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ETA’ DELLA CODIFICAZIONE e l’Illuminismo giuridico da G. Tarello, All‟inizio dell‟Ottocento l‟Illuminismo giuridico che aveva fra le altre cose ispirato le rivoluzioni, francese ed americana, sfocia nella cd. età delle codificazioni. Si noti che mentre in Germania l‟illuminismo giuridico di Kant restò per lo più una filosofia, in Francia le cose andarono diversamente. I rivoluzionari francesi avevano fatto tabula rasa della cultura giuridica tradizionale, chiudendo le facoltà di diritto e procedendo a riforme che spesso erano fallite perché troppo radicali. Ad esempio era stato introdotto il cd. réferé legislatif: i giudici che avessero incontrato delle lacune od oscurità nelle leggi dovevano rimettere la decisione del caso allo stesso Parlamento. L‟obiettivo era di sopprimere la discrezionalità giudiziale e specie la interpretatio e cioè l‟integrazione delle leggi da parte dei giudici. In realtà il réferé consentiva ai giudici di sbarazzarsi delle decisioni più difficili investendone il Parlamento. Fu Napoleone colui che si fece promotore della codificazione. Nel 1804 fu redatto un Codice Civile la cui ossatura è rimasta pressoché inalterata fino ad oggi (mentre la Francia ha cambiato una decina di costituzioni). Fattori che hanno contribuito alla codificazione: a) Superamento del particolarismo giuridico Per particolarismo giuridico si intendono due cose: diritto differenziato per regioni anche adiacenti (diritto romano, codice teodosiano, diritto germanico, etc..), ma anche diritto differenziato in base agli status: ad esempio il diritto penale non prevedeva fattispecie astratte per casi generali, ma piuttosto per categorie di persone (il divieto di caccia dei non gentiluomini, dei contadini, etc…) (cfr. sul punto, l‟idea di Waldron sulla dignità umana); le pene erano molto differenziate, mancanza di proporzione fra offesa e sanzione.

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ETA’ DELLA CODIFICAZIONE e l’Illuminismo giuridico

da G. Tarello,

All‟inizio dell‟Ottocento l‟Illuminismo giuridico che aveva fra le altre cose ispirato le

rivoluzioni, francese ed americana, sfocia nella cd. età delle codificazioni. Si noti che

mentre in Germania l‟illuminismo giuridico di Kant restò per lo più una filosofia, in

Francia le cose andarono diversamente. I rivoluzionari francesi avevano fatto tabula rasa

della cultura giuridica tradizionale, chiudendo le facoltà di diritto e procedendo a riforme

che spesso erano fallite perché troppo radicali. Ad esempio era stato introdotto il cd.

réferé legislatif: i giudici che avessero incontrato delle lacune od oscurità nelle leggi

dovevano rimettere la decisione del caso allo stesso Parlamento. L‟obiettivo era di

sopprimere la discrezionalità giudiziale e specie la interpretatio e cioè l‟integrazione delle

leggi da parte dei giudici. In realtà il réferé consentiva ai giudici di sbarazzarsi delle

decisioni più difficili investendone il Parlamento.

Fu Napoleone colui che si fece promotore della codificazione. Nel 1804 fu

redatto un Codice Civile la cui ossatura è rimasta pressoché inalterata fino ad oggi

(mentre la Francia ha cambiato una decina di costituzioni).

Fattori che hanno contribuito alla codificazione:

a) Superamento del particolarismo giuridico

Per particolarismo giuridico si intendono due cose: diritto differenziato per regioni anche

adiacenti (diritto romano, codice teodosiano, diritto germanico, etc..), ma anche diritto

differenziato in base agli status: ad esempio il diritto penale non prevedeva fattispecie

astratte per casi generali, ma piuttosto per categorie di persone (il divieto di caccia dei

non gentiluomini, dei contadini, etc…) (cfr. sul punto, l‟idea di Waldron sulla dignità

umana); le pene erano molto differenziate, mancanza di proporzione fra offesa e

sanzione.

La complessità del sistema giuridico nuoceva ai titolari di diritti immobiliari, al ceto dei

commercianti mentre giovava agli avvocati, ai titolari di prerogative notarili, ai giudici.

“Tale interesse, viene ad accentuare, la naturale propensione al formalismo ritualistico e il naturale

conservatorismo abitudinario che sono propri dei giuristi pratici (non invece degli studiosi di diritto o dei

teorici del diritto) di ogni tempo” (p. 33).

Al contrario la scuola di teorici del diritto (anche vicini al sovrano) sono favorevoli ad

una razionalizzazione.

b) Semplificazione del diritto e codificazione borghese.

La semplificazione del diritto richiedeva tre cose: 1) che si introducessero criteri

economici nella formulazione di regole giuridiche; 2) eliminazione delle eterointegrazioni

atte a riprodurre conflitti fra sistemi di norme (sicché in nuovo diritto doveva sostituirsi

al vecchio o meglio ai vecchi); 3) che il nuovo diritto consentisse il massimo di

semplificazione.

Gli antecedenti teorici: il giusnaturalismo germanico (Pufendorf, Thomasius diffusi per

mezzo di Barbeyrac) (codificazione Prussiana – Progetto Martini); opere giuridiche

germaniche (Leibniz e Wolff); teorie giuridico-economiche francesi (Pothier Domat).

La semplificazione prevedeva la riduzione dei molteplici soggetti giuridici ad uno:

(l‟uomo, chiunque, etc…) operazione che riuscì solo parzialmente nel codice prussiano

del 1794 e che invece riuscì nel Progetto Martini e poi nel Codice della Galizia. E

prevedeva altresì la riduzione dei predicati; la riduzione delle figure di reato, e delle

ipotesi di rapporti interpersonali. Si cominciò anche a porre un problema penale: e cioè a

differenziare il diritto penale da quello civile.

In Germania, la lotta condotta dalla Scuola Storica contro la codificazione era anche una

lotta contro un ceto di giuristi tecnici e politicamente irresponsabili.

La codificazione delle procedure fu possibile solo quando si percepì la giurisdizione

come una funzione separata e distinta dalle altre funzioni politiche.

Il codice napoleonico presentava dei caratteri moderni, sanciti dalle conquiste

rivoluzionarie: ad es. il soggetto unico di diritto e una disciplina della proprietà quale

diritto di godere e di disporre delle cose nella maniera più assoluta (art. 544). Dall‟altro il

codice civile concepisce i rapporti familiari e di lavoro alla stregua di quelli statali, come

subordinazione dei familiari al capo famiglia e dei lavoratori al capo dell‟impresa.

Per sfuggire al rischio che il codice venisse manipolato dal ceto dei giuristi, Napoleone

aveva provveduto a riorganizzare gli studi giuridici nella linea adottata dai monarchi

assoluti. La riforma napoleonica infatti mira a conferire all‟università di diritto un

carattere eminentemente tecnico: le facoltà giuridiche dovevano trasformarsi in scuole

professionali, dalle quali non solo restavano escluse le materie estranee al diritto positivo,

come il diritto naturale, ma dove il diritto positivo andava insegnato in modo

catechistico – e nozionistico: seguendo pedissequamente l‟ordine dei codici.

FRANCIA: SCUOLA DELL’ESEGESI

In questo contesto nasce la cd. SCUOLA DELLE ESEGESI (Mourlon,

Demolombe, Troplong): che praticava un metodo esegetico che, nel privilegiare

rigidamente l‟interpretazione logico – grammaticale dei singoli enunciati normativi,

venerava in modo feticistico i testi di legge, di per sé considerati sempre sufficienti a

prevedere e regolare tutti i casi possibili dell‟esperienza concreta del diritto. In tale

prospettiva l‟interpretazione è mera ricognizione e riproduzione di un diritto legislativo

preesistente. Si diffuse lo stile sillogistico delle sentenze, invocato prima da Montesquieu

e Beccaria, e poi da introdotto dal ricorso di legittimità di fronte alla Corte di Cassazione.

Il diritto naturale non viene negato, ma ne viene negata rilevanza pratica (Mourlon 1852).

Le opere della Scuola dell‟Esegesi si risolvono in parafrasi del codice napoleonico: sia

che assumano la forma del commentario, sia che assumano la forma del trattato. Gli

aderenti alla scuola dell‟Esegesi prediligono l’interpretazione letterale ed in caso di

dubbio ricorrono all‟argomento interpretativo cd. psicologico, consistente nell‟attribuire

al testo il significato corrispondente all‟intenzione del legislatore, accertata sulla base dei

lavori preparatori. Il massimo dell‟audacia interpretativa viene raggiunto con la tecnica

del combinato disposto. Ciò con l‟interpretazione di una norma alla luce non di uno ma

di due articoli.

