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Febbraio 2007Nº 2

EUROPA E ISLAM

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SOMMARIO33 EDITORIALE– Le lacrime di Ismaele

di Massimo Nevola S.I.

35 STUDIO– EUROPA E ISLAM• Islam, che fare?

di Janiki Cingoli

• C’è bisogno di dialogo. Soprattutto socialedi Mario Scialoja

• “Deislamizziamo” la questione islamicadi Silvio Ferrari

• Un ordinamento giuridico che valga per tuttidi Lucio Caracciolo

• Contro l’indifferenza tra comunitàdi Paolo Branca

• La questione del dialogo interreligioso di Mohammed Arkoun

48 MAPPAMONDO (Gennaio 2007)

58 MISSIONE E SOCIETÀ– La scomparsa dell’Abbé Pierre, pioniere della carità

(Fonte: rielaborazione da dispaccio ANSA del 22 gennaio 2007)

– Io, Welby e la mortedi Carlo Maria Martini

– Lettera da Nairobidi Pierluigi Conzo

63 VITA LEGA– La prima volta a Sighet…

di Andrea Capurro

III DI COPERTINA– La biblioteca di Gentes

IN COPERTINA: Sarajevo, moschea di Alì Pascià (Foto Michele Camaioni)

IN IV COPERTINA: Roma, Grande Moschea (Foto Monica Sirovich)

mensile della lega missionaria studenti e del M.A.G.I.S.

N. 2 Febbraio 2007

Direzione e Redazione: 00144 Roma –Via M. Massimo, 7 – Tel. 06.591.08.03– 54.396.228 – Fax 06.591.08.03 –Spedizione in Abbonamento postaleart. 2 comma 20/c legge 662/96 – Filialedi Roma – Registrazione del Tribunaledi Roma n. 647/88 del 19 dicembre1988 – Conto Corrente Postale34150003 intestato: LMS Roma.e-mail: [email protected]

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COMITATO DI REDAZIONE

Massimo Nevola S.I. (direttore),Michele Camaioni (redattore capo),Dario Amodeo, Laura Coltrinari,Francesca Romana Lenzi, GiulioCesare Massa S.I., Francesco Salonia,Francesco Salustri, Luigi Salvio,Pasquale Salvio.

Per abbonamenti versareun’offerta libera sulcc postale 34150003

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Associato alla Federazione StampaMissionaria Italiana

Fotocomposizione e Stampa:

Finito di stampare Febbraio 2007

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L a monografia del mese ripresenta il tema dell’Islam. Non si finiscemai di approfondire un filone che vuole orientare lettori e scrittoriad affinare la sensibilità al dialogo tra popoli, culture e spiritualità

chiamate sempre più a convivere e a integrarsi.Per offrire uno spunto iniziale mi viene in mente un testo biblico di raratragicità: Genesi 21, l’abbandono di Agar ed Ismaele. Richiamiamo breve-mente i termini della vicenda. Per ristabilire la pace all’interno della sua famiglia, dopo la prodigiosa na-scita del cosiddetto “figlio della promessa”, Abramo licenzia nel deserto laschiava Agar dalla quale aveva avuto un figlio naturale, Ismaele. Vicini or-mai alla morte per fame e sete, nel deserto del sud, il Signore ascolta ilpianto disperato del bambino, che sarà salvato dalla provvidenziale sco-perta di un oasi dove madre e figlio si potranno rifocillare. Da allora il fan-ciullo crebbe e divenne capostipite degli ismaeliti, abitanti del deserto, daiquali discenderanno gli arabi. Il legame di Maometto, e in questi dell’I-slam, con Abramo risale proprio alla vicenda di Ismaele, naturale primo-genito di Abramo.Il messaggio appare evidente. La protezione del Signore è su quanti invo-cano salvezza. Dio è colui che si fa attento e prossimo al grido di piantodei disperati. La storia diventa teatro del suo agire salvifico, attento innan-zitutto a riscattare i poveri e a umiliare i prepotenti e le prepotenze che sicompiono ovunque. Estendendo e parafrasando le parole del Magnificat,la benedizione ad Abramo passa dunque anche per Ismaele e la sua di-scendenza, per sempre.La storia biblica evidenzia un problema storico di rivalità tra gruppi, poipopoli, che ad Abramo fanno risalire la loro origine. E siccome Genesi è illibro delle origini, potremmo dire che questa rivalità tra Sara ed Agar, cheimplicherà drammatica separazione e divisione di ambiti e territori, nonesisteva invece tra i due bambini, che tranquillamente “scherzavano” in-sieme. Come sempre, la malizia degli adulti sulla questione di eredità econservazione dei beni, perenne peccato originale dell’umanità, rovinerà

EDITORIALE

Le lacrime di Ismaele

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tutto e trasformerà il gioco in offesa, la comunione in guerra. Tra arabi edebrei la rivalità è dunque originaria: i fratelli di uno stesso padre diventa-no fratellastri. Eppure la vicenda biblica indica da sempre la via d’uscitadall’empasse in cui i due popoli mediorientali sono chiamati a vivere.Sottolineiamo tre aspetti. Innanzitutto la Provvidenza divina. Ismaele, come in seguito Giuseppe,Mosé e lo stesso Davide, si salva per Divina Provvidenza. Credere nellaProvvidenza equivale vivere una spiritualità dell’affidamento e della conti-nua ricerca della comunione con Dio. Non mi posso salvare da solo e nonsarò mai il solo protagonista della mia vita. Dal punto di vista dei rapporticoi beni ciò ha un risvolto enorme: la proprietà privata dei beni di produ-zione e di consumo non è un assoluto. La Terra è e resterà sempre innan-zitutto di Dio. Più avanti nella Bibbia apparirà l’istituto del Giubileo, me-ravigliosa prospettiva profetica, quanto mai lontana dall’essere stata appli-cata pacificamente (se non nel timido tentativo delle “riduzioni” del Para-guay). Eppure, se finalmente si iniziasse a pensare che non siamo padronima custodi, e che le leggi disegnate dalla Provvidenza sul creato vanno ri-spettate, certamente le prospettive del pianeta (e non solo del Mediorien-te) sarebbero meno apocalittiche! In secondo luogo consideriamo che anche Ismaele è oggetto di benedizio-ne divina, di protezione speciale dell’Altissimo: anche per lui c’è una terrae la promessa di diventare una grande nazione. È nel piano originario del-l’Altissimo. A questo piano ci dovremmo ispirare nel perseguire con tena-cia, nonostante veti incrociati dei potenti della Terra, l’obiettivo per la Pa-lestina di due popoli in due stati, indipendenti e pienamente sovrani. Infine, il povero che grida attira ovunque e sempre l’attenzione divina. Equesto provoca le coscienze degli uomini, perché dal primo invito adAbramo ad uscire da Ur dei Caldei, l’Onnipotente parla e interpella trami-te la “voce della coscienza”. Il monoteismo abramitico (di ebrei, cristiani emusulmani) attesta il primato di quella Voce. E cos’altro dice questa Vocese non: «Fa’ il bene, evita il male? Occupati del tuo fratello che piange ed ènel bisogno? Ogni essere umano è figlio di Dio e quindi fratello del suo si-mile!».Qual è la nostra religione? A quale Dio offriamo sacrifici e quali sono i sa-crifici graditi a Dio, se non quelli indicati con estrema chiarezza dai profe-ti (cfr. Is. 58)?Le lacrime di Ismaele ci aiutino a leggere i segni dei tempi, che dicono tra-sformazione dell’Europa in società multietnica, e a compiere un’attentaverifica della qualità del nostro credo e della nostra prassi religiosa.

Massimo Nevola S.I.

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I l decalogo di proposte sull’Islam inItalia e in Europa, da noi avanzatecon la collaborazione di alcuni tra

le più autorevoli personalità che si oc-cupano di questi problemi, rappresentalo sviluppo conseguente di una elabora-zione e di un percorso avviati con ilConvegno Islam in Europa. Islam euro-peo organizzato nel 2005 dal CIPMO. Sitratta, senza dubbio, di un corpus dimateriali importanti, che viene posto adisposizione, oltre che degli studiosi,degli opinion maker e dei decisionmaker. L’Islam rappresenta oramai, dopo ilCristianesimo nelle sue diverse confes-sioni, la seconda religione in Europa ein Italia e non può quindi essere vistocome un fenomeno “altro”, esterno, dacontenere o da contrastare. Dell’Europa

esso è parte, e le questioni che la suapresenza pone attengono alle dinami-che complessive dello sviluppo civile esociale del continente. Il focus prescel-to, quello della nuova e sempre più rile-vante presenza islamica in Europa, haconsentito di scandagliare la problema-tica nei suoi diversi aspetti, culturali,sociali, giuridici ed educativi, cercandosia di analizzare a fondo la situazioneesistente, sia di individuare le tendenzepossibili. Il binomio Islam in Europa – Islam Eu-ropeo mette l’accento specificamente suquesto possibile divenire della realtàislamica del nostro continente, se cioèl’ambiente europeo possa avere influen-za sullo stessa percorso identitario diquesto Islam, producendo fermenti diadattamento, maturazione, trasforma-

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STUDIO

EUROPA E ISLAM*

I musulmani e la religione islamica come parte integrante dell’identità europea

* Si ringrazia il CIPMO (Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente) per aver concesso la pub-blicazione, all’interno del presente “Studio”, di parte degli interventi e degli atti del convegno“Islam in Europa. Islam europeo” svoltosi a Milano, presso Palazzo Turati, il 22-23 giugno 2005.Gli atti integrali del convegno sono disponibili sul sito internet www.cipmo.org

Islam, che fare?

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zione, arricchimento, possibile conta-minazione di culture e civiltà. I processi di osmosi culturale e ideale,infatti, non sono mai a senso unico. Co-me la civiltà europea viene influenzataintimamente dalla presenza così estesadi cittadini e di residenti di fede musul-mana, così l’ambiente europeo, le suetradizioni culturali e politiche, il plura-lismo che caratterizza le sue società,esercitano una influenza certo non se-condaria sugli sviluppi del pensieroislamico, sia in Europa che nelle limi-trofe aree culturali. Le religioni, infatti, non sono corpi im-mobili ed impermeabili al contesto incui si sviluppano, e molti oggi comin-ciano a parlare di un Islam europeo, inqualche modo effetto della presenza dimasse così estese di musulmani in Eu-ropa, e comunque portato e riflesso del-la tradizione e della cultura europee sulpensiero islamico. L’Islam, dunque, come fenomeno inter-no all’Europa, non solo fattore di pres-sione e sfida esterne. Costitutivo, insie-me alle più antiche radici cristiane edebraiche, della odierna identità del con-tinente. Un processo che con la possibi-le futura integrazione della Turchia nel-la UE potrebbe assumere dimensioniancora più rilevanti, come ha reso an-cora più evidente la recente e così im-portante missione di Papa BenedettoXVI in quel paese. Ma contestualmente questo nostroIslam è parte dell’Islam globale, e quin-di il rapporto con esso è parte di unapiù complessiva interlocuzione di mon-di, civiltà, religioni. L’Islam Europeo può quindi essereponte e interprete per favorire il dialo-go tra Europa e Islam globale, comepuò essere veicolo e amplificatore deldisagio di quelle minoranze islamiche

che si sentono emarginate o che rifiu-tano l’integrazione. Un disagio chepuò arrivare fino all’atto terroristico,all’identificazione con il modello qae-dista. Le bombe sulla metropolitana di Lon-dra, la rivolta delle banlieues parigine,il contagio globale scaturito dalle vi-gnette satiriche danesi, le reazioni al di-scorso papale di Ratisbona, ci diconobene le possibili derive cui il nostromondo, la società europea si trovano afare fronte. Rispetto a tali rischi, va cer-to bandito ogni atteggiamento buonistao di superficiale condiscendenza, ga-rantendo il necessario rigore nel preve-nire e se necessario reprimere degene-razioni sempre possibili.Ma la sfida, il metro di misura essen-ziale, sono rappresentati in primo luo-go dalla costruzione di una convivenzatra cittadini eguali, cui sia garantito ilrispetto delle rispettive identità, insie-me alla prospettiva di una piena e senecessario assistita integrazione socia-le, in particolare per quanto riguarda lasempre più larga componente di immi-grazione recente; ed in secondo luogoda un approccio che alle diverse fedi re-ligiose (ed anche a coloro che religiosinon sono), alle diverse identità e cultu-re assicuri una uguaglianza reale; mache si proponga anche la necessariapermeabilità e la reciproca contamina-zione, la più larga possibile, in modoche queste identità non divengano mo-nadi chiuse ed autoreferenziate, in unprocesso di compartimentazione rigidae di sostanziale segmentazione e ten-denziale rottura della società e dellastruttura civile.

