Ernst H. Gombrich L’immagine visiva come forma di … · 2011-03-18 · Ernst H. Gombrich...

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Ernst H. Gombrich L’immagine visiva come forma di comunicazione (da L’immagine e l’occhio, Torino, Einaudi, 1985, pp. 155-185) Viviamo in un'epoca visiva. Dal mattino alla sera subiamo un bombardamento di immagini. A colazione, apriamo il giornale, ed ecco, con le notizie, fotografie di uomini e donne; alziamo gli occhi, ed ecco i disegni sul pacchetto dei fiocchi d'avena. Arriva la posta e dalle buste escono, uno dopo l'altro, dépliant patinati con immagini di paesaggi stupendi, di ragazze che prendono il sole, di abiti eleganti: allettamenti e tentazioni a concederci una crociera, a ordinarci un abito su misura. Usciamo di casa, e, per strada, costeggiamo cartelloni pubblicitari che cercano di fermare il nostro sguardo, di far leva sul nostro desiderio di fumare, bere, mangiare. Sul lavoro, quasi inevitabilmente avremo a che fare con qualche forma di informazione visiva: fotografìe, schizzi, cataloghi, progetti, mappe, o, almeno, grafici. E la sera, per distenderci, sediamo davanti al televisore, la nuova finestra sul mondo, a osservare uno sfarfallio di immagini, ora piacevoli, ora terrificanti. Persino le immagini create in tempi remoti o in terre lontane sono più facilmente accessibili a noi che non al pubblico cui erano destinate. Libri illustrati, cartoline e diapositive si accumulano nelle nostre case come souvenir di viaggio, insieme ai ricordi privati delle fotografìe di famiglia. Non c'è da meravigliarsi, dunque, se qualcuno ha affermato che siamo alle soglie di una nuova epoca storica in cui alla parola scritta succederà l'immagine. Alla luce di quest'affermazione, è della massima importanza chiarire le potenzialità dell'immagine rispetto alle altre forme di comunicazione, domandarsi che cosa può e che cosa non può fare meglio del linguaggio scritto o parlato. È una questione della massima rilevanza, cui, purtroppo, si è dedicata un'attenzione minima. Gli studiosi si dedicano ormai da tempo ad analizzare le varie funzioni del linguaggio, che resta lo strumento fondamentale della comunicazione umana. Per i nostri scopi, possiamo accettare, senza perderci nei particolari, le divisioni proposte da Karl Buhler, il quale distinse tra le funzioni di espressione, di appello e di descrizione (per le quali si possono anche usare le denominazioni di sintomo, segnale e simbolo). Diciamo che un atto linguistico è espressivo se ci informa sullo stato d'animo di chi parla. Il tono di voce può essere un sintomo di rabbia, o di allegria, ma può anche essere usato, in senso inverso, per suscitare un certo stato d'animo nel destinatario, può servire cioè di segnale per provocare la rabbia, o l'allegria. È importante distinguere tra l'espressione e l'eccitazione di un'emozione, tra il sintomo e il segnale, soprattutto perché nel linguaggio comune, quando si parla di «comunicare» un sentimento, la differenza viene trascurata. È vero che le due funzioni possono coincidere perfettamente, che i sintomi sonori dell'ira di chi parla possono muovere anche me all'ira; potrebbero, però, anche muovermi al riso. E d'altra parte, qualcuno potrebbe riuscire a farmi arrabbiare senza perdere il proprio sangue freddo. Queste due funzioni della comunicazione sono comuni agli esseri umani e alle creature che si trovano a un livello evolutivo inferiore. Anche gli scambi tra gli animali possono essere sintomi di stati emotivi, o segnali atti a provocare certe reazioni. Ma il linguaggio umano può far di più: ha sviluppato infatti la funzione descrittiva (che nei segnali animali resta a uno stadio rudimentale). Chi parla può informare il suo ascoltatore su questioni che riguardano il passato, il presente, o il futuro; che possono essere immediatamente osservabili, o invece lontane; reali, o soltanto possibili. Si può dire che piove, che ha piovuto, che pioverà, che potrebbe piovere, o che «Se piove, resterò in casa». Il linguaggio svolge questa funzione miracolosa soprattutto per mezzo di particelle come «se», «quando», «non», «perciò», «tutto», «qualche», particelle che sono state battezzate «parole logiche», perché è appunto a esse che il linguaggio deve la possibilità di formulare inferenze logiche (note anche come sillogismi).

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  • Ernst H. Gombrich

    L’immagine visiva come forma di comunicazione (da L’immagine e l’occhio, Torino, Einaudi, 1985, pp. 155-185)

    Viviamo in un'epoca visiva. Dal mattino alla sera subiamo un bombardamento di immagini. A

    colazione, apriamo il giornale, ed ecco, con le notizie, fotografie di uomini e donne; alziamo gli

    occhi, ed ecco i disegni sul pacchetto dei fiocchi d'avena. Arriva la posta e dalle buste escono, uno

    dopo l'altro, dépliant patinati con immagini di paesaggi stupendi, di ragazze che prendono il sole, di

    abiti eleganti: allettamenti e tentazioni a concederci una crociera, a ordinarci un abito su

    misura. Usciamo di casa, e, per strada, costeggiamo cartelloni pubblicitari che cercano di fermare

    il nostro sguardo, di far leva sul nostro desiderio di fumare, bere, mangiare. Sul lavoro, quasi

    inevitabilmente avremo a che fare con qualche forma di informazione visiva: fotografìe, schizzi,

    cataloghi, progetti, mappe, o, almeno, grafici. E la sera, per distenderci, sediamo davanti al

    televisore, la nuova finestra sul mondo, a osservare uno sfarfallio di immagini, ora piacevoli, ora

    terrificanti. Persino le immagini create in tempi remoti o in terre lontane sono più facilmente

    accessibili a noi che non al pubblico cui erano destinate. Libri illustrati, cartoline e diapositive si

    accumulano nelle nostre case come souvenir di viaggio, insieme ai ricordi privati delle fotografìe di

    famiglia.

    Non c'è da meravigliarsi, dunque, se qualcuno ha affermato che siamo alle soglie di una nuova

    epoca storica in cui alla parola scritta succederà l'immagine. Alla luce di quest'affermazione, è della

    massima importanza chiarire le potenzialità dell'immagine rispetto alle altre forme di

    comunicazione, domandarsi che cosa può e che cosa non può fare meglio del linguaggio scritto o

    parlato. È una questione della massima rilevanza, cui, purtroppo, si è dedicata un'attenzione

    minima.

    Gli studiosi si dedicano ormai da tempo ad analizzare le varie funzioni del linguaggio, che resta

    lo strumento fondamentale della comunicazione umana. Per i nostri scopi, possiamo accettare,

    senza perderci nei particolari, le divisioni proposte da Karl Buhler, il quale distinse tra le funzioni di

    espressione, di appello e di descrizione (per le quali si possono anche usare le denominazioni di

    sintomo, segnale e simbolo). Diciamo che un atto linguistico è espressivo se ci informa sullo stato

    d'animo di chi parla. Il tono di voce può essere un sintomo di rabbia, o di allegria, ma può anche

    essere usato, in senso inverso, per suscitare un certo stato d'animo nel destinatario, può servire cioè

    di segnale per provocare la rabbia, o l'allegria. È importante distinguere tra l'espressione e

    l'eccitazione di un'emozione, tra il sintomo e il segnale, soprattutto perché nel linguaggio comune,

    quando si parla di «comunicare» un sentimento, la differenza viene trascurata. È vero che le due

    funzioni possono coincidere perfettamente, che i sintomi sonori dell'ira di chi parla possono

    muovere anche me all'ira; potrebbero, però, anche muovermi al riso. E d'altra parte, qualcuno

    potrebbe riuscire a farmi arrabbiare senza perdere il proprio sangue freddo. Queste due funzioni

    della comunicazione sono comuni agli esseri umani e alle creature che si trovano a un livello

    evolutivo inferiore.

