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DIREZIONE Ugo Finetti Sergio Scalpelli Stefano Carluccio (direttore responsabile) Email: [email protected] Grafica: Gianluca Quartuccio Giordano GIORNALISTI EDITORI scarl Via Benefattori dell’Ospedale, 24 - Milano Tel. +39 02 6070789 / 02 683984 Fax +39 02 89692452 Email: [email protected] FONDATA DA FILIPPO TURATI NEL 1891 Rivista di Cultura Politica, Storica e Letteraria Anno CXX – N. 9 / 2011 Registrazione Tribunale di Milano n. 646 / 8 ottobre 1948 e n. 537 / 15 ottobre 1994 – Stampa: Telestampa Centro Italia - Srl - Località Casale Marcangeli - 67063 Oricola (L’Aquila) - Abbonamento annuo: Euro 50,00 Euro - 10,00 N el marzo del 1894 Luigi Einaudi firma il suo primo articolo: si tratta di un pezzo per la Critica Sociale. Il teorico del liberismo italiano, europeista an- te-litteram, l’uomo che seppe far vivere costantemente la cultura in scelte quotidiane, allora era solo uno studente. Un giovane che, come egli stesso ebbe a dire, “si dedicava furiosamente alla lettura di migliaia di cose sociali ed economiche”. Come ricorda Francesco Forte (che di Einaudi fu allievo e poi successore alla catedra di Scienza delle Finanze a Torino) in questo numero speciale dedicato al suo centenario nella rassegna degli Autori della Critica nel 120° anniversario, sempre viva fu la passione per il giornalismo del futuro editorialista economico del Corriere della Sera, passione che si è for- mata e corroborata sotto la direzione di Filippo Turati nei dieci anni di giornalismo alla Cri- tica Sociale. A Milano, come molti altri giovani suoi coetanei, egli aveva conosciuto Anna Kuliscioff e Filippo Turati la cui casa era quasi una tappa d’obbligo per quanti s’interessavano di cose sociali ed economiche. Di quel primo incontro in un suo scritto egli ricorda “il tremore re- verenziale con cui entro nel famoso sacrario dei portici settentrionali di Piazza Duomo” e il sorriso dietro cui “celava l’imbarazzo del giovane che si trovava davanti a due personaggi tra i primi del movimento socialista non solo italiano, ma anche europeo”. La collaborazione di Einaudi alla Critica Sociale dura circa un decennio e prosegue fino al 1903 quando si distacca dai socialisti assumendo posizioni sempre piu liberali, anche a seguito della sconsolata risposta di Turati alle proposte contenute nelle conclusioni del suo saggio sui Trattati Commerciali dove il leader rivela di non essere ormai in grado di garantire il meritato ascolto nel Psi (1903), dove era sempre più isolato, e alla sua posizione definita “col nomignolo di riformista”. Sono gli anni che segnano il primo decollo industriale italiano. Gia da allora gli interessi del futuro Presidente della Repubblica (l’altro “collaboratore” della Critica Sociale che poi divenne Presidente della Repubblica fu Giuseppe Saragat) erano ben delineati. La Critica Sociale gia nel 1893 aveva fatto menzione di Einaudi in un articolo dal titolo “Epistolario di studenti” a proposito di una sua lettera sul Congresso dei giovani socialisti di Ginevra. Un anno dopo scrisse il suo primo articolo per la Critica Sociale, nella forma di una let- tera al Direttore, sulla questione della propaganda socialista “nei paesi di piccola proprieta terriera”, un articolo presentato da Turati come degno di attenzione perche la divulgazione socialista nella piccola proprieta agricola era quanto mai difficoltosa. Per questo, nel pre- sentare lo scritto di Einaudi (“un egregio e colto giovane di Dogliani (Cuneo) nostro abbo- nato”), la Direzione della Critica rivela come esso rimase “alcune settimane sul tavolino per avere la meritata e ragionata risposta” della Rivista. Che il teorico del liberalismo inizi la sua carriera su una rivista socialista non e assurdo: il liberalismo che cova nella formazione giovanile di Einaudi sembra trovarsi in sintonia con il socialismo di Turati che, dal canto suo, vede l’emancipazione dei lavoratori solo se partecipi, economicamente e politicamente, dello sviluppo capitalistico dell’Italia, ma in un quadro di maggiori liberta democratiche, sia istituzionali che sociali. Einaudi si formò quindi innanzitutto a quella scuola di pensiero po- litico, il riformismo socialista, che purtroppo il suo secondo giornale, il Corriere, proprio in questi giorni esclude con Turati dalle sue collane e dai suoi “Maestri”. s (s.car.) 120° ANNIVERSARIO NUMERO SPECIALE ANTOLOGICO DEGLI ARTICOLI PUBBLICATI SULLA RIVISTA DI FILIPPO TURATI L’EINAUDI SOCIALISTA E GIORNALISTA I DIECI ANNI DI COLLABORAZIONE CON CRITICA SOCIALE Epistolario degli studenti 1893, fascicolo 16, pagina 196 L’azione del partito socialista 1894, fascicolo 6, pagina 89 La questione delle 8 ore 1894, fascicolo 12, pagina 181 Uffici americani del lavoro 1897, fascicolo 10, pagina 151 La politica economica delle classi operaie 1899, fascicolo 10, pagina 153 La formazione di un monopolio 1899, fascicolo 20, pagina 312 La lezione di un monopolio 1899, fascicolo 21, pagina 334 La guerra anglo-boera 1900, fascicolo 6, pagina 84 La politica ferroviaria in Italia con Attilio Cabiati 1901, fascicolo 11, pagina 170 La politica ferroviaria nell’avvenire con Attilio Cabiati 1901, fascicolo 15, pagina 230 L’ora degli spropositi 1902, fascicolo 3, pagina 33 L’Italia e i trattati di commercio con Attilio Cabiati 1902, fascicolo 13-14, pagina 196 La direzione risponde di Critica Sociale 1902, fascicolo 13-14 Il sistema doganale e l’agricoltura con Attilio Cabiati 1903, fascicolo 2, pagina 23 Risposta al prof. Masè-Dari 1903, fascicolo 12, pagina 184 STEFANO CARLUCCIO pag. 3 Luigi Einaudi e la Critica Sociale Gli esordi come socialista e giornalista nella collaborazione decennale con Filippo Turati. FRANCESCO FORTE pag. 4 Liberalismo e Socialismo Un ricordo dell’allievo di Einaudi e successore alla Cattedra di Scienze delle Finanze nel- l’Università di Torino. SOMMARIO POSTE ITALIANE S.p.A. Spedizione in a.p.D.L. 353/03 (conv. L. 46/04) Art. 1 comma 1, DCB Milano - Mens. 9 7 7 8 0 0 0 0 5 7 0 0 3 1 1 0 0 9 ISSN 1827-4501 PER ABBONARSI Abbonamento annuo Euro 50,00 c/c postale 30516207 intestato a Giornalisti editori scarl Banco Posta: IBAN IT 64 A 0760101600000030516207 Banca di Roma: IBAN IT 56 D 02008 01759 000100462114 E-mail: [email protected] Editore - Stefano Carluccio - Direzione editoriale - Carlo Tognoli, Francesco Forte, Rino Formica, Francesco Colucci, Massimo Pini, Spencer Di Scala, Giuseppe Scanni, Riccardo Pugnalin, Sergio Pizzolante La testata fruisce dei contributi statali diretti di cui alla legge 7/08/1990 n.250 ANTOLOGIA DEGLI SCRITTI SULLA CRITICA SOCIALE (1894-1903) pagg. 6-22

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DIREZIONEUgo Finetti Sergio Scalpelli

Stefano Carluccio (direttore responsabile)Email: [email protected]

Grafica: Gianluca Quartuccio Giordano

GIORNALISTI EDITORI scarlVia Benefattori dell’Ospedale, 24 - Milano

Tel. +39 02 6070789 / 02 683984Fax +39 02 89692452

Email: [email protected]

FONDATA DA FILIPPO TURATI NEL 1891

Rivista di Cultura Politica, Storica e LetterariaAnno CXX – N. 9 / 2011

Registrazione Tribunale di Milano n. 646 / 8 ottobre 1948 e n. 537 / 15 ottobre 1994 – Stampa: Telestampa Centro Italia - Srl - Località Casale Marcangeli - 67063 Oricola (L’Aquila) - Abbonamento annuo: Euro 50,00 Euro - 10,00

N el marzo del 1894 Luigi Einaudi firma il suo primo articolo: si tratta di unpezzo per la Critica Sociale. Il teorico del liberismo italiano, europeista an-te-litteram, l’uomo che seppe far vivere costantemente la cultura in scelte

quotidiane, allora era solo uno studente. Un giovane che, come egli stesso ebbe a dire, “sidedicava furiosamente alla lettura di migliaia di cose sociali ed economiche”.

Come ricorda Francesco Forte (che di Einaudi fu allievo e poi successore alla catedra diScienza delle Finanze a Torino) in questo numero speciale dedicato al suo centenario nellarassegna degli Autori della Critica nel 120° anniversario, sempre viva fu la passione per ilgiornalismo del futuro editorialista economico del Corriere della Sera, passione che si è for-mata e corroborata sotto la direzione di Filippo Turati nei dieci anni di giornalismo alla Cri-tica Sociale.

A Milano, come molti altri giovani suoi coetanei, egli aveva conosciuto Anna Kuliscioffe Filippo Turati la cui casa era quasi una tappa d’obbligo per quanti s’interessavano di cosesociali ed economiche. Di quel primo incontro in un suo scritto egli ricorda “il tremore re-verenziale con cui entro nel famoso sacrario dei portici settentrionali di Piazza Duomo” eil sorriso dietro cui “celava l’imbarazzo del giovane che si trovava davanti a due personaggitra i primi del movimento socialista non solo italiano, ma anche europeo”.

La collaborazione di Einaudi alla Critica Sociale dura circa un decennio e prosegue finoal 1903 quando si distacca dai socialisti assumendo posizioni sempre piu liberali, anche aseguito della sconsolata risposta di Turati alle proposte contenute nelle conclusioni del suosaggio sui Trattati Commerciali dove il leader rivela di non essere ormai in grado di garantire

il meritato ascolto nel Psi (1903), dove era sempre più isolato, e alla sua posizione definita“col nomignolo di riformista”.

Sono gli anni che segnano il primo decollo industriale italiano. Gia da allora gli interessidel futuro Presidente della Repubblica (l’altro “collaboratore” della Critica Sociale che poidivenne Presidente della Repubblica fu Giuseppe Saragat) erano ben delineati. La CriticaSociale gia nel 1893 aveva fatto menzione di Einaudi in un articolo dal titolo “Epistolario distudenti” a proposito di una sua lettera sul Congresso dei giovani socialisti di Ginevra.

Un anno dopo scrisse il suo primo articolo per la Critica Sociale, nella forma di una let-tera al Direttore, sulla questione della propaganda socialista “nei paesi di piccola proprietaterriera”, un articolo presentato da Turati come degno di attenzione perche la divulgazionesocialista nella piccola proprieta agricola era quanto mai difficoltosa. Per questo, nel pre-sentare lo scritto di Einaudi (“un egregio e colto giovane di Dogliani (Cuneo) nostro abbo-nato”), la Direzione della Critica rivela come esso rimase “alcune settimane sul tavolino peravere la meritata e ragionata risposta” della Rivista. Che il teorico del liberalismo inizi lasua carriera su una rivista socialista non e assurdo: il liberalismo che cova nella formazionegiovanile di Einaudi sembra trovarsi in sintonia con il socialismo di Turati che, dal cantosuo, vede l’emancipazione dei lavoratori solo se partecipi, economicamente e politicamente,dello sviluppo capitalistico dell’Italia, ma in un quadro di maggiori liberta democratiche, siaistituzionali che sociali. Einaudi si formò quindi innanzitutto a quella scuola di pensiero po-litico, il riformismo socialista, che purtroppo il suo secondo giornale, il Corriere, proprio inquesti giorni esclude con Turati dalle sue collane e dai suoi “Maestri”. s (s.car.)

120° ANNIVERSARIO ■ NUMERO SPECIALE ANTOLOGICO DEGLI ARTICOLI PUBBLICATI SULLA RIVISTA DI FILIPPO TURATI

L’EINAUDI SOCIALISTA E GIORNALISTAI DIECI ANNI DI COLLABORAZIONE CON CRITICA SOCIALE

Epistolario degli studenti1893, fascicolo 16, pagina 196

L’azione del partito socialista1894, fascicolo 6, pagina 89

La questione delle 8 ore1894, fascicolo 12, pagina 181

Uffici americani del lavoro1897, fascicolo 10, pagina 151

La politica economicadelle classi operaie1899, fascicolo 10, pagina 153

La formazione di un monopolio1899, fascicolo 20, pagina 312

La lezione di un monopolio1899, fascicolo 21, pagina 334

La guerra anglo-boera1900, fascicolo 6, pagina 84

La politica ferroviaria in Italiacon Attilio Cabiati1901, fascicolo 11, pagina 170

La politica ferroviarianell’avvenirecon Attilio Cabiati1901, fascicolo 15, pagina 230

L’ora degli spropositi1902, fascicolo 3, pagina 33

L’Italia e i trattati di commerciocon Attilio Cabiati1902, fascicolo 13-14, pagina 196

La direzione rispondedi Critica Sociale1902, fascicolo 13-14

Il sistema doganalee l’agricolturacon Attilio Cabiati1903, fascicolo 2, pagina 23

Risposta al prof. Masè-Dari1903, fascicolo 12, pagina 184

STEFANO CARLUCCIO pag. 3

Luigi Einaudi e la Critica SocialeGli esordi come socialista e giornalista nellacollaborazione decennale con Filippo Turati.

FRANCESCO FORTE pag. 4

Liberalismo e SocialismoUn ricordo dell’allievo di Einaudi e successorealla Cattedra di Scienze delle Finanze nel-l’Università di Torino.

SOMMARIO

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Editore - Stefano Carluccio - Direzione editoriale - Carlo Tognoli, Francesco Forte, Rino Formica, Francesco Colucci, Massimo Pini, Spencer Di Scala, Giuseppe Scanni, Riccardo Pugnalin, Sergio Pizzolante

La testata fruisce dei contributi statali diretti di cui alla legge 7/08/1990 n.250

ANTOLOGIA DEGLI SCRITTI SULLA CRITICA SOCIALE (1894-1903) pagg. 6-22

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Liberi di...

Stefano Carluccio

N el marzo del 1894 Luigi Ei-naudi firma il suo primo arti-colo: si tratta di un pezzo per

Critica Sociale. Il teorico del liberismo italia-no, europeista ante-litteram, l’uomo che seppefar vivere costantemente la cultura in sceltequotidiane, allora era solo uno studente. Ungiovane che, come egli stesso ebbe a dire, “sidedicava furiosamente alla lettura di migliaiadi cose sociali ed economiche”.

A Milano, come molti altri giovani, suoicoetanei, egli aveva conosciuto Anna Kuli-scioff e Filippo Turati: la casa dei due sociali-sti era quasi una tappa d’obbligo per quantis’interessavano di cose sociali ed economiche.Di quell’incontro in un suo scritto egli ricorda“il tremore reverenziale con cui entrò nel fa-moso sacrario dei portici settentrionali di Piaz-za Duomo” e il sorriso dietro cui “celava l’im-barazzo del giovane che si trovava davanti adue personaggi tra i primi del movimento so-cialista non solo italiano, ma anche europeo”.

La collaborazione di Einaudi alla CriticaSociale dura circa un decennio e prosegue finoal 1903 quando si distacca dai socialisti assu-mendo posizioni sempre più liberiste. Sono glianni che segnano il primo decollo industrialeitaliano. Già da allora gli interessi del futuroPresidente della Repubblica (l’altro “collabo-ratore” della Critica Sociale che poi divennePresidente della Repubblica fu Giuseppe Sa-ragat, anch’egli piemontese) erano ben deli-neati.

La Critica Sociale già nel 1893 aveva fattomenzione di Einaudi in un articolo dal titolo“Epistolario di studenti” a proposito di una sualettera sul Congresso dei giovani socialisti diGinevra. La questione riguardava la polemicasorta a seguito della mancata adesione del Cir-colo socialista pavese all’appello degli studen-ti parigini per un Congresso internazionale. Laposizione del rappresentante pavese ebbe unavasta eco poiché sembrava porre in discussio-ne la “intima alleanza del proletariato intellet-tuale con quello manuale”, cosa che scanda-lizzò moltissimo. In realtà egli intendeval’esatto contrario, ovvero l’inutilità del Con-gresso per l’inutilità dei Circoli universitari,essendo “socialisti” solo se redenti nel mesco-larsi con gli operai. Interviene anche Einaudi,di cui la Critica Sociale riferisce la posizionequale dirigente del Circolo socialista di Tori-no: “Da Torino, Luigi Einaudi, studente (beatolui!) in attività di servizio – scrive la Critica -entra nello stesso ordine di idee (di un certoPasquale Rossi di Cosenza che sosteneva co-me il socialismo degli studenti derivasse dallostudio e non da ristrettezze economiche, ndr).Anch’egli ritiene che un’organizzazione auto-noma degli studenti socialisti non possa servi-re ad una forte e determinata azione politica eprofessionale. Cionondimeno – prosegue il re-soconto della Critica – crede all’utilità dei Cir-coli socialisti universitari come strumento diselezione «per trarre i migliori giovani dallaneghittosità e dall’apatia a cui gli ordinamentiscolastici e la vacua vita universitaria predi-spongono gli studenti», per chiamarli «all’in-vestigazione scientifica del problema sociale»e farne degli apostoli convinti ed armati di pre-ciso materiale scientifico, che porteranno poinelle sezioni del partito”. Un precoce elogiodell’autonomia della cultura dalla disciplina dipartito, un Vittorini (vs. Togliatti ) ante-litte-ram.

Un anno dopo scrisse il suo primo articoloper la Critica Sociale, nella forma di una let-tera al Direttore, sulla questione della propa-ganda socialista “nei paesi di piccola proprietàterriera”, un articolo presentato da Turati comedegno di attenzione perché la divulgazione so-cialista nella piccola proprietà agricola eraquanto mai difficoltosa. Per questo, nel pre-sentare lo scritto di Einaudi (“un egregio e col-to giovane di Dogliani (Cuneo) nostro abbo-nato”), la Direzione della Critica rivela comeesso rimase “alcune settimane sul tavolino”per avere la meritata e ragionata risposta dellaRivista.

A proposito di quel primo articolo (che pub-blichiamo in queste pagine) Einaudi ha scritto:“Non mi parve vero di mandare qualcosa dimio alla rivista che si intitolava al socialismoscientifico”.

La sua collaborazione più significativa e vi-stosa è stata una serie di saggi sulla politicaferroviaria italiana pubblicati del 1903, e unostudio sulla politica commerciale uscito in di-verse puntate tra il 1902 e il 1903: entrambi ilavori, fatti in collaborazione con Attilio Ca-biati (*). Pur costatando gli indubbi vantaggiche sono derivati allo sviluppo dell’industriadal protezionismo (inaugurato nel 1878 e raf-forzato nel 1887), Einaudi ne mette a fuoco ilimiti e l’inefficienza in un mutato clima eco-nomico e sociale: “La politica doganale –af-ferma – ha garantito all’industrie manifatturie-re il mercato interno e i fabbricanti del Nordhanno su queste basi eretto industrie grandio-se”, ma aggiunge, “si è cagionato però un dan-no irreparabile all’industria agraria”.

“Gli operai – scrive Einaudi - come consu-matori hanno interesse a volere una politicadoganale che ribassi il costo dei manufatti.Come produttori hanno interesse che i daziprotettori non indirizzino i capitali verso im-pieghi poco produttivi, e che i trattati di com-mercio siano negoziati in modo da aprire il piùampio mercato possibile all’estero all’agricol-tura e all’industria”, afferma dopo una minu-

ziosa analisi della politica commerciale attuatain Italia dall’Unità ai suoi giorni.

Con i nuovi “Trattati di commercio” i dazi,infatti, hanno cessato di produrre i loro bene-fici a protezione delle manifatture in generale,per avvantaggiare solo pochi guppi di indu-striali del nord e, in agricoltura, i cereacultori,a causa di una errata – a suo giudizio – politicacommerciale che sottopone l’Italia alla Ger-mania e all’Austria. Einaudi non vede obiezio-ni alla misura, che sollecita, della loro aboli-zione neppure “se consideriamo la cosa dalpunto di vista della convenienza e dell’equità”.La lunga protezione concessa “alle nostre in-dustrie manifatturiere ha raggiunto pienamen-te il suo scopo: inutile quindi il conservarla”.

Per Einaudi il miglioramento delle condi-zioni sociali dei lavoratori è strettamente col-legato all’obiettivo del risanamento economi-co. “Coloro che vogliono seriamente intende-re ad una politica seria di elevazione dellecondizioni del nostro proletariato – scrive sul-la Critica Sociale – devono soprattutto averein mira questi due scopi: accrescere la produ-zione nazionale e ristabilire l’equilibrio fra ifattori di produzione”.

E, sotto questo profilo, date le nuove circo-stanze, sostiene che “un altro problema di equi-tà, non meno grave (dello sviluppo delle indu-strie manifatturiere favorite con i dazi, ndr) ur-ge al pensiero degli italiani: e questo è il pro-blema meridionale. Orbene, come ha dimostra-to il prof. De Viti De Marco alla Camera e nelsuo denso discorso di Lecce, la questione delMezzogiorno non è questione di lavori pubbli-ci; ma è essenzialmente questione d’imposte,di libertà commerciale e di tariffe doganali. IlMezzogiorno, privo d’ industrie e travagliatoda una terribile crisi, ha bisogno per vivere divendere i suoi prodotti: e per vendere ha biso-gno che cessi questa tutela degli interessi deipochi, che ora, per le indirette dichiarazionidei più intelligenti tra quei pochi stessi, nonavrebbe più ragione di essere, a meno che nonsi ritenga dovere dello Stato di stringere con-

tratti per la garanzia di elevati profitti a favoredegli industriali. Del resto, questi stessi rico-noscono che è per essi questione di primariaimportanza l’avere un Mezzogiorno ricco, checontinui a comprare i loro prodotti”.

Detto questo, tuttavia non dimentica il ne-cessario sviluppo dell’industria, ma collocatosu un nuovo piano di conquista di mercatiesteri di cui, in previsione di un certo contrac-colpo negativo a causa dell’auspicata abolizio-ne dei dazi, gli industriali del nord “essi subitosi avvantaggerebbero dei grandi benefici nellanuova posizione favorevole dell’Italia sui mer-cati internazionali, ed in particolare versol’Argentina e la Russia”, partner più vantag-giosi per l’Italia rispetto allo scambio commer-ciale con la Germania e dell’Austria.

Che il teorico del liberalismo inizi la suacarriera su una rivista socialista non è assurdo:innanzitutto il liberalismo che cova nella for-mazione giovanile di Einaudi sembra trovarsiin sintonia con il socialismo di Turati che, dalcanto suo, vede l’emancipazione dei lavoratorisolo se partecipi, economicamente e politica-mente, dello sviluppo capitalistico dell’Italia,ma in un quadro di maggiori libertà democra-tiche, sia istituzionali che sociali, ispirate al“collettivismo”, che intendiamo oggi per as-sociazione, autogoverno, non comunismo. Finqui la visione dei due è assai simile.

In secondo luogo in quegli anni l’Italia, dapoco unificata in un unico Stato, sta diventan-do nazione europea attraverso lo sviluppo e lacrescita di una società industriale, e la CriticaSociale promuove ed ospita un ampio e vivacedibattito tra differenti prospettive sulle misureda prendere in economia, in campo sociale, dilibertà politiche e civili, e – sul piano teorico -insiste sul ruolo del movimento dei lavoratoriall’interno dello sviluppo capitalistico del Pae-se e sulla condivisione e l’utilizzo della demo-crazia rappresentativa di matrice liberale daparte dei socialisti. L’Italia sta diventandoadulta a vent’anni dal compimento risorgi-mentale, con Roma capitale. E l’intreccio traprogresso economico e progresso sociale è perEinaudi – come per Turati – inestricabile. Ciòvale per gli altri autori di scuola liberalsocia-lista della Critica Sociale, in primis Monte-martini, Cabiati, Griziotti, Vanoni (un filoneoggi proseguito, anche nel governo Craxi, daFrancesco Forte).

E’ questo il fondo del sentimento nazionaleche si elabora nei decenni successivi al 1861per realizzare il sogno dei democratici (socia-listi, liberali, repubblicani) per una società mo-derna e unita che si affacci, al pari delle altregrandi nazioni europee, nel Novecento.

Luigi Einaudi, come è noto, fu titolare dellacattedra di Scienze delle Finanze all’Univer-sità di Torino, ruolo alla cui successione so-stenne il giovane Francesco Forte, il quale oraha promesso di curare con un suo saggio in-troduttivo la pubblicazione degli scritti di Ei-naudi sulla Critica Sociale in occasione dei120 anni della Rivista. Il prof. Forte ci assicurache tale scritti non sono compresi nelle Operee dunque possono considerarsi inediti e, scien-tificamente, “una scoperta”. Sarà, è l’impegnocomune, il primo di una serie di volumetti su-gli economisti liberalsocialisti e l’economiapubblica nelle origine del capitalismo italiano,tratti dalla Critica Sociale e comparato conl’altro grande filone europeo, quello tedescodell’Economia sociale di mercato, entrambi inpiù punti affini e tutt’oggi utili a comprenderela realtà italiana e a governarla. s

CENTO ANNI ■ GLI ESORDI COME SOCIALISTA E LA COLLABORAZIONE DECENNALE CON FILIPPO TURATI

LUIGI EINAUDI E LA CRITICA SOCIALE

9 / 2011CRITICAsociale ■ 3

4 ■ CRITICAsociale9 / 2011

Cuneo 28 ottobre 2011 – Convegno “La fi-gura e l’insegnamento di Luigi Einaudi” inoccasione del cinquantesimo anniversariodalla scomparsa

Francesco Forte

L e “Prediche della domenica”,l’ultimo libro scritto da LuigiEinaudi rappresenta un’utile

cartina di tornasole per analizzare il pensierodel grande economista. Gli articoli che Einau-di scriveva la domenica sul Corriere della Sera(le “Prediche della domenica” appunto), deli-neavano una sorta di programma, di trattatoelementare di economia politica che esponevanel modo migliore una sintesi del suo pensie-ro. Traendo spunto dal libro succitato, il miointendimento è abbozzare i tratti principali delragionare einaudiano.

Nello scritto “Come ridurre la disoccupazio-ne”, Einaudi sostiene che è sbagliato assumereo mantenere lavoratori allo scopo di creare osostenere l’occupazione; piuttosto, sarebbe ne-cessario sviluppare le attività produttive peraumentare il numero degli occupati. Sembrauna banalità, ma è la critica in pillole alla teo-ria della domanda globale di John MaynardKeynes, che è stata ampiamente applicata inquesti anni negli Stati Uniti e suggerita all’Eu-ropa, che l’ha rifiutata (sino ad ora) per risol-vere i problemi della disoccupazione. La ratioè la seguente: la spesa in deficit consente diassumere i lavoratori perché in questo modola domanda globale genera una domanda diconsumi, che, a sua volta, determina una do-manda di investimenti, che a sua volta creareddito e, tramite questo, occupazione.

All’epoca in cui Einaudi scriveva era recen-te il ricordo della politica che adottata da Giu-seppe Romita, Ministro socialista dei LavoriPubblici. In sostanza, si trattava di spenderedenaro pubblico per creare occupazione, dichiedere ai lavoratori di scavare delle bucheper poi riempirle.

Il secondo tema di interesse riguarda le im-poste sugli affari cioè, quelle di registro di ven-dita dei beni immobili o di bollo che ostacolanole varie attività economiche, comprese le ven-dite di titoli, ma anche le attività giudiziarie.Imposte sugli affari che Einaudi consideravad’impaccio all’economia di mercato, per poi ri-flettere soprattutto sugli aspetti più deleteri delfenomeno: gli aumenti delle imposte per fron-teggiare le spese. E’ vero che l’articolo 81 dellaCostituzione afferma la necessità di coprire lespese (pure Einaudi lo ammetteva), tuttavia, difronte a imposte sempre più odiose, l’impera-tivo diventa non aumentare le spese, o megliotagliarle. Quindi, quando si valuta di attuare unpareggio del bilancio mediante imposte odiosee/o con il ricorso alla spesa pubblica (per quan-to socialmente meritoria possa essere), bisognaconsiderare gli effetti negativi che la tassazionegenera e che spesso superano persino i beneficisociali di spese che in sé potrebbero sembrareaccettabili.

Altro punto toccato da Einaudi fa riferimen-to allo Stato imprenditore e al Mezzogiorno.Egli combatteva la tesi per cui le imprese pub-bliche tornassero utili al Mezzogiorno, indi-cando al tessuto produttivo locale la via per lacreazione di attività imprenditoriali.

La posizione di Einaudi, esposta in modotranchant, appare un po’ in contraddizione ri-

spetto ad altri suoi scritti nei quali invece ven-gono esaltati alcuni pubblici imprenditori; adesempio Reiss Romoli nel gruppo IRI di im-prese pubbliche gestite con criteri di mercato.Tuttavia, l’aspetto da evidenziare non è l’opi-nione negativa sulle imprese pubbliche delMezzogiorno, ma la riflessione su ciò che loStato dovrebbe fare per lo sviluppo economicodell’area, che chiarisce come la teoria econo-mica del libero mercato di Einaudi non sia pu-ramente liberista, ma come egli affermava,neo-liberale.

Lo Stato ha il compito di creare la cornicedel quadro dell’economia di mercato e lo puòfare in due modi: con le regole che devono farfunzionare il sistema e con le infrastrutturepubbliche, cioè con la spesa pubblica per gliinvestimenti (strade, ferrovie, porti, bonifiche,fiumi, canali, scuola).

Einaudi non si limita a descrivere la cornice;discutendo delle diversità e delle somiglianzetra la teoria liberale e quella socialista, sostieneche la prima fa la cornice e non gli interventispecifici, tranne quelli propri dell’operatorepubblico appena descritti, i quali sono tuttaviamolto ampli. Einaudi cita le imprese pubbliche(le ferrovie in Italia sono imprese pubbliche),aggiungendo poi che esistono dei casi in cuiun economista liberale come lui concorda coni socialisti su determinati interventi specifici.

A pagina 144 delle “Prediche”, Einaudi so-stiene la protezione delle industrie giovanipurché sia per un tempo limitato e presumibil-mente - qui non lo dice ma risulta da altri scrit-ti, in particolare il rapporto con Wilhelm Röp-ke - mediante una tipologia di intervento menodistorsiva per l’economia di mercato, più con-forme. In altre parole, Einaudi non si riferivacerto ai dazi ma alle sovvenzioni, che possonoessere specifiche, quindi riguardare solo i set-tori economici realmente bisognosi. Invece,l’applicazione del dazio finisce per avvantag-giare anche chi ce la fa da sé. Le sovvenzionihanno inoltre il vantaggio di apparire nel bi-lancio pubblico a differenza dei dazi, il cui co-sto non appare.

Quello dell’età pensionabile è un tema estre-mamente attuale. Scrive Einaudi: “Si annunciaadesso con queste persone che vanno a pen-sione tra i 55 e i 60 anni una crisi finanziariadopo gli anni ‘70”. Una previsione incredibil-mente vera, naturalmente non espressa da unindovino munito di sfera di cristallo, ma dauno studioso che, ricorrendo all’analisi econo-mico-demografica, anticipava uno squilibriopuntualmente verificatosi sin dagli ‘80 e concui, in qualità di ministro delle Finanze, ho do-vuto confrontarmi.

Facendo un cenno personale, ricordo le re-sponsabilità di Democrazia Cristiana e PartitoComunista nell’aumento dell’onere pensioni-stico. I due partiti maggiori erano d’accordonel voler risolvere il problema dell’occupazio-ne, soprattutto nella scuola. Agevolando il pre-coce pensionamento di professori e maestri,aumentavano le assunzioni di precari, con con-seguente incremento del numero delle scuole,delle classi, del personale di supporto. Unascelta dalle innegabili, benefiche, ricadute po-litico-elettorali. Quindi, l’età pensionabile eradiventata non solo un onere ma anche una val-vola di sfogo, suscettibile di ingigantire queglisquilibri e quegli errori che Einaudi denuncia-va già decenni prima.

In merito alla burocrazia, Einaudi scrive:“Non è colpa delle lungaggini burocratichedella burocrazia, ma del fatto che ci sono trop-pe leggi che implicano queste lungaggini bu-rocratiche, nonché la moltiplicazione dei panie dei pesci amministrativi”; cioè, il miracolodella scissione degli organi burocratici chemano a mano crescono, si dividono in nuovearticolazioni e aumentano di continuo. Quindi,da un lato le leggi richiedono nuovi burocratie dall’altro lato la burocrazia sviluppa nuoveregolamentazioni. E questo vale a tutti i livelli:dalla tutela dell’ambiente e del paesaggio allalegislazione in tema di sicurezza, di infortuni-stica sul lavoro e di difesa dei lavoratori a ri-schio licenziamento per giusta causa. Le leggisi moltiplicano, assieme alle burocrazie. Ogniqual volta viene approvata una nuova legge

per il lavoro giovanile, nasce anche una nuovaregolamentazione di controllo del lavoro. Adesempio, assumere una persona col nuovocontratto d’apprendistato implica una serie dipastoie e intralci. E’ un tipico esempio di comesi possa creare disoccupazione mediante la bu-rocrazia.

Sul fronte giudiziario, Einaudi non nascon-deva un’avversione completa per le tasse cheostacolano lo sviluppo armonico dei procedi-menti nelle aule giudiziarie, con riferimentosia alle controversie civili, sia alla certezzanell’applicazione delle leggi nei contratti.

L’istruzione è materia che stava particolar-mente a cuore a Einaudi, che nei suoi scrittipreconizza la crescita quantitativa delle Uni-versità e immagina l’esplosione delle imma-tricolazioni (effettivamente avvenuta) comeun’opportunità e non un problema. L’aumentodei laureati, secondo l’economista, non avreb-be creato disoccupazione, rifiutandosi egli dicredere che una persona, realmente studiosa,potesse avere difficoltà a trovare un’occupa-zione intellettuale. Anzi, lo sviluppo dell’oc-cupazione intellettuale avrebbe agevolato e in-crementato l’occupazione generale nel Paese.

Einaudi sosteneva che alle spese universita-rie avrebbero dovuto concorrere per metà loStato, o la beneficenza privata, e per metà glistudenti e auspicava che gli istituti universitariaumentassero dai venti/trenta dell’epoca finoa un centinaio. Sotto questo profilo, stupisceche dalle colonne del Corriere della Sera (chenon è più einaudiano) si continuino a leggerearticoli a favore della soppressione delle uni-versità minori, in quanto motivo di spreco.Avendo insegnato solo in università maggiori(Milano, Torino e Roma), rimango fautoreacerrimo dei piccoli atenei. Seguendo Einaudi,noto che le grandi università, quando si ingi-gantiscono, risultano complicate da gestire perprofessori e studenti. Si tratta naturalmente diuna distorsione, che la nascita di una pluralitàdi atenei (validi, naturalmente) aiuta a correg-gere. Risulta pertanto condivisibile la tesi diEinaudi, che, in linea con il suo modello teo-rico generale, sostiene il decentramento e lacompetizione non solo nelle imprese ma anchenelle università.

E’ facile trovare spunti di attualità nel pen-siero einaudiano, e ciò vale a maggior ragionediscorrendo dell’abolizione del valore legaledel titolo di studio. Non significa togliere va-lore e significato al titolo di studio conseguito,ma consentire ai datori di lavoro di valutarneal meglio il peso specifico. Ciascuna ammini-strazione pubblica o privata, al momento diesaminare il profilo di un candidato, dovrebbeconsiderare il titolo di studio in relazione al-l’università dove è stato conseguito e, magari,al prestigio del docente e agli esami sostenuti.Ciò creerebbe una salutare concorrenza tra uni-versità. Sarebbe sbagliato attribuire a Einaudiuna preferenza per le università private, quan-do il suo ragionamento prende in considerazio-ne i parametri di qualità di ogni singola istitu-zione educativa e, di riflesso, il valore che essaè in grado di trasmettere agli studenti. E’ ancheimportante sottolineare, come nota metodolo-gica, il gradualismo che animava lo spirito ri-formista dello studioso e statista piemontese.

