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1 F. Bisconti – B. Mazzei Porte e scene di ingresso nella cultura figurativa della tarda antichità La rappresentazione isolata o contestuale della porta e il ciclo figurativo, più o meno complesso, dell’introitus, si muovono parallelamente nella geografia e nella storia delle civiltà mediterranee, mostrando talora punti di contatto semantico, motivi di afferenza simbolica, manifestazioni di vera e propria giustapposizione significativa, dirigendo la gamma dei sensi verso l’orbita funeraria, mostrando una spiccata simpatia per l’accezione oltremondana, indicando sempre e sistematicamente una declinazione religiosa, sacra, “altra” rispetto al vocabolario specificamente umano del linguaggio iconografico delle genti e delle culture antiche e subantiche. Eppure, se scrutiamo, nelle pieghe significative meno evidenti, i due manifesti figurativi, non è difficile scorgervi esplicite ed autentiche oppositae qualitates, specialmente se guardiamo alle espressioni “classiche” delle due rappresentazioni, ovvero alla porta chiusa, bloccata, serrata, intesa, cioè, come barriera, come accesso negato, insomma come una “porta fittizia, finta, virtuale” e all’introitus, come dinamico avvento, ora subitaneo capovolgimento di condizione e di situazione, ora più lento e solenne, come un trionfo, come un liturgico gesto di infrazione, di rottura di un margine, di superamento audace di un perimetro di rispetto. Guardate da un altro punto di osservazione le due rappresentazioni possono anche apparire complementari ed analoghe, nel senso che la porta può essere anche intesa come abbreviazione, allusione e cenno alle situazioni di introitus e questo fenomeno può essere ben valutato proprio se ci spingiamo sino all’età tardoantica e nello specifico paleocristiano, quando vengono concepiti segni sintetici per trasmettere concetti complessi e narrazioni articolate e tutto ciò anche quando consideriamo situazioni neutrali e criptocristiane; l’esempio più esplicito ed emblematico è rappresentato dai signa marini, nella specie di ancore, pesci, fari e navi usati per esprimere il concetto pre- e protocristiano della navigatio vitae; la soluzione propriamente cristiana – per quanto attiene a questo fenomeno della pars pro toto, della sineddoche figurativa – può essere riconosciuta nella colomba noetica che, stralciata dall’epopea veterotestamentaria del diluvio universale, assume un significato autonomo, originale e riconnotato, riferendosi direttamente ad un’espressione genericamente, ma fortemente soterica. Due immagini forti, dunque; l’una secca, dura, inamovibile, difficile da giudicare in maniera univoca, l'altra meglio decodificabile, più duttile, proprio per questa sua componente dinamica, che aiuta a collocare nelle dimensioni e nelle coordinate spaziali e temporali i fatti, i gesti, l’evoluzione narrativa, la successione del racconto. Due immagini – dicevamo poco prima – che possono colloquiare e configurarsi l’una sineddoche dell’altra, ma che possono anche disporsi in postazioni dicotomiche. Se allunghiamo lo sguardo alla genesi egiziana ed orientale della cifra della porta o dell’immagine dell’introitus, laddove si allude ai varchi più o meno agili all’area di rispetto del sacro, del divino, delle residenze e degli spazi di elevatissimo rango, eccezionali, riservati, diversi dal mondo ordinario e piuttosto attinenti al cosmo sacro che alla condizione umana; se proiettiamo il nostro campo di osservazione del largo orizzonte ellenistico, ecco che la primigenia immagine della falsa porta si connota subito nella duplice valenza che invita ora al mondo dell’oltretomba, ora, più semplicemente e in maniera meno impegnativa, al vero e proprio sepolcro, intendendo con questo le stele, le arche monumentali, i mausolei e considerandone la diffusione in tutto il Mediterraneo. Questa duplice linea significativa caratterizza tutto il momento ellenistico e mette in codice esperienze figurative pregresse, lontane per civiltà ed area geografica, prime tra tutte quella delle tombe rupestri della regione microasiatica e quella etrusca, quando la porta chiusa – specialmente in alcune tombe dipinte tarquiniesi – vuole, ad un tempo, alludere all’inviolabilità del sepolcro, ma anche all’unica via per accedere all’oltretomba. E già in questa fase la tipologia della porta, ora serrata, ora dischiusa, ora aperta sembra distinguere l’accezione diversificata volta a definire rispettivamente i concetti della morte, della speranza e della beatitudine.

