetta alle Regioni la potestà legislativa residuale ai sensi del quarto comma dell’art. 117 Cost., non possono essere oggetto di disciplina da parte della legislazione statale, poiché – come si è detto – pur non essendo queste riservate alla legislazione esclusiva dello Stato non è comunque precluso allo Stato di legiferare su di esse. La vera differenza, come si è detto, è che, a differenza di quanto avviene nelle materie di legislazione concorrente, nelle materie di legislazione residuale non opera per la potestà legislativa regionale il vincolo dei principi fondamentali fissati dalla legge dello Stato, potendo tali principi essere determinati solo nelle materie di legislazione concorrente ai sensi del terzo comma dell’art. 117 Cost. Pertanto, potendo lo Stato comunque legiferare anche nelle materie non riservate ad esso in via esclusiva, fino a quando le Regioni non si saranno date una propria disciplina, continuerà a trovare applicazione la legislazione statale in materia, senza che questa comporti, peraltro, alcun vincolo di osservanza dei "principi fondamentali della materia" allorché le Regioni dovessero provvedere a darsi una propria disciplina legislativa in materia. Vincolo di osservanza dei "principi fondamentali della materia" che invece la potestà legislativa delle Regioni incontra nelle di legislazione concorrente di cui al terzo comma dell’art. 117 Cost., come modificato dall’art. 3 della legge costituzionale n. 3/2001, la quale va esercitata, come si è detto sopra, nel rispetto dei principi fondamentali della materia determinati dalla legislazione dello Stato. Il problema, invero, consisterà, per l’interprete – e soprattutto per il giudice delle leggi - nello stabilire quando una determinata disposizione di una legge dello Stato assuma la valenza di "principio fondamentale", sì da costituire limite – e vincolo -, per la legislazione concorrente delle Regioni. Problema, peraltro, che non sussiste, allorquando è la stessa legge dello Stato a qualificare le norme in essa contenute come "principi fondamentali della materia". 7. In particolare: effetti dell’entrata in vigore della legge costituzionale n. 3/2001 sull’ordinamento degli enti locali In considerazione di quanto si è fin qui detto, non v’è dubbio che l’entrata in vigore della legge di riforma costituzionale n. 3/2001 comporterà effetti assai significativi anche sull’ordinamento degli enti locali, il quale, dopo una stagione di grandi riforme in cui è stato interessato da una produzione legislativa assai spesso schizofrenica, sembrava aver trovato un definitivo riordino e un punto di arrivo con l’approvazione, poco più di un anno fa, del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, approvato con il d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267. Ma l’ordinamento degli enti locali sembra essere una materia destinata a non trovare pace. Dopo poco più di un anno dall’approvazione del testo unico, tutto sembra rimesso in discussione dalla possibilità per le Regioni di darsi una propria legge regionale per disciplinare la materia, a aspetti particolari di essa, in ambito regionale.

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Sulla base della ricognizione del nuovo sistema di legislazione regionale delineato dalla recente riforma costituzionale, d’ora in avanti sull’ordinamento degli enti locali possono legiferare sia lo Stato, con legge di carattere generale avente una efficacia "potenzialmente" e virtualmente estesa a tutto il territorio nazionale, sia le Regioni con una propria legge regionale, per disciplinare l’ordinamento degli enti locali, o aspetti particolari dell’ordinamento stesso, in ambito regionale. Di qui l’esigenza, per l’interprete, di stabilire il giusto rapporto intercorrente, in materia, fra la legislazione statale e la legislazione regionale, problema questo, attraverso la cui soluzione passa anche il destino del citato testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali approvato con il d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267. Non è da escludere, infatti, che, nella ipotesi in cui la legge regionale disciplini soltanto determinati aspetti dell’ordinamento degli enti locali, trovi applicazione per tali aspetti la legge regionale, e la legge dello Stato, e cioè, il testo unico di cui al d.lgs. n. 267/2000, per gli altri aspetti non ancora disciplinati dalla legislazione regionale. Già nell’imminenza dell’entrata in vigore della legge di riforma