Noto l’interesse di Einaudi per l’agricoltura,che traspare dai due articoli che dedica all’ar-gomento nelle “Prediche”. Il primo è intitolato“Errori e tentativi” ed egli vi sostiene che nondebba essere il Ministero a decidere, ma gliagricoltori. Essi dovrebbero prendersi le pro-

CENTO ANNI ■ UN RICORDO DELL’ALLIEVO DI EINAUDI, SUCCESSORE ALLA CATTEDRA DI SCIENZA DELLE FINANZE A TORINO

LIBERALISMO E SOCIALISMO

CRITICAsociale ■ 59 / 2011

prie responsabilità, anche sbagliando, su cosascegliere di coltivare. Oggi, Einaudi si con-trapporrebbe alla politica dell’Unione Europeache, sebbene abbia inserito nel Trattato diMaastricht forti richiami all’economia di mer-cato, in agricoltura rimane estremamente diri-gista. Nel secondo articolo che voglio citare,“Piccola proprietà coltivatrice. Cooperative egrandi proprietari”, egli non esprime una pre-ferenza, né per la cooperativa, né per la picco-la, media e grande impresa, ma ritiene che loStato, il Comune o altri organismi regolatorinon debbano favorire l’una o l’altra forma or-ganizzativa, ma lasciare tutto al libero giocodelle forze produttive.

Einaudi si è cimentato anche con il macro-tema per eccellenza, la Globalizzazione, e loha fatto polemizzando con John Kenneth Gal-braith, economista a lui mai gradito perché afavore dell’espansione della spesa pubblica (loStato del benessere), critico del capitalismo efavorevole alle tecnostrutture industriali. Tut-tavia, Einaudi ha ripreso un saggio di Gal-braith sui fattori dello sviluppo economico, ci-tando i quattro fattori analizzati dal pensatorestatunitense in riferimento ai mercati globali eal Terzo Mondo:

1) Istruzione di base. Elemento effettivamen-te importantissimo. Ci è utile in proposito unaltro libro di Einaudi, “Il principe mercante”,scritto pensando a Enrico Dell’Acqua. Studian-do in proposito la situazione dei cotonifici diBusto Arsizio nel varesotto, da cui provenivaEnrico Dell’Acqua, ho fatto un’umile e inte-ressante scoperta: due erano le richieste avan-zate agli operai per l’assunzione; la prima chel’operaio fosse iscritto a qualche cooperativaassicurativa per malattia e vecchiaia e l’altrache avesse l’istruzione elementare. In effetti, inuovi telai meccanici (e non ad acqua) eranocostosissimi, poiché si importavano, e si rite-neva che gli operai dovessero essere quantomeno in grado di comprendere le istruzioni

scritte per metterli in funzione correttamente ein sicurezza. Inoltre, sapendo che per ogni te-laio all’interno della fabbrica ve ne erano uno-due adibiti al lavoro a domicilio (esistevanoimprese con oltre un migliaio di telai), era fon-damentale che coloro che lavoravano da casafossero in grado di leggere e scrivere.

2) Giustizia sociale. Einaudi interpreta Gal-braith escludendo che si debba creare occupa-zione artificiosamente, ma invece fare in modoche ciascuno abbia la libertà e l’opportunità ditrovare soddisfazione nel lavoro. Ai tempi, ilriferimento negativo era la Cina comunista,dove, oltre a mancare in molti casi le condi-zioni di sussistenza, non v’era libertà, giustiziasociale e diritto di autonoma intrapresa. Op-portunità che in Italia Einaudi avrebbe volutoveder estese omogeneamente in tutta la Peni-sola, Mezzogiorno compreso.

3) Organizzazione di governo razionale epubblica amministrazione che ispiri fiducia.

4) Un’idea precisa di sviluppo. Non bisognaaffidarsi fideisticamente allo Stato, ma alla li-bera iniziativa. Einaudi, pur studiandolo e ri-prendendolo, critica Galbraith quando costuiritiene che pubblici poteri efficienti possanomiracolosamente gestire complessi sistemieconomico-produttivi. Lo sviluppo è un pro-cesso lento e faticoso, cui non è facile dare ri-sposte efficaci e durature.

Ancora in tema di globalizzazione, Einaudimetteva in guardia da quelle che definirei “pa-role civetta”, o ingannatrici: l’invasione el’inondazione di merci straniere, la dipendenzadal commercio estero, l’essere tributari del-l’estero. Egli si è sempre opposto a una simileterminologia, dando priorità alla sostanza mi-surabile delle cose, ai contenuti e tenendo fer-ma la sua convinzione secondo cui la libertàdegli scambi sia in genere desiderabile e il fat-to di importare grandi quantitativi di benidall’estero risulti comunque vantaggioso, per-ché significa avere a disposizione beni di qua-

lità superiore che hanno una maggiore funzio-nalità e che spingono i produttori interni a rac-cogliere la sfida della competitività.

Correndo il centocinquantesimo anniversa-rio dell’Unità d’Italia, mi sembra doveroso ac-cennare a quanto Einaudi scriveva di un altrostatista insigne, Camillo Benso Conte di Ca-vour, descritto come esempio positivo di gran-de governante che conosceva le verità fonda-mentali dell’amministrare. Nonostante la sua“voce stridula” (descritta ancora nelle “Predi-che”), Cavour argomentava con grandissimachiarezza in Parlamento e non si faceva imbri-gliare da chi adottava parole insulse o facevaragionamenti sbagliati. Un punto importanteper comprendere Einaudi, convinto che chia-rezza e profondità di pensiero vadano di paripasso e che l’eccessiva astrattezza nel discuterenasconda l’ignoranza degli argomenti trattati.

Il ritratto di Einaudi giornalista presentatodal professor Giovanni Pavanelli (Docente diStoria del pensiero economico all’Universitàdi Torino, ndr) durante il Convegno (“La figu-ra e l’insegnamento di Luigi Einaudi”, Cuneo28 ottobre 2011), suggerisce di soffermarsi, ol-tre che sul suo impegno di economista e uomodi governo, sulla sua attività giornalistica. Eglisentenziava: “un articolo, un concetto” che èuna cosa che ho ben imparato anch’io. QuandoEinaudi mi volle parlare prima di assegnarmila sua cattedra di Scienza delle Finanze al-l’Università di Torino, mi disse di aver apprez-zato il fatto che fossi giornalista, come an-ch’egli era stato in età giovanile per guadagna-re qualche cosa oltre alla retribuzione univer-sitaria e, come affermava, “per sostenere la fa-miglia”. L’Einaudi giornalista era meticolosoe preciso e perseguiva scrupolosamentel’obiettivo della chiarezza e della parsimonia,a differenza di coloro che, ancora oggi, sem-brano voler dar fondo all’Universo in un soloarticolo senza esprimere realmente un singoloconcetto.

Certo, la vita di redazione era allora ben di-versa da quella odierna. Quando a 22 anni Ei-naudi fu assunto da “La Stampa”, iniziò perlui una vita notturna in redazione particolar-mente vivace e impegnativa. Tutti dovevanosaper far tutto: articolare i telegrammi, aggiu-stare la corrispondenza in arrivo, mettere i ti-toli, impaginare le ultime notizie. (Forse, seb-bene in un contesto radicalmente mutato, persopravvivere all’era digitale e multimediale,anche il giornalista contemporaneo dovrà in-gegnarsi ad allargare le sue competenze,uscendo dall’iper-specializzazione per padro-neggiare tutti i nuovi strumenti necessari a unmestiere in continua evoluzione, ndr).

Quella della precisione e della meticolositàè un’altra lezione che Einaudi ha lasciato. Co-me giornalista, egli ha svolto un lavoro dav-vero faticoso che lo ha ammaestrato alla ge-stione di compiti gravosi. Forse non sono chia-re a tutti le conseguenze che ha, o dovrebbeavere, un errore sulla carta stampata. Se lo sba-glio è grossolano o se l’articolo non presentacon chiarezza i dati, le cifre e i fatti, la sanzio-ne del mercato è drastica. Almeno ai tempi diEinaudi era così ed egli ne è stato influenzato,come redattore prima e come governatore del-la Banca d’Italia e presidente della Repubblicapoi. Documentarsi rapidamente, decidere enon commettere errori; questo il suo credo.

In conclusione, vorrei citare l’illuminante af-fresco che Einaudi dedica ai “superati”. Scrive:“Non si allarmino i superati. E’ rarissimo che isuperatori non difendano vecchissimi erroriche l’esperienza ha dimostrato fallaci e danno-si. I vecchi errori, particolarmente in campoeconomico e sociale, hanno la pelle dura e aogni rigenerazione rivivono. Non si scoragginoi superati, se essi hanno meditato sulle espe-rienze passate sapranno sempre operare bene”.

Questo mi sembra il testamento spirituale eil messaggio in bottiglia che Einaudi ci ha lan-ciato dal suo mare aperto. s

Due scrittiautografidi Luigi Einaudi

6 ■ CRITICAsociale9 / 2011

La Critica Sociale già nel 1893 aveva fattomenzione di Einaudi in un articolo dal titolo“Epistolario di studenti” a proposito di unasua lettera sul Congresso dei giovani socia-listi di Ginevra. La questione riguardava lapolemica sorta a seguito della mancata ade-sione del Circolo socialista pavese all’ap-pello degli studenti parigini per un Congres-so internazionale.

L e alcune osservazioni da noifatte (n. 10 e l1 della Critica)intorno all’appello degli stu-

denti parigini e alla lettera di Ausonio Zubianiche spiegava la non adesione del Circolo so-cialista pavese al Congresso di Ginevra del -l’ottobre prossimo, trovarono larga eco nelmondo degli studenti. Primi vi rispondevanogli studenti del Circolo socialista bolognese,promettendo, quantunque membri di un Cir-colo misto, la loro adesione e delegando a pro-prio rappresentante il nostro collaboratoreOlindo Malagodi.

Il Circolo universitario socialista di Torinodeliberava pure di intervenire con rappresen-tanza propria e invi tava i Circoli affini a indi-cargli nome e indirizzo dei loro delegati ondeprendere accordi tendenti ad un’azione comu-ne. Il Circolo degli studenti socialisti di Vene-zia allargava la proposta fino a caldeggiare unCongresso preparatorio anche in Italia, delquale però i compagni di Torino non ricono-scevano l’opportunità, bastando una riunionepreparatoria dei delegati, e insistevano invecepel richiesto scambio di indicazioni e perchéin ogni centro universitario gli studenti socia-listi compilassero il quadro statistico delle loroforze rispettive.

A noi intanto giungeva da studenti di varieparti d’Italia buon numero di lettere che a pub-blicarle tutte da capo a fondo ci piglierebberopiù di mezzo il gior nale. E forse con non gran-de profitto, perché, quanto all’adesione, chenoi intendevamo stimolare, degli stu denti ita-liani al Congresso di Ginevra, ci pare di avereormai causa vinta. Il movimento di adesione èbrillan temente iniziato e lo stesso Zubiani ciscrive che né egli né il Circolo pavese non in-tesero sconsigliare gli studenti dall’andare alCongresso di Ginevra; e pur conoscendo ab-bastanza - soggiunge - il superlativo accade-mismo dei Congressi di studenti, socialisti enon socialisti - se quello di Ginevra deve san-cire l’alleanza intima del proletariato intellet-tuale col manuale, egli fa voti che anzi vi ac-corrano numerosi a deliberare che d’allora inpoi non prenderanno parte ad altri Con gressipolitici che non siano quelli dei lavoratori so -cialisti. Qualcosa di simile fu inviato, sottoforma di ordine del giorno, dal Circolo paveseai promotori del Congresso di Ginevra.

Del resto, se qualche esitanza rimanesse, ec-co qui il signor K. Rakowsky, sottosegretariodella Commissione organizzatrice, che ci vie-ne in aiuto per dissiparla:

Anzitutto - egli ci scrive da Ginevra - devofar notare ai compagni di Pavia che non fu mainostra intenzione di creare un’organizzazioneautonoma di fronte all’organizzazione sociali-sta dei lavoratori. Di chiarammo al contrario nelnostro appello che il movimento socialista fragli studenti sarà il complemento al movimentooperaio; sarà cioè non già un partito distinto,

con idee e con tattica distinte, con un suo di -stinto programma massimo e minimo, bensìuna sem plice organizzazione professionale (percosì esprimermi) come ve n’è tante altre.

Principale preoccupazione del nostro Con-gresso sarà il far penetrare nella mente del pro-letariato intellet tuale che la sua emancipazionesta nella conversione al socialismo, nella lottacontro il regime capitalista. Eccoci dunque sulterreno della lotta di classe, solidali cogli ope-rai nel principio come nei mezzi. Non è ciòd’altronde nel nostro stesso interesse? Noi vo-gliamo dare la «soluzione pratica» d’una que-stione che ebbe già la sua «soluzione teorica»,cioè che solo gli sforzi uniti degli operai dellamacchina e del cervello scrol leranno il mondoborghese. E’ questa la unione che noi costitui-remo. Noi cercheremo i mezzi pratici della pro -paganda socialista fra gli operai del cervello.Così, in troducendo il «bacillo del socialismo»,dissolvitore del l’organismo attuale, fin dentrole cancellerie di stato, isoleremo la borghesia,la priveremo dell’appoggio che l’incoscienteproletariato intellettuale ancora le porge.

Per trovarne i mezzi, bisogna rendersi esattoconto della situazione e delle necessità presen-ti del proleta riato intellettuale. E il nostro Con-gresso lavorerà nello stesso senso creando la«Federazione internazionale degli studenti edex studenti socialisti».

Quanto alla «opportunità » della propagandasocia lista fra studenti, la questione, io credo,è risolta dalla necessità di cotesta propagandafra i proletari del do mani. Ripeto che il nostroCongresso comprende gli ex studenti, le sueporte saranno aperte a quanti si consideranomembri del proletariato intellettuale. Ogni or-ganizzazione politica esige una propagandaprepara toria ed è questa che noi vogliamo farefra gli «ap prendisti» di oggi che saranno gli«operai» di domani. Sia pure che non si deb-bano disperdere le forze: ma questa propagan-da fra studenti non ci darà appunto le forze dicui scarseggiamo? Non ci darà dei socialisticonvinti, muniti di tutte le armi che fornisce lascienza?

In questa seconda parte della sua lettera ilsignor Rakowsky tocca il quesito del modo diorganizzazione. E’ appunto su di esso che siesprimono in diverso senso parecchi dei nostricorrispondenti.

Il dott. Pasquale Rossi di Cosenza, che nonè più studente da solo un anno, ci osserva chegli studenti, per la loro condizione relativa-mente agiata, per le loro condizioni ed abitu-dini, formano quasi una classe spe ciale, nellaquale la propaganda deve farsi con metodi af-fatto speciali - metodi sopratutto scientifici ecritici - ben diversi da quelli, per esempio, chepossono im piegarsi fra contadini. Il socialismodegli studenti de riva dallo studio, non da ri-strettezze economiche, e lo stesso «spirito dicorpo» studentesco può servire di utile fonda-mento a una specie di divisione del lavoro nel-la propaganda; senza dire che non dappertuttoi Circoli misti di operai e di studenti possonofiorire.

Da Torino, Luigi Einaudi – studente, beatolui! in attività di servizio – entra nello stessoordine di idee. Anch’egli ritiene che un’orga-nizzazione autonoma degli studenti socialistinon possa servire ad una forte e de terminataazione politica e professionale. Cionondimenocrede all’utilità dei Circoli socialisti universi-

tari, come strumenti di selezione per trarre imigliori giovani dalla neghittosità e dall’apatiaa cui gli ordinamenti scolastici e la vacua vitauniversitaria predispongono gli studenti, perchiamarli all’investigazione scientifica delproblema sociale e farne degli apostoli convin-ti ed armati di preciso materiale scientifico,che porteranno poi nelle sezioni del partito,presidio prezioso all’ele mento operaio nellasua diuturna battaglia.

Ma Ausonio Zubiani al contrario ha per que-sti Circoli, che sono «di studi sociali» e nonCircoli «socialisti», un superbo disdegno:

Vorreste forse - domanda - che perdessimoil tempo a strologare il futuro secondo Marx,secondo George o secondo Loria? Ma se ci ab-biamo degli scienziati che lo fanno cento voltemeglio di quel che potrebbero fare le nostrepiccole accademie di studenti!

Che se coteste accademie per le «menti pri-vilegiate» vi paion proprio necessarie, qual bi-sogno di limitarle ai soli studenti? Non ce nesaranno fra i non studenti delle «menti privile-giate»; non ce ne saranno fra gli stessi operai?

La ragione vera è un’altra. Voi potrete bene«stu diare» il socialismo, o studenti borghesi, masarete sempre borghesi fìnché il contatto imme-diato e continuo coi lavoratori non vi abbia la-

vati dal peccato originale d’esser nati e cresciutiin altri ambienti, dei quali por tate stratificatinelle coscienze i pregiudizi, figli dei privilegi.

Oh! se lasciaste un po’ da banda gli econo-misti bor ghesi e non borghesi, i libri e le acca-demie, le discus sioni scolastiche e i sofismi daeterni indecisi e vi risolveste una buona voltatutti a gettarvi nella pro paganda vera, fra glioperai, fra i contadini, fra la gente che vivemale e non sa perché, e non aspetta altro cheuna voce amica la quale desti la coscienza deisuoi veri interessi, per levare la testa e venirecon noi. Voi incontrereste uomini dalle testequadre e dalle anime entusiaste; voi vi trove-reste dinanzi forze nuove e non pensate mai,tesori di energia, ora allo stato latente.

Lasciamo dunque, ch’è tempo, le accademiee le di scussioni, o studenti socialisti, e scen-diamo nella geenna. Il nostro libro, la miseria,il libro dei libri è là!

Queste parole, a dir vero, ci sembrano vibran-ti del calore di una propaganda già fatta, cresi-mata da for tunate esperienze, e noi amiamochiudere con esse. L’azione del Circolo pavese,Circolo misto, che anche in queste ultime ele-zioni amministrative s’è vigorosa mente affer-mata, serve loro di commento - ed è com mentoche sfida molte e assai sottili obiezioni. s

I n occasione del 1° maggio 1890vari sodalizi operai presentaronopetizione alla Camera dei depu-

tati per ottenere leggi protettrici del lavoro,dalle quali, secondo la relazione fatta dall’on.Caldesi alla Camera il 7 febbraio del 1893, do-veva risultare: «la riduzione della giornata dilavoro ad un maximun di otto ore per tutti glioperai che lavorano negli stabilimenti e nellebotteghe, ed un minimun di salario per la re-tribuzione dei lavoratori di L. 3 al giorno pergli uomini e di L. 1,75 per le donne». Si osser-vò che la «riduzione delle ore di lavoro ed ilminimun dei salari sono questioni così gravied ancora premature forse per l’Italia, che nonè proprio oggi il caso di imporre al Ministerol’obbligo di prendere in proposito una risolu-zione immediata». Si rimandò quindi la peti-zione agli uffici!

Come si vede, la indifferenza dei nostri go-vernanti per tutta la legislazione del lavoro nonpotrebbe essere più grande; la riduzione legaledella giornata di lavoro è una riforma che,sembrando unicamente inspirata a concetti so-cialisti, è avversata dai nemici del socialismo;ora è invece accertato, afferma il Salvioli, «cheil capitale non perde, ma forse guadagna, chela produzione non diminuisce, ma migliora,che l’economia capitalistica non è migliorata,ma segue il suo fatale processo; le otto ore so-no riuscite come mezzo per coltivare il fattorepersonale, quantunque non sieno il segretodella cura della malattia sociale».1

Sono già diversi anni che il prof. Lujo Bren-tano ha rilevato il fatto paradossale che i con-correnti più pe ricolosi della Germania non era-no i paesi dove i salari erano i più bassi e lagiornata di lavoro più lunga che in Germania,ma che erano al contrario quelli ove le condi-zioni dei salari e della giornata di lavoro eranopiù favorevoli agli operai, come l’Inghilterrae l’America del Nord. La rivendicazione della

giornata di otto ore, che in Italia, per la pocaestensione della grande industria, è forse al-quanto accademica, ha acquistato invece neipaesi economicamente più evoluti una fisio -nomia del tutto pratica, e della vicina sua at-tuazione economisti illustri hanno cercato didimostrare i bene fici, tenendosi lontani peròdalle esagerate speranze che si nutrono da al-cuni riguardo all’efficacia sua nel risolvere ilproblema dei disoccupati.2

Il dott. Luigi Albertini ha voluto occuparsidella que stione ed, avvantaggiandosi dei risul-tati delle esperienze che in questi ultimi annisi sono andate sempre più moltiplicando, ci hadato un dotto ed utilissimo volume intitolatoappunto La questione delle otto ore di lavoro(Torino, Bocca, 1894).

L’autore, premessa un’accurata introduzionestorica, esamina la influenza della riduzionedelle ore di lavoro sulla produzione. L’agita-zione per ottenere i 3 otto non ebbe da princi-pio altro scopo che quello di sollevare gli ope-rai da fatiche troppo deprimenti e di metterliin grado di istruirsi e di educarsi. Ma in segui-to, ed in parte anche per causa dell’ambientenel quale il movimento delle otto ore si eraesplicato, assunse un altro scopo, quello di da-re impiego ai disoccupati, fon dandosi nellasperanza di una diminuzione della pro duzionee sulla conseguente necessità dell’impiego diun maggior numero di lavoratori. Ora, sebbeneil ra gionamento appaia a prima vista logico edabbia potuto dar ragione a quegli imprenditoriche alla graduale diminuzione della giornatadi lavoro si rifiutavano, in conseguenza appun-to dell’aumentato costo della mano d’opera, èstato compiutamente confutato dall’essersisempre potuto collo stesso numero di personeottenere la stessa produzione, anzi talvolta unaproduzione assai maggiore.

L’autore nota assai bene (ed è questa unadelle parti più importanti del libro) che le pre-

EINAUDI E LA CRITICA ■ 1894 FASCICOLO 12 PAGINA 181

LA QUESTIONE DELLE 8 ORE DI LAVORO

Luigi Einaudi

EINAUDI E LA CRITICA ■ 1893 FASCICOLO 16 PAGINA 196

EPISTOLARIO DI STUDENTI

La Critica Sociale

CRITICAsociale ■ 79 / 2011

cedenti riduzioni della durata del lavoro a un-dici, dieci; nove ed otto ore non hanno in ge-nerale causato diminuzione di pro duzione; lagiornata di lavoro vige in numerose fab briche;l’operaio produce di più dove la durata del la-voro è più breve. Nelle miniere inglesi, adesempio, la giornata di otto ore od anche menosi riscontra di frequente, ed il prof. Munzo diceche tutto tende a dimostrare che la produzionemedia per ogni uomo è più alta in quei distrettidove minore è la durata del lavoro. Dal mag-gio 1893, cioè sino da quando si pub blica laLabour Gazette, oltre a 17.000 operai impie-gati negli opifici del Ministero della guerra,hanno ottenuto la giornata di otto ore 40.000minatori del Lanarkshire, Ayrshire e Stirlin-gshire con notevole aumento di sa lario ed altri4000 uomini impiegati in varie industrie. Laproduzione individuale è più alta in quelle na-zioni ove lo standard or life3 è più elevato e lagiornata di lavoro più corta; i filatori di cotonedell’India hanno calcolato che la produttivitàdell’operaio inglese sta a quella dell’indianonel rapporto di 56 a 23; il primo lavora 56½ore la settimana; il secondo dal sorgere al tra-montare del sole. In Inghilterra, dove i mina-tori hanno la giornata più breve che in ogni al-tro paese d’Europa, ogni uomo scava annual-mente 310 tonnel late di carbone, mentre inGermania ne scava 270, in Belgio 170 ed inFrancia 188.

Questi fatti, che stanno in perfetta contrad-dizione colle pessimiste previsioni di alcuni,derivano dalla più forte intensità che l’operaiopuò spiegare e dall’attenzione svoltasi in luiappunto per l’accresciuto riposo e la diminuitafatica. Le diminuzioni fino ad ora avvenutehanno arrecato immenso sollievo alla classelavoratrice e l’hanno migliorata fisicamente,intellettualmente e moralmente. Sembra che«l’uomo possa in qualche modo ribellarsi allatirannia della macchina, che questa non sia ca-pace di annullare del tutto la personalità uma-na, e che la creatura che la alimenta, la sorve-glia nei suoi vertiginosi movimenti, debba pursempre essere una creatura vivente, intelligen-te e vigorosa».

Alla diminuzione di prodotto, che si verificaspecie nelle industrie, in cui la parte principaleè riservata alle macchine, l’industriale cercareagire, prima con molteplici modificazioni,come il sistema delle due o tre mute, l’aumen-to di velocità nelle macchine, costringendol’operaio a sorvegliare un numero più grandedi con gegni meccanici, e poi sostituendo il la-voro della mac china a quello dell’uomo e can-giando le macchine vec chie con altre nuove epiù perfette. Onde la riduzione della giornatadi lavoro è stata la causa necessaria e princi-pale di molti fra i più grandi progressi e trionfidell’industria moderna. « Le brevi giornate dilavoro rendono l’operaio capace di lavorare in-tensamente; ad ottenere questo risultato con-corrono anche gli elevati salari; brevi giornateed elevati salari rendono possi bile e necessarioun grande impiego di macchine per economiz-zare il lavoro dell’uomo; il vasto impiego dimacchine rende possibile e necessario pagarealti salari e fare lavorare gli operai per pocheore al giorno».

Ma se queste considerazioni hanno un valoreassoluto per quei paesi ove l’industria è mag-giormente in fiore devono ricevere qualchetemperamento per quelle nazioni ove l’indu-stria è ancora giovane ed è mantenuta artificial-mente da dazi protettori. Qui per la mancanzadi capitali ed anche di operai abili, la riduzionenon può farsi che a gradi e, perché l’operaiopossa diven tare capace di produrre in otto orequanto prima pro duceva in dieci o dodici, fad’uopo: 1.° che egli voglia e si sforzi di lavora-re intensamente; 2.° che il suo sa lario sia ele-vato; 3.° che trascorra un certo periodo di tem-

po, necessario perché egli possa risentire i buo-ni effetti dell’accresciuto riposo e della dimi-nuita fatica e per acquistare l’abilità di lavorarepiù velocemente; 4.0 che egli faccia buon usodel tempo che gli rimane libero. Ed il minoredesiderio in questi casi delle classi operaie diottenere una forte diminuzione delle ore di la-voro è dimostrato dal fatto che in Italia, paeseindu strialmente poco progredito, gli scioperiper la giornata di lavoro hanno minore impor-tanza di quelli per i sa lari, contrariamente aquanto avviene in Inghilterra e negli Stati Uniti.

Ma nella giornata di otto ore si avrà forse lasolu zione del problema sociale o, più special-mente, del pro blema dei disoccupati? L’autorerisponde negativamente e conforta la sua tesidi numerose ragioni; ed alle ser rate e convin-centi sue argomentazioni rimando il lettore,anche per la difficoltà di riassumerle conve-nientemente e con la brevità necessaria a que-sto articolo.

Potranno gli operai conquistare d’un trattole otto ore o dovranno accontentarsi d’una ri-duzione graduale? Emilio Vandervelde scrisse,alla vigilia del 1° mag gio 1893, essere vanosperare che l’operaio, abituato a lunghe gior-nate di dodici o sedici ore, possa d’un trattoarrivare a produrre la stessa copia di merci inotto ore, e che perciò fa d’uopo ridurre gra-dualmente la durata del lavoro. I deputati so-cialisti tedeschi, i quali nel maggio 1890 avea-no presentato al Reichstag un progetto di leggecon cui si sarebbe giunti a stabilire la giornatadi otto ore in tre tappe successive, rinno varonola proposta nell’aprile 189l chiedendo subitola giornata di dieci ore, che nel 1894 si sarebberidotta a nove ore, e nel 1898 a otto ore. E leriduzioni finora avvenute, e che ottennero fe-lice riuscita, conservarono sempre questo ca-rattere di progressiva e continua gra dualità:dove si volle imporre una riduzione più forte,come in Isvizzera nel 1878 ed in Inghilterranel 1847, gli industriali reagirono alla leggenon osservandola: numerose leggi occorseroin Inghilterra per ridurre la durata settimanaledel lavoro da novanta a cento ore, come era alprincipio del secolo, a 56 ½. Nella colonia diVittoria, dove più dei tre quarti degli operainon lavorano più di otto ore al giorno, la ridu-zione effettiva fu non già da 10 ad 8, ma da 8¾ ad 8, essendosi abo lito l’intervallo di l ora e¼ pel pasto del mezzodì.

Gli effetti di questa riduzione sarebbero al-tamente benefici per le condizioni fisiche emorali delle classi lavoratrici; per non ripeterecose già dette, riporterò dal libro le parole delPlener che riguardano l’Inghil terra: «....il do-minio più che trentenne della legisla zione pro-tettrice mostra come le disposizioni, che alza -vano l’età di ammissione e scorciavano lagiornata, fossero oltremodo benefiche; la co-sidetta gamba di fabbrica (storcimento dellegambe dei lavoratori) è affatto sparita; e tutti irapporti ripetono ad una voce che la presentegenerazione, di tesserandoli è un fiore rispettoall’antica ». La limitazione della durata del la-voro, quantunque non efficace a rimoverne deltutto le cause, è necessaria ad impedire il de-perimento con tinuo delle classi operaie, dovu-to ai vizi, di cui mas simo l’alcoolismo (che leotto ore hanno reso minore in Australia), lemalattie derivanti da mancanza d’aria, di luce,da lavori compiuti in ambienti a temperaturaelevatissima, dal ripetersi continuo di certimovimenti, dall’abitudine di tenere il corpo inposizioni anormali.

In qual modo potranno gli operai ottenere laridu zione graduale della giornata di lavoro?Non coi loro soli sforzi, che riescirebbero inef-ficaci contro la potenza dei capitalisti risolutia non cedere alle pretese dei loro operai, mamercé una legislazione nazionale. Inefficacesarebbe, secondo l’Albertini, una conforme le-

gi slazione internazionale, in quanto peggiore-rebbe le sorti delle fabbriche e delle nazionipiù deboli; e quegli Stati, che vedessero dimi-nuita la loro produzione, si trove rebbero co-stretti a trasgredirla.

Una legislazione nazionale sulle fabbrichenon torna dannosa alle industrie, anzi le rendepiù forti e vigo rose e, sollecitando perfeziona-menti tecnici, le rende atte a sopportare la con-correnza estera. Disse il Ma caulay nel discorsoin difesa del bill delle dieci ore che «se il po-polo inglese dovrà un giorno essere privatodella supremazia industriale, non lo sarà da unpopolo di nani degenerati, ma da un popoloche per energia fisica ed intellettuale superil’inglese», E testé un mi nistro .inglese, il Mun-della: «Sono le lunghe ore di la voro degli altripaesi che ci salvano dalla concorrenza».

La legislazione sulla giornata di lavoro do-vrebbe imporre un limite massimo, senza lescappatoie sapienti della trade option e dellatrade exemption, accompa gnando questo limi-te massimo colla proibizione assoluta del la-voro supplementare. Lo stato che, per ora, al-meno quello italiano, è un imprenditore moltopoco favore vole ai suoi operai, dovrebbe co-minciare ad applicare queste norme per le sueofficine ed i suoi arsenali ed imporle ai Comu-ni, alle provincie ed agli appaltatori di operepubbliche.

Questo il riassunto (pel quale, ad otteneremaggiore esattezza, mi sono spesso servitodelle parole dell’au tore) della bella monogra-fia dell’Albertini, condotta con metodo seve-ramente scientifico e sperimentale e che vorrei

fosse letta da quanti si occupano di studi eco -nomici e sociali.

Il libro si chiude con un augurio: «...la classedirigente, che è la classe dei possidenti, fareb-be opera accorta se mostrasse che, come neicodici suoi tutela con migliaia di articoli il di-ritto di proprietà, così in altre leggi tutela l’uni-ca proprietà del lavoratore, le sue braccia, cheegli, spinto dalla concorrenza, è costretto a lo-care a vil prezzo e per una parte troppo lungadella giornata ». Io non ho questa speranza, odalmeno di fronte alle recenti manifestazionidei più ciechi sentimenti egoistici di classe, dicui Governo e Parlamento diedero prova ina-cerbendo le imposte sui consumi popolari, cre-do che allora soltanto una legi slazione sul la-voro, quale è quella vagheggiata dall’Al -bertini, sarà possibile, quando le classi lavora-trici eser citeranno una pressione più forte sugliorgani legislativi e saranno rappresentate piùlargamente nel Parlamento da deputati decisia reclamare con insistenza quelle riforme chepossano tornare utili agli operai. s

NOTE

1 GlUSEPPE SALVIOLI, La questione del-le otto ore in Europa nel 1893-94 (Riforma so-ciale, n. 5).

2 Ricordo solo l’ultimo libro uscito in In-ghilterra, su questo argomento, di JOHN RAE,Eight hours for work, London, Mac millan1894.

3 Tenore di vita.

I n questo numero della Critica ab-biamo spinto avanti la questionedell’atteggiamento dei socialisti

di fronte al problema tributario, questione chetroverà, crediamo, il suo definitivo svolgimentonel fascicolo prossimo. E intanto ne «abbordia-mo» un’altra delle questioni più spinose per ilnostro partito: quella della piccola proprietàfondiaria, che in date regioni, anche d’Italia,sembrerebbe opporre una specie di pregiudizia-le insuperabile a qualunque nostra propaganda.

Un egregio e colto giovane di Dogliani (Cu-neo), nostro abbonato, ci ha scritto già, da va-rie setti mane la lettera seguente:

CARO DIRETTORE, Consentite una domanda, che vi parrà indi-

screta forse in questo momento in cui tante al-tre questioni richie dono più di questa l’atten-zione vostra e quella dei let tori della Critica?

Voi avete spiegato più volte la vostra attitu-dine verso la piccola proprietà ed avete anchefatto adesione al programma del Partito ope-raio francese; ma sotto alle vostre proposte diprovvedimenti difensivi dei piccoli proprietarisi scorgeva predominante in voi il convin -cimento che la piccola proprietà e la piccolacultura fossero destinate ad una più o meno ra-pida scomparsa. Ancora recentemente il Ma-lagodi a proposito delle campagne emiliane, ilJaurès per la Francia, ripetevano la stessa af-fermazione, che ha trovato nel campo scienti -fico un valente sostenitore nel Loria. (Analisidella pro prietà capitalista, Vol. II, p. 204-2l).

Io non voglio negare la verità di una similetendenza generale, data la quale è perfettamen-te comprensibile la condotta dei socialisti checercano con provvedi menti a favore dei piccoliproprietari di alleviare i mali inevitabili nel tra-passo ad una forma superiore dell’e voluzioneeconomica. Ma (ed è qui che sta tutta la so -stanza della mia domanda) che condotta devo-no tenere i socialisti dove la piccola proprietàè ancora in fiore, dove la terra si va frazionandosempre più senza per questo polverizzarsi al-l’infinito, dove questa forma di piccola proprie-tà coltivatrice conserva ancora tutta la vitalitàche le deriva da una vita semimillenaria?

Permettete un esempio: io ho voluto studiarele vi cende storiche della distribuzione dellaproprietà fon diaria a Dogliani, comune vicinoa Mondovì. Orbene: la grande proprietà inquel luogo non è mai esistita (?); i proprietari,che erano 485 nel 1677, erano diventati 638un secolo fa ed ora sono 1300. I proprietari aldi sopra di 38 ettari nel 1793 erano 12, ora so-no 4; allora aveano il 23,38 % del territoriomentre ora ne detengono solo il 4,96%. E’ di-minuito assolutamente anche il numero diquelli che possiedono da 7,60 ettari a 38, de-tenendo essi anche una minor parte del terri-torio (41,35% con tro 48,36%), ed il centro digravità nella scala dei pos sessi è passato ai mi-nori proprietari coltivatori.

