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Eugenio Garin

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I EDIZIONI DELLA NORMALE

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© 2006 Scuola Normale Superiore Pisa

ISBN 978-88-7642-211-9

Prima ristampa, aprile 2012

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Prefazione

Eugenio Garin si è interessato della tradizione ermetica fin dai suoi primi scritti di filosofia del Rinascimento: a metà degli anni Trenta risale un suo importante saggio sulla dignitas hominis e la patristica, ma su temi ermetici si era già soffermato nella sua monografia su Giovanni Pico della Mirandola, pronta nel 1935 ma pubblicata nel 1937 nelle «Pubblicazioni della R. Università degli Studi di Firenze». Non era casuale quel suo interessamento all'ermetismo, che si intrecciava al lavoro che un altro grande maestro degli studi rinascimentali del XX secolo, Paul Oskar Kristeller, stava avviando proprio in quegli anni studiando Lodovico Lazzarelli. Si trattava di un tema sul quale già da tempo si erano concentrati Aby Warburg ed il suo Istituto, nel quadro di un ripensamento complessivo dei caratteri del Rinascimento, dei suoi rapporti con il mondo classico, della stessa genesi di quello che si suole chiamare 'mondo moderno'.

A questi interessi ermetici, ed anche magici, Garin non venne mai meno, anche se negli anni

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successivi - svolgendo una propria originale ricerca - preferì concentrarsi sia nella preparazione di grandi antologie della filosofia e della cultura rinascimentale e nella traduzione di autori essenziali di quell'epoca - a cominciare da Giovanni Pico; sia, soprattutto, nella elaborazione delle linee di fondo della sua interpretazione del Rinascimento come 'umanesimo civile', confluita in modo organico nel. volume pubblicato nel 194 7 dall'editore Francke di Bema. A quel volume - come alla grande raccolta ricciardiana del 1954 - resta ancora oggi legata la fama di Garin studioso del Rinascimento; ma un tratto originale della sua concezione - assai diversa su questo punto da quella di Hans Baron, un altro dei grandi interpreti del Rinascimento in chiave di umanesimo civile - è costituita proprio dalla sua continua attenzione all'ermetismo e, ad esso congiunta, alla magia.

Ai primissimi anni Cinquanta risalgono, infatti, due saggi - Considerazioni sulla magi.a e Magi.a ed astrologia nella cultura del Rinascimento - che hanno segnato in profondità gli studi sul Rinascimento e anche il lavoro di studiosi come Frances A. Yates, nei quali il tema magico è messo al centro del quadro, con un profondo spostamento di asse critico sia rispetto all'interpretazione classica di Burckhardt che a quella di Giovanni Gentile. Piuttosto, in quelle pagine - e nella rivisitazione del concetto di

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Rinascimento che Garin compie - è avvertibile la incidenza del lavoro di Konrad Burdach, tradotto da Delio Cantimori nella prima metà degli anni Trenta, sullo sfondo di una concezione che tiene ferma l'originalità dell'epoca rinascimentale, e della sua scoperta dell'uomo e della natura. Che le cose stiano in questi termini, e che Garin voglia tenere fermo l'asse di questa interpretazione, è dimostrato in modo eloquente dal volume che pubblica nel 1965 su Scienza e vita civile nel RiT1L1Scimento italiano, in cui la dimensione magica è considerata in una duplice prospettiva: nel rapporto con l'epoca rinascimentale, da un lato; in relazione alla formazione della scienza moderna, dall'altro. In effetti, è questo il tema che alla svolta degli anni Sessanta si impone negli studi di Garin, nell'ambito del classico problema della genesi e dei caratteri costitutivi del 'mondo moderno', al centro - in modo costante - della sua attività di ricerca, ma senza alcuna inclinazione per interpretazioni in chiave riduttivamente 'scientista' della esperienza filosofica e culturale moderna.

Sul tema dell'ermetismo in senso proprio Garin torna in modo organico negli anni Settanta del secolo scorso, sottolineandone l'importanza, ma anche rilevando la necessità di parlarne - così scrive nel 1973 - in modo più circoscritto, anzi limitativo, prendendo quindi le distanze dalla moda ermetica che imperversa in quel periodo, sullo sfondo di un

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imporsi e dilagare di mode culturali che tendono a mettere in crisi il concetto moderno di 'ragione' di cui Garin rivendica sempre, in modo non superstizioso, il valore essenzialmente 'regolativo'.

Ma per capire questa rinnovata, e cnuca, attenzione a tematiche ermetiche, ben visibili anche nel volume Rinascite e rivoluzioni, occorre guardare, oltre che al mondo storiografico, al mondo storico e alle trasformazioni radicali che esso subisce in quei decenni, anche nell'ambito degli studi rinascimentali. Inizia a decadere allora la interpretazione dell'umanesimo civile, mentre si impone una forte attenzione per le filosofie della storia di matrice astrologica, nel vivo di una polemica serrata contro le interpretazioni della storia e della civiltà in chiave unilinearmente 'progressiva': de claritate in claritatem, come Garin amava ripetere. Né è casuale che proprio in questo periodo, nella interpretazione di Garin, assuma un ruolo centrale una figura come Leon Battista Alberti, colta anzitutto nei suoi tratti tragici e critica nei confronti della tradizionale apologia della dignitas hominis di ispirazione pichiana. Sono aspetti di una ricerca che procede a una nuova visione del Rinascimento, di cui le tematiche ermetiche - adeguatamente indagate e circoscritte - sono parte costitutiva.

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Il piccolo volume che pubblichiamo in anastatica - uscito nel 1986 - è il frutto di questi anni di lavoro e di un ripensamento complessivo della immagine tradizionale del Rinascimento. Tanto piccolo, si potrebbe dire, quanto importante: esso ha infatti contribuito a porre in modi originali vecchie e nuove questioni, discutendo con autori classici come Festugière e rigettando la consueta opposizione tra ermetismo 'dotto' ed ermetismo 'popolare', tra filosofia, religione e magia, mostrando come convivano, l'una accanto all'altra, opzioni e pulsioni diverse che vanno però considerate in modo unitario e senza artificiose separazioni, se si vuole comprendere il significato dell'ermetismo in genere e di quello rinascimentale in particolare.

Le Edizioni della Normale ripubblicano questo prezioso libretto sicure di rimettere in circolazione un testo importante che non ha avuto la fortuna che merita. Ma lo fanno anche per testimoniare la loro riconoscenza a un eminente maestro della Scuola e all'insegnamento che egli vi ha professato, in un legame di affetti e di lavoro intenso e profondo, culminato, da ultimo, nella donazione dei suoi libri e delle sue carte alla Biblioteca e all'Archivio della Scuola Normale.

Michele Ciliberto

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Biblioteca mm1ma

A curJ del Centro Mario Rm�i per gli �rudi fìlmotici. Sicn.1

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Eugenio Garin

Ermetismo del Rinascimento

Editori Riuniti

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Indice

1. La pubblicazione del Pimander di Marsilio Ficino (1471) 7

2. Ermetismo e platonismo 15 3. Ermete, l'Egitto e la biblioteca di Nag

Hammadi 21 4. Ermete fra Trecento e Quattrocento 33 5. La circolazione di Picatrix nel Quattrocento 41 6. Le avventure di un profeta ermetico 52 7. Ermetismo e magia in Ficino e Pico 63 8. Verso il Cinquecento: un epilogo 71

Postilla 77

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1. La pubblicazione del Pimander di Marsilio Ficino (1471)

Il 18 dicembre 1471, a Treviso, per i tipi di Ge­raert van der Leye, senza che Ficino ne sapesse niente, usci a stampa la sua versione latina di quattordici opuscoli ermetici greci, sotto il titolo del primo: Pimander, seu de potestate et sapientia Dei. Ne era stato promotore Francesco Rolandel­lo, dotto maestro e magistrato trevigiano. Come risulta dalla prefazione che accompagna l'edizio­ne stessa, era stato proprio lui, il Rolandello, a fornire il manoscritto. Si immagina che sia il li­bretto stesso a parlare e a dire: «Franciscus Rho­landellus T arvisianus Gerardo de Lisa scriptori mei copiam fecit ut ipse caeteris maiorem co­piam faceret». Quindi il libro si presenta sottoli­neando l'antichità della teologia egizia, quasi fonte delle altre, e come ad essa avessero sempre guardato con stupefatta ammirazione pagani e

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cristiani: «Mercurius T rismegistus sum quem sin­gulari mei doctrina et theologica Aegyptii prius et barbari, mox Christiani antiqui theologi in­genti stupore attoniti admirati sunt [io sono Mer­curio Trismegisto a cui per la singolare dottrina teolo­gica hanno guardato attoniti con grande meraviglia prima gli Egiziani e i barbari, poi anche gli antichi teologi cristiani]». Grandi sono i suoi meriti: per questo, chi lo comprerà, spendendo poco, lo leg­gerà, lo rileggerà e lo farà comprare ad altri.

È probabile, però, che neppure il dotto Rolan­dello immaginasse il successo strepitoso che l'opera avrebbe avuto a lungo. Già il 6 di gennaio del '72 ne usciva un'altra edizione a Ferrara, per i tipi di André Belfort: un'edizione indipendente da quella di Treviso, come dimostra un errore della stampa trevigiana, che Ficino non aveva commesso, ma che passò poi in quasi tutte le stampe successive (Dio che annuncia il futuro per aves, per intestina, per silvam [ dià dry6s, in greco], che diventa per Sybillam). Poi l'Ermete ficiniano circolò per tutta l'Europa: ventiquattro edizioni fra il 1471 e il 1641, l'anno in cui compare a Pari­gi nella terza grande edizione delle opere com­plete del Ficino. Circolò in tutti i formati: dai so­lenni in-folio delle opere stampate a Basilea agli economici volumetti tascabili di Lione. Circolò nel latino ficiniano come nell'italiano del Benci

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derivato dal Ficino, per non dire ovviamente del­le altre traduzioni, o delle edizioni del testo.

Senza dubbio tutto il clima culturale era adat­to: il fascino dell'antico Egitto, l'alone del miste­ro, il tema di una rivelazione antichissima, e poi i temi magici, l'atmosfera dell'attesa, il posto pri­vilegiato dell'uomo. Si trattava, certo, anche di retorica, ma di li a non molto Giovanni Pico del­la Mirandola avrebbe ricordato: «Negli scritti de­gli Arabi ho letto che Abadalla Saraceno, richie­sto di chi gli apparisse sommamente mirabile in questa scena del mondo, rispondesse che nulla scorgeva piu splendido dell'uomo. E con questo detto si accorda quello famoso di Ermete: Gran­de miracolo, o Asclepio, è l'uomo». Su tutto, il bisogno di un rinnovamento religioso universale e un nuovo vincolo con la realtà. Nessun dub­bio, ovviamente, sull'antichità, e autenticità, di quei testi pseudepigrafi dei primi secoli dell'era volgare.

Marsilio Ficino aveva completato la versione dal greco nell'aprile del 1463. Molti anni dopo, ricordando le vicende della sua traduzione di Plotino, Ficino racconterà che proprio Cosimo il Vecchio, nel '63, gli aveva dato da tradurre prima Ermete e poi Platone. In una sorta di piano ideale del suo lavoro Ermete era l'inizio, per volontà esplicita di Cosimo. Per la traduzione Marsilio

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aveva usato un manoscritto recato di Macedonia da un Leonardo monaco di Pistoia, generalmen­te indicato anche come Leonardo Macedone. Il codice è un miscellaneo dove, fra scritti di Proclo e di Alessandro di Afrodisia, fra traduzioni gre­che di opere filosofiche latine a cura di dotti bi­zantini quali Massimo Planude o Giorgio Scho­larios, si potevano leggere anche i primi quattor­dici trattati del Corpus Hermeticum greco. Ficino poteva cosi, finalmente, introdurre in Occidente quello che con l'Asclepius considerava, non a tor­to, come il piu «divino» dei testi ermetici. Quel manoscritto, che reca chiari i segni della lettura ficiniana, è l'attuale Laurenziano 71,33, apparte­nuto poi a Poliziano che l'aveva comprato dallo stesso Ficino e che di suo pugno annotò a carta 209v: «Angeli Politiani liber emptus aureis duo­bus a Marsilio Fecino».

Appena finita, la versione latina fu recata in italiano da Tommaso Benci «confilosofo», subi­to, nel settembre sempre del '63, per incarico del­lo stesso Ficino. «M'impuose - racconta il Benci - non come a piu dotto, ma come a persona a cui egli per sua benignità forse maggiore affectione portava, che io dovessi farla volgare». Entrambe le versioni, latina e italiana, ebbero subito circo­lazione manoscritta, ma la traduzione italiana fu stampata solo dopo circa un secolo, a Firenze nel

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1548 (e ristampata l'anno seguente) dal Torrenti­no. Sotto il titolo del primo testo, Pimander, de potestate et sapientia Dei, la raccolta latina venne invece a costituire una sorta di prologo ideale alla grande opera di rinnovamento del pensiero filo­sofico e religioso nel segno di Platone.