costituzionale n. 3/2001, o subito dopo, molti operatori degli enti locali, rappresentanti di categoria e studiosi della materia si sono affrettati nel pronunciare il de profundis per il testo unico e per le norme in esso stabilite, ritenendole ormai superate a fronte della possibilità per le Regioni di darsi una propria disciplina della materia. Di talché sembravano – e secondo alcuni sembrano ! – destinate ad essere poste in archivio, in quanto già abrogate, le norme sui controlli e i Coreco, le norme sui segretari comunali o le norme su altri aspetti fondamentali dell’ordinamento degli enti locali. In realtà, pur potendo d’ora in avanti le Regioni certamente darsi una propria disciplina in materia, le cose non stanno proprio in questi termini. Al riguardo, la prima considerazione che si impone, sulla base di quanto sopra si è detto, è che la materia dell’ordinamento delle autonomie locali non rientra né fra le materie di legislazione concorrente di cui al terzo comma dell’art. 117 Cost., né fra quelle riservate alla legislazione esclusiva dello Stato ai sensi del secondo comma dell’art. 117 Cost., come modificato dall’art. 3 della legge costituzionale n. 3/2001. Del resto, nel contesto della realizzazione di una sorta di federalismo (minimo o massimo che sia), che aveva fra i suoi obiettivi dichiarati quello del riconoscimento di una maggiore autonomia per gli enti territoriali e per gli enti locali, l’ordinamento degli enti locali non poteva certamente essere materia di legislazione concorrente, e meno che mai materia riservata alla legislazione esclusiva dello Stato. Sicuramente sottratta alla potestà legislativa delle Regioni, in quanto riservata alla legislazione esclusiva dello Stato in base all’art. 117, 2° comma, lett. p), della Costituzione, è, peraltro, la materia relativa alla legislazione elettorale, agli organi di governo e alle funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane (art. 117, 2° comma, lett. p), Cost., come modificato dall’art. 3 della legge costituzionale n. 3/2001). Ad esclusione di tali materie, ogni altro aspetto dell’ordinamento degli enti locali, non essendo ricompreso fra le materie riservate alla legislazione esclusiva dello Stato, o fra le materie di legislazione concorrente indicate nel terzo comma dell’art. 117 Cost., deve ritenersi ricompreso fra le altre materie che, in quanto non espressamente riservate alla legislazione dello Stato, sono attribuite alla potestà legislativa residuale delle Regioni ai sensi del quarto comma dell’art. 117 Cost., come modificato dall’art. 3 della legge costituzionale n. 3/2001. Tuttavia, sulla base di quanto sopra si è detto, pur non essendo la materia dell’ordinamento degli enti locali riservata alla legislazione esclusiva dello Stato, e pur dovendosi conseguentemente ritenere attribuita alla potestà legislativa residuale delle Regioni ai sensi del quarto comma dell’art. 117 Cost., non è affatto precluso allo Stato di legiferare su di esso. Da tale considerazione consegue che per effetto della entrata in vigore della legge costituzionale n. 3/2001 e della conseguente attribuzione della materia dell’ordinamento degli enti locali alla potestà legislativa residuale delle Regioni ai sensi del quarto comma dell’art. 117 Cost., non ne deriva una automatica caducazione del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, approvato con il d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, il quale, sulla base di quanto sopra si è detto, avendo "potenzialmente e virtualmente" efficacia sull’intero territorio nazionale, in forza del principio di autocompletamento dell’ordinamento giuridico, continuerà a svolgere, in materia, quella "funzione suppletiva" di cui sopra si è detto in tutti quegli ambiti territoriali regionali delle Regioni che non avranno provveduto a darsi una