di Janiki Cingoli, direttoredel Centro Italiano per la Pace

in Medio Oriente (CIPMO)

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UN DECALOGO DI PROPOSTE PER L’ISLAM IN ITALIA E IN EUROPA

La presenza di musulmani in Italia ha ormai raggiunto una tale “massa critica” danon consentire che il fenomeno sia gestito soltanto attraverso forme d’interventoestemporanee e improvvisate, com’è spesso stato finora. L’impegno di molti che sisono prodigati sia da parte italiana che da parte islamica con numerose iniziative,conferma le potenzialità di un tessuto sociale vivo e attivo, ma proprio per non vani-ficare tali energie e al fine di evitare derive che hanno interessato di recente altri Pae-si europei, ci sembra indispensabile che le istituzioni e i cittadini – italiani e non –coinvolti a vario titolo nella questione trovino modalità per riflettere e agire insiemeall’interno di un progetto comune ispirato a principi chiari e condivisi. Per questo,mentre il nostro Paese vive un decisivo momento di riformulazione degli equilibripolitici e delle sue prospettive di riforma, riteniamo doveroso richiamare alcuni puntiche ci paiono di cruciale importanza nel compito comune che ci troviamo ad affron-tare. Va da sé che i musulmani condividono con immigrati di altra origine molte pro-blematiche simili. Sarebbe pertanto indebito ritenere le considerazioni che seguiran-no come pensate esclusivamente per loro, anche se il presente documento ne trattain modo specifico: una buona legge sulla libertà religiosa, ad esempio, andrebbe in-contro alle esigenze di tutte le comunità e non solamente di quella islamica.La globalizzazione in atto, contrariamente a quanto ci si poteva ingenuamenteaspettare, invece che a un indebolimento delle identità (reali o immaginarie) staconducendo piuttosto a un loro irrigidimento, che non sembra cogliere sufficiente-mente le potenzialità positive pur presenti nell’inedito incontro di uomini e cultureche si sta producendo, bensì tende a enfatizzare diffidenze e timori che induconoalla chiusura e alla contrapposizione.Siamo consapevoli dei rischi insiti in un vacuo relativismo che potrebbe portarci apoco auspicabili confusioni e allo svilimento delle tradizioni culturali e religiose diciascuno: ma il valore che attribuiamo alla nostra e altrui identità ci spinge a ritene-re necessaria una gestione coraggiosa e consapevole di questo processo di incontroe convivenza, l’unica in grado di portare a buoni risultati nell’interesse comune. Perquesta ragione pensiamo che vada scoraggiato con ogni mezzo lo spirito di sospet-to e di rivalsa che in taluni – da entrambe le parti – sembra purtroppo prevalere.

I punti che ci pare necessario richiamare sono:

1. Incoraggiare la collaborazione con le istituzioni a ogni livello per promuovereuna reale partecipazione, dimostrando che le regole della democrazia tutelano epremiano i comportamenti migliori. A tale scopo è utile in particolare partire dalcensimento e dalla valorizzazione delle molteplici esperienze in atto, anche al fi-ne di contrastare una comunicazione basata su semplici opinioni, anziché su evi-denze empiriche. Interventi formativi all’interno delle pubbliche amministrazioni

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(scuola, sanità, carcere, personale di polizia…) sulle tematiche relative al plurali-smo culturale nelle aree di loro competenza, con un taglio che privilegi la concre-tezza delle situazioni su considerazioni di ordine astrattamente teologico, ideolo-gico o politologico. Il confronto con esperienze internazionali che già affrontanoda tempo temi e situazioni analoghe consentirebbe di valutarne gli esiti e di ispi-rarsi alle pratiche (legislative e operative) più efficaci.

2. Scoraggiare con fermezza ogni forma di illegalità per evitare il formarsi di so-cietà parallele o gruppi che si percepiscano e si presentino come corpi estranei: ildiritto alla differenza non può e non deve mai diventare pretesa di una differenzanei diritti e nei doveri.

3. Valorizzare le iniziative che si pongono nella prospettiva della condivisione divalori, interessi e impegno comune al servizio della collettività.

4. Dare priorità alle donne e ai giovani che, senza rinunciare alla propria specificitàculturale e religiosa, dimostrano di voler sviluppare, con chi condivide i loro pro-blemi e le loro aspirazioni, attività che favoriscono contatti, scambi e integrazione.

5. Offrire, a livello universitario, percorsi di maturazione e di formazione a quanti in-tendono svolgere funzioni di servizio alle comunità, specie nei ruoli di orientamentoe di guida. Non si tratta ovviamente di formare i ministri del culto, ma di favorire l’e-mersione e il consolidamento di competenze e capacità specifiche tra coloro che giàoperano nei diversi gruppi affinché la loro azione sia maggiormente adeguata alle fi-nalità dell’integrazione e della partecipazione alla vita del Paese in cui risiedono.

6. Stimolare, specie nelle scuole, la valorizzazione degli apporti delle differenticulture del Mediterraneo alla costruzione di una comune civiltà. Laddove sianopresenti numerosi alunni arabofoni, appositi corsi per la conservazione e lo svilup-po della lingua d’origine (del resto già in atto, in forma sperimentale) andrebberodiffusi e sostenuti. Tali interventi non sarebbero ad esclusivo vantaggio degli immi-grati, ma contribuirebbero alla trasformazione dell’intero settore scolastico.

7. Incoraggiare i mass-media a dare spazio alle numerose esperienze di collabora-zione e di condivisione tra persone di fede e di cultura diversa, evitando di diffon-dere e/o amplificare soltanto fatti e notizie che confermino mutui pregiudizi.

8. Promuovere politiche che migliorino le condizioni di vita delle società di prove-nienza degli immigrati, con riferimento non soltanto alla situazione economica,ma anche allo sviluppo della società civile, al rispetto dei diritti umani e alla valo-rizzazione del pluralismo ad ogni livello.

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9. Valorizzare l’azione delle istituzioni locali, che sono a contatto diretto con lerealtà di base, nel promuovere iniziative che – per la qualità degli interventi e leloro ricadute positive sul territorio – possono costituire dei modelli validi ancheper analoghe situazioni, in stretto contatto con le agenzie culturali e religiose chegià operano in tal senso.

10. Approfondire la conoscenza reciproca, nel mutuo rispetto pur senza rinunciareallo spirito critico e autocritico, non solamente con sporadiche iniziative informa-tive, ma attraverso il lavoro permanente e sistematico di gruppi che affrontino in-sieme tematiche specifiche di comune interesse. Ciò favorirebbe inoltre lo svilup-po di prospettive professionali che facciano tesoro delle competenze e delle capa-cità di chi si distingue nel lavoro interculturale.

Testo elaborato da: Paolo Branca, docente di Lingua e Letteratura Araba, UniversitàCattolica del Sacro Cuore di Milano; Stefano Allievi, docente di Sociologia, Uni-versità degli Studi di Padova; Silvio Ferrari, docente nelle Università di Milano eLovanio; Mario Scialoja, presidente della Lega Musulmana Mondiale-Italia.

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Roma, Grande Moschea (Foto Monica Sirovich)

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G li interventi prodotti al conve-gno internazionale Islam inEuropa. Islam europeo, orga-

nizzato dal CIPMO nel giugno 2005,hanno fornito ad alcuni relatori lospunto per elaborare un decalogo, ossiauna serie di riflessioni/suggerimenti sultema dell’Islam, rivolti non solamenteagli immigrati ma anche alle autoritàitaliane. Suggerimenti che aiutino a darvita ad un dialogo più proficuo e ad unprocesso di integrazione nella societàitaliana che vada a beneficio di tutti,

nella convinzione che la diversità do-vrebbe costituire un motivo di arricchi-mento e non di divisioni e discordia. Il decalogo prende in considerazioneanche il problema della scuola. Lascuola italiana è frequentata da un nu-mero crescente di figli di immigrati,musulmani, cristiani non cattolici, pic-cole comunità di induisti, buddisti e co-sì via. Fino ad oggi la nostra scuolapubblica in termini di programmi sco-lastici è stata, come era naturale, euro-centrica ed italocentrica. È chiaro però

che in presenza di un numeroconsiderevole e rapidamentecrescente di studenti di etnie eprovenienze diverse i program-mi dovrebbero abbracciare unorizzonte più vasto per divenirepiù attraenti, interessanti, ecoinvolgenti per tutti questialunni che nella stragrande mag-gioranza diventeranno cittadiniitaliani e che formeranno parteintegrante della nostra società. L’esigenza fondamentale espres-sa nel decalogo è, torno a dire,quella del dialogo. Non solo deldialogo interreligioso, ma diquello comunitario tra le varicomponenti della società. Il dia-logo interreligioso è certamenteassai utile, purché non si con-centri su temi teologici ma ana-lizzi i problemi globali che l’u-manità odierna si trova a con-frontare e sui quali tutte le reli-gioni, in particolare le tre reli-gioni di derivazione abramitica,hanno posizioni spesso identi-che e quasi sempre molto simili

C’è bisogno di dialogo. Soprattutto sociale

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Milano, musulmani in preghiera

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e confrontabili: cioè la tutela della vita,della famiglia quale nucleo primariodella società, la difesa dell’ambiente, lamoralità, la lotta contro il crimine e co-sì via. Ma ancor più importante del dia-logo interreligioso è quello sociale. Inquesto senso, proprio per l’attenzione aquesti temi, il decalogo riveste unagrande importanza. È da tempo chepropongo al Ministero dell’Interno undocumento simile da consegnare agliimmigranti al loro arrivo. Un opuscoloin varie lingue, un vademecum chespieghi ai nuovi arrivati quali sono leregole della nostra società, quali grandiopportunità offre loro la civiltà occi-dentale, la civiltà italiana, le nostre tra-dizioni, le libertà di cui possono godereda noi. Tutte quelle informazioni, in-somma, che possano gui-darli sulla via dell’integra-zione. Mi è stato semprerisposto che si tratta diun’iniziativa degna di at-tenzione, ma per ora nul-la è stato fatto al riguar-do. Ritengo che si tratti diuna mancanza grave. In Italia arriva unnumero crescente di immigranti, siaquelli con un permesso regolare di sog-giorno, sia quelli che fuggono da po-vertà, fame e disperazione ed entranocome clandestini, immigranti clandesti-ni, che non conoscono nulla del nostroPaese e di quello che li aspetta nella ri-cerca di mezzi di sussistenza e di un fu-turo migliore. Quando si parla di integrazione tra co-munità, culture ed etnie, o di conviven-za tra religioni diverse in un Paesed’immigrazione, si fa quasi sempre rife-rimento al modello assimilazionistaamericano, il cosiddetto “melting pot”,la fornace dove tutto verrebbe fuso edamalgamato. La storia, come ricorderò

tra poco, ci ha purtroppo insegnato chesi trattava di un’utopia. Un fallimentototale o parziale si sono rivelati anchealcuni esperimenti non di assimilazionema di integrazione, fondati sul mante-nimento dei valori e delle tradizioni diorigine in una cornice di rispetto delleleggi dello stato ospite. Ad esempio, ilmodello francese è in grosse difficoltà,abbiamo visto quanto è successo recen-temente nelle periferie delle città fran-cesi e sappiamo che quei gravissimi di-sordini non avevano una motivazionereligiosa. Abbiamo assistito poi ai tragi-ci eventi in Olanda e ai problemi sortiin altri Paesi. Siamo costretti quindi aconcludere che fino ad oggi non è statoreperito un modello ideale per edificareuna società multietnica e multireligio-

sa. Tornando al “melting pot”americano, è opportunoricordare che negli USAle minoranze di origineeuropea, prima gli irlan-desi poi gli italiani, purprovenendo dalla stessa

cultura e religione (sia pure cattolica enon protestante), hanno dovuto subireun lungo calvario prima di potersi rite-nere riconosciute a parità di diritti dal-la società americana. Anche nella pa-tria del “melting pot”, nonostante latradizionale apertura verso gli emigran-ti, si è ancora lontani dall’arrivare auna vera e completa integrazione tra levarie componenti di quella complessasocietà, soprattutto della componenteafro-americana e delle altre minoranzeetniche. Perche? A questo punto intro-duco un tema che mi rende di normaimpopolare. Qual è il vero e difficileostacolo da superare? Non credo siaprincipalmente la differenza religiosa(in Italia vivono migliaia di professioni-