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F. Bisconti – B. Mazzei

Porte e scene di ingresso nella cultura figurativa della tarda antichità

La rappresentazione isolata o contestuale della porta e il ciclo figurativo, più o meno complesso,

dell’introitus, si muovono parallelamente nella geografia e nella storia delle civiltà mediterranee, mostrando talora punti di contatto semantico, motivi di afferenza simbolica, manifestazioni di vera e propria giustapposizione significativa, dirigendo la gamma dei sensi verso l’orbita funeraria, mostrando una spiccata simpatia per l’accezione oltremondana, indicando sempre e sistematicamente una declinazione religiosa, sacra, “altra” rispetto al vocabolario specificamente umano del linguaggio iconografico delle genti e delle culture antiche e subantiche. Eppure, se scrutiamo, nelle pieghe significative meno evidenti, i due manifesti figurativi, non è difficile

scorgervi esplicite ed autentiche oppositae qualitates, specialmente se guardiamo alle espressioni “classiche” delle due rappresentazioni, ovvero alla porta chiusa, bloccata, serrata, intesa, cioè, come barriera, come accesso negato, insomma come una “porta fittizia, finta, virtuale” e all’introitus, come dinamico avvento, ora subitaneo capovolgimento di condizione e di situazione, ora più lento e solenne, come un trionfo, come un liturgico gesto di infrazione, di rottura di un margine, di superamento audace di un perimetro di rispetto. Guardate da un altro punto di osservazione le due rappresentazioni possono anche apparire complementari

ed analoghe, nel senso che la porta può essere anche intesa come abbreviazione, allusione e cenno alle situazioni di introitus e questo fenomeno può essere ben valutato proprio se ci spingiamo sino all’età tardoantica e nello specifico paleocristiano, quando vengono concepiti segni sintetici per trasmettere concetti complessi e narrazioni articolate e tutto ciò anche quando consideriamo situazioni neutrali e criptocristiane; l’esempio più esplicito ed emblematico è rappresentato dai signa marini, nella specie di ancore, pesci, fari e navi usati per esprimere il concetto pre- e protocristiano della navigatio vitae; la soluzione propriamente cristiana – per quanto attiene a questo fenomeno della pars pro toto, della sineddoche figurativa – può essere riconosciuta nella colomba noetica che, stralciata dall’epopea veterotestamentaria del diluvio universale, assume un significato autonomo, originale e riconnotato, riferendosi direttamente ad un’espressione genericamente, ma fortemente soterica. Due immagini forti, dunque; l’una secca, dura, inamovibile, difficile da giudicare in maniera univoca, l'altra

meglio decodificabile, più duttile, proprio per questa sua componente dinamica, che aiuta a collocare nelle dimensioni e nelle coordinate spaziali e temporali i fatti, i gesti, l’evoluzione narrativa, la successione del racconto. Due immagini – dicevamo poco prima – che possono colloquiare e configurarsi l’una sineddoche dell’altra, ma che possono anche disporsi in postazioni dicotomiche. Se allunghiamo lo sguardo alla genesi egiziana ed orientale della cifra della porta o dell’immagine

dell’introitus, laddove si allude ai varchi più o meno agili all’area di rispetto del sacro, del divino, delle residenze e degli spazi di elevatissimo rango, eccezionali, riservati, diversi dal mondo ordinario e piuttosto attinenti al cosmo sacro che alla condizione umana; se proiettiamo il nostro campo di osservazione del largo orizzonte ellenistico, ecco che la primigenia immagine della falsa porta si connota subito nella duplice valenza che invita ora al mondo dell’oltretomba, ora, più semplicemente e in maniera meno impegnativa, al vero e proprio sepolcro, intendendo con questo le stele, le arche monumentali, i mausolei e considerandone la diffusione in tutto il Mediterraneo. Questa duplice linea significativa caratterizza tutto il momento ellenistico e mette in codice esperienze