Per Ficino, infatti, Ermete il tre volte sommo, l'inventore della scrittura ideografica, in anima­lium arborumque figuram, venerato come un dio, era stato davvero il primo dei teologi, seguito da Orfeo, Aglaofemo, Pitagora, Filolao maestro del «nostro» Platone. «Primo fra i filosofi - scrive Fi­cino - si rivolse dalle questioni fisiche e matema­tiche alla contemplazione del divino; primo di­scusse con grande sapienza della maestà di Dio, dell'ordine dei demoni, delle vicende delle ani­me. Per questo fu detto primo dei teologi; lo se­gui Orfeo, mentre Aglaofemo fu iniziato alle san­te verità da Orfeo, e a Orfeo succedette in teolo­gia Pitagora, che fu seguito da Filolao, maestro del nostro Platone. Perciò c'è stata un'unica setta della prisca theologia, sempre coerente a se stessa, formata in un ordine mirabile da sei teologi, ini­ziata da Mercurio e conclusa con Platone. Quan­to a Mercurio scrisse molti libri concernenti la conoscenza delle cose divine, e in essi, in nome del Dio immortale, quali misteri si offrono, quali stupendi oracoli, mentre parla non solo come un

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filosofo ma spesso come un profeta che canta il futuro! Fu lui a prevedere la fine della prisca theologia, la nascita della nuova fede, l'avvento del Cristo, il giudizio finale, la resurrezione della carne, la gloria dei beati, il supplizio dei peccato­ri.» Non a caso Lattanzio, che se n'era servito tan­to, attingendo ampiamente ai suoi scritti, l'aveva collocato fra le Sibille e i Profeti.

Nella prospettiva ficiniana la teologia anti­chissima, la prisca theologia, consegnata . a testi precisi quali gli inni orfici, le sentenze pitagori­che, gli oracoli caldaici, si era poi venuta svilup­pando nei grandi sistemi di Platone, Plotino, Pro­clo, Giamblico e cosi via. Negli scritti ermetici, alle origini, aveva trovato un'espressione altissi­ma, e non solo nel Pimandro e negli altri opuscoli greci. Ficino non ha dubbi sull'antichità remota, e sul valore dell'ermetismo, matrice prima della verità rivelata. Col Pimandro (e cioè col nucleo dei trattati greci che aveva tradotto) Ficino cono­sceva bene l' Asdepius, che aveva tanto circolato nel Medioevo, e che era la versione di uno scritto greco, il L6gos téleios, diffuso anche in versione copta, e al quale aveva già attinto Lattanzio (usci a stampa nel 1469 con le opere di Apuleio). In proposito, anzi, Ficino affermava che, fra i tanti libri che Ermete aveva composto, «due ve ne so­no soprattutto divini, uno sulla volontà, l'altro

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sulla potenza e sapienza di Dio. L'uno si intitola Asclepio, l'altro Pimandro. Il primo fu tradotto dal platonico Apuleio [e questo non era vero]; l'altro è rimasto presso i Greci fino ai nostri tempi».

Con gli anni Ficino, oltre il Pimandro, avrebbe tradotto altre testimonianze ermetiche, come la famosa Lettera a Porfirio («Del maestro Abammo­ne, risposta alla lettera inviata da Porfirio ad Ane­bo e soluzione delle questioni poste in essa»), at­tribuita a Giamblico (ma probabilmente della sua scuola), entro il disegno di un piu ampio e or­ganico Corpus Hermeticum. Nel Cinquecento cir­colò un po' dappertutto un elegante volumetto piu volte ristampato a Lione (apud loan. T ornae­sium) che conteneva una sorta di vademecum di testi ermetici, o ermetizzanti, accompagnati da scritture in qualche modo affini: il tutto sotto il segno di Ficino. Si apriva, appunto, con la Lettera a Porfirio, piu che liberamente tradotta, intitolata De mysteriis Aegyptiorum, Cha/daeorum, Assyrio­rum (e dedicata al cardinale Giovanni de' Medici, il futuro Leone X); continuava con un testo ma­gico di Proclo assai bello, a cui aveva messo le mani Psello, e di cui si è a lungo ignorato l'origi­nale greco. Includeva scritti di Porfirio e di Psel­lo, e si concludeva proprio col Pimander e con l'Asclepius. Il tutto nelle versioni del Ficino, con le lettere di dedica ficiniane, ma anche con i

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commenti cheJacques Lefevre d'Étaples, il Faber Stapulensis, aveva aggiunto all'edizione parigina del 1505, presso Henri Estienne, del Pimander, dell'Asclepius, oltre che del Crater Hermetis di Lo­dovico Lazzarelli da San Severino Marche. Anzi, a dir vero, il Fa ber aveva già pubblicato i testi er­metici, sempre a Parigi, presso Wolfgang Hopyl, nel 1494, «per amor di Marsilio che veneravo co­me un padre, e trascinato dalla grandezza della sapienza di Mercurio». Nella edizione del 1494, però, gli argomenti erano limitati al Pimander. Si può aggiungere che nel 1507 il medico lionese Symphorien Champier, in calce al suo Liber de quadruplici vita, dedicava al Faber la versione del Lazzarelli delle Diffinitiones Asclepii Hermetis Tris­megisti discipuli ad Ammonem regem, in realtà il se­dicesimo trattato del Corpus Hermeticum, man­cante nel codice usato dal Ficino. Cosi, mentre il Liber de quadruplici vita richiamava il ficiniano Li­ber de vita triplici, le Diffinitiones integravano le versioni ermetiche del medico-filosofo toscano.

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2. Ermetismo e platonismo

In realtà il corpus dei testi ermetici e neoplato­nici tradotti e illustrati da Ficino, e magari accre­sciuti per strada con nuovi contributi, messi mol­to presto in circolazione in Italia e in Europa, co­stituiva un messaggio, tra gnosi e magia, che por­tò un po' dappertutto le profonde sollecitazioni riformatrici del movimento culturale che caratte­rizzò la seconda metà del Quattrocento fiorenti­no, e che fu intriso di ermetismo e di neoplato­msmo.

Che cosa avesse in animo Cosimo il Vecchio quando, nel '39, ascoltava di frequente le lezioni di Giorgio Gemisto Pletone, non è facile dire. Ci racconta Ficino che Gemisto, «come un secondo Platone, discuteva dei misteri platonici (de myste­riis Platonicis)». Sentendolo parlare, Cosimo ave­va concepito il disegno di far rivivere a Firenze

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l'Accademia, destinando a tanta impresa il figlio ancora bambino del suo medico personale, ap­punto Marsilio Ficino (me adhuc puerum tanto ope­ri destinavit). Di fatto, il 4 settembre 1462 Ficino, scrivendo a Cosimo, parla dell'Accademia che il suo protettore gli ha preparato a Careggi. Nel '63, quando aveva trent'anni, Cosimo gli dà da tradurre Ermete e Platone, un binomio che carat­terizzò tutta l'opera ficiniana, ma che, in fondo, era estraneo al Pletone, che a Ermete non fa mai riferimento. L'opera di Ficino, invece, anche se storici dell'altezza di Kristeller non lo rilevano abbastanza, si colloca proprio all'incontro delle due tematiche, e non si intende nella sua origina­lità qualora si prescinda dall'atmosfera ermetico­magica in cui si muove. I suoi autori diventano, specialmente da un certo momento in poi, Ploti­no, Giamblico e Proclo, destinati a incontrarsi con (lo pseudo) Dionigi Areopagita; in essi non ha fatto che giungere a perfezione quella prisca theologia di Ermete, che Ficino esaltava nel '63 traducendo il Pimandro, ma che richiamava nel De Christiana religione del '74, ossia nella sua pro­fessione di fede per l'ingresso nel sacerdozio: «la prisca teologia dei gentili, nella quale concorda­no Zoroastro, Mercurio, Orfeo, Aglaofamo e Pi­tagora, è tutta raccolta nei libri del nostro Plato­ne. E nelle epistole Platone annuncia (vaticina-

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tur) che alla fine, dopo molti secoli tali misteri si sarebbero potuti svelare agli uomini [ ... ] . Quan­to a me ho trovato che i piu grandi misteri di Nu­menio, Filone, Plotino, Giamblico, Proclo, era­no stati tratti da Giovanni, Paolo,Jeroteo, Dioni­gi Areopagita». Proclo, insomma, dice Ficino, è come l'Areopagita, nell'unità di una tradizione religiosa che non viene mai smentita, e di cui si continuano a conservare tutti i temi, anche i piu arditi.

Nell'89 escono i tre libri De vita, che avranno piu di trenta edizioni in poco piu di un secolo, e il cui libro terzo, il De vita coelitus comparanda, su­sciterà, e non senza buone ragioni, l'accusa di magia, tutto intriso come è di ermetismo. Fra il 1486 e 1'89 Ficino intreccia versioni di scritti di Porfirio e Psello, e, soprattutto, attende al de sacri­ficio et magia di Proclo e al de mysteriis attribuito a Giamblico «magnus sacerdos». Nel '97, nel set­tembre, esce stampata per la prima volta da Aldo (e ne aveva corretto alcuni errori sulle bozze lo stesso Ficino), una raccolta singolare e significati­va, che meriterebbe probabilmente un lungo di­scorso. Come scrive il primo di luglio a Aldo Ma­nuzio, durante la stampa, è malato, e travagliato dalle tre Furie che agitano Firenze: morbus pesti­lens etfames et seditio. Non si sente sicuro nec in ur­be nec in suburbiis. Anche i suoi libri sono sparsi in

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città, e non li può adoperare. Maturava la trage­dia di Savonarola. Certo, gli scritti del volume al­dino formavano un tutto molto omogeneo, e molto «ermetico»: il de mysteriis attribuito a Giamblico, Proclo, Porfirio, Sinesio, Psello, Pri­sciano Lidio, Alcinoo (Albino), Speusippo, Pita­gora, Senocrate. Chiudeva il libro, e di nuovo la scelta fa pensare, il De voluptate, che Ficino aveva composto alla fine del 1457, a 24 anni!

Non senza scandalo, nell'87 aveva letto pub­blicamente Plotino a Santa Maria degli Angeli, in chiesa. P.O. Kristeller ci ha fatto conoscere una lettera, del 7 dicembre di quell'anno, del genera­le dei Camaldolesi Pietro Delfin, volta a manife­stare il suo stupore sdegnato al priore Guido Lo­renzi. Entrato nella «casa degli Angeli» (domus Angelorum), il Delfin aveva visto i sedili del coro occupati dai laici, l'oratorio mutato in un «ginna­sio» (oratorium ingymnasium mutatum), il posto di solito occupato dal sacerdote celebrante la mes­sa, presso l'altare, preso da un philosophus: invece di preghiere e salmodie, una scuola per secolari.

Plotino, Proclo, Giamblico, da un lato; dall'al­tro testi ermetici e magici. Ed è probabilmente proprio intorno all'89 che Ficino si dà, insieme a Pico, a quegli esperimenti magici di cui darà no­tizia in una lettera piu tarda Girolamo Benivieni: «La buona memoria del conte Giovanni de la

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Mirandola cercò un tempo insieme con Marsilio Ficino in agro Caregio et altrove di coniungere per mezo de la magia naturale et in virtu della dottrina cabalistica con certe loro observationi, orationi et profumi, la mente con Dio, fare mira­coli et prophetare». Risalgono comunque intor­no all'89 le osservazioni del Ficino, a proposito della sua traduzione di Prisciano di Lidia, circa la funzione di mediatrice universale della immagi­nazione e la sua potenza. L'immaginazione, se­condo Ficino, rende sensibili, visualizza, i con­cetti, mentre riesce a trascendere i dati sensibili con le sue costruzioni fantastiche. Ancora: «l'im­maginazione conviene col senso in quanto per­cepisce le cose particolari; supera il senso perché, anche senza che ci sia nulla, produce immagini (imagines edit). L'immaginazione è come Proteo, è come il Camaleonte (imaginatio est tamquam Protheus ve! Cameleon)».

Va soggiunto che è proprio svolgendo le sue tesi su immagini, immaginazione, fantasia, spiri­to fantastico, nonché su spiritus, pneuma, vehicu­lum, che Ficino scrive le sue pagine piu suggesti­ve, e spesso appunto sul terreno d'incontro fra er­metismo e platonismo. È chiaro che sarebbe ne­cessario seguirlo su questo terreno, dove è piu originale la sua posizione, e piu sorprendenti so­no le sue tesi, fino all'Inferno presentato come

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. . . . . un sogno angoscioso, su cui scnsse pagme assai fini Robert Klein (La forme et l 'intelligible, 1 970). Un punto, comunque, risulta chiaro anche da questi rapidi appunti: la fedeltà a una scelta origi­naria fondata sulla missione riformatrice del filo­sofo entro una tradizione filosofico-religiosa unitaria, l'unità del tutto, l'armonia universale, la centralità dell'uomo, l'animazione e la vita del cosmo, l'amore e la bellezza universali, la musica dei mondi, la pace religiosa fra i popoli.

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3 . Ermete, l'Egitto e la biblioteca di Nag Hammadi

L'incontro fra una gnosi non cristiana radicata in Egitto, quale l'ermetismo, e il platonismo ave­va senza dubbio documentate origini antiche. È vero che a proposito dell'ermetismo, quale si venne largamente diffondendo nel mondo elle­nistico, si è fatto spesso riferimento a motivi stoi­ci, sfruttando tematiche innegabili in testi erme­tici. Non meno reale, ed evidente, la presenza di spunti platonici. Un singolare ritrovamento di papiri, tuttavia, abbastanza di recente, mentre ha arricchito non poco le nostre conoscenze delle fonti ermetiche antiche, ha anche mostrato una indiscutibile «presenza» proprio del testo di Pla­tone.

