EVOLUZIONE DEL RUOLO DEL MEDICO DI FAMIGLIA NEL … · Trimestrale di medicina preventiva...

16
1 ISSN 1722-0831 Luglio 2004 Vol.3 - fasc. 2 Trimestrale di medicina preventiva Dipartimento di Prevenzione ASL RmB Dipartimento di Prevenzione Asl RmB V.le B. Bardanzellu, 8 00155 Roma Tel 06.41434906 Fax 06.41434957 e-mail: [email protected] IN QUESTO NUMERO EVOLUZIONE DEL RUOLO DEL MEDICO DI FAMIGLIA NEL SISTEMA SANITARIO INGLESE: UN MODELLO DA STUDIARE Maria Antonia Modolo Dipartimento di Igiene - Università degli Studi di Perugia La salute, il cittadino, il territorio Percorso evolutivo dei General Practitio- ners A Londra nel 1956, nel programma del corso di specializzazione in educazione sanitaria, ogni lunedì espletavo il mio tirocinio nel Centro di Salute di Hammersmith, nel quale ope- rava un gruppo di sei medici. Il gruppo si era for- mato intorno a un anziano pediatra, molto impe- gnato nel sostenere il sistema del “group practice”. A quel tempo, quasi dieci anni dall’istituzione del NHS (National Health Service), la pratica di grup- po tra i medici generalisti, “general practitioner” o GP, non era molto diffusa. In quel Centro, oltre ai medici, che avevano un contratto simile al nostro a quota capitaria, incontravo il “district nurse” e le “health visitors”, due figure professionali che com- pletavano la rete di base, e operavano in stretto rapporto con i GPs. Il “district nurse”, o infermiere di distretto, prestava le cure infermieristiche a do- micilio e in ambulatorio, in accordo con il medico di famiglia e, quando del caso con l’ospedale. La “health visitor”, corrispondente alla nostra assi- stente sanitaria, aveva la responsabilità di seguire le famiglie per tutto quanto riguardava la promo- zione della salute e l’educazione sanitaria, soprat- tutto rispetto alle madri, ai bambini, agli adole- scenti, agli anziani, un appoggio attivo per tutta la famiglia, di grande impatto, e un punto di osser- vazione attivo, che completava quello del medico. Nel Centro, inoltre, una volta la settimana aveva luogo la sessione del servizio del “family plan- ning” (da noi la pianificazione familiare è stata fuori legge fino al 1975!), e una sessione di prepa- razione al parto. Le assistenti sanitarie si occupa- vano anche della scuola, dei controlli di salute e della educazione sanitaria. Nel mio programma di formazione erano inserite anche visite a istituzioni universitarie. A Glasgow mi imbattei in una espe- rienza che non avrei più dimenticato e che avrei tentato di rendere in qualche modo attiva, quan- do, molto più tardi fui responsabile della cattedra di Igiene. Il prof. Scott affidava, con la collabora- zione di GPs, una famiglia a ogni studente di me- dicina, il quale fin dal primo anno, ne seguiva le vicende legate alla salute, nascite, prevenzione, stili di vita, lavoro, malattie, morte. Mi sembrò una cosa fantastica, per un giovane medico quale ero, appena laureata, con poche e superficiali espe- rienze cliniche in ospedale e non ancora consolida- ta in qualche settore della professione. Ma dovevo aspettare quasi cinquant’anni per vedere inserito il tirocinio degli studenti dell’ultimo biennio pres- so i medici di famiglia. Nella prima metà degli anni ‘70 in una serie di visite di studio nelle nuove facoltà mediche come adviser dell’OMS, incontrai il professore Backett che aveva da poco fondato la nuova facoltà di Nottingham. Il programma del curricolo era molto interessante, ma ciò che più mi colpì fu il fatto che alla facoltà erano associate al- cune “group practices” per la formazione pratica degli studenti, con convenzione a tempo ricevendo un compenso, anche se limitato, dall’università. Il professor Backett sosteneva che, a suo giudizio, questo era il modo migliore non solo per contri- buire alla formazione degli studenti e per moti- varli, ma anche per la formazione continua dei GPs coinvolti. Imparare insegnando. Alla fine de- gli anni ‘70 in un breve soggiorno a Billingham ho avuto la possibilità di visitare due “group practi- ces”, formate ciascuna da cinque medici, che ave- vano costruito i propri ambulatori a seguito delle disposizioni di revisione del NHS del 1974. Si trat- EVOLUZIONE DEL RUOLO DEL MEDICO DI FAMIGLIA NEL SISTEMA SANITARIO INGLESE: UN MODELLO DA STUDIARE WEST NILE DISEASE: UNA ZOONOSI EMERGENTE, O RI- EMERGENTE? FUMO E PATOLOGIE RESPIRATORIE. LE CARTE DEL RISCHIO PER BRONCOPNEUMOPATIA CRONICA OSTRUTTIVA E TUMORE AL POLMONE LEGIONELLOSI: MALATTIA EMERGENTE, MALATTIA PREVENIBILE LA PERDITA DI PESO NEL PAZIENTE ONCOLOGICO Nuove acqusizioni terapeutiche LA PREVENZIONE DELLE LESIONI TRAUMATICHE DENTO- ALVEOLARI IN ODONTOIATRIA INFANTILE FLASH DALLA LETTERATURA INTERNAZIONALE

Transcript of EVOLUZIONE DEL RUOLO DEL MEDICO DI FAMIGLIA NEL … · Trimestrale di medicina preventiva...

1

ISSN 1722-0831 Luglio 2004 ● Vol.3 - fasc. 2

Trimestrale di medicina preventiva ● Dipartimento di Prevenzione ASL RmBDipartimento di Prevenzione Asl RmB ● V.le B. Bardanzellu, 8 ● 00155 Roma ● Tel 06.41434906 ● Fax 06.41434957 ● e-mail: [email protected]

IN QUESTO NUMERO ► EVOLUZIONE DEL RUOLO DEL MEDICO DI FAMIGLIA NEL SISTEMA SANITARIO INGLESE: UN MODELLO DA STUDIARE

Maria Antonia Modolo Dipartimento di Igiene - Università degli Studi di Perugia

La salute, il cittadino, il territorioPercorso evolutivo dei General Practitio-ners

A Londra nel 1956, nel programma del corso di specializzazione in educazione sanitaria, ogni lunedì espletavo il mio tirocinio nel

Centro di Salute di Hammersmith, nel quale ope-rava un gruppo di sei medici. Il gruppo si era for-mato intorno a un anziano pediatra, molto impe-gnato nel sostenere il sistema del “group practice”. A quel tempo, quasi dieci anni dall’istituzione del NHS (National Health Service), la pratica di grup-po tra i medici generalisti, “general practitioner” o GP, non era molto diffusa. In quel Centro, oltre ai medici, che avevano un contratto simile al nostro a quota capitaria, incontravo il “district nurse” e le “health visitors”, due figure professionali che com-pletavano la rete di base, e operavano in stretto rapporto con i GPs. Il “district nurse”, o infermiere di distretto, prestava le cure infermieristiche a do-micilio e in ambulatorio, in accordo con il medico di famiglia e, quando del caso con l’ospedale. La “health visitor”, corrispondente alla nostra assi-stente sanitaria, aveva la responsabilità di seguire le famiglie per tutto quanto riguardava la promo-zione della salute e l’educazione sanitaria, soprat-tutto rispetto alle madri, ai bambini, agli adole-scenti, agli anziani, un appoggio attivo per tutta la famiglia, di grande impatto, e un punto di osser-vazione attivo, che completava quello del medico. Nel Centro, inoltre, una volta la settimana aveva luogo la sessione del servizio del “family plan-ning” (da noi la pianificazione familiare è stata fuori legge fino al 1975!), e una sessione di prepa-razione al parto. Le assistenti sanitarie si occupa-vano anche della scuola, dei controlli di salute e

della educazione sanitaria. Nel mio programma di formazione erano inserite anche visite a istituzioni universitarie. A Glasgow mi imbattei in una espe-rienza che non avrei più dimenticato e che avrei tentato di rendere in qualche modo attiva, quan-do, molto più tardi fui responsabile della cattedra di Igiene. Il prof. Scott affidava, con la collabora-zione di GPs, una famiglia a ogni studente di me-dicina, il quale fin dal primo anno, ne seguiva le vicende legate alla salute, nascite, prevenzione, stili di vita, lavoro, malattie, morte. Mi sembrò una cosa fantastica, per un giovane medico quale ero, appena laureata, con poche e superficiali espe-rienze cliniche in ospedale e non ancora consolida-ta in qualche settore della professione. Ma dovevo aspettare quasi cinquant’anni per vedere inserito il tirocinio degli studenti dell’ultimo biennio pres-so i medici di famiglia. Nella prima metà degli anni ‘70 in una serie di visite di studio nelle nuove facoltà mediche come adviser dell’OMS, incontrai il professore Backett che aveva da poco fondato la nuova facoltà di Nottingham. Il programma del curricolo era molto interessante, ma ciò che più mi colpì fu il fatto che alla facoltà erano associate al-cune “group practices” per la formazione pratica degli studenti, con convenzione a tempo ricevendo un compenso, anche se limitato, dall’università. Il professor Backett sosteneva che, a suo giudizio, questo era il modo migliore non solo per contri-buire alla formazione degli studenti e per moti-varli, ma anche per la formazione continua dei GPs coinvolti. Imparare insegnando. Alla fine de-gli anni ‘70 in un breve soggiorno a Billingham ho avuto la possibilità di visitare due “group practi-ces”, formate ciascuna da cinque medici, che ave-vano costruito i propri ambulatori a seguito delle disposizioni di revisione del NHS del 1974. Si trat-

● EVOLUZIONE DEL RUOLO DEL MEDICO DI FAMIGLIA NEL SISTEMA SANITARIO INGLESE: UN MODELLO DA STUDIARE

● WEST NILE DISEASE: UNA ZOONOSI EMERGENTE, O RI-EMERGENTE?

● FUMO E PATOLOGIE RESPIRATORIE. LE CARTE DEL RISCHIO PER BRONCOPNEUMOPATIA CRONICA OSTRUTTIVA E TUMORE AL POLMONE

● LEGIONELLOSI: MALATTIA EMERGENTE, MALATTIA PREVENIBILE

● LA PERDITA DI PESO NEL PAZIENTE ONCOLOGICONuove acqusizioni terapeutiche

● LA PREVENZIONE DELLE LESIONI TRAUMATICHE DENTO-ALVEOLARI IN ODONTOIATRIA INFANTILE

● FLASH DALLA LETTERATURA INTERNAZIONALE

2

tava di una sistemazione logistica che rifletteva lo standard previsto dalle disposizioni che incentiva-vano anche finanziariamente l’ampliamento della rete della pratica di gruppo: all’ingresso gli spor-telli delle “receptionists” che prendevano gli ap-puntamenti e tenevano l’archivio, una sala per l’attesa nella quale si aprivano le porte degli studi dei medici, arredata con sedie per l’attesa, quattro per ogni studio, per i quattro appuntamenti di un’ora, gli studi dei medici per ricevere il paziente, con un angolo con il lettino per la visita, semplice e appartato. Questa doppia practice era dotata di spazi per servizi che venivano distaccati dal centro di salute o dall’ospedale vicino. Vi erano le stanze per il servizio infermieristico e quelle per il servi-zio delle assistenti sanitarie, uno spazio per la preparazione al parto, e per la consultazione die-tetica settimanale per i pazienti diabetici, e un piccolo laboratorio con un tecnico, distaccato dal-l’ospedale vicino. In queste practices, inoltre, due dei medici erano qualificati ginecologi e si occupa-vano della prevenzione dei tumori del collo del-l’utero per tutte le donne registrate nelle liste dei medici afferenti. Uno dei gruppi era associato al-l’Università per accogliere gli studenti in tirocinio. Ciascun gruppo assicurava la guardia medica con turni per i giorni festivi e il sabato, come era ed è per i GPs in Inghilterra, una guardia medica inter-na che ha a disposizione le cartelle dei pazienti, assicurando la continuità dell’assistenza. Nel 1996-97, durante l’anno sabbatico speso a Londra nel Department of Primary Care and Population Sciences, University College and Royal Free Hospi-tal School of Medicine, che contava ben novanta operatori di vario livello e funzione, ho potuto ag-giornare la mia conoscenza delle modalità con cui si esercitava alla fine del secolo scorso la medicina di base nel NHS. Due sono stati gli elementi che più hanno attratto il mio interesse. Il Dipartimento gestiva una sezione che si occupava, e si occupa, dell’osservatorio epidemiologico delle cardiopatie, è gestita da un piccolo gruppo con la collaborazio-ne di un campione nazionale di GPs che forniscono i dati dei pazienti da essi assistiti. L’impegno dei GPs consente di avere, con precisione e in tempo reale, il polso della situazione non solo della inci-denza e dell’efficacia delle cure, ma anche nei dettagli il quadro delle situazioni e dei fattori fa-vorenti; un modo semplice ed efficace di sorve-glianza. Inoltre, come in altre università, al Dipar-timento erano associati alcuni GPs, uno di essi in quel momento ne era il direttore. Le loro “practi-

ces” erano associate al corso di laurea. Quella del direttore era vicina al Dipartimento, la sua orga-nizzazione non si discostava dalle altre. Il Diparti-mento era anche molto impegnato nel lavoro, che in quel momento stava coinvolgendo tutte le uni-versità del regno, nella riforma del curricolo di medicina. Mi sembrò che un aspetto del program-ma avrebbe potuto essere inserito nei percorsi “opzionali” del nostro corso di laurea, vale a dire la organizzazione di una “spina”, un modulo ver-ticale dal primo all’ultimo anno per organizzare nella teoria e nella pratica il lavoro degli studenti nelle “practices”. Ci ispirammo a quel programma per attuare, dal 1998, nel nostro corso per iniziati-va della cattedra di igiene, un esperimento che fu, in seguito, e lo è ancora, sostenuto da un progetto di ricerca del Ministero dell’Istruzione, e che vor-remmo fosse regolarmente strutturato nel currico-lo. In quel periodo visitai anche altre strutture an-che fuori di Londra e trovai una grande attività di valorizzazione del sistema della pratica di gruppo, ormai larghissimamente applicata in tutto il NHS. Alcuni gruppi erano fundholders. Alcuni si collega-vano fra loro per gestire strutture. Ad esempio nel Dorset mi sembrò interessante l’esperienza di ven-tiquattro medici organizzati in quattro gruppi, che si erano collegati non solo per gestire la guardia medica, ma anche una serie di servizi, decentrati dall’ospedale del territorio, in una struttura, vec-chia infermeria, per affiancare l’attività dei GPs: una serie di ambulatori specialistici, che consenti-vano anche piccoli interventi chirurgici, e una ma-ternità dall’aspetto molto “di famiglia”, per parti non a rischio, gestita da 23 ostetriche con il sup-porto dei medici personali, e, quando necessario, del reparto ostetrico dello stesso ospedale (assiste-va circa 500 parti l’anno). Come al solito era assi-curato il collegamento con la rete district nurses e health visitors. Altra risorsa interessante è il siste-ma degli ospedali di comunità, che in quegli anni erano vicini allo smantellamento, soprattutto nelle città, ma che, proprio alla fine degli anni novanta, cominciarono a essere rivalutati. Essi, assieme ai centri di salute, completano il quadro di una assi-stenza di base flessibile e rispondente ai bisogni locali. Il servizio vicino al cittadino è stato il princi-pio guida anche delle disposizioni di fine secolo, ribadito negli anni fin dalla fondazione del NHS.

