Essere semplici nella fede

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Essere semplici nella fede Andrea Agostino

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libro di Andrea Agostino

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Essere semplici

nella fede

Andrea Agostino

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Prefazione

In questo libro, oltre alla mia autobiografia, ho voluto proporre

al lettore una mia personale riflessione riguardante il grande

dono della Fede. Il fatto stesso che siano miei pensieri sottolinea

naturalmente che non si tratta di un libro di omelie, oppure di

belle parole scritte tanto per apparire; lo scopo, unico e solo, che

mi ha spinto a dedicare un poco del mio tempo libero a questa

scrittura è quello di condividere le mie considerazioni a

proposito non soltanto della Fede, ma anche delle più delicate

tematiche morali sulle quali l’uomo si interroga, da quelle che

sono oggetto di dibattito da secoli fino alle più attuali.

Il punto di vista, perciò, sarà quello di un cattolico puramente

laico, per quanto vicino all’ambito ecclesiale.

Spero che questa lettura possa essere gradita e che fornisca

spunti interessanti per approfondire le personali riflessioni del

lettore.

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Autobiografia

19 Febbraio 1991, una notte

buia e piovosa quando,

nell’allora ospedale “Fratelli

Crobu” di Iglesias venni al

mondo. La mia nascita fu

complessa e i miei primi

mesi molto incerti.

Fin da piccolo, sia per

gratitudine quando mi fu

raccontato del difficile inizio

della mia vita, sia penso

anche grazie all’influenza

del contesto in cui crebbi, manifestai la mia fede. All’asilo il

mio gioco preferito era fare la messa e coinvolgevo i miei

compagnetti sistemandoli in fila come per giocare alla

processione e recitavo il rosario in sardo, sotto lo sguardo

estasiato della maestra, Suor Clara.

La cosa bella era sapere di avere uno zio prete che ogni

domenica potevo vedere. Gli anni passavano e la mia fede

cresceva.

Nel 2000 feci la Prima Comunione e nel 2001 l’allora parroco di

Siliqua, don Gigi, accettò la mia richiesta di diventare

ministrante; quest’esperienza, durante la quale fui anche un

giovanissimo catechista, durò sino al 2010 dandomi la gioia

immensa di poter servire Gesù più attivamente.

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Un altro dono che fin dalla tenera età non è mai stato nascosto è

la mia voce, la mia attitudine per il canto.

Coltivai già da piccolo questo mio talento dapprima ricevendo

lezioni di pianoforte e canto, e dopo (nel 2002) frequentando

una scuola di musica. A quel punto il mio amore per quest’arte

poteva considerarsi affermato e oggi al posto di quel bambino

che si dilettava nel canto c’è un uomo che coltiva questa sua

passione professionalmente, mentre tuttora una delle attività che

prediligo per il tempo libero è visitare gli ammalati.

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Sia fatta la Tua volontà

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La malattia, che nell’esperienza quotidiana è percepita come una

frustrante limitazione della naturale forza vitale, è occasione per

i credenti un significativo momento di riflessione in cui

analizzare la nuova difficile situazione nell’ottica propria della

fede. Essa è conforto, solleva l’uomo dall’angoscia di domande

che non trovano risposta definita in questo mondo terreno: quale

spiegazione per i mali (fisici e psichici) che possono presentarsi

durante la vita, al declino della vecchiaia? Il progresso

scientifico arriva soltanto ad illustrare le dinamiche che possono

originare tali angosce; può rispondere al cervello che ha fame di

sapere, ma non al cuore che chiede di capire: perché a me questo

dolore? Perché alla mia mamma, o al mio figlioletto? Perché

proprio ora? Perché così? Perché? Proprio in questa fase il

credente ha bisogno della fede, poiché in essa può trovare, se

non le risposte che cerca, il motivo per cui a questo mondo non

possiamo capire i motivi. Possiamo cioè trovare un aiuto

prezioso ad affrontare la difficoltà, infondo capire perché la

stiamo subendo non è più così indispensabile e quelle parole che

pronunciamo nel Padre Nostro avranno più valore, in quel

momento più che mai sarà il cuore, non le labbra a pronunciare:

sia fatta la Tua volontà. Essere ammalati non è facile, lo si legge

nei visi di chi soffre prim’ancora di sentirlo con le proprie

orecchie. Altrettanto difficile è vedere soffrire una persona che

si ama: se anche il malato ha la forza interiore per accettare, per

il suo caro può forse essere perfino più difficile rimettersi alla

volontà divina, a causa della frustrazione e del forte senso di

impotenza che si prova vendendo una persona alla quale siamo

molto affezionati patire tanta sofferenza, quante volte si

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vorrebbe poter fare di più. Scontato che tale senso di

inadeguatezza è tanto più forte quanto più è intenso il legame, e

talvolta può essere causa di ulteriori situazioni di disagio

(debilitazione dovuta allo stress, crollo psicologico,

affaticamento, ecc).

Nelle mie esperienze ho visto situazioni di vario genere, alcuni

riescono meglio ad accettare, trovano nella solidarietà ricevuta

dal prossimo la forza per mantenersi saldi malgrado tutto. Per

questa ragione questa attività, che non richiede chissà quale

organizzazione ma semplicemente qualche minuto da dedicare

ad essere buoni, è particolarmente importante per me da vari

punti di vista: oltre ad essere dovere di ogni cristiano, assistere

gli ammalati (anche solo con la vicinanza e l’affetto, senza

dover avere necessariamente specifiche competenze) penso sia

anche una responsabilità sociale, un valore etico laico, che va

aldilà dell’appartenenza religiosa. Tuttavia molti ignorano

l’importanza di un gesto così semplice, non nel senso che non lo

conoscono ma piuttosto direi che vogliono non vederla, spesso

per paura. Trovarsi d’innanzi alla sofferenza non è mai facile, è

comprensibile che spaventi, anzi sarebbe più strano se lasciasse

impassibili; andare a trovare gli ammalati comporta dover

vedere nei loro occhi la sofferenza, sveglia una paura che ogni

persona in grado di amare porta sempre dentro di se: potrebbe

accadere ad una persona cara, o a me. E poi c’è sempre

quell’incertezza che bisogna riuscire a vincere: cosa dire? Come

rapportarsi ad una persona che soffre? Tante persone con cui è

capitato di parlare di questo delicato argomento ammettono di

non voler fare visita agli ammalati non per insensibilità, ma

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perché temono di non essere all’altezza, di non sapere cosa dire,

