Eventmag GiugnoLuglio 2009

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eventmag eventmag - anno 1 - numero 5- Giugno 2009 (re- design) 5 management Costa Group: incontro con il fondatore Franco Costa strategie Il centenario Mondadori con DPR eventi Storytelling aziendale: Intervista ad Andrea Fontana linguaggi Future Concept lab raccontata da Francesco Morace

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management Costa Group: incontro con il fondatore Franco Costastrategie Il centenario Mondadori con DPR eventi

Storytelling aziendale: Intervista ad Andrea FontanalinguaggiFuture Concept lab raccontata da Francesco Morace

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eventmag - periodico on line

anno 1 - numero 5 - Giugno 2009

direttore editoriale

Davide Pellegrini

capo redattore

Francesca Fornari [email protected]

ufficio stampa

Silvia Galli

progetto grafico e illustrazioni

Alessandro Denci Niccolai

hanno collaborato

Davide Bennato, Francesca Fornari, Arnaldo Funaro, Silvia Galli, Lucia Magalotti,

Davide Pellegrini, Stefano Rollo, Enrico Tanno

Pag 4 editoriale

Pag 10 profondo web

Pag 16 strategie

Pag 31 management

Pag 24 mestieri

Pag 28 eventi

Pag 18 linguaggi

sommario

Pag 7 eye tech

Pag 35 recensioni

Pag 38 serious comics

Pag 37 no words

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Come cambia la nostra vita? Siamo davvero in quel momento di pas-saggio in cui il gap generazionale si fa cupo e profondo? Ce ne sono di teorie, ma sembra ormai accertato che per ogni epoca che passa la distanza tra le generazioni diventa maggiore. E forse è un bene, forse fa parte dell’ordine naturale delle cose, come un vestito vecchio che – al di là del taglio fuori moda – trova il limite del corpo che cre-sce, cambia e si assesta su una nuova forma. Allo stesso modo, sta cambiando il rapporto tra noi e il sistema che siamo abituati a vivere giorno dopo giorno. A partire dal lavoro, oggi sempre più strumento finale di supporto al percorso di realizzazione del sé, che è diventato l’asse centrale su cui si muove il mondo. Il trionfo dell’egosimo (il che non è del tutto negativo), che porta i più vecchi a cercare il recupero delle proprie vite dietro le parole di qualche neo-guru (un po’ più lucido e visionario degli altri), e i più giovani a lanciarsi nel grande scenario del talent show a tutti i costi, con in palio il successo personale illimi-tato, virtuale o reale che sia. Una configurazione di società estrema e spettacolarizzata, tra Debord e Orwell. Per noi, che siamo abituati a lavorare imprigionati dall’etica del dovere e a sacrificare parte di noi stessi sull’altare del tempo, l’idea della realizzazione di un percorso di vita riempito simultaneamente e da più parti da stimoli di tutti i tipi non è facile da digerire. Non è semplice immaginarsi in continua mutazio-ne, così come non è più tanto semplice resistere ancorati alle nostre sicurezze. Molti non faranno in tempo a “snasare” il nuovo sistema e, lo abbiamo detto, rimarranno signori e padroni del proprio piccolo mondo antico, però è un fatto che non lavoriamo più come prima, ma frammentati nell’immaginario socio-cibernetico della rete; che guardia-

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mo continuamente video su you tube; che desideriamo di più e in continuazione; che ci piace l’oggetto, il prodotto ridisegnato, rifunzionalizzato da nuovi comportamenti e abitudini; che siamo in parte pro e in parte contro la responsabilità sociale e le grandi questioni del mondo; e che, alla fine, non vorremmo morire mai. Così, a partire da una citazione che dedico alla maestria degli autori della rivista internazionale Monocle e del loro ultimo magnifico speciale sul cambiamento del mondo del retail (distribuzione di prodotto), Eventmag apre la sua piccola indagine all’hi tech e al design, alla pubblicità e alla comunicazione, al prodotto e al consumo. Buona, anzi attenta lettura.

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Eventlab offre alle imprese l’opportunità di sponsorizzare EventMag con la stampa di una tiratura limitata distribuita in modalità free press e con un evento di presentazione, alla presenza di alcune delle firme più prestigiose del numero.

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di Davide Bennato

Cosa vuol dire riprogettare un sito? La domanda potrebbe sembrare banale: riprogettare un sito vuol dire dargli una nuova forma comunicativa. La risposta è semplice, essenziale, cristallina. Peccato che è ambigua. L’ambiguità sta tutta in quel “nuova forma comu-nicativa”: quali sono le conseguenze di questa affermazione? Fino a qualche anno fa riprogettare un sito era un problema da webmaster: il cliente durante il brief chiedeva al-cune peculiarità multimediali – il termine maggiormente in voga nella prima metà dell’era internet – perché in questo modo voleva attirare maggiore traffico. La risposta a questa domanda era quasi sempre la stessa: una lunga, interminabile, cool ma noiosa apertura in flash. Sembrava quasi di ricordare quel vecchio spot televisivo «volevamo stupirvi con effetti speciali…» e infatti di effetti speciali si trattava. Rallentavano il caricamento del sito, confondevano i navigatori meno smaliziati, non si lasciavano indicizzare dai motori di ricerca. Praticamente una cosa bella – fracassona per la verità – ma assolutamente inutile. Che è un peccato veniale quando si parla di arte, ma è un peccato mortale quando si parla di comunicazione, soprattutto se digitale. Non si può pretendere che una persona che naviga su internet debba aspettare 20 secondi della sua vita (sprecare è il termine corretto) per soddisfare l’ego di un designer frustrato che avrebbe voluto fare sigle tele-visive. Sì, perché aprire un sito con un filmato flash senza nessuna utilità funzionale, vuol

“L’arte di riprogettare siti tra gradevolezza e semplicità”

dal flash al social

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gine, l’uso tipografico delle “grazie” per ricordare i caratteri amanuensi, l’organizzazione del contenuto in righe di testo per semplificare la lettura. Niente di nuovo sotto il sole, quindi? Forse no, è solo l’indicazione di una continuità culturale. Perché credevate che una delle piattaforme commer-ciali di blogging più famose si chiamasse Movable Type? Per un tributo a Gutemberg?

