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1. PREMESSA Nel XIX secolo la maggior parte degli italiani viveva d’agricoltura, ma ciò nonostante l’Italia non era autosufficiente per quanto riguarda i generi ali- mentari; la causa principale di questa situazione era la penuria di capitali e la loro cattiva utilizzazione. I ricchi proprietari piuttosto che apportare delle migliorie nelle loro terre, preferivano acquistarne di nuove oppure investire in titoli, perché questo era il modo migliore di avanzare socialmente (Mack Smith, 1972). Le colture più praticate erano anche le meno remunerative, questo per- ché l’agricoltore medio non possedeva adeguati mezzi finanziari per effet- tuare investimenti in colture arboree (vigneti, oliveti, mandorleti, etc.), le quali necessitavano anche di 10 anni per dare i primi frutti. Il governo del territorio era a dir poco carente, i fiumi erano privi di argi- ni -in quanto i costi di costruzione e di manutenzione non erano sopportati da nessuno- vaste erano le porzioni di territorio pianeggiante paludose ed infestate dalla malaria che rimanevano incolte; per contro scarsi erano gli appezzamenti irrigati razionalmente, il che limitava la possibilità di utilizza- re colture economicamente più vantaggiose. Gli stessi terreni dissodati di recente venivano abbandonati dalle coltiva- zioni dopo pochi raccolti -tra l’altro ottenuti con criteri a dir poco opinabi- li- perché il proprietario preferiva dissodarne altri, anche per sfuggire all’im- posta fondiaria. Quest’agricoltura di rapina aggravava la scarsità di terreni coltivabili e con essa la povertà e la mancanza di generi alimentari: si aggiunga a questo - 17 - I EVOLUZIONE DELL AGRICOLTURA MERIDIONALE

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1. PREMESSA

Nel XIX secolo la maggior parte degli italiani viveva d’agricoltura, ma ciònonostante l’Italia non era autosufficiente per quanto riguarda i generi ali-mentari; la causa principale di questa situazione era la penuria di capitali ela loro cattiva utilizzazione.

I ricchi proprietari piuttosto che apportare delle migliorie nelle loroterre, preferivano acquistarne di nuove oppure investire in titoli, perchéquesto era il modo migliore di avanzare socialmente (Mack Smith, 1972).

Le colture più praticate erano anche le meno remunerative, questo per-ché l’agricoltore medio non possedeva adeguati mezzi finanziari per effet-tuare investimenti in colture arboree (vigneti, oliveti, mandorleti, etc.), lequali necessitavano anche di 10 anni per dare i primi frutti.

Il governo del territorio era a dir poco carente, i fiumi erano privi di argi-ni -in quanto i costi di costruzione e di manutenzione non erano sopportatida nessuno- vaste erano le porzioni di territorio pianeggiante paludose edinfestate dalla malaria che rimanevano incolte; per contro scarsi erano gliappezzamenti irrigati razionalmente, il che limitava la possibilità di utilizza-re colture economicamente più vantaggiose.

Gli stessi terreni dissodati di recente venivano abbandonati dalle coltiva-zioni dopo pochi raccolti -tra l’altro ottenuti con criteri a dir poco opinabi-li- perché il proprietario preferiva dissodarne altri, anche per sfuggire all’im-posta fondiaria.

Quest’agricoltura di rapina aggravava la scarsità di terreni coltivabili econ essa la povertà e la mancanza di generi alimentari: si aggiunga a questo

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EVOLUZIONE DELL’AGRICOLTURA

MERIDIONALE

l’innata diffidenza delle popolazioni contadine verso le innovazioni, il per-manere di inveterate superstizioni e la grave ignoranza tecnica, contribuiva-no poi a rendere ancora più sconfortante la già difficile situazione.

Ovviamente, tali fattori, ed altre caratteristiche peculiari di cui si dirà inseguito, si manifestavano con maggiore intensità nelle zone meridionali, incui era largamente presente il latifondo.

2. CONDIZIONI ECONOMICHE DEL MEZZOGIORNO NEL PERIO-DO UNITARIO

Nel Mezzogiorno le condizioni economiche generali, ma soprattutto del-l’agricoltura, che rappresentava il maggior settore economico, mostravanoun quadro ancora più arretrato rispetto all’Italia settentrionale.

Se si eccettua il tronco ferroviario Napoli-Portici (il primo in Italia adessere costruito), nel Regno di Napoli non esistevano altre strade ferrate. Lacarenza di ferrovie non era certo compensata da adeguati collegamenti stra-dali, che, laddove esistevano, versavano in uno stato di completo abbandonoed erano alla mercé di numerose bande di briganti -fenomeno che s’incre-menterà maggiormente durante i primi anni del Regno d’Italia- che rende-vano difficili ed insicuri i commerci.

Nell’antico Regno delle due Sicilie era presente un modesto settore indu-striale, che, pur contando alcuni stabilimenti tecnologicamente avanzati sianel ramo tessile che in quello meccanico, era tuttavia estremamente concen-trato dal punto di vista territoriale (praticamente tutto addensato intornoalla città di Napoli) e fortemente protetto da sussidi e commesse statali. Ilresto dell’industria era costituito da lavorazioni primitive e artigianali.Mancava un settore agricolo prospero, enormi erano le differenze rispettoall’Italia del Centro-Nord (Graziani, 1998).

La causa di tanto divario è riconducibile non solo al differente regime diproprietà fondiaria o alle condizioni naturali, ma anche alla produzioneagricola, alla forma di conduzione nonché ai rapporti impresa-manodoperaesistenti nelle due parti del Paese.

Per ciò che concerne il regime di proprietà fondiaria, bisogna tener pre-sente che nel Settentrione l’eliminazione della feudalità si ebbe prima rispet-to al Sud e ciò consentì un più precoce affrancamento delle categorie agrico-le e la conseguente formazione di una nuova classe di piccoli e medi

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imprenditori rurali che portarono una maggiore efficienza nella conduzionedelle aziende agricole.

Nel Mezzogiorno, invece, la grande proprietà feudale venne ad essereattaccata solo agli inizi del XIX secolo, grazie alle leggi sulla eversione dellafeudalità emanate dal governo napoleonico il 2 agosto 1806, che si possonoconsiderare un primo timido tentativo di riforma fondiaria, ma questo nonbastò a determinare la nascita di una diffusa ed economicamente valida pro-prietà coltivatrice. La suddetta legge stabiliva infatti che una parte dei dema-ni feudali fosse assegnata in libera proprietà agli ex baroni, mentre l’altradoveva essere assegnata ai comuni nell’interesse dei cittadini.

