Estate - liceofranchetti.it · C‟era, in un angolo della piazza, sotto una cupola...

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1 Estate 2. La villeggiatura in panchina Andando ogni mattino al suo lavoro, Marcovaldo fissava sotto il verde d‟una piazza alberata, un quadrato di giar dino pubblico ritagliato in mezzo a quattro vie. Alzava l‟occhio tra le fronde degli ippocastani, dov‟erano più folte e solo lasciavano dardeggiare gialli raggi nell‟ombra trasparente di linfa, ascoltava il chiasso dei passeri stonati ed invisi bili sui rami. A lui parevano usignoli; e si diceva: “Oh, potessi destarmi una volta al cinguettare degli uccelli e non al suono della sveglia e allo strillo del neonato Paolino e all‟inveire di mia moglie Domitil la!” oppure: “Oh, potessi dormire qui, solo in mezzo a questo fresco verde e non nella mia stanza bassa e calda; qui nel silenzio, non nel russare e parlare nel sonno di tutta la famiglia e correre di tram giù nella strada; qui nel buio naturale della notte, non in quello artificiale delle persiane chiuse, zebrato dal riverbero dei fanali; oh, potessi vedere foglie e cielo aprendo gli occhi!” Con questi pensieri tutti i giorni Marcovaldo incominciava le sue otto ore giornaliere - più gli straordinari - di manovale non qualificato. C‟era, in un angolo della piazza, sotto una cupola d‟ippocastani, una panchina appartata e seminascosta. E Marcovaldo l‟aveva prescelta come sua. In quelle notti d‟estate, quando nella camera in cui dormivano in cinque non riusciva a prendere sonno, sognava la panchina come un senza tetto può sognare il letto d‟una reggia. Una notte, zitto, mentre la moglie russava ed i bambini scalciavano nel sonno, si levò dal letto, si vestì, prese sottobraccio il suo guanciale, uscì e andò alla piazza. Là era il fresco e la pace. Già pregustava il contatto di quegli assi d‟un legno - ne era certo - morbido e accogliente, in tutto preferibile al pesto materasso del suo letto; avrebbe guardato per un minuto le stelle e avrebbe chiuso gli occhi in un sonno riparatore d‟ogni offesa della giornat a. Il fresco e la pace c‟erano, ma non la panca libera. Vi sedevano due innamorati, guardandosi negli occhi. Marcovaldo, discreto, si ritrasse. “È tardi, - pensò, - non passeranno mica la notte all‟aperto! La finiranno di tubare!” Ma i due non tubavano mica: litigavano. E tra due innamorati un litigio non si può dire mai a che ora andrà a finire. Lui diceva: - Ma tu non vuoi ammettere che dicendo quello che hai detto sapevi di farmi dispiacere anziché piacere come facevi finta di credere? Marcovaldo capì che sarebbe andata per le lunghe. - No, non l‟ammetto, - rispose lei, e Marcovaldo già se l‟aspettava. - Perché non l‟ammetti? - Non l‟ammetterò mai. “Ahi”, pensò Marcovaldo. Col suo guanciale stretto sotto il braccio, andò a fare un giro. Andò a guardare la luna, che era piena, grande sugli alberi e i tetti. Tornò verso la panchina, girando un po‟ al largo per lo scrupolo di disturbarli, ma in fondo sperando di dar loro un po‟ di noia e persuaderli ad andarsene. Ma erano troppo infervorati nella di scussione per accorgersi di lui. - Allora ammetti? - No, no, non lo ammetto affatto! - Ma ammettendo che tu ammettessi? - Ammettendo che ammettessi, non ammetterei quel che vuoi farmi ammettere tu! Marcovaldo tornò a guardare la luna, poi andò a guardare un semaforo che c‟era un po‟ più in là. Il semaforo segnava giallo, giallo, giallo, continuando ad accendersi e riaccendersi. Marcovaldo confrontò la luna e il semaforo. La luna col suo pallore misterioso, giallo anch‟esso, ma in fondo verde e anche azzurro, e il semaforo con quel suo gialletto volgare. E la luna, tutta calma, irradiante la sua luce senza fretta, venata ogni tanto di sottili resti di nubi, che lei con maestà si lasciava cadere alle spalle; e il semaforo intanto sempre lì accendi e spegni, accendi e spegni, affannoso, falsamente vivace, stanco e schiavo. Tornò a vedere se la ragazza aveva ammesso: macché, non ammetteva, anzi non era più lei a non ammettere, ma lui. La situazione era tutta cambiata, ed era lei che diceva a lui: - Allora, ammetti? - e lui a dire di no. Così passò mezz‟ora. Alla fine lui ammise, o lei, insomma Marcovaldo li vide alzarsi e andarsene tenendosi per mano. Corse alla panchina, si buttò giù, ma intanto, nell‟attesa, un po‟ della dolcezza che s‟aspettava di trovarvi non era pi ù nella disposizione di sentirla, e anche il letto di casa non lo ricordava più così duro. Ma queste erano sfumature, la sua intenzione di godersi la notte all‟aperto era ben ferma: sprofondò il viso nel guanciale e si dispose al sonno, a un son - no come da tempo ne aveva smesso l‟abitudine. Ora aveva trovato la posizione più comoda. Non si sarebbe spostato d‟un millimetro per nulla al mondo. Peccato soltanto che a stare così, il suo sguardo non cadesse su di una prospettiva d‟alberi e cielo soltanto, in mod o che il sonno gli chiudesse gli occhi su una visione di assoluta serenità naturale, ma davanti a lui si succedessero, in scorcio, un albero, la spada d‟un generale dall‟alto del suo monumento, un altro albero, un tabellone delle affissioni pubbliche, un terzo albero, e poi, un po‟ più lontano, quella falsa luna intermittente del semaforo che continuava a sgranare il suo giallo, giallo, giallo. Bisogna dire che in questi ultimi tempi Marcovaldo aveva un sistema nervoso in così cattivo stato che, nonostante fosse stanco morto, bastava una cosa da nulla, bastava si mettesse in testa che qualcosa gli dava fastidio, e lui non dormiva. E adesso gli dava fastidio quel semaforo che s‟accendeva e si spegneva. Era laggiù, lontano, un occhio giallo che ammicca, solitario: non ci sarebbe stato da farci caso. Ma Marcovaldo doveva proprio essersi buscato un esaurimento: fissava quell‟accendi e spegni e si ripeteva: “Come dormirei bene se non ci fosse quell‟affare! Come dormirei bene!” Chiudeva gli occhi e gli pareva di sentire sotto le palpebre l‟accendi e spegni di quello sciocco giallo; strizzava gli occhi e vedeva decine di semafori; li riapriva, era sempre daccapo.

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Estate 2. La villeggiatura in panchina Andando ogni mattino al suo lavoro, Marcovaldo fissava sotto il verde d‟una piazza alberata, un quadrato di giardino pubblico ritagliato in mezzo a quattro vie. Alzava l‟occhio tra le fronde degli ippocastani, dov‟erano più folte e solo lasciavano dardeggiare gialli raggi nell‟ombra trasparente di linfa, ascoltava il chiasso dei passeri stonati ed invisibili sui rami. A lui parevano usignoli; e si diceva: “Oh, potessi destarmi una volta al cinguettare degli uccelli e non al suono della sveglia e allo strillo del neonato Paolino e all‟inveire di mia moglie Domitilla!” oppure: “Oh, potessi dormire qui, solo in mezzo a questo fresco verde e non nella mia stanza bassa e calda; qui nel silenzio, non nel russare e parlare nel sonno di tutta la famiglia e correre di tram giù nella strada; qui nel buio naturale della notte, non in quello artificiale delle persiane chiuse, zebrato dal riverbero dei fanali; oh, potessi vedere foglie e cielo aprendo gli occhi!” Con questi pensieri tutti i giorni Marcovaldo incominciava le sue otto ore giornaliere - più gli straordinari - di manovale non qualificato. C‟era, in un angolo della piazza, sotto una cupola d‟ippocastani, una panchina appartata e seminascosta. E Marcovaldo l‟aveva prescelta come sua. In quelle notti d‟estate, quando nella camera in cui dormivano in cinque non riusciva a prendere sonno, sognava la panchina come un senza tetto può sognare il letto d‟una reggia. Una notte, zitto, mentre la moglie russava ed i bambini scalciavano nel sonno, si levò dal letto, si vestì, prese sottobraccio il suo guanciale, uscì e andò alla piazza.

Là era il fresco e la pace. Già pregustava il contatto di quegli assi d‟un legno - ne era certo - morbido e accogliente, in tutto preferibile al pesto materasso del suo letto; avrebbe guardato per un minuto le stelle e avrebbe chiuso gli occhi in un sonno riparatore d‟ogni offesa della giornata. Il fresco e la pace c‟erano, ma non la panca libera. Vi sedevano due innamorati, guardandosi negli occhi. Marcovaldo, discreto, si ritrasse. “È tardi, - pensò, - non passeranno mica la notte all‟aperto! La finiranno di tubare!” Ma i due non tubavano mica: litigavano. E tra due innamorati un litigio non si può dire mai a che ora andrà a finire. Lui diceva: - Ma tu non vuoi ammettere che dicendo quello che hai detto sapevi di farmi dispiacere anziché piacere come facevi finta di credere? Marcovaldo capì che sarebbe andata per le lunghe. - No, non l‟ammetto, - rispose lei, e Marcovaldo già se l‟aspettava. - Perché non l‟ammetti? - Non l‟ammetterò mai. “Ahi”, pensò Marcovaldo. Col suo guanciale stretto sotto il braccio, andò a fare un giro. Andò a guardare la luna, che era piena, grande sugli alberi e i tetti. Tornò verso la panchina, girando un po‟ al largo per lo scrupolo di disturbarli, ma in fondo sperando di dar loro un po‟ di noia e persuaderli ad andarsene. Ma erano troppo infervorati nella discussione per accorgersi di lui. - Allora ammetti? - No, no, non lo ammetto affatto! - Ma ammettendo che tu ammettessi? - Ammettendo che ammettessi, non ammetterei quel che vuoi farmi ammettere tu! Marcovaldo tornò a guardare la luna, poi andò a guardare un semaforo che c‟era un po‟ più in là. Il semaforo segnava giallo, giallo, giallo, continuando ad accendersi e riaccendersi. Marcovaldo confrontò la luna e il semaforo. La luna col suo pallore misterioso, giallo anch‟esso, ma in fondo verde e anche azzurro, e il semaforo con quel suo gialletto volgare. E la luna, tutta calma, irradiante la sua luce senza fretta, venata ogni tanto di sottili resti di nubi, che lei con maestà si lasciava cadere alle spalle; e il semaforo intanto sempre lì accendi e spegni, accendi e spegni, affannoso, falsamente vivace, stanco e schiavo. Tornò a vedere se la ragazza aveva ammesso: macché, non ammetteva, anzi non era più lei a non ammettere, ma lui. La situazione era tutta cambiata, ed era lei che diceva a lui: - Allora, ammetti? - e lui a dire di no. Così passò mezz‟ora. Alla fine lui ammise, o lei, insomma Marcovaldo li vide alzarsi e andarsene tenendosi per mano. Corse alla panchina, si buttò giù, ma intanto, nell‟attesa, un po‟ della dolcezza che s‟aspettava di trovarvi non era più nella disposizione di sentirla, e anche il letto di casa non lo ricordava più così duro. Ma queste erano sfumature, la sua intenzione di godersi la notte all‟aperto era ben ferma: sprofondò il viso nel guanciale e si dispose al sonno, a un son-no come da tempo ne aveva smesso l‟abitudine. Ora aveva trovato la posizione più comoda. Non si sarebbe spostato d‟un millimetro per nulla al mondo. Peccato soltanto che a stare così, il suo sguardo non cadesse su di una prospettiva d‟alberi e cielo soltanto, in modo che il sonno gli chiudesse gli occhi su una visione di assoluta serenità naturale, ma davanti a lui si succedessero, in scorcio, un albero, la spada d‟un generale dall‟alto del suo monumento, un altro albero, un tabellone delle affissioni pubbliche, un terzo albero, e poi, un po‟ più lontano, quella falsa luna intermittente del semaforo che continuava a sgranare il suo giallo, giallo, giallo. Bisogna dire che in questi ultimi tempi Marcovaldo aveva un sistema nervoso in così cattivo stato che, nonostante fosse stanco morto, bastava una cosa da nulla, bastava si mettesse in testa che qualcosa gli dava fastidio, e lui non dormiva. E adesso gli dava fastidio quel semaforo che s‟accendeva e si spegneva. Era laggiù, lontano, un occhio giallo che ammicca, solitario: non ci sarebbe stato da farci caso. Ma Marcovaldo doveva proprio essersi buscato un esaurimento: fissava quell‟accendi e spegni e si ripeteva: “Come dormirei bene se non ci fosse quell‟affare! Come dormirei bene!” Chiudeva gli occhi e gli pareva di sentire sotto le palpebre l‟accendi e spegni di quello sciocco giallo; strizzava gli occhi e vedeva decine di semafori; li riapriva, era sempre daccapo.