Vi ho portato un esempio particolare, perchéqui mi soccorrevano le cifre, ma questo puòdirsi un fenomeno generale a tutte le Langhe,ad una gran parte del Mon ferrato ed in genere

EINAUDI E LA CRITICA ■ 1894 FASCICOLO 6 PAGINA 89

L’AZIONE DEL PARTITO SOCIALISTAIL PRIMO ARTICOLO DEL GIOVANE COLLABORATORE

Luigi Einaudi

8 ■ CRITICAsociale9 / 2011

alle regioni colligiane piemontesi. Non parlodelle montagne, perché là il fenomeno delloeccessivo sminuzzamento della terra ha assun-to carat teri veramente patologici e dannosi allacultura agraria. Ora di fronte a questa tenaciadella piccola proprietà nei paesi, in cui perduraancora vivace e nei quali dà buoni risultati perla produzione e per la cultura della terra (?),che atteggiamento può prendere la critica el’azione della parte socialista? Come riusciretead at taccare il congegno di una organizzazioneterriera, la cui fine non può parere vicina a chila osservi spas sionatamente e scientificamen-te? Su chi riuscirete voi ad addossare la re-sponsabilità delle cattive condizioni nelle qualida qualche anno si trovano i contadini pro -prietari e contro le quali si dibattono ora inu-tilmente, timorosi di nuovi disastri dipendentiancor questi da fenomeni naturali, come la in-vasione della filossera?

E notate ancora: in quei paesi la esistenza,quando vi sia, di alcune grandi e medie pro-prietà condotte a fitto od a mezzadria non deveindurre a credere che i proprietari ritragganomolto utile dai loro possedimenti; quando nonsono passive, sono così sovraccariche di ipo-teche, che a gran fatica i pochi componenti lacosì detta borghesia campagnola riescono asbarcare il lu nario. Tutti ad un modo, contadinie signori, sono ora ri dotti al lumicino. Dunqueche cosa potrebbe in queste condizioni fare ilpartito socialista?

Confesso che, dopo averci pensato su molto,non son riuscito ad una conclusione pratica, senon forse ad una che a voi parrà intinta troppodi pece cooperativista. Converrebbe istituiredelle casse rurali che imprestas sero, ad un miteinteresse ed a scadenza lontana, de nari ai con-tadini, sorvegliando accuratamente l’impiegoche di quei denari facessero i mutuatari; ed al-largare, ove già esistono, l’azione dei Sinda-cati per la compra e la vendita dei prodottiagrari, sottraendo così i col tivatori dalle ugnerapaci dei mediatori. Si farebbe con ciò, ovefosse possibile istituire e fare prosperare similiistituzioni, una guerra efficace contro le ban-che usuraie e l’usura bottegaia che dei paesi apiccola pro prietà sono i parassiti più funesti?Contro di esse per ora io non so immaginarealtri metodi di lotta, ed io credo che a questalotta sarebbe utile applicare gli sforzi del par-tito vostro. s

Luigi Einaudi

La lettera dell’Einaudi ci rimase alcune set-timane sul tavolino appunto perché - pubbli-candola - avremmo anche desiderato di darleuna risposta, se non esauriente in modo asso-luto, almeno la mi gliore che per noi si potesse:e a questo ci pareva necessario il concorso diqualcuno, che delle con dizioni della piccolaproprietà nel Piemonte potesse parlare concognizione di causa, non minore di quella dichi ci interpellava.

Lo studio di Rocca Pilo, che pubblichiamopiù oltre, sulla piccola proprietà nel Monfer-rato, ci sembra che risponda quasi interamenteai dubbii dell’Einaudi e tracci la via maestrache in paesi di piccola proprietà può spettareal partito socia lista: dimostrare cioè anzi tuttoqual è la essenza vera e qual è il destino di co-testa illusione di pro prietà divisa. Anche il fe-nomeno dell’aumento, che in qualche luogo siverifica, della piccola proprietà vi è spiegatonel modo più verosimile e ridotto al suo verovalore. Sussiste, è vero, fra l’uno e l’altro scrit-tore, qualche divergenza nell’esposizione deifatti. L’Einaudi afferma che nel suo Comunenon esisti mai la grande proprietà e che la pic-cola pro prietà vi è abbastanza in fiore. RoccaPilo, nel Mon ferrato, ha trovato l’opposto.

Ma, quanto alla prima asserzione, ci permet-ta l’Einaudi di essere un po’ scettici. Non ci pa-

re pos sibile che il suo solo Comune faccia ec-cezione a quella che è storia generale della pro-prietà, non solo nel Piemonte, ma in quasi tuttele regioni d’Italia. D’altronde, se, com’egli av-verte, i piccoli proprietarii sono aumentati dinumero, cotesto fatto che cosa ci prova? Delledue ipotesi l’una: o le nuove piccole proprietàsono il prodotto della rovina di altri piccoli pro-prietarii, stati costretti a vendere parte dei lorofondi; o sono i detriti di una grande proprietàpreesistente. Nel secondo caso, ecco che ci soc-corre la spiegazione che del fenomeno ci dàRocca Pilo e che i lettori troveranno più avanti:la prima ipotesi non è certo favorevole aiprono stici ottimisti dell’Einaudi sul possibilepermanere della proprietà frazionata.

Quanto alla seconda asserzione, che cioè lapiccola proprietà si mantenga, qua e là, abba-stanza rimu nerativa, noi dovremmo pregare ilsignor Einaudi di mettersi d’accordo con sémedesimo. O non ci parla egli, poco dopo, del-le «cattive condizioni contro le quali i conta-dini proprietarii si dibattono inutilmente?» Siapure che la fillossera ed altri guai vi abbianoavuto gran parte: ecco dunque che la piccolaproprietà non vale neppure ad affrontare, conassicurazioni od altrimenti, i rischi naturalidell’impresa agricola.

Neppure la grande – osserva l’Einaudi. –Tanto peggio; rimbecchiamo noi. Ciò confortaviemeglio la tesi socialista, che batte in brecciaogni maniera di proprietà privata della terra,non solo per ra gioni di distribuzione, maeziandio di produzione. La concorrenza dellagrande coltura intensiva estera, e tutte le altreconcause, che precipitano l’evolu zione econo-mica, faranno sparire il proprietario, e con es-so, i minori intermediarii, sopratutto per que-sto: che la terra non li può più alimentare, nonli sopporta più. Finalmente: le casse rurali, cuiaccenna l’Einaudi, non sono che una specie dimutuo soccorso fra piccoli proprietarii, basatosu un principio affatto borghese, quello dell’in-teresse del denaro, e al quale perciò il partitosocialista non crediamo possa in teressarsi. Di-verso è il caso dei sindacati per la compra evendita dei prodotti agrarii e magari anchedelle macchine e dei concimi. Queste istitu -zioni hanno in sé il germe del collettivismo, cheapplicano allo scambio, in attesa di applicarloanche alla produzione. Sono perciò un pontedi passaggio. Dove non esistono, o non posso-no prosperare colle sole loro forze, noi pensia-mo che, nelle regioni di piccola proprietà, ilComune stesso possa assumersi la loro funzio-ne e che ciò non ripugni affatto, né per ragionidi principii né di opportunità, al pro grammasocialista. s

La Critica Sociale

U na delle cause principali percui il tenore di vita delle clas-si operaie in Italia é inferiore

a quello degli altri paesi, per cui i salari riman-gono a un livello bassissimo, e non sono fre-quenti né di solito fortunati gli scioperi per laelevazione delle mer cedi, si é la eccessiva po-polazione del nostro paese. La densità mediadella popolazione in Italia (107 abitanti perchilometro quadrato) é assai superiore alladensità media della popolazione in paesi di noipiù ricchi come la Germania (97), l’Austria(80), la Francia (72), ed é solo inferiore alladensità media dell’Inghilterra e del Belgio,contrade dove le industrie ed i traffici svilup-patissimi permettono agli abitanti di moltipli-carsi su un suolo per propria natura sterile edingrato.

Né la tanto decantata bellezza del nostro cie-lo e la fertilità del nostro suolo giovano a spie-gare l’altezza insolita del numero indice dellapopolazione; perché si tratta in fondo di unaleggenda che non riposa su nessun fondamen-to reale. Due terzi delle terre d’Italia sono po-ste in montagna od in collina, e sono sterili,pietrose e sassose, tali insomma che solo congrandi stenti la genialità italiana ha potuto trar-ne profitto. Parecchi milioni di ettari rimango-no incolti, in parte perché incol tivabili per es-sere gioghi di montagne o pendii scoscesi dicollina, e in parte perché non vi è tornacontoeconomico a colonizzare le terre incolte anchefertili quando la remunerazione si fa aspet taretroppo lungo tempo in confronto di altri im -pieghi a reddito immediato e sicuro. Se anchepoi si potesse colonizzare il milione di ettariincolti e coltivabili che esiste in Italia, il rime-dio posto all’accrescersi irrefrenato della po-polazione sarebbe affatto temporaneo. Suppo-nendo che su ogni 100 ettari (== 1 km quadra-to) possano vivere comoda mente 90 persone,il che é già molto e presuppone una intensitàdi coltivazione irraggiungibile in pochi anni,si può fare questo calcolo. La popola zione ita-liana aumenta ogni anno circa di 400 mila per-sone; 100 mila si possono all’ingrossoconside rare come necessarie a far fronte all’in-cremento naturale delle industrie e dell’opero-

sità nazionale. Ove non esistesse la emigrazio-ne per l’estero, le 300 mila persone residue ba-sterebbero per fornire in 3 anni la popolazioneoccorrente per colonizzare il milione di ettariincolti ed incoltivabili. Finito il triennio, le co-se sarebbero al punto di prima e sarebbe d’uo-po trovare nuovamente un rimedio all’incre-mento pauroso della nostra popolazione.

L’appigliarsi a pratiche malthusiane per di-mi nuire la prolificazione avrebbe contro di séle abi tudini inveterate delle masse rurali cat-toliche, ubbidienti ciecamente alla massimabiblica: crescite et multiplicamini, e sarebbeopposto eziandio ai sentimenti delle masseoperaie cittadine, le quali si sono abituate aguardare a mezzi completamente diversi permigliorare le proprie condizioni; e ignoranodel tutto i dati primi del problema della popo-lazione, con grave torto (mi si permetta la pa-rola in una Rivista socialista) della stampa po -polare e socialista che del gravissimo proble-ma demografico non si é mai occupata serena-mente e spassionatamente.1

Del resto forse non a torto i sentimenti e leabitudini della popolazione italiana sono con-trari alle pratiche malthusiane. L’avvenire édei popoli che espandono la propria civiltà suterritori sempre più ampi e moltiplicano inces-santemente il numero di quelli che parlano laloro lingua. L’avvenire è dell’Inghilterra e del-la Germania, che spargono i propri figli in tuttii paesi del mondo, e non della Francia, la qualeha una popolazione ricca ma stazionaria in nu-mero e popola le sue colonie di soldati e difunzionari. L’Italia, se vuole migliorare la suacondizione attuale e non scadere al livello diuno dei piccoli popoli balcanici o iberici, deveispirarsi all’esempio dell’Inghilterra e dellaGermania e tenersi lontana dalle consuetudiniecces sivamente restrittive della prolificazione,così diffuse in Francia.

In questo momento, in cui tanti popoli si di-spu tano il possesso del mondo e lottano cosìper la conquista del benessere materiale, l’Ita-lia verrebbe ben presto soffocata dal dilagaredelle popolazioni straniere esuberanti, ove nonobbedisse anch’essa al precetto: crescite etmultiplicamini. Una certa dose di malthusia-nismo sarebbe forse opportuna in Italia; manon sembra che si sia giunti a quel punto dimassima saturazione in cui l’unico scampocontro la miseria e la morte per fame sia datro varsi soltanto nei freni restrittivi della po-polazione.

Perché i motivi principali, per cui in Italiala miseria in taluni distretti è grande e i salarisono ridotti ad un livello bassissimo, non si de-vono ri cercare nell’eccesso degli abitanti insenso assoluto, ma nell’eccesso relativo allameschinità della nostra produzione e al difettodi equilibrio economico fra i vari fattori dellaproduzione. Coloro che in Italia vogliono se-riamente intendere ad una politica seria di ele-vamento delle condizioni del nostro proleta-riato devono sopratutto avere in mira questidue scopi: accrescere la produzione nazionalee ristabilire l’equilibrio fra i fattori della pro-duzione. I problemi di distribuzione del reddi-to, che a ra gione occupano tanta parte delleaspirazioni dei partiti operai inglesi, americanie australiani, po tranno essere discussi in Italiasolo alloraquando l’incremento della produ-

EINAUDI E LA CRITICA ■ 1899 FASCICOLO 10 PAGINA 153

LA POLITICA ECONOMICA DELLE CLASSIOPERAIE ITALIANE NEL MOMENTO DEL PRESENTE

Luigi Einaudi

CRITICAsociale ■ 99 / 2011

zione e il ristabilito equi librio economico ab-biano rialzato il livello di tutte le classi sociali.

In Italia nessuna politica economica sarebbetanto nefasta per le classi operaie quanto quel-la la quale pretendesse di aumentare i salari deilavoratori a spese dei profitti degli imprendi-tori e degli interessi dei capitalisti. Una similepolitica impedirebbe la formazione, già cosìlenta e scarsa, dei nuovi capitali ed uccidereb-be quello spirito d’intraprendenza così raro danoi, al quale solo si deve se alcune regionid’Italia si trovano in discrete con dizioni rispet-to alle altre.

A parer mio la sola politica economica, laquale oggi dia speranza di migliorare le sortidelle classi operaie, sarebbe una politica laquale rialzasse il livello di benessere di tuttele classi sociali, mercé (e bene ripeterlo ancorauna volta) un incremento della produzione edil ristabilimento dell’equilibrio ora rotto fra ifattori economici della produzione.

Se noi guardiamo alle statistiche, ufficiali onon dell’ultimo decennio, il fenomeno che piùvivamente balza agli occhi si é la differenzaprofonda fra lo sviluppo delle industrie mani-fatturiere e quello delle industrie agricole.Quelle diffuse sovrattutto nell’Italia settentrio-nale, hanno compiuto progressi giganteschi ehanno dato una agiatezza notevole alle regioninelle quali erano situate. Queste, sparse su tut-ta l’Italia e predominanti da sole nel mezzo-giorno, sono rimaste stazionarie od hanno re-gredito in guisa tale da destare apprensioni for-tissime per l’avvenire della nostra agricoltura.

Le ragioni del contrasto non sono difficili arin tracciarsi. La politica doganale, inauguratanel 1878 e rafforzata nel 1887, ha garantito al-le industrie manifatturiere il mercato internoed i fabbricanti del Nord ne hanno approfittatoper conquistare il mercato nazionale chiusocontro le provenienze dall’estero, ed hanno suqueste basi eretto industrie grandiose che orasul mercato internazionale sfidano la stessaconcorrenza estera.

D’altra parte, la medesima politica dogana-le, cau sando le rappresaglie delle nazioni a cuinoi chiu devamo i nostri mercati, hanno cagio-nato un danno irreparabile alle industrie agra-rie, a cui l’uno dopo l’altro si chiusero i mi-gliori e più promettenti sbocchi. I danni per lanostra agricoltura furono inacerbiti dal cosi-detto protezionismo agrario, che in fondo noné altro che il protezionismo della cerealicultu-ra. Il dazio sul grano, unico compenso che icoltivatori del Sud ottennero di fronte ai dazisui manufatti, largiti ai fabbricanti del Nord,giovò soltanto a garantire le rendite di alcunemigliaia di proprietari di terre a grano, ed amantenere in vita su terreni disadatti una cul-tura, propria so vratutto dei paesi nuovi, dovela terra costa poco e dove si possono coltivare,con macchine perfezio nate, enormi superficidi terreno quasi vergine. In Italia, dove la po-polazione è fittissima, questa non può viveresu una cultura così poco remune rativa comequella del grano e deve dedicarsi alle coltiva-zioni di alto reddito netto e lordo per ogni et-taro (viti, frutta, agrumi, ecc.).

Disgraziatamente, nelle condizioni attualidelle dogane mondiali, in Italia è impossibileestendere queste culture ricche e remunerative.I paesi di Europa e d’America, ai cui manufattied ai cui ce reali noi abbiamo chiuso le porte,respingono con forti dazi i nostri vini, le nostrefrutta ed i nostri agrumi, cosicché, per una re-strizione artificiosa degli sbocchi, le culturearboree, adattissime al nostro cielo e al nostroclima, decadono e si re stringono dinanzi al-l’invadenza della cultura a grano, cultura po-vera ed esauriente per i nostri terreni spossatida secoli di sfruttamento.

Come ha dimostrato molto bene il prof. G.Mosca in una conferenza tenuta a Torino e che

è spera bile verrà presto pubblicata, la trasfor-mazione del latifondo siciliano non dipende darimedi più o meno cervellotici di indole legale,ma da una po litica doganale la quale permettaalla Sicilia di vendere i suoi vini, gli agrumi,il sommacco, le frutta. ecc., alla Francia, allaRussia, agli Stati Uniti, all’Argentina, in cam-bio dei manufatti e del grano di cui essa ha bi-sogno. Allora certamente una parte dei latifon-di ora coltivati a grano verrebbe ridotta a cul-ture più ricche, con vantaggio enorme non solodei proprietari, ma anche, e più, dei contadinie dei braccianti.

Se l’Italia vuole dunque accrescere la suapro duzione e così elevare il livello del benes-sere ma teriale di tutte le classi sociali, la viada percor rere é nettamente tracciata: inaugu-rare una politica doganale nuova, la quale, permezzo di trattati di commercio accortamentestipulati, permetta alle nostre derrate agricoledi grande pregio di ricon quistare gli sbocchiperduti e di espandersi trion falmente su nuovie ricchi mercati.

Il momento attuale é molto favorevole aduna siffatta politica doganale, che vorrebbe di-re da parte nostra abbandono immediato deldazio sul grano ed attenuazione graduale deidazi sui manufatti.

Il dazio sul grano ha eccitato talmente con-tro di sé le ire della popolazione, ed i suoi dan-ni sono così evidenti, che ad una energicacampagna abo lizionistica, condotta con abilitàed ardore, sorride rebbe una pronta ed indubbiavittoria.2

Quanto ai dazi sui manufatti, gli stessi indu-striali del Nord cominciano a riconoscere cheoramai essi non ne hanno più bisogno per di-fendersi contro la concorrenza estera. Del restoun fatto indiscutibile ci prova che la libertà de-gli scambi deve essere inaugurata anche peimanufatti: la crescente espor tazione versol’estero dei medesimi manufatti. La esportazio-ne può significare due cose: o che i fab bricantiitaliani possono davvero reggere alla con -correnza estera all’estero, ed allora non si vedeil motivo per cui non possano reggersi ancheall’in terno; o che essi vendono all’estero ad unprezzo inferiore al costo, rifacendosi dei dannisofferti coll’aumento dei prezzi sul mercatochiuso interno, ed allora parimenti non si capi-sce perché i con sumatori interni debbano esse-re tassati a beneficio dei consumatori stranieri.

Che questo accada per gli zuccheri, che cioèi consumatori tedeschi, russi, francesi, austria-ci ed in un futuro forse non molto lontano an-che gli italiani debbano venire tassati perché ifelici Brit tanni possano consumare lo zucche-ro a un prezzo inferiore al costo, è un fatto de-plorevole; ma che poi .un sistema così perni-cioso debba in Italia venire esteso a tutte le in-dustrie manifatturiere, è tale aberrazione chenon si sa nemmeno come qua lificare.

Molti indizi vi sono perciò, i quali ci indu-cono a credere che una riforma del nostro si-stema do ganale, nel senso ora indicato, possaessere attuata senza troppe difficoltà in seguitoad una energica campagna, la quale dimostras-se al Paese che questo è l’unico metodo perpotere far rifiorire le vere industrie agricoleadatte al nostro suolo, pure con servando in vi-ta nel Nord d’Italia le industrie ma nifattrici, ri-posanti oramai su basi così salde da poter vin-cere ogni concorrenza estera.

E sarebbe bene che l’iniziativa della nuovapo litica doganale partisse dalle classi operaiedel set tentrione; perché esse dimostrerebberoin tal modo coi fatti e non solo colle parole,che esse sentono la solidarietà che le avvincecolle masse rurali di tutta Italia. Una classe dioperai si innalza non solo lottando direttamen-te per aumentare i propri sa lari, ma anche lot-tando per la elevazione di masse affini, checolla loro pressione enorme possono rendere

inutile qualsiasi sforzo delle più vigorose edorganizzate aristocrazie operaie.

Ma non basta accrescere la produzione: èd’uopo ristabilire, come si è detto, il rottoequilibrio fra i fattori economici della produ-zione. Ora in Italia vi è sovrabbondanza delfattore lavoro e scarsità del fattore capitale.

I capitali non sono mai stati abbondanti nelno stro paese; ma ci fu un tempo in cui, per larav vivata corrente di traffici fra l’Italia el’estero, per la parità di valore dell’oro e dellacircolazione cartacea, per la puntualità dellostato e delle So cietà private a mantenere gliimpegni assunti, i capitali stranieri accorreva-no fìduciosi in Italia a svolgere le nostre ric-chezze latenti ed inerti. Dopo vennero i falli-menti delle Banche, le dilapidazioni del Go-verno, i disavanzi cronici del bilancio delloStato, le oscillazioni continue dell’aggio suibi glietti a corso forzoso, ecc” ecc., e i capitaliesteri fuggirono spaventati dall’Italia, mentrei capitali indigeni si nascondevano paurosi ne-gli scrigni o venivano investiti in titoli di ren-dita pubblica.

Nel frattempo la popolazione italiana noncessava di aumentare; e la povera gente, a cuile altre gioie della vita erano negate per il ri-basso dei salari, si consolava mettendo al mon-do la consueta ed anzi più della consueta quan-tità di figli.

Così andava diventando sempre più acuto losquilibrio fra il fattore capitale ed il fattore la-voro sul mercato economico italiano.

Qualora non si voglia ricorrere ad empiastriar tificiosi, l’equilibrio economico ora scom-parso può essere ricostituito soltanto favoren-do l’immigrazione del capitale e la emigrazio-ne del lavoro. A poco a poco, col progrediredell’afflusso dei ca pitali e dell’efflusso del la-voro, si ristabilirà l’equi librio fra i due fattoriin modo da permetterne la combinazione, piùvantaggiosa per amendue, da parte di coloro acui nel mondo economico è affi data la funzio-ne di organizzatori dell’industria.

L’incremento della produzione, in seguito aiprov vedimenti doganali accennati più su, fa-vorirà senza dubbio la immigrazione dei capi-tali destinati a fe condare le nuove intrapreseagricole, e gioverà a tale scopo eziandio unaaccorta politica dello sconto e della circolazio-ne fiduciaria, intesa a fare scom parire l’aggioche ora colle sue oscillazioni inces santi oppo-ne una grave barriera alla venuta dei capitaliesteri.

Questi inoltre verranno tanto più volonterosiin Italia quanto più saranno rese rigide e rapidele procedure giudiziarie contro i debitori mo-rosi, e saranno gravi ed esemplari le pene peri falliti dolosi. Nulla nuoce tanto in Italia alladesiderata immigrazione dei capitali esteriquanto le oscilla zioni dell’aggio e la condi-scendenza inerte verso i debitori morosi e col-pevoli.

Se col tempo lo Stato potrà, con un’ammi-nistrazione seria e tranquilla, rafforzare il bi-lancio per modo da procedere alla conversionedel Debito Pubblico dal 4% al 3,50 od al 3%,anche sul mercato interno si opererà un bene-fico trasferi mento di capitali dagli impieghiimproduttivi in rendita dello Stato agli impie-ghi destinati a fecondare le industrie manifat-turiere e agrarie.

L’emigrazione del lavoro, che è il secondomezzo destinato a ristabilire l’equilibrio fra ifattori della produzione, avviene già sponta-neamente; ma av viene in modo disordinato ein proporzioni inferiori a quelle che sarebberonecessarie.

Vi sono intiere regioni, come le isole ed ilcentro d’Italia, donde non si emigra o si emi-gra poco; non già perché non vi sia tornacontoeconomico ad emigrare, ma perché le masserurali non sono in grado, per la loro ignoranza,

di comprendere la utilità della emigrazione, o,per l’innato miso neismo, non si sono abituateal pensiero di andare a vivere in un ambientediverso da quello in cui sono nate.

D’altra parte, la emigrazione avviene in mo-do disordinato, senza un obbiettivo chiaro epreciso dinanzi a sé, e si compie troppo spessoalla mercé degli appaltatori di emigranti perconto delle Repubbliche americane, le qualinon si curano del benessere dei nuovi venuti,ma solo dell’interesse dei grandi proprietari difazende caffettere o degli impresari di lavoripubblici.

Una saggia politica dell’emigrazione, laquale con mezzi non costrittivi ma educativipromovesse l’esodo della parte esuberante del-la nostra popola zione, siano operai manuali ospostati intellettuali, e incanalasse tutte questeforze vive, ed inutili nella madre patria, versole Repubbliche dell’Ame rica latina, in guisada promuovere la fondazione di nuclei potentie solidi di italiani, sarebbe la sola vera politicacoloniale adatta al momento presente in Italia.

Forse alcuni fra i provvedimenti, che in que-sto ar ticolo ho annoverato fra quelli più adattia promuo vere il benessere delle classi operaienel momento presente, non sono compresi nel-le domande fatte dai partiti operai nei loro pro-grammi minimi economici; a spiegare la cosadesidero ricordare soltanto come non sempresiano benefiche in definitiva le proposte chepiù facilmente fanno vibrare le corde dell’en -tusiasmo popolare, e che i grandi e duraturi be-nefici sono quasi sempre stati apportati allaumanità sof ferente da rimedi poco rumorosi edappariscenti, ma atti ad agire con vera efficaciasui sentimenti profondi che spingono gli uo-mini ad operare così nel campo economico co-me in tutti gli altri campi della attività umana.

NOTE

1 Ecco dunque un magnifico tema che l’ami-co Einaudi, se crede, potrà trattare a suo agioin queste stesse colonne. Per la verità, ci sialecito rammentare che la Critica ha reso popo-lare in Italia, ripetutamente lodandolo e inscri-vendolo per molti anni nella sua Biblioteca dipropaganda, il magistrale libro del KAU -TSKY, tradotto dal BISSOLATI, Socialismo emalthusianismo, che sviscera appunto la que-stione; I’edizione, esaurita, non fu ancora ri-fatta, avendosi motivo di credere che il Kaut-sky, in una futura edizione tedesca, avrebbeespresso opinioni in parte modificate. Quantoall’appunto fatto alla stampa popolare e socia-lista ita liana, le lotte specialissime a cui fu si-nora costretta in Italia per difendere l’esistenzadel partito e le osservazioni che lo stesso Ei-naudi soggiunge nell’articolo suo le danno for-se qualche diritto di invocare a propria scusail majora premunt.

(Nota della CRITICA).

2 Una semplice e per ora dogmatica osser-vazione di fatto, di carattere un po’ meno otti-mista, Quando la verità avrà riconqui stato isuoi diritti e si potrà scrivere - senza timore diseque stri - la storia obiettiva e documentata deicosidetti moti del maggio 1898, sarà facile di-mostrare come l’avere i socialisti in gaggiatapoco prima e proseguita con grande slancio egrandis sima efficacia quella campagna perl’appunto che l’egregio Ei naudi preconizza, fuuna delle cause precipue che spinse i latifon-disti e conservatori italiani a scatenare quellagrazia di dio che tutti sanno per domare quella«rivoluzione» nella quale - come argutamenteosserva il Treves in questo stesso fasci colo -di veramente vero non v’è stata che la repres-sione.

(Nota della CRITICA).

10 ■ CRITICAsociale9 / 2011

C hi non ricordale descrizioni ter-ribili che si leggono nel Capita-le di Marx e l’analisi spietata a

cui egli ha sottoposto il funzionamento dellaeconomia contempo ranea? A molti le pagine,in cui Marx ha cercato di tracciare la traiettoriadella evoluzione economica quale balzava fuoridalla osservazione paziente dei fatti, sembranocostituire la parte più vitale dell’opera sua. An-che coloro, i quali credono oramai venuto iltempo di so stituire alla sua altre teoriche del va-lore, devono riconoscere che la sua critica delleistituzioni economiche non si può con altrettan-ta sicurezza ricusare, perché riposa sulla baseincrollabile della osservazione docu mentata edufficiale. La massa dei documenti spogliati dalMarx è davvero enorme. Tutte le inchieste, nel-le quali l’Inghilterra durante il nostro secolo hapalesate con franchezza grande e sentimentoprofonde di giustizia le piaghe sanguinolentiche turbavano i meandri più riposti della sua vi-ta economica, furono da lui lette, commentatee sfruttate. Ma il libro di Marx ormai è diven-tato in talune parti un po’ vecchio. Dopo il 1867la economia mondiale ha subìto profondi mu-tamenti. Nuovi fenomeni sono venuti alla lucee richieggono uno studio ed una spiegazione at-tenta. Le organizzazioni operaie erano nella in-fanzia; ancora non erano comparse le nuoveforme di contratti collettivi che, nella Inghilter-ra contemporanea, hanno per le maggiori indu-strie fatto scom parire le contrattazioni indivi-duali: ancora non si erano viste le Unioni arti-giane imporre agli industriali l’ado zione dellenuove macchine, sfatando cosi l’antico pre -giudizio che le società di resistenza si oppon-gano sempre e ciecamente ai perfezionamentiindustriali per tema di acuire la disoccupazioneed il ribasso dei salari. La colonizzazione deipaesi nuovi e l’intensificarsi delle comunica-zioni rapide non aveano ancora sostituito allecrisi ed alle rivulsioni periodiche la depressionelenta, continua, perdurante, nell’industria e nel-l’agricoltura; e non erano sorti in quel tempo inuovi giganteschi organismi, per cui alla con-correnza si sostituiscono i sindacati, i Kartelle,i trusts e le grandi Cooperative.

Dopo il 1867 le inchieste ufficiali si sonosuccedute nell’Inghilterra con metro ognor piùaccelerato; non c’è angolo riposto della vitaeconomica che non sia stato frugato e studiatocon amore e con cura nei grandi volumi a ca-rattere fitto, dove, con imparzialità suprema,si seguono le deposizioni di industriali e dioperai, di proprietari e di fittaioli, di conserva-tori e di socialisti. Basti ricordare le grandi in-chieste sui «vecchi poveri», sui «disoccupati»,sul «sistema del sudore» e, massima fra tutte,la inchiesta sul lavoro, la quale in 60 volumiraccoglie le testimonianze delle condizionidelle classi operaie, non nella sola Inghilterra,ma in tutto il mondo.

È chiaro come indagini di tal fatta, condottecon imparzialità scrupolosa e colla sola guidadell’amore del vero, possono riuscire vera-mente utili a chi si occupa di questioni sociali;le proposte di riforma solo per tal modo pos-sono riuscire adatte all’ambiente nel qualedebbono estrinsecare la loro efficacia. Chi nonvede di quanta importanza sarebbe in Italiauna inchiesta, libe ramente fatta alla luce delsole, senza vani segretumi, sulle condizionidegli operai, della proprietà fondiaria, del si-stema tributario! Le inchieste che si sono fatte

in Italia danno solo un pallido e falso concettodi quello che potrebbero essere e che sono inaltri paesi. Qui non la ricerca della verità ne èlo scopo, ma l’acque tamento di domande rin-novate ad alte grida coll’offa di riforme desti-nate a non venire mai.

Il sistema inglese delle inchieste sociali haavuto al trove imitatori e perfezionatori. NegliStati Uniti si è pensato che le inchieste inter-mittenti potevano riuscire bensì a svelare alcu-no dei lati della vita sociale, ma doveano ne-cessariamente lasciare da parte molti problemiinteressanti, sia perché estranei al loro oggettoprincipale, sia perché l’esame avrebbe richiestoun tempo di gran lunga superiore a quello di-sponibile. Sorse così il sistema delle inchiestepermanenti sui problemi del lavoro cogli Ufficidel lavoro. Il primo sorse nel Massachusset nel1869, diretto dal Wright ed ora dal Wadlin. Se-guirono l’esempio fortunato nume rosi altri Sta-ti, cosicché ora ben ventotto Uffici del la voroesistono nella Unione Americana. Eccone ledate di fondazione: 1872 Pennsylvania, 1877Ohio, 1878 New Jersey, 1879 Indiana, Missou-ri ed Illinois; 1883 Cali fornia, Wiscousin, NewYork, Michigan; 1881 Maryland e Jowa ; 1885Connecticut c Kansas ; 1887 North Caro lina,Maine, Minnesota, Colorado, Rhode Island,Nebraska; 1889 West Virginia e North Dakota;1880 Utah ; 1891 Tennessee; 1893 Montana eNew Hampshire; 1895 Washington, Nel 1884veniva creato, a coronamento finale dell’edifi-cio, un Ufficio del lavoro nazionale, e nel 1888veniva trasformato in un vero Ministero del la-voro (Departmcnt or Labor) sotto la direzionedi Carroll D. Wright.

Quali sono le funzioni e gli scopi degli Ufficiameri cani del lavoro? Prendiamo ad esempio ilDipartimento nazionale del lavoro, il qualevanta un corpo di 75 im piegati stabili, oltre anumerosi altri temporanei. Esso pubblica unaserie di Rapporti annuali speciali ed un Bollet-tino bimestrale. Gli argomenti su cui le indaginidevono farsi sono sempre del più alto interesse.I Rap porti annuali descrivono, ad esempio, ledepressioni industriali, il lavoro dei carcerati,gli scioperi (3000 pa gine in tutto e circa 15 milascioperi dal 1° gennaio 1881 al 30 giugno1894), il lavoro delle donne nelle grandi città,il lavoro dei ferrovieri, la educazione industria-le, le associazioni di costruzioni e prestito. Gio-va ricordare in ispecial modo la inchiesta sulcosto di produzione, per compiere la quale unvero corpo di statistici visitò numerose fabbri-che americane ed europee, studiando, oltre aibilanci industriali, anche i bilanci di operai eriuscendo ad interessantissime conclusioni sul-le condi zioni e la efficienza del lavoro nelle va-rie nazioni. I Rapporti speciali, pubblicati senzauna periodicità fissa, si occupano di argomentinon meno interessanti, come il divorzio, le leg-gi sul lavoro, la assicurazione obbli gatoria, iltraffico dei liquori, gli slums (quartieri po veri)delle grandi città, le case operaie.

Il Bollettino bimestrale raccoglie i risultati diindagini non ampie così da giustificare la pub-blicazione di un volume; fra gli studi in essopubblicati mi basti ricordare una serie di articolidel Willoughby sulle Comunità in dustriali. Tut-ti sanno dell’audace tentativo del Pullmann, ilfamoso costruttore di vetture ferroviarie di lus-so, il quale volle che a lui non solo appartenessela fabbrica, ma anche la intiera città dove abi-tavano i suoi operai. Il saggio gigantesco di pa-

tronato non impedì che nel 1893 scoppiasseuno sciopero terribile a Pullmann-City, il qualepoco mancò non affamasse Chicago. Il Diparti -mento del lavoro, per studiare le cause dell’in-successo del Pullmann, mandò in Europa ilWilloughby coll’in carico di riferire sui tentativianaloghi che ivi si fos sero fatti; e nella relazio-ne dell’inviato ci sfilano din nanzi agli occhi ledescrizioni delle miniere di Anzin, di Blanzy,di Mariemont, della Vieille-Montagne, deglistabilimenti di Krupp, del familistero di Guise,delle ferriere e delle acciaierie del Creuzot, del-la fabbrica di cioccolatte del Menier. L’intentodella inchiesta era di determinare quali istitu-zioni caratteristiche provochi il sorgere dellagrande industria; quali influenze sociali essoeserciti e come attorno alla fabbrica nasca na-turalmente e necessariamente una nuova formadi con sociazione, a ragione detta «comunità in-dustriale». Il problema è del più alto interesseper tutti quelli che vogliono fondare le loro pre-visioni del futuro sulle ten denze attuali, e l’in-chiesta compiuta dal Dipartimento americanodel lavoro merita il plauso di tutti gli inda gatoridelle nuove forme che sbocciano dal seno dellavita industriale moderna. A dimostrare comesvariati siano gli oggetti a cui si rivolge l’inda-gine del Ministero del lavoro, noterò ancora co-me, nell’ultimo fascicolo del Bollettino, il si-gnor Koren narra i risultati di una inchiesta in-trapresa sulle condizioni degli italiani negli Sta-ti Uniti. L’articolo, intitolato: The padrone sy-stem and padrone Banks, contiene rivelazioniche fanno racca priccio sullo sfruttamento inu-mano a cui i nostri emi granti sono assoggettatida parte dei loro stessi con nazionali.

