Europae - Mensile numero 1 - Aprile 2013

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© Europae - Rivista di Affari Europei L’UNIONE EUROPEA E LA NUOVA CORSA ALL’ AFRICA N.1 - APRILE 2013 Nuovi attori nello scenario africano L’approccio commerciale dell’UE La Primavera Araba apre il Nord Africa L’Europa interviene in Africa

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Monthly magazine by Europae. In this issue the main topic is Africa and the relationship with Europae.

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L’UNIONE EUROPEA E LA NUOVA CORSA ALL’ AFRICA

N.1 - APRILE 2013

Nuovi attori nello scenario africano

L’approccio commerciale dell’UE

La Primavera Araba apre il Nord Africa

L’Europa interviene in Africa

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Aprile 2013, Numero 1 © Europae - Rivista di Affari Europei, www.rivistaeuropae.eu “L’Unione Europea e la nuova corsa all’Africa” A cura di Luca Barana e Davide D’Urso Copertina di Luigi Porceddu Direttore: Antonio Scarazzini Caporedattore: Davide D’Urso Responsabili di redazione: Luca Barana, Riccardo Barbotti, Simone Belladonna, Fabio Cassanelli, Valentina Ferrara, Shannon Little, Tullia Penna. Contributi di: Stefania Bonacini, Sara Bottin, Alice Condello, , Gianluca Farsetti, Enrico Iaco-vizzi, Giuseppe Lettieri.

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INDICE

Editoriale 4

Antonio Scarazzini

Eredità del passato e nuove prospettive della politica europea per l’Africa 6 Luca Barana Il secolo africano? Le prospettive economiche del vecchissimo continente 10

Fabio Cassanelli Primavera Araba: il fallimento strategico dell’Unione Europea in Nord Africa 13

Davide D’Urso

Shuttle diplomacy e “democrazia radicata”. La nuova PEV e la relazione con l’Egitto 17 Sara Bottin

Realtà e promesse: Unione Europea e Tunisia a due anni dalla rivoluzione 21

Stefania Bonacini

Gli Accordi di Partenariato Economico e la politica commerciale dell’UE in Africa 24 Shannon Little

L’Unione Europea negli occhi dell’Africa 27

Alice Condello

L’ambiguità dell’intervento europeo in Mali: Unione Europea e Francia a confronto 30

Giuseppe Lettieri e Gianluca Farsetti

Learning by doing nel Corno d’Africa: la PSCD e il comprehensive approach europeo 33

Enrico Iacovizzi

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EDITORIALE

P arlare di “corsa all'Africa” senza risvegliare gli spettri del colonialismo e della gara per l'accaparramento di terre e risorse da parte delle maggiori potenze europee, è impresa ardua. D'altra parte, il continente africano con-tinua a rappresentare il teatro più prossimo in cui l'Europa, sia essa quella

frammentata di regni e imperi dei secoli scorsi o quella unita nell’Unione Europea (UE) di oggi, ha manifestato e manifesta la sua natura di attore internazionale. Il vasto dibattito sulla definizione dell'identità internazionale dell’UE ha messo l'ac-cento sulla multidimensionalità degli approcci che essa ha saputo mettere in atto nella sua azione esterna. L'Africa, prima ancora che l'Europa orientale post-sovietica, ha costituito il banco di prova per la definizione della politica estera strut-turale, una forma di proiezione esterna che unisce lo strumento diplomatico a quel-lo economico-commerciale. Si è trattato, comunque, di un approccio fortemente sbi-lanciato sulla politica commerciale, speculare rispetto alla natura di una Comunità Europea che, proprio nel commercio, deteneva il suo miglior strumento d'azione al netto di una politica estera che, ancora tra gli anni Sessanta e Ottanta del secolo scorso, risultava rigidamente nazionale e influenzata dal bipolarismo della Guerra Fredda. L'avvento, da Maastricht in poi, di una politica estera comune arricchita an-che da strumenti di politica di difesa, ha ampliato l'atteggiamento dell'UE nei con-fronti dell'Africa, promuovendo quello che oggi è definibile come approccio olisti-co, capace di unire strumenti civili e militari, di soft e hard power, per rispondere alle diverse sfide, economiche o di sicurezza, che emergono nel continente africano. Tale evoluzione, che avrebbe dovuto fornire una maggior organicità all'azione euro-pea, non è riuscita a sanarne le grandi contraddizioni. L'enfasi, eccessiva, posta sugli accordi commerciali ha spesso ignorato l'incapacità dei singoli Stati africani di adeguare i propri sistemi economici alla competizione internazionale. La stessa logi-ca di condizionalità applicata alla concessione di alcuni benefits ha contribuito a fare dell’UE un partner molto esigente e, per molti, particolarmente incline ad impartire lezioni dal tono vagamente paternalistico. I toni dimessi che la diplomazia di Bruxelles ha tenuto nelle prime fasi della Prima-vera Araba nel Nord Africa hanno reso palese la subalternità della politica estera comune agli interessi nazionali. Per non parlare dell'approccio strategico che, al-

Antonio Scarazzini

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meno sino all'esplosione delle rivoluzioni dalla Tunisia all'Egitto, ha ritenuto possi-bile far convivere la stabilità garantita dalla generazione dei Ben Ali, Gheddafi e Mu-barak con un retorico e sostegno al processo di democratizzazione e promozione dei diritti umani. L'assenza di una visione strategica indipendente dalle influenze nazionali è stata solo in parte compensata dalla rinnovata capacità dell'UE di pro-porsi come produttore di sicurezza, grazie alla capacità di attuare la propria politica di difesa attraverso strumenti come missioni civili-militari di monitoraggio, polizia ed addestramento. La sfida futura per l'azione europea in Africa risiede dunque nella capacità di costru-ire un’identità rinnovata alle spalle di un complesso di strumenti, militari e diploma-tici, giuridici ed economici, che rischia altrimenti di dipingere l’UE come un freddo regolatore. La vera sfida risiede forse nel mutare la percezione che la stessa Eu-ropa ha dell'Africa, smettendo di interpretarla unicamente come un’area bisogno-sa del generoso e “illuminato” aiuto delle istituzioni europee, riconoscendo le poten-zialità di mercati ormai prossimi all'emancipazione e ricettivi per investimenti nel settore dei servizi piuttosto che delle energie rinnovabili. Sullo sfondo di tutto questo, emerge la rivalità con la Cina: un confronto strategico mascherato, che pure accosta la win-win cooperation di Pechino (aiuti e investimenti in infrastrutture in cambio di licenze estrattive e quote di mercato per le imprese cinesi) al già citato approccio olistico europeo, capace, almeno negli intenti, di veico-lare per il tramite economico una progettualità di democratizzazione degli Stati afri-cani. È in Africa e sempre più con l’Africa, dunque, che l'UE può e deve rilegittimare le sue credenziali di attore politico di primo piano sulla scena mondiale. Il continen-te africano, oggi, può permettersi più alternative.

L’UNIONE EUROPEA E LA NUOVA CORSA ALL’AFRICA N. 1 - Aprile 2013

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EREDITÀ STORICHE E NUOVE PROSPETTIVE NELLA POLITICA EUROPEA PER L’ AFRICA

L’intervento di nuove potenze nello scenario africano, in particolare della Cina, rappresenta una sfida significativa per gli interessi dell’Unione Europea. Tra ere-dità del passato, cooperazione allo sviluppo e politica commerciale, l’Europa si trova di fronte a una scelta cruciale: rilanciare la propria presenza nel continente che un tempo era stato il suo “giardino di casa” oppure rassegnarsi a perdere in-fluenza e credibilità internazionale.

N el 1885 i governanti delle principali potenze europee, seduti attorno a un tavolo a Berlino, decisero arbitrariamente di spartirsi un continente an-cora misterioso, l’Africa. Irrispettosi di legami etnici e comunitari, i leader europei disegnarono confini arbitrari che avrebbero delimitato i

nuovi possedimenti coloniali. Con il cosiddetto scramble for Africa, i Paesi europei fecero del continente africano un nuovo teatro del loro confronto sempre più acces-so, che avrebbe portato poi ai due conflitti mondiali. L’indipendenza di molti Stati africani a partire dagli anni Sessanta del Novecento, spesso frutto di sanguinose guerre di liberazione, non ha tuttavia garantito all’Africa il rilancio economico e po-litico che molti leader nazionalisti africani avevano ricercato. I confini dei nuovi Sta-ti sono rimasti quelli disegnati a Berlino. In questa realtà risiede uno dei principali paradossi dell’Africa: gli Stati africani hanno fatto della rivendicazione della pro-pria sovranità uno dei tratti più salienti della propria agenda politica, dimostran-dosi spesso refrattari a implementare progetti di integrazione sovranazionale. Una sovranità che, dal punto di vista territoriale, è incarnata da quegli stessi confini tan-to deprecati retoricamente e causa dell’instabilità politica di molti Stati africani, per-ché irrispettosi dei legami etnici antecedenti, quanto difesi gelosamente dalle inge-renze esterne.

È necessario considerare questo sottile paradosso per comprendere le prospettive dell’Africa nel 2013, nel vivo di una nuova competizione per le sue ricchezze e l’influenza continentale. Un’altra considerazione riguarda la percezione che hanno dell’Africa gli interlocutori esterni, sempre più in contatto con governi, società civile e settore privato: gli europei in primis sono chiamati a superare gli stereotipi sedi-mentati in secoli di dominazione coloniale prima e dipendenza economica poi. L’Africa non è più un continente senza speranza, come sottolineano alcune anali-si presenti in questo numero. Permangono certamente ampie aree di povertà estre-ma e problemi sociali apparentemente insormontabili, come epidemie e carestie che generano tassi di mortalità sopra la media, ma in molte regioni africane gli ultimi anni hanno rappresentato il periodo di crescita più accentuato dall’ottenimento dell’indipendenza. I casi di Etiopia, Ghana e Angola, per citare Paesi dal modello di sviluppo molto diverso fra loro, dimostrano come l’Africa si stia lentamente e fatico-samente rialzando. Dopo l’ultima caduta nel 2003, il PIL continentale è cresciuto in tutto il decennio successivo. Nel 2008 era cresciuto del 67% rispetto al 2000. La crescita media fra il

Luca Barana

L’eredità di Berlino: i confini arbitrari del 1885 e il paradosso

della sovranità

Il PIL africano è cresciuto nel corso di

tutto l’ultimo decennio

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2000 e il 2008 è stata del 13% annuo. Nonostante la crisi finanziaria che ha colpi-to l’economia globale dal 2007, la crescita del continente africano si è dimostrata particolarmente resistente e oggi molti Paesi africani crescono economicamente a un passo di molto superiore rispetto alle economie del mondo avanzato. Questa è la realtà con cui l’Unione Europea (UE) e gli altri interlocutori del conti-nente, come la Cina e gli Stati Uniti, devono fare i conti. Gli stessi governi africani dovrebbero approcciare i propri partner europei superandone la rappresentazio-ne di meri colonialisti. Tuttavia, superare un senso comune cementato in decenni di dialogo e confronto appare difficile. Ecco dunque spiegato l’appeal di Pechino presso molti governi africani. La leadership cinese incentra la propria retorica nazionale sulla rivendicazione di un passato in cui non sono presenti tracce di colonialismo, un tratto che distingue la Cina dai Paesi europei e ne fa un interlo-cutore apparentemente più affine, un altro Paese in via di sviluppo che ha com-battuto contro la dominazione europea e, dopo aver concluso il proprio ‘secolo delle umiliazioni’, ha rilanciato la propria economia. Non si deve sottovalutare inoltre quanto il modello di sviluppo cinese, fondato su un’attenta opera di allo-cazione dei fattori produttivi promossa dallo Stato, generando un incontro vin-cente con il mercato capitalista, possa attirare governi come quelli africani, timo-rosi di accettare le richieste europee in materia di liberalizzazione economica e commerciale, come dimostrano i negoziati sugli Economic Partnership Agree-ments (si vedano a tal proposito gli approfondimenti in materia). Non solo i go-verni africani temono gli effetti economici su sistemi produttivi spesso ancora deboli per sostenere la concorrenza internazionale, ma dimostrano significativi sospetti nei confronti di forze sociali nel settore privato che potrebbero sfidare il controllo delle reti di potere neopatrimoniale sulle società nazionali. Inoltre, Pechino sembra rispettare la sovranità dei propri interlocutori africani fornendo fondi e investimenti senza richiedere, apparentemente, nulla in cambio. Gli investimenti cinesi si sono così concentrati in particolare in Paesi ricchi di ri-sorse naturali e minerarie, come Zimbabwe, Nigeria, Angola e Sudan. Le imprese cinesi, spesso strumento della politica estera dello Stato, sono attive anche nel settore della difesa e delle telecomunicazioni. Eppure non sono solo gli investi-menti a supportare la crescente presenza cinese in Africa, ma anche i consolidati legami istituzionali, come dimostrano il recente viaggio in Tanzania del Presi-dente della Repubblica Popolare Cinese (RPC) Xi Jinping e l’importanza acquisita dal Forum per la Cooperazione Cina-Africa, lanciato nel 2000 su iniziativa di Pe-chino e che negli anni è diventato una sede privilegiata per il dialogo fra i Paesi africani e la RPC. L’influenza cinese non può essere dunque sottovalutata, dato che mina alle fon-damenta l’approccio europeo sviluppato negli ultimi vent’anni: i finanziamenti cinesi giungono with no strings attached, non intendono incidere sul contesto po-litico dei Paesi in cui si dirigono se non per salvaguardare gli interessi economici di Pechino, soprattutto nel reperimento delle risorse naturali ed energetiche. È dunque più semplice oggi per i governi africani opporre resistenza alle richieste europee, proprio perché possono fregiarsi di un nuovo interlocutore apparente-mente meno esigente. Questa dinamica è ulteriormente accelerata dal fatto che