ConsiderazioniHo descritto questi casi per rendere più agevole la comprensione l’esperienza della medicina di base

nel quadro del NHS. Naturalmente per commen-tare è necessario innanzitutto calarsi nella cultura anglosassone, a mio avviso, ben più pragmatica della nostra, dove è possibile sperimentare modi diversi, sia pure inseriti nel quadro di riferimento generale. Un più leggero peso burocratico, una maggiore fiducia nella etica professionale e nel-la formazione professionale, ma anche un altro concetto di “servitore pubblico” (civil servant), il che significa che sentirsi integrati in un servi-zio pubblico è considerato positivamente, anche perché si può proporre, sperimentare, non essere vittima della trafila gerarchica.. Nei primi anni del duemila avanzano alcuni problemi nella me-dicina di base, soprattutto legati al fatto che nella professione vi è una maggioranza femminile, con esigenze personali diverse, soprattutto legate alla questione “famiglia”, si apre per alcuni la domanda di un contratto non più libero profes-sionale, ma dipendente, a orario fisso e stipendio, come è anche in altri sistemi, vedi quello spagno-lo, ma già se ne discuteva negli anni novanta. Si chiede una linea di guardia medica autonoma, con problemi rispetto alla continuità del rappor-to, come è da noi. Sono per ora in discussione di contrattazione nel Trust di Salford, uno dei mag-giori dell’Inghilterra. Il valore dell’assistenza di base, così come definita già nel consesso di Alma Ata nel 1978, si riconferma oggi in tutta la sua ampiezza, non solo in un sistema come quello inglese che lungo il suo mezzo secolo di storia ha sempre perseguito l’obiettivo di potenziarlo e va-lorizzarlo. La forza della medicina moderna, in-fatti, non è solo nelle potenzialità diagnostiche e terapeutiche, i suoi successi più clamorosi, anche se apparentemente meno spettacolari, si giocano in altri scacchieri. Prima di tutto sulla conoscenza della prevalenza e la incidenza delle malattie, o del malessere nella popolazione, e, poi, sulla co-noscenza dei fattori e delle condizioni di rischio, e dei determinanti positivi per la salute. Ricerche condotte ad hoc ci hanno guidato in molte scel-te, ma l’eccellenza nella conoscenza è nel potere seguire in tempo reale che cosa accade nella po-polazione, per comprendere dove siamo e dove andiamo, per valutare l’impatto sulla salute di quanto abbiamo fatto e stiamo facendo. Questa è la chiave di volta di una medicina veramente innovativa nel ventunesimo secolo al servizio della popolazione, vicino al cittadino, una chia-ve che, in sistemi come il nostro con la rete dei medici di famiglia, è nelle mani di quest’ultimi.

3

Luglio 2004

Il secolo ventunesimo può essere il secolo della promozione della salute, come il ventesimo è sta-to quello della diagnostica e della terapia e della prevenzione delle infezioni. La salute come equi-librio tra corpo e anima, tra ambiente e società, tra individuo e gruppo, tra i popoli verso la pace, dacché la guerra è tra tutti il rischio di gran lun-ga più devastante per le popolazioni, oggi più di ieri. La promozione della salute ha due esigenze per crescere, deve svilupparsi là dove le persone vivono e operano, e con l’impegno di tutti, la par-tecipazione, deve crescere in modo speciale con le nuove generazioni, è promozione del patrimonio umano. Nei sistemi come il nostro, con la rete dei medici di famiglia, questo salto di qualità è possibile, anche se ancora non sfruttato a pieno. Il nostro Paese, a lungo ha sottovalutato questa rete, anche se la prima legge sanitaria, quella del

1888, poggiava già sulla rete dei medici condot-ti. Il sistema mutualistico, prima e, soprattutto, il SSN, poi, non hanno avuto la lungimiranza di fare altrettanto. Oggi qualcosa sta avvenendo e auspichiamo che avvenga non per caso, ma a ragion veduta. Le Unità territoriali di assistenza primaria (UTAP) sono un concreto spiraglio. E’ necessario, tuttavia, che non vengano considerate solo nei termini di alleggerire i costi dell’ospe-dalizzazione. Sarebbe un’occasione perduta. E’ un rischio molto concreto, per la lentezza dello sviluppo della cultura della promozione della salute. Dobbiamo chiederci accanto ai medici di famiglia (che dovrebbero essere così denomina-ti!), ci saranno gli altri servizi che abbiamo vi-sto nello sviluppo del NHS? Ci sarà la rete degli “assistenti sanitari”, cartina di tornasole dell’in-teresse nella “promozione” oltre che nella cura?

Questa figura professionale, salvata in corner nella seconda metà degli anni novanta stenta a essere riconosciuta dalle amministrazioni, vissuta come una spesa in più, e questo ci dice che vi è molto da fare, per sviluppare un servizio di svol-ta, come sostenuto dall’ultimo rapporto del NHS confederale (Inghilterra, Scozia, Galles, Irlanda) dell’inizio del nuovo secolo (2003 Darek Wanless report) nel quale si sostiene che “il NHS ha biso-gno di riorientare il proprio ruolo dalla cura per i malati, che resta ovviamente, alla prevenzione e promozione “per conferire maggiore peso alla sanità pubblica,” il lavoro maggiore del servizio sanitario per raggiungere gli obiettivi locali cadrà sulle PCTs (squadra di assistenza di primaria)”.

(la bibliografia completa può essere richiesta alla redazione- e-mail: [email protected])

WEST NILE DISEASE: UNA ZOONOSI EMERGENTE, O RI-EMERGENTE?Flavia FarinaIstituto Zooprofi lattico Sperimentale delle Regioni Lazio e Toscana

Ametà dell’Agosto 1999 nel Bronx – allo zoo di New York – si verifica un’improvvisa moria di corvi selvatici. Nello stesso mese si registrano

diversi casi di encefalite nella popolazione umana, che vengono attribuiti inizialmente al virus dell’Ence-falite di St. Louis. Alla fine del mese la moria di corvidi si è estesa a Long Island, prima dell’inverno al New Jersey e al Connecticut, entro un raggio di 200 km at-torno a New York. Si verificano intanto le prime morti di encefalite tra i cavalli, e il bilancio di fine anno si chiude con 62 ammalati e sette decessi nella popo-lazione umana, la morte di 5000 uccelli di 17 specie, 24 cavalli con sintomi clinici, dieci dei quali non supe-rano la malattia. L’identificazione del West Nile virus (WNV), come unico agente eziologico di tutte queste patologie si rende possibile in seguito all’isolamento del virus dagli uccelli, e alla conseguente esecuzione di indagini sierologiche specifiche su uomo, uccelli e cavalli. Si tratta della prima comparsa nel Nuovo Mondo del West Nile virus, già conosciuto in Africa, Asia, Europa e Oceania. Anche nel vecchio continen-te, seppure con minore risonanza mediatica rispetto all’epidemia nordamericana, il virus ha avuto negli ultimi anni un’attività molto intensa. Numerosi gli episodi gravi con coinvolgimento dell’uomo: casi di encefalite in Algeria nel 1994 e in Repubblica Ceca nel

1997; epidemie in Russia nel 1999, con 592 ammalati e 33 morti; 500 casi clinici in Romania tra il 1996 e il 2000, con alti tassi di disturbi neurologici e tasso di mortalità fino al 10%; epidemia in Israele nel 2000; 78 casi con 8 decessi in Tunisia nel 1997, e 20 casi probabili di cui 7 mortali nel 2003; almeno un caso umano di meningoencefalite da WNV, infine, in Fran-cia meridionale, nell’Agosto 2003. Accanto a questi episodi zoonotici ci sono state evidenze di circolazione virale in tutta Europa e nell’area circummediterranea. Epizoozie dovute a WNV e riguardanti i cavalli sono state evidenziate in Marocco (1996), Italia (1998) e Francia (2000-2003). È stata riscontrata circolazione virale anche nell’avifauna inglese, mentre in Spagna e Portogallo le ultime evidenze risalgono all’inizio degli anni ’70. Se per il Nord America si parla quindi della West Nile come di una malattia emergente, nel vecchio continente qualcuno ha proposto di definirla ri-emergente. Il moltiplicarsi diffuso di eventi anche importanti che testimoniavano la circolazione virale ha fatto sì che in Italia, così come in molti paesi d’Eu-ropa, fossero varati piani di approfondimento e studio su tutta l’area nazionale. Dalla fine del 2002 l’Istituto Zooprofilattico del Lazio e della Toscana è coinvolto nel Piano di Sorveglianza Nazionale per la West Nile Disease (WND) e accompagna, alle indagini sierolo-

giche su cavalli e polli sentinella per rilevare l’even-tuale circolazione del virus, un accurato programma di sorveglianza entomologica orientato allo studio della distribuzione e dell’andamento della densità dei potenziali vettori.

Il Virus e il cicloIl West Nile virus, isolato in Uganda per la prima volta nel 1937, è un Flavivirus trasmesso da ditteri nematoceri della famiglia culicidae (zanzare) che appartiene al complesso antigenico delle encefaliti giapponesi. È neuropatogeno per uomini, equini e uccelli. In natura si mantiene attraverso un ci-clo di trasmissione zanzara-uccello-zanzara che coinvolge principalmente ditteri culicidi del genere Culex. In Europa la circolazione sembra avvenire seguendo essenzialmente due tipi di ciclo: uno, il principale, rurale (selvatico) legato soprattutto ad uccelli acquatici e zanzare ornitofile; l’altro, urbano, a cura di uccelli sinantropici o domestici e zanzare che si nutrono sia su uccelli che su mam-miferi. Pur essendo un ciclo secondario, fu questo quello predominante nell’epidemia di Bucarest del ‘96/‘97. Ospiti serbatoio sono quindi gli uccelli selvatici e domestici, e si presume che il flusso dei migratori dalle zone di endemia del virus nell’Afri-ca (come ad esempio dal Senegal) abbia un ruolo importante nel mantenimento della presenza del virus nel nostro continente; in questo modo infatti si renderebbe ogni anno possibile l’instaurarsi di un nuovo ciclo di trasmissione virale “uccello mi-

4

gratore-zanzara-uccello stanziale”, seguito, dopo la migrazione e fino all’autunno, dal ciclo “uccello stanziale-zanzara-uccello stanziale”. La circola-zione di un genotipo virale unico, in Italia nel ’98, in Marocco nel ’99 e in Francia nel 2000, avvalora l’ipotesi del ruolo importante rappresentato dalla migrazione degli uccelli attraverso il Mediterra-neo. Sempre lungo le rotte migratorie il virus si sarebbe spostato recentemente dagli Stati Uniti al Messico (prima segnalazione il 16 maggio 2003) e all’area Caraibica (primo caso umano nell’agosto 2003). Come già detto, la zanzara si infetta nutren-dosi del sangue di un uccello che trasporta il virus. L’amplificazione virale nel vettore si verifica tra un pasto di sangue e l’altro; in un tempo variabile tra i due giorni e le due settimane il virus raggiunge le ghiandole salivari dell’insetto, cosicché, durante il successivo pasto di sangue, il virus può essere trasmesso all’animale su cui la zanzara si nutre. Qualora le condizioni meteorologiche o ambienta-li consentano la sopravvivenza, la riproduzione e l’attività dell’insetto vettore anche durante l’inver-no, il ciclo può proseguire senza interruzioni nel corso dell’anno. Localmente, in alcuni habitat caldi e aridi non adatti alla vita della zanzara, il ciclo sembra poter essere sostenuto da alcune specie di zecche. Uomini e cavalli, i mammiferi più coinvolti dall’infezione naturale da WNV, sono considerati ospiti a fondo cieco, in quanto il livello di viremia rimane di solito troppo basso per dare continuità al ciclo infettivo.(Fig.1)