Né meno importanti sono le indagini con-dotte a ter mine dagli Uffici del lavoro dei variStati. L’Ufficio del Massachusset ha acquistatouna fama grandissima per la importanza dei la-vori condotti a termine, per l’am piezza e la im-parzialità delle ricerche compiute. Dal -l’abbandono delle campagne all’affollamentonelle grandi città, dalle variazioni dei salariagli scioperi, dal saggio dei profitti alla distri-buzione della ricchezza, dai fitti cittadini al-l’ubriachezza ed all’alcoolismo, non c’è argo -mento importante per la vita sociale modernasu cui l’Ufficio del lavoro di Massachussetnon abbia rivolta la sua attenzione. E i risultatidelle indagini, raccolte in forma compatta, ele-gante ed accessibile mediante copiosi riassun-ti, formano la base su cui si è andato erigendoun complesso di leggi sociali profondamentepensate e maturate.

La importanza degli Uffici del lavoro ameri-cani è appunto questa: di localizzare i mali edadditare i rimedi più efficaci e pronti per com-batterli. Ciò è stato com preso molto bene dalleorganizzazioni operaie; i Knights of Labor pro-vocarono infatti, con una agitazione potente, lafondazione del Ministero nazionale del lavoro;ed i giornali operai commentano e discutonocon ardore i Rapporti annuali, servendosene co-

me di un’arme po tente nella lotta pel migliora-mento delle condizioni delle classi lavoratrici.

Gli Uffici del lavoro hanno fatto ancoraqualcosa di più. È nota anche in Italia la pro-paganda vivissima condotta nei paesi anglo-sassoni dal George a favore della nazionaliz-zazione del suolo; nella Critica Sociale del 15aprile G. Solari descriveva le applicazioni ten-tate nella Nuova Zelanda delle teoriche geor-geane. Nei rapporti degli Uffici del lavoroamericani si trovano profonde le tracce di talemovimento, la cui importanza è sul con tinenteeuropeo scarsamente valutata. L’Ufficio delMi chigan, ad esempio, ha studiato l’ampiezzadelle rendite affluenti nelle casse dei proprie-tari di miniere e di fo reste; la distribuzione del-la terra fra le varie classi sociali; la relativaquota spettante ai salariati, ai ca pitalisti ed aiproprietari sul prodotto totale; e le sue indagi-ni, se fossero più ampiamente conosciute, for-ni rebbero vasto campo di meditazioni a coloroche vo gliono compiuta la apologia o la criticadelle istituzioni attuali su una base reale, nondisperdendosi in astra zioni troppo vaporose etroppo poco adatte a collegare l’azione rifor-matrice col pensiero critico e ricostruttore.

Splendida prova finalmente della utilità de-gli Uffici del lavoro ci è data dall’ottavo Rap-porto dell’Ufficio del l’Illinois sul sistema tri-butario. Ecco quale è lo scopo propostosidall’Ufficio: «Nel descrivere l’attuale sistematributario, l’Ufficio del lavoro ha voluto dimo-strare come la concentrazione delle fortune siafacilitata, come si im pongano gravami sull’in-dustria e si impoverisca il lavoro per mezzo diun sistema fiscale vizioso. Il Rapporto perònon ha solo uno scopo fiscale, e vuol provareche ogni privilegio concesso dalla legge a sin-goli individui, per mezzo dei quali essi sianoin grado di sfruttare i loro simili, costituisceuna vera tassa. L’argomento svolto nel Rap-porto acquista perciò una importanza grandis -sima per tutti coloro i quali vogliono progre-dire verso una vita industriale più armonica,dove l’equità sia il fondamento dell’organismoeconomico e la legge del l’eguale libertà sia lalegge della vita sociale.» Le parole compresefra le virgolette si leggono in un documentoufficiale, il quale è forse l’atto di accusa piùspietato che sia mai comparso, per bocca digovernanti, contro la appropriazione privatadella rendita dei terreni edilizi e contro la le-gislazione tributaria di classe. In pochi giornila prima edizione fu esaurita, e una seconda diventimila copie soddisfece a mala pena allemoltiplicate richieste; la English Land Resto-ration. League lo vende in Inghilterra a scopodi propaganda, quantunque si tratti di un vo-lume di 400 pagine, irto di tabelle sta tistiche.

Il breve e scarno cenno da me dato invoglie-rà, spero, molti a leggere i Rapporti degli Uf-fici del lavoro ame ricano ed a riconoscerne laimportanza, non solo scien tifica, ma anchepratica. s

EINAUDI E LA CRITICA ■ 1897 FASCICOLO 10 PAGINA 151

UFFICI AMERICANI DEL LAVORO

Luigi Einaudi

O ra che la guerra anglo-boera haattirato l’at tenzione del pubbli-co sull’Africa meridionale, a

me è venuto in mente di narrare ai lettori dellaCri tica Sociale la storia di uno dei più curiosifeno meni economici dell’ultimo quarto di se-

colo: la storia delle miniere di diamante del Ca-po e del loro progressivo accentramento in unasola grande intrapresa monopolistica, domina-trice della produ zione e del mercato mondiale.

Chi voglia immaginarsi nettamente la formadelle miniere diamantifere del Capo, deve fi-

EINAUDI E LA CRITICA ■ 1899 FASCICOLO 20 PAGINA 312

LA FORMAZIONE DI UN MONOPOLIO

Luigi Einaudi

CRITICAsociale ■ 119 / 2011

gurarsi il cratere spento di un vulcano, riem-pito di una terra gialla alla superficie, azzur-ro-verdastra poi, la quale, a guisa di un enormecilindro, si sprofonda indefinitamente nel suo-lo. In questa terra sono disseminati i diamanti;ed i limiti del cratere e della terra gialla ed az-zurra segnano anche i limiti della miniera.

Subito dopo la scoperta (1869) i minatoriaccorsi da tutte le parti del mondo si precipi-tarono sull’af fioramento protuberante dellaterra gialla. Ora, quando in un paese deserto,dove non esiste nessun Governo regolare, ac-corrono i minatori attratti dalla fama della sco-perta di un nuovo Eldorado, avviene un fattocurioso: la costituzione di una società econo-mica egualitaria dove nessun uomo è il sala-riato di un altro, dove nessuno può posse derepiù di un determinato tratto di terreno. Chigiunge prima deve contentarsi di un claim(tratto di terreno supposto mineralizzato)uguale a quello di coloro che giungono poi. Ilclaim deve essere lavorato ogni giorno; e chiper più di uno o pochi giorni abbandonasse illavoro senza giustificato motivo, perde ognidiritto; il suo claim può essere occupato da al-tri. La giustizia è sommaria; le sen tenze sonorese dai liberi minatori adunati in as sembleaed il colpevole viene senz’altro appiccato adun ramo dell’albero più vicino, ovvero, nei ca-si leggeri, è condannato all’esilio, il che signi-fica spesso la morte nel deserto sconfinato.

Così avvenne a Kimberley quando si scoper-sero le miniere di diamanti. Ogni cercatore nonpoté occupare più di un claim quadrato di 31piedi (m. 9,45) di lato, circa 100 metri quadrati.La miniera prese l’aspetto di un ampio scac-chiere diviso ad angoli retti in piccolissimi ap-pezzamenti, su cui ogni minatore, munito di unpiccone e di un ap parecchio di lavatura, lavo-rava e godeva da solo i frutti del proprio lavoro.

Come nelle alluvioni aurifere, il lavoro nonpo teva essere interrotto nemmeno per malattia.Il claim rimasto sette giorni senza lavoro po-teva es sere occupato (jump) dal primo venuto.I claims furono divisi ben presto in quarti, inottavi, in sedicesimi, i quali si estendevano per6 metri qua drati circa. Nel 1871 i proprietarierano più di 1800 nella sola miniera di Kim-berley. L’aspetto di tutti questi minatori, lavo-ranti disuniti sul proprio ap pezzamento, ansio-si di sbarazzarsi a vicenda dei detriti delle la-vature, scaricandoli sul pezzo del vicino, erasommamente curioso. La questione dei detritidelle lavature assunse ben presto una grandeimportanza. I minatori d’accordo dovetterostabilire una servitù di passaggio che permet-tesse a quei che stavano nel centro di traspor-tare fuori del campo le proprie materie ingom-branti. Si riservò una strada di m. 4,70 ognidue file parallele di claims; siccome si era per-suasi che la miniera fosse alluvionale e si do-vesse esaurire in breve, si promise ai proprie-tari del tratto confiscato a scopo di strada direstituirlo appena si fosse giunti alla fine delleterre diamantifere.

Le previsioni di prossimo esaurimento furo-no smentite dai fatti. Nel 1873 i claims eranogià sca vati a 30 metri di profondità; le 10 o 12strade parallele erano cadute, e la miniera ave-va preso l’aspetto di un vero cratere di vulcano.I claims, separatamente lavorati da migliaia diminatori a livelli diversi, formavano un bizzar-ro miscuglio di terrazzi, torri, muraglie, in mez-zo a cui si agitava febbrilmente una popolazio-ne di 12 mila lavoratori. La lavorazione si com-pieva coi mezzi più rudi mentali. La terra dia-mantifera si abbatteva, col piccone; il trasportodal fondo della miniera alla superficie del suolosi faceva prima su carrette e poi, quando le stra-de caddero, a dorso d’uomo. Man cava l’acquain guisa assoluta, ma per fortuna la terra gialladella superficie si riduceva subito in sabbia fi-nissima, cosicché la ricerca del diamante con-

sisteva in una semplice crivellatura a mano fat-ta ai confini della miniera. I detriti si accumu -lavano tutt’intorno alla miniera sulla pareteverti cale di terreno sterile, detto reef, e forma-vano dei mucchi alti 7 od 8 metri.

Nel 1873 le condizioni territoriali, che ave-vano permessa la costituzione egualitaria dellaproprietà ed avevano fatto nascere la figura delminatore iso lato, erano scomparse e già si fa-ceva sentire urgente il bisogno di forti capitali.Al terreno giallo (blue yellow) friabilissimo, sisostituì improvvisamente il terreno azzurro(blue ground) duro e lento a disgregarsi. Funecessario abbatterlo colla dinamite e deposi-tarlo per lungo tempo sui floors, ampi spazi diterreno situati al di fuori della miniera, affin-ché l’azione lenta del tempo lo riducesse inpolvere. Il trasporto a spalla e su carrette es-sendo diventato impossibile per l’approfondi-mento della miniera, fu necessario impiegaremezzi meccanici di estrazione. Si costruì sullaparete sterile un’impalcatura con tre o quattropiattaforme sovrapposte. Da ogni piattaformapartivano dei fili di ferro che giungevano aivari claims della miniera; la terra diamantiferaera fatta salire in otri di pelle rotolanti su questifili per mezzo di puleggie mosse da negri. Laminiera prese l’aspetto di un enorme buco, tut-to coperto da una gigantesca tela di ragno, for-mata da pochi fili metallici che servivano adelevare gli otri, pieni di pochi litri di terra dia -mantifera.

I minatori, che popolavano un claim od unafra zione di claim, non potevano far fronte aqueste spese. Il Kimberley Mining Board do-vette auto rizzare la riunione di dieci claims edil loro pos sesso da parte di una sola persona.A poco a poco i più fortunati fra i minatori, cheavevano saputo accumulare un certo capitalecogli scavi superfi ciali, riuscirono a riunire pa-recchi claims; coll’ac crescersi dell’ampiezzadelle singole imprese si co minciò a sostituirela puleggia a mano coi maneggi a cavallo; i re-cipienti diventarono di metallo e crebbero didimensioni, sì da contenere alcuni piedi cubicidi terreno. S’introdusse anche il primo me todoregolare di estrazione meccanica col tram supiano inclinato.

La necessità dei capitali diventò più sentitaquando i minatori si avvidero che la terra az-zurra, non solo doveva essere lasciata decom-porre lentamente sui floors, ma che era impos-sibile crivellarla allo stato asciutto come si cri-vellava la terra gialla. Si dovettero inventareed impiegare le prime macchine da lavaggio,mosse a mano. Per trovare l’acqua si scavaro-no numerosi pozzi sui floors; e la ne cessità discavare i pozzi ad una certa distanza gli unidagli altri, fece sì che si dovessero ampliare ifloors, e ne determinò l’allontanamento sem-pre maggiore dalla miniera. A sua volta questoallon tanamento costrinse a sostituire le carrettecolle tranvie a cavallo pel trasporto del mine-rale dalla miniera al floor. D’altra parte, la pa-rete verticale sterile non resistette a lungo allapressione dell’impalcatura e dei detriti che siaccumulavano su di essa; numerose cadute disterile nel vuoto, che diventava sempre piùprofondo, della miniera, fe cero sospendere ilavori e furono l’indizio primo della necessitàdi sostituire, ai lavori fatti disordi natamente al-l’aperto, la coltivazione metodica per mezzodi gallerie sotterranee. Dovette costituirsi unMining Board per trasportare lo sterile che lecadute incessanti della parete accumulavanosui claims. Sotto la pressione della crescentedifficoltà dei lavori, la scomparsa dei coltiva-tori indipendenti si compié rapidamente. Solole grandi Compagnie potevano ormai posse-dere i capitali necessari alla lavorazione siste-matica delle miniere. Alla fine del 1880 alcuneCompagnie possedevano non meno di 20claims ed il numero dei proprietari a Kim -

berley non superava i 100. In confronto dei1800 liberi minatori del 1871 il concentramen-to aveva compiuto progressi notevolissimi.

Né il processo di accentramento si fermaqui; le cause territoriali e tecniche, che rendo-no neces sario l’impiego di forti capitali e la la-vorazione in grande, si accentuano ognora più.Gli anni dal 1880 al 1885 sono caratterizzatiappunto dal moltiplicarsi continuo delle fusio-ni e dalla sostituzione completa di grandiCompagnie ai proprietari singoli. Nel gennaio1880 fu creata la Compagnie Française desMines de diamant du Cap per amalgamare pa-recchie grandi proprietà della miniera di Kim-berley. Questa Compagnia possedeva più delquarto dei claims registrati dalla miniera e suoscopo era di amal gamare a poco a poco tuttala miniera di Kim berley e formare una Com-pagnia unica di lavora zione. Gli altri proprie-tari, che lottavano da pa recchi anni con pocosuccesso contro le difficoltà crescenti della la-vorazione, si aggrupparono allora fra di loro eformarono un certo numero di So cietà fra cuila miniera era divisa: principali fra di esse laCentral Company, la British Company, laStandard Company ed il Gruppo Barnato. Nel1881 le Società anonime erano in numero di15 con un capitale di 75 milioni. Ai lavori al-l’aperto succedettero i lavori sotterranei; ledue principali Compagnie, la Centrale e laFrancese, con grande alacrità costruirono, al-l’infuori della. miniera, dei pozzi profondi,donde poi con gallerie si procedette ad aspor-tare la terra diamantifera.

Le esagerate speranze riposte nella capacitàdelle Compagnie a superare gli ostacoli frap-posti dal l’approfondirsi dei lavori e dall’im-piego di macchine costose condussero nel1883 ad uno di quei boom che sono così fre-quenti nella storia delle miniere. Mentre dal1877 al 1880 i migliori claims potevano esserecomprati per 60-125 mila lire, i pochi claimsliberi salirono nel 1883 ad un milione di lire.Le azioni delle Società minerarie in pochi me-si tripli carono e quadruplicarono di prezzo,portando il valore apparente della miniera alprezzo fantastico di più di 200 milioni di lire.Come al solito, i ri sultati non corrisposero su-bito alle speranze nutrite, i proventi furonodapprima nulli o negativi. La speculazione,non sostenuta da immediati dividendi, si raf-freddò: il prezzo dei diamanti cadde e le azionierano quotate nel 1885 al 30 - 50 % al disottodella pari. Ciò favorì un’ulteriore concentra-zione delle imprese. A Kimberley tre sole ave-vano una certa importanza, la Francese, laCentrale e la Standard; a De Beers una solapossedeva quasi tutta la miniera: la De BeersMining Co. La col tivazione tendeva manife-stamente a concentrarsi in poche mani.

Trasformati i coltivatori singoli in potentiCom pagnie, un duplice problema rimaneva darisol vere: tecnico e commerciale. Sottol’aspetto tecnico era evidente che ognuna dellecinque miniere non poteva essere coltivata inmodo da trarre il mas simo profitto se non al-lorquando fosse nelle mani di una sola Societàinspirata ad un unico principio direttivo nei la-vori. Dopo l’adozione dei lavori sot terranei, ladivisione di ogni miniera fra varie Società si-gnificava non solo spese generali strava ganti,ma processi continui e difficoltà incessanti perla delimitazione dei confini, lo scolo delle ac-que, ecc., ecc. A Kimberley e De Beers si era-no costruiti sette od otto pozzi, mentre due sa-rebbero bastati. La sovrapposizione di gallerieappartenenti a Società diverse, l’esistenza diuna mezza dozzina di sistemi di lavori diffe-renti cagionava uno spreco di forze considere-vole, al quale si poteva mettere termine soloper mezzo di un’unica direzione.

Se le condizioni tecniche dell’industria ri-chiede vano la fusione di tutte le Società di ogni

miniera in una sola, le condizioni del commer-cio diaman tifero rendevano utilissima agli in-teressati la amal gamazione di tutte le minierein una sola grande Compagnia. Il diamante èuna sostanza il cui pregio dipende un po’ dallasua bellezza, ma sopratutto dalla sua rarità. Peresso non è possibile affermare che il consumocresce col diminuire il prezzo, anzi è vero l’op-posto. I ricchi amano adornarsi di dia manti so-lo perché questi sono costosi; se venissero allaportata di tutte le borse, nessuno più ne com -prerebbe. Ora la rivalità fra le Compagnie dia -mantifere minacciava di condurre a risultati di-sastrosi per gli azionisti. La media della produ-zione nel trentennio 1867-97 è stata all’incircadi 2 mi lioni di carati. Negli anni 1886-88,quando più ferveva la lotta fra le varie Società,la produzione era aumentata enormemente: nel1887 si era giunti a 3.646,899 carati. Ed i prez-zi avevano cominciato a scendere a precipizio;da 33,40 lire per carato in media nel 1882, siera scesi a, 25,47 nel 1883, 24,32 nel 1885 e25,25 nel 1888. La corsa al ribasso si sarebbeprolungata senza via d’uscita se le Com pagniecolla loro concorrenza reciproca avessero de-moralizzato un mercato sensibilissimo alle mi -nime variazioni dell’offerta.

Sorse allora un uomo, il quale comprese che,per fare scomparire le perdite ed accresceresmisura tamente i profitti delle miniere, conve-niva fonderle tutte in una sola Compagnia gi-gantesca. L’uomo era Cecil Rhodes, il famosoNapoleone dell’Africa. Nell’assemblea del 31marzo 1888 della Società De Beer’s, di cui egliera il direttore, il Rhodes espose il suo pro-gramma: comprare tutte le altre miniere e tra-sformare la De Beer:s, proprietaria di una solaminiera, nella De Beer’s consolidated Mine, si-gnora di tutti i diamanti del Capo.

Un anno dopo, lo scopo, nelle linee generali,era raggiunto. Sarebbe troppo lungo narraretutte le peripezie attraverso le quali si riuscì adunificare la produzione diamantifera: fu unaguerra incruenta, in cui non mancarono le im-boscate, i raggiri di Borsa e le manovre che lamorale condanna come disoneste. La lotta fuviva specialmente colle due Società, la fran-cese e la Central di Kimberley, che ottenevanoprofitti discreti e si apprestavano a re sistere acolpi di ribasso nel prezzo dei diamanti controle mire ambiziose ed assorbenti della De Be-er’s. Rhodes le prevenne comprando tacita-mente i loro titoli in Borsa e votando la fusionedella Società colla De Beer’s appena ebbe unnumero sufficiente di azioni per far prevalerela sua volontà nelle assemblee. L’acquisto del-le altre miniere fu più facile, in quanto molteSocietà non distribuivano dividendi e furonoben liete di accettare le auree offerte del Rho-des. Dopo la fusione di tutte le mi niere esisten-ti, si scoprì nel 1890 la nuova impor tante mi-niera di Wessetton; la De Beer’s s’affrettò acomprare anche questa.

Nel 1890 il processo di unificazione eracompiuto; la De Beer’s avea comprato per375.000.000 di lire, somma enorme, ma nonsproporzionata ai benefizi ottenuti, il monopo-lio quasi assoluto di tutte le miniere del Capo.Una sola miniera importante, quella di Jager-sfontein, situata nello Stato di Orange, non èstata assorbita dalla Compagnia monopolizza-trice. Ma siccome la Jagersfontein pro ducediamanti di qualità superiore, i quali non muo-vono concorrenza ai diamanti della De Beer’s,e siccome un accordo esiste fra le due Com-pagnie rispetto allo smercio, si può senza esi-tazione affer mare che la De Beer’s regola a suaposta la pro duzione e l’offerta dei diamanti nelmondo intero. Nove decimi della produzionediamantifera del mondo spettano alla De Be-er’s L’altro decimo è frazionato fra la Jager-sfontein. e le numerose mi niere insignificantiestranee al monopolio.

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N ella Critica Sociale del 16febbraio sono esposte al cuneconsiderazioni di Luigi Ne-

gro su La guerra anglo -boera, le quali merita-no un attento esame. Il Negro, partendo dallapremessa che lo sviluppo del capitalismo siafavorevole ai progressi del partito socialista,era tratto a discutere il quesito se lo scacco in-glese sia per nuocere o giovare allo sviluppodel capitalismo nelle nazioni continentali. A menon importa ora esaminare la premessa relativaai rapporti fra capitalismo e socia lismo. Essaracchiude un problema molto complesso; forsepiù complesso di quanto si immaginino molti.In tendo ora soltanto vedere se la soluzione, cheil Negro dà al quesito da lui posto, sia esatta, ese una disfatta inglese sia augurabile davveroallo scopo di promuovere il progresso cosidettocapitalistico degli altri paesi di Europa.

Il Negro afferma che la guerra transvaalianaè scop piata per sfondare il vicolo cieco in cuisbocca la pro duzione inglese, per aprire all’in-dustria inglese una via sicura ed un mercatoproprio, esclusivo, difeso dalla concorrenzaestera. Oramai la concorrenza internazio naleminaccia di strappare all’Inghilterra il mono-polio secolare della produzione e dei commer-ci; i Tedeschi portano le loro merci vittoriosesul suolo medesimo del l’Inghilterra e delle suecolonie. Occorre mettervi riparo. L’imperiali-smo, avverte anche Ivanoe Bonomi nell’arti -colo che immediatamente precede quello delNegro, sta appunto trasformando i domini in-glesi in un vastissimo mercato chiuso. Unaenorme barriera doganale chiuderà l’Impero,impedendo alle merci estere, francesi, ameri -cane, tedesche, italiane, di penetrarvi, Su que-sta vastis sima distesa di territorio regnerà so-vrana la grande industria inglese, la quale battefreneticamente le mani al suo eroe Chamber-lain, poiché spera che, finita la guerra, essa po-trà spadroneggiare da sola nel nuovo Imperoanglo-sassone. Essa riacquisterà quello slan-cio, che ora sembra smarrito di fronte alla in-vadente con correnza estera. Una incessantefiumana d’oro scorrerà verso la ricca Albione,mentre la miseria e lo squallore si diffonderan-no sul continente europeo. Un terribile mara-sma industriale e commerciale si ripercuoterànon solo sulla borghesia della restante Europa,scemandone i profitti, ostacolandovi lo svilup-po del capitalismo, ma anche sulla stessa clas-se operaia non inglese, minacciata di un’altadisoccupazione permanente e di salari di fame.Un’era di scioperi, di disoccupati, di miseria,ecco l’ul tima parola del mantenimento dellasupremazia inglese sul mercato mondiale.

Non nego che il quadro della conseguenzadi una vittoria inglese sul Transvaal sia splen-dido per l’Inghil terra e bruttissimo per noialtricontinentali. Ma c’è molto da dubitare che le

cose abbiano ad andare precisamente così.Esaminiamo partitamente le premesse da cuidi scendono le conclusioni del Negro.

In primo luogo da che cosa deriva questomonopolio secolare, onde gode tuttora in partel’industria inglese? Alla domanda si possonodare due risposte, fondamen talmente diverse.

a) Il monopolio attuale è il pallido riflessodel mo nopolio antico che l’Inghilterra conqui-stò durante secoli di protezione doganale. Rin-chiusa nei suoi confini e protetta dalla concor-renza estera, l’Inghilterra sviluppò le sue indu-strie ad un grado di perfezione straordinaria,mentre le altre nazioni rimanevano nell’infan-zia e nella miseria. Poi, quando le sue industriefurono divenute grandi, e cogli Atti sulla navi-gazione furono distrutte le marinerie estere,l’Inghilterra proclamò il libero scambio edinondò il mondo coi prodotti delle sue fab -briche, il cui capitale era già ammortizzato, econtro cui le giovani fabbriche europee non po-tevano lottare. Fu il periodo della massima po-tenza economica per l’Inghilterra, la quale, for-te del suo monopolio, sfruttava i mercati esteriimpoverendoli e riducendoli in istato quasi divassallaggio. - La spiegazione non spiega nul-la. La protezione doganale dei secoli scorsi im-poverì forse l’Inghilterra, ma non cooperòniente affatto alla fioritura delle sue industrie,a ben altre cause dovuta. Chissà per quale mi-steriosa cagione le industrie si svilupparononella protetta Inghilterra, e rimasero rachitichenelle egualmente, protette, Francia, Germania,Italia, ecc.? Lo sviluppo - delle industrie o, co-me si suol dire, del capita lismo non può rite-nersi dovuto ad una causa la quale esisteva an-che laddove non si produsse quell’effetto. Neimanuali di logica si dice effetto di una certacausa quel fenomeno che si manifesta semprequando esiste il fe nomeno detto causa. Nel ca-so nostro l’effetto (sviluppo del capitalismo) sisarebbe prodotto nell’Inghilterra e non negli al-tri paesi, malgrado che in tutti la medesima pre-tesa causa (protezione doganale) fosse presen-te. Il che prova, se non altro, che la protezionedoganale ebbe ben poco a vedere col progressoeconomico dell’Inghil terra.

b) Lo sviluppo economico dell’Inghilterra èpalese mente dovuto alle condizioni naturali edacquisite che favorirono e favoriscono tuttora,sebbene in grado rela tivamente minore, l’In-ghilterra: esistenza di grandi giacimenti carbo-niferi, impulso allo sviluppo della marineriamercé i trasporti di carbone dal Northumber-land a Londra (vivaio dei marinai inglesi) emercé i noli di ritorno assicurati col carico dicarbone in zavorra; vicinanza delle miniere diferro alle miniere di carbone; spirito di libertàe di indipendenza del popolo inglese che lorendeva insofferente del giogo e dei vincoli acui i produttori continentali erano sottoposti;

tranquillità del territorio immune da invasioniestere e da guerre civili; sicurezza e pace in-terna, che permisero la formazione del capitaleed assicurando la proprietà dei frutti del pro-prio lavoro, incitarono alla formazione di im-prese ed alle invenzioni industriali, prolificitàdella popolazione che, espandendosi nelle co-lonie, diede origine a scambi proficui collamadre patria; spropositi dei Governi con -tinentali che, col pretesto di favorirla, impo-verirono la ricchezza nazionale ed impedironolo sviluppo delle in dustrie che avrebbero po-tuto lottare colle industrie in glesi; abolizionedel sistema antico dei soccorsi obbliga torii adomicilio ai poveri, che avea finito per degra-dare la popolazione operaia inglese, inducen-dola a poltrire nell’ozio e nella sicurezza di po-tersi far mantenere dai poteri pubblici; libertàdi coalizione e di sciopero, ine sistenza del ser-vizio militare, inesistenza della piccola pro-prietà, che favorirono la formazione di unaclasse operaia ardita, abile, intraprendente,abituata a fidare solo su sé stessa e non sulleeredità paterne e su ap poggi di qualsiasi gene-re; mitezza e giustizia ognora crescente del si-stema tributario, alimentazione a buon merca-to grazie al sistema del libero scambio, ecc.,ecc. Queste le cause più evidenti del cosidetto“monopolio industriale inglese”.

In secondo luogo: è utile alle nazioni conti-nentali che codesto monopolio scompaia?

Se si riflette che l’unico modo con cui il“monopolio inglese” può debellare la concor-renza continentale si è quello di vendere a mi-glior mercato, francamente noi dobbiamo au-gurarci che i continentali sappiano profittaredelle condizioni loro naturali e sappiano ac-quistare qualità tali da perfezionarsi semprepiù nelle industrie, costringendo in tal modo il“monopolio inglese” se pure vuole conservarela sua supremazia, a perfezionarsi ancora dipiù. Questo è l’unico modo con cui è possibilesperare di fare star meglio le nostre classi ope-raie, la borghesia nostra, pure dando guadagniconvenienti agli aborriti inglesi. Io vorrei sa-pere quale è il danno per l’Italia se gli inglesile vendono il panno a 5 lire al metro, mentresul mercato interno si potrebbe com prarlo solopagandolo 6 lire; e vorrei anche sapere qual èil danno degli operai italiani se gli operai in-glesi, pure, vendendo il panno a prezzo mino-re, riescono a guadagnare 5 scellini al giorno.Francamente non ne vedo nessuno.

Il Negro discorre dell’adunca e rapace manodel capi tale britannico, che si stende sul pro-fitto della borghesia straniera e sul salario delproletariato continentale, il quale vive, rachi-tico male rimunerato, votato alla disoccupa-zione crescente. Ora tutte queste reminiscenze,non so se di Marx o di Èngels, sono, mi per-doni il Negro, chiacchiere senza costrutto.Prenda il Negro in mano il primo manuale, chegli capita, di Economia po litica, e si persuade-rà che gli operai ed i capitalisti in glesi guada-gnando 5 scellini al giorno e profittando colvendere il panno a 5 lire al metro, non solo nonrubano un centesimo a noialtri italiani, ma cirendono un vero servizio da amici affezionati,inducendoci ad impiantare fabbriche di pannosolo quando la forza motrice idrau lica, le qua-lità acquisite della nostra maestranza, ecc., cipermettono di produrre anche noi il panno a 5lire, e stimolando colla concorrenza a dedicareil capitale ed il lavoro nostri a produrre vino,o fiori, o agrumi, o ad esercire alberghi, od afare insomma quel qualsiasi me stiere in cuinoi riesciamo meglio. Si può dire, rove sciandola proposizione del Negro, che la concorrenzadel monopolio inglese, è un coefficiente pode-roso dello sviluppo industriale di ogni nazioneed è la generatrice di un proletariato organiz-zato e rimunerato con salari alti e normali;giacché, come dice benissimo il Negro, il sa-

lario può aumentare soltanto coll’aumento del-la ricchezza nazionale, e questa cresce quantopiù capitale e lavoro si indirizzano agli impie-ghi più proficui; e, ciò accade tanto più quantomeglio urge la concorrenza straniera e nel casonostro la concorrenza del cosidetto “monopo-lio inglese”.

Nulla importa che lo sviluppo industriale ditutti i paesi sia omogeneo, come vorrebbe ilNegro; poiché in verità sembra molto difficilenon solo dimostrare i be nefici, ma persino de-finire il significato di questo “svi luppo omo-geneo”. Qualunque ne sia la ignota defini -zione, lo “ sviluppo omogeneo” del capitali-smo in tutti i paesi è il risultato della liberaconcorrenza, ed allora esso si attuerà megliosotto l’impulso del buon mercato dei predettiinglesi cosidetti monopolistici ; od invece sipuò raggiungere soltanto distruggendo la con-correnza dell’adunco capitare britanno e pro-teggendo le industrie nazionali contro le suenefaste inondazioni di merci a bassi prezzi, edallora si può star sicuri che lo “sviluppo omo-geneo” partorirà in definitiva danni e miseriaalle nazioni da esso deliziate. La persistenzadel cosidetto “monopolio inglese” non puòavere altro effetto che questo: di incitare le na-zioni continentali a raggiungere il più veloce-mente possibile quello stadio di sicurezza pub-blica, di rispetto alla proprietà altrui, di utiliz-zazione razionale delle proprie energie natu-rali, di educazione operaia, di iniziativa intra-prendente, che formano l’unica base su cuipoggiano i resti ancora esistenti del “mo -nopolio inglese”. In verità noi ci dobbiamo,augurare, che non solo l’Inghilterra conservi,ma che i continen tali raggiungano ben prestoquesto preteso stadio “monopolistico”.

In terzo luogo: è utile all’Inghilterra ed allecolonie rassodare il vacillante “monopolio in-glese” erigendo attorno ai possedimenti dellagraziosa regina una bar riera doganale controtutte le provenienze estere?

Se l’esperienza storica servisse a qualcosa,essa ba sterebbe ad autorizzare una risposta ne-gativa. L’Inghilterra e le colonie sono cosìconvinte dell’utilità della federazione dogana-le pan-britannica, che, quando Chamberlain,durante l’epoca del giubileo della regina Vit -toria, propose uno schema analogo ai primiministri delle colonie radunati a Londra,un’opposizione vivissima si manifestò nell’In-ghilterra e nelle colonie, per modo che non siconcluse nulla. E l’insuccesso delle propostedel Chamberlain non fu dovuto alla novità del-la cosa, ma alla convinzione che la federazionedoganale” era impos sibile e dannosa.

Chi conosce i perniciosi effetti del sistemacoloniale dei secoli scorsi non ha bisogno diun lungo discorso, Per chi non lo conosce, ri-corderò come la federazione potrebbe instau-rarsi soltanto su questa base: l’Inghilterra met-te un dazio differenziale sulle provenienzeestere, dando così un vantaggio alle colonienel fornire di grano, lane, cotone, riso, colo-niali, ecc, ecc., il mercato della madrepatria;in contraccambio le colonie mettono pure undazio differenziale sulle provenienze estere, inguisa da facilitare all’Inghilterra la fornituradei tessuti, delle macchine, del carbone, ecc.,ecc., alle sue colonie. Gli effetti di questi dazidifferenziali sono l’incarimento del granonell’Inghilterra, obbligata a provvedersenenelle Indie, mentre potrebbe comprarlo a mi-nor prezzo nel l’Argentina e negli Stati Uniti;diminuzione dei salari reali degli operai inglesiod aumento del costo di produzione dei tessutie delle macchine, e perdita, in tal modo, delguadagno che la madrepatria potrebbe rica varedallo smercio a condizione di monopolio nellesuo colonie, e del guadagno molto maggiore,che essa at tualmente ricava sui mercati non co-loniali. Non si può supporre che gli industriali

La storia della formazione del monopolio èfinita. Occorrerebbe ancora esaminarne il fun-zionamento e discutere l’importanza del casodel diamante ri spetto alla organizzazione eco-nomica attuale. Si possono da questo caso ri-cavare delle induzioni rispetto al modo in cheil mondo economico sarà regolato nel futuro?Cercheremo un’altra volta di risolvere, per

quanto è possibile, questi interessanti quesiti.E forse la presente indagine darà modo ad altridi valutare l’importanza dei numerosi casicon simili, i quali si sentono talvolta citare perprovare che il mondo cammina verso una de-terminata mèta piuttostoché verso un’altra. s

Luigi Einaudi

EINAUDI E LA CRITICA ■ 1900 FASCICOLO 6 PAGINA 84

CONSEGUENZE ECONOMICO-SOCIALIDELLA GUERRA ANGLO-BOERA

Luigi Einaudi

CRITICAsociale ■ 139 / 2011

L a storia della formazione delmonopolio del diamante, cheho narrata nel precedente nu-

mero della Critica Sociale, deve essere comple-tata colla descrizione dell’organismo della So-cietà la quale monopolizza la produzione e losmercio del dia mante in tutti i paesi del mondo.