come consolare, temono di non riuscire a far sorridere i tristi e

di lasciarsi coinvolgere troppo emotivamente. Le paure e i dubbi

aumentano ancor di più se facciamo visita ad ammalati che non

conosciamo, per esempio svolgendo attività di volontariato negli

ospedali, dove ogni volta ci sono volti nuovi: non sappiamo mai

a che tipo di situazione si va incontro, se troveremo una famiglia

che spera o una che dispera, e come spesso capita in tal caso si

chiude in se stessa. Ecco quella predominante paura di andare

invano, di non riuscire a portare nemmeno un poco di speranza,

paura che la nostra visita non sia gradita. Accade nei casi più

drastici, e so quanto sia difficile trovare qualche cosa da dire che

non venga percepita con fastidio. Genitori che vedono soffrire in

un letto i loro piccoli, e chissà se apprezzeranno il tuo tentativo

di farli giocare un po’ per distrarli o se ti sentirai dire che il loro

figlio potrà più giocare, potrebbero pensare che il tuo buon

proposito crei illusione e false speranze. Quali parole di conforto

usare? Spesso si pensa a frasi come “Dio vi è vicini”, ma spesso

questo tipo di conforto può rivelarsi rischioso: cosa rispondere

ad una mamma che vedendo il figlio spegnersi così piccino

accusa Dio, sopraffatta dalla disperazione, di volerla punire?

Come si fa a dirle che non è così, che Dio non fa ripicche ma

che ci ama e ci perdona, che comunque non ci punirebbe così

facendo soffrire chi amiamo?

Sono tutti timori umanamente comprensibili, io stesso tante

volte andando a trovare gli ammalati, lungo il cammino,

riflettevo sui motivi per cui ci stavo andando, e chiedevo

“Signore, perché tutta questa sofferenza? Alleggerisci a coloro

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che sono nel dolore il peso della croce, donagli la speranza e la

forza di lottare”.

Vincere questi timori, che è inevitabile vi siano in ogni animo, è

una prova importante e qualche volta l’impulso di arrendersi si

fa sentire, ne più ne meno come a Gesù nel deserto si

palesavano le tentazioni, ma bisogna riuscire a perseverare

innanzitutto dentro noi stessi; solo così, riuscendoci, si può

essere dei buoni portatori di speranza per coloro che soffrono.

Se ci sentiamo deboli, se il dispiacere che vediamo d’innanzi ai

nostri occhi permea in noi demoralizzandoci, in quel momento

non siamo adatti per assolvere questo delicato compito che Gesù

ci ha chiesto di non trascurare, meglio soprassedere per un po’

piuttosto che essere involontariamente portatori di ulteriore

scoraggiamento, perché l’ammalato più che le parole che

pronunciamo con la bocca percepirà il nostro stato d’animo.

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Poesia a Maria (Gioia)

Tu sei l’aria leggera,

come un’alba di primavera

sei una ginestra in fiore,

come una rosa nel suo splendore.

Tu sei il sole che riscalda la vita,

sento che brucia tra le mie dita,

sei il rosso del cielo al tramonto,

sei la voce lontana nel vento.

Ho bisogno di Te per pregare.

Tu sei fatta così ti si può solo amare

quante volte ho sentito,

dentro il silenzio dell’anima,

come un soffio di voce: Ave Maria.

Sei il germoglio che sboccia,

rododendro in mezzo alla roccia,

sei il sorriso che ti scioglie piano,

sei chi cammina e chi tiene la mano.

Sei la neve che scende nel mare,

come pioggia che non fa rumore,

sei come un fuoco nella notte più scura,

come il sereno di quando rischiara.

Ho bisogno di Te per pregare

ti si può solo amare

con un semplice canto di

Ave Maria.

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Educare con l’amore di Dio e Maria

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“Educazione”. Originariamente, il termine educare significava

l’azione e l’effetto di alimentare o nutrire la prole.

Un’alimentazione che, evidentemente, non si deve limitare al

piano materiale, ma che comprenda anche lo sviluppo etico dei

figli: intelletto, moralità, senso civico.

Figlio e genitore sono, rispettivamente, l’educando e l’educatore

per natura, protagonisti di una sorta di “educazione primaria”.

Ogni altro tipo di educazione (es. quella scolastica, sportiva,

professionale, ecc.) lo è soltanto in maniera secondaria e in un

certo senso settorializzata, conforma l’individuo a quello

specifico ambito, mentre l’educazione di un genitore è più

ampia, poiché prepara alla vita e in effetti a ricevere qualsiasi

altro tipo di educazione. Per questo il diritto all’educazione fa

parte della natura umana e affonda le sue radici in quelle realtà

che sono simili a tutte le persone e, in fin dei conti, sono il

fondamento della società stessa. Perciò i diritti ad educare e ad

essere educati non dipendono dal fatto che siano elencati in una

norma positiva, ne sono una concessione della società o dello

Stato: sono diritti primari, nel senso più profondo che si può

dare al termine.