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“Ancor piùimportantedel dialogo

interreligiosoè quello sociale”

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sti musulmani, medici, dottori, avvoca-ti, ingegneri, che non hanno nessunadifficoltà ad avere rapporti di amiciziacon gli italiani e sono perfettamente in-tegrati) ma piuttosto il problema della“razza”, del colore della pelle. Uno stu-dioso americano, Jeffrey N. Wasser-strom, ha detto in un suo scritto che ilcolore della pelle non dovrebbe averepiù importanza del colore degli occhi.Questa affermazione dal punto di vistaideale è perfetta, peccato che sia con-traddetta dalla realtà. Nel nostro DNA èradicata la paura di tutto ciò che nonconosciamo. All’epoca delle cavernel’uomo per difendersi di notte dalle bel-ve metteva qualche pie-tra davanti alla caverna;poi ha costruito casesulle palafitte, quindivillaggi circondati dapalizzate, città con mu-ra fortificate, infinefrontiere strettamentesorvegliate. Oggi tuttoquesto non è più possi-bile. Popolazioni intere si spostano dauna parte all’altra del globo. Anche iviaggi ormai, anche se sempre costosi,sono praticamente alla portata di tutti.Ciò che dovremmo quindi fare quindi èeliminare dal nostro DNA il gene che ciporta ad avere una paura istintiva neiconfronti dell’alieno. Tale gene è ancorapresente nella generazione contempo-ranea, nel mondo in cui viviamo, nelmondo in cui vivranno i nostri figli fu-turi. Purtroppo non sarà un interventodi ingegneria genetica ad aiutarci, nécure mediche, ma solo l’evoluzione del-la nostra cultura, che deve farci com-prendere che siamo tutti membri diuna stessa umanità. D’altra parte, la varietà del genere uma-no fa parte del Disegno Divino, per lo

meno per noi musulmani: c’è un verset-to del Corano, molto famoso (Sura49:13), che recita: “Vi abbiamo creato daun’unica coppia di un maschio e di unafemmina e abbiamo fatto di voi tribù enazioni affinché voi possiate conoscer-vi”. Vale a dire, aggiunge tra parentesiun noto traduttore del testo sacro, “nonaffinché possiate odiarvi”. Il versettoprosegue così: “il più onorato di voi agliocchi di Dio è il più giusto tra voi”. Questo concetto purtroppo non è sem-plice da mettere in pratica. Ancora oggi,negli Stati Uniti, vediamo le discrimina-zioni cui sono soggetti gli afro-america-ni. Il reverendo Jesse Louis Jackson, do-

po la tragedia dell’uraganoKatrina disse candidamenteche se gli abitanti di NewOrleans non fossero statitutti neri e poveri, gli aiutifederali sarebbero stati piùtempestivi ed adeguati afronteggiare la tragedia.Non so se questa afferma-zione, indubbiamente cini-

ca, corrisponda pienamente alla verità,ma certamente costituisce una confer-ma del fatto che anche negli Usa, anchenella “fornace che tutto brucia”, quandoci si trova di fronte a differenze etnicheil problema dell’integrazione si fa moltopiù complicato. Non dico che la situa-zione sia senza speranza, ma certamen-te sarà necessario un grande impegno emolto tempo per superare questi osta-coli. Io tendo ad essere ottimista per ilfuturo, ma credo che sforzi seri e deter-minati siano richiesti da parte di tutti,non soltanto da coloro che giungono nelnostro Paese e che devono accettare leregole della nostra società.

di Mario Scialoja, presidente della LegaMusulmana Mondiale-Italia

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“Fino ad oggi non èstato reperito un

modello ideale peredificare una società

multietnica emultireligiosa”

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M olti sostengono la teoria diun’identità inquieta dell’I-slam in Europa. Ma forse,

più che di identità inquieta, si dovrebbeparlare di identità in trasformazionedell’Europa o di identità inquieta per-ché in trasformazione. I musulmani, enon solo loro, sono in Europa per re-starci e penso che l’unico modo costrut-tivo per affrontare il problema sia quel-lo di includerli nell’identità europea: ilche vuol dire accettare l’idea che tantol’identità dei musulmani che arrivanoqui, quanto quella degli europei che viabitano venga trasformata da questo in-contro non programmato, forse nean-che desiderato, ma reale e da cui biso-gna trarre tutto il bene possibile. Infatti,la storia ci insegna che, quando una ci-viltà, anche splendida, si chiude in sestessa per salvaguardare la sua perfezio-ne, come è accaduto a Bisanzio, finisceper morire: il futuro dell’area mediterra-nea non è stato Bisanzio, è stato l’Euro-pa, dove la civiltà romana in un certosenso è morta ed è rinata nell’incontrocon quella germanica dei “barbari”.La prima cosa da fare per affrontare laquestione islamica credo sia “de-isla-mizzarla”, ossia rendersi conto che sitratta di un problema che non è specifi-co dell’islam, ma è comune a tutte leminoranze religiose e culturali di que-sto Paese e come tale va gestito.In altre parole è necessario, come miporta a fare la mia mentalità di giuri-sta, affrontare i problemi con una buo-na dose di pragmatismo, rimovendo iparametri ideologici e provando a ra-gionare sui fatti. Si potrebbe iniziare ri-prendendo il progetto di legge sulla li-

bertà religiosa che da quasi tre lustrigiace nelle aule del Parlamento e che ilnuovo governo sembra intenzionato atogliere dall’oblio in cui era caduto.Può essere utile per due motivi almeno:primo, per affrontare tutta una serie diproblemi, che vanno dall’apertura deiluoghi di culto all’assistenza religiosanegli ospedali e nelle carceri, in un’otti-ca di definizione dei diritti e doveri cheriguardano tutti i cittadini e tutti i resi-denti in Italia; secondo, perché la leggesulla libertà religiosa può servire da uti-le sperimentazione in vista della suc-cessiva stipulazione di un’intesa con lediverse comunità. Vorrei fare un paio diesempi che spieghino l’utilità, non solo

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“Deislamizziamo” la questione islamica

Sarajevo, moschea nei pressi del centro storico(Foto Michele Camaioni)

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in Italia ma in tutti i paesi europei, diquesto approccio pragmatico.Il primo riguarda la costruzione dellemoschee. I giornali hanno dato la noti-zia che a Colle Val D’Elsa, dove il Comu-ne progetta la costruzione di una mo-schea, è stato indetto un referendum perconoscere l’opinione degli abitanti. Nonè un’iniziativa che mi entusiasma. Il di-ritto di avere un luogo di culto, cioè unluogo dove riunirsi per pregare, è partedel diritto di libertà religiosa che è rico-nosciuto dall’art. 19 della nostra Costitu-zione a tutti, cittadini e non cittadini, eva garantito come dirittofondamentale della per-sona umana: tutte le mi-noranze religiose – nonsolo i musulmani, ma an-che i testimoni di Geova,gli evangelici e via dicen-do, troverebbero diffi-coltà ad aprire la mo-schea, il tempio o la casadi preghiera se questaapertura divenisse condi-zionata all’autorizzazionedi una maggioranza dicittadini. È preferibile lalegislazione già in vigore,secondo cui i comuni de-vono prevedere, nei piani regolatori,aree per la costruzione di edifici di cultoche verranno poi distribuiti in relazionealle esigenze religiose della popolazione. Tutto ciò non equivale a dire che la co-struzione delle moschee non pone pro-blemi: ma essi possono venire affronta-ti e risolti sulla base delle leggi già in vi-gore. Si obietta per esempio che la mo-schea non è soltanto un luogo di pre-ghiera, perché accanto ad essa sorgonosovente anche un centro culturale, unabiblioteca e perfino una macelleria do-ve si vende la carne halal.

Ma a ben guardare, lo stesso accadenella nostra tradizione religiosa: difianco alla chiesa c’è l’oratorio o la se-de di associazioni culturali o assisten-ziali. Si obietta anche – e giustamente-che la moschea è talvolta divenuta ilcentro di attività ostili allo Stato. Ma senelle moschee si incita all’odio religio-so o si reclutano volontari per azioniterroristiche, questi atti vanno trattaticome questioni di sicurezza e come taliaffrontate. Ormai da secoli le moschee, come lechiese, le sinagoghe e tutti gli altri luo-

ghi di culto hanno per-duto quella che un tem-po si chiamava “immu-nità reale”, cioè l’esen-zione dall’intervento del-la forza pubblica.Il secondo problema diattualità è l’insegnamen-to della religione musul-mana nella scuola. Im-partire questo insegna-mento è fondamentaleper rendere la scuolapubblica più capace dirispondere alle esigenzedegli studenti musulma-ni che la frequentano,

allo scopo di favorire la loro integra-zione nella società e di evitare deriveverso scuole private, legittime ma nonsempre altrettanto adatte a questo sco-po. Se su questa premessa c’è un accordoabbastanza largo, allora la domanda è:dove sono gli insegnanti di religionemusulmana? Chi forma questi inse-gnanti? Dove sono i libri di testo? Nonsi può improvvisare un insegnamentodell’islam nelle scuole italiane, a menodi non voler ripetere le esperienze nega-tive che sono già state compiute in Au-

“Il diritto di avere unluogo di culto, cioè unluogo dove riunirsi perpregare, è parte del

diritto di libertà religiosache è riconosciuto

dall’art. 19 della nostraCostituzione a tutti,

cittadini e non cittadini, eva garantito come diritto

fondamentale dellapersona umana”

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stria, Belgio, Germania, importandodai paesi arabi insegnanti di religionemusulmana che poco o nulla sanno delpaese dove vanno a insegnare, e chequindi non sono in grado di aiutare iloro studenti ad integrarvisi. Questitentativi sono tutti falliti e non vedoperché in Italia dovremmo prenderequesta direzione che è senza speranzedi successo. È invece urgente avviareun progetto di preparazione degli inse-gnati musulmani: non è impossibile,bastano due o tre università che operi-no in collaborazione con le associazionimusulmane e comincino ad organizza-re dei programmi di formazione per in-segnanti della religione islamica nellenostre scuole. Però questo insegnamen-to non può essere impartito senza che

ci sia un’intesa tra lo Stato e la comu-nità religiosa musulmana. Questo è im-plicito nell’art. 8 della nostra Costitu-zione. L’insegnamento della religione faparte dell’autonomia delle comunità re-ligiose: nel nostro sistema giuridico,soltanto esse possono insegnare la pro-pria religione, e non lo Stato italiano,chiamato solo a fornire la struttura or-ganizzativa e, eventualmente, a pagaregli insegnanti. Da qui nasce un ulterio-re domanda: con chi lo Stato italianopuò stipulare questo accordo, chi sonoi rappresentanti delle comunità musul-mane esistenti in Italia? Questa domanda ci introduce al temadella Consulta islamica, istituita nonmolto tempo fa dall’allora Ministro de-gli Interni, Giuseppe Pisanu.

