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LUCIANO NICASTRO “Domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo. Ad ognuno domanderò conto di suo fratello”. (Genesi 9,5) “L’etica dei valori e la nuova multiculturalità” Relazione al Convegno Nazionale AVIS – Roma 4-5 Novembre 2006

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LUCIANO NICASTRO

“Domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo. Ad ognuno domanderò conto

di suo fratello”. (Genesi 9,5)

“L’etica dei valori e la nuova multiculturalità”

Relazione al Convegno Nazionale AVIS – Roma 4-5 Novembre 2006

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INTRODUZIONE - Una crisi “integrale e globale”

Ci è toccato di vivere “dentro” una società complessa e veloce.

Ha ragione Zigmunt Bauman quando descrive il contesto dell’attuale incertezza socio-culturale come caratteristico del mondo globalizzato e multiculturale, come orizzonte problematico della nuova condizione esistenziale dell’uomo di oggi in preda ad un disorientamento di senso, tipico di una “Società liquida”, nella quale il trionfo dell’individualismo “competitivo” annuncia con l’insicurezza e la paura, da un lato “una crisi di valori senza precedenti” e dall’altro la nietzschiana trasmutazione dei valori come compito urgente a livello sia epistemologico che etico all’inizio del nuovo millennio. Tocca oggi a noi di vivere senza bussola un’avventura umana, religiosa e laica, senza reti di sicurezza di riferimento. E’ il momento delle scelte personali “coraggiose” di lungo respiro capaci di fissare legami sociali più forti e relazioni fondamentali più durature per costruire una società multiculturale a misura d’uomo.

Il Convegno dell’AVIS si inserisce in questa grande ricerca di senso e di prospettiva per abbattere muri etnici e frontiere culturali e preparare, con il concorso di tutti, una nuova civiltà umana della solidarietà e dell’armonia sociale a partire dall’etica del dono e della responsabilità . L’AVIS nel tempo e nel mondo delle “tribù” di cui parlava il sociologo francese Michel Maffesoli 1 è una marca di alto valore aggiunto perché si presenta come un contenitore di valori, il simbolo diffuso della solidarietà umana del Paese nel mutare delle sue stagioni culturali e politiche, un progetto nobile di senso che in una staffetta ideale, generazioni e generazioni di uomini continuano a consegnare alle successive per un nuovo “mondo” possibilmente senza il dominio di Nike e Mc Donalds, di griffe o di consumatori “omologati” con la libertà come seme di una nuova speranza e di una nuova negoziazione etica. Ha ragione il filosofo Giuseppe Limone quando scrive che “il moltiplicarsi dei fatti sociali inquietanti indicano non tanto la crisi di valori ma la crisi nella domanda di valori”. 2

1 Michel Maffesoli, Il tempo delle tribù, Guerini e associati, Milano 2002 2 cfr. Il Mattino, Napoli, 15 agosto 2006

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CAPITOLO I - La cultura ad una dimensione

Il primo aspetto visibile della crisi odierna si può cogliere nella diffusione della crisi delle culture e delle piccole patrie in seguito al processo di globalizzazione che ha disgregato i più profondi legami sociali e relazionali e ha messo in discussione le stesse identità personali e collettive. Ma la globalizzazione, pur importante, è “un fatto” ambivalente ed è uno dei “fattori”, non la “causa prima”, specie se è considerata solo sul piano economico e mercantile. Le radici profonde della crisi vanno ricercate invece nel lungo declino spirituale dell’Occidente, della sua etica e dei suoi valori. Quando la cultura della crisi si è globalizzata e si è diffusa con le migrazioni, ha incominciato a interrogare le coscienze e a toccare le frontiere, i mari e le città. E’ divenuta una sorta di crinale su cui l’umanità globale sta scivolando ineluttabilmente. Questa crisi ha colpito l’anima dell’Occidente nel momento stesso del massimo trionfo della modernità con l’affermazione del mito dell’individuo fabrile, egoista e consumatore, utilitarista e onnipotente, senza regole né limiti. Le radici di questa crisi c’erano tutte nel Novecento a livello filosofico, teologico e politico, ma oggi siamo arrivati allo snodo fondamentale che prelude ad un nuovo paradigma antropologico e filosofico-politico. La crisi riguarda tutti i valori tradizionali, i loro contenuti e la loro universalità. Il relativo è diventato paradossalmente, nella teoria e nella prassi, assoluto e prevaricante, un riferimento assiologico di senso, di scopo e di direzione esistenziale degli individui e delle comunità. La cosiddetta “dittatura del relativo” non è una invenzione del Papa ma la constatazione di chi vede “la relatività” stravolta nel suo significato strutturale, nelle stesse rappresentazioni “mediatiche”, che enfatizzano come necessari “i sogni, le delusioni” e le passioni individualistiche, che invocano nuovi percorsi rapidi di ricerca della felicità “usa e getta”, a portata di mano, facili attrattive di un lungo e socializzato “carpe diem”. La cultura della crisi è una cultura del frammento come epifenomeno di una cultura ad una dimensione.

I valori “strumentali” o tecnici sono diventati “basilari” e più importanti rispetto al passato. L’esistenza di un “pluralismo etico” onnicomprensivo nella società contemporanea è il fatto nuovo e positivo. Non scade nel cinismo solo alla condizione che la sua espressione forte e convinta avvenga nel rispetto e nella tolleranza del punto di vista degli altri e non spenga la ricerca di una maggiore e successiva obiettività di valori condivisi. Le teorie liberali della scelta razionale, oggi egemoni nella civiltà tecnologica, hanno molte affinità con il “contrattualismo etico” di cui il maggior esponente è l’americano John Rawls per il quale la libertà non può essere oggetto di negoziazione, come valore primo e assoluto, è a fondamento dei valori “strumentali” di organizzazione e di welfare che l’utilitarismo contemporaneo ripropone come criteri anche di giustizia distributiva e come precondizioni della migliore qualità della vita riferite “a coloro che stanno peggio nella società” (S. Veca). Essi sono il mito dell’efficienza e della organizzazione, dell’associazionismo e del volontariato che creano legittimazione e consenso democratico e riportano la politica nel sociale e tra il sociale per assicurare se non la felicità almeno “il massimo di salute” al singolo e alle collettività. E’ il sogno “biotecnologico” dell’uomo post-moderno che unisce la tecnica ai bisogni e si serve di essa per una qualità superiore di vita e di civiltà. La razionalità dell’agire e l’efficienza delle reti di relazionalità sono i nuovi valori ritenuti indispensabili per la svolta culturale e antropologica odierna secondo l’utopia positiva della “grande salute” da non confondere con l’utopismo della “perfetta salute”, di cui ha parlato Lucien Sfez. Bisogna però precisare che queste nuove sensibilità che sembrano riproporre nuovi valori in realtà pongono una nuova frontiera più avanzata della soglia della dignità umana, un limite in avanti di una ricerca compatibile. Le biotecnologie non sono solo “tecniche” ma espressioni di una specie di “sociologia del profondo” che vuole innalzare l’umanità dell’uomo. 3 Se però si trasformano in fini

3 cfr. Lucien Sfez, Il sogno biotecnologico, Bruno Mondadori, Milano 2002.

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assoluti sconvolgono la scala dei valori e la questione dell’igiene diventa igienismo, l’ecologia diventa “una bio-eco-religione”, la metodica medica trasforma la medicina in una funzione “anonima ed impersonale dove la genetica diventa eugenismo. E’ il trionfo del mito “ideologico” della salute perfetta del corpo dell’uomo e della terra, affratellati da un sogno comune. L’homme machine prevale sulla persona e i suoi valori. Coloro che mettono in discussione, su basi empiristiche, l’idea della identità personale aderiscono a questa nuova “euforia collettiva” che di per sé non è totalmente priva di elementi di positività e di spinte di progresso. Essi sottintendono però la tesi assurda per cui ciascun uomo è in realtà “una collezione di stati d’animo” dentro un vestito nuovo ed una macchina più efficiente perché più sofisticata. Se le cose stanno così è evidente che non esistono più “persone” intese come sostanze spirituali, come uomini in carne ed ossa, ma non esistono nemmeno né valori universali né doveri assoluti, né limiti alla tecnica e all’onnipotenza della ricerca.

1.1 – Le radici e i rami Già Martin Heidegger profeticamente aveva annunciato che “la notte del mondo distende le sue tenebre. Ormai l’epoca è caratterizzata dall’assenza di Dio, dalla mancanza di Dio… L’epoca a cui manca il fondamento pende nell’abisso” 4 Tutto era iniziato con la “morte di Dio” di F. Nietzsche, che aveva scatenato la disintegrazione dell’anima religiosa della civiltà occidentale e a cui era seguita la teorizzazione della riduzione e della negazione. La “morte dell’uomo” di Michel Foucault aveva fatto nascere le condizioni etiche e politiche di una nuova barbarie con i campi di sterminio nazisti e con i gulags “staliniani” del comunismo. Già nel S. Natale del 1942 il Papa Pio XII aveva invitato a ritrovare il fondamento etico comune dell’Europa e del mondo nelle sue radici giudaico-cristiane. “Chi vuole che la stella della pace splenda sulla società deve recuperare <la dignità della persona umana> che Dio stesso le ha dato. Non è lo stesso porre a fondamento la dignità della persona o la ricchezza e l’economia”. 5 Come è riconosciuto, il contributo determinante del Cristianesimo al cammino della civiltà si può porre nel concetto di persona umana secondo il quale ogni essere umano è un valore supremo e fondante, inferiore solo a Dio, del quale è immagine e somiglianza, come recita il Salmo 8. Questo valore sommo non è più la domanda fondamentale e non costituisce ovunque l’anima e il cuore dell’individuo.

Oggi viviamo l’onda lunga della crisi dei valori, “la notte del mondo” e, per dirla con il sociologo Carocci, “viviamo in tempi di cinismo”. L’uomo è diventato un mezzo, non è kantianamente il fine. In definitiva sono stati e sono in crisi i valori fondamentali:

1. la trascendenza di Dio e la sua Provvidenza

2. la dignità della persona umana e la sua libertà come manifestazione ed aspirazione indissociabile

3. il diritto ontologico e politico alla vita

4. la solidarietà come virtù sociale e norma politica

Di fronte alla crisi dei valori “prevale l’idea che indignarsi è inutile oltre che faticoso”, come sostiene il sociologo Ilvo Diamanti. Manca in realtà l’orizzonte minimo comune di tipo etico per reagire all’immenso drammatico presente del morire patologico delle relazioni vitali fondamentali: società degli indifferenti, quartieri della solitudine, crisi e agonia della famiglia come istituzione: “figli che uccidono i genitori, genitori che ammazzano i figli”, fidanzati e sposi, fragili e divisi, eppure conviventi, uomini e donne più vicini ma così lontani. In verità “la cosiddetta cultura post-moderna tende a identificare la persona con l’individuo, a celebrare <una libertà senza responsabilità e senza ricerca della verità>, a ridurre i rapporti fra gli uomini all’estetica di un puro scambio comunicativo, a trascurare il passato e il futuro per immergere la vita in un presente

4 M. Heidegger, “Sentieri interrotti” , La Nuova Italia, Firenze 1990, p. 298 5 Pio XII, Radiomessaggio del Natale 1942

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continuo”. 6 Viviamo il sogno etico del parmenidismo assoluto di E. Severino o la nuova progettualità antropologica dell’homme desir di Sartre che finisce per essere “una passione inutile”. Per questo ogni proposta pedagogica ed ogni azione formativa che voglia essere adeguata, efficace e terapeutica deve partire dalla odierna crisi dei valori e guidare alla metanoia della Redenzione.

Una società etica dei valori fondamentali si impone per traguardare la crisi e recuperare l’identità e il volto dell’uomo contemporaneo. Essa va ancorata ad un valido fondamento antropologico e due sono oggi le vie aperte a cui attingere:

a) le filosofie contemporanee ed in esse la metafisica “moderna” (il personalismo)

b) le teologie contemporanee ed in esse nelle diverse religioni il magistero sociale della Chiesa nel XX secolo

Per cambiare la vita dell’uomo sia la filosofia che la teologia devono definire e sorreggere in modo convergente un progetto di uomo a più dimensioni verso la pienezza e la profondità antropologica, il volto eterno dell’uomo, verso Dio la radice fondante, trascendente e provvidente, verso l’intersoggettività di valore come fraternità di comunione oltre il dato della compresenza degli individui e la molteplicità delle religioni e delle culture.

1.2 - Il ritorno alla centralità della persona umana Nella dimensione dell’essere l’uomo è un essere vivente che è pensiero, sorriso e desiderio, un uomo persona che è “strutturalmente” manifestazione propria e analoga dell’Essere sussistente e apertura all’avere come possesso e signoria liberante e alla contemplazione della presenza dei significati come dono e disvelamento di valore. In questo senso l’uomo persona è figlio di Dio, nasce dalla Parola come uomo-parola, come soggetto metafisico centrale e strategico di una realtà totale, umano-cosmica, dove Dio è la realtà fondante, il sostegno ontologico “permanente” come Parola divina che chiama alla presenza e alla circolarità della vita e dell’essere tutte le cose riferite all’uomo-persona. Aveva ragione Karl Adam quando intuiva che “ogni uomo è una parola di Dio che non si ripete mai” e Alfred Tomatis quando sosteneva che nella realtà totale “non c’è niente che non sia linguaggio e niente che non sia ascolto”. Dio e l’uomo si parlano e parlano al cosmo, si ascoltano e ascoltano per una “necessità ipotetica”, per una decisione libera della creazione di Dio e per una adesione libera dell’uomo persona alla sua vocazione di uomo-parola. Nel silenzio del “cielo stellato” e del brulichio della vita cosmica la Parola di Dio rivela e parla alla presenza dell’uomo persona facendo essere l’avere nell’opera feriale e provvidenziale del Creatore divino e nella collaborazione analogica dell’artefice umano e della sua fabrilità come cultura di dominio e di progresso. Solo la metafisica che privilegia lo sguardo profondo e le parole essenziali può rispondere alle domande di senso e ai progetti di civilizzazione della umanità lungo il corso della sua storia. La dignità della persona umana deriva infatti ontologicamente dalla relazione fondante e strutturale con Dio creatore e con Cristo Redentore, dalla sua realtà di bisogno di alterità che per creazione e vocazione diventa “ospitalità” alla J. Derrida e costruzione di un nuovo paradiso nel tempo del grande disorientamento esistenziale e dell’estrema debolezza del pensiero. Oltre le diversità, le disuguaglianze e le discriminazioni c’è una dignità metafisica, un valore d’uomo che lo connota in quanto tale come essere umano, come movimento d’essere umano, come umanizzazione e personalizzazione del mondo. Ogni essere umano precede in senso logico e ontologico, psico-sociologico e valoriale la sua condizione storica particolare perché la trascende sin dal concepimento. L’umanità di ogni persona precede ogni diversità di razza, di sesso, di religione, di classe sociale, di cultura e di appartenenza “politica”. Il Presidio metafisico non è di moda nella cultura a una dimensione, nella deriva riduzionista della sua antropologia. Eppure oltre il genoma c’è la persona, ma per cogliere questa verità bisogna cambiare la logica riduttiva dell’ex analogia individui e pervenire all’ex analogia personae, cioè all’umanesimo integrale di J. Maritain e al