dire applicare a internet una logica da televisione. Trasformare il netcast in broadcast: sembra quasi di vedere i signorotti secenteschi farsi tra-scrivere nuovamente a mano le pagine dei primi libri stampati a caratteri mobili perché non erano abituati alla fredda precisione dei tipi in piombo. Nacque così la pratica del pulsante per saltare le presentazioni in flash, fallimento di una logica progettuale che ingabbiava il lettore. Una scon-fitta talmente palese da diventare mitica: basti pensare che il primo e più famoso sito sull’usabilità delle applicazioni flash è proprio skip-intro.org. Oggi le cose sono diverse: la progettazione è diventata “social” e il de-sign deve essere web 2.0, che vuol dire colori pastello, caratteri enormi e uso di riflessi e trasparenze. Nuovi protagonisti grafici hanno cominciato ad animare una grande quantità di siti diversi nella logica e nella tipolo-gia di pubblico a cui si ricolgono. Le tagcloud sono diventate i riassunti dei temi dei siti, i plugin di condivisione contribuiscono alla logica virale delle informazioni, le FAQ molto spesso sono sostituite da piccoli wiki, mentre la descrizione del sito può essere un’animazione “embeddata” da youtube. Qual’è il senso di questi cambiamenti? Apertura. Il sito non viene più concepito come un monolite chiuso, una turris eburnea, ma un sistema di funzioni interrelate con scopi molto specifici. Scalabilità. Il sito può crescere senza preavviso e con la necessità di aprire diverse sottosezioni in tempi rapidi: il web designer deve essere consapevole di queste esigenze. Gradevolezza. Il sito deve essere bello da vedere, per catturare l’attenzione anche del navigatore distratto che cercava altro o più prosaicamente per proporre in chiave diversa i famosi criteri di usabilità. Semplicità. Chi cerca le informazioni deve subito capire cosa si trova, dove deve andare e come può arrivarci, senza mappe dei siti e altre brutture simili. Guardiamo con attenzione le parole chiave: apertu-ra, scalabilità, gradevolezza, semplicità. Qual è stata la prima rivoluzione editoriale a proporre questi fattori? È la stampa: con l’invenzione della rilegatura, l’utilizzo dei caratteri mobili per aumentare o diminuire le pa-

Johannes Gutenberg

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matchmaking

soon on line...

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Ultima frontiera,“l’opera di tutti”

«Si avverte la gentile clientela che per i prossimi venti minuti il prezzo dei prodotti “pincopallo” sarà scontato del 20%».

Quanti di voi riconoscono questa voce? Non molti, forse, ma se andate a fare la spesa e state attenti a quello che spendete, allora vi capiterà di aguzzare l’udito per non farvi sfuggire le offerte “one shoot” che sem-pre più supermercati adottano. Anzi, già che ci siete, fate un bel giro tra gli scaffali e osservate con più attenzione il livello di cura dei packaging, i colori, i font, i naming, le posizioni delle diciture obbligatorie. La crema dei designer, art director e copywriter di mezzo mondo passa gran par-te della propria esistenza professionale a rendere i prodotti appetibili, affascinanti: unici nel loro genere.Spesso questi stessi artisti del prodotto impegnano ciò che resta delle proprie giornate a creare qualcosa che non ha niente a che fare col market e si lasciano travolgere da esplorazioni creative che il lavoro di pubblicitari – chiuso nella logica dello scaffale, della vetrina o della

concessionaria – non sempre gli concede.Se ci rapportiamo con il passato, quando non esisteva internet per esempio, o quando aspirare a un lavoro creativo era una pulsione eli-taria di pochi, questo cerchio appena descritto si esauriva nel percorso che c’era tra uno scaffale e una mostra d’arte. Compreso l’apice unifi-cante della pop-art.Ma come sappiamo, internet e la contemporanea democratizzazione dei mezzi di produzione ed esposizione hanno stravolto i destini di mi-lioni di ex-predestinati a essere dei creativi repressi. Oggi tutti possono creare contenuti e tutti possono diventare autorevoli, anche più degli organi che pensavano di esserlo per diritto di nascita. I primi a pagare cara questa rivoluzione sono i giornali. Quanti trovano più interessante un post di Beppe Grillo o di Marco Travaglio piuttosto che un articolo on-line de Il Messaggero? Beh, facendosi due conti sui click, direi molti, moltissimi. Come loro, nell’oceano di informazioni e format che la rete offre, molti altri blogger sottraggono autorevolezza e contatti ai giorna-

I nuovi rapporti tra prodotto, arte e marketing, passando per il web

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di Arnaldli, spesso senza guadagnarci neanche un soldo. Unico premio, il prestigio.Ma che succede se la voglia di partecipazione e creati-vità degli utenti in rete viene volontariamente richiesta dalle aziende? Stiamo parlando degli used generated content, i contenuti generati dagli utenti. Alcuni giornali on-line, per esempio, per ogni articolo non richiedono solo i commenti dei lettori, ma anche fotografie e video: materiale redazionale, certo, ma soprattutto strategia di coinvolgimento e totale identificazione del lettore con il giornale on-line. Ricordate una delle regole fonda-mentali che ci siamo detti in passato? Fate passare ai consumatori più tempo possibile con il vostro prodotto; ovviamente in modo piacevole, memorabile e coinvol-gente. I riflessi di questa politica sono evidenti: oltre a ottenere milioni di visite sulle proprie pagine, diventare uno dei siti “preferiti” da aprire con un click sulla barra degli strumenti e attirare numerosi investitori pronti a pagare per inserire annunci sul sito, si crea un rappor-to unico con il lettore che, se decidesse di comprare un quotidiano cartaceo, sceglierà quello che considera parte integrante della propria vita.Ma gli used generated content non nascono sempre per volontà delle aziende. Come per l’ormai famo-

Ultima frontiera,“l’opera di tutti”

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so caso Mentos/Coke, diventano una strategia aziendale solo quando i brand decidono di cogliere i frutti spontanei e incontenibili della rete. Di tenore diverso è il caso “Nuova Mini”, che ha coinvolto i patiti della nota piccola auto in un’operazione di design del nuovo tettino. Non ultima è la tendenza dei brand a inserirsi nel filone della comunicazione pubblicitaria scavalcando le agenzie e chiedendo la partecipazione degli utenti attra-verso siti come zooppa.com, dove le aziende stesse mettono in gara brief creativi per chiunque voglia cimentarsi con l’advertising.Queste operazioni sono dei chiari tentativi per capitalizzare una tendenza travolgente di questo dinamico e sconclusionato mondo virtuale. Il mondo reale si scopre vecchio e lento, la tv non riesce a ridisegnarsi nonostante i tentativi più coraggiosi che non passano certo per i canali tradizionali, ma per format come qoob.tv, la digital factory costola di MTV Italia, in cui il palinsesto frutto di used generated content rimanda continuamente alle pagine web del canale. Da quelle pagine emergono talenti e professionisti che in un mondo senza mezzi adeguati non avrebbero mai sviluppato contenuti da lanciare nel web, pronti a costruire il loro successo e a fare del proprio nome un “nome”.In fondo l’uomo moderno ha sempre voluto essere parte attiva dei palin-sesti. Ce lo racconta bene la lunga esperienza della “Corrida” e dei suoi dilettanti allo sbaraglio di radiofonica nascita. La differenza sta tutta – e