Come è noto, nel dicembre del 1 945 due con­tadini egiziani nella regione di Nag Hammadi trassero da una giara infranta una favolosa biblio-

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teca gnostica, comprendente alcuni testi ermeti­ci, dalla fine degli anni Settanta resi largamente accessibili prima in una traduzione inglese dell'intera biblioteca, compiuta sotto la direzio­ne di James M. Robinson (The Nag Hammadi Li­brary in English, Leiden 1977), poi, per quanto ri­guarda i soli testi ermetici, in una edizione degli originali copti, in parallelo con le versioni anti­che greche e latine, quando vi fossero, e con una traduzione francese, commenti e illustrazioni, a cura diJean-Pierre Mahé (Hermès en Haute-Egypte, due volumi, Qyébec, Canada, 1978-1982). Il Mahé, anzi, ha aggiunto ai testi di Nag Hammadi l'edizione con traduzione e commenti di un al­tro testo, questo armeno, venuto fuori nel 1956, e in genere sfuggito agli studiosi: le Definizioni di Ermete Trismegisto a Asclepio. Si sono cosi, in qual­che modo, completate le ormai classiche edizio­ni di testi e testimonianze ermetiche antiche del­lo Scott e Ferguson (Hermetica, quattro volumi, Oxford 1924-1936) e del Nock e Festugière (Her­mès Trismégiste, quattro volumi, Parigi 1945-1954 ).

Orbene, i papiri di Nag Hammadi ci hanno conservato nella versione copta (con varianti di rilievo) un ampio tratto del Discorso perfetto, in­cludente, fra l'altro la famosa Apocalissi, che da sant' Agostino a Giordano Bruno, ha avuto cosi

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larga fortuna nei secoli. Col Discorso perfetto, e una preghiera già nota, troviamo uno scritto molto interessante (un dialogo fra Ermete e un discepolo), finora ignoto, L 'ogdoade e l 'enneade, e, infine, singolare perla di questa straordinaria «an­tologia», la non felice traduzione copta delle pa­gine 588B-589C della Repubblica di Platone, qua­si a sigillare l'incontro con Ermete.

Come, allora, non pensare proprio a Ficino, alle connessioni da lui operate, e non riflettere, oltre che sull'opera sua, su tutta la ripresa ermeti­ca rinascimentale? La quale, d'altra parte, e pro­prio in Ficino, sotto il segno dell'ermetismo pre­senta un'altra ben salda connessione, ma almeno per una parte cospicua alla storiografia tutt'altro che pacifica: fra «ermetismo» teologico e erme­tismo magico, astrologico, alchimistico.

È canonica, infatti, almeno per molti autore­voli storici, una netta distinzione preliminare, sulla quale ha scritto pagine efficaci uno dei mag­giori studiosi dell'argomento in questo secolo: A.-J. Festugière. Per lui netto il distacco fra erme­tismo «teologico» e ermetismo magico-astrologi­co, consegnato il primo, nel mondo greco-lati­no, a un ormai pressoché canonico Corpus Her­meticum, disperso il secondo in una quantità di scritture a noi pervenute, oltre che in greco, in versioni latine medievali di testi orientali, sem-

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pre piu diffusi anche in Occidente. Basti pensare a Picatrix, ben noto a Ficino e a Pico della Miran­dola, ma circolante, prima che in latino in versio­ne spagnola alla corte di Alfonso il Saggio, poi in latino dalla seconda metà del XIV secolo, un li­bro considerato da Ibn Khaldun che lo confuta lungamente «il trattato di magia piu completo e meglio fatto». Orbene, e proprio avendo in men­te opere come Picatrix, o lo stesso Liber Hermetis Mercurii Triplicis de VI rerum principiis, in che mi­sura è lecita, se è lecita, la distinzione, anzi la se­parazione, fra ermetismo «teologico» (o «metafisi­co») e ermetismo magico-alchimistico-astrologico?

Come si è visto, il Corpus Hermeticum teologi­co, quale si verrà ricomponendo nel Quattrocen­to, è formato, oltre che dal gruppo dei 1 8 opu­scoli greci, il primo dei quali è, appunto, il Pi­mandro, dagli importantissimi frammenti conser­vati nell'Antologia di Sto beo, una parte dei quali tratta dal «libro sacro» K6re k6smou (la Figlia, o la Pupilla del mondo), e, infine, dall'Asclepius, versio­ne latina di un Discorso pe,fetto (L6gos téleios), il cui originale greco circolava all'inizio del IV secolo, e a cui attingeva largamente Lattanzio, che è cita­to da Agostino, e proprio nella traduzione che è pervenuta a noi. All'originale greco, del resto, at­tinge anche un papiro magico, e il frammento di versione copta conservato nella biblioteca di

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Nag Hammadi. Ma anche altri testi circolavano, non meno interessanti. Ce ne dànno notizia l'al­chimista Zosimo, contemporaneo di Lattanzio, e, in particolare, san Cirillo, che, fra l'altro, parla di Ermete come del fondatore di ogni cultura, in­ventore della geometria, dell'astronomia, astro­logia, musica, grammatica: ove sono da notare due punti importanti: il rifiuto di qualsiasi sepa­razione dello «scienziato» dal «mago» ; l'identifi­cazione della fondazione della cultura con l'in­troduzione della scrittura ideografica (in anima­lium arborumque figuram).

In un saggio molto netto, raccolto in un suo volume del '67 su Hermétisme et mystique paienne, Festugière ha fissato una dicotomia precisa: quel­la stessa che è alla base della sua grande opera La

révélation d 'Hermès Trismégiste, uscita in quattro volumi fra il 1944 e il 1954. Ma era una dicoto­mia che già presiedeva alla precedente raccolta di testi commentati dallo Scott e Ferguson. Lo Scott apriva la sua introduzione cosi : «Gli Herme­tica di cui si occupa questo libro possono essere descritti come scritti greci e latini che contengo­no insegnamenti filosofici o religiosi attribuiti a Ermete Trismegisto. Poco importa se diciamo re­ligioso o filosofico; gli scrittori in questione pen­savano dottrine filosofiche, ma le consideravano solo come mezzi o sussidi alla religione.

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Oltre questi, c'è tutta un'altra categoria di do­cumenti il cui contenuto è ugualmente attribuito a Ermete Trismegisto. Sono scritti concernenti l'astrologia, la magia, l'alchimia e simili forme di pseudoscienza. Per il carattere del loro contenu­to sono fondamentalmente diversi dai primi. Le due categorie di scrittori hanno in comune di at­tribuire quello che scrivono a Ermete, ma nulla piu. Non hanno nulla, o ben poco a che fare gli uni con gli altri; sono di un diverso calibro men­tale; nella maggior parte dei casi è facile distin­guere con un'occhiata a quale categoria assegna­re un documento. Noi quindi ci consideriamo giustificati nel considerare gli Hermetica filosofici o religiosi come una categoria a sé, e, al fine che ci proponiamo, di ignorare la massa di sciocchez­ze che appartengono all'altra categoria». Piu sfu­mato, forse, ma non diverso, il giudizio di Festu­gière. «La letteratura ermetica - dirà a sua volta -importa due tipi di scritti molto diversi: 1. una serie di testi, i piu antichi, che riguardano l'astro­logia, l'alchimia, la magia, e in genere le scienze occulte: ed è quello che chiamerei, per brevità, ermetismo popolare; 2. una serie, composti nel loro insieme fra II e III secolo della nostra era, che riguardano la filosofia e la teologia: è quello che chiamerei ermetismo dotto.» Tratto comune di entrambi i nuclei l'appartenenza al sapere rive-

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lato. La nostra conoscenza è fondata su una rive­lazione.

Orbene, se non è il caso di discutere qui, ora, la distinzione alle origini antiche (e probabil­mente non può essere accolta come tale neppure per quel momento), certamente essa non è accet­tabile sia nella tradizione medievale sia, soprat­tutto, nel Rinascimento, allorquando viene uni­ficata sotto il manto del mistero ermetico ogni forma di sapere supremo: un sapere che è, nello stesso tempo, potere di intervenire nella realtà: magia come momento pratico della scienza della natura, secondo la definizione che ne accetterà Pico. D'altra parte si pensi solo agli indissolubili intrecci che si vengono a stabilire fra conoscenze astronomico-astrologiche del cielo, costruzione dei talismani e loro applicazioni terapeutiche, e al complesso di immagini, simboli, fantasie e «spiriti» d'ogni genere che implicano. Del resto lo stesso Festugière riconosce che vi sono tracce di astrologia in molti trattati dell'ermetismo dot­to, e tracce di alchimia nel trattato dotto K6re k6s­

mou, mentre gli scritti di Zosimo subiscono le in­fluenze delle speculazioni gnostiche e mistiche proprie dell'ermetismo «teologico». Con tutto ciò nelle conclusioni resta fermo alla sua tesi di fondo, addirittura esasperandola, quando, non facendo che ripetere le parole di Scott afferma:

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«L'unico punto comune, il solo tratto che con­senta di ricondurre ali' ermetismo tutte queste opere, è che si presentano tutte come rivelate, e rivelate da Ermete Trismegisto».

In realtà il tratto peculiare, e il terreno unifi­cante, dell'ermetismo sia teologico che magico sta proprio nella ricerca di un livello piu alto di conoscenza in cui, mentre si coglie l'unità del tutto, ci si identifica col tutto e nel tutto si opera trasformandolo, mentre il conoscere si identifica col fare. Festugière, che pure sottolinea il caratte­re sui generis di tutta la letteratura ermetica, non si ferma come converrebbe sul senso delle corri­spondenze unificanti i vari piani e aspetti della realtà, il senso dei legami che avvincono il tutto, il senso della vita che tutto percorre, il giuoco in­finito dei segni, dei simboli, delle immagini -delle potenze e delle operazioni. Cosi sembra sfuggirgli il complesso di implicazioni del Dio Anthropos collocato al centro del mondo, come il valore attribuito al linguaggio - che è il lin­guaggio egiziano, con la scrittura egiziana - che non solo rivela, ma evoca e opera.

Nel XVI dei trattati ermetici, le Definizioni di Asclepio al re Ammone, che Ficino non tradusse, e che solo il Lazzarelli rese in latino, si possono leggere testi caratteristici a proposito della poten­za delle parole, del linguaggio sacro degli Egizia-

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ni e delle sue capacità rivelatrici. Dice Asclepio: «La stessa particolarità del suono, la precisa into­nazione dei vocaboli egiziani, racchiudono in sé l'energia delle cose che vengono dette (tèn enér­gheian ton legom énon). Nella misura in cui ne hai il potere, o re che tutto puoi, preserva a qualunque costo questo discorso da ogni traduzione, perché misteri cosi grandi non giungano ai Greci, e l'or­goglioso eloquio dei Greci, con la sua mancanza di nerbo non faccia impallidire e non annulli la gravità, la robustezza, la virtu operativa dei voca­boli della nostra lingua. Poiché i Greci, o re, di­spongono solo di vuoti discorsi atti a produrre dimostrazioni; e in questo, in realtà, consiste tut­ta la loro filosofia, in un rumore di suoni. Noi, invece, non usiamo semplicemente di parole, ma di suoni pieni di efficacia».

Non solo. Nello stesso discorso Asclepio passa a presentare la struttura della realtà, articolata su piani diversi, con al centro il Sole vivificatore universale. «Il Sole - dice - diffonde senza posa la sua luce cosi come continua senza fine a creare la vita, senza interrompersi mai, o venir meno in alcun luogo [ . . . ] . È il Sole che lega insieme il cielo e la terra.» Intorno al Sole ruotano le sfere; è il So­le che governa il mondo mediante gli astri, e i de­moni che sono al servizio degli astri. Proprio i de­moni, dandosi il cambio istante per istante scan-

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discono gli influssi distribuiti dagli astri. Si defi­nisce cosi il fondamento dell'astrologia proprio nel quadro dell'ermetismo teologico. «Appena ciascuno di noi viene alla vita ed è animato, è as­sunto dai demoni di servizio nell'istante preciso della nascita [ ... ], posti agli ordini di ciascuno de­gli astri. I demoni poi si dànno il cambio istante per istante», in modo che la grande sfera della vi­ta e della luce proceda secondo la rigorosa scan­sione dell'orologio celeste. «Per questo - cosi conclude il testo - Dio è il padre di tutto, il Sole è il demiurgo, e il cosmo è lo strumento di questa azione produttrice [ . . . ]. Dio fa tutte le cose valen­dosi di loro, per se stesso, e tutte le cose sono par­ti di Dio; e se tutte le cose sono parti di Dio, Dio è tutte le cose; facendo cosi tutte le cose, Dio fa se stesso, e non è possibile che si fermi mai, per­ché non può cessare di essere. E come Dio non ha fine, cosi neppure la sua attività creatrice ha principio o fine.»