L‟art. 4 del titolo preliminare del codice napoleonico prevedeva che “il giudice che

ricuserà di giudicare allegando il silenzio, l‟oscurità o l‟insufficienza della legge, dovrà

risponderne come colpevole di denegata giustizia”.

L‟intento dei redattori era comunque di autorizzare il giudice a trovare una soluzione:

non solo all‟interno del codice (auto integrazione) ma anche all‟esterno (etero integrazione).

All‟interno delle facoltà di legge tuttavia si affermò il principio che non si sarebbe potuto

fare ricorso al diritto universale o all‟equità o ai principi di diritto naturale, ma che la

soluzione andava ricercata esclusivamente all‟interno del codice.

Si afferma dunque il dogma della completezza dell‟ordinamento giuridico.

GERMANIA: SCUOLA STORICA DEL DIRITTO

In Germania, le cose vanno diversamente. Alla Scuola delle Esegesi si contrappone la

Scuola Storica del diritto che invece sostiene una posizione anti-legislativa ed assegna

alla scienza giuridica – o meglio alla dogmatica – il compito di mettere ordine nel

materiale giuridico. Savigny e Puchta espressione di queste posizioni ritengono che dal

materiale giuridico può essere desunto lo spirito del popolo. Sicché mentre nella Francia

illuminista il principio democratico va di pari passo a quello della separazione dei poteri e

della soggezione del giudice alla legge, nella Germania di Savigny l‟indipendenza del ceto

dei giuristi dalla politica è la migliore garanzia di decisioni giuste e corrette. E‟ verosimile

che l‟ideologia della Scuola Storica sia stata influenza anche da sentimenti anti-francesi.

Carl von Savigny (1779-1861):

Savigny fu giurista ed in particolare culture del diritto romano-civile, fondatore di quella

Scuola Storica del diritto e ispiratore della corrente di studi civilistici nota come

Pandettistica. Savigny fu esponente di punta della cultura romantica ed elaborò una

concezione storicistica ed evoluzionistica del diritto in due grandi opere: un agile

opuscolo contro la codificazione e un poderoso trattato di diritto romano-civile.

1) La vocazione del nostro tempo per la legislazione e la giurisprudenza

(1814): Con questo opuscolo Savigny scende in campo contro la proposta

avanzata da un altro grande giurista Anthon Justus Thibaut (1772-1840) il

quale in uno scritto intitolato La necessità di un diritto generale per la Germania

(1814) aveva proposta la redazione di un codice civile comune a tutta la

Germania che favorisse il processo di unificazione del paese in un unico stato

(nazionalismo tedesco). Thibaut aveva deplorato lo stato di confusione in cui

versava il diritto civile tedesco e prospettava la codificazione come antidoto

non solo alla caoticità ma anche alla natura obsoleta del metodo delle pandette

(in Germania le glosse del Corpus Iuris erano ancora il materiale da cui si

muoveva per la soluzione di casi concreti). La codificazione avrebbe dovuto

raccogliere il plauso dell‟opinione pubblica tedesca in quanto solleticava l‟idea

di una raccolta di leggi che rappresentasse lo spirito del popolo tedesco. E

tuttavia l‟opinione pubblica tedesca dei primi dell‟Ottocento era composta per

lo più da professori universitari: ceto di funzionari che specialmente dopo la

sconfitta della Prussia ad Jena ad opera di Napoleone era passato da un

illuminismo tiepido espresso nella monarchia illuminata a un romanticismo

nazionalistico e antifrancese. Dopo l‟avventura napoleonica addirittura molti

stati tedeschi avevano adottato il codice napoleonico. Ed in effetti la cultura

tedesca non era ostile alla codificazione: in quanto anche l‟idea romanistica del

diritto era impregnata di una concezione paralegislativa in cui il codice di

partenza era un‟opera razionale. Già nella stessa Prussia di Savigny vigeva da

più di vent‟anni il Diritto territoriale generale, primo dei tre grandi codici

continentali. Sicché Savigny per opporsi al progetto di Thibaut (e della Scuola

filosofica cui costui apparteneva) doveva dapprima screditare l‟idea della

codificazione tout court. Poteva sembrare un‟impresa disperata vista la

dimestichezza dei tedeschi ad un sistema semi-codificato. E tuttavia l‟opera di

Savigny riuscì tanto che la pubblicazione del codice civile tedesco (BGB) fu

ritardata fino al 1900. La tesi di Savigny era la seguente: il diritto – proprio

come la lingua o la cultura – nascerebbe da ciò che i romantici chiamavano lo

spirito del popolo, o meglio della nazione (Volksgeist).

L‟evoluzione del diritto a partire dallo spirito del popolo avverrebbe in tre fasi:

a) Nella prima fase, caratteristica delle culture orali, nelle quali non si è ancora

sviluppata la divisione del lavoro e non si è quindi ancora specializzato un ceto

di giuristi – il diritto prodotto dallo spirito del popolo verrà documentato solo

dalle consuetudini spontaneamente osservate dai consociati: si tratterebbe di

un diritto essenzialmente consuetudinario.

b) In una seconda fase, caratteristica di culture che conoscono la scrittura e la

divisione del lavoro e nelle quali si è specializzato un ceto di giuristi il diritto

verrebbe rielaborato dagli stessi giuristi e sarebbe diritto scientifico. Savigny

chiama infatti la dottrina scienza giuridica: ciò che in seguito provocherà la

discussione sulla scientificità della giurisprudenza.

c) In una terza fase, lo stesso diritto, primo documentato dalle consuetudini e

poi rielaborato dalla dottrina e dalla scienza giuridica, verrebbe riformulato in

leggi e codici e diventerebbe legislativo. Questa fase sarebbe, tuttavia, una

fase di decadenza: la vera fioritura del diritto, per Savigny, si ha quando esso

viene elaborato da giuristi. Il diritto romano si era evoluto secondo questo

schema: mores maiorum (le consuetudini dei padri); iurisprudentia (la fioritura della

dottrina) e infine la fase di decadenza rappresentata dal Corpus Iuris civili – di

cui non a caso si utilizzavano il Digesto o Pandectae (raccolta di frammenti di

giurisprudenza).

La concezione di Savigny è giuspositivista ed giusevoluzionista: ma

l‟evoluzione non è impressa da alcuna intenzione del legislatore. Il diritto si

evolve per una sua dinamica interna che tuttavia va colta dal giurista. Sicché

mentre l‟Inghilterra assegna un ruolo centrale al giudice (Lord Coke,

Blackstone), la Francia al legislatore (Codice Napoleone, la Scuola

dell‟Esegesi), la Germania di Savigny prospetta la centralità del giurista e

ribadisce l‟autonomia del diritto dalla politica (tema oggi ripreso dai

necostitutionalisti).

Nella sua seconda grande opera: Sistema del diritto romano attuale (1840-49)

Savigny assume un atteggiamento più magnanimo nei confronti della Scuola

Filosofica. Si noti che Savigny divenne, per ironia della sorte, ministro della

legislazione del governo Prussiano.

L‟elaborazione dottrinale principale riguarda il concetto di Sistema: il termine

latino nel corso del Seicento aveva designato le diverse sistematiche, o

sistemazioni dottrinali del diritto: l‟ordine razionale che al diritto veniva

attribuito da parte dei giuristi e dei filosofi. In questa concezione il sistema,

chiamato sistema esterno, il diritto non è sistematico, ma la sistematicità viene ad

esso attribuito dai giuristi. La posizione di Savigny si discosta gradualmente da

questa posizione e Savigny elabora l‟idea del sistema interno: L‟ordine razionale e

sistematico del diritto comincia ad essere attribuito al diritto in se stesso. Nel

Sistema del diritto romano attuale si trovano due argomenti per l‟intrinseca

sistematicità del diritto: logico e organico. In base agli argomenti di tipo

logico, il diritto è un sistema di concetti o di proposizioni dottrinali; in base

agli argomenti di tipo organico, il diritto è un sistema di comportamenti e di

rapporti sociali. Fra i due sistemi vi è un nesso assai stresso: l‟ordine

superficiale dei concetti è solo il riflesso dell‟ordine profondo dei

comportamenti.

Queste le tappe obbligate del procedimento interpretativo:

a) Elemento grammaticale, che considera le parole del testo da interpretare

come il mezzo necessario per raggiungere l‟intenzione della legge

b) L‟elemento logico

c) L‟elemento storico

d) L‟elemento sistematico.

L‟enfasi sulla sistematicità del diritto verrà poi posto dalla Pandettistica

successiva a Savigny – che i movimenti anti-formalisti ribattezzeranno

giurisprudenza dei concetti. Né la Pandettistica, né la teoria generale

torneranno al sistema esterno dei giusrazionalisti: essi daranno per scontata la

sistematicità interna del diritto di Savigny.