Questo organismo monopolistico presentacarat teri curiosi ed interessanti. A capo dellaSocietà stanno tre governatori a vita, che sonopoi i mag giori proprietari delle azioni. Questitre oligarchi amministrano un capitale di L.98.750.000 in azioni, oltre ad un debito di L.87.500.000 in obbligazioni ammortizzabili5%, e di 7.544.000 in obbligazioni 4½%. Perammortizzare velocemente il debito e per darela più alta rimunerazione possibile al capitale,i tre direttori adottarono un programma che sipuò riassumere in tre capisaldi: restringere laproduzione ad un limite fisso; organizzare for -temente lo smercio dei diamanti; e costituireuna forte riserva.

La restrizione della produzione si ottennechiu dendo tutte le miniere appartenenti alla So-cietà, ad eccezione delle due più ricche, la DeBeer’s e la Kimberley. Le miniere chiuse costi-tuiscono una preziosa risorsa per l’avvenire. Al-

te furono le la gnanze dei bottegai e delle classioperaie, a cui veniva a mancare l’unica fonte diguadagno pos sibile nelle plaghe deserte dovesi trovano i dia manti; ma la Società monopoli-sta tenne fermo e le miniere rimasero chiuse.Dalle miniere coltivate non si traggono più di200.000 carati al mese, quantunque la poten-zialità produttiva sia di gran lunga più elevata.

Ridotta la produzione, importava smerciareproficuamente. Alla organizzazione unitariadel pro cesso produttivo era necessario aggiun-gere una organizzazione parallela del commer-cio diamanti fero, affinché la concorrenza fra imercati non producesse quelle perturbazioninei prezzi, che si erano volute evitare fonden-do in una sola tutte le miniere. Anche questoscopo fu ottenuto. Tutti i diamanti sono ven-duti per un periodo di tempo determinato, disolito un anno, ad un sindacato (pool) di cin-que grandi commercianti, i quali si obbliganoa pagarli ad un prezzo fisso unico per tutte legrossezze e qualità, prezzo che nel 1897 fu di34-35 lire al carato. I gioiellieri di tutto il mon-do sono obbligati a rivolgersi, per ottenere idiamanti greggi, al sindacato dei cinque com-mercianti, i quali a turno ricevono la produzio-ne della De Beer’s. Una fitta maglia stringe co-

sì i rivenditori alla po tente Compagnia del-l’Africa del Sud ed imprime un carattere mo-nopolistico fino alle più lontane ramificazionidel commercio diamantifero.

Terzo e non ultimo fattore della potenza del-la De Beer’s è la riserva. La Società possiedein fatti una riserva in consolidati inglesi di 28milioni di lire. Può sembrare strano che un’im-presa, la quale ha quasi cento milioni di lire didebito, per cui paga un interesse del 5%, tengauna riserva in consolidati che fruttano a malapena il 2,40%. Il fenomeno si spiega agevol-mente appena si ri cordi la natura specialissimadella domanda di diamanti. Le piccole societàpreesistenti dovevano consentire a ribassi in-termittenti di prezzi, perché erano costrette avendere i diamanti anche nei tempi di crisieconomica e politica nell’Europa e nell’Ame-rica, quando le classi ricche cessavano di com-prarli. Meglio era venderli che interromperel’estrazione o fallire in seguito a mancatopaga mento degli interessi sui debiti. La riservadi 28 milioni di lire permette alla De Beer’s diconti nuare le operazioni e di pagare puntual-mente gli interessi dei debiti, i canoni delle mi-niere affittate e le altre spese fisse per novemesi senza vendere un solo diamante. La ri-serva é l’arma con cui il monopolista si difen-de contro la sospensione nella domanda, siache questa sospensione avvenga per cause na-turali, sia che abbia la sua origine nella irrita-zione dei compratori obbligati a pagare troppocari i diamanti. Ma il monopolista sa evitaremolto bene questa seconda causa di interruzio-ne nella domanda di diamanti.

Egli non ignora infatti che la sua prosperitàdipende dalla moda; se questa abbandonasse idia manti, sarebbe suonata la fine dei suoienormi profitti. Egli per conseguenza nonspinge molto in alto i prezzi, ma si limita a te-nerli ad un livello costante. Prima della fusio-ne, nel periodo 1882-89, i prezzi erano oscil-lati fra 37,15 e 24,32 lire al carato. Dopo, ipunti estremi furono 36,90 e 30,55.

La media non fu gran fatto accresciuta; masi evitarono le brusche variazioni.

All’opera accorta non poteva mancare l’ade-guato premio. Nel 1888 la De Beer’s distribui-va un be neficio del 5% su un capitale di 31 mi-lioni; poche erano le altre Società che ottene-vano benefici; la maggior parte lavorava senzaalcun profitto. Ora la De Beer’s, su un capitaledi 100 milioni, distribuisce dividendi variabilida 40 a 50 milioni di lire, ossia del 40-50%.

* * *

La descrizione del potente organismo mono-polistico del diamante é finita. Quali conse-guenze ge nerali se ne possono trarre?

A me pare di sentire già molti lettori socia-listi della Critica Sociale osservare: «L’esem-pio del monopolio diamantifero é la prova mi-gliore della verità della legge della concentra-zione capitali stica annunciata dal Marx. Tuttele industrie dovranno seguire in un tempo piùo meno breve l’esempio dell’Industria dei dia-manti e delle altre imprese che sono state delpari unificate dai cosi detti sindacati, trusts,kartelli, che si vanno ognora più moltiplican-do. Quando questo processo di concentrazionecapitalistica sarà compiuto; quando tutte le im-prese, od almeno la maggior parte di esse, sa-ranno possedute da gigantesche società comela De Beer’s, sarà facile espropriare gli espro-priatori e devolvere a beneficio della societàgli enormi profitti di 40-50 milioni otte nuti daogni impresa».

Mi sia permesso, nella qualità di studioso di-sin teressato di cose economiche, di osservareai miei ipotetici lettori socialisti che le loroprevisioni non mi sembrano giustificate dal-l’esame delle condi zioni reali del problema.

La questione che si tratta di risolvere é que-sta: I casi finora avveratisi di industrie mono-polizzate dai sindacati, trusts, kartelli, ecc., ba-stano a per mettere l’illazione che anche le altreindustrie debbano in un futuro più o meno lon-tano concen trarsi in una sola grande impresaed aprire così la via ad un regime più o menosocialista?

Per rispondere alla domanda, basta ricordareche tutti i casi finora noti di sindacati, mono-polii, trusts, kartelli, ecc., si possono dividerein due grandi categorie:

1°) Quelli che dipendono da cause naturalie sono i meno.

L’esempio forse più tipico è il sindacato deldia mante, la cui storia ho narrata a bella postaper esporre nella sua luce più favorevole la tesidel concentramento. Il sindacato del diamanteé dovuto esclusivamente a cagioni naturali tec-niche. Altri esempi si potrebbero citare soltan-to con grande fatica; e forse gli unici sonoquelli che si riferi scono alle miniere: petroliodella Pennsylvania e del Caucaso, zinco mo-nopolizzato dalla Società della Vieille Monta-gne, zolfo della Sicilia, carbone della Vestfalia,potassa dal bacino di Stassfurt, miniere di fer-ro del Lago Superiore appartenenti alla SocietàCarnegie. In tutti questi casi la formazione na-tu rale del monopolio é stata resa possibile dalfatto, rarissimo a verificarsi, che i mineralimonopo lizzati si trovavano concentrati in unpiccolo spazio di territorio, ed era utile e pos-sibile ai proprietari di accordarsi per aumen-tare i prezzi ed unificare l’impresa. E nemme-no in tutti questi casi si può dire che la forma-zione del monopolio sia comple tamente dovu-ta a cause naturali; al trionfo della Società delpetrolio contribuirono privilegi sui trasporti,al Sindacato dello zolfo giovarono i favori del-lo Stato, ecc. Forse questi monopolii si sareb-bero formati egualmente anche senza il sussi-dio di cause artificiali, ma soltanto attraversoa molte e lunghe difficoltà;

2°) Quelli che dipendono da cause artificialie sono i più.

La causa artificiale che ha maggiore impor-tanza é la protezione governativa a mezzo didazi do ganali sulle merci similari estere.

Basta pigliare in mano, fra gli altri, il volu-me del De Rousiers su Les industries mono-polisées aux États-Unis o le pubblicazioni suisindacati del Verein für Sozialpolitik per con-vincersi che in fondo a quasi ogni sindacatosta la protezione che lo Stato ha concesso aiproduttori interni di uno Stato contro la con-correnza estera.

Tutti i sindacati metallurgici, sul ferro, sul-l’ac ciaio, sulle macchine, sulle locomotive, isindacati nell’industria della navigazione, ilgrande sindacato nord-americano sullo zuc-chero e quello sugli spiriti, i sindacati sui vetri,ecc, ecc, sono dovuti a questa causa.

È perfettamente naturale che i pochi produt-tori interni di una merce protetta si mettanod’accordo per aumentarne il prezzo fino a quelpunto mas simo che é possibile di raggiungeresenza tema di stimolare l’importazione estera.

* * *

Così stando le cose, é egli possibile, dai po-chi esempi di sindacati dovuti a cause naturali,trarre illazioni a favore del cosidetto concen-tramento capitalistico?

Ho detto appositamente dai pochi esempi disindacati dovuti a cause naturali, perché imolti casi di sindacati dovuti a cause artifi-ciali non contano nulla. Basta fare scomparirela causa ar tificiale che ha dato loro origine,perché essi deb bano dissolversi, con granderammarico di quelli che si immaginavano giàdi trovarvi i germi di una futura organizzazio-ne collettivista della società.

inglesi sieno così poco in telligenti da voler an-dare in rovina pel problematico vantaggio diottenere un monopolio nelle colonie, E nep -pure si può supporre che le colonie, pel van-taggio di potere vendere alquanto più caro illoro, grano, la loro lana, ecc., sul mercato in-glese si vogliano esporre a rappresaglie da par-te dei Governi esteri e vogliano inoltro pagarepiù caro agli inglesi quei tessuti o quelle mac -chine che potrebbero comprare a minor prezzoin Ger mania o in Francia. Per l’Inghilterra lafederazione do ganale significherebbe l’abban-dono degli attuali principi libero-scambisti; elo stesso lord Salisbury, grande pro prietario in-teressato al dazio, almeno differenziale, sulgrano estero, ha dovuto melanconicamente ri-conoscere che si trattava di una utopia irrea-lizzabile finché al meno industriali ed operaiinglesi avranno la testa sul collo e continue-ranno a preferire di comprare il pane ad unpenny di meno al chilo che non vendere i tes-suti qualcosa dì più per metro nelle colonie.Finché l’opi nione pubblica sarà convinta cheun dazio differenziale a favore delle colonieavrebbe per unico effetto di spostare e non dicreare la ricchezza, si può essere sicuri chel’Inghilterra non abbandonerà la politica dellaporta aperta per tutte le merci di qualsiasi pro-venienza, colo niale ed estera. Per fortunal’opinione pubblica inglese non sembra dispo-sta a mutare tanto presto i suoi convincimenti.

Quanto alle colonie, la federazione doganalepotrebbe voler dire non il rincrudimento deidazi sulle prove nienze estere (che abbiamo giàdimostrato dannoso), ma l’abbassamento ofors’anche l’abolizione dei dazi sulle sole pro-venienze inglesi. In tal caso è evidente che, sele colonie si sono convinte delle necessità diabolire i dazi sulle merci inglesi, a maggior ra-gione dovranno essersi convinte della neces-sità di abolire anche i dazi sulle merci estereper avere maggior libertà di scelta nelle lorocompere e per non veder resa frustranea l’a -

bolizione dei dazi sulle merci inglesi a causadel mo nopolio accordato ai fabbricanti dellamadre patria.

* * *

A me sembra di aver schiarito le ragioni perle quali non posso acconciarmi all’idea che unavittoria inglese avrebbe per risultato di spingerel’Inghilterra sulle vie di costituire un mercatomonopolistico pan-britannico cinto da una bar-riera doganale contro le provenienze estere; es-sa e le colonie ne ricaverebbero, non utile, madanno. Lo stesso si dica nel caso che l’Inghil-terra venga sconfitta. Non c’è nessun motivoper credere che essa voglia aggiungere ai disa-stri militari lo sproposito eco nomico e politicodi alienarsi l’animo delle colonie, im ponendoloro un gravoso monopolio, che non riuscirebbenemmeno benefico alla madre patria.

Sembra dunque che – qualunque sia l’esitodella guerra anglo-boera e lasciando impregiu-dicate affatto le ragioni politiche, economiche,ecc., che militano a favore dei due combattenti– le classi operaie europee: 1°. debbano augu-rarsi che si fortifichi ognora più il cosidetto “monopolio attuale inglese” fondato sul produr-re e sul vendere a buon mercato; 2.° possanoessere sicure che l’Inghilterra con grande pro-babilità continuerà ad ascoltare la voce del suointeresse la quale le impedisce di costituire lafederazione doganale pan-britannica, ossia un“monopolio vero” a danno proprio, delle co-lonie e delle altre nazioni europee.

Forse le conclusioni schematiche alle qualisono giunto meriterebbero di essere più larga-mente svolte e corro borate con altri e più nu-merosi dati di fatto e con più lunghi e convin-centi ragionamenti. La natura polemica del-l’articolo, e la brevità imposta dall’indole dellaCritica Sociale, me lo hanno impedito, sperosenza danno della chiarezza e della semplicitàdelle cose dette. s

EINAUDI E LA CRITICA ■ 1899 FASCICOLO 21 PAGINA 334

LA LEZIONE DI UN MONOPOLIO

Luigi Einaudi

14 ■ CRITICAsociale9 / 2011

N el primo numero della Criticarisorta, chi scrive tracciavauno schema di quella che, a

suo parere, doveva essere “la politica econo-mica delle classi operaie nel momento presen-te”. D’allora sono pas sati due anni e mezzo enon sono passati invano. Le classi operaie han-no saputo conquistare in questo frattempo lalibertà di associazione e di resistenza a tuteladei propri interessi, che è base prima ed indi-spensabile di ogni progresso futuro; e la libertàdi sciopero e di coalisione - non largita per be-nigna concessione, ma guadagnata con isforzoperseve rante - ha già cominciato a dare i suoifrutti con sueti di elevamento del tenor di vitadegli operai e di stimolo alle classi imprendi-trici a migliorare ed a rendere più economicala produzione industriale ed agricola. D’altraparte - ed anche qui non per virtù di program-mi di Governo o di consapevole azione politi-ca, ma per virtù di numerosi fattori favorevoliconcomitanti - ha cominciato ad attuarsi libe-ramente e spontaneamente quell’incrementodella produzione, che il 1° luglio 1899 indica-vo come la premessa di ogni duraturo innalza-mento delle classi operaie.

Ciò, che due anni fa era un fenomeno osser-vato da pochissimi, è adesso divenuto quasi unluogo co mune. Tutti sanno che la ricchezza inItalia è cresciuta, che i risparmi “sono abbon-danti, che il tasso d’interesse è scemato, che èscemato d’assai l’aggio, e che per conseguen-za i capitali stranieri hanno ri preso la via d’Ita-lia, che le importazioni e le espor tazioni cre-scono, che il bilancio dello Stato si trova in ot-time condizioni e presenta un lieto e signifi -cante contrasto con tutti i paesi europei. Tuttociò conoscono benissimo anche gli operai, nonfoss’altro a cagione dell’esito parzialmente fa-vorevole di tanti scioperi e di tante agitazioniper l’aumento del salario: scioperi ed agitazio-ni che a nulla avrebbero valso, ove il momentoeconomico in Italia non fosse stato propizio.

Purtroppo però la letizia improvvisa, cagio-nata dal poter respirare in più libero aere e dal-la sensazione di una iniziale prosperità, ci im-pedisce di vedere quanto sia ancora precario etenue il miglioramento odierno. In uno studio

statistico che la Riforma So ciale pubblicherànel fascicolo di febbraio e dove sono studiatitutti i sintomi dello stato economico d’Italia,verrà dimostrato largamente che noi non ci tro-viamo ancora in un periodo di prosperità soli-da ed indistruttibile, ma appena appena uscia-mo da un periodo di depressione prolungata.E il contrasto col triste passato quello che cirende lieti e fiduciosi; ma guai se la soverchiafiducia ci inducesse ad af frettare il passo e atrascurare quel lavoro perse verante, il qualesoltanto potrà consolidare il piccolo migliora-mento odierno!

Molti si fanno delle illusioni sul progressodella ricchezza italiana. Orbene, nello studiocitato, si sono istituiti dei calcoli per misurare- facendo seguito ai vecchi e noti calcoli delPantaleoni e del Bodio del 1889 - le variazionidella ricchezza italiana negli ultimi anni; edeccone i risultati:

Quinquennio 1876-80, L. 46.204.973.878.Quinquennio 1881-1885-86, L. 51.667.241.200.Quinquennio 1886-87 -1890-91,L. 54.679.416.451.Quinquennio 1891-92-1895-96,L. 54.082.083.675.Quinquennio 1896-97 -1900-01,L. 51.915.453.481.

A temperare l’impressione di queste cifre,gioverà far osservare che il notevole ribassodell’ultimo pe riodo è dovuto sovratutto alla ci-fra bassa degli anni 96-97 e 98-99, in cui il cal-colo dava solo 50 mi liardi circa di ricchezza;e che nel 1900-901 si nota un sensibile rialzoa 55.728.746.372 lire.

Ma, ad ogni modo, siamo ben lungi dai 70mi liardi di ricchezza nazionale che qualchefertile imma ginazione avea già assegnato al-l’Italia rinata dopo la crisi trascorsa. La ric-chezza sembra, specie in ultimo, bensì dare in-dizio di aumento, ma l’aumento basta appenaa riparare ai disastri del passato.

Basterebbe commettere qualche spropositoper ve dere distrutta tutta l’opera del passato;

per vedere il ritorno della crisi industriale e ladisfatta completa delle Leghe operaie e conta-dine, ora vittoriose nella conquista del salariopiù alto; basterebbe perdere qualche occasionefavorevole, per ritornare alla coda di quei pae-si forestieri, con i quali ci siamo messi a ga-reggiare con fiducioso slancio.

Disgraziatamente, parecchi indizi provanoche noi siamo sulla via di commettere parecchispropositi e di perdere alcune occasioni buone.L’esperienza del passato pare non abbia inse-gnato nulla.

Il rimprovero va diretto un po’ a tutte le clas-si sociali e a tutti i partiti politici.

Le classi dirigenti, veduto che nel bilanciodello Stato c’è un avanzo, vi si sono gettate so-pra con una furia, la quale ricorda molto i pri-mi tempi della Sinistra, in cui si dilapidaronoallegramente gli avanzi di bilancio e si mandòin malora il pareggio fati cosamente ottenutodai ministri di Destra. Non si mette più innanziun programma ferroviario com pleto, ma si di-scorre di direttissima tra Roma e N a poli, diacquedotto per le Puglie, di porti e di boni fichee di tante altre belle cose, la cui utilità nonvuolsi negare in astratto, ma che faranno spen-dere di molti milioni allo Stato. Il quale certonon ri trarrà dalla direttissima un frutto conve-niente del capitale impiegatovi, mentre moltolucreranno ap paltatori e uomini d’affari, cheperciò si agitano per persuadere al Mezzogior-no essere la costruzione della nuova ferroviaun problema di vita e di morte per il suo avve-nire. E si discorre di Tripoli, e di equi librio delMediterraneo, quasi che si avesse soltanto daallungare le mani per pigliarsi la Tripolitaniae l’Albania, e non ci fosse invece la certezzadi grossi guai e specialmente del ritorno deldisavanzo nel bi lancio dello Stato.

Né basta. Gli sgravi tributari forniscono unaltro passatempo innocente agli uomini di Go-verno e ai dilettanti di filantropia per provareil proprio svi scerato amore per le classi umili;quasiché non fosse evidente come la luce delsole che l’effetto della abolizione dei dazi sullefarine sarà limitatissimo e che con essa nullasi muta a ciò che forma il vero malanno delnostro sistema tributario: di essere cioè osta-colo potentissimo alla produzione nazionale.Par titi conservatori e partiti popolari vanno agara nel dire che essi vogliono un po’ più digiustizia sociale nelle imposte e, per ottenereil lodevole scopo, si apparecchiano a traspor-tare il peso di una imposta dalle spalle degliuni sulle spalle degli altri. Quasiché invecenon premesse sopratutto di rendere meno per-nicioso in complesso il gravame tributario allosviluppo della ricchezza; quasi che l’andar di-spu tando, se debba essere Tizio o Caio a pa-gare un’im posta, non fosse una disputa da gransignori, e non fosse preferibile per un paesepovero, come l’Italia, modificare sopratuttoquei congegni tributari che sono funesti allosviluppo della produzione, che tolgono quat-trini ai contribuenti e li costringono a spese eda produzioni antieconomiche, senza alcun van -taggio o scarsissimo delle finanze dello Stato.

E qui mi sia concesso di accennare non giàad un indizio di spropositi futuri, ma ad unospro posito già commesso da quanti sono - afatti od a parole - desiderosi della riforma tri-butaria: voglio accennare all’agitazione controil dazio sul grano. La riduzione progressiva -e sia pure lenta per non portare un improvvisosquilibrio nell’esercizio dell’industria agraria- sarebbe stata una magnifica piattaforma persgravare sul serio i con sumatori italiani, av-vantaggiandoli almeno tre o quattro volte dipiù del danno arrecato allo Stato. Invece, dopol’accademica discussione avvenuta nella pri-mavera scorsa alla Camera, si lasciò cadere lacosa; ed oggi chi legga il pugnace libro: Perla li bertà del pane, del valoroso Giretti ha

I’impressione di trovarsi dinanzi ad un capita-no senza soldati, il quale combatte a vuoto.

Se le classi dirigenti pensano a buttar via de-nari nella direttissima Roma-Napoli, le classipopolari non si sottraggono alla medesima ten-denza, di volere fare il proprio bene accrescen-do le spese dello Stato. Di qui le discussioni ela propaganda per le leggi sul lavoro delle don-ne e dei fanciulli, per le ispezioni e per il Con-siglio del lavoro.1 Tutte belle e buone cose, mache distraggono dall’opera che oggi è vera -mente urgente: consolidare l’aumento di ric-chezza presente e preparare a aumenti futuri.

Nella quale opera Governo e partiti politicihanno una parte non principalissima, ma puremolto im portante, che consiste nel modificarel’ambiente giu ridico in guisa favorevole allosviluppo della ric chezza. I socialisti tedeschisi sono accorti da un pezzo della verità di que-sta affermazione. La loro mirabile campagnapresente, contro il progetto della nuova tariffadoganale, è non soltanto una lotta per conser-vare il pane a buon mercato per gli operai te-deschi; ma è sovratutto una campagna a favoredel l’industrialismo e del capitalismo progre-dito, contro i vecchi metodi economici di pro-duzione arretrata e lenta, rappresentati dallaJunkerthum agraria e feu dale dell’Ovest ger-manico. Proprio così: sinché gli operai italianinon si persuaderanno che è pernicioso ai loropropri interessi di imporre soverchie restri -zioni legali alla libera attività degli industriali,che è pericoloso intimidire il capitale, tantoscarso e tanto timido da noi, con lo spaurac-chio dell’imposta pro gressiva, non si farà chealimentare illusioni e met tere in pericolo laprosperità iniziatasi ora. Bisogna invece farecome i socialisti tedeschi, e decidersi a presta-re tutto il proprio appoggio ai capitani del -l’industria moderna, ai capitalisti pronti a met-tere su imprese nuove, alle Banche forestieredesiderose di portare i propri capitali in Italia.

Bisogna persuadersi che, se vogliono gua-dagnar molto, gli operai debbono fare del loromeglio per ché il capitale sia impiegato nel mo-do più produt tivo ed economico possibile. Par-rà un paradosso, ma è indubitato che allora glioperai italiani riusciranno ad elevare durevol-mente le loro sorti, quando diventeranno piùgelosi cultori degli interessi del capitale chenon siano i capitalisti medesimi; quando sipersuaderanno essere meglio rinunciare aqualche milione di lire di aumento sul bilanciodel Ministero dell’Agricoltura, Industria eCommercio (altra cu riosa melanconia, questa,dei deputati popolari, di chiedere ogni tantoche il bilancio dell’ Agricoltura sia portato a100 milioni!), pur di mettere in grado il Tesorodi bruciare una quantità corrispondente di mo-neta cartacea e così affrettare la scomparsa delcambio e, colla scomparsa del cambio, laintro duzione in Italia di capitali stranieri e ilrialzo dei salari.

Occorre fare intendere agli operai che è ne-ces sario occuparsi, un po’ più di quanto nonabbiano fatto sinora, della rinnovazione deitrattati di com mercio. E’ questo un problemache li tocca sul vivo come consumatoti e comeproduttori.2 Come con sumatori, hanno interes-se a volere una politica doga nale, che ribassiil costo dei manufatti che si im portano dal-l’estero e per conseguenza il prezzo delle mer-ci prodotte in paese. Come produttori, hannoin teresse che i dazi protettori non indirizzino icapitali verso impieghi poco produttivi, e chei trattati di commercio siano negoziati in guisada aprire il più- ampio mercato possibile al-l’estero all’agricol tura ed alle industrie italia-ne. Problema non facile e su cui sarebbe beneche anche gli operai si inten dessero, discuten-do in modo chiaro ed aperto quei punti in cuigli interessi degli operai del Setten trione pos-sono trovarsi in contrasto con quelli del Mez-

I pochi casi di monopoli naturali non pro-vano nulla a favore e nello stesso tempo pro-vano troppo contro la tesi della fatale concen-trazione delle industrie.

Non provano nulla a favore di questa tesi,perché non sono certamente i fatti isolati deidia manti nel Sud Africa, del petrolio nella Pen-nsyl vania, del petrolio pure nel Caucaso, dellozolfo in Sicilia quelli i quali bastino a provarel’esistenza della legge del concentramento.Perché la legge esistesse bisognerebbe provareche in tutte le altre industrie il concentramentonon si effettuò per l’intervento di cause pertur-batrici, le quali impe dirono che la tendenza na-turale al concentramento potesse manifestarsicome si manifestò nei pochi casi suddetti. Dareuna siffatta dimostrazione é impossibile.

Provano troppo contro la tesi, perché i mo-no polii naturali poterono costituirsi solo per laforza geniale di qualche individuo che seppegiovarsi delle favorevoli condizioni naturaliesistenti per monopolizzare un’industria.

Il monopolio del diamante é dovuto a CecilRhodes; il monopolio del petrolio a John D.Ro ckefeller. Chi può garantirci che i due mo-nopolii si sarebbero formati se il Rhodes ed ilRockefeller non avessero saputo trarre partitodei favori della natura? Troppe sono le coseche non si fanno perché non sorgono gli indi-vidui adatti a compierle, per essere autorizzatia ritenere che il monopolio del diamante equello del petrolio sarebbero sorti egualmenteanche senza l’opera dei loro fondatori. Ora chel’organismo economico é costituito, tutti sonocapaci di goderne i lauti profitti. Ma quanti fraquelli, che ora invidiano le ricchezze di Rho-des e di Rockefeller, sarebbero stati capaci difare ciò che essi fecero?

Finché non si dia risposta a questa domanda,mi sembra inutile discutere sulla giustizia diespro priare i pochi monopolisti che devono lafortuna del loro monopolio a cause naturali. s

Luigi Einaudi

EINAUDI E LA CRITICA ■ 1902 FASCICOLO 3 PAGINA 33

L’ORA DEGLI SPROPOSITI

Luigi Einaudi

CRITICAsociale ■ 159 / 2011

Botta e risposta tra i tre studiosi. Pubbli-chiamo una sintesi di quel dibattito.

L e critiche di Eugenio Masè-Da-ri, professore di Economia Po-litica all’Università di Modena,

alle conclusioni dell’articolato studio, “L’Italiaed i trattati di commercio”, sviluppato dai gio-vani Attilio Cabiati e Luigi Einaudi sulla Criti-ca Sociale negli anni 1902-03, suscitarono lavivace e puntuale reazione dei due collabora-tori della rivista socialista. Un botta e rispostaproseguito per mesi tra il professore universi-tario e i due articolisti della Rivista, non privodi polemica e acrimonia, ma cionondimeno uti-le a delineare il pensiero economico del futuropresidente della Repubblica, che rappresentauno dei più autorevoli rappresentanti del pen-siero liberalsocialista e di cui ricorre il cinquan-tesimo anniversario della scomparsa.

L’anno è il 1903 e Cabiati ed Einaudi non sisottraggono al confronto, firmando un ultimoarticolo, sempre sulla Critica, “L’ultima rispo-sta al Prof. Masè-Dari”. Nel testo si legge:“Ilprofessore Masé-Dari incomincia le sue cri -tiche con l’avvertire che veramente i nostri ra-giona menti e i nostri dati non sono così origi-nali da giustificare la nostra affermazione:che cioè essi dimostrano lumi nosamente la ne-

cessità di una politica liberista, la ri prova del-le verità economiche e la condanna dei sofismidella protezione.

E qui conveniamo pienamente col nostrocritico. Non sono nuovi i fatti: noi non li ab-biamo inventati, sibbene li ricavammo daquelle statistiche ufficiali, che nello studio no-stro ci prendemmo la cura di citare. E nem -meno sono nuovi i ragionamenti: prima di noi,li aveva esposti in un libro “un po’ vecchiotto”uno scozzese, certo Adamo Smith, seguito poinei suoi ragionamenti da parecchi altri autoridi non ultima fama, che rispon dono al nomedi Ricardo, Stuart Mill, Cairnes, Say, ecc.

La teoria del libero scambio, al pari di tuttele altre teorie positive, si basa e si comportasui fatti: ogni nuova categoria di dati che laconfermino aggiunge un grado di più di pro-babilità alla verità sua.”

Cabiati ed Einaudi proseguono nella difesadel loro studio e delle sue conclusioni forte-mente anti-protezionistiche, evidenziando co-me l’innalzamento di barriere al libero com-mercio abbia effetti deleteri sui consumatorisenza comportare benefici per l’economia na-zionale presa nel suo insieme: “E per ciò fare,ci siamo posti dal punto di vista di questi grup-pi stessi. Ci siamo cioè chiesti: ammettendo co-me esatto il loro concetto, che il protezionismoha ragione di esistere in quanto serve a porre

le industrie nazionali in condizioni da re sisterealla concorrenza delle industrie similari stra-niere più robuste e deve esistere fin quando nonsia raggiunto un pareggiamento di forze, am-messo questo, ripetiamo, passiamo ad esami-nare nelle singole industrie del nostro paese:1° se ora è venuto il momento accettato daglistessi protezionisti per diminuire ai consuma-tori l’onere gravissimo della protezione; 2° sequesta sia riuscita a rendere vive e vitali quelleindustrie la cui esistenza era combattuta daquella famosa teoria dei costi comparati...1

E, quanto al primo punto, abbiamo vistouna serie di casi, nei quali la protezione ora-mai riesce di solo danno ai consumatori, senzarecare vantaggi produttivi.

Quanto al secondo punto, ci si sono presen-tate dinanzi due industrie tipiche, quella delferro e la cerealicola, per le quali la protezio-ne non ha ottenuto il minimo dei risultati daessa previsti. E allora...abbiamo appuntato lecritiche più specialmente contro il dazio suicereali, come il più iniquo, il meno logico, ilpiù dannoso per le classi povere e per l’im-mensa maggio ranza degli agricoltori.

Ci siamo anche chiesti: perché, se quantonoi diciamo è vero, il sistema doganale in Ita-lia continua ad essere così oneroso e rovinosoper le masse, a vantaggio esclu sivo dei porta-fogli dei pochi? E la risposta è stata che questipochi erano bene organizzati in “impresa poli -tica”, per rubare una frase felice all’amicoprof. Monte martini, mentre i molti costituisco-no una massa amorfa.

Di qui concludemmo con l’appello allamaggioranza degli italiani di riunirsi solida-mente attorno alla ban diera liberista, la qualein fondo, nel l’attuale momento, porta a con-seguenze politiche di primaria importanza..”

Rispondendo a un altro rilievo del Masè-Dari,Cabiati e Einaudi riconoscono la scarsità del ca-pitale nell’Italia dei primi del novecento, ma nonritengono che la sovvenzione artificiosa, me-diante i dazi, dell’industria cerealicola sia il me-todo migliore per attirare finanziatori dall’estero.Altra è la ricetta proposta dai due studiosi libe-rali, che vedono nell’abbattimento delle barrieredoganali l’innesco di un circolo virtuoso (pos-sibilità di sbocchi all’estero, aumento della ca-pacità di consumo delle masse operaie, cittadinee contadine, compensi per i miglioramenti aiconduttori agricoli, svalutazione delle terre e di-minuzione conseguente dei fitti), suscettibile diattirare i necessari investimenti nel settore, inquelle proporzioni che saranno determinate daltasso dell’interesse sul mercato e dalla produt-tività compara tiva delle varie industrie.

Prendendo spunto dalla situazione del settorecerealicolo italiano all’inizio del secolo scorso,i due collaboratori della Critica rifiutano l’im-postazione secondo cui, una volta abolito il da-zio, la cerealicoltura anderebbe senz’altro arifascio, sostenendo piuttosto che il dazio suigrani è utile solo ai latifondisti e ai proprietaridi terreni che già danno rendita e che si colti-vano esten sivamente. Tutta la immensa massadei piccoli coltiva tori e dei mezzadri, dal daziosui cereali non ricava un centesimo.

Di particolare attualità, il passo che invitagli agricoltori (e con essi l’intero sistema Ita-lia) a non temere di affrontare la concorrenzainternazionale: Noi italiani possiamo ancoraaprirci una via nel mercato mondiale. Certonoi non dobbiamo illuderci di trionfare senzafar nulla, in virtù del monopolio del bel cielo.I monopoli naturali del cielo e della terra nonci son più; e del resto non sono mai stati ne-cessari...alla verità della dottrina del liberoscambio. Noi, libero-scambisti, non diciamoniente affatto agli agricoltori: “con le porteaperte del l’estero voi siete sicuri di asportaree di lucrare larga mente”. Questa sarebbe

menzogna sfacciata e incorag giamento all’in-fingardaggine. Noi non adoperiamo queste ar-ti disoneste di cattivarci la gente; e non vo-gliamo imitare in ciò i protezionisti, i quali coidazi sul grano presentano ai cerealicultori unmercato nazionale sicuro, sebbene impoverito,da sfruttare all’ultimo sangue. La mancanzadi coraggio nell’aprirsi nuove vie ed il desi -derio di non aver da lottare con nessuna con-correnza, di vincere senza combattere nessunabattaglia, questi sentimenti bassi ed ignobilidei popoli infingardi noi li lasciamo ai nostriavversari del protezionismo agrario.

A conclusione della serie di articoli sulla Cri-tica Sociale (solo uno dei passaggi della lungalotta contro ogni forma di protezionismo indu-striale e commerciale che i due insigni econo-misti avrebbero condotto per tutta la vita), igiovani Cabiati e Einaudi illustrano con orgo-glio i sentimenti e le idee che guidano il lorooperare: “La nostra dottrina è una dottrina dicoraggio e di audacia, di tentativi perseveran-ti, di sconfitte momen tanee e di vittorie finali.I libero-scambisti non additano l’Eldorado sulmercato mondiale; essi non dicono agli agri-coltori di slanciarsi nel giardino incantato perci barsi tranquillamente delle frutta di bontàmirabile. Essi sanno che per vincere nella lottadella concorrenza è d’uopo lottare e che solo iforti e gli ardimentosi vin cono. Ma voglionoche nella lotta accanita i combattenti non sianoimpacciati da pesanti armature; essi sanno chesarà più facile conquistare un mercato esteroquando i dazi siano del 10%, che non se i dazisiano del 50%; anche a parità di condizionicon gli spagnuoli, con i greci, con i california-ni, ecc., ecc., è più probabile la vittoria se i da-zi sono bassi, perché allora non ci urte remo piùcontro una barriera non frangibile per legge;ma dovremo combattere solo contro la mag-giore abilità o la più perfetta organizzazionealtrui. Ed allora vince remo se sapremo diven-tare più abili e sapremo orga nizzarci ancormeglio degli stranieri.