Sarajevo, fontana in stile moresco (Foto Michele Camaioni)

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La Consulta islamica è un organismoatipico, ma potenzialmente utile. È ati-pico perché il nostro ordinamento giu-ridico non prevede che sia il Governo oun Ministro a nominare l’ente rappre-sentativo di una comunità religiosa:questo dovrebbe invece emergere dallacomunità religiosa stessa che, dotando-si di organismi rappresen-tativi e di proprie istituzio-ni, esercita la propria auto-nomia. Ma un po’ in tuttaEuropa (si pensi alla Fran-cia, al Belgio o alla Spa-gna) le istituzioni statalisono intervenute per favo-rire l’emergere di organismi rappresen-tativi musulmani perché lo Stato avevabisogno di avere un interlocutore. Que-sta è l’utilità della Consulta anche se, vaaggiunto, questa utilità è ancora allostato potenziale. Infatti non è ancoradel tutto chiara la direzione che la Con-sulta islamica finirà per prendere, vistele spaccature che si sono rapidamentecreate al suo interno. Personalmente,non credo che essa abbia il compitoprimario di dirci se Israele deve esistere

o no, se la guerra in Iraq ègiusta o sbagliata, se è beneo male che l’Iran abbia labomba atomica. Non è que-sto il suo compito, bensìquello di costituire il luogodove si cerca di dare solu-zione ai problemi concretidei musulmani che vivonoin Italia: cioè dove si parladi costruzione delle mo-schee, di alimentazione nelrispetto dei principi religio-si nelle mense scolastiche,di macellazione rituale, dimomenti di preghiera sulluogo di lavoro, ecc. Credo

che questi tre esempi bastino per spie-gare cosa si intende con l’invito a “de-islamizzare” la questione dell’Islam. Lapresenza musulmana in Italia o in Eu-ropa non è qualcosa di rivoluzionario,non ci costringe a scardinare il nostroordinamento giuridico. Esistono già glistrumenti giuridici necessari per af-

frontare questi problemi inmaniera adeguata e razio-nale, sia quelli che attengo-no alla sicurezza che quelliprovocati dalle diversitàculturali e di costume. Questo approccio pragma-tico farà sì che non ci si

faccia dominare da questi temi, chenon si pensi che tutti i musulmani sonoterroristi perché qualche musulmano loè e che tutti i musulmani sono maschi-listi perché qualche musulmano lo è.Non serve ingigantire i problemi: alcontrario bisogna cercare di ridurli eavviarli con pazienza, ma con determi-nazione, verso la loro soluzione.

di Silvio Ferrari, docente presso leUniversità di Lovanio e Milano

“Dare soluzioneai problemi concretidei musulmani che

vivono in Italia”

Roma, Grande Moschea (Foto Monica Sirovich)

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H o l’impressione che in Italia, alivello di classe politica man-chi totalmente il senso dell’ur-

genza dei problemi in questione. Li sitratta in situazioni di emergenza equindi in una logica di sicurezza, oppu-re come una questione esotica, che nonci tocca direttamente, e che può esseresostanzialmente rimandata. Credo inve-ce che sia un tema urgente, che riguar-da il nostro modo di vivere insieme,quale che sia la nostra religione. Da questo punto di vista, l’iniziativache c’è stata qui presentata, e cioè il de-calogo, è sicuramente un passo avantiche, credo, dovrebbe essere portato aun dibattito politico e non solo di so-cietà civile. Non credo al “dialogo fra civiltà”, èuna definizione troppo astratta, chemolto spesso tende a giustificare il suocontrario, cioè lo scontro. Il dialogo, seè tale, avviene tra persone che possonorappresentare se stesse o, meglio, isti-tuzioni civili o religiose che, evolvendo-si, cambiano e sanno che ilpunto di vista altrui ha lastessa legittimità del pro-prio. Qui sta la radice diqualsiasi dialogo che non siriduca semplicemente adue monologhi, peggio an-cora se rappresentativi dipresunte civiltà, o spaziiperuranici di difficile col-locazione. Le conseguenze di un simi-le comportamento spessopossono essere gravi. Dauna parte il sorgere di unsenso di estraniazione, che

non permette il dialogo e si trasformain elemento da strumentalizzare, daparte di forze politiche che predicanol’islamofobia, e delineano la minacciadi una realtà islamica monolitica. Oppure può condurre ad atteggiamentitipo quelli che si sono visti in Francia,per cui lo stato sceglie con chi dialoga-re, senza considerare il ruolo che l’in-terlocutore effettivamente ricopre nellasua società. Bisogna dialogare, o, me-glio, negoziare, dato che si tratta di po-litica e di società, con chi effettivamen-te rappresenta un’autorità. Se poi questa autorità è portatrice diidee molto lontane da quelle che vor-remmo, avremo maggiori difficoltà, mail negoziato sarà ancora più necessario,a meno di non voler reprimere l’altro. Quale deve essere il principio di fondodi qualsiasi negoziato? Anche se il no-stro è uno stato particolare, dato il regi-me speciale che ci lega alla Chiesa cat-tolica, il principio di fondo per me èuno solo: l’esistenza di un solo ordina-

Un ordinamento giuridico che valga per tutti

La moschea di Ljubija in Bosnia (Foto Olinda Curia)

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SSOOMMAALLIIAA

IL RITIRO DEGE IL DRAMMA DE

Ha preso avvio il 23 gennaio la prse del ritiro delle truppe etiopi gadiscio e dal territorio somalo

militari di Addis Abeba hanno occupatscorse settimane al fine di liberare il Paeregime integralista imposto dalle Corti che e favorire l’insediamento del govetransizione presieduto da Ali MohamedL’uscita del contingente etiope dalla Sverrà tuttavia completata solo quando ldi pace africana (Amisom), che prevedesoldati di vari stati (Malati, Nigeria e Ugare Sudafrica e Mozambico), avrà fatto il sper quasi la metà da fondi promessi daldel commissario agli Affari Umanitari Louaiuti sono condizionati all’apertura di unsizione e fronte moderato delle Corti Islrerà almeno sei mesi e ha il mandato di rie in Somalia e il consolidamento della Un obiettivo per il cui assolvimento nonsituazione dei profughi: come denunciatfatti, la decisione del Kenya di chiuderebre almeno 160.000 somali si sono riversrischia di generare un ulteriore aggravavocata dalle inondazioni degli scorsi memente opposto le truppe etiopi ai miliziatempo la Somalia continua a essere scosdi mirati, riconducibili probabilmente ai vali determinate dal momentaneo vuotodelle Corti Islamiche e dal ritorno a Moche per quindici anni hanno tenuto in pu

MMMM AAAA PPPP PPPP AAAA MMMMAACCQQUUAA110000 mmiilliioonnii ggllii eeuurrooppeeii sseennzzaa aaccqquuaa ssiiccuurraa

L’accesso all’acqua potabile è anche un problema eu-ropeo. Lo affermano la Commissione economica dell’O-nu per l’Europa (Unece) e l’Organizzazione Mondialedella Sanità (OMS), che in una conferenza stampa con-giunta hanno denunciato che nel 2006 in Europa visono stati 170.000 casi di malattie (diarrea, epatite A,febbre tifoide) causati da mancanza o inquinamentodell’acqua potabile. Il 16% della abitazioni europee sa-rebbe inoltre privo di accesso ad acqua sicura.

EECCUUAADDOORRIInniizziiaa nneell ssaanngguuee ll’’eerraa CCoorrrreeaa

Sgomento e inquietudine in Ecuador per la morte diGuadalupe Larriva, prima donna ministro della Difesadel Paese, rimasta uccisa il 24 gennaio in una miste-riosa collisione tra due elicotteri militari. Insediatasida appena dieci giorni, la Larriva aveva guidato per 19anni il Psfa (Partido Socialista Frente Amplio) e gode-va della fiducia del neo-presidente Rafel Correa, l’eco-nomista recentemente eletto con un programma re-cante grande impegno per la riduzione della povertà euna maggiore giustizia sociale.

KKEENNYYAAIIll WWoorrlldd SSoocciiaall FFoorruumm 22000077 ddii NNaaiirroobbii

Si è svolto dal 20 al 25 gennaio a Nairobi, capitale delKenya tristemente nota per le sue sconfinate baracco-poli, la VII edizione del World Social Forum, dove mi-gliaia di rappresentanti di movimenti, ong e società ci-vile si sono riuniti per progettare le possibili linee d’a-zione di una globalizzazione alternativa. Decisioni, con-traddizioni e speranze emerse nel WSF ’07 costituiran-no il cuore pulsante dello “Studio” di Gentes di Marzo.

GGUUEERRRREEVVeennttiiqquuaattttrroo ii ccoonnfflliittttii aarrmmaattii nneell mmoonnddoo

Due guerre in meno rispetto al 2006: sono 24, secon-do Peacereporter, i conflitti in corso al termine di un

(GENNAIO 2

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DEGLI ETIOPIDEI RIFUGIATI

la prima fa-tiopi da Mo-omalo, che icupato nelle il Paese dalCorti Islami- governo diamed Gedi.

alla Somaliando la forzaevede il dispiegamento di circa 7.600e Uganda, cui si potrebbero aggiunge-to il suo ingresso nel Paese. Finanziatasi dall’Unione Europea, che per boccari Louis Michel ha chiarito però che glidi un serio dialogo tra governo di tran-rti Islamiche, la missione africana du-to di facilitare “le operazioni umanita-della pace e della stabilità nel Paese”.o non sarà possibile ignorare la graveunciato dal Jesuit Refugee Service, in-udere le frontiere (dal mese di settem-riversati nel campo keniota di Dadaab)gravamento della crisi umanitaria pro-si mesi e dalla guerra che ha recente-

miliziani delle Corti Islamiche. Nel frat- scossa da misteriosi attentati e omici-te ai regolamenti di conti tra bande ri-vuoto di potere generato dalla cadutaa Mogadiscio dei signori della guerra,in pugno la capitale somala.

AAAA MMMM OOOO NNNN DDDD OOOO2006 che ha registrato la cessazione delle ostilità inBalucistan, Burundi, Nepal e Waziristan, ma ha vistoesplodere la violenza in Libano e nella Rep. Centrafri-cana. Gli altri stati in cui ancora purtroppo si combat-te sono: Afghanistan, Algeria, Cecenia, Ciad, Colombia,Costa d’Avorio, Etiopia, Filippine, Haiti, Kashmir, India,Iraq, Myanmar, Nigeria, Palestina, R.D. Congo, Somalia,Sri Lanka, Sudan, Thailandia, Turchia e Uganda.

LLIIBBAANNOOAA uunn ppaassssoo ddaallllaa gguueerrrraa cciivviillee

Solo il coprifuoco e una fatwa del capo di HezbollahHassan Nasrallah hanno placato l’ondata di violenzepropagatasi in tutto il Libano dopo gli scontri del 25gennaio tra studenti sciiti e sunniti dell’Università ara-ba di Beirut. Mentre a Parigi il premier Siniora incassala promessa di aiuti per 7,6 miliardi di dollari da partedella Conferenza dei donatori, inoltre, un rapporto Onuevidenzia come il conflitto che tra il 12 luglio e il 14agosto 2006 ha opposto Hamas a Israele abbia causa-to ingenti danni ai sistemi idrici e fognari del Paese,ma anche minato di bombe a grappolo inesplose il suddel Libano, dove gran parte della popolazione vive deimodesti proventi di una terra ora inutilizzabile finquando non sarà bonificata.

PPAALLEESSTTIINNAALLoo ssttiilllliicciiddiioo nneellllaa SSttrriisscciiaa ddii GGaazzaa

Bilancio tragico, quello di un 2006 caratterizzato dal-la vittoria elettorale di Hamas, dalle incursioni militariisraeliane e dalla crescente tensione tra il “Movimentodi resistenza islamica” e Fatah, per i sempre più soffe-renti palestinesi di Gaza: 856 i morti nella Striscia ri-spetto ai 242 del 2005, 830.000 abitanti su 1,4 mlnsostenuti dagli aiuti dell’Unrwa, disoccupazione allestelle (47% nel 2007 per la Banca Mondiale) e un em-bargo devastante: la crisi nella Striscia rischia di tra-sformarsi in una tragedia umanitaria senza precedentiin Palestina.