La West Nile e l’uomo: possibilità e modalità di infezione Il rischio di infezione per l’uomo è da conside-rarsi piuttosto basso, ma possibile, e chi contrae il virus non necessariamente sviluppa la malat-tia; nell’epidemia statunitense del 2002 si è cal-colato che circa l’80% delle infezioni sia rima-sto asintomatico, il 20% si sia manifestato con sintomi non gravi (eruzioni cutanee e febbre), meno dell’1% con sintomi gravi (meningiti e patologie del sistema nervoso). Di queste ultime solo una piccola percentuale si sarebbe conclu-sa con esito fatale per il paziente. Questi dati, riferendosi a condizioni epidemiologiche molto diverse da quelle Europee, sono da considerar-si indicativi e non direttamente riconducibili al nostro continente. Il tasso di mortalità, ad esem-pio, cresce al crescere dell’età del paziente ed è quindi variabile in relazione al substrato sociale e alla struttura d’età della popolazione colpita; la sintomatologia varia in funzione del livello immunitario della popolazione colpita: negli Stati Uniti il virus, appena introdotto, si è trova-to con ogni probabilità in una popolazione uma-na e animale non preparata dal punto di vista immunitario. In Europa invece, dove la malattia è ricorrente, non sono mai stati registrati tassi di mortalità nell’avifauna alti come nel conti-nente americano. I dati raccolti indicano che la maggior parte degli ammalati hanno contratto il virus dalla puntura di zanzare infette. È im-portante notare è che il virus della West Nile non può trasmettersi da persona a persona, né esiste alcuna evidenza che provi la trasmissione diret-ta dagli uccelli all’uomo o ad altri animali. Esi-stono però, anche se con probabilità nettamente inferiori, casi di infezioni uomo-uomo attraver-so trasfusione di sangue o trapianto di organi o tessuti; il virus può essere trasmesso da madre a figlio durante la gravidanza o, dopo il parto, attraverso l’allattamento. Infine si sono verifica-ti casi di infezione in laboratorio, nel personale non protetto che si è ferito manipolando animali infetti. Per questa ragione è opportuno, nel caso si debbano toccare cadaveri di uccelli per i quali esiste la possibilità di infezione, proteggersi in modo adeguato. Fino a tempi recenti l’infezio-ne da West Nile virus nell’uomo era considerata una malattia non grave, con mortalità inferiore a quella dell’influenza e sporadici casi acuti di meningite ed encefalite. Anche in Europa, tutta-via, gli ultimi casi (come le epidemie in Roma-

nia e Russia alla fine degli anni novanta) hanno registrato un tasso di disturbi neurologici e di mortalità più alto del solito; si è quindi acceso un campanello di allarme che ha portato ad in-tensificare la sorveglianza.

Prevenzione e previsioneNegli Stati Uniti e nelle aree ad alta circolazione virale la prevenzione della trasmissione del virus dalla zanzara all’uomo viene attuata attraverso misure di protezione personale (uso di repellenti, riduzione dell’esposizione all’aperto nelle ore di maggiore attività delle zanzare, copertura con abbigliamento adeguato, controllo del vetto-re attraverso il trattamento dei focolai larvali), sempre affiancate dalla ricerca e da un piano di sorveglianza ben strutturato. In Italia, dove il rischio di un’epidemia non appare elevato, il si-stema di sorveglianza nazionale tiene l’eventuale circolazione virale sotto costante monitoraggio. L’accurata conoscenza della fauna culicidica (zan-zare) di una zona a rischio di introduzione del virus, associata al controllo sierologico di animali sentinella, è un valido strumento di supporto per valutare i periodi di maggiore rischio infettivo, prevenire o quanto meno segnalare tempestiva-mente l’eventuale insorgenza della malattia, pre-vedere l’ipotetico andamento della sua diffusione sulla base della distribuzione e della dinamica di popolazione del vettore e rendere possibile la gestione del rischio. Sulla base di queste consi-derazione il Piano di Sorveglianza Nazionale ha concentrato la sorveglianza entomologica in zone interessate dall’attività umana, situate nei pressi di aree umide sulla rotta degli uccelli migratori Euro-Africani.

La situazione in Italia Il focolaio in Toscana e il risultato della ricerca en-tomologicaNella tarda estate del 1998 in Toscana si è verifi-cato un episodio di encefalomielite da West Nile virus in 14 cavalli. La malattia si è manifestata in aziende per la riproduzione di cavalli da corsa, situate sulle colline circostanti una delle più gran-di aree umide dell’entroterra italiano: il Padule del Fucecchio, area di importanza internazionale, sito di passaggio dell’avifauna migratrice Euro-Africana dove molte specie di uccelli nidificano e passano l’estate. Già in precedenza (1967) erano stati riscontrati anticorpi in campioni di siero uma-no provenienti dall’Italia centrale e settentrionale

Il virus amplifica sia nell’insetto vettore che nell’ospi-te serbatoio (reservoir), rappresentato dall’uccello. La freccia singola in direzione di uomo e cavallo indica che questi sono ospiti incidentali, a fondo cieco, che contrag-gono l’infezione ma non sono per lo più in grado di sostenere l’amplificazione virale.

Fig.1 Ciclo del West Nile virus

5

Luglio 2004

e in uccelli migratori dell’Italia del nord (1973), indicando la possibilità di precedenti episodi di circolazione del WNV o di un arbovirus ad esso strettamente correlato. Nel 1998 il WNV è stato isolato da alcuni dei cavalli infetti, e la ricerca entomologica ha permesso di formulare delle ipotesi sul ciclo di trasmissione, assumendo che il virus – analogamente agli episodi di circolazione virale di WNV nelle altre aree d’Europa – sia stato introdotto nell’area durante il transito degli uccelli migratori provenienti dall’Africa. Il ciclo del virus nell’area può essere supportato da diverse specie di zanzare, che giocherebbero ruoli differenti a seconda delle preferenze ambientali e della loro dinamica di popolazione. Culex impudicus, una specie che si nutre preferibilmente sugli uccelli e sugli anfibi, sembra essere responsabile del primo ciclo di trasmissione enzootica, tra gli uccelli che arrivano dalla migrazione e quelli stanziali. Que-sta specie è predominante nella palude, dove so-stano molte specie di migratori. Il picco di densità di C. impudicus all’inizio della primavera coincide con l’arrivo stagionale degli uccelli, avvalorando il ruolo di questa specie nell’amplificazione del virus e nel passaggio dai migratori agli uccelli indigeni. La specie Culex pipiens invece, abbondante nel Padule e predominante sulle colline circostanti, ha un picco di densità più tardivo, e potrebbe avere lo stesso ruolo che ha avuto nelle epidemie di Roma-nia, Repubblica Ceca e Nord America: C. pipiens infatti si nutre su un numero maggiore di specie animali, che include molte specie di uccelli, uomo e cavallo, è fortemente antropofila (ama nutrirsi sull’uomo) ed endofila (frequenta anche l’interno delle case). Oltre ad aver contribuito ad amplifica-re il virus nella tarda primavera e a inizio estate nella popolazione di uccelli, potrebbe essere stata il “vettore ponte” responsabile della trasmissione del WNV dagli uccelli ai cavalli (e forse agli uo-mini) nei mesi più caldi dell’estate, nei quali la densità dell’insetto risultava al suo picco massimo. Un’interpretazione avvalorata dal fatto che la ma-lattia, nelle maggiori epidemie, si è manifestata nella tarda estate.

Lo studio nel LazioL’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Lazio e della Toscana è responsabile per il secondo anno consecutivo del Piano di Sorveglianza per la WND (nelle due regioni di competenza), che consiste nel controllo sierologico di cavalli e di polli sen-tinella in alcune zone umide, e nel monitoraggio

entomologico di una zona costiera nei pressi di Sabaudia (Lt). Dopo il primo anno di studio, che ha portato alla localizzazione dei principali foco-lai larvali e al censimento delle specie di zanzare presenti, la sorveglianza entomologica si è con-centrata sull’approfondimento dell’andamento della densità del vettore. Vengono effettuate regolarmente catture di zanzare adulte e di lar-ve, sia all’interno degli allevamenti equini e dei pollai che in situazioni naturali o seminaturali (boschi allagati, fossi, abbeveratoi di campagna). I dati preliminari raccolti nel Lazio dopo quasi due anni di studio hanno raggiunto un soddisfa-cente quadro delle specie presenti. Tra le 16 spe-cie rilevate nell’area, C. pipiens risulta la specie maggiormente rappresentata nella popolazio-ne culicidica. Si tratta di una specie fortemente adattabile, la cui proliferazione è spesso legata all’urbanizzazione che crea nuovi focolai artifi-

ciali. In alcune regioni ha sviluppato popolazioni resistenti ad alcuni insetticidi rendendo difficoltosi gli interventi di controllo. C. pipiens è anche la specie prevalente nell’area del Fucecchio, nonché il principale vettore accertato delle epidemie eu-ropee ed americane, e vettore secondario di una recente epidemia del Sud Africa. Nell’area di studio la sierologia ha confermato circolazione virale sia storica che recente, eviden-ziando positività anticorpale per il WNV in tre cavalli della zona. Di questi, due sono risultati positivi al primo prelievo per la classe di anti-corpi IgG (potrebbe quindi trattarsi di un epi-sodio avvenuto in qualsiasi momento della vita dell’animale), mente il terzo, precedentemente negativo, ha sieroconvertito nel corso del 2003.

(la bibliografia completa può essere richiesta alla reda-

zione- e-mail: [email protected])

Le zanzare, ditteri ematofagi appartenenti alla famiglia Culicidae, sono forse il gruppo di insetti di maggiore interes-se sanitario. Hanno una distribuzione cosmopolita e legata all’acqua: il ciclo riproduttivo infatti comprende quattro stadi di sviluppo (uovo, larva, pupa e adulto), i primi tre dei quali sono acquatici. Sono vettori di molte patologie, tra le quali la malaria, la dengue, la febbre gialla, la filariosi e molte encefaliti virali trasmesse da artropodi. In Italia sono presenti più di 60 specie ma solo alcune di queste tendono a nutrirsi sull’uomo.Le uova vengono deposte in luoghi soggetti ad allagamento o in raccolte d’acqua di qualsiasi dimensione, permanen-ti o temporanee, naturali o artificiali. Le larve respirano per mezzo di un sifone o attraverso stigmi respiratori, e si nutrono filtrando particelle e microorganismi. Dopo quattro stadi larvali, la durata dei quali è fortemente influenzata dalla temperatura e dalle condizioni ambientali, si trasformano in pupa. Da questo stadio, che non si nutre e ha una durata variabile, sfarfalla l’insetto adulto.

Fig. 2. Stadi di sviluppo della zanzara.

L’adulto si nutre di liquidi zuccherini, ma la femmina della maggior parte delle specie ha bisogno di un pasto di sangue prima della deposizione delle uova.

Il miglior metodo di controllo del vettore consiste nell’eliminazione dei focolai larvali con interventi sul territorio e nelle case. Dovendo ricorrere all’uso di insetticidi è preferibile utilizzare, ove possibile, prodotti larvicidi biologici altamente selettivi e non inquinanti a base di Bacillus thuringensis: un batterio che produce una tossina letale solo per le larve di alcune specie di ditteri nematoceri.

Box 1 “Biologia del vettore”

6

La maggior parte delle persone che vengono punte da una zanzare infetta non sviluppano sintomi, o ne sviluppano di molto lievi. A un basso rischio di infezione da WNV si accompagna quindi un rischio ancora più basso che l’infezione sfoci in una malattia acuta. La gravità degli effetti aumenta con l’età, ma sono a rischio anche le persone con sistema immunitario indebolito (come chi si è sottoposto a cure chemioterapiche) o con gravi malattie croniche (cancro, diabete, alcolismo, cardiopatie). I sintomi di solito compaiono tra il secondo e il quindicesimo giorno dall’infezione, con un’intensità che può cambiare da persona a persona. I casi più lievi, caratterizzati da febbre, cefalea e dolori muscolari possono essere confusi con influenza. Alcune persone possono sviluppare lievi eruzioni cutanee e gonfiore delle ghiandole linfatiche. In persone con sistema immunitario debole le con-seguenze per la salute possono essere più gravi; in questi casi si possono sviluppare meningiti, encefaliti, e paralisi flaccida acuta, con conseguenze anche fatali. Casi estremi possono includere forti mal di testa, febbre alta, collo rigido, nausea, difficoltà nella deglutizione, vomito, sonnolenza, confusione, perdita di conoscenza, mancanza di coordinazione, debolezza muscolare e paralisi. Sono stati riportati anche sintomi che includono disordini del movimento, parkinsonismo, sindrome pseudo-poliomielitica (32% delle forme cliniche di infezione nello stato del Colorado, nell’estate 2003) e degenerazione dei muscoli. In caso di sospetto è consigliabile l’esame del sangue per la conferma della diagnosi, da richiedere in centri specializzati per le malattie tropicali. Trattandosi di una malattia emergente non sono ancora ben studiati gli effetti a lungo termine, ma si sono avuti casi di guarigione totale come anche pazienti che hanno riportato danni permanenti.Al momento non esistono vaccini per l’uomo. Le cure si limitano a curare i sintomi e prevenire le complicazioni. Ad oggi la lotta più efficace rimane la prevenzione, con il controllo delle popolazione del vettore e la protezione individuale dalla puntura.