6 Gianfranco Bettetini, “E tu pubblicità sarai <interattiva>”, in Corriere della Sera, 26 novembre 2003, p. 37

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personalismo comunitario di E. Mounier per i quali l’uomo, essendo “immagine e somiglianza” di Dio, è soggetto di diritto ed oltre l’istinto di affermazione e rivolta è sorgente di amore e di comunione. Secondo E. Mounier la persona umana è dentro l’individuo per cui il personalismo è essenzialmente antideologia, pensiero combattente, non descrizione astratta e atemporale delle dimensioni dell’uomo, non è un discorso astratto e asettico sull’uomo ma un progetto di uomo-persona, centro di relazioni fraterne e comunitarie. La sua Antropologia personalista non è un parlare dell’uomo, ma un combattere per l’uomo e per il suo valor d’essere. In questo senso la persona è unità data, non costruita, è l’io sono. Ed è molto più delle sue parole, delle sue manifestazioni, delle sue realizzazioni. La persona è un trascendentale, non è un semplice concetto elaborato dalla mente umana, ma è una realtà ontologica. L’idea di persona nel pensiero occidentale è stata elaborata “soprattutto a partire dal diritto romano e dalla teologia cristiana” (J. Lacroix, 1972). Ci sono due modi di intendere la persona, oltre il significato letterale latino o greco, e sono uno statico e uno dinamico. Secondo Severino Boezio è: “individua substantia rationalis naturae”. Secondo S. Agostino è: “substantia quaedam rationis particeps regendo corpori accomodata”. Secondo S. Tommaso di Aquino è “ens intelligens et liberum”. In E. Mounier la persona è “movimento di essere verso l’essere”, è una presenza in me, il volume totale dell’uomo, è equilibrio dinamico in lunghezza, larghezza e profondità. Vocazione verso l’alto, comunione verso l’altro, incarnazione verso il basso. E’ un centro non solo un vertice, un centro di orientamento dell’universo oggettivo (vita, mondo, storia), un vertice da cui partono tutte le vie del mondo.

Scegliere la persona umana significa scegliere la base di un valore di riferimento e di discernimento “oggettivo e inclusivo” che ricapitola e riunifica misteriosamente, senza annullarne la specificità, corpo e anima, intelletto e volontà, pensiero e istinto, ragione e passione, in una ricomposizione di un più di essere a partire dalla lezione di Ch. Peguy secondo il quale ogni dualismo è destinato a morire nella ascesi mistica della totalità umano-cosmica (“corpo e anima sono come due mani giunte per l’eternità…” – Ch. Peguy).

Scegliere la persona umana significa ritrovare il minimo comune denominatore dei popoli dell’umanità, la base di una storia che da esso parte e ad esso riconduce, nella ricchezza degli sviluppi e degli apporti della nuova civilizzazione, il mondo e la storia del XXI secolo. Purtroppo si vive oggi nella logica amico-nemico, nella negazione della fraternità come fondamento e vocazione, nella riduzione antropologica con la negazione dell’anima spirituale o la amplificazione del corporeo, della dilatazione dell’io psichico o del tradimento pseudo spirituale del corpo. Si vive nella ingenua e pervasiva convinzione dualistica e non nel mistero di una vocazione di unità dell’uomo, come base di partenza di nuove realizzazioni personali e comunitarie dall’ottica di fede, ex analogia Christi; si vive da ciechi nell’alienazione e non si guarda, con occhi migliori, alla Redenzione di Cristo, alla sua voglia di amare (Piero Balestro).

In questo caso, per non ripetere la fine dell’asino di Buridano che morì di fame perché non seppe scegliere, bisogna liberare lo spirito di libertà, che è il potere di autodeterminazione e di scelta, dalle sirene dell’uomo ad una dimensione, guidando la libertà di scelta verso la libertà di adesione ad un valore di personalizzazione di sé e del mondo, verso la volontà di Dio che è “la Verità che fa liberi”. La libertà è il regalo di Dio senza restituzione se non nella libertà. In questo senso “l’uomo libero è l’uomo che il mondo interroga” (E. Mounier), è il cristiano che non ha dimenticato la libera follia della Croce che è scandalo per i Giudei e i pagani di allora e di oggi.

1.3 – Il presidio metafisico dei valori

- a) La dignità della persona umana Oltre il conformismo della società degli indifferenti deve avanzare il volontariato di qualità dei buoni samaritani “discreti e preparati”.

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La dignità della persona umana si rispetta nella valorizzazione della libertà di adesione, attraverso la pienezza spirituale della coscienza e la pratica della maturità “oblativa” delle opere di servizio alle persone. Si apre così lo spazio di nuove possibilità umane, professionali e spirituali da offrire nel rispetto della libertà di convinzione e di impegno. La cultura ad una dimensione, che è egemone nel costume “secolarizzato”, mentre esalta la personalità mondana dell’individuo ne nega la radice “divina” e trascendente, il valore della libertà nel segno della responsabilità, dimenticando che la personalità è il volto vicario dell’uomo e che il cuore e l’identità specifica della personalità è la persona umana e per essa si è incarnato Dio nella storia degli individui per salvarli e riscattarli come figli e fratelli del Dio Vivente, compagni di una storia nuova dell’unità del genere umano nell’Universo.

- b) Il diritto alla vita come difesa del futuro dell’uomo E’ il primo diritto “universale” da riaffermare. Esso è negato dalle nuove teorie della guerra terroristica (armi di sterminio di massa!) e dalla scelta di Bush, Sharon, della guerra “preventiva” e da ogni forma di “globalismo”. Va tutelato per ogni singola persona umana, per i popoli e per il pianeta. Il minimo di benessere vitale per tutti.

Su questo il magistero della Chiesa è stato giustamente intransigente (Evangelium vitae di Giovanni Paolo II°, 1995).

Se il Novecento è stato il secolo della egemonia della fisica e della bomba atomica, il Duemila ha inaugurato l’epoca della egemonia della biologia e della ingegneria genetica (la bomba biologica). La bomba biologica, a differenza di quella “fisica” (atomica) forse non distrugge la vita materiale, ma è in grado di stravolgerla, di modificarne la qualità umana. E’ cominciata l’era delle biotecnologie, è nato il sogno biotecnologico della salute perfetta. Bisogna socializzare a livello popolare ormai lo scudo della bioetica che non è solo lotta allo scientismo e alla manipolazione genetica ma etica della responsabilità, socializzazione del dovere di difendere la vita e la base biochimica della responsabilità.

E’ il secolo del biotech. Come affrontarlo? (non possiamo dimenticare il fatto storico della eugenetica nazista!). Con un grande progetto etico ed esistenziale, quello di trasmettere una vita migliore.

J. J. Rousseau si chiedeva se il progresso delle scienze e delle arti avesse contribuito a migliorare il costume ed era un illuminista “preromantico”. In sede etica si precisa che altro è il possibile, altro è il lecito; non sempre “il si può”, può diventare “il si deve”. Il giudizio morale decide del progresso “umano”. Il progresso tecnico scientifico ci spinge “al di là del bene e del male” (F. Nietzsche).

- c) La solidarietà come virtù planetaria “In tempi di cinismo” la solidarietà è una virtù assente e nella sostanza etica e civile sconosciuta. Al massimo può essere un gesto, in occasione di Telethon, etc. E’ la solidarietà anonima e meccanica che aiuta, ma non ci impegna come persone in un servizio.

“Il Creatore ha affidato la vita dell’uomo alla sua responsabile sollecitudine, non perché ne disponga in modo arbitrario, ma perché la custodisca con saggezza e la amministri con amorevole fedeltà. Il Dio dell’Alleanza ha affidato la vita di ciascun uomo all’altro uomo suo fratello secondo la legge della reciprocità del dare e del ricevere, del dono di sé e dell’accoglienza dell’altro”.7 L’egemonia della cultura liberale ha trasformato il contenuto della solidarietà in “compassione” e il diritto in possibilità o “buono” di accesso, non dovere della Comunità in risposta ad un diritto di vita. E’ proprio del liberalismo affermare un principio in astratto, ridurlo nella privatezza o negarlo sul piano concreto come universale e come fine dello Stato “giusto”. Il diritto al benessere psicofisico, alla salute, ad una vita piena, l’invecchiamento della popolazione e la sindrome del

7 Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, par. 76

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figlio unico stanno modificando il costume morale, hanno messo in crisi il vecchio Welfare. Una società più anziana e sterile, ed inoltre multietnica, multiculturale e multireligiosa pone più problemi di solidarietà, di tutela della vita e della salute rispetto al passato e più costi per i servizi sociali. Anche i giovani, ormai diventati minoranza cronica nella piramide demografica, sono portatori di diritti “contratti”, di domande fondamentali per esercitare il loro diritto ad una vita degna e creativa sul piano della cittadinanza solidale.

Le famiglie sono una sorgente viva di solidarietà militante, “il Welfare concreto di base”, più efficace e personalizzato, snello – non burocratico, più economico. Ma le famiglie danno “segnali di annicchiamento” come sostiene il sociologo Giuseppe De Rita “per dare sicurezza ai propri figli”8 o come sostiene Guido Martinotti: “a Milano si è poveri anche con redditi superiori ai poveri di altre situazioni. E si è poveri se si è marginali rispetto al mercato del lavoro”. Sono in aumento le famiglie “a rischio povertà” (formate da disoccupati o da anziani pensionati). “I poveri sono l’altra faccia della società opulenta… In una città ricca i poveri sono più poveri”. E’ il fenomeno della “povertà diffusa” secondo la quale la povertà non riguarda più soltanto alcuni quartieri o ghetti ma “attraversa” la società “comunale” nel suo insieme e richiede una nuova politica di Welfare a livello di Municipio. La crisi dei valori può essere lo specchio per costringerci a superare concretamente il fenomeno più grave che precede tutto ed è la crisi della domanda di valori dentro l’esperienza della quotidianità. 9

1.4 – Dentro l’individuo E. Mounier ne “Il personalismo” si interrogava sulla qualità della relazione umana. “Ecco il mio vicino: egli ha del proprio corpo un sentimento singolare che io non posso provare. Posso, però, esaminare questo corpo dall’esterno: osservare gli umori, le eredità, la forma, le malattie; trattarlo, in breve, come materia del sapere fisiologico, medico, ecc…. Quest’uomo è un funzionario: ci sono delle norme per i funzionari, una psicologia del funzionario che io posso studiare sul suo caso, quantunque tutte queste cose non siano “lui” nella sua interezza e nella sua realtà comprensiva. E, allo stesso modo, egli è anche un francese, un borghese, oppure un maniaco, un socialista, un cattolico, etc… Ma non sarà mai un Bernard Charter: egli è Bernard Charter (…)” tutte queste non sono che sagome, ritagliate di volta in volta, su un aspetto della sua esistenza. “Mille fotografie ben accostellate non possono fare un uomo che cammina, pensa e vuole”. Il mio vicino è un altro me, è, mediante Cristo, un mio fratello. Vale qui la domanda di R. Follereau, apostolo dei lebbrosi: “ Se Cristo domani bussasse alla Vostra porta, lo riconoscereste?”. 10

CAPITOLO II - Le culture in crisi di identità Le culture sono entrate in crisi perché il valore ed il volto dell’uomo è cambiato, più del suo colore. E’ prevalso l’abito della diversità “individuale” che “il sangue comune” e l’appartenenza ontologica all’umanità dell’uomo (Calogero Caltagirone). Ogni uomo esprime la sua cultura, così come ogni cultura spiega ed esprime le diverse società, le loro tradizioni ed i loro valori specifici a partire da una identità umana. La società “multiculturale” avanza e con essa la vita sociale è diventata più complessa, più dialettica e più conflittuale. Questo e “un fatto” che ci interroga e non “un mito” che ci attira. Se il multiculturalismo è stato indubbiamente “un fatto” di progresso sul piano storico e spirituale rispetto al monoculturalismo delle società organiche ed omogenee, chiuse e oppressive, non ha però garantito una rivoluzione comunitaria ma ha innescata una ambivalenza di prospettiva. E’ opportuno quindi per una lettura più approfondita del fenomeno distinguere la multiculturalità come “fatto”, da quella come “ideale” (liberale!) e da quella come “problema” che

8 cfr. Corriere della Sera, 25 aprile 2003 9 “La povertà che resiste”, in Corriere della Sera, 17 maggio 2003, p. 47 10 E. Mounier, Il personalismo, Ave Roma 1964, pp. 11-12

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prelude ad una diversa teoria, ad una “nuova multiculturalità” più analogica, più aperta e solidale, fatta di maggiore e profonda convivenza fatta di coesione e inclusione e non solo di tolleranza e di indifferenza, proprie di una semplice e forzata coesistenza momentaneamente “pacifica”. Non aiuta a riguardo né una visione astratta e formale del multiculturalismo né la teoria delle civiltà, né una visione statica della cultura ma serve una filosofia e una sociologia dei processi culturali che si fa carico non solo della descrizione ma del cambiamento delle situazioni.

2.1 – La cultura non è statica Ogni cultura non è e non può essere, nonostante gli stereotipi percettivi, una grandezza statica, ma è piuttosto una realtà in evoluzione, una identità che si sviluppa in modo vivo: con un’anima che emerge e con delle variabili che mutano. La cultura non è paragonabile ad un vecchio paradigma scientifico che viene confutato dal nuovo come il modello “tolemaico” sostituito da quello “copernicano”. Tutte le culture devono fare i conti con il paradigma della modernità antropocentrica e “secolare” e con i nuovi processi della globalizzazione e del capitalismo “informazionale” del villaggio globale e di internet. Un’analisi dei paradigmi aiuta nell’epoca della globalizzazione e dei “media di massa individuali” (Manuel Castells) a trovare un orientamento globale nella scelta fra le varie opzioni: scontro o incontro di culture, civiltà, religioni e guerre o pace, barriere dell’odio o dialogo. Bisognerà demolire pietra su pietra i muri del pregiudizio. Si deve riscoprire che le tradizioni plurali però vengono da una sola umanità in cammino.