In ogni feudo i “commissari ripartitori” dovevano stabilire la parte dadistaccarsi per il comune (variabile da un quarto a tre quarti, a seconda del-l’importanza dei diritti di semina, di legnatico, ecc., esercitati nel passatodalle popolazioni sul demanio feudale), e quella da lasciare a disposizionedegli ex baroni; questa prima fase dell’operazione prendeva il nome di divi-sione in massa (Sereni, 1968).

In un momento successivo i comuni dovevano quotizzare la parte spet-tante ad essi a favore dei cittadini -che così avrebbero avuto una sorta d’in-dennizzo per la perdita degli usi civici esercitati sulle terre feudali- e favorirela formazione della proprietà contadina che, nell’intenzione dei legislatori,avrebbe migliorato la redditività degli ex latifondi.

Questa prima azione riformatrice fallì principalmente per due motivi: inprimis perché i comuni erano governati da “galantuomini” che, anzichéapplicare la legge, con un comportamento a dir poco omissivo incameraro-no o quanto meno trassero un enorme profitto sui terreni da assegnare ailoro amministrati. L’altro impedimento era rappresentato dai costi d’acqui-sto dei fondi, che non poteva essere sostenuto dai poveri contadini di allora;quelli che, con enormi sforzi, riuscirono ad acquistarli dovettero rivenderlidopo pochi anni a causa della mancata redditività degli stessi.

I nuovi proprietari, infatti, non poterono operare quegli investimenti incolture più remunerative, giacché quasi tutti i loro risparmi erano statiassorbiti dalle spese di acquisto e, quindi, si videro costretti alla vendita. Su600.000 ettari, attribuiti ai comuni dalla divisione in massa, solo 205.000erano stati riparti tra 116.264 quotisti (in un arco temporale compreso tra il1806 ed il 1860); ben 395.000 ettari passarono, praticamente, nelle mani diceti borghesi non coltivatori, così come doveva accadere dopo l’Unità con iterreni provenienti dal patrimonio della Chiesa e dalla vendita delle enormi

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Analisi di un intervento di riforma fondiaria

estensioni di terreni demaniali (beni della mano morta) posseduti dai comu-ni (De Stefano, 1988).

A tal proposito, si deve considerare che il regno Sabaudo per far frontead un enorme debito pubblico contratto in ragione dello sforzo unitariodovette impegnarsi in una politica che, per usare un termine moderno,potremmo definire di privatizzazione dei beni dell’asse ecclesiastico e dema-niale. Tali vendite impegnarono tutto il periodo che va dall’Unità alla finedel secolo XIX, ma interessarono specialmente gli anni dal 1864 al 1875,nei quali si concentrarono i tre quarti circa del loro valore complessivo (DeStefano, 1988).

Manlio Rossi Doria (1982), nel suo Cent’anni di questione meridionale,pose l’accento proprio su questa nascente classe di borghesi rentiers, conser-vatori e reazionari, individuando in costoro la causa del mancato decollodell’agricoltura nel Mezzogiorno (e con essa di tutta l’economia), nel regnoborbonico prima e nello stato unitario poi.

Un secondo gruppo di cause che, un secolo fa, differenziavano nettamen-te il panorama agricolo del Sud da quello del Nord è da individuare in quel-lo che oggi chiameremo la “ struttura urbana” del territorio e “le condizioniigieniche e civili” della vita che in esso si svolgeva (De Stefano, 1988).Mentre il Settentrione mostrava una fitta rete di piccoli e medi centri urbaniben collegati tra di loro, con continui scambi culturali e commerciali ed untessuto agricolo caratterizzato da insediamenti rurali stabili e ben distribuiti,nel Mezzogiorno la popolazione era concentrata in grossi centri abitatisovente mal collegati e scarsa era inoltre la presenza di insediamenti umanistabili nelle campagne, ove era prevalente il latifondo.

Queste differenze erano determinate in maniera pronunciata dalla pre-senza della malaria che nel Mezzogiorno assumeva una maggiore gravitàrispetto al Nord; ciò comportava l’impossibilità del formarsi d’insediamentirurali stabili e pregiudicava anche il tipo di agricoltura attuabile. Nelle asso-late ed igienicamente insalubri lande meridionali, soprattutto nelle zoneinterne, il latifondo diveniva il solo modo possibile di coltivare la terra.

Un’altra causa di differenziazione del Sud rispetto al Nord risiedeva nellosfavorevole regime delle piogge (abbondanti d’inverno e scarse nei caldimesi estivi) che, obtorto collo, indirizzava l’agricoltura meridionale verso lacerealicoltura e la pastorizia per lo più con bestiame ovino e caprino.

Questo stato di cose era rafforzato anche dalle svantaggiate condizioniorografiche, nel Meridione i terreni giacenti in pianura rappresentavano solo

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il 18% della superficie produttiva mentre la collina occupava il 53%, controil 36% ed il 19% del Nord; inoltre, ad una situazione di scarsa fertilità, siaggiungeva un esteso dissesto idrogeologico causato da disboscamenti dis-sennati.

Infine, se nel Centro-Nord la proprietà contadina, la mezzadria (soprat-tutto nel centro) e l’affittanza erano molto diffuse, nel Mezzogiorno si vede-va imperare il latifondo su cui gravava una sterminata massa di poveri brac-cianti e piccolissimi proprietari.

3. CENNI SULL’EVOLUZIONE DELL’AGRICOLTURA MERIDIONALEDALL’UNITÀ AL SECONDO DOPOGUERRA

Subito dopo l’unificazione, nonostante le difficoltà già illustrate, l’agri-coltura meridionale attraversò un primo periodo di sviluppo dovuto all’e-sportazione verso i paesi del nord-Europa (soprattutto la Francia) di prodot-ti tipici dell’agricoltura meridionale quali vino,olio ed agrumi,

Sollecitata dalla domanda internazionale di oli alimentari e industriali,l’olivicoltura si diffuse in modo particolare sulle colline adriatiche, abruzzesie molisane, nelle “terre” di Bari ed Otranto, nel Salernitano, nella CalabriaMeridionale e nella Sicilia Orientale (Messina e Siracusa), cosicché la produ-zione di olio meridionale si quadruplicava dai 600.000 quintali del 1840 ai2.500.000 del 1913 (G. Barone, 1995).