Il diritto dei genitori di educare i figli è in funzione del diritto

che i figli hanno di ricevere un’educazione adeguata alla loro

dignità umana e alle loro necessità: è quest’ultimo che

costituisce la base del primo. Gli attentati a questo diritto dei

genitori costituiscono, in sostanza, un attentato al diritto del

figlio, il quale per giustizia deve essere riconosciuto e sostenuto

dalla società. Il fatto che in diritto del figlio ad essere educato

sia basilare, non significa che i genitori possano rinunciare ad

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essere educatori, magari con il pretesto che altre persone o

istituzioni possano farlo meglio. Il figlio è anzitutto figlio: per la

sua crescita e maturazione è della massima importanza che sia

accolto come tale in seno alla famiglia.

La famiglia è il luogo naturale nel quale i rapporti di amore, di

servizio e di donazione reciproca che configurano la parte più

intima della persona si scoprono, si apprezzano e si apprendono.

Ecco perché, salvo i casi di impossibilità, ogni persona dovrebbe

essere educata dai propri genitori in seno alla famiglia, sia pure

con la collaborazione, nei loro diversi ruoli, di altre persone

quali fratelli, nonni, zii, ecc. Alla luce della fede, la generazione

e l’educazione acquistano una dimensione nuova: il figlio è

chiamato all’unione con Dio e appare agli occhi dei genitori un

dono che è, contemporaneamente, una manifestazione

dell’amore coniugale. Quando nasce un nuovo figlio, i genitori

ricevono una nuova chiamata divina: il Signore si aspetta che

essi lo educhino nella libertà e nell’amore e lo portino un po’

alla volta verso di lui; si aspetta che il figlio trovi, nell’amore e

nella cura che riceve dai genitori, un riflesso dell’amore e della

cura che Egli stesso gli dedica. È proprio per questo che, per un

genitore cristiano, il diritto e il dovere di educare un figlio sono

irrinunciabili per motivi che vanno aldilà di un certo senso di

responsabilità, anche perché fanno parte della sua risposta alla

chiamata divina ricevuta col Battesimo.

Ebbene, se l’educazione è un’attività paterna e materna

originaria, qualunque altro agente educativo lo è per delega dei

genitori ed è a loro subordinato. <<I genitori sono i primi e

principali educatori dei propri figli ed hanno anche in questo

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campo una fondamentale competenza: sono educatori perché

genitori. Essi condividono la loro missione educativa con altre

persone ed istituzioni, come la Chiesa e lo Stato; ciò tuttavia

deve sempre avvenire nella corretta applicazione del principio di

sussidiarietà>>.

Logicamente, è legittimo che i genitori cerchino aiuti per

educare i propri figli: l’acquisizione di competenze culturali e

tecniche, i rapporti con persone al di fuori dell’ambito familiare,

ecc., sono elementi necessari per una corretta crescita della

persona, che i genitori da soli non potrebbero soddisfare

adeguatamente. Ne consegue che <<ogni altro partecipante al

processo educativo non può che operare a nome dei genitori,

con il loro consenso e, in una certa misura, persino su loro

incarico>>. Tali aiuti sono cercati dai genitori, che non perdono

mai di vista ciò che si aspettano da costoro e stanno attenti

affinché rispondano alle loro intenzioni ed aspettative.

[Citazioni da “Lettera alle famiglie” n° 16 – Giovanni Paolo II]

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Quando ero piccolo, e cominciavo a leggere il Vangelo, non

avrei mai potuto immaginare che in una sola parabola fosse

racchiusa una parte essenziale della storia dell’umanità, che ci

fosse il fondamento della nostra speranza. Per poter

comprendere il Vangelo non sono sufficienti i libri dei sapienti,

ma occorrono anche l’esperienza, gli incontri che si fa, le

persone che si conoscono, le avventure che si trovano lungo il

cammino (a volte faticoso) della vita. Gesù è venuto in mezzo a

noi testimone di valori autentici, di libertà, di passione per la

verità, di ricerca di Dio, testimone di gratuità, di servizio, di

generosità. Ma chi lo ha ascoltato? Tante parole come semi

perduti tra i sassi, nella terra arida, soffocati dai rovi.

I semi della sua parola sembravano disperdersi tra gente

indifferente che lo rifiutava, talvolta lo calunniava; addirittura i

suoi discepoli, coloro che l’avevano accolto con entusiasmo,

all’ultimo momento lo abbandonarono. Ma ci fu chi rimase,

come Maria che pianse ai piedi della croce: possiamo guardare

ad ella come il simbolo della nostra speranza, Gesù non fu del

tutto abbandonato e infatti dopo duemila anni siamo ancora qui

riuniti nel suo nome. Tanta gente, rifiutata, a volte perseguitata,

a volte uccisa come Gesù, ha saputo piantare semi di giustizia e

di bene. Tuttavia le difficoltà che l’essere cristiani ha talvolta

comportato nei secoli (specialmente nei primi d.C.), non devono

far perdere la speranza, il buon cristiano predilige la felicità che

gli proviene dalla gioia di essere tale (con i fatti di tutti i giorni,

non soltanto con le parole) e non l’amarezza che può provenire

dalla difficoltà, dal peccato, dall’inimicizia, dalla discordia...

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In fondo è questo uno dei più noti e rimarcati insegnamenti di

Gesù che, pronunciando le famose Beatitudini, ha detto: beati

coloro che soffrono. Beati: felici. La beatitudine è felicità. Mi

piace interpretare in chiave più semplice questa beatitudine: non

tanto essere felici per la propria sofferenza (un concetto che il

pensiero moderno confonde spesso con l’autolesionismo),

piuttosto essere felici malgrado la propria sofferenza. E Dio ce

ne renderà merito: l’ha promesso, e Lui non manca mai di

parola.

In questo esempio tanti altri hanno seminato sul loro cammino.