    Anche gli scambi tra gli animali possono essere sintomi di stati emotivi, o segnali atti a

    provocare certe reazioni. Ma il linguaggio umano può far di più: ha sviluppato infatti la funzione

    descrittiva (che nei segnali animali resta a uno stadio rudimentale). Chi parla può informare il suo

    ascoltatore su questioni che riguardano il passato, il presente, o il futuro; che possono essere

    immediatamente osservabili, o invece lontane; reali, o soltanto possibili. Si può dire che piove, che

    ha piovuto, che pioverà, che potrebbe piovere, o che «Se piove, resterò in casa». Il linguaggio

    svolge questa funzione miracolosa soprattutto per mezzo di particelle come «se», «quando», «non»,

    «perciò», «tutto», «qualche», particelle che sono state battezzate «parole logiche», perché è appunto

    a esse che il linguaggio deve la possibilità di formulare inferenze logiche (note anche come

    sillogismi).

  • Considerando la comunicazione dal punto di vista privilegiato offertoci dal linguaggio, dobbiamo domandarci anzitutto quali di queste funzioni possa esplicare l'immagine visiva.

    Vedremo allora che questa è dotata di una suprema capacità di appello, che il suo uso a scopi

    espressivi è problematico; e che, senza qualche ausilio esterno, non è assolutamente in grado di

    svolgere una funzione analoga a quella assertiva del linguaggio. Il fatto che le affermazioni non si

    possano tradurre in immagini suscita spesso incredulità, ma per dimostrare che è vero basta sfidare

    i dubbiosi a illustrare la proposizione di cui dubitano. Impossibile creare un'immagine del

    concetto di affermazione, ancor più impossibile disegnare l'impossibilità di tradurre il concetto in

    immagini. Man non è soltanto la maggiore astrattezza del linguaggio a eludere la rappresentazione

    visiva. Una frase da abbecedario come «Sul tappeto c'è il gatto» non è certamente astratta, ma, di

    fronte al libro che ci mostra un gatto su un tappeto, basta un attimo di riflessione per rendersi conto

    che l'immagine non è un esatto equivalente dell'affermazione. Non si può specificare in forma

    pittorica se s'intende «il» gatto (un esemplare ben definito), o «un» gatto (un esemplare di una

    classe); e poi, pur essendo la frase una descrizione possibile dell'immagine, esiste un numero

    infinito di altre affermazioni che la descrivono correttamente, ad esempio, «C'è un gatto visto di

    dietro», o persino «Sul tappeto non ci sono elefanti». Quando poi l'abbecedario passa a frasi come

    «Sul tappeto c'era il gatto», «Sul tappeto ci sarà il gatto», «Sul tappeto non c'è quasi mai il gatto»,

    «Se sul tappeto c'è il gatto...», e cosi via all'infinito, vediamo la parola librarsi a enorme altezza

    sopra l'immagine.

    Si provi però a ripetere la frase a un bambino, poi a mostrargli l’illustrazione, e l'immagine

    ritroverà subito un posto nella nostra considerazione. La frase lo lascerà indifferente mentre

    l'immagine lo riempirà di gioia, quasi quanto il gatto in carne e ossa. Si sostituisca all'immagine un

    giocattolo a forma di gatto e il bambino sarà disposto ad abbracciarlo e a portarlo a letto con sé. Il

    giocattolo suscita le medesime reazioni di un gatto vero, anzi, forse ancora più intense, perché è più

    docile e facile da coccolare. Gli studiosi di comportamento animale hanno svolto molte ricerche

    sulla possibilità di provocare un determinato comportamento servendosi di manichini o di sostituti,

    e hanno dimostrato che gli organismi sono «programmati» per rispondere a certi segnali visivi in un

    senso propizio alla sopravvivenza. Basta che il modello, anche estremamente rozzo, di un predatore

    o di un compagno sessuale esibisca alcuni tratti distintivi perché nell'animale si verifichino le

    reazioni previste, e, se si accentuano i tratti distintivi, il manichino (come il giocattolo) può essere

    anche più efficace dello stimolo naturale. È necessaria una certa cautela nel paragonare questi

    automatismi alle reazioni umane, tuttavia - secondo un'ipotesi del pioniere dell'etologia, Konrad

    Lorenz - certe forme d'arte particolarmente apprezzate nella decorazione delle stanze per bambini,

    quelle immagini di cui si dice che sono «carine», che «fanno tenerezza» (fra queste, molte creazioni

    di Walt Disney), genererebbero sentimenti materni proprio in virtù della loro somiglianza strutturale

    con i bambini stessi.

    Comunque sia, fin dall'antichità si è osservato il potere che hanno le impressioni visive di

    suscitare in noi delle emozioni. «Lo spirito è stimolato più lentamente dall'orecchio che

  • dall'occhio», dice Orazio nell'Arte Poetica, confrontando l'effetto delle rappresentazioni teatrali con

    quello dei racconti orali. Insegnanti e predicatori hanno precorso i moderni esperti di pubblicità

    nello studio di come l'immagine visiva ci può influenzare, che lo vogliamo o no. Il frutto

    succulento, il nudo seducente, la caricatura repellente, la violenza raccapricciante, sanno tutti far

    leva sulle nostre emozioni, e fermare la nostra attenzione. La funzione di appello non si limita alle

    immagini di oggetti precisi: anche le configurazioni astratte di forme e colori hanno il

    potere di influire sulle nostre emozioni. Basta tenere gli occhi aperti per vedere come queste potenzialità dei mezzi visivi siano sfruttate ovunque, dal segnale rosso di pericolo al modo in cui

    l'arredamento di un ristorante può essere studiato per creare una certa «atmosfera»1. Questi esempi

    mostrano anche che la capacità di eccitazione delle impressioni visive si estende ben al di là dei

    limiti di questo articolo. Quando si parla di comunicazione ci si riferisce a fatti concreti piuttosto

    che a stati d'animo.

    Un mosaico trovato nell'ingresso di una casa a Pompei mostra un cane alla catena con l'iscrizione

    «Cave canem». Ora non è difficile vedere il legame tra questa immagine e la sua funzione di

    appello. Dobbiamo reagire all'immagine come reagiremmo di fronte a un vero cane che abbaia

    contro di noi: l'immagine avvalora efficacemente la scritta che avverte il potenziale intruso del

    pericolo che corre.

    Ma basterebbe la sola immagine a esplicare questa funzione comunicativa? Si, a patto di accostarvisi con una certa conoscenza di abitudini e convenzioni sociali. Che cosa ci farebbe,

    un'immagine di questo genere, nel salone d'ingresso, se non fosse lì per comunicare qualcosa a

    coloro che non sanno leggere? Se tuttavia riuscissimo a dimenticare per un attimo questa

    conoscenza, e a immaginare un membro di una cultura diversa dalla nostra che si avvicini a questa

    raffigurazione, il mosaico si presterebbe a molte altre interpretazioni possibili. Non potrebbe darsi

    che il proprietario volesse richiamare l'attenzione su un cane che desiderava vendere? O forse era un

    veterinario? E il mosaico non avrebbe anche potuto funzionare come insegna per un pub chiamato

    «Al cane nero»? Questo esercizio serve a ricordarci quante cose diamo per scontate quando

    cerchiamo d'interpretare il messaggio trasmessoci da un'immagine. Tutto dipende sempre da quanto

    già sappiamo sui suoi possibili sensi. In fondo, quando vediamo il mosaico pompeiano nel museo di

    Napoli non ne concludiamo che da qualche parte ci sia un cane alla catena. Ma le cose vanno

    1 Cfr. il mio volume Il senso dell'ordine cit., cap. ix.

  • diversamente con la funzione di appello dell'immagine. Anche nel museo la figura del cane

    potrebbe suscitare in noi una punta di timore, e recentemente ho visto una bambina di cinque anni

    che sfogliava un libro di storia naturale rifiutarsi di toccare le illustrazioni di creature disgustose.