L’exploit della produzione vinicola, dovuta anche alla distruzione dellaviticoltura francese causata dalla infestazione della fillossera, ebbe una note-volissima espansione soprattutto in Puglia ed in Sicilia, le quali negli anniche seguirono vennero ricoperte di lussureggianti agrumeti nelle zonecostiere della penisola Sorrentina, della Sicilia (soprattutto nella Concad’Oro e nella parte orientale) e della Calabria.

Tutto questo sembrava proiettare l’immagine di un Mezzogiorno felix,finalmente avviato al definitivo superamento della sua miseria atavica, ma ilprocesso interessò solamente le zone rivierasche alle quali si contrapponeva-no le sterminate aree interne a cerealicoltura estensiva dove vigeva il piùassoluto immobilismo imprenditoriale.

Malgrado ciò, nell’agricoltura meridionale si registrò un consistente flus-so di investimenti fondiari effettuati anche dagli stessi proprietari assenteistiche vi trasferivano parte della rendita granaria.

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Secondo Rossi Doria, vigneti, oliveti, agrumeti e mandorleti crebbero di1.700.000 ettari dal 1850 fino al 1950: se questo trend fosse continuatoavrebbe migliorato di molto le condizioni di vita di quelle popolazioni.Questo andamento favorevole, purtroppo, venne interrotto bruscamente nel1888 con la svolta protezionistica e con l’entrata in vigore della nuova tarif-fa doganale.

La politica protezionistica, intrapresa dal governo per proteggere lanascente industria del Nord, provocò l’immediata ritorsione da parte dellaFrancia (principale importatore dei nostri prodotti agricoli) causando ilcrollo delle esportazioni meridionali. Il risultato fu la rovina di vaste schieredi piccoli proprietari, che negli anni precedenti avevano effettuato conside-revoli investimenti e che rappresentavano non solamente la forza più vivadell’agricoltura meridionale, ma soprattutto l’unica sede d’accumulazione dicapitale.

Per salvaguardare le esigenze commerciali del Sud, il governo prese ilprovvedimento più inopportuno che potesse essere escogitato: introdusse ildazio sui cereali.

La manovra, infatti, finì con il tutelare le colture estensive danneggiandole colture intensive e favorì il latifondo, sanzionando in maniera definitival’alleanza tra il grande capitale del Nord e la borghesia agraria del Sud, chesecondo Gramsci e Sereni, fu la vera causa del sottosviluppo del Sud.

Dalla guerra tariffaria non uscì sconfitta solo “l’agricoltura produttivameridionale”, ma le stesse classi contadine, le quali videro deteriorarsi il loropotere di acquisto: il prezzo del grano cresceva e i loro salari reali diminuiva-no, ciò, unitamente ad una straordinaria espansione demografica, produssecome conseguenza un’ondata di emigrazioni torrentizie oltreoceano.

È fra la prima guerra mondiale ed il tumultuoso dopoguerra che l’ordineborghese dei campi si rompe sotto il peso dell’inflazione monetaria e dellacontestazione contadina. La borghesia terriera riceve un primo colpo con lapesante situazione economica creatasi nel dopoguerra che vide la comparsadi una galoppante inflazione, dovuta alla fine del conflitto ed alle tensionisociali da esso generate. L’inflazione colpì in modo pesante le rendite agrariedeterminando una caduta verticale del valore della terra; bene su cui la bor-ghesia agraria aveva costruito il suo potere ed il suo prestigio nel secolo pre-cedente.

Di questa situazione si avvantaggiò il ceto contadino grazie alle rimessedegli emigranti e ad un incremento dei redditi da lavoro agricolo (finalmen-

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te si arrestava la tendenza secolare al loro deterioramento) dovuto ad unmiglioramento delle ragioni di scambio dei prodotti agricoli rispetto a quellidegli altri settori; i razionamenti imposti dagli eventi bellici avevano rivalu-tato l’economia della terra.

In ragione di queste favorevoli condizioni, il ceto contadino, secondol’indagine Inea-Lorenzoni, riesce ad acquistare dalla grande proprietà circa1.000.000 di ettari (equamente riparti tra Nord, Centro e Sud) ed il dato èancora pìù eclatante se si osserva la crescita del numero dei conduttori diterreni propri, che tra i due censimenti del 1911 e del 1921 passa da1.108.728 a 2.081.560, con un incremento dal 18 al 32% sul totale degliaddetti agricoli. L’inchiesta INEA, quindi, aveva mostrato una pronunciataespansione della piccola proprietà contadina, soprattutto nel Mezzogiorno,e, cosa ancor più rimarchevole, la crescita interessava anche le zone fertili dipianura; si vedano i 35.000 ha di terreno pianeggiante siciliano, i 30.000della Puglia ed i 17.000 della Campania: solo il 15% delle nuove proprietàera ubicato in montagna (G. Barone, 1995).

“L’attacco contadino” alla proprietà assenteista fu un fenomeno dovutosostanzialmente alle condizioni storiche e sociali che si erano venute a crearein quegli anni, mentre l’azione dello Stato risultò del tutto marginale.

Infatti, i governi liberali per far fronte alla protesta sociale delle classicontadine, che insieme agli operai avevano sopportato gran parte dei sacrifi-ci imposti dalla guerra, con il D. L. n. 1970 del 10 Dicembre 1917 istitui-rono l’Opera nazionale combattenti1 “allo scopo di concorrere allo sviluppoeconomico e al miglior assetto sociale del paese, provvedendo principal-mente alla trasformazione fondiaria delle terre, in modo di accrescere laproduzione e favorire l’esistenza stabile nei luoghi, di una più densa popola-zione”. I risultati delle quotizzazioni operate furono risibili: nell’immediatodopoguerra l’ONC riuscì a distribuire all’incirca 40.000 ettari, ma la suaazione fu bloccata dall’avvento del fascismo. La marcia su Roma, per lecampagne, ebbe l’effetto di spostare indietro le lancette dell’orologio: ilregime per ingraziarsi i ceti più colpiti dall’inflazione (tra questi gli agrari)adottò la politica dalla cosiddetta quota 90, che combinandosi con i nefastieffetti del great crash nel 1929, provocò una rivalutazione delle posizionidebitorie nei confronti delle banche ed una caduta verticale dei prezzi deiprodotti agricoli.