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S‟alzò. Doveva mettere uno schermo tra sé e il semaforo. Andò fino al monumento del generale e guardò intorno. Ai piedi del monumento c‟era una corona d‟alloro, bella spessa, ma ormai secca e mezzo spampanata, montata su bacchette, con un gran nastro sbiadito: «I Lancieri del Quindicesimo nell’Anniversario della Gloria». Marcovaldo s‟arrampicò sul piedestallo, issò la corona, la infilò alla sciabola del generale. Il vigile notturno Tornaquinci in perlustrazione attraversava la piazza in bicicletta; Marcovaldo s‟appostò dietro la statua. Tornaquinci aveva visto sul terreno l‟ombra del monumento muoversi: si fermò pieno di sospetto. Scrutò quella corona sulla sciabola, capì che c‟era qualcosa fuori posto ma non sapeva bene che cosa. Puntò lassù la luce d‟una lampadina a riflettore, lesse: «I Lancieri del Quindicesimo nell’Anniversario della Gloria», scosse il capo in segno d‟approvazione e se ne andò. Per lasciarlo allontanare, Marcovaldo rifece il giro della piazza. In una via vicina, una squadra d‟operai stava aggiustando uno scambio alle rotaie del tram. Di notte, nelle vie deserte, quei gruppetti d‟uomini accucciati al bagliore dei saldatori autogeni, e le voci che risuonano e poi subito si smorzano, hanno un‟aria segreta come di gente che prepari cose che gli abitanti del giorno non dovranno mai sapere. Marcovaldo si avvicinò, stette a guardare la fiamma, i gesti degli operai, con un‟attenzione un po‟ impacciata e gli occhi che gli venivano sempre più piccoli dal sonno. Cercò una sigaretta in tasca, per tenersi sveglio, ma non aveva cerini. - Chi mi fa accendere? - chiese agli operai. - Con questo? – disse l‟uomo della fiamma ossidrica, lanciando un volo di scintille. Un altro operaio s‟alzò, gli porse la sigaretta accesa. - Fa la notte anche lei? - No, faccio il giorno, - disse Marcovaldo. - E cosa fa in piedi a quest‟ora? Noi tra poco si smonta. Ritornò alla panchina. Si sdraiò. Ora il semaforo era nascosto alla sua vista; poteva addormentarsi, finalmente. Non aveva badato al rumore, prima. Ora, quel ronzio, come un cupo soffio aspirante e insieme come un raschio interminabile e anche uno sfrigolio, continuava a occupargli gli orecchi. Non c‟è suono più struggente di quello d‟un saldatore, una specie d‟urlo sottovoce. Marcovaldo, senza muoversi, rannicchiato com‟era sulla panca, il viso contro il raggrinzito guanciale, non vi trovava scampo, e il rumore continuava a evocargli la scena illuminata dalla fiamma grigia che spruzzava scintille d‟oro intorno, gli uomini accoccolati in terra col vetro affumicato davanti al viso, la pistola del saldatore nella mano mossa da un tremito veloce, l‟alone d‟ombra intorno al carrello degli attrezzi, all‟alto traliccio che arrivava fino ai fili. Aperse gli occhi, si rigirò sulla panca, guardò le stelle tra i rami. I passeri insensibili continuavano a dormire lassù in mezzo alle foglie. Addormentarsi come un uccello, avere un‟ala da chinarci sotto il capo, un mondo di frasche sospese sopra il mondo terrestre, che appena s‟indovina laggiù, attutito e remoto. Basta cominciare a non accettare il proprio stato presente e chissamai dove s‟arriva: ora Marcovaldo per dormire aveva bisogno d‟un qualcosa che non sapeva bene neanche lui, neppure un silenzio vero e proprio gli sarebbe bastato più, ma un fondo di rumore più morbido del silenzio, un lieve vento che passa nel folto d‟un sottobosco, o un mormorio d‟acqua che rampolla e si perde in un prato. Aveva un‟idea in testa e s‟alzò. Non proprio un‟idea, perché mezzo intontito dal sonno che aveva in pelle in pelle, non spiccicava bene alcun pensiero; ma come il ricordo che là intorno ci fosse qualche cosa connessa all‟idea dell‟acqua, al suo scorrere garrulo e sommesso. Difatti c‟era una fontana, lì vicino, illustre opera di scultura e d‟idraulica, con ninfe, fauni, dèi fluviali, che intrecciavano zampilli, cascate e giochi d‟acqua. Solo che era asciutta: alla notte, d‟estate, data la m inor disponibilità dell‟acquedotto, la chiudevano. Marcovaldo girò lì intorno un po‟ come un sonnambulo; più che per ragionamento per istinto sapeva che una vasca deve avere un rubinetto. Chi ha occhio, trova quel che cerca anche a occhi chiusi. Aperse il rubinetto: dalle conchiglie, dalle barbe, dalle froge dei cavalli si levarono alti getti, i finti anfratti si velarono di manti scintillanti, e tutta quest‟acqua suonava come l‟organo d‟un coro nella grande piazza vuota, di tutti i fruscii e gli scrosci che può fare l‟acqua messi insieme. Il vigile notturno Tornaquinci, che ripassava in bicicletta nero nero a mettere bigliettini sotto gli usci, al vedersi esplodere tutt‟a un tratto davanti agli occhi la fontana come un liquido fuoco d‟artificio, per poco non cascò di sella. Marcovaldo, cercando d‟aprir gli occhi meno che poteva per non lasciarsi sfuggire quel filo di sonno che gli pareva d‟aver già acchiappato, corse a ributtarsi sulla panca. Ecco, adesso era come sul ciglio d‟un torrente, col bosco sopra di lui, ecco, dormiva. Sognò un pranzo, il piatto era coperto come per non far raffreddare la pasta. Lo scoperse e c‟era un topo morto, che puzzava. Guardò nel piatto della moglie: un‟altra carogna di topo. Davanti ai figli, altri topini, più piccoli ma anch‟essi mezzo putrefatti. Scoperchiò la zuppiera e vide un gatto con la pancia all‟aria, e il puzzo lo svegliò. Poco distante c‟era il camion della nettezza urbana che va la notte a vuotare i tombini dei rifiuti. Distingueva, nella mezzaluce dei fanali, la gru che gracchiava a scatti, le ombre degli uomini ritti in cima alla montagna di spazzatura, che guidavano per mano il recipiente appeso alla carrucola, lo rovesciavano nel camion, pestavano con colpi di pala, con voci cupe e rotte come gli strappi della gru: - Alza... Molla... Va‟ in malora... - e certi cozzi metallici come opachi gong, e il riprendere del motore, lento, per poi fermarsi poco più in là e ricominciare la manovra. Ma il sonno di Marcovaldo era ormai in una zona in cui i rumori non lo raggiungevano più, e quelli poi, pur così sgraziati e raschianti, venivano come fasciati da un alone soffice d‟attutimento, forse per la consistenza stessa della spazzatura stipata nei furgoni: ma era il puzzo a tenerlo sveglio, il puzza acuito da un‟intollerabile idea di puzzo, per cui anche i rumori, quei rumori attutiti e remoti, e l‟immagine in controluce dell‟autocarro con la gru non giungevano alla mente come rumore e vista ma soltanto come puzzo. E Marcovaldo smaniava, inseguendo invano con la fantasia delle narici la fragranza d‟un roseto. Il vigile notturno Tornaquinci si sentì la fronte madida di sudore intravedendo un‟ombra umana correre carponi per un‟aiola, strappare rabbiosamente dei ranuncoli e sparire. Ma pensò essersi trattato o d‟un cane, di competenza degli

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accalappiacani, o d‟un‟allucinazione, di competenza del medico alienista, o d‟un licantropo, di competenza non si sa bene di chi ma preferibilmente non sua, e scantonò. Intanto, Marcovaldo, ritornato al suo giaciglio, si premeva contro il naso il convulso mazzo di ranuncoli, tentando di colmarsi l‟olfatto del loro profumo: poco ne poteva però spremere da quei fiori quasi inodori; ma già la fragranza di rugiada, di terra e d‟erba pesta era un gran balsamo. Cacciò l‟ossessione dell‟immondizia e dormì. Era l‟alba. Il risveglio fu un improvviso spalancarsi di cielo pieno di sole sopra la sua testa, un sole che aveva come cancellato le foglie e le restituiva alla vista semicieca a poco a poco. Ma Marcovaldo non poteva indugiare perché un brivido l‟aveva fatto saltar su: lo spruzzo d‟un idrante, col quale i giardinieri del Comune innaffiano le aiole, gli faceva correre freddi rivoli giù per i vestiti. E intorno scalpitavano i tram, i camion dei mercati, i carretti a mano, i furgoncini, e gli operai sulle biciclette a motore correvano alle fabbriche e le saracinesche dei negozi precipitavano verso l‟alto, e le finestre delle case arrotolavano le persiane, e i vetri sfavillavano. Con la bocca e gli occhi impastati, stranito, con la schiena dura e un fianco pesto, Marcovaldo correva al suo lavoro. (da I. Calvino, Marcovaldo ovvero Le stagioni in cit-tà, 1963)

ESERCIZI

L’idea sarebbe questa, sa un po’ di scolastico, ma abbiate fede. Il racconto presenta due personaggi, scegline uno o esaminali entrambi, poi rintraccia tutte le espressioni che contribuiscono a caratterizzarli.