L’UNIONE EUROPEA E LA NUOVA CORSA ALL’AFRICA N. 1 - Aprile 2013

La retorica di Pechino e il suo modello di sviluppo attraggono sempre più i governi dei Paesi africani

Rispetto per la sovranità , investimenti e nuovi legami istituzionali: la Cina cresce in Africa

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altri attori emergenti, come il Brasile, iniziano a considerare l’Africa come una meta centrale per i propri investimenti, soprattutto in Paesi come il Mozambico. L’UE è chiamata a rispondere a queste nuove sfide in un continente che Paesi euro-pei come Francia e Gran Bretagna, ma anche istituzioni sovranazionali come la Com-missione Europea, hanno storicamente considerato come il proprio ‘giardino di casa’. Gli strumenti a disposizione dell’UE sono molteplici, dalla cooperazione allo sviluppo alle missioni di peace keeping, ma prima di tutto l’Europa è chiamata ad adottare un approccio più coerente e consapevole della nuova realtà africana. In tal senso, un passo significativo è stato compiuto nel 2007 con l’adozione della Strate-gia Congiunta UE-Africa, che individua nell’Unione Africana l’interlocutore cruciale dell’UE e mira a fornire strumenti di coordinamento fra tutte le iniziative europee indirizzate allo sviluppo del continente africano. È in particolare la cooperazione allo sviluppo a dover superare la sfida dei tempi. Storicamente fondata su sistemi di preferenze commerciali e la fornitura di aiuti allo sviluppo tramite strumenti quali lo European Development Fund (EDF), la politica europea si è modificata nel tempo. Negli ultimi decenni ha adottato lo strumento della condizionalità, richiedendo ai partner africani di implementare riforme eco-nomiche e politiche di stampo liberale per accedere ai fondi messi a disposizione. Se inizialmente tale condizionalità veniva posta ex ante, richiedendo ai governi una semplice promessa di implementazione delle riforme per ottenere gli stanziamenti finanziari, l’UE ha modificato tale approccio, introducendo forme di rolling program-ming, che consistono nel fornire immediatamente ai proprio interlocutori fra i Paesi ACP (Africa, Caraibi e Pacifico), nell’ambito dell’Accordo di Cotonou, il 70% dei fondi programmati per ogni ciclo quinquennale di aiuti e il restante 30% solamente dopo tre anni, previa una valutazione dello stato di avanzamento degli interventi previsti. Tale innovazione ha introdotto un giudizio delle performance dei Paesi afri-cani in materia di governance e liberalizzazione economica che i governi hanno mal sopportato, denunciandone l’ingerenza indebita nei propri affari interni e l’unilateralismo derivante da un giudizio prodotto dalla Commissione Europea con scarso coinvolgimento degli stessi governi. Ecco dunque spiegata la crescente predi-sposizione di molti Stati africani a collaborare con un partner apparentemente me-no esigente come la Cina. Non necessariamente i rapporti fra UE e attori emergenti in Africa dovranno però essere di natura competitiva. La stessa Commissione ha identificato nella presenza cinese un’opportunità per rinnovare le ambizioni di attore globale dell’Unione tramite la predisposizione di una cooperazione trilaterale che coinvolga anche i Pa-esi africani. Tuttavia, risultano allo stesso tempo pressanti le preoccupazioni euro-pee sul fatto che l’approccio cinese allo sviluppo dell’Africa possa indebolire ulte-riormente la cooperazione condizionale dell’UE, già minata dal duro confronto sugli EPA e dai cronici sospetti di colonialismo espressi dai governi africani. Anche nei rapporti bilaterali con l’attore economico dominante in Africa, il Sudafri-ca, l’UE deve considerare i crescenti legami che Pretoria ha inaugurato con altri at-tori come Pechino. UE e Sudafrica sono infatti legate dal Trade, Development and Co-

L’Africa non è più il “giardino di casa”

dell’Europa

Competizione o cooperazione con gli

attori emergenti in Africa?

Le nuove sfide della cooperazione allo

sviluppo dell’UE in Africa

EREDITÀ STORICHE E NUOVE PROSPETTIVE NELLA POLITICA EUROPEA PER L’AFRICA Luca Barana

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operation Agreement (TDCA), siglato nel 1999, ma implementato completamente solo nel 2012, che ha portato a una graduale liberalizzazione del commercio fra i due poli economici e ha permesso la fornitura di 980 milioni di euro in fondi per lo sviluppo per il periodo 2007-2013. Inoltre, è stata siglata nel 2007 una partnership strategica fondata su “valori condivisi e interessi reciproci”. Tuttavia, il Sudafrica costituisce un caso anomalo in Africa, come dimostra d’altro canto il rapporto bilaterale privilegiato costruito con l’UE, a differenza degli altri Stati africani, le cui relazioni con Bruxelles sono regolate da cornici più ampie, come l’Accordo di Coto-nou. Il Sudafrica non è un Paese in via di sviluppo in senso stretto, come riflette la sua affiliazione al club dei BRICS nel 2010, un ulteriore segnale del crescente inte-resse di tali attori emergenti in Africa. Proprio il più recente summit dei BRICS, te-nutosi a Durban, ha sottolineato l’attenzione che Cina, Brasile, India e Russia stan-no sviluppando per l’Africa, tramite l’impegno condiviso per la pace e lo sviluppo del continente espresso dal comunicato conclusivo dell’incontro. A fronte anche della consolidata presenza degli Stati Uniti, che nel giugno 2012 hanno lanciato una nuova strategia africana, voluta fortemente dal Presidente Ba-rack Obama e volta a promuovere contemporaneamente sviluppo, democratizza-zione e sicurezza degli interessi americani, sono dunque queste le nuove prospetti-ve che l’UE deve considerare nella formulazione delle proprie politiche per l’Africa, un continente non più appannaggio esclusivo delle ex potenze coloniali europee e orgoglioso dei risultati economici che iniziano a smuovere una realtà economico-sociale rimasta immutata troppo a lungo. Se l’UE intende perseguire lo sviluppo dell’Africa e la promozione dei propri valori dovrà riconoscere i nuovi convitati alla tavola africana. Non un nuovo scramble for Africa, ma una competizione per un futuro migliore che il mondo deve alle popolazioni africane.

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Il caso del Sudafrica

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UN SECOLO AFRICANO ? LE PROSPETTIVE ECONOMICHE DEL VECCHISSIMO CONTINENTE

L’Africa cresce ormai ininterrottamente da dieci anni. Permangono molte difficol-tà, ma il continente si sta rilanciando. Mentre il Nord Africa è alle prese con l’instabilità seguita alla Primavera Araba, lo sfruttamento delle risorse naturali e gli investimenti esteri restano alla base della crescita dell’Africa sub-sahariana e si accompagnano alla maturazione di economie moderne come quella sudafrica-na. I partner internazionali sono chiamati a confrontarsi con questa nuova realtà.

P er qualche tempo durante l'inverno del 2012, il video "Africa for Norway" ha fatto sorridere più di due milioni di persone in rete. Il breve cortome-traggio è una parodia delle buone intenzioni filantropiche dell'Occidente verso il continente africano: con un simpatico jingle si veniva infatti invitati

a partecipare alla campagna per donare termosifoni ai poveri norvegesi infreddoliti. L'iniziativa è stata lanciata dall'Associazione Radi-Aid per denunciare gli stereotipi degli occidentali nei confronti dell’Africa. Ai media ed al mondo accademico veniva richiesta una più corretta ed approfondita informazione sugli avvenimenti africani, mentre, alla "macchina degli aiuti", costituita da associazioni no-profit e di carità, si chiedeva di non basare le proprie donazioni sulle buone intenzioni, ma sui reali bi-sogni delle popolazioni africane. È di questo che l'Africa ha bisogno. Donare risorse per aiuti alimentari o cancellare una parte di debito è un'ottima azione, ma la sua portata ed efficacia sono molto limitate. L'Africa andrebbe conosciuta ed aiutata “fino a un certo punto” con veri progetti di sviluppo economico, industriale, tecnolo-gico e politico. Senza voler essere politicamente scorretti, "fino ad un certo punto" presuppone che, prima di quanto l'Occidente si aspetti, l'Africa dovrà essere considerata un par-tner alla pari con cui condividere il destino del pianeta. Nonostante l’attuale insta-bilità politica, economica e sociale, gli Stati africani hanno da tempo iniziato il cam-mino verso lo sviluppo e l’affermazione internazionale. La strada sarà lunga e ricca di ostacoli, ma sarà più rapida del previsto e diversa da quanto accaduto in passato.

Iniziamo l’excursus del continente dal Nord Africa. Come vedremo nei prossimi ar-ticoli, la situazione recente è troppo complessa, diversificata ed esposta a cambia-menti repentini per intravedere un cammino di sviluppo ben tracciato. La Primave-ra Araba ha lasciato ferite aperte negli apparati produttivi e commerciali di Tunisia, Egitto e Libia. Quest’ultima, attraversata anche da una sanguinosa guerra civile, è la più segnata dai contraccolpi delle rivoluzioni. Tutti e tre i Paesi stanno affrontando gravi recessioni e un’inflazione galoppante (soprattutto sui generi alimentari) che non permette alle rispettive banche centrali di rilanciare l’economia aggredendo i tassi di interesse. In ogni caso, placandosi progressivamente l’instabilità politica, i Paesi ricominceranno a crescere. Essi possiedono infrastrutture sopra la media del continente e lo sbocco sul Mediterraneo è ideale per favorire il commercio e il rilancio del turismo. In questo modo si potrà riprendere una direttrice di crescita economica a fianco di quei Paesi solamente sfiorati dalla Primavera Araba come Ma-

Fabio Cassanelli

Superare gli stereotipi: l’Africa è

indirizzata su un percorso di crescita

e sviluppo

In Nord Africa le rivoluzioni hanno

lasciato ferite aperte sulle economie

nazionali

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rocco ed Algeria. Un ruolo chiave in questo percorso di rinascita economica e politica dovrà essere giocato dall’Unione Europea (UE) per portare al rilancio dei rispettivi investimenti, degli scambi commerciali e all’implementazione delle strategie energetiche comu-ni. Un programma visionario che può essere considerato l’emblema di una nuova partnership economica è il “Progetto Desertec”, attraverso il quale si mira a co-struire un enorme parco fotovoltaico nel deserto del Sahara. L’investimento sarà principalmente europeo e verranno creati posti di lavoro ed energia pulita per a-ziende e cittadini di UE e Nord Africa. I primi memorandum di intesa tra UE, Tuni-sia, Marocco ed Algeria sono stati firmati. Verrà affiancato a Desertec il “Progetto Medgrid” con l’obiettivo di costruire una rete comune per lo scambio dell’energia.

Spostando l’attenzione sull’Africa centrale, si assiste ad una situazione almeno altrettanto complessa e variegata. Le guerre del Corno d’Africa, l’epidemia di HIV/AIDS, la ridotta speranza di vita, la mancanza di infrastrutture e di servizi essenzia-li per la popolazione, l’altissimo debito estero, la corruzione delle classi dirigenti e l’uso poco assennato delle risorse naturali rendono da molti decenni difficile la ri-cerca di una via di sviluppo per la regione. Anche in questo caso, però, non manca-no elementi potenzialmente molto positivi che potranno trasformare questa regione in una delle aree più dinamiche del continente. Prendiamo ad esempio in considerazione i casi dell’Angola e della Nigeria, i Paesi in cui il PIL è cresciuto maggiormente tra il 2001 ed il 2011 a livello globale (rispettivamente dell’11,1% e dell’8,9% all’anno).

La storia di successo dell’Angola inizia con il nuovo millennio e la fine di una guerra civile durata circa 27 anni. Il processo di ricostruzione finanziato tramite linee di credito fornite dalla Cina, dal Brasile, dal Portogallo, dalla Spagna e dalla Germania funziona e le infrastrutture sinora realizzate alimentano l’exploit del set-tore petrolifero e di quello minerario e diamantifero. L’estrazione di petrolio è rad-doppiata tra il 2001 ed il 2006 e nel 2007 l’ex colonia portoghese è entrata a far parte dell’OPEC (Organization of the Petroleum Exporting Countries). Il governo rie-sce ad attirare ingenti quantità di investimenti esteri, soprattutto cinesi, in cambio di concessioni minerarie. L’inflazione è calata dal 325% del 2000 al 10% del 2012. La crisi globale del 2008 ha minacciato l’export di Luanda, costretta così a chiedere un prestito del Fondo Monetario Internazionale per coprire un deficit pari all’8,6% del PIL nel 2009. La ripresa globale e l’imponente crescita economica sono tornate ad arricchire le casse statali e nel 2012 l’Angola ha registrato un surplus di bilancio superiore al 12% del PIL. Questo tesoretto permetterà al governo di investire in-genti risorse per colmare le carenze di un sistema sanitario ancora arretrato. Il pe-so del welfare state risulterà comunque molto leggero data la spesa pensionistica insignificante, considerata l’età media della popolazione intorno ai 18 anni, il deci-mo tasso di natalità più alto del mondo e una fascia di popolazione anziana quasi inesistente. La classe dirigente dovrà comunque tracciare un sentiero di sviluppo non troppo dipendente dall’export petrolifero e continuare a incentivare gli inve-stimenti angolani all’estero aumentati del 25% dal 2011 al 2012.