Box 2 “Sintomi ed effetti sulla salute dell’uomo del virus della West Nile”

FUMO E PATOLOGIE RESPIRATORIE. LE CARTE DEL RISCHIO PER BRONCOPNEUMOPATIA CRONICA OSTRUTTIVA E TUMORE AL POLMONEIstituto Superiore di Sanità, Dipartimento del Farmaco1

• Consiglio Nazionale delle Ricerche, Istituto di Fisiologia Clinica, Pisa2 • Dipar-timento di Epidemiologia ASL RME3 • Dipartimento di Medicina Ambientale, Università di Padova4 • Istituto Tumori, Napoli5, Unità di Epidemiologia dei Tumori CPO, Piemonte, Università di Torino6

Premessa

I fumatori nel mondo sono circa un miliardo. Nelle società occidentali e industrializzate questo nu-mero è in declino, ma nelle fasce di popolazione

a basso reddito permane una tendenza all’aumen-to dell’abitudine al fumo specie nei paesi in via di sviluppo. Si prevede che, a meno di una inversione dell’attuale tendenza, entro il 2005 il numero dei fumatori possa giungere ad oltre 1,6 miliardi. In Italia fuma il 26,2% della popolazione adulta: il 30,0% degli uomini ed il 22,2% delle donne. Gli ex fumatori sono il 24,8% degli uomini e l’1,2% delle donne. I non fumatori sono il 45% dei maschi ed il 66,3% delle donne. Il 55,3% dei fumatori fuma più di 15 sigarette al dì (Doxa 2004). La dipendenza da fumo di tabacco è riconosciuta come una condizione patologica nella decima revisione della classifica-zione delle malattie dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e nel manuale diagnostico e statistico dell’Associazione Americana di Psichiatria. Le patologie correlate al fumo sono responsabili del 10% dei decessi nella popolazione adulta. In Italia, come in tutto il mondo occidentale, il fumo attivo è la principale causa evitabile di morbosità e mortalità. Le patologie maggiormente chiamate in causa sono la broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO), il tumore al polmone e le malattie cardiovascolari.

La consapevolezza dei danni alla salute legati al tabagismo, oltre che del loro costo sociale ed econo-mico, ha alimentato un acceso dibattito sulle misure da intraprendere per contenere i danni e distribuire equamente i costi. Recentemente, l’Istituto Supe-riore di Sanità (ISS) ha presentato la prima carta del rischio italiano per eventi coronarici secondo le abitudini al fumo tenendo conto degli altri fattori di rischio come il colesterolo e la pressione arteriosa sistolica. Non esisteva invece una carta del rischio re-spiratorio che permettesse di valutare la probabilità di un soggetto o di una parte della popolazione di ammalarsi di BPCO o tumore al polmone. Per tale motivo l’ISS ha promosso e coordinato una ricerca con lo scopo di elaborare delle carte del rischio ita-liane per la BPCO ed il tumore al polmone. Il rischio di contrarre queste malattie è stato valutato in fun-zione dell’età, dell’abitudine al fumo di tabacco e di altre variabili legate a condizioni ambientali: espo-sizione lavorativa a polveri, sostanze chimiche, gas e vicinanza dell’abitazione a fonti di inquinamento atmosferico. La ricerca è stata eseguita dall’Unità di Epidemiologia Ambientale Polmonare dell’Istituto di Fisiologia Clinica del CNR di Pisa e dal Diparti-mento di Epidemiologia della ASL RME di Roma.I dati, riportati in tabelle colorimetriche, sono frut-to di indagini epidemiologiche condotte dai due Istituti e dalla collaborazione del Dipartimento di

Epidemiologia della ASL RME con il Dipartimento di Medicina Ambientale dell’Università di Padova, l’Istituto dei Tumori di Napoli e l’Unità di Epide-miologia dei Tumori dell’Università di Torino. Complessivamente è stato valutato un campione significativo di soggetti appartenenti ad aree di-verse. Per la carta del rischio di Broncopneumo-patia Cronica Ostruttiva sono stati analizzati 5.493 soggetti e 3.570 soggetti per quanto riguarda il rischio del tumore polmonare. La carta del rischio respiratorio si propone come uno strumento di educazione sanitaria ed ha lo scopo di fornire al medico e al cittadino una stima quantitativa sia del rischio di sviluppare determinate patologie respiratorie in presenza di date condizioni, sia dei benefici derivanti da variazioni di una o più componenti delle stesse. Ovviamente studi futuri, di dimensioni più elevate, potranno fornire una conferma delle stime presentate e permetteranno una valutazione delle modifiche nelle abitudini di vita eventualmente subentrate.

Carta del rischio di Broncopneumopatia Cronica Ostruttiva (BPCO)

Carta del rischio assolutoServe a calcolare, prendendo in considerazione l’abitudine al fumo, la probabilità del soggetto

Carta del rischio relativoServe a calcolare il numero di volte in più che il soggetto fumatore o ex-fumatore rischia di am-malarsi di Broncopneumopatia Cronica Ostruttiva (BPCO) rispetto al non fumatore della stessa classe di età non esposto. Il rischio di ammalarsi del sog-getto è riferito ai 10 anni successivi alla sua età. I fattori di rischio considerati, ai quali il soggetto è

o non è esposto, sono: esposizione lavorativa a so-stanze nocive quali polveri, fumi, sostanze chimi-che ed esposizione a inquinamento ambientale.

Come consultare la carta del rischio di BPCO La carta di rischio è costituita da una serie di ta-belle colorimetriche suddivise per classi d’età e per le seguenti categorie: non fumatori, ex-fumatori, fumatori. Una volta scelta la classe di età si iden-tifica la casella colorata incrociando i dati relativi a: categoria di abitudine al fumo di tabacco alla quale appartiene il soggetto: non-fumatore, ex-fumatore, fumatore; presenza o assenza degli altri fattori di rischio: esposizione lavorativa a polveri, fumi, sostanze chimiche ed esposizione a inquinamento ambientale. Il rischio si quantifica confrontando il colore della casella corrisponden-te alle caratteristiche del soggetto con la legenda presente in ogni pagina.

Rischio assolutoIl rischio assoluto è la probabilità di contrarre una malattia in un arco di tempo determinato e succes-sivo all’età che ha il soggetto (o la popolazione in studio) al momento della consultazione. In queste carte di rischio l’arco di tempo considerato è di 10 anni. Il rischio viene calcolato in base allo stile di vita del soggetto e rapportato ai fattori di rischio ai quali è o non è esposto. Il rischio assoluto è espresso in percentuale. Ad esempio, un maschio fumatore di 45 anni con esposizione ambientale e lavorativa nei prossimi 10 anni avrà una probabi-lità del 20-39% di ammalarsi di BPCO. A livello di popolazione ciò significa che in quella fascia di po-polazione considerata, fra 10 anni, probabilmente vi saranno 20-39 casi di BPCO su 100 individui.

Rischio relativoIl rischio relativo è il rapporto tra il rischio asso-luto di un soggetto esposto ad uno o più fattori di rischio e quello di un soggetto dello stesso sesso e della stessa età senza alcuna esposizione. Il rischio relativo è espresso in numero di volte. Ad esempio, un rischio maggiore di 5 volte per la BPCO in un maschio di 45 anni, fumatore e con esposizione la-vorativa, significa che nei prossimi 10 anni avrà un rischio superiore di 5 volte di ammalarsi di BPCO ri-spetto ad un coetaneo non fumatore e senza alcuna esposizione. A livello di popolazione ciò significa che in quella fascia d’età fra 10 anni, probabilmente vi sarà un aumento di oltre 5 volte nel numero di casi

7

Luglio 2004

di ammalarsi di Broncopneumopatia Cronica Ostruttiva (BPCO) nei 10 anni successivi all’età che ha al momento della consultazione. Il rischio è stato calcolato per i non fumatori, gli ex-fu-matori e i fumatori, senza nessuna esposizione aggiuntiva e/o con l’esposizione lavorativa a sostanze nocive quali polveri, fumi, sostanze chimiche e con l’esposizione a inquinamento ambientale.

Fig. 1 “Rischio Assoluto di BPCO nella Popolazione Maschile”

Probabilità di contrarre la malattia nei 10 anni successivi all’età attuale del soggetto, in funzione dei fattori di rischio considerati.

Fig. 2 “Rischio Assoluto di BPCO nella Popolazione Femminile”

Probabilità di contrarre la malattia nei 10 anni succes-sivi all’età attuale del soggetto, in funzione dei fattori di rischio considerati.

Fig. 3 “Rischio Relativo di BPCO nella Popolazione Maschile”

Probabilità di contrarre la malattia nei 10 anni succes-sivi all’età attuale del soggetto, in funzione dei fattori di rischio considerati.

Fig. 4 “Rischio Relativo di BPCO nella Popolazione Femminile”

Numero di volte in più che il soggetto rischia di am-malarsi nei 10 anni successivi all’età attuale, rispetto ai non fumatori non esposti.

8

tori rischiano di ammalarsi di tumore al polmone, rispetto ai non fumatori.

Come consultare la carta del rischio di Tumore al polmoneLa carta di rischio è costituita da una serie di tabelle colorimetriche suddivise per sesso, classi d’età e abitudini al fumo (non fumatori, ex-fuma-tori, fumatori). Una volta scelta la classe di età, la casella colore si identifica incrociando i dati re-lativi alla categoria alla quale appartiene il sog-getto: non-fumatore, ex-fumatore, fumatore. La probabilità di ammalarsi di tumore polmonare delle tre categorie è stata valutata calcolando sia il rischio assoluto, cioè la probabilità in percen-tuale di contrarre la malattia, che quello relativo, cioè quante volte in più gli ex fumatori ed i fuma-tori hanno la probabilità di ammalarsi rispetto ai non fumatori.

Rischio assolutoIl rischio assoluto (o cumulativo) è la probabilità di contrarre una malattia per classe d’età. Il rischio assoluto si quantifica confrontando il colore della casella corrispondente alle caratteristiche del sog-getto con la legenda presente in ogni pagina. Per esempio un soggetto di sesso maschile avrà una probabilità molto alta, =10%, di sviluppare un tumore polmonare entro il compimento dei 75 anni di età se continuerà a fumare, mentre tale probabilità scenderà quanto prima egli smetterà (nella carta è riportato il rischio a secondo che egli smetta a 30, 40, 50 o a 60 anni).

Rischio relativoIl rischio relativo è il rapporto tra il rischio di un soggetto esposto al fattore di rischio (nel nostro caso il fumo) e quello di un soggetto dello stesso sesso e della stessa età non esposto. Nelle tabelle del rischio relativo, la condizione di ex-fumatore e fumatore è stata incrociata rispettivamente con l’età del soggetto al momento della cessazione e il nu-mero di sigarette fumate per individuare il rischio di contrarre il tumore al polmone. Il rischio relativo è espresso in numero di volte. Un rischio uguale a 3 di un fumatore indica, ad esempio, che il soggetto ha un rischio di ammalarsi del triplo rispetto ad un non fumatore dello stesso sesso ed età. A livello di popolazione ciò significa che tra la popolazione di esposti probabilmente vi sarà un numero di casi tre volte superiore rispetto a quelli che si verificheran-no tra la popolazione dei non esposti.

di BPCO tra i fumatori con esposizione lavorativa, rispetto al numero di casi di BPCO tra i non fumatori senza alcuna esposizione.

Carta del rischio di Tumore al polmone Carta del rischio assolutoServe a calcolare, prendendo in considerazione l’abitudine al fumo, la probabilità del soggetto di ammalarsi di tumore al polmone ad una data età. Il rischio è stato calcolato per le diverse classi di età e, per gli ex fumatori, anche relativamente all’età nella quale hanno smesso di fumare.

Carta del rischio relativoPrendendo in considerazione l’abitudine al fumo, la carta del rischio relativo serve a calcolare il nu-mero di volte in più che i fumatori e gli ex-fuma-

Figura 5 “Rischio Assoluto di Tumore al polmone nella Popolazione Maschile”

Probabilità di contrarre la malattia per età.

Figura 6 ”Rischio Assoluto di Tumore al polmone nella Popolazione Femminile”

Probabilità di contrarre la malattia per età.

Figura 7 “Rischio Relativo di Tumore al polmone nella Popolazione Maschile”

Numero di volte in più che gli ex-fumatori o fumatori rischiano di ammalarsi di tumore del polmone rispet-to ai non fumatori. Valutazione del rischio relativo (RR) totale, per età di cessazione e per numero di sigarette fumate.

Figura 8 “Rischio Relativo di Tumore al polmone nella Popolazione Femminile”

Numero di volte in più che le ex-fumatrici o le fuma-trici rischiano di ammalarsi di tumore del polmone rispetto alle non fumatrici. Valutazione del rischio re-lativo (RR) totale, per età di cessazione e per numero di sigarette fumate.

9

Luglio 2004

Broncopneumopatia Cronica OstruttivaLa dimensione del problemaLe malattie dei bronchi e dei polmoni coinvolgo-no circa dieci milioni di italiani, tra questi più di otto milioni sono affetti da una malattia respira-toria cronica che li accompagnerà per tutto il cor-so della loro vita, costringendoli a trattamenti e controlli continui. L’allarme è iniziato negli anni ‘90, quando il sensibile incremento di queste ma-lattie e il loro aggravarsi le ha proiettate in avanti nella scala delle cause di morte. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha ipotizzato il loro passaggio dalla 6a alla 3a posizione entro l’anno 2020, facendo un particolare riferimento alla Bron-copneumopatia Cronica Ostruttiva (BPCO) cioè ad una forma di quella malattia più semplicemente conosciuta come bronchite cronica che, sempre se-condo le previsioni, sarà nella stessa data la quinta causa di invalidità su scala mondiale. Nonostante le misure sanitarie intraprese, oggi, con sedici anni di anticipo sulle previsioni, le malattie respirato-rie hanno già raggiunto questa posizione in molti paesi. Nelle nazioni più industrializzate, la Bron-copneumopatia Cronica Ostruttiva da sola è passa-ta dalla 12° alla 5° posizione come causa di morte. Tra questi paesi c’è anche l’Italia, dove il 43,4% dei 37.782 decessi attribuiti alle patologie respiratorie sono stati causati dall’asma e dalla BPCO, per la quale la mortalità per anno (periodo 1990-2000) varia tra 13.849 e 16.786 soggetti. La BPCO porta ad una sostanziale invalidità e perdita di produt-tività che influisce in modo rilevante sulla qualità della vita del paziente con un consistente impatto economico legato al costo dei trattamenti prolun-gati nel tempo ed alle ripetute ospedalizzazioni.

Fattori di rischioLa BPCO insorge a causa dell’azione di un insieme di fattori di rischio individuali ed ambientali.