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propria disciplina legislativa in materia, ad esclusione degli ambiti regionali delle Regioni che si saranno invece date una propria disciplina legislativa. Ciò è a dire che d’ora in avanti, il testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali approvato con il d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, al pari degli altri testi della legislazione statale innanzi menzionati, avrà una efficacia territoriale "relativa", limitata solo alle Regioni che non si saranno date una propria disciplina legislativa in materia. Una ulteriore riflessione si impone, peraltro, in merito ai rapporti fra legislazione statale e legislazione regionale in tali materie, e cioè nelle materie diverse da quelle di legislazione concorrente e non attribuite alla legislazione esclusiva dello Stato, e quindi attribuite alla potestà legislativa delle Regioni che abbiamo definito "residuale". Va detto, infatti, che i principi fissati dalla legislazione statale in tali materie, pur non essendo certamente vincolanti per la potestà legislativa delle Regioni, essendo questi vincolanti solo nelle materie di legislazione concorrente, costituiscono pur sempre dei punti di riferimento della materia che non possono essere disattesi a cuor leggero, perché costituiscono pur sempre – di fatto – i principi fondamentali della materia. Ed infatti, al di là di ogni qualificazione "formale" di determinati aspetti della materia come "principi fondamentali della materia", nel senso sopra indicato, non è detto che altri aspetti non possano comunque assurgere a livello di "principi fondamentali della materia" per effetto della elaborazione della dottrina, della giurisprudenza o della stessa legislazione. Non è da escludere, infatti, che anche nelle materie attribuite da quelle di legislazione concorrente e non attribuite alla legislazione esclusiva dello Stato, e quindi attribuite alla potestà legislativa delle Regioni che abbiamo definito "residuale", possa essere la stessa legge statale a definire alcuni aspetti della materia come "principi". E’ proprio il caso, ad esempio, del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali approvato con il d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, il quale stabilisce testualmente, all’art. 1, comma 1, che "il presente testo unico contiene i principi e le disposizioni in materia di ordinamento degli enti locali" (art. 1, comma 1, testo unico di cui al d.lgs. n. 267/2000). Alla luce di tale affermazione, le disposizioni del testo unico degli enti locali sono qualificate espressamente dal legislatore come principi fondamentali in materia di ordinamento degli enti locali. In tal caso, pur non avendo tali principi quella efficacia vincolante per la potestà legislativa regionale che i "principi fondamentali della materia" hanno nelle materie di legislazione concorrente ai sensi del terzo comma dell’art. 117 Cost., non v’è dubbio che essi, pur non avendo una efficacia vincolante formale, rappresentino pur sempre, sul piano sostanziale, i principi fondamentali della materia che il legislatore regionale dovrebbe tenere comunque presente. 8. Effetti dell’entrata in vigore della legge costituzionale n. 3/2001 sul sistema dei controlli negli enti locali: l’abrogazione dell’art. 130 Cost. Un discorso a parte merita il tema dei controlli. Al riguardo, fermo restando quanto fin qui detto in ordine al rapporto fra legislazione statale e legislazione regionale, deve considerarsi che il problema della sopravvivenza o meno del sistema dei controlli negli enti locali dopo l’entrata in vigore della legge di riforma costituzionale n. 3/2001 va affrontato e risolto alla luce della abrogazione dell’art. 130 Cost. da parte dell’art. 9, comma 2, della stessa legge costituzionale n. 3/2001. Tuttavia, contrariamente a quanto affermato da alcuni fra i primi commentatori della legge di riforma costituzionale (Oliveri), non si ritiene che il sistema dei controlli negli enti locali, e segnatamente, il controllo di legittimità del Coreco sugli atti degli enti locali, debba considerarsi automaticamente abolito per effetto della abrogazione dell’art. 130 Cost. da parte dell’art. 9, comma 2, della legge costituzionale n. 3/2001. In proposito occorre considerare, infatti, che il venir meno nell’ordinamento della norma di cui all’art. 130 Cost., che costituiva la fonte di rango costituzionale della previsione, da parte della legge ordinaria, del "controllo di legittimità sugli atti delle Province, dei Comuni e degli altri enti locali", non determina affatto il venir meno della stessa legge ordinaria che tale controllo prevede e disciplina. Infatti, come è stato giustamente osservato in dottrina fra i primi commentatori della legge n. 3/2001 (Virga, Italia), il controllo di legittimità del Coreco sugli atti degli enti locali non è