non è poco – nell’uso del web, nella sua capacità di replicare e perpetua-re l’esperienza, il messaggio, il video: in una parola, l’opera di chiunque.Non c’è dubbio che ormai la società non si divide più tra il prima e dopo internet, ma tra chi è dentro o fuori internet.Pensiamo al mondo dell’istruzione. Si dice che tra insegnanti e alunni ci sia sempre stato un gap generazionale evidente; una forbice che l’arrivo di internet ha allargato in modo smisurato. I nostri programmi, docenti e strumenti (non chiedetemi chi sia il più obsoleto tra i tre) sono così di-stanti dal mondo digitale, dai computer, dall’accesso libero a internet, che la scuola italiana è destinata letteralmente a scomparire. Unica possibilità di salvezza è la riconversione veloce e immediata dei mezzi di insegna-mento e dall’inserimento di personale docente capace di riportare gli studenti nel cerchio della conoscenza.Ma i tempi ci raccontano altro, la ricerca di una via sempre più breve e meno solida a un successo effimero e senza sostanza che morirà con il gossip che l’ha portato all’onore delle cronache, nei social network, sui blog indipendenti e frequentatissimi. Internet ti può regalare la notorietà, ma l’autorevolezza è una cosa che soprattutto in rete si guadagna solo con intelligenza e acume.Per quanto le nuove generazioni, in Italia, facciano un uso immenso della rete, ne costituiscono ancora una parte troppo passiva. Difficilmente you-tube diventa uno strumento serio di espressione artistica o professionale. Ancora più difficilmente i blogger superano la soglia dei dodici mesi di vita attiva e, anche quando lo fanno, propongono format assolutamente noiosi.Questo dimostra come nel nostro paese non si faccia un uso intelligente del web, che in altri posti è invece occasione di emersione professiona-le senza pari e precedenti. Come abbiamo visto in passato per Banksy, la rete può essere usata come sistema circolatorio dove le personalità più brillanti superano di volta in volta se stessi, rendendo retorica ogni

a sinistra, il logo di qoob.tv

“nel nostro paese non si fa un uso intelligente del web”

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loro precedente espressione, costringendo il mondo ad ac-corgersi di loro e a seguirli. Un esempio del genere lo tro-viamo nell’azione degli adbuster. Quanti di voi hanno letto il meraviglioso atto di denuncia del mondo occidentale scritto da Naomi Klein? Sto parlando di No Logo, il libro che ha sco-perchiato pentole bollenti e ancora fumanti di minori sfruttati nelle fabbriche in nome dei consumi occidentali. Ben undici anni prima nasceva la rivista Adbusters, che attraverso la distorsione del linguaggio dei messaggi pubblicitari, ne rivol-tava il significato svelandone agli occhi di tutti i consumatori

“nel nostro paese non si fa un uso intelligente del web”

il lato oscuro e scorretto.Attualmente possiamo parlare di un sabotaggio culturale (Cultural Jam-ming) che si fregia di moltissime forme espressive, dai graffiti al flash mob, dalla promocard al guerriglia marketing.Ci troviamo di fronte a persone che hanno superato in una sola volta una soglia creativa e ideologica che li rende veri e propri modelli da seguire (pensate all’articolo del numero scorso con l’intervista alla Molle Industria, per esempio). Persone hanno disegnato per sé un futuro inim-maginabile nato dalla negazione di quel mercato e di quelle poltrone alle quali hanno sicuramente ambìto e che hanno poi usato come molla per

una creazione di Banksy

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realizzarsi in modo completamente diverso. Ma siamo su un territorio osmotico, perché ormai le aziende stesse si servono di questi metodi per rafforzare il proprio brand, sfruttando la memorabilità e la forza di queste e altre azioni.Torniamo allora a camminare in quel supermercato e ascoltiamo la voce che ci invita a godere dello sconto. Avvicinandoci allo scaffale potremmo fare un incontro sorprendente: il nostro pack, frutto di quel lavoro di cui abbiamo parlato all’inizio, è stato sabotato. Anzi, trasformato. Siamo davanti a un’operazione di “shopdropping” (distorsione di dropship-ping, modello di vendita grazie al quale il venditore vende un prodotto a un utente finale, senza possederlo materialmente nel proprio magaz-zino) e possiamo raccontarla così: degli artisti rubano dagli scaffali una serie di prodotti e, dopo averli coperti con delle loro opere, li riportano al market riposizionandoli sugli scaffali. La parte migliore, però sta nel fatto che gli artisti lasciano libero il codice a barre affinché il prodotto possa essere acquistato. Insomma, se voi non andate all’arte, è lei che viene da voi e in modo assolutamente memorabile.Lo shopdropping compie ormai cinque anni: un’eternità per il web. Ma se da una parte la velocità dei movimenti culturali in rete li rende presto obsoleti, è proprio grazie a questa velocità che oggi gli artisti possono aspirare a un pubblico che in passato non avrebbero mai avuto. Cosa ne sarebbe stato dello shopdropping senza youtube, flickr, i blog, i quo-tidiani on-line e il buzz? Assolutamente niente, se non un curioso feno-meno che difficilmente avrebbe superato la barriera casse. Chi ha fatto queste operazioni lo sa bene e infatti non ha dimenticato di instillare nella rete la propria creazione che non è solo un pack ridisegnato, ma l’unione tra uno scaffale, un barattolo e un determinante click.

esempio di shopdropping

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www.illy.com

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di Lucia Magalotti

A leggere i libri di Donald A. Norman, (La caffettiera del masochista o Il design del futuro) ci si rende conto della progressiva trasformazione dell’ambiente che ci circonda.Oggetti che, stravolgendo il disegno e portando il senso estetico nel territorio della funzionalità – senza alcuna rinuncia all’armonia, all’er-gonomia, alla semplicità e alla bellezza – fondano dei comportamenti; perché, va ricordato, il consumo è un comportamento (oggi sempre più

compulsivo) che ha il suo motore nella componente simbolica e di aspi-razione che quell’oggetto rappresenta rispetto all’affermare se stessi nel contesto sociale. “Dottrinetta”, accadamia, parole trite e ritrite che potete trovare in qualsiasi manuale sospeso tra sociologia e design, ma quel che invece é importante notare è come alcuni oggetti siano il risultato di comportamenti in nuce, di attitudini che, come per magia, cominciano a premere, a spingere fino a imporne una forma oggettuale

un particolare del sito www.criticalcity.org“Progetti di ridisegno dello spazio urbano”