A partire da Savigny il diritto verrà concepito come sistema, unitario,

coerente, completo: unità, coerenza e completezza che potrebbero

essere intrinsecamente colte né dal legislatore, né dal giudice, ma solo

dottrina giuridica.

Savigny prospetta un rapporto fra diritto e politica in termini opposti rispetto

agli Esegeti francesi e all‟utilitarismo inglese. Questi due ultimi movimenti

predicavano la subordinazione del diritto alla politica . sul presupposto che la

politica fosse più razionale e lungimirante del ceto dei giuristi incancrenito dai

propri privilegi e imbrigliato nelle proprie logiche oscure (guadagnare di più,

rendere la legge più oscura di quella che è, etc…), Savigny prospetta un

modello opposto che è quello della autonomia del diritto della politica:

modello già caro alla tradizione medioevale transitata nella tradizione di

common law di cui Lord Coke e Blackstone erano espressione. Il tema verrà

ripreso oggi dai neocostituzionalisti.

Si noti che sia la Scuola dell‟Esegesi che la Scuola Storia insistono sul metodo

interpretativo: metodo tipicamente giuridico. L’interpretazione è innanzitutto una

tecnica.

Il Metodo logico-gramaticale è quello prediletto dalla Scuola dell‟Esegesi. Si tratta di un

metodo che si articola nell‟interpretazione letterale e al più nella ricostruzione della

norma a partire dal combinato disposto, e che declina la decisione giudiziale in termini

di sillogismo logico deduttivo. La logica formale è il paradigma a cui questo modello si

ispira.

I movimenti formalisti continuarono a riferirsi a questo modello interpretativo,

ricostruendo l‟attività giudiziale come un‟attività ricognitiva e non creativa e, da un punto

di vista teorico politico, ribadendo la sottomissione del giudice alla legge.

PANDETTISTICA

Nel suo sviluppo la storia storica andò accentuando sempre di più l‟aspetto sistematico,

dogmatico e scientifico, fino a sfociare nella Pandettistica e nella Giurisprudenza dei

Concetti. Il risultato fu il formalismo giuridico e la tendenza dogmatizzante della scienza

del diritto, l‟allontanamento da una visione propriamente storica e il distacco fra teoria e

pratica giuridica.

Il compito dello scienziato del diritto consiste adesso nel reperimento di principi guida

da cui si deduce l‟intero sistema giuridico. Colui che sviluppò queste intuizioni – già

presenti in Savigny – fu F. Puchta. Il Pandettista tedesco, oltre a continuare l‟opera di

formalizzazione delle Pandette, avanzò la convinzione che il giurista crea diritto valido: il

diritto scaturito dalla scienza si pone al pari livello del diritto scaturito dalla coscienza

popolare (per via consuetudinaria o per via legislativa).

Sia la Scuola delle Esegesi che la Scuola Storica finiscono per riconoscere scientificità

piena alla scienza giuridica. Entrambe le scuole vedono nel diritto un sistema chiuso,

formale, conoscibile e razionale.

Dal concetto di diritto così delineato nel corso dell‟Ottocento si muoveranno due

orientamenti contrapposti.

Da un lato il formalismo che culminerà con Hans Kelsen e dall‟altro l‟antiformalismo, la

scuola del diritto libero, la giurisprudenza degli interessi di Jhering e la teoria marxista del

diritto.

LEZIONE VII

ANTIFORMALISMO

Alla fine dell‟Ottocento il formalismo subisce attacchi da più fronti.

In Francia: La Scuola Scientifica critica l‟atteggiamento deferente verso i codici della

Scuola dell‟Esegesi. Il principale esponente di questa scuola, François Geny (1861-1959)

critica il dogma della completezza dell‟ordinamento giuridico e sostiene che le lacune

dovrebbero venire colmate non solo per auto integrazione ma anche per etero

integrazione, ossia tramite una libera ricerca scientifica che utilizza la nozione feconda

della natura delle cose. Nella sua opera di quattro volumi Scienza e tecnica in diritto privato

positivo (1914-1924), Geny può affermare le sue tesi, fra cui quella che il giudice può

colmare le lacune. A Geny peraltro interessa la libera ricerca del diritto da parte della

dottrina e a questo fine distingue due aspetti o parti del diritto: il diritto dato, oggetto

della scienza giuridica, e il costruito, oggetto della tecnica giuridica. Il diritto costruito o

legislativo o positivo, rappresenterebbe l‟aspetto superficiale del fenomeno giuridico: il

diritto dato o naturale sarebbe desumibile dall‟osservazione dei fenomeni sociali e ne

costituirebbe il substrato profondo. Quando il diritto positivo o costruito presenta delle

lacune si può ricorrere al diritto dato o naturale: in questo caso il giudice funziona come

un sociologo.

In Germania

a) Rudolph Jhering (da F. Viola, Jhering e la conoscenza del diritto)

Solitamente il pensiero di Jhering viene distinto in due fasi. In una prima fase

prevale l‟aspetto sistematico, nella seconda l‟aspetto teleologico funzionale.

Mentre nella prima fase (lo Spirito del Diritto Romano) Jhering cerca di studiare la

struttura interna del diritto per coglierne le leggi interne al sistema, nella seconda

fase (Lo Scopo del Diritto) il senso del diritto viene dall‟esterno: o dall‟interesse del

singolo ovvero dagli scopi della comunità sociale.

Nella prima fase Jhering ricalca le orme di Savigny di cui vuole continuare l‟opera.

La giurisprudenza si distingue in due livelli: una giurisprudenza inferiore – che

consiste nel primo gradino dell‟attività di conoscenza e cioè nell‟interpretazione –

ed una giurisprudenza superiore, che consiste nell‟elaborazione dei concetti

giuridici. Nella seconda fase, Jhering abbandona il concettualismo e si distanzia da

un‟idea di scienza giuridica totalmente slegata dalla realtà. Il suo modo di

ragionare è pressappoco il seguente. Se la essenza della giuridicità sta nella norma

e se dietro la norma sta un atto di volontà, allora non si può comprendere la

norma se non si comprende l‟atto di volontà. E non si comprende la volontà se

non si comprende lo scopo – che tale volontà si prefigge. L'interesse, fondato

sull'egoismo (istinto di conservazione), è il motore della volontà, che però,

operando una scelta tra i diversi interessi, agisce sempre per uno scopo.

L'interesse concreto (quello che prevale) coincide dunque con lo scopo. « La

natura stessa ha mostrato all'uomo la strada che egli deve percorrere per portare

un'altra persona a perseguire i suoi stessi scopi: è il collegamento del proprio

scopo con l'interesse altrui. Su questa formula riposa tutta la nostra vita umana, lo

stato e la società, il commercio e i traffici ». L'interesse è quindi lo scopo soggettivo,

che diviene oggettivo solo in quanto coincide con lo scopo comune, per cui ognuno,

pur agendo per il proprio vantaggio, persegue al contempo lo scopo generale . Ciò

significa che Jhering intende lo scopo in un duplice senso: dal punto di vista

soggettivo lo scopo non è altro che l'interesse prevalente cioè quello vincente in

seguito ad una valutazione degli interessi contrastanti, dal punto di vista oggettivo

lo scopo è il risultato di una valutazione non già tra la pluralità di interessi di un

singolo individuo, ma degli interessi di una pluralità di individui accomunati in

vista della realizzazione dei loro bisogni fondamentali. Nella categoria degli scopi

comuni i più importanti, ai fini della nostra materia, sono gli scopi organizzati, cioè

« scopi per il cui perseguimento esiste un apparato fondato sull'unione salda e

istituzionalizzata di chi persegue il medesimo scopo». «L'organizzazione dello

scopo raggiunge il suo punto culminante nello stato ». Si tratta in questo caso di

un'organizzazione fondata sull'utilizzazione del diritto, cioè del sistema della

coercizione, che si affianca al meccanismo della ricompensa con cui si governa la

vita economica. La ricompensa e la coercizione sono le due « molle » egoistiche

della meccanica sociale. « L'apparato, cui lo stato ricorre per la realizzazione dei

suoi scopi, coincide con quello cui la natura si serve per i propri scopi ». Jhering

non afferma dunque che in ciò lo stato imita la natura, ma che l'apparato statale è

lo stesso apparato naturale approntato per governare gli scopi sociali. Perciò il

positivismo giuridico di Jherìng è strettamente dipendente dal suo positivismo

filosofico e scientifico. Il diritto cioè non è solo una costruzione artificiale ai fini

dell'uso e dell'esercizio del potere, ma è un apparato messo in movimento dalla

necessità naturale di conservare la società realizzando gli scopi sociali. Per scopi „

organizzati „ s'intende non solo un sistema di fini, ma anche un sistema di mezzi

per la realizzazione dei medesimi. Anzi un sistema di scopi è tanto più organizzato

o istituzionalizzato quanto più accurata è la predisposizione dei mezzi atti a

realizzarli. Tuttavia è l'importanza, cioè la forte pressione, degli scopi che genera e

produce i mezzi e non viceversa. Jhering rifiuta un concetto di diritto che si limiti

ai mezzi con cui il potere regola se stesso ed escluda i fini della stessa

regolamentazione. Il diritto non può costruirsi se non in riferimento ad un fine e

quindi non ha autonomia rispetto ad esso.