    Com'è ovvio, non possiamo rispondere adeguatamente al messaggio trasmessoci dal mosaico, se non leggiamo l'immagine in modo corretto. Il mosaico è un mezzo espressivo che si presta a

    formulare il problema in termini di teoria dell'informazione. Il suo equivalente moderno sarebbe un

    tabellone pubblicitario composto di un insieme di lampadine che si possono accendere e spegnere

    individualmente, formando cosi un'immagine. Un mosaico può essere formato di cubetti regolari

    (tesserae), chiari o scuri. La quantità di informazione visiva che questo tipo di mezzo può

    trasmettere dipenderà dalla relazione tra le dimensioni dei cubetti e la scala dell'immagine. Nel

    nostro caso, i cubetti sono abbastanza piccoli perché l'artista possa rappresentare i ciuffi di peli sulle

    gambe e sulla coda del cane, e gli anelli della catena, uno a uno. Egli potrebbe tuttavia limitarsi a un

    codice in cui il nero significa una forma solida vista contro un fondo chiaro, e la silhouette che ne

    risulterebbe potrebbe essere dotata di tratti sufficientemente distintivi per farcela riconoscere come

    un cane. Ma il maestro pompeiano si è formato in una tradizione in cui il metodo di

    rappresentazione concettuale è ormai superato, e l'immagine include quindi anche delle

    informazioni sugli effetti della luce sulla forma. Il mosaico ci trasmette il bianco dell'occhio e il

    luccicare del naso, ci mostra i denti e i contorni delle orecchie, e giunge a indicare l'ombra delle

    zampe posteriori sul motivo dello sfondo2. Fin qui il significato è di facile decodificazione, ma le

    chiazze bianche sul corpo, e, soprattutto, il disegno delle zampe posteriori, suscitano qualche

    perplessità. L'indicazione della lucentezza del pelo nel modellare il corpo di un animale rientra tra

    le convenzioni dell'epoca, e sta probabilmente all'origine di questa caratteristica del mosaico. Se poi

    la forma ottenuta sia da attribuirsi a esecuzione maldestra o a restauro insipiente, è questione che si

    potrebbe risolvere soltanto facendo riferimento all'originale.

    La difficoltà che incontriamo nell'interpretare il significato del mosaico è istruttiva, giacché

    anch'essa si può esprimere in termini di teoria della comunicazione. Come i messaggi verbali, le

    immagini sono soggette a quelle fortuite interferenze che i tecnici chiamano «rumore», e che

    cercano di neutralizzare sfruttando l'effetto di ridondanza. È questa difesa naturale del codice

    verbale che ci consente di leggere senza esitare l'iscrizione «Cave canem», anche se la prima «e» è

    incompleta. Per quanto riguarda il riconoscimento dell'immagine, è il contorno che la racchiude a

    trasmettere la maggior quantità d'informazione. Non saremmo in grado d'indovinare la lunghezza

    della coda, se mancassero i cubetti neri. I cubetti del motivo di sfondo, invece, e

    quelli che si trovano all'interno della silhouette, sono relativamente ridondanti, mentre quelli che

    suggeriscono la lucentezza del pelo occupano una posizione intermedia: rappresentano infatti un

    aspetto dell'animale che anche nella realtà è elusivo, pur ammettendo che la configurazione che

    vediamo nel mosaico è del tutto improbabile. Dunque, per automatica che possa essere la nostra

    prima reazione di fronte a un'immagine, la lettura non potrà mai essere passiva. Se non

    possedessimo già qualche informazione sulle possibili interpretazioni, non saremmo neanche in

    grado di azzardare delle ipotesi sulla posizione relativa delle zampe posteriori del cane. E anche

    possedendo queste informazioni, è probabile che molte possibilità ci sfuggano: può darsi, ad

    esempio, che l'immagine volesse rappresentare una razza particolarmente cattiva, che i Romani

    avrebbero subito riconosciuto. Questo, il mosaico non lo può dire. La casualità di una corretta

    lettura dell'immagine è governata da tre variabili: il codice, la didascalia e il contesto. Si potrebbe credere che la sola didascalia basterebbe a rendere ridondanti le altre due, non fosse che le nostre

    convenzioni culturali sono estremamente flessibili. In un libro d'arte la dicitura «E. Landseer» sotto

    l'illustrazione di un cane si riferisce evidentemente all'autore dell'immagine, e non alla specie

    rappresentata. Nel contesto di un abbecedario ci siaspetterebbe invece che la didascalia e

    l'immagine si illuminino vicendevolmente. Anche se la pagina fosse strappata, e si leggesse soltanto

    «-ane», il frammento di disegno sovrastante basterebbe a farci capire se la lettera mancante è una e

    2 Cfr. la sezione Light and Highlights, nel mio volume The Heritage of Apelle.

  • o una p. La parola e l'immagine, combinandosi, accrescono le probabilità di una corretta

    ricostruzione. Vedremo più avanti che questo rapporto di sostegno reciproco tra il linguaggio e

    l'immagine facilita la memorizzazione. L'uso di due canali in certo modo indipendenti assicura

    un'agevole ricostruzione. Questa idea è alla base dell'antica «arte della memoria» (brillantemente

    indagata in un libro di Frances Yates)3, secondo i cui precetti ogni messaggio verbale va tradotto in

    forma visiva, e tanto meglio se si tratta di immagini bizzarre e improbabili. Se volete ricordare il

    nome del pittore Hogarth, figuratevi un maiale (hog, in inglese) che pratica la sua arte (art)

    dipingendo una lettera h. L'associazione può non piacere, ma non si dimentica facilmente.

    Ci sono casi in cui il solo contesto basta a togliere ambiguità al messaggio visivo, anche senza

    l'uso di parole. È una possibilità che ha spesso riscosso l'interesse degli organizzatori di quegli

    incontri internazionali in cui la confusione babelica delle lingue esclude l'uso della parola scritta o

    parlata. La serie di immagini progettata per i Giochi olimpici messicani del 1968 non richiede

    spiegazioni4, grazie al numero limitato di messaggi possibili e alla restrizione delle scelte

    interpretative, benissimo esemplificata nei primi due segni della serie. Si può osservare, inoltre,

    come le finalità e il contesto impongano di semplificare il codice, concentrandosi su pochi tratti

    distintivi. Questo principio è brillantemente illustrato dai segni pittorici per le varie attività e sport

    progettati nella stessa occasione.

    Non bisogna tuttavia mai cedere alla tentazione di dimenticare che anche in questi casi il

    contesto si deve appoggiare a delle aspettative preesistenti, fondate sulla tradizione. Se si

    interrompe questo legame, si interrompe anche la comunicazione. Qualche anno fa s'è letto sui

    giornali di tumulti scoppiati in un paese sottosviluppato in seguito alla voce che in un negozio si

    vendeva carne umana. Si seppe poi che delle confezioni di cibo in scatola recavano un ragazzino

    sorridente sull'etichetta. Era bastato quel mutamento di contesto a causare la confusione. Di regola,

    le immagini di frutta, verdura o carne sui contenitori di cibo ne indicano, effettivamente, il

    contenuto, e se l'immagine di un essere umano su un'etichetta non ci porta alle medesime

    conclusioni, è semplicemente perché sin dall'inizio ne escludiamo la possibilità.

    In questi esempi, l'immagine viene fatta funzionare in congiunzione con altri fattori per trasmettere un messaggio preciso, traducibile in parole. Il valore profondo dell'immagine sta

    tuttavia nella sua capacità di comunicare delle informazioni impossibili a codificarsi in altro modo.