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e concreta. Cucine che decidono di cucinare, frigoriferi che scelgono cosa dobbiamo mangiare, navigatori che “tarano” i luoghi dove dob-biamo andare e come arrivarci... Insomma, il mondo del design oggi ci rende la vita più facile nella stessa misura in cui ci priva di esperienze ed esplorazioni un tempo necessarie per acquisire piena consapevolezza di se stessi in quanto esseri umani.Eppure è un dato di fatto che alcuni strumenti hanno il pregio di creare dei bisogni e di proporre soluzioni che culminano esse stesse con nuovi comportamenti prima impensabili. L’esempio su tutti è quello dei social network, anche se quel che balza all’attenzione è piuttosto ciò che sta accadendo fuori dalla rete. Non è importante cosa sia stato fondato all’interno del web, ma ciò che ne consegue nella pratica di tutti i giorni: persone che si incontrano e decidono di fare gruppo, persone che si ritrovano dopo molto tempo e magari propongono un revival, eventi in continua disseminazione che diventano spazi di condivisione e di rela-zione sociale. Ecco, in questa strategia della comunicazione possibile sta la nuova riconfigurazione del mondo. Così, a partire da questa sorta di scenario in movimento, non stupisce che escano in continuazione nuove idee, progetti, strumenti sofisticati. i social network diventano piattaforme che si interconnettono a mappe urbane, che “taggano” profili personali con tanto di pagine dedicate e missioni da condividere, come in un videogame. È il caso di Critical City, www.criticalcity.it, bellissi-mo progetto di social net urbano premiato al TechGarage come miglior progetto innovativo. Una piattaforma concepita come un tavolo da gioco per giocatori che utilizzano la città per sfidarsi tra missioni e gare colla-borative creative: design urbano, fotoromanzi, scritture, teatro e video-racconto: insomma, il gioco di ruolo esteso alla vita reale. Ogni missione può essere caricata e documentata con file, immagini, video, ecc.Ci piacerebbe sapere cosa ne pensate e se avete idee di gioco da pro-porre. Scriveteci all’indirizzo [email protected]

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Riccò del Golfo è un paese di tremilatrecento anime che da nord guarda La Spezia, rimanendo a pochi chilometri dagli scenari incantati delle Cinque Terre. Città di mare, fatte di porti, turisti e pescatori. Non lo im-magineresti, ma questo lembo estremo di Liguria custodisce un’azienda che è uno dei gioielli italiani del design per i luoghi del ristoro e dell’ac-coglienza: Costa Group, fondata nei ruggenti anni Ottanta da Franco e Sandro Costa, che oggi ha all’attivo oltre cinquemila realizzazioni nel

a cura di Silvia Galli

La filosofia dell’arredamento di Costa Group raccontata dal fondatore Franco Costa

mondo. Un successo che nasce senza dubbio dalla qualità di un sapere artigianale sposato all’estetica, ma anche alla funzionalità e al comfort.

Intervistare Franco Costa, il fondatore, è un’esperienza di scambio intel-lettuale propositivo e sincero.

Franco, parlaci di Costa Group. Chi è e di cosa si occupa?In teoria, Costa Group è un’azienda che si occupa di arredamento per negozi. In realtà, negli ultimi anni ci siamo specializzati nella realizza-zione di prototipi e modelli per il food, che vengono messi sul mercato sia per lo sviluppo progettuale che per la costruzione degli stessi com-ponenti d’arredo.

Dunque, progettisti e costruttori insieme.Costa Group è soprattutto un costruttore, ma negli anni è nata l’esi-genza di accorciare la filiera rendendo più agili alcuni passaggi e inte-grando in azienda la fase progettuale. Grazie all’esperienza accumulata con la realizzazione di oltre venti locali al mese, ormai possiamo dire di conoscere il cliente ed essere capaci di realizzare idee su misura. A volte, ci rivolgiamo anche ad architetti e designer esterni, ma siamo noi

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ad ascoltare il cliente e a raccoglierne le esigenze. Insomma, potremmo definirci dei “miscelatori” tra il cliente, i nostri forni-tori e il prodotto finale.

Il retail design sta sviluppando nuovi linguaggi di co-municazione commerciale. Come si sta evolvendo la ricerca di Costa Group?Io credo fermamente che l’arredamento sia come un maggior-domo: se si vede, non funziona. Il retail design deve avere al centro la valorizzazione del prodotto, deve essere solo un contenitore, magari realizzato con materiali naturali.

Quanto è importante il coinvolgimento del consuma-tore nei vostri progetti?Moltissimo. È il consumatore che decide il successo del proget-to nel tempo, ed è fondamentale farlo sentire a casa per avere un giudizio positivo sul nostro lavoro.

Philiph Koetler ha detto in un celebre articolo che il design non è solo questione di forma, ma anche di strategia. Come si sviluppa l’iter progettuale di un luogo del consumo?Noi non abbiamo un iter progettuale prestabilito, non esiste più una via unica nel progetto. La discriminante è la sensibilità: è necessario andare e respirare l’aria del luogo, capire chi lo fre-quenta, individuarne la personalità. I gesti dell’uomo durante il rito del cibo sono sempre gli stessi: ciò che cambia è la cultura, la storia, e, pur amando molto la contaminazione, non possiamo non tenerne conto. Oggi non funziona più l’imposizione di un modello nel lavoro quotidiano, non funziona più l’oggetto di culto a tutti i costi, anche se il genio esiste e va rispettato come tale.“l

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à” Sfogliando l’album dei vostri progetti, ho avuto la sensazio-ne che il vostro approccio al design non sia tanto votato a un modello, quanto alla realizzazione di prodotti che possano incidere sui comportamenti quotidiani, rendendo migliore la vita del consumatore. Cosa ne pensa?È fondamentale facilitare i gesti quotidiani: l’arredamento non deve essere invasivo, ma estremamente semplice. Quando i miei clienti mi chiedono un banco, io propongo un semplice tavolo. Il segreto è l’os-servazione della normalità: il modo migliore per esporre i prodotti è quello che ognuno di noi, con naturalezza, adotterebbe per la propria casa. La priorità del prodotto è quel valore aggiunto che fa sentire il consumatore come a casa.

immagine tratta dal sito www.costagroup.it

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Parliamo di materiali: riscoperta dei classici, ricerca tecnologica o contami-nazione?Costa Group ha una conoscenza vastissima dei materiali, e fa molta ricerca in merito, ma la scelta di quello giusto è una “questione di cuore”. Costa Group utilizza soprattutto ma-teriali naturali: camminare su un pavimento di legno consumato, vedere un salume su un piano di marmo bianco, sono per noi espe-rienze appaganti. Naturalmente, ci sono an-che situazioni che ci suggeriscono esperienze differenti, in cui si scelgono resine, cerami-che, vetroresine, ma non mi stancherò mai di ripetere che i materiali naturali invecchiano meglio. E fanno invecchiare meglio!