In Italia: SANTI ROMANO E IL DIRITTO COME ISTITUZIONE

Secondo Santi Romano (1857-1947) l‟ordinamento giuridico non deve essere raffigurato

al modo kelseniano come sistema di norme e neppure come insieme di rapporti giuridici,

cioè delle relazioni intersoggettive. Esso non è altro che la società stessa in quanto unità

concreta distinta dalle sue componenti. Ubi societas ibi ius. Perché vi sia la società è

indispensabile che vi sia un‟organizzazione interna. E questa organizzazione è il diritto.

Ogni istituzione ha i propri scopi o obiettivi, ma questi obiettivi non caratterizzano

l‟esistenza di un ordinamento giuridico. Il diritto può avere qualsiasi contenuto.

Insomma, Romano intende per ordinamento una società organizzata, l‟insieme di norme

che la organizzano e le consentono di funzionare, nonché l‟esito di tale organizzazione,

ossia l‟ordine e l‟unità conferiti ala società. Un sistema, quello romaniano in cui non si dà

autonoma rilevanza dei valori e degli obiettivi propri delle istituzioni, ma esistono solo

atti di riconoscimento e di osservanza grazie a quali è possibile convalidare un diritto che

si manifesta originariamente solo in istituzioni.

Il Realismo giuridico

ALF ROSS E IL REALISMO SCANDINAVO

Alf Ross (1899-1979) studia a Copenaghen e poi in Austria dove fu allievo di Hans

Kelsen. Da Kelsen eredita l‟approccio analitico, e l‟idea normativista. Tuttavia Alf Ross

assume un atteggiamento quasi opposto a quello di Kelsen. Mentre per Kelsen le norme

sono asserti di validità (vi è dunque un‟enorme differenza fra validità di una norma e la

sua efficacia), Ross recupera la dimensione puramente fattuale del diritto e della norma.

Il realismo giuridico intanto concepisce il diritto come un fenomeno psichico collettivo,

un insieme di credenze sociali che per quanto importanti ed influenti sono pur sempre

frutto di immaginazione, pur razionalmente giustificato. L'apporto particolare di Ross

deriva probabilmente dall'essere stato allievo di Kelsen e di essere perciò particolarmente

attento alle moderne teorie di analisi del linguaggio: egli, a differenza di Kelsen, nega che

le norme siano asserzioni. Fonda la validità della norma sull'esistenza, intesa come

efficacia. « Un sistema di norme è valido, se esso è idoneo a fungere da schema di

interpretazione di un corrispondente insieme di azioni sociali» (Ross, on Law and Justice,

1958, §11). L‟obiettivo di Ross è quello di sgombrare il campo della scienza giuridica da

ogni metafisica – anche di tipo kantiano -. Ross ad esempio ritiene che la norma

fondamentale di Kelsen (il presupposto della scienza) sia una pura fantasia. Che anche il

concetto di scienza normativa sia un controsenso. L‟unica vera scienza è la scienza della

natura. Quella che studia i fatti e li sottopone – ove possibile – ad un criterio di

verificabilità. Vero o falso è il criterio della scienza giuridica di Ross e non valido o non

valido.

Dire che una norma esiste è fare una previsione su ciò che faranno i giudici in

una certa situazione: se si può ragionevolmente prevedere che i giudici

sanzioneranno l’uccisione di un uomo ad opera di un altro uomo allora la

condotta oggetto di condanna può essere definita omicidio e si può desumere

l’esistenza di una norma che vieta l’omicidio.

Il realismo giuridico rientra nelle teorie predittive dell‟obbligo. Lo scienziato giuridico

non fa un‟operazione tanto diversa dallo scienziato sociale: egli si limita a guardare come

la società reagisce di fronte a certi fatti.

Leggermente diverso dal realismo scandinavo è il realismo americano che si sviluppa in

America già a partire dalla fine dell‟Ottocento: in particolare, un riferimento

imprescindibile è Roscoe Pound (1870-1964), benché egli non impieghi ancora

l‟espressione “realismo giuridico”. Egli distingue tra “law in action” e “law in books”: la

prima corrisponde al diritto in azione, ossia al diritto come fatto, contrapposto a quello

astratto delle dotte trattazioni (appunto, il diritto nei libri, “law in books”). Pound

articola bene un fenomeno americano assai diffuso a quel tempo: la “rivolta” contro il

formalismo giuspositivistico, rivolta che negli Stati Uniti trova un ambiente

particolarmente accogliente anche grazie al “pragmatismo” di James e di Dewey.

Alle posizioni di Roscoe fa eco Oliver Wendell Holmes (1841-1935), il quale in una

ricca serie di scritti ha reso popolare l‟idea secondo la quale è inutile cercare una

sofisticata definizione del diritto: secondo Holmes, diritto sono “le predizioni di ciò che i

tribunali faranno”; come è stato detto, si tratta di una definizione che si pone dal punto

di vista degli avvocati.

Nell‟opera Diritto e mente moderna, Jerome Frank (1889-1957) radicalizza la posizione di

Holmes asserendo che il diritto c‟è solo dopo le decisioni delle corti; prima che tali

decisioni vengano prese, ci sono soltanto congetture e filosofie (nel senso deteriore del

termine). Questo per Frank significa anche che si può prevedere ben poco delle future

decisioni delle corti (in opposizione a quanto credeva Homes), giacché sono troppi i

fattori contingenti che possono decidere sulla produzione del diritto.

Col realismo giuridico ci troviamo dinanzi a una concezione giudiziaria del diritto che si

pone da punto di vista di quella che è stata detta “litigation society” (la “società delle

controversie”): i realisti giuridici hanno chiaramente visto una tendenza che si è

concretizzata, nella misura in cui oggi il diritto è giudiziario ben più di quanto non lo

fosse in tempi passati. In questi autori americani, è fortissima la polemica contro il

“mito” della certezza del diritto, mito che era fondante per la coscienza giuridica europea

tradizionale. Hermann Kantoröwicz (1877-1940) ha acutamente messo in luce come il

realismo giuridico abbia a che fare con insiemi di fatti e come per esso la giurisprudenza

sia scienza non razionale, bensì empirica.

LEZIONE IX

Inghilterra: nascita della General Jurisprudence: l’imperativismo.

i) Bentham

ii) Austin

I. Imperativismo :

L‟Imperativismo è quella teoria del diritto che asserisce CHE IL DIRITTO è UN

INSIME DI COMANDI O ORDINI COATTIVI:

In particolare:

(a) che il diritto è un artefatto umano;

(b) che la vera essenza del diritto è l’espressione di un atto di volontà di un

superiore nei confronti di un subordinato, e dunque che il DIRITTO E’

COMANDO;

(c) che il comando è capace di condizionare i comportamenti dei destinatari

perché esso è accompagnato dalla minaccia di una sanzione;

(d) che dalla nozione di comando dipende, a sua volta, la nozione di obbligo, o

dovere (duty)1. Un dovere è "un atto che sia l'oggetto di un comando, reale

o fittizio". Più precisamente, la nozione di dovere (o obbligo) dipende, per

un verso, dalla nozione di comando, per altro verso da un'ulteriore nozione,

la nozione di "punizione” (punishment)2. Il significato di 'dovere’ (duty),

"nell'accezione originaria, ordinaria, e propria del termine", è reso nel

modo seguente: "ciò che è mio dovere fare è ciò per cui sono esposto a,

suscettibile di (liable to) una punizione, secondo una legge, nel caso che

non lo faccia"3.

1 Bentham tratta i due termini 'obbligo' (obligation) e 'dovere' (duty) come sinonimi.

2 Bentham, Il Frammento Politico, p. 108.

3 Ivi, p. 109.

Due sono gli esponenti dell‟imperativismo di cui si tratterà: JEREMY BENTHAM E

JOHN AUSTIN

Jeremy Bentham:

Nasce nel 1748 e nel 1755 entra nella scuola di Westminster e nel 1760 nell‟Università di

Oxford dove segue le lezioni di William Blackstone.

Fina dagli anni ‟70 il suo obiettivo è di confutare le tesi costituzionali di Blackstone – che

vedono nelle leggi consuetudinarie inglesi la più profonda garanzia di libertà – per

opporvi una scienza del diritto che sia riformata e per così dire più scientifica.