figurative pregresse, lontane per civiltà ed area geografica, prime tra tutte quella delle tombe rupestri della regione microasiatica e quella etrusca, quando la porta chiusa – specialmente in alcune tombe dipinte tarquiniesi – vuole, ad un tempo, alludere all’inviolabilità del sepolcro, ma anche all’unica via per accedere all’oltretomba. E già in questa fase la tipologia della porta, ora serrata, ora dischiusa, ora aperta sembra distinguere l’accezione diversificata volta a definire rispettivamente i concetti della morte, della speranza e della beatitudine.

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Con questo bagaglio semantico l’immagine della porta entra nel repertorio iconografico della plastica funeraria romana, sin dal II secolo d.C., sia nei sarcofagi a colonne di ascendenza asiana, sia nei sarcofagi architettonici, che meglio alludono alla forma e al concetto della domus aeternalis, come nel sarcofago dell’architetto di Pretestato (Fig. 1), che propone un’arca monumentale, in tutto simile ai monumentali mausolei ellenistici, solidi e inattaccabili, ma accessibili attraverso la porta dischiusa. Quel valico semiaperto, filo di speranza dell’introitus

nell’oltretomba, diverrà tema forte e privilegiato e si intreccerà con le storie del mito più coinvolte con gli itinerari infernali, prima fra tutte quella patetica di Admeto e Alcesti, così come si svolge già

Fig. 2a-b Velletri, Museo archeologico. Sarcofago con il ciclo di Eracle, fronte e retro.

Fig. 3a-b Velletri, Museo archeologico. Sarcofago con il ciclo di Eracle, lati.

nel sarcofago di Velletri (Figg. 2a-b; 3a-b) che, mentre svolge il ciclo di Eracle, si cimenta in una delle sequenze più ricche tra le scene di ingresso e ritorno per e dall’oltretomba, tutta giocata in uno scenario di quinte di scena costituite da porte serrate, dischiuse ed aperte, dinanzi alle quali sembrano sfilare defunti ordinari, Eracle, Cerbero, Admeto, Alcesti, Protesilao, Laodamia, Thanatos, Giove, e Nettuno, il tutto sospeso in un’atmosfera escatologica che vede nella porta inferi una via induttiva, ma anche e soprattutto il varco per un ritorno, che non tarderà ad assumere il significato di una rinascita.

Dall’età antonina giungiamo a quella dei Severi, rimanendo in ambiente romano per porci dinanzi alla più enigmatica tra le scene di ingresso, che ci abbia consegnato l’arte romana. Mi riferisco all’adventus del nobile cavaliere, forse proprio uno dei tre defunti menzionati da un’iscrizione musiva nell’ipogeo degli Aureli in viale Manzoni (Fig. 4). Il solenne

trapasso del nobiluomo, a cavallo, mentre impugna il rotolo della saggezza, forse chiave di accesso a quell’oltretomba che è già connotato in senso paradisiaco, non più locus amoenus di virgiliana memoria, ma già città eternale, dimora estrema e felice, forse anticipazione ante litteram della Gerusalemme celeste; quel trapasso, si diceva, racconta estesamente, con particolari, dettagli, folle di trapassati e di uomini tristemente

Fig. 1 Roma. Museo delle catacombe di Pretestato. Sarcofago architettonico (P.C.A.S.).

Fig. 4 Roma. Ipogeo degli Aureli in viale Manzoni. I ambiente ipogeo. Scena di adventus (P.C.A.S.).

