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Giovanni Iannuzzo Il rapporto interpersonale

Un elemento importante

ma spesso trascurato

dell' atto terapeutico ècostituito dalla relazione

'umana' che si instaura

tra un medico e il suo

paziente.

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N el rapporto tra chi cura perprofessione e chi ha bisogno

del suo aiuto, delle sue prestazioniprofessionali, vi sono da sempre diffe-renti aspetti, del tutto opposti nella lo-ro natura eppure profondamente com-plementari. Il primo è l'aspetto pura-mente 'tecnico', professionale,razionale. Il medico che somministra

medicine, prescrive analisi o suggeri-sce altre strategie terapeutiche, stamettendo in atto una conoscenza pura-mente razionale, che va di pari passocon il progresso delle conoscenzescientifiche generali della sua epoca;in ogni caso, sta 'facendo' qualcosache gli è suggerito da quanto appreso.Il secondo aspetto è, al contrario, asso-lutamente personale, soggettivo, irra-zionale. Non è fondato su ciò che ilmedico' sa', bensì su ciò che il medico'sente' .

Sono due aspetti complementari einscindibili dell'attività dell'essere

medico, e quindi della relazione tra ilterapeuta e il paziente. Questi, infatti,da parte sua ha sicuramente fiducianelle capacità 'tecniche' del medico,ma si aspetta da lui anche qualcos'al-

. tro, non solo competenza professiona-le. Ciò che si aspetta può essere varia-mente definito: comprensione, simpa-ta, sostegno.

È il caso di dire che se questa secon-da componente del rapporto tra medi-co e paziente non esistesse la medicinasarebbe più semplice e precisa, menovariabile e più razionale. Il problemaè però che, in tal caso, non sarebbe'umana', in quanto la malattia non èqualcosa che può essere limitato allasfera puramente fisica. Questa è statala grande illusione, forse, della medi-cina positivistica ottocentesca. Oggiinvece sappiamo che la malattia noncolpisce solo il corpo, ma la personanella sua globalità. La cura, di conse-,guenza, non può occuparsi solo dellamalattia. Il vecchio afa risma che non

esiste la malattia ma il 'malato' espri-me abbastanza bene questo concettodi fondamentale importanza. Una tera-

pia che sia autenticamente tale, infatti,deve tener conto dell'intera persona,del suo contesto sociale, della sua sto-ria, della sua famiglia; in altre parole,di quell'insieme psicofisico che lo ca-ratterizza in quanto persona.

Da un punto di vista teorico si puòfacilmente concordare con queste af-fermazioni, che trovano, nella storiadella medicina, numerose conferme,da Ippocrate a Razi. Il problema è co-me valutarIe nella pratica reale, quoti-diana del medico e non, beninteso,all'interno di specialità che, per lorostatuto scientifico, sono - o dovrebbe-ro essere - portate a prestare attenzio-ne alla persona nelle sue variabili psi-cosociali e comportamenti, bensì nelcampo della medicina generale, di ba-se, nella quale assai più difficile è ge-stire correttamente un rapporto col pa-ziente che sia terapeutico in senso tec-nico e umano al tempo stesso. Dinorma, l'unico modo che ha il medicoper gestire correttamente un rapportopsicologico col malato è quello di affi-darsi alla propria sensibilità, alle pro-prie capacità umane o al proprio intui-to. Queste tendenze personali sono an-che rafforzate, ovviamente, da fattoricome la deontologia professionale, ilrispetto, o il senso del proprio lavorocome 'missione'. Ma questo non ba-sta. Non basta perché all'interno dellarelazione tra medico e paziente è pos-sibile evidenziare tutta una serie di

meccanismi che la possono condizio-nare, implicando un atteggiamentoche va ben oltre le norme della sensibi-lità e del buon senso.

E sistono diverse interpretazionipossibili del modo in cui una

relazione medico-paziente può struttu-rarsi. Una delle più suggestive è quellaipotizzata e descritta da Hollander nel1958. Secondo questo autore esistonotre modalità particolari di questa rela-zione, tutte fondate sulla maggiore ominor presenza di dipendenza o auto-nomia. Nel primo tipo di rapporto, il

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medico è la parte attiva e il pazienteha un ruolo meramente passivo: è ilcaso delle urgenze, o della chirurgia,e riproduce in qualche modo la rela-zione madre-lattante, ripercorrendonele modalità di dipendenza totale. Unsecondo tipo di rapporto è invece quel-lo che si instaura nel corso di malattie

acute: in questo caso esiste tra medicoe paziente una collaborazione, che inqualche modo riproduce i tratti del

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rapporto tra genitore adulto e bambi-no. Il terzo tipo di rapporto è quellodelle malattie croniche, nel quale larelazione è caratterizzata da una piùampia autonomia del paziente, riper-correndo le modalità delle relazionitra adulto e adulto.