Tra questi ad esempio San Francesco d’Assisi, felice della ma

soprattutto nella sua povertà terrena. E noi ne siamo gli eredi,

raccogliamo i frutti di tanta gente. Ma questo non vale soltanto

in religione, prendendo esempio da Dio, dai Santi e dai Beati,

dalle personalità gradite all’ecclesia: noi prendiamo i frutti di

tanti altri, vale per tanti aspetti della vita. E talvolta perfino da

persone che non sono (o non sono state) gradite proprio alla

Chiesa. Si pensi a Galileo Galilei: fu scomunicato, rinchiuso in

prigione e costretto a ritrattare quelle che, solo dopo, si sarebbe

dovuto ammettere che sono inconfutabili verità: aveva ragione

lui! Le sue intuizioni, confermate dai suoi studi, sono dei semi

che tuttora portano ancora frutto e ne porteranno sempre.

Talvolta quindi ha ragione chi si ribella e non coloro nei

confronti dei quali avviene la ribellione. L’apostolo Paolo dice

allo schiavo che fugge di tornare dal suo padrone. Ma chi è il

padrone? Dio o Mammona? Anche i più sapienti sbagliano, ma

ciò ad esempio non ha deposto in sfavore della santità di Paolo.

Tanta gente nei secoli ha cercato di ribellarsi, ritenendo che ogni

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persona sia inviolabile e non possa essere ridotta da nessuno in

alcuna forma di schiavitù, ne fisica (come accadeva nel passato,

in cui gli schiavi erano una proprietà come un oggetto) ne

intellettiva.

Molti sono stati ingiustamente condannati, rifiutati solo perché

controcorrente rispetto al pensiero o al costume prevalente nella

società, anche dalla Chiesa, ma ciò non toglie che avessero

comunque ragione loro.

Anche ai giorni nostri, seppure brutalità come i roghi e altre

forme di torture ed esecuzioni pubbliche siano ormai pressoché

estinte nella maggior parte dei contesti sociali del mondo, anche

nel nostro piccolo, quante volte capita di imbatterci nella critica,

talvolta ostile, di chi non la pensa come noi, di chi ci ritiene

indegni per chissà quale motivo, di chi vuole inculcarci un

pensiero che non condividiamo, uno stile di vita che non ci

appartiene, un pessimismo che soffocherebbe la nostra

speranza? Sempre, purtroppo, troppe volte. E tanto più ci è

vicina la persona che ci assoggetta a queste situazioni, tanto più

acuto sarà il nostro dispiacere, tanto più profonda sarà la ferita

che scaturisce. Specialmente se questa persona è tra quelle che

concorre con i genitori alla nostra educazione, ancor di più se

questa persona fosse il genitore stesso.

<<Parliamo, parliamo e sembra che nessuno ci ascolti>>, poi

magari dopo anni incontriamo qualcuno che dice <<mi ricordo

di lei, mi ha lasciato qualcosa dentro>>. Quel seme piantato dai

genitori, dagli amici, dai nonni, dagli insegnanti, dai catechisti,

ha portato qualche frutto: è la radice della nostra speranza.

Qualcuno potrebbe dire che anche tra queste figure che

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dovrebbero aiutarci a prendere la giusta direzione c’è chi semina

male; l’antico proverbio diceva “chi semina vento raccoglie

tempesta”, è vero! Potremmo fare elenchi lunghissimi, anche

molto attuali. Ma il compito di ogni essere umano, ancor di più

il compito di un credente, è quello di cercare negli esempi che lo

circondano i semi giusti, saperli discernere da quelli cattivi, al

fine di essere poi noi i seminatori. Dobbiamo cioè cercare di

seminare soltanto i semi giusti, anche se tante volte non è

semplice. Le ragioni di questa difficoltà sono tante, tra queste

certamente anche il fatto che può essere addirittura doloroso a

volte constatare che una persona a noi vicina sta seminando

male, dobbiamo riuscire innanzitutto dentro di noi a prenderne

atto, allo stesso tempo facendo di tutto per evitare che tra noi e

quel nostro prossimo si creino incomprensioni o allontanamenti,

e se necessario cercare di far notare l’errore al nostro prossimo

aldilà dell’imbarazzo che spesso si deve ad un rapporto

gerarchico piuttosto definito, come può essere quello nei

confronti di un genitore o di un insegnante, senza tuttavia la

presunzione di avere dalla nostra parte la verità e la ragione più

giusta: anche noi possiamo sbagliare e seminare male, a volte

proprio pensando che siano gli altri in errore. Ecco in cosa

consiste il nostro compito, ecco perché non è facile: è un

insieme di delicati ed indispensabili equilibri. Il buon cristiano

che si impegna per assolvere responsabilmente questo suo

compito trova in Maria il giusto esempio.

Tutti siamo chiamati ad essere santi e immacolati, Cristo ha

amato la Chiesa per santificarla, purificandola con il Battesimo e

la parola. Un’umanità di santi ed immacolati, ecco il grande

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progetto di Dio nel creare la Chiesa. Un’umanità che non fugge

dal suo cospetto come Adamo ed Eva dopo il peccato. Che cosa

rappresenta in questo progetto universale di Dio, l’Immacolata

Concezione? La liturgia in Maria ha segnato l’inizio della

Chiesa. <<In lei hai segnato l’inizio della Chiesa, sposa di Cristo

senza macchia e senza ruga>>. Tutti siamo pieni di rughe da

spianare e macchie da lavare. Se si trattasse di un’opera teatrale

si potrebbe dire in gergo che a questo punto entra in scena

Maria, poiché è proprio in questi frangenti, quando più si

palesano le nostre manchevolezze e le nostre umane limitazioni

che possiamo trovare in Maria l’aiuto per affrontare le difficoltà

della vita. Specialmente quando le difficoltà più ardue le

viviamo all’interno della famiglia, o per causa di essa.