Bentham contesta sia le tesi contrattualiste già diffusesi a partire dal 1600 in Inghilterra

(specie ad opera dei puritani, dei levellers ma anche di Hobbes e Locke) sia lo storicismo

alla Blackstone.

A queste due concezioni – che in qualche modo fanno da presupposto teorico della

restaurazione che fa seguito alla rivoluzione gloriosa – Bentham oppone il desiderio

illuministico di chiarezza e razionalità. Per questo vede in Napoleone un eroe

contrariamente ai suoi compatrioti (lo definisce il Cromwell francese).

Dopo la rivoluzione francese l‟idea di una casta di magistrati e avvocati col monopolio

della conoscenza legale si erode di fronte a richieste di maggiore partecipazione

popolare, ma anche di razionalità e chiarezza. In Francia il coro è cospicuo. Da

Montesquieu che plaude all‟idea di poche leggi scritte, chiare e conoscibili, a Voltaire, e

poi alla scuola dell‟Esegesi che si afferma sotto il periodo napoleonico.

Bentham, inviato come osservatore all‟assemblea costituente francese, recepisce

quell‟aria di novità che conferma le sue intuizioni già in qualche modo elaborate a partire

dagli anni „70.

La sua teoria politica è riformista. Egli propone di modificare la base elettore rendendo il

voto universale e segreto e di rendere il parlamento un organo più rappresentativo.

La teoria morale è quella dell‟utilità. Il presupposto antropologico di Bentham è che

l‟uomo sia condizionato da due spinte: la ricerca del piacere e l‟evitamento del dolore

Così recita il capitolo 1, (il principio di utilità) all‟Introduction to the Principles of Morals and

Legislation (1781).

“La natura ha posto l’umanità sotto il governo di due padroni sovrani, il dolore ed il piacere. Soltanto

questi ci indicano cosa noi dobbiamo fare, e come scegliere ciò che dobbiamo fare. Sia il criterio del giusto

e dell’ingiusto, sia anche la catena di cause ed effetti, sono legate a quei troni [del dolore e del piacere].

Piacere e dolore governano tutto ciò che facciamo, ciò che diciamo e ciò che pensiamo. Ogni sforzo che

poniamo per contrastare tale soggezione non fa che confermarla. In A parole si cerca di sottrarsi a tale

imperio, ma in realtà vi si rimane soggiogati. Il principio di utilità riconosce tale soggezione e la pone a

base del sistema il cui oggetto è quello di costruire una fabbrica di felicità con le mani della ragione e del

diritto. I sistemi che provano a porre in discussione questo assunto …. utilizzano l’arbitrio anzichè la

ragione, il buio anzichè la luce.”

A livello politico il principio di utilità va esteso alla comunità: esso consiste nel principio

della massima utilità per il maggior numero. Il buon governo è dunque quel governo che

massimizza la felicità – persegue la massima felicità per il maggior numero di individui.

Questo tuttavia implica che talvolta i diritti di qualcuno possono essere calpestati di

fronte alla utilità complessiva. Non è un caso che Bentham si opponeva non soltanto alle

teorie politiche contrattualiste (quelle che vedevano nel contratto la fondazione della

società politica), ma anche alle teorie dei diritti naturali. I diritti naturali erano da lui

definiti nonsense on stils, non sensi sui trampoli.

Il fine di una comunità politica è la felicità dei governati.

Capitolo VII: Delle azioni umane in generale

I. Il compito del governo è di promuovere la felicità della società attraverso le punizioni e le

remunerazioni. Quella parte della politica che consiste più che altro di punizioni è più specificamente

soggetta al diritto penale…… In cosa consista la felicità l’abbiamo già visto: nel godere dei piacere e

nell’evitare dolori”

La Teoria del Diritto di Bentham.

1. La legge come comando

Se l‟obiettivo fondamentale di Bentham era quello di svecchiare il sistema giuridico

inglese mettendo in discussione anche il valore fino ad allora indiscusso della common law

la sua teoria del diritto in qualche modo risente di questo approccio illuminista.

Il diritto non è un insieme di stratificazioni consolidate nel tempo di cui la gente non ha

alcuna conoscenza; non è una materia arcana per iniziati. La vera essenza del diritto è il

comando, e cioè un‟“espressione di volontà" ('qualcuno esprime la propria volontà').

Un'espressione di volontà, chiarisce Bentham, può essere "esplicita" (nel caso in cui sia

"veicolata dai segni chiamati parole"), oppure "tacita" (nel caso in cui sia "veicolata da

qualsiasi altro segno"). Sulla base della nozione di espressione di volontà, Bentham

definisce due ulteriori nozioni, la nozione di comando e di quasi-comando (o comando

"fittizio")4. Un comando è, in generale, "un'espressione esplicita della volontà di un

superiore". Si ha invece un quasi-comando "quando si assume che sia stata emessa

un'espressione tacita della volontà di un superiore". Una "legge” (Law) è, per l'appunto,

un comando: è l'espressione di una volontà, "quel tipo di espressione della volontà che ha il

4 Ibidem.

nome di comando"5. Più precisamente, "il diritto statuito (statute law) è composto di

comandi, il common law è composto di quasi-comandi"6.

La nozione di OBBLIGO è strettamente legata alla nozione di comando. L‟obbligo è per

Bentham UN ATTO CHE SIA L’OGGETTO DI UN COMANDO, REALE O

FITTIZIO.

Bentham distingue "tre tipi di doveri": politico (o giuridico), morale e religioso. La

distinzione si fonda sulla distinzione fra tre tipi di sanzioni, o punizioni, mediante le quali

essi sono fatti valere. Rispettivamente, punizioni inflitte, o comunque minacciate, da

persone "specificate e prestabilite – superiori politici"; punizioni che ci si aspetta "ad

opera di una singola persona prestabilita – l'Essere Supremo"; e, nel caso

dell'obbligo morale, conseguenze spiacevoli derivanti dal malumore della comunità, ossia

di quelle persone – non specificate, né prestabilite – con le quali il violatore

dell'obbligo si trova a entrare in contatto7.

Per spiegare la nozione di obbligo, Bentham muove da due presupposti: uno è di tipo

psicologico, che attesta che l‟essere umano è spinto verso il piacere e dal desiderio di

evitare il male. Il diritto funziona attivando questi meccanismi motivazionali. Siccome il

comando è accompagnato da sanzioni negative (pene) o positive (premiali), le azioni

umane sono dovute nella misura in cui si muovono nella direzione di evitare la pena e di

perseguire il piacere (il premio).

Il secondo presupposto da cui muove Bentham però non è puramente emotivo e

psicologico. Infatti per agire in un certo modo (nel modo richiesto dalla legge e dunque

dal comando), il destinatario dell‟obbligo deve compiere una previsione: deve prevedere

che qualora trasgredisca la legge verosimilmente incorrerà in una sanzione.

5 Ivi, p. 91.

6 Ivi, p. 41.

7 Ivi, pp. 109-10.

In sintesi l‟obbligo giuridico discende da due caratteristiche: la capacità del destinatario

dell‟obbligo di prevedere che una sanzione verrà inflitta qualora il comando venga

trasgredito combinata al desiderio tipico di ogni essere umano di evitare il dolore (che è

implicito nella punizione).

Quella fornita da Bentham è dunque un'esplicazione in termini predittivi della nozione di

obbligo. Chi asserisce che un certo tipo di comportamento costituisce un dovere,

chiarisce Bentham, asserisce "l'esistenza attuale o probabile di un evento esterno, ossia di

una punizione derivante dall'una o l'altra di queste fonti in conseguenza di un

inadempimento del dovere: un evento estrinseco sia rispetto alla condotta di colui del

quale si parla sia rispetto ai sentimenti di chi parla, e distinto da entrambi". E' solo il

riferimento a questo evento esterno, la cui esistenza viene prospettata come attuale o

probabile, che conferisce ad asserti del tipo in questione – asserti della forma: 'Tizio ha il

dovere, o l'obbligo (giuridico, religioso, morale) di fare A' – un significato oggettivo: solo

se inteso come la probabilità che un certo evento abbia luogo, o come implicante tale

probabilità, il dovere di comportarsi in un certo modo è un che di obiettivamente

sussistente. Se chi asserisce che Tizio ha un obbligo, o un dovere, si rifiuta di concedere

che ciò che egli dice sia da intendere nel senso appena indicato (abbia, cioè, carattere

predittivo), e tuttavia insiste nella sua affermazione, allora "tutto ciò che egli asserisce è

che prova un certo piacere, o un certo dispiacere, al pensiero della condotta in questione,

ma senza essere in grado di spiegare perché". (La sua affermazione è, cioè, priva di

qualsiasi carattere o portata oggettiva: è solo l'espressione di uno stato emotivo

personale.) In questo caso – prosegue Bentham – "egli dovrebbe dirlo, piuttosto che cercare di

attribuire un indebito peso alla sua personale opinione, esprimendola in termini che pretendono di valere

come la voce di Dio, del diritto, o della gente"8. "Senza la nozione di punizione", dunque, "non

possiamo avere alcuna nozione di (...) dovere"9.