2.2 – La teoria delle civiltà La “teoria delle civiltà” sia che si esprima nella tesi dello “scontro di civiltà” o in quella opposta del “dialogo tra le civiltà” è una concezione grossolana dogmatica e ingenua che nasce da una visione “univoca” dell’identità mentre il dato oggettivo, empiricamente constatabile, è la natura “plurale” e dinamica, processuale ed evolutiva delle nostre identità. L’identità dell’individuo, sempre intrecciata a identità collettive, precede le appartenenze “associative”. La “teoria della civiltà” è inadatta a far comprendere il dato storico “oggettivo” che le civiltà hanno tratto grande beneficio dall’immigrazione, sia dall’immigrazione delle persone che di quella delle idee. Gli immigrati clandestini hanno l’identità di immigrati, oltre che quella di clandestini,ma anche quelle “relative” alla professione che svolgono, al ruolo che interpretano nel sistema economico e al contributo che apportano. L’identità linguistica può essere lontana dall’ideale, da una perfetta padronanza e competenza linguistica. Tuttavia l’integrazione linguistica a livello minimo comunicativo è fondamentale ed importante anche per evitare i conflitti interreligiosi che nascono dalla focalizzazione della identità solo sul versante interiore di tipo religioso. Lo spostamento dell’attenzione dalla religione alla lingue ha favorito il processo di integrazione togliendo centralità sociale ai conflitti religiosi e favorendo il dialogo interreligioso. Concentrare l’attenzione su un altro elemento di identificazione “diverso dalla religione” rappresenta un passo avanti nella direzione della pace religiosa e dell’integrazione “dolce” e spirituale. La sfida centrale della integrazione degli immigrati all’inizio del sec. XXI riguarda la capacità di liberarsi dalle categorizzazioni semplificatorie e da un uso politico della religione. Ralf Dahrendorf ha scritto della cultura europea che con il suo illuminismo ha fatto “cadere tutti i tabù nel campo del pensiero e dell’espressione artistica”, ora si trova assediata dai fondamentalismi e dalle etnie che vogliono salvare i loro tabù ricorrendo anche alla violenza. Che fare, da liberali? Ida Dominijanni nota che il “paradosso della tolleranza” ritorna in Europa ogni settimana alle prese con l’incontro-scontro con altre culture, altre religioni, altre storie e si può esprimere in questi termini: “è possibile tollerare l’intolleranza?”. 11

Possiamo subire l’aggressione “dei fondamentalisti” come nel caso del prof. Redeker in Francia o della legge sul negazionismo a proposito del genocidio armeno e rinunciare alla nostra libertà di pensiero e di opinione? La risposta di Ralf Dahrendorf è illuminante. Egli precisa che “le libertà

11 cfr. “Il Manifesto”, 17 ottobre 2006

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illuministe vanno difese come valori non negoziabili” 12 ed il dibattito pubblico va promosso con forza perché la tolleranza spesso in Occidente “funziona” solo quando c’è da tollerare “il simile” ma cade quando nasce l’urto. In questi casi invece non si deve evitare il conflitto culturale e politico ma solo rinunciare al ricorso alla violenza per imporre la tolleranza e difendersi dall’intolleranza per legge.

2.3 – Multiculturalismo e intercultura “Il multiculturalismo è un male per le donne? Si, lo è, se scade in <<relativismo culturale indifferente>>” 13 Alla domanda se il multiculturalismo porta strutturalmente al relativismo culturale e alla indifferenza si deve rispondere che questo è un falso dilemma perché non si può scegliere tra l’accettazione del multiculturalismo o la ricaduta nell’eurocentrismo. In verità tra il vecchio eurocentrismo “colonialista e imperialista” e il multiculturalismo semplice di fatto è possibile la via pratica dell’intercultura che approda all’antica verità, da riscoprire, che l’umanità è una e che ogni persona è portatrice per natura di diritti umani universali. L’identità personale è completa quando dalla coscienza dei diritti si passa, mediante l’educazione, ai doveri di solidarietà. Così come l’identità culturale è un intreccio di innumerevoli alterità, abitate dalla medesima persona umana, allo stesso modo le culture dei popoli, nella loro specificità profondamente diverse, portano in sé un patrimonio di valori universali “impliciti” che storicamente arrivano coperti da un groviglio di criticità.

E’ emblematico quanto sostiene Magdi Allam quando critica l’esperienza della nuova scuola araba “laica” di via Ventura a Milano che è l’epigono della scuola islamica di via Quaranta. Sono gli irriducibili islamici che non vogliono l’integrazione nella Scuola pubblica di Stato come hanno scelto di fare invece gli altri 400. L’esperienza ha il favore di una opinione pubblica progressista di centro sinistra, di organizzazioni cattoliche di base e “di accademici e docenti che predicano e perseguono l’ideologia del multiculturalismo”.14 “Il multiculturalismo, insieme all’assimilizionismo sono sostanzialmente falliti in tutta l’Europa perché hanno prodotto dei ghetti etnico-confessionali-identitari e lacerato il comune collante identitario nazionale”. 15 L’intercultura è ancora una via metodologica mentre il contenuto nuovo è il multiculturalismo “analogico” o nuovo multiculturalismo o nuova civiltà inedita e sincretica. Ciò che deve rimanere nel rapporto tra le culture, il permanente, è il nucleo, la sostanza e l’essenza della identità culturale che non coincide con l’esistente (ciò che esiste attualmente) della tradizione dei migranti ma con l’essenza della loro dimensione valoriale (ad esempio la famiglia e non il familismo), il valore del padre non il patriarcato, la morale sessuale non il delitto di onore… Si tratta di precisare che cosa deve essere conservato per non perdere l’anima e che cosa può essere modificato o accolto dei costumi senza minacciare la convivenza? L’idea fondamentale comune è già i diritti della persona umana ma devono essere scoperti nel quadro valoriale della Costituzione. Questo è l’approdo della interculturalità e del processo di socializzazione civica e politica. Ciò che li differenzia vive come patrimonio culturale delle origini e della nuova società multiculturale e va valorizzato e rispettato, non solo tollerato.

2.4 – Quo vadis “meticciato”? E’ il momento di coniugare la modernità civile dei principi dell’’89 con la rivoluzione in corso delle società nulticulturali e multietniche. Nel contesto dell’assolutismo politico produssero una svolta culturale di progresso spirituale e politico di tipo liberal-democratico. Inalberando il vessillo della “liberté, egalité e fraternité” riferite agli individui riuscirono ad affermare solo la forma della universalità dei diritti individuali che furono proclamati ma non tradotti in diritti sociali come

12 cfr. “Repubblica”, 16 Ottobre 2006 13 cfr. Manuela Cartosio, Donne migranti, in “Il Manifesto”, 7 settembre 2006 14 Magdi Allam, Una scuola, due Stati, in Corriere della Sera, 1 settembre 2006, p. 38 15 ibidem

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politica concreta di nuova giustizia sociale. Riferiti all’individuo hanno finito per ridurre il liberalismo ad una ideologia dell’individualismo dei diritti. La sostanza dei diritti universali è ancora un percorso da implementare negli stessi paesi di democrazia liberale. Gli stessi principi di libertà, uguaglianza e fraternità riferiti ai poli etnico-culturali tutelano da un lato le identità e le culture ma non garantiscono le specificità e le differenze rischiando di produrre le disuguaglianze di classi e di genere affermati come diritti degli individui e delle persone. Nella società multiculturale quei principi si possono intendere come espressione della “libertà culturale” delle persone cioè potere di critica, di affermazione o di rifiuto della propria eredità e diversità culturale; dell’uguaglianza culturale delle etnie e quindi come fondamento della tolleranza fra le culture senza nuovi primati né presunte superiorità; come vocazione alla fraternità “culturale” dei popoli che riscoprono l’appartenenza all’unica famiglia umana caratterizzata da un codice etico e valoriale universale e da una comune patria “ideale” come obiettivo da costruire nei diversi paesi con i diversi apporti etnico-culturali. Questi principi, attraverso il battesimo della religione “rivelata” sono la “manifestazione plurale” della bontà degli uomini tutti figli del Misericordioso unico Dio che non può essere causa di odio e di divisione, principio di violenza e di guerra santa e apre le porte ad una nuova civiltà globale. La cultura che nasce trascende i tetti delle identità di origine e ne enuclea, mediante una mediazione ed un approfondimento interculturale, una comunanza fra le diversità, secondo la logica del meticciato, secondo l’ex analogia universi populi (autoctono ed ospite!). D’altronde l’umanità è stata sin dall’origine migrante, straniera e pellegrina a partire da una culla comune e verso una patria comune amata e desiderata come novello Eden. Diversamente da come solitamente si pensa le identità e le culture hanno qualcosa in comune ed un che di diverso, non sono statiche per sempre né ermeneuticamente chiuse in una splendida omogeneità monolitica. La società di oggi non può essere condannata ad un pluralismo monoculturale, cioè alla coesistenza di culture giustapposte ma chiama per tutti una convivenza dialogica, aperta e fabrile, che avanza verso sentieri di pace e di comunità democratica tipici dei popoli liberi. Si deve quindi guardare la società multiculturale come condizione di fatto e di partenza più che come valore ideale assoluto e definitivo per non cadere nel liberalismo “ideologico” astratto che afferma e nega i valori di libertà, uguaglianza e fraternità sia per gli individui che per i popoli.

Il Card. W. Kasper ha sottolineato che esistono grandi differenze tra la cultura cristiana e quella islamica. La politica del multiculturalismo ad esempio, portata avanti dai Paesi europei, non ha funzionato per le comunità mussulmane. 16

2.5 – L’integrazione “pluralista”? Sebastiano Maffettone prospetta un’idea di convivenza fondata su rispetto e tolleranza ed indica come concetto chiave di tutta la prospettiva <<l’integrazione pluralistica>> che riconosce il valore dei valori di quadro che vanno però ripensati e tutelati all’interno delle diverse culture. Il consenso universale o quasi sui diritti inviolabili della persona compreso il diritto alla sicurezza e alla sussistenza (primi 21 articoli della Carta delle Nazioni Unite) non ne garantisce automaticamente l’attuazione piena nelle diverse culture. Il processo di giustificazione “teorica” prelude al processo di legittimazione “pratica” dei diritti universali. L’applicazione è il risultato di un movimento di lotta per i diritti che sia calato, aperto e dinamico a livello locale. Se la giustificazione si pone a livello universale, la legittimazione avviene a livello locale. Il diritto universale deve fare i conti con le culture così come queste devono fare i conti con il diritto universale “proclamato” o con quello “condendo”. Riconoscere la specificità di ogni cultura porta a coglierne i valori “soggettivamente” non negoziabili e le criticità in ordine al diritto universale “naturale – razionale” (diritto delle donne e libertà di coscienza!). L’esempio di Sebastiano Maffettone è illuminante. Secondo lui ha poco senso battersi “per un liberalismo islamico” ma è fondamentale e decisivo “pensare un Islam il più possibile liberale”. In ogni cultura c’è la doppia tendenza alla dimensione identitaria di nicchia e/o all’affermazione trascendente e metastorica di relazione. Ogni cultura è

16 cfr. in “Zenit”, 30 settembre 2006

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orgogliosa di se stessa ma nello stesso tempo è potenzialmente critica di se stessa nella misura in cui vive nel confronto multiculturale. Propriamente il liberalismo si fonda sul pluralismo. Se sei pluralista – dice Maffettone – non puoi non accettare la differenza culturale. In questo senso il multiculturalismo appartiene al liberalismo. 17 La multiculturalità è una necessità storica come la globalizzazione è un fatto, ma contiene in sé una doppia domanda di valore: verso dove? quo vadis? e con quali assi fondamentali non negoziabili (cfr. Papa Ratzinger!). Tuttavia la globalizzazione annacqua e minaccia le identità. Il multiculturalismo le difende ma la globalizzazione è un evento di orizzonte e non di confine, è un processo che rimette in circolo uomini, culture e beni. L’equilibrio glocale è il risultato maturo dell’assunzione della complessità come sistema ”mondo” nella condizione “post moderna” (F. Lyotard).

L’identità include il sé e qualcosa di altro, il fatto ed il valore trascendente, la condizione ed il progetto di essere. Come diceva Stanislao J. Lec, scrittore ucraino, “per essere se stessi bisogna prima essere qualcuno!”. Non si possono ridurre le identità alle loro dimensioni “visibili”, alla cultura, alla lingua, alla religione, allo Jus sanguinis, perché oltre che pericoloso, per la deriva fanatica ed integralista, sarebbe anche un errore di chiusura anacronistica di irrigidimento in tempi di società “liquida” (Z. Baumann). Le identità contengono un’anima che anela ad attuarsi pienamente in ricchezza di vita e di umanità a livello di universalità. Il rispetto delle tradizioni sono le vere sfide alla libertà individuale nella società multiculturale soprattutto quando il modello di vita occidentale è un potente e affascinante fattore di mobilità verso un’altra patria ideale. La libertà culturale, diritto sacro di ogni essere umano, deve fare i conti con l’eredità culturale, con la dialettica del moderno meticciamento. La società multiculturale può produrre ghetti delle etnie sul piano culturale e una integrazione nazionale di tipo solo “formale”. Le diversità culturali vanno quindi inserite in un quadro di integrazione nazionale, non vanno fatte vivere come realtà separate come nella tradizione del melting pot ma la cittadinanza “maggiore” si lega a quella minore. Non bisogna sradicare la persona dalla sua cultura ma restituirle la libertà morale di scelta di nuove vie di costruzione. Se il monoculturalismo è una oppressione, lo è anche il pluralismo delle culture separate. L’integrazione più che sulle tradizioni deve radicarsi sulla compatibilità delle loro anime per dare vita ad un nuovo Corpo civile. Bisogna riscoprire il compito nuovo dei diritti e dei doveri umani, quello di completare e aprire la dimensione individuale dei diritti umani verso quella comunitaria e sociale dei diritti dei popoli e delle culture a trovare un quadro di compatibilità per affermare il diritto nuovo allo sviluppo personale e comunitario. La nostra Costituzione è il terreno giuridico e politico più congeniale e propizio per una loro sintesi concreta, come negli artt. 2 e 3. I diritti individuali sono un patrimonio universale condiviso ma così non è il loro effettivo esercizio. I diritti dei popoli, delle loro culture e delle nazioni non hanno ancora una condivisione universale nelle Costituzioni “continentali” (cfr. U. E. ). L’integrazione riguarda anche “i doveri primari”, le regole prime dei rapporti sociali, la democrazia della inclusione sociale, la cittadinanza come diritto di appartenenza e non solo di rivendicazione. La integrazione deve senz’altro riguardare l’universalità dei diritti e la convergenza dei doveri primari nei confronti del bene comune delle persone senza ledere la dignità della donna o l’etica pubblica “condivisa”. I principi dell’89 riferiti all’individuo hanno prodotto un grande progresso civile e dato vita allo Stato “laico” ma hanno anche determinato con la esasperazione individualistica dei diritti, la crisi della coesione e della equità sociale. L’egualitarismo formale della cittadinanza ha coperto le disuguaglianze sociali reali tra uomini e donne, tra ricchi e poveri. La dichiarazione solenne ha reso inefficace la pratica “politica” democratica. Gli stessi principi dell’89 vanno oggi applicati nella moderna società multiculturale per dare un respiro sociale così necessario ai diritti individuali. La libertà, l’eguaglianza e la fraternità se applicati a livello sociale possono produrre una tensione verso una nuova civiltà globale.