D'altronde, questa partecipazione dell'uomo alla vita del tutto, proprio nell'Asclepius sembra giungere a rendere ragione di pratiche tipicamen­te magiche. «Supera la meraviglia destata da tutti i suoi aspetti mirabili il fatto che l'uomo abbia potuto scoprire quale sia la natura degli dèi e ri­crearla [ ... ] . Venne un tempo in cui i nostri ante­nati [ ... ] finalmente riuscirono a trovare un'arte

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con la quale creare gli dèi. Una volta che l'ebbero trovata, vi aggiunsero un conveniente influsso ri­cavato dalla essenza del mondo e a quell'arte lo mescolarono; e [ ... ] chiamarono a sé le anime dei demoni e degli angeli e le fecero dimorare nelle figure divine servendosi di santi e divini misteri, si che per mezzo di esse gli idoli potessero avere la forza di fare il bene e il male.» Siamo alle prati­che teurgiche. Ma già Plotino aveva scritto nella quarta Enneade: «Gli antichi saggi, che hanno vo­luto fra loro presenti gl i dèi costruendo templi e statue, mirando alla natura dell'universo, capiro­no che è sempre facile attirare l'anima universale, ma che è particolarmente agevole trattenerla, so­lo che si costruisca qualcosa di affine e capace di riceverne la partecipazione. Ora l'immagine fi­gurata di una cosa è sempre disposta a subire l' in­fluenza del suo modello, come uno specchio ca­pace di imprigionarne l'immagine» .

Come si vede, astrologia e magia si intreccia­vano con una visione del tutto fatta di corrispon­denze speculari : quel parallelismo di piani fra cielo e terra che ritroviamo fino all'esasperazione in testi astrologici come quel liber Hermetis, che risale all 'antichità classica e che Gundel pubblicò nel 1 936 nella versione latina conservata in un unico manoscritto, l'Harleianus 3 73 1, datato 1431 . Nei cieli si legge la vita della terra, perché

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tutto vi è trascritto con tanta chiarezza e precisio­ne che Franz Cumont nel 1937 pubblicò un li­bro intero, L 'Egypte des astrologues, in cui tradusse nei termini della vita quotidiana tutto quello che Ermete aveva scritto con le stelle.

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4. Ermete fra Trecento e Q!.iattrocento

La diffusione dell'ermetismo nel Medioevo latino, i modi in cui vennero usati testi come I' Asdepius, con tanta prepotenza presente nel se­colo XII; le citazioni e gli echi di Lattanzio e di Agostino, e l'uso che se ne fece: tutto questo ri­chiederebbe ben piu ampio discorso. E tuttavia è difficile non ricordare almeno fuggevolmente i secoli XII e XIII, quando le corrispondenze fra macrocosmo e microcosmo, la curiosità per i fe­nomeni naturali, l'uso di magia e astrologia, si collocano spesso sotto il segno di un Ermete che circola variamente in tutta la sua ambigua com­plessità.

Nel Trecento l'interesse non diminuisce, sia sul piano filosofico che su quello magico-astro­logico. Sul piano filosofico meritano, forse, una qualche particolare attenzione l'uso e la fortuna,

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piu ancora che di un testo, di un'ampia citazio­ne, che dopo molte vicende fu unita, con ogni probabilità dallo stesso Ficino, alla versione lati­na del Pimander, entrando cosi nella circolazione europea cinquecentesca, da Cornelio Agrippa a Symphorien Champier e a Francesco Patrizi. È una pagina sulla morte di Ermete che colpi Co­luccio Salutati, il quale vi ravvisò quasi l'esempio della fine del saggio pagano, e la riportò libera­mente nella lettera a Roberto Guidi di Battifolle del 16 agosto 1374, in morte del suo Petrarca. Os­servava Salutati : «Queste parole poté pronuncia­re, col solo sussidio della ragione, un pagano, cer­to non pari a questo nostro Petrarca [ ... ], anche se per le sue straordinarie virtu l'antichità gli con­cesse onori divini». Ed ecco il testo che in qual­che misura usufrui nel Quattrocento della fortu­na del Pimander : «Ermete Trismegisto, a cui l' opi­nione comune per l'ammirazione della somma virtu concesse immeritati onori divini, avvici­nandosi all'estremo termine della sua vita, cosi si rivolse ai circostanti : "Sono vissuto finora, figli miei, cacciato dalla patria, pellegrino ed esule, e ora finalmente vi faccio ritorno sicuro e salvo. Quando, fra poco, del tutto libero e sciolto dai legami del corpo, mi sarò allontanato da voi, cer­cate di non piangermi come se fossi morto. Fac­cio infatti ritorno a quella ottima e beata città, i

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cui cittadini ignorano morte e corruzione; quella città ove l'unico Dio è solo e sommo signore, al cui comandamento tutti obbediscono volentie­ri, godendo insieme della pienezza di un bene inestimabile e inviolabile, colmi di meravigliosa dolcezza [ . . . ]. Asciugate perciò le lacrime, o figli. Qiesta dissoluzione, infatti, in cui ci si libera del peso della parte corruttibile, non è nulla di cala­mitoso o esiziale; mi apre la strada a un ritorno glorioso. Né avete motivo di pianto nel momen­to in cui mandate vostro padre alla gloria della vera vita e a ricevere il premio finora sospirato dell'immortalità, che mi sono meritato con la di­vina costanza dell'animo mio, con la previdenza, la sobrietà, la giustizia e il purissimo culto della divinità. Voi stessi seguirete il padre e lo ritrove­rete in patria, né lo ignorerete essendo nel frat­tempo cambiato, perché ognuno, in quell'unico immenso splendore di bontà che è Dio, dissipate le tenebre dell'ignoranza, riconoscerà piu vera­mente che dir non si possa tutti i concittadini di lassu"». Quindi, dopo avere esortato i figli a cre­dere nel solo Dio «che ha fabbricato tutta questa macchina del mondo», ascoltando una musica celestiale Ermete spirò.

Il testo, curiosamente composito, è interessan­te soprattutto per l'uso del personaggio Ermete in una scena edificante entro un'opera fonda-

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mentalmente «morale», probabilmente compo­sta in Italia, come suppone il suo recente editore Paolo Lucentini, nella seconda metà del secolo XII. Ricomparsa con Salutati, disprezzata dalle «avanguardie» del primo Quattrocento (somnia, diceva con sdegno il Niccoli), riemerge con Fici­no esclusivamente come testimonianza ermeti­ca, ma come tale non trascurabile neppure fra se­colo XII e XIII.

Tutt'altra importanza, anche per collocare e capire l'ermetismo del Q!iattrocento, ha la forte presenza di testi e dottrine ermetiche, o vicine all'ermetismo, in maestri significativi del Trecen­to, e proprio all'incontro fra scienza e problema­tica filosofica (e morale), fra religione e filosofia, fra metafisica e magia. T aie il caso di un notevole filosofo e scienziato del secolo XIV, Tommaso Bradwardine, il cui Tractatus proportionum, seu de proportionibus vel.ocitatum in motibus, ebbe cosi larga diffusione anche a stampa ed è certamente una delle piu significative opere scientifiche del Trecento. Nel 1344, il celebre maestro del Mer­ton College concludeva la sua grande opera De causa Dei contra Pelagium et de virtute causarum, ad suos Mertonenses (stampata a Londra da Sir Henry Savile solo nel 1618), che raccoglieva con ogni probabilità le sue lezioni a Merton College (indi­cata, sembra, anche come S umma scientiarum).

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Orbene il testo, amplissimo e di grande inte­resse, è pieno di citazioni ermetiche, e mostra una conoscenza larghissima, e una grande fami­liarità con opere che vanno dall' Asclepius al De VI rerum principiis (Hermetis Mercurii Triplicis) fino alla Tabula smaragdina. Dell'Asclepius, citato come De verbo aeterno, il Bradwardine trascrive ampi tratti, in realtà pagine intere, ma attinge an­che a scritture in cui si riflette l'ermetismo rivolto alla modificazione delle cose attraverso strumen­ti magici.

L'opera conobbe una certa diffusione mano­scritta. Nel 1356 l'eremitano Francesco de' Nerli, maestro di teologia allo Studio Fiorentino, si fa trascrivere in Parigi, in uno splendido codice (l'attuale manoscritto Conv. Soppr. G. 3. 418, della Nazionale di Firenze), il De Verbo Dei, sot­tolineandone sistematicamente, o notando con richiami al margine, tutte le citazioni ermetiche, dando l'impressione proprio di una lettura inte­ressata a metterle in evidenza.

L'insegnamento del Nerli è attestato fra la fine del marzo '65 e il '68-'69. Quello, tuttavia, che quel codice dimostra, è qualcosa di piu di un in­teresse per uso accademico di alcuni testi ermeti­ci. Si inserisce in un mondo culturale che vuol rompere con tutta un'atmosfera d'indagine, e che ha una curiosità fortissima per tematiche di

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genere diverso. È quello il giro d'anni in cui Salu­tati non si contentava di leggere le pagine edifi­canti del Liber Alcidi sulla «bella morte» di Erme­te. Studiava e adoperava il De mundi universitate di Bernardo Silvestre, intriso dell'ermetismo dell' Asdepius, e, sempre di Bernardo Silvestre, si valeva largamente del commento a Virgilio nell'importantissimo De laboribus Herculis, men­tre, col De fato et fortuna, affronterà la questione astrologica, e andrà ritrovando Ermete in Lattan­zio e Agostino. In altri termini l'esplosione erme­tica fìciniana e postficiniana della seconda metà del quindicesimo secolo non solo non avvenne nel vuoto, ma si collocò in una fitta trama di in­contri fra ermetismo teologico e magico-astrolo­gico, sullo sfondo di una forte spinta al rinnova­mento religioso.

Proprio, anzi, sul terreno teologico, le tesi di Ermete, e soprattutto dell'Asclepius, a proposito dell'uomo (magnum miraculum) e del suo rappor­to con Dio, tornano spesso anche negli scritti del grande Cusano che nel De beryllo (del 1458) scri­veva: «Ermete Trismegisto ha detto che l'uomo è un secondo dio [Asci. 6-8]. Come Dio è il creato­re degli enti reali e delle forme naturali, cosi l'uo­mo lo è degli enti razionali e delle forme artificia­li, che non sono altro che le similitudini del suo intelletto, come le creature di Dio sono le simili-

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tudini dell'intelletto divino. Cosi l'uomo ha l'in­telletto che è la similitudine dell'intelletto divi­no quando crea. Perciò crea le similitudini delle similitudini dell'intelletto divino, come le figure artificiali estrinseche sono le similitudini della forma naturale intrinseca. [L'uomo] misura il suo intelletto mediante la potenza delle sue ope­re e da ciò misura l'intelletto divino, come la ve­rità è misurata dalla immagine. E questa è la scienza per enigmi. L'uomo ha anche una vista acutissima, con la quale vede che l'enigma è enig­ma di verità, per cui sa che è verità quella che non è rappresentabile in nessun enigma» (De beryllo, 6, trad. G. Vescovini).

Cusano si compiace, anzi, nel riprendere dai testi ermetici proprio i giuochi enigmatici delle corrispondenze fra piani del reale che sembrano inseguire all'infinito l'ineffabile, e l'invisibile: il Dio «ignoto», «la forma universale dell'essere di tutte le forme» afferrabile solo nella sua singolare «contrazione». «L'angelicità riceve la forma uni­versale dell'essere secondo il grado di discesa che si chiama angelicità. L'umanità contrae la forma dell'essere universale secondo il grado di discesa che si chiama umanità [ ... ]. E sebbene Dio sia tutto in tutto, l'umanità non è Dio, anche se un intelletto sano può accettare il detto di Ermete Trismegisto che Dio è chiamato con i nomi di

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tutte le cose e tutte le cose con il nome di Dio, sicché l'uomo può essere chiamato "dio umana­to" e il mondo di qui "dio sensibile"» (De dato pa­tris luminum, 2). Dice l' Asclepius che Dio non ha nome, o meglio li ha tutti, perché è, insieme, Uno e Tutto, per cui, o si designano tutte le cose con il suo nome, o gli si dànno i nomi di tutte le cose (Asci. 20: bune vero innominem ve! potius om­ninominem). L'umanità - dice nel De coniecturis, 15 - è unità e infinità umanamente contratta, os­sia è l'infinito unificato umanamente, accanto a una infinità di altre «contrazioni» o unificazioni, secondo altre forme (angelo, leone ecc.), dell'in­finito che è tutte le forme. In questo senso, insi­ste piu volte Cusano, ha ragione Ermete nel con­siderare l'umanità humanus deus, e l'uomo Deus humanatus.

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5. La circolazione di Picatrix nel Quattrocento

Mentre l'alta metafisica di Cusano si lasciava sedurre anch'essa dalle espressioni dell'Asclepius e dalle definizioni dello pseudo-ermetico liber XXIV philosophorum («Dio è una sfera infinita, il cui centro è dappertutto, e la cui circonferenza in nessun luogo» = deus est sphaera infinita, cuius cen­trum ubique est et circumferentia nusquam), su tutt'altro versante si faceva abbastanza frequente nel Quattrocento la circolazione di testi dichia­ratamente magici. Insieme al fascino dell'occul­to, e alla tentazione delle operazioni magiche, agisce la seduzione di un incontro fra la cono­scenza delle strutture profonde delle cose e la conquista di una potenza operativa nella natura, e tutto sullo sfondo di una visione unitaria della realtà che accentui le corrispondenze fra uomo e mondo, in un inseguirsi senza fine di immagini

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specchiate, di piani riflessi che cercano di dire l'ineffabile.