Non esiste quindi un 'modello' idea-le e assoluto, ma modelli differenti piùo meno adatti a situazioni specifichenella pratica medica. Ognuno di tali

modelli ha i propri pregi e i propridifetti, e problemi psicologici specificipone pure il passaggio da un tipo dimodello all'altro.

Secondo un altro autore, Schneider,la relazione tra medico e paziente puòessere vista in modi differenti. Tra i

tanti, egli ipotizza una relazione pura-mente' scientifica' , che è quella tipicadegli studi biologici e che, se applicataal paziente, non è in grado di coglieme

i problemi emotivi. Un altro modelloè quello della 'relazione di servizio',nella quale il medico si comporta co-me un tecnico, che deve 'riparare'qualcosa. Più tipico degli specialisti,questo modello relazionale può ancheessere caratterizzato da un buon ap-proccio, che però resterà sempre su-perficiale e sostanzialmente astratto.Un ulteriore modello è poi quello,ideale, della relazione interpersonalesoggettiva, nella quale la comunica-zione profonda tra due persone vieneraggiunta, al di fuori degli schemi piùo meno convenzionali, in maniera au-tentica. È solo a questo livello che laterapia diviene 'terapia globale', seb-bene non sempre è necessario che talestadio sia raggiunto.

Di certo, diversi di questi aspettiassumono un'importanza indiscutibi-le. Per esempio i modelli di comunica-zione, verbale o non verbale. Assaispesso si tratta di una comunicazionestandardizzata, secondo schemidivenuti abituali. Il medico parla 'dif-ficile', non 'spiega' al paziente, in unaparola non comunica; oppure comuni-ca a un livello troppo superficiale, fal-samente rassicurante, o non presta at-tenzione all'aspetto non-verbale dellasua relazione col paziente, attenendosia norme estremamente rigide.

Ma queste relazioni sono sostan-zialmente 'culturali', nel senso che af-feriscono non a una 'patologia del rap-porto', quanto a una serie più o menoestesa di norme che caratterizzano for-

temente la relazione medico-pazientenella nostra cultura. Il fatto che, peresempio, il medico non comunichi conchiarezza al paziente è uno stereotipoculturale.

Dobbiamo esaminare, invece, qualisono i problemi che possono configu-rare un vera patologia del rapportomedico-paziente. E questo non accadesolo per incuria o superficialità delmedico, bensì per una serie di motivi,che mette in gioco i meccanismi psi-chici più profondi sia del medico chedel suo paziente.

Esistono svariate situazioni che

possono precipitare una crisi del rap-porto terapeutico. Una delle più im-portanti si verifica quando il medicosi trova di fronte a un paziente conuna malattia grave, che richiede curepesanti e difficili, che implica una me-nomazione o che può avere una pro-gnosi infausta.

Una situazione di questo tipo impli-ca un violento rebound emotivo sul

medico. Da un lato questi si sente im-potente, incapace e colpevole di taleincapacità o impotenza; dall'altro rea-gisce alle sue emozioni mettendo inatto difese estremamente rigide. Manon è, questa, la sola situazione di cri-si. Un' altra, assai frequente, è quelladelle patologie 'psicosomatiche', fun-zionali in genere. Il paziente psicoso-matico non è né un paziente facile, néun 'paziente classico'. Egli ha un vis-suto ambivalente nei confronti del me-

dico, nega i suoi conflitti e i suoi pro-blemi, e non di rado tende a colpevo-lizzare il medico, utilizzandoloaddirittura come alibi per la propriamalattia. Ma è un simile comporta-mento, o meglio questo insieme di sin-tomi somatici e comportamenti, cherappresenta il modo del paziente direlazionarsi col mondo e con il medi-

co. La sofferenza che esprime è soma-tica solo in apparenza: è psicologicaa un livello decisamente più profondo.Cogliere questo duplice aspetto non èfacile per il medico. Egli può enfatiz-zare il sintomo somatico, il che gliconsente un adeguato distanziamentoemotivo dal paziente; può prescrivereterapie aggressive, può semplicemen-te fingersi sordo alle esigenze del pa-ziente di fondare un rapporto più au-tentico. I risultati sono sempre disa-strosi.