17 cfr. Sebastiano Maffettone, La pensabilità del mondo, Il Saggiatore, Milano 2006

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La libertà nella società multiculturale introduce la critica permanente dell’eredità culturale e della diversità culturale, la dialettica con quelle tradizioni culturali che hanno un loro valore non tanto folcloristico quanto identitario. L’uguaglianza nella società multiculturale riguarda sia la cultura ospite che quella immigrata e si esprime nella reciproca tolleranza non indifferente. Questo è difficile da accettare dalla Patria che accoglie, che parte da una condizione e convinzione di superiorità. La cultura ospite deve tracciare visibilmente linee di compatibilità dei propri principi etnico-culturali con il quadro valoriale “costituzionale” e quello normativo del Paese di immigrazione. La fraternità nella società multiculturale porta a scoprire il codice comune della famiglia umana e ad equiparare le singole patrie dai molti colori spingendo però all’adozione di una nuova patria ideale attraverso una “storica” cooperazione “interculturale” con specifiche mediazioni in un mondo nuovo e inedito che non sarà omogeneo e monolitico ma multiculturale a grande coesione e a maggiore e più ricca democrazia. Se questi valori sono ancorati al valore universale della dignità della persona umana come primaria realtà e fondamento relazionale della comunità nazionale producono ricchezza spirituale ed etica, maggiore inclusione sociale, sano meticciamento, una laicità buona e ricca di fede con uno spazio nuovo ed eguale per tutte le religioni. Il fattore principale di integrazione non è solo la “religione civile”, il quadro dei valori costituzionali ma anche l’ispirazione “sobria” delle religioni positive come anima delle virtù del buono e onesto cittadino che dà espressione pubblica di diritto al fondamento religioso. Il cittadino della terra, come nella lettera a Diogneto, è “alius et idem” ed è tale perché è anche cittadino del cielo. Per questo non è solo “sale ma anche lievito” a dosi compatibili con il rispetto della libertà della coscienza nella quale c’è la dimora di Dio (“in interiore homine habitat veritas” – S.Agostino).

2.6 – L’esperienza “pilota” di Livorno Su iniziativa dell’AVIS di Livorno è iniziata una collaborazione “organica” ed esemplare con la comunità dei Senegalesi, costituita prevalentemente da giovani residenti in città da molti anni i quali hanno inteso affermare la loro qualità di “nuovi cittadini italiani”, attraverso l’atto della donazione del sangue. Secondo l’antropologo culturale Mariano Pavanello la donazione è “metafora della fratellanza” e indica un sentimento più forte di appartenenza comunitaria dei senegalesi che in Wolof si chiama Teranga ed esprime un livello superiore e trascendente di cooperazione che nasce dalla coscienza di un comune legame di sangue che porta ad una comunità di spirito nella più vasta società ospite. 18 L’antica e ancestrale convinzione che la donazione di sangue può avvenire prevalentemente tra fratelli ribadisce l’importanza del legame di sangue nella nuova famiglia umana allargata del mondo globale. Bisogna riscoprire nella società multiculturale la utopia della confraternità, che è comunione di sangue e di spirito, convivenza e non solo coesistenza di culture nel rispetto della libertà individuale e del dovere di solidarietà attraverso la caduta degli stereotipi, delle barriere psicologiche, sociali, religiose e linguistico-culturali. Si tratta di utilizzare qualche rappresentante della comunità in funzione di mediatore culturale o interculturale all’atto della somministrazione del questionario anamnestico al potenziale donatore di sangue. In questa prospettiva di civilizzazione si possono inscrivere anche Hjina e Iris, due immigrate “simbolo” di libertà e di amore. Se Hjina, la ragazza “pakistana” di Brescia è stata vittima di un “padre padrone” che non le riconosceva come figlia alcun diritto alla libertà “culturale” rispetto alle tradizioni di famiglia, ed Iris, la ragazza “honduregna” di Roma è stata vittima della sua generosità come babysitter, che, pur essendo laureanda in economia, ha sacrificato la sua vita e il suo avvenire annegando all’Argentario per salvare la bambina che aveva in custodia. Entrambe rappresentano la forza, l’anima e la qualità umana della “integrazione” dei nostri immigrati regolari ed anche di quelli clandestini. Il confronto è arrivato sino alle proposte “operative”. Marzio Barbagli ha proposto di creare un’agenzia per i migranti al fine di gestire i flussi migratori e di varare pene più

18 cfr. Avis Comunale Livorno, Immigrati: un dono, una risorsa, una necessità (un modello operativo) 2006, pp. 6-7

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severe sulle espulsioni e tempi più brevi per avere la cittadinanza con veri e propri esami di italiano e di educazione civica con la conoscenza della nostra Costituzione e delle leggi fondamentali. 19 Marco Martiniello, docente di sociologia delle Migrazioni all’Università di Liegi, ha proposto un sistema a punti per scegliere gli immigrati utilizzando il “modello canadese” ed ha indicato nel ripopolamento dei villaggi fantasma la via della integrazione delle famiglie degli immigrati. 20 In particolare è interessante l’intervista di Danilo Taino al prof. Marco Martiniello sulla integrazione degli immigrati (ivi. p. 19). Secondo questo sociologo l’Europa deve imparare che il suo avvenire è un futuro di immigrazione, che nessuna politica di contrasto sarà in grado di fermare i flussi migratori. Egli ha proposto quindi di abbandonare la politica “reattiva” nei confronti degli immigrati a favore di una “proattiva” con l’adozione del modello canadese che consiste in un sistema a punti mediante il quale si seleziona chi può entrare nel Paese favorendo a seconda dei bisogni dello Stato e della provincia, ora lavoratori qualificati, ora manodopera generica. “Il modello canadese” è un sistema che serve a gestire i flussi di immigrazione legale. Ogni anno il governo pubblica un appello internazionale e chiunque può chiedere di entrare in Canada. La domanda viene valutata con un sistema di punteggi che prende in esame età, capacità professionale, stato di famiglia, conoscenza della lingua… Secondo Martinello è importante far passare tra gli europei e da noi fra gli italiani, l’idea che ormai siamo una nazione di immigrati e tra gli immigrati rafforzare la consapevolezza e la motivazione a voler diventare cittadini del nostro Paese. Sarebbe un sistema migliore e preferibile rispetto a quello “italiano” delle sanatorie periodiche. Martinello però precisa che se c’è una politica di questo tipo per l’immigrazione legale “diventa più legittima anche la lotta contro gli illegali”. Inoltre poiché siamo di fronte in Europa ad una immigrazione “nuova”, quella della circolazione della immigrazione per cui si entra in un Paese (Italia!) per passare in un altro (Germania!) per poi tornare prima o poi a casa ci vorrebbe anche “un sistema di visti di lavoro temporanei” di tipo circolare molto positivo sia per i datori di lavoro che per i lavoratori. Bisogna agire su tutti i piani con una logica inclusiva (lingua, lavoro, educazione civica, casa, salute, cittadinanza).

CAPITOLO III - La società multiculturale e i suoi problemi

3.1 – La rivolta degli immigrati Immersi nel sonno della ragione non avevamo capito, nonostante analisi sociologiche più attente e vicine nel tempo, che le periferie delle grandi città dell’Occidente, dell’Europa e dell’’Italia (New Orleans, Londra, Parigi, Milano, Bologna) sono ghetti di emarginazione e di frustrazione dove cova, sotto la cenere della cittadinanza “legale”, la rabbia sociale e la violenza interiorizzata che genera la devianza e alla fine la guerriglia urbana. La violenza va sempre condannata e va sempre ripristinata la legalità democratica ma non si può ipocritamente tacere che è esploso a Parigi il dramma di un popolo, quello delle Banlieue parigine e dei quartieri poveri della Francia, la rivolta dei giovani immigrati contro l’indifferenza “borghese” della integrazione “offerta”, fatta di discriminazione programmata e di disoccupazione ciclica, di vita precaria sorda ad ogni logica di sviluppo in termini di programmazione sociale e di inserimento lavorativo, senza respiro né futuro, con difficoltà “oggettive” e difficili da superare. E’ fallita l’opera dello Stato francese, è fallita la sua politica di assimilazione “laicista” falsamente egualitaria. Sarebbe un errore imputare ai soli francesi la responsabilità di non aver saputo integrare gli immigrati con la forza del mito della cittadinanza francese, tra l’altro abbondantemente ed agevolmente concessa ai naturalizzati che erano figli o nipoti di immigrati nordafricani e magrebini.

19 cfr. Corriere della Sera, 13 settembre 2006 20 cfr. Corriere della Sera, 17 settembre 2006, p. 19

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E’ in crisi non solo un modello di integrazione (quello francese!) ma lo sono un po’ tutti quelli conosciuti e sperimentati (inglese, americano, spagnolo) perché nell’immigrato si continua a vedere un lavoratore “usa e getta” e non un fratello da accogliere ed amare con la sua storia, cultura e voglia di futuro per inserirlo prima a livello sociale e poi a livello politico nella democrazia del Paese. Come non ricordare le parole di Francois Mitterrand nel lontano 1990: “Che cosa può sperare un giovane che nasce in un quartiere senza anima, che vive in un brutto stabile, circondato da mura grigie, su un paesaggio grigio, per una esistenza grigia, alle prese con una società che preferisce volgere lo sguardo altrove e interviene solo per proibire?”. 21

Bene ha fatto Romano Prodi a prendere le distanze dai superficiali ed interessati processi sommari alla Francia accusata di incapacità strutturale perché “la demagogia ricorrente ha vinto sulla ragione” delle analisi del degrado dei sobborghi che richiedevano non solo opere di risanamento e di bonifica sociale ma una vera e propria ricostruzione del tessuto umano ed urbanistico delle periferie delle città.

Come ha scritto Carlo Trigilia “l’Italia ha un vant aggio da non sprecare rispetto alla Francia. Non si tratta tanto del numero di immigrati (3 milioni in Italia, 3,5 milioni in Francia! In entrambi i Paesi con percentuali al 5%!) che a Milano e Roma arrivano a punte di percentuali sino al 10% ed oltre, mentre nelle aree della periferia parigina in rivolta erano intorno al 40%. Tuttavia la vera differenza riguarda la realtà generazionale diversa degli immigrati. In Italia prevale ancora la prima generazione degli immigrati regolari che sono ragazzi (circa 500 mila!) mentre in Francia prevalentemente appartengono alla seconda generazione (figli dei primi arrivati!) e sono in grande percentuale ventenni (“i padri erano immigrati, i figli sono francesi”). 22

Secondo Marzio Barbagli, studioso delle forme di devianza nelle città, in atto l’insurrezione delle periferie in Italia non potrebbe essere guidata dai giovani immigrati di seconda generazione. In Italia ci sono soprattutto “immigrati di prima generazione” molti dei quali “irregolari” e dediti a reati diversi… Spacciano, rubano, borseggiano”. 23 La sfida della integrazione, poiché coinvolge i temi della sicurezza, dell’ordine pubblico e della “forte” solidarietà, mette in crisi non solo la “politica” debole delle istituzioni come la scuola e il mercato del lavoro, ma anche la coesione sociale e l’etica pubblica nelle città. Interpella quindi la dinamica relazionale politico-sociale gli stessi processi culturali del tessuto sociale e multireligioso anche di un Paese come il nostro.

In verità non sono solo i Francesi a scoprirsi incapaci di integrare concretamente gli immigrati ed i loro figli o nipoti ma lo siamo tutt i in Occidente. E c’è una ragione più profonda di tipo paradigmatico e culturale, di tipo spirituale e scientifico, che riguarda il perdurante e perverso approccio di “ostilità preventiva” al fenomeno umanissimo della immigrazione che sta alla base dei vari modelli di integrazione del loro quadro antropologico e delle relative legislazioni (francese, inglese, olandese, russa, americana, italiana, etc.). Prevale ancora ovunque la logica della paura dello straniero, considerato un nemico interno che può diventare un potenziale terrorista. La scelta astrattamente legalitaria e concretamente economicistica si preferisce e si pratica rispetto alla logica della reciprocità virtuosa tra legalità e solidarietà, tra cittadinanza e integrazione “lunga” dimenticando che solo la solidarietà lega ed umanizza la legalità senza perciò diventare pietosamente “buonista”.

Fino a quando in Italia reggerà quella che il sociologo Giuseppe De Rita ha chiamato “integrazione borghigiana” potremo ritenerci fortun ati perché le “cento città” sono fraternità accoglienti della italica “brava gente”, ma oggi siamo però lontani ed in ritardo anni luce, con la famigerata Bossi-Fini, dalle stesse leggi di integrazione francesi e degli altri Paesi europei o americani. Dobbiamo aprire un dibattito nuovo e serio in Italia. E’ doveroso trarre una lezione 21 cfr. Gino Nebiolo, Il prezzo della demagogia, in Giornale di Sicilia, 8 novembre 2005, p. 18 22 cfr. Il Sole 24 ore, 8 novembre 2005, p. 1 23 cfr. Il Messaggero, 8 novembre 2005, p. 2

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“italiana” dalla vicenda francese sulla nostra vera emergenza immigrati a partire da una più concreta sociologia delle dinamiche di integrazione che sia capace di preparare condizioni politiche e legislative di svolta radicale sul piano culturale e dell’etica pubblica all’insegna dell’immigrato come nostro fratello e concittadino virtuale. In questa ottica bisogna riesaminare il fenomeno della clandestinità nella sua genesi e nelle sue prospettive.