    William M. Ivins jr, in un importante libro dal titolo Prints and Visual Communication5 sostiene

    che i Greci e i Romani non ebbero progresso tecnico perché mancò loro l'intuizione di riprodurre le

    immagini con qualche tecnica di stampa. Alcuni argomenti filosofici di Ivins mancano di un solido

    sostegno (il mondo antico conosceva la moltiplicazione delle immagini, come dimostrano i sigilli,

    le monete e gli stampi per metalli). Non c'è dubbio, tuttavia, che quando si cominciarono a stampare

    erbari, libri di costumi, fogli di notizie e carte topografiche, queste divennero fonti essenziali di

    informazione visiva sulle piante, la moda, l'attualità e le terre lontane. Ma lo studio di questo

    materiale ci dimostra anche, con chiarezza, che l'informazione stampata dipende in parte dalle

    parole. Nulla ci impedirà di scambiare un re per un personaggio qualunque, se il suo ritratto, anche

    somigliantissimo, è accompagnato dalla dicitura sbagliata; e d'altronde gli editori dei primi fogli

    3 The Arf of Memory, London 1966 [trad. it. L'arte della memoria, Torino 1972].

    4 W. e M. Dietholm, Signet, Signal, Symbol, Zurich 1970, si vedano in particolare le pp. 23-31.

    5 Cambridge (Mass.) - London 1953.

  • d'informazione talvolta usavano le xilografìe di una città devastata dall'alluvione per illustrare un

    terremoto o qualche altro disastro, secondo il principio che se hai visto una catastrofe le hai viste

    tutte6.

    Anche oggi, è solo la fiducia in certi informatori o in certe istituzioni a sollevarci dal dubbio che

    un'immagine vista in un libro, sul giornale o sullo schermo rappresenti qualcosa d'altro da quel che

    vorrebbe farci credere. Ricordiamo il caso infame dello scienziato tedesco Ernst Haeckel, accusato

    di aver tentato di provare il parallelismo tra lo sviluppo umano e quello animale facendo passare la

    fotografia di un feto di maiale per l'immagine di un embrione umano. In effetti è facilissimo

    confondere immagini e didascalie, come ogni editore, o quasi, ha imparato a proprie spese.

    Il genere d'informazione che si estrae da un'immagine può essere del tutto indipendente dalle intenzioni del suo autore. Una foto di bagnanti sulla spiaggia può essere esaminata dall'agente di un

    servizio segreto per preparare uno sbarco, e il mosaico pompeiano può fornire informazioni inedite

    a uno storico delle razze canine. Sarà bene, a questo punto, considerare il valore informativo delle

    immagini dal punto di vista della quantità di informazione sul modello originale che riescono a

    comunicare nel loro codice. Quando l'informazione è praticamente completa, si parla di facsimile o

    di replica. In questo caso l'immagine viene talora prodotta per trarre in inganno piuttosto che per

    informare: a fini fraudolenti nel caso di una banconota falsa, a fin di bene nel caso di un occhio di

    vetro o di un dente artificiale. Ricordiamo però che il facsimile di una banconota può comparire in

    un libro di storia a scopi didattici, così come la copia, o il calco, di un organo può essere usato di

    fronte a una classe di studenti in medicina. Un duplicato non è classificabile come immagine se ha

    in comune col modello tutte le caratteristiche, compreso il materiale di cui è fatto. L'esemplare di un

    fiore usato in una lezione di botanica non è un'immagine, mentre un fiore artificiale usato a scopi

    dimostrativi va classificato come immagine. Anche qui i confini sono piuttosto fluidi. L'animale

    impagliato, che vediamo chiuso in una bacheca non è una immagine, eppure è probabile che il

    tassidermista abbia dato un piccolo contributo personale scegliendo e modificando il corpo da

    imbalsamare. Per fedele che possa essere l'immagine usata per trasmettere delle informazioni

    visive, il processo selettivo rivelerà sempre un'interpretazione da parte dell'autore nella scelta di ciò

    che considera importante. Persino nel produrre l'immagine in cera di un personaggio famoso, si è

    6 Cfr. il mio volume Arte e illusione.

  • costretti a scegliere una posa, o un episodio, piuttosto che un altro; il fotografo d'attualità passerà

    minuziosamente al vaglio il suo materiale, alla ricerca dell'immagine «rivelatrice».

    All'interpretazione dell'autore corrisponde sempre l'interpretazione dell'osservatore. Non esistono

    immagini che parlano da sé. Ricordo di aver visto, in un museo di Lincoin, nel Nebraska, una

    vetrina con scheletri e ricostruzioni dei progenitori del cavallo. Quelle creature, secondo gli odierni

    standard equini, erano minuscole, ma, a parte la scala, assomigliavano in tutto al cavallo d'oggi. Da

    questo incontro compresi come, inevitabilmente, persino il modello didattico venga interpretato, e

    come non sia affatto facile liberarsi di certe presupposizioni. Abituato com'ero a osservare opere di

    scultura (e quindi anche statuette bronzee di cavalli) mi ero lasciato dominare dall'abitudine mentale

    di non tener conto della scala nell'interpretazione di un codice. In altre parole, io avevo «visto» il

    modello in scala di un cavallo normale. Furono la descrizione verbale, e l'annessa informazione, a

    correggere la mia lettura del codice.

    È sempre necessaria una piccola scossa per ricordarci quella che, in Arte e illusione, ho definito la «parte dell'osservatore», ossia il contributo che portiamo a ogni rappresentazione attingendo alla

    riserva d'immagini che teniamo immagazzinate nella mente. Ancora una volta, è soltanto quando,

    per mancanza di ricordi, questo processo non può aver luogo che diveniamo coscienti

    dell'importanza della memoria. Osservando la fotografia di una casa, di solito non ci preoccupiamo

    del fatto che molti particolari non siano visibili, a meno di non essere interessati proprio a un

    aspetto dell'edificio che è sfuggito alla macchina fotografica. Abbiamo visto molte case simili a

    quella, e, grazie alla memoria, siamo in grado di integrare l'informazione, o alme-

    no ci sembra. Soltanto di fronte a una struttura assolutamente inconsueta ci rendiamo conto

    dell'elemento enigmatico presente in ogni rappresentazione. Il nuovo teatro dell'opera di Sydney, in

    Australia, è una struttura del tutto originale, e chi ne veda la fotografia non potrà fare a meno di

    porsi una serie di domande cui l'immagine non può rispondere. Che inclinazione ha il tetto? Quali

    parti sono concave, quali convesse? E, infine, che dimensioni ha l'intero edificio?

    La miglior dimostrazione del fatto che generalmente ci sono delle presupposizioni latenti nel

    nostro modo di osservare una fotografia, è data dallo scarso valore informativo delle ombre in

    un'immagine piatta. Si ottiene un'impressione corretta soltanto partendo dal presupposto che la luce

    cada dall'alto e, di solito, da sinistra. Si provi a capovolgere l'immagine: quel che era concavo parrà

    convesso, e viceversa. È forse una banalità ricordare che leggiamo il codice della fotografia in

    bianco e nero senza per questo presupporre che si tratti della rappresentazione di un mondo privo di

    colori, ma dietro questa banalità si nascondono altri problemi. Quali colori, o toni, corrispondono a

  • certi grigi della fotografia? Che differenze si noteranno, per esempio, fotografando la bandiera

    americana prima su pellicola ortocromatica, poi su pellicola pancromatica?

    L'interpretazione delle fotografìe è una tecnica importante che devono imparare tutti coloro che

    lavorano con questo mezzo: l'agente dei servizi segreti, il topografo e l'archeologo che studiano le

    fotografie aeree, il fotografo che registra e commenta gli eventi sportivi, e il medico che legge le

    lastre dei raggi X. Ognuno di loro deve conoscere i limiti e le possibilità del suo strumento. Così, ad

    esempio, il movimento, pur rapido, dell'otturatore a fessura sulla lastra fotografica può essere

    troppo lento per mostrare la corretta successione degli avvenimenti che cerca di fermare; oppure, la

    grana di una pellicola può essere troppo grossa per registrare il dettaglio desiderato. Gottfried

    Spiegler ha dimostrato che l'esigenza di un'immagine a raggi X facilmente leggibile può essere in

    conflitto con la sua funzione informativa7: forti contrasti e contorni eccessivamente netti possono

    nascondere indizi preziosi. Inutile aggiungere che c'è inoltre la possibilità di ritoccare un'immagine

    fotografica, nell'interesse della verità, o per alterarla. Tutte queste variabili ricompaiono nel

    passaggio dal negativo alla stampa, dalla stampa al cliché, e da questo all'illustrazione definitiva. La

    variabile che ci è più familiare è la densità del retino. Come nel caso del mosaico, l'informazione

    trasmessa nel normale processo fotografico ha forma granulare: quelle che nella realtà sono

    transizioni morbide vengono trasformate in passaggi distinti, i quali possono essere pochissimi, nel

    qual caso sono estremamente vistosi, oppure numerosissimi, e allora sono quasi impercettibili a

    occhio nudo.