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venuto meno automaticamente per effetto della abrogazione dell’art. 130 Cost. da parte dell’art. 9, comma 2, della legge costituzionale n. 3/2001. Il controllo di legittimità del Coreco sugli atti degli enti locali, pur essendo ora virtualmente incostituzionale, non tanto perché in contrasto con la Costituzione, ma perché mancante della necessaria norma di riferimento costituzionale (si tratterebbe, in altre parole, di illegittimità costituzionale non contra legem ma praeter legem), potrà ritenersi abolito solo per effetto della eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale da parte della Corte Costituzionale delle disposizioni del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali di cui al d.lgs. n. 267/2000 da cui è previsto, a seguito della remissione allo stesso giudice delle leggi della relativa questione di legittimità costituzionale nel corso di un eventuale giudizio riguardante la legittimità di un atto sottoposto al controllo di legittimità da parte del Coreco, o per effetto della approvazione, da parte delle Regioni, di una legge regionale che abroghi esplicitamente o implicitamente le suddette disposizioni del testo unico degli enti locali di cui al d.lgs. n. 267/2000 relative al controllo in questione. Fino a quando non saranno dichiarate incostituzionali dalla Corte Costituzionale o non saranno abrogate esplicitamente o implicitamente ai sensi dell’art. 15 delle disposizioni sulla legge in generale (le c.d preleggi), le disposizioni del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali di cui al d.lgs. n. 267/2000 relative al controllo di legittimità del Coreco sugli atti degli enti locali continueranno a trovare applicazione in virtù di quella vis espansiva e di quella "funzione suppletiva" nell’ordinamento che la legislazione statale viene ad assumere, sulla base di quanto sopra si è detto, nel nuovo sistema di legislazione delineato dalla recente riforma costituzionale. 9. Effetti dell’entrata in vigore della legge costituzionale n. 3/2001 sulla legge n. 59/1997 (legge Bassanini) e sul d.lgs. n. 112/1998 sul decentramento amministrativo Lo stesso discorso, peraltro, vale anche per il sistema di ripartizione delle funzioni amministrative fra lo Stato, le Regioni e gli enti locali delineato dalla legge 15 marzo 1997, n. 59 (legge Bassanini) e dal d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 sul decentramento amministrativo. In proposito deve richiamarsi l’attenzione sul fatto che il nuovo testo dell’art. 118 Cost. come sostituito dall’art. 4 della legge costituzionale n. 3/2001, rovesciando il criterio di ripartizione previsto dal previgente sistema costituzionale e seguito, a livello di legislazione ordinaria anche dalla legge n. 59/1997 e dal d.lgs. n. 112/1998 emanato in attuazione di questa, stabilisce, al primo comma, che "le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza" (art. 118, primo comma, Cost., come modificato dall’art. 4 della legge costituzionale n. 3/2001). Non v’è dubbio che alla luce di tale disposizione il sistema di ripartizione delle funzioni amministrative fra lo Stato, le Regioni e gli enti locali delineato dalla legge 15 marzo 1997, n. 59 (legge Bassanini) e dal d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 sul decentramento amministrativo, pur se sostanzialmente in gran parte coincidente, deve ormai ritenersi formalmente superato. Deve, tuttavia, considerarsi che la suddetta disposizione di cui al primo comma del nuovo testo dell’art. 118 Cost., e le ulteriori disposizioni fissate negli altri commi dello stesso articolo si limitano a fissare i principi e i criteri di massima per la ripartizione delle funzioni amministrative fra lo Stato, le Regioni e gli enti locali, ma non v’è dubbio che per l’esercizio effettivo delle funzioni, secondo il sistema delineato dalla riforma, occorre una nuova legge ordinaria applicativa di quei criteri. In altre parole la norma costituzionale di cui al nuovo testo dell’art. 118, primo comma, Cost., come modificato dall’art. 4 della legge costituzionale n. 3/2001, si limita a prevedere la "ripartizione delle funzioni amministrative" fra lo Stato, le Regioni e gli enti locali, ma l’"attribuzione delle funzioni amministrative" vera e propria, ai fini del loro effettivo esercizio, non può che avvenire attraverso l’emanazione di una nuova legge ordinaria statale, di nuove leggi ordinarie regionali, di nuovi decreti legislativi e di nuovi regolamenti da emanarsi in attuazione delle nuove disposizioni costituzionali in materia, che andranno ad abrogare, esplicitamente o implicitamente, le disposizioni di cui alla legge n. 59/1997 e al d.lgs. n. 112/1998.