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1 Di seguito denominata ONC.

I piccoli e medi proprietari videro la loro condizione peggiorare in mododrammatico e, come dimostrò la relazione finale dell’Inchiesta INEA, moltidi essi furono costretti a vendere: tale fenomeno riguardò all’incirca il 20-30% delle nuove proprietà formatesi prima del fascismo.

Per garantire la pace sociale, il regime emanò una serie di provvedimentiper l’agricoltura, che possono essere schematizzati in 3 assi principali:

1) politica granaria;2) politica doganale;3) bonifica integrale.Analizzando più in generale gli effetti portati da queste scelte di politica

agraria, si osserva come esse abbiano influito negativamente sull’agricolturanazionale e sulle sue prospettive di sviluppo.

La politica granaria in concomitanza con la politica doganale, mirando alraggiungimento dell’autosufficienza alimentare, penalizzò fortemente irestanti comparti agricoli: i settori non protetti videro peggiorare la propriaragione di scambio non solo rispetto ad essi, ma anche rispetto ai prodottiindustriali. I prodotti tipici della montagna subirono una drastica riduzionedei prezzi, che come conseguenza comportò un aggravio delle condizioni divita degli abitanti di queste aree marginali.

L’estendersi delle colture granarie sacrificava le colture foraggere ed ipascoli, producendo un calo sensibile negli allevamenti, non solo bovini, maanche ovini e caprini.

Bisogna, inoltre, tener presente l’impatto che la “battaglia del grano”ebbe sulle differenti aree geografiche del nostro paese: a fronte di un con-solidamento delle aziende capitalistiche delle fertili pianure delSettentrione, si registrò un rafforzamento della rendita fondiaria nellatifondo assenteista meridionale. Il risultato di tutto ciò lo si può osserva-re mettendo a confronto i valori di sviluppo della agricoltura sotto il fasci-smo con quelli dei periodi immediatamente precedente e successivo(Tabella n. 1).

Dalla tabella sopra descritta, si evince come non vi siano state grosse dif-ferenze di rapporto nello sviluppo dell’agricoltura tra le due aree del Paesenel periodo compreso tra la prima guerra mondiale e la prima fase del fasci-smo (caratterizzata da un certo grado di liberismo economico); differenzeche si fecero evidenti nella seconda parte del regime, in cui predominò unforte intervento pubblico messo in pratica con le politiche poc’anzi menzio-nate. Gli stessi dati mostrano una successiva inversione di tendenza, con il

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Mezzogiorno agricolo che riprendeva a crescere solo dopo la fine del secon-do conflitto mondiale.

Gli effetti negativi che la politica granaria ebbe nelle aree montane, esoprattutto nel Mezzogiorno, vennero amplificati da un’altra nefasta decisio-ne del regime: la politica demografica.

Le regioni meridionali avevano già visto crescere la loro popolazione da9,5 milioni a circa 13 milioni d’abitanti nel periodo compreso tra l’Unità edil Censimento del 1921, questa enorme pressione demografica sulla terra fula principale protagonista, nel bene e nel male, delle modificazioni intervenu-te nel paesaggio agrario, a cominciare dal massiccio disboscamento che sot-trasse al pascolo degli altipiani gran parte dei 3-4 milioni di ettari riconvertitilungo un secolo e mezzo alla cerealicoltura estensiva o promiscua e alle colti-vazioni arboree. Disboscamento che aveva permesso di assorbire in parte l’ec-cesso di manodopera e di intensificare lo sfruttamento dei suoli con l’impie-go prevalente di forza-lavoro rispetto al capitale provocando, però, un ulte-riore scompenso per la già precaria situazione idrogeologica (Barone, 1995).

Inoltre, un sia pur parziale sollievo per la popolazione rurale meridionalelo si ebbe dalla favorevole congiuntura agricola del primo dopoguerra; tuttociò consentì di limitare gli effetti di questa esplosione demografica. Ma lacrisi agraria e l’inflazione che subito dopo sopraggiunsero, unitesi alla incau-

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ZONESUPERFICIE

AGRARIA (%)

PRODUZIONI (MEDIE QUADRIENNALI A PREZZI 1913)

1911-14 1922-25 1936-39 1950-53

Nord 53,6 59,4 60,1 63,3 63,7

Sud 46,4 40,6 39,9 36,7 36,3

ITALIA 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0

INDICI DI SVILUPPO

Nord - 100 106 122 138

Sud - 100 104 103 113

ITALIA - 100 105 115 128

Tabella n. 1 - Sviluppo produttivo dell’agricoltura al Nord e al Sud

Fonte: Dell’Angelo (1956)

ta politica mussoliniana della famiglia, ruppero il già labile equilibrio esi-stente tra popolazione e risorse.

Tra il 1921 e il 1951 la sola popolazione meridionale aumentò da 13milioni a 17,4 milioni di unità: l’incremento demografico di 4 milioni diabitanti era stato pari a quello del periodo precedente, ma con la sola diffe-renza che il tutto avvenne in metà tempo, ovvero 30 anni (Tabella n. 2).

Già nel 1925 Giorgio Mortara metteva in evidenza “il grave disagio che siandava diffondendo nelle regioni meridionali, poiché l’aumento naturale dellapopolazione dopo la guerra era ivi più rapido che nelle altre parti d’Italia”.

Dopo la seconda guerra mondiale, questo enorme surplus demograficodiventerà uno dei fattori condizionanti la vita politica e sociale della giovaneRepubblica italiana.

Lo strumento della bonifica integrale, voluto con l’importante legge n.215, del 13 Febbraio 1933, venne ad essere messo in atto per molteplicifinalità:

1) finalità idraulico-agrarie: si voleva incrementare la superficie agrariadisponibile rendendo utilizzabili i terreni paludosi;

2) finalità igienico-sanitarie: l’obiettivo era quello di sradicare la piagadella malaria;

3) finalità sociali: si cercava di venire incontro alla fame di terra in que-gli anni.