Se la legalità non è compagna della solidarietà, lo Stato reprime ma non redime, emargina ma non integra e non promuove lo sviluppo e la coesione. La questione degli immigrati non è risolvibile solo a livello di routinarie politiche di ordine pubblico, ma deve essere posta a livello spirituale e morale. Non si può collocare nella dimensione della emergenza politica contingente ma in quella del respiro strategico di una democrazia “fraterna”. Vale ancora oggi il monito dell’indimenticabile Giorgio La Pira : “Se tu vedi un uomo chiunque sia, di qualunque civiltà o lingua, tu non vedi uno straniero, vedi un fratello, uno che ti sarà sempre compagno nella casa divina del Paradiso”. 24

3.2 – Fratello immigrato Ha scritto Adriana Cerretelli che “la questione della integrazione e della convivenza anche da noi diventerà sempre più sensibile ed importante. Eppure per ora il tema sfugge al confronto della campagna elettorale: resta evanescente nel centro destra come nel centro sinistra…” In verità per entrambi gli schieramenti il problema è tale perché non è stata ancora rimossa la linea del Piave della clandestinità che continua sul piano culturale e politico ad ispirare strategie di conservazione dello status quo ante più che ipotesi innovative di percorsi virtuosi di integrazione civile, morale e politica. 25

Se l’integrazione è figlia dell’accoglienza, questa a sua volta è impedita dalla cultura dell’assimilazione che pone nella piena omologazione l’impossibilità di una inclusione della “diversità culturale” degli immigrati. E’ il caso dei musulmani, ritenuti ad esempio, in Australia dal Primo Ministro Howard “antagonisti e inassimilabili”e concepito come assurdo il multiculturalismo in nome di una storica e radicata identità nazionale quasi biologica e superiore. 26 Pertanto il nodo della integrazione prima che politico è culturale e spirituale, morale e religioso da un lato e antropologico e sociale prima che socio-economico dall’altro. La discriminante riguarda i modelli e i paradigmi epistemologici di fondazione e di riferimento. Per il nazionalismo “morbido” (il più diffuso!) non possono esistere percorsi di integrazione possibile se non nella omologazione dei doveri e nella concessione “per merito” di alcuni diritti che però non devono mettere in discussione la centralità e la superiorità della cultura dominante del Paese di immigrazione.

Per il liberalismo “individualistico e indifferent e” esistono invece percorsi di integrazione nella logica dei diritti individuali di cittadinanza in uno Stato rigorosamente neutrale e laico secondo una politica di tolleranza estrema, emarginante e borghese.

Per il personalismo comunitario (E. Mounier) l’integrazione è “un affare” della persona matura, libera e responsabile che ha un suo progetto di vita personale e comunitaria per sé, per la sua famiglia ed i suoi connazionali ed è resa possibile solo da una legislazione permissiva e coraggiosa di promozione della democrazia della inclusione e della giustizia sociale mediante il riconoscimento e l’accettazione culturale e politica della “diversità”. Questo pensiero porta al multiculturalismo “analogico” che ricerca l’unità delle differenze e la matrice di una politica di integrazione attiva nella libera adesione ai valori comunemente universali. Aspetti di verità si possono trovare inoltre nelle tesi di Charles Taylor ed in quelle di Jurgen Habermas, nei due poli liberal-conservatore e liberal-progressista che conducono ad esiti molto diversi la battaglia per la libertà dei cittadini. Dopo la crisi dell’esperienza del melting pot “statunitense” degli anni sessanta

24 Cfr. in “Affari Italiani”, quotidiano on line nazionale, Milano 12 Novembre 2005 25 cfr. Il Sole 24 ore, 9 marzo 2006, p. 1 e p. 9 26 cfr. Il Manifesto, 21 febbraio 2006, p. 13

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si è aperto sia in America che in Europa un dibattito vivace sull’ideologia del multiculturalismo e sulle vie nuove per superarla e pervenire in modo più coerente ed efficace al suo vero esito “progressista” senza continuare a dare più spazio ai collettivi etnici che ai diritti delle persone o nell’altro versante vengono riconosciuti i diritti degli individui omologati ed assimilati ma sradicati dalla propria cultura di appartenenza.

Come si vede non è in discussione la bandiera della tolleranza ma il suo vero contenuto relazionale e progressivo. In particolare nel dibattito nord-americano lo scontro è relativo al paradigma “comunitarian” di Ch. Taylor e a quello “liberal” di J. Rawls e Kymlicka mentre in quello europeo si confrontano posizioni liberal-sociali e liberal-progressiste come nelle risposte multiculturaliste di Habermas e Salvatore Veca.

Si potrebbe dire che oggi il vero scontro non è fra opposte e radicali concezioni (razzismo – egualitarismo!), ma fra polarità dialettiche dello stesso liberalismo “egualitario” per una dialettica più profonda tra la tolleranza che “include” e la tolleranza che emargina. In questo senso la proposta di nuovi CPT “più moderni, efficienti e ben strutturati” per il controllo, la sorveglianza e la integrazione degli immigrati clandestini non elimina la logica di fondo della crudele e disumana sospensione dei diritti tipica di un lager culturale e politico “preventivo”! Forse bisogna fare i conti con la novità europea dei “contratti di integrazione” con i quali non si vuole più subire il fenomeno ma gestire l’immigrazione come “risorsa” con scelte precise e programmate di ordine economico e sociale. In questo caso la nuova politica della immigrazione che avanza sarebbe quella della integrazione attiva e “obbligatoria” dall’alto, con test di conoscenza della lingua del paese che accoglie, della sua cultura locale e dei suoi valori per trovare le basi minime di una convivenza comune tra popoli e culture diverse. L’idea di per sé buona dei contratti di integrazione rischia di essere vanificata dallo stesso presupposto culturale di una integrazione “imposta”.

Se l’integrazione non è assimilazione ma rispetto della multiculturalità, non può tradursi in “acculturazione”, più o meno camuffata dalla emergenza antiterroristica e da una “politica dell’ordine pubblico” in nome della difesa di una astratta identità nazionale ma deve tradursi in una libera scelta di adesione consapevole alla Costituzione della Repubblica che accoglie ed ai suoi valori fondanti che sono il fondamento della convivenza pacifica, della vera tolleranza e della promozione sociale in nome ed in vista di una più ricca ed inedita futura civiltà comune. L’integrazione, anche dei clandestini, mediante la ricerca di vie nuove alternative più legali e più umane e non solo aumentando a casaccio le sanatorie quanto modificando i percorsi normativi è la vera questione aperta. Quella che può sembrare un’utopia astratta è a mio vedere la via italiana di un progetto politico nazionale “preventivo” di integrazione utile e pacifica, un processo mirato e “super partes” di eventi che nascono da una comune e consapevole necessità reale dell’Italia di oggi.

Così l’integrazione “democratica” potrà decollare “bene” se inizierà da una rivoluzione culturale, morale e spirituale ad hoc di indigeni autoctoni e nuovi immigrati, se partirà dalla preventiva socializzazione della coscienza della uguaglianza reciproca di diritti e doveri, anche di genere (cfr. le donne immigrate!) e se porterà ad una “con- cittadinanza” dalla fraternità “condivisa”. Rientra in questa “rivoluzione morale e spirituale” anche una nuova idea della clandestinità come via non eversiva di tipo amministrativo a termine, per un inserimento “legale” di approdo “istituzionale”. Bisognerà trasformare, con percorsi “ufficiali” di tipo sociale e nazionale nuovo (cfr. La Sicilia: zona franca, come Università del lavoro immigrato) l’attuale clandestinità che fa paura e la alimenta in permesso di soggiorno più lungo e concordato tra il consolato italiano dei paesi di origine e le istituzioni sociali delle città italiane di accoglienza, in un periodo autorizzato di prova e controllo di convivenza interetnica in un determinato territorio, come fase legale e preparatoria di apprendimento sociale, culturale, civico e lavorativo.

Ci vuole quindi una risposta condivisa e coraggiosa per costruire “dal basso” l’integrazione cittadina “libera” nella società multiculturale e porre le premesse interculturali ed etiche “comuni”

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di una nuova città democratica della inclusione sociale e di una condizione urbana più umana degli immigrati. Bisogna prendere atto della complessità e dell’usura retorica della bandiera del multiculturalismo. Esso indica contestualmente il “fatto” della società multiculturale come “folla solitaria <<colorata>>”, il “mito direttivo ed utopistico” della tolleranza come fine con il suo intrinseco paradosso identità-differenza, inclusione-esclusione e la via analogica ed utopica della integrazione “democratica spirituale integrale” attraverso la fraternità militante, il dialogo tra le anime delle diverse culture e la tolleranza laica comunitaria.

Secondo queste tre prospettive cambia di segno l’accoglienza, la solidarietà e la concreta integrazione interculturale degli immigrati. Ad esempio nella terza ipotesi non ha ulteriore giustificazione la permanenza dei CPT, antichi o nuovi, e si deve presto modificare l’attuale politica di contrasto all’immigrazione clandestina prevista dalle leggi “Turco-Napolitano” e “Bossi-Fini” con una inversione radicale che preveda l’abolizione della figura giuridica dell’immigrato clandestino come minaccia preventiva all’ordine ed alla sicurezza dello Stato italiano. In questo quadro si colloca il contributo specifico del mio libro, 27 che non è una ricetta “buonista” di tolleranza “fideistica” quanto un nuovo paradigma epistemologico ed antropologico di una sociologia delle migrazioni matrice di una coerente politica di integrazione di tipo democratico integrale secondo la logica personalistica e comunitaria. A monte sono illuminanti e direttive le domande di Dio: “Dov’è tuo fratello?” (Genesi 4,9) e l’affermazione di Papa Benedetto XVI secondo cui “l’imperativo dell’amore del prossimo è iscritto dal Creatore nella stessa natura dell’uomo” fatto a sua immagine e somiglianza. 28

Protagonisti dunque di una piena e “democratica” società multiculturale sono sia gli indigeni che gli immigrati nei loro reciproci diritti e doveri, nella loro feconda relazione dialettica di integrazione senza l’annullamento delle loro differenze e senza la rinuncia ad un fondamento identitario comune di un nuovo cittadino italiano più solidale e più responsabile. Una strategia di integrazione concreta all’insegna della libertà di adesione e della responsabilità di comunione presuppone percorsi di educazione alla convivenza di adulti, famiglie e ragazzi, di esperienze di integrazione prima sociale e poi politica cioè condizioni strutturali di tipo spirituale e culturale e di tipo economico sociali diffuse perché “non c’è nulla di più ingiusto che far le parti uguali tra diseguali” (Don Lorenzo Milani). Sia gli immigrati che gli indigeni “storici” dovrebbero reciprocamente conoscersi, capirsi e collaborare con i mediatori interculturali istituzionali e civici. Gli immigrati dovrebbero sentirsi accolti nelle città, valorizzati ed amati per il contributo che danno allo sviluppo locale e nazionale.

I postulati di “Fratello immigrato” sono: - l’integrazione “libera e personalistica” come figlia dell’accoglienza solidale ed empatica e di una nuova cultura della cittadinanza che fonda un moderno e flessibile “welfare municipale e comunitario”; - la diversità culturale come problema scolastico e sociale e la padronanza della lingua italiana come fattore di integrazione e veicolo di comunicazione (“chiamo uomo chi è padrone della sua parola” di Don Lorenzo Milani) nell’ottica bidirezionale del bilinguismo e del tutoraggio sociale interculturale; - l’integrazione umana e sociale va sperimentata con canali alternativi (Albo nazionale dei lavoratori ospiti e con carte di soggiorno polifunzionali!) e deve precedere quella istituzionale definitiva.

“Fratello immigrato” è una strategia che mette a dura prova le nostre radici cristiane ed il nostro approccio democratico e progressista. Scuola, quartiere, chiesa, sindacato, Acli e associazionismo “etnico” diventano così poli di incontro, di dialogo, di accoglienza, di solidarietà e

27 Luciano Nicastro, Fratello Immigrato, EdiArgo 2006, p. 180 28 cfr. “Deus Caritas est”, LEV 2006, p. 71

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di integrazione “sociale, umana e civica”, una ricca società civile con un welfare territoriale che promuove una comune politica della cittadinanza ed una Repubblica dei nuovi italiani.

Vale soprattutto oggi il grande testamento di Giorgio La Pira, profeta della Pace e dell’unità dei popoli del Mondo: “Fare delle Nazioni, nel rispetto dei loro inconfondibili caratteri, un’unica famiglia umana in modo da assicurare a tutti gli uomini la gioia del lavoro, della casa, della fraterna assistenza e della ricchezza culturale, spirituale e religiosa”. La sua lezione non può essere dimenticata nel momento caldo della nostra politica se si vuole parlare il linguaggio concreto delle soluzioni più adeguate alla complessità dei problemi che stiamo vivendo nella nostra società multiculturale. 29

3.3 – Integrazione: affare di Stato… sociale Sul fronte della immigrazione in particolare il confronto è stato alto e serrato e ha registrato contributi significativi sul piano culturale e religioso, storico e sociale, economico e politico che ruotano attorno alla questione di fondo se l’integrazione è ancora un mito “americano”, bello ma impossibile, perché è in crisi la sua via principale che è quella della multiculturalità o perché manca una vera socializzazione “anticipatoria” ed un forte amor di patria “nuova” verso l’Italia di oggi o perché è assente un progetto complessivo di convivenza sociale o una nuova politica di integrazione equa e bipolare con proposte nuove dopo il fallimento delle politiche muscolari del Governo Berlusconi o perché non è stata seriamente affrontata nel merito la prima vera emergenza nazionale, europea e intercontinentale (la nuova sfida “globale” del Sud del Mondo!”) che è quella dell’aumento progressivo degli immigrati e di quelli clandestini in particolare. 30

Forse è opportuno partire dalla dimensione teorica del problema per ricavarne una chiave di lettura culturale e politica utile per affrontare con lucida determinazione la soluzione migliore possibile del problema della integrazione degli immigrati. Se Amartya Sen parla di “Confusione illiberale” percepisce un disagio reale ed una concreta difficoltà. In verità un approccio solo “liberale” alla multiculturalità non è sufficiente a dar conto di una soluzione adeguata, a lungo respiro “sociale”, assente sia nel modello francese che nel modello inglese. Lo stesso dicasi per un approccio solo “economicistico” che indica come “nocciolo strutturale” della questione il divario di reddito e demografico tra l’Africa e l’Europa per cui si trascurerebbero le cause per concentrarsi solo sugli effetti. 31

C’è chi paragona il terremoto degli extracomunitari di oggi a quello degli emigranti meridionali di ieri nell’Italia del Nord o nei paesi extraeuropei che avveniva non solo attorno alla fabbrica “fordista” ma anche attorno ai bed jobs di allora, anche se Vittorio Messori ha giustamente invitato a non amplificare l’allarme sociale e a tenere bene in mente e in memoria il mutato contesto storico e sociale e le urgenze di oggi.