Fuga

Corre la notte Santino e tu corri con lei, la notte ti segue alle spalle, non voltarti a guardarla, non ne hai il tempo, e poi vedresti soltanto „sto strunzo; chi poteva saperlo che era dei Pretannanze la moto, corri e scegli le strade alla cieca, meglio, sono le strade che scelgono te, una Yamaha piena di cromi, meraviglia di un motone così sotto il culo, ma gliel‟hai mollata subito la moto bloccando la ruota di dietro e scivolando sul fianco, alla prima pistolettata l‟hai sdraiata per terra senza nemmeno graffiarla, non avevi mai sentito sparare dal vero, ma si capiva subito che quelli erano spari, non castagnole né tricchitracche né saltarelli, a piedi ti allontani veloce, sei così piccolo che i piedi non toccano terra, voli sulle punte e la notte vola con te, e dietro a tutti, ultimo e urlante „sto strunzo, è li dietro che grida e che spara, ma che cacchio ti spari? Napoli è così grande, non puoi conoscerla tutta, non arriverai mai a conoscerla tutta nemmeno da vecchio se mai arriverai alla vecchiaia, ti tieni la milza che comincia a far male, salitelle e discese attorno alla vecchia Centrale del Latte, persone e famiglie ancora sospese ai banchi e ai cocomeri e alle lampade ad acetilene, nell‟indormibile notte d‟agosto. Poi strade più vuote, cerchi al passaggio finestre accese, portoni aperti, ma tutti i portoni finiscono in un androne chiuso o in un giro di scale con porte sbarrate, chi ti aprirebbe con gli spari alle spalle, appena sentono „sto strunzo crepitante, revolverante, anche le finestre si spengono, buonanotte Santino, la notte è tutta per te, solo per te, voce ’e notte, è la voce del tuo inseguitore che urla tanto t’acchiappo, tanto t’accoppo, arrancando. Ma la voce adesso arriva a onde, più debole e di colpo più forte, dev‟essersi perso anche lui come te alla fine di questa rampa buia, una salita a gomito, isolata, lontana da tutto. Sei finito in una specie di poggiolo che guarda la notte, ti ritrovi senza uscita con un muro di cinta molto più alto a sinistra, ti pieghi tenendo le mani sui fianchi, altro che guardare la notte, meglio riprendere fiato e considerare le sporgenze e lesene alla base del muro, arrampicarsi subito. Resti seduto a cavalcioni della sommità pieno di paura, poi ti lasci cadere dentro, dove tutto risulta più basso e più buio che mai. Dove sei? Non puoi saperlo, Santino, questo è un posto che a Napoli non lo ricorda nessuno, meglio dimenticare, anche se sforzi gli occhi per vedere meglio vedi solo una piazza quadrata e le mura su ogni lato, un pavimento di pietra vesuviana, dello stesso piperno grigio contro cui ti sei già sbucciato il ginocchio cadendo, il piazzale è tutto vuoto e pulito fino alle mura che lo cingono geometricamente. Una piazza d‟armi ma le armi non ci sono, la corte d‟una villa ma la villa non c‟è, c‟è solo lo spiazzo, una scatola perfetta e sgombra, tu ci sei dentro e non si vedono uscite, e in fondo non ti converrebbe uscirne: paura di fuori se „sto strunzo indovinasse la rampa, paura di dentro per il vuoto e la pressione del buio. Paura della luce che si accende in un muro da un arco, della figura che avanza chiedendo «e chi c‟è?» La lampada, forse un neon portatile, basta perché tu non possa vedere chi lo tiene e si ferma a un passo da te. Riprendi la fuga, «e dove vai?» dice la lampada, verso i quattro cantoni e da ogni cantone torni indietro verso la luce, impugnata con la stessa intenzione d‟offesa con la quale „sto strunzo impugnava poco fa la pistola. Lampada o pistola alla fine ti arrendi. La luce ti percorre dalla testa ai piedi, «ma sei piccirillo! »; e siccome te ne stai immobile, terrorizzato e non parli, la lampada si gira verso se stessa, illumina un uomo con la camic ia un po‟ stretta, le maniche corte, anziano, minuto e non molto più alto dite. L’architetto fiorentino Ferdinando Fuga arrivò a Napoli nel regno di Carlo di Borbone, lì avrebbe lavorato per altri trent’anni fino alla morte, lì sarebbe stato un progettista «del futuro», dedito soprattutto alle architetture sociali, un architetto di ragione. Il Re lo incaricò di un mastodonte per accogliere la mole di indigenti che affollava la città, regium totius regni pauperum hospitium. La richiesta non era priva di finalità seconde, dare ordine e forma al nuovo flusso sociale del tempo, e soprattutto bilanciare presso il popolo l’enorme spesa investita per l’erigenda reggia di Caserta. Fuga volle corrispondere in tutto ai caratteri della commessa, ideò l’Albergo dei Poveri come un parallelepipedo, cinque corti in successione lineare interrotte da fabbriche a corpo triplo, e una chiesa al centro raccordata con bracci al rimanente. L’edificio piacque al Re e Fuga ebbe affidato un nuovo compito dal Reggente che gli succedette; sistemati i poveri da vivi, in un moderno e ragionevole ciclo assistenziale non si poteva trascurare il problema dei poveri da morti. Luogo prescelto le pendici della collina di Capodichino. Per quella destinazione a mezza costa Fuga

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inventò una macchina funebre meravigliosamente funzionale, risuonante del titolo di «Cimitero del Popolo», ma da lui pensata durante il lavoro come «Trecentosessantasei fosse» e così conosciuta al tempo. Trecentosessantasei perché ogni quattro anni ce n’era uno, allora come ancora, bisestile. Tu stai qui dentro Santino, sul pavimento di pietra vesuviana; e come sei arrivato fin qua, chiede il custode ap-poggiando la lampada a terra, e come sei entrato, ho scavalcato il muro, e come hai fatto piccolo così, e non lo so, tutta colpa dei Pretannanze, colpa di „sto strunzo che lì fuori mi vuole sparare, ma lo sai qui cosa c‟è?, c‟è casa vostra, no?, no, io sono il custode, questo è un cimitero, non si vede ma è un cimitero, e dove stanno le tombe?, e stanno tutte qua sotto. Inutile fare un balzo, Santino, e toglierti subito da dove sei, già al passo successivo i tuoi piedi sono su un‟altra sepoltura, invisibile. Ci stanno i morti qua sotto?, ci stavano, fenesta ca lucivi e mo non luci, la conosci la canzone?, parole e musica di ignoto, e quando la finestra dell‟amata alla sera non s‟accendeva più, l‟amata se non possedeva proprio nulla arrivava qui, chiagneva sempre ca dormeva sola e mo dorme co li muorte accompagnata, e no tu non la conosci „sta canzone, i morti non ci stanno più, qualcosa magari ci sarà rimasto, ma il cimitero è chiuso da più di un secolo. E quelli che ci stavano dove sono andati?, in mare, nei fiumi, nella terra, ogni fossa aveva al fondo una grata che colava all‟aperto, ma neanche una lapide?, una croce?, neanche un nome?, e come no, ci sono i numeri, prima tu stavi sulla numero 80, che vuol dire il 21 di marzo, primo giorno di primavera, poi ti sei mosso di un passo, hai cambiato di fila e sei avanzato alla 98, cioè il giorno 8 di aprile, un giorno anonimo, un giorno come tutti gli altri. Come fai a capire, Santino, cos‟è questa faccenda, i morti avevano i numeri?, no i numeri li avevano le fosse, risponde il custode, una fossa per ciascun giorno, trecentosessantacinque per tutto l‟anno, più una per gli anni bisestili che di giorni ne hanno trecentosessantasei, ma tu come ti chiami?, Santino, bello, piccolo Sante, sì bello. Ma i numeri dove stanno?, non si vedono subito, e poi adesso è buio ma anche di giorno qui non si doveva vedere niente, uno spazio tutto uguale, un pavimento grigio perfetto, ben levigato, però se avvicino la lampada vedi che lì c‟è scritto 117, lo vedi o non lo vedi?, lo vedo, e vedi il cerchio attorno al numero, c‟è un po‟ d‟erba perché è tanto che non si apre più, quello è il tappo, era il coperchio, vedi i tre piccoli anelli, lì si agganciava l‟argano e si tirava su, ogni giorno dell‟anno era una tomba, ogni giorno una fossa, e cosi via tutto l‟anno, ogni anno dal 1° gennaio al 31 dicembre, ciascuna tomba s‟apriva all‟alba e si chiudeva al tramonto, chi c‟era c‟era, chi non c‟era non c‟era, sigillata a calce sarebbe stata riaperta solo nello stesso giorno dell‟anno successivo. Non è che hai capito proprio bene, Santino, ma ti fa paura lo stesso, meno paura comunque di „sto strunzo da qualche parte lì fuori, il custode ti sembra meno pericoloso, non è detto, ma lo speri; quelli dell‟anno dopo cadevano su quelli dell‟anno prima? domandi, e sì, risponde il custode, però quelli dell‟anno prima intanto se n‟erano andati via, un po‟, fluivano, e ciò che restava era cosi poco. Ogni anno riaprivi la stessa fossa, non potevi sbagliare, certo bisognava fare attenzione tra la fine di febbraio e il principio di marzo, non confondersi, se l‟anno era bisestile andava usata la 366 e non la 60, i miei antenati l‟hanno fatto per tanto tempo senza mai sbagliare, con scrupolo, con regolarità, secondo il calendario, quinta generazione, io sono la quinta generazione di custodi del cimitero, qui sono cresciuto, quand‟ero come te correvo e giocavo sul piazzale, che corse e che giochi che mi sono fatto qui, percorrevo la diagonale, andavo dalla 19 alla 323, un anno in poche falcate dal 19 gennaio al 19 novembre, al ritorno tornavo indietro nel tempo, da grande non ho più avuto niente da fare, e neanche mio padre ne ebbe, il cimitero, la macchina, s‟era fermata. La corte in forma di quadrato sarà lastricata diagonalmente da conci rettangolari di pietra lavica grigia, ed arredata da un solo elemento verticale al centro, un lampione in ghisa a tre fiamme collocato all’incrocio degli assi di simmetria su un basamento anch’esso di piperno. Le mura perimetrali avranno lunghezza di ottanta metri per lato. Dalla tessitura diagonale della pavimentazione emergeranno appena, in corrispondenza degli incroci relativi all’immaginaria maglia ortogonale tracciata dalle linee partenti dal recinto di perimetrazione, emergeranno trecentosessanta pietre tombali a chiusura di altrettante bocche di fossa, ciascuna delle quali di forma quadrata e di ottanta centimetri per lato, e numerata progressivamente a scalpello in cifre arabe, affiorando impercettibilmente al livello del calpestio. Altre sei pietre tombali saranno disposte sul pavimento dell’edificio coperto corrispondente all’atrio d’ingresso, dov’è anche la «Casa de li becchini». In totale si otterrà il numero di trecentosessantasei pietre tombali, ciascuna delle quali sormonterà una sottostante camera verticale a pianta quadra, larga quattro metri su ogni lato e profonda dodici, interrotta a metri dieci da una griglia metallica a mo’ di filtro. Le fosse della corte saranno allineate in diciannove file, in numero di diciannove per ciascuna fila. Diciannove per diciannove trecentosessantuno, ma occorrerà sottrarre al risultato la fossa al centro degli assi di simmetria, dove si trova il lampione, e aggiungerla invece alle cinque nell’atrio chiuso, corrispondenti agli ultimi giorni dell’anno, le quali, con la sesta bisestile, riguadagneranno il numero pari. Lumi perpetui, perpetuo era il cimitero, dice il custode, crescevano i morti, le tombe restavano sempre quelle, a rotazione, un condominio, l‟anno dopo con nuovi inquilini, lo munno è na rota, chi sa poi che vene, parole di Ambra, musica di Mercadante; ma cos‟è, chi è che ti vuole sparare Santino?, io mi sono imprestato la moto e lui m‟ha seguito, „sto strunzo, e come fai a guidare la moto, faccio, faccio; non si spara ai ragazzini, ma tanto fin qui non arriva, stai tranquillo, nessuno sale quassù, nessuno lo conosce questo posto, e voi che ci state a fare allora, custodisco, va custodito anche se non funziona più, è un cimitero pur sempre anche se ha l‟anima dell‟almanacco, della tabella pitagorica, dell‟abaco, che conti ci facevo io da ragazzo, e che avete fatto in tutti questi anni? studiavo la canzone napoletana, che cosa sennò?, c‟era un panorama, ti affacciavi al portone e vedevi San Giorgio a Cremano, di là le isole, e tutte le cupole della città e il palazzo rosso di Capodimonte, dopo hanno costruito e non s‟è visto più niente. Vuoi bere un po‟ d‟acqua, Santino?, sei tutto sudato. Tu guardi lo spiazzo e adesso ti sembra di capirlo meglio, di immaginarlo quanto meno, più lo immagini e più ti impressiona, e che c‟è? chiede il custode facendoti luce nel camminare, c‟è che ho paura, no, perché?, i morti non sono cattivi, questi poi erano morti poverelli, disperati, di loro non c‟è rimasto più niente, o quasi niente qui sotto, si mefale lo musso stu orto me strafoco e doppo muorto vengo ‘nzuonno a ncuicì a ttè, parole di De Matteis, musica di