La famiglia è un vincolo sacro che si fonda sull’amore coeso di

una coppia, la cui naturale maturazione sfocia nella

testimonianza di tale amore da parte degli sposi per mezzo del

matrimonio; è un valore importante per il quale rendere grazie

tutti i giorni. In essa c’è Maria, la vera discepola di Cristo, colei

che rimase fino all’ultimo, fino ai piedi della croce, che ci guida

ogni giorno e ci prende per mano per indirizzarci nella strada

giusta, ossia quella dell’amore, della fratellanza. Il si di Maria si

fonda con amore materno e fraterno in ogni famiglia,

specialmente in quelle più bisognose del suo dolce conforto,

dove ci sono tristezza e sofferenza. Si pensi ad esempio alle

famiglie dei tanti lavoratori disoccupati, ai senza tetto che ogni

giorno vagano per le città alla ricerca di un posto sicuro ove

passare la notte. <<Maria totus tuus ego sum>>, cioè Maria

sono tutto tuo; così diceva il beato Giovanni Paolo II.

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Paolo VI ai seminaristi di Cagliari diceva: <<non si può essere

cristiani se non si è mariani>>, un’affermazione ricca di

significato. Il cristiano non è tale senza la figura di Cristo.

San Pio X disse: <<tu puoi non credere in Dio, ma Dio non

cesserà mai di credere in te. Se non vi fate piccoli non potrete

entrare nel Regno dei Cieli. Cristo durante la giornata ci da la

carica per affrontare le fatiche del nuovo giorno. A volte ne

andiamo fieri quando non andiamo in chiesa da parecchi mesi o

anni, ma Dio è pronto ad accoglierci tra le sue braccia, ci ama

così con i nostri limiti ed i nostri difetti. Anche nel mistero della

confessione: quanti sono da tanto che non si confessano, ma Dio

è pronto ad accoglierci nel suo amore di Padre>>.

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Dio ci ama come siamo

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Io credo in Dio Padre Onnipotente. È quello che diciamo nella

professione di fede; però mi chiedo tutt’oggi come si fa a non

credere in Cristo.

Pare essere diventata una moda, dopo aver ricevuto il

Sacramento della Confermazione, allontanarsi dalla Chiesa. In

chiesa si dovrebbe andare per il Signore, non conta se c’è quella

persona che mi sta antipatica, anche se essa fosse il sacerdote,

bisogna riuscire a sentire la necessità ogni domenica di andare in

chiesa, poiché mi aspetta il mio caro amico, il Signore, con cui

io mi posso confidare. Tuttavia Dio desidera che lo amiamo nel

modo più sincero e spontaneo che sappiamo trovare nel nostro

cuore; non ci chiede tanto, ha sete di noi, vuole che lo portiamo

durante la nostra giornata nel nostro cuore, perciò si può con una

certa sensatezza ritenere che egli preferisca una preghiera detta

da casa con spontaneità piuttosto che ci rechiamo in chiesa se

ciò non suscita in noi particolare entusiasmo: è importante

servire il Signore in letizia. Certo sicuramente sarà ancor più

contento se vorremo di buon grado accostarci alla celebrazione.

La Messa è un modo per metterci in contatto con Cristo, egli per

dimostrare al mondo quanto veramente ci ama si è fatto

inchiodare in croce ed è morto; quelle braccia spalancate che

dicono “venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi ed io

vi darò ristoro”. Dio ci vuole poveri in spirito, l’uomo guarda

l’apparenza, mentre Dio guarda il cuore. Tante volte siamo sordi

e non vogliamo sentire quello che ci dice Gesù, oppure nello

sconforto diciamo “Signore, dove sei?” senza accorgerci che è

davanti a noi, è lui che ci guida nella strada della salvezza e

dell’amore. Credere in Dio è la cosa più bella che possa fare una

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persona, Dio ci ha creati per essere il suo gregge amato, noi

siamo le sue pecore e Gesù è il buon pastore che ci guida.

Ognuno di noi deve riuscire a trovare nel suo cuore il modo più

sincero e spontaneo per amare Dio, il che significa quindi il

modo per accorgerci della sua presenza, per renderlo partecipe e

presente nella nostra quotidianità. Dio ci ama come siamo, ci

amerà sempre e comunque, ma questo non ci esonera dall’essere

dei bravi figli. Come il bimbo, che pure sa che il suo papà gli

vuole bene sempre a prescindere dalle monellerie che combina,

ma ciononostante desidera farlo felice, magari gli fa un disegno

o lo coinvolge nei suoi giochi, quasi a volersi meritare

quell’amore che comunque riceve. Dal comportamento dei

bambini possiamo sempre imparare tanto, del resto ci sarà pure

un motivo se Gesù ha detto “lasciate che i bambini vengano a

me”. Coinvolgere Dio nella nostra vita, come il piccolo

coinvolge il suo papà nei suoi giochi: è questo che il buon

cristiano cerca di fare, è un modo sano per compiacere.

La vita è un grande dono che Dio ci ha dato in prima persona.

La vita di ognuno di noi ha un inizio e una fine; il salmo 129 ci

dice: <<io spero nel Signore, l’anima mia spera nel Signore più

che le sentinelle l’aurora>>. Nel salmo 15 ci viene detto:

<<Proteggimi o Dio in te mi rifugio>>. Nella vita terrena siamo

distratti da ogni cosa e non ci soffermiamo mai a riflettere sul

significato della vita. Dio ci spinge a convertirci e ad amare il

prossimo. La parola vita è ricca di significato, essa sarà fatta da

momenti di gioia, ma anche di dolore e di sofferenza. Questi

non devono essere cercati, bisogna solo trovare in noi stessi e

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nel conforto del nostro prossimo che ci ama la forza per

affrontarli e superarli quando capiteranno.