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lasciati nel mondo, con vedute urbane a volo d’uccello, che si stemperano in un sistema di orti e di acquedotti, alternativa bucolica alla civitas Dei; quel trapasso festoso, gaio, ancora improntato all’atmosfera e agli ozi degli Elisi classici, ma già declinato, nei gesti solenni e nell’aura apocalittica al vocabolario cristiano; quel trapasso annuncia già tante cose. Ci parla, innanzi tutto, di una città eccezionale, di un mondo virtuale, frutto di una fantasia, che è già

tardoantica e non è più generica, ellenistica, asintomatica. Ci parla di una città che è il paradiso degli Aureli, un po’ eden giudaico, un po’ paradiso cristiano, un po’ mondo altro del pensiero sincretico del multireligioso tempo dei Severi.

Fig. 5 Roma. Catacomba di Vibia. Arcosolio con scena di banchetto e di introitu (P.C.A.S.).

Fig. 6 Spalato. Sarcofago architettonico.

Dall’ipogeo degli Aureli e proprio dalla megalografica scena di ingresso si avvia un processo di

sovraconnotazione semantica delle situazioni figurative che scelgono come tema privilegiato l’introitus nell’aldilà, sia quando la cultura ispiratrice non appare propriamente cristiana, come nella celebre scena dell’ingresso agli Elisi nelle catacombe sabazianiste di Vibia (Fig. 5), sia quando il Cristianesimo diviene cultura prevalente, come nel celebre sarcofago architettonico di Spalato (Fig. 6), dove le folle dei defunti giungono al cospetto del Buon Pastore, varcando un virtuale porticato, architettonicamente solenne e monumentale. Il percorso ci accompagna attraverso i secoli, per giungere al

momento teodosiano, quando l’Apocalisse viene commentata sistematicamente da Ticonio, e la Gerusalemme celeste del piccolo libro di Giovanni inizia a colloquiare con la Civitas Dei concepita già in quegli anni da Agostino. È il tempo in cui, ancora a Roma, vengono creati i sarcofagi a porte di città (Fig. 7), un gruppo di arche marmoree sofisticate e riservate a committenti altolocati e danarosi che lasciano trascrivere la storia della Salvezza dinanzi ad una cittadella fortificata, inattaccabile, eppure caratterizzata da innumerevoli porte, per spiegare come quella città eccezionale sia ad un tempo sicura ma raggiungibile da ogni fedele.

Quegli sfondi così geometrici, quasi asintomatici ad un primo tentativo di decodificazione, assumono invece un ruolo semantico pregnante, se giungono a connotare altri tipi tettonici del tempo: dai sarcofagi di Bethesda a quelli con il passaggio del Mar Rosso (Figg. 8a-b), aprendo la strada prima ai grandi squarci urbani degli scenari absidali romani e poi alle vignette apocalittiche delle città estreme (Fig. 9). Intanto, il motivo della porta socchiusa, oramai

cifra palese della resurrezione, entrerà nell’immaginario cristiano di coloro che, rappresentando il Santo Sepolcro, specialmente

Fig. 7 Milano. Basilica di S. Ambrogio. Sarcofago a porte di città.

Fig. 8 Città del Vaticano. Musei Vaticani. a)Sarcofago di Bethesdà; b) Sarcofago con il Passaggio del Mar Rosso.

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Fig. 9 Roma. Basilica di S. Maria Maggiore. Arco absidale. Acquarello Wilpert con la riproduzione delle città di Betlemme e Gerusalemme.

Fig. 10 Londra. British Museum. Rilievo eburneo con la rappresentazione del Santo Sepolcro.

nella produzione eburnea, a partire dal V secolo, vorrà alludere proprio al Chairete. Così, nel rilievo del British Museum (Fig. 10) si respira ancora l’attesa della resurrezione, se la porta del Santo Sepolcro, socchiusa, lascia scorgere il sarcofago vuoto, mentre le Marie assumono l’atteggiamento classico del lutto, denunciando una situazione provvisoria che prepara i viventi alla resurrezione del Cristo. L’attesa si risolve nell’avorio Trivulzio (Fig. 11) che illustra l’episodio del Chairete in associazione alla porta dischiusa e istoriata, mentre sull’avorio di Monaco (Fig. 12) tre fotogrammi sfalsati fissano rispettivamente il messaggio dell’angelo alle tre Marie, l’ascensione, la custodia del sepolcro. Anche in queste scene ultime della tarda