Rubrica a cura di Michele Camaioni

AIO 2007)

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mento giuridico che valga per tutti.Qualsiasi inclinazione verso società pa-rallele o gruppi che in qualche modo sicostituiscono una nicchia va scoraggia-ta e combattuta, perché è lì che comin-cia a nascere veramente un pericolo. Allo stesso tempo, credo che esista unproblema culturale profondo, cioè unascarsa conoscenza re-ciproca, in cui noi ita-liani ignoriamo più co-se degli immigrati diquante ignorino lorodi noi. Questo ci pone in unasituazione di svantag-gio e di diffidenza, per-ché non conoscere ilproprio interlocutoreinduce a pensarne ma-le, istintivamente. Nel nostro decalogo visono alcuni punti inte-ressanti su cui varreb-be la pena insistere, inparticolare sul ruolodei media che in Italiaè assolutamente inadeguato. Esiste inItalia ad esempio un canale in linguaaraba che viene anche diffuso nei Paesimediterranei di cultura islamica, che sichiama Rai Med, il quale però è ancoraun po’ troppo provinciale per suscitarel’interesse dei partner mediterranei. Sarebbe, credo, più utile che canali diquesto genere, che appunto meritoria-mente puntano su una lingua straniera,per facilitare la conoscenza reciproca,non solo fossero la traduzione di comenoi parliamo di noi stessi, ma fosseroanche un modo per inglobare nel no-stro modo di vedere noi stessi punti divista altrui e quindi far parlare coloroche nella sponda del Mediterraneo sonoprotagonisti o dovrebbero esserlo.

Un altro aspetto fondamentale che sicolloca in questo contesto è la cono-scenza tra le culture del Mediterraneo.Come tutti sanno, “Mediterraneo” inEuropa è una brutta parola, e nell’Eu-ropa Continentale si usa in senso nega-tivo. È paradossale per chi conosce unpo’ la storia, ma è un fatto.

Se poi vediamo a chivengono stanziati ifondi comunitari per ilmondo mediterraneo,ci accorgiamo che siprivilegiano Paesi direcente ingresso nel-l’Unione Europea sola-mente perché cultural-mente più prossimi anoi, a scapito di Paesipiù importanti dalpunto di vista demo-grafico. Il fatto appunto chequesta indifferenzaculturale poi si tradu-ca anche in un’indiffe-renza di politica eco-

nomica produce un immagine moltonegativa dell’Italia e dell’Europa neiPaesi di cultura islamica. Concludo conuna notazione. Dicevo prima che qualsiasi tipo di ne-goziato presuppone una disposizione alcompromesso. Io credo che questo siamolto importante perché l’appartenen-za religiosa, a seconda di dove vienepraticata, inevitabilmente prende degliaccenti e delle curvature diverse. Questo ci ricorda che le definizioni ac-cademiche, euristiche, che vogliono ri-durre grandi culture e religioni a unasorta di unicum in cui tutti quanti ob-bediscono a dei precetti allo stesso mo-do è qualche cosa che all’atto praticonon esiste.

55550000 Gennaio n. 2-2007

“Le definizioni accademiche,euristiche, che voglionoridurre grandi culture ereligioni a una sorta di

unicum in cui tutti quantiobbediscono a dei precettiallo stesso modo è qualchecosa che all’atto pratico nonesiste. Uno dei vantaggi del

negoziato e quindidell’approccio di apertura

verso il prossimo è quello dipoterlo fondare sulle

differenze”

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Gennaio n. 2-2007 55551111

Uno dei vantaggi del negoziato e quin-di dell’approccio di apertura verso ilprossimo è quello di poterlo fondaresulle differenze. Naturalmente le pro-spettive finali sono aperte. Da questopunto di vista, credo che vi sia un pro-blema che riguarda la partecipazionepolitica e il diritto di cittadinanza inItalia e in Europa. Se prendiamo sul serio questo negozia-to, una parte fondamentale di esso saràil diritto delle comunità di immigrati edelle comunità di persone che apparten-

gono a orizzonti cul-turali molto lontanidal nostro, di parteci-pare attivamente allanostra vita sociale. Questo significa mol-to concretamente cheil nostro Paese nonpuò permettersi più,caso quasi unico inEuropa, di poggiarela propria definizionedi italiano su un con-cetto di sangue. Finché questo oriz-zonte finale non sidelinea, evidentemen-te diamo dei limiti dipartenza la negoziatoche sono piuttostosoffocanti. Per quan-to riguarda la que-stione della cittadi-nanza, io credo che sidebba lasciare apertala prospettiva dellacittadinanza a tutticoloro che vivono sta-bilmente in questopaese secondo duecriteri di fondo: il pri-mo di tempo, cioè do-

po quanto una persona abbia diritto al-la cittadinanza italiana, e il secondo dirapporto con il nostro ordinamentogiuridico, che deve essere accettatocompletamente e senza ambiguità. Altrimenti si creano paradossi comequello attuale, per cui persone che vivo-no da cinquant’anni a Melbourne o nel-l’Ontario decidono del governo italiano,più di altri che sono qui da vent’anni.

di Lucio Caracciolo, direttore dellarivista italiana di geopolitica Limes

Scorcio del centro storico di Sarajevo (Foto Michele Camaioni)

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P enso sia un segnale molto positi-vo che, da parte di quella che sipuò chiamare la società civile, ci

sia un’iniziativa come quella del decalo-go, che stimoli le istituzioni. Queste ulti-me le sentiamo a volte un po’ distanti,specialmente con l’ingorgo istituzionaleche negli ultimi tempi ci ha un po’ tuttitravolti. Va sempre ricordato che le isti-tuzioni sono al servizio dei cittadini, del-la collettività e quindi anche delle perso-ne di diversa provenienza che caratteriz-zano sempre di più la nostra società plu-ralistica. (…) Dalle istitu-zioni ci aspettiamo suppor-to e anche un coordina-mento, perché forse molteiniziative che nasconospontaneamente finisconopoi per accavallarsi e ripe-tersi, magari con gli stessierrori di quelle precedenti.Chiediamo alle istituzioniquesto servizio di censimento, di orien-tamento e di supporto, ma non illudia-moci che esse possano sostituirsi al ruo-lo della società e delle comunità. Nonvinceremo nessuna battaglia a livello po-litico se non l’avremo preparata adegua-tamente a livello sociale, così come lebattaglie già perse a livello sociale non sivincono a livello politico. Una società sa-na deve far presente ai suoi amministra-tori le situazioni che ritiene non più tol-lerabili. A. Sen, grande economista in-diano, ha scritto che in India sono finitele carestie, dove morivano moltissimepersone, quando la gente non le ha piùsopportate e avrebbe chiesto contro algoverno. Non è sbagliata l’idea di nonsupportare più i governi, locali e nazio-

nali, che fanno finta che alcuni probleminon ci siano mentre si interessano di al-tre cose, per mantenere clientele e privi-legi. Il nostro auspicio è che questo pic-colo contributo possa aiutare tutti, e chele istituzioni stesse siano stimolate ve-dendo che siamo in grado di fare un la-voro comune e partire da esigenze reali.Recentemente abbiamo avuto ospite quia Milano una ricercatrice dell’universitàdi Saint Joseph, di Beirut, molto impe-gnata nel dialogo interculturale e inter-religioso nel suo Paese, che, come sape-

te, è molto problematico daquesto punto di vista e havissuto molti anni di guerracivile. Ci sono 18 confessio-ni religiose diverse in Liba-no, ci sono stati massacri,ci sono stati fenomeni che,per non usare il termine“deportazioni”, sono statichiamati deplacéments, cioè

casi di persone portate via dai luoghi do-ve erano nate e vissute. Questa ricercatrice va nei villaggi percercare di far parlare coloro che hannovissuto questo trauma senza averlo ela-borato e superato. Io l’ho accompagnataa visitare Milano e i dintorni, laddove cisono comunità islamiche e purtroppoabbiamo dovuto riconoscere che le ini-ziative a favore del dialogo sono davverosporadiche: una conferenza, un dibatti-to, una tavola rotonda, che possono ad-dirittura fungere da alibi… Ci si puòconvincere di avere la coscienza a postoperché si è organizzato un incontro inuna parrocchia, in un centro culturale,in una biblioteca, forse anche in un’uni-versità. Eppure non possiamo pensare di

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Contro l’indifferenza tra comunità

“Non vinceremonessuna battagliaa livello politicose non l’avremo

preparataadeguatamentea livello sociale”

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accontentarci di un dialogo abborraccia-to. Dobbiamo restare in contatto e conti-nuare a parlare insieme. Il decalogo pa-radossalmente può servire anche per es-sere distrutto o rielaborato: se fra qual-che mese da questo ne scaturirà unonuovo, vorrà dire che ci è stato utile. Serimarrà così ma non servirà a niente, enessuno lo leggerà, allora non raggiun-gerà il suo scopo. Le dichiarazioni di principio lasciano iltempo che trovano. Lo stesso suggeri-mento vale naturalmente per le comu-nità di stranieri che vivono qui. Mi chie-do perché molte altre comunità che sonoin Italia da tempo, come gli egiziani, itunisini, i marocchini, non abbiano giàpensato appunto a scrivere qualche pagi-na per i loro conterranei, in cui spiegareloro che cos’è l’Italia. Io penso che se na-scesse qualche seria iniziativa in tal sen-so, potrebbe trovare anche finanziamen-ti, nella miriade di associazioni di volon-

tariato che lavorano con gli immigrati epotrebbe aiutarli nel fare un lavoro dimediazione culturale. Al momento stoseguendo un progetto con un gruppo digiovani musulmani italiani, anche senon ancora cittadini per questioni buro-cratiche, per realizzare un DVD di pre-sentazione dell’Islam agli italiani, attra-verso i volti, la vita di questi giovani. Sa-rebbe bello se qualcuno del mondo ara-bo, mediorientale, pakistano, iranianovenisse a chiedere il nostro contributoper rappresentare l’Italia ai suoi concit-tadini, che magari arrivano nel nostroPaese e hanno un’idea dell’Italia mutua-ta dalle pubblicità, dai cartelloni e daipregiudizi epidermici che tutti abbiamoverso le altre culture. Il sistema mediati-co sicuramente contribuisce a dar vita auna sola visione, in genere catastrofica. Iproblemi ci sono, per carità, come i ter-roristi e i gruppi islamici radicali, manon sono l’unica realtà. La stessa parzia-lità è presente nella controparte. Mi sento offeso, come cittadino milane-se, dal fatto che esista da non so quantianni un centro islamico in viale Jenner(ma potrebbe essere anche buddista,indù o laico) che non è adeguato alla co-munità che vi si ritrova, che crea proble-mi ai cittadini del quartiere, che alimen-ta soltanto risentimenti dalle due parti.Trovo indecente e indecoroso che riman-ga lì senza che nessuno, di nessuna partepolitica, in tanti anni abbia proposto unasoluzione ragionevole. E, in aggiunta atutto questo, c’è un forma di strumenta-lizzazione dell’Islam e della religione, do-vuta all’ignoranza. È vero, sono pochiquelli che sarebbero in grado di arrivaread insegnare religione adeguatamentenelle scuole. Però noi abbiamo un expresidente del senato e un Santo Padreche hanno scritto insieme un libro dal ti-tolo Senza radici, dove hanno manifesta-