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Biscardi, però a me in tanti anni non è mai venuto a trovarmi nessuno la notte, anzi, sei tu il primo che viene a quest‟ora, ma tu sei vivo; e i nomi che voi dite dopo che avete cantato chi sono?, e sono gli autori, ecco il rubinet to, e mentre il custode apre il rubinetto ti chiedi Santino come potrà mai essere quest‟acqua, lo chiedi al custode, si può bere? eccome no, acqua buonissima, e si china prima di te alla bocchetta, ma tenendo la lampada lontano dal fiotto la lampada illumina così un traliccio e qualcosa più in basso, tu la vedi ed è un colpo, gridi, il grido rimbalza sui muri in ogni lato, e quella, quella che è?, non dicevate che non c‟era più niente?, il custode solleva gli occhi appena, continuando a bere, la cassa? risponde, tirandosi su e asciugandosi col fazzoletto, e come ti turbi subito Santino, quella fu una magnanimità, un dono, stai tranquillo, adesso te la mostro, ma io non la voglio vedere, voglio an-darmene dici, meglio il Pretannanze pensi, non devi avere paura, che uomo sei protesta il custode, vieni, è vuota, a me piena o vuota mi fa paura lo stesso, e intanto lo segui. Ecco la illumina, mi hai chiesto se quelli dell‟anno dopo cadevano sopra a quelli dell‟anno prima, sì, in effetti c‟era il problema del tonfo, che magari non suonava bene all‟orecchio di chi li accompagnava e gli voleva bene, a questo ci pensò la Baronessa, donna generosa, grande bene-fattrice, fu lei che regalò la cassa al cimitero, una cassa per ogni morto?, e no, mica poteva, chi potrebbe, no, una cassa per tutti, la stessa, una bella cassa di metallo con una leva per aprirla sul fondo, così la salma veniva calata nel-la cassa con l‟argano e tutti gli onori, e quando arrivava giù la leva scattava da sola, il fondo si apriva e la cassa tor-nava su vuota, o dolce Napoli, tu sei l’impero dell’armonia, questa la devi conoscere per forza Santino, questa è Santa Lucia, una barcarola. Occorre dire che la piazza non era di facciata, una facciata distesa a terra, limpida copertura per ricondurre a compo-stezza la brutalità naturale di cunicoli e fenditure, l’architettura vera era nascosta lì sotto, invisibile e in profondità, non camere scavate dall’alto ma costruite dal basso nel colle di Latrecco, cioè di Lautrec, prodotte da una struttura muraria a maglia ortogonale, una sequenza inflessibile di diciannove gallerie parallele, concluse da una sola volta a botte a tutto sesto; ogni galleria, suddivisa in diciannove parti uguali da un topagno, formava così all’intervallo di quattro metri e venti altrettante fosse quadrate. Il meccanismo era tutto 1ì, supporto per la piazza e contenitore, casa, dove per le abitudini stesse dei residenti le fondamenta coincidevano con l’alloggio. A un occhio che guardasse da laggiù, il Cimitero del Popolo sarebbe apparso curiosamente sorretto dal Popolo. Il Pretannanze ha sentito il tuo grido, Santino, adesso è là fuori che fiuta qua e là attorno al muro, inoltre, facendosi via via più accosto ha orecchiato anche la barcarola del custode, inevitabile; cerca appigli per le mani e per i piedi, si arrampica fino all‟orlo, da lì vede solo la luce ed è alla luce che spara. Rapido il custode nello spegnere la lampada, chi l‟avrebbe detto, rapido nell‟abbassarsi, e rapido anche nel sussurrare a fil di canto neh che so’ sti cannonate ca se sentono sparare?; tu accovacciato tra la cassa e il bagliore dello sparo, terrorizzato dici scusate, non potete trattenervi dalle canzoni almeno adesso?, e tratteniamoci, risponde il custode. Del resto, Santino, con la musica o senza il prezzo è lo stesso, il prezzo è „sto strunzo che avanza incerto verso voi due tenendo a mente da dove veniva la luce. Un cimitero paleoilluminista, si dirà, dando la colpa ai limiti della ragione. Certamente metteva ordine ortogonalmente nel passato, cancellando ogni pretesa individuale, ma proprio in questo perseguire la modernità, senza volerlo, senza saperlo, corrispondeva a un sentimento più antico e primitivo, quando i morti erano comunità indistinta, corale,fertilità nel ciclo della terra, e come tale frequentati, festeggiati. Anche per il tempo raggiungeva l’opposto di quel che avrebbe voluto: la rotazione di cui la macchina era capace convertiva il tempo lineare del progresso nel tempo ciclico e ricorrente di un’epoca lontanissima, mitica. L’utopia è necessaria, per cosa lottare altrimenti, l’oggetto d’utopia è ricco, abbonda, contiene perfino il suo contrario, il suo fallimento, maggiore è la passione e la precisione nell’elaborare l’oggetto tanto più il risultato contraddice e sbeffeggia l’intento. E passo dopo passo, quando è a un passo da voi e a te salgono le lacrime agli occhi, fa un passo falso, inciampa sulla cassa, bestemmia e si squilibra, incontra un sostegno nell‟argano, e nel sorreggersi la pistola gli cade, lontano da dove cade lui; il custode la illumina, tu la raccogli veloce, quanto pesa una pistola, ma tu e il custode siete già in piedi, mentre il Pretannanze, adesso in favore di luce, è ancora li a terra e si interroga su che cosa lo abbia intralciato, ma che cazzo è „sta cosa, che cazzo è „sto posto? Perché non gli spari Santino, non ne sei ancora capace?, io la moto te l‟ho ridata, dici, che vuoi, voglio che tutti capiscano che certe cose non si debbono fare, non sono permesse, risponde „sto strunzo alzandosi, compreso quello che fai tu adesso con la pistola, dammela subito, e io che ne sapevo che apparteneva a voialtri la moto, dovevi saperlo, la legge non ammette ignoranza, cita dalla propria esperienza personale, io ti ho fatto danni o no, solo pochi metri ho fatto, senza un graffio. E mentre tu e il tuo inseguitore cavillate sull‟aspetto legale della vicenda, tu con la pistola piegata in un modo che mai potresti colpirlo, lui incerto se il momento per saltarti addosso sia venuto, mentre disputate sulla norma e le sue violazioni, nel vecchio cimitero abbandonato di questa città di liberi pensatori, né tu né lui vi accorgete che la lampada non è più sostenuta da nessuno ma appoggiata lì a terra, da sola, chi la reggeva si è servito del buio e della disquisizione, ha fatto il giro dell‟argano, ha tirato a sé il gancio oscillante dalla catena, lentamente, senza rumore, e adesso lo trattiene sul limite dell‟oscillazione prendendo la mira come un balestriere o un bocciatore, punta alla parte più alta dell‟ombra di spalle, nel controluce, debole però sufficiente. E quando „sto strunzo ritiene di aver messo capo alle argomentazioni, quando giudica favorevole il procedere, insomma nell‟istante in cui conclude: m‟aggio scassato „o cazzo, e sbotta fisicamente contro di te e tu gridi alzando la pistola, in quell‟istante ti precede il gancio sospinto dal custode come un peso sui binari al luna-park, e tu sperimenti per la prima volta il mistero di un effetto senza causa apparente, l‟effetto del Pretannanze che stramazza ribadendo... „o cazzo. E che gioventù rumorosa dice il custode e piano piano torna alla luce, ti sei fatto male Santino?, no, non ti sei fatto male, però non riesci a raccapezzarti... ma l‟ho ammazzato io? domandi, no dice il custode di nuovo con la lampada in mano, allora non è morto?, ce ne vuole prima di essere morti, e si avvicina al corpo bocconi, illumina il sangue e il gancio che ancora dondola, a me pare morto; allora l‟avete ammazzato voi?, e si è trattato di un caso dice il custode,