Una sana e vera integrazione, in realtà, non può non produrre, anche con nuovi problemi, un salto di qualità “spirituale” e culturale nella vita nazionale. Se essa non è semplice “assimilazione” o coesistenza “borghese” di culture ma è fecondo scambio relazionale di opportunità (di valori e di lavori e di reciproca solidarietà!) che sale dalla società civile verso lo Stato democratico per dare vita ad un nuovo “centro” gravitazionale dell’ etica pubblica nazionale verso una nuova frontiera della dialettica politica e della vita democratica del Paese con la mobilitazione straordinaria e

29 cfr. in “Affari Italiani”, giornale on line nazionale, Milano 15 marzo 2006 30 cfr. George Fredickson in Repubblica, 15 agosto 2006, p. 39; cfr. Amartya Sen in Corriere della Sera, 23 agosto 2006, p. 35; cfr. Francesco Alberoni, in Corriere della Sera, 21 agosto 2006, p. 1; cfr. Magdi Allam, in Corriere della Sera, 19 agosto 2006, p. 1; cfr. Tito Boeri, in La Stampa, 7 agosto 2006, p. 9; cfr. in Avvenire, 19 Agosto 2006, p. 10 31 cfr. Mario Deaglio in La Stampa, 23 agosto 2006, p. 1 e p. 8

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permanente dalle principali agenzie etiche e maieutiche della socializzazione civile e politica (scuola, chiesa, società, mass media, etc…).

L’integrazione in Italia, pur tra difficoltà oggett ive e congiunturali può tendere ad essere di tipo “lungo” per la prospettiva, “leggera” per i pesi e le incombenze della selezione, “equa” sul piano dei diritti e dei doveri. Non è ancora chiaro il differenziale specifico per quanto riguarda il genere, le classi sociali e la inclusione pubblica con un maggiore “peso” del fattore religioso attraverso la “messa in angolo” dell’integralismo e del radicalismo religioso, sia esso conservatore che rivoluzionario-radicale. Così restando le cose, l’integrazione può rischiare di diventare “debole” e molle, “usa e getta”, per il prevalere di un orientamento culturale “liberista” e “struttural-funzionalista”, mentre servirebbe una buona dose di filosofia politica democratica sanamente etica, “buonista” e “femminista” all’insegna non del permissivismo libertino e invasore, ma del rigore morale proprio del personalismo comunitario che è civicamente responsabile, negoziale e relazionale, cioè ci vorrebbe una strategia congiunta di diritti e di doveri degli individui e delle persone ma anche di diritti e doveri delle culture e delle comunità etniche, per costruire un minimo ma essenziale e condiviso “comune integratore nazionale”. Non si tratta di spendersi per l’individualismo dei diritti contro le libertà multiculturali ma di affermarne una nuova sintesi originale: la via italiana della integrazione e della inclusione spirituale.

Il versante operativo è il welfare municipale che deve poter contare sul volontariato “specializzato” sul campo, su nuovi progetti di sostegno all’inserimento attivo e responsabile delle comunità etniche e delle famiglie nella vita delle città e degli individui nel mondo del lavoro e della imprenditorialità. In questo senso alzare il tiro sulla repressione degli affari criminali degli scafisti e delle organizzazioni mafiose è condizione necessaria ma non sufficiente. Bisogna “bonificare” il fiume della clandestinità da tutto ciò che lo riproduce a livello culturale, legislativo e politico-diplomatico (compresi inefficienze e sprechi!). Servirebbe il coraggio di trasformare i CpT per abolirli come ho proposto nel mio libro. 32 Poiché costano allo Stato italiano, a livello complessivo, per la lotta alla clandestinità 115 milioni di euro l’anno, 33 si potrebbero, con la stessa somma, finanziare una rete di canali regolari “alternativi” di villaggi “nomadelfici” di formazione e lavoro a numero chiuso, utilizzando anche i fondi sociali della U. E. per progetti pilota che vedano la presenza dell’Italia nel Mediterraneo come avamposto funzionale e attivo di un dialogo dell’intera Europa con l’Africa e con l’Asia europea nell’ambito di un piano “Marshall” di emergenza economica-sociale del bacino del Mediterraneo come ha chiesto Don Leopoldo Argento, parroco di Lampedusa, per ridare alla Sicilia non solo gli sbarchi ma una porta e una base operativa della prima accoglienza del continente europeo. Analogamente per la Spagna.

Si tratterebbe di trasformare l’attuale villaggio “ invisibile” dei clandestini in piccole comunità residenziali per una destinazione successiva di orizzonte “europeo”, con l’ausilio di uno sportello telematico attrezzato e a ciò deputato per informazione, conoscenza, selezione e formazione di pertinenza al lavoro, alla lingua e alla mediazione interculturale sui punti di maggiore “criticità”. Sul piano concreto l’integrazione “attraversa” la multiculturalità e, come sostiene Sebastiano Maffettone, dovrebbe assumere una prospettiva “pluralistica” di quadro democratico che non può essere ad esempio il liberalismo “islamico” accanto ad altri liberalismi “confessionali” (cattolici, etc.) ma una democrazia comune a forte valenza religiosa non teocratica con un Islam “fattore di liberazione” che arrivi ad una posizione laica senza perdere la sua anima religiosa profonda ed il suo riconosciuto valore specifico sui temi della lotta alla povertà ed alla immoralità pubblica. 34

Come ha scritto Nicola Colajanni “il rispetto delle diversità è il nome nuovo e attuale del principio di eguaglianza dei cittadini”. 35 Se la multiculturalità è la nuova “base comune” come la

32 L. Nicastro, Fratello immigrato, op. cit. 33 cfr. “Il Giornale”, 23 agosto 2006, pp. 2-3 34 cfr. Sebastiano Maffettone, La pensabilità del mondo, Il Saggiatore, 2006 35 cfr. in “Eguaglianza e diversità culturali e religiose. Un percorso costituzionale, Il Mulino, Bologna 2006

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globalizzazione, l’interculturalità in uno Stato laico ma non laicista è la via per la scelta di una Patria di arrivo e di “elezione” nella più armoniosa e pacifica “famiglia umana” dei popoli liberi. 36

Valga comunque l’analisi lucida e strutturale del sociologo Luciano Gallino il quale sostiene che in verità i “flussi migratori li abbiamo fabbricati e li fabbrichiamo in gran parte noi, i benestanti del Nord” attraverso il mantenimento del debito estero dei paesi in via di sviluppo e l’egemonia dell’economia “globalizzata” (il globalismo) che fa morire l’occupazione e le economie locali del Sud del Mondo. Per cui la unica speranza è quella di emigrare. Inoltre afferma che “una politica di regolazione e di utilizzo intelligente dei flussi migratori, nell’interesse sia dei Paesi di origine che dei paesi di destinazione, può essere messa in piedi soltanto dall’Unione Europea”. 37

3.4 – I percorsi di socializzazione Come si fa a proporre percorsi socializzanti a chi vive il dramma di dover restituire i soldi del viaggio o pagare l’assistenza sanitaria ed economica ai componenti della famiglia di origine. Il primo pensiero dell’immigrato non è quindi quello della socializzazione ma di un lavoro qualunque per guadagnare, pagare i debiti e aiutare la sua famiglia o il suo clan… Così inevitabilmente si diffonde la bioeconomia del precariato come prodotto necessario di una sorta di economia “di eccezione”.

Il giornalista Fabrizio Gatti de “L’Espresso” ha realizzato uno scoop giornalistico sul CpT di Lampedusa e sui nuovi schiavi delle Puglie. E’ iniziata con il Governo Berlusconi la politica della modernizzazione dei CpT e della loro umanizzazione. Ad esempio si è passati a Lampedusa dal CpT al Centro di primo soccorso, per proteggere il Paese dalla diffusione delle epidemie. Mentre nella società meridionale (Sicilia, Puglia, etc.) per il lavoro il caporalato è rinato: più disumano di prima e l’illegalità si è fatta “Stato”.

Si stima che in Italia ci siano 1 milione e mezzo di clandestini a fronte di 3 milioni di “regolari”. Gli emigranti sono trattati come apolidi. La condizione emigrante ad una analisi più approfondita in verità è appartenuta ed appartiene anche a noi. Su di essa “vigilano” e trafficano le organizzazione malavitose delle mafie “nazionali” (egiziana, marocchina, cinese, albanese, italiana…).

Testi ermeneutici di riferimento paradigmatico possono ancora essere: “Sorvegliare e punire” di Michel Foucault; “Stato di eccezione” di Giorgio Agamben (concetto di campo come lager!); la tesi della costruzione sociale della devianza e quella della biopolitica delineano una concezione antropologica dell’uomo “come animale”, “come macchina che desidera”, come un insieme di istinti e di condizionamenti sociali. I diritti di maggioranza se non sono diritti di tutti, non sono diritti “universali” per cui democraticamente “emarginiamo” quelli che hanno bisogno di essere tutelati. Consideriamo il fatto che “Medici senza frontiere” hanno denunciato l’attuale negazione dell’accesso al diritto e alla salute ai clandestini. I diritti umani sono concretamente spendibili solo se si è cittadini ma gli immigrati spesso non lo sono perché clandestini o perché regolari “di transizione”.

Oggi vige una misura amministrativa discrezionale e non una prassi fondata su una decisione giusta della Magistratura. Si delega il Questore o il Prefetto cioè le autorità amministrative per stabilire se concedere o meno l’accesso ai diritti di protezione. L’attuale normativa sulla immigrazione non è un diritto “speciale” dell’emigrante. Non è “diritto” perché segna la sua morte come uomo universale, anche se non ha commesso reati veri.

36 Cfr. in “Affari Italiani”, quotidiano on line nazionale, Milano 28 agosto 2006 37 Luciano Gallino, L’Europa e le radici delle migrazioni, in Repubblica, 1 settembre 2006, p.1

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CAPITOLO IV - L’etica dei valori è una necessità “storica”

4.1 - Una questione di metodo Nella crisi della società multiculturale l’etica dei valori non può venire dalla rassegnazione fatalistica al relativismo e al nichilismo contemporaneo ma è compito di una nuova fase ricostituente del pensiero sulla società globale da parte di una nuova cultura dell’uomo. L’approccio è quindi multidisciplinare: filosofico, teologico e politico. Forse è preliminare a tutto lo sguardo etico, variamente fondato sul piano epistemologico in modo coinvolgente e coerente sia sul piano personale che sistemico in questo passaggio di civiltà. In questa costruzione possono essere come genealogia di riferimento compagni di viaggio e di metodo, Emmanuel Lévinas, Max Weber, Dietrich Bonhoeffer, Irene Mingol, Paul Ricoeur, Papa Benedetto XVI, E. Mounier ed il grande teologo Hans Kung.

4.2 – Responsabilità, cura e solidarietà La condizione umana è un “io, qui, adesso, con” (E. Mounier), un essere in relazione che interroga ed è interrogato. In Emmanuel Lévinas di “Totalità e infinito” la relazione fondamentale, evocata e richiesta dal volto dell’altro, è la responsabilità di fronte ad “altri” in modo indefinito. L’infinità dell’Infinito “ infinitizza il compito verso l’altro e non la ricerca sul sé, sulla medesimezza, sull’io”. 38 L’uomo è un essere che si prende cura quando è cosciente e non alienato. Il suo essere è costitutivamente “politico”. Secondo Max Weber (cfr. La politica come professione) l’etica dei principi e l’etica della responsabilità costituiscono due elementi dell’uomo “autentico” quello che può avere la vocazione per la politica. Ma questa dimensione è aperta a tutti se è collegata con i valori e i significati ultimi della vita.

Un’etica della responsabilità, in una ottica teologica, è quella di Dietrich Bonhoeffer, martire del nazismo, il quale coglie la dimensione teologica del concetto di responsabilità perché essa consente all’uomo di dischiudere “l’essenza del mondo” come luogo della testimonianza del Vangelo di Cristo. La resistenza è un dovere che nasce dalla risposta ad un problema posto da Dio e dalla sua chiamata alla libertà. (Egli comanda la libertà…). Nessuno può ritirarsi “nel privato” quando c’è l’irruzione devastante del male e delle sue strutture. La responsabilità non è quindi fuga né alienazione ma resistenza e impegno, solidarietà e comunione a qualunque prezzo (cfr. Resistenza e resa – lettere e scritti dal carcere). E’ il superamento dell’etica borghese del successo e della restrizione “legalistica” della responsabilità verso l’amore del prossimo e del “più lontano” che è Cristo stesso, Dio stesso. Senza “la responsabilità integrale e totale” non si sarebbe sconfitto il furore nazista, sarebbe prevalsa la falsa obbedienza e la comoda conformazione.

L’etica della responsabilità, elaborata in questo contesto storico-culturale, drammatico ed emblematico si inscrive nel ciclo della modernità come il prodotto più alto e complesso di uno spirito di comunione. Non si dimentichi che le radici dell’etica vanno cercati nell’idea del Bene e nell’assoluto futuro del bene. 39 Diceva saggiamente J. Ruskin che alla fin fine “quello che vale non è il profitto ma la vita che si vive per conseguire il profitto”. La società dell’utile, l’impero del denaro, vive per la sua inutilità finale. Vale considerare un pensiero radicale sul rapporto tra etica e progresso. Hans Jonas ha criticato il fondamento simmetrico dell’etica tradizionale che la renderebbe inadeguata di fronte al nuovo progresso “scientifico e tecnico” dell’età contemporanea. Egli critica l’imperativo categorico kantiano rimproverandogli l’obbligo della “reciprocità” orizzontale fra gli essere umani che però esclude “obblighi e doveri” nei confronti delle generazioni future e dello stesso ambiente umano e naturale. All’imperativo categorico di Kant (e alla più recente posizione neo-kantiana di J. Rawls) Jonas contrappone l’etica della responsabilità come etica della non-reciprocità (primato del bene sul giusto) che comporta il rifiuto della legge di

38 Cfr. Italo Mancini, L’Ethos dell’Occidente, Marietti, Genova 1990, p. 607) 39 Cfr. Pier Angelo Sequeri, L’umano alla prova, Vita e Pensiero, Milano 2002)

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Hume. 40 La responsabilità, come dimensione centrale dell’agire sociale, assume come suo criterio principale di orientamento e di qualificazione “la prevedibilità degli effetti” dell’azione umana. L’interesse individuale è la nostra motivazione più forte solo se è costituito dentro la società ed i suoi riconoscimenti e contribuisce al benessere degli altri come al nostro. “Essere responsabili – scrive G. Pellegrini – vuol dire, dall’etimo della parola, rispondere di qualcuno nel caso specifico di colui che è simile perché uomo o donna”. 41 Così Da Re precisa che “responsabile è colui che si interroga sugli effetti diretti e indiretti dell’agire perché avverte che le proprie scelte incidono sulla vita propria, sulla vita altrui, sulla realtà esterna”. 42 Esiste un rapporto strutturale tra etica della relazione ed etica della cura. L’etica della cura di Irene Comins Mingol (ricercatrice di filosofia presso la cattedra Unesco di filosofia della pace dell’Università Jaume I di Castellon in Spagna) 43 si può considerare fra le “etiche femministe”, una di quelle che denunciano “i tratti patriarcali” delle etiche vigenti. Questa etica della cura propone nuovi valori partendo dall’esperienza femminile. L’origine di questo pensiero va ricercata nella elaborazione di Carol Gilligan (Università di Harvard, 1982) che ha svolto ricerche di psicologia cognitiva nel campo dello sviluppo del senso morale nelle donne. La sua ricerca ha influenzato non solo la filosofia morale ma anche il campo dell’assistenza e della salute, dell’ambiente, delle relazioni familiari, del lavoro sociale, etc. L’etica vigente è più centrata sul valore della giustizia e trascura quello della cura che la arricchirebbe. Gli esseri umani non hanno bisogno solo di leggi e istituzioni “giuste” ma anche di tenerezza, affetto, solidarietà, vicinanza e cura. I movimenti “sociali” hanno dimostrato che la solidarietà, la cura, la compassione e la bontà sono importanti tanto quanto la giustizia. Giustizia e cura sono entrambe necessarie alla costruzione di una cultura della pace. Separate sono causa di discriminazione di genere. Il lavoro di cura tanto nei confronti dei bambini come dei malati e degli anziani è servito a subordinare la donna nell’ambito domestico. Ora bisogna invece affermare il valore della cura come pratica sociale di costruzione della pace da parte non solo delle donne ma anche degli uomini.