    Paradossalmente, sono proprio i limiti della nostra capacità visiva che hanno reso possibile la televisione: l'immagine si forma nel nostro occhio grazie ai mutamenti d'intensità di un puntolino

    luminoso che corre rapidissimo attraverso lo schermo. Molto tempo prima di questa invenzione,

    l'artista francese Claude Mellan faceva sfoggio di virtuosismo incidendo un volto di Cristo formato

    di una sola linea a spirale le cui variazioni di spessore sono utilizzate per indicare le forme e le

    ombre.

    7 G. Spiegler, Physikalische Grundlagen der Rontgendiagnostik, Stuttgart 1957.

  • L'eccentricità stessa di questo capriccio ci mostra con quanta prontezza impariamo ad adeguarci

    al codice e ad accettarne le convenzioni. Neppure per un momento immaginiamo che, secondo

    l'artista, il volto di Cristo fosse veramente segnato da una linea a spirale. Contrariamente a quello

    che sostiene un famoso slogan, non abbiamo difficoltà a distinguere tra il mezzo e il messaggio.

    Dal punto di vista dell'informazione, la possibilità di distinguere nettamente tra il mezzo e il

    messaggio può essere più importante della fedeltà all'originale. Proprio per questo motivo molti

    studiosi d'arte non apprezzano l'uso, sempre più frequente, delle riproduzioni a colori. Nella

    fotografia in bianco e nero, l'incompletezza della codificazione è subito evidente. La fotografìa a

    colori, invece, ci lascia sempre incerti sul suo valore informativo: in essa non riusciamo a separare il

    codice dal contenuto.

    Quanto più è facile separare il codice dal contenuto, tanto più possiamo fare affidamento

    sull'immagine per comunicare un particolare tipo di informazione. Un codice selettivo che venga

    riconosciuto come tale consente all'autore dell'immagine di filtrare l'informazione, includendo

    soltanto i particolari che gli interessa far giungere al destinatario. Per questo una rappresentazione

    selettiva che indichi i propri principi di selezione sarà più informativa di una replica esatta. Un buon esempio di questo fatto ci è dato dai disegni anatomici. La rappresentazione realistica di una

    dissezione non solo sarebbe ripugnante, ma, probabilmente, non riuscirebbe a mettere in sufficiente

    evidenza gli oggetti della dimostrazione. Ancora oggi, talvolta, i chirurghi si servono di artisti

    specializzati per fissare certi particolari che le fotografie a colori non riuscirebbero a registrare. Gli

    studi anatomici di Leonardo da Vinci sono tra i primi esempi della deliberata soppressione di certi

    dettagli a vantaggio della chiarezza concettuale: si tratta molto spesso non di rappresentazioni

    realistiche, ma di modelli funzionali, illustrazioni delle idee dell'artista sulla struttura del corpo.

    Parimenti, i disegni leonardeschi di acque e mulinelli vanno letti soprattutto come visualizzazioni

    delle forze fisiche in gioco8. Si potrebbe dire che questi disegni costituiscono un punto di

    transizione tra la rappresentazione e la tecnica diagrammatica che si usa per disegnare le carte

    geografiche. È inutile insistere sul valore di questa tecnica per la comunicazione dell'informazione.

    La caratteristica più evidente della carta geografica è il fatto che al codice standardizzato si

    aggiunge una chiave di lettura, la quale ci dice, ad esempio, che le «linee di livello» rappresentano

    delle altitudini, o che le varie sfumature di verde significano campi e foreste. Questi sono esempi di

    caratteri geografici visibili ridotti in forma diagrammatica per ragioni di chiarezza, ma non è

    difficile inserire nella carta anche informazioni d'altro tipo, come le frontiere politiche, la densità

    della popolazione, ecc. In questo caso rimane un unico autentico elemento di rappresentazione

    8 Cfr. The Form of Movement in Water and Air, nel mio volume The Heritage of Apelles cit.

  • (detta anche iconicità), cioè il contorno geografico, sebbene anche questo venga normalizzato

    secondo certe regole di trasformazione che consentono di raffigurare una porzione del globo su una

    superfìcie piatta.

    Il passo è breve dal processo di astrazione della carta geografica al grafico, o diagramma, che ci

    mostra dei rapporti che, in origine, non sono visivi, ma logici o temporali. Tra gli esempi più antichi

    di questo tipo di mappa che mostra un sistema di relazioni c'è l'albero genealogico. La tavola dei

    gradi di parentela compare spesso nei trattati medievali di diritto canonico, giacché la legittimità dei

    matrimoni e le leggi sull'eredità si basavano in parte su tali rapporti. Anche gli

    studiosi di genealogia, naturalmente, fanno ampio uso di questo utile mezzo di dimostrazione visiva. Va riconosciuto, infatti, che l'albero genealogico illustra a meraviglia i vantaggi del

    diagramma, consentendoci di comprendere con un solo sguardo un rapporto di parentela la cui

    spiegazione a parole sarebbe macchinosissima («È la moglie del cugino secondo della mia

    matrigna»). Quale che sia il tipo di relazione – si tratti di una scala gerarchica, dell'organizzazione

    di un'azienda, del sistema di classificazione di una biblioteca o di una rete di dipendenze logiche – il

    diagramma ci mette sempre con chiarezza sotto gli occhi ciò che una descrizione verbale può

    soltanto rappresentare come una filza di affermazioni.

    Inoltre, è facile combinare i diagrammi con altri elementi visivi per produrre dei prospetti in cui si vedono immagini di oggetti disposti secondo i loro rapporti logici piuttosto che spaziali. Nel

    campo dell'educazione visiva, si è anche cercato di standardizzare i codici di questi prospetti (si

    veda, in particolare, il lavoro dei viennesi Otto e Marie Neurath, che hanno cercato di rendere più

    vivaci le statistiche servendosi appunto di un codice visivo di questo genere)9. Se alla pratica, ormai

    abbastanza avanzata, di questi sussidi visivi corrisponda una teoria adeguata, è un'altra questione.

    Secondo i comunicati stampa, la Nasa avrebbe dotato una sonda spaziale di uno speciale messaggio

    visivo, «nel caso che lungo il percorso venga intercettata da esseri intelligenti e forniti di cultura

    scientifica». È poco probabile che questo tentativo sia da prendersi sul serio, ma cosa scopriremmo

    se lo facessimo? Anzitutto che gli esseri spaziali dovrebbero avere, tra i propri organi di senso, dei

    «ricevitori» sensibili alla stessa banda di onde elettromagnetiche cui reagiscono i nostri occhi. Ma

    anche in questa remota eventualità, sarebbe loro impossibile comprendere il messaggio. Abbiamo

    9 Per un giudizio sul contributo di Otto e Marie Neurath, cfr. L. Hogben, From Cave Painting to Comic Strip, New

    York 1949.