La Nigeria ha invece adottato una nuova Costituzione nel 1999 dopo la fine del re-

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“Desertec” e la cooperazione economica tra UE e Nord Africa

L’Angola : risorse naturali, investimenti esteri e ordine nelle finanze pubbliche

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gime militare. Per quanto le ultime elezioni siano state caratterizzate da numerose irregolarità, il Paese può dirsi oggi una pur imperfetta democrazia. Tra il 2000 ed il 2005 ha ricevuto gli aiuti del Fondo Monetario Internazionale ed in cambio ha rea-lizzato importanti riforme economiche e finanziarie. Come per l’Angola, gran parte della ricchezza del Paese deriva dall’attività estrattiva, ma molti passi avanti devono essere compiuti dal punto di vista della redistribuzione del reddito. La per-centuale di popolazione che vive sotto la soglia di povertà sfiora infatti ancora il 70%. In ogni caso, i margini di manovra sono enormi per i prossimi anni, poiché il debito pubblico si aggira intorno al 18% del PIL ed il governo potrebbe avviare in-genti programmi di sviluppo. L’inflazione si attesta ad un controllabile 10% annuo e le riserve della Banca Centrale sono aumentate nell’ultimo anno da 35 a 42 miliardi di dollari. Gli investimenti all’estero del Paese sfiorano gli 11 miliardi di dollari, 3 miliardi in più dell’Angola. I punti comuni tra i due Paesi sono molti. Entrambi gli Stati godono dell’abbondanza di materie prime, ma ciò non è sufficiente a garanti-re uno sviluppo sostenibile a lungo termine. Si nota poi l’impegno condiviso a raffor-zare le strutture democratiche, ad accogliere gli investimenti esteri e l’apertura ad investire all’estero. Infine, entrambi i Paesi vantano una popolazione giovane, un bilancio dello Stato in ordine ed un sistema bancario basato sul modello occidentale. In Africa meridionale infine il panorama è dominato dal Sudafrica, la «S» dei BRICS. Il Paese di Nelson Mandela, governato oggi dal discusso presidente Jacob Zuma, sta attraversando un periodo travagliato. Recenti stime indicano che il 17,6% della po-polazione sudafricana ha contratto l’HIV/AIDS, mettendo a dura prova un sistema sanitario la cui spesa ha già raggiunto il 9% del PIL. La speranza di vita raggiunge a malapena i 50 anni e nel 2012 la popolazione è diminuita dello 0,5% per i significa-tivi flussi di emigrazione che stanno colpendo il Paese. Per quanto riguarda l’economia, il Sudafrica è già impostato sull’assetto di un moderno Stato occidentale, con un settore dei servizi molto sviluppato ed una piazza finanziaria tra le mag-giori quindici al mondo. Il debito pubblico si aggira intorno a un sostenibile 45% del PIL e l’inflazione viaggia al 5% annuo. Nonostante la crescita poderosa nel 2012 sia un po’ rallentata, fermandosi ad un +2,6%, le prospettive future restano ottime considerando gli investimenti al 20% del PIL ed un export molto dinamico.

Com’è intuibile da questa pur breve carrellata, nei prossimi anni assisteremo ad una rivoluzione radicale nel continente africano. Negli Stati in cui l’economia ha viaggiato a ritmi sostenuti, l’inflazione è sotto controllo, gli investimenti e il com-mercio internazionale stanno brillando e vi sono i presupposti per la nascita di una nuova classe media, istruita e consapevole dei propri diritti. Le istanze per migliori servizi legati all’istruzione, una migliore sanità ed un sistema di welfare porranno le basi di uno sviluppo ancora maggiore. Se un numero maggiore di Paesi africani a-dottasse effettivamente strategie di apertura economica, le sinergie e l’integrazione all’interno del continente potrebbero fornire ulteriore combustibile per la crescita e lo sviluppo Queste sfide, per loro stessa natura particolarmente dif-ficili, necessitano di migliori istituzioni, di una maggiore cooperazione internaziona-le e regionale e di un approccio che sappia sempre più andare al di là dei confini na-zionali. Il ruolo delle organizzazioni regionali e le loro relazioni con attori come l’UE, rappresentano elementi fondamentali per il futuro del continente.

La fragile democrazia della Nigeria: ricchez-za di risorse e grandi

disuguaglianze

Il ruolo delle istituzioni e delle

organizzazioni regionali per lo

sviluppo dell’Africa

Il Sudafrica tra problemi sociali e

sanitari e una crescita economica solida

UN SECOLO AFRICANO? LE PROSPETTIVE ECONOMICHE DEL VECCHISSIMO CONTINENTE Fabio Cassanelli

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In Nord Africa, l’Europa ha sempre anteposto la difesa della stabilità ad ogni altra considerazione politica e valoriale

L’UE ha riconosciuto la necessità della riforma dei Paesi nordafricani, ma. . .

IL FALLIMENTO STRATEGICO DELL’UNIONE EUROPEA IN NORD AFRICA

L’esplosione della Primavera Araba in Nord Africa è stato un fallimento strategico per l’Unione Europea. L’ambivalenza dell’Europa, sempre a metà tra la retorica delle riforme e la convivenza con i regimi autoritari nordafricani, si è fondata sul-la difesa di una falsa stabilità, dimostratasi in fin dei conti insostenibile. Il nuovo scenario del Nord Africa è così aperto per nuovi attori quali Paesi del Golfo, Cina e Turchia, mentre l’Europa fatica a rilanciarsi e ritrovare centralità nella regione.

Davide D’Urso

I l crollo repentino e caotico dei regimi autoritari che per oltre vent’anni han-no retto le sorti del Nord Africa è quanto di più lontano si possa immagina-re dagli obiettivi che sono stati alla base della politica dell’Unione Europea (UE) verso la regione. L’UE e i suoi Stati membri hanno infatti sempre ante-

posto la difesa della stabilità in Nord Africa ad ogni altra considerazione di natura politica, economica e valoriale. Pur nella grande varietà di approcci, pro-getti e quadri di cooperazione varati nel corso degli ultimi quindici anni, questo obiettivo strategico di fondo è rimasto invariato, sebbene declinato in modo di-verso da Bruxelles e dalle capitali nazionali ed espresso in forme istituzionali e politiche tra loro molto diversificate. A dispetto di quanto si creda, la difesa della stabilità e il mantenimento della si-curezza agli immediati confini dell’Europa non hanno significato un’azione poli-tica meramente imperniata sulla conservazione dello status quo. Tutti gli ap-procci politici varati dall’UE nel corso degli anni, a partire dalla “Dichiarazione di Barcellona” del novembre 1995, si sono sempre fondati sulla considerazione che l’obiettivo di costruire un’«area di pace, stabilità e prosperità condivisa» nel Me-diterraneo passasse necessariamente per la riforma economica e politica dei Paesi nordafricani. La stessa Politica Europea di Vicinato (PEV) nasceva con l’obiettivo di trasformare gli Stati vicini, compresi quelli del Nord Africa, in «Paesi amici e ben governati». Eppure, anche nei momenti in cui è sembrata spingere con più forza per la riforma dei Paesi nordafricani, l’UE e i suoi Stati membri non hanno mai messo in discussione la priorità concessa ai temi della stabilità e della sicurezza, frenando rispetto a processi di democratizzazione giudicati troppo rapidi ed evitando di applicare politiche che potessero indeboli-re la capacità dei regimi autoritari di mantenersi al potere e controllare il pro-prio territorio. Il tema della promozione delle riforme politiche, dei diritti umani e delle libertà fondamentali ha dunque giocato un ruolo strumentale e marginale in una strate-gia orientata decisamente alla stabilità. L’applicazione di politiche volte almeno retoricamente a promuovere la riforma graduale dei Paesi nordafricani è stata seriamente limitata da considerazioni di breve periodo - secondo le quali col-laborare con le dittature era più semplice e meno rischioso che lavorare per la

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loro riforma - e dalla mancanza di coesione interna. Paesi come Francia, Spagna e Italia, tradizionalmente al centro di proprie reti di relazione con i Paesi dell’Africa settentrionale, hanno coltivato l’amicizia e la cooperazione con gli autocrati per tu-telare i propri interessi nazionali di breve periodo. Alla base di questo atteggiamen-to vi era la considerazione per cui gli effetti negativi di un’eventuale instabilità nor-dafricana avrebbero colpito in primo luogo la loro sicurezza, mettendo in discussio-ne il controllo dei flussi migratori, la sicurezza degli approvvigionamenti energetici e la tutela degli interessi economici delle proprie imprese. Temi come la lotta al ter-rorismo e il contrasto al fondamentalismo islamico hanno poi rappresentato preoc-cupazioni condivise anche dagli altri Stati membri. In modo più esplicito rispetto alle istituzioni comunitarie, i governi nazionali dell’UE hanno fondato gli ultimi vent’anni di relazioni con gli Stati nordafricani sulla base di un “patto faustiano” per cui dittatori come Hosni Mubarak in Egitto e Zine El-Abidine Ben Ali in Tuni-sia ricambiavano il riconoscimento internazionale e l’assistenza finanziaria offerta dagli europei tenendo le minacce legate al terrorismo, all’immigrazione illegale e al fondamentalismo religioso a distanza di sicurezza dalle frontiere dell’Europa. La Primavera Araba ha rappresentato così un autentico fallimento strategico per l’Europa. Aver cercato di conciliare due posizioni tra loro antitetiche, ovvero la pro-mozione graduale delle riforme con la collaborazione e l’attivo sostegno dei regimi autocratici al potere, ha portato ad uno scollamento sempre più evidente tra retori-ca e azione politica europea. Dal punto di vista economico, l’UE è stata in prima fila nel promuovere riforme di stampo liberale, chiedendo il progressivo smantella-mento del ruolo predominante dello Stato arabo nell’economia, la riduzione dei sus-sidi e il progressivo abbassamento delle barriere tariffarie al commercio, favorendo-ne l’integrazione nell’economia globale attraverso un rapporto privilegiato con l’Europa. Al tempo stesso, alla proclamata intenzione di aiutare i governi dell’Africa settentrionale a compensare i costi sociali della riforma economica non sono corri-sposti sufficienti impegni finanziari. La spinta decisa per le riforme economiche e l’apertura commerciale, slegata rispet-to ad un impegno reale per una riforma politica giudicata pericolosa per gli interessi dell’Occidente, ha così aggravato la concentrazione del potere nelle mani delle cerchie ristrette dei dittatori nordafricani, approfondito le disuguaglianze economi-che senza risolvere il dramma occupazionale e progressivamente eliminato le reti di sicurezza sociali che lo Stato arabo aveva costruito negli anni immediatamente suc-cessivi all’indipendenza. Agli occhi degli attori che nel corso del 2011 hanno abbat-tuto i regimi autoritari di Ben Ali, Mubarak e Gheddafi e dei movimenti politici isla-mici che nel corso delle transizioni sarebbero emersi come forze di governo, l’UE non solo aveva agito come un’alleata dei regimi, ma con il suo atteggiamento am-bivalente aveva compromesso la stessa causa della democrazia, legandola a riforme e interventi economici giudicati ingiusti, fallimentari e funzionali ai soli interessi dell’Occidente. Ritrovandosi improvvisamente dal lato sbagliato della storia, cioè accanto a regimi autoritari, repressivi e sanguinari nel momento in cui questi venivano attaccati dalle proprie piazze, l’UE ha perso influenza, prestigio e contratti economici. Nella pri-

Il “patto faustiano” degli europei con i

dittatori nordafricani

Per i rivoluzionari , l’UE era alleata dei

regimi, interessata ai propri interessi

L’attivismo dell’UE nel promuovere

riforme economiche liberali

IL FALLIMENTO STRATEGICO DELL’UNIONE EUROPEA IN NORD AFRICA Davide D’Urso

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ma fase delle rivoluzioni, l’UE si è ritrovata divisa al suo interno e quindi paralizza-ta in un silenzio imbarazzato. Non poteva essere altrimenti visti i legami che alcuni suoi Stati membri avevano avuto con regime repressivi e polizieschi come per e-sempio quello di Ben Ali in Tunisia e i timori degli effetti che un crollo dei regimi autoritari avrebbe potuto avere sulla sicurezza delle frontiere meridionali dell’Europa. Nelle fasi più concitate della rivoluzione tunisina che diede avvio all’ondata di pro-teste in tutto il mondo arabo, il governo francese più di altri non nascose la propria posizione nei confronti del regime tunisino. L’allora Ministro degli esteri Michèle Alliot-Marie arrivò a proporre, in un discorso all’Assemblea Nazionale l’11 genna-io 2011, di «aiutare la Tunisia a mantenere l’ordine e gestire le manifestazioni», suggerendo che la Francia avrebbe potuto mettere a disposizione del suo governo «il savoir-faire delle forze di sicurezza francesi, che è riconosciuto nel mondo intero e che permette di regolare situazioni di sicurezza di questo tipo». Discorsi simili valgono per Spagna e Italia. Nel caso di Roma, i legami con il regime di Muhammar Gheddafi hanno rappresentato una realtà particolarmente scomoda, nel momento in cui l’ex alleato iniziava una repressione sanguinaria contro la propria popolazio-ne. Risolta pur con molte difficoltà la questione della posizione che l’UE avrebbe dovu-to assumere nei confronti delle rivoluzioni arabe, Bruxelles ha progressivamente preso in mano la politica europea in Nord Africa, mettendo in atto una risposta diplomatica e strumentale particolarmente significativa. La constatazione della debacle europea in Nord Africa è stata riconosciuta francamente dalle istituzioni comunitarie. Come ha ammesso il 28 febbraio 2011 il Commissario all’allargamento e alla politica di vicinato Stefan Füle di fronte al Parlamento Eu-ropeo:

«Dobbiamo dimostrare umiltà rispetto al passato. L’Europa non ha fatto abbastanza per difendere i diritti umani e le forze democratiche nella regione. Troppi di noi si sono fermati all’assunto che i regimi autoritari fossero una garanzia di stabilità. Questa non era nemmeno Realpolitik. Era, per bene che fosse, una politica di breve termine, un tipo di politica di breve termine che rende il lungo termine sempre più difficile da co-struire.»