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to un senso di allarme sull’identità del-l’Europa. Che senso ha parlare di radiciquando poi all’interno delle nostre uni-versità gli studenti escono con una lau-rea in lettere o in filosofia, e sono com-pletamente analfabeti per quanto riguar-da la Bibbia? Allora de-cristianizziamola Bibbia, de-islamizziamo il Corano,forniamo delle informazioni di base sen-za le quali non si capirebbe niente del-l’arte, della filosofia, della musica, dellaletteratura, del proprio mondo e deimondi attigui. Io non penso che l’ora direligione non serva, è così perché è stataconsiderata soltanto un territorio su cuipiantare una bandiera.Ma è indispensabile inve-ce che si recuperi unacultura religiosa, nonconfessionale, perché al-trimenti presto non capi-remo più la nostra stessaletteratura… E non parlosolo di Dante, ma anchedi autori recenti comeThomas Mann, che hascritto Giuseppe e i suoifratelli. Questo è un peri-colo enorme per la so-pravvivenza di una ci-viltà, la nostra in questo caso, ed è unpericolo ancora maggiore perché ci im-pedisce di accogliere adeguatamente al-tre culture e religioni. Il Corano, per re-stare in tema, ha un intero capitolo dedi-cato alla figura di Giuseppe, quindi po-trebbe essere persino una provvidenzialeprovocazione. Ci sarebbe moltissimo dafare anche dal punto di vista della for-mazione. Ma non solo. Molte delle no-stre tradizioni sono difese proprio grazieal lavoro degli stranieri. Non sono i no-stri professionisti, medici, ingegneri, ar-chitetti, artisti, a far sopravvivere i nostriprodotti tipici. Se non ci fossero i maroc-

chini negli alpeggi della Val d’Aosta...Concludo sottolineando ancora la neces-sità di mobilitare la base, fare esperienzemodello, tentativi che dovranno certo es-sere perfezionati, ma non posiamo la-sciare la questione solo in mano alle no-stre autorità, né religiose e né politicheperché, mi dispiace dirlo, rischiamo lacatastrofe. Tornando a menzionare que-st’amica libanese, cristiana maronita: miha raccontato che in Libano, dopo laguerra civile, si sta tentando di introdur-re nelle scuole un’ora sul fenomeno reli-gioso. Insieme, musulmani, cristiani,drusi e le varie altre comunità stanno

inoltre scrivendo un librosulla storia del Libano,dove ognuna di esse pos-sa riconoscersi. Credoche scelte di questo tipopossano garantire un fu-turo a quello sventuratoPaese. E non solo a quel-lo. Mettere insieme il me-glio delle nostre rispetti-ve tradizioni in chiave in-terdisciplinare, è una co-sa difficilissima, moltoimpegnativa, ma essen-ziale. Non dobbiamo per-

mettere che la cultura si sviluppi a scom-parti impermeabili, né favorire la crea-zione di ghetti in cui ciascuno cerca diritagliarsi il suo piccolo spazio. Dobbia-mo essere molto ambiziosi e quindi an-che molto impegnati. Non aspettiamociche siano coloro che, di volta in volta,gestiscono il potere a risolvere le cose.Dovremo essere noi a chiederglielo e apretenderlo, quando avremo la maturitàper farlo.

di Paolo Branca,docente di Lingua e Letteratura Araba

presso l’Università Cattolicadel Sacro Cuore di Milano

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“Ci si può convinceredi avere la coscienza a

posto perché si èorganizzato un incontroin una parrocchia, in uncentro culturale, in una

biblioteca, forse anche inun’università. Eppure non

possiamo pensare diaccontentarci di un

dialogo abborracciato”

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P er me la questione dell’Islam edell’Europa non è assolutamentenuova, poiché è il mio lavoro: da

oltre trent’anni infatti insegno Storia delpensiero islamico alla Sorbona. Vorreisottolineare il termine “storia”, poichéessa è spesso assente dai nostri discorsi.Tutto quello che diciamo sull’Islam nontiene conto di ciò che ci mostra la storia,che bisogna però accompagnare sempreanche alla filosofia. Il pensiero arabo,che si è diffuso dall’VIII secolo fino allafine del XII, sembra che da uncerto momento in avanti si siainterrotto, causando uno iatoal suo interno che blocca con-siderevolmente i rapporti at-tuali fra l’Islam come pensieroe Islam come compimento ri-tuale (cioè l’adorazione, il rap-porto con i defunti, e tuttoquanto fa parte dell’espressio-ne religiosa); la religione nonvive solo di riti, ma si nutreanche di riflessioni intellettua-li, di ricerca e di critica inter-na (sottolineo, interna), attra-verso la teologia, la filosofia, ilcredo religioso. Questo è unpunto molto importante, spes-so ignorato; il dialogo fraIslam e Cristianesimo esistefinché non si affrontano i temifondamentali della teologiacristiana, ebraica e musulma-na, di come le teologie parlanodella rivelazione, che è unaquestione centrale, assoluta-mente fondamentale, appun-to, nella formazione stessa delcredo ebraico, cristiano e mu-

sulmano; dei rapporti che queste comu-nità hanno con i loro testi, cioè con le lo-ro Sacre Scritture (la Bibbia, il Vangelo,il Corano). Però, oggi, se si guarda al mo-do con cui i cristiani (soprattutto dalConcilio Vaticano II, e i protestanti damolto più tempo) trattano i testi dellaBibbia e dei Vangeli, applicando il meto-do storico-critico alla rilettura di questitesti, non si trova un approccio corri-spondente nell’Islam (dove invece c’è unachiusura totale a questo tipo di lettura

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La questione del dialogo interreligioso

Fedeli musulmani in preghiera (Foto Michele Camaioni)

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critica). Non possiamo accontentarci dirivendicare una cosa che per noi è dataper scontata, come gli spazi di culto peresempio. Io faccio parte di coloro che ri-vendicano in Europa la creazione di luo-ghi di ricerca scientifica, di insegnamen-to della religione, o meglio del “fatto reli-gioso” in quanto “fatto” di storia. Ciònon esiste in nessun Paese in Europa einvece è un’emergenza. Non solo dobbia-mo arrivare a un Islam europeo, italiano,francese, ma a un Islam insegnato fin dailicei, fin dalle scuole medie. Ebbene, io eil deputato sindaco di Montreuil (unagrande area della periferia di Parigi cheda sola raccoglie 200.000immigrati musulmani, cheprovengono da tutti i Paesiislamici) abbiamo dato vitaa un primo luogo di studionella Francia laica e laicista,che non vuole assolutamen-te sentir parlare di insegna-mento delle religioni. Preci-so che io concordo sul con-cetto di Stato laico. Il temaattorno a cui stiamo lavo-rando in questo centro è appunto il “fat-to religioso”, che è un concetto difficileda spiegare; quando parlo arabo sonoobbligato a dire “il fatto religioso”, oalwaheratinia. In genere mi viene rispo-sto: “Di cosa sta parlando? La religione èla religione, è l’Islam, è il Cristianesimo,è l’Ebraismo, non ci sono fatti religiosi”;il concetto non esiste neanche nelle lin-gue europee. Stiamo incontrando moltedifficoltà nell’introdurre questo nuovocampo di ricerca, sia con gli allievi mu-sulmani che cristiani. Proviamo a fare unpasso indietro. L’Europa che cos’è? È ilsuperamento degli Stati nazionali, contutte le difficoltà nel superare le singolesovranità, per orientarsi verso uno spazioaperto di cittadinanza. Questo presuppo-

ne un cambiamento di filosofia politica,anche in Europa, e richiede uno sforzo,non solo all’interno di alcune istituzioni,non solo nel modo in cui si formulano al-cuni diritti degli uomini, ma nel propriomodo di pensare abituale, con cui si trat-tano gli altri cittadini; è necessario ripen-sare al ruolo del religioso all’interno dellacittadinanza, al suo spazio multicultura-le, multilinguistico, multiconfessionale,multietnico: si tratta di una sfida nuovache la storia ci pone e che riguarda tutti.E poi c’è l’Islam, che ha bisogno di un la-voro storico, su se stesso, come quellocompiuto dal Cristianesimo in Europa

tempo fa con grandi sforzi.Anche la Chiesa cattolica haposto una resistenza allamodernità; nel 1948 la Chie-sa cattolica e l’Arabia Saudi-ta hanno rifiutato la Dichia-razione dei Diritti dell’Uo-mo e del Cittadino, perchéper entrambe i primi dirittisono quelli di Dio, e quellidell’uomo devono iscriversiall’interno della definizione

teologica dei diritti divini. Questo dibatti-to è ancora presente ed è indispensabile,anche se in Europa si è evitato di affron-tarlo durante l’epoca dei Lumi, perché laragione aveva conquistato la sovranitàintellettuale e scientifica, poi quella poli-tica e giuridica, rendendo secondaria lariflessione teologica, che finì per ritirarsinel silenzio dei monasteri: I protestantinon hanno aspettato il Concilio VaticanoII, perché sono stati proprio loro a intro-durre la riflessione e la protesta dall’in-terno della Chiesa contro il dominio delmagistero dottrinale. Bisogna avere il co-raggio di ammettere che l’Islam non hamai conosciuto questo tipo di tensioni, eha bisogno di vivere questa fase; non puòsemplicemente ascoltare quello che è ac-

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“L’Islam, ha bisognodi un lavoro storico,

su se stesso,come quellocompiuto dalCristianesimo

in Europa tempo facon grandi sforzi”

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caduto ai cristiani, dicendo “non ci ri-guarda, per noi tutto va bene, abbiamo ilCorano, lo leggiamo e lo interpretiamo”.Il Cristianesimo ha avuto degli storiciche hanno elaborato una critica dei testibiblici ed evangelici, e questo è un puntosu cui riflettere. Inoltre, l’Europa ha avu-to Nietzsche, poi Marx, Freud, che han-no completamente rivoluzionato il pen-siero illuministico e il campo intellettua-le creati dalla prima ragione dei Lumi.Non dico che all’Islam debba accadere lostesso processo, ma non possiamo co-struire alcuna apologia dell’Islam illumi-nistico senza aver prima elaborato unacritica a quell’illuminismo, e senza esser-ci chiesti come utilizzarlo. Solo così essopotrà riattivarsi e vivere a sua volta le cri-si che la ragione ha conosciuto in Euro-pa durante l’epoca dei Lumi; per avviarequesto lavoro che deve fare la ragione

islamica, mi impegno da trent’anni inun’opera, che tra l’altro si chiama La cri-tica della ragione islamica, la “critica”, ri-peto, “della ragione islamica”; un pro-gramma che abbiamo l’opportunità diaprire in Europa, poiché è qui che esisteun contesto politico di tutela democrati-ca, è qui che esistono delle risorse biblio-tecarie e anche tanti ricercatori che pur-troppo non abbiamo in nessuno dei Pae-si musulmani. Per questo, abbiamo unaresponsabilità storica qui in Europa,condivisa con i membri dell’Unione Eu-ropea, perché è qui che devono esserecreati dei luoghi di culto, non solo per-ché questo è un diritto scritto nelle Costi-tuzioni, ma anche perché deve entrarenella mente delle persone, nella percezio-ne della mentalità europea. Ora, comeparlano gli europei dell’Islam? Come diuna realtà che ha diritto a esprimersi li-beramente, ad avere proprie scuole. Macome bisogna insegnare in queste scuolela storia del pensiero islamico, e chi lofarà? Dato che io mi occupo proprio diquesto, posso dirvi che professori capacidi insegnare la storia del pensiero islami-co in modo paragonabile a quello che siutilizza nell’ambito del Cristianesimo edell’Ebraismo, è difficile trovarne. Comel’Ebraismo, l’Islam è purtroppo impre-gnato delle influenze della lotta politica,e soffre, in quanto religione, poiché vienepoliticizzata, e non è più libera dal puntodi vista intellettuale. Non siamo ancorariusciti a sensibilizzare e responsabiliz-zare i politici, i quali, in prima battuta,sono coloro che hanno l’opportunità e laresponsabilità di creare questi luoghi diricerca e di insegnamento.

di Mohammed Arkoun, professore diStoria del Pensiero Islamico presso

l’Università Sorbona di Parigi,direttore scientifico della rivista “Arabica”

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Sarajevo, ingresso alla moschea di Begova Dzamjia(Foto Michele Camaioni)

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La scomparsa dell’Abbé Pierre,pioniere della carità