L’Italia si trova ad un bivio solenne del suocammino storico: o rimanersi adagiata sul mi-serabile giaciglio di apparente sicurezza delprotezionismo agrario; o fare un tentativo diconquista dei mercati stranieri, conce dendolarghe riduzioni di tariffe ai nostri provveditoridi manufatti, di grano, di petrolio, di caffè, incambio di corrispondenti riduzioni di dazi sullenostre esporta zioni. Noi speriamo che.. l’Italiavorrà scegliere la seconda alternativa, sapendodi scegliere una via che condurrà alla luminosavittoria solo attra verso a fatiche inenarrabilied a sforzi sovrumani. Ma il popolo, che nonsapesse durare quelle fatiche e com piere queglisforzi, non sarebbe degno di continuare ad oc-cupare un posto sulla scena del mondo.

Nel breve periodo gli sforzi polemici deidue giornalisti ed economisti liberali andaronodelusi, poiché il protezionismo sarebbe statala scelta prevalente degli Stati sino alla vigiliadella Prima Guerra Mondiale ed oltre. Solo ne-gli ultimi anni delle loro fortunate carriere Ca-biati e Einaudi poterono assistere, nel secondodopoguerra, alla nascita di un nuovo ordineeconomico mondiale più in linea con le loroaspirazioni. Ora, che il sistema globalizzatosorto dalle ceneri della Guerra Fredda mette arischio la stabilità delle nazioni a economiamatura come l’Italia, il recupero delle ricettedel pensiero liberalsocialista può contribuireal dibattito sulle misure più adeguate per il ri-lancio dalla nostra economia. Con questo spi-rito, la Critica Sociale, in occasione del suocentoventesimo anniversario, propone un’am-pia antologia del pensiero di Luigi Einaudi,pubblicando i contributi che egli ha realizzatocome collaboratore della Rivista. s

zogiorno, gli operai di un’industria con glioperai di un’altra.

In Germania queste cose si discutono e mol-to vi vacemente; e vi sono operai liberisti edoperai protezionisti. In Italia non si ha, fra glioperai e nep pure fra i loro capi, una coscienzaben netta del l’importanza pratica di questi di-battiti; ed accade perciò che noi, che vogliamouna politica doganale orientata in senso libe-rista, facciamo la figura di dottrinari del capi-talismo, litiganti su cose che ai proletari im-portano poco.

E potrei continuare. Quasi tutti i problemivera mente vitali per il benessere delle massesono la sciati cadere con indifferenza. Io spera-vo, scrivendo l’anno scorso sulle colonne dellaCritica Sociale in torno alle Convenzioni ferro-viarie e sul loro rinno vamento, che il problemasarebbe stato discusso, magari da altri punti divista e magari combattendo le conclusioni con-trarie all’esercizio di Stato, a cui ero giunto. In-vece - se si eccettua una brevis sima nota - nonne fu nulla; ed un argomento, che interessa tan-to l’avvenire del paese, fu lasciato cadere.

Giorno per giorno si continuano a commet-tere in Italia dei veri attentati contro l’unico esplendido retaggio, che sia rimasto al demaniodello Stato: le forze idrauliche. Mentre tanto siciancia di munici palizzare ogni sorta di cose esi vogliono ingolfare i Comuni in ogni sorta diimprese, mentre si invita lo Stato ad avocare asé l’esercizio delle ferrovie, nella speranza difar trionfare a poco a poco la socializzazionedelle industrie, si lascia che lo Stato alieni, persempre, e per un tozzo di pane, l’unico patri-monio che gli sia rimasto: le forze idrauliche;e lo alieni non a beneficio dell’industria vera,ma troppo spesso a vantaggio della speculazio-ne inter mediaria. E chi si è accorto del grido diallarme che F.S. Nitti ha innalzato, nell’appen-

dice alla sua recente Città di Napoli, a propo-sito di questa im provvida alienazione di unosplendido demanio, che potrebbe essere beneutilizzato, un meraviglioso stru mento di forzaper lo stato e di potenza per l’in dustria privata?

Riflessioni malinconiche, diranno molti, diuno studioso, che vorrebbe che tutti si interes-sassero della scienza a lui prediletta. A me pare,invece, che la malinconia nasce, se mai, dal de-siderio insod disfatto di vedere le classi operaieitaliane uscire presto dalla penombra grigia delmomento attuale di transizione tra il periododelle battaglie politiche per la conquista dellalibertà e il periodo dell’atti vità pratica e fecon-da. Esse sono ancora sotto l’im pressione dellaretorica, che le scuoteva e le com moveva nelmomento della battaglia, e stentano a persua-dersi di dover abbandonare l’antica eloquenzagrandiosa per i conti prosaici del dare e del-l’avere degli uomini d’affari.

Eppure, se non si vuol essere corbellati, bi-sogna saper fare anche codesti conti. s

NOTE

1 Inutile ripetere - lo avvertimmo già in altraoccasione - che la nostra opinione su questipunti è alquanto diversa da quella del l’egregionostro collaboratore. Ma qual sia, e perché,avemmo e avremo campo di chiarire in articolispeciali.

(Nota della CRlTICA).

2 Verissimo; e, per cominciare, abbiamo pre-gato i nostri amici Luigi Einaudi e Attilio Ca-biati (che cortesemente aderirono) di oc cuparsiti tale argomento nei prossimi numeri della no-stra Rivista.

(Nota della CRITICA)

EINAUDI E LA CRITICA ■ 1903 FASCICOLO 12 PAGINA 184

ULTIMA RISPOSTA AL PROF. MASÈ-DARI

Luigi Einaudi e Attilio Cabiati

16 ■ CRITICAsociale9 / 2011

“L’Italia e i trattati di commercio” sono unsaggio di 6 articoli sul sistema doganale elo sviluppo dell’industria. Pubblichiamo laPremessa e le Conclusioni con la rispostadella Critica Sociale.

C i proponiamo di studiare, conun metodo affatto obbiettivo,lo stato delle nostre industrie e

dei com merci nostri allo spirare delle conven-zioni che dal 1892 ci tengono legati alle tre po-tenze dell’Europa occidentale. E’ nostro scopoaltresì cercare d’interessare il proletariato algrande fatto, che si sta per iniziare, della rin-novazione o meno dei nuovi trattati: fatto incui la gran massa lavoratrice delle città e dellacampagna è particolarmente interessata, e vi ètanto più interessata, poiché di essa tentanotrar profitto gli speculatori della buona fedepopolare, cercando di dimostrare che la prote-zione a tale o tal altro ramo dell’attività eco-nomica si risolve in protezione del lavoro na-zionale ed in più alti salari.

I trattati del 1892 furono un significante av-veni mento economico e politico. Allora un tri-ste vento di reazione economica spirava su tuttaEuropa: tutte le teorie liberiste, le più sicure,sanzionate da un mezzo secolo di prova, eranodiscusse, combattute e spregiate. La vecchia po-litica di gelosie nazionali, gli antiquati stromentidel colbertismo e del mercantilismo rivenivanoalla luce, ripuliti e brillanti, fra le. mani di uo-mini d’ingegno, che dal fatto indiscutibile di de-pressioni economiche e del rinvilio dei prezzitrae vano energia per ripresentare i- vecchi so-fismi con forma di modernità. I manifatturierispecialmente chiedevano protezione pel “lavo-ro nazionale” e pei loro prodotti, buttati sul mer-cato in condizioni difficili pel ribasso dei prezzie per l’aggravio delle imposte, sempre crescentiin quantità e qualità, come richiedevano le vereo supposte necessità degli Stati.

Le medesime vicende che si erano svolte nel1892 tornano di nuovo a manifestarsi, e ci tro-viamo di fronte di nuovo agli stessi sofismiadoperati per rag giungere gli identici scopi dimantenimento e di ac crescimento della prote-zione doganale a favore di pochi gruppi di in-teressati.

L’imperversare passato ed odierno del pro-tezionismo ha indotto molti a discorrere inmodo inconcludente della bancarotta delledottrine economiche del libero scambio.

Nulla di meno esatto. I principii economiciriman gono quelli che erano. Rimane veroadesso, come per il passato, che gli argomentiaddotti dai protezionisti - come la necessità didifendere l’industria e l’agri coltura nazionalegravate da eccessive imposte, la difesa del la-voro nazionale, la barriera da opporsi all’inon-dazione di merci estere, ecc. - sono altret tantisofismi, facilmente confutabili. E siccomequesti sofismi sono confutati in tutti i manualidi economia politica, così noi non crediamoopportuno per ora di soffermarvici sopra.

Vogliamo soltanto fare un’osservazione dimetodo, la quale giova a spiegare come, mal-grado la verità in confutabile dei principii eco-nomici, il protezionismo trionfi In pratica al-l’estero ed in Italia.

L’economia, per necessità scientifiche ine-renti ad ogni ramo del sapere, ha studiato e stu-dia il fatto economico sotto il punto di vista del-

l’homo aeconomicus, cioè dell’uomo animatounicamente da sentimenti di lucro materiale,prescindendo da altri elementi, dalla natura del-la società e dalla reciproca influenza che societàe individuo esercitano l’una sull’altro. In talmodo, studia come l’uomo procede agli scam-bi, il movimento di essi, e risolve una serie diproblemi di equilibrio. Suppone tutti gli uominiin condizioni pari e tira la conclusione della su-periorità del sistema della libera concorrenzacome mezzo per arrivare più rapidamente al-l’equilibrio. Da qui si è indotti più facilmente avoler applicare lo stesso principio alla vita so-ciale. E siccome, nell’agitarsi di questa, lo stro-mento, nella teoria economica pura così per -fetto, qui non giuoca più, gli economisti stril-lano, imprecando alla umana cecità. Non si av-vedono che nella vita vissuta il punto di vista ècambiato e che l’uomo sociale non è più in-fluenzato dai motivi eco nomici, o per lo menonon è più influenzato da questi soli.

La teoria forse più esatta è quella che rappre-senta lo Stato odierno come un insieme di di-versi gruppi di individui spinti in diverse dire-zioni, con velocità varie, da interessi disparati.Il principio della parte cipazione di tutti al Go-verno fa sì che questi gruppi si contendano, siuniscano temporaneamente in classi più nume-rose, vengano a reciproche convenzioni perpartecipare al potere, ossia alla formazione del-la legge coercitiva. E’ evidente che, se un solgruppo avesse forza di governare, tutta la legi-slazione sarebbe in formata a un unico indiriz-zo. Ma è altresì evidente che in tal caso tutti glialtri gruppi si unirebbero in concordanza disforzi contro l’avversario comune. E’ da questecircostanze che si caratterizza lo Stato moder-no, così ricco di leggi, così incerto negli anda -menti, così contraddittorio nella sua legislazio-ne, spe cialmente economica. Questa rappre-senta proprio le convenzioni dei singoli gruppidi interessi che si combattono per il potere e,una volta giunti, vengono a patti coi gruppiconcorrenti, troppo deboli per ab batterli, abba-stanza forti per incepparne l’azione.

E’ così che in parte si spiegano l’estensionedelle imposte indirette e la relativa reazionedelle classi popolari con la minaccia delle im-poste dirette pro gressive, il dazio sui cereali ela legislazione operaia, la tassazione forte e ladogana protettrice, ecc. Uno dei motivi prin-cipali poi, perché si preferisce l’im posta indi-retta e specialmente il dazio di protezione a unpremio diretto, è appunto la poca sincerità delprimo. Avviene qui un fenomeno noto: l’indu-striale protetto calcola con grande approssima-zione il van taggio del dazio; il consumatore,che lo paga alla spicciolata sotto forma di lieveaumento unitario sul prezzo, non riesce ad af-ferrare questo calcolo. E dunque un principioegoistico che regola l’an damento dello Stato:questo principio trionfa a lungo, solo se l’egoi-smo è intelligente. La borghesia italiana che ciha sgovernati non ebbe neppure quest’abilità:perciò ora va perdendo terreno e si sforza in-vano di riacquistarlo. Una delle sue battagliecampali sarà appunto data alla rinnovazionedei trattati di commercio.

Quindi a noi ora il problema si presenta sot-to questo vero aspetto: il sistema doganale invigore ha prodotto determinati effetti e gene-rato determinate forze; date queste forze, qualesarà la probabile orientazione dell’Italia alloscadere dei trattati in vigore? Pur troppo, il

problema non può risolversi con evidenza geo-metrica: lo studieremo però ogget tivamente esolo assumendo a base i fatti provati, senzapreconcetti e prendendo come divisa l’hege-liano: “alles wirkliche ist vernünftig”.

A proposito di fatti provati. Il detto chel’arit metica non è un’opinione sembra tal voltanon vero, specialmente in questo argomento.Nell’interpretare saviamente le statistichecommerciali, ci si urta in grandi difficoltà: al-cune di indole generale e che si riferiscono atutti i dati statistici, altre di carattere peculiare,Appartengono alla prima specie, ad esempioquelle analizzate con sì paziente dottrina dalGiffen, nella sua classica Memoria sull’usodelle statistiche d’importazione e d’esporta-zione. Le altre, più comuni, sono state studiate,per l’Italia, dal Bodio e dallo Stringher. En-trambi i generi di difficoltà portano ad erroridi varie specie, fra cui predominano quelli del-la specie post hoc, ergo propter hoc. Cerche-remo di evitare questi scogli con frequenti raf-fronti e vagliando opportunamente le cifre.

CONCLUSIONI E PROPOSTE

Giunti al termine del lungo cammino percor-so at traverso alla storia del nostro commercioe del mo vimento industriale agricolo dell’Ita-lia, ci si impon gono alcune riflessioni di ordi-ne generale.

Noi abbiamo visto come lentamente e fati-cosa mente, attraverso alle insidie di una poli-tica finanziaria disastrosa, Il nostro commerciosi sia venuto accrescendo in generale e comealcune industrie, dalla protezione colossale del1887, abbiano assunto uno sviluppo da perlein grado di competere vitto riosamente conl’estero. Abbiamo visto però altresì come que-sta protezione sia stata eccessiva in tutti i cam-pi. Sicché in alcuni rami essa ha fatto conver -gere violentemente troppi capitali, distruggen-do in tal modo, con l’esagerazione, gli stessieffetti dell’o pera sua. Altrove invece, essa nonè valsa a creare centri di vita industriale, di-mostrando così l’inanità degli sforzi dell’uo-mo, là dove l’inerzia della natura si opponecon tutto il suo peso allo sviluppo di in dustrieche sono e vogliono rimanere esotiche.

Noi abbiamo appositamente voluto insisterein un lungo esame, perché chi ha avuto la pa-zienza di seguirci sin qui ha trovato nella storiadelle cifre la più fulgida riprova delle veritàeconomiche e la più inesorabile condanna di.tutti i sofismi della pro tezione.

Piuttosto, se la protezione può giustificarsi,è come un fatto storico. Essa sorse in Italia inun momento in cui lo Stato, per certe esigenzepubbliche, si trovò a concorrere coi privati in-dustriali sul mer cato della domanda dei capi-tali. Quando avvengono simili incidenti nellavita di un paese, le cose vanno sempre malepei consumatori. Governo italiano e Banche

concorrevano nell’acquisto di moneta aurea: ilGoverno, più forte, s’impadronì delle riservee compensò le Banche col corso forzoso: ilGoverno italiano e gli industriali abbisogna-vano di capitali; il Governo ne prese quanti nepoté trovare e com pensò i suoi concorrenti conla protezione. E’ evidente che, cessato il biso-gno da parte delle finanze dello Stato, debbaman mano cessare il sussidio pri vilegiato dicui godono certi produttori.

Questa politica si complicò coi trattati dicom mercio. L’equità apparente, con cui avevaproceduto lo Stato italiano nel distribuire a tuttinel 1887 i favori protezionisti, venne turbata esconvolta da quei patti convenzionali che sìvennero stringendo fra il nostro paese e quelliforastieri. Nei contratti, meglio che in una leg-ge di carattere generale, è facile il predominiodella volontà dei più forti. Ora appunto, spe-cialmente nei trattati del 1892, predo minaronoi gruppi meno numerosi, ma meglio coalizzatidegli industriali, a danno della massa degliagricoltori, più grande in numero, ma altresìpiù ripartita e divisa. I grandi latifondisti cerea-licultori, che hanno interessi opposti a quelli ditutto il re stante dei coltivatori del nostro suolo,fecero lega comune coi grandi industriali, e gliinteressi dei più rimasero schiacciati.

Come avvenga questo fenomeno che in unoStato libero i meno tirino i più, ci è spiegatoassai bene dal Marshall e dal Pareto. I pochiben coalizzati e interessati pongono, nel con-quistare i milioni, una energia migliaia di voltemaggiore di quella posta in uso dai moltissimi,poco esperti, per non farsi togliere di tasca icentesimi. I cotonieri, ad esempio, misuranoesattamente i vantaggi immensi che con cedeloro un dazio protettivo, il quale però, a tutti iconsumatori presi singolarmente, non viene apesare che di poche lire. È qui la gran forzadi tutte le tasse indirette, e specialmente deidazi. È evidente che, se il nostro Governo, peraiutare i cerealicultori, concedesse loro un pre-mio di 270 milioni all’anno, prelevandoli conuna imposta diretta, tutta Italia insorgerebbecome un solo uomo contro l’iniquità di una ta-le imposta affamatrice. Ponete invece un daziodi confine di L. 7,50 al quintale per aiutare il“lavoro nazionale” e tutti i consumatori paghe-ranno il loro tri buto a poche migliaia di pro-duttori, senza trovarvi nulla da ridire. E se,prendendo tutto l’insieme dei nostri dazi, conla tariffa del 1887 noi abbiamo in nalzato dicolpo il costo della vita del 25%, i con -sumatori, che ne hanno risentito le conseguen-ze du rissime, si sono rivolti a cercarne la causadappertutto, tranne dove essa esisteva.

Ora noi ci troviamo di fronte a una folla dique siti : prima di tutto, se e come rinnovare itrattati del 1892; poi, quali provvedimenti pren-dere per mi gliorare il nostro commercio; infi-ne, fare i conti con gli industriali, vedere se laprotezione ha giovato ad essi ed in tal caso ap-profittarne per diminuire l’onere tributario gra-vissimo, che, a torto o a ragione, noi ci siamoassunto nel 1887, a guisa di prestito forzoso,caricato iniquamente sulle varie classi dei con-sumatori, per anticipare ai nostri industriali icapitali di cui essi abbisognavano per riforniredi macchinario moderno i loro stabilimenti.

Ebbene, tutti questi problemi mettono capoal l’ultimo; e, risolto questo, il resto ne scatu-risce come di logica conseguenza.

Dei 1200 milioni di lire, che costituisconola no stra esportazione, 500, ossia i 5/12 sonoassorbiti dalla Svizzera, dall’Austria e dallaGermania. Ora, una così eccessiva concentra-zione di movimento commer ciale ci è di grandanno, perché noi, a nostra volta, non rappre-sentiamo che 1/20 della esportazione germani-ca e 1/11 dì quella austriaca; nella compilazionedi nuovi trattati quindi questi due Imperi go-dono di una grande superiorità su di noi. Inol-

EINAUDI E LA CRITICA ■ 1902 FASCICOLO 13-14 PAGINA 196

L’ITALIA E I TRATTATI DI COMMERCIO

Luigi Einaudi e Attilio Cabiati

CRITICAsociale ■ 179 / 2011

tre, siccome, date le tendenze di queste duePotenze, sarà assai difficile che noi continuia-mo con esse a commerciare su una così largabase come per il passato, è indi spensabile perle nostre industrie, sì manufattrici che agricole,trovare nuovi sbocchi.

Senza architettare faticosamente dove questisbocchi si potranno acquistare, ci abbiamo digià due vie che si vanno per proprio impulsoaprendo ai nostri prodotti: ed esse sono la Rus-sia e l’Oriente da una parte; il Brasile e l’Ar-gentina dall’ altra. Per inten sificare i nostri rap-porti con questi paesi, che rappresentano nuovie inesausti mercati, ci occorrono due cose: 1°nuove vie di navigazione di fiume e di mare etariffe a buon mercato in Italia; e, per ot tenersiquesto, è di somma utilità ridurre il dazio sulferro; 2° concedere alla Russia ed all’Argentinala possibilità di scambiare i prodotti della lorocol tura estensiva con quelli della nostra agri-coltura intensiva: e questo non può ottenersi senon abo lendo il dazio sul grano per rispetto allaRussia e all’Argentina, riducendo i dazi sul pe-trolio e sul caffè per riguardo al Brasile.

* * *

Così, da qualunque punto noi riguardiamo ilproblema, vediamo che tutto converge versoun’unica conseguenza. Vogliamo ottenere tra-sporti a buon mercato: dobbiamo ridurre unodegli elementi del loro costo, cioè quello deidazi. Vogliamo la nostra marina mercantileforte ed estesa: dobbiamo inten sificare i com-merci, ossia togliere loro la barriera più formi-dabile, cioè i dazi. Vogliamo migliorare le con-dizioni delle nostre classi lavoratrici e consu-ma trici in Italia: dobbiamo abolire i dazi.

Né, se consideriamo la cosa dal punto di vi-sta della convenienza e dell’equità, la rispostaci suona diversa. I nostri precedenti articolihanno dimostrato che la lunga protezione con-cessa alle nostre industrie manufattrici ha rag-giunto pienamente il suo scopo: quindi inutileil conservarla.

Ma in questo momento un altro problema diequità, non meno grave, urge al pensiero degliitaliani: e questo è il problema meridionale.Orbene, come ha dimostrato il prof. De VitiDe Marco alla Camera e nel suo denso discor-so di Lecce, la questione del Mezzogiorno nonè questione di lavori pubblici; ma è essenzial-mente questione d’imposte, di libertà com -merciale e di tariffe doganali. Il Mezzogiorno,privo d’industrie e travagliato da una terribilecrisi, ha bisogno per vivere di vendere i suoiprodotti: e per vendere ha bisogno che cessiquesta tutela degli in teressi dei pochi, che ora,per le indirette dichiara zioni dei più intelligen-ti fra quei pochi stessi, non avrebbe più nessu-na ragione di essere, a meno che non si ritengadovere dello Stato di stringere con tratti per lagaranzia di elevati profitti a favore degli indu-striali. Del resto, questi stessi riconoscono cheè per essi questione di prima importanza l’ave-re un Mezzogiorno ricco che continui a com-prare i loro prodotti. Ed è per ciò che i coto-nieri presenta rono e sostennero un ordine delgiorno favorevole a più equi trattati al Con-gresso, delle Società economiche, tenutosi aTorino lo scorso settembre (1902, ndr).

* * *

Non è quindi tanto alla rinnovazione o menodei trattati che oramai bisogna mirare, quantoa colpire direttamente l’albero della protezionenelle sue ra dici: noi dobbiamo volere la ridu-zione della tariffa del 1887.

La misura, entro cui questa riduzione puòeffet tuarsi, l’abbiamo abbozzata, trattando del-le singole industrie. Ma, siccome essa ci por-terà a lunghe e ostinate lotte, così noi dobbia-

mo, se pur vogliamo ottenere qualche cosa diconcreto, convergere tutti gli sforzi verso unpunto immediato; e questo non può essere chela graduale riduzione del dazio più iniquo, piùinutile, più dannoso per tutte le classi: voglia-mo dire, il dazio sul grano.

Esso abolito, si diminuisce il costo della vitadelle classi industriali e quindi si apre una viaper com pensarle del danno momentaneo cherisentiranno dalla diminuzione dei dazi sui lo-ro prodotti. Esso abolito, ci si aprono di colpogli splendidi mercati dell’Argentina, dove noi,assieme ai prodotti, meglio assicuriamo la no-stra vigorosa emigrazione di uo mini. Essoabolito infine, si è fatto un passo immenso ver-so la Iiquidazione della crisi agraria, che gravasu non meno di 15 milioni di cittadini italiani.Ora o non più bisogna che i consumatori siscuotano a questo appello, che giunge nel mo-mento meglio op portuno!

* * *

Noi crederemmo di aver fatto opera oziosa,se non chiudessimo questo nostro studio conuna proposta concreta alla Direzione di questareputata Rivista. Già da molti Indizi si va di-mostrando come la protezione in, Italia abbiacompiuto oramai la sua fase ascendente e peressa incominci l’altro ramo della parabola. Icotonieri non si mostrano così accaniti nelleloro richieste come nel 1892: l’Associazionedei sericultori, per opera dell’instancabile Gi-retti, ha pubblicato il suo proclama di libertà.E libertà do mandano le Camere di commerciodi Palermo e di Bari, dietro cui sta la mente vi-gile di Angelo Ber tolini; e questo grido di li-bertà risuona fra i depu tati meridionali più in-telligenti, nei loro Collegi e alla Camera.

Proposte per costituire una intesa fra i con-suma tori italiani in questo momento solennesi sono fatte e sul Giornale degli Economisti esulla Riforma Sociale.

Noi però crediamo che l’opera rimarrà ste-rile, se essa non viene assunta dal partito, cheattualmente ha in Italia il potere di trascinarele masse e con la persuasione e con l’autorità:vogliamo dire, il partito socialista. Se questosi assume l’incarico di far penetrare nella co-scienza delle masse che una trasformazionedei dazi avrà per esse risultati di retti e indiretticosì meravigliosi, che non vi è ri forma tribu-taria che possa paragonarvisi, la vittoria è si-cura. In. questo momento, il partito socialistasu questa questione può tirare a sé il grupporadicale, il popolo, tutti gli agricoltor! italiani,eccettuati i grandi cerealicultori, gli industrialidella seta, i rap presentanti delle industrie deitrasporti e la Lega Navale, tutti interessati allibero commercio e alla vita a buon mercato.

E con tali energie può creare un tal fascio diin teressi, che, sapientemente diretto, nessunaforza di industriali varrà a spezzare.

Una Associazione di tale genere deve sorge-re, a parer nostro, proprio in quella Milano, dacui nel 1878 e nel 1887 partiva la voce dellaprotezione a oltranza. Questa Associazione sipuò proporre di riunire tutti i consumatori ita-liani sotto una ban diera di libertà, indipenden-temente dai partiti e dai principii per cui essiaderiscono. Mezzi di propa ganda sarebbero igiornali Iiberisti, non minimi né deboli, le con-ferenze, le Federazioni di lavoratori, gli opu-scoli gratuiti o a minimo prezzo. Suo primoscopo: ottenere, pel 1904, la riduzione del daziosul grano a L. 6 il quintale, cifra riconosciutasufficiente per gli scopi protettivi dai proprietaridell’Italia meridionale ; riduzione che reca alloStato un danno di dieci milioni, a cui può ripa-rare con l’avanzo, e ai consumatori un utile di40 milioni. Dopo, di anno in anno, il dazio do-vrà ridursi di una lira al quintale, finché sarà di-venuto un dazio economico di L. 1,50.

Accanto a questo scopo primo e immediato,la Associazione dovrà proseguire la sua operaper la riduzione di tutti i dazi pel miglioramen-to dei prezzi di trasporto, per l’incremento delcredito agrario e fondiario, per- l’estensionedella coltura commerciale: sopratutto, per il-luminare e tener desta la coscienza del popolosu questi quesiti, che riguardano la sua fortunae il suo innalzamento materiale. Abituando lemasse a rendersi esatto conto degli interessiche attorno ad esse si agitano ardenti e a valu-tarne la portata, l’Associazione avrà il vantoimmenso di aver illuminato le coscienze e diaver preparato all’Italia una strada, il cui finesfugge per la sua stessa grandiosità.

Quanto proponiamo non è nuovo: l’Inghil-terra è a un piccolo Club che deve la sua odier-na politica, fonte precipua di una smisurataricchezza. Perché non batterebbe l’Italia lostesso cammino, raggiun gendo l’ideale espo-sto dall’illustre De Johannis: l’Italia portofranco dell’Europa?

Il premio è così grande, che pel partito so-cialista mette conto tentarne l’alea. Riesce, ele conseguenze mostreranno la grandezzadell’opera: cade fra l’in differenza generale, eallora si vedrà che il popolo italiano non è ma-turo a certe questioni, che il suo riscatto eco-nomico dovrà essere pagato con altre lacrime,con altri dolori. Le lacrime e i dolori pas satinoi li abbiamo messi in cifre. A chi vi vuol leg-gere, le conclusioni. s

LA DIREZIONE RISPONDE

Quando noi aprimmo le colonne della Criti-ca al denso e poderoso studio di Attilio Cabiatie Luigi Einaudi - entrambi non socialisti e bennoti per le loro tendenze e convinzioni scien-tifiche - non ignoravamo le proba bili conclu-sioni a cui lo studio stesso sarebbe arrivato.Ciò malgrado - diremmo meglio, in grazia diciò - fummo lieti di farci, per così lunga seriedi articoli, loro editori. Ciò significava, sin dalprimo giorno, la nostra adesione personale al-le conclusioni medesime.

E l’adesione è così piena, che inoltre - perporre meglio a portata di tutti gli studiosi e gliuomini politici i risultati delle indagini pazientidei due valorosi nostri collaboratori - ci pro-poniamo di stralciare i loro articoli in un vo-lumetto, che vedrà la luce fra brevis simi giorni.

Senonché, malgrado l’onore che i nostricollaboratori fanno al nostro partito, ed a noiin ispecie, supponendoci i soli capaci di effi-cacemente promuovere l’attua zione della pro-posta precisa, che è il coronamento logico delloro lavoro, ci sentiamo - non vogliamo dissi-mu larlo - alquanto perplessi dinnanzi alla re-sponsabilità ed all’onere che a quell’onore siaccompagna.

Certamente: le idee, in una materia così pre-gna di lagrime e di sangue di popolo, finché ri-mangono accidiose sulla carta, finché non sitrasfondono in una agi tazione ordinata e siste-matica; sono dilettazione vana di accademici,fatuo pascolo di dottrinarii perdigiorni. E sa-rebbe tempo che la angosciosa esperienza ditanti anni – ora che si può, da tanti fattori ac-cumulati, tirare con certezza le somme... e lesottrazioni – compiesse il miracolo che del ver-bo fa carne, e della tesi astratta fa azione.

Un’altra ricerca, tuttavia, è pregiudiziale:quid valeant humeri, quid ferre recusent. Ab-biamo noi l’autorità, ha già il nostro partitola preparazione specifica e la con creta vitalità- il Wille schopenhaueriano - che Ca biati edEinaudi gli e ci suppongono?

Da più anni, negli scritti, e più nella propa-ganda orale, noi giostriamo, nelle chiostre delnostro partito e negli ambienti operai - forsecon preparazione insuffi ciente noi stessi, ma

con visione limpida del fine e con convinzionetestarda - per ridurre il pensiero socialista, dal-la arcadica nebulosità delle grandi formule, ovacue, o mal sorrette dai fatti, o solo vere ten-denzialmente, a una più circoscritta e positivaoperosità sovra i temi concreti della vita. Ciparve, e pare, che, nel complesso dedalo deiproblemi economici, negli anfratti dell’azioneimme diatamente possibile e immediatamenteefficace, nell’in trico degli interessi a volte coz-zanti e a volte congiuranti di classi sociali di-verse, i socialisti, rappresentanti l’in teresseproletario, che è del maggior numero, e che èinteresse essenzialmente progressivo, abbianoqualcosa da dire e qualcosa da fare, che nondicono e fanno ab bastanza, e che sono sviati dadire e da fare per l’in cubo di quei preconcetti,in cui credono custodita ed esaurita tutta la dot-trina. In altre parole, fra coloro che ciangottanoa perdifiato di questione sociale, come di cosaper sé stante ed avulsa alle contingenze dei pro-blemi concreti, e coloro che negano di essa an-che l’essere e non veggono se non altrettantequestioni sociali distinte ed indipendenti, quantisono i problemi urgenti della società e dello sta-to, noi ci collochiamo in una linea in termedia:crediamo a una questione sociale, non già au-toctona, ma che sta in funzione delle questionisociali singole onde è tutta intessuta, e che nonsi risolve da sola, dove non si attacchino e si ri-solvano queste con veduta d’assieme.

Tale opinione, e l’atteggiamento che ne con-segue, ci procurò nomea quando di opportu-nisti, quando di diser tori: perché volemmo av-valorare la lotta, dalle nubi riducendola in ter-ra, fummo in sospetto di quietisti ; perché ri-cusammo il comodo alibi di assolute antitesimeramente dialettiche, ci si gabellò per armo-nisti so ciali. Vagheggiammo una rivoluzionenutrita di fatti, non campata nelle aeree paro-le, e se ne creò una tendenza, affibbiandocela,coll’adorabile nomignolo di “ rifor mismo “.

Anche nell’ultima riunione, in Roma, dellaDirezione del partito e del Gruppo parlamen-tare, ci avvenne di porre la questione tutta in-tera, della quale quella affac ciata da Cablatied Einaudi non è in realtà che un fram mento.Discorrevasi di “ spese improduttive” elamen tavasi che la contraria propaganda, on-de s’era preso l’impegno, fosse come svampa-ta nelle fiammate effimere di pochi Comizii.Osservammo che il combustibile, onde quel-l’agitazione si alimentava, era di tale natura,da non poter dare per l’appunto che dellefiammate; perché, qual che sia il fugace cla-more dei Comizii, la questione delle spese co-sidette improduttive, e militari in ispecie, nonsi avvia a soluzioni concrete, ove non si con-netta con tutti gli altri problemi cognati, poli-tica estera e coloniale, riforma tributaria, do-gane, trattati di com mercio, ecc., ecc. Ne uscì,per voto concorde, un Comi tato speciale, in-caricato di predisporre un programma com-pleto di lavoro, parlamentare ed extraparla-mentare, Ma sarà poi secondato?

È nel quadro di cotesto programma - nondottrinale, ma pratico - che vediamo collocarsinaturalmente la proposta dei nostri collabora-tori Cabiati ed Einaudi. La quale non potrebbeessere accolta, senza jattanza, da un uomo oda una effemeride. La risposta non spetta, dun-que, a noi soli. Per noi, lo ripetiamo, chi ci in-vita ad un’azione concreta ci invita a nozze:né, poiché si tratta di abbattere o di abbassarebarriere doganali, fa remo questione di frontie-re fra partiti, per assicurare a noi stessi artifi-ciosa protezione di dogane politiche.

Facciamo nostra la proposta che ci è rivoltae la gi riamo al partito. Risponderà esso e inqual modo? Troppe volte esso ci rispose conla solenne eloquenza d’un alto, imperturbatosilenzio... s

La Critica Sociale

18 ■ CRITICAsociale9 / 2011

UN PO’ DI STORIA: LE CINQUE RETI (1865-1880)

Un poco di storia retrospettiva è indispensa-bile. La legge 14 maggio 1865 stabilì un primoordina mento delle ferrovie italiane. Per essa lenostre strade furono divise in cinque gruppi econcesse a cinque Società: quella dell’Alta Ita-lia, con 2000 km già in esercizio e legati alleferrovie austriache, di cui erano conseguenza- quella delle Romane, con circa 1730 km. - laSocietà delle Strade ferrate Meridionali (km.1750) - e quella delle Calabro -Sicule (km.1250). Le ferrovie sarde erano state con cessea un privato fino dal 1863.

La Società Alta Italia ebbe breve vita: l’an-nessione del Veneto, i suoi stretti vincoli conle Società ferroviarie austriache, provocaronocol Governo na zionale attriti, che ebbero ter-mine con la convenzione di Basilea del 17 no-vembre 1875. Con essa lo Stato divenne pro-prietario di km. 2975 di ferrovia ben tenuta,con ottimo materiale, del valore di circa 1 mi-liardo e 53 milioni.