Penso ai tanti ammalati nelle loro case, perché in coloro che li

assistono possano trovare la forza di Cristo. La vita è fatta di

dubbi ed incertezze, ma il Signore ci guida nella retta via. La

vita è un dono bellissimo, da quando il bambino nasce e subito

vede la luce; così inizia un cammino che non sarà soltanto

nascere, crescere e morire, come una rosa o una farfalla, ma

molto di più. Vivere è amare, è provare emozioni e sentimenti, è

compiere una tale moltitudine di atti e gesti che solo Dio può

tenerne il conto, vivere è pensare, trovare in noi stessi chi siamo

e i modi con cui scegliere di amare Cristo. La vita è pienissima

di avvenimenti, di circostanze in cui dovremo essere capaci di

discernere il giusto dal facile, o talvolta dall’aspettativa inadatta

del nostro prossimo. Ciò a volte ci rende difficile proseguire nel

cammino di questa vita fatta di scelte: quando siamo

nell’incertezza e nel dubbio, presi dallo sconforto tendiamo ad

abbandonare tutto, ma è proprio in Dio che dovremo ritrovare la

forza e la volontà di apprezzare la nostra vita così com’è, con i

doni che abbiamo ricevuto, meritevoli di quelli che potremo

ricevere.

Dobbiamo in ogni momento apprezzare il grande dono della vita

che Dio ci ha fatto, dono che non si limita all’essere fisicamente

esistenti e biologicamente vivi a questo mondo, ma

infinitamente più grande e bello: più che “la vita” in generale,

quasi come se fosse una qualsiasi, Dio ci ha donato “questa

vita”, fatta in “questo” modo, con “queste” gioie. Dio non ci ha

donato i dolori e le sofferenze, non sono doni, non si deve

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dimenticare che in “questa” nostra vita possiamo anche subire

gli effetti, come un’interferenza, del libero arbitrio del nostro

prossimo, proprio di “quel” nostro prossimo che Dio ci ha

messo accanto. Parenti o amici, mariti o mogli, colleghi o vicini

di casa: ogni persona ha un ruolo più o meno incisivo in

“questa” nostra vita. Dovremo essere in grado di capire in che

misura e quali esempi prendere e quali no dal nostro prossimo,

per poter così fare buon uso del dono che Dio ci ha fatto.

Questo dono importantissimo, insomma, richiede seria

responsabilità da parte nostra; per questo la nostra fede non deve

essere fatta di sole adorazioni, di sole parole, ma di fatti

concreti, di esperienze vissute che potremo testimoniare al

nostro prossimo nell’intento di dargli il buon esempio affinché

anch’egli faccia altrettanto. Solo così le nostre parole saranno

utili e potranno essere efficaci, solo così non saranno vane.

La nostra fede, come cristiani, si fonda sulla certezza

dell’esistenza di Dio; egli è quell’essere tanto perfetto che

venuto ad abitare nella nostra vita, si è voluto incarnare nel seno

della Vergine Maria per farsi uomo, per farsi uno come noi. È

quel mistero che contempliamo nella solennità del Natale,

quando Dio ci ha mandato il suo figlio, sarà quel figlio che nel

venerdì santo si darà in sacrificio per gli uomini nel legno della

croce. Noi cristiani abbiamo la certezza di un Dio che si fa

bambino, dal quale scaturirà il vero sacrificio per il suo popolo.

Credere in Dio non è una garanzia, ma una certezza forte che ha

origine nel cuore dell’uomo, certezza nel suo amore, un amore

che sa capire, che non ci chiede niente in cambio, anzi

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semplicemente ci prega di portarlo come testimoni del Risorto a

tutte le genti.

Nella sua prima lettera, San Giovanni ci dice che ciò che era fin

dal principio, ciò che abbiamo visto ed udito, era il Verbo della

vita, cioè Dio. Dice ancora l’Evangelista che Dio è luce e in lui

non ci sono tenebre.

L’amore di Dio non è astratto, ma concreto e tangibile. Ricordo

un giorno parlando con un mio amico ateo, che egli ad un certo

punto mi disse: <<Io non credo in Dio>>, e parlando di ciò poi

mi chiese: <<Ma scusa, da dove lo vedi che Dio esiste?>>. Era

chiaro il tipico concetto dell’ateismo per cui “tutto ciò che non

si vede con gli occhi, si sente con le orecchie e si tocca con le

mani non esiste”. Gli risposi così: <<Lo vedo da un dono che lui

mi ha dato, cioè la vita, dal fatto che mi ha messo accanto due

persone importanti, cioè i miei genitori...>>.

Credere in Dio non è sempre facile: si sa che la strada giusta

spesso non è quella facile, talvolta rimanere irremovibili sulla

propria fede può comportare sacrifici notevoli, addirittura

sacrificare la propria vita. È il caso dei martiri, semplici uomini

che hanno voluto dire a Dio il loro si senza esitazione,

accogliendo Egli nella propria anima come ancora di salvezza.

Ma quella salvezza vale solo per i martiri? No, per essere salvi

in Dio non è necessario il martirio o comunque una

dimostrazione estrema di fede. Dio ci chiede fedeltà più nella

nostra semplice e piccola quotidianità che in grandi ed eclatanti

manifestazioni esteriori, non ci chiede nulla che vada la nostra

umile portata, la salvezza è per ognuno di noi. Dice un salmo:

<<Il Signore è la mia salvezza>>. San Paolo, ai Colossesi, dice

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che Dio ha dato la vita per noi, che eravamo morti per i peccati;

ecco il suo scopo del farsi uomo, liberando il suo popolo dalla

schiavitù. Ancora una volta San Paolo ci dice di rivestirci

dell’uomo nuovo deponendo l’uomo vecchio, così dobbiamo

fare anche noi abbandonando l’uomo vecchio e le cose passate

per aprirci all’amore di Dio.

Un canto della liturgia recita: <<chi ci separerà dall’amore di

Dio?>>. Nessuno: niente infatti potrà mai separarci da lui poiché

egli è tanto buono da non lasciare i suoi figli da soli e, come da

lui promesso, starà con noi in eterno.