antichità, così prossime alla stagione bizantina, ma ancora coinvolte con l’immaginario del passato, la porta dischiusa sembra sfuggire alla

meccanica dei racconti evangelici e pare esemplare quell’assunto escatologico che attraversa tutta la stagione figurativa paleocristiana, così come si svolge nei secoli della tarda antichità, nel senso che anche qui ed ancora si svolge il nodo semantico della dimensione escatologica, sviluppo naturale del concetto di introitus, di inductio, di accesso ad un mondo “altro” che, per i cristiani, è rappresentato prima da una condizione marginale, di sede edenica di attesa e poi di resurrezione finale, di risoluzione, di frattura di quella barriera che aveva tenuto i defunti in un mondo separato e provvisorio. Per comprendere a fondo questo delicato passaggio significativo, occorre fare un passo indietro e riportarci

alla piena età costantiniana per stringere il campo su un monumento romano tanto celebre quanto eloquente per comprendere il passaggio significativo in senso cristiano delle scene di ingresso ma anche delle porte intese come barriera marginale tra due realtà e due condizioni.

Fabrizio Bisconti

Fig. 11 Milano. Musei Civici. Avorio Trivulzio.

Fig. 12Monaco. Bayerisches Nationalmuseum. Rilievo eburneo con le pie donne al sepolcro e ascensione.

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Singolare e significativa testimonianza di

quell'interminabile processo creativo composto dalla fusione tra tradizioni artistiche ed evoluzione semantica, processo che si pone alla base della presente ricerca, può essere considerato il cubicolo F dell'ipogeo anonimo di via Dino Compagni (figg 13 a-b). Il celebre monumento funerario romano si

propone come eloquente manifesto dell'arte del periodo costantiniano in cui, nel sostrato delle tradizioni precedenti, si insinuano, senza annichilirle, nuove molteplici istanze dettate sia da radicate consuetudini di ordine sociale sia da nuove esigenze di ordine spirituale. Il programma

decorativo del cubicolo di Sansone, infatti, fortemente sincretico nella scelta delle tematiche, estremamente eclettico nell'espressione semantica, fecondamente eterogeneo nella selezione delle iconografie (Figg. 14 a-e), ci permette di ripercorrere le tortuose vie della creazione che hanno portato alla formazione del repertorio peculiare dell'arte cristiana.

Già a partire dalla sua strutturazione architettonica, il cubicolo F si propone immediatamente come uno

degli ambienti più audaci espressi dall'architettura negativa (Figg. 15 a-b). La pianta ellittica su cui si imposta, trova rari confronti nel panorama catacombale romano, richiamandosi, soltando genericamente per articolazione spaziale, ai coevi cubicoli monumentali della regione di Sotere nelle catacombe di S. Callisto (Figg. 16 a-d) o agli sporadici esempi rinvenuti nell’adiacente catacomba di via Latina 135 (Figg. 17 a-b) e degli altri nuclei cimiteriali della medesima via, così come ad alcuni ambienti del cimitero Maggiore sulla via Nomentana (Fig. 18), i quali mostrano forme planimetriche, elevati e motivi architettonici estremamente articolati; ma per un rimando più puntuale siamo costretti ad ampliare l'orizzonte dei confronti alla ricerca di impianti a sviluppo propriamente circolare giungendo sino alla più maestosa rotonda di Antiochia nelle catacombe di S. Giovanni a Sicuracusa (Figg. 19 a-b) e ad alcuni peculiari ambienti delle catacombe maltesi.

Fig. 13 a-b Roma. Ipogeo di via Dino Compagni. Vedute del cubicolo F (P.C.A.S.).

Figg. 14 a-e Roma. Ipogeo di via Dino Compagni. Cubicolo F. Particolari della decorazione (P.C.A.S.).

Figg. 15 a-b Roma. Ipogeo di via Dino Compagni. Cubicolo F. Pianta e prospetto (P.C.A.S.).