A rendere incoerente e inefficace la strategia europea è stata in particolare la con-vivenza forzata negli ultimi quindici anni di relazioni tra Europa e Nord Africa di due anime tra loro contraddittorie: da un lato un’«Europa liberale», che ha cerca-to di creare le condizioni strutturali funzionali al cambiamento politico, incentivan-do riforme economiche e sociali con gli strumenti della condizionalità e del dialo-go; dall’altro un’«Europa fortezza», preoccupata da minacce come quella dell’immigrazione clandestina, del terrorismo, del fondamentalismo religioso e quindi pronta, anche per tutelare i propri interessi economici, a sostenere regimi autoritari, corrotti e incapaci rivelatisi poi solo apparentemente garanzie di stabili-tà. L’impossibilità di conciliare queste due anime e la forza poderosa dell’ondata

L’UNIONE EUROPEA E LA NUOVA CORSA ALL’AFRICA N. 1 - Aprile 2013

Alleanze e amicizie scomode: la Francia e Ben Ali; l’Italia e Gheddafi

Il “mea culpa” dell’Europa

“Europa liberale” vs “Europa fortezza”

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rivoluzionaria nel mondo arabo ha spiazzato l’Europa e ha aperto la regione più settentrionale del continente africano, così ricca di opportunità e risorse, all’influenza di altri attori del sistema internazionale. Il ruolo crescente di attori come i Paesi del Golfo, su tutti Qatar e Arabia Saudita, ma anche di Paesi tradizionalmente esterni come Cina e India, rappresentano però fattori che complicano ulteriormente i tentativi dell’UE di riguadagnare la centralità politica nella regione. Soprattutto presso Paesi come Libia e Algeria, che restano fondamentali serbatoi di risorse energetiche e flussi finanziari, gli interessi di po-tenze esterne e rivali, nonché la perdurante incapacità di realizzare una politica coe-sa, rischiano di far perdere ulteriori posizioni all’UE. Mentre in Marocco e Tunisia l’Europa non sembra correre rischi analoghi, l’Egitto sta assumendo un ruolo pro-gressivamente più autonomo, che fa della ricerca di nuovi legami con attori interna-zionali esterni all’Occidente lo strumento del proprio rilancio internazionale. Il ruo-lo della Turchia, infine, meriterebbe un’attenzione particolare da parte di Bruxelles: non solo Ankara ha agito dando il proprio sostegno ai processi rivoluzionari e di de-mocratizzazione, ma il ruolo di modello che la repubblica turca rappresenta per gli attori politici musulmani è anch’esso un rivale per il soft power europeo nella regio-ne. Nell’ambito della nuova corsa all’Africa, la competizione per l’influenza e le risor-se del Nord Africa rappresenta un nodo fondamentale per l’UE. La vicinanza del-la regione, i suoi legami storici, culturali e sociali con l’Europa, la quantità di risorse e gli spazi politici aperti in un’area che si credeva incapace di progredire e che inve-ce costituisce la regione africana politicamente più dinamica, sono alla base della nuova rilevanza strategica dell’Africa settentrionale. Rimediare al fallimento strate-gico nella regione sarà un’impresa difficile, così come riguadagnare terreno rispetto ad attori che vantano prestigio internazionale e forza economica crescente. Se in quello che essa stessa ha definito il suo “vicinato” l’UE non darà prova di saper costruire una strategia coerente, che superi le divisioni interne e sappia individua-re obiettivi di medio e lungo termine e gli strumenti necessari per realizzarli, ri-schierà di compiere un altro passo verso l’irrilevanza globale. L’Europa non può più permetterselo.

Nuovi attori nello scenario del Nord

Africa: Paesi del Golfo, Cina, India e Turchia

Una nuova strategia coerente per il Nord

Africa è una necessità per l’Europa

IL FALLIMENTO STRATEGICO DELL’UNIONE EUROPEA IN NORD AFRICA Davide D’Urso

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Maggio 2011: “A new response to a changing neighbourhood”

SHUTTLE DIPLOMACY E “DEMOCRAZIA RADICATA” : LA NUOVA PEV E LA RELAZIONE CON L’EGITTO

Le rivoluzioni in Nord Africa hanno spinto l’Unione Europea a rivedere la propria politica di vicinato. La promozione di una “democrazia radicata e sostenibile” nel-la regione è oggi l’obiettivo principale di Bruxelles. Le relazioni con l’Egitto, Paese altamente strategico per l’Europa, sono state oggetto di particolare attenzione da parte della diplomazia europea, con innumerevoli visite ufficiali e il varo di una Task Force UE-Egitto senza precedenti per dimensione e portata economica.

Sara Bottin

L a Primavera Araba non ha scosso solamente la sponda meridionale del Mediterraneo, ma ha avuto forti implicazioni anche sulla politica dei Pa-esi mediterranei dell’Unione Europea (UE) e dell’UE globalmente consi-derata. Gli eventi del 2011 hanno obbligato Bruxelles a rivedere il suo

approccio verso i Paesi coinvolti per adattarlo ad una realtà politica più fluida. Da subito, l’UE ha riconosciuto la necessità di un rinnovamento della Politica Europea di Vicinato (PEV), che non ha saputo promuovere i diritti umani e la democrazia nel vicinato meridionale. Le rivoluzioni arabe hanno così offerto all’Europa un’inattesa opportunità per rafforzare il dialogo e la cooperazione con i Paesi dell’area mediterranea. Esse hanno portato democrazia e diritti umani al centro delle piazze nordafricane e delle politiche europee verso la regione. La prima risposta politica “strutturata” dell’UE alle sfide generate dalla Primave-ra Araba è arrivata nel maggio 2011 con una comunicazione congiunta dell’Alto Rappresentante (AR) per gli affari esteri e la politica di sicurezza Catherine A-shton e la Commissione Europea. Si tratta della comunicazione “A new response to a changing neighbourhood” che lanciava una revisione della PEV nel suo insie-me. L’UE sottolineava la grande importanza del rispetto di valori come i diritti umani, la democrazia e lo stato di diritto nei Paesi del vicinato. Questi valori, già formalmente riconosciuti come centrali nelle relazioni tra l’UE ed i suoi vicini, erano stati messi in secondo piano di fronte alle continue violazioni perpetrate dai regimi dittatoriali della regione sotto gli occhi dell’Europa. Questo silenzio è costato all’UE accuse di incoerenza e perdita di credibilità agli occhi delle popo-lazioni arabe. Dal punto di vista politico, la maggiore novità introdotta dalla comunicazione è proprio la nozione di “deep and sustainable democracy”: il sostegno ad una democrazia radicata nella società e sostenibile nel tempo è diventato l’obiettivo dell’UE nelle sue relazioni con i Paesi del vicinato. Questo comporta la necessità di coinvolgere attori rimasti lungamente ai margini della vita politica nel mondo arabo: donne, giovani, organizzazioni non-governative (ONG), giornalisti. A que-sto scopo, l’UE ha varato due nuovi strumenti. Il primo è il “Civil Society Faci-lity”, volto a finanziare la società civile e a rafforzarne la voce nel dibattito politi-co che caratterizza le transizioni in corso nei Paesi nordafricani. Il secondo è lo “European Endowment for Democracy” (EED), uno strumento che in queste

La democrazia radicata e sostenibile come nuovo obiettivo dell’UE nella regione

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settimane sta finalmente vedendo la luce a due anni di distanza dal suo varo e costi-tuirà una risorsa a disposizione di partiti politici, ONG non registrate e altri partner sociali nel periodo di transizione politica. Se questi due strumenti derivano dalla mera presa di coscienza dei limiti della PEV, non possono essere considerati grandi passi avanti. La stessa creazione dell’EED non è stata una prova di celerità da parte dell’UE e rischia di restare priva di risorse, dovendo queste arrivare da donazioni spontanee degli Stati membri. Dal punto di vista diplomatico, tuttavia, l’impegno profuso dall’UE in questi mesi è stato davvero notevole. Un passo molto importante è stata la nomina nel luglio 2011 del Rappresentante Speciale (RS) dell’UE per il Mediterraneo nella persona del di-plomatico spagnolo Bernardino Leon. La necessità di creare questa nuova figura all’interno del Servizio Europeo per l’Azione Esterna nasce dall’esigenza di rafforza-re il ruolo politico dell’UE, la sua influenza e soprattutto la sua visibilità nella regio-ne. Nel 2013 Leon ha viaggiato con cadenza più che mensile tra Bruxelles e l’Egitto, inaugurando quella che Catherine Ashton ha definito una «shuttle diplomacy». L’Egitto è probabilmente il Paese del vicinato meridionale al quale la diplomazia europea ha dedicato più attenzioni, energie e preoccupazioni, avendo una rilevanza strategica e geopolitica particolare per l’azione europea nel Mediterraneo. Si tratta in effetti del più grande Paese arabo, con più di 80 milioni di abitanti e rappresenta storicamente una guida per i suoi vicini, svolgendo anche un ruolo di rilievo nella mediazione per il processo di pace in Medio Oriente. L’Egitto è inoltre un importan-te partner nella lotta al terrorismo e nel campo della cooperazione energetica, due grandi preoccupazioni per la sicurezza dell’UE. Per tutte queste ragioni, non sor-prende che dall’inizio della rivoluzione del 25 gennaio 2011, l’UE abbia seguito con grande attenzione gli sviluppi politici ed economici del Paese. La Task Force del novembre 2012 ha rappresentato un momento importante nel-le relazioni tra Egitto ed UE. Lo strumento diplomatico della “task force” era già sta-to sperimentato in Tunisia e Giordania, ma la quella UE-Egitto non trova paragoni per complessità, partecipanti e portata economica. I frequenti viaggi tra di quest’anno del RS Leon per valutarne i seguiti, confermano la grande importanza dedicata dall’UE all’evento. Nel corso di questi viaggi, il RS ha avuto occasione di in-contrare il governo egiziano, l’opposizione politica e i rappresentanti della società civile per continuare nel lungo percorso di ricostruzione della fiducia tra i due par-tner. Leon non è stato il solo esponente della diplomazia europea a recarsi in Egitto in questi mesi. Il Presidente del Consiglio Europeo Herman Van Rompuy ha com-piuto una missione al Cairo a gennaio, riaffermando l’impegno dell’UE nella costru-zione di una relazione più intensa e coerente con l’Egitto del Presidente Mohamed Morsi. La stessa Ashton ha incontrato Morsi e molte figure dell’opposizione nel cor-so della sua visita al Cairo lo scorso 7 aprile, riaffermando il sostegno dell’UE alla transizione democratica. Questi sforzi basteranno a risollevare la credibilità dell’UE nell’area? Stando ai risul-tati dello “EU Neighbourhood Barometer” del 20 marzo scorso sembrerebbe proprio di sì. L’indice in questione mira a valutare la percezione delle politiche dell’UE nei 16 Paesi coinvolti dalla PEV tramite l’utilizzo di opinion polls e il monitoraggio dei media locali con lo scopo di comprendere preoccupazioni e reazioni delle popola-

Bernardino Leon, rappresentante

speciale dell’UE per il Mediterraneo

Task force e visite ufficiali: Il Cairo al

centro dei pensieri della diplomazia UE

La rilevanza strategica dell’Egitto

SHUTTLE DIPLOMACY E “DEMOCRAZIA RADICATA”: LA NUOVA PEV E LE RELAZIONI CON L’EGITTO Sara Bottin

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zioni. I risultati di questa ricerca trasmettono una valutazione molto positiva dell’azione dell’UE nel vicinato, che gli intervistati associano alle nozioni di “solidarietà” e “diritti umani”. Un risultato tutt’altro che ovvio, soprattutto se consideriamo la grande influenza di altri importanti attori internazionali in questi Paesi. Paesi del Golfo e Cina, ad esempio, stanno acquisendo sempre maggiore influenza. Per i primi si tratta di un’influenza legata ad una politica del “doppio standard” che ha portato questi stessi Paesi a reprimere le proteste al loro interno, ma ad appoggiare movimenti simili nell’area del Mashrek, in particolare in Egitto e Siria. Il loro supporto è anda-to soprattutto alle forze islamiche, indipendentemente dalla loro democraticità. Basti pensare al ruolo di uno dei più potenti stati del Golfo, il Qatar, nella vita poli-tica egiziana. Non è un segreto l’ingente utilizzo dei media adottato per appoggiare i Fratelli Musulmani nella loro campagna politica, in particolare attraverso l’utilizzo della rete satellitare Al-Jazeera che ha sede a Doha. Lo scopo è quello di evitare che i movimenti giovanili possano avere un ruolo politico maggiore nell’area, limitare gli effetti destabilizzanti delle proteste e favorire le forze islami-che, più inclini alla creazione di regimi amici delle monarchie saudite. Per quanto riguarda il ruolo della Cina, anche in questo caso non ci si può aspettare un suo appoggio alle forze democratiche emergenti nei Paesi arabi. La Primavera Araba ha però rappresentato anche per Pechino l’opportunità per accrescere il proprio ruolo nell’area. La posizione cinese è molto chiara soprattutto nei confron-ti dell’Egitto. Inizialmente contraria alle pressioni internazionali per le dimissioni di Hosni Mubarak, dopo il ritiro del dittatore la leadership cinese si è affrettata a ristabilire relazioni con i più svariati attori politici egiziani, noncurante delle loro diverse collocazioni nell’arena politica. Cina e Paesi del Golfo, Qatar in particolare, possono offrire una carota molto appe-titosa a questi Paesi. Entrambi non hanno certo sofferto la crisi finanziaria dell’UE e offrono ai loro partner l’accesso ad aiuti ingenti e privi di alcuna condizionali-tà democratica. In questo senso, i finanziamenti offerti dall’Europa sembrano più simili ad un bastone sulle spalle di società impegnate nella transizione politica. La Cina, in modo particolare, offre un modello di sviluppo economico di successo ed è molto ammirata nei Paesi arabi per le sue performance economiche. Lo stesso non si può dire per l’UE. Se al momento attuale non si può immaginare un aumento significativo dell’impegno economico europeo verso il vicinato meridionale, si può però auspi-care che l’UE si impegni nel dialogo con gli altri attori internazionali che agiscono nella regione. Proprio in quest’ottica si è tenuto lo scorso 12 novembre il secondo meeting a livello ministeriale tra UE e Lega Araba (LA). Svoltosi al Cairo alla presenza di Catherine Ashton e del Commissario europeo per la PEV Stefan Füle, si è trattato del primo incontro tra le due organizzazioni regionali dopo la Primavera Araba e di un’importante occasione per rilanciare la cooperazione e aprire un dia-logo su sfide ed opportunità comuni nate dalle rivoluzioni arabe. Nel suo discorso di apertura, Ashton ha ribadito l’importanza di agire in sinergia per creare ap-procci e soluzioni regionali ai cambiamenti in atto nell’area mediterranea. Nono-stante i riferimenti alla necessità di appoggiare le transizioni verso la democrazia,