8 Ivi, p. 110.

9 Ivi, p. 108. Bentham, infine, definisce nei termini della nozione di obbligo, così intesa, la nozione di diritto

soggettivo (a right): "what you have a right to have me made to do (understand a political right) is that which

I am liable, according to law, upon a requisition made on your behalf, to be punished for not doing" (ivi, p.

108). Può essere utile riportare qui le definizioni sulle quali è costruita la teoria di Austin, coincidenti, grosso

modo, con quelle benthamiane. Un comando è, assume Austin, l'espressione di un desiderio. In particolare, la

"expression or intimation of your wish" è un comando se e solo se (1) "you express or intimate a wish that I

Riassumendo: le nozioni di legge, di diritto (diritto statuito e common law), di obbligo

(giuridico, religioso e morale) e di diritto soggettivo sono definite, in ultima istanza, nei

termini delle due nozioni di espressione di volontà e di punizione. In tal modo, il diritto

perde ogni aura di mistero: cadono gli addobbi, i paramenti, che ne nascondono,

mistificandola, l'autentica natura.

L‟obiettivo di Bentham è anzi quello di chiarire che il diritto ha una struttura semplice,

comprensibile a tutti e non solo agli iniziati.

Infatti: (1) tutti possono comprendere cosa sia un'espressione di volontà; (2) la nozione

di punizione, a sua volta, può essere ridotta a nozioni direttamente comprensibili. Una

punizione (punishment) è, dice Bentham, un certo "dolore (pain)", proveniente da una

certa "fonte". L'idea di dolore è, a sua volta, un'"idea semplice"10, che si può assumere sia

in possesso di chiunque. Nel diritto, dunque, non v'è nulla di misterioso, la cui

conoscenza sia necessariamente riservata a pochi iniziati: "'piacere' e 'dolore' – afferma

polemicamente Bentham - sono, si spera, termini per conoscere il significato dei quali

non è necessario rivolgersi a un giurista"11. Dietro la maschera del diritto non v'è altro

che la volontà umana, e sentimenti di piacere e dolore: sono questi gli elementi nei

quali i fenomeni giuridici - il diritto, nel suo complesso - possono essere risolti.

L‟obiettivo dell‟imperativismo di Bentham (la tesi che il diritto sia un insieme di

comandi, o di ordini coattivi) è quello di demistificare la complessità del diritto per come

illustrata ad esempio nei Commentari di Blackstone (non a caso il Frammento Politico è

una critica feroce ai Commentari di Blackstone).

L‟ideale giuridico politico di Bentham è quello della certezza del diritto, che presuppone

la chiarezza delle leggi e la loro pubblicità attraverso la promulgazione e pubblicazione.

shall do or forbear from some act"; (2) "you will visit me with an evil in case I comply not with your wish"

(Austin 1832, p. 21). I termini 'comando' e 'dovere (duty)' "sono correlativi (ivi, p. 3): quando sussiste un

comando, Caio è, per definizione, "liable to evil from [Tizio] if [he] compl[ies] not" con il desiderio espresso

da Tizio; in questo caso Caio è "bound or obliged" dal comando di Tizio (cioè: è "under a duty to obey it")

(ivi, p. 22). Infine, una 'legge (law)', "in senso proprio", è "una specie di "comando" (ivi, p. 3). 10

Bentham 1776, p. 108. 11

Ivi, p. 28.

Il catechismo del popolo è una forma di istruzione obbligatoria delle leggi (Bentham

propone di soppiantare lo studio dei classici con lo studio della logica e del diritto).

Le leggi devono essere chiare.

Nonostante queste aspirazioni proprie della democrazia radicale in Bentham si scorgono

anche elementi illiberali. L‟utilitarismo può in situazioni estreme portare a tali

conclusioni.

Il Panopticon è una struttura in cui vanno rinchiusi gli elementi inutili alla società. I

parassiti. Il sistema carcerario va sostituito da questa struttura.

L‟idea di fondo è piuttosto semplice: il diritto è opera dell’uomo: e la sua vera essenza

risiede nella volontà dell’uomo che fa la legge.

La legge è comando accompagnato da sanzioni o negative (minacce) o positive.

Ciò è in linea al principio di utilità. Siccome si è mossi soltanto dalla ricerca del

piacere o dall’evitare dolore allora l’elemento sanzionatorio è importantissimo in

questa concezione.

4. La punizione e i suoi limiti

Si noti che la punizione – in quanto già in se stessa un male (una fonte di dolore) – si

giustifica, in base al principio di utilità, solo in quanto necessaria ad evitare un dolore più

grande. Bentham dunque si discosta dalla concezione hobbesiana secondo cui pur di

avere salva la vita gli individui delegano al sovrano qualsiasi potere; cosicché qualsiasi

punizione è legittima in quanto anche il governo più dispotico è migliore dell‟anarchia.

Nel capitolo XIII dell‟Introduzione ai Principi della Morale e della Legislazione,

Bentham così spiega i limiti entro cui la punizione è legittima:

I. L’obiettivo generale che tutte le leggi hanno in comune, o devono avere in comune, è la capacità di

aumentare la felicità complessiva della comunità; e dunque, in primo luogo, di tagliar fuori, per quanto

possibile, ogni cosa che tenda a far diminuire la felicità: in altri termini di tagliar fuori i misfatti. II. Ma

anche le punizioni sono misfatti: tutte le punizioni sono dei mali [in quanto fonte di dolore]. In

base al principio di utilità se le punizioni devono essere previste, lo devono essere solo nella misura in cui

siano necessarie per evitare mali maggiori.

III. E’ chiaro dunque, che nei seguenti casi nessuna pena può essere inflitta.

a).Quando è inflitta senza motivo: se non vi alcun misfatto da prevenire, in quanto l’atto non è fonte di

dolore, allora la punizione non può essere inflitta;

b).Quando sarebbe inefficace: in quanto l’atto non può essere evitato attraverso la punizione;

c) Quando è troppo costosa o poco conveniente: quando il male che produrrebbe sarebbe maggiore di

quello che dovrebbe prevenire;

d)Quando è inutile: in quanto il misfatto potrebbe essere evitato o potrebbe cessare anche senza

punizione, e dunque ad un prezzo più basso.

Come si può notare, sebbene Bentham concepisca il diritto come un insieme di ordini

coattivi e dunque faccia della sanzione un elemento essenziale nella definizione del

diritto, in realtà non è affatto un entusiasta di un regime autoritario. Se è vero che dietro

la legge c‟è solo la volontà di chi comanda è anche vero che questo volontarismo va

temperato dal principio di utilità. Il buon legislatore, infatti, deve sempre farsi guidare dal

principio di utilità quando detta ordini coattivi.

4. Limiti al potere dei governanti supremi

La tesi secondo cui il diritto è comando di un governante supremo che non riconosce

alcuna autorità sopra di sé è in esatta antitesi alla tesi – oggi di gran lunga prevalente –

secondo cui i governanti (gli autori della legge) siano sottoposti a vincoli di qualche tipo.

Dice Bentham nel Frammento Politico:

“Frammento Politico, par. VII: Credo di intendere abbastanza bene il significato del termine dovere

(dovere politico) quando si riferisce a me, e non riuscirò a convincermi di poterlo riferire nello stesso senso,

in un normale discorso didattico, a coloro di cui parlo come dei miei supremi governanti. Dovere è per me

fare ciò che la legge mi impone di fare se non voglio essere passibile di una sanzione: questo è il senso

originario e più coerente del termine dovere. Hanno i governanti supremi un dovere del genere? No,

perché se mai son passibili di sanzioni secondo la legge per aver fatto una cosa o per non averla fatta,

allora non sono più quel che si supponeva che fossero, cioè governanti supremi: governanti supremi

sono coloro per il cui mandato gli altri sian passibili di sanzione12.

In altri termini, il concetto di legge come comando – un concetto che riconduce il diritto

all‟espressione di un atto di volontà - non ammette che il potere politico sia limitato. Se

il governante supremo che fa la legge fosse a sua volta obbligato da un qualche altra

legge allora cesserebbe di essere governante supremo: dovrebbe infatti ammettersi che

un governante sopra di lui sia l‟autore della legge che lo vincola.

Si pensi che l‟idea che il potere politico sia limitato e che il diritto abbia anzi la funzione

di vincolare il potere è un‟idea che invece oggi noi raramente mettiamo in discussione: ed

è l‟idea alla base dello stato di diritto o nella versione anglosassone della rule of law.