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una circostanza. Circostanza, rifletti, altro che circostanza, adesso voi due siete davvero nei guai, il custode più ancora dite, forse è per questo che non canta?, magari rimugina, e intanto ti toglie la pistola di mano; io stavo trattando, dici, non potevate aspettare? l‟accordo non c‟era, risponde il custode, c‟era piuttosto la circostanza, il gancio era li, ma voi lo sapete che se questo è morto e gli altri si accorgono che è morto qui da voi, vi ammazzano? e lo sapete che se non è morto v‟ammazza lui? Certo che lo so, ci ho pensato, certo, già prima, ho pensato che potrebbe sistemarsi qui, posto ce n‟è, ma come qui? domandi, il custode fa di conto, siamo o non siamo al 28 di agosto, anzi a quest‟ora siamo già al 29, può sistemarsi alla 241, volete metterlo dentro una tomba?, e dove sennò, che siamo dottori noi per stabilire se è morto o vivo, si presenta come morto, si presenta al cimitero, bisognerà seppellirlo. Ma voi non l‟avete mai fatto, no, non l‟ho fatto però so come si fa, tengo l’arte e la manera, songo strutto, saccio tutto, parole e musica di ignoto. E mentre il custode va verso l‟argano e si sofferma appena sul Pretannanze, tu pensi che è meglio fuggire, fuggire adesso, fuggire subito, solo che il custode è chino a terra e ti chiama deluso, non possiamo metterlo in quella che gli spetta, dice, troppo lontana, le ruote dell‟argano sono piene di ruggine, non ce la faremo mai a spingerlo fin lì, dobbiamo metterlo in questa che gli è più vicina, la 301, peccato. Prende un cavo di ferro vicino alla cassa, lo passa nel gancio che pende dall‟argano, non è che potresti darmi una mano Santino, in effetti c‟è del lavoro da fare, tirare giù il gancio, passare il cavo ai tre anelli della pietra rotonda, mettere mano alla ruota dell‟argano arrugginita anche quella, voi due lo fate senza guardarvi, ascoltando invece il lamento del meccanismo, lo scricchiolio della pietra che prima resiste poi si stappa con un risucchio di vento che a te mette i brividi, e comincia a salire ondeggiando. Il custode blocca la ruota dell‟argano col dente di ferro; si piega sul Pretannanze, l’aizammo mo da terra, tu p’a coda i p’a capezza, musica di Biscardi, parole di Migliorato, parole che voi due eseguite, ma quanto pesa „sto strunzo dici, le gambe più che alzarle le trascini sul piperno, del resto il tragitto è così breve, il custode è già sulla bocca di fossa, illumina l‟interno, un silenzio, un profondo là sotto che a te fa orrore guardare, anche la testa del Pretannanze è già nella bocca, acalate no poco, stentato è lo passaggio, antico motivo di Capri sussurra il custode, poi viene a darti una mano dalla tua parte, insieme gli sollevate le gambe, spingete il corpo a testa in giù verticale, a te pare che le gambe si muovano, suggestione Santino, è solo la gravità che adesso te le toglie di mano, però non è suggestione l‟urlo che senti lungo tutta la fossa nella caduta, e nemmeno il fragore del tonfo con cui s‟interrompe. Il Cimitero del Popolo restò aperto dal 1762 al 1890. I nomi di coloro che ne usufruirono furono riportati in libri mastri, poi andati perduti. L’architetto Fuga, dopo l’Albergo dei Poveri e il Cimitero delle Trecentosessantasei fosse, costruì un’ultima architettura sociale, i Granili nella via dei Portici, ottantasette celle rettangolari per l’accumulo del grano. Vis-se fino all’età di ottantatre anni. Ecco, Santino, ci voleva tanto, dice il custode togliendo il blocco alla ruota dentata dell‟argano e calando la pietra; poi si china per collimarla con la bocca di fossa, e nella fessura, prima di chiuderla, lascia cadere la pistola: mettite a mme, almeno muorta dormi vogl’io co chesto rre, anche questa non la conosci Santino, questo è un bolero, Santino ?... Ma dove sei finito? Santino?... Hai già scavalcato il muro, scendi la rampa, trattieni il passo allungato dalla pendenza. Chi potrebbe dire che ti sia accaduto qualcosa, o che tu abbia a che fare con quel che è accaduto, te ne vai verso le luci che terminano di netto nel bordo scuro del mare. Sei di nuovo nel rumore, sei nel caldo. (da Mania di D. Del Giudice, 1997) Un altro spunto

Quando soltanto una vista mille volte più acuta di quella che può dare la natura sarebbe capace di scorgere nell‟oriente del cielo la differenza iniziale che separa la notte dall‟aurora, il muezzin si svegliò. Si svegliava sempre a quell‟ora, con il sole, tanto che fosse estate come inverno, e non aveva bisogno di nessun artefatto per misurare il tempo, niente di più che un mutamento infinitesimale nell‟oscurità della camera, il presentimento della luce appena immaginata sulla pelle della fronte, come un tenue soffio che gli sfiorasse le sopracciglia o la prima e quasi imponderabile carezza che, a quanto si sa o si crede, è arte esclusiva e segreto fino a oggi non svelato di quelle belle un che attendono i fedeli nel paradiso di Maometto. Segreto, e insieme prodigio, se non mistero insormontabile, è la virtù che possiedono di ricrearsi la verginità appena la perdono, a quanto pare suprema beatitudine nella vita eterna, il che viene definitivamente a provare che non finiscono con questa gli affanni propri e quelli altrui, tantomeno le sofferenze immeritate. Il muezzin non apri gli occhi. Poteva rimanere a letto ancora per un po‟ di tempo, mentre il sole, molto lentamente, si avvicinava all‟orizzonte della terra, ma ancora così lontano che nessun gallo della città aveva alzato la testa per scrutare i movimenti del mattino. Certo è che abbaiò un cane, senza risultato, ché gli altri dormiva-no forse sognando di stare abbaiando nei sogni. E un sogno, pensavano, e continuavano a dormire, circondati da un mondo popolato di odori senza dubbio stimolanti, ma nessuno cosi pressante da farli svegliare di soprassalto, l‟odore inconfondibile della minaccia o della paura, per fare solo questi esempi elementari. Il muezzin si alzò a tentoni nel buio, trovò gli indumenti con cui fini di coprirsi e usci dalla camera. La moschea era silenziosa, solo i passi incerti risuonavano sotto gli archi, piedi che si trascinavano prudenti, come se temessero di essere ingoiati dal suolo. A qualunque altra ora del giorno o della notte non provava mai questa angoscia dell‟invisibile, soltanto in questo momento mattutino, quando saliva le scale del minareto per chiamare i fedeli alla prima preghiera. Per uno scrupolo superstizioso, gli si raffigurava nella fantasia la propria grave colpa per il fatto che gli abitanti stessero ancora dormendo quando il sole era già alto sul fiume e, svegliandosi di colpo, abbagliati dalla luce chiara, chiedessero gridando dov‟era il muezzin che non li aveva chiamati all‟ora giusta, qualcuno più caritatevole avrebbe detto, Sarà malato, ma non era vero, lui era sparito, sì, portato all‟interno della terra da un genio delle tenebre più grandi. La scala, a chiocciola, era faticosa da salire, tanto più per la vecchiaia del muezzin, per fortuna non c‟era bisogno che gli

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bendassero gli occhi come si fa alle mule dei mulini per non fargli venire le vertigini. Quando arrivò in cima, senti sulla faccia il fresco del mattino e la vibrazione della luce all‟albeggiare, ancora nessun colore, ché non può averlo quel puro chiarore che precede il giorno e sfiora la pelle con un brivido sottile, come un tocco di invisibili dita, un‟im-pressione unica che ti fa dubitare se la screditata creazione divina in fondo non sia un ironico fatto della storia per umiliare scettici e atei. Il muezzin percorse con la mano, lentamente, il parapetto circolare fino a trovare, scolpito sulla pietra, il segno che indicava la direzione della Mecca, la città santa. Era pronto. Alcuni istanti ancora per dare tempo al sole di affacciarsi ai balconi della terra con la sua aura, e anche per schiarirsi la voce, perché la scienza declamatoria di un muezzin deve apparire evidente fin dal primo grido, è lì che si deve dimostrare, non quando la gola si è già addolcita per l‟opera della parola e il conforto del cibo. Ai piedi del muezzin c‟è una città, laggiù un fiume, tutto dorme ancora, ma inquieto. Il mattino comincia a muoversi sopra le case, la superficie dell‟acqua si trasforma in uno specchio del cielo, e allora il muezzin inspira profondamente e grida, acutissimo, Allahu akbar, predicando ai quattro venti la superba grandezza di Dio, e ripete, come griderà e ripeterà le formule seguenti, in estatico canto, prendendo il mondo a testimone che non c‟è altro Dio all‟infuori di Allah, e che Maometto è il messaggero di Allah, e dopo aver detto queste verità essenziali chiama alla preghiera, Venite all‟azalà, ma essendo un uomo per natura pigro, anche se credente nel potere di Colui che non dorme mai, il muezzin rimprovera affettuosamente gli altri, a cui le palpebre pesano ancora, La preghiera è meglio del sonno, As-salatu jay-run mm an-nawn, per coloro che in questa lingua lo capiscono, e infine ha concluso affermando che Allah è l‟unico Dio, La ilaha illa llah, ma adesso solo una volta, che è già abbastanza quando si tratta di verità definitive. La città mormora le preghiere, il sole è spuntato e illumina le terrazze, fra poco nei cortili spunteranno gli abitanti. La torre della moschea è piena di luce. Il muezzin è cieco. Non l‟ha descritto cosi lo storico nel suo libro. Soltanto che il muezzin è salito sul minareto e da lì ha convocato i fedeli alla preghiera nella moschea, senza specificare sul momento, se era mattina o mezzogiorno, o se stava tramontando il sole, perché certamente, secondo lui, i piccoli particolari non interesserebbero alla storia, ma soltanto a che il lettore sapesse che l‟autore conosceva a sufficienza le cose di quel tempo per farne menzione responsabilmente. (da J. Saramago, Storia dell’assedio di Lisbona, 1989) - prendere un personaggio della vostra città/paese qualsiasi, meglio se minimo e arricchirlo alla Saramago. Un altro ancora

Le interviste impossibili è il titolo di un programma della seconda rete radiofonica RAI, in onda dal 1973 al 1975, in cui uomini di cultura contemporanei reali fingono di trovarsi a intervistare 82 fantasmi redivivi di persone appartenenti a un'altra epoca, impossibili da incontrare nella realtà, da qui il titolo. v. alcune interviste impossibili, in http://www.youtube.com/watch?v=G7ON_uQ4sls

Inventarne una. Credevate fossero finiti? IL CAMALEONTE di Anton Cechov Attraverso la piazza del mercato va il commissario rionale di polizia Ociumielov in cappotto nuovo e con un fagottino in mano. Dietro a lui cammina una guardia dai capelli rossicci con un setaccio colmo fino all‟orlo di uva spina sequestrata. All‟ingiro silenzio… Sulla piazza non un‟anima… Le porte aperte delle botteghe e delle bettole guardano tristemente il mondo creato, come fauci affamate; accanto ad esse non ci sono neppur mendicanti. - E così tu mordi, maledetto! – ode a un tratto Ociumielov. – Ragazzi, non lasciatelo scappare! Oggidì è proibito mordere! Tienilo! A… ah! Si sente uno strillo canino. Ociumielov guarda da un lato e vede che dal deposito di legna del mercante Piciughin, saltando su tre zampe e voltandosi indietro, corre via un cane. Lo rincorre un uomo in camicia di percalle inamidata e panciotto sbottonato. Gli corre dietro e, sporgendosi col corpo in avanti, cade a terra e afferra il cane per le zampe posteriori. Si sente un secondo guaito e il grido: “Non lasciatelo andare!”. Dalle botteghe si affacciano le fisionomie assonnate e ben presto vicino al deposito di legna, come spuntata di sotterra, si raduna una folla. - Qualche disordine, pare, signoria!… - dice la guardia. Ociumielov fa un mezzo giro a sinistra e va verso l‟assembramento. Proprio vicino al portone del deposito vede che sta l‟uomo sopra descritto e, levando in alto la mano destra, mostra alla folla un dito insanguinato. Sulla faccia semiebbra par che sia scritto: “Ora ti stronco furfante!”, e anche il dito stesso ha l‟aspetto di un segno di vittoria. In quest‟uomo Ociumielov riconosce l‟orefice Chriukin. Al centro della folla, con le zampe anteriori divaricate e tremante in tutto il corpo, è accovacciato al suolo l‟autore dello scandalo in persona: un cucciolo bianco di levriero con il muso aguzzo e con una macchia gialla sul dorso. Nei suoi occhi lacrimosi è un‟espressione d‟angoscia e di sgomento. - Che cosa succede qui? – domanda Ociumielov, fendendo la folla. – Perché questo? Perché mostri il dito?… Chi ha gridato? - Io vado, signoria, e non tocco nessuno… - comincia Chriukin, tossendo nella mano, - sto parlando della legna con Mitri Mitric‟, e tutt‟un tratto questo vigliacco, che è che non è, mi morde il dito… Voi mi scuserete, io sono un uomo che lavora… Il mio è un lavoro minuto. Bisogna che m‟indennizzino, perché io con questo dito forse per una settimana non farò un movimento… Anche nella legge, signoria, non sta scritto che da una bestia si debba tollerare… Se ognuno potrà mordere, sarà meglio neppur vivere al mondo…