L’amore di Dio è qualcosa di grande; quando mi venne chiesto,

da piccolo, chi era Dio, risposi dicendo che è un qualcosa di

grande. Lo stesso Aristotele lo definisce come l’entità suprema

e perfetta ed un qualcosa di grande; aggiunge Sant’Agostino

che l’amore di Dio è incomprensibile, tanto è grande da non

potercene render conto.

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Tra Nietzsche e fede

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Dio è morto (in tedesco “Gott ist tot”; anche espresso come La

morte di Dio) è un celebre motto di Friedrich Nietzsche

contenuto nella sua opera La gaia scienza; sintetizza

ermeticamente la decadenza della realtà occidentale nell’ultimo

squarcio di millennio. Dio, infatti, è la metafora del mondo

sovrasensibile in generale, senza riferimenti teologici diretti. Si

ritrova inoltre nel famosissimo libro Also sprach Zarathustra

(Così parlò Zarathustra), grazie al quale il motto ha assunto

maggiore popolarità. L’idea è espressa dal filosofo come segue:

<<Dio è morto. Dio resta morto. E noi l’abbiamo ucciso. Come

potremmo sentirci a posto, noi assassini di tutti gli assassini?

Nulla esisteva di più sacro e grande in tutto il mondo, ed ora è

sanguinante sotto le nostre ginocchia: chi ci ripulirà del sangue?

Che acqua useremo per lavarci? Che festività di perdono, che

sacro gioco dovremmo inventarci? Non è forse la grandezza di

questa morte troppo grande per noi? Non dovremmo forse

diventare divinità semplicemente per esserne degni?>>.

“Dio è morto. Dio resta morto” non è inteso letteralmente,

piuttosto è la maniera usata da Nietzsche per dire che l’idea di

Dio non è più fonte di alcun codice morale nella società a lui

contemporanea. Nietzsche, notoriamente ateo, pare dunque voler

rivolgere una critica all’ipocrisia di un mondo che, sebbene si

proclami ferventemente rimesso alla volontà di Dio, si è reso

sempre più distante da quegli insegnamenti divini spesso

ostentati più che osservati, un mondo che celebra le festività pur

non comportandosi degnamente. E nell’ultima frase di questo

breve brano, “Non dovremmo forse diventare divinità

semplicemente per esserne degni?”, pare quasi rivolgersi in

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particolare alla cristianità, come a voler dire con un accesso

polemico: non siete voi quelli che dicono che per essere degni di

Dio bisogna seguire la strada della santità? Con un chiaro

riferimento all’ateo luogo comune sui cattolici secondo il quale

“vogliono diventare tutti santi” e al fatto che talvolta i cattolici,

e ciò può a volte effettivamente capitare, tendono a venerare i

Santi come delle divinità. “Non dovremmo forse diventare

divinità (cioè santi) semplicemente per esserne degni (di Dio)?”.

Nietzsche pare insomma esprimere, seppure con altisonanti

filosofie, quel preconcetto puramente ateo che oggi si sente dire

spesso in questi termini: “credete di fare i santi dando lezioni

morali a tutti e intanto in quel che fate davvero c’è ben poco di

divino. Il vostro comportamento dimostra che Dio non esiste”.

Generalizzazioni che oggi, in un mondo sempre più fuorviato da

scandali ed intrighi economici non più occultabili, attecchiscono

con allarmante facilità nelle menti e nei cuori dei semplici.

Nietzsche riconosce la crisi che la morte di Dio rappresenta per

le considerazioni morali esistenti, poiché <<quando uno rifugge

la fede cristiana, si toglie il diritto della morale cristiana da sotto

i piedi. Questa moralità è senza dubbio auto-evidente...

Rompendo uno dei principali concetti della cristianità, la fede in

Dio, cade il tutto: nulla di necessario rimane nelle mani>>. Ne Il

folle, il filosofo si rivolge non ai credenti, ma agli atei,

sostenendo che il problema è ritenere valido un qualunque

sistema di valori in assenza di un ordine divino.

La morte di Dio è un modo per dire che l’uomo non sarà più

capace di credere in qualunque ordine cosmico quando riterrà

che non ne esiste uno. Essa condurrà, secondo Nietzsche, non

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solo al rifiuto della credenza in qualsivoglia ordine superiore,

ma anche al rifiuto dei valori assoluti stessi, al rifiuto di credere

in un’oggettiva ed universale legge morale che lega tutti gli

individui. In questa maniera, la perdita di una base sicura della

morale condurrà al nichilismo.

Il nichilismo è ciò su cui Nietzsche lavorò per trovare una

soluzione al fine di rivalutare i fondamenti dei valori umani, con

l’obiettivo di sviluppare una base che andasse più a fondo dei

valori cristiani.

Nietzsche credeva che la maggioranza delle persone non

riconoscesse (o si rifiutasse di riconoscere) questa morte per

ormai radicate paure od ansietà. Inoltre, se questa morte venisse

ampiamente accettata, la gente dispererebbe ed il nichilismo

diverrebbe predominante, confermando il credo relativistico per

il quale la volontà umana è una legge contro se stessa;

qualunque cosa sarebbe permessa. Questo è, in parte, il motivo

per cui Nietzsche ritenne nichilistica proprio la cristianità, dal

momento che il nichilismo è, secondo la sua tesi, la naturale

conseguenza di un qualsiasi idealistico sistema filosofico,

poiché tutti gli idealismi soffrono della stessa debolezza della

morale cristiana, ovvero non c’è alcun fondamento sopra il

quale iniziare a costruire. Per questo motivo definì se stesso

come “un uomo sotterraneo” al lavoro, che scava e scava senza

sosta.

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Semplicità nell’invocare Dio

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Avere fede al giorno d'oggi sorprende: la moderna laicizzazione

di leggi, etiche e costumi, ai quali si aggiunge certamente il

troppo caos di un’esistenza terrena sempre più frenetica, crea un

divario sempre più profondo tra atei e credenti. Gli uni tacciano

gli altri di fanatismo ed estremismo con crescente facilità ed

insofferenza, gli altri tendono ad irrigidirsi sulle proprie

posizioni, blindarsi a difesa dal mondo esterno, i dialoghi si

fanno più poveri e gli sguardi più sospetti.