L’UNIONE EUROPEA E LA NUOVA CORSA ALL’AFRICA N. 1 - Aprile 2013

Gli altri attori: i doppi standard dei Paesi del Golfo

La non-condizionalità degli aiuti cinesi

La cooperazione con gli altri attori della regione: l’UE e la Lega Araba

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la Dichiarazione del Cairo adottata dai Ministri al termine del meeting lancia un appello forte in favore delle ambizioni delle popolazioni arabe. È certamente prematuro valutare l’impatto dell’azione diplomatica europea verso i Paesi nordafricani coinvolti dalla Primavera Araba. Questi Paesi stanno ancora vi-vendo nell’incertezza politica ed economica tipica del periodo post-rivoluzionario. Tuttavia, non si può non prendere atto di un grande attivismo da parte dell’UE, che ha dispiegato in questi ultimi mesi tutti i mezzi diplomatici a sua disposizione per evitare di perdere troppo della sua tradizionale influenza nella regione. Il risul-tato è senz’altro un ruolo politico più aperto, chiaro e visibile agli occhi delle po-polazioni interessate e anche di tutti gli attori internazionali che agiscono nell’area mediterranea. A due anni dall’inizio delle proteste, il 2013 potrebbe portare i frutti più maturi di una Primavera lungamente accusata di essersi già “congelata”. L’UE, intanto, ha preparato la strada per un dialogo e una relazione più matura e coerente con i Paesi arabi.

Il grande attivismo europeo e il nuovo

ruolo politico dell’UE

SHUTTLE DIPLOMACY E “DEMOCRAZIA RADICATA”: LA NUOVA PEV E LE RELAZIONI CON L’EGITTO Sara Bottin

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L’autocritica dell’UE e il “partenariato per la democrazia e la prosperità condivisa”

REALTÀ E PROMESSE : L’UNIONE EUROPEA E LA TUNISIA A DUE ANNI DALLA RIVOLUZIONE

Due anni dopo le rivoluzioni che hanno cambiato per sempre il Nord Africa, l’Unione Europea continua ad affrontare le sfide del suo “vicinato meridionale”. La Tunisia, alle prese con i problemi della democratizzazione, continua a rappre-sentare un esempio delle contraddizioni dell’approccio europeo. Dal principio del “more for more” alle promesse delle tre “M”, la realtà vede un’Europa ancora alle prese con la crisi e incapace di andare oltre i tecnicismi della politica di vicinato.

Stefania Bonacini

L o sconvolgimento tellurico che ha attraversato, seppur con modalità e intensità diverse, l’intera regione nordafricana a partire dal dicembre 2010 ha colto di sorpresa gli osservatori occidentali. In questo senso, la reazione di sbigottimento dell’Unione Europea (UE) e dei suoi Stati

membri davanti a quella che è stata etichettata come Primavera Araba, non co-stituisce un’eccezione. Lo stupore a Bruxelles e nelle capitali europee è stato ad-dirittura maggiore che a Washington, vista la strutturata e apparentemente sta-bile relazione che legava le due sponde del Mediterraneo almeno dal 1995, anno di nascita del Partenariato Euro-Mediterraneo. Fin da subito, l’UE si è mostrata però più che mai consapevole delle difficoltà che i processi di transizione politica ed economica innescati dai fatti della Primavera Araba e tra loro interconnessi, avrebbero posto per la regione nel suo complesso. Proprio per venire incontro a queste sfide, l’UE ha iniziato, suo malgrado, un processo di autocritica con l’ambizioso obiettivo di rifondare le relazioni tra l’UE e il suo vicinato meridionale alla luce di una nuova visione strategica. Un primo passo in questa direzione è rappresentato dalla comunicazione congiunta emessa l’8 marzo 2011 dalla Commissione e dall’Alto Rappresentante per gli af-fari esteri e la politica di sicurezza, Catherine Ashton. Il documento è ambizioso, se non addirittura velleitario nel titolo - “Un partenariato per la democrazia e la prosperità condivisa con il Mediterraneo del sud” – ma il principio di base è in re-altà molto semplice: quanto convinto sarà l’impegno dei singoli partner mediter-ranei nel consolidamento delle riforme economiche e politiche, tanto maggiore sarà il sostegno offerto dall’UE in termini di risorse economiche, accesso al mer-cato europeo e possibilità di mobilità per lavoro. L’assistenza europea ai Paesi in transizione si configura dunque lungo tre linee guida, definite come le “3 M”: money, markets and mobility. Il principio del “more for more” introduce quindi un elemento di differenziazione su base maggiormente meritocratica nella Politi-ca Europea di Vicinato (PEV). L’idea di applicare una forma di condizionalità positiva nell’approccio europeo verso il vicinato non è in realtà nuova. L’idea è destinata a rimanere però sulla carta, a meno che l’UE non raccolga fino in fondo la sfida posta dalla Primavera Araba, adottando una nuova visione strategica della regione nordafricana nel suo insieme e delle complesse reti di relazioni economiche, commerciali e politi-

Il principio del “more for more” e gli incentivi delle tre “M”:

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che che i singoli Paesi intrattengono con l’Europa. Tenendo a mente questo quadro generale, è interessante osservare l’evoluzione negli ultimi due anni dell’approccio europeo nei confronti del Paese che è stato la culla delle rivoluzioni che hanno scos-so l’intero mondo arabo: la Tunisia. Di fronte alla caduta del regime ultraventennale di Zine El-Abidine Ben Ali, Bruxel-les ha subito compreso che l’era della complicità tacita con i dittatori locali in nome, tra le altre cose, del contrasto alla minaccia islamista era finita per sempre. L’UE ha reagito subito raddoppiando gli aiuti economici destinati alla Tunisia per l’anno 2011, che sono passati da 80 a 160 milioni di euro. Di questi fondi, 100 milioni di euro sono stati stanziati allo scopo di favorire la ripresa dell’economia tunisina e di ridurre l’elevato tasso di disoccupazione e di disagio sociale che interessano lar-ghi strati della popolazione. A questi si devono aggiungere i prestiti della Banca Mondiale, della Banca Africana di Sviluppo e dell’Agence Française de Développe-ment per un totale di circa un miliardo di euro destinati al “programma di sostegno alla ripresa economica”. Solo 9,7 dei 160 milioni di euro, invece, sono stati devoluti a sostenere la società civile e all’organizzazione delle prime elezioni democratiche. La Commissione ha infine stanziato 80,5 milioni di euro in aiuti umanitari volti ad aiutare la Tunisia ad affrontare l’emergenza dei rifugiati provenienti dalla vicina Li-bia. Prendendo atto del delicato processo di riforma intrapreso dal Paese all’indomani della rivoluzione, l’UE ha poi deciso di fare della Tunisia il primo beneficiario del nuovo programma SPRING (acronimo di Support for Partnership, Reforms and In-clusive Growth), fondato sul principio del “more for more”. In base a tale program-ma, Tunisi ha dunque ottenuto 20 milioni di euro nel 2011 e 80 nel 2012, destinati soprattutto a migliorare le condizioni sanitarie nelle zone svantaggiate, a favorire la ripresa economica e la competitività dei servizi, a riformare il sistema giudiziario e a promuovere una serie di misure a vantaggio della società civile in tutte le sue e-spressioni. Se il vento del cambiamento sembrava inarrestabile all’inizio del 2011, due anni do-po la situazione appare tutt’altro che rosea. Anche in un Paese come la Tunisia, dove il processo di transizione democratica sembrava procedere in maniera relativamen-te lineare, l’euforia iniziale ha lasciato il posto a una crescente radicalizzazione, cul-minata con l’uccisione del leader politico Chokri Belaid nel febbraio 2013. Eppure, le sfide politiche che attendono la neonata democrazia tunisina sono poca cosa ri-spetto alle sfide economiche. Come osserva William Lawrence di Crisis Group, le cau-se della Primavera Araba sono prima di tutto economiche, piuttosto che politiche. Dalla caduta del regime di Ben Ali, la situazione economica tunisina ha subito un netto deterioramento, che si è andato a sommare ad una serie di questioni irrisol-te, quali l’elevato tasso di disoccupazione giovanile, le forti diseguaglianze interne, la prevalenza del lavoro in nero e l’alto livello di corruzione. La Tunisia che si col-loca infatti solo al 75esimo posto nell’indice di corruzione percepita elaborato da Transparency International per il 2012. Il turismo rappresenta un altro problema urgente: lo scorso anno, il numero di visitatori si è ridotto di almeno un terzo, con ripercussioni immediate sui salari dei lavori scarsamente retribuiti.

Gli aiuti economici per la Tunisia

rivoluzionaria

REALTÀ E PROMESSE: UNIONE EUROPEA E TUNISIA A DUE ANNI DALLA RIVOLUZIONE Stefania Bonacini

Il programma SPRING

Le difficoltà politiche ed economiche della

nuova Tunisia

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Finora, tuttavia, le risposte fornite dai governi nazionali e dalla comunità interna-zionale sono state molto più di carattere politico che economico. Nel caso dell’UE, il fatto che i movimenti laici e liberali siano stati relegati all’opposizione sulla base dei risultati delle elezioni non ha certo aiutato. In più, gli Stati membri dell’UE sono ancora troppo invischiati nella più grande crisi economica del dopoguerra e nelle sue conseguenze di breve periodo per potersi concedere il lusso di concepire un “Piano Marshall” per il Nord Africa. Le famigerate 3 M, a due anni dall’inizio della Primavera Araba, inoltre, sono sem-pre più un miraggio. Innanzitutto, i finanziamenti aggiuntivi stanziati dalla Com-missione sono necessari, ma non sufficienti a compiere le riforme strutturali di cui l’economia tunisina ha urgente bisogno. In secondo luogo, gli Stati membri dell’UE non sono certo entusiasti all’idea di spalancare le porte ai migranti norda-fricani, né tantomeno ai prodotti agricoli del Sahel. C’è poco da stupirsi che i “Partenariati di Mobilità” da attivare sia con il Marocco sia con la Tunisia si siano arenati al livello delle discussioni preliminari. L’asimmetria nelle relazioni com-merciali tra Tunisia e UE è invece rivelata dal fatto che la Tunisia rappresenta solo lo 0,6% del commercio estero europeo, mentre l’UE è di gran lunga il primo par-tner commerciale della Tunisia, rappresentando il 64,7% del commercio estero tu-nisino diretto da e verso l’Europa. In sostanza, le 3 M sembrano sempre più una promessa velleitaria, piuttosto che un obiettivo concreto. Ancora una volta, in seno all’UE, sono gli interessi partico-lari a prevalere sull’interesse generale: Italia, Spagna e soprattutto Francia sono ancora capaci di porre un veto sostanziale sugli orientamenti meridionali della PEV. In effetti, per l’Europa mediterranea la posta in gioco, in termini commerciali, energetici e di prospettive d’investimento, è piuttosto alta. La Francia, in particola-re, continua a giocare un ruolo di primo piano in Nord Africa. I dati parlano da sé: nel 2011 la Francia risultava di gran lunga il primo fornitore di aiuti allo sviluppo alla Tunisia, superando le stesse istituzioni europee. Se si osservano invece i livelli di investimenti esteri diretti in Tunisia, il primato spettava, almeno fino al 2010, all’Italia. La risposta europea alla rivoluzione tunisina ha messo più che mai in evidenza la necessità per l’UE di sostituire l’approccio tecnocratico adottato finora e rappre-sentato in particolare dalla PEV, con un approccio strategico di lungo periodo, capace di conciliare gli interessi particolari dei singoli Stati membri in una sintesi comune. Se vorrà giocare un ruolo nel “nuovo” Nord Africa, l’UE dovrà quindi di-mostrarsi capace di superare l’ottica fortemente economica della PEV e di offri-re ai suoi vicini meridionali un sostegno e una relazione a tutto tondo, che vada dall’ambito

L’UNIONE EUROPEA E LA NUOVA CORSA ALL’AFRICA N. 1 - Aprile 2013

La realtà delle 3 M

Oltre la tecnicità della PEV per un approccio strategico di lungo periodo?

Il ruolo degli Stati membri del Sud

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GLI ACCORDI DI PARTENARIATO ECONOMICO E LA POLITICA COMMERCIALE DELL’UE IN AFRICA

Gli Accordi di Partnenariato Economico costituiscono il principale elemento di confronto fra Unione Europea e Paesi africani. Ultimo passo di un dialogo decen-nale, gli Accordi propongono una nuova ricetta commerciale per lo sviluppo dell’Africa basata sulla reciprocità e la partnership. Le difficoltà nell’individuare partner affidabili, la formazione arbitraria di raggruppamenti regionali e la fer-ma contrarietà di molti governi africani ne rendono però incerta la conclusione.