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- Uhm!… Bene… - dice Ociumielov severamente, tossendo e movendo i sopraccigli. – Bene… Di chi è il cane? Io non la lascerò così. V‟insegnerò a lasciar liberi i cani! È ora di rivolger l‟attenzione a simili signori che non vogliono sottostare alle disposizioni! Quando gli daranno una multa, al mascalzone, imparerà da me che cosa voglion dire i cani e le altre bestie randagie! Gli farò veder io!… Eldrin, - si rivolge il commissario alla guardia, - cerca di sapere di chi è il cane e stendi il verbale! E il cane va soppresso. Senza indugio! Di sicuro è arrabbiato… Di chi è il cane, domando? - A quanto pare è del generale Zigalov! – dice qualcuno della folla. - Del generale Zigalov? Uhm!… Toglimi un po‟ il cappotto, Eldrin… Fa un caldo terribile! S‟ha da supporre che stia per piovere… Una sola cosa non capisco: come ha potuto morderti” – si rivolge Ociumielov a Chriukin. – Forse che può arrivarti al dito? È piccolo, e tu guarda lì che uomo grande e grosso sei! Tu probabilmente ti sei graffiato il dito con un chiodino, e poi ti è venuta in testa l‟idea di spillar quattrini. Tu, già… che gente siete si sa! Vi conosco, diavoli! - Lui, signoria, gli ha spremuto il sigaro sul naso per divertirsi, e lui, non essendo stupido, zaff… Un attaccabrighe, signoria! - Mentisci, guercio! Non hai visto, e quindi perché mentire? Sua signoria è un signore intelligente e capisce chi dice bugia e chi parla in coscienza, come davanti a Dio… E se io mentisco, ne giudichi il conciliatore. Da lui, nella legge è detto… Oggidì sono tutti uguali… Io stesso ho un fratello nei gendarmi… se volete sapere… - Non discutete! - No, non è del generale… - osserva significativamente la guardia. – il generale di così non ne ha. Lui ha soprattutto dei cani da fermo… - Lo sai di sicuro? - Di sicuro, signoria… - Lo so anch‟io. Il generale ha dei cani di prezzo, di razza, e questo lo sa il diavolo che cos‟è! Né pelo né figura… una cosa ignobile, nient‟altro… e tenere un simile cane?!… Ma dove ce l‟avete l‟intelligenza? Se s‟incontrasse un cane simile a Pietroburgo o a Mosca, sapete che avverrebbe? Là non guarderebbero nella legge, ma sul momento: muori! Tu Chriukin, hai patito un danno e non lasciar questa faccenda così… È necessario dare una lezione! È ora… - Ma fors‟anche è del generale… - pensa ad alta voce la guardia. – Sul muso non ce l‟ha scritto… Giorni fa nel suo cortile ne vidi uno così. - Si sa, è del generale! – dice una voce dalla folla. - Uhm!… Mettimi addosso, caro Eldrin, il cappotto… Tira un po‟ di vento… Ho dei brividi… Tu lo porterai dal generale e là domanderai. Dirai che l‟ho trovato e mandato io… E dì che non lascino andar sulla strada… Forse è di prezzo, e se ogni porco gli premerà il sigaro sul naso, ci vorrà molto a rovinarlo? Il cane è una best ia delicata… E tu, tanghero, abbassa la mano! Non hai da mettere in mostra il tuo stupido dito! Tu adesso ci hai colpa!… - Viene il cuoco del generale, gli domanderemo… Ehi, Prochor! Vieni un po‟ qua, caro! Da‟ un‟occhiata la cane… È vostro? - Che idea! Di simili da noi non ce ne sono stati mai. - E qui non c‟è da far tante domande, - dice Ociumielov. – È un cane randagio! Non c‟è da far discorsi… Se ho detto che è randagio, vuol dire che è randagio… Sopprimerlo, ecco tutto. - Non è nostro, - continua Prochor. – È del fratello del generale, ch‟è arrivato l‟altro giorno. Il nostro non è amante dei levrieri. Suo fratello ci ha passione… - Ma che è arrivato suo fratello? Vladimir Ivanic‟? – domanda Ociumielov, e tutta la sua faccia s‟inonda d‟un sorriso d‟intenerimento. – Guarda un po‟, Signore! E io che non lo sapevo! È venuto in visita per un po‟ di tempo? - In visita… - Guarda un po‟, Signore!… Sentiva la mancanza del fratello… E io nemmeno lo sapevo! Così questo è il suo cagnolino? Molto piacere… Prendilo… Il cagnuzzo non è male… È così vispo… Ha dato un morso a costui nel dito! Ah-ah-ah!… Su via, perché tremi? Rrr…Rr… Si arrabbia il briccone… è un tal cagnetto… Prochor chiama il cane e s‟allontana con esso dal deposito di legna… La folla ride forte di Chriukin. - Arriverò ancora fino a te! – Lo minaccia Ociumielov e, chiudendosi nel cappotto, continua il suo cammino per la piazza del mercato. INDIVIDUA LE CARATTERIZZAZIONI DEL COMMISSARIO DI POLIZIA OCIUMIELOV E LE SUE DIVERSE REAZIONI IN BASE ALLE VARIE CIRCOSTANZE DEL RACCONTO; IMMAGINA ORA DI MODIFICARLE PER FAR EMERGERE CARATTERIZZAZIONI DEL PERSONAGGIO TOTALMENTE DIVERSE (ANIMALISTA, INSUBORDINATO, ECC.). COME CAMBIEREBBE IL TITOLO? E per finire una serie di esempi, che vorremmo analizzaste in vista dei prossimi incontri

PUNTO DI VISTA IL CORRIDOIO DEL GRANDE ALBERGO di Dino Buzzati Rientrato nella mia camera d‟albergo a tarda ora, mi ero già mezzo spogliato quando ebbi bisogno di andare alla toilette. La mia camera era quasi in fondo a un corridoio interminabile e poco illuminato; circa ogni venti metri tenui lampade violacee proiettavano fasci di luce sul tappeto rosso. Giusto a metà, in corrispondenza di una di queste lampadine, c‟erano da una parte la scala, dall‟altra la doppia porta a vetri del locale.

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Indossata una vestaglia, uscii nel corridoio ch‟era deserto. Ed ero quasi giunto alla toilette quando mi trovai di fronte a un uomo pure in vestaglia che, sbucato dall‟ombra, veniva dalla parte opposta. Era un signore alto e grosso con una tonda barba alla Edoardo VII. Aveva la mia stessa meta? Come succede, entrambi si ebbe un istante di imbarazzo, per poco non ci urtammo. Fatto è che io, chissà come, mi vergognai di entrare al gabinetto sotto i suoi sguardi e proseguii, come se mi dirigessi altrove. E lui fece lo stesso. Ma, dopo pochi passi, mi resi conto della stupidaggine commessa. Infatti, che potevo fare? Le eventualità erano due: o proseguire fino in fondo al corridoio e poi tornare indietro, sperando che il signore con la barba nel frattempo se ne fosse andato. Ma non era detto che costui dovesse entrare in una stanza e lasciare così libero il campo; forse anch‟egli voleva andare alla toilette e, incontrandomi, si era vergognato, esattamente come avevo fatto io; e ora si trovava nella stessa mia imbarazzante situazione. Perciò, tornando sui miei passi, rischiavo d‟incontrarlo un‟altra volta e di fare ancora di più la figura del cretino. Oppure – seconda possibilità – nascondermi nell‟andito, abbastanza profondo, di una delle tante porte, scegliendone una poco illuminata e di qui spiare il campo, fin che fossi stato certo che il corridoio era assolutamente sgombro. E così feci, prima di aver analizzato la situazione a fondo. Solo quando mi trovai, appiattato come un ladro, in uno di quegli angusti vani (era la porta della camera 90) cominciai a ragionare. Prima di tutto, se la stanza era occupata e il cliente era entrato o uscito, che avrebbe detto trovandomi nascosto dinanzi alla sua porta? Peggio: come escludere che quella fosse proprio la camera del signore con la barba? Il quale tornando indietro, mi avrebbe bloccato senza remissione. Né ci sarebbe stato bisogno di una speciale diffidenza per trovare le mie manovre molto strane. Insomma, restare là era un‟imprudenza. Adagio adagio sporsi il capo a esplorare il corridoio. Da un capo all‟altro assolutamente vuoto. Non un rumore, un suono di passi, un‟eco di voce umana, un cigolìo di porta che si aprisse. Era il momento buono: sbucai dal nascondiglio e a passi disinvolti mi incamminai verso la mia stanza. Lungo il tragitto, pensavo, sarei entrato un momento alla toilette. Ma nello stesso istante, e me ne accorsi troppo tardi per potere riacquattarmi, il signore con la barba, che evidentemente aveva ragionato come me, usciva dal vano di una delle porte in fondo, forse la mia, e mi muoveva decisamente incontro. Per la seconda volta, con imbarazzo ancora maggiore, ci incontrammo dinanzi alla toilette; e per la seconda volta nessuno dei due osò entrare, vergognandosi che l‟altro lo vedesse; adesso sì c‟era veramente il rischio del ridicolo. Così, maledicendo tra me il rispetto umano, mi avviai sconfitto alla mia stanza. Come fui giunto, prima di aprire l‟uscio, mi voltai a guardare: laggiù, nella penombra, intravidi quello con la barba che simmetricamente entrava in camera; e si era voltato a guardare alla mia volta. Ero furioso. Ma la colpa non era forse mia? Cercando invano di leggere un giornale, aspettai per più di mezz‟ora. Quindi aprii la porta con cautela. C‟era nell‟albergo un gran silenzio, come in una caserma abbandonata; e il corridoio più che mai deserto. Finalmente! Scattai quasi di corsa, ansioso di raggiungere il locale. Ma dall‟altra parte, con un sincronismo impressionante, quasi la telepatia avesse agito, anche il signore con la barba guizzò fuori dalla sua camera e con sveltezza impressionante puntò verso il gabinetto. Per la terza volta perciò ci trovammo a fronte a fronte dinanzi alla porta e vetri smerigliati. Per la terza volta tutti e due simulammo, per la terza volta si proseguì entrambi senza entrare. La situazione era tanto comica che sarebbe bastato un niente, un cenno, un sorrisetto, per rompere il ghiaccio e voltare tutto in ridere. Me né io, né probabilmente lui, si aveva voglia di scherzare; al contrario; una rabbiosa esasperazione urgeva, un senso d‟incubo, quasi che fosse tutta una macchinazione ordita misteriosamente in odio a noi. Come nella prima sortita, finii per scivolare nel vano di una porta ignota e qui nascondermi in attesa degli eventi. Ora mi conveniva, per limitare almeno i danni, di aspettare che il barbuto, certamente appostato come me all‟altra estremità del corridoio, sbucasse dalla trincea per primo: lo avrei quindi lasciato avanzare un buon tratto e solo all‟ultimo sarei uscito anch‟io; ciò allo scopo di imbattermi con lui non più dinanzi alla toilette bensì molto più in qua, cosicché, superato l‟incontro, io rimanessi libero di agire senza noiosi testimoni. Se invece lui, prima d‟incontrarmi, si fosse deciso a entrare nel locale, tanto meglio; esaudite le sue necessità, si sarebbe poi ritirato in camera e per tutta la notte non si sarebbe più fatto vivo. Sporgendo appena un occhio dallo stipite (per la distanza non potevo vedere se l‟altro stesse facendo altrettanto), restai in agguato lungo tempo. Stanco di stare in piedi, a un certo punto mi accoccolai sulle ginocchia, senza interrompere mai la vigilanza. Ma l‟uomo non si decideva a uscire. Eppure egli era sempre laggiù, nascosto, nelle mie stesse condizioni. Udii suonare le due e mezza, le tre, le tre e un quarto, le tre e mezza. Non ne potevo più. Infine caddi addormentato. Mi risvegliai con le ossa rotte, che erano già le sei del mattino. Sul momento non ricordavo nulla. Che cos‟era successo? Come mai mi trovavo là per terra? Poi vidi altri come me, in vestaglia, rincantucciati negli anditi delle cento e cento porte, che dormivano: chi in ginocchio, chi seduto sul pavimento, chi assopito in piedi come i muli; pallidi, distrutti, come dopo una notte di battaglia. INDIVIDUA IL PUNTO DI VISTA E LA FOCALIZZAZIONE PROPRIA DEL RACCONTO E UTILIZZALI PER COSTRUIRE UNA SITUAZIONE NARRATIVA SIMILE A QUESTA, RACCONTANDO UNA VICENDA TRAGICOMICA CHE POSSA ESSERE CAPITATA A TE O AD UN PERSONAGGIO DELLA TUA CITTÀ.