Il processo in corso, parallelamente alla globalizzazione del mercato e della finanza, è soprattutto quello del “meticciato” di civiltà, culture e religioni. 44 E’ la nuova frontiera della cura, della responsabilità e della solidarietà ed ha una sua intrinseca qualità spirituale e religiosa.

“La religione rivela all’uomo la bontà dell’uomo – diceva Paul Ricoeur – auspicando la valorizzazione pubblica di ogni religione sul piano civile e culturale e promuovendo il dialogo interreligioso. In questo senso si deve ripartire da Dio” e rimetterlo al centro della città “secolare”come il valore di ragione o di fede del vivere insieme come il fattore “centrale” dell’aggregazione di sistema.

Risuona il monito di Papa Benedetto a Monaco di Baviera (10 settembre 2005): “L’Occidente deve ritrovare il timor di Dio” . per averlo perduto la rivoluzione antropologica dalla modernità ad oggi ha portato benessere e progresso materiale e diffusione di conoscenze “meravigliose”, ma il suo capitalismo cognitivo e l’euforia biotecnologia ha rinforzato il materialismo pratico nelle sue varie forme, recidendo sia nella quotidianità il cordone ombelicale con la fonte ultima e la sorgente prima dello sviluppo personale e comunitario che è Dio liberatore e misericordioso, ed è dilagato l’individualismo cieco e sordo con i legami fragili e mutevoli, lo stress, la paura, la disperazione, la violenza terroristica con la perdita del senso del valore della vita umana “degli stessi civili”. Papa Benedetto vede nell’Occidente “liberale” e “multiculturale” un vero e complesso problema spirituale. Si è liberato dalle dittature politiche ma non dalla dittatura del relativismo che appaiata all’individualismo strisciante erode il tessuto spirituale ed etico della sua società, il futuro della sua civiltà e costituisce una mina vagante al dialogo tra le nuove culture e le religioni che vi arrivano.

40 Cfr. Hans Jonas, Il principio responsabilità – Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino 1990, pp. 49-55 41 cfr. Giuseppe Acocella, Sulla responsabilità, in AA. VV., Etica del plurale (a cura di Egle Bonan e Carmelo Vigna), Vita e Pensiero, Milano 2004, p. 172 42 ibidem 43 cfr. Enciclopedia de Pazy Conflictos, Editorial Università de Granata vol. I, pp. 447 44 cfr. Il Card. Scola elogia il “meticciato di culture”, in Corriere della Sera, 3 settembre 2006, p. 16

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Valga il passaggio lucido ed ermeneutico della sua omelia: “Le popolazioni dell’Africa e dell’Asia ammirano le nostre prestazioni tecniche e la nostra scienza, ma al contempo si spaventano di fronte ad un tipo di ragione che esclude totalmente Dio dalla visione dell’uomo, ritenendo questa la forma più sublime della ragione, da imporre anche alle loro culture. La vera minaccia per la loro identità non la vedono nella fede cristiana, ma invece nel disprezzo di Dio e nel cinismo che considera il dileggio del sacro un diritto della libertà ed eleva l’utilità a supremo criterio morale per i futuri successi della ricerca. Cari amici, questo cinismo non è il tipo di tolleranza e di apertura culturale che i popoli aspettano e che tutti noi desideriamo! La tolleranza di cui abbiamo urgente bisogno comprende il timor di Dio – il rispetto di ciò che per altri è cosa sacra. Questo rispetto per ciò che gli altri ritengono sacro presuppone che noi stessi impariamo nuovamente il timor di Dio. Questo senso di rispetto può essere rigenerato nel mondo occidentale soltanto se cresce di nuovo la fede in Dio, se Dio sarà di nuovo presente per noi ed in noi. Questa fede non la imponiamo a nessuno. Un simile genere di proselitismo è contrario al cristianesimo. La fede può svilupparsi soltanto nella libertà. Facciamo però appello alla libertà degli uomini di aprirsi a Dio, di cercarlo, di prestargli ascolto”. 45

L’estremismo islamico del binladismo ha scosso dalle fondamenta il modello multiculturale perché ne ha messo in crisi le relazioni primarie. Il fondamentalismo dà infatti una identità “semplice”, politico-religiosa, fanatica e violenta. Il multiculturalismo favorisce invece l’integrazione dei cittadini e promuove la doppia identità, dell’origine e dell’arrivo, alla ricerca personale di una sintesi ulteriore. La parte migliore del multiculturalismo potrà quindi essere ancora salvata solo se siamo capaci di andare oltre la semplice tolleranza verso il cosmopolitismo. Invece Rita Verdouk che vuole bandire il burqa islamico, sostiene una Olanda “provinciale” e “monoculturale” in una Europa “multiculturale”. E’ il ritorno al passato per spirito di paura.

Essere tolleranti non significa di per sé essere cosmopoliti. La tolleranza significa spesso indifferenza, cioè esclusione e ghettizzazione. E’ chiaro che la tolleranza è meglio della intolleranza ed è la condizione necessaria della integrazione ma non sufficiente. Così come il multiculturalismo è meglio del monoculturalismo ma non è l’obiettivo finale della integrazione. In una società cosmopolita le persone di diverse culture possono mescolarsi come cittadini che godono di uguali diritti e di eguali doveri “liberi”. La società italiana non si sente “un club esclusivo per gli autoctoni” come l’Olanda di Rita Verdouk. Sostenere che la religione degli immigrati è retrograda e la loro cultura “inferiore” significa alzare un muro di divisione che impedisce l’integrazione vera e sostanziale anche se quella “formale” della cittadinanza è possibile acquisirla con la conoscenza e la padronanza della lingua, il rispetto delle leggi e delle istituzioni. Dobbiamo a riguardo parlare meglio di modernità e Islam non di Islam e modernità. Nel secondo caso sottintendiamo che l’Islam è il problema. Invece è vero il contrario: “è la modernità il problema” perché non ha risolto il problema religioso ma lo ha semplicemente epochizzato o cancellato con la violenta secolarizzazione della ragione.

Non erano all’orizzonte prima della modernità i problemi e le tensioni tipiche delle società multiculturale. “In Francia la tradizione laica è entrata in collisione con le tensioni di una società multietnica…” “La concezione francese della laicità, di matrice ottocentesca, si è trovata a perpetuare la domanda della religione come <<questione privata>> ed è entrata in contraddizione con le esigenze della multiculturalità che postulano una forte <<identità e visibilità>> dell’elemento religioso”. Al contrario in Italia è più aderente alla realtà “la concezione della religione come <<questione sociale>>”. “La tutela della libertà religiosa comporta per il nostro ordinamento anche la tutela di quelle esigenze di visibilità che le confessioni esprimono”. Se si affronta il tema del multiculturalismo nei suoi aspetti più generali si delineano e si scontrano modelli contrapposti. Il modello “assimilazionista francese” manifesta i maggiori conflitti tra principio di laicità e multiculturalismo. Il modello inglese più pragmatico e tollerante (liberale!) porta alla separatezza

45 cfr. Avvenire, 12 settembre 2006, p. 4

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culturale tra le diverse etnie. Una prima risposta “globale” è di tipo “apparentemente liberale” che fa leva sui principi di laicità e di eguaglianza e che respinge le diversità che implichino una eccezione a questi valori. Accogliere le tradizioni popolari e il folklore non disturba nessuno… La seconda risposta “globale” è quella dell’accoglienza attraverso i cosiddetti statuti personali (di medievale memoria) dei gruppi etnici. Si invoca “il diritto alla diversità” senza incrinare il principio della eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. C’è la diversità “compatibile” e quella “incompatibile” (l’infibulazione, etc.) Si è aperto un nuovo orizzonte di contrasti multiculturali che riguardano sensibilità diverse sia sulle persone, sugli animali (sulla diversa tradizione gastronomica!), ad esempio cani e gatti come cibo, che sulla stessa pratica religiosa che comporta la preghiera pubblica (sul luogo di lavoro, sulla pubblica via, nella scuola…). Possono nascere conflitti di alto valore simbolico. Bisogna coniugare quindi uguaglianza e diversità. La laicità non può essere “livellatrice”. Indirizzare l’educazione delle nuove generazioni al rispetto delle differenze etniche, religiose e culturali. “Multiculturalità dovrebbe voler dire accettare (anziché cancellare) la possibile presenza di diversi simboli religiosi secondo le circostanze e le opportunità”. 46 Un aspetto cruciale del multiculturalismo è il riconoscimento dei diritti individuali e collettivi dei singoli e delle comunità etnico-religiose, sulle differenti concezioni del matrimonio, della famiglia, dei rapporti tra uomo e donna. Ci sono due tendenze estreme:

- quella negativa che si basa su una concezione rigida della cittadinanza

- quella liberale che sente di più l’attrazione del principio degli Statuti personali e quasi prospetta una pluralità di cittadinanze (differenziata o postnazionale).

La prima in base al principio di identità nasce dalla difesa ad oltranza dei valori comuni (nazionali ed europei). La seconda è disposta, in base al principio di tolleranza multiculturale, a riconoscere altri principi ed altri valori. Semplificando: Nel primo caso tutti devono seguire la nostra tradizione “culturale”. Nel secondo gli altri possono avere una legislazione propria e speciale “diversa da quella comune”.

Dobbiamo abbandonare una “concezione statica e cristallizzata” del multiculturalismo secondo la quale sia la religione che la cultura vengono “immobilizzate” e concepite come un bagaglio definito di dote ed accompagnamento nella migrazione. Gli immigrati vengono “chiusi” negli archetipi delle rispettive comunità, incapaci di libera autonomia e di autodeterminazione. Dovrebbe essere l’individuo “a scegliere” l’appartenenza e non l’appartenenza a “fare” l’individuo.

Se muoviamo da una concezione “dinamica ed evolutiva” del multiculturalismo (della cultura, della religione e delle tradizioni!), lo scenario cambia. Non partiamo dal senso di superiorità della nostra cultura ma dagli “elementi di civiltà” in essa presente sul valore dell’uomo e dell’autonomia personale, della donna, dell’etica, della libertà religiosa, della democrazia. L’evoluzione delle idee e dei costumi non è appannaggio “esclusivo” delle società occidentali ma di tutti i gruppi sociali di qualsiasi religione o tradizione. Cambiano la velocità e i tempi della evoluzione. Se questa mia valutazione ha una sua validità, cambia di molto il modo di guardare al multiculturalismo. Si tratta di garantire i diritti “collettivi” (costituzionali) senza trasformarli in “diritti etnici” e riconoscere “le diversità dei gruppi” e “i diritti dei singoli” come l’ampliamento dei diritti civili, a cominciare dal diritto di libertà religiosa. Secondo Francesco Paolo Casavola “la libertà individuale di appartenere a una formazione sociale e quindi a una minoranza culturale, etnica o religiosa, postula una appartenenza volontaria della persona ad un gruppo in cui liberamente la persona entra e da cui liberamente esce. Nessuno può essere obbligato a una conversione forzata e a nessuno può essere impedita una conversione volontaria”. Nella società multiculturale “aperta” il ruolo centrale è affidato al “principio di volontarietà ” che diventa uno snodo fondamentale di mediazione tra diritti collettivi e diritti individuali. I primi assicurano il rispetto delle diversità, i secondi

46 Carlo Cardia, Concordato, Europa, Multiculturalismo, in AA. VV., “La grande riforma del Concordato”, Marsilio Editori, Venezia 2006, pp. 93-108

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garantiscono la libertà e la mobilità sociale e confessionale. Con l’educazione l’evoluzione del costume può andare in direzione di una maturazione del principio di eguaglianza tra uomo e donna e dell’autonomia delle nuove generazioni. Bisogna permettere ai diversi gruppi sociali di “vivere i propri tempi di evoluzione”. Non bisogna chiudere l’identità di un individuo nell’identità del proprio gruppo di appartenenza anche perché i gruppi etnici tendono “a chiudersi” nella propria identità tradizionale.

4.3 – L’ethos “mondiale” di Hans Kung E’ arrivato il momento di tracciare una strada di sviluppo al mondo globale “multiculturale”. E’ illuminante quanto ha scritto a riguardo il grande teologo Hans Kung sull’ethos mondiale. 47 Per quanto diverse siano le religioni in generale - e le tre religioni monoteistiche in particolare - e per quanto diversi siano i loro paradigmi, ci sono proprio sul piano etico alcune costanti della umanità dell’uomo che rendono possibile la costruzione di una ponte di dialogo per lottare la disumanità storica che è ovunque diffusa. Secondo Kung in tutte le tradizioni religiose, filosofiche e ideologiche si trovano quattro semplici e fondamentali imperativi etici della umanità. Essi sono:

1. “Non uccidere”. Rispetta la vita (non torturare, non tormentare, non ferire). Impegno per una cultura della vita e della non violenza.

2. “Non rubare”. Agisci in maniera onesta e leale (non sfruttare, traviare, corrompere). Impegno per una cultura della solidarietà e di un giusto ordine economico.

3. “Non mentire”. Parla e agisci con sincerità (non ingannare, falsificare, manipolare). Impegno per una cultura della verità e della tolleranza.