  • visto che la lettura di un'immagine, come la lettura di qualsiasi altro messaggio, dipende da quel che

    già si sa delle possibili interpretazioni; si riconosce soltanto ciò che si conosce. Persino i goffi nudi

    dell'illustrazione richiedono delle conoscenze reliminari. Sappiamo, ad esempio, a che cosa servono

    i piedi, che cosa si fa con gli occhi, e proiettiamo questa conoscenza sulle due figure che altrimenti

    non avrebbero aspetto «umano». È esclusivamente in virtù di questa informazione che riusciamo a

    separare il codice dal messaggio: sappiamo quali tratti vanno interpretati come contorni e quali

    servono invece, per convenzione, a dare un senso di plasticità. Sarebbe del tutto perdonabile se i

    nostri amici extraterrestri «forniti di cultura scientifica» vedessero in queste figure delle costruzioni

    in fil di ferro, all'interno delle quali fluttuano vaghe forme senza peso. E anche se riuscissero a

    decifrare questa parte del codice, come interpreterebbero il braccio e la mano destra della donna,

    che si assottiglia verso la punta come la testa di un fenicottero? Le due creature sono «disegnate in

    scala sullo sfondo della sagoma della navetta», ma se si suppone che i destinatari siano in grado di

    capire la resa di scorcio, ciò significa che sarebbero anche in grado di comprendere la prospettiva, e

    potrebbero perciò immaginare che la sonda spaziale si trovi in

    posizione arretrata rispetto alle figure, che, in proporzione, sarebbero quindi minuscole. Quanto al fatto che «l'uomo ha la mano destra levata in segno di saluto» (la femmina della specie è

    probabilmente meno espansiva), un comune terrestre che conoscesse esclusivamente il repertorio

    gestuale dei Cinesi, o degli Indiani, sarebbe incapace di interpretarlo correttamente.

    Alla raffigurazione degli esseri umani si affianca un grafico: un insieme di linee che

    rappresentano i quattordici pulsar della Via Lattea e che dovrebbero indicare la posizione del Sole

    del nostro universo. Un secondo disegno (come si fa a capire che non appartiene allo stesso

    grafico?) «mostra la Terra e gli altri pianeti in relazione al Sole, e il percorso del Pioneer, che

    parte dalla Terra e, oltrepassato Giove, muta direzione ». La traiettoria, come si vede, è indicata da

    una freccia direzionale: forse agli autori del disegno è sfuggito il fatto che si tratta di un segno

    convenzionale, incomprensibile in una civiltà che non abbia mai avuto l'equivalente di arco e

    frecce. La freccia appartiene a un vasto gruppo di simboli grafici che si trovano a metà strada tra

    l'immagine visiva e il segno scritto. I fumetti offrono molti esempi di questo tipo di convenzione, la

    cui storia è ancora quasi tutta da scrivere. Questi simboli vanno dalle linee orizzontali

    pseudonaturalistiche per suggerire la velocità, alla convenzionale fila di puntini per rappresentare la

    direzione dello sguardo; dall'allucinazione di veder le stelle dopo un colpo in testa, al vero e pro-

    prio fumetto contenente l'immagine di ciò che pensa il personaggio o un semplice punto

    interrogativo, che indica perplessità. Questa zona di transizione tra l'immagine e il simbolo ci

  • ricorda che la stessa scrittura è uno sviluppo del pittogramma, e che diventò autentica scrittura

    soltanto quando si cominciò a usarla per trasformare la parola fugace in testimonianza duratura.

    È noto che, nell'antichità, molti sistemi di scrittura ricorrevano, per questo scopo, tanto alle

    risorse offerte dall'illustrazione, quanto al principio del rebus, fondato sull'uso degli omofoni per

    rappresentare parole astratte. Nell'antico Egitto come in Cina si impiegava un'ingegnosa

    combinazione di questi due metodi per rappresentare i suoni con dei segni e per facilitare la lettura,

    classificando i suoni stessi secondo categorie concettuali. Cosi, ad esempio, il nome del dio Osiride

    nella scrittura geroglifica prende la forma di un rebus in cui compare l'immagine di un trono {'usr}

    e quella di un occhio {'ir i}, cui si aggiunge la figura di uno scettro divino, indicante che si tratta del

    nome di un dio. Tuttavia, in tutte le civiltà antiche, la scrittura rappresenta soltanto una tra le molte

    forme di simbolismo convenzionale, di cui è necessario imparare il significato se si vogliono

    comprendere i segni attraverso i quali si esprime.

    L'apprendimento di questi significati non è necessariamente un esercizio intellettuale. Non è

    difficile ottenere di fronte ai segni una reazione condizionata simile a quella che si verifica nel caso

    delle immagini. I simboli religiosi, come la croce o il loto; i segni di pericolo o di propiziazione,

    come il teschio con le tibie incrociate o il ferro di cavallo; gli stemmi araldici e i vessilli nazionali,

    come l'aquila o la bandiera a stelle e strisce; le insegne dei partiti che suscitano sentimenti di ostilità

    o di lealtà, come la svastica o la bandiera rossa – questi sono alcuni tra i molti esempi possibili del

    fatto che il segno convenzionale può caricarsi di quel potenziale di appello caratteristico

    dell'immagine visiva. Una questione, forse, è destinata a rimanere aperta: fino a che punto il

    potenziale di appello dei simboli attinge al significato inconscio di certe configurazioni studiate da

    Freud, e collegate poi da Jung alle tradizioni di simbolismo esoterico tipiche del misticismo e

    dell'alchimia? Perfettamente accessibile all'indagine dello storico è invece il motivo per cui i

    simboli visivi hanno spesso attratto gli individui in cerca di una rivelazione. Costoro hanno infatti la

    sensazione che il simbolo riesca, nello stesso tempo, a trasmettere e a nascondere più cose di quanto

    non faccia il discorso razionale. All'origine di questa convinzione, che si protrae nei secoli, stanno

    senza dubbio le proprietà diagrammatiche del simbolo, ossia la sua capacità di farci comprendere un

    sistema di relazioni con maggior rapidità ed efficacia di quanto non sia possibile alla semplice

    parola. L'antico simbolo di Yin e Yang è una buona illustrazione di questa caratteristica, e ci ricorda

    inoltre che questo tipo di segno può diventare un serio oggetto di meditazione. Per di più, se la

    familiarità può generare disprezzo, il suo contrario ispira sentimenti di timore reverenziale: un

    simbolo strano sembra sempre nascondere un mistero, e se risale all'antichità, sarà facile

    convincersi che esso incarna qualche forma di sacra conoscenza esoterica, da non rivelarsi alle

    masse. Un esempio tipico di questa reazione ci è offerto dall'alone di timore e di rispetto che per

    secoli ha circondato gli antichi geroglifici egizi 10: quando il loro significato era ormai per lo più

    perduto, si prese a credere che i segni usati per scrivere il nome del dio Osiride avessero un senso

    simbolico, e non fonetico, che l'occhio e lo scettro indicassero che il dio è una manifestazione del

    sole.

  • Come il lettore può facilmente verificare osservando una banconota da un dollaro, questa

    associazione fu sfruttata dai «padri fondatori» nel disegno del Grande Sigillo. Seguendo i consigli

    di uno studioso di antichità, l'inglese Sir John Prestwich, l'autore vi ha espresso in parole e

    immagini le speranze e le aspirazioni degli americani agli albori di una nuova epoca. «Novus ordo

    seculorum» allude alla profezia virgiliana sull'avvento di una seconda età dell'oro, e alla stessa fonte

    risale l'altra scritta latina, «Annuit Coeptis», «Egli [Dio] è stato benevolo verso le cose da poco

    intraprese». Ma è soprattutto l'immagine della piramide incompiuta che si erge verso il cielo,

    insieme all'antico simbolo dell'occhio (qui, l'occhio della Provvidenza), a far

    si che tutto l'insieme abbia il sapore di un'antica profezia prossima a realizzarsi.