Fattori di rischio individualiTra i fattori genetici, l’unico di provata importanza patogenetica è un grave deficit ereditario di alfa-1-antitripsina, un potente inibitore delle proteasi. La presenza di un’anamnesi positiva per infezioni respiratorie in età pediatrica (cioè la frequenza di tali malattie durante l’infanzia) si associa spesso a quadri di BPCO in età adulta, specialmente se è presente, contemporaneamente, una storia di fumo. Anche la familiarità sembra avere importan-za come fattore di rischio, infatti vi è una significa-tiva tendenza per la BPCO ad aggregarsi all’inter-

no dello stesso nucleo familiare (storia familiare), anche indipendentemente dall’abitudine al fumo.

Fattori di rischio ambientaliIl fumo di tabacco, in particolare quello di sigaretta, costituisce il principale fattore di rischio per lo svi-luppo di BPCO. Il fumo, infatti, rende più precoce e accentua il normale declino della funzione respira-toria. L’entità del danno broncopolmonare è diretta-mente proporzionale alla quantità globale di siga-rette fumate durante la vita, ma anche il numero di sigarette fumate quotidianamente riveste una no-tevole importanza. L’associazione tra l’esposizione professionale a sostanze nocive, quali polveri, fumi e sostanze chimiche, e l’insorgenza di BPCO è nota da tempo. Categorie di lavoratori particolarmente a rischio sono: edili, metallurgici, addetti alla lavo-razione di cotone e carta e coltivatori di grano. E’ stato calcolato che la percentuale del rischio per la popolazione attribuibile all’esposizione professio-nale è del 18%, considerando le alterazioni della funzione polmonare compatibili con un quadro di BPCO, e del 15% considerando la bronchite cro-nica. L’inquinamento atmosferico esterno è stato associato in modo causale con la BPCO, anche se il suo ruolo è considerato minore rispetto a quello del fumo. Incrementi anche modesti di concentrazione di inquinanti atmosferici (polveri, ossidi di azoto o di zolfo) sono risultati associati ad incrementi di morta-lità e di ricoveri ospedalieri per BPCO, specialmente nei soggetti anziani. Anche l’inquinamento interno, rappresentato soprattutto dal fumo passivo (respon-sabile di aumento del particolato) e dalla presenza di stufe e cucine a gas o cherosene (responsabili di aumento degli ossidi di azoto), costituisce un fattore di rischio, considerando che la maggior parte del-la popolazione passa gran parte della giornata in ambienti confinati domestici, di lavoro o di svago. Un basso livello di stato socio-economico si associa a prevalenze di BPCO più elevate rispetto alla popola-zione generale, con quadri patologici tanto più gravi quanto più scadenti sono le condizioni di vita. Anche una dieta povera di sostanze antiossidanti (frutta e verdure) e l’abuso di alcool sembrano correlati al rischio di sviluppare patologie respiratorie croniche di tipo ostruttivo.

Le indagini epidemiologiche respiratorie condotte dal CNR in ItaliaTra il 1980 ed il 1993, sono state condotte dall’Uni-tà di Epidemiologia Ambientale Polmonare del-l’Istituto di Fisiologia Clinica del CNR, due indagini

longitudinali nella zona rurale del Delta del Po e nell’area urbana di Pisa-Cascina, caratterizzate da differenti livelli di inquinamento atmosferico. Per la costruzione delle carte di rischio sono state considerate esclusivamente le persone studiate in epoca più recente: negli anni 1988-91 nel Delta del Po (2.045 soggetti, 25-73 anni) e 1991-93 a Pisa-Cascina (2.337 soggetti, 25-97 anni). I parte-cipanti hanno risposto alle domande del questio-nario standardizzato CNR per i sintomi, le malat-tie ed i principali fattori di rischio respiratorio ed hanno eseguito prove di funzionalità respiratoria. Inoltre, sono stati considerati i risultati dei que-stionari compilati nel 2001 da un campione di 1.111 soggetti (25-94 anni) residenti nell’area circostante l’inceneritore di rifiuti solidi urbani di Pisa Sud Est. Le informazioni cliniche derivanti dalla spirometria derivano dalle sole due indagini del delta del Po e Pisa - Cascina. Per il calcolo dei rischi assoluti e relativi sono stati utilizzati modelli di regressione logistica multipla (pacchetto stati-stico SPSS), la cui bontà di adattamento è stata misurata con l’indice di Hosmer e Lemeshow.

Il Tumore del polmoneIl tumore del polmone con i suoi oltre 30.000 mor-ti/anno in Italia, è una delle principali patologie da combattere. Negli ultimi dieci anni abbiamo assistito ad un arresto nel trend della incidenza per la popolazione maschile compensato da quello, in aumento, della popolazione femminile, una varia-zione che coincide con la diminuzione dei fumatori maschi e l’aumento delle fumatrici: è infatti noto che il fumo di sigarette è responsabile di gran parte dei tumori polmonari. Ciò è confermato da uno studio caso-controllo multicentrico condotto negli anni ‘90 dalla Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Can-cro (IARC) volto a valutare il ruolo del fumo attivo e della esposizione a fumo passivo nello sviluppo dei tumori polmonari. I risultati dell’indagine mostra-vano che il rischio di sviluppare il tumore polmonare tra i fumatori rispetto ai non fumatori era molto più elevato nei fumatori rispetto ai non fumatori sia nei maschi che nelle femmine. I risultati di uno studio caso controllo, espressi in termini di rischi relativi, forniscono elementi molto utili per la valutazio-ne del grado di associazione tra una determinata esposizione e una malattia. E’ stata suggerita una metodologia per riassumere i dati relativi al fumo e al tumore polmonare anche in termini di rischio assoluto, una misura di impatto immediata che for-nisce il rischio per il singolo individuo di sviluppare

10

il tumore date le proprie abitudini al fumo. Vengono combinati i risultati degli studi caso controllo con le sta-tistiche descrittive disponibili relative all’incidenza di tumore polmonare e alla frequenza di fumatori nella popolazione. Con questo metodo è possibile calcolare i Rischi assoluti per età e cumulativi all’età di 75 anni, interpretabili come la probabilità che un individuo svi-luppi un tumore polmonare entro il compimento dei 75 anni. Lo studio, che ha fornito i dati sui rischi relativi e assoluti di sviluppare un tumore ai polmoni, è stato condotto in tre aree geografiche italiane (Torino, Vene-to, Roma). La popolazione era composta complessiva-mente da 2.912 maschi (1.377 casi e 1.535 controlli) e da 658 femmine (256 casi e 402 controlli).

Risultati delle indagini epidemiologicheI risultati dello studio, che sono stati utilizzati per ela-borare le carte del rischio, mostrano un aumento di ri-schio relativo nei fumatori maschi di 23.7 volte rispetto ai non fumatori, con un valore intermedio per gli ex fumatori di 11.2 volte. Il rischio aumenta all’aumenta-re del numero di sigarette fumate: è triplicato per chi fuma meno di 5 sigarette al giorno fino ad arrivare ad un rischio di 35.9 volte superiore per chi ne fuma più di 25 al giorno. Anche l’età di cessazione ha un ruolo determinante nel rischio, che diminuisce quanto prima si cessa di fumare (da 12.7 per chi smette a 60 anni a 5.6 per chi smette prima dei 30 anni). Per le femmine, si osserva un aumento di rischio nelle fumatrici rispetto alle non fumatrici di 5.1 volte, con un valore interme-dio per gli ex fumatori di 2.7 volte. Il rischio aumenta all’aumentare del numero di sigarette fumate: qua-druplicato per chi fuma 5-14 sigarette al giorno fino a 12.0 per chi ne fuma più di 25 al giorno. I dati per età di cessazione in questo caso sono molto instabili a

causa della scarsa numerosità, ma mostrano comun-que una diminuzione quanto prima si cessa di fumare: da 2.7 per chi smette a 60 anni a 2.1 per chi smette prima dei 30. Il rischio cumulativo o assoluto, cioè la probabilità di sviluppare un tumore al polmone entro i 75 anni nei maschi, è risultato pari allo 0.6% nei non fumatori, al 6.5% negli ex fumatori e al 13.8% nei fumatori attuali. Il rischio aumenta all’aumentare del numero di sigarette al giorno fumate (da 1.8% per meno di 5 sigarette al 20.1% per più di 25 sigarette) ed è maggiore quanto maggiore è l’età in cui si è smes-so di fumare (dal 3.4% per chi smette di fumare prima dei 30 anni al 10.2% per chi smette a 60). Risultati simili si osservano per le femmine anche se con valori assoluti dei rischi minori. Infatti, il rischio di sviluppare un tumore al polmone è risultato pari allo 0.5% nelle non fumatrici, all’1.4% nelle ex fumatrici e al 2.6% nelle fumatrici attuali. Anche nel caso delle femmine si osserva un aumento del rischio assoluto all’aumentare del numero di sigarette fumate (dallo 0.4% per meno di 5 sigarette al giorno al 6.4% per più di 25) e dell’età di cessazione del fumo (dall’1.1% per chi smette pri-ma dei 30 anni all’1.9% per chi smette a 60).

ConclusioniIn questo lavoro si è posto l’accento su una serie di fat-tori che influenzano il rischio di contrarre un tumore polmonare e di morbosità per BPCO. La conoscenza e la valutazione del “peso relativo” di ciascun fattore di rischio ha un impatto rilevante in termini di salute pubblica in quanto la rimozione dei più influenti fat-tori, ad esempio l’abitudine al fumo o l’esposizione professionale per la BPCO, si riflettono in un beneficio complessivo a livello di popolazione. A livello indivi-duale un approccio integrato che permetta di valutare

la categoria di rischio globale di ciascun soggetto e, so-prattutto, la disponibilità di strumenti che permettano di influire positivamente sul rischio, rappresentano un ausilio prezioso per il medico impegnato in medicina preventiva. In questa ottica le carte del rischio respira-torio si presentano come uno strumento di educazione sanitaria che consente di avere una stima quantitativa del rischio individuale globale di sviluppare patologie respiratorie. Dalle carte del rischio presentate si evince in modo chiaro che il grande contributo nei prossimi anni nella frequenza di tumori polmonari e di malattie croniche respiratorie verrà dai soggetti che continuano e continueranno a fumare. Al contrario, dal momento che il rischio diminuisce grandemente quanto più è precoce la cessazione del fumo, tanto maggiore sarà la quota di soggetti che smetteranno, tanto migliore sarà la prospettiva per queste malattie. In sintesi smettere di fumare (e prima possibile) porta ad un guadagno individuale (perché il rischio di contrarre la malattia è più basso quanto prima si smette) e ad un guadagno collettivo (perché il numero di malati nella popolazio-ne, e quindi il carico assistenziale, sarà minore). Per questo ci auguriamo che il presente contributo possa aumentare gli sforzi del Servizio Sanitario Nazionale per favorire i programmi di cessazione del fumo.

(la bibliografia completa può essere richiesta alla redazione- e-mail: [email protected])

Col termine legionellosi s’intende l’infezione causata da batteri gram negativi appartenenti al genere Legionella. Sono piccoli bacilli, aerobi,

dalle dimensioni di circa 1µm, frequentemente isola-bili dagli ambienti umidi; si riproducono a tempera-ture comprese tra i 25 e i 42°C, ma sono in grado di sopravvivere a temperature comprese tra i 5 e i 60°C e a valori di pH compresi tra i 5,5 e 8,1.La capacità di parassitare e moltiplicarsi all’interno

di protozoi quali Naegleria e Acanthamoeba, diffu-sissimi negli ambienti naturali, ma anche compo-nenti dei biofilm che rivestono impianti e tubature idrauliche, contribuisce ad aumentare la sopravvi-venza del microrganismo ad ambienti sfavorevoli.Fin dalla scoperta della sua patogenicità Legio-nella si caratterizzò come agente responsabile di epidemie di polmonite severa. Nell’estate del 1976 circa 4000 veterani della guerra del Vietnam

iscritti all’“American Legion” si riunirono in un al-bergo di Philadelphia. A pochi giorni dal convegno 221 si ammalarono e 34 di questi morirono. La preoccupazione salì, furono effettuati campiona-menti ambientali, e il nuovo batterio fu isolato dall’impianto di condizionamento dell’albergo. Delle 48 diverse specie attualmente classificate nel ge-nere Legionellae circa la metà risultano patogene per l’uomo. L. pneumophila è però da sola responsabile di circa il 90% delle infezioni polmonari; in questa specie si distinguono 14 sierogruppi, con il sierogrup-po 1 di gran lunga il più frequentemente implicato nel determinare patologia, seguito dal sierogruppo 6.Le manifestazioni cliniche associate all’infezione vanno

Autori:1 P. Zuccaro, S. Pichini, C. Mortali, R. Pacifici2 G. Viegi, S. Baldacci, A. Angino, F. Martini, M. Borbotti, A. Scognamiglio, M. Simoni, P. Silvi, F. Di Pede, L. Carrozzi3 D. Porta, F. Forastiere4 L. Simonato5 A. Crispo6 F. Merletti

LEGIONELLOSI: MALATTIA EMERGENTE, MALATTIA PREVENIBILEGiuseppe Pontrelli, Elisabetta FrancoScuola di Specializzazione in Igiene e Medicina Preventiva e Dipartimento Sanità Pubblica, Università di Roma “Tor Vergata”