Costa Group lavora per i luoghi del ri-storo e dell’accoglienza: bar, pizzerie, panetterie, ristoranti, pasticcerie... Cosa significa coniugare il retail design con il settore enogastronomico in un paese che, come l’Italia, fa del cibo un vero e proprio culto?In Italia il nostro lavoro è molto più facile! L’Italia è piena di storie legate al cibo, basta spostarsi di pochi chilometri per scoprire universi com-pletamente differenti. In Italia la cucina è arte, è cultura, e questo ci avvantaggia nella proget-tazione, ci porta sempre moltissimi spunti.

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Siamo reduci da un recentissimo Salone del Mobile. Ci fai un bilancio del mercato in questo momento?Naturalmente, anche Costa Group era presente al Salone. La mia sen-sazione è che ci siano delle belle idee, ma è necessario virare verso una dimensione “povera”. Cos’è il lusso? In fondo, ognuno lo interpreta a proprio modo. I fatti però dicono che oggi non si ostenta più, e che il pubblico chiede soprattutto sobrietà. Il mondo del mobile vive di con-tinue proposte e cambi di rotta, e su questo aspetto le grandi aziende spesso soffrono, perché non hanno la giusta elasticità. Oggi è davvero difficile fare numeri, vendere molto e in tutto il mondo, ma è importante fare ricerca e continuare a perseguire il bene del consumatore attra-verso il mobile.

Quali sono le prospettive del mercato retail in questo mo-mento di forte recessione? Come ha reagito Costa Group alla crisi?Nel settore del retail la crisi si è certamente sentita. Per Costa Group in-vece c’è stato addirittura un incremento di fatturato pari al 15%, grazie al nostro grande lavoro di ricerca e al servizio che offriamo al cliente. Oggi non si investe più alla cieca, si cerca la qualità: è vero, sono dimi-nuiti i budget, ma è una condizione con cui si può convivere, ad esempio lavorando sui materiali poveri. In fondo, la crisi è un’occasione unica, un’opportunità per stimolare ricerca e creatività.

Mi racconti la genesi di un vostro progetto a cui siete partico-larmente affezionati?Tutti i progetti sono a loro modo particolari, entusiasmanti; potrei citare l’ultimo chiuso ieri come qualsiasi altro… Anzi, voglio parlare di un

progetto che ha ormai vent’anni: la Cantinetta dei Verrazzano a Firen-ze, ancora impeccabile come il primo giorno. Sono bravissimi, il prodotto vince su tutto e c’è ancora l’atmosfera di allora. Ci sono particolarmente affezionato perché ricordo quel locale come una partenza, e lo vivo così ancora oggi.

immagine tratta dal sito www.costagroup.it

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“Per molti versi la professione del critico è facile: rischiamo molto poco pur approfittando del grande potere che abbiamo su coloro che sottopongono il proprio lavoro al nosto giudizio. Prosperiamo grazie alle recensioni negative, che sono uno spasso da scrivere e da leggere, ma la triste realtà a cui ci dobbiamo rassegnare è che nel grande disegno delle cose anche l’opera più mediocre ha molta più anima del nostro giudizio che la definisce tale. Ma ci sono occasioni in cui un critico qualcosa rischia davvero: ad esempio nello scoprire e difendere il nuovo. Il mondo è spesso avverso ai nuovi talenti e alle nuove creazioni, al nuovo servono sostenitori”.

Antoine Ego

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“Per molti versi la professione del critico è facile: rischiamo molto poco pur approfittando del grande potere che abbiamo su coloro che sottopongono il proprio lavoro al nosto giudizio. Prosperiamo grazie alle recensioni negative, che sono uno spasso da scrivere e da leggere, ma la triste realtà a cui ci dobbiamo rassegnare è che nel grande disegno delle cose anche l’opera più mediocre ha molta più anima del nostro giudizio che la definisce tale. Ma ci sono occasioni in cui un critico qualcosa rischia davvero: ad esempio nello scoprire e difendere il nuovo. Il mondo è spesso avverso ai nuovi talenti e alle nuove creazioni, al nuovo servono sostenitori”.

Antoine Ego

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Ciao Francesco, bentrovato. La prima e scontata domanda fa riferimento alla genesi di Future Con-cept Lab. Ce la puoi raccontare?FCL nasce nel 1988 da un gruppo di sociologi con espe-rienze di marketing e decide da subito di essere un luogo-laboratorio dedicato all’innovazione. Va considerato che nel 1988 l’intuizione di creare un luogo in grado di diventare punto di riferimento dell’analisi di scenario non era affatto scontata. Già dal 1992 il FCL si trasforma in un network di corrispondenti nelle cinque principali città del mondo (Tokyo, Parigi, Milano, New York, Londra), fino ad arrivare a oggi, con un numero di quaranta città coperte da cin-quanta corrispondenti che lavorano per approfondire vari

aspetti della cultura locale. Questi sociologi provenivano da vari istituti di ricerca, come il GPF & Associati di Fabris, che già all’inizio degli anni Ottanta avevano inaugurato sistemi di segmentazione del mercato. L’idea è stata quella di in-tegrare tradizionali tecniche multiclient, focus group, ecc., con un approccio etnoantropologico. L’antropologia spiega molto di un’identità locale; la capacità di individuare, poi, aspetti di reciprocità vari tra tendenze e comportamenti, corrispondenze culturali tra diverse città – grazie anche ad attività di confronto e benchmarking – permette di portare a convergenza il locale con il globale. Questa operazione consente, inoltre, di mettere a fuoco il carattere veramente peculiare e forte di una cultura, il cosiddetto “genius loci”.fu

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Francesco Morace, sociologo, scrittore e giornalista, lavora da oltre vent’ anni nell’ambito della ricerca sociale e di mercato, ed è il Presidente di Future Concept Lab, l’istituto di ricerca e consulenza strategica che si distingue nel panorama internazionale come uno dei centri più avanzati nel mondo della ricerca di marketing e nell’elaborazione e previsione di tendenze di consumo. Tiene inoltre conferenze, corsi e seminari in numerosi Paesi del mondo. Siamo feli-ci di incontrarlo, conoscere il suo punto di vista a proposito del tema del re-design ci sembra davvero fondamentale.