In un orizzonte del genere si collocano opere come Picatrix, un trattato arabo di magia di incer­to autore ( Ghayat al-hakim dello pseudo-al-Majri­ti), la cui versione latina circolò manoscritta in Italia, specialmente nella seconda metà del Quat­trocento, destando insieme ammirazione e scan­dalo cosi fra i cristiani come fra i mussulmani, fra i quali, come si è visto, suscitò la confutazione di uno studioso come Ibn Khaldun. Proprio Pica­trix sarà opera ben nota al Ficino che confessava di averne tratto l'essenziale per il terzo libro De vita, accogliendone la fiducia nella potenza tera­peutica dei talismani. La leggerà Pico che ne pos­sedeva un manoscritto nella propria biblioteca, la citerà Ludovico Lazzarelli, la utilizzerà Corne­lio Agrippa, per fare subito qualche nome. Può darsi che ancora Campanella si ricordasse della civitas Adocentyn (Picatrix, IV, 3) quando disegna­va la città del Sole. Senonché quello che interessa di piu è il nesso, che in Picatrix è chiaro, fra pre­supposti teorici e pratiche operative, fra erme­tismo speculativo dalle venature platonizzanti e magia, fra teurgia e teosofia orientale. «Sappi che la scienza - si legge in Picatrix (I, vi, 1) - è qual­cosa di molto nobile e alto; chi vi si adopera ed opera per suo mezzo ne riceve nobiltà e grandez-

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za. E la scienza procede per gradi; conosciuto uno, subito ne appare un altro da apprendere. È perfetto nella scienza quello che raggiunge l'ulti­mo grado, e che tutti i gradi della scienza apprez­za ed ama. I Greci li chiamano filosofi, che in la­tino si traduce amatori della scienza. Chi non si affatica nelle scienze, è difettoso e di scarsa auto­rità, e per conseguenza non deve dirsi uomo, an­che se ha il nome, la forma e l'aspetto di uomo.» Ma c'è di piu : attraverso la scienza l'uomo fa mi­racoli, comprende tutto, riesce in qualche modo a diventare tutto. «Il gallo, il cane, il leone, non possono mutare le loro voci; l'uomo con la sua voce naturale ha la potenza di rifare i suoni di tutti gli altri animali, di mutare la loro forma -come vuole.» Ove c'è appena bisogno di richia­mare il valore che nell'ermetismo hanno le paro­le, il linguaggio, le formule («con la sua voce di­venta simile a qualsiasi animale, quando gli pia­ce; con le proprie mani plasma forme simili a lo­ro; con le sue parole numera, descrive e spiega le loro nature e i loro atti,,). L'uomo, in realtà, ha il potere di trasformare la propria natura. Nella sua posizione intermedia, può ascendere o discende­re; può salire al cielo, o abbassarsi al livello dei bruti. «I pesci sono medii fra gli uccelli e le bestie; le conchiglie che sono nel mare sono medie fra le cose sensibili e quelle che non sentono»; l'uomo,

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che è medio per eccellenza, fra gli spiriti celesti separati e i bruti (inter cel.estes spiritus separatos et bruta), può farsi tutto, e per questo si chiama pic­colo mondo (dico enim quod homo minor mundus nominatur). E questo significa, soggiunge il testo, che tutto quello che è contenuto nel mondo maggiore, è contenuto potenzialmente in quello minore (Picatrix, III, v, 1).

Come si vede, erano le idee sull'uomo larga­mente circolanti nelle pagine ermetiche «filosofi­che» (e non solo in quelle), che i Ficino e i Pico potevano ritrovare in Picatrix accanto a magia e astrologia. Ma non solo quello. Giustamente Henry Corbin ha piu volte insistito sul tema del­la Natura perfetta (Natura compi.eta), sulla guida luminosa del saggio, sull'Angelo, ossia su una se­rie di temi, che certamente sono strettamente le­gati al Pimandro, e che pure si trovano largamen­te esposti in Picatrix, a confermare la stretta con­nessione fra «filosofia» ermetica, magia e astrolo­gia. Forse, anzi, la pagina piu significativa sulla Natura perfetta si trova proprio in Picatrix, e con­viene, almeno in parte, tenerla presente, proprio per non cadere in equivoci a proposito di quello che gli entusiasti di Ermete e del Pimandro ebbe­ro l'impressione di ritrovare in Picatrix.

La Natura perfetta (compi.eta) «è il segreto na­scosto nella stessa filosofia», è un'entità spiritua-

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le a cui i filosofi partecipano in gradi diversi. Co­munque, ecco nelle parti essenziali, il discorso di Ermete. «Disse Ermete: quando volli compren­dere e portare alla luce i segreti del mondo e i mi­steri della creazione, mi chinai su un pozzo pro­fondo e oscuro da cui usciva un vento impetuo­so, né riuscivo a scorgervi nulla a causa del buio. E quando vi accendevo una candela, subito la spegneva il vento. Mi apparve allora in sogno un uomo bello e di solenne autorità che mi parlò cosi : prendi una candela accesa e mettila in una lanterna di vetro perché l'impeto del vento non la spenga. Mettila nella caverna e scava al centro di essa; troverai un'immagine; tirala fuori, ed essa farà tacere il vento del pozzo, e co�i potrai tenere acceso il lume. Scava quindi ai quattro angoli del pozzo, e ne estrarrai i segreti del mondo, la Natu­ra petfetta e le sue qualità, nonché le generazioni di tutte le cose. Gli domandai allora chi fosse. Mi rispose: sono la Natura petfetta, e quando desi­deri parlarmi chiamami col mio nome, e io ti ri­sponderò» (Picatrix, III, vi).

Un'ulteriore illustrazione del significato e del­le prerogative della Natura petfetta (ossia dell'Angelo del filosofo) è messa in bocca a So­crate, che, d'altra parte, si rifa a Ermete: «E Socra­te disse che la Natura petfetta è il Sole del sapien­te, e la radice della luce. E alcuni chiesero al sag-

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gio Ermete: con chi la scienza e la filosofia si uni­scono? Rispose: con la Natura perfetta. Gli do­mandarono ancora: quale è la radice della scien­za e della filosofia? Disse: la Natura perfetta. Lo interrogarono ancora in modo piu stringente: quale è la chiave della scienza e della filosofia? Rispose: la Natura perfetta. Gli chiesero allora: ma che cosa è la Natura perfetta? Rispose: la Na­tura perfetta è lo spirito [Angelo] del filosofo e del sapiente collegato al pianeta che lo governa. È lui che gli apre le porte della scienza, che gli fa intendere le cose che altrimenti non si possono intendere, e da cui procedono le operazioni della natura, direttamente, cosi nella veglia come nel sonno. Da questo risulta chiaro che la Natura perfetta si comporta nel sapiente e nel filosofo come il maestro nei confronti del discepolo» (Pi­catrix, III, vi, 1 e 5).

Come si vede, non era difficile ricordarsi, leg­gendo queste pagine, dell'avvio del Pimandro, dalle immagini fino all'insegnamento essenziale: Pimandro è il nous che accompagna sempre il di­scepolo (ipse vero tibi ubique adero, traduce Fici­no ); è la mens divinae potentiae che il filosofo ab­braccia nella propria mente (tua me mente compl.ec­tere, dice sempre Ficino). È, insomma, la Natura perfetta.

Solo che, in Picatrix, sotto il segno del rappor-

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to-corrispondenza uomo-mondo-Dio, si attua lo scopo dichiarato di un sapere operativo, ossia si offrono gli strumenti tecnici con cui sfruttare la visione del tutto offerta dall'ermetismo filosofi­co. Picatrix però, e questo va sottolineato, non è solo un manuale di necromanzia, di magia ceri­moniale, come troppo si è ripetuto. Contiene an­che una esposizione teorica generale, ove sono sviluppate in modo originale anche tesi che al­trove, almeno in questa forma, non si trovano. Basti pensare alle pagine sulla Natura completa (o perfetta).

Dell'interesse di Ficino per Picatrix si era so­spettato, e si erano indicate vicinanze con uno dei suoi scritti piu. complessi, e piu. carichi di spunti magici : il terzo dei libri De vita, il De vita coelitus comparanda, fra l'altro il piu. sensibile alle sollecitazioni astrologiche. Nel 1976, dalle Filze Rinuccini (Filza 17, inserto 6) della Nazionale di Firenze, Daniela Branca ha pubblicato una lette­ra di un allievo del Poliziano, Michele Acciari, precettore in casa di Filippo Valori, l'amico di Fi­cino, che ne fece stampare, fra l'altro, il De vita nell'89, anno nel quale probabilmente fu scritta la lettera. Ficino è malato, e prega !'Acciari di scrivere a Filippo Valori, che aveva espresso il de­siderio di avere in prestito Picatrix. Purtroppo Fi­cino aveva avuto anch'egli in prestito l'opera da

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Giorgio Medico (forse Giorgio Ciprio) e gliela aveva restituita. L'aveva letta a lungo e molto, l'aveva studiata lavorandoci molto sopra (diu et multum perlegisse multamque in eo versando operam et acute legenda studium posuisse), e ci aveva trovato molte cose prive di valore. Le cose utili e degne di essere lette (utilia [ . . . ] et lectione digna) le aveva tra­sferite (transtulisse) nei «libri della vita», allora da lui composti. Il resto aveva lasciato come frivolo, vano e condannato dalla religione cristiana (reli­qua frivola et vana et christiana religione damnata). L'amico Valori, quindi, potrà trovare tutto il me­glio di Picatrix, in forma piu sintetica, e soprat­tutto piu chiara (melius, compendiosius, certe luci­dius), nel De vita, e con Picatrix ci troverà anche quanto dello stesso genere è stato scritto da altri scrittori.

Il documento è molto importante, e trova conferma solo che si confronti Picatrix latino col testo ficiniano. È anzi probabile che la lettera, non datata, risalga al periodo fra la fine della composizione del De vita e la stampa (terminata il 3 dicembre 1489), allorché cominciò a circola­re l'accusa di magia, che costringerà il Ficino a cercare appoggi e protezioni fino dal 1 5 settem­bre 1489. La faccenda si trascinò per circa un an­no; Ficino aveva scritto una elegante Apologia ai tre Pietri, Pietro del Nero, Pietro Guicciardini,

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Pietro Soderini: Apologia in qua de medicina, astro­logia, vita mundi, item de magis qui Christum statim natum salutaverunt, agitur. Si consolava, dicevano i maligni, facendo pratiche magiche insieme a Pi­co della Mirandola, confinato in seguito alla condanna, fra l'altro per magia, di pochi anni pri­ma.

Pico si era trincerato dietro la distinzione fra una magia che si vale del sussidio dei demoni, e una magia naturale che si incontra con la filoso­fia di cui è il momento pratico, e il cui vero scopo è di riunificare la realtà: come dice poeticamen­te, fare opere di magia non è altro che «maritare il mondo» (magiam operari non est aliud quam mari­tari mundum). Ficino, nel De vita, si muove su un terreno piu insidioso, quale è la virtu dei talisma­ni, e, piu a fondo, la teurgia. E proprio a proposi­to dei talismani, e delle loro applicazioni medi­che, arriva a dire: «se tu non approvi i talismani, del resto ritrovati per la salute dei mortali, nep­pur io li approvo, anche se li descrivo [ ... ]. Devo però riconoscere, attraverso una lunga esperien­za, che fra le medicine comuni e i rimedi di quel genere (delectu astrologico factae) ci corre come dall'acqua al vino». In altri termini, la concentra­zione degli influssi celesti in un'immagine trac­ciata secondo le regole, ha un singolare effetto te­rapeutico. D'altra parte le regole, astrologiche,

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magiche, e cosi via, definiscono i vari sistemi di segni che costituiscono il tutto, o, meglio, che traducono e rendono intelligibile la vita univer­sale (vita mundi). L'astrologia - questo, alla fine, c'insegna Ficino - non è altro che la traduzione in un linguaggio celeste della realtà, una proie­zione figurata e ingrandita dei moti della psiche, dell'agitarsi degli affetti, dei processi delle ge­nerazioni. Leggere gli astri significa leggere in noi; leggere nel nostro spirito significa leggere nell'universo. E l'universo non è che un grande vivente. Nel De vita Ficino scrive: «La vita del mondo, dovunque presente, si propaga nelle er­be e negli alberi, quasi peli del suo corpo e capel­li ; e poi nelle pietre e nei metalli, quasi denti e os­sa [ . . . ] . E questa vita comune sboccia ancor piu sopra la terra nei corpi piu sottili e piu vicini all'anima. Per il suo intimo vigore l'acqua, l'aria e il fuoco hanno in sé i loro viventi e si muovono. Questa vita riscalda e muove l'aria e il fuoco più della terra e dell'acqua. Infine vivifica al massi­mo i corpi celesti quasi capo, cuore, occhi del mondo. E finalmente, per mezzo delle stelle co­me suoi occhi, diffonde dovunque nel mondo i suoi raggi non solo visibili, ma veggenti».