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DIALOGO

LA CORSA DIETRO IL VENTO di Dino Buzzati Il trasporto del fu Isidoro Mezzaroba, professore di lettere al liceo (e già autore sotto lo pseudonimo di Doris Mezzabà, di alcune commedie dialettali recitate da filodrammatiche del luogo con successo lusinghiero) il trasporto dunque stava muovendo dal numero 71 di via Newton in direzione della parrocchiale - colleghi, il preside, il provveditore, studenti, la rappresentanza del collegio " Gian Battista Vico " con bandiera - quand'ecco comparve Federico Pagni, il celebre scrittore. Fu un colpo di scena. Due tre signori in nero gli si fecero incontro. " Grazie grazie, maestro... Oh sarebbe così felice di saperlo, il povero Doro... Maestro, prego, non vorrebbe...? " E un intimo, strappato uno del cordoni del feretro di mano a un parente povero, lo porse cerimoniosamente, quasi fosse un pasticcino al romanziere. Allora il Pagni, atteggiato il volto a un'espressione di nobile sconforto, chiuse sul cordone la mano sinistra inguantata di cinghiale e si avviò. La destra, abbandonata lungo il fianco, teneva per la falda l'Homburg nero, di fattura inglese. "Meno male" pensò "almeno non avrò da parlare con questa branca di cretini." Intorno, la piccola folla di dolenti non si era ancora incolonnata. Gli sguardi si concentravano tutti su di lui. Lentamente, Pagni girò le meste pupille intorno, assaporando il piccolo trionfo. Nel riconoscere qualcuno, lasciava affiorare all'angolo delle labbra un'ombra di sorriso estremamente discreto e malinconico. Col paltò blu scuro, la sciarpa grigia di cashemir, i capelli ancora folti e alle tempie brizzolati, alto ed eretto, soltanto la testa appena appena reclinata per la luttuosa circostanza, egli si sentì un bell'uomo, nel fiore degli anni, stillante di energie. Proprio di fianco a lui si trovò un gruppo di quattro studentesse che lo contemplavano rapìte. Una, bellissima, in pelliccia d'agnellone, addirittura lo divorava con gli sguardi. Con gli occhi lui rispose, intensamente. La vide farsi rossa. Giubilò in cuor suo. "Mi mangio un mulo vivo" pensò "se domani questa qui non mi telefona". "No, senti Gippi " disse alla figlia donna Laetitia Zaghetti Brin " ma al ballo del Sociale non ci vai, mi dispiace ma tu Gippi non ci vai. " " Ho già combinato tutto, mamy! Viene anche la Gabriella, la Andreina, la Lu, anche la Fabrizia viene e sì che i suoi sono così difficili. " " Le altre ci andranno, tu quella sera resti a casa. Ciascuno si regola come meglio crede... Figurati, quest'anno ci sarà un ambiente terribilmente misto. Sai perfino chi ci va? La Buracchi, con la figlia, quella qui sotto, della drogheria. " "Uffa, non sono più tempi da avere queste fisime. E poi è un ballo benefico, per i bambini non so più che cosa... " " Fisime o no, tu sei mia figlia e alla festa non ci vai. Se lo scopo è benefico, un'offerta possiamo sempre farla, ma alla festa non ci vai. Diamine, c'è un motivo elementare di decoro, mi meraviglio che tu non lo capisca. Quando si porta un nome come il nostro, sarà magari scomodo ma si hanno dei doveri... Le tradizioni, cara mia, il prestigio della casa... Oh lo so che per te sono idiozie, lo so che se dipendesse da te ci ridurremmo al livello dei barboni... Esistenzialismo! Altro che esistenzialismo!... Osserva piuttosto il tuo trisavolo, là appeso al muro! Che faccia, che stile, quella sì era gente!... Oh insomma al ballo non ci vai " L'avvocato Sergio Predicanti, 55 anni (specialità cause di annullamento matrimoni) va dal sarto. la seconda prova di un completo blu scuro con una riga rossa sottilissima, che quasi non si vede. L'avvocato ha perso la pazienza, è acceso in volto: " Il solito, il solito, già me la sentivo... caro il mio Marzoni, glielo ho raccomandato cento volte! Le spalle le spalle le spalle... ma non vede come qui dietro mi monta? ma non vede che gobba? non vede che orrore? ". "Avvocato, non si agiti... rimediamo subito è una inezia " (facendo segni col gessetto) " ecco là... la... una bella scalfatina... una bella scalfatina e la gobba sparirà." "Scalfatina scalfatina! Lei, caro Marzoni, dice sempre così e poi... Oh a proposito, si ricordi, alle maniche quattro bottoni, quattro mi raccomando, sarà meglio che lei prenda nota... e non asole finte... che si possano sbottonare tutti e quattro, siamo intesi? Mica come l'ultima volta che..." Piero Scarabatti, contadino, verso sera, sull'orlo della concimaia, scarica strame da un carretto per mezzo di un forcone. Si ferma ad osservarlo don Anselmo, il prevosto, che fa la sua passeggiata. Osserva sorridendo e dice: "Ma bravo Piero, ci dai dentro eh? Che razza di muscoli che hai! ". Piero si ferma, ride " Ah sì, non faccio per vantarmi! Ma lei non mi aveva mai visto, don Anselmo? Sono famoso, sa?". "Famoso per che cosa?" "Per questo che sto facendo adesso... Guardi, guardi, mezzo quintale ne tiro su con una forchettata sola... Guardi... come se fossero spaghetti... Op... op... là!... Ha visto? Almeno sessanta chili di letame con un colpo... mica male eh... Ah lei non lo sapeva don Anselmo? Non c'è mica nessuno sa, nel giro di chilometri, non c'è mica nessuno, neanche dei vecchi, che ci sappia fare come me... " Il professore Guglielmo Cacòpardo, ordinario di diritto amministrativo all‟università, esamina, con un collega, le bozze di stampa della nuova rivista Quaderni di diritto pubblico. " No, no, per carità.. mio caro Giarratana, dammi anche tu un parere spassionato... Io trovo che è semplicemente indegno... Guarda, guarda, la lista del comitato di redazione coi nostri due nomi mescolati insieme a degli sbarbatelli che hanno preso la libera docenza l'altro ieri... In ordine alfabetico! In ordine alfabetico!... Noi che abbiamo trent'anni di insegnamento sulle spalle... Ti par possibile? E avessero almeno stampato i nostri nomi in caratteri più grandi, o che so io, pazienza... Ma così... Giuro che l'hanno fatto apposta, una mascalzonata bella e buona, li conosco quei tipi di arrivisti... Oh non lo dico per me, tu mi conosci Giarratana, dimmi tu se sono mai stato attaccato a queste