    La continuità di un simbolo come quello dell'occhio nel Grande Sigillo, che risale a oltre 4000

    anni fa, è certamente di enorme interesse per lo storico, ma si tratta di un caso abbastanza

    eccezionale. Più comunemente, l'influenza del passato sul simbolismo si fa sentire attraverso la

    sopravvivenza di miti e leggende tradizionali nel linguaggio di tutti i giorni. Le frecce di Cupido, le

    fatiche d'Erede, la spada di Damocle e il tallone d'Achille, ci giungono dall'antichità classica; il

    ramo d'ulivo e l'obolo della vedova dalla Bibbia; la parte del leone e l'uva acerba dalle favole di

    Esopo; la tigre di carta e il perdere la faccia dall'Estremo Oriente. Queste allusioni, o cliché, sono

    utili scorciatoie, che ci risparmiano di spiegare per filo e per segno ciò che vogliamo dire. Qualsiasi

    avvenimento, qualsiasi storia che diventi patrimonio comune di tutta una società arricchisce il

    linguaggio di nuove possibilità, consentendo di condensare una situazione complessa in una sola

    parola, che si tratti di un termine politico come «qualunquista», o di un'espressione scientifica come

    «fallout». Inoltre, il linguaggio è il veicolo di quelle figure del discorso, vecchie e nuove, che

    giustamente si definiscono immagini: «l'ultima spiaggia», «far lievitare i prezzi», «la scala mobile»,

    «la lira galleggia». L'illustrazione letterale di queste metafore offre possibilità inattese a quello

    speciale settore della produzione di immagini simboliche che è l'arte del disegnatore umoristico10

    .

    Anche qui, è possibile condensare un commento in poche immagini significative servendosi di

    simboli ed espressioni figurate. Si veda ad esempio la vignetta di Vicky, in cui l'Italia è

    rappresentata come il «tallone d'Achille» di Hitler.

    10

    Cfr. il mio volume Immagini simboliche.

  • Al pari del calembour azzeccato, che trova nel suono di una parola un significato inatteso ma perfettamente calzante, la vignetta di Vicky ci ricorda che, effettivamente, l'Italia ha un tallone, e

    che si tratta, con ogni probabilità, di un tallone d'Achille. Ma, per quanto si possa contare sul fatto

    che il lettore ha di certo qualche familiarità con il profilo della penisola e con le vicende di Achille,

    la battuta, a quarant'anni dalla pubblicazione, può richiedere parecchie spiegazioni per essere

    comprensibile. Se c'è un tipo d'immagine destinata a restar muta senza l'ausilio di un contesto, d'una

    didascalia e d'un codice ben definito, questa è proprio la vignetta politica, che perde inevitabilmente

    ogni sapore per chi non sia al corrente della situazione cui si riferisce.

    Basta un semplice sguardo d'insieme sulle immagini che ci circondano per accorgersi che la civiltà moderna non manca certo d'inventiva in questo campo. Che si approvi o meno l'importanza

    assunta dalla pubblicità nella nostra società, è difficile non apprezzare l'ingegno e lo spirito di cui

    danno prova certi grafici nell'uso dei simboli tradizionali e nell'invenzione di nuove immagini. Il

    marchio adottato in Gran Bretagna dalla compagnia North Sea Gas combina con innegabile abilità il

    tridente, vecchio attributo di Nettuno, con l'idea di un fornello a gas. È interessante osservare,

    inoltre, come questa trovata prese dapprima la forma di una rappresentazione realistica, e fu in

    seguito ridotta a pochi tratti essenziali e immediatamente riconoscibili, rendendola così più facile da

    ricordare e da riprodurre.

    L'analisi freudiana delle affinità tra i giochi di parole e il mondo dei sogni si può facilmente

    applicare, come ha dimostrato Ernst Kris, al processo di condensazione che subiscono i simboli

  • visivi nelle immagini pubblicitarie e nelle vignette umoristiche11

    . Qui – lo scopo precipuo essendo

    quello di fermare l'attenzione dell'osservatore – la condensazione e la concentrazione su alcuni

    particolari isolati dal contesto, sono usate tanto per il loro potere di appello, quanto per l'effetto di

    sorpresa che sanno generare. L'immagine incompleta, o inattesa, crea un piccolo enigma che ci tiene

    sospesi per un attimo, e fa sì che ne ricordiamo, e godiamo, la soluzione, mentre la prosa di

    un'immagine puramente informativa passerebbe inosservata, o si dimenticherebbe subito.

    A questo punto potrebbe nascere la tentazione di identificare l'uso «poetico» delle immagini con

    quello che se ne fa nelle arti visive vere e proprie. Sarà bene ricordare, tuttavia, che anche quella

    che chiamiamo arte non sempre viene prodotta al fine di ottenere effetti puramente estetici. Pure in

    questo campo, infatti, è osservabile l'uso di tecniche della comunicazione, seppure combinate in

    forme di interazione più complesse. Anche nell'arte, la funzione di appello dell'immagine determina

    l'uso del mezzo. L'immagine di culto, racchiusa in una teca preziosa, mobilita le stesse emozioni

    che si riservano al prototipo cui si riferisce, ossia l'essere divino. I profeti ebraici hanno un bei

    ricordare ai fedeli che gli idoli pagani non sono che pietre e pezzi di legno: queste immagini hanno

    un potere più forte di qualsiasi considerazione razionale, e sono pochi coloro che sanno sfuggire alla

    fascinazione di una grande immagine di culto collocata in un ambiente idoneo.

    Questa enorme forza dell'immagine visiva ha posto, a un certo punto, la Chiesa cristiana di fronte a un dilemma: essa temeva infatti l'idolatria, ma esitava a rinunciare all'immagine come mezzo di

    comunicazione. La presa di posizione definitiva su questo fondamentale problema è quella del papa

    Gregorio Magno, il quale scrisse che «le immagini sono per gli analfabeti ciò che le lettere sono per

    coloro che sanno leggere». Non che le immagini religiose possano funzionare senza il sussidio del

    contesto, della didascalia e del codice, ma ove questi siano presenti, la loro efficacia come mezzo di

    comunicazione è di immediata evidenza. Prendiamo, per esempio, il portale centrale della cattedrale

    di Genova con la tradizionale raffigurazione del Cristo in trono tra i simboli dei quattro evangelisti

    (derivante dal racconto biblico della visione che Ezechiele ebbe del trono del Signore). Il rilievo

    sottostante permette al fedele di comprendere anche da lontano a che santo è dedicata la chiesa.

    Esso rappresenta infatti il martirio di san Lorenzo. Nonostante la sua drammatica eloquenza,

    l'immagine risulta però illeggibile a chi non abbia dimestichezza con il codice, ossia con lo stile

    tipico della scultura medievale. In questo stile, non si rispettano le proporzioni, ma si usano le

    dimensioni delle figure per indicare il grado d'importanza dei vari personaggi; ogni oggetto viene

    inoltre rappresentato dal punto di vista più significativo. Perciò, l'uomo nudo che vediamo nel

    11

    Cfr. Le armi del vignettista, nel mio volume A cavallo di un manico di scopa.

  • rilievo non è un gigante che fluttua nell'aria dando le spalle a una griglia: sappiamo che è disteso su

    uno strumento di tortura, mentre il monarca ordina al boia di ravvivare il fuoco con un soffietto.

    Naturalmente, senza l'aiuto della parola parlata, gli incolti non avrebbero potuto sapere che la

    vittima non è un malfattore, ma, come indica l'aureola, un santo, ne che i gesti degli astanti

    esprimono compassione.

    Ma se la sola immagine non basta a spiegare una storia di cui il devoto non sa nulla, essa riesce invece mirabilmente nel compito di ricordargli ciò di cui ha sentito parlare a messa o durante la

    lettura del Vangelo. Una volta che la leggenda di san Lorenzo gli sia nota, qualsiasi raffigurazione

    di un uomo con una griglia gli farà venire in mente il santo. E sarà sufficiente un lieve progresso

    tecnico ed estetico per far sì che un grande artista sia in grado di farci sentire tutto l'eroismo e la

    sofferenza del martire in raffigurazioni dotate di una intensa carica emotiva. È così, di fatto, che le

    immagini hanno mantenuto vivo il ricordo delle leggende e delle storie sacre presso la massa dei

    fedeli, analfabeti o meno che fossero. E ancor oggi esse esplicano questa funzione: molti di noi si

    sono accostati a certe tradizioni proprio attraverso le immagini.