Quest’ultima azione, come già detto, non diede luogo a trasformazioniradicali; salvo il limitato ed alquanto tardivo intervento per la colonizzazio-ne del latifondo Siciliano (legge n. 1, del 2 Gennaio 1940), che poi gli even-ti bellici bruscamente interruppero.

4. LA SITUAZIONE DEL MEZZOGIORNO NEL SECONDO DOPO-GUERRA

Alla fine del secondo conflitto mondiale le condizioni socio-economichedell’Italia erano disastrose: il patrimonio abitativo, le infrastrutture di comu-nicazione, l’agricoltura e l’industria risultavano gravemente danneggiati.

Infatti, il reddito nazionale era dimezzato rispetto al 1939 e il deficit sta-tale in continuo aumento. L’indice complessivo della produzione delle indu-strie manifatturiere, ponendo il 1938 uguale a 100, scese a 69 nel 1943 e a42 nel 1944, ma precipitò addirittura a 29 nel 1945. La caduta colpì anche

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REGIONI1911

(10.VI)1921

(1.XII)1931

(21.XII)1936

(21.IV)1951(4.XI)

Abruzzi e Molise 1.376.674 1.350.681 1.488.195 1.554.894 1.615.043

Campania 3.014.079 3.081.217 3.492.393 3.679.055 4.308.408

Puglia 2.151.180 2.208.130 2.490.992 2.643.325 3.186.380

Basilicata 474.021 457.189 507.750 538.141 613.452

Calabria 1.402.151 1.450.765 1.668.954 1.741.551 1.974.229

Sicilia 3.672.058 3.652.377 3.896.866 3.970.988 4.419.937

Sardegna 853.007 859.529 973.125 1.036.170 1.264.206

Nord 22.498.748 24.083.557 25.791.846 26.860.460 29.358.049

Mezzogiorno 12.943.170 13.059.888 14.518.275 15.164.124 17.379.655

ITALIA 35.441.918 37.143.445 40.310.121 42.024.584 46.737.704

Tabella n. 2 - Popolazione meridionale 1911-51 (dati censimento)

REGIONI1911

(10.VI)1921

(1.XII)1931

(21.XII)1936

(21.IV)1951(4.XI)

Abruzzi e Molise 100 98 108 113 117

Campania 100 102 116 122 143

Puglia 100 103 116 123 148

Basilicata 100 96 107 113 129

Calabria 100 103 119 124 141

Sicilia 100 99 106 108 120

Sardegna 100 101 114 121 148

Nord 100 98 115 119 130

Mezzogiorno 100 101 112 117 134

ITALIA 100 105 114 118 132

indici demografici

Elaborazione su dati ISTAT.

il settore agricolo, l’indice del prodotto lordo vendibile, sempre ponendo il1938 uguale a 100, si contrasse a 75,6 nel 1943 e 63,3 nel 1945.Distribuzione e flessioni produttive fanno sì che nel 1945 il reddito nazio-nale fosse dimezzato rispetto al 1939.

Parallelo fu l’aumento del deficit del bilancio statale, che passò da 12miliardi dell’esercizio 1938-39 agli 86 del 1942-43 e ai 380 del 1945-46”(Legnani, 1973).

In agricoltura accanto a quelli valutabili in dati, c’erano i danni incalcolabiliche derivavano dalla diminuita produttività del terreno, in conseguenza dellamancanza di fertilizzanti e di manodopera prolungatasi negli anni della guerra.Basti pensare che il rendimento di un ettaro coltivato a grano, che nel ‘39 erain media di 16 quintali, era sceso fino a 13 quintali (Mammarella, 1974).

L’agricoltura, però, oltre agli effetti negativi derivati dagli eventi bellici,era gravata da carenze strutturali che il regime fascista aveva contribuito adaccentuare; infatti, nonostante i rilevanti progressi tecnici ottenuti con la“Battaglia del grano” e con le opere di bonifica, non erano stati intaccati iproblemi relativi agli antiquati contratti agrari e alla asimmetrica distribu-zione della terra a favore della grande proprietà.

Se si eccettua l’opera di bonifica e di massiccia colonizzazione effettuatanell’Agro Pontino ed in pochi altri comprensori, il latifondo rimase domi-nante nel Mezzogiorno, nella Maremma toscana e nell’Italia insulare.

Nel resto del Paese la situazione era grosso modo la seguente: le terremigliori di pianura erano gestite, in prevalenza, dal medio e grande agricolto-re, con salariati fissi ed avventizi. I coltivatori diretti prevalevano soltantonelle zone alpine, appenniniche e nelle zone costiere difficili (Medici, 1979).

Tra le pianure irrigue produttive del Nord e le lande meridionali domi-nava in tutta l’Italia centrale, ed in una miriade di forme, la mezzadria; unaforma di conduzione giuridicamente arretrata ed estremamente vessatorianei confronti del mezzadro da far si che nella maggior parte dei casi le suecondizioni di vita fossero peggiori di quelle dei salariati.

Dai dati rilevati dall’inchiesta INEA-Medici nel periodo 1945-46, sulladistribuzione della proprietà fondiaria per classi di superficie nelle grandicircoscrizioni geografiche d’Italia, risultava come più del 40% della superfi-cie agricola utilizzabile fosse nelle mani di circa l’1% dei proprietari: era ilnocciolo duro del potere agrario.

La piccola proprietà contadina, pur nelle limitazioni alla sua espansionesubite durante il ventennio, registrava una superficie percentualmente non

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Bartolomeo Filadelfia

dissimile alla grande proprietà; addirittura “il 42% delle terre lavorabili diproprietà privata nel Mezzogiorno erano in mano ai contadini, cioè unapercentuale nettamente superiore a quella dell’Italia centrale (34,6%) cosìda sfatare lo stereotipo di un sud dominato monoliticamente dalla grandeproprietà” (Barone, 1995).

Ma, come spesso accade, i dati statistici possono essere fuorvianti se nonvengono analizzati correttamente, infatti l’inchiesta INEA-Medici mise inevidenza la forte polarizzazione della proprietà fondiaria. Da un lato vierano circa 8.000.000 di proprietari che possedevano dei veri e propri fazzo-letti di terra, le cui dimensioni andavano da 0,5 a 2 ha, a cui si aggiungeva-no altri 968.000 titolari di appezzamenti di 2-5 ha, dall’altro le proprietà aldi sopra dei 100 ha coprivano il 26% della superficie totale della proprietàprivata, ma appartenevano a soli 21.400 possidenti (Tabella n. 3).