Noi oggi diciamo che il diritto viene prima degli uomini che fanno la legge, in quanto

anche costoro sono sottoposti alla legge che hanno emanato (i parlamentari ad esempio

sono soggetti al pari di tutti i cittadini alle legge che vengono approvate dal Parlamento). 12

Par. VII, p. 104.

Questo modo di vedere le cose viene comunemente riassunto nella formula: governo

delle leggi e non degli uomini, formula questa già cara ad Aristotele ma oggi

pacificamente accolta nei nostri testi costituzionali.

Bentham appartiene invece ad una tradizione differente: la tradizione che fa discendere il

diritto da un atto di volontà umana o non invece dall‟osservanza di alcuni principi, di

norme, di tradizioni, etc…

Bentham tuttavia non nega che possa esserci una differenza fra regimi dispotici e regimi

liberi. E tuttavia la differenza non risiede nel fatto che nei primi i governanti esercitino

sui governati un potere maggiore che nei secondi:

par. XXIV

“In che cosa consiste dunque la differenza fra un regime libero e un regime dispotico? Consiste nel fatto

che le persone cui è affidato il potere considerato supremo abbiano meno potere nell’un caso che nell’altro,

derivandolo dal costume? No di certo. Non si tratta dal fatto che il potere degli uni abbia, più che il

potere degli altri, determinati confini. La distinzione riguarda circostanze di natura molto diversa: il

modo in cui l’intera massa del potere che è, preso nel suo complesso, il potere supremo, è distribuito, in

uno Stato libero, fra i diversi ranghi che ne partecipano; la fonte da cui il loro titolo a partecipare di quel

potere viene via via derivato; la frequenza e la facilità con cui governanti e governati si scambiano i ruoli,

onde gli interessi dell’ una categoria sono più o meno indistinguibilmente commisti a quelli dell’altra; la

responsabilità dei governanti, o diritto che un suddito ha di ottenere la pubblica indicazione e spiegazione

dei motivi di ogni atto di potere che su di lui sia esercitato; la libertà di stampa, o sicurezza per ogni

individuo, a qualunque categoria appartenga, di potere rendere note all’intera comunità le sue lagnanze e

rimostranze; la libertà di associazione, o sicurezza, per i malcontenti, di potersi scambiare le opinioni,

concertare i loro piani, e mettere in atto qualsiasi forma di opposizione tranne che la rivolta vera e

propria, senza che il potere esecutivo sia legalmente autorizzato a impedirlo”.

Come si vede dal passo citato, Bentham ammette in realtà alcuni limiti al potere politico

che fanno di un regime un regime libero. Ad esempio, l‟obbligo di motivazione dei

provvedimenti dei governanti, la responsabilità dei medesimi, l‟alternanza, la

partecipazione politica, le libertà di associazione e di petizione al governo, la

distribuzione dei poteri fra vari organi. Tuttavia il potere supremo rimane per Bentham

sempre della stessa intensità. Non è vero che nei regimi liberi il potere dei governanti è

limitato da norme o leggi.

In questo passo noi tenderemo a scorgere una qualche incongruenza. Se un regime è

libero nella misura in cui il potere è distribuito e non accentrato, ovvero nella misura in

cui il sistema politico garantisca l‟alternanza, etc…, tutto ciò non significa ammettere che

in un regime libero il potere è limitato? E che anche i governanti sono soggetti a dei

vincoli?

Bentham tuttavia non abiura il principio secondo cui dietro la legge c‟è solo un atto di

volontà. Che vi sia partecipazione politica, che il potere risieda nel popolo, che la

rotazione delle cariche politiche sia frequente sembrano più circostanze di fatto, fatti

occasionali, piuttosto che regole giuridiche che caratterizzano la struttura di un

ordinamento politico.

4. Legge e sovranità popolare

La legge è il comando di un‟autorità suprema. Bentham spiega che questa autorità

suprema – che coincide col concetto di sovranità – può anche essere il popolo.

Si legga il passo seguente

“Dove risieda la sovranità. Col termine sovranità, si intende la suprema autorità costitutiva, in virtù

della quale, direttamente o indirettamente, il popolo esercita, come si vedrà la funzione di nomina ed,

eventualmente, quella di revoca, nei riguardi dei titolari di tutte le altre autorità dello Stato.”

Per Bentham il sovrano può anche essere il popolo. Ma in che senso il popolo è

sovrano? In che senso il popolo è la fonte dei comandi?

Qui si scorge l‟incompletezza della teoria di Bentham. Alla definizione imperativista del

concetto di diritto manca, infatti, ancora un tassello. Ammettiamo pure che il diritto

consti di comandi. Che cosa distingue i comandi giuridici da altri tipi di comandi?

Il problema della delimitazione del diritto (diritto positivo, positive law) rispetto ad altre

forme di “legge” (law) è risolto da J. Austin, seguendo Bentham, nel modo seguente: il

diritto positivo consta di un insieme di ordini sostenuti da minacce (comandi), la cui

emissione è imputabile, direttamente o mediatamente, a un particolare individuo o

insieme di individui: un individuo o insieme di individui che sia sovrano entro il gruppo

sociale preso in considerazione.

Spetterà a Austin di spendere qualche discorso in più sul concetto di sovrano.

John Austin (1790-1859) nacque a Suffolk da una famiglia di mercanti. Per un periodo

servì come militare prima di cominciare l‟educazione forense.

Insegnò all‟Università di Londra e dalle dispense del corso nacque il libro Province of

Jurisprudence Determined. Il numero degli studenti a lezione si assottigliava sempre di più

sicchè nel 1835 si dimise.

L‟influenza di John Austin divenne chiara un decennio dopo la sua morte. Nel 1955 H.

Hart (titolare della cattedra di filosofia del diritto di Oxford) scrisse che l‟influenza di

Austin era stata una delle più determinanti al pensiero giusfilosofico del ventesimo

secolo.

Dal punto di vista teorico politico Austin si inserì sulla scia di Bentham e sul suo

utilitarismo, offrendone una versione leggermente diversa.

Ma il suo maggiore contributo fu nell‟ambito della teoria del diritto, sicché egli è ritenuto

il vero fondatore dell‟approccio analitico al diritto.

La portata innovativa del pensiero di Austin è rintracciabile in quattro elementi:

(1) Austin è il fondatore del cosiddetto approccio analitico al diritto, la cd.

analytical jurisprudence. Mentre fino a quel momento lo studio del diritto era stato

un approccio storico o sociologico Austin comincia a cercare di ridurre la

complessità e analizzare le singole categorie giuridiche (il concetto di diritto, di

obbligo, di diritto soggettivo, etc…). questo approccio sarà tipico della

filosofia del diritto analitica del ventesimo secolo;

(2) Austin introduce una definizione del diritto per così dire top-down, dall‟alto

verso il basso. Mentre il diritto studiato nelle facoltà inglesi era essenzialmente

il diritto consuetudinario, quello giurisprudenziale, la juriprudence di Austin vede

nel diritto essenzialmente una forza che si impone sui suoi destinatari dall‟alto

verso il basso. Questa impostazione risultò particolarmente felice

nell‟ottocento e nel novecento quando sempre più il diritto fu fatto coincidere

con la statualità e comunque con una concezione accentrata del potere;

(3) La teoria del diritto analitica è strettamente connessa al giuspositivismo. Fino a

quel momento lo studio del diritto era considerato al più una branca della

teoria politica o della morale. Il diritto veniva studiato nel contesto di questioni

sulla genesi della società (il contrattualismo, etc..), sulla legittimità dell‟autorità,

sulle modalità di governo. Austin chiarì che il suo intento era uno studio

scientifico del diritto. Chiarì che il suo obiettivo era lo studio del diritto come è

e non per come deve essere.

Il giuspositivismo afferma che lo studio del diritto deve essere avalutativo.

Austin afferma che:

“l‟esistenza del diritto è una cosa; i suoi meriti o demeriti un‟altra. Se esista o non esista

[diritto] è un tipo di indagine; se sia o meno conforme a un dato standard è un‟altra. Una

legge che nei fatti esiste è una legge, a prescindere dal fatto che ci piaccia o no” (Lezione

V del Province of Jurisprudence Determined).

(4) Austin è il fondatore della teoria della legge come comando.

Le tesi di Austin sono le seguenti:

(a) il diritto è comando del sovrano rivolto o ad un individuo o ad una classe

determinata di individui;

(b) il comando consiste dalla intimazione ad un certo comportamento accompagnato

dalla presenza di una minaccia (o la borsa o la vita);

(c) il sovrano ha due caratteristiche: (i) è colui cui abitualmente i destinatari dei

comandi prestano obbedienza; (ii) e che non presta obbedienza a nessuno.