Triste è la storia delle Ferrovie Romane. Es-se erano sovvenzionate dallo Stato con L.13.250 per chilometro all’anno, finché il pro-dotto lordo chilo metrico non oltrepassasse leL. 12.500: dopo dimi nuiva la sovvenzione inmisura determinata. Ma la Compagnia nongiunse mai neppure a ottenere tanto dal suoesercizio, da compensare e ammortizzare il ca-pitale di costruzione, in 482 milioni di lire cir-ca. La sua vita fu un continuo grido di soccor-so, finché venne fatto obbligo dalle circostan-ze al Governo di procedere al riscatto, ordinatocon la nota legge 29 gennaio 1880 .

I rapporti finanziari fra Governo e SocietàMeri dionale erano di natura ancor diversa. Dal10 gen naio 1865 al 31 dicembre 1868 lo Statodoveva pa gare una sovvenzione di L. 22.000al chilometro. Dopo tale quadriennio la sov-venzione era ridotta a L. 20.000 al chilometroe il prodotto annuo lordo chilometrico era de-voluto interamente alla Società fino al limitedi L. 7000. Dopo tal limite, la sovven zione di-minuisce del 50 % della differenza fra il pro-dotto lordo e le L. 7000, e ciò fino a che il pro -dotto lordo avesse raggiunto le L. 15.000. Al-lora, tutto il prodotto lordo superiore alle L.15.000, uni tamente al 50% della differenza fraquesto e le L. 7000, si computava in diminu-zione della sovven zione governativa. Dal 1863al 1879 lo Stato pagò alla Società L.346.678.624; la Società diede allo Stato, pertrasporti gratuiti a prezzi ridotti e tasse, L.145.357.727.

Quanto alla Società delle ferrovie Calabro-Sicule, basterà dire che, con leggi del 1870 edel 1871, lo Stato finì con l’affidare l’eserciziodelle sue reti e la costruzione delle nuove allafiorente Società delle ferrovie Meridionali.

PROGETTO MINGHETTI-SPAVENTAPROGETTO DEPRETIS

Come si vede, fino al 1880 l’Italia era divisae suddivisa fra ferrovie di Stato e ferrovie pri-vate, che si attraversavano, si intralciavano,portavano a una complicazione di tariffe dan-nosa ai privati, a una complicazione di metodidi partecipazione e di garanzie dannose alloStato. Questo poi, come eser cente la rete più

florida, quella dell’Alta Italia, si dimostravaassai cattivo amministratore.

Del malessere crescente e del desiderio dipor fine ai lamenti e danni suaccennati, furonoprove il pro getto Minghetti-Spaventa del 1874e le convenzioni Depretis del 1877. Il primocomprendeva tre stipu lazioni: riscatto delleFerrovie Romane e Meridionali - appaltodell’esercizio delle Strade ferrate Romane,Meridionali e Calabro-Sicule - cessione alleSocietà appaltatrici della costruzione dellenuove linee. A carico delle Società stavano tut-te le spese ordinarie e straordinarie d’esercizio,tranne quelle miranti a migliorarlo in modopermanente o ad accrescere il capitale. I pro-dotti delle strade ferrate spettavano allo Stato,che corrispondeva un premio fisso alle Societàe dava a queste una partecipazione al pro dottolordo chilometrico. Per il mantenimento el’aumento del capitale, lo Stato provvedevamediante un fondo di riserva, prelevato dalprodotto lordo chilometrico, in misura cre-scente con gli anni di esercizio.

Ma gli animi eran contrari a una ferrovia diStato e anche a un sistema in cui lo Stato aves-se troppa ingerenza: il progetto non fu neppurseriamente discusso e vi si sostituirono nel1877, come abbiamo detto, le convenzioni De-pretis.

Qui il concetto fondamentale è diverso: tuttele reti venivano riscattate e divise in due reti:l’Adria tica e la Mediterranea. L’esercizio ve-niva concesso a due Società. Valutato il pro-dotto lordo ferroviario a 150 milioni annui,questo restava agli esercenti, che in compensodovevano corrispondere allo Stato un canonefisso di complessive L. 45.000.000. Inoltre loStato riceveva una partecipazione del 42% sulprodotto lordo eccedente i 150 milioni; avevainfine una partecipazione al prodotto netto cosìstabilita: se gli utili delle Società salivano aduna somma che importasse, compresa l’impo-sta di ricchezza mobile, un interesse superioreal 7,50% sul capitale ver sato in azioni, la metàdel sopravanzo spettava al Governo.

Importa qui rilevare tre punti: la mancanzadi quei fondi di riserva che dovevano poi di-venire la sgraziata chiave di volta delle Con-venzioni attual mente in vigore. Il concetto delcanone fisso, poi abbandonato e a cui ora, co-me vedremo, si vorrebbe ritornare. La novitàdella divisione delle reti ferro viarie in duegrandi linee longitudinali, secondo i versantidei due grandi mari che abbracciano l’Italia.

La ripartizione che noi vi proponiamo nonè in tutto quella dei versanti, né coincide in tut-to colla direzione delle acque verso i due marid’Italia. Essa divide in due l’Italia per tutta lasua lunghezza, riunendo in una im presa tuttele strade che si trovano dal lato di occidenteed in un’altra tutte quelle che si trovano dal la-to d’oriente, tanto che le due imprese avreb-bero anche potuto denominarsi una orientale el’altra occidentale; poiché, come è partita laparte peninsulare, così pure viene ad esser di-visa la parte continentale della gran valle delPo. Spettano all’un gruppo esclusivamente lecomunicazioni, colla Francia per Nizza e peril passo del Cenisio; spettano esclusivamenteall’altro le comu nicazioni colla Germania ecoll’Austria per i passi del Brennero, dellaPontebba e del Carso: sono tra i due equamen-te distribuite le relazioni per la grande via me-diana del Gottardo, destinata appunto a mette-

re l’Italia in più diretto rapporto coll’Europacentrale, colla Sviz zera, colla valle del Reno ecol Belgio. L’un gruppo arriva a Milano, ve-nendo da occidente; l’altro vi giunge da orien-te; s’incontrano a Milano, dove è la stazioneinterna e il recapito del commercio internazio-nale per la via del Gottardo; e l’uno e l’altro,ciascheduno per propria via, conduce a Firen-ze, a Roma e Napoli, nelle quali grandi città idue gruppi s’incontrano e nel tempo stesso sidividono.

Così Depretis si riprometteva di aver dueSocietà poderose per mezzi che, senza concor-renza ruinosa, si emulassero intensificando gliscambi fra setten trione e mezzodì d’Italia, eportando tutti i benefici politici di affratella-mento delle regioni, mediante la comunanzadegli interessi. Questo concetto trasmigrò in-tegralmente nel progetto Genala.

LA COMMISSIONE D’INCHIESTAPARLAMENTARE

Oramai una soluzione si imponeva. Dietroproposta dei ministri Cairoli e Baccarini, il Par-lamento, con legge 8 luglio 1878, ordinò unaCommissione parla mentare d’inchiesta. Nel1881 questa presentava le sue relazioni e con-clusioni, che servirono di base alla legge del1885. Ecco i caposaldi della relazione in paro-la, stesa dagli onorevoli Brioschi e Genala:

1°) La Commissione, all’unanimità, delibe-rava: “essere preferibile che l’esercizio. dellestrade ferrate italiane venga affidato all’indu-stria privata”. Vedremo a suo tempo i motivi.

2°) Ciò posto, i metodi erano due:a) concessione di proprietà alle Società pri-

vate, senza garanzie, sovvenzioni o sussidi. E’il sistema inglese e americano. Esso supponenaturalmente strade rimuneratrici;

b) concessioni di esercizio sussidiate dalloStato, per il fatto che il prodotto delle stradeconcesse si ritiene insufficiente a rimunerarele spese d’esercizio, gli interessi del capitale ela quota d’ammortamento. Queste sono le con-cessioni preferite sul continente d’Europa.

Lo Stato, alla scadenza delle concessioni, ri-ceverà in proprietà netta e libera le ferrovie;gode intanto di molti trasporti gratuiti e semi-gratuiti, esercita una grande ingerenza nellacostruzione e nel man tenimento della strada,nel regolare i trasporti, gli orari, la velocità deitreni e specialmente le tariffe. Le sovvenzionidello Stato in questo sistema si pos sono ridurrea tre specie:

1° garanzia di un interesse del capitale; 2° garanzia di un prodotto lordo chilo -

metrico; 3° sovvenzione a fondo perduto.

Fra questi sistemi la Commissione d’inchie-sta de liberava esser preferibile quello dellaconcessione intera. Ritenendo però che essonon verrebbe accolto per le speciali condizionid’Italia, che aveva appena allora riscattato lesue ferrovie, studiò con molta diligenza le con-dizioni principali che avrebbero do vuto regge-re un contratto d’appalto d’esercizio. Pro -poneva quindi doversi accettare il concettoDepretis dell’appalto a due sole grandi Socie-tà, Mediterranea ed Adriatica. Dovessero que-ste divenir proprietarie di tutto il materiale mo-bile e sostenere tutte le spese di esercizio ine-renti al traffico e alla trazione.

Quanto alle spese straordinarie, la Commis-sione si attenne al sistema olandese, su cuigran parte delle nostre Convenzioni venneromodellate, e pro pose la costituzione di tre fon-di di riserva: 1. fondo per l’aumento del mate-riale mobile: ad esso si prov vedeva mediante

prelevazioni di un tanto per cento sul prodottolordo; 2. fondo per la rinnovazione del -l’armamento: per esso si faceva una secondaprele vazione dal prodotto lordo, proporzionalealla lun ghezza dei binari semplici e doppi; 3.fondo per gli ampliamenti e miglioramenti eper i casi di forza maggiore, costituito da unaterza prelevazione pro porzionale alla lunghez-za delle linee in esercizio. Un fondo specialepoi doveva costituirsi per l’eser cizio delle nuo-ve strade ferrate. In tal modo, secondo la Com-missione, veniva a costituirsi automaticamentee senza alcun aggravio per lo Stato e per le So-cietà, col gioco degli interessi composti, tuttoil capitale necessario all’azienda ferroviaria.

Quanto alla partecipazione dello Stato aivantaggi dell’impresa, la Commissione, riget-tando il concetto Depretis del canone fisso,siccome poco favorevole allo Stato, propone-va, sul sistema olandese, che esso avesse unacompartecipazione sul prodotto lordo.

LE CONVENZIONI GENALA (1885)

In base alla Relazione della Commissione, il5 maggio 1884, Genala, ministro dei LavoriPubblici, presentava i disegni di legge sul-l’esercizio delle reti Mediterranea, Adriatica eSicula e costruzione delle strade ferrate com-plementari. La concessione veniva fatta per 60anni, divisi in tre periodi di 20, per ognuno deiquali le parti contraenti si riserbavano il dirittodi risolvere il contratto mediante un preav visodi tre anni. Le tre Società comprarono dalloStato il materiale mobile, la Società Mediter-ranea per 135 milioni, quella delle Meridionaliper 115, la Sicula per 15; onde allo Stato ven-nero sborsati, fra una Società e l’altra, 265 mi-lioni, dei quali 135 furono calcolati sufficientia riporre in buon assetto le ferrovie; il residuosi destinò alle nuove costru zioni ferroviarie,deliberate colla legge del luglio 1879.

Alla Società delle Meridionali venne man-tenuta la sovvenzione di 32 milioni annui permantenimento di patti anteriori riguardanti li-nee da essa costruite. Il prodotto lordo dellarete venne calcolato in 112 milioni per la Me-diterranea, in 100 per l’Adria tica e in 8½ perla Sicula. Questo prodotto lordo, detto iniziate,si divide così: 62,50% alle due So cietà conti-nentali, 82% alla Sicula; 27½ e 3% rispettiva-mente allo Stato; il residuo 10% sul pro dottolordo delle due reti continentali e il 15% diquella Sicula si distribuiscono fra i fondi di ri-serva e l’interesse per l’uso del materiale ro-tabile e di esercizio.

Venne previsto e calcolato un prodotto lordoultra -iniziate, causato dal naturale incrementodei traffici, in grazia anche del nuovo ordina-mento ferroviario. Quando nelle reti continen-tali il prodotto passasse quello iniziale, il so-prappiù fino a 60 milioni si ripar tiva in ragionedel 56% a favore della Società, del 28 a favoredello Stato, del 16 a favore dei fondi di riservae della Cassa per gli aumenti patrimoniali, dicui diremo.

Per la rete Sicula, quando il prodotto oltre-passasse quello iniziale di 8 milioni e mezzo,si divideva in ragione del 72 % alla Società,6% allo Stato, 22% al fondo di riserva e allaCassa per gli aumenti patrimoniali. Ripartizio-ne diversa ancora si faceva quando il prodottolordo oltrepassasse anche quei 50 milioni.Quando poi da questo prodotto lordo si fosseroricavati utili netti che eccedessero il 7½% frainteressi e dividendi, l’utile eccedente si divi-deva a metà fra Governo e Società.

Il Governo era autorizzato ad affidare la co-stru zione delle nuove linee alle Società con-cessionarie, che raccoglievano il capitale me-diante obbligazioni 3% emesse dalle Societàcon garanzia dello Stato.

EINAUDI E LA CRITICA ■ 1901 FASCICOLO 11 PAGINA 170

LA POLITICA FERROVIARIA IN ITALIA

Luigi Einaudi e Attilio Cabiati

CRITICAsociale ■ 199 / 2011

FONDI DI RISERVA E CASSA DEGLIAUMENTI PATRIMONIALI

Come si è visto, il Governo non aveva man-cato dav vero nelle previsioni rosee, e avevacurato che le Società non facessero troppo lar-ghi affari! Pei con tratti, una quota dei prodottiè assegnata alle So cietà a titolo di corrispettivi,un’altra quota, come vedemmo, ai fondi di ri-serva e alla Cassa degli au menti patrimoniali.I corrispettivi rappresentano in realtà gli inte-ressi che sono dovuti dal Governo sul prestitodi 265 milioni fatto dalle tre Società sotto for-ma di cauzione alla sottoscrizione dei contrattidi esercizio.

I fondi di riserva servono per i danni cagio-nati dai casi di forza maggiore e pel rinnova-mento del materiale metallico dei binari e delmateriale rota bile. Le Casse per gli aumentipatrimoniali servono specialmente per esegui-re tutti i lavori atti ad au mentare il valore delleferrovie (patrimonio dello Stato). Esse costi-tuirono il perno delle Convenzioni del 1885;giova quindi ricordarne la definizione data neicapitolati d’appalto:

“È costituita la Cassa per gli aumenti patri-moniali richiesti dall’aumento del traffico.Con essa si provvederà alle spese per gli am-pliamenti dell’argine stradale, al raddoppia-mento ed aggiunta dei binari e piani carica tori,impianti e ampliamenti di stazioni ed officine,ap plicazioni di apparecchi di sicurezza e di se-gnalamento lungo le linee e nelle stazioni edin genere per tutte le costruzioni nuove, com-presi i fabbricati e le chiusure di primo impian-to, nonché all’aumento e alle sostituzioni percambiamento di tipo di meccanismi fissi perservizio delle stazioni e di attrezzi e utensilidelle officine, alla costruzione di nuove lineetelegrafiche ed aggiunta di nuovi fili sulle li-nee esistenti. Saranno a carico di questa Cassale spese straordinarie pel rifacimento in accia-io di binari tuttora in ferro, compresi i relativiscambi, e pel primo risanamento e completa-mento della massic ciata, in quanto non siasiprovveduto coll’art. 1 dell’an nesso allegato B.Si provvederà pure con questa Cassa all’au-mento del materiale rotabile e d’esercizio e aquei miglioramenti di esso che ne aumentanoil valore e siano approvati dal Governo, adde-bitandone però il concessionario durante l’ese-cuzione delle opere e dei lavori indicati nel-l’allegato B: si provvederà con questa Cassapiù specialmente all’aumento del materiale ro-tabile e d’esercizio. Le somme necessarie perprovvedere alle spese delle Casse patrimonialisaranno ottenute mediante la emis sione di ob-bligazioni. La forma di queste obbligazioni ele modalità della emissione saranno uguali aquelle stabilite per le obbligazioni da emettersiper le nuove costruzioni. La Cassa sarà adde-bitata di quelle emesse a suo carico e ne pa-gherà l’interesse e l’ammortamento. Per faretali pagamenti sarà versato annualmente nellaCassa medesima il 15% dell’aumento del pro-dotto lordo dell’esercizio, oltre il prodotto ini-ziale. Spetterà pure alla Cassa il prezzo che siricaverà dalla vendita dei materiali messi fuorid’uso, nonché un terzo del saldo dei noli, dicui nell’art. 63 del presente capitolato”.

I DIFETTI TECNICI DELLE CONVENZIONI

Sulle Convenzioni divenute legge, come giàdi cemmo, il 14 aprile 1885, non rifaremo piùpole miche antiche; riassumeremo solo i prin-cipali difetti, che la pratica ha constatato inmodo incontroverti bile, aggiungendo alcunidati statistici riassuntivi di tale materia.

1° Innegabilmente, le Convenzioni del 1885hanno il difetto capitale di una comproprietà

fra Stato e Società, e più specialmente ancoradi una gestione dei così detti fondi speciali,fatta promiscuamente dal Ministero dei lavoripubblici e dalle Compagnie esercenti, con in-teressi e intendimenti non sempre concordi.

2° Si affidò alle Casse per gli aumenti patri-mo niali (ossia allo Stato proprietario) l’esecu-zione delle opere complementari; ne derivòuna serie di atti emulativi fra Stato e Società,non potendosi mai net tamente determinare setali opere erano dirette uni camente a miglio-rare l’esercizio, nel qual caso an davano real-mente a carico dello Stato, o anche a diminuirele relative spese di gestione, nel qual casoavrebbe dovuto partecipare all’onere anche laSocietà esercente.

3° Il sistema della partecipazione al prodottolordo era stato proposto sul sistema olandese;bi sogna però notare che sin dal 1882 questosistema dava cattiva prova nei Paesi Bassi. Idifetti princi pali di questo sistema sono questi:di impedire alle Compagnie di spingere i ri-bassi fino al punto di ac caparrare alla ferrovianuovi trasporti; di impedire l’acceleramentodei viaggi e tutti quei perfeziona menti che im-portino maggiore spesa. - Nel regime di par-tecipazione al prodotto lordo, il limite delle ta-riffe è aumentato di tutta la quota governativae lo Stato percepisce un guadagno che com-prende di fatto anche le spese necessarie perfar fruttare il patrimonio ferroviario. - Infinela partecipazione al prodotto lordo fa sì che loStato eserciti una sover chia ingerenza nel-l’azienda sociale, con danno mani festo dellasua sveltezza e creando possibilità di liti. Di-fatti, nel 1890 l’Olanda stessa addivenne anuove convenzioni, mutando radicalmente ilprecedente si stema. Alla partecipazione al pro-dotto lordo si so stituì il sistema di corrispon-dere al Governo un ca none fisso, da aumen-tarsi di una somma determinata per ogni nuo-vo chilometro di ferrovia in esercizio, più unaeventuale quota di utili netti.

4° Ne conseguì che le tariffe, sebbene uni-ficate, furono fissate in misura troppo alta, enon si pensò alla possibilità di diminuirle, mal-grado l’esempio dell’estero, e specialmentedella Francia. L’art. 44 dei capitolati veramen-te dà diritto allo Stato di ab bassare le tariffe,rinunziando a una quota parte della sua com-partecipazione. Questo articolo però non ebbeesecuzione che per sei voci, per la natu rale ti-tubanza di un Governo sempre stretto dalle ne-cessità quotidiane di una finanza povera. Inol-tre il difetto, di cui dopo parleremo, di costrui-re tutte le ferrovie su uno stesso sistema d’im-pianto, si è ri percosso anche sulle tariffe, ag-gravando eccessiva mente le regioni povere,mentre l’onere veniva sop portato assai agevol-mente da regioni più ricche. Sotto questo pun-to di vista le Società furono più audaci del Go-verno, ottenendo da esso ribassi di tariffe per13 milioni, e sempre con risultato felice. Ed èper questo che le merci, se sono aumentate intonnellaggio del 52% in quindici anni, dal1883 al 1898, non hanno certamente offertoquello svi luppo che nel 1882 si prevedeva.Peggio ancora ri guardo ai viaggiatori, il cuinumero da milioni 45 nel 1885, diventò solodi milioni 55½ nel 1898, con un aumento del26%, mentre la rete ferro viaria si è accresciutadel 35%: notisi che nello stesso periodo l’au-mento del movimento viaggiatori sulle ferro-vie francesi fu del 45% e sulle ferrovie del-l’Impero germanico superò il 100%.

5°) La legge del 1885 istituì, come vedem-mo, per la conservazione delle strade e del ma-teriale, i seguenti fondi: 1° fondo di riserva perprovvedere ai danni cagionati alle strade daforza maggiore; 2° fondo di riserva per la rin-novazione della parte metallica dell’armamen-to; 3° fondo di riserva per la rinnovazione delmateriale rotabile reso inservibile dall’uso. Per

la maggiore semplicità sarebbe stato desidera-bile che i servizi e i bisogni qualificati nei trefondi di riserva si fossero assunti senz’altrodalle Compagnie esercenti. Inoltre contro l’ac-collo dei ser vizi inerenti ai tre fondi stanno ifatti; per il primo fondo, dell’incertezza deidanni cagionabili da forza maggiore, trattando-si di linee non tutte consolidate; per il secondofondo, che, dovendo esso provvedere soltantoalla rinnovazione della parte metallica del -l’armamento, già formato con materiale in ac-ciaio, e non al primo rifacimento, era difficiledi commi surare nei primi anni la portata deglioneri, fino a che tutta quanta la rete non fossecosì armata; per il terzo fondo, che si era in pre-senza di bisogni non costanti, ma da prima as-sai limitati per l’età assai giovane dei rotabili.

MEGALOMANIA E TRIPOTAGESFERROVIARII

A questi difetti, che diremo tecnici, dalleconven zioni del 1885, altri se ne aggiunsero,di indole varia e meno innocente:

1°) L’Italia, rimasta molto in arretrato dallealtre nazioni nelle costruzioni ferroviarie, pre-se di tratto uno slancio sproporzionato alle for-ze del suo traffico, accrescendo le linee da km.10.291 a km. 15.753, cioè del 35 %, fra il 1883e il 1898, mentre, ad es., la stessa rete francese,pure spinta dal “Gran Pro gramma” di Freyci-net, aumentò nello stesso pe riodo da km.31.531 a km. 41.493, ossia appena del 24%.Gran parte delle costruzioni furono dovute aindebite ingerenze parlamentari o a turpi con-tratti elettorali; le linee che rendono sono quel-le che già erano costruite; gli ultimi 5000 km.contribuiscono per ben misera cifra all’incre-mento del traffico.

2°) Si costruì troppo in grande, respingendoil concetto delle reti secondarie, o ferrovie eco-no miche.

3°) Le spese d’amministrazione non furonoequa mente distribuite, il numero dei vagoninon venne utilizzato, ossia non si osservò ilrapporto che passa tra i posti occupati e quelliofferti. Per tal modo sono uguali le spesed’amministrazione per la linea Novi-Genova,ad esempio, che rende circa 200 mila lire perkm., e quelle per le linee siciliane e calabresi,il cui prodotto annuo non raggiunge neppurele lire 3000.

4°) La storia più dolorosa, e sfuggita quasidi proposito da quanti trattano questa materia,è quella del modo con cui si procedette alle co-struzioni fer roviarie. Errori in simile materiasono stati compiuti da tutti i paesi, e noi ne ve-dremo un esempio nelle ferrovie francesi. InItalia però si è andati di là dal credibile, per vi-zi di leggi e per vizio di uomini.

Per la legge sulla contabilità dello Stato, tut-ti i contratti di opere, che superano le L. 40 mi-la, de vono aver luogo per pubblico incanto; èquesto però uno dei sistemi più dannosi nellapratica, poiché cela nel suo seno precisamentetutti quei vizi che teo ricamente sembrerebbedover evitare. Intanto, già, trattandosi di opereche esigono l’anticipazione di grossi capitali,la concorrenza è per sua natura ri stretta. I po-chi appaltatori, poi, che intervengono al l’asta,offrono ribassi assolutamente inverosimili, chenon verrebbero mai accolti da una prudenteammi nistrazione, qualora essa non fosse lega-ta dalla legge. Tali appaltatori sono perfetta-mente convinti di non poter eseguire l’operaal prezzo proposto; ma li in coraggia il pensierodella frode, a cui offre largo margine, specienelle costruzioni ferroviarie, la ela sticità deicapitolati d’appalto, voluta dalla natura stessadei contratti da eseguire. È così che le nostrelinee ferroviarie, dai prezzi di prima previsio-ne, salirono a cifre assolutamente impreviste,

dietro reiterate modificazioni del contratto pri-mitivo d’appalto, imposto dagli imprenditorie ti midamente accettate dallo Stato.

PREVISIONI SBAGLIATE.REDDITI EFFETTIVI

E RIPARTIZIONE DEL PRODOTTO

Eppure, malgrado tutto questo, ci troverem-mo in ben migliori condizioni se non si fosseerrato nel modo più radicale nelle previsioni,su cui si fondò tutto l’edificio delle nostreConvenzioni.

Di questo non ha colpa in modo specialenessuno. Bisogna risalire al periodo in cui que-ste previsioni furono fatte: a quel 1884 in cuil’Italia, sorta ap pena a vita, guardata con oc-chio benevolo dal capi tale forestiero, ancorasotto l’impulso meccanico della spinta che lamano prodigiosa di Cavour e dei suoi più pros-simi successori le aveva dato, pareva tutto po-tersi permettere, tutto poter osare. Il risvegliodal sogno roseo fu rapido e duro: le illusionicrollarono sotto le conseguenze di una politicapazzesca, i traf fici rallentarono e i mezzi di tra-sporto risentirono le conseguenze.

Pochi dati ora sono sufficienti ad avvalorarequanto si è detto. Fino a tutto il 1892 l’aggra-vio annuo, che venne al paese dalla costruzio-ne e dall’esercizio delle ferrovie, era già di cir-ca 200 milioni, ossia di L. 14.300 per ognunodei 14.000 km. che già si trovavano al lora inesercizio, pur tenendo conto degli introiti do-vuti alle merci e ai viaggiatori trasportati. Que-sta spesa, s’intende, era quasi tutta sostenutadallo Stato, ben poche, essendo le ferrovie chedessero un red dito annuo sufficiente a coprirele spese e ad ammor tizzare il capitale. Calcolifatti dall’Ispettorato gene rale dimostraronoche, in media, il trasporto di un viaggiatore ad1 km. di distanza sulle nostre strade ferrate co-sta in tutto cent. 8,20, mentre il reddito effet-tivo chilometrico è di cent. 4,40: ne segue chel’azienda ferroviaria, per ogni viaggiatore-chi-lometro, perde cent. 3,80, che le debbono es-sere rifusi dallo Stato.

Di queste differenze in meno, 43½ milionigra varono le casse patrimoniali.

Le previsioni del 1884 calcolavano un in-cremento medio annuale del 3½ per cento perle reti conti nentali e del 2½ per cento per la Si-cula. Invece il prodotto iniziale fu sorpassato,e per poco, solo in alcuni anni di esercizi o dal-la Mediterranea, giammai dall’Adriatica e dal-la Sicula: anzi negli ultimi eser cizi si ebbe unavera diminuzione di prodotti, che solo ora hacominciato ad arrestarsi. Quindi i risultati fi-nanziari dell’azienda ferroviaria rispetto alloStato sono ora di 178 milioni di pas sività al-l’anno, che andranno crescendo ad almeno200 milioni, escluse sempre le costruzioni.

ANCORA LE CASSE DEGLI AUMENTI PATRIMONIALI,

DELUSIONI E PERDITE

Di questo stato di cose risentirono naturalmen-te i fondi di riserva e specialmente le Casse pergli aumenti patrimoniali. Se si fossero verificatele ipo tesi, le tre Casse sino al 1894 avrebberodovuto avere 81,6 milioni, dedotte le spese, enel periodo ‘95-96 le risorse dovevano ammon-tare a circa 13½ milioni. Invece, non solo i cal-coli sono andati completamente falliti, ma detteCasse hanno dovuto torre a prestito dai fondi diriserva, e lo Stato dal 1893 al 1898 ha dovutointervenire per 7½ milioni annui. (…)

E a questo deficit si devono aggiungere cir-ca altri 30 milioni di spese, eseguite solo perfar fronte a opere indispensabili. Inoltre, conuna legge del 25 feb braio 1900, si è dovuto

P ercorrendo i volumi dell’In-chiesta industriale del 1872,quelli dell’Inchiesta doganale

del 1886, gli Atti stampati della Commissionedoganale del 1892; leggendo gli studi recentiche Associazioni indu striali e Camere di com-mercio vanno facendo sulle condizioni delle in-dustrie nostre, troviamo costante mente ripetutoun grido di biasimo contro la ecce zionale al-tezza dei prezzi di trasporto delle nostre Fer -rovie. Queste da una parte, Società di naviga-zione dall’altra, sembrano quasi riunite in Sin-dacato per creare tariffe, che hanno forma proi-bitiva. E qui un industriale dimostra come unatonnellata di ferro trasportata da Manchester aPalermo costi meno che non condotta ivi daMilano; là si avverte come il carbone, giuntosul luogo di destinazione, per causa del nolo edella ferrovia, costi tre a cinque volte il prezzooriginario; come questo impedisca agli indu -striali di valersi dei carboni a minor prezzo, mapiù lontani, e di creare quella rapida trasforma-zione dei motori idraulici in motori a vapore,che pur sarebbe richiesta da tante tecniche ne-cessità di perfeziona mento. Ed è sempre l’al-tezza delle tariffe di trasporto, che le industrieconcordi portano avanti come uno degli ele-menti del maggior costo di produzione dei pro-dotti nazionali, base di tutte le richieste di unaprotezione doganale. Che se poi dai reclamidell’in dustria passiamo a controllare coi fatti,vediamo il lento e faticoso accrescersi del traf-fico delle merci, raggruppato del resto solo in-torno a pochi centri principali d’industria, el’aumento ancora più misero nel numero deiviaggiatori (…) Condizione di cose questa tan-to più grave, in quanto l’incremènto delle indu-strie nazionali spinge sempre più il commercioad avvalersi dei mezzi di trasporto per intensi-ficare gli scambi interni e spingere i nostri pro-dotti sempre più lon tano dai ristretti cerchi dellanostra esportazione, verso i paesi più remoti.

Occorre quindi cambiar strada. Il primo pro-blema che ci si presenta è questo: concedere-mo di nuovo le Ferrovie all’esercizio privato,o lo Stato, liquidando tutto il passato, ripren-derà nelle sue mani i mezzi di trasporto cosìcome si trovano, salvo cercare di far più e me-glio per l’avvenire?

Giova riassumere le principali ragioni teo-riche pro e contro i due sistemi.

Esercizio governativo. La strada ferrata co-stituisce, per la sua importanza, a cui è colle-gata tutta la vita del paese, un vero servizio

pubblico. Come tale, rap presenta una delle fun-zioni dello Stato moderno, tutore degli interessidella universalità. Inoltre, la strada ferrata è,per la sua peculiare natura tecnica, un mono-polio. In tal modo, coloro che la esercitano,possono padroneggiare il pubblico e i commer-ci, gio vare o nuocere a determinate industrie,o centri di produzione, o centri di consumo, di-rettamente col mezzo delle tariffe. Indiretta-mente anche la crea zione di potenti Compa-gnie, che dispongono di forti mezzi finanziarie di migliaia di uomini, crea quasi tanti Statinello Stato, con manifesto pericolo dei dirittisovrani di questo. Invece lo Stato, esercitandodirettamente il grande monopolio dei trasportiferro viarii, si ispira all’interesse di tutto il pae-se: pro muove il traffico, avendo in vista nonsolo il benessere presente, ma i bisogni futuri,nel mentre l’ammini strazione ferroviaria, resapiù semplice, con un’unica Direzione centralee vigilata dai poteri di controllo, non è certo piùcostosa di quella delle Società private. La fer-rovia ha anche somma importanza strategica.Ora, affidata allo Stato, l’amministrazione vie-ne orga nizzata in modo da rispondere adegua-tamente alle esigenze militari, sì in tempo dipace che in tempo di guerra. Infine, non è datemersi grave danno poli tico da questa nuovaazione dello Stato e dal gran numero di nuoviimpiegati governativi. Uno Stato libero e na-zionale non può prendere in sospetto il Gover-no e i suoi rappresentanti. Da noi è il paese chegoverna sé stesso, e d’altra parte, quando puresi verificassero in piccola misura i danni temutidi una crescente estensione delle funzioni delloStato, è facile il provvedere.

Esercizio privato. Dal fatto che le Strade fer-rate hanno un’importanza grandissima, nonconsegue logicamente che l’esercizio di essecostituisca una fun zione dello Stato. La que-stione va posta nel modo più concreto e va ri-soluta considerando imparzial mente la veranatura dell’esercizio delle Strade fer rate, i frut-ti dell’esperienza e le reali presenti con dizionidello Stato italiano.

Chi esercita la Strada ha, sotto un certoaspetto, prerogative di monopolio, derivanti inparte dalla natura di questo commercio, in par-te dalle leggi. Però è da osservare che una cer-ta concorrenza esiste sempre, diretta e indiret-ta. Diretta, quella compiuta dalle strade ordi-narie, dai tramways che sempre più si esten-dono e dalle vie di acqua. Indiretta, pel fattoche uno spostamento nei mercati. Uno dei mo-tivi per cui si invoca l’esercizio diretto dello

Stato, è che il monopolio ferroviario può pro -durre i suoi effetti dannosi specialmente sulletariffe, che formano uno dei lati fondamentalidell’industria dei trasporti.

Molti ritengono che lo Stato, divenendoesercente, scemerebbe le tariffe fino al puntodi rimborsarsi delle sole spese vive di eserci-zio, prescindendo dagli interessi e dalle quotedi ammortamento del capitale d’impianto.Questa singolare speranza però è smentita as-solutamente dai fatti. Così nel Belgio, comenella Germania, i Governi, spinti da necessitàfinanziarie, mantengono le tariffe a tale altez-za, da farle parteci pare al doppio carattere diprezzo e di imposta (...)

E se questa forma di imposta può giustifi-carsi, come vedemmo altrove, in Germania,non altrettanto può dirsi nel paese nostro, dovele imposte sono già ecce zionalmente elevate,imperfette e sperequate (…)

Costruisca però ed eserciti il Governo, op-pure il privato, sarà sempre necessario chel’erario pubblico sopporti questo onere, che èla conseguenza inevitabile dell’avere costruitola Strada sotto l’impulso di una dichiarazionedi pub blica utilità.

Nuovi treni, nuovi comodi, maggiore velo-cità, sono altre ragioni, per cui da taluni si chie-de l’esercizio governativo. Tutte queste do-mande in sé sono giuste; ma non giustificanol’intervento diretto dello Stato, anzi ne costi-tuiscono uno dei maggiori pericoli. Finché laferrovia è esercitata dalle Società private, que-ste si mostrano poco corrive a concedere trenidiretti e grandi comodità su quelle linee doveil traffico ha una minima importanza. Quandoinvece l’industria fosse esercitata dallo Stato,la confusione dell’ammi nistrazione ferroviariacon l’azienda generale, da una parte, l’azionepiù diretta che sul Governo in tale materia po-trebbero esercitare i rappresentanti degli inte-ressi locali, dall’altra, renderebbero più facilel’esecuzione e il mantenimento in grande diquelle linee finanziariamente disastrose (…)

E’ necessario che l’amministrazione di unaFerrovia sia ordinata in forma industriale, eche il per sonale abbia attitudine, intelligenza,spirito indu striale, vada soggetto a forte re-sponsabilità individuale, possa essere promos-so, premiato, punito o licenziato, secondo imeriti di ognuno. Ora, quanto ai contratti,l’amministrazione pubblica, complicata, lentae conti nuamente sindacata, legata inoltre dalregolamento e dalla legge di contabilità di cuiabbiamo visto tutti i difetti, appare precisa-mente la più inetta all’uopo (…)

Inoltre, è indispensabile per lo Stato italianosot trarsi alla necessità di emettere consolidatoper le spese in conto capitale ed evitare, per lespese di miglioramento e di completamentodelle Strade, ulte riori emissioni di rendita.