La media proprietà inquadrata nell’ampio intervallo tra i 5 e i 100 hariguardava complessivamente 700.000 proprietari (pari al 36% della SAU),che non rappresentavano di certo la spina dorsale delle campagne italiane;laddove era di primaria importanza nei paesi dell’Europa occidentale. Ladebole consistenza della media proprietà diventava più evidente nelMezzogiorno, dove Abruzzi e Campania presentavano una maggiore inci-denza della piccola proprietà, mentre Puglia, Basilicata e Calabria registrava-no più alte percentuali della grande.

Tuttavia una situazione fondiaria già di per sé squilibrata diventava pato-logica in quelle zone in cui coesistevano la grandissima proprietà e la pro-prietà particellare.

In esse al latifondo vero e proprio si affiancava, quasi senza terminiintermedi, una minutissima proprietà contadina, per lo più localizzataintorno ai centri abitati (Marciani, 1966). Tali aree assommavano gliinconvenienti sia della grande che della piccola proprietà, inoltre la popo-lazione rurale che viveva al suo interno, non potendo sopravvivere con gliinsufficenti redditi derivatele dai loro esigui appezzamenti, si riversava nellatifondo non soltanto come bracciantato, ma in molti casi come piccolienfiteuti o affittuari.

Nella fattispecie quest’ultima condizione si riscontrava maggiormentenelle proprietà latifondistiche ubicate nelle aree di montagna meridionali(così come si presentava la montagna dell’alto potentino), dove la praticaagricola della popolazione contadina, aggravata dalle difficoltà ambientali eall’elevata pressione demografica, produceva un’agricoltura di rapina. Tale

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Analisi di un intervento di riforma fondiaria

- 30 -

Bartolomeo FiladelfiaN

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comportamento «assumeva, aggravandoli, gli stessi caratteri di estensivitàriscontrabili su quella parte del latifondo che era condotta in gestione diret-ta della proprietà e utilizzata attraverso la semplice vicenda tra pascolo ecereale» (Marciani, 1966).

Oltre che gli inconvenienti avvertibili sul piano produttivistico, nellasituazione fondiaria erano insite le principali cause delle gravi condizionisociali esistenti in una larga parte dall’agricoltura italiana.

Nel 1950 su una forza lavoro che complessivamente poteva contare su18,8 milioni di unità, gli occupati ammontavano a poco meno di 16,8milioni: il risultato era che lo spettro della disoccupazione riguardava circa2,1 milioni di unità (Tabella n. 4).

- 31 -

Analisi di un intervento di riforma fondiaria

ZONE TOTALEDISOCCUPATI

GIÀ OCCUPATI

IN CERCA DI PRIMA

OCCUPAZIONE

(MENO DI 21 ANNI)

CASALINGHE IN

CERCA DI PRIMA

OCCUPAZIONE

OCCUPATI E

PENSIONATI IN

CERCA DI DIVERSE

OCCUPAZIONI

Nord 1.025.917 665.287 239.196 38.073 33.361

Centro 281.118 182.273 57.989 25.584 15.272

Mezzogiorno 559.331 346.840 141.854 32.835 37.802

Isole 203.443 152.273 36.391 57.352 6.887

TOTALE 2.069.809 1.346.673 475.430 153.844 93.322

Tabella n. 4 - Iscritti negli Uffici di collocamento 1950

Fonte: Marciani (1966)

ZONETOTALE

%

DISOCCUPATI

GIÀ OCCUPATI

%

IN CERCA DI PRIMA

OCCUPAZIONE

(MENO DI 21 ANNI)%

CASALINGHE IN

CERCA DI PRIMA

OCCUPAZIONE

%

OCCUPATI E

PENSIONATI IN

CERCA DI DIVERSE

OCCUPAZIONI %

Nord 49,6 49,5 50,3 24,7 35,7

Centro 13,6 13,5 12,2 16,7 16,4

Mezzogiorno 27,0 25,7 29,8 21,3 40,5

Isole 9,8 11,3 7,7 37,3 7,4

TOTALE 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0

Sviluppo percentuale %

Questi dati ufficialmente riguardavano maggiormente il Settentrione(con 1,3 milioni di unità) e soprattutto il settore industriale ed extra-agrico-lo (con 1,7 milioni di unità): quindi solo il 18% della forza lavoro disoccu-pata (Tabella n. 5) era attribuibile al settore agricolo (Fabiani, 1986).

Da ciò si potrebbe evincere una situazione sull’occupazione che nel dopoguerra era grosso modo favorevole al Mezzogiorno e al mondo dell’agricol-tura: nulla di più falso.

Innanzitutto, bisogna considerare la variazione che dal punto di vista ter-ritoriale presenta il tasso di attività; qui risulta che su 100 abitanti del Nordsono occupate 42 unità lavorative e solo 35 e 30 nel Mezzogiorno e nelleIsole (Camera dei Deputati, 1947).

Di conseguenza nelle statistiche ufficiali si registrava una percentuale dipopolazione inattiva maggiore nelle regioni meridionali o, d’altro canto, unamaggiore percentuale di persone non considerate facenti parte della forzalavoro

Per ciò che concerne gli occupati nel settore agricolo, la situazione al1951 era la seguente: sull’agricoltura gravava il 42% della forza lavoro, a cuiperò corrispondeva il 28% del Prodotto Lordo Nazionale. Questo datomascherava profondi squilibri territoriali: nel Mezzogiorno (non conside-rando l’Italia insulare) gli addetti al settore primario raggiungevano il 55,2%della forza lavoro (in Basilicata tale dato era addirittura pari al 69%) controil 35% dell’Italia settentrionale (Tabella n. 6).

La diversa dislocazione territoriale degli occupati in agricoltura era,sostanzialmente, una conseguenza imputabile a due fattori:

1. la cronica mancanza di alternative occupazionali extra-agricole nellelande meridionali, che costringeva milioni di diseredati a riversarsi in

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Bartolomeo Filadelfia

ZONE AGRICOLTURA ALTRI SETTORI TOTALE

Centro-Nord 12,09 87,91 100,0

Mezzogiorno-Isole 30,11 69,89 100,0

ITALIA 18,37 81,63 100,0

Tabella n. 5 - Iscritti nelle liste di collocamento di gennaio 1950. Ripartizione % fra agri-coltura e altri settori

Fonte: Fabiani (1986)

essa nella speranza di poterne trarre almeno il minimo indispensabileper la sopravvivenza

2. gli effetti del boom demografico causato in gran parte dalla sconsidera-ta politica dei “grandi numeri” del fascismo.