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Pertanto, fino a quando le disposizioni di cui alla legge n. 59/1997 e al d.lgs. n. 112/1998 non saranno dichiarate costituzionalmente illegittime o non saranno abrogate da una nuova legge ordinaria statale o regionale che sarà emanata in attuazione delle disposizioni di cui al nuovo testo dell’art. 118 Cost., non v’è dubbio che esse continueranno a trovare applicazione. 10. Conclusioni Alla luce del nuovo sistema di legislazione delineato dalla riforma costituzionale di cui alla legge costituzionale n. 3/2001 e della accresciuta autonomia legislativa delle Regioni sostanzialmente in tutte le materie diverse da quelle poche materie riservate, in ragione della tutela dei supremi interessi nazionali, alla legislazione esclusiva dello Stato, non v’è dubbio che – checché se ne dica – si sono create tutte le condizioni per la realizzazione, nel nostro Paese, di un vero e proprio federalismo. E’ altresì indubbio che il nuovo sistema di legislazione diffuso costringerà noi giuristi ad avere nuovi punti di riferimento rispetto a quelli rappresentati, in precedenza, dai principi e dalle disposizioni della legislazione statale riguardante singoli settori o determinate materie. Alla luce di quanto si è detto, tuttavia, si ritiene che non debba ancora cantarsi il de profundiis della legislazione statale, e ciò non solo per l’efficacia relativa che essa continuerà ad avere in virtù della "funzione suppletiva" che essa continuerà a svolgere nell’ordinamento fino a quando le Regioni non avranno provveduto a darsi una propria disciplina nelle diverse materie su cui esse possono legiferare. Invero, la "sopravvivenza" e l’effettività della legislazione statale anche nelle materie ormai attribuite alla potestà legislativa delle Regioni, dipenderà dalla effettiva capacità di queste di legiferare, dandosi in tutte le materie non riservate alla legislazione dello Stato una propria disciplina legislativa. Il compito, invero, non è facile, perché si tratta di riprodurre, in ambito regionale, un vero e proprio ordinamento parallelo ed alternativo a quello statale. Ora, anche se è auspicabile che non vengano riprodotte in ambito regionale le 100.000 o le 150.000 leggi di cui si dice sia composto il panorama legislativo del nostro Paese, si tratterà pur sempre, per ogni singola Regione, di darsi una propria legge in tutte le materie in cui spetta ad essa di legiferare secondo il nuovo sistema di legislazione delineato dalla riforma costituzionale. E’ auspicabile, allora, che le Regioni legiferino in maniera ordinata, secondo una programmazione razionale e non secondo l’ordine della improvvisazione dettato dall’esigenza di provvedere a tutelare gli interessi quotidiani o contingenti delle lobby di turno, o gli interessi locali in antagonismo e in concorrenza con quelli dello Stato o di altre Regioni. E’ altresì auspicabile che la conseguita maggiore autonomia delle Regioni, nel senso anzidetto, e cioè, nel senso della maggiore capacità di darsi leggi proprie sostanzialmente in quasi tutte le materie, non si traduca in mania di "indipendentismo" giuridico. Ciò non è detto a caso, in quanto già nel sistema di legislazione regionale precedente era alquanto ricorrente il vezzo delle Regioni, magari incapaci di darsi una propria disciplina legislativa nelle materie in cui potevano farlo, di legiferare nelle materie riservate alla legislazione dello Stato. Insomma, nell’ottica della conseguita maggiore autonomia, è auspicabile che le Regioni sappiano cogliere lo spirito vero del federalismo, esercitando la loro potestà legislativa – e quindi la loro "autonomia" (autòs – nòmos) - senza la smania di discostarsi troppo dai principi dell’ordinamento, esercitando con razionalità e con efficacia la potestà legislativa nelle materie su cui possono legiferare e non su quelle riservate, nello spirito del federalismo, allo Stato centrale.