È morto oggi, 22 gennaio, l’abate Pierre, simbolo del cattolicesimofrancese. Aveva 94 anni. Il religioso è deceduto durante la notte nel-l’ospedale Val de Grace di Parigi, dove era ricoverato per un’infezione

polmonare dallo scorso 15 gennaio. La notizia è stata diffusa dal Martin Hir-sch, presidente di Compagnons d’Emmaus Francia, l’organizzazione per i po-veri e i rifugiati, fondata dall’abate nel 1949.Henri Groues, detto l’Abbé Pierre, prese gli ordini religiosi nel 1938 e, duran-te la seconda guerra mondiale, partecipò alla resistenza francese salvandonumerose vite e favorendo la fuga di ebrei e perseguitati politici verso Svizze-ra o Algeria. L’Abbé Pierre era uno dei personaggi più popolari della Francia. Icona dellacarità e della solidarietà e del coraggio cristiani in tutto il mondo, era nato il5 agosto 1912 a Lione. Nel 1931 era entrato nell’ ordine dei Cappuccini, e set-te anni più tardi era diventato sacerdote. Durante la Seconda guerra mondiale, aveva aiutato gli ebrei a fuggire ed eraentrato a far parte della resistenza francese. Il suo impegno socio-politico eracontinuato con la costruzione di alloggi per famiglie senza casa. Impegnoche si era concretizzato con la fondazione della comunità Emmaus, movi-mento laico di solidarietà per l’ aiuto ai senza tetto e agli emarginati. La co-

munità è diventata nei decenni un vero e pro-prio punto di riferimento in tutta la Francia e,dal 1971, un’ istituzione caritativa internazio-nale. Negli anni anche il carisma dell’AbbéPierre è cresciuto, fino a farne uno dei perso-naggi più amati dai suoi connazionali, con unapopolarità all’estero che ha potuto competerecon quella di madre Teresa di Calcutta. Nell’ot-tobre 2005 fece scalpore nel mondo dei massmedia e pietrificò la Santa Sede, la sua umileammissione di aver avuto in passato relazionisessuali con donne, incoraggiando in questomodo non solo i peccatori e gli “irregolari” maquanti vivono, con fatica e passione, tutte lecontraddizioni della propria umanità, a sentirsicomunque sempre amati da Dio.Il presidente francese Jacques Chirac si è detto

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“sconvolto” dalla notizia della morte del-l’Abbé Pierre e ha aggiunto, in un messaggiodi cordoglio, che “tutta la Francia né e colpi-ta al cuore”. Il capo di Stato ha anche ricor-dato il legame di profondo affetto e stima chelo legava al religioso scomparso. “Un pioniere della carità”, “esempio viventedell’amore verso il prossimo”, “una iconadella solidarietà”. Descrive così l’Abbé Pierreil cardinale Roger Etchegaray. Il porporato,interpellato dall’Ansa, non riesce a nascon-dere il proprio dolore per la scomparsa di“un caro amico”. “Lo conoscevo bene, ci co-noscevamo da 40 anni e assieme abbiamo la-vorato tanto”, ha raccontato Etchegaray fa-cendo riferimento a quando era giovane ve-scovo a Marsiglia e si occupava di promuo-vere progetti a favore dei poveri e degliemarginati della città. “Con lui ho lavorato alla realizzazione di progetti ca-ritativi anche all’estero. L’Abbé Pierre era una grande figura, che ha manife-stato con la propria azione quotidiana la forza del Vangelo, stringendo unlegame particolare con i poveri. La sua scomparsa lascerà un grande vuoto enon solo in Francia”.L’ex presidente della repubblica francese Valery Giscard d’Estaing dice checon la morte dell’Abbé Pierre “la Francia non sarà più la stessa” e chiedeche al vecchio combattente della lotta contro la povertà siano attribuiti fu-nerali di stato. Il cordoglio per la scomparsa di uno dei personaggi piùamati dai francesi è unanime. Segolene Royal, la candidata socialista all’E-liseo, ha chiesto che “il lungo grido di collera dell’Abbé Pierre contro la po-vertà non si estingua”. La lotta di tutta la sua vita per i senza casa “restapurtroppo di attualità” ha aggiunto l’esponente socialista per la quale “lospirito di rivolta” dell’Abbé deve continuare “per dare a tutti la sicurezza ela dignità di una casa”. Anche il candidato della destra neo-gollista, il mini-stro dell’interno Nicolas Sarkozy, ha rivolto il suo omaggio all’uomo che“ha combattuto tutte le forme di ingiustizia”, che “ci ha spinto sulla stradadella bontà e dell’azioné con “la sua fede e il suo immenso carisma”. Per ol-tre mezzo secolo - ha aggiunto Sarkozy - l’Abbé Pierre ha insegnato ai fran-cesi a non abbassare né lo sguardo né le braccia di fronte alla miseria uma-na. La sua lotta può riassumersi in un messaggio più attuale che mai, quel-lo della dignità”.

(Fonte: rielaborazione da dispaccio ANSA del 22 gennaio 2007)

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L’Abbé Pierre con Giovanni Paolo II

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C on la festa dell’Epifania 2007 sonoentrato nel ventisettesimo anno diepiscopato e sto per entrare, a Dio

piacendo, anche nell’ottantesimo anno dietà. Pur essendo vissuto in un periodo sto-rico tanto travagliato (si pensi alla Secondaguerra mondiale, al Concilio e postconcilio,al terrorismo eccetera), non posso nonguardare con gratitudine a tutti questi annie a quanti mi hanno aiutato a viverli consufficiente serenità e fiducia. Tra di essidebbo annoverare anche i medici e gli in-fermieri di cui, soprattutto a partire da uncerto tempo, ho avuto bisogno per reggerealla fatica quotidiana e per prevenire ma-lanni debilitanti. Di questi medici e infer-mieri ho sempre apprezzato la dedizione, lacompetenza e lo spirito di sacrificio. Mirendo conto però, con qualche vergogna eimbarazzo, che non a tutti è stata concessala stessa prontezza e completezza nelle cu-re. Mentre si parla giustamente di evitareogni forma di “accanimento terapeutico”,mi pare che in Italia siamo ancora non dirado al contrario, cioè a una sorta di “negli-genza terapeutica “ e di “troppo lunga atte-sa terapeutica”. Si tratta in particolare diquei casi in cui le persone devono attenderetroppo a lungo prima di avere un esameche pure sarebbe necessario o abbastanzaurgente, oppure di altri casi in cui le perso-ne non vengono accolte negli ospedali permancanza di posto o vengono comunquetrascurate. È un aspetto specifico di quella

che viene talvolta definitO come “malasa-nità” e che segnala una discriminazionenell’accesso ai servizi sanitari, che per leggedevono essere a disposizione di tutti allostesso modo.Poiché, come ho detto sopra, infermieri emedici fanno spesso il loro dovere congrande dedizione e cortesia, si tratta perciòprobabilmente di problemi di struttura e disistemi organizzativi. Sarebbe quindi im-portante trovare assetti anche istituzionali,svincolati dalle sole dinamiche del mercato,che spingono la sanità a privilegiare gli in-terventi medici più remunerativi e nonquelli più necessari per i pazienti, che con-sentano di accelerare le azioni terapeutichecome pure l’esecuzione degli esami neces-sari.Tutto questo ci aiuta a orientarci rispetto arecenti casi di cronaca che hanno attiratola nostra attenzione sulla crescente diffi-coltà che accompagna le decisioni da pren-dere al termine di una malattia grave. Il re-cente caso di P.G. Welby, che con luciditàha chiesto la sospensione delle terapie disostegno respiratorio, costituite negli ultiminove anni da una tracheotomia e da unventilatore automatico, senza alcuna possi-bilità di miglioramento, ha avuto una parti-colare risonanza. Questo in particolare perl’evidente intenzione di alcune parti politi-che di esercitare una pressione in vista diuna legge a favore dell’eutanasia. Ma situa-zioni simili saranno sempre più frequenti e

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MISSIONE E SOCIETÀ

Io, Welby e la morte*

* Articolo tratto dal “Sole 24 Ore” del 21 gennaio 2007.

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la Chiesa stessa dovrà darvi più attentaconsiderazione anche pastorale.La crescente capacità terapeutica della me-dicina consente di protrarre la vita pure incondizioni un tempo impensabili. Senz’al-tro il progresso medico è assai positivo. Manello stesso tempo le nuove tecnologie, chepermettono interventi sempre più efficacisul corpo umano, richiedono un supple-mento di saggezza per non prolungare itrattamenti quando ormai non giovano piùalla persona.È di grandissima importanza in questocontesto distinguere tra eutanasia e asten-sione dall’accanimento terapeutico, due ter-mini spesso confusi. La prima si riferisce aun gesto che intende abbreviare la vita,causando positivamente la morte; la secon-da consiste nella «rinuncia... all’utilizzo diprocedure mediche sproporzionate e senzaragionevole speranza di esito positivo»(Compendio Catechismo della Chiesa Cat-tolica, n. 471). Evitando l’accanimento tera-peutico «non si vuole... procurare la morte:si accetta di non poterla impedire» (Cate-chismo della Chiesa Cattolica, n. 2.278) as-sumendo così i limiti propri della condizio-ne umana mortale. Il punto delicato è che,per stabilire se un intervento medico è ap-propriato, non ci si può richiamare a unaregola generale, quasi matematica, da cuidedurre il comportamento adeguato, maoccorre un attento discernimento che con-sideri le condizioni concrete, le circostanzee le intenzioni dei soggetti coinvolti. In par-ticolare non può essere trascurata la vo-lontà del malato, in quanto a lui compete— anche dal punto di vista giuridico, salvoeccezioni ben definite — di valutare se lecure che gli vengono proposte, in tali casi dieccezionale gravità, sono effettivamenteproporzionate. Del resto questo non deveequivalere a lasciare il malato in condizionedi isolamento nelle sue valutazioni e nellesue decisioni, secondo una concezione del

principio di autonomia che tende erronea-mente a considerarla come assoluta. Anzi èresponsabilità di tutti accompagnare chisoffre, soprattutto quando il momento dellamorte si avvicina. Forse sarebbe più corret-to parlare non di «sospensione dei tratta-menti» (e ancor meno di «staccare la spi-na»), ma di limitazione dei trattamenti. Ri-sulterebbe così più chiaro che l’assistenzadeve continuare, commisurandosi alle effet-tive esigenze della persona, assicurando peresempio la sedazione del dolore e le cureinfermieristiche. Proprio in questa linea simuove la medicina palliativa, che rivestequindi una grande importanza. Dal puntodi vista giuridico, rimane aperta l’esigenzadi elaborare una normativa che, da unaparte, consenta di riconoscere la possibilitàdel rifiuto (informato) delle cure – in quan-to ritenute sproporzionate dal paziente – ,dall’altra protegga il medico da eventualiaccuse (come omicidio del consenziente oaiuto al suicidio), senza che questo implichiin alcun modo la legalizzazione dell’eutana-sia. Un’impresa difficile, ma non impossibi-le: mi dicono che ad esempio la recente leg-ge francese in questa materia sembri avertrovato un equilibrio se non perfetto, alme-no capace di realizzare un sufficiente con-senso in una società pluralista.L’insistenza sull’accanimento da evitare esu temi affini (che hanno un alto impattoemotivo anche perché riguardano la grandequestione di come vivere in modo umanola morte) non deve però lasciare nell’ombrail primo problema che ho voluto sottolinea-re, anche in riferimento alla mia personaleesperienza. È soltanto guardando più in al-to e più oltre che è possibile valutare l’insie-me della nostra esistenza e di giudicarla al-la luce non di criteri puramente terreni,bensì sotto il mistero della misericordia diDio e della promessa della vita eterna.