Scrive Austin:

“la differenza specifica di una legge positiva (positive law) (ossia, ciò in virtù di cui

una legge positiva si differenzia da una legge che non è una legge positiva) può

essere formulata, in termini generali, nel modo seguente: ogni legge positiva (…) è

posta da una persona sovrana, o da un corpo sovrano di persone, per un membro o

per i membri della società politica indipendente nella quale quella persona o corpo

di persone è sovrano, o supremo”13.

Le nozioni rilevanti – sovranità e società politica indipendente – sono esplicate da Austin

nel modo seguente: “quando un superiore umano determinato, che non obbedisce

abitualmente a un altro superiore umano, riceve obbedienza abituale da parte della massa

di una data società, quel superiore determinato è sovrano in quella società, e la società

(ivi incluso il superiore) è una società politica e indipendente”14. Insomma: si dice

13

Austin 1832, p. 16; cfr. anche p. 165. 14

Ivi, p. 166.

„sovrano‟ un X (individuo o gruppo di individui) che sia abitualmente obbedito dalla

maggior parte dei membri del gruppo, e non presti abitualmente obbedienza a nessun

altro individuo umano.

Riassumendo: il diritto è l‟insieme dei comandi del sovrano – o, più precisamente,

l‟insieme degli “ordini generali sostenuti da minacce emanati o dal sovrano, o da suoi

subordinati in obbedienza al sovrano”15.

Questa concezione viene definita imperativistica perché l‟aspetto essenziale della legge è

il comando. Austin dunque colse una connessione fra diritto e potere già presente in

Thomas Hobbes e fatta propria da un certo pensiero realista dopo di lui.

Il diritto è essenzialmente una tecnica di controllo sociale. Non ha altro scopo se non

quello proprio: e cioè l‟obbedienza al diritto medesimo (vi è una componente

autoreferenziale).

Il rapporto fra il sovrano e i sudditi è quasi un faccia a faccia. Il sovrano ordina e il

suddito obbedisce.

Perché il suddito obbedisce?

Essenzialmente per paura. Ma anche per rispetto dell’autorità. Il suddito

riconosce nel sovrano la forza e vi si piega.

La risposta che dunque Austin dà all‟origine dell‟ordine giuridico è piuttosto brutale. Si

obbedisce per paura o per soggezione.

Non vi è tanta differenza fra il bandito che chiede “o la borsa o la vita” e il sovrano che

formula la legge “se rubi ti condanno a morte”.

15

Hart 1961, p. 25, trad. it. p. 32. Per una presentazione più articolata della teoria imperativistica (il

“modello del bandito”), e alcune delle principali critiche (mosse da H. L. A. Hart) nei suoi confronti, cfr.

Celano 2002, par. 4.1.

Austin ammette che il sovrano possa essere inteso come una figura metaforica: il re, il

parlamento. Tuttavia rimane un elemento personalistico. Il sovrano è una persona

fisica che incute timore.

Anche Austin come Bentham riconosce che la legge è una spinta motivazionale

all‟azione. In realtà la componente più importante della legge è la sanzione, la pena. Se

non ci fosse la sanzione il diritto non sarebbe propriamente tale. A questo proposito

Austin dubita che il diritto internazionale sia veramente diritto, e attraverso l‟esistenza di

una sanzione imposta dal sovrano distingue il diritto dalla morale, dalla religione, o dal

costume (mores).

Anche Austin, come Bentham, vuole ridurre la complessità del sistema giuridico inglese,

fatto di diritto consuetudinario, pronunce giurisprudenziali, editti regali, leggi. Tuttavia, a

differenza di Bentham, non fu così nemico del diritto giurisprudenziale. Bentham infatti

vedeva nell‟attivismo dei giudici un pericolo, in quanto i giudici non erano un organo

rappresentativo, ma piuttosto dei funzionari nominati dalla Corona. Il Parlamento

piuttosto doveva essere il potere supremo.

Austin è più indifferente dal punto di vista ideologico.

CRITICHE MOSSE A AUSTIN e all‟imperativismo in genere:

(a) la concezione del diritto elaborata da Austin può al più riferirsi al diritto

penale, ma il diritto è più variegato. Esistono anche altre modalità in cui

il diritto guida la condotta umana.

Ad esempio, le leggi che regolano il potere di concludere un contratto, o

che stabiliscono che il testamento o la donazione sono validi in presenza

di testimoni, o che dettano alcune condizioni formali e sostanziali di

validità di atti fra privati.

C‟è differenza fra una legge che impone la pena detentiva e una che

prevede la nullità o l‟annullabilità del contratto qualora certi requisiti di

legge non sono stati rispettati?

Vi sono poi tutte le leggi costituzionali che attribuiscono poteri, che

tracciano i confini delle competenze dei vari organi.

Secondo una certa tesi i due tipi di norma, quelli che impongono

obblighi e quelli che attribuiscono poteri, sono gradazioni dello

stesso tipo. Le norme che attribuiscono poteri sono norme che

attribuiscono il potere di imporre degli obblighi e dunque in ultima

istanza sono riconducibili ai primi.

In realtà questa critica non coglie nel segno. Per senso comune noi

intuiamo che c‟è una grande differenza fra una norma del codice della

strada, o una norma del diritto penale e una norma che stabilisce che il

contratto si conclude quando l‟accettazione perviene all‟indirizzo del

proponente.

(b) La formula diritto come comando non rende ragione della permanenza

del diritto. Se la legge è comando del sovrano essa mantiene forza e

vigore fino a quando il sovrano è in vita ed è al potere. Ma che cosa

succede quando il sovrano viene deposto? O quando muore? O quando

il suo mandato giunge a naturale scadenza?

Se la vincolatività della legge risiede nella persona del suo autore non si

giustificherebbe la permanenza del diritto al cambiamento del sovrano.

Eppure così avviene. Quando il parlamento viene sciolto e poi sostituito

da un nuovo parlamento le leggi precedentemente emanate rimangono

in vigore. Lo stesso avviene quando un regime cambia radicalmente. Si

pensi che i nostri codici civile e penale sono stati redatti ed emanati

sotto il fascismo. Benché il fascismo sia caduto e addirittura ripudiato

dalla nostra costituzione, sebbene non esista più la monarchia, sebbene

insomma il regime sia radicalmente mutato tuttavia le leggi emanate

prima della repubblica spesso sono ancora in vigore.

Come spiegherebbe Austin la permanenza dell‟obbligo di legge quando

viene meno il sovrano?

(c) La nozione di comando presuppone una volontà, un desiderio rivolto ai

destinatari esterni. Io non posso comandare qualcosa a me stesso.

occorre una distinzione fra chi comanda e chi è comandato. Tuttavia nei

regimi giuridici moderni chi fa le leggi allo stesso tempo vi si assoggetta.

Se i parlamentari emanano una legge fiscale anch‟essi vi sono soggetti.

Se introducono nuove disposizioni del codice della strada anche essi vi

sono soggetti.

Non così il sovrano di Austin. Il comando è per definizione rivolto ad

altri.

In effetti la concezione del diritto di Austin richiama molto la

concezione Hobbesiana del governo degli uomini e non delle leggi,

mentre mal si confà ai concetti di stato di diritto e di rule of law.

(d) La concezione del diritto come comando presuppone una certa struttura

della società. Ogni società ha un capo o qualcosa di simile al capo. Ma

questa non è esattamente la struttura delle società complesse. Anzi la

struttura costituzionale più diffusa oggi è quella in cui i poteri dello stato

di controbilanciano e rimangono separati. Oltre ad una struttura

gerarchica, esiste anche una struttura orizzontale dei poteri.

L‟imperativismo non rende ragione di questa struttura.

(e) La concezione del diritto come comando non tiene conto anche

dell‟aspetto istituzionalistico del diritto. Il comando presuppone una

struttura semplice, a due. Da un lato il sovrano, dall‟altro il suddito. Ma

la società è strutturata in un modo molto più complesso. Se io stipulo

un contratto e rivendico l‟adempimento non posso ritenermi simile ad

un sovrano che ha come suddito la parte inadempiente. Se poi le cose

vanno per come devono andare, ad esempio io acquisto un pacco di

patate e pago il prezzo, sicuramente un fenomeno giuridico è stato

posto in essere, ma dov‟è lo schema del comando?

(f) La nozione del diritto come comando svuota il diritto da qualsiasi

valore. Se il diritto è comando del sovrano, il sovrano può comandare di

tutto. Può ordinare che la popolazione si tagli i capelli a zero e il giorno

dopo ordinare che si portino i capelli lunghi; può ordinare norme

assurde, può ordinare norme ingiuste.

In effetti, l‟obiettivo di Austin è proprio quello di epurare lo studio del

diritto da ogni valutazione di tipo politico e morale.

Ma è veramente possibile?