L ’Unione Europea (UE) è il principale attore economico e politico in Africa sub sahariana. Nel 2007, prima della crisi, il commercio tra i Paesi dell’area dell’Africa, Caraibi e Pacifico (ACP) e l’UE ammontava a 80 miliardi di eu-ro. Nonostante la penetrazione crescente della Cina e una presenza comun-

que importante degli Stati Uniti, le statistiche inerenti agli investimenti, al commer-cio e agli aiuti allo sviluppo non lasciano dubbi su quale sia ancora, al momento, l’attore più importante in questo continente. I legami dell’epoca coloniale compen-sano infatti lo scarso interesse che, fino ad oggi, l’Africa ha suscitato nel settore pri-vato. Portogallo, Francia, Belgio e Regno Unito hanno governato su territori vastissi-mi e mantengono una notevole influenza sui Paesi sorti dalle lotte per l’indipendenza del secondo dopoguerra. L’UE ha infatti da sempre concesso, in un’ottica prettamente unilaterale, privilegi commerciali ai Paesi ACP. Il primo accordo internazionale a riguardo, la Conven-zione di Yaoundé, risale al 1963 e istituiva un accesso preferenziale al mercato eu-ropeo per alcuni prodotti di Paesi in via di sviluppo, principalmente in Africa, quasi tutti ex-colonie dei succitati Paesi europei. In seguito, l’impianto unilaterale delle concessioni fu mantenuto nelle Convenzioni di Lomé (la prima risale al 1975, poi rinnovata periodicamente fino al 2000), di afflato molto più ampio rispetto agli ac-cordi precedenti, poiché prevedevano liberalizzazioni più estese dei mercati euro-pei e misure di stabilizzazione dei prezzi delle derrate alimentari, il c.d. STABEX, tu-telando i principali prodotti di esportazione dei Paesi africani. L’Accordo di Partnenariato di Cotonou del 2000, attualmente in vigore, segna in-vece una svolta di grande importanza nelle relazioni con i Paesi ACP, poiché da esso prendono il via i negoziati per gli Accordi di Partenariato Economico (Economic and Partnership Agreements, EPA) che introducono il concetto di reciprocità nelle concessioni preferenziali tra UE e Paesi ACP, ponendo le ex-colonie su un piano di sostanziale parità nei confronti delle antiche potenze coloniali. Questo cambiamento ha suscitato e suscita resistenze molto forti nei Paesi in questione e tra gli opera-tori della cooperazione allo sviluppo, in particolare le organizzazioni non governati-ve (ONG), per il timore che gli EPA, una volta istituiti, siano fonte di ulteriore dipen-denza e fragilità per le economie africane. Tale svolta è tuttavia difficilmente evita-bile, soprattutto per via di questioni legali legate all’appartenenza dell’UE e di molti degli stessi Paesi ACP all’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC). La struttura multilaterale che regola il commercio globale contiene norme piuttosto

Shannon Little

L’UE resta il primo attore economico e

politico nell’Africa sub-sahariana

Cotonou (2000) e il nuovo approccio

degli EPA

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stringenti riguardo alla concessione di trattamenti differenziati verso determina-ti Paesi: essa si basa infatti sul principio della parità di trattamento per tutti i Pa-esi membri dell’organizzazione. Il sistema di preferenze è stato contestato in sede OMC in seguito all’entrata in vigore degli accordi di Marrakesh del 1994, che han-no fortemente potenziato lo strumento della risoluzione delle dispute. Le prote-ste sono giunte in particolare da parte di Paesi americani produttori ed esporta-tori di banane (sudamericani, oltre agli stessi Stati Uniti), che contestavano le condizioni preferenziali assegnate ai loro rivali economici tra i Paesi ACP. All’inizio degli anni 2000, l’UE ha chiesto ed ottenuto un prolungamento dell’attuale regime di preferenze – dichiarato illegale – solo grazie all’impegno sottoscritto nell’Accordo di Cotonou di adeguare le misure tariffarie alla normati-va OMC. Questo significa, in primis, la fine dell’unilateralismo e la reciprocità delle concessioni preferenziali fra UE e Paesi ACP. Si tratta quindi di un cambio di strategia importante per quanto concerne la poli-tica commerciale e di sviluppo dell’UE verso i Paesi in questione, anche alla luce del generale fallimento delle diverse generazioni di accordi precedenti nello stimolare maggiori scambi commerciali (la quota di importazioni dell’UE prove-nienti dai Paesi ACP è scesa dal 7% al 3% in valore nei decenni in questione), ol-tre che una crescita economica capace di dare una prospettiva di miglioramento delle condizioni di vita degli abitanti di alcuni dei Paesi più poveri del pianeta. Due forze, quindi, hanno portato ad una rimodulazione radicale dell’approccio dell’Unione verso i Paesi ACP: da un lato, sentenze giuridiche che richiedevano una risposta decisa per non indebolire la struttura multilaterale degli scambi, già in difficoltà per lo stallo nei negoziati del Doha Round; dall’altro, un forte svilup-po economico a partire proprio dai primi anni 2000 in molti dei Paesi in questio-ne, che sta finalmente cambiando l’approccio del mondo nei confronti dell’Africa, da continente affamato e tormentato dalle guerre civili, a economia emergente dalle ricche opportunità. I negoziati degli EPA si sono rivelati lunghi e difficoltosi, in buona parte per la debolezza istituzionale degli Stati africani, che hanno carenza di risorse profes-sionali in grado di gestire discussioni complesse e fortemente tecniche, quali so-no diventati i negoziati in materia commerciale negli ultimi decenni. Un’altra ra-gione del forte ritardo è da ricercarsi nella decisione dell’UE di voler negoziare gli accordi a livello regionale e non con i singoli Paesi. La logica dietro questo ap-proccio si ricollega all’esperienza stessa dell’UE come esperimento avanzato di integrazione regionale, che ha suscitato e tuttora suscita un grande interesse e tentativi d’imitazione in tutto il mondo. Con la negoziazione su base regionale, si cercava di stimolare processi di dialogo e integrazione a livello regionale, poten-zialmente di grande valore in un continente come l’Africa, caratterizzato da Paesi particolarmente poveri, diversamente popolati e dai confini porosi.

Anche in questo caso, però, i negoziatori della Commissione Europea si sono spesso trovati in difficoltà. L’instabilità politica di molte regioni dell’Africa ha causato lunghi periodi di stallo nelle discussioni e la DG Commercio della Com-missione si è a volte trovata accusata di fomentare ulteriori divisioni. Questa ac-cusa ha un suo fondamento nella divisione territoriale delle regioni oggetto di

L’UNIONE EUROPEA E LA NUOVA CORSA ALL’AFRICA N. 1 - Aprile 2013

Le ragioni giuridiche e geo-economiche della svolta radicale della politica commerciale dell’UE

Le difficoltà nei negoziati per gli EPA

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negoziato. I dialoghi hanno infatti luogo tra l’UE, rappresentata dalla Commissione, e i singoli raggruppamenti regionali, che devono trovare una posizione comune tra gli Stati che ne sono parte e difenderla di fronte agli europei. Si creano quindi da un lato inevitabili tensioni tra gli Stati appartenenti alla stessa regione per definire la linea comune, nonché possibili disparità tra le regioni.

Quelle individuate dall’UE sono le seguenti: Western Africa, Central Africa, Eastern and Southern Africa (ESA), Eastern African Community (EAC), and South African Development Community (SADC). Di queste, solamente la SADC e la EAC hanno una propria struttura istituzionale, essendo organizzazioni regionali già esistenti, e quindi un certo grado di autonomia. In particolare la SADC, guidato dall’unica vera potenza economica africana (il Sudafrica), ha adottato un atteggiamento assertivo nei negoziati. Negli altri casi, i raggruppamenti decisi dagli europei evitano scien-tificamente organizzazioni regionali esistenti, come per esempio l’ECOWAS e l’UEMOA in Africa Occidentale.

Non è dunque un caso che, tra le regioni citate, a ormai più di dieci anni dall’inizio dei negoziati, solamente l’ESA abbia raggiunto un accordo ad interim che prevede una liberalizzazione estesa del commercio di beni, ora in fase di ratifica sia nell’UE che nei singoli Paesi africani. Per le altre regioni sono stati raggiunti simili accordi ad interim o accordi quadro ma dal respiro meno ampio, e molti di essi non sono stati ratificati e in alcuni casi neppure firmati. Infine, per completare il quadro della politica commerciale dell’UE verso l’Africa sub-sahariana, è opportuno segnalare che la maggior parte dei Paesi in questione sono least developed countries e come tali beneficiano di uno schema commerciale noto come Everything But Arms, che prevede, proprio alla luce della loro estrema povertà, l’accesso senza dazi di ogni tipo di merci e servizi al mercato europeo, con l’esclusione degli armamenti. Questo depotenzia la leva negoziale della Commissione, che non si limita solo all’abbat-timento dei dazi rimanenti – peraltro non elevati – ma che sicuramente vede in questo elemento uno dei suoi argomenti più convincenti e politicamente efficaci.

Il cambiamento di approccio, da un unilateralismo paternalista a una reciprocità attenta alle conseguenze più deleterie delle aperture commerciali su economie an-cora molto fragili (i dazi verranno ridotti gradualmente e conservati sul 20% in va-lore delle merci più sensibili), rispecchia e rafforza il vasto cambiamento nella con-cezione occidentale dell’Africa. Se adeguatamente affiancata da un’efficace strategia di aiuti per lo sviluppo, essa potrà mostrare il volto migliore dell’UE e contribuire ad uno sviluppo economico che può diventare una delle storie più importanti del nostro secolo.

I raggruppamenti regionali individuati

dall’UE

GLI ACCORDI DI PARTENARIATO ECONOMICO: LA POLITICA COMMERCIALE DELL’UE IN AFRICA Shannon Little

I regimi preferenziali esistenti, ostacolo alla

strategia europea

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L’auto-celebrazione dell’UE e la realtà della sua percezione esterna: il caso dell’Africa

Il passato coloniale e il complesso sistema istituzionale dell’UE pesano sulla sua percezione presso gli africani

L’UNIONE EUROPEA NEGLI OCCHI DELL’AFRICA

L’ombra del colonialismo grava ancora sull’Unione Europea. La percezione dell’Europa in Africa è ancora macchiata dal passato predatorio di alcuni dei suoi Stati membri. Le proposte commerciali dell’ultimo decennio, come gli Accordi di Partenariato Economico, hanno rafforzato tale prospettiva, in contraddizione con l’auto-rappresentazione dell’UE come “attore diverso”. Le divisioni e le contraddi-zioni interne minano inoltre la credibilità dell’Europa come soggetto unitario.

Alice Condello

N onostante i suoi evidenti limiti nel definire, e ancor di più nell’attuare, una politica estera comune, l’Unione Europea (UE) è ancora conside-rata un attore molto rilevante sul palcoscenico internazionale. In par-ticolare, negli anni, la letteratura ha manifestato un certo interesse

verso il ruolo internazionale dell’UE, interrogandosi sull’identità politica europe-a come potenza “diversa” dagli altri attori internazionali. A partire dalla risco-perta del concetto di «potenza civile» introdotto da François Duchêne (1973), grazie al lavoro di Mario Telò (2004) e non solo, diverse sono state le “etichette” coniate dalla letteratura per spiegare la natura ibrida e in divenire dell’UE, tra cui: «potenza normativa», «politica estera strutturale», «forza gentile», «potenza etica». Tuttavia, questa letteratura auto-rappresentativa che ha posto l’accento sulla “peculiarità” del soggetto istituzionale UE e del suo modo di fare politica estera, prediligendo gli strumenti economici e diplomatici a quelli coercitivi, ha trascurato la reale percezione esterna da parte dei Paesi terzi. Nell’intento di ovviare a questa carenza, sarà adottata la prospettiva africana per definire i con-torni dell’immagine che l’UE proietta di sé stessa nelle relazioni con l’Africa. Dal passato coloniale all’attuale forma di cooperazione definita dagli Accordi di Par-tenariato Economico (Economic Partnership Agreements, EPA), le relazioni tra Europa e Africa hanno sempre evidenziato una marcata impronta europea sul-lo sviluppo dei Paesi africani. Per questo, sarà tanto più utile analizzare la visio-ne effettiva che questi ultimi hanno del loro partner europeo. Un’analisi delle relazioni tra UE e Paesi africani non può prescindere dal retro-scena storico. Nello specifico, il passato coloniale e la barbara spartizione dell’Africa, che ha sancito formalmente il dominio delle potenze europee sul con-tinente africano con la Conferenza di Berlino (1884-1885), hanno condizionato i rapporti interregionali tra le parti. Come ha osservato Whiteman, i legami stori-ci europei con il continente nero poggiano essenzialmente su «radici violente». Come conseguenza di questo retaggio storico, i Paesi africani hanno introiet-tato il rapporto di dipendenza e subordinazione nei confronti delle potenze ex-colonialiste, che incide fortemente sulla loro percezione dell’UE. Dal canto su-o, l’UE, con il suo complesso sistema di policy-making e i meccanismi decisionali sovente bloccati in ambito di politica estera, ha senza dubbio contribuito a pro-iettare un’immagine di sé confusa e frammentata. Più che altro, se i retaggi