In Ficino il rapporto macrocosmo-microco­smo, il tema dell'anima del mondo e della vita universale, l'universo come un grande vivente,

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costituiscono lo sfondo di tutto il suo pensiero, ma anche una specie di esperienza vissuta nella riflessione filosofica. Il pensiero di Pico su molti punti non è diverso: l'uomo ermetico «miracolo grande», la sua centralità, la sua possibilità di farsi tutto, e poi, anche in lui, l'istanza unitaria dell'Heptaplus (e con l'ermetismo la cabala).

Solo che l'Heptaplus (che esce ugualmente nell'89) resta un complesso trattato metafisico­teologico, mentre il De vita è un elegante e utile libretto di ricette mediche e di indicazioni astro­logiche, che insinua sottilmente l'idea dell'unità fra corpo e anima, fra cielo e terra, fra divino e terrestre, attraverso la mediazione dello spiritus che è materia sottilissima, corporea eppure eva­nescente nell'incorporeo. Per questo il De vita, mentre vede subito moltiplicarsi le edizioni, dif­fonde ovunque, anch'esso, una moda ermetica che fonde l'eredità del Corpus Hermeticum con quella di Picatrix, in una strana sintesi destinata a traversare il Cinquecento.

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6. Le avventure di un profeta ermetico

Fra coloro che, nella seconda metà del Quat­trocento, ebbero per le mani Picatrix, merita sen­za dubbio un posto a sé Lodovico Lazzarelli da Sanseverino Marche (onde Septempedanus), poeta minore latino vissuto fra il 1450 e il 1500, traduttore delle Definizioni di Asclepio al re Am­mone (il sedicesimo degli opuscoli greci del Cor­pus Hermeticum), e autore del dialogo ermetico Crater Hermetis. In un appunto alchimistico, riunisce una citazione della Tabula smaragdina agli arcana di Picatrix, da lui identificato come autore dell'opera che reca quel nome, ma «che si chiama clavis sapientiae». Quanto poi alla Ta­bula smaragdina, ne riporta subito quello che non a torto gli sembra il principio fondamenta­le di tutte le operazioni ermetiche: «ciò che è in basso è come ciò che è in alto, e ciò che è in alto

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è come ciò che è in basso, per realizzare i miraco­li dell'unità».

E, tuttavia, non per tutto questo spetta al Laz­zarelli un posto a parte in un quadro dell'erme­tismo rinascimentale, e neppure per avere cerca­to di riunire in latino tutti gli opuscoli ermetici greci, completando Ficino, di cui si dichiara am­miratore, e che proclama di amare straordinaria­mente (mirum in modum). Una posizione privile­giata egli merita per averci conservato, in un testo molto singolare e molto raro, stampato, sembra, all'inizio del Cinquecento (ma ne esiste anche un manoscritto a Brescia, alla Queriniana) la re­lazione accurata di una pubblica manifestazione «ermetica» avvenuta a Roma la domenica delle palme del 1484, essendo pontefice Sisto IV. Lo scritto in questione, senza dubbio opera del Laz­zarelli che si celava sotto il nome di Enoch (che usa anche in altre occasioni) è intitolato Epistola Enoch de admiranda ac portendenti apparitione novi atque divini Prophetae ad omne humanum genus.

Protagonista dell'avventura Giovanni Mercu­rio da Correggio (Mercurio era nome che si era aggiunto in omaggio al Trismegisto), che Lazza­relli considerava suo iniziatore ai misteri ermetici e suo maestro. Personaggio non ignoto, alchimi­sta e mago, inquisito per eretico a Bologna dove abitava con moglie e figli, il Tritemio ne dà noti-

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zia come di un protetto del re di Francia, a pro­posito di una sua comparsa spettacolare a Lione. Lazzarelli gli attribuiva la sua «nuova generazio­ne» da poeta a figlio della vera sapienza (verae sa­pientiae filius).

Lazzarelli, naturalmente, carica la passeggiata romana di tutti gli elementi necessari per sottoli­nearne il valore iniziatico e i significati simbolici, dagli ornamenti e dalle vesti ai cavalli, ai servi, all'asino fra i cavalli, e cosi via. In realtà si tratta di «cerimonie» di cui non è difficile ritrovare esempi e paralleli nella letteratura di gusto erme­tico e magico. Per fare un solo esempio c'è un Li­

ber Mercurii, di cui un manoscritto si può leggere in una miscellanea magica - del resto assai note­vole - della Nazionale di Firenze, che già colpi­sce nel titolo e nell'impostazione: «questo è un libro di Mercurio Ermete [ ... ] , serve a trovare ogni scienza, la sapienza, la filosofia e la memo­ria, a predicare al popolo, a insegnare ai ragazzi, ai discepoli e simili. Se uno lo vuol fare, salga su un asino bianco e puro, tenga in mano un libret­to, stia come un uomo in atto di leggere e legga quello che vuole». Continuando ad analizzare, i paralleli col Mercurio del Lazzarelli non sono trascurabili.

Racconta, dunque, Lazzarelli, che la domeni­ca delle palme del 1 484 apparve per la prima vol-

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ta a Roma, e si fece poi di nuovo vedere nei gior­ni seguenti, un uomo di trentatre anni, agile e vi­vace, magro in volto e venerabile, privo di studi specifici di «grammatica» e di «oratoria», eppure eloquente, lontano da ogni mentalità farisaica e da ogni ipocrisia. Sorto il sole di quella domeni­ca delle palme, vestito di una toga nera, cinto di una fascia dorata, era balzato su un cavallo nero e fremente. Lo precedevano due servi a cavallo e due lo seguivano. Era andato cosi fino al Vatica­no, per poi tornare indietro e scendere, oltre un fiume, su un margine erboso. Aveva i capelli pet­tinati alla nazzarena, una corona di spine insan­guinata, e sopra la fronte una lamina argentea nella forma dei comi della luna, su cui si poteva leggere questo «oracolo dello spirito santo»: «Qiesto è il figlio mio Pimandro, che io scel­si [ ... ] ».

L'epistola continua fedelmente narrando ge­sti e discorsi profetici di quel giorno eccezionale. Al termine dei quali, Giovanni Mercurio da Cor­reggio gettava sugli ascoltatori, tanquam volantia volumina, una quantità di fogli che toglieva da una bisaccia, e sui quali aveva scritto la sostan­za dei suoi discorsi, dichiarandosi l'Angelo della sapienza e Pimandro (angelus sapientiae Pimander­que). Secondo Enoch, il profeta riusciva cosi a raccogliere gran folla, e mentre alcuni lo giudica-

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vano matto, e altri pensavano che lo facesse per un voto, moltissimi lo acclamavano profeta.

Dopo avere descritto le soste in Campo dei Fiori, i veri e propri tumulti in piazza S. Pietro, e la conclusione nella chiesa, Lazzarelli lo mostra che risale sul suo cavallo, con i suoi servi, e nei giorni seguenti discorre con i molti che lo vanno a interrogare perché assetati di saggezza (multis diebus a compluribus qui sapientiam sitiunt [ . . . ] vehe­menti cum admiratione auditus est). «Finalmente tornò a Bologna dalla moglie e dai figli, dove è solito risiedere sempre con i suoi.»

Che, tuttavia, si trattasse sempre di tranquille soste, come vuole il Lazzarelli, non pare. Il 4 lu­glio 1 486, in un dispaccio da Firenze al duca Er­cole, l'oratore estense comunica che «Giovanni da Correggio, chiamato Mercurio e profeta no­vissimo, figliuolo che fu già di Mess. Antonio da Correggio, venne questa Pasqua in questa città per andare a la Maestà del Re di Francia de la qua­le era consigliera, ed avea lettere di mano de la M.tà e del Secretario che lo desideravano piu che verun'altra cosa». L'oratore del re aveva anzi «commissioni precise» per far si che Giovanni da Correggio partisse al piu presto. Senonché, «per non essere sicuro il cammino», non poté partire. L'oratore estense continuava: «Pare che altre vol­te questo Mess. Giovanni fosse inquisito a Bolo-

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gna per eretico, e liberato. Nuovamente qui, mò questo giorno, fu preso a le due ore di notte in ca­sa sua, et similiter furono presi due suoi famigli quali ebbero corda assai. E menato al bargello detto Mess. Giovanni ad istanza de l'officio de li signori X, abbenché il tutto provenisse dal Mag.­co Lorenzo, poi fu messo ne le mani dell'Inquisi­tore di S. Francesco. Il qual Inquisitore pare che abbia usato una gran rigidezza contro questo Mess. Giovanni in fargli venire tutto il popolo a vederlo ne li ceppi e caleffarlo per una bestia, mi­nacciandogli sempre volerlo bruciare. In modo che detto Mess. Giovanni disperato ha battuto il capo in su'l ceppo, e con le mani si ha stracciata tutta la carne dal capo, per il che si dubita ch'egli morirà . E non morendo dubitasi che abbia a mal capitare; non tanto forse per suo errore, quanto per volontà d'altrui che lo ha fatto pigliare».

Giovanni da Correggio non mori. L' ermeti­smo continuò a circolare. Sulla fine dell'86 Gio­vanni Pico apriva con una citazione di Ermete quella che avrebbe dovuto essere l'orazione inaugurale del convegno romano. E forse Lazza­relli proprio da Pico senti parlare anche della ca­bala, da cui fu subito affascinato. Nel Crater Her­metis, in cui si fa riferimento, sia pur vago, a testi cabalistici, si legge: «ai nostri giorni alcuni co­minciano a conoscerne il nome. I suoi procedi-

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menti, a parte una eccezione, sono a tutti scono­sciuti». Era il Pico quella eccezione?

È certo, comunque, che l'ermetismo del Laz­zarelli è degno di maggiore attenzione di quella che in genere gli è riservata. Innanzitutto fu l'uni­co nel Q!iattrocento a riunire, in latino, il corpus degli opuscoli ermetici greci. Fino dal 1938 il Kri­steller aveva segnalato un manoscritto della Bi­blioteca Comunale di Viterbo (il cod. Il, D, 1, 4), copiato, o fatto copiare dal Lazzarelli per Gio­vanni da.Correggio, che unisce alla traduzione fi­ciniana la sua delle Definizioni (Dijfinitiones Ascle­pù), oltre a tre importanti prefazioni, nelle quali, a parte la propria «rigenerazione» ermetica dovu­ta al Correggio, afferma, contro il parere del Fici­no, l'anteriorità di Ermete rispetto a Mosè, come già aveva sostenuto Diodoro.

Quanto poi al Pico, con l'ermetismo da lui so­stenuto l'ermetismo lazzarelliano ha piu di un punto di contatto. E, innanzitutto, la connessio­ne con la cabala, a cui il Lazzarelli nel Crater Her­m etis presta non poca attenzione, utilizzando, fra l'altro, il Sefer Yezirah (in libro qui Sepher lzira, id est liber farmationis, appellatur). Ma forse il punto di maggior interesse è il rilievo dato alle tesi sull'uomo e sulla sua felicità. Non si dovrebbe di­menticare, infatti, che in una delle redazioni dell'opera del Lazzarelli il titolo recava De Sum -

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ma Hominis Dignitate, che diventò poi De summa hominisfoelicitate. La centralità dell'uomo, e il suo significato; la divinità dell'uomo e il suo posto nell'economia dell'essere, secondo la tradizione ermetica e quella cristiana - ermetismo e cristia­nesimo: ecco il centro della riflessione di Lazza­relli : «Colui che nella mente di Ermete era Pi­mandro, in me si è degnato di essere Cristo Gesu, e, consolatore eterno, mi ha confortato illumi­nando la mia mente con la luce della verità».

Certo non è facile intendere a fondo il Crater Hermetis, dalla stesura tormentata, certamente rielaborato non superficialmente una volta, e forse, almeno in parte, due, da cui scompare Pon­tano interlocutore, ma anche quel titolo origina­rio cosi perentorio: De summa hominis dignitate [/òelicitate] dialogus, qui inscribitur Ca/ix Christi et Crater Hermetis, in cui, a parte l'oscillazione digni­tas!faelicitas, è soppresso il non certo insignifi­cante Ca/ix Christi simmetrico a Crater Hermetis. Comunque, se il suo tema centrale è quello della regeneratio (della palingenesi), anzi della possibilità di novos farmari homines, è chiaro che la sua assi­milazione dell'ermetismo è piu complessa di quanto comunemente non si creda. Si assiste cioè a una connessione fra il Pimandro e la tema­tica del testo di Picatrix sulla Natura perfetta, che in Occidente non è diffusa. La Natura perfetta,

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infatti, è lo stesso «filosofo», la sua entità spiritua­le, il suo angelo, lui stesso nella sua «unità dialo­gica» (come la chiama Corbin). È Pimandro che dice: «io sono con te dovunque», io sono il nous. Dice Lazzarelli: «cosi l'uomo vero fa anime divi­ne»; e ancora: «novos formari homines», fare uo­mini nuovi; e ancora: «hi dant somnia praesaga».