La terza situazione è quella del pa-

ziente 'psicologico' o talora fr~nca-mente psichiatrico, che esige dal me-dico di base di essere un contenitore

delle sue angosce, un confidente soli-dale con i propri conflitti relazionali,o gli chiede un"adozione' psicologi-

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Il rapporto interpersonale

ca. Questa richiesta viene presentatain genere nella forma che appare alpaziente più ovvia per poter essere ac-cettata: quella di un sintomo che nonnecessita di una terapia, ma che espri-me un bisogno generalmente incon-scio. Sono casi molto frequenti negliambulatori dei medici, che quasi sem-pre si rivelano fallimentari. Da un latoil medico sensibile e motivato può an-che cedere alla tentazione di 'adottare'

il paziente, invischiandosi nella situa-zione che gli viene proposta. Dall'al-tro capita assai spesso che egli nonabbia le capacità necessarie a essereun contenitore adeguato delle angoscedell'altro, un alleato valido nel conflit-to del paziente, in grado di offrirequella funzione di 'maternage' che gliviene richiesta. E può allora reagire inmaniera difensiva, raccogliendo le ac-cuse del paziente che gli rimprovereràche il farmaco è sbagliato, che le tera-pie hanno effetti collaterali, che gliserve proprio quella certificazione chenon è possibile fomigli. Il deteriora-mento del rapporto è inevitabile.

Di fronte a queste situazioni le ma-novre difensive del medico possonoessere numerose almeno quanto quelledei pazienti. Una delle più diffuse èla fretta: il medico è impegnato, nonpuò eseguire la visita domiciliare, hal'influenza o può dedicargli solo pocotempo in ambulatorio per rispetto aglialtri pazienti che stanno aspettando insala d'attesa. Specialmente nel casodei pazienti 'psicologici' viene poimessa in atto la difesa dell'invio allo

specialista, il quale assai spesso vienesuggerito al paziente perché i disturbisono 'nervosi'. Di solito è in primalinea il neurologo, molto più raramen-te lo psichiatra e ancora più raramentelo psicologo clinico.

Altra e più aggressiva linea di difesaè infine la separazione tra se stesso eil paziente, che assume la forma di unascient(ficizzazione, di una 'obiettiva-zione' esasperata. Si tratta ovviamentedel tentativo di vedere nel paziente un'oggetto' da osservare, al pari di un

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animale da esperimento. È una buonastrategia nel caso di malattie incurabilio di pazienti in stato terminale, per iquali più nulla può essere fatto sulpiano medico. Li si considera comeoggetti di osservazione, per produrrequel necessario' distanziamento emo-tivo' che consente al medico di non

dovere riflettere sulla precarietà delsuo 'potere terapeutico' e sulle temati-che che afferiscono alla morte. Esiste

a questo proposito il rischio di un inu-tile accanimento terapeutico, che soloin senso lato è rivolto al paziente, e siindirizza invece, per vie più sottili, aciò che il paziente gravemente cronicoo terminale rappresenta: in genere ilfantasma della sconfitta e dell'impo-tenza terapeutica.

L e difficoltà poste. dalla stessadinamica del rapporto medico-

paziente inducono a chiedersi se siapossibile in qualche modo un cambia-mento nella struttura di tale relazione,

almeno per quanto riguarda il medico,nel tentativo di renderla più valida epiù efficace. È ovvio, allora, comequalunque strategia non possa essereattuata se prima il medico non prendecoscienza del disagio che un certo tipodi relazione gli arreca. Successiva-mente occorre tentare di comprenderequali sono i motivi di tale disagio: bi-sogna cioè ascoltare se stessi e il pa-ziente.