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storici della dominazione coloniale influiscono ancora oggi sulla percezione africana dell’UE, un grande margine di responsabilità va attribuito proprio alle politiche e al modo di operare di quest’ultima in Africa, che rievocano alla memoria dei Paesi afri-cani quell’atteggiamento tipicamente paternalistico del “colonialista”. Questa immagine inequivocabilmente negativa si scontra con la retorica ufficiale, impegnata a descrivere l’UE come un “equo partner solidale” che agisce a vantaggio dei Paesi più deboli. Nello specifico, la forma di cooperazione introdotta attraverso gli Accordi di Cotonou (2000) con i Paesi ACP, che ha istituito i già menzionati EPA, sembra ritrarre l’UE come un attore molto più incline a tutelare i propri interessi, anziché agire a beneficio dei Paesi poveri. Infatti, in detti accordi, l’UE ha proposto una ricetta economica neoliberale, basata sull’idea della liberalizzazione recipro-ca dei commerci, che chiaramente non è stata accolta con grande entusiasmo da parte dei Paesi africani. Mentre la retorica degli EPA ha messo in luce l’impegno europeo a stabilire un’equa partnership con i Paesi africani e ad aumentare il livello di responsabilità (ownership) di questi ultimi sui propri processi di sviluppo, il riscontro empirico, al contrario, ha rivelato una crescita dell’asimmetria nelle relazioni tra UE e Africa, in cui i partner africani hanno poca voce in capitolo. Infatti, quando si parla di “partner eguali”, l’idea di fondo è che l’uguaglianza dovrebbe manifestarsi soprattut-to nelle fasi dei negoziati, dove i blocchi regionali, almeno teoricamente, dovrebbe-ro confrontarsi con un pari potere di negoziazione. Tuttavia, il ruolo predominante della Commissione Europea nelle negoziazioni degli EPA, attraverso la Direzione Generale per il commercio (DG Trade), non consente al gruppo ACP di esprimere questo equo potere negoziale. Inoltre, va osservato un ulteriore elemento contrad-dittorio della politica europea per lo sviluppo nei confronti dei Paesi africani: la pre-ponderanza del ruolo della DG Trade rispetto a quella specificamente dedicata alla cooperazione e allo sviluppo (DG Development and Cooperation - Europeaid), il cui approccio è evidentemente diverso. La prima, infatti, sposa una strategia pretta-mente neoliberale, devota ai principi del libero mercato; la seconda è responsabile dell’elaborazione della politica europea di cooperazione e della distribuzione degli aiuti allo sviluppo. Il prevalere di DG Trade su Europeaid, pertanto, sembra presup-porre una scelta ideologica dietro la politica europea di cooperazione allo sviluppo, anteponendo la liberalizzazione economica all’obiettivo della riduzione della pover-tà e del sostegno allo sviluppo dei Paesi poveri. Questo, indubbiamente, non può che ledere e screditare l’auto-rappresentazione positiva dell’UE. Ma per quale motivo attribuire una tale importanza agli EPA nelle relazioni econo-miche tra UE e Paesi africani? Perché tali accordi costituiscono il caso emblematico del divario tra la retorica dei documenti ufficiali e l’effettivo impatto dell’azione e-sterna europea nei confronti dell’Africa. Secondo Stephen Hurt il nuovo approccio allo sviluppo introdotto con gli Accordi di Cotonou, che ha affiancato all’idea di partnership quella appunto di responsabilità (ownership) sui processi di sviluppo, in realtà, ha mascherato con la sua «falsa retorica» le profonde relazioni di potere derivanti dalla politica economica internazionale. In particolare, l’immagine euro-pea del “partner economico”, sviluppata all’interno degli EPA, ha assunto una connotazione estremamente negativa, proprio per l’atteggiamento egoistico e paternalistico che l’UE ha mostrato durante le negoziazioni degli accordi.

L’immagine negativa dell’UE in Africa: gli

EPA e il neoliberismo

Diversità di approcci all’interno della

stessa Commissione Europea

L’UNIONE EUROPEA NEGLI OCCHI DELL’AFRICA Alice Condello

Retorica vs realtà: l’atteggiamento

egoista dell’UE e la retorica del “partner”

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L’UNIONE EUROPEA E LA NUOVA CORSA ALL’AFRICA N. 1 - Aprile 2013

L’UE : un confuso agglomerato di Stati

In Africa, l’Europa è vista come un blocco economico neo-coloniale

Dalla prospettiva dei Paesi africani, dunque, l’UE si presenta con tutt’altra fisiono-mia rispetto a quella descritta dalla letteratura auto-celebrativa. Innanzitutto, l’immagine percepita dall’esterno è frammentata: l’UE è vista più come un “agglomerato di Stati”, dove gli interessi nazionali prevaricano quelli europei, so-prattutto negli affari esteri. Il fatto di non essere considerato un attore unico e compatto, ma, al contrario, regolato da un meccanismo decisionale sostanzialmen-te paralizzato in politica estera, mina profondamente la credibilità internazionale dell’UE agli occhi dei Paesi africani. Questi ultimi, infatti, sovente preferiscono in-trattenere un dialogo bilaterale con i singoli Stati membri, piuttosto che con l’UE, il cui sistema di policy-making appare troppo complesso e confuso. Dall’esterno, la commistione tra elementi sovranazionali e intergovernativi, il pote-re decisionale conteso tra Commissione e Consiglio a seconda delle competenze, lo scontro tra interessi nazionali e interessi comuni europei, sono tutti fattori che rendono incomprensibile il funzionamento dell’UE. Inoltre, il regime commerciale di Cotonou ha portato in primo piano l’immagine prettamente economica dell’UE, condizionandone in maniera negativa la perce-zione esterna. L’UE, in effetti, è molto più che un partner commerciale egoista, ma la realtà empirica dimostra che, dall’Africa, l’identità europea complessa e multidi-mensionale è concepita in maniera “monolitica”. Conseguentemente, l’immagine europea emersa dagli Accordi di Cotonou non poteva che rafforzare la percezione dell’UE come “potenza neo-coloniale”, egoisticamente accecata dai propri inte-ressi, nonché risoluta nel dettare con un atteggiamento paternalistico la strada per lo sviluppo dei Paesi africani, senza tener conto della loro posizione. Si tratta, dunque, di un’identità tristemente lontana da quella ritratta dalla let-teratura di auto-rappresentazione, che esaltava l’UE come attore internazionale “diverso”, dedito all’impiego di strumenti economici e politico-diplomatici (anziché coercitivi) per influenzare i Paesi terzi. Quest’analisi dell’immagine europea, proiettata negli occhi dei Paesi africani, non lascia molto spazio a conclusioni otti-mistiche. Tuttavia, la consapevolezza del divario tra la retorica e l’effettivo impat-to delle politiche europee in Africa, probabilmente, potrebbe costituire un primo passo dell’UE per porre rimedio ai propri limiti.

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L’ AMBIGUITÀ DELL’ INTERVENTO EUROPEO IN MALI : FRANCIA E UNIONE EUROPEA A CONFRONTO

I complessi rapporti fra le operazioni militari francesi e l’azione esterna dell’Unione Europea sono indicativi dell’ambiguità della politica europea in Afri-ca. La Francia e la sua tradizionale politica interventista nei Paesi che sono stati parte del suo impero coloniale, rischia di entrare in contraddizione con l’approccio europeo in Africa occidentale. In Mali, l’UE ha appaltato l’intervento militare a Parigi, limitandosi a lanciare una ridotta missione di addestramento.

A llo scoccare dei due mesi dall’avvio dell’Operazione Serval e dall’invio del contingente di circa 2.500 uomini dell’Armée de Terre francese, la si-tuazione complessiva dell’insurrezione in Mali sembra tutt’altro che risol-ta. I successi militari del primo mese, la riconquista di importanti centri

strategici nella zona settentrionale del Paese (Gao, Timbouktou, Kindal), l’approntamento di contingenti stranieri provenienti dai Paesi confinanti (circa 5.000 unità provenienti da Ciad, Nigeria, Burkina Faso, Senegal e Niger) e dalla co-munità internazionale (European Union Training Mission in Mali, EUTM, pienamente operativa dal 2 aprile) non sembrano aver fortemente influenzato la risoluzione del conflitto in corso. Certamente l’intervento di queste forze esterne ha drasticamente rimodellato la situazione sul campo di battaglia, costringendo i principali oppositori del governo centrale (Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad, Al Qaeda nel Maghreb Islamico, Movimento per l’Unita e la Jihad nell’Africa Occidentale) ad un radicale cambiamento strategico e tattico inerente la conduzione delle operazio-ni. Non più capaci di mantenere il controllo delle grandi città e dei centri nevralgici del nord del Paese, i ribelli, in modo simile agli insurgent conosciuti in Afghanistan ed in Iraq, hanno sviluppato ed implementato tattiche di guerra asimmetrica, ter-rorismo e guerriglia, mirando strategicamente a rallentare la riconquista governa-tiva e a intralciare il fluido svolgimento della attività belliche. Per quanto non si pos-sa ancora parlare di un nuovo Afghanistan o, data la natura dell’intervento e la na-zionalità del contingente impiegato, di una nuova Algeria, la situazione rimane co-munque non delle più benauguranti e i pronostici per il futuro non lo sono altrettan-to. I recenti interventi militari francesi avvenuti dopo le proclamazioni dell’indipendenza da parte delle ex colonie africane hanno molte volte ricevuto scarsa attenzione da parte della comunità internazionale. Nonostante gli sforzi di Charles de Gaulle e dei suoi successori di mantenere viva la memoria storica di una grande potenza mondiale, la Francia sembrerebbe ormai aver ceduto, volente o no-lente, parte del proprio appeal internazionale a organizzazioni sovranazionali di cui essa stessa è parte. Tuttavia, le attività militari francesi sono sempre state molto im-portanti per la Nazione in sé, che non ha mai rinunciato a tutelare in prima perso-na i propri interessi nei Paesi un tempo parte dell’impero coloniale e oggi riu-niti nella Organisation internationale de la Francophonie, nonostante il reintegro completo di Parigi nella NATO nel 2009 e gli impegni nell’ambito della Politica di

Gianluca Farsetti e Giuseppe Lettieri

L’andamento delle operazioni in Mali:

l’intervento internazionale e le

tattiche di guerriglia dei ribelli

L’interventismo della Francia nel suo ex impero coloniale

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Sicurezza e Difesa Comune (PSDC) dell’Unione Europea . L’odierno intervento in Mali, apparentemente riconducibile alla tipologia sopra descritta, ha ricevuto però un forte sostegno o quantomeno un tacito assenso da parte della comunità internazionale, riscontrando il favore di Nazioni Unite, Unione Europea, Unione Africana, ECOWAS (Economic Community of West African States) e, non ultimo, il governo maliano. Il governo francese ha sostenuto la liceità del suo intervento soprattutto alla luce della dottrina denominata “intervention by invitation”, secondo la quale un go-verno può richiedere aiuto a un Paese amico con l’obiettivo di riportare ordine e stabilità nel proprio territorio lacerato da conflitti interni di vario tipo, quale per esempio la lotta contro un gruppo terroristico. Oltre a tale dottrina, il ministro degli esteri francese Laurent Fabius ha fatto rife-rimento durante la conferenza stampa dell’11 gennaio ad altre due basi legali dell’azione francese: la risoluzione n. 2085 del Consiglio di Sicurezza , adottata in data 20 dicembre 2012, e l’Articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite. Per quanto riguarda la prima, la risoluzione era stata inizialmente concepita per la-sciare la leadership della gestione della crisi alle organizzazioni regionali africa-ne, ECOWAS e Unione Africana in primis. Tuttavia, l’ammissione da parte Thomas Boni Yayi, presidente dell’Unione Africana, della necessità di un intervento della NATO e l’aggravarsi della situazione hanno portato a un’interpretazione estensi-va del testo, autorizzando l’intervento di partner bilaterali nell’ottica di offrire la massima assistenza nel contenimento della minaccia “terrorista”. Con il richiamo all’Art. 51, si fa ovviamente riferimento al noto diritto di autodifesa, esercitabile sia individualmente che collettivamente, e alla sua estensione giurisprudenziale atta ad includervi risposte ad attacchi militari da parte di soggetti privati (ad e-sempio, un gruppo terrorista transnazionale). Appare chiaro che anche in questa occasione l’UE ha perso l’opportunità di mo-strarsi un attore influente sul palcoscenico politico internazionale e, nel caso spe-cifico, di giocare il ruolo di attore risolutivo sulle questioni riguardanti Nord Afri-ca e Sahel. Nonostante i mezzi e le capacità a disposizione e un programma di aiu-ti economici già avviato nella regione dal 2008, che ha permesso di stanziare so-lo in Mali 260 milioni di euro tramite European Development Fund (EDF), Instru-ment for Stability (IfS) e European Neighbourhood Policy Instrument (ENPI), nel momento in cui un’azione decisiva e risolutoria sarebbe stata necessaria per so-stenere la proprio politica di lungo corso, l’Unione è venuta meno. Nel momento in cui, nell’ottica di un comprehensive approach, ad un sostegno di tipo econo-mico sarebbe stato necessario abbinarne uno maggiormente incisivo nell’ambito della gestione della sicurezza, l’Unione ha preferito cedere il passo all’intervento francese, avviando solo in una seconda fase della crisi una mis-sione di addestramento per le truppe maliane. E anche riguardo quest’ultima, non si può fare a meno di notare quanto l’apporto della EUTM sia insufficiente, sia per numero di truppe impiegate, 550 uomini provenienti da diversi Paesi eu-ropei, sia per tempistiche di dislocamento, dato che la piena operatività è previ-sta entro due mesi (il 2 aprile) contro i 7 giorni impiegati dai 1.700 uomini dell’esercito francese dopo la conferenza stampa dell’11 gennaio.