11

Luglio 2004

da un quadro benigno simil-influenzale, denominato febbre di Pontiac e caratterizzato dal manifestarsi in forme epidemiche dagli elevati tassi d’attacco (anche del 100%), fino alla forma più tipica e grave di una polmonite severa con interessamento sistemico. Studi epidemiologici di sieroprevalenza hanno dimostrato come in realtà la maggioranza della popolazione sia venuta in contatto con Legionella, e l’infezione sia de-corsa in maniera sub-clinica.Non è mai stata dimostrata la trasmissione inte-rumana diretta, analogamente mai è stata dimo-strata l’esistenza di portatori, o il passaggio inter-medio in ospiti animali; l’unica fonte d’infezione è da considerarsi dunque l’ambiente, e soprattutto gli impianti idrici per uso domestico o industriale contaminati da legionelle: per lo più torri di raf-freddamento per impianti di condizionamento; condutture idrauliche di ospedali, alberghi, indu-strie, docce, cisterne e piscine. A partire da questi, il microrganismo, veicolato da aerosol e particelle d’acqua, e più raramente da particelle essiccate, si disperde nell’ambiente e viene facilmente inalato. Pur osservandosi in forma sporadica, la malattia in-sorge abitualmente con epidemie più o meno estese coinvolgendo persone che hanno soggiornato insieme in ambienti contaminati, quali reparti ospedalieri, sale riunioni, atri e camere di alberghi, supermer-cati, parchi con fontane. Per questa ragione le forme epidemiche si distinguono in epidemie nosocomiali, epidemie associate a viaggi, epidemie comunitarie. Fattori di rischio predisponenti sono la compresen-za di deficit immunologici (per malattie primarie, ma anche cause iatrogene quali terapie corticoste-roidee e terapie anti-rigetto) e di malattie croni-che (soprattutto broncopneumopatie ostruttive, ma anche insufficienza cardiaca, renale, neoplasie e diabete), il fumo e l’etilismo. Pur potendo l’infezione colpire tutte le età, la malattia si sviluppa soprattutto in soggetti di oltre 50 anni, e di sesso maschile, con un rapporto M:F=3:1.Un elemen-to importante è la stagionalità. In Italia nei mesi estivi si registra un’incidenza di legionellosi fino a quattro volte superiore a quella riscontrata nei mesi invernali. La sintomatologia esordisce con una sindrome simil influenzale con malessere generale, febbre, mialgia e cefalea dopo un periodo di incubazione in media di circa 5-6 giorni (da un minimo di 2 ad un massimo di 10 giorni). Nel caso della febbre di Pontiac, dopo un periodo di incubazione ridotto a due giorni il quadro si stabilizza e procede a remissione. Nei casi più gra-vi, dopo 24-48 ore, il decorso subisce un progressivo peggioramento: la febbre, accompagnata da brividi

scuotenti, diviene molto elevata, e si instaurano tachi-cardia e tachipnea. Possono essere presenti diarrea acquosa, bradicardia relativa, insonnia, allucinazioni e deliri, atassia e segni di coinvolgimento epatico e renale. Inizialmente il quadro della polmonite si ca-ratterizza per la presenza di tosse con scarso espetto-rato e di un dolore toracico puntorio, per poi evolvere verso il quadro classico delle polmoniti batteriche al-veolari. Nei casi complicati si può giungere all’insuffi-cienza respiratoria e all’ascesso polmonare. Il quadro clinico è, se considerato da solo, poco specifico; per la formulazione di un corretto sospetto eziologico risulta perciò fondamentale la valorizzazione dei dati anam-nestici (età, sesso, fattori predisponenti, andamento epidemico, viaggi e soggiorni in ambienti a rischio) e di stagionalità. Anche il quadro radiografico risul-ta caratteristico solo nelle prime fasi, con presenza di focolai parenchimali rotondeggianti frequente-mente localizzati alle basi; ben presto sfuma in un quadro aspecifico di broncopolmonite diffusa, spesso lobare ma anche bilaterale. Gli esami ematochimici rivelano una leucocitosi neutrofila, iponatriemia e aumento di VES e LDH.La diagnosi specifica si basa sull’isolamento del microrganismo dall’espettorato o da frammenti bioptici polmonari, mediante coltura in terreni specifici o sulla sua individuazione tramite test di immunofluorescenza diretta. I test sierologici sono di scarso contributo clinico, ma sono rilevanti nelle indagini epidemiologiche, e si considerano positivi in caso di aumento di 4 volte del titolo anticorpale tra la fase acuta e la fase di convalescenza. Analoga-mente anche la PCR è poco utilizzata come strumento diagnostico, ma in epidemiologia molecolare risulta strumento indispensabile nell’identificazione univoca delle sorgenti ambientali di infezione. Il confronto del DNA dei ceppi isolati dai casi e dall’ambiente è infatti fondamentale a tal fine, considerando l’estrema dif-fusione delle diverse specie di Legionella. La messa a punto di un test in grado di rilevare la presenza nelle urine dell’antigene solubile di L. pneumophila siero-gruppo 1 ha consentito di disporre di uno strumento diagnostico altamente sensibile e specifico, oltre che non invasivo. Tuttavia è importante notare che la sua diffusione si è accompagnata ad una diminuzione delle diagnosi di Legionellosi dovute a sierogruppi diversi dal gruppo 1. La malattia dei legionari pre-senta una letalità media del 10%, tuttavia nei sog-getti immunocompromessi (frequentemente colpiti in occasione di infezioni nosocomiali) può raggiungere il 50%. Per la terapia il farmaco di prima scelta è l’eritromicina. Attivi risultano anche altri macrolidi (azitromicina, claritromicina), l’imipenem e i fluoro-

chinoloni (ciprofloxacina, levofloxacina). Le infezioni da Legionella vanno considerate malattie infettive prevenibili. La migliore prevenzione inizia già dalla fase di progettazione degli impianti idrici. Infatti la presenza di tubature cieche, di punti nei quali l’ac-qua ristagna ad una temperatura compresa tra i 25 e i 45°C, favorisce incrostazioni e colonizzazione da parte di microrganismi, tra i quali amebe e altri pro-tozoi, e consente la formazione di biofilm in grado di modificare il microambiente e fornire protezione a Legionella, perfino nei confronti dei generici inter-venti di bonifica. Un discorso particolare meritano le torri di raffreddamento: è fondamentale che l’aria di scarico non entri negli edifici o non venga immessa direttamente sul piano strada. Data la rilevanza che rivestono queste strutture nel determinare sorgenti comunitarie di infezione si è proposta la realizzazio-ne di un registro delle torri di raffreddamento, così come avviene in altri paesi europei. Questa iniziativa avrebbe l’effetto non solo di aumentare l’attenzione sulla manutenzione e i controlli da effettuarsi su tali impianti, ma potrebbe rivelarsi uno strumento utile per individuare in tempi brevi, in caso di epidemia, gli impianti sui quali effettuare il campionamento ambientale. Una attenta e periodica manutenzione che preveda la disinfezione o la sostituzione dei fil-tri dei condizionatori, la decalcificazione dei diffusori di docce rubinetti, lo svuotamento e disinfezione dei serbatoi dell’acqua è condizione necessaria alla pre-venzione della contaminazione degli impianti idrici. Attenzione particolare va riposta nella manutenzione degli impianti idrici e di condizionamento presenti in ospedali, case di cura e altre strutture sanitarie. In questi ambienti è frequente il soggiorno, anche prolungato, di persone affette da immunodeficienze croniche o temporanee, da altre patologie croniche, e in età avanzata; inoltre sui pazienti si impiegano strumenti, quali sondini nasogastrici o respiratori automatici, potenzialmente in grado di veicolare il batterio. Tutto ciò rende i ricoverati indubbiamente la categoria più suscettibile a contrarre l’infezione e a sviluppare le forme cliniche più gravi. Le misure pre-ventive da adottare nelle strutture sanitarie devono prevedere:

• Monitoraggio della presenza di legio-nelle negli impianti idrici.

• Decontaminazione periodica degli impianti di condizionamento, di umi-dificazione dell’aria, delle vasche per idroterapia.

• Utilizzo di acqua sterile per le sonde naso gastriche e le apparecchiature per

la respirazione assistita.• Informazione adeguata dei pazienti e

del personale sanitario sul rischio del-l’infezione.

• Esecuzione dei test diagnostici (anti-genuria, coltura dall’escreato) in caso di polmoniti nosocomiali o anamnesi suggestiva.

In caso di epidemie nosocomiali, associate ai viaggi, o da sorgente comunitaria, è necessario effettuare accurate indagini epidemiologiche e ambientali, con campionamento dalle possibili sorgenti di infezione, e porre un’attenzione particolare agli impianti idrici e alle torri di raffreddamento presenti nei luoghi fre-quentati dai casi. La disinfezione degli impianti idrici si avvale di numerosi metodi, ciascuno più o meno in-dicato in relazione alle caratteristiche della struttura o dei materiali sui quali bisogna intervenire. Si possono distinguere mezzi meccanici, come la filtrazione, fisici, quali calore e raggi ultravioletti, mezzi chimici, quali ioni metallici, agenti ossidanti e agenti non ossidanti.Tra i sistemi più diffusi vi è l’impiego di Agenti Os-sidanti a base di Cloro gassoso o Sodio ipoclorito. Considerando l’elevata resistenza alla clorazione di Legionella, soprattutto quando si associa ad amebe o loro cisti, il protocollo di bonifica prevede una fase di “iperclorazione shock“ consistente nell’immissione nel sistema di dosi elevate di cloro (20-50 mg/l), di un successivo drenaggio dell’acqua fino al raggiun-gimento una concentrazione di Cloro di 1 mg/l. Gli svantaggi di tale tecnica consistono nella corrosione delle tubature, nella formazione di composti tossici, nell’alterazione del sapore, e nell’effetto tempora-neo, soprattutto in presenza di biofilm. Nella demoli-zione dei biofilm più efficacia sembra avere l’impiego di Perossido di idrogeno e argento, tecnica sviluppata solo di recente. Una corretta prevenzione non può fare a meno di un buon sistema di sorveglianza. La Legionellosi rientra tra le malattie soggette a notifica obbligatoria di classe II (D.M. 15 Dicembre 1990). Il medico segnalatore deve comunicare il caso entro 48 ore dall’osservazione al Servizio di Igiene e Sanità pubblica della propria ASL, il quale procede, previa validazione della diagnosi, all’invio del modello 15 alla Regione. Questa provvede all’invio della notifica al Ministero della Salute e all’Istituto Superiore di Sa-nità. Inoltre dal 1983 esiste un Sistema di Sorveglian-za Speciale Nazionale che prevede la compilazione di una scheda di sorveglianza riportante informazioni dettagliate su possibili fonti di esposizione. Tale sche-da viene inviata alla ASL, al Ministero della Salute e all’Istituto Superiore di Sanità, che raccoglie le segna-

lazioni nel Registro Nazionale della Legionellosi.In ambito Europeo è stato istituito un sistema di sor-veglianza della legionellosi associata ai viaggi facen-te capo all’European Working Group on Legionella Infections (EWGLI), con il fine di poter identificare le strutture ricettive associate ad uno o più casi e, infor-mando le autorità competenti del paese, poter attuare efficaci interventi di prevenzione anche qualora, come spesso accade, la diagnosi avviene in paesi diversi. Vi partecipano 36 paesi, in Italia il flusso informativo è coordinato dal Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute dell’Istituto Superiore di Sanità. La Legionellosi è sicuramente una patologia emergente per l’azione concomitante di di-versi fattori tra i quali l’aumento di individui a rischio (anziani, immunodepressi, malati cronici), l’aumento delle potenziali fonti di infezione (diffusione dei siste-mi di condizionamento), il miglioramento degli stru-menti diagnostici (diffusione dell’esame dell’antigene urinario). Tuttavia la Legionellosi resta una malattia sottodiagnosticata e sottonotificata. Molte polmoniti da Legionella rispondono positivamente alla terapia empirica molto prima che si renda necessario disporre della diagnosi specifica, e risultano così diagnosticate come “polmoniti batteriche non specificate”. E’ importante non dimenticarsi che compito pri-mario del medico è la prevenzione e che la for-mulazione di un corretto sospetto clinico costituisce elemento fondamentale non solo per la diagnosi eziologica di Legionellosi e il migliore trattamento del proprio paziente, ma anche per l’effettuazione di indagini epidemiologiche e ambientali necessa-rie ad evitare nuovi casi. Ancora una volta la cono-scenza si configura come il migliore strumento di prevenzione.

(la bibliografia completa può essere richiesta alla redazione- e-mail: [email protected])

12

Tabella 1. Principali fattori di rischio di Legionellosi

Associati al microrganismo• L.pneumophila sierogruppo 1

Associati allÊospite• Età avanzata• Sesso Maschile• Fumo• Etilismo• Immunodeficienze• BPCO e altre malattie croniche

Associati allÊambiente• Stagionalità: estate e primi mesi autunnali

In sede di raccolta anamnestica è importante prestare attenzione alla permanenza o frequentazione, nei 10 giorni precedenti i sintomi, di particolari ambienti col-lettivi (soprattutto ospedali, alberghi ma anche parchi, studi odontoiatrici e centri commerciali condizionati)

Tabella 2. Sorveglianza speciale nazionale: defi nizioni operative�Caso accertatoInfezione acuta delle basse vie respiratorie con:segni di polmonite focale rilevabili all’esame clinico e/ o esame radiologico suggestivo di interessamento polmonare, accompagnati da uno o più dei seguenti eventi:

1. isolamento di Legionella spp da materiale organico (secrezioni respiratorie, broncola-vaggio, tessuto polmonare, essudato pleu-rico, essudato pericardico, sangue);

2. aumento di almeno 4 volte del titolo an-ticorpale specifico verso L. pneumophila sierogruppo 1, rilevato sierologicamente mediante immunofluorescenza o micro-agglutinazione tra due sieri prelevati a distanza di almeno 10 giorni.

3. riconoscimento dell’antigene specifico solu-bile nelle urine.

�Caso presunto Infezione acuta delle basse vie respiratorie con:segni di polmonite focale rilevabili all’esame clinico e/ o esame radiologico suggestivo di interessamento polmonare, accompagnati da uno o più dei seguenti eventi:

1. aumento di almeno 4 volte del titolo an-ticorpale specifico, relativo a sierogruppi o specie diverse da L.pneumophila siero-gruppo 1;

2. positività all’immunofluorescenza diretta con anticorpi monoclonali o policlonali di materiale patologico;

3. singolo titolo anticorpale elevato (=> 1: 256) verso L. pneumophila sierogruppo 1.