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Figg. 16 a-d Roma. Catacombe di S. Callisto. Cubicoli architettonici della regione di Sotere (P.C.A.S.).

Figg. 17 a-b Roma. Catacombe di via Latina 135. Cubicoli architettonici (P.C.A.S.).

Fig. 18 Roma. Cimitero Maggiore. Cubicolo architettonico (P.C.A.S.).

Figg. 19 a-b Siracusa. Catacombe di S. Giovanni. Rotonda di Antiochia (P.C.A.S.).

Figg. 20 a-b Tarragona. Mausoleo di Centcelles. Pianta, sezione e disegno ricostruttivo della decorazione della volta.

Figg. 21 a-b Roma. Mausoleo di S. Costanza. Veduta dell’interno e pianta.

Nella scelta planimetrica adottata per il cubicolo di Sansone non è possibile non intravedere, comunque, un

richiamo alla cultura architettonica tardo romana di area orientale e specialmente alessandrina, con riguardo speciale per le camere funerarie e gli ipogei monumentali, ma confronti ancora più pregnanti possono essere istituiti con i grandi mausolei costantiniani, a cominciare da quello di Centcelles (Figg. 20 a-b), che tra l’altro sviluppa una decorazione di ispirazione biblica proprio all’interno di una analoga scansione colonnare, per passare ai più prossimi mausolei di Costanza (Figg. 21 a-b) e di Elena, in ciò esplicitando una volontà di emulazione espressa dai committenti del cubicolo, evidentemente appartenenti alla nuova elîte convertita, che si concretizza con una traduzione in forme ipogee degli esempi più aulici dell'architettura funeraria del sopratterra.

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Figg. 22 a-d Roma. Ipogeo di via Dino Compagni. Cubicolo F. Particolari della decorazione zoomorfa (P.C.A.S.).

Figg. 23 Roma. Ipogeo di via Dino Compagni. Cubicolo F. Particolari della decorazione bucolica (P.C.A.S.).

Figg. 24 a-c Roma. Ipogeo di via Dino Compagni. Cubicolo F. Particolari della decorazione architettonica (P.C.A.S.).

La natura eclettica del cubicolo di via D. Compagni non si manifesta soltanto nell'impianto architettonico,

ma pervade ogni aspetto del complesso decorativo. Il partito ornamentale, infatti, alterna quadretti zoomorfi desunti dal repertorio cosmico-dionisiaco di tradizione ellenistica (Figg. 22 a-d) a scenari campestri di matrice bucolica e di ispirazione virgiliana (Fig. 23), dialogando armoniosamente con versioni pittoriche di motivi architettonici desunti dalla sintassi classica (Figg. 24 a-c), il tutto a corollario di nodali composizioni a soggetto vetero e neotestamentario (Figg. 25 a-c).

Il connettivo di fondo oscilla tra un intento meramente decorativo ed un'aura profondamente simbolica, tra una puntuale riproduzione della realtà ed una sfumata visione illusionistica, il tutto declinato in funzione della volontà di riprodurre l'ambiente reale, ma al tempo stesso ultraterreno, della domus aeterna. Così, l'icnografia del monumento da un lato riproduce i mausolei imperiali, dall'altro suggerisce l'idea del cosmo, da un lato realizza un complesso sistema architettonico composto da trabeazioni aggettanti, colonne e mensole, dall'altro sfonda le pareti con ariose scenette pastorali che rimandano da un immaginario oltremendano. Ma c'è di più in questo sottile gioco tra mostrato e suggerito, tra reale ed illusorio; per fare un esempio - e per avvicinarci al tema principale della giornata -, le finte porte dipinte, che si interpongono, quasi come quinte di scena, tra le sedi sepolcrali, sono, a loro volta, inserite ed inquadrate da concreti elementi architettonici, che assumono però la propria consistenza materica attraverso l'espediente della marmoridea, ovvero creando un intrinseco connubio tra architettura e pittura che restituisce a colonne tufacee un aspetto marmoreo a finto porfido, finto cipollino o finta breccia gialla, con capitelli lisci a blocco decorati in stilizzato ordine corinzio. Le due scene d'ingresso così connotate, se da un lato

denunciano la propria ascendenza dallo "stile architettonico", caratteristico della decorazione delle domus di pompeiana memoria, dall'altro si propongono come i più espliciti depositari dell'esortazione all'oltremondo. Sono proprio queste due scene, con i defunti che entrano ed escono dai battenti socchiusi dei due portali, a fornirci gli indizi per una declinazione tutta paradisiaca dell’ambientazione generale del programma decorativo del cubicolo.