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piccolezze... Ma è per un senso di giustizia, nient'altro che un senso di giustizia... Stasera stessa gli scrivo a quei bru bru ritirando l'adesione... E poi, per il decoro dell'università, direi, per il decoro dell'ateneo, non sei del mio parere Giarratana? " Nessie Smiderle, 59 anni (Smiderle e Kunz S.A. metalli ferrosi) si è fatta decolorare un po' i capelli. Ansiosa, si guarda nello specchio mentre il parrucchiere dà gli ultimi tocchi. " Creda a me, signora, lei ha un capello eccezionale, un capello che si lavora così bene! " "Ma senta, Flavio, non le pare che siano un po' troppo chiari? Per essere sincera, a me il platinato non mi sfagiola proprio niente." "Che dice, signora? Platinati? Vorrà scherzare spero. Ma questo è il biondo Arcadia, la parola d'ordine nella Café Society. La nuance assolutamente d'obbligo per una bella testolina alla Marlon Brando come la sua, signora Smiderle." "Ma lei non pensa, Flavio, non pensa che un bel rouge... un rosso come dire... ecco un bel rouge mattone caldo, non pensa caro Flavio che sarebbe più giovanile" "Il rouge briquetage lei dice? Oh no... positivamente no...Per una coiffure à la Jeanne d'Arc se mai, dico se mai... ma per lei no. Si osservi, si osservi, signora Smiderle! Un giovanottino sembra, un pericoloso giovanottino di Saint-Germain-des-Prés." "Dice sul serio, Flavio?" "Oh signora!" Nel caffè degli sportivi, era una sera di domenica, si fece per un attimo silenzio. Un omettino sbilenco e secco avanzò nella ressa che si aprì rispettosamente al suo passaggio. Fu il centro dell'attenzione generale. "Ma chi è quel gobbettino?" "Come? Non sai? Beppino Strazzi, l'amico di Attavanti." Per essere intimo di Mauro Attavanti, il famoso centro-attacco, lo Strazzi godeva in quegli ambienti di considerazione somma. Il "suo" tavolo era occupato da quattro pezzi d'uomini dall'aspetto facinoroso e benestante (tre indossavano paltò chiari di cammello). Tutti e quattro alla vista dello Strazzi, si alzarono di colpo sorridendo. L'omettino, senza neanche ringraziare, si sedette. Era livido di collera. Una ventina di persone gli si strinsero intorno, ansiose di notizie. In mezzo a un coro di esclamazioni e di domande, spiccava la vocetta rauca dello Strazzi. "Ah, ma non la finisce mica così! Ci mancherebbe altro!" (tre ore prima, durante una partita decisiva, Attavanti era stato squalificato per vie di fatto contro l'arbitro) "Come? Ma se non l'ha neanche sfiorato! Ma se l'hanno visto tutti... Oh ma qui non si respira, fate largo brava gente... Che ha detto Mauro?... Piangeva povero ragazzo!" L'omettino si infervorava a freddo, inebriato di popolarità. Un cameriere cercò un varco, sollevando il vassoio sopra le concitate teste: "Permesso? Permesso? Il ponce per il cavaliere Strazzi!". Nella calca si aprì subito un pertugio. "Oh bravo il mio Giacomo" fece lo Strazzi portando la commedia al limite "c'è almeno qualcuno che si ricorda del povero Beppino!" Qualcuno rise: "Però, che simpatico!". Poi si udì la vocetta chioccia: "Mauro mi ha detto... Mauro sa quello che... Se Mauro mi dava ascolto... Mauro mi ha giurato che... ". "E sai, Josepha, chi ho conosciuto a Procida? La contessa Lisa Squarcia. È tua cugina no? " La bella Josepha Squarcia sembrò un serpente a cui schiacciassero la coda." Lisa Squarcia mia cugina?" "La conosci vero?" "Forse... una volta... ma abbiamo sempre preferito stare alla larga da quei morti di fame." "Ma è tua cugina o no?" "Nemmeno per idea. Deve essere di un ramo molto ma molto laterale... E contessa poi non è mai stata." "Però tutti la chiamavano contessa. E suo marito porta la corona ricamata sulla..." "Fammi il santo piacere! Il titolo spetta a noi soltanto... Massimo la conosce sai la genealogia della famiglia." "Eppure, cara Josepha, ti assicuro che..." "Basta così, ti prego, Laura, perdona la schiettezza, ma non posso ammettere che dei cafoni, sì dei cafoni sfruttino l'omonimia per... Lisa Squarcia contessa! Ah! ah! " E scoppiò in una risata isterica. "Scusami, cara, io non pensavo..." "Scusami tu piuttosto, se mi sono lasciata un poco trasportare, ma è un argomento questo che mi suscita..." Il sindaco andò a visitare le nuove attrezzature dell'Anagrafe. Il caporeparto ragionier Claudio Vicedomini, in camice bianco, spiegava le meraviglie del casellario elettronico di recente installazione. Erano davanti a un grande quadro pieni di leve e di bottoni. "Questa macchina" disse Vicedomini "esegue in tre secondi il lavoro che una volta espletavano dieci undici impiegati nello spazio di sei ore. Ecco qua, per esempio, signor sindaco: provi a scegliere un giorno qualsiasi, di un qualsiasi anno." "Ma, non saprei.. il 16 giugno... il 16 giugno 1957." "Benissimo, io non ho che da schiacciare dei bottoni. E adesso... uno... due... tre..." Si udì un ronzio, qualcosa scattò nelle misteriose viscere della macchina poi con un soffio, una grande scheda di cartone planò dolcemente in un cestino "Voilà" fece trionfante il Vicedomini "ecco i dati dello stato civile di quel giorno. Da una parte le nascite, ora per ora, e dall'altra i decessi." Il sindaco per cortesia prese in mano il cartoncino. Distrattamente, attraverso le lenti degli occhiali, gli sguardi scivolarono lungo i morti: Cozzi Laetitia in Zaghetti Brin, Predicanti Sergio, Scarabatti Pietro, Cacòpardo Guglielmo, Alfonsi Ernesta in Smiderle, Strazzi Giuseppe, Pagni Federico, Passalacqua Elisa in Squarcia... "Pagni, Pagni" mormorò il sindaco come cercando nei ricordi qualche cosa. "Pagni Federico... Non mi torna nuovo questo nome... mah." "Meraviglioso no?" chiese il Vicedomini. "Meraviglioso certo" assentì il sindaco. "E adesso di qua, prego signor sindaco. Andiamo a visitare gli schedari... Se permette faccio strada" si volse sorridendo a una impiegata. "Signorina Elide, poi si ricordi di spegnere la luce." RILEGGI IL RACCONTO CERCANDO DI RILEVARE LE DIVERSE TECNICHE DEL DISCORSO/DIALOGO DEI VARI PERSONAGGI. SCEGLI UNO DEI PERSONAGGI E AMPLIA IL SUO DIALOGO/DISCORSO CONTRIBUENDO

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A MODIFICARE LA CARATTERIZZAZIONE DEL PERSONAGGIO. PUOI APPLICARE POI LA TECNICA AD UNO DEI TUOI PERSONAGGI.

DIALOGO IL GRASSO E LO SMILZO di Anton Cechov A una stazione della ferrovia di Nikolaievsk s‟incontrarono due amici: uno grosso, l‟altro smilzo. Il grosso aveva giusto allora pranzato in stazione, e le sue labbra, velate di burro, luccicavano come ciliegie mature. Mandava odore di xeres e di fior d‟arancio. Lo smilzo invece era appena uscito dal carrozzone, ed era carico di valigie, fagotti e scatole di cartone. Odorava di prosciutto e fondi di caffè. Da dietro il suo dorso spuntavano una donna magrolina dal mento lungo: sua moglie, e un alto studente ginnasiale con un occhio socchiuso: suo figlio. “Porfiri!” esclamò il grosso, scorgendo lo smilzo. “Sei tu? Colombello mio! Da quanto e quanto tempo!” Padri miei!” stupì lo smilzo. “Miscia! Amico mio d‟infanzia! Di dove sbuchi?” Gli amici si abbracciarono tre volte e si piantarono addosso a vicenda gli occhi pieni di lacrime. Erano tutt‟e due piacevolmente sbalorditi. “Carissimo!” cominciò lo smilzo dopo gli abbracci. “Proprio non me l‟aspettavo! Ecco una sorpresa! Su, guardami per benino! Lo stesso bel giovane che eri! Lo stesso simpaticone e damerino! Ah, Signore Iddio! Orsù, che mi dici? Sei ricco? Sposato? Io son già sposato, come vedi … Ecco qui mia moglie, Luisa, nata Vantsenbach … luterana … E quest‟è il figlio mio, Nafanail, allievo della terza classe. Questo, Nafania, è un mio amico d‟infanzia! Studiammo insieme al ginnasio!” Nafanail pensò un poco, e si tolse il berretto. “Studiammo insieme al ginnasio!” continuò lo smilzo. “Rammenti, come ti stuzzicavano? A te davan dell‟Erostrato perché avevi bruciato con la sigaretta un libro della scuola, a me dell‟Efialte, perché mi piaceva far la spia. Oh, oh … eravamo ragazzini! Non temere, Nafania! Viengli più vicino … E questa è mia moglie, nata Vantsenbach … luterana.” Nafanail pensò un poco, e si nascose dietro il dorso del padre. “Orsù, come te la passi, amico?” domandò il grosso, guardando estasiato l‟amico. “Dove fai servizio? Hai fatto carriera?” “Sono in servizio, carissimo! È già il second‟anno che sono assessore collegiale e ho la croce di Stanislao. Stipendio gramo… già, ma Dio l‟accompagni! La moglie dà lezioni di musica, e io in privato faccio portasigari di legno. Eccellenti portasigari! Li vendo a un rublo l‟uno. Se qualcuno ne piglia dieci e più, gli faccio, capisci, uno sconto. Si vivacchia alla meglio. Servivo, sai, alla divisione, e ora sono stato trasferito qui come capufficio nella stessa amministrazione… Servirò qui. Be‟, e tu? Già consigliere di Stato, credo? Eh?” “No, carissimo, sali un poco più su” disse il grasso. “Sono ormai al grado di consigliere segreto… Ho due croci.” Lo smilzo di colpo impallidì, impietrì, ma ben presto il suo viso si storse da tutte le parti in un amplissimo sorriso; sembrava che volto e occhi spargessero scintille. Egli stesso si fece piccino, s‟incurvò, si restrinse… Le sue valigie, i fagotti e le scatole si restrinsero, si raggrinzirono… La bazza della moglie si fece ancor più lunga; Nafanail s‟irrigidì sull‟attenti e abbottonò tutti i bottoni della divisa… “Io, eccellenza… Molto piacere! Amico, si può dire, d‟infanzia, e d‟un tratto diventato un così gran signore! Ih-ih!” “Be‟, basta!” si accigliò il grasso. “Perché codesto tono? Io e tu siamo amici d‟infanzia; e a che allora quest‟ossequio?” “Per carità… Che dite…” ridacchiò lo smilzo facendosi ancor più vicino. “La graziosa attenzione di vostra eccellenza… è come dire vivificante rugiada… Ecco, eccellenza, il figlio mio Nafanail… la moglie Luisa, luterana, in certo qual modo…” Il grosso voleva già ribatter qualcosa, ma sul viso del mingherlino era dipinta tanta venerazione, dolcezza e deferente acidità, che il consigliere segreto fu nauseato. Egli si scostò dallo smilzo e gli porse in segno di commiato la mano. Lo smilzo strinse tre dita, s‟inchinò con tutto il corpo e ridacchiò, come un cinese: “Hi-hi-hi”. La moglie sorrise. Nafanail strisciò una riverenza e lasciò cadere il berretto. Tutti e tre erano piacevolmente sbalorditi. INDIVIDUA IL PROTAGONISTA DEL RACCONTO E RICAVA LA SUA CARATTERIZZAZIONE ATTRAVERSO LE BATTUTE DEI DIALOGHI. PUOI MODIFICARE IL SISTEMA DEI PERSONAGGI SCEGLIENDONE UNO E CAMBIANDONE I DISCORSI/DIALOGHI A LUI RIFERITI: CONSIDERA AD ESEMPIO NAFANAIL E ATTRIBUISCIGLI UN ATTEGGIAMENTO NON PIÙ DETTATO DALLO STESSO SUCCUBE E CERIMONIOSO RISPETTO DELLA GERARCHIA SOCIALE PRESENTE NEL PADRE, MA CARATTERIZZATO DA DISAPPROVAZIONE, COMPATIMENTO, SFIDA… RACCONTA L‟EPISODIO RENDENDOLO PROTAGONISTA DELLA VICENDA. (da B. Panebianco, A. Varani, Metodi e fantasia, Zanichelli 2009)