Tabella 3. Defi nizione di Legionellosi Nosocomiale

�Caso confermatoUn caso confermato mediante indagini di laboratorio

verificatosi in un paziente che è stato ospedalizzato continuativamente per almeno 10 giorni prima del-l’inizio dei sintomi.

� Caso possibileUn’infezione che si manifesta in un paziente ricove-

rato per un periodo variabile da 1 a 9 giorni prima dell’inizio dei sintomi.

� ClusterDue o più casi che si verifichino in un ospedale nel-

l’arco di 6 mesi.

13

Luglio 2004

L’80% dei malati oncologici va incontro a malnutrizione durante la storia naturale della malattia, sia per l’azio-ne diretta o indiretta del tumore, sia per gli effetti del

trattamento chemioterapico, radioterapico o chirurgico cui sono sottoposti. Inoltre in circa il 20% dei casi, la morte del paziente oncologico è correlata alle carenze nutrizionali e non a conseguenze dirette delle lesioni neoplastiche . Il fe-nomeno nasce per la concomitanza di due elementi: l’ano-ressia (perdita di appetito) e la cachessia (perdita di peso) neoplastica. Infatti, nel paziente oncologico, alla mancanza del desiderio di assumere alimenti si aggiungono altri fe-nomeni patologici che contribuiscono a peggiorare lo stato nutrizionale. Negli ultimi anni l’attenzione si è concentrata sull’azione delle citochine, e in particolare del TNF (Tumor Necrosis Factor), delle interleuchine e degli interferoni, come potenziali elementi in grado di scatenare l’intero quadro di modificazione metaboliche che portano alla cachessia, cioè alla perdita involontaria di peso e di massa muscolare. Oltre alla perdita di appetito e al minor introito di calorie e protei-ne, quindi, c’è una sorta di “furto” indotto dalla presenza del tumore che penalizza pesantemente lo stato nutrizionale. In quest’ambito, oltre alle citochine, assume un ruolo fon-damentale il “Proteolisis Inducing Factor” (PIF), che viene prodotto direttamente dalle cellule tumorali e quindi si ri-trova nel sangue circolante del paziente. Il PIF induce una distruzione delle proteine muscolari allo scopo di fornire “mattoni” idonei alla costruzione di molecole proteiche cor-relate al metabolismo del tumore. Ciò porta ad un progres-sivo calo della quota di tessuto muscolare dell’organismo, con sviluppo della cachessia neoplastica. Questo processo è funzionale esclusivamente al tumore e porta ad un grave dispendio di energia, con progressivo peggioramento dello stato nutrizionale del paziente. In pratica il “motore” gira e consuma, ma a vuoto perché non porta vantaggi per il malato: nasce così la “sindrome dello spreco” (wasting sindrome), che conduce a perdita involontaria di peso e va combattuta. Il problema è che non basta nutrire il paziente: è fondamentale spegnere l’interruttore acceso dal PIF. Per questo motivo gli interventi con nutrizione artificiale ente-rale e parenterale si sono spesso dimostrati poco efficaci nel passato . Il Proteolisis Inducing Factor (PIF) è stato identi-ficato dal Prof. Michael Tisdale nei laboratori dell’Aston University di Birmingham (UK). E’ una sorta di “ladro” di proteine, visto che le ruba ai muscoli per “alimentare” il tumore che si sviluppa e causare la cachessia neoplastica. Per combattere il PIF non basta somministrare una dieta: occorre “spegnere” l’interruttore che il “ladro” tiene acceso

grazie all’azione delle citochine, sostanze implicate nella genesi dell’infiammazione legata al tumore. Ora questo è possibile. Una ricerca internazionale, che ha visto la parte-cipazione della Struttura Complessa di Gastroenterologia e Nutrizione Clinica dell’Istituto Nazionale per la Ricerca sul Cancro di Genova , dimostra che l’effetto del PIF può essere combattuto utilizzando una miscela farmaconutrizionale energetico-proteica arricchita con EPA (Acido eicosapentae-noico, uno degli acidi grassi polinsaturi “omega-3” dell’olio di pesce) e con alte dosi di antiossidanti. La conferma viene dalla ricerca multicentrica internazionale condotta su 200 pazienti con tumore pancreatico e grave perdita di peso, legata allo stadio avanzato della malattia. I pazienti sono stati divisi in modo casuale in due gruppi, di cui uno trattato con un cocktail ad alto valore calorico e proteico arricchito con EPA e l’altro con pari supporto nutrizionale, senza EPA e antiossidanti. Tutti i pazienti erano domiciliari e sono stati trattati per 2 mesi. I risultati della ricerca sono stati pubblicati di recente sulla rivista inglese GUT e sono stati presentati in varie sedi congressuali. Al momento dell’inizio dello studio la perdita media di peso era pari a circa il 15% del peso corporeo abituale. Nei due mesi di trattamento si è assistito ad un significativo aumento del peso e della massa musco-lare (fino a 1,5 Kg di quest’ultima) nel gruppo trattato con un supplemento nutrizionale energetico-proteico arricchito in EPA. L’incremento era direttamente proporzionale alla quantità di EPA osservata nel plasma, indice della quan-tità di prodotto assunta, ed era massima in chi assumeva in modo corretto i due flaconi al giorno pianificati. Sempre in questo gruppo si è inoltre assistito ad un significativo au-mento della forza fisica e della qualità di vita. Le conclusioni sono che l’assunzione per due mesi di un supplemento nu-trizionale energetico-proteico arricchito con EPA comporta: stabilizzazione della perdita di peso in pazienti con grave malnutrizione oncologica; aumento del peso e della massa muscolare se vi è assunzione di 1,5-2 confezioni/die, pari a 360-480 ml, 465-620 calorie, 1,65-2,2 g di EPA; miglio-ramento della forza fisica e della qualità di vita associate all’aumento del peso corporeo e della massa muscolare. Sappiamo che 8 pazienti oncologici su 10 manifestano gravi problemi nutrizionali nel corso della malattia, e i segnali più evidenti sono il calo di peso e la perdita di massa muscolare. Questo porta ad un decremento dell’efficienza fisica, che fa peggiorare le condizioni soggettive di salute e condiziona pesantemente la qualità di vita, tanto che a volte il malato non può più uscire da casa ed è costretto a letto.Lo studio dimostra che con un’integrazione nutrizionale si

ottengono risultati di carattere farmacologico, e soprattutto si può combattere efficacemente la perdita involontaria di peso, problema fino ad oggi irrisolto. In particolare, l’effetto positivo sull’aumento della massa muscolare e sulla forza fisica, permettono di migliorare il livello dell’attività fisica e, più globalmente, la qualità della qualità della vita del pa-ziente oncologico in stadio avanzato. Sono in corso studi e valutazioni sull’efficacia d’uso di que-sta soluzione “anti-PIF” in pazienti trattati con chemio e radioterapia o in chi è sottoposto ad interventi di chirurgia oncologica estesi e demolitivi. La disponibilità dell’integratore arricchito in EPA e antios-sidanti nelle farmacie italiane e l’adeguamento normativo (già attivo in alcune Regioni Italiane) facilitano l’acquisizio-ne del prodotto da parte del paziente in sede domiciliare, e rendono più facile ed efficace la gestione del problema malnutrizionale in oncologia.

(la bibliografia completa può essere richiesta alla redazione- e-mail: [email protected])

LA PERDITA DI PESO NEL PAZIENTE ONCOLOGICONuove acquisizioni patogenetiche e terapeuticheAttilio Giacosa, Istituto Nazionale per la Ricerca sul Cancro, Genova

La problematica relativa alla gestione nutrizionale del malato di cancro è stata affrontata in modo specifico in un apposito libretto di AIMaC (Associazione Italiana Malati di Cancro, parenti e amici) dal titolo La dieta e il malato di cancro, dal Prof. Attilio Giacosa, di cui l’articolo rappresen-ta la sintesi. “Sapere è poter combattere, di cancro si può guarire”: questo è il motto di AIMaC, fondata nel 1997 con lo scopo di fornire informazioni sul cancro e sulle terapie non solo ai malati, ma anche alle loro famiglie e ai loro amici. A fronte di un continuo aumento della prevalenza della patologia, grazie all’efficacia delle nuove terapie, è in costante aumento il numero dei pazienti oncologici cronici. La sopravvivenza a lungo termine supera oggi i 5 anni dalla diagnosi. AIMaC è costituita da malati di cancro, ex malati, medici, professionisti, volontari, psicologi, esperti di comu-nicazione che forniscono la loro opera per il fine ultimo di combattere la malattia o almeno di poterci convivere.Le informazioni e i servizi disponibili sono:

• la Collana del Girasole: 26 libretti sui diversi tipi di neoplasie, sulle cure e sugli effetti col-laterali;

• il sito www.aimac.it sul quale sono disponibili i testi integrali di tutto il materiale informati-vo; indirizzi di centri di oncologia/radiotera-pia, di associazioni di volontariato; link utili;

• il numero verde 840 503579 e l’e-mail [email protected], per rispondere in tempo reale alle richieste dei malati e dei loro familiari;

• il servizio di sostegno psicologico e gruppi di auto-aiuto;

• la videocassetta sulla chemio- e radioterapia;• i Profili Farmacologici: contengono informa-

zioni di carattere generale sui singoli farmaci antitumorali, la loro modalità di sommini-strazione e gli effetti collaterali;

• i Profili DST: danno informazioni di carattere generale su oltre 40 neoplasie, con particola-re riferimento ai vari stadi della malattia e alle rispettive opzioni terapeutiche.

L e lesioni traumatiche relative agli elementi dentali, specialmente quelli del gruppo fron-tale superiore, alle strutture di sostegno ed

ai tessuti molli orali sono purtroppo di frequente riscontro nella pratica clinica e gli individui che in maggior misura sono soggetti a tali incidenti sono generalmente tutti i bambini in età pediatrica, con un’incidenza massima nelle fasce di età comprese tra i 4-6 anni e gli 8-11 anni. I soggetti pediatrici di 6-14 anni di età costituiscono il 14% della popolazione generale e quelli di 16-18 anni costituiscono il 17% del complessivo. Nei giovani le pro-babilità di subire traumi dento–alveolari è del 10-32% ed è verosimile che circa la metà di questi si verifichino durante la partecipazione a sport di contatto.Particolarmente coinvolti sono coloro che presen-tano una certa protrusione e/o vestibolo-inclina-zione degli incisivi superiori accompagnata da un’eventuale incompetenza labiale (figg. 1-2-3).Tali insulti sono favoriti da una situazione anato-mica predisponente, ma sono anche espressione di una certa esuberanza ed incoordinazione motoria caratteristica di queste età e di un maggior incre-mento delle attività sportive ed agonistiche prati-cate senza un’adeguata protezione.In tutti questi casi un valido mezzo preventivo è offerto dall’impiego sistematico dei protettori orali o mouthguards degli autori anglosassoni (fig. 4).Questi hanno lo scopo principale di proteggere il mascellare superiore, gli elementi dentali, le strutture alveolari ed i tessuti molli da traumi di diversa natura manifestatisi prevalentemente con meccanismi diretti; meno validamente ma in ogni caso sempre efficacemente si oppongono a traumi indiretti quali colpi o cadute sul mento con improv-visa chiusura delle arcate dentarie tra loro. Ricordiamo che tali apparecchi sono impiegati in den-tatura mista come generica misura preventiva ma in dentatura permanente ed in soggetti che praticano agonisticamente una qualsiasi disciplina sportiva è obbligatorio l’impiego di protettori orali realizzati con metodiche più complesse, che tengano conto degli ef-fettivi e specifici pericoli relativi allo svolgimento dello sport in questione. Per garantire in ogni circostanza la massima protezione possibile l’apparecchio deve essere progettato e realizzato in modo da presentare specifiche caratteristiche.

Deve adattarsi perfettamente alle strutture dento-al-veolari dell’arcata superiore senza comprimerle ecces-sivamente, deve estendersi il più possibile nel fornice vestibolare rispettando le inserzioni dei frenuli sino a comprendere i secondi molari decidui in modo tale da non determinare un eccessivo aumento della dimen-sione verticale e garantire in ogni caso una stabilità occlusale mediante l’intercuspidazione degli elementi antagonisti, oralmente deve ricoprire completamente le strutture alveolari sino al limite della gengiva ade-rente compresa l’area delle rughe palatine in moda da impedire l’interposizione della lingua tra le arcate dentarie (figg. 5-6-7).Lo spessore del materiale deve essere adeguato per conferire stabilità e resistenza a tutto l’apparecchio senza essere particolarmente rigido in modo da as-sorbire qualsiasi impatto proteggendo i denti, le strut-ture alveolari, la lingua, le labbra ed impedire inoltre un eventuale dislocamento condilare. Deve essere d’ingombro ridotto per non determinare un eccessi-vo aumento della salivazione, deve permettere una corretta respirazione ed eloquio e deve essere di facile detersione per evitare accumuli di placca batterica.Deve essere infine di semplice e rapida costruzione e deve essere economico perché, utilizzandolo soprattut-to in dentatura mista, occorre rinnovarlo con una certa frequenza in relazione dell’evoluzione occlusale. Per la realizzazione dei protettori orali individuali è necessaria un’apparecchiatura termo-stampante a depressione at-mosferica ed alcuni fogli di resina termoplastica rigida. I fogli riscaldati sino a divenire plastici verranno posti sopra un modello in gesso delle arcate dento-alveolari ottenu-to da una impronta in alginato e su questo modellati e stampati mediante aspirazione sottovuoto.Al termine della fase di stampaggio dopo il completo raffreddamento del materiale sarà possibile ritagliare e rimuovere il modellato e successivamente arrotondare e rifinire i bordi mediante frese a granulometria decrescen-te (figg. 8-9-10-11). Il protettore ultimato verrà quindi collocato sulle arcate dentali valutandone l’estensione periferica, l’adattabilità, la stabilità e la facilità d’inserzio-ne; non dovrà arrecare alcun disturbo oltre ad una certa sensazione di riempimento della cavità orale stessa.Periodicamente ogni cinque o sei mesi, ed in relazione all’evoluzione occlusale, si renderà necessaria la sua sosti-tuzione seguendo la stessa metodica illustrata preceden-temente. Le lesioni traumatiche a carico degli elementi

dentali e/o dei tessuti di supporto vengono generalmente definite come accidentali e come tali rivestono un caratte-re di imprevedibilità e di incontrollabilità. E’ opportuno invece porre in essere tutte quelle misu-re che possano ridurre se non abolire completamente gli esiti traumatici a carico delle strutture dento-alveo-lari e a nostro avviso l’uso sistematico di un protettore orale individuale con le caratteristiche citate costituisce un valido mezzo preventivo.