Carlo Maria Martini

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Sono 120.000 in meno di un chilometro quadro. In casette di latta alte poco più diun metro e mezzo per altrettanti pochi metri quadrati di estensione. In un mare di im-

mondizia e rivoli di fogna maledettamente maleodorante che separano gli agglomerati traloro. Fumo, capre bicolore che brucano rifiuti, puzza di immondizia bruciata. Voci di bambini

scalzi e sporchi che escono dalle baracche gridando a cantilena: “How are you, how are you?”.Escono dal nulla, ti si avvicinano e ti prendono la mano. Senza dir niente, camminano con te. Gli

altri, più adulti, puntano gli occhi su di te e gridano in Kiswahili: “Muzungu!” (uomo bianco). Sono ivolti della storia. Quei volti che a molti hanno cambiato la vita. Sono lì, ce li ho davanti. Si va a visi-

tare la casa di accoglienza per i malati terminali di AIDS, costruita dai Comboniani. No, non grandi strutture.Non belle case arredate e costruite in stile occidentale in uno scenario di povertà estrema. Ma un’altra baracca, dilatta... Piena di immondizia, polvere e fumo, come tutto lì intorno. Povera tra i poveri. Dentro, la morte. Al suo in-terno, malati terminali di AIDS aspettano la morte, solo quella. Sedati da qualche retrovirale inviato dai combo-niani, alzano a stento la testa e, con i loro occhi ormai segnati dalla malattia, fissano i tuoi. Senza dire una parola.Il loro sguardo intenso e rassegnato ti toglie il respiro. Sembra l’inferno. È l’inferno... È un film. Non può essere ve-ro. La gente non può vivere così. A due passi dalla capitale, dove grandi palazzi di multinazionali, banche e hotel

prestigiosi danno il classico tono occidentale alla colonia da sempre sfruttata. Vergogna... Questi sono i fruttidella colonizzazione. Non solo quella del passato, ma anche quella ancora più subdola del presente. Capiscoallora che è proprio qui, a Nairobi, nelle sue discariche umane, che bisogna andare per capire cosa significarealmente globalizzazione. Vergogna… Camminando per Korogocho, un pensiero fisso mi affligge: è tutta col-

pa mia. È colpa di dove vivo e per cosa vivo. La mia ricchezza, il mio essere parte dell’“impero”, accorcia, giornodopo giorno, la vita di questa gente. Ma loro cosa hanno fatto di male? Ragazzi con occhi spenti, stracci addosso,sacco sulle spalle pieno di immondizia, si aggirano per Korogocho. Vivono insieme a tutto quel poco che hanno,inclusi gli animali. Sono lì, con il loro barattolo di colla in bocca, e gli occhi semichiusi. Anime bruciate in un cor-po pieno di terra, ferite, stracci da presepio napoletano. Daniel, giovane volontario del luogo che ci fa da “guida”,dice: “Vedi laggiù, l’altro lato della discarica? Lì la mafia decide tutto: a chi devono essere assegnate le baracche,quanto devono pagare, chi può ricavare da mangiare dalla discarica, etc. E sai che succede a chi non rispetta leloro regole? Gli tagliano la testa con un’accetta e, dopo averla conficcata su di una lunga asta di metallo, giranoper la baraccopoli mostrandola a tutti gli abitanti, così da dimostrare chi è fa le leggi qui…”. No, non può esserevero. Nel 2007, a due passi dai grandi palazzi dell’impero, vita e morte convivono ogni giorno in vere e propriediscariche umane. Mi guardo attorno, come uno spettatore inerte dinanzi un documentario scomodo sulla po-vertà. Cerco di non farmi “toccare” troppo, ma è tutto troppo vero, reale. È tutto troppo indelebile. L’odore di im-mondizia bruciata che aleggia per le “strade” di Korogocho non se ne andrà facilmente dalla mia memoria. Unbimbo alto fino al mio ginocchio mi prende la mano. Mi grida, con uno splendido sorriso, “Muzunguuu…how are

u?”. Non gli riesco a rispondere. Mi chiedo dov’è Dio... Mi viene in mente la risposta a questa domanda nel libroLa notte, di Elie Wiesel, quando un ragazzino viene impiccato dalle guardie naziste in un campo di concentra-

mento: “Dov’è Dio? È lì… appeso a quella forca”. È lì, a nell’immondizia e la puzza di Korogocho. È nei suoiragazzini con i barattoli di colla sulle labbra, nei suoi piccoli volti sorridenti cui unico “peccato” è stato

quello di nascere lì, in una discarica umana. Nella fogna della globalizzazione, nelle sue scorie. Non so seun altro mondo è possibile. Non ho mai amato le frasi retoriche e populiste dei leader delle rivoluzio-

ni… Ma quello che sento è che, da Korogocho a Napoli, la lotta è sempre la stessa. DIRE BASTA, nelmodo in cui meglio possiamo, alla povertà. Far fruttificare i talenti che ci sono stati donati e met-

terli al servizio, benché nella diversità di carismi, all’unico progetto di vero Amore che esiste almondo. Dio ha voluto un POPOLO ALTERNATIVO ALL’IMPERO, che parta da Korogocho, la

discarica umana, povertà della povertà. È proprio lì, infatti che, insieme, bianchi e neri, po-veri e ricchi, nord e sud del mondo, ci siamo presi per mano urlando, incitati dalla voce di

Alex Zanotelli… VIVA NAIROBI VIVA....

Lettera da Nairobi

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Q uando ho sentito parlare per laprima volta della possibilità ditrascorrere il capodanno in Ro-

mania ero abbastanza titubante, per-ché in genere noi giovani preferiamorecarci all’estero, sì, ma in qualche ca-pitale europea alla moda, comunquefuori dalla nostra città, per vivere que-sto breve momento di festa con i coeta-nei all’insegna del divertimento e dellabaldoria.La funzione della Lega MissionariaStudenti in parte la conoscevo già, vistoche mio fratello partecipa da diversi an-ni ai campi estivi e invernali a Sighet, eha sempre raccontato in famiglia le sueesperienze con tale entusiasmo da con-vincere anche mio padre a parteciparvitre anni or sono.

Poco prima di Natale ho deciso di dareanch’io l’adesione insieme a mio fratel-lo Luca e a Davide Gagliardi (Iago).Abbiamo scelto tutti e tre di lavorare atempo pieno nell’ospedale degli handi-cappati, camin de batrani, che ospitapiù di 130 disabili e handicappati.Il primo impatto non è stato dei miglio-ri perché, essendo abituato nella vita ditutti i giorni a vivere in mezzo alle per-sone “normali”, ho avuto un primo mo-mento di smarrimento e di impressionederivante dalla vista e dall’odore che ca-ratterizzano quel luogo. Iago ancor piùdi me, essendo arrivato al punto di rive-dere la scelta di quel servizio. Il giornosuccessivo tuttavia, messi da parte in-certezze e ripensamenti, ci siamo dedi-cati a queste persone che ci hanno con-

quistato nello spazio di unsorriso…Un pensiero costante chemi accompagna nella quoti-dianità è rivolto alla simpa-tia di “Mongo”, al silenzioassordante di “Ovidia”, aldolce sguardo di “Corne-lio”e a tutti gli altri.Un’esperienza del generepenso sia determinante nelfar maturare chi la vive;personalmente sono rima-sto colpito dal fatto chepersone afflitte da handicapcosì gravi, soffrendo, abbia-

VITA LEGA

La mia prima volta a Sighet…

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no costantemente il sorriso sulle lab-bra, essendo loro a trasmettere serenitàa noi volontari, soprattutto dando mo-do di riflettere su molte cose, sulla giu-stizia della vita e sugli imprevisti chequesta ci riserva.Probabilmente la prossima volta chetornerò al camin de batrani non rivedròpiù tutti gli ospiti che ho conosciutodurante questa mia prima esperienza,ma ce ne saranno altri, altrettanto sfor-tunati. Questa esperienza mi ha lascia-to del buono dentro, tant’è vero che cer-

te volte provo disprez-zo nei confronti dipersone con troppa“puzza sotto al naso”,che vivono in funzio-ne del possesso e siatteggiano in modoinfantile.Per questo motivoconsiglierei a tuttiquanti non l’abbianogià fatto, di partecipa-re ad un campo comequello appena tra-scorso, perché aiuta acomprendere situa-zioni e realtà chespesso dalle nostrecase e dai nostri paesineanche immaginia-mo, pur essendo die-tro l’angolo.Sono rimasto impres-sionato dall’ospitalitàdelle famiglie che cihanno accolto, maiavrei pensato ad unacosa del genere: inItalia siamo propriodiversi, specialmenteal nord…Vorrei ringraziare tut-

ti coloro che mi hanno insegnato, con-sigliato e illuminato con il loro esem-pio, in particolare padre Massimo Ne-vola, che ho conosciuto tre anni fa a uncampo di giovani a Vico Equense, sem-pre organizzato dalla L.M.S., e che so-no stato felice di aver ritrovato in un’e-sperienza simile. Anche in questa circo-stanza mi ha aiutato molto, soprattuttoè riuscito a farmi confidare…

Andrea Capurro

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Il commerciante di bottoniERIKA SILVESTRI, Fabbri Editori, Milano, 2007 - pp. 158, E 9,90

La biblioteca di Gentes

Sopravvivere ad Auschwitz e alla disperazione del ritornoha investito Piero Terracina di una missione insieme do-lorosa e irrinunciabile: la testimonianza. Erika e Piero sisono conosciuti così, durante una delletante visite alle scuole di Roma e dintor-ni che Terracina compie ogni anno nel-l’ambito del progetto sulla memoria so-stenuto dal Comune di Roma e fortemen-te voluto dal sindaco Walter Veltroni, cheha firmato la prefazione de “Il commer-ciante di bottoni”. Ascoltare e trattenerenel cuore un pizzico dei ricordi, quelliche si possono raccontare, di chi Au-schwitz l’ha vissuto e lo porta ancoramarchiato sulla propria pelle ha indottol’autrice, allora quattordicenne, a scrive-re una lettera a Piero Terracina, che almomento della deportazione, nel 1944,di anni ne aveva appena quindici. Ne è nata una corri-spondenza epistolare via via più fitta e familiare, sfociatapoi quasi per forza di inerzia nella conoscenza diretta einfine in un legame indissolubile come il misterioso esorprendente intreccio dei fili di due esistenze apparente-mente lontane nel tempo e nello spazio, eppure avvintel’una all’altra da un’insospettabile comunanza di sentire,

di guardare e vivere il mondo. Un rapporto la cui toccanteprofondità è espressa magnificamente nelle pagine di unvolumetto in cui, in forma diaristica ed epistolare, una

giovane ragazza ha voluto ripercorrere letappe più significative di un’amiciziaspontanea e genuina, di un affetto reci-proco e inversamente proporzionale alladifferenza di età dei due protagonisti. Mail racconto dell’amicizia tra Erika e Pieronon può ignorare il dramma, non puòeludere il ricordo dell’orrore che indele-bilmente ha segnato le membra e l’animacoraggiosa di un ebreo romano ormai ul-trasettantenne. Ecco allora che “Il com-merciante di bottoni” non è solo un com-movente affresco di un’amicizia, ma an-che un nuovo, originale contributo allamemoria di una tragedia purtroppo anco-

ra oggi da più parti negata, strumentalizzata o semplice-mente ignorata per l’incapacità di scorgere in essa nonsolo il dramma di un intero popolo, ma anche il paradig-ma, universale e quindi sempre attuale, della terribile per-versione che può condurre l’uomo a respingere, odiare edistruggere il diverso.

Michele Camaioni

Autoritratto di un reporterRyszard KapuscinskiFeltrinelli, Milano, 2006pp. 118,E 10,00

L’intrigante racconto della vitaeccezionale e dell’incontenibile passioneper il proprio mestiere dello straordinarioreporter e scrittore polacco recentementescomparso. Narratore unico nel suogenere per la capacità di raccontare levicende sociali e politiche del Sud delmondo rimanendo fedele al sentimentodella gente comune, Kapuscinski delineacon l’umiltà e la sensibilità che l’hannocaratterizzato i tratti salienti della sua ideadi giornalismo.

La civiltà islamico-cristianaRichard W. BullietLaterza, Roma-Bari, 2005pp. 206,E 15,00

La tesi originale e coraggiosa di unodei più autorevoli studiosi statunitensidelle vicende islamiche, che dallastoria e dalla sociologia trae gliargomenti per affermare le comuniradici del mondo cristiano e delmondo islamico, ma anche leinterdipendenze che ne rendonoinestricabili le rispettive vicende.Passate, presenti e future.

Da Korogocho con passioneAlex ZanotelliEMI, Bologna, 2006pp. 224,E 11,00

Quattordici anni di vita nella sconfinatabaraccopoli keniana di Korogochoracchiusi in diciannove lettere vibrantie appassionate, da cui emerge a chiarenote la denuncia del noto missionariocomboniano dei mali e delle ingiustizieglobali che affliggono la societàattuale, ma anche la meraviglia per lavoglia di vivere, nonostante tutto, cheanima i poveri abitanti degli slum piùdi tanti cittadini del pigro e annoiatoOccidente.

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