Infatti, come evidenziato dalla tabella n. 7, considerando il ventennio1931-1951 il numero degli addetti all’agricoltura rimase sostanzialmentestabile, anzi nell’Italia del Nord si assistette ad una diminuzione di circa400.000 unità, ma quasi specularmene nel Meridione si ebbe un incremen-to di 657.000 addetti.

A questi dati, già di per sé drammatici, bisogna aggiungere l’enorme edifficilmente quantificabile peso della sottoccupazione; un’indagine dellaCommissione parlamentare del 1952 inerente tale problema quantificheràlo stesso in ragione di 640 milioni di giornate che grosso modo corrisponde-vano a 2 milioni di disoccupati. Il fatto grave in tutto ciò era che il 50% ditale cifra riguardava le regioni del Sud, conseguentemente questo valorefaceva lievitare la percentuale di disoccupati rurali nel Mezzogiorno a più di1 milione (Tabella n. 8).

Questi dati contribuirono ancora di più a peggiorare il rapporto tra forzelavoro e risorsa terra: ovvero ad un’aumentata popolazione contadina, regi-strata nel periodo 1931-51, non corrispose alcuna variazione della strutturafondiaria, né tanto meno ci fu una crescita della PLV.

Dagli atti della Commissione parlamentare inchiesta sulla miseria in Italia esui mezzi per combatterla (Camera dei Deputati, 1953) risultò un dato avvi-

- 33 -

Analisi di un intervento di riforma fondiaria

ZONE AGRICOLTURA

INDUSTRIA,TRASPORTI E

COMUNICAZIONI

ALTRE

ATTIVITÀTOTALE

Italia settentrionale 35,0 42,5 22,5 100,0

Italia centrale 43,5 30,6 22,9 100,0

Italia meridionale 55,2 26,3 18,5 100,0

Italia insulare 47,9 30,0 22,1 100,0

ITALIA 42,4 35,4 22,2 100,0

Tabella n. 6 - Distribuzione % delle forze lavoro occupate secondo i rami di attività (1951)

Fonte: Svimez (1961)

lente: l’Italia meridionale, che pur possedeva il 44% della superficie agraria,contribuiva a malapena per il 33% alla produzione lorda vendibile. Talevalore non corrispondeva nemmeno al livello produttivo del lustro compre-so tra il 1923 e il 1928; né si vedeva come poteva essere diversamente vistoche scarso era l’utilizzo dei concimi per interventi di fertilizzazione e del

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Bartolomeo Filadelfia

ZONE 1931 1936 1951

Centro-nord 4.898 5.307 4.495

Mezzogiorno-isole 2.970 3.197 3.627

ITALIA 7.868 8.504 8.122

SVILUPPO PERCENTUALE %

Centro-nord 62,3 62,4 55,3

Mezzogiorno-isole 37,7 37,6 44,7

ITALIA 100,0 100,0 100,0

Tabella n. 7 - Addetti all’agricoltura (1931-1936-1951) in migliaia di unità

Fonte: Rossi Doria (1984)

SOTTOCCUPAZIONE

REGIONEGIORNATE

DISPONIBILIGIORNATE

% SU GIORNI

DISPONIBILI

% PER

REGIONI

Italia settentrionale 729.317 172.502 23,7 26,92

Italia centrale 376.962 146.057 39,7 22,80

Italia Meridionale 745.156 322.094 43,2 50,28

ITALIA 1.842.435 640.653 34,8 100,0

Tabella n. 8 - Sottoccupazione in agricoltura

Fonte: Camera dei Deputati (1947)

tutto irrilevante il grado di meccanizzazione: “se in tutto il Paese si contavaun trattore ogni 232 ettari, nel Mezzogiorno si arrivava a uno su 700”(Fabiani, 1986).

Tali problematiche ebbero un grande ruolo nello scatenare le lotte agrariedel dopoguerra: le condizioni c’erano tutte. Il miserrimo livello di vita deibraccianti, dei salariati e di piccoli proprietari meridionali venne palesato intutta la sue drammaticità nella descrizione operata dal parlamentare comu-nista Giorgio Amendola:

«La maggioranza dei bambini e delle donne andava sempre a piedinudi... ed ancora... un tempo, quanto mai si mangiava carne? La mediadella carne consumata a testa, in Basilicata, era di un chilo e mezzo l’anno,compresi i ricchi, il che vuol dire che si mangiava carne solo nelle festecomandate».

La lotta per il riscatto delle campagne da parte della popolazione conta-dina del Sud ebbe il suo inizio nelle contrade calabresi dove miglia di conta-dini occuparono il latifondo del Marchesato di Crotone. Qui, su una super-ficie di poco superiore ai 100.000 ettari, erano concentrati i tre quinti dellagrande proprietà calabrese e un decimo di quella dell’intero Mezzogiorno,come pure vi erano state censite le cinque più vaste proprietà fondiaried’Italia (Barone, 1995).

Su un tale territorio la popolazione era aumentata da 50.000 a 100.000abitanti nel trentennio 1911-1941, e nella zona di Cutro (nel cuore delMarchesato) 1.500 famiglie sussistevano su meno di 4.000 ettari frammen-tati in 9.000 particelle divise e molto distanti fra di loro. Per contrastarequesta pericolosa situazione l’allora governo di unità nazionale emanò, nelbiennio 1944-1945, una serie di interventi legislativi noti come decretiGullo, dal nome del ministro comunista dell’Agricoltura che se ne fece ilprincipale interprete.

Gli interventi governativi riguardavano un ampio spettro di problemati-che: si andava dal decreto luogotenenziale (d’ora in poi denominato d.L.) n.279 del 19/10/1944 che disciplinava a cooperative la concessione di terreincolte o mal coltivate, al d.L. n. 311/44 sui contratti di colonia parziaria,mezzadria impropria e partecipazione.

Il d.L. n. 274 del 25/10/1944, interveniva sui demani comunali ed ild.L. n. 156 del 5/04/1945 dichiarava illegale il sub-affitto dei fondi rustici.