4. “Non fare cattivo uso della sessualità” (non abusare, non degradare, non umiliare il partner). Cioè positivamente “rispettatevi e amatevi a vicenda” Impegno per una cultura della parità e della reciprocità di trattamento dell’uomo e della donna come partners.

Alla base di questi 4 imperativi etici ci sono due principi etici fondamentali:

La regola d’oro è: “Quello che non desideri per te, non farlo agli altri”(Confucio)

La regola di umanità è: “Ogni persona, giovane o anziana, uomo o donna, disabile o non disabile, cristiano, ebreo o mussulmano, deve essere trattata umanamente e non in maniera disumana. L’umanità e l’umano sono indivisibili”.

Per nuovo ethos mondiale si intende non un sistema alla maniera di Aristotele, di S. Tommaso di Aquino o di Kant, ma “alcuni elementari valori, alcuni criteri e comportamenti etici” che devono formare la nuova convinzione morale individuale della persona umana e della Società multiculturale. Nella società della negoziazione che caratterizza i sistemi democratici, i valori universali non negoziabili possono esistere ma devono essere “riconosciuti” nella loro valenza pubblica e nella efficacia della condotta morale degli uomini di diverse culture e di diverse religioni.

CAPITOLO V - L’AVIS verso il futuro

5.1 – Migrazioni globali e integrazioni locali Il volto dell’AVIS di oggi ha il colore “iridato” dell’uomo che pensa “globale”e ama “locale” con il cuore aperto all’unica famiglia umana e con le speranze dei poveri del mondo intero. La sua missione comprende così i valori moderni dell’uomo “individuo”, che nella sua essenza è persona, e quelli della multiculturalità post moderna che di fatto non è ancora aperta al valore della 47 cfr. Islam – passato, presente e futuro, Rizzoli 2005

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trascendenza e della solidarietà organica e strutturale mentre cerca le vie della tolleranza e del rispetto reciproco. L’AVIS pertanto può dare un senso nuovo, senza forzature ideologiche e politiche, alla solitudine dell’uomo globale di oggi, triste e disperato, ed aprire il suo cuore alla speranza della fraternità e della capacità di fare il bene con il gesto nobile della gratuità di una donazione.

Se le migrazioni sono “globali” e le integrazioni sono “locali” il ruolo dell’AVIS diventa quello di un ponte di accoglienza fraterna al di là del colore della pelle e della diversità di razza e cultura di mediazione “umanissima” e di presidio gratuito e disinteressato per la tutela della salute ad un livello di alta qualificazione tecnico-scientifica e di etica della cura e della responsabilità in coerenza con la “Carta dei valori del volontariato” che esalta la soggettività sociale, culturale e politica dell’Avis come scuola di solidarietà e di condivisione e come esperienza pratica di sussidiarietà. secondo il codice d’onore del donatore di sangue per il quale l’etica della corresponsabilità porta alla via della solidarietà empatica.

Come abbiamo visto non basta parlare di multiculturalità, bisogna precisarne le coordinate strutturali di livello etico e spirituale, politico e trascendente, interculturale e maieutico. Bisogna sciogliere alcuni nodi problematici perché la multiculturalità presenta criticità di partenza e criticità di arrivo. Sarebbe necessaria una antropologia culturale, una teologia e teleologia della multiculturalità per coniugarla con un moderno e nuovo discorso di integrazione di “genere”.

Nell’analisi della società multiculturale bisogna inserire anche la categoria della relazionalità perché l’esperienza ha dimostrato il valore anche economico di quelli che vengono definiti beni relazionali e che costituiscono l’economia civile del non profit. Fra questi la cura delle persone, il culto, la festa e l’interculturalità dell’homo ludens.

Le grandi assenti nel dibattito sociologico e politico su immigrazioni e multiculturalità “sono la promozione della donna e la più generale povertà relazionale (la nuova povertà!), quali il senso disperato di solitudine, il bisogno insoddisfatto di amare e di essere amato, l’indifferenza e la noia, la depressione o la tristezza inutile… Non lo Stato ma la Società deve diventare “terapeutica” . La missione dell’Avis è quindi quella di promuovere rapporti umani positivi, gratuiti e ricchi spiritualmente. La stima della religione propria ed altrui gioca un ruolo primario. La libertà, la tolleranza e la solidarietà, la democrazia e la nuova laicità della cittadinanza sono i principi di riferimento ermeneutici che ci possono aiutare a governare bene una società multiculturale come è quella moderna occidentale e quella italiana in particolare. Non si può “decidere” di essere o non essere una società multietnica e multiculturale perché noi siamo già “di fatto” una società di questo tipo sia che viviamo a New York che a Milano. La condizione multiculturale nella quale ci troviamo, nostro malgrado, ci dà in effetti una grande opportunità: quella riportare l’ideale democratico al suo originario significato di riconoscere il valore di ogni essere umano per la semplice ragione che esiste in una città dell’uomo. Sono questi i valori morali e politici sui quali tutti i democratici si riconoscono e si distinguono.

5.2 – L’esempio paradigmatico dell’Avis di Livorno L’iniziativa dell’AVIS comunale di Livorno è perciò “rivoluzionaria” sul piano culturale, etico e spirituale e costituisce “un serio modello di riferimento da adattare alle varie situazioni etnico-spirituali e culturali delle Avis del nostro Paese. Hanno accolto “nuovi donatori” dal pianeta “immigrati” “rivolgendosi alla comunità dei senegalesi costituita prevalentemente da giovani, molti dei quali residenti in città già da molti anni, sufficientemente integrati con il tessuto sociale e in alcuni casi motivati dall’esigenza di affermare la propria identità nella società di accoglienza anche attraverso l’atto della donazione” (cfr. Relazione Avis Livorno a cura di Maria Laura Sodino e Mariano Pavanello). Per la “questione della cittadinanza” si discute tanto di superamento dello jus

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sanguinis come fondamento a favore dello jus soli e domicilii, 48 ma forse dopo questa esperienza di Livorno bisogna parlare di jus sanguinis humanis come fondamento e via di un nuovo diritto internazionale dell’uomo cittadino del mondo globale. “Ogni uomo cerca qualcuno che lo aiuti a realizzare il suo io migliore, a capire il suo io nascosto, qualcuno che creda in lui ed esige da lui il meglio. Quando possiamo fare questo per l’altro, non dobbiamo tirarci indietro” (Kalil Gibran).

Questa è anche la funzione “maieutica” ed educativa dell’AVIS che tocca senza integrismi ideologici, partitici o religiosi la mente ed il cuore di tutti ed il suo invito alto e nobile non preclude i bisogni di radicalità e di trascendenza religiosa né di laicità, di rispetto e di tolleranza.

La realtà politica delle istituzioni in atto non favorisce un processo di integrazione profondo ed umanissimo come quello delineato.

L’Europa dedica il 70% delle risorse destinate alla voce immigrazione alle politiche di contrasto e solo il 30% alle politiche di sostegno. In Italia l’alloggio. la cura e l’accoglienza sono diventati un business con la quota concessa di 67,04 euro per ogni immigrato ospite di ogni comunità di accoglienza. L’Avis dovrebbe presentare alla Unione Europea un progetto “Salute Migranti” di tutela, cura e prevenzione a partire dalla cultura della donazione per dare un contributo specifico e alto sul piano simbolico-valoriale e concreto multiculturale sulla nuova frontiera della solidarietà internazionale.

Il Mondo è venuto da noi. Noi nelle realtà locali passeggiamo in realtà ormai a spasso nel mondo globale.

48 cfr. Giovanni Zincone, Familismo legale, Laterza 2006

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“Ciascuno sia sottomesso al suo prossimo

secondo il dono di grazia a lui concesso…

Il forte si prenda cura del debole” San Clemente I (papa)

CONCLUSIONE -Verso una nuova società del “dono” e della gratuità

Se l’AVIS ha un senso radicale non va certo cercato nella confraternita dei buoni sentimenti di un club service, pur importante, ma nella fiaccola della difesa della vita piena, ricca e dignitosa per tutti. Come diceva Papa Giovanni Paolo II si tratta di “promuovere attivamente la vita e di sviluppare determinati atteggiamenti e comportamenti al suo servizio; così facendo esercitiamo la nostra responsabilità verso le persone che ci sono affidate e manifestiamo, nei fatti e nella verità, la nostra riconoscenza a Dio per il grande dono della vita”. (Evangelium vitae, 1995, paragr. 76). Come hanno scritto gli amici dell’AVIS di Livorno “gli immigrati sono un dono, una risorsa, una necessità”.

Aiutare tutti e soprattutto, in modo preferenziale, i poveri e i bisognosi e fra questi i più poveri (gli immigrati dell’Africa e dell’Asia… dell’Est Europa, dell’America latina…) a ritrovare la fiducia nella vita e il gusto umano, laico e cristiano di vivere nella gratuità e nel servizio in ogni fase della vita, soprattutto di quella familiare. Fedeli alla tradizione laica dell’umanesimo, lasciamo che anche il Vangelo di Cristo abiti la nostra vita e la nostra speranza.

Madre Teresa di Calcutta ne “L’inno alla vita ” ha scritto una “moderna lettera a Diogneto”: La vita è bellezza, ammirala. La vita è un’opportunità, coglila. La vita è beatitudine, assaporala. La vita è un sogno, fanne una realtà. La vita è una sfida, affrontala. La vita è un dovere, compilo. La vita è un gioco, giocalo. La vita è preziosa, abbine cura. La vita è una ricchezza, conservala. La vita è amore, donala. La vita è un mistero, scoprilo. La vita è promessa, adempila. La vita è tristezza, superala. La vita è un inno, cantalo. La vita è una lotta, accettala. La vita è un’avventura, rischiala. La vita è felicità, meritala. La vita è la vita, difendila. E’ l’apologia più bella anche dell’Avis.

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SOMMARIO INTRODUZIONE - Una crisi “integrale e globale” ........................................................................... 2 CAPITOLO I - La cultura ad una dimensione .................................................................................. 3

1.1 – Le radici e i rami ..................................................................................................................... 4 1.2 - Il ritorno alla centralità della persona umana ......................................................................... 5 1.3 – Il presidio metafisico dei valori .............................................................................................. 6 - a) La dignità della persona umana ....................................................................................... 6 - b) Il diritto alla vita come difesa del futuro dell’uomo ........................................................ 7 - c) La solidarietà come virtù planetaria ................................................................................. 7

1.4 – Dentro l’individuo ................................................................................................................... 8 CAPITOLO II - Le culture in crisi di identità .................................................................................... 8

2.1 – La cultura non è statica ........................................................................................................... 9 2.2 – La teoria delle civiltà ............................................................................................................... 9 2.3 – Multiculturalismo e intercultura............................................................................................ 10 2.4 – Quo vadis “meticciato”? ....................................................................................................... 10 2.5 – L’integrazione “pluralista”? .................................................................................................. 11 2.6 – L’esperienza “pilota” di Livorno .......................................................................................... 13

CAPITOLO III - La società multiculturale e i suoi problemi ......................................................... 14 3.1 – La rivolta degli immigrati ..................................................................................................... 14 3.2 – Fratello immigrato................................................................................................................. 16 3.3 – Integrazione: affare di Stato… sociale .................................................................................. 19 3.4 – I percorsi di socializzazione .................................................................................................. 21

CAPITOLO IV - L’etica dei valori è una necessità “storica” ......................................................... 22 4.1 - Una questione di metodo ....................................................................................................... 22 4.2 – Responsabilità, cura e solidarietà .......................................................................................... 22 4.3 – L’ethos “mondiale” di Hans Kung ....................................................................................... 26

CAPITOLO V - L’AVIS verso il futuro ......................................................................................... 26 5.1 – Migrazioni globali e integrazioni locali ................................................................................ 26 5.2 – L’esempio paradigmatico dell’Avis di Livorno .................................................................... 27

CONCLUSIONE -Verso una nuova società del “dono” e della gratuità ........................................... 29 Luciano Nicastro è nato a Ragusa nel 1942, laureato in Filosofia alla Cattolica di Milano e in Sociologia all’Università degli Studi di Urbino, è stato per molti anni professore di filosofia e storia al Liceo Scientifico “E. Fermi” di Ragusa. Filosofo e sociologo di orientamento “mounieriano”, si è formato alla scuola metafisica di Gustavo Bontadini, Sofia Vanni Rovighi e Virgilio Melchiorre. Ha approfondito la sociologia della Scuola e dell’educazione con Marcello Dei e Luciano Benadusi come via per un nuovo personalismo comunitario e per un moderno riformismo “metodologico”. Docente di antropologia filosofica e di Filosofia Contemporanea presso l’Istituto Teologico Jbleo “S.Giovanni Battista” di Ragusa e docente di Sociologia delle Migrazioni alla LUMSA di Caltanissetta. Già Consigliere Nazionale delle Acli. Fa parte dell’Associazione “Antichi Studenti dell’Augustinianum” (Collegio Universitario della <Cattolica> di Milano). Ha pubblicato un libro di filosofia contemporanea su “La rivoluzione di Mounier” (Thomson, Ragusa 1974), un libro di sociologia dell’educazione politica “La politica, una passione inutile?” (Itaca, Ragusa 2001), un libro di psico-pedagogia contemporanea su “L’antropoanalisi di Piero Balestro” (Rubbettino 2004), un saggio di antropologia filosofica e cristiana “Quo vadis? - una moderna lettera a Diogneto” (CESi – CMBP, Palermo 2003, pp. 74-159), una ricerca su “Fede e laicità: tra fondamentalismo e insignificanza” (MEIC, Ragusa 2004), un libro di sociologia del lavoro “La vera nuova frontiera: Scuola, Lavoro, Welfare” (Erripa – Centro Studi “Achille Grandi”, Palermo 2004), un saggio di sociologia dell’educazione “Nascita della tecnogioventù” (Mimì Arezzo editore, Ragusa 2004), un saggio di sociologia politica “Il sentiero di Mounier” (Mimì Arezzo editore, Ragusa 2005), un saggio di filosofia politica “Il sentiero di G. La Pira”, MEIC Caltanissetta 2005, un libro di filosofia e di sociologia politica “Il socialismo <bianco> - la via di Mounier”, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, un libro di sociologia delle migrazioni “Fratello immigrato – verso una sociologia della integrazione” edi-Argo 2006, un libro di sociologia dell’educazione politica “Nuova laicità e cittadinanza spirituale, Ed. SION, Ragusa 2006, un libro di sociologia politica “Oltre il liberalismo – il sentiero di Mounier”, EdiArgo 2006,un libro di sociologia dei processi culturali “Le leve dello sviluppo” Erripa ediz.Palermo 2006 oltre a numerosi articoli.