    Gli aspetti mnemonici dell'immagine, cui abbiamo brevemente accennato, interessano molte

    forme di arte religiosa e secolare. Le vetrate di Chartres, con la vivida rappresentazione della

    dottrina che gli apostoli stanno sulle spalle dei profeti dell'Antico Testamento, illustrano bene la

    capacità, tipica del simbolismo, di trasformare una metafora in un'immagine memorabile. Tutte le

    raffigurazioni simboliche, che formano un vasto genere a sé stante, stanno a dimostrare la

    possibilità di volgere un pensiero astratto in un'immagine12

    . La famosa statua michelangiolesca

    della Notte, con gli attributi simbolici dela stella, della civetta e dei papaveri soporiferi, non è il

    semplice pittogramma di un concetto, è anche un'evocazione poetica di sentimenti notturni.

    12

    S. Freud, Der Witz und seine Bcziehung zum Umbewusten, Wien 1905 [trad. it. Il motto di spirito e la sua relazione

    con l'inconscio, Torino 1975] ed E. Kris, Psychoanalytic Explorations in Art, New York 1952, soprattutto il cap. vi

    [trad. it. Ricerche psicoanalitiche sull'arte, Torino 1967].

  • La capacità dell'immagine di fornire un massimo d'informazione visiva, è sfruttata appieno soltanto nei periodi in cui gli stili sono sufficientemente elastici e variati. Alcuni grandi artisti sono

    riusciti a soddisfare con somma maestria le esigenze della descrizione fedele di persone, oggetti,

    paesaggi, ma la necessità estetica di isolare certi particolari dal contesto può talvolta entrare in

    contrasto con gli interessi, più prosaici, della resa naturalistica. Il ritratto idealizzato, la caricatura

    rivelatrice danno l'impressione di avvicinarsi alla vera arte molto più di quanto non possa fare il

    facsimile di cera, e, parimenti, il paesaggio romantico che evoca uno stato d'animo è stato posto

    molto al di sopra della mera pittura topografica.

    Dal contrasto tra la prosa e la poesia dell'immagine sono spesso sorti conflitti tra gli artisti e i

    loro protettori. E naturalmente tali conflitti s'inasprirono quando si prese a parlare esplicitamente di

    autonomia dell'arte. Fu soprattutto il concetto romantico di «genio» a porre in rilievo la funzione

    dell'arte come «espressione della personalità» (anche se lo slogan risale a un periodo più tardo). È

    questo l'ultimo punto chi ci rimane da trattare, giacché, come ricorderete, nella teoria della

    comunicazione si distingue tra il sintomo che esprime un'emozione e i compiti di appello e di

  • descrizione che l'immagine può avere. Certi critici alla buona che parlano dell'arte come forma di

    comunicazione sembrano spesso credere che le emozioni generatrici dell'opera d'arte vengano

    trasmesse dall'artista all'osservatore13

    . Questa concezione ingenua è stata criticata a più riprese da

    filosofi e artisti, ma credo che la sua confutazione più succinta si trovi in un disegno apparso

    qualche anno fa sul «New Yorker». Il bersaglio della vignetta è proprio l'ambiente in cui la teoria

    della «espressione della personalità» fu più in voga. La ballerina in erba crede ingenuamente di

    comunicare l'impressione di un fiore, ma si osservi, in vece, che cosa viene in mente ai vari

    spettatori. Una serie di esperimenti compiuti alcuni decenni fa in Germania da Reinhard Krauss

    conferma lo scetticismo suggerito dalla vignetta14

    . Si è chiesto ai soggetti di disegnare delle

    immagini astratte che rappresentassero certe idee ed emozioni, e che

    altri avrebbero poi dovuto cercare di interpretare. Com'era da attendersi, si è scoperto che i

    tentativi d'interpretazione sono dapprima del tutto casuali; quando si da ai soggetti un elenco di

    possibili significati, le ipotesi si fanno più precise e migliorano gradualmente riducendo il numero

    delle soluzioni: è facile indovinare se un tratto di matita vuoi significare gioia o dolore, pietra o

    acqua.

    Molti lettori conoscono, probabilmente, la modesta stanza da letto dipinta da Van Gogh ad Arles

    nel 1888. Si tratta di una delle pochissime opere d'arte di cui sia noto il significato attribuitole

    dall'autore. Tre lettere del bellissimo epistolario di Van Gogh indicano chiaramente che cosa

    rappresentasse per l'artista questo quadro. Nell'ottobre del 1888 Van Gogh scrive a Gauguin:

    Ho fatto, sempre per il mio arredamento... la mia stanza da letto, con i mobili in legno bianco che lei sa,

    ebbene mi ha enormemente divertito dipingere quell'interno senza niente, di una semplicità alla Seurat; a

    tinte piatte ma con pennellate grosse, a pasta piena, i muri lillà pallido... Avrei voluto esprimere con tutti

    questi toni molto diversi un senso di riposo assoluto, vede, di bianco non c'è che la piccola nota data dallo

    specchio con cornice nera...

    13

    Cfr. Espressione e comunicazione, nel mio volume A cavallo di un manico di scopa. 14

    R. Krauss, Uber den graphischen Ausdruck, in Beihefte zur Zeitschrift fur angewandte Psychologie, 48, Leipzig

    1930.

  • In una lettera al fratello Theo l'artista conferma la propria intenzione, e ne da un'ulteriore spiegazione:

    Ho ancora gli occhi stanchi, ma intanto avevo una nuova idea nel cervello... Questa volta è la mia stanza

    da letto, solo che il colore deve fare tutto qui, dando attraverso la sua semplificazione uno stile più grande

    alle cose, e deve suggerire il riposo o in genere il sonno. Insomma la vista del quadro

    deve riposare la testa, o meglio l'immaginazione. I muri sono lillà pallido. Il pavimento è a mattoni

    quadrati rossi... Le porte sono lillà. E non c'è altro - nient'altro in questa stanza con le persiane chiuse. La

    quadratura dei mobili deve rafforzare l'idea di un riposo inalterabile... Le ombre e le ombre rinforzate sono

    soppresse, il colore è a tinte piatte e schiette come nelle stampe giapponesi. Sarà in contrasto per esempio

    con la diligenza di Tarascon e il Caffè di notte.

    Quest'ultima affermazione ci offre uno spunto importante. Del Caffè di notte Van Gogh aveva

    scritto di aver voluto mostrare ch'era un luogo in cui si poteva impazzire. In altre parole, la sua

    stanzetta era per lui un rifugio dopo la tensione del lavoro, ed è appunto il contrasto tra questi due

    aspetti a far sì che nella lettera egli insista sulla tranquillità della camera da letto. Il metodo di

    semplificazione, ispirategli da Seurat e dalle stampe giapponesi, si trova in evidente opposizione

    con le pennellate espressive, grafologiche, che erano divenute una caratteristica distintiva del suo

    stile. Van Gogh mette in rilievo questo fatto in un'altra lettera al fratello. «Niente punteggiato,

    niente tratteggiato, niente, solo tinte piatte ma che armonizzano»15

    .

    La modifica del codice diventa, nell'esperienza di Van Gogh, espressione di tranquillità e riposo.

    Ma il quadro della stanza da letto comunica veramente questa sensazione? Nessuno dei soggetti

    ingenui da me interrogati sembra essere arrivato a questa conclusione: essi conoscevano la

    didascalia («Camera da letto di Van Gogh»), ma non disponevano del contesto e del codice. La

    mancata trasmissione del messaggio non depone tuttavia a sfavore dell'artista, o della sua opera.

    Depone invece a sfavore dell'identificazione tra arte e comunicazione.

    15

    [Le citazioni sono tratte, con lievi modifiche, da Tutte le lettere di Vincent Van Gogh, Silvana Editoriale d'arte,

    Milano 1959, vol. III].