L’UNIONE EUROPEA E LA NUOVA CORSA ALL’AFRICA N. 1 - Aprile 2013

Risoluzione 2085 del CDS e Art. 51 della Carta delle NU: le basi legali dell’intervento francese in Mali

Per l’UE un’ennesima occasione mancata

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Le reticenze dell’UE nel campo della

sicurezza minano il suo comprehensive

approach

L’AMBIGUITÀ DELL’INTERVENTO EUROPEO IN MALI: FRANCIA E UNIONE EUROPEA A CONFRONTO Gianluca Farsetti e Giuseppe Lettieri

Un intervento più tempestivo e più congruente alle esigenze della crisi sarebbe stato preferibile da parte dell’UE, facendo proprie sin da subito le iniziative nella regione, la leadership dell’operazione e magari l’opportunità di ricorrere a strumenti di rapi-do intervento quali gli European Union Battlegroups (peraltro già impiegati in territorio africano). Inoltre, per quanto concerne la fase di pianificazione degli inter-venti economici di aiuto allo sviluppo, sarebbe efficace prevedere sin da subito, a latere dell’aspetto economico, missioni di securitization (quali la EUTM) volte ad incrementare l’operatività di polizia e forze militari autoctone, deficitarie in termini di know-how e competenze tecniche. A stupire in questa occasione non è tanto il “solitario” intervento francese, come pe-raltro già avvenuto in Libia nel 2011, ma la recidività dell’Unione, o di alcuni suoi Stati membri, nell’astenersi dall’utilizzare capacità e strumenti militari non eccessi-vamente “invasivi” quando necessari, soprattutto se volti a salvaguardare un più ampio e importante progetto europeo di sviluppo economico e di stabilizzazione dell’area del Sahel.

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Conflitti, povertà e insicurezza restano i grandi problemi del Corno d’Africa

LEARNING BY DOING NEL CORNO D’ AFRICA: LA PCSD E IL COMPREHENSIVE APPROACH EUROPEO

L’Unione Europea ha dispiegato nel martoriato teatro strategico del Corno d’Africa tre missioni e un quadro strategico. Le operazioni in ambito PSDC si af-fiancano agli obiettivi di lungo periodo della cooperazione europea. La travaglia-ta regione africana rappresenta così un esempio particolarmente interessante del comprehensive approach dell’Europa, tra interventi militari e politica strutturale. Una scommessa da vincere, in una regione strategicamente fondamentale.

Enrico Iacovizzi

L a situazione del Corno d’Africa rappresenta uno dei più grandi fallimenti del sistema internazionale: si tratta infatti di una regione esposta a gravi situazioni di insicurezza umana ed alimentare, teatro e vittima della prima grande carestia del XXI secolo e di conflitti inter-, intra- e non-

statali. La spirale di insicurezza e povertà che ne ha caratterizzato il recente pas-sato rappresenta oggi un esempio eclatante del nesso tra sviluppo e sicurezza: attività criminose, reti terroristiche e pirateria prosperano sfruttando condizioni di povertà estrema, accrescendo i fattori principali di ingovernabilità della regio-ne che a loro volta portano ad un ulteriore deterioramento delle condizioni di vita per la grande maggioranza della popolazione. Politicamente ed economicamente la regione è estremamente fragile: nonostan-te negli ultimi anni Stati come Kenya e Uganda siano riusciti ad accelerare la crescita economica, per la maggior parte essi dipendono ancora pesantemente dalle importazioni e da scarse infrastrutture, mentre da un punto di vista politi-co - pur non dimenticando i passi in avanti come l’insediamento del nuovo parla-mento somalo e l’elezione del nuovo presidente Hassan Sheikh Mohamud nel 2012 - la situazione resta pesantemente minacciata dai continui conflitti aperti tra i membri dell’IGAD (Autorità Intergovernativa per lo Sviluppo, composta da Gibuti, Eritrea, Etiopia, Kenya, Somalia, Sudan, Sud Sudan ed Uganda) riducendo le possibilità di cooperazione regionale. La sub-regione rappresenta quindi una grande fonte di preoccupazione, le cui ripercussioni trascendono i confini regionali influenzando negativamente le aree circostanti. Tra queste figurano flussi di immigrazione illegale e di rifugiati di cui l’Unione Europea (UE) è il maggior recettore, traffici illeciti e contrabbando internazionale, creazione di network terroristici, fenomeni diffusi di pirateria. Questi aspetti sociopolitici hanno importanti ripercussioni sulle dinamiche eco-nomiche internazionali: l’UE è, infatti, il principale partner commerciale della regione (4,7 miliardi di euro in esportazioni nel 2011, dato in aumento costante negli ultimi tre anni) ed ogni anno 100.000 navi cargo attraversano l’Oceano In-diano, dove transita il 66% del traffico mondiale di petrolio. Nel contesto strategico europeo di sicurezza, la stabilizzazione socio-economico e politica del Corno d’Africa rappresenta quindi un tassello cardine che ridurreb-

Flussi illegali di merci e persone, terrorismo e pirateria, mentre al largo delle coste transitano 100.000 navi cargo

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Novembre 2011: “Strategic

Framework for the Horn of Africa”

EUNAVFOR Atalanta: 1.400 unità per il

contrasto alla pirateria

be sensibilmente numerose minacce, a tutto vantaggio della regione, dell’UE e pro-babilmente dell’intero sistema internazionale. A tal fine l’UE ha adottato nel novembre 2011 lo Strategic Framework for the Horn of Africa, un approccio regionale basato su cinque punti fondamentali: co-struzione di strutture statuali democratiche solide; rafforzamento della pace; ridu-zione degli effetti dell’insicurezza; riduzione della povertà; promozione della cre-scita. In tale quadro, l’aspetto della sicurezza assume un rilievo particolare soprat-tutto nella sua dimensione marittima, cui l’UE ha dedicato particolare attenzione fin dal 2008, focalizzandosi principalmente sulla Somalia, storicamente lo Stato fallito per eccellenza, in cui sono da rintracciare le cause primarie della pirateria. Nello specifico, sotto l’ombrello della Politica di Sicurezza e di Difesa Comune (PSDC), l’UE ha fino ad oggi lanciato tre missioni che rispondono al comune obiet-tivo di stabilizzazione della regione. EUNAVFOR Atalanta. Lanciata nel 2008 e da poco prorogata fino al dicembre 2014, mira a contrastare le attività di pirateria lungo le coste somale. La missione, che tra personale a terra ed in mare conta circa 1.400 unità, copre una superficie equivalente ad una volta e mezzo il territorio europeo. Scortando imbarcazioni del World Food Programme e della Missione in Somalia dell’Unione Africana (AMISOM), la missione ha raggiunto ottimi risultati, proteggendo fino ad oggi 300 vascelli e permettendo la consegna di oltre un milione di tonnellate di aiuti umani-tari. Dal 2009 al 2012 gli abbordaggi da parte di pirati sono passati da 163 a 36, con 149 pirati consegnati alle autorità competenti. Inoltre il mandato della missio-ne è stato esteso anche a terra con l’obiettivo di smantellare i safe havens dei pi-rati lungo le coste per privarli del supporto logistico loro necessario. Atalanta in-clude nel suo mandato anche il monitoraggio delle attività di pesca, impedendo la pesca illegale, elemento di disturbo nell’economia del Paese. EUTM Somalia. Avviata nel 2010 con 101 unità all’attivo, ha l'obiettivo di rafforza-re le forze di sicurezza somale attraverso addestramento e supporto strategico. Fino ad oggi circa 3.000 soldati somali di ogni grado sono stati addestrati in colla-borazione con le forze ugandesi nei settori della polizia militare, cooperazione civi-le-militare, intelligence, genio militare e protezione dei civili. La missione (estesa fino al marzo 2015) comprende anche attività di strategic and political advice al Ministero della Difesa ed allo Stato Maggiore somali, nonché attività di mentoring e potenziamento delle capacità nel settore dell’addestramento. EUCAP Nestor. La missione conta 175 unità civili affiancate da una piccola equipe di esperti militari il cui obiettivo è quello di sviluppare le capacità di controllo del-le acque territoriali di Gibuti, Kenya, Seychelles, Somalia e Tanzania attraverso la costituzione di corpi di polizia costiera in grado di affrontare autonomamente il problema della pirateria. Il mandato di Nestor include anche il rafforzamento del Centro di Addestramento Regionale del Gibuti, dove avverrà l’addestramento di esperti di tutti i Paesi coinvolti ed il consolidamento della rule of law e del siste-ma giudiziario somali. Nestor può essere a pieno titolo considerata la chiave di vol-ta dell’intera strategia europea di sicurezza nel Corno d’Africa: lasciando progressi-

LEARNING BY DOING NEL CORNO D’AFRICA: LA PCSD E IL COMPREHENSIVE APPROACH EUROPEO Enrico Iacovizzi

EUTM Somalia: 101 unità per

addestramento e supporto alle forze di

sicurezza somale

EUCAP Nestor: 175 unità per

sviluppare capacità di controllo delle acque

e supporto a rule of law

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vamente le operazioni di controllo marittimo alle forze regionali costituite ed adde-strate, essa dovrebbe funzionare come graduale exit-strategy per Atalanta e restitui-re il pieno controllo delle acque alle forze locali. Quest’ottica di lungo periodo si di-scosta sensibilmente dalle precedenti operazioni PSDC, per lo più focalizzate su sin-goli obiettivi, segnando lo spostamento verso una pianificazione di più ampio respi-ro strategico. Le tre missioni operano in maniera complementare mirando a rendere la regione in grado di provvedere in maniera autonoma alla propria sicurezza ed alla questione della pirateria. Questo approccio integrato trova poi ulteriore forza nella costituzio-ne del Centro Operativo Europeo per il Corno d’Africa, che offre supporto alla pianificazione e coordinazione tra le tre missioni, e nella nomina nel gennaio 2012 di un Rappresentante Speciale dell’UE per il Corno d’Africa, il greco Alexander Rondos, che pur non avendo poteri decisionali, può proporre delle raccomandazio-ni e fornisce un collegamento diretto con le strutture politiche di Bruxelles. Il quadro delle operazioni PSDC è però solo una parte del quadro strategico adottato dall’UE: la pirateria è vista come un sintomo dell’instabilità regionale piuttosto che come una causa. L’approccio europeo parte dall’idea che combattere la pirateria ha senso solo se si sarà in grado nel frattempo di alleviare le sofferenze delle popo-lazioni locali e fornire loro alternative di elevazione sociale attraverso una migliore governance e sicurezza nazionale e regionale, sradicando alla base le cause del malessere socio-economico. Le missioni PSDC nel Corno d’Africa rappresentano quindi un tassello di un più va-sto comprehensive approach in cui le attività militari sono ausiliarie alle attività di cooperazione allo sviluppo e lotta alla povertà. Un’azione esterna che miri a pro-muovere i valori fondamentali dell’UE può essere credibile solo se privilegia lo stru-mento umanitario a quello militare e a tal proposito non si deve dimenticare che og-gi l’UE è il principale donatore di aiuti umanitari ed assistenza allo sviluppo nella regione, sia mediante rapporti bilaterali degli Stati membri, sia attraverso strumenti europei quali l’EDF (Fondo Europeo di Sviluppo), il DCI (Strumento di Co-operazione allo Sviluppo), l’EIDHR (Strumento Europeo per i Diritti Umani e la De-mocrazia), lo Strumento di Stabilità e l’action plan SHARE (Supporting Horn of Afri-ca Resilience). Questo doppio binario dell’azione esterna europea non deve essere trascurato in regioni come il Corno d’Africa, dove condizionalità politica e relazioni commerciali sono costantemente in contraddizione tra loro, con l’UE che continua ad iniettare flussi finanziari pur senza evidenti miglioramenti nel rispetto della rule of law. Que-ste grandi contraddizioni vanno a tutto vantaggio di altri attori che operano nella regione, come Russia e Cina, che forniscono una quota sempre più grande degli in-vestimenti diretti a migliorare le infrastrutture e rivitalizzare la crescita economica nella regione e partecipano attivamente alla lotta antipirateria, sia unilateralmente che in collaborazione con gli altri attori presenti nel Golfo di Aden.

Il Centro operativo europeo e Alexander Rondos, Rappresentante Speciale per il Corno d’Africa

La pirateria come “sintomo” dell’instabilità

L’UNIONE EUROPEA E LA NUOVA CORSA ALL’AFRICA N. 1 - Aprile 2013

Le contraddizioni dell’UE e il ruolo crescente di Russia e Cina

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Eppure l’UE, nel suo costruire, missione dopo missione, la propria politica di sicu-rezza e difesa, non deve dimenticare la propria essenza di potenza civile: in tutti quei teatri dove l’intervento militare è indispensabile, qualsiasi pianificazione deve sempre tenere conto delle cause economico-sociali di cui la violenza è un sintomo prima che una causa. Motivo per cui un comprehensive apporach europeo che vo-glia risultare attraente per i partner e competitivo rispetto ai modelli di altri attori internazionali, dovrà sempre affiancare una PSDC efficace ed un concetto di condi-zionalità politica effettivo.

LEARNING BY DOING NEL CORNO D’AFRICA: LA PCSD E IL COMPREHENSIVE APPROACH EUROPEO Enrico Iacovizzi

Ma l’UE deve restare una “potenza civile”

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www.rivistaeuropae.eu I “FOCUS” di Europae Focus n. 1, 26 marzo 2013 “I costi dell’uscita dall’euro” di Riccardo Barbotti Scarica qui il PDF Focus n. 2, 5 aprile 2013 “L’Europa e i diritti delle coppie gay” di Paolo Enrico Giancalone Scarica qui il PDF Focus n. 3, 22 aprile 2013 “Unione bancaria” di Antonio Scarazzini Scarica qui il PDF

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