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La vita dell’uomo moderno (anzi, sareb-be giusto dire “contemporaneo”) è fra-stornante. La sensazione è che non si ab-bia abbastanza tempo per metabolizzare tutti gli stimoli che ci circondano. A cosa serve esattamente conoscere uno scena-rio del mondo attorno?Il vantaggio dell’analisi di scenario è conoscere il contesto avendo la possibilità di un quadro am-pio, come possono consentire solo le scienze so-ciali. Dal punto di vista di un’azienda, questi dati permettono di focalizzare le tendenze, metterne a fuoco la durata (quadro generale), e stabilire se potranno avere o no un’incidenza. Insomma, una sorta di ricerca di base che permette di pia-nificare strategie e investimenti più verticalizzati, una matrice su cui calare temi e problematiche particolari, frutto delle esigenze delle aziende e in grado di dar vita a ricerche ad hoc.

Orientamento, comprensione dei feno-meni, conoscenza, crescita. La capacità di intuire ciò che lega un pattern com-portamentale alla trasformazione dei valori culturali e dei codici linguistici è diventata di fondamentale importanza per la maggior parte delle imprese. Si parla di coolhunting, si parla di cultural research. In che modo questi dati ven-gono rielaborati dalle imprese e come diventano concept per nuove idee?Ma, vedi... il coolhunting è solo la punta di un iceberg. È un’attitudine all’osservazione dei fenomeni che produce materiali freschi che andrebbero poi collocati in un quadro gene-rale. È un po’ come nella differenza tra novità e innovazione. Il nuovo è un fenomeno spot, è un qualcosa di immediatamente deperibile e fragile; l’innovazione è un processo lungo, fat-

to di strategie che dal singolo dato inaugurano una storia che cresce e dà risultati in un’ampia prospettiva. Per vedere, ci vuole lungimiranza. I dati provenienti dal coolhunting diventano territori di stimolo per realizzare workshop, brainstorming, momenti creativi, un lavoro for-te che si traduce nella creazione di laboratori creativi in grado di inaugurare, esplorare nuovi concetti.

Future Concept Lab produce un gran quantitativo di materiali: studi, catalo-ghi, progetti. Quali sono le attività por-tanti e come è organizzata la rete dei ricercatori consum-autori?Concretamente, creiamo una sorta di collabo-razione di base per garantirci l’attività di os-servazione dei nostri corrispondenti. In alcuni casi, come nei paesi forti emergenti (Brasile

a cura di Davide Pellegriniintervista a Francesco Morace

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India, Cina), abbiamo molto corrispondenti che analizzano stili e tenden-ze. Quando ci arrivano richieste specifiche, solo allora coinvolgiamo i cor-rispondenti in workshop aperti ai nostri clienti. Molti dei nostri corrispon-denti vengono da fuori, così è un’occasione per vederci e consolidare la rete. Insomma, sono anche momenti di incontro veri e propri.

La fiducia delle persone messa a dura prova dal tramonto di un sistema ormai inadeguato, le nuove idee che negli ecosistemi partecipativi aperti dalla cultura del 2.0 cominciano a preme-re, e Future Concept Lab che propone (bellissimo progetto) una sorta di Nuovo Rinscimento. È davvero possibile un nuovo mondo frutto dell’incontro tra scienziati, artisti e designer? In che consiste il Nuovo Rinascimento e che ruolo potrebbero avere le imprese?Beh, il Nuovo Rinascimento è, innanzi tutto, un’associazione senza fini di lucro. Lo scopo è il far incontrare discipline e persone, provenienti da specialità diverse, per far sì che si possano misurare rispetto al territorio, alle sue ricchezze, alla sua tradizione, alle diverse culture da cui è com-posto, e portarle a un grado molto alto di Utopia, una visione elevata del possibile futuro del mondo.

Studiando il vostro lavoro, ho visto che dedicate molto tem-po al dialogo con le persone. Sono stato colpito, ad esempio, dall’intelligenza del vostro approccio rispetto ai workshop for-mativi, momenti di gioco di ruolo in cui l’utente-partecipante si riappropria della sua facoltà di giudicare tendenze, stili, prodotti e servizi. Ammesso che la sociologia sia materia che si studia, strategic planner si diventa?Credo che su questo tema ci sia molta confusione. Direi prima di tutto che il coolhunting non è una professione, ma una professionalità, una sorta

di vocazione che strumentalmente è funzionale a esercitare il proprio mestiere, che è quello di designer, manager, ecc. Per molti che esercitano tale vocazione, si tratta più di una sorta di auto-formazione, che li porta a far bene meglio quello che già fanno. I nostri corrispondenti di fatto hanno altri lavori...

Steve Jobs in un suo intervento (mirabile esempio di storytel-ling) ha dato la sua formula per realizzare i sogni, «stay hun-gry, stay foolish». Che consigli daresti a quanti si affacciano al mondo della tua professione?Un consiglio solo: tornare agli exempla latini. Seneca sosteneva che tutto è da guadagnare, nulla è garantito e sicuro. Bisogna lavorare con passio-ne e fatica. Il resto, lo dirà il tempo.

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«Per un po’ si mise a guardare la casa, e non sapeva che fare, quando ecco un valletto in livrea uscire in corsa dalla foresta... (lo prese per un valletto perché era in livrea, al-trimenti dal viso lo avrebbe creduto un pesce), e picchiare energicamente all’uscio con le nocche delle dita. La porta fu aperta da un altro valletto in livrea, con una faccia rotonda e degli occhi grossi, come un ranocchio; ed Alice osservò che entrambi portavano delle parrucche inanellate e incipriate. Le venne la curiosità di sapere di che si trattasse, e uscì cauta-mente dal cantuccio della foresta, e si mise ad origliare».(Lewis Carroll, Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie )

È il 13 novembre 2007, una fredda serata milanese apparentemen-te uguale a tante altre, se non fosse per quella folla, composta da millecinquecento persone, che alle diciannove inizia a radunarsi da-vanti alla magica cornice del Teatro alla Scala. L’occasione è speciale, perché si festeggia il centenario di un’azienda che ha fatto la storia dell’editoria e della cultura in Italia: la Mondadori. Sfilano tutti i princi-pali esponenti del mondo sociale, politico, imprenditoriale e culturale italiano, ma anche il gotha dell’editoria e del jet set, per assistere a un esclusivo concerto eseguito dalla Filarmonica e dal Coro della Scala in una sala scintillante di rosso e oro, dopo l’eccezionale restauro conservativo della veneziana Elisabetta Fabbri. Chi è il fautore di un

un secolo di cultura in italia

a cura di Silvia Galli

Il centenario Mondadori firmato da DPR eventi

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evento tanto esclusivo? Naturalmente, DPR Eventi, Best Event Agency ai premi BEA 2008, con oltre vent’anni di attività alle spalle magistralmente orchestrati da un grande saggio degli eventi, Gianluca Prina. Questo evento celebra la Mondadori e la storia del Novecento trasformando il cuore della “milanesi-tà” in un palcoscenico sorprendente: accade così che dopo il concerto, gli inviati attraversino piazza delle Scala per entrare in una Galleria Vittorio Emanuele allestita da gran soirée, con tappeti rossi e oltre cento camerieri in livrea pronti a offrire un aperitivo indimenticabile agli ospiti. Improvvisamente, le pareti della Galleria si animano: inizia la proiezione – alta ben nove metri – del filmato Passeggiata nel Novecento, che ripercorre i più importanti eventi della storia italiana e della storia della Mondadori, attraverso un’accuratissima ricerca iconografica. È un vero e proprio viaggio nella memoria, che rende la Gal-leria affascinate e magica come non mai, attraverso un’espe-rienza visiva che la trasforma per una sera in un teatro. Ma le sorprese non sono terminate. Intorno alle ventidue e quaranta gli ospiti si dirigono verso Palazzo Reale, tempio della cultura milanese, per una cena prestigiosa che trova nell’arte il culmine della sua esclusività: sarà infatti un’occa-sione unica per cenare circondati dalle opere d’arte esposte nelle sale del palazzo, dalle grandi fotografie di David La Cha-pelle ai virtuosistici abiti di Vivienne Westwood.

Arte, cultura, storia, musica, lusso: senza dubbio, il Centenario Mondadori resterà un evento memorabile per tutti colori che avranno avuto il piacere e l’onore di parteciparvi.

un momento del Centenario Mondadori

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abbiamo scelto il progetto

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a cura di Stefano Rollo

C’è crisi. È un dato di fatto. E inevitabilmente siamo portati a ridisegnare il nostro modo di vivere: sempre più si parla di innovazione, low cost, responsabilità sociale. Eppure negli ultimi mesi è esploso un nuovo fenomeno nel mondo della comunicazione: lo Storytelling aziendale.

È difficile dire se vi sia un nesso tra questi fat-tori, sintomo di una sensibilità che muta, o se la riscoperta dell’efficacia narrativa sia solo

una coincidenza. Di certo, si sono moltiplica-te le pubblicazioni in materia, le citazioni e le conversazioni crescono sulla rete, mentre mol-ti studiosi stanno conoscendo un’improvvisa fama. Noi ne parliamo con Andrea Fontana, affermato consulente aziendale e docente uni-versitario che di Storytelling si occupa da circa dodici anni.

Negli ultimi mesi si è acceso un forte in-teresse verso lo Storytelling aziendale. Tu che studi questa disciplina da tempi non sospetti, come ti spieghi l’improv-visa attenzione verso il racconto, nel contesto attuale?Stavo aspettando che accadesse. Ormai viviamo in un contesto sociale, relazionale, organizzati-vo, dove tutto è narrazione. Per posizionare un brand devo raccontare una storia. Per costruire

e vendere un prodotto devo raccontare e rac-cogliere le storie di esperienza d’uso dei clien-ti. Per convincere gli amici ad andare al cinema devi raccontare storie. Non acquistiamo più gli oggetti (tangibili o intangibili) per il loro valore d’uso o di scambio, ma soprattutto per il loro valore simbolico e questo è ancora più vero in tempo di crisi, dove c’è bisogno di trovare un nuovo significato nelle cose della vita o del lavo-ro. Così, tutti sono impegnati a trovare un nuovo racconto (di business, di prodotto, di carriera, di brand) per parlare di sé e farsi ricordare.

Chi sono le persone che richiedono la tua consulenza? Quali le esigenze e le loro reazioni?Sono aziende che devono comunicare in ma-niera più efficace con i loro pubblici interni e/o esterni. Per i pubblici interni, lo storytel-ling serve a veicalare meglio storia e identità

potere alla parola Intervista ad Andrea Fontana

“In tempo di crisi, oltre al tema dell’innovazione, esplode un nuovo fenomeno: lo Storytelling aziendale. La ricostruzione del futuro passa attraverso la narrazione?”

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d’impresa che, soprattutto quando le cose cambiano, viene messa in discussione. Per i pubblici esterni, lo storytelling serve per descrivere i prodotti e posizionare meglio la reputazione del brand (che deriva da come i pubblici stessi percepiscono la storia di un’impresa).Oggi, poi, sono anche individui che pensano a come raccontarsi in modo innovativo e diverso, in attività di carrer counselling in cui è necessario pensare e formulare un nuovo allineamento discorsivo tra la storia e i valori di una organizzazione e la mia storia e i miei valori.

In cosa consiste esattamente lo Storytelling per le aziende e quali sono i suoi fondamen-ti?Lo storytelling oggi è insieme una disciplina scien-tifica e un metodo. Personalmente ho avuto modo di istituzionalizzare all’Università di Pavia questa materia, “Storytelling e Narrazione d’Impresa”. In quanto disciplina, lo storytelling può essere ap-plicato a qualsiasi contesto di lavoro e non solo all’azienda, anche all’individuo. Per quanto riguarda il “corporate storytelling”, cioè la narrazione appli-cata al mondo aziendale, ne parlo diffusamente nel primo manuale europeo che ho scritto con ETAS – Manuale di Storytelling. In quel testo ho cercato di condensare studi più o meno recenti di narrazione d’impresa applicata a sei grandi aree: i principi strategici, il brand ma-nagement e l’advertising, la comunicazione interna, la comunicazione esterna, la formazione, il product design.I fondamenti dello storytelling? Molto solidi. Si va da Omero fino alle moderne teorie di “screenwriting” elaborate dagli sceneggiatori ameri-

cani (che sono i più avanzati in questo tipo di riflessioni), passando per Aristotele, la semiotica contemporanea e le scienze del linguaggio.