Come si può osservare erano dei provvedimenti tampone che non mira-vano di certo alla distruzione della proprietà privata o peggio ad una sorta di

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Analisi di un intervento di riforma fondiaria

“collettivizzazione sovietica” del mondo delle campagne, come paventavanogli agrari.

Tale intendimento lo si evince dalla lettura dell’art. 1 del d.L. 279/44:«Le associazioni di contadini, regolarmente costituite in cooperative od in

altri enti, possono ottenere la concessione di terreni di proprietà privata o dienti pubblici che risultino non coltivati o insufficientemente coltivati in rela-zione alle loro qualità, alle condizioni agricole del luogo e alle esigenze colturalidelle aziende in relazione con le necessità della produzione agricola nazionale».

Nonostante ciò l’intervento dello Stato non fu molto gradito ai latifondi-sti, che adoperarono ogni mezzo per vanificarlo: contenziosi giudiziari, osta-coli procedurali vari, dazione dei terreni più marginali, etc. Ma altri ostacolisi frapposero alla buona riuscita degli interventi governativi, in primis lascarsa competenza tecnica, amministrativa e ancor le più scarse risorsefinanziarie delle costituende cooperative, che facevano prevedere per le stes-se un futuro non certo roseo.

Un secondo motivo, ma certo non di minore importanza, fu rappresen-tato dalla esiguità di durata della concessione in genere triennale: un oriz-zonte temporale quindi insufficiente per operare quelle trasformazioni fon-diarie che avrebbero reso economicamente più redditizi i terreni assegnati.

Un ulteriore ordine di problemi riguardò la composizione dei membridelle cooperative, che intrisi di una mentalità contadina individualista, malsopportavano una gestione collettiva delle terre (infatti non fu mai attuata)precludendosi così una possibilità di abbattere i forti costi iniziali di avvia-mento dell’attività produttiva.

Per Manlio Rossi Doria la proliferazione improvvisata di enti cooperativiaveva accentuato la frantumazione del “Latifondo contadino”, che riprodu-ceva una agricoltura assurda senza rotazioni, senza sistemazione dei terreni elavorazioni approfondite, l’impossibilità della azienda, la monocolturaestensiva, la disoccupazione stagionale acuta e socialmente la lotta di tutticontro tutti, cioè l’individualismo più stupidamente esasperato.

Infine difficoltà di ordine tecnico-organizzativo imputabili al fatiscentesettore statale, scatenarono in molte aree una vera e propria guerra frapoveri giacché gli appezzamenti dati in gestione alle cooperative moltospesso erano occupati da piccoli affittuari. Non deve sorprendere, pertan-to, l’insuccesso di tale strumento legislativo; a tutto il 1947 su un totale di1.023.000 ettari richiesti dalle domande di assegnazione, ne vennero effet-tivamente concessi 190.000, lo stesso trend si evidenziò 5 anni dopo,

- 36 -

Bartolomeo Filadelfia

quando riguardò 226.000 ettari assegnati in ragione di 2.160.000 richiesti(Barone, 1995)

Una così grande sproporzione tra bisogni insoddisfatti e aspettative disat-tese non poteva non produrre una nuova stagione di conflitti -aggravati dauna brutta recessione- che interessarono il periodo 1947-1949. Il solo 1947fece registrare la morte di 80 braccianti e 10.000 anni di carcere complessivicomminati alla gente delle campagne che lottava per il diritto al lavoro(Fabiani, 1986), a tal uopo si vedano i luttuosi avvenimenti di Portella delleGinestre, Montescaglioso, Melissa, e tanti, tanti altri.

Anche in questo caso il governo democristiano-liberale (privo della compo-nente comunista) dell’On. De Gasperi rispose con un provvedimento calmie-re che non intaccò la grande proprietà agraria, sebbene a questi ultimi andò ditraverso: la legge n. 929/47, per la massima occupazione in agricoltura.

La legge impegnava, o doveva impegnare, i grossi proprietari fondiari areinvestire parte della rendita fondiaria al fine di aumentare la loro doman-da di lavoro e riassorbire parte dell’enorme disoccupazione agricola. Anchein questo caso i risultati ottenuti non furono dei più brillanti, d’altronde igravi problemi strutturali di cui soffriva l’agricoltura italiana non potevanocerto essere sciolti senza affrontare il nodo centrale, ovvero una più equaripartizione della proprietà fondiaria.

Alla vigilia delle leggi di riforma la situazione nel Mezzogiorno nonpoteva che essere delle peggiori: necessitava di un vero e proprio colpo di”ariete”, ed un primo anticipo lo si ebbe con la legge sulla “Piccola ProprietàContadina” (decreto legislativo n. 114, del 24 Febbraio 1948) e con ilseguente provvedimento del 5 Marzo 1948, n. 121, che istituiva la “Cassaper la piccola proprietà contadina”. Con tali provvedimenti si concesseromutui trentennali al modico tasso del 3,5% grazie ai quali chiunque (nel-l’ambito dei lavoratori rurali) sarebbe potuto diventare proprietario del suo“pezzo di terra”. Il Governo intendeva in questo modo trovare una soluzioneai problemi strutturali che riguardavano l’allocazione della terra incentivan-do la nascita della piccola proprietà fondiaria.

Da un punto di vista numerico, la legge fu un successo: “dal 1948 ad1959 passarono di mano 573.082 lotti per complessivi 993.341 ettari”(Barone, 1995), il Mezzogiorno risultò interessato dal 41% degli acquisti.Purtroppo l’ampiezza media dei lotti fu di 1,73 ettari, insufficienti perrispondere alle esigenze di una popolazione affamata. I problemi strutturalipertanto restavano intatti.

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Analisi di un intervento di riforma fondiaria

Agli inizi di Novembre del 1949 l’allora sottosegretario all’AgricolturaOn. Emilio Colombo di ritorno da un viaggio a Melissa, in Calabria, doveaveva brillantemente composto un grosso problema di occupazione delleterre, si sentì chiedere dal Presidente del Consiglio On. A. De Gasperi unparere sulla situazione, il giovane sottosegretario rispose:

«...bisogna subito porre mano alla riforma agraria; non ci sono altre pos-sibilità».

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Bartolomeo Filadelfia