Kristeller, che non pensava a Picatrix, e che non lo conosceva, come non faceva riferimento agli sviluppi del tema nel platonismo persiano, ebbe tuttavia a scrivere, a proposito della divina generatio, per chiarirla: «La generatio riguarda il rapporto fra maestro e discepolo, in quanto il maestro comunica al discepolo la propria sapien­za e lo conduce cosi a quel grado di vita e di realtà a cui egli stesso si era già prima elevato». Dice Pi­catrix latino, in un testo che Lazzarelli conosce­va: «la Natura completa è nel sapiente, o nel filo­sofo, come il maestro verso il discepolo, che pri­ma gli insegna soprattutto gli elementi e argo­menti facili, e procede quindi gradualmente a questioni maggiori e piu difficili, finché il disce­polo non diventi perfetto nella scienza». Solo che, in Picatrix (e nel Pimandro) maestro e disce­polo si unificano; il dialogo è di sé con sé, col nous, con l'Angelo, con la propria Natura perfet­ta. È, per usare l'espressione di Corbin, una unità dialogica; e in Picatrix si legge: «la prima cosa che

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tu devi fare nei confronti di te stesso è di medita­re attentamente la tua entità spirituale [Ritter­Plessner: Pneuma; Corbin: entità spiritual.e; il tuo angelo] che ti governa, che è associata al tuo astro, e cioè la tua Natura Perfetta, quella che il saggio Ermete menziona nel suo libro dicendo: quando quel microcosmo che è l'uomo diviene perfetto di natura, la sua anima è allora l'omologo del So­le fisso nel Cielo, che con i suoi raggi illumina tutti gli orizzonti. Cosi la Natura perfetta sorge nell'anima; i suoi raggi colpiscono e penetrano le facoltà degli organi sottili della saggezza; le atti­rano, le fanno sviluppare nell'anima, come i rag­gi del sole attirano le energie del mondo terrestre e le fanno crescere nell'atmosfera» (Picatrix, III, vi, trad. Corbin).

Si tratta, certo, di uno sforzo di sviluppare la tematica ermetica sull'uomo portandola al limi­te, in uno svolgimento dell'uomo in se stesso, in una dialettica interiore che lo porta a trascendersi per conquistare insieme una scienza operativa in sintonia con la natura e con i cieli («la natura completa perfetta è lo spirito del filosofo e del sa­piente collegato col pianeta che lo governa»), e una potenza piu che umana. Si legge nel Crater Hermetis: «Questa senza dubbio è la nuova novi­tà delle novità, piu grande di tutte le meraviglie; l'uomo ha trovato la natura di Dio, e il sapiente

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la fa. Infatti come il Signore e padre Dio generan­do procrea gli angeli celesti [ ... ] cosi l'uomo vero fa le anime divine, che chiamavano dèi della ter­ra, e che godono di vivere vicino all'uomo e si rallegrano del bene dell'uomo». Nei suoi versi davvero non sublimi: «Haec certe novitatum no­vitas nova,/ et mirabilius maius id omnibus,/ na­turam quia homo iam reperit Dei/ atque ipsa sa­piens facit./ Nam sicut Dominus vel genitor Deus/ caelestes generans procreat angelos,/ .. ./ divas sic animas verus homo facit,/ quod terrae vocitat turba vetus deos,/ qui gaudent homini vi­vere proximos,/ laetanturque hominis bono».

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7. Ermetismo e magia in Ficino e Pico

Novitatum novitas nova, come diceva Ludovi­co Lazzarelli, alla fine degli anni ottanta l'erme­tismo dilagava, anche nei suoi aspetti piu inquie­tanti, nella congiunzione fra magia e astrologia, nelle tematiche teurgiche. Nell'84, a Roma, c'era stata la giornata di propaganda di Giovanni Mer­curio da Correggio con distribuzioni ripetute di scritture ermetiche. Nell'86 , con l'invito al Cor­reggio da parte del re di Francia, c'è il suo arresto a Firenze col deferimento all'inquisitore e l'accu­sa di eresia, nonché il tentato suicidio. Nello stes­so anno Pico elabora testi ricchi di spunti ermeti­ci e cabalistici. Nell'87 esplode, con notevole scandalo e risonanza nei circoli dotti, il caso Pi­co, con la incriminazione, fra l'altro, della tesi su magia e cabala (De magia naturali et cabala He­braeorum). E poi la fuga, l'arresto, la protezione

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del re di Francia, gli interventi di Lorenzo dei Medici. Nell'88 il ritorno malinconico al «confi­no» di Firenze.

Ma è anche degli anni ottanta la grande tarsia di Giovanni di Stefano nel pavimento del Duo­mo di Siena: una raffigurazione straordinaria che consacra la risonanza dell'operazione ficiniana, e di cui non va dimenticato quel perentorio Her­m etis Mercurius Contem poraneus Moyse, che è un avvertimento preciso per chi volesse presentarlo come anteriore e ispiratore di Mosè, come ap­punto fece poi il Lazzarelli richiamandosi all'au­torità di Diodoro Siculo («ante Mosis aetatem ut liquido ex Diodori libris colligi potest»). D'altra parte anche Ficino aveva ricordato che Lattanzio senza esitazione aveva collocato Ermete fra le Si­bille e i Profeti.

Finalmente nell'89 uscivano l' Heptaplus di Giovanni Pico e il De vita del Ficino, che nella concezione generale della struttura della realtà erano molto vicini, come andavano d'accordo nella concezione dell'uomo. Le parole del Pico sull'uomo sono degne di attenzione: «Noi cer­chiamo nell'uomo una nota che gli sia peculiare, con cui si spieghi la dignità che gli è propria e l'immagine della sostanza divina che non è co­mune a nessuna altra creatura. E che altro può es­sere se non il fatto che la sostanza dell'uomo [ ... ]

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accoglie in sé, per propria essenza, le sostanze di tutte le nature e il complesso di tutto l'universo? Dico per propria essenza, perché anche gli angeli e qualunque creatura intelligente, in certo modo, racchiudono in sé il tutto, quando conoscono avendo in sé le forme e le ragioni di tutte le cose. Ma come Dio è Dio, non solo perché intende tutto, ma perché in sé riunisce e riassume tutta la perfezione della sostanza delle cose; cosi anche l'uomo (benché in maniera diversa, [ . . . ] ché altri­menti sarebbe Dio e non l'immagine di Dio) riu­nisce e connette nella pienezza della sua sostanza tutte le nature di tutto il mondo. E questo non possiamo dire di nessun'altra creatura, angelica, terrestre, sensibile» (Hept. , V, 6). Continua, quin­di, Pico, avendo proprio in mente la conclusione ermetica: «In questo corpo dell'uomo, spesso e terreno, il fuoco, l'acqua, l'aria e la terra sono nella massima perfezione della loro natura. Oltre a questo vi è anche un altro corpo spirituale piu nobile degli elementi [ ... ] di natura analoga al cielo. Nell'uomo c'è pure la vita delle piante, ri­volta in lui a quelle medesime funzioni di nutri­mento, crescita e riproduzione che sono anche in esse. C'è il senso dei bruti, interno ed esterno. C'è l'animo fornito di ragione celeste. C'è un possesso veramente divino di tutte queste nature che confluiscono in unità, si che piace esclamare

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con Mercurio: "Grande miracolo è l'uomo, o As­clepio"». Ed è un miracolo che l'universo intero riconosce: «A un cenno dell'uomo sono pronti a servire la terra, gli elementi, i bruti; per lui si affa­ticano i cieli; a lui procurano salvezza e beatitu­dine le menti angeliche [ ... ] . Né ci si deve meravi­gliare se tutte le creature amano l'uomo, poiché in lui tutte riconoscono qualcosa di sé, anzi tutto il proprio essere» (Hept. , V, 6).

Quanto a Ficino, il terzo libro del De vita, il De vita coelitus comparanda, è dominato da un tema messo in evidenza nel titolo stesso dell'Apologia, mandata il 16 settembre dell'89 agli amici poten­ti, che lo difendano dall'accusa di magia già cir­colante quando il libro non era stato ancora pub­blicato: de vita mundi, a cui fa riscontro la figura del filosofo-mago. Il suo libro mostra il fonda­mento del nesso fra astrologia e magia nella con­cezione dell'universo come vita. La vita univer­sale, lo spiritus come sostanza sottile mediatrice, le virtu occulte delle stelle, le immagini, i segni e i simboli, le corrispondenze, le possibilità concen­trate in un oggetto (un talismano), le 'virtu' cele­sti, la potenza delle 'immagini': tutto questo per­mette a Ficino di trasformare la raffigurazione del giuoco degli influssi e delle forze che collega­no gli esseri del mondo, in una sorta di grande poema d'amore: l'amore del mondo con se stes-

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so attraverso i congiungimenti delle cose che lo compongono. «Attestano i sapienti Indiani -scrive nell'ultimo capitolo del De vita - che il mondo è un essere animato insieme maschio e femmina, che si congiunge seco stesso nel mutuo amore delle sue membra, e che tale legame si rea­lizza mediante una mente che, infusa in tutto il suo corpo, ne agita la gran mole mescolandosi ad essa.» E Ficino prosegue insistendo proprio su questa perenne vita dell'essere, su questo conti­nuo pullulare della vita e moltiplicarsi, e rifran­gersi, in una sorta, oltre che di amplesso, di conti­nuo dialogo, di riflettersi di immagini e di suoni («non aliter quam et speculum imaginem reprae­sentat ex vultu, et ex voce pari es echo [ ... ] sicut speculare vitrum vultui tuo, pariesque oppositus voci»).

In questo universo vivente il filosofo opera ac­coppiando e congiungendo. Ficino non fa che ri­prendere, sulla magia, le tesi di Pico, che aveva concluso: magicam operari non est aliud quam ma­ritare mundum. Scrive Ficino: «Il filosofo esperto delle cose naturali e degli astri, che propriamente noi siamo soliti chiamare mago, opportunamen­te congiunge, valendosi di convenienti lusinghe, le cose celesti alle terrene, non diversamente dall'agricoltore attento agli innesti, che su un vecchio tronco impianta un giovane pollone».

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Seguire Ficino nello sforzo di dar conto, valen­dosi del giuoco delle immagini e della potenza dell'immaginazione, nonché dello spiritus, degli effetti (per lui certi) dei talismani, o seguirlo nelle sue ricerche sulle statue che, costruite secondo l'arte, si animano e vivono, facendo prigioniero lo spirito, sarebbe di grande interesse, ma non fa­rebbe che confermare la ricchezza del suo erme­tismo magico, e lo straordinario valore delle sue pagine sull'immaginazione. D'altra parte non può neppure trascurarsi, negli anni intorno alla composizione del De vita, la sua insistenza nel tradurre opere «ermetiche» ben caratterizzate, quali il de mysteriis attribuito a Giamblico, o il singolare testo di arte ieratica di Proclo, de sacrifi­cio et magia, fino a tempi recenti conosciuto solo attraverso la sua versione, condotta sull'ormai noto Vallicelliano greco F 20. Un testo, quest'ul­timo, la cui versione è eloquente quanto uno scritto arginale, tanto esattamente esprime quel­lo che fu, a un certo momento, il modo di sentire del Ficino. Traduce Ficino: «A quel modo che gli amanti della bellezza sensibile ascendono a poco a poco mediante la ragione alla bellezza divina, cosi anche gli antichi sacerdoti, considerando nelle cose naturali una qualche comunione e una certa reciproca simpatia, e una corrispondenza fra ciò che è manifesto e ciò che è potenza occul-

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ta, e ritrovando tutto in tutto, fondarono di que­sto una scienza sacra (ieratica] . Riconobbero in­fatti nelle cose infime le supreme, e nelle supre­me le infime, nel cielo le cose terrene ma secon­do un modo e una causa celeste, in terra le celesti ma in modo terreno. Di dove mai, infatti, credia­mo che tragga il suo movimento verso il Sole la pianta che chiamiamo eliotropio, ossia seguace del Sole? [ . . . ]. Tutte le cose pregano e innalzano inni al signore della loro specie. Solo che alcune lo fanno in forma intellettuale, altre in modo ra­zionale, altre naturale, altre ancora sensibile. Cosi l'eliotropio si muove come può verso il So­le, e se qualcuno potesse ascoltare le vibrazioni che trasmette all'aria circostante, certamente udirebbe il canto composto per il suo re, quale può comporlo una pianta [ ... ] . E che dire del lo­to? Il loto ha chiuse le foglie prima del sorgere del Sole, e quando il Sole sorge le schiude a poco a poco; e quando il Sole è al mezzo del cielo, le apre tutte. Poi via via che volge al tramonto, un po' alla volta le contrae. Sembra, questo aprire e chiudere le foglie, un omaggio al Sole non diver­so dal piegare le ginocchia dell'uomo, o dal moto delle labbra in preghiera [ . . . ] . Cosi tutto è pieno del divino, le cose terrene delle realtà celesti, le celesti delle sopracelesti ; ed ogni ordine di cose procede fino al limite estremo».

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Siamo alla fine degli anni ottanta. Ma non si può dimenticare che quasi dieci anni dopo, nell'estate drammatica del 1497, Ficino è ancora li, sugli stessi testi "ermetici" e "magici" : impe­gnato a tentare di correggere le bozze del singola­re volume di Aldo Manuzio, di cui si è detto so­pra, uscito nel settembre: dal de mysteriis e dal de sacrificio et magia, agli scritti sui sogni, sulla fanta­sia, sui demoni. L'anno dopo, nel '98, sempre a Venezia, esce la seconda edizione del De vita. Nell'aria la tragedia savonaroliana, e l'angoscia di quella lettera a Aldo: «nella presente situazio­ne non posso occuparmi di queste cose. A parte il fatto che non sto bene di salute, non sono al sicu­ro né in città né fuori, né posso riunire i miei libri sparsi in città. Tre Furie ormai travagliano senza posa la misera Firenze: la peste, la fame e la sedi­zione, e, cosa la piu amara di tutte, con le altre dissimulazioni dei mortali ci tormenta una peste nascosta».