Le storie hanno sempre un “senso”, una direzione a cui ten-dere, uno scopo più o meno nascosto. Le storie di cui ti occupi tu, quale “fine” si pongono?Se sono narrazioni interne, e quindi un set di storie pensate per i pub-blici interni, servono tendenzialmente per gestire il cambiamento conti-

nuo e generare una cultura condivisa. In tempo di crisi servono anche per motivare e gestire la depressione psicologica derivante dai continui crash del mercato. Se sono narrazioni che parlano ai clienti esterni, in-vece, servono per essere riconosciuti e ricordati. Per generare un’alta memorabilità e un riconoscimento au-tobiografico tra la mia storia di vita come cliente e la storia d’impresa con la storia dei prodotti.

In questo numero di EventMag parliamo di re/design: il racconto è ricostruzione di fatti acca-duti o ridefinizione di una possibile identità?Entrambe le cose, direi. Il racconto è un costrutto. È un oggetto retorico e discorsivo che serve certi fini strategici. Per cui a volte può essere re-design di fat-ti accaduti per comprenderli meglio e elaborarli con maggior consapevolezza. Altre volte, può essere re-

design di una identità individuale o aziendale.

Quali sono i plus dello Storytelling in ambito professionale? E, parlando di numeri, esiste un ROI (“return on investment”) dello Storytelling?I plus sono molti. Si va dall’innalzamento del sentimento di appartenen-

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za interna a una azienda fino a ottenere l’au-mento delle capacità commerciali dell’azienda stessa. Si possono avere ricadute enormi sulla revisione dell’immagine e della reputazione di un’impresa, sino ad arrivare alla ridefinizione dell’esperienza d’uso dei prodotti nella loro progettazione (nel momento in cui raccolgo le narrazioni d’uso dei prodotti che faccio). Un ROI esiste, ma dipende dall’obiettivo strategico di partenza. Esistono vari strumenti (dal banale questionario alle analisi semantiche dei brand, dal facile focus group alla mistery analysis), ma quello che conta è l’obiettivo iniziale. Un conto è misurare quanti pezzi in più ho venduto dopo aver rivisto i miei discorsi e le mie narrazioni commerciali; altro è misurare il senso di iden-tità ritrovata dopo aver riprogrammato narra-tivamente la mia identità attraverso i canali della comunicazione interna.

Quale di questi aspetti ti interessa di più: l’efficacia persuasiva di un mes-saggio o la possibilità di trasformare le storie d’azienda in sapere condiviso?Sia l’uno che l’altro. Ma forse quello che più con-ta oggi è raggiungere una supremazia narrativa nell’immaginario dei pubblici, interni o esterni che siano. Vale a dire modificare il modo di pen-sare di un mio target per appassionarlo e quindi spingerlo ad attuare comportamenti diversi.

Viviamo nell’era della comunicazione digitale e del web 2.0. Tu cosa voti, il buon vecchio racconto lineare o le con-versazioni informali nella rete?Io voto la strategia. Se analizzando un interlo-cutore mi accorgo che la mia strategia di nar-razione deve passare per la carta, costruirò l’oggetto cartaceo adatto. Se mi rendo conto che è necessario farlo passare per il web, allora progetterò la giusta tecnicalità digitale. Se d’al-tra parte mi rendo conto che tutto deve con-vogliare nella relazione, allora definirò il giusto discorso narrativo da pronunciare di fronte ai miei pubblici (alla macchinetta del caffè uno a uno, fino alla grande convention). Magari poi la strategia vuole un mix di carta, relazione e web…

E adesso, ci racconti una storia? Mi rife-risco ovviamente una tua Case history!Putroppo i mie clienti sono un po’ gelosi dei loro segreti. Diciamo che uno degli ultimi lavo-ri di narrazione l’ho realizzato per un grande gruppo nel settore alimentare. Questo gruppo – una holding formata da una decina di azien-de – voleva comunicare meglio con un certo target di clienti esterni, con una parte di dipen-denti (commerciali) da rimotivare e generare anche un nuovo senso di identità molteplice (visto le diverse anime aziendali interne). Con

loro ho analizzato lo scenario narrativo in cui erano immerse le diverse audience. Ho identi-ficato quale nuovo set di narrazioni – coeren-ti con gli obiettivi strategici e le audiance – si volevano raccontare e poi abbiamo realizzato un oggetto narrativo cartaceo. Una specie di “scrigno magico” in cui sono state elaborate e costruite – con il giusto design grafico-se-mantico – un set di cartoline (promocard), che sul fronte raccontavano la meta-storia della holding (che non l’aveva) e sul retro raccon-tava la micro-biorgrafia della singola azienda appartenente al gruppo con un suo specifico prodotto di punta. Insomma, una specie di ca-talogo narrativo e autobiografico che mi ha dato grandi soddisfazioni.

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Donald A. Norman, ll Design del futuroApogeo, 2009

La nostra vita è quotidianamente condizionata o, meglio, regolata dall’uso di oggetti di tutti i tipi. È incredibile, ma ha come sua caratteristica una punteggiatura di emozioni legate a oggetti ai quali corrispondono ricordi ben precisi.La prima volta che la musica divenne portatile, con il walkman; il pri-mo telefonino che reclamava la tolleranza estetica dell’utente in cam-bio dell’esaltazione di una funzione rivoluzionaria, che avrebbe, di fatto, cambiato per sempre il comportamento delle relazioni.Questo libro, però, non è una cronistoria ragionata del prodotto che cambia il mondo, ma l’idea di tornare alla vera vocazione del design: la progettazione.D. A. Norman, che aveva già aperto l’argomento con il precedente La Caffettiera del Masochista, commenta il ruolo complesso del designer come una professione trasversale, volta alla risoluzione di problemi complessi, dove l’artigianalità della speculazione estetico-decorativa è solo una parte (e non la principale), sempre più soppiantata dalla con-vergenza di competenze tecniche, manageriali, industriali, di comunica-zione e marketing.Il designer sposa l’idea della funzione con la decorazione, lo studio delle tendenze e degli stili con i comportamenti di consumo, la progettazione con la conoscenza delle meccaniche industriali e di produzione, con i materiali, con l’economicità, la leggerezza, l’ergonomia dell’oggetto fi-nito.In questo quadro, Norman non tralascia di ammonirci su quello che po-trebbero divenire gli oggetti del futuro, con le esagerazioni dei prodotti eccessivamente pensanti e autonomi rispetto alla centralità dell’indivi-duo-consumatore. Macchine bisbetiche, incontrollabili, in grado di so-stituirci persino nelle decisioni. Un bel libro davvero, ottimo testo sul design, ma che tratta anche aspetti di economia aziendale, sociologia, ergonomia, ingegneria, cibernetica…

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Alexandre Orion, Brasile

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