(la bibliografia completa può essere richiesta alla redazione- e-mail: [email protected])

14

LA PREVENZIONE DELLE LESIONI TRAUMATICHE DENTO-ALVEOLARI IN ODONTOIATRIA INFANTILECarlo Calabrese – Flavio Pisani, Ospedale “S. Pertini”- U.O.D. di Odontoiatria

Caratteristiche predisponenti per eventuali lesioni traumatiche dento-alveolari: protrusione e/o vestibo-lo-inclinazione degli incisivi superiori accompagnata da un’eventuale incompetenza labiale. Visione esterna, visione frontale endorale e visione laterale endorale.

Fig. 1, 2, 3

Protettore orale individuale o mouthguard.

Fig. 4

15

Luglio 2004

FLASH DALLA LETTERATURA INTERNAZIONALEFumo passivoBMJ, doi: 10.1136/bmj.38146.427188.55 (published 30 June 2004) BMJ Online FirstPassive smoking and risk of coronary hearth disease and stroke: prospective study with cotinine measurementWhincup PH, Gilg JA, Emberson JR et al.

E’ stata studiata l’associazione tra concentrazione di cotinina sierica (biomarker generale di esposizione al fumo di ta-bacco) ed il rischio di patologia coronarica e stroke, con uno studio di coorte prospettico che ha coinvolto 4729 pazienti

(uomini) di Medici di Medicina Generale inglesi, a partire dal 1978. I principali esiti sono stati lo sviluppo di patologia coronarica e di stroke (letale e non) nei successivi 20 anni di follow-up. Per tutti i partecipanti allo studio sono state dettagliatamente definite le abitudini tabagiche. I 2105 uomini che hanno riferito di non fumare, esposti a fumo passivo (conviventi di fumatori) e con livelli di cotinina < 14.1 ng/ml, sono stati divisi in quattro gruppi numericamente uguali, sulla base della diversa concentrazione di cotinina (gruppo 1 con livelli di cotinina ≤ 0.7 ng/ml; gruppo 2 = 0.8-1.4 ng/ml; gruppo 3 = 1.5-2.7 ng/ml; gruppo 4 = 2.8-14.1 ng/ml). Il rischio relativo (Intervallo di Coinfidenza al 95%) di sviluppare una patologia coronarica nel secondo, terzo e quarto gruppo rispetto al primo è risultato, rispettivamente, pari a 1.45 (IC = 1.01-2.08), 1.49 (IC = 1.03-2.14) e 1.57 (IC = 1.08-2.28). Il rischio è risultato particolarmente ele-vato soprattutto nei primi 10 anni di follow-up. Non sono state invece trovate evidenti associazioni tra livelli di cotinina e rischio di sviluppare uno stroke. Nonostante la necessità di ulteriori indagini, lo studio rafforza l’evidenza dei danni dell’esposizione al fumo passivo.

Rivista disponibile nelle seguenti biblioteche di Roma: Biblioteca Medica Statale – Istituto Italiano di Medicina Sociale. L’articolo è disponibile full text al sito:http://www.bmj.com/ alla voce search/archive

Fumo e mortalitàBMJ, doi:10.1136/bmj.38142.554479.AE (published 22 June 2004)Mortality in relation to smoking: 50 yearsÊ observation on male British doctorsDoll R, Peto R, Boreham J, Sutherland I.

Lo studio prospettico ha coinvolto 34439 medici inglesi, uomini, le cui abitudini tabagiche e le cui cause di morte sono stati seguiti dal 1951 al 2001. Sono stati considerati la mortalità in generale e la mortalità considerata separando i diversi periodi

di nascita. Le principali cause di mortalità riguardano patologie vascolari, neoplastiche e respiratorie. Gli uomini nati nel periodo 1900-1930, che fumavano solo sigarette, sono morti in media circa 10 anni prima di coloro che non fumavano. La cessazione del fumo a 60, 50, 40 e 30 anni di età ha fatto guadagnare, rispettivamente, 3, 6, 9 e 10 anni di aspettativa di vita. La mortalità in eccesso associata al fumo di sigaretta è risultata ridotta per gli uomini nati nel 19° secolo rispetto agli uomini nati negli anni ’20. La probabilità di morire durante la mezza età (35-69 anni) è risultata essere del 42% nei fumatori, rispetto al 24% nei non fumatori, tra quelli nati tra il 1900 ed il 1909, e del 43% contro il 15% tra coloro che sono nati negli anni ’20. Nell’età più avanzata (70-90 anni), la probabilità di sopravvivenza tra fumatori e non fumatori era del 10% contro il 12% nelle percentuali di morte degli anni ’50 (uomini nati intorno al 1870), ma del 7% contro il 33% nelle percentuali di morte degli anni ’90 (uomini nati intorno al 1910). Una progressiva riduzione delle percentuali di mortalità tra i non fumatori nella metà del secolo passato, ottenuta grazie a prevenzione ed efficaci terapie, è stata ampiamente superata, tra i fumatori di sigarette, da un progressivo incremento nei fumatori rispetto ai non fumatori delle percentuali di morte, dovuto ad un uso più precoce e più intenso delle sigarette. Tra gli uomini nati intorno al 1920, il fumo di sigaretta, prolungato dalla giovane età fino alla vita adulta, ha triplicato le percentuali di mortalità età specifiche, ma la cessazione a 50 anni ha dimezzato il rischio e a 30 anni lo ha quasi evitato.

Rivista disponibile nelle seguenti biblioteche di Roma: Biblioteca Medica Statale – Istituto Italiano di Medicina Sociale. L’articolo è disponibile full text al sito:http://www.bmj.com/ alla voce search/archive

Trasmissione dell’epatite CAm J Gastroenterol 2004 May; 99 (5): 855-9.Lack of evidence of sexual trasmission of hepatitis C among monogamous couples: results of a 10-year prospesctive follow-up study.Vandelli C, Renzo F, Romano L et al.

Gli Autori hanno valutato il rischio di trasmissione sessuale del virus dell’epatite C (HCV) in 895 partner monogami eterosessuali di persone affette da epatite C cronica (studio prospettico a lungo termine, con follow-up di 8,060

Caratteristiche specifiche di progettazione e di adattamen-to; visione frontale, visione laterale e visione occlusale.

Fig. 5, 6 e 7

Realizzazione e rifinitura. Visione completa, visione interna e visione esterna.

Fig. 8, 9 10 e 11

16

PrevenendoTrimestrale di Medicina Preventiva

Redatto a cura del Dipartimento di Prevenzione ASL RmBViale Battista Bardanzellu, 800155 Romatel. 0641434906fax 0641434957 e-mail: [email protected]

ProprietàAzienda Unità Sanitaria Locale Roma B

Direttore responsabileFabrizio Ciaralli

RedazioneMaria Giuseppina Bosco, Matteo Ciavarella, Gaetano Di Pasquale, Angela Marchetti, Pierangela Napoli, Sergio Rovetta, Pietro Russo, Barbara Troiani, Massimo Valenti, Romano Zilli

Hanno collaborato a questo numero:A. Angino, S. Baldacci, M. Borbotti, C. Cala-brese, L. Carrozzi, A. Crispo, F. Di Pede, F. Farina, F. Forastiere, E. Franco, A. Giacosa, F. Martini, F. Merletti M.A. Modolo, C. Mor-tali, R. Pacifici, S. Pichini, F. Pisani, G. Pon-trelli, D. Porta, V. Rebella, A. Scognamiglio, P. Silvi, L. Simonato, M. Simoni, G. Viegi, P. Zuccaro

Anno III numero 2Autorizzazione Tribunale di Roma del 20/12/2001 n. 573chiuso in redazione il 30/06/04

stampato in proprio

Note per i collaboratoriLa collaborazione al giornale è aperta a tutti e gli articoli firmati impegnano esclusivamente la responsabilità degli autori. La Redazione si riserva in ogni caso l’accettazione dei lavori. La proprietà letteraria ed artistica di quanto pubblicato è riservata alla Rivista.Prevenendo ringrazia tutti i futuri collaboratori che vorranno adeguarsi alle seguenti indicazioni per la stesura e l’invio del materiale da pubblicare. Gli articoli dovranno pervenire alla Redazione Prevenendo su supporto cartaceo e magnetico o via e-mail, utilizzando un formato di tipo diffuso (ambiente Windows). Si riserva, altresì, di proporre le eventuali modifiche che si rendessero necessarie per soddisfare i criteri di uniformità editoriale. Gli eventuali grafici e le figure dovranno in ogni caso essere accompagnati dai dati grezzi necessari per la loro realizzazione. I lavori, inediti, devono essere inviati alla Redazione presso:Dipartimento di Prevenzione Asl Rm/B – viale Battista Bardanzellu, 8 – 00155 Roma – tel. 0641434906- 0641434619 – fax 0641434957- e-mail: [email protected] materiale inviato, anche se non pubblicato, non verrà restituito.

Il catalogo Italiano dei Periodici, tramite il quale è possibile conoscere in quali biblioteche sono presenti i periodici, è reperibile all’indirizzo internet: http://acnp.cib.unibo.it/cgi-ser/start/it/cnr/fp.htmlRecensioni a cura Valentina RebellaDipartimento di Prevenzione ASL RmB

anni-persona). 776 partners (86.7%) sono stati seguiti per 10 anni (7,76 anni-persona di osservazione); 119 partners (13.3%, di cui una parte ha terminato il rapporto durante il follow-up) hanno contribuito con altri 300 anni-persona. Tutte le coppie hanno negato di avere avuto rapporti anali, rapporti con uso di preservativo o durante il ciclo mestruale, con una media di rapporti di settimanali pari a 1.8. Durante il follow-up sono stati registrati 3 casi di infezione: in un caso, il genotipo infettante è risultato diverso da quello del partner affetto, escludendo quindi chiaramente la trasmis-sione sessuale. Le altre due coppie avevano genotipi compatibili, ma sequenze genomiche nella regione NS5b diverse, escludendo anche in questo caso la trasmissione sessuale. Sulla base dei dati a disposizione, il rischio di trasmissione sessuale dell’HCV tra coppie eterosessuali monogame è, quindi, estremamente basso o addirittura nullo.

Rivista disponibile nelle seguenti biblioteche di Roma: Biblioteca del CNR – Facoltà di Medicina e Chirurgia A. Gemelli – Biblioteca Medica Statale – ISS – Ospedale Pediatrico Bambino Gesù – Campus Bio-medico.

Liposuzione e fattori di rischio coronaricoThe New England Journal of Medicine 2004; 350 (25): 2549-2557Absence of an effect of liposuction on insulin action and risk factors for coronary hearth disea-seKlein S, Fontana L, Leroy Young V et al.

La liposuzione è stata proposta come potenziale trattamento per le complicanze metaboliche dell’obesità. Gli Autori hanno valutato gli effetti della liposuzione addominale sui fattori di rischio metabolico in donne con

obesità addominale. Sono stati considerati: la sensibilità all’insulina di fegato, muscolo scheletrico e tessuto adiposo, il livello di mediatori dell’infiammazione ed altri fattori di rischio, in 15 donne obese, prima e dopo 10-12 settimane dall’intervento di liposuzione addominale. 8 donne presentavano normale tolleranza al glucosio, mentre 7 erano affette da diabete di tipo 2. La liposuzione ha ridotto il volume del tessuto adiposo sottocutaneo del 44% nelle donne con normale tolleranza al glucosio (facendo loro perdere 9.1 ± 3.7 Kg di grasso) e nel 28% di quelle con diabete (facendo loro perdere 10.5 ± 3.3 Kg di grasso). Questa non ha però alterato in modo significativo la sensibilità all’insulina del tessuto muscolare, del fegato o del tessuto adiposo (ottenuta rispettivamente con la stimolazione dei depositi di glucosio, la soppressione della produzione di glucosio e la soppressione della lipolisi). Non si sono verificate particolari alterazioni della proteina C reattiva plasmatica, dell’interleuchina 6, del TNFα né dell’adiponectina. In nessuno dei due gruppi non sono state riscontrate va-riazioni per gli altri fattori di rischio per patologia coronarica (pressione arteriosa, concentrazione glicemica, insulina, concentrazione lipidica). La riduzione della sola massa adiposa non risulta, quindi, altrettanto efficace nell’ottenere benefici metabolici, quanto la perdita di peso.

Rivista disponibile nelle seguenti biblioteche di Roma: Biblioteca del CNR – Facoltà di Medicina e Chirurgia A. Gemelli – Biblioteca Medica Statale – ISS – Ospedale Forlanini – Dipartimento di Scienze di Sanità Pubblica Università La Sapienza –INRAN – Ministero della Salute - Biblioteca Area Bio-Medica “P. Fasella” Università Tor Vergata – Istituto Italiano di Medicina Sociale – Università Campus Bio-medico.