Spesso basta prestare un minimo diattenzione a ciò che questi dice, perrendersi conto, anche solo vagamente,dei suoi bisogni. Occorre allora mobi-litare la propria capacità di ascolto eporre la domanda giusta al momentogiusto, facendo sentire al paziente l'in-tera disponibilità. L'obiettivo idealeda raggiungere sarebbe forse quella'relazione soggettiva' a cui Schneiderattribuisce tanta importanza. Le varia-bili che nel raggiungimento di taleobiettivo entrano in gioco sono, proba-bilmente, le stesse che CarI Rogersevidenziò appieno come elemento

fondamentale di ogni psicoterapia.Anzitutto l'empatia, la capacità cioèdi entrare in sintonia emozionale con

l'altro, di comprendere le sue esigen-ze, i suoi bisogni, le sue aspettattivesu un piano ben più profondo di quellopuramente razionale. È la capacità di'sentire', più che di analizzare. Nelrapporto tra medico e paziente questa'disposizione all' empatia' assumeun'importanza determinante. Inoltre,altre variabili sono importanti: la di-sponibilità all'ascolto, la capacità diapparire anche 'persone' e non solo'tecnici', la fiducia che si può o menoispirare sul piano umano.

Sono tutte caratteristiche, sul pianopsicologico, che torneranno utili quan-do, dopo avere ascoltato i problemidel paziente, si sarà nella condizionedi fornire una risposta, qualunque essasia. È in questa fase che il buon rappor-to facilita la proposta di una soluzioneal problema medico del paziente: nonuna soluzione 'preconfezionata', ostandardizzata, né tantomeno una so-luzione di comodo fondata su dinami-che difensive del medico, o su unare interpretazione delle esigenze delpaziente, bensì una risposta coerente,valida sul piano scientifico ed emoti-vamente 'carica' sul piano umano.Spesso basta far comprendere che siè capito e che si farà tutto il possibile,tenendo in considerazione realistica-

mente il problema del paziente e nonilludendolo sull' onnipotenza del pote-re terapeutico.

Condizione fondamentale di questaaccettazione del paziente e dei suoiproblemi è ovviamente la conoscenzache il medico ha di se stesso, dei propriatteggiamenti verso la tale o la tal altramalattia, del modo di gestire il propriorapporto col malato. La medicina dibase, in fondo, è il primo stadio scien-tifico della 'psicoterapia', se a qqestotermine viene giustamente conferito ilsignificato di 'terapia dell' anima' .

Ecco le domande che occorre che

il medico si ponga: quali sono i suoilimiti di persona, quali le sue resisten-

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Il rapporto interpersonale

ze all'accettazioni di quali patologieo di quali situazioni. Bisogna, allora,che il medico abbia elaborato una buo-

na visione generale del suo modo diessere come persona, prIma ancorache del suo modo di essere come medi-co. Occorre fare i conti, in altri termi-ni, con i limiti umani da un lato, e coni limiti della professione dall' altro,sfuggendo alla pericolosa, subdolaconvinzione che esista la possibilità diuna' onnipotenza terapeutica' o di untotale distacco dalla sofferenza, chesempre e in ogni modo appare come'sofferenza dell' altro'.

Tutto questo può indurre in un erro-re fondamentale: quello di ritenere cheper conseguire un tal risultato sia ne-cessario trasformare il medico generi-co in uno psicoterapeuta. Il che, ovvia-mente, non è vero. È vero, semmai,che è tempo di comprendere che nel-l'essere medico, nel confrontarsi conla sofferenza umana, occorre una ade-guata attenzione agli aspetti psicologi-ci della malattia.

Una delle formidabili intuizioni di

Balint fu quella di suggerire che è ilmedico stesso ad essere medicina; unamedicina che può essere somministra-ta in vari momenti, con dosaggi diver-sificati, con indicazioni e contro indi-cazioni differenti.

Non è peregrina l'idea che questanozione del medico come medicina

necessiterebbe di più adeguati appro-fondimenti durante il training univer-sitario, allo stesso modo in cui si stu-diano struttura chimica, modalità disomministrazioni ed effetti (terapeuti-ci e secondari) di altri farmaci. È pro-babilmente la sola strada per arricchireil bagaglio del medico di medicina ge-nerale, e del clinico in genere, di nuoverisorse per la pratica della sua arte el'esercizio della sua scienza. Perché,come sottolineava Balint, «ogni medi-co in possesso di queste attitudini saràun medico migliore di colui che ne èsprovvisto».

Giovanni IannuzzoCollaboratore dell' Istituto di

Psichiatria dell' Università di Messina

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