Figg. 25 a-c Roma. Ipogeo di via Dino Compagni. Cubicolo F. Affreschi con la scena di Sansone che uccide i filistei con la mascella d’asino, della Samarita al pozzo e di Balam fermato dall’angelo (P.C.A.S.).

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Le due scene qui affrescate si propongono (Figg. 26 a-b) - come si diceva all'inizio - quale tappa intermedia di un articolato processo evolutivo di ordine semantico, che prende le fila dall'arte ellenistica e giunge sino all'arte imperiale romana, oscillando tra la rappresentazione dell'ingresso del vero e proprio sepolcro e quella ideale dell'Oltretomba, dando luogo, nell'ambito della più matura arte cristiana, alla rappresentazione del sepolcro aperto e vuoto di Cristo, offerto quele sineddoche della vittoria sulla morte, che esplicita a pieno il contenuto escatologico del motivo della porta, inizialmente soltanto sotteso.

Figg. 27 Roma. Ipogeo di via Dino Compagni. Cubicolo F. Affresco con la cd. scena d’ingresso, particolare del parapetasma (P.C.A.S.).

Figg. 28 a-b Roma. Ipogeo di via Dino Compagni. Cubicolo F. Affreschi con scene bucoliche (P.C.A.S.).

Nel cubicolo di Sansone, i due affreschi, tramite l'espediente della porta dischiusa, si trovano ancora allo

stadio di cifra iconografica impiegata per sottolineare la concezione tradizionale dell'aldilà inaccessibile, ma già rispetto alle rappresentazioni del passato si percepisce l'immissione di una leggera variante semantica, se il concetto del paradiso intravisto deve essere rafforzato dal motivo equivalente del parapetasma (Fig. 27), qui reso con le pesanti, anche se oramai evanidi, drappeggiature che si profilano alle spalle dei personaggi sull'uscio. L'ambiente paradisiaco, evidentemente, non è più così inaccessibile, il diaframma architettonico è diventato permeabile e dietro ai drappi raccolti si riesce a indovinare l'estendersi del mondo dell'aldilà; del resto, la dimensione idillica oltremondana qui percepita è anche proletticamente proiettata sugli zoccoli degli arcosoli del cubicolo (Figg. 28 a-b), quasi venisse traguardata attraverso le porte semiaperte.

Figg. 26 a-b Roma. Ipogeo di via Dino Compagni. Affreschi con le cd. scene d’ingresso (P.C.A.S.).

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Ancora, dell'infrazione della barriera tra mondo e oltremondo, della possibilità di creare un varco tra ambiente terreno e ultraterreno ci parlano i personaggi affacciati sulle soglie (Fig. 29), i quali, se da un lato costituiscono un espediente pittorico già noto all'illusionismo prospettico di II e IV stile, dall'altro si presentano come figure caratterizzate da qualche spunto innovativo. Innanzi tutto è bene rilevare che i più stringenti

confronti per i personaggi del cubicolo di Sansone possono essere più facilmente rintracciati in ambito domestico piuttosto che funerario, dove, soltanto in scultura - come abbiamo visto - ci vengono proposte figure che fuoriescono o che affiancano la porta Inferi (Fig. 30) e, inoltre, tra

quest'ultimi, soltanto un esiguo numero è rappresentato da defunti. Nel repertorio decorativo delle