Il termine stesso di laico, in questa confusione, è spesso

manipolato: questo, dall’iniziale semplice definizione di colui

che non fa parte del clero, oggi è diventato sinonimo di ateo o

agnostico, a volte espresso impropriamente o con intento

dispregiativo, come anche altre parole.

Pare consumarsi un’ossessionata ricerca di termini sempre più

duri e diretti per prendere le distanze gli uni dagli altri, e se da

una parte c’è chi deride il credente, dall’altra rischia di esserci

un cattolico fin troppo zelante nell’invocare Dio. Un botta e

risposta in cui rischiano di essere tutti vinti quando invece

devono essere trovate vie di dialogo e di pace che renderebbero

tutti vincitori.

Bisogna amare Dio con calma e riflessione, non con lo stesso

nervosismo che caratterizza le nostre giornate sovraccariche di

impegni e distrazioni, individuando nel proprio cuore delle

forme sincere e interiori di avere fede in lui.

La fede non è una cosa in cui credere, non è un qualcosa a cui

rivolgersi, bensì una fiducia da adoperare nei confronti di Dio,

un lasciarsi tenere per mano da Cristo nel grande itinerario della

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nostra esistenza e riuscire a vedere la vita da un’altra

prospettiva.

“Quando ti invoco, rispondimi, Dio, mia giustizia: dalle

angosce mi hai liberato; pietà di me, ascolta la mia preghiera.

Il Signore mi ascolta quando lo invoco” (Salmo 4).

Ogni giorno che passa è un ringraziamento a Dio per il dono

della vita, occorre manifestare la nostra fede con la più totale

semplicità, in quell’umiltà di cui Papa Giovanni Paolo I è stato

(e la sua memoria lo è tuttora) un validissimo esempio; quel

sorriso, quel suo modo di parlare esprimevano una semplicità

autentica che ognuno può fare propria. Curiosamente, essere

semplici è tra le imprese più difficili in cui il buon cristiano deve

riuscire. In tale contesto, semplice è sinonimo di giusto ma non

di facile.

Pensiamo alla fede di Bernadette di Lourdes: nemmeno sapeva

chi fosse l'Immacolata, eppure nelle apparizioni con la Madonna

non mancava mai quella bella preghiera, l'Ave Maria; quello è

un esempio di vera fede, lasciarsi condurre senza diffidenza.

La fede, come dice Papa Benedetto XVI, è un qualcosa di vivo

che possiamo trovare giorno per giorno specialmente nel volto

dei sofferenti che non perdono la speranza: quella è la vera fede,

perseverare nella speranza confidando in Dio. La fede è una

vocazione, la stessa di una madre e di un padre che lavorano per

dare un sostentamento alla propria famiglia, è quella di San

Isidoro, un agricoltore che prima di iniziare il lavoro dei campi

si affidava ogni mattina al suo Dio. Credere significa dare

pienezza al grande disegno di Dio affidando la propria vita a

colui che allo stesso tempo l'ha data per noi.

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Oggi ci poniamo troppe domande riguardanti l'esistenza di Dio,

ci interroghiamo su chi è, cosa c'è dopo la morte, dov'è nella vita

e soprattutto quella domanda: dov’è Dio nel momento della

sofferenza e del lutto?

Davanti al dubbio, al lutto e alla sofferenza, seppure con

sacrificio occorre mantenere salda la propria fede, è questa che

ci rende possibile andare avanti.

Se ho fede non posso dubitare dell'esistenza di Dio, perché

appunto avere fede significa credere in lui e dunque logicamente

nella sua esistenza; riflettendoci bene, potremo accorgerci che

anche la fede, a discredito delle teorie sulle quali si radica

l’ateismo, ha una sua logica e una sua razionalità pur

nell’infinita varietà di forme che essa può assumere nei nostri

cuori.

Quante volte la nostra fede, in una circostanza triste e

complicata come per esempio la sofferenza di un nostro caro, è

venuta meno; a tale proposito mi piace soffermarmi su una

storia intitolata “Le orme”, ambientata in una spiaggia sulla

quale i protagonisti, cioè Dio e un ragazzo, passeggiano. Dio fa

vedere al ragazzo la strada che ha percorso nella sua vita. Ad un

certo punto però al posto di vedere due paia di orme, le proprie e

quelle di Dio, il ragazzo ne nota solo uno. E alla domanda

“perché solo un paio di orme?” Dio gli risponde “tranquillo,

quelli sono stati i momenti più duri della tua vita dove io ti ho

preso in braccio”. Questa storia, che può tramutarsi in fantasia

se si volesse, è metafora del fatto che Dio è sempre con noi,

soprattutto nel momento del dolore, anche se non ce ne

accorgiamo e ce la prendiamo con lui se il dolore ci fa pensare

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che lui si sia girato a guardare altrove. Anche se non gli saremo

grati, lui ci resterà vicino in ogni caso e continua ad amarci

incondizionatamente.

All’Angelus del 10 Settembre 1978, Giovanni Paolo I affermò:

<<(Dio) è papà. Più ancora: è madre>>. Sebbene poi Papa

Benedetto XVI si sia dissociato da tale affermazione, asserendo

che “Dio è solo Padre”, il messaggio di Albino Luciani resta

valido ed immutato: Dio è madre poiché ti ama come fa una

madre, in maniera tanto completa quanto semplice ed

incondizionata. “Dio aspetta la pecora smarrita, e quando

ritorna corre ad abbracciarla e baciarla. Il padre perdona e

cancella il passato del figlio che ritorna, non giudicherà mai

per quello che ha fatto mentre era smarrita” (Luca15:11-24).

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