Crediamo di aver portato sufficienti motividi ordine finanziario, amministrativo, e mora-le, per cui l’esercizio ferroviario da parte delloStato in Italia si presenta come prematuro. Idifetti riscontrati agevolano assai la via a unaricostruzione sintetica.

1° E intanto, per generale consenso di quantisi sono occupati della materia, comprese lestesse Società, quel principio, così nemico diogni perfe zionamento, che è la partecipazionedello Stato al prodotto lordo, va assolutamenteabbandonato.

Le Società Neerlandesi corri spondono alloStato un canone, da aumentarsi di una sommafissa per ogni chilometro di nuova linea chevenga aggiunta a quelle già esercitate da esse,più una eventuale quota di utili netti. Così loStato nei Paesi Bassi non partecipa più agli au-menti di prodotto lordo, che rimangono alleSocietà: queste però hanno a loro carico l’in-teresse delle spese capitali per miglioramentie ampliamenti (…)

Ora il sistema della parteci pazione delloStato agli utili netti, nel nostro caso, sarebbe oillusorio o deleterio. Illusorio, qualora lo Statosi accontentasse di partecipare agli utili nellamisura dei bilanci ad esso presentati dalle So-cietà. Deleterio invece, nel caso più probabileche lo Stato volesse seguire, con occhio inte-ressato e fiscale, passo passo l’andamento an-nuale di questi utili...

2° In conformità alle Convenzioni olandesi,si dovrebbe stabilire che tutte le spese, , deb-bano sostenersi dalle Società. Nel sistema oraindicato le Società provvederebbero a quellespese nel modo che meglio loro sembrasse op-portuno, non eccedendo, s’intende, i limiti dispesa determinati dallo Stato.

3° Vedemmo anche le continue difficoltà acui dà luogo la ripartizione fra le due parti con-traenti delle spese ordinarie d’esercizio e diquelle per gli aumenti e migliorie del materialee degli impianti, causa lo stretto nesso logicoche intercede fra di esse. Queste spese dovreb-bero pure affidarsi alle Società, contro com-penso da calcolarsi nella deter minazione delcanone.

4° Rispetto alle nuove costruzioni, sarebbeop portuno che prevalesse il concetto, già am-messo nelle Convenzioni vigenti, di preventi-varne le spese d’ac cordo con le Società eser-centi, e di affidarne comple tamente l’esecuzio-ne ad esse, riserbandosi lo Stato, qualora sor-gessero contestazioni posteriori sulle spese giàpreventivate, il diritto di continuare diretta-mente la costruzione. In tal modo verrebbe eli-minato quel sistema scandaloso dei pubbliciappalti, di cui rile vammo altrove i disastro, te-nendosi anche presente che l’unica linea ita-liana, il cui costo non abbia su perato il preven-tivato, fu la Roma-Solmona, costruita appuntodirettamente dal Governo. ….

5° Il problema delle tariffe ferroviarie dovrà,colle nuove Convenzioni, riprendersi in istu-dio. Il sistema del canone fisso permette ap-punto, assicu rando lo Stato circa alle sue en-trate, di compiere un ardito tentativo per ab-bassare in modo notevole le tariffe, come èstato fatto con fortuna da tutte le nazioni civili.E’ nostra ferma convinzione, fondata sullo svi-luppo industriale che l’Italia ha assunto inquesti ultimi anni, che una economia nei prezzidi trasporto darebbe un tale slancio al movi-mento com merciale da compensare ad usurale Società del mi nore introito unitario.

Il piano avvenire è quindi relativamente sem-plice. Non eccessive trasformazioni, ma pru-dente riordina mento di quanto si fece nel pas-sato. Maggiore libertà d’azione e correlativaresponsabilità alle Società eser centi, economiae onestà maggiori da parte dello Stato. Biso-gna persuadersi che qualunque sistema di tra-sporti non è mai assolutamente cattivo: quelloche lo rende tale è il cattivo andamento degliaffari generali. La Ferrovia, per dirla con ter-mini edonistici, è un bene complementare: ela sua utilità dipende da quella dei beni diretti.E dallo sviluppo dell’in dustria che dobbiamoaspettarci il rifiorimento di quella dei trasporti.

In tutto il nostro studio abbiamo di propositoevitato di complicare la questione, introducen-dovi un lato spinoso: quello dei rapporti fra leSocietà esercenti e il personale ferroviario.

Per essi occorrerebbe uno studio speciale: cisia concesso dire poche parole.

Se la politica ferroviaria è stata avventata edissipatrice in parte, l’atteggiamento delle So-cietà e dello Stato verso il personale ferrovia-rio fu ed è dolosamente iniquo….

I rapporti fra So cietà e impiegati si riassu-mono in pochi termini: imprevidenza e man-canza ai patti. L’atteggiamento dello Stato è ilsolito: poliziesco. E valga il vero. Già al secolo

20 ■ CRITICAsociale9 / 2011

provvedere allo stanziamento di altri 28 milio-ni e si è data facoltà al Governo di obbligarele Società ad anticipare i capitali neces sari perl’acquisto di materiali in aumento di dota -zione, il che importerà un altro onere di oltre120 milioni.

Riepilogando: fallì completamente il proget-to Ma gliani di far fronte alle spese ferroviariemediante emissioni di obbligazioni ammortiz-zabili in 90 anni. Le costruzioni ferroviarie,che nei primi bilanci erano messe in conto dimovimento di capitali, dopo for marono unavoce a sé. Ora, nel conto patrimoniale delloStato, la spesa, sostenuta dal Governo per lacostruzione delle ferrovie formanti le grandi

reti, figura per L. 4.645.770.000, ma nell’atti-vo il valore, che esse rappresentano, è valutatosolo a un miliardo e 200 milioni.

Di - 3.445.700.000 lire quindi è diminuita laric chezza nazionale.

Quali i rimedi possibili? Senza nutrire trop-pe illusioni per l’avvenire, qualcosa in megliosi può realmente fare.

Prima però, istruiamoci con l’esperienza deipo poli più ricchi, e vediamo quali risultati ab-biano ot tenuto essi dai loro sistemi. Dopo, ilproblema ci apparirà così chiaro, che le con-clusioni verranno quasi a imporsi. s

Luigi Einaudi e Attilio Cabiati

EINAUDI E LA CRITICA ■ 1901 FASCICOLO 15 PAGINA 230

POLITICA FERROVIARIA NELL’AVVENIRE

Luigi Einaudi e Attilio Cabiati

CRITICAsociale ■ 219 / 2011

P remessa - L’Italia, senza es-sere oggidì affatto l’“alma pa-rens frugum” dell’antichità,

gode però, per certi prodotti agricoli, i benefi-zi, immutabili per lunghi secoli, del clima edel sole. E’ evidente quindi che per tali pro-dotti si trova nelle favorevoli condi zioni dismercio facile, buono e a buon mercato.

Qui adunque il problema della politica do-ganale muta e si rovescia. Non si tratta più didifendere le nostre merci dalla invasione dellemerci forastiere, ma bensì di aprire ad esse ilmaggior numero pos sibile di sbocchi. Se si ec-cettua il grano o, in gene rale, i cereali, per glialtri frutti del suolo, olio, vino, agrumi, è no-stro sommo interesse che l’estero non pongaforti dazi alla loro entrata. Il che non si ottienese non con tutto un delicato sistema di com-pensazioni di contratti, piegando su voci perle quali le altre nazioni abbiano lo stesso inte-resse di espor tare.

Dividiamo dunque quest’argomento in dueparti: nella prima comprendiamo il vino e gliagrumi, pro dotti ottenuti senza concorrenzaestera e di cui siamo interessati alla esporta-zione; nella seconda diremo del grano, che perconverso è prodotto in pessima condizione diconcorrenza e di cui si fa pagare al consuma-tore italiano buona parte delle spese di produ-zione, superiori a quelle dei paesi concorrenti.

L’aggruppamento di queste tre grandi cate-gorie di prodotti: vino, agrumi, grano, non èsenza ragione, perché le sorti dell’agricolturaitaliana sono collegate strettamente ad esse.Come vedremo rapidamente, la crisi dei terre-ni vitiferi è collegata al dazio sul grano e la tra-sformazione della coltura da cereali a frutta,legumi e ortaggi tornerebbe di immenso bene-ficio a tutta l’economia nazionale e special-mente alle classi lavoratrici.

Segue una dettagliata analisi della produ-zione e dei mercati del vino, agrumi e prodottiortifrtutticoli e la seguente conclusione:

Dalle statistiche del movimento commercia-le, due fatti sono notevoli: il costante au mentonelle esportazioni, e lo spostamento avvenuto

negli ultimi anni nelle sue direzioni. Quanto agli agrumi, il mercato dell’America

set tentrionale, che era per noi il primo, assor-bendo da solo quasi la metà delle nostre espor-tazioni, si sta ora chiudendo per noi, causa latariffa Dingley de l 1897, che ebbe anche pergli agrumi un carattere quasi proibitivo. Oc-corre a questo proposito tener presente che inquesto anno si è manifestato in quella Repub-blica una forte corrente, che va impo nendosi,contraria a questo protezionismo assoluto, efavorevole alla politica dei trattati. Come disseil Mac Kinley nell’ultimo suo discorso econo-mico, non sono delle teorie che occorrono all’America del Nord, sono dei mercati.

In ogni modo, la diminuzione, di circa 500mila quintali, è in gran parte compensata damaggiori esportazioni per altri paesi, che ten-dono sempre più a divenire potenti mercati diconsumo dei nostri prodotti. E’ a capo l’Inghil-terra, che importa ora per circa 400 mila quin-tali di agrumi; segue l’Austria, che, da 196 mi-la quintali nel 1886, passa a 534 mila nel 1900;poi la Germania con aumento continuo, da 47mila quintali nel 1887, a 196 mila nel 1900. E.notisi che, per taluni paesi, le nostre statistichesegnano cifre di esportazione di gran lungaminori di quelle segnate per l’importazionedall’Italia dalle dogane straniere. Ad esempio,nel 1897 la nostra dogana segna come espor-tati in Germania 156.611 quintali di agrumi, ela dogana tedesca ne nota come ricevuti dal-l’Italia 359 mila!

La Russia pure tende sempre più a divenireun buon mercato per le nostre frutta.

In alcuni paesi noi siamo quasi gli uniciesporta tori: così in Austria e, si può dire, inGermania. In altri invece, si fa sentire assai vi-va la concorrenza spagnuola. Essa ci supera digran lunga in Inghil terra, specialmente per gliaranci. La media esportazione della Spagnaammonta ivi a 8 milioni di quintali. Così pureessa ci supera nel Belgio e in Svizzera. In In-ghilterra dipende dal nostro com mercio ilprendere il primato.

Anche per i legumi e ortaggi, sì freschi che

pre parati, la nostra esportazione è in continuoincre mento. Siamo incontestati padroni delmercato au striaco; seguono poi la Germania ela Svizzera; sopratutto conviene tener gli occhirivolti sull’Inghilterra, dove l’esportazione èsalita, da quintali 356 nel 1886, a quintali 5090nel 1892, por giungere con aumento non maiinterrotto a quintali 49.108 nel 1900!

Il perfezionamento, ottenuto nella colturadegli ortaggi e nella preparazione, ci incorag-giano a sempre meglio sperare nell’avvenire.

Da quanto si è detto, appare che il nostrocom mercio di frutta, agrumi e erbaggi è incontinuo incremento. Giova pertanto con ge-losa cura aiutarlo facendo in modo che in fu-turo non crescano le dif ficoltà doganali, perchéun inasprimento di tariffe favorirebbe a tuttonostro scapito la Spagna, il Por togallo, la Tur-chia e la Grecia. Fortunatamente, le due nazio-ni che inaspriscono i dazi su queste ma terie so-no sinora solo la Germania e la Svizzera, lequali non sono certo le maggiori importatriciné di frutta secche, né di frutta, legumi e or-taggi prepa rati. La Germania invece appare frale prime nella importazione di frutta fresche edi agrumi: ma non crediamo che con essa saràmalagevole l’intenderci, facendo concessionispecialmente sulle industrie me tallurgiche,all’aiuto delle quali la Germania è par -ticolarmente interessata in questo momento.

Una volta assicurati su questo punto vitale,sarà opportuno che i nostri produttori, in vistadel con tinuo aumento della esportazione e diquello non meno notevole del consumo deimercati interni, con tinuino nella feconda operaintrapresa, specie in Sicilia e nell’Italia meri-dionale, di estendere la col tura di questi pro-dotti. E ciò può farsi solo a spese della cerea-licoltura. E’ questo il sistema migliore per ri-durre al silenzio i sostenitori del dazio sul gra-no, per spezzare i latifondi del Mezzogiornofavorendone la quotizzazione spontanea, e so-pratutto per miglio rare le sorti dei contadini.Difatti, da un calcolo di ligentemente stabilitodal prof. Bordiga, reputato insegnante dellaScuola superiore d’agricoltura di Portici e av-versario al dazio sul grano, risulta che, mentrela coltura estensiva granaria non esige l’o perache di 12 a 14 agricoltori adulti per ettaro, equella continua a base di granturco e frumentone vuole dai 25 ai 30, le colture erboree e or-tensi ne vogliono le seguenti:

Vigneto frutteto intensivo del Napoletano:90-100;

Vigneto frutteto alla pugliese: 40-50; Oliveto coltivato intensificamente: 60-70; Agrumeto palermitano: 200-240; Coltura ortense irrigata molto intensiva:

200-250.Non riposerebbe forse su queste semplici ci-

fre il problema di redenzione delle nostre plebiagricole del Mezzogiorno?

IL DAZIO SUL GRANO

Come abbiamo detto trattando del vino e de-gli agrumi, tutto il nostro sistema di coltura delsuolo e tutto il nostro sistema doganale in ma-teria di agricoltura si aggirano su un unico per-nio, il dazio sul grano. Abolite questo e tuttoil falso échafau dage faticosamente e doloro-samente rizzato sulle spalle dei consumatori edei lavoratori precipita, e l’eco nomia agrariariprende il suo corso normale, che coincidecon gli interessi della collettività.

E dunque il dazio sul grano il gran nemico,che è andato prendendo sempre nuove forzesull’ignavia dei più, i quali non misurarono leconseguenze di rette e indirette, che esso dove-va portare alla eco nomia nazionale.

Prima di entrare a considerarlo noi suoi rap-porti speciali con l’Italia, è forse opportuno

aver riguardo ai principi generali con cui i so-stenitori di questo dazio ne giustificano la pre-senza. Principi generali, poiché ora tutti gliagrari di Francia, di Germania e d’Austria loportano sugli scudi e combattono accanita-mente per esso, forse perché sentono che, vin-ta questa battaglia, logicamente e socialmentemo struosa, non vi è più’ barriera a cui forzaumana possa arrestarli nella concezione del lo-ro sogno vano e pericoloso: che ogni nazionebasti a sé stessa, direttamente, uccidendo loscambio, per le sue sus sistenze.

Né è solo l’interesse economico di classe aspin gere gli agrari alla riscossa. Per chi, ancheavver sando il materialismo storico, guardi be-ne addentro a questa nuovissima lotta, che nonè che agli inizi, appare a luce meridiana cheper forza di cose dietro agli agrari stanno tuttigli amici di un ritorno a una vita politica feu-dale, tutti coloro che sentono come sullo svi-luppo industriale si impernii il risveglio dellacausa della libertà e dell’avanzamento delleclassi operaie, e come sul rifiorimento di unapro prietà fondiaria non industrializzata, mavecchio si stema, riposi la più salda ancora pelmantenimento dello status quo.

Questo movimento di reazione, ignoto na-tural mente agli stessi propugnatori, si rivela intutta la sua maestosa imponenza appunto nellanazione indu strialmente più evoluta del Con-tinente, nella Germa nia, dove il partito agrarioè diretto dai feudatari militari della Prussia. Eciò mentre in Inghilterra, nella liberalissimaInghilterra, l’imperialismo e il militarismo siaccompagnano appunto al risorgere delle pre-occupazioni per l’agricoltura inglese deca dutae divenuta tale, solo perché essa non producetanto frumento da mantenere i suoi figli in ca-so di guerra, senza dipendere dallo straniero!

Tanta concordanza di indizi non deve sfug-gire a quanti serbano calda nel cuore la fiammadella libertà economica e politica e, siccomefortunatamente si è ancora in tempo per discu-tere, esaminiamo ad uno ad uno i motivi di con-venienza e dì giustizia su cui poggiano in Eu-ropa i sostenitori del dazio sui ce reali, per man-tenere una agricoltura, che non si regge più. Epoi, ne faremo le applicazioni all’Italia nostra.

Le ragioni degli agrari. - 1° Il dazio sulgrano aiuta a mantenere una certa fissità nelprezzo, per ché mercé sua si stabilisce un certoprezzo medio all’interno, indipendente dalleoscillazioni di valore dei grani esteri.

Invece è proprio il contrario che deve rite-nersi esatto. Questo perché, come dimostranole statistiche, le oscillazioni nei prezzi dimi-nuiscono di intensità e sono meno avvertitequanto più è esteso il campo di scambi. Quin-di, ad esempio, se una nazione è un mercatoaperto, uno scarso raccolto in tutto il mondonon porta che un’oscillazione poco sensibilenei prezzi dei grani; questa invece cresce di in-tensità quanto più alta è la barriera fra mercatonazionale e mercato mondiale. Inversamente,se si tratta di un ri basso di prezzi, questo ri-basso si acuisce nei paesi dove esiste un daziod’entrata, e si acuisce in pro porzione dell’al-tezza del dazio, in causa degli impe dimentiche esso frappone al libero commerciare deiprodotti (vedine la lucida dimostrazione nel-l’aureo libretto del prof. Dietzel: “Kornzollund Social reform” Berlino, 1901).

Numerosi esempi suffragano questa dimo-strazione. Del resto tale verità è tanto sentitadagli agrari d’Italia, che lo scorso anno l’on.Maggiorino-Fer raris presentava un disegno dilegge per un dazio sui cereali a scala mobile,tale da assicurare agli agricoltori dell’interno ilprezzo rimuneratore di L. 25 al quintale. Taleprogetto per cui, naturalmente, quando, per unagenerale carestia, il prezzo del grano nel mon-do aumentava, si abbassava propor zionalmente

decimottavo, Gia como Bernouilli, in quel cal-colo delle probabilità ch’egli chiamava “nodo-sum et jucundum”, gettava le basi della scienzadelle assicurazioni. Nel 1885 in Italia non sisapevano ancora creare le Casse pen sioni deiferrovieri. La storia degli errori tecnici di taleIstituto sarebbe un documento di onta. Nonpassò anno da allora, che relatori di bilancionon rilevassero il deficit a getto continuo la-sciato da dette Casse, non passò anno che - lostato non get tasse in esse milioni, che le So-cietà non dovessero aumentarvi le loro quote,rivalendosi, al solito, con economie ed anghe-rie di ogni sorta sul personale….

Non vi è paese civile, anche dei più liberisti,dove lo Stato non sia intervenuto, per motividi umanità da una parte, di sicurezza del pub-blico dall’altra, a regolare in modo tassativol’orario di lavoro dei fer rovieri: la stessa In-ghilterra, con atti del 1900, dà precise e severedisposizioni in materia. Noi ammettiamo la li-bertà di lavoro, ma ad un patto: che essa valgaper ambo le parti contraenti.

È più che mai necessario che il Governo, re-

spingendo le subdole insinuazioni delle Socie-tà ferroviarie e dei loro azionisti interes sati, in-tervenga nelle nuove Convenzioni con la mas -sima energia, per regolare in modo rapido edefini tivo la situazione di quei centomila indi-vidui, che in Italia mettono in opera i mezzi dicomunicazione e trasporto(…): un organicoben determi nato; un regolamento che minuta-mente esponga i modi e le cautele per l’avan-zamento, il collocamento a riposo, le punizionie i trasferimenti; un riordina mento definitivodelle Casse pensioni; una Commis sione arbi-trale indipendente, per ricevere i reclami indi-viduali o collettivi dei ferrovieri contro la So-cietà e contro lo Stato, con decisione esecutivae inappel labile.

Solo quando le nostre classi dirigenti si sa-ranno convinte, di buon accordo o con la forza,che il pro gresso odierno dell’industria capita-lista non è e non può essere fondato sull’asser-vimento e sull’esauri mento dei lavoratori, saràavvenuto in Italia quel passo decisivo verso laciviltà e il benessere gene rale, che nei paesi piùavanzati è oramai un fatto compiuto. s

EINAUDI E LA CRITICA ■ 1903 FASCICOLO 2 PAGINA 23

IL SISTEMA DOGANALE E L’AGRICOLTURA

Luigi Einaudi e Attilio Cabiati

22 ■ CRITICAsociale9 / 2011

il dazio d’entrata alla dogana italiana, raccolseanche l’approvazione dell’on. Colajanni, nelsuo dotto libro “Per la economia nazionale epel dazio sul grano” (Roma, 1901).

Ora, è facile sfatare anche questo rimedio.Per opera di un uomo non privo d’ingegno,Leone Walras, seguito dal nostro illustre Pare-to, la scienza econo mica fu ricondotta a unprincipio di equilibrio, per cui, prezzo e quan-tità, sono funzioni vincolate in un ampio siste-ma di cui fanno parte tutte le mercì e tutti iprezzi. Se questo è vero, risulta che la pretesadi tener fermo il prezzo di una merce è unapretesa da fanciulli. Tenete fermo il prezzo?Varierà la quantità! - Ma il consumo del granoè una quan tità poco elastica, risponderanno gliagrari italiani. Peggio, replichiamo: tanto piùdolorosamente si rista bilirà l’equilibrio per leclassi meno abbienti e pei venditori di tutte lealtre merci sul mercato. E di questo risentiran-no danno altresì i produttori di grano, pei qualile L. 25 del loro prodotto, a ogni equilibrionuovo di prezzi, rappresenteranno una po tenzad’acquisto sempre variabile. E allora ripren -deranno i lagni!

2° I fautori del dazio sostengono: proteggendoil grano, si protegge l’agricoltura nazionale; que-sta viene ad aver sempre più bisogno di braccia;quindi, quanto più alto è il prezzo del grano, tan-to più ele vati sono i salari degli operai.

È strano che siffatta proposizione si sosten-ga an cora dopo che, sin dalla metà dello scorsosecolo, Ricardo e Stuart Mill hanno dimostratoproprio il contrario: e cioè che, caeteris pari-bus, con una di minuzione nei prezzi dei grani,le rendite sce mano, i salari crescono e, inver-samente, con un au mento nei prezzi salgonole rendite e si abbassano i salari. Una corri-spondenza univoca fra rendite e salari si avreb-be solo se, a un mutamento nei prezzi del gra-no, corrispondesse immediatamente un muta -mento nella popolazione. Quindi la proposi-zione degli agrari si muta nella seguente: colsalire della pro duttività si abbassa la rendita,sale il salario. Questo, del resto, è il fenomenoche si verifica in tutta l’Eu ropa occidentale:decrescono le rendite, migliorano i salari. Esiccome, col crescere della produttività, dimi-nuiscono anche i prezzi, così si ha la proposi -zione: quanto più basso è il prezzo del grano,tanto più alto è il salario.

3° Si sostiene che il dazio permette il mi-gliora mento della coltura nazionale.

Invece, quanto più è alto il dazio, tanto piùdif ficile riesce al grano estero di superare lamuraglia doganale e quindi all’interno si scen-de alla coltura di terre di qualità sempre peg-giori, ossia tanto più costosi diventano i mezziper innalzare il reddito netto. E ciò dimostraancora meglio che il garantire a ogni costo ilreddito porta con sé un abbassamento nella po-tenza produttiva: questo è vero oggi per le ren-dite dei proprietari, lo sarebbe domani per i sa-lari se si tentasse di garantire un minimo di es-si ai lavo ratori.

Ma siccome il decrescere della produttivitàin un paese progressivo non può andare all’in-finito, ne consegue che col tempo, malgradotutta la prote zione, il prezzo del grano ribassa.Questo si è veri ficato in Francia, questo è av-venuto in Germania. Come ricorda il Dietzel,nel periodo 1887-900, in cui il dazio sul granoè stato a 3,50 e a 5 marchi, si sono avuti prezzimedi più bassi che nel periodo 1879-87, in cuiquel prodotto pagava un solo marco alla do -gana. Ciò in parte anche perché il dazio non è,e non può essere, che un solo elemento delprezzo del grano: esso non ha nessuna influen-za sulle varia zioni di tutti gli altri.

4° Dicono i sostenitori del dazio, che, nellapeg giore ipotesi, il dazio non fa che trasferireuna certa somma di danaro dalle mani di consu-matori oziosi a quelle di proprietari lavoratori.

Invece, a parte tutte le considerazioni mo-rali e giuridiche, dal punto di vista economico,il dazio non costituisce solamente uno sposta-mento, ma bensì una vera e propria distruzionedi ricchezza. Ecco l’e sempio tipico che ne dàil Brentano (Das Freihandelsargument, Berli-no, 1901): La Russia fino ad ora ha im portatoin Germania della segale per un valore annualedi 60-70 milioni di marchi. Ora, la Germanianon pa gava la Russia in oro, ma bensì impor-tando in quel vasto Impero per altrettanto va-lore in porcellane, acciai, stoffe, ecc. Inoltre,con la segala la Russia pagava una parte degliinteressi del prestito avanzatole dalla Germa-nia, perché continuasse a comperare cannonie locomotive tedesche. Naturalmente col ces-sare del commercio della segala, si troncheràtutto questo duplice movimento commercialedi importazione e di esportazione, e inveceavremo un movimento unico da parte dellaGermania: quello di rivolgere quella sommadi capitale e lavoro che prima impiegava allaproduzione in condizioni favorevoli di quei 60o 70 milioni di prodotti alla lavorazione costo-sa di terre poco rimu neratrici. Il che costituisceuna perdita secca per la nazione: e questa vie-ne ancor più aggravata dal fatto, che quelle fa-miglie, le quali ora spenderanno, per il nuovodazio, 20 marchi di più, ad esempio, per il con-sumo del pane, toglieranno la stessa sommaalla richiesta di altri oggetti di consumo, Quin-di danno doppio e di gran lunga superiore alvantaggio degli agricoltori.

5° E finalmente veniamo all’ultimo punto.Di cono gli agricoltori che il dazio sul granodeve servire a proteggerli dalla concorrenzadei paesi di oltre mare.

Ora noi osserviamo che, se un dazio dovesseser vire a questo scopo, dovrebbe esser spintoad altezze incalcolabili, grottesche per gli stes-si cerealicultori. Lo studio è stato fatto per laGermania dallo stesso prof. Brentano. Il costodella coltura dei cereali è costituito: dagli in-teressi del valore della terra, dai salari e dalleimposte. Ora, lo scarto fra il valore dei terrenitedeschi e quello dei terreni concorrenti russie americani è immenso, insanabile con qual -siasi dazio ragionevole. La terra in Russia valeog gidì da 28 a 240 marchi l’ettaro, nell’Ame-rica del Nord da 72 marchi nel Dakota a 384nell’Illinois; nell’Argentina un buon terreno,posto nelle vicinanze di una ferrovia, costa 60marchi all’ettaro. Ora, la stessa estensione diterreno in Germania valeva in media 560 mar-chi nel 1886, marchi 648 nel 1896, marchi 776nel 1898, marchi 774 nel 1898, marchi 824 nel1899; in Baviera il prezzo medio dell’ettaro èdi 900 marchi! Con poca differenza, lo stessoragionamento può farsi per l’Italia. Ora, datequesti enormi dislivelli, come può l’agricoltu-ra europea pretendere di rendere re munerativala coltura dei cereali, tanto più quando si con-sideri che i 7/8 del suolo dell’Argentina giac -ciono inoperosi?

Ed ora veniamo all’Italia. Nel nostro paesesi ripe terono tutti i sofismi generali sopra in-dicati a sostegno di un aumento continuo deldazio sui cereali. Si portò per altro un nuovoargomento speciale, ad hominem. Si disse cioèche il movimento in favore di una ri forma do-ganale protezionista, che poi finì con la ta riffagenerale del 1887, fu opera esclusiva del Set -tentrione, e che gli interessi dell’agricoltura neusci rono sacrificati: quindi il dazio sul granorappresenta come una specie di compenso diuna ingiustizia. Ora, premettiamo che è stranaquesta mania dei cereali colturi di confonderegli interessi loro con quelli di tutta l’agricol-tura italiana: invece abbiamo visto, trattandodel vino, degli agrumi e degli ortaggi, che gliinteressi di tutti i proprietari di terre non colti-vate a cereali sono precisamente opposti aquelli dei ce realicolturi stessi. E cioè: l° perché

essi non temono la concorrenza straniera, maanzi hanno tutto l’in teresse di esportare; 2°perché, se all’interno dimi nuisce il prezzo deicereali, aumenterebbero i consumi degli altrigeneri e specialmente del vino e della frutta.

Ma, inoltre, quella ragione che si continua ari petere in Italia, che nella tariffa del 1887 gliinte ressi dell’agricoltura vennero sacrificati, èprecisa mente e completamente contraria allaverità. Ed è bene che lo si rilevi, perché ora-mai, a furia di sen tirselo dire, anche coloro cheparteciparono alla formazione di quella tariffahanno finito per restarne convinti. Ebbene, seconsultiamo i volumi della Com missione realeper l’inchiesta doganale del 1886, vediamo dauna parte l’on. Ellena, relatore per il ramo “in-dustrie” che esortava alla protezione di varieindustrie nascenti e di altre poco evolute, rite-nendo che una difesa momentanea potesse aiu-tarne lo svi luppo. Ma dall’altra, la relazioneLampertico e Mi raglia suona decisamente av-versa a qualsiasi prote zione all’agricoltura ita-liana e specialmente all’agri coltura dei cereali.

Ebbene, il Parlamento, mentre accoglieva lecon clusioni dell’on. Ellena per le industrie, re-spingeva completamente quelle del Lamperti-co e decretava all’agricoltura una protezione,che insieme a quella francese e tedesca era lapiù elevata d’Europa.

Ecco come si sacrificarono gli interessidell’agri coltura.

Ed ora, abbattuti i sofismi della protezionedel grano e dette le ragioni teoriche per cui ildazio sul grano appare insostenibile, ragioniteoriche che valgono ugualmente per tutti ipaesi, ma che hanno maggior peso per l’Italia,dove la parte più povera della popolazione ge-me ed avvizzisce sotto un peso eccezionaled’imposte indirette, vediamo nei fatti se alme-no i proprietari dei terreni coltivati a granohanno saputo giustificare con le buone operel’oro così ingiustamente e crudelmente acqui-stato. Intanto nessuna protezione li ha mai sod-disfatti. Il dazio sul grano che non esisteva sot-to Cavour, che era stato portato poi a L. 1,30,venne innalzato a L. 3 al quin tale nel 1887, aL. 5 nel 1888, a L. 7 nel 1889, a L. 7,50 (inoro) nel 1898. E adesso i cerealicolturi sonoben lungi dal dichiararsi soddisfatti. Di questodazio altissimo, una delle precipue cause delleinique stragi del 1898 e del 1902, costoro in-tanto non hanno saputo valersi nella estensio-ne della coltura: l’area seminata a grano non èaumentata; si semina solo quanto è necessarioall’avvicendamento agricolo e alla rotazionedei prodotti: oltre non si va.

Se ne son valsi almeno per migliorare e in-tensi ficare la coltura? Ci rispondono queste ci-fre: in Italia il rendimento medio di grano perettaro è di circa 10 ettolitri, mentre esso am-monta a 17 in Francia, 18 in Germania, 25 inInghilterra, 27 nel Belgio e nell’Olanda.

Quindi si deve dedurre che il solo effetto deldazio sul grano è stato quello di far pagare frale 24 e le 26 lire al quintale quanto si potevaavere per 17 o 20.

Il costo medio del frumento quindi sarebbedi L. 15,87 l’ettolitro, ossia L. 19,04 il quinta-le. Il prezzo medio del frumento fuori dazio alquin tale fu di:

1890 L. 20,— 1896 L. 15,801891 L. 23,— 1897 L. 19,—1892 L. 21,— 1898 L. 23,—1893 L. 17,— 1899 L. 19,—1894 L. 13,50 1900 L. 17,191895 L. 14,50

Dato il costo all’interno, appare quindi chela coltura del grano, senza il dazio, è insoste-nibile. S’impone adunque l’obbligo, o di tra-sformare le col ture, riducendo così l’estensionedel terreno destinato ai cereali, o di intensifi-

care e industrializzare la coltura, là dove essaverrà mantenuta, Ma né all’uno né all’altro diquesti scopi si potrà mai giungere, sino a quan-do si favorirà la pigra inerzia dei nostri grandiproprietari, proteggendoli con dazi sempre piùelevati. E diciamo dei nostri grandi proprieta-ri, perché il Loria ha magistralmente dimostra-to che il dazio sul grano non giova ai piccoliproprietari, ma ai latifondisti e ai possessoridelle terre migliori, fruttanti già una rendita.

L’ONERE CHE IL DAZIO PORTA ATUTTI I CONSUMATORI ITALIANI

Malgrado la protezione, la produzione non èper nulla aumentata in Italia., mentre il consu-mo individuale italiano finiva attraverso a in-tervalli più o meno lunghi di tempo, per con-dursi ad una media di 123 chilo grammi all’an-no, dopo il 1897-98 rimase così indebolito,che in quattro esercizi, compreso, quello 1900-901 eccezionalmente propizio, non si è conse -guita che una media di 117 chilogrammi. Que-sto concordemente alla diminuzione della ric-chezza pri vata, risentitasi in quegli anni, e al-l’aumento generale dei prezzi del grano. Alqual proposito giova rilevare ciò che ebbe anotare la Direzione Generale delle Gabelle,che cioè, mentre l’Italia e la Francia hanno undazio quasi identico, il mercato di Milano pre-senta su quello di Parigi una forte eccedenzadi prezzo; la qual cosa denota che, mentre nellavicina Repubblica, a causa della concorrenzainterna e della corrente d’importazione relati-vamente scarsa rispetto alla produzione indi-gena, non si riesce a sfruttare che parte dellaprotezione daziaria, in Italia non solo si sfruttainteramente il dazio, ma si riesce a tenere,mercé la speculazione, i prezzi ancora più altidi quanto il dazio stesso comporti. E questaspe culazione, come si comprende, è resa pos-sibile uni camente dalla esistenza del dazio.

3°) Si potrebbe, con la precedente tabella,cal colare quanto ogni anno i consumatori ita-liani rega lano ai signori latifondisti cereali cul-tori. Facciamo questo calcolo per il solo anno1900-901. Durante quell’anno, lo scarto, fra iprezzi medi del grano all’estero e all’interno,causato dal dazio, fu di 8 lire al quintale: ilconsumo salì a quint. 43.113,350. La maggio-razione di prezzo pagata all’interno fu dunquedi L. 344.906.800, da cui, dedotte L.74.296.000 pagate all’erario per le tonnellate990.612 importate dall’estero, resta una som-ma di L. 270.710.800, che rappresenta quantoin un solo anno i consumatori italiani hannoregalato ai cerealicultori, per l’unico piaceredi nutrirsi col frumento nazionale!

Concludendo il dazio sul grano: 1°) è inuti-le, perché non raggiunse il suo scopo; 2°) è im-mensamente gravoso, e, come tutte le imposteindirette, è progressivo in senso inverso; 3°)costituisce per la nazione che lo applica unaperdita secca, superiore, come ha dimostratoil Bren tano, al vantaggio che ne ritraggono iproprietari; 4°) aiuta solo i latifondisti e i pro-prietari dei terreni migliori e non i piccoli pro-prietari; 5°) è pericoloso per le finanze delloStato, per ché un bilancio che si fonda sul daziodei grani, così oscillante nei suoi redditi, si ap-poggia sulla rena mobile; 6°) è contrario a tuttigli interessi delle classi agricole e industrialiitaliane. Le conclusioni che si possono trarreda questi teoremi, dimostrabili con chiarezzageometrica, sono evidenti: ma, rinforzandosiesse con altre più gene rali, derivanti da quantoabbiamo sin qui detto in materia di dazi e dipolitica doganale, formeranno l’oggetto di unnostro altro e ultimo articolo. s

Attilio Cabiati e Luigi Einaudi