catacombe romane sono, del resto, piuttosto rare le raffigurazioni dei defunti rappresentati nella loro individualità (Fig. 31) e non in un generico status beatifico e quando ciò accade si tratta, quasi sempre, di defunti privilegiati, appartenenti ad una circoscritta elîte ben identificabile attraverso scelte decorative che evidenziano una particolare agiatezza economica. Nel vano della porta raffigurata sulla

parete di destra del cubicolo ecco allora apparire i probabili committenti della camera funeraria (Fig. 32), che nella

loro aspirazione all'auto-celebrazione si fanno raffigurare ancora sulla soglia, con movenze ancora del tutto umane piuttosto che secondo lo stereotipato gesto dell'expansis manibus, cifra simbolica della caratteristica espressione della nuova fede nella resurrezione.

La volitiva ingerenza dei committenti risulta ancora più evidente grazie al rinvenimento, avvenuto durante una recente campagna di restauri effettuata nel cubicolo in corrispondenza della scena di ingresso dipinta a sinistra, di un disegno preparatorio graffito sull’intonaco fresco non seguito al momento della decorazione pittorica. Il graffito evidenzia una figura, presumibilmente virile, rappresentata in assoluto prospetto e in grandi dimensioni, vestita di tunica e di una sorta di penula, mentre sembra sollevare le braccia nel canonico gesto dell’expansis manibus, tra le due ante aperte di una porta (Figg. 33 a-b). Il graffito, sia pure rivisto nella redazione definitiva del

dipinto, fornisce una controprova preziosa per la decodificazione corretta delle scene d’ingresso, nel senso che, in un primo momento, si intendeva rappresentare i

Fig. 29 Roma. Ipogeo di via Dino Compagni. Cubicolo F. Affresco con la cd. scena d’ingresso, particolare dei personaggi affacciati sulla soglia (P.C.A.S.).

Fig. 30 Velletri, Museo archeologico. Sarcofago con il ciclo di Eracle, particolare.

Fig. 31 Roma. Catacombe di Domitilla. Arcosolio di Veneranda (P.C.A.S.).

Fig. 32 Roma. Ipogeo di via Dino Compagni. Cubicolo F. Affresco con la cd. scena d’ingresso, particolare dei defunti (P.C.A.S.).

Figg. 33 a-b Roma. Ipogeo di via Dino Compagni. Cubicolo F. Affresco con la cd. scena d’ingresso, disegno ricostruttivo dell’incisione preparatoria (P.C.A.S.).

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defunti oranti, calandoli in un paradiso domestico e intravisto, secondo la più canonica versione dell'autorappresentazione simbolica.

Figg. 34 a-e Roma. Ipogeo di via Dino Compagni. Vedute del cubicolo F (P.C.A.S.). Come si è accennato all'inizio e per riassumere, l'ipogeo di via Dino Compagni si colloca in un frangente

cronologico e culturale posto al margine estremo per quanto riguarda la produzione pittorica funeraria paleocristiana, osservata nella sua prima stagione, ma si propone anche come monumento significativo e incipitario per quel che attiene alle nuove tendenze espressive che si diffonderanno lungo le navate delle basiliche, nelle formelle delle porte lignee, nelle produzioni eburnee, sulle cassette reliquiario (Figg. 34 a-e). Nello stesso tempo, queste scene, in parte collaudate, in parte innovative, si affacciano in un contesto, in un mondo, ovvero, in un oltremondo che è l'esito finale di un complicato gioco di ricomposizioni di antiche idee strutturali e tematiche, per lo più desunte dal ricco patrimonio ellenistico, rappresentato dai quadretti di genere, ma anche dai più impegnativi ambienti agro-bucolici di sperimentazione più italica e romana e desinenti verso i codici cristiani e di recuperi di immagini funerarie quasi ingiudicabili e, comunque, fuorvianti in un contesto tanto composito e in un tempo così lontano dalla gestazione di queste invenzioni iconografiche. E con questo, mi riferisco alle "scene di ingresso" che, recuperate da culture e da idee figurative del passato remoto, riemergono per riproporre l'immagine della porta inferi e per mettere in codice il concetto appena inventato della ianua coeli.

Barbara Mazzei