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8. Verso il Cinquecento: un epilogo

Il secolo XV, che a Firenze aveva visto la città architettonicamente trasformata dall'arte del Brunelleschi e dal «murare» di Cosimo il Vec­chio, nel concilio del '39 aveva assistito al con­fronto fra alcuni dei maggiori pensatori latini e i teologi e filosofi greci, da Giorgio Gemisto Pleto­ne al Bessarione. Proprio allora Cosimo era rima­sto colpito dal Pletone che aveva ascoltato spes­so, dalle sue tesi su Platone e il platonismo e sulla possibilità di una teologia platonica piuttosto che aristotelica, nonché, probabilmente, da quanto veniva dicendo dei prisci theologi e dell'importanza sul piano religioso di quelle dot­trine antichissime. Che cosa Cosimo avesse dav­vero in mente allorché si propose di rinnovare a Firenze l'Accademia platonica ( dando per esatto il racconto di Ficino) è difficile dire. È certo che

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nel consegnare al giovane Ficino come primo te­sto da tradurre, e come prologo a Platone, Erme­te, compi un gesto carico di conseguenze.

L'ermetismo trionfò, in tutta la sua coqiplessi­tà magica e teologica insieme congiunte, e diven­ne una moda a cui sacrificò anche il Magnifico Lorenzo quando compose i suoi «inni sacri» in forma di capitoli ermetici. Fu tuttavia una moda con risonanze profonde nella direzione della pri­sca theologia e della radice unitaria antichissima delle religioni, con un'apertura riformatrice ver­so una vera paxfidei, riconquistata attraverso una teologia platonica.

Nello stesso tempo, e fu qui il carattere origi­nale dell'ermetismo quattrocentesco affermatosi con Ficino, legò le sue tematiche religiose a una nuova concezione del mondo, anche se poi la sua magia veniva spesso risolvendosi in fantasia e poesia.

In Zoroastro e Ermete fondatori della prisca theologia si cercano i segreti della magia; si ripeto­no con l'imperatore Giuliano gli inni al sole cen­tro del mondo e immagine di Dio. Ficino annota fittamente il suo esemplare greco (Ri'ccardiano greco 76) dell'orazione al Sole di Giuliano, l'apo­stata, mentre Pico la utilizza nel commento al Salmo XVIII («caeli enarrant gloriam Dei»). Fil­trata dai testi ermetici si afferma l'immagine nuo-

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va del rapporto uomo-mondo (macrocosmo-mi­crocosmo), ove l'uomo diventa «creatore». Si in­siste sull'immagine di un universo vivente per­corso da forze che l'uomo può dominare e guida­re solo che riesca a costruire gli strumenti adatti. Si definisce la visione della realtà come un siste­ma di simboli che conosciuti nel loro valore con­sentono una decifrazione autentica delle cose. Proprio valendosi di considerazioni «ermetiche» sul linguaggio egiziano fatto di cose reali, il mago non conosce limiti nei suoi virtuosismi sulle let­tere, le parole e le formule. Il «libro del mondo» si svela come una fuga di piani che si corrispon­dono, ma che sono scritti in lingue diverse, e che il mago può decifrare e dominare nella misura in cui riesce a impararne i linguaggi. Mago, dirà Giordano Bruno riprendendo Ficino, niente al­tro significa se non sapiente: «e tali erano i Tris­megisti in Egitto, i Druidi presso i Galli, i Gim­nosofisti in India, i Cabalisti presso gli Ebrei, i Maghi in Persia (che venivano da Zoroastro), i Sofi in Grecia, i Sapienti presso i Latini. Mago è colui che sa leggere il mondo in profondità, che ne conosc;e i linguaggi adeguati ai vari livelli e sa parlare alle cose usando le formule adatte, e fa­cendosi cosi obbedire da loro».

Non è facile, ed è un lungo e diverso lavoro, seguire fino dal Q!.iattrocento l'ondata ermetica

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in Italia e in Europa, distinguendone i toni, gli aspetti, le fasi, dalle edizioni alle traduzioni e ai commenti. Si pensi solo alla Francia, alla edizio­ne di Lefevre d'Étaples del 1505, ai suoi scritti di magia e alle sue oscillazi.oni. Si pensi alle discus­sioni dei gruppi intorno a lui. Si pensi a Cornelio Agrippa che nel 15 15 apre a Pavia un corso sul Pi­mandro leggendo un'orazione «ermetica» stretta­mente dipendente da Ficino.

In realtà ermetismo, tardoplatonismo e prisca theologia, unendosi alla filosofia dell'amore, con­tribuiscono spesso nel Cinquecento ad alimenta­re una filosofia poetica della natura e una visione della vita universale in un universo tutto divino, mentre sembrano riemergere trasfigurati gli dèi della Grecia e gli inni al Sole. Venature ed espres­sioni ermetiche sono presenti dovunque sul ter­reno dell'ispirazione religiosa o delle visioni del mondo, nella poesia come nella filosofia. L' er­metismo contribuisce non poco, non solo a de­terminare una nuova sensibilità, ma anche a dare incremento al gusto del mistero e dell'occulto, nonché delle tecniche operative «magiche» che rendono l'uomo signore delle cose.

Che in tale contesto l'ermetismo si incontri e operi anche nell'ambito delle scienze della natu­ra, non stupisce. Non solo esso si presenta come rivelazione antichissima, ma per il nesso fra teo-

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logia e magia non può non far sentire il suo peso almeno sul terreno magico-astrologico-alchimi­stico. Proprio perché rappresenta un mutamento radicale nella considerazione del mondo, e pro­prio perché si lega alla tradizione platonica, è comprensibile che lo chiamino in causa i nuovi scienziati in genere polemici con l'aristotelismo, e che i sistemi eliocentrici si appellino anche a spunti della eliolatria ermetica.

Questo, tuttavia, non significa, come sembrò quasi suggerire Frances Y ates in molte sue pagi­ne, e soprattutto in un testo del 1968, The Herme­tic Tradition in Renaissance S cience, un'influenza decisiva dell'ermetismo sulla nuova scienza da Copernico a Newton. Il che non toglie, ovvia­mente, nonostante le scomposte reazioni di talu­ni «storici della scienza», poco storici e meno scienziati, che proprio l'ermetismo abbia avuto un peso notevole nel cambiamento di un «para­digma» scientifico. Il mutamento di una conce­zione del mondo e dell'uomo, e una svolta «filo­sofica», è naturale che pesino sulla crisi di una concezione scientifica. Si aggiunga l'importanza decisiva dell'ermetismo del Rinascimento nella costruzione stessa del concetto-programma di una rinascita, di una renovatio. Anche se, di nuo­vo, l'interesse maggiore sta nel cogliere il mutare d'accento dei testi nel tempo. Come quando

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Giordano Bruno, nello Spaccio della bestia trion­fante, introduce dall'Asclepius, ma liberamente ri­toccandolo (come ha di recente mostrato un esperto storico di Bruno), il bellissimo Lamento di Ermete con la descrizione della fine dell'Egit­to, «terra santissima, sede di santuari e di templi [ .. . ] completamente piena di sepolcri e di morti [ ... ]. Gli dèi ritornano in cielo [ ... ]. Gli uomini moriranno tutti [ . . . ] e l'Egitto rimarrà deserto».

I tempi vaticinati da Ermete, dice Bruno, sono tornati. L'Europa, insanguinata e travolta dalle guerre di religione «macchia del mondo», aspetta la renovatio, e Bruno ripete la profezia di Ermete sul secolo nuovo: «Dopo che saranno accadute queste cose, allora il signore e padre Dio, gover­nator del mondo, l'onnipotente provveditore, per diluvio d'acqua, o di fuoco, di morbi o di pe­stilenze, o altri ministri della sua giustizia miseri­cordiosa, senza dubbio donarà fine a cotal mac­chia del mondo, richiamando il mondo all'anti­co volto».

Ove, se pur ce ne fosse stato bisogno, Bruno ri­badiva ancora il nesso profondo fra il nuovo er­metismo e il tema stesso del rinascimento.

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Postilla

Le pagine che precedono riprendono, sviluppan­dola, una lezione tenuta I' 1 1 dicembre 1 986 nel!' Aula Magna dell'Università di Ferrara. Mi sono proposto di richiamare l'attenzione su un complesso di testi e di problemi di grande importanza, legati all'eccezionale circolazione nel Q!.iattrocento e nel Cinquecento dei cosiddetti scritti ermetici. Il mio interesse, in queste pagine, resta particolarmente rivolto al Quattrocento, e cioè non solo alla traduzione ficiniana del Pimandro, ma all'incontro e all'intreccio di teologia e magia er­metica : per usare dei nomi come simboli, del Piman­dro con Picatrix. Nel Cinquecento i problemi in parte cambiano e mutano le prospettive, ed è necessaria una trattazione specifica.

Naturalmente non mi sono fermato sulle origini e sulla natura degli Hermetica greci (e sulle loro versioni latine antiche), né sulla fede di Ficino e di Pico nella loro antichità, o sulle discussioni successive fino al Casaubon e oltre. Comunque su tutta la questione

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delle versioni latine è sempre utile K.H. Dannenfeldt, Hermetica philosophica, nel Catalogus translationum et commentariorum: Mediaeval and Renaissance Latin Translations and Commentaries, val. I, Washington 1 960, pp. 13 7- 1 56. Delle principali raccolte dei testi (Scott e Ferguson, A.O. Nock e A.-J. Festugière, J.-P. Mahé) ho dato notizia nel testo, e cosi pure delle ope­re del Festugière. Ho tuttavia utilizzato anche: Testi umanistici su l'ermetismo, a cura di E. Garin, M. Brini, C. Vasali, P. Zambelli, «Archivio di Filosofia», Roma 1 955; C. Moreschini, Dall'Asclepius al Crater Hermetis. Studi sull'ermetismo fatino tardo-antico e rinascimentale, Pisa 1 986 (ma sul testo del Crater Hermetis ho tenuto conto di S. Sosti, Il Crater Hermetis di Ludovico Laz­zareffi, Napoli 1 984, «Quaderni dell'Ist. Naz. di Studi sul Rinascimento Meridionale», I, pp. 10 1 - 1 32). Del solo Poimandres cfr. l'ed. con traduzione e commento a cura di P. Scarpi, Venezia 1 987.

Quanto a Picatrix ho usato, per il testo arabo, la ver­sione tedesca di H. Ritter e M. Plessner, London 1 962; per la versione latina, la recente edizione di D. Pin­gree, London 1986. Per la parte, tuttavia, che riguarda la Natura Perfetta mi sono servito delle traduzioni e delle illustrazioni di H. Corbin, sia in L 'homme de fu­mière dans le soufisme iranien, Paris 1 97 1 , pp. 29-46, che nel volume secondo di En Islam iranien. Aspects spiri­tuefs et phifosophiques. Il. Sohrawardi et fes Pfatoniciens de Perse, Paris 1 97 1 , pp. 294-307. Per altri testi mi sono servito di fonti manoscritte.

Per i temi legati alla prisca theofogia ho avuto presen­ti i saggi di D.P. Walker, e il suo sempre valido volume

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Spiritual and demonic magie from Ficino to Campanella, London 1958. Inutile dire del frequente riferimento, anche se non esplicito, a scritti di Frances Yates, spe­cialmente al Giordano Bruno and the Hermetic Tradition del '64 (trad. it. Bari 1981). Quanto al saggio menzio­nato nel testo (ora nel terzo volume dei Collected Es­says, London 1984, pp. 227-246), che spesso si rifa alle mie ricerche, pur fra molte convergenze giunge spesso a un'interpretazione complessiva diversa.

Lo studioso di Bruno che per primo ha messo in evidenza gli interventi sul testo del!' Ascfepius è Miche­le Ciliberto, La ruota del tempo. Interpretazione di Gior­dano Bruno, Roma 1 986. Una ricchissima descrizione dei manoscritti greci di cui si servi Ficino per le sue versioni «ermetiche» si trova nel catalogo Marsilio Fi­cino e il ritorno di Platone. Manoscritti� stampe, documen­ti. Catalogo a cura di S. Gentile, S. Niccoli e P. Viti, Fi­renze 1984.

Un'interessante ipotesi sulla tarsia di Giovanni di Stefano avanza Marco Bussagli, «Suscipite o licteras et le­ges Egiptii». Riflessioni su una tarsia di Giovanni di Stefa­no, «Rivista di studi bizantini e neoellenici», N.S. 20-21 (XXX-XXXI), Roma 1983-1984, pp. 191-226.

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Finito di stampare nell'aprile 1988 dalla Tipolitografia L. Chiovini in Roma

per conto degli Editori Riuniti Via Serchio 9/1 1 - 00198 Roma

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Finito di stampare nel mese di Aprile 2012 presso le Industrie Grafiche della Pacini Editore S.p.A.

Via A. Gherardesca • 56121 Ospedaleno • Pisa

Telefono 050 313011 • Telefax 050